Fiabe del popolo Tuareg e dei Berberi del Nordafrica
A cura di: Vermondo Brugnatelli
Titolo originale: Màrchen der Berber a cura di Uwe Topper
© 1986 by Eugen Diederichs Verlag GmbH & Co. KG, Kòln © 1994 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Fiabe del popolo Tuareg
A Enrico, Takfarinas e Lydia, grandi esperti di fiabe.
Introduzione
I Berberi No, io non sono Arabo! Così suona il titolo di un libro pubblicato di recente in Algeria da un Algerino. Non si tratta di un paradosso, ma della pura e semplice realtà: sono infatti milioni i nordafricani di madrelingua diversa dall'arabo, che rivendicano la propria autonomia linguistica e culturale rispetto al mondo arabo con cui fin dall'indipendenza i governi dei loro paesi h a n n o cercato di identificarsi, e con cui il mondo occidentale di fatto li identifica. Il peccato capitale dei Berberi - gli indigeni del Nordafrica - è quello di non avere praticamente mai costituito, dai tempi di Massinissa e Giugurta a oggi, un'entità politica unita e autonoma (uno "Stato nazionale"), accontentandosi di difendere l'indipendenza delle proprie tribù o dei propri villaggi arroccati sui monti o in mezzo al deserto, anche a costo di cedere le città costiere e le regioni più fertili ai conquistatori che, nel corso dei millenni, si sono succeduti sul loro territorio (Fenici, Greci, Romani, Vandali, Arabi, Turchi, Europei). Dal canto loro, i conquistatori, sempre numericamente assai inferiori alle popolazioni locali, hanno di solito finito per fondersi con esse, assorbendone usi, costumi, tradizioni e dando vita a una cultura originale, che ha m a n t e n u t o sempre u n a caratteristica impronta nordafricana. La stessa lingua araba, che oggi è parlata dalla maggioranza della popolazione di questi paesi, è assai moIX
dificata rispetto alla lingua classica e ai dialetti orientali, e ciò proprio in seguito al lungo contatto con la lingua berbera. Gli "Arabi" del Nordafrica sono in maggioranza Berberi che hanno adottato la lingua araba. Quanto al berbero, esso è ancora oggi parlato da diversi milioni di persone disseminate su una vasta area che va dai confini occidentali dell'Egitto (l'oasi di Siwa) fino all'Oceano Atlantico, e dal mar Mediterraneo fino ai margini meridionali del Sahara. La distribuzione di questi parlanti è assai diseguale dal punto di vista numerico. Vi sono piccole comunità berberofone isolate costituite da poche centinaia o migliaia di persone (per esempio in alcune oasi del deserto libico o in qualche piccolo centro nel sud della Tunisia), mentre altrove capita che il berbero sia la lingua di un insieme di villaggi (per esempio sulle alture del Gebel Nefusa in Tripolitania o nella regione algerina dello Mzab) e addirittura di intere regioni. In quest'ultimo caso i parlanti possono essere addirittura centinaia di migliaia o anche milioni, come in Cabilia (una regione montuosa a poca distanza da Algeri) o nella zona centrale e meridionale del Marocco. Nel cuore del Sahara la lingua dei Tuareg rappresenta uno dei dialetti berberi meno contaminati dall'impatto con la lingua araba, e anche se il numero dei parlanti non è in assoluto elevatissimo (si calcola che raggiunga a stento il milione), la conoscenza di queste popolazioni è estremamente importante sia ai fini linguistici sia a quelli etnografici. Per il loro carattere fiero e la capacità di convivere da secoli con l'ambiente ostile del deserto, i Tuareg hanno sempre colpito l'immaginazione degli europei, che a m m i r a n o ancora in essi i nobili "uomini blu" dall'enigmatico velo sul volto (la tagelmust). Purtroppo questa visione romantica rischia di rimanere un lontano ricordo, dal momento che la cultura dei Tuareg è oggi seriamente minacciata ed è concreto il pericolo di X
una totale scomparsa degli uomini velati, con la sola eccezione forse di pochi "esemplari" mantenuti dai tours-operators a Djanet o a Tamanrasset per le videocamere dei turisti in cerca di emozioni. Infatti l'eredità coloniale ha lasciato il deserto diviso da confini tracciati a tavolino, diventati altrettante barriere per questo popolo nomade che ha visto il proprio territorio frammentato tra Algeria, Libia, Mali e Niger. La conseguente forte limitazione alla libertà di spostamento, commercio e pascolo porta oggi con sé il grave rischio di minare i fondamenti stessi della cultura dei Tuareg e di annullarne l'identità. Proprio in virtù del loro aspetto pittoresco e dell'immaginario avventuroso a essi collegato, le pubblicazioni esistenti sui Tuareg sono numerose, ma si tratta perlopiù di albi fotografici, tesi a cogliere l'aspetto esteticofolkloristico di questa popolazione. Un recente libro di Attilio Gaudio (1993) provvede invece a una corretta informazione sia sulla storia antica e remota della regione (il Sahara è ricco di incisioni rupestri preistoriche e protostoriche) sia sui problemi attuali della sua popolazione. La letteratura berbera Fin dall'antichità i Berberi possiedono una propria scrittura, nella quale vennero redatte molte iscrizioni libiche e numidiche, come, per esempio, l'iscrizione di Massinissa a Dougga (Tunisia) del 139 a.C. Questo alfabeto (la cosiddetta scrittura tifinagh) viene tuttora impiegato dai Tuareg, che però se ne servono solo per scopi pratici, e non per tramandare opere letterarie. Così, la maggior parte della letteratura berbera è una letteratura orale, tramandata di bocca in bocca nel corso dei secoli per opera di una catena di amusnaw ("coloro che sanno"), depositari del patrimonio culturale XI
orale della propria tribù. Questa vasta cultura orale comprendeva le opere più disparate: poesie religiose o epiche; sentenze, detti e proverbi; testi in prosa di vario tipo (fiabe, racconti storici, miti e leggende relativi a determinati luoghi e personaggi). Solo in Marocco esiste già da qualche secolo l'uso di mettere per iscritto testi di particolare importanza servendosi dell'alfabeto arabo con qualche segno speciale per i suoni tipici del berbero. Le opere così raccolte sono in genere poemi religiosi, come quello di Awzali, ripubblicato (con traduzione francese) a Leida nel 1960. Nelle altre regioni di lingua berbera si dovette attendere la fine del secolo scorso e l'inizio del Novecento perché si cominciasse a raccogliere e mettere per iscritto qualche testo di poesia per mano di studiosi europei e indigeni (raccolte del generale Hanoteau, di Belkacem Ben Sedira, di Boulifa per la Cabilia, e soprattutto i due volumi di poesie tuareg del missionario Ch. de Foucauld). Negli ultimi decenni, però, parallelamente all'acquisizione della consapevolezza dell'originalità e del valore della propria lingua e della propria cultura, si sono moltiplicati studi e pubblicazioni, soprattutto da parte di Berberi, riguardanti in particolare la poesia, ma anche altri generi particolari come i proverbi (per esempio i recenti lavori curati da Ouahmi Ould Braham sulla rivista «Etudes et Documents Berbères» nn. 5, 6 e 10 tra il 1989 e il 1993), oppure gli indovinelli (i tre volumi di Bentolila 1986 nonché Allioui 1990), o la narrazione storica (Alojali 1975). Così di questi generi "maggiori" esistono ormai diverse raccolte particolarmente significative. La più emblematica di questo movimento di riscoperta della propria cultura è quella di M. Mammeri sulle poesie antiche della Cabilia, che comprende testi risalenti anche al XVI secolo. A causa del divieto imposto dalle autorità algerine a una conferenza di presentazione del liXII
bro da parte dell'autore all'università di Tizi Ouzou scoppiarono gli incidenti ormai noti come tafsut , "la primavera" (del 1980), in cui per la prima volta si manifestò pubblicamente l'esigenza dei Berberi di tutelare la propria lingua e la propria cultura. Una panoramica di queste composizioni è ora accessibile in italiano grazie a un'antologia elaborata dallo stesso M. Mammeri e da T. Yacine, tradotta e curata da Domenico Canciani (1991). Ma la massa della cultura orale berbera è indubbiamente costituita da fiabe e racconti, di cui ogni tribù, ogni villaggio, ogni famiglia possiede un vastissimo repertorio. Già nel Medio Evo il più grande storico arabo, Ibn Khaldun, nato e vissuto a lungo nel Nordafrica, era impressionato dalla ingente mole del patrimonio favolistico berbero: "I Berberi raccontano un così gran numero di storie che, se ci si desse la pena di metterle per iscritto, se ne potrebbero riempire volumi interi". Più di recente un grande studioso tedesco, Leo Frobenius, instancabile raccoglitore di tradizioni africane, riconosceva che ai Cabili spetta "il primo posto tra gli Africani nell'arte di fabbricare racconti". E a conferma di questo giudizio raccoglieva e pubblicava ben tre volumi di fiabe di questa regione (1921-22). Fin dai primissimi studi sul berbero ogni descrizione grammaticale conteneva una maggiore o minore quantità di "testi", e si trattava perlopiù di fiabe. E nel corso degli ultimi decenni, con l'estendersi delle conoscenze sui diversi dialetti, si sono andate moltiplicando le raccolte di fiabe dalle zone più disparate, per esempio l'oasi di Ouargla (Delheure 1989), o l'Alto Atlante (Leguil 1985); inoltre nuovi racconti compaiono in quasi ogni numero delle riviste «Etudes et Documents Berbères» e «Awal». Così oggi il materiale pubblicato è veramente imponente. XIII
Le fiabe «Eravamo tutti seduti intorno al fuoco, con i cugini, le cugine, le zie e il vecchio zio malconcio e ripiegato nella sua lunga jallaba rappezzata. Le braci del focolare liberavano il loro ultimo calore, esauste per lo sforzo costante imposto dalle donne. Questo calore serviva per cucinare i nostri pasti ma anche per il conforto di tutti noi. «La sera, dopo cena, mia zia ci distribuiva una manciata di fichi che ci asciugavano sulle labbra il gusto del pasto. (...) Col lembo del vestito la zia ripuliva i resti di sugo sui visetti rotondi e spensierati dei bimbi, i quali attendevano che la sua voce si levasse nel silenzio e nella quiete della veglia. «Allora la voce faceva risonare alta la formula iniziale: "Amashaho!... ". Sapevamo che a partire da quel momento ci si sarebbero spalancate le porte di un mondo immaginario e fatato. I nostri corpi si stringevano l'uno all'altro, perché l'abitudine ci aveva insegnato che un 'orchessa poteva saltar fuori in ogni momento, in questi racconti, abitati dallo strano e dal meraviglioso, e in cui gli uomini e gli animali parlano la stessa lingua e si contendono il posto migliore. «Il racconto della Mucca degli orfanelli ci strappava le lacrime, tanto erano tesi i fili della loro avventura. Juhà, per la sua furbizia era ai nostri occhi non solo l'eroe della leggenda ma un vero eroe nazionale, a tal punto lo consideravamo parte del mondo reale. Ne apprezzavamo la sfacciataggine, l'astuzia e l'intelligenza....» « "C'era una volta un inverno molto freddo, la neve cadeva a larghe falde. .."eia famigliola si ritrovava intorno al focolare dove ardeva la fiamma, e tutti in silenzio pendevano dalle labbra della vecchia. E i bimbi più piccoli, uno alla volta, si addormentavano... » XIV
In queste rievocazioni, a prima vista sdolcinate e nostalgiche, ma indubbiamente sincere, di due Berberi di oggi sta tutto il rimpianto per una cultura tradizionale minacciata, in cui le fiabe, i racconti, svolgevano un ruolo di primo piano (Mouzaia 1986 e Chemime 1991). Come ha dimostrato l'etnologa Camille LacosteDujardin in quello che è finora un insuperato saggio sulle fiabe berbere della Cabilia (1982), i racconti costituiscono un insostituibile archivio di usi, costumi, valori, visioni del mondo di una società, sedimentati nel tempo ma non immutabili, e spesso rideterminati con il mutare dei tempi e delle situazioni. Lungi dall'essere un semplice intrattenimento disimpegnato in un'epoca in cui non esistevano ancora radio e televisione, le fiabe svolgevano innanzitutto una funzione di identificazione sociale, di trasmissione di valori e di ruoli, di istruzione dei giovani, di edificazione religiosa. Non dimentichiamo che quella che noi oggi pomposamente chiamiamo "mitologia classica" in origine non era altro che il contenuto delle "fiabe" che nutrivano i cuori e le menti degli antichi greci e latini. Certo, esistono molti generi a seconda del contesto narrativo, e ognuno tende a esaltare determinate funzioni. Nelle compagnie di giovanotti prevarranno i racconti faceti a fondo misogino, e viceversa in quelle di sole donne non mancheranno le prese in giro dei maschi (funzione gratificante di identificazione nel gruppo); d'altro canto nelle confraternite religiose prevarr a n n o i racconti edificanti e moraleggianti (questi ultimi non mancheranno anche nelle narrazioni materne ai figli); la tipica fiaba di incantesimo, in cui oltre al resto vi è una forte componente ricreativa, sarà perlopiù appannaggio di un pubblico infantile, e così via. Data questa varietà non è possibile tratteggiare una fiaba-tipo. Esistono tuttavia alcune costanti. Infatti, la fiaba, in quanto evocatrice di immagini le più disparaXV
te, è assai prossima a un rito magico, e come tale deve rispettare determinate norme. Il tempo: di norma non si possono raccontare fiabe di giorno. Il momento più indicato è la sera dopo cena. E ai bambini che insistono per farsene raccontare in orari non ammessi viene detto che in tal caso prenderebbero la tigna. Il modo: occorre delimitare con apposite frasi di "apertura" e di "chiusura" lo spazio magico del racconto. Può trattarsi di qualcosa di assai breve (il nostro "C'era una volta..."), oppure di vere e proprie formule, a volte relativamente lunghe. Si tratta perlopiù di brevi rime senza senso, parole misteriose (l'oscuro termine cabilo Amashaho/u!...) assai affini alle formule magiche. Delle fiabe tradotte in questa raccolta solo quelle della seconda parte contenevano sistematicamente formule del tipo: Amashahù! Tellemshahù! A-ts-yessighzef Rebbi am-musarù. Che Dio lo renda lungo come una cintura variopinta. e: Ha-ts-an tmashahuts-iu! Bbwigh-ts-idd Iwad Iwad, i warraw llejwad. Eccolo, il mio racconto! L'ho portato lungo il torrente, per i figli dei nobili. Anche le fiabe della prima parte dovevano prevedere formule analoghe, che però sono state tralasciate dall'autore che le ha pubblicate. In un solo caso è stato serbato un simpatico ritornello di uscita: XVI
Sottil guscio han le teiere ogni cruccio si dilegui! Se hai scolato già il bicchiere, va', il cammino tuo prosegui! Sembra invece che i Tuareg tendano a tralasciare ogni convenevole prima di iniziare il racconto. Comunque anche nei loro racconti la conclusione è quasi sempre accompagnata da qualche battuta che ricorda questo genere di formule. Per venire poi al contenuto, oltre ai caratteristici temi orientali dei racconti delle Mille e una notte (che sono comunque meno diffusi di quanto si potrebbe pensare), e a quelli "universali" come la rivalità tra matrigne e figliastri o tra suocere e nuore, molti spunti appaiono originali o condivisi piuttosto con tradizioni europee come quelle dei fratelli Grimm. Relativamente cospicua è anche la quantità di temi e - a volte - di intere fiabe in comune con tradizioni ebraiche, sia orientali sia yiddish, soprattutto nelle fiabe di argomento mistico e allegorico. Nei brevi commenti che si sono fatti seguire alle fiabe sarà possibile verificare questi fenomeni più nel dettaglio. Pur avendo diversi spunti in comune con le fiabe dei Berberi del nord, quelle tuareg si distinguono per molti aspetti, strettamente connessi con le condizioni di vita di questo popolo. In particolare, sono quasi del tutto assenti lo sfarzo e la magnificenza delle fiabe di incantesimo: qui i "principi azzurri" sono al massimo figli di capitribù e gli splendidi palazzi sono sovente ancora delle tende di nomadi. Inoltre, la natura selvaggia ancora ben presente nella vita di tutti i giorni fa sì che assai numerosi e sentiti siano i racconti di animali, in cui vengono messe alla berlina le fiere più temute, la iena e lo sciacallo. XVII
Le fiabe contenute nella presente opera Nell'impossibilità di presentare un quadro completo ed esauriente delle innumerevoli tradizioni favolistiche berbere, nella presente opera ci si limita a raccogliere materiale rappresentativo di tre delle principali aree in cui oggi viene ancora parlato il berbero: il Marocco, la Cabilia (nel nord dell'Algeria), e il territorio tuareg nel Sahara (Algeria, Mali, Niger). Per il Marocco viene qui tradotta una raccolta di fiabe pubblicata in Germania da Uwe Topper (Màrchen der Berber, Colonia, Eugen Diederichs Verlag, 1986), che comprende sia materiali nuovi, sia la traduzione di testi berberi già pubblicati (in quest'ultimo caso, anche la presente traduzione è stata condotta sull'originale berbero). Tale raccolta contiene brani di diverso argomento ed è parsa quindi particolarmente adatta a offrire un campione significativo delle fiabe marocchine. Tutti i generi vi sono rappresentati: fiabe di incantesimo, racconti buffi, satirici e di astuzie (tra cui un breve saggio di racconti di Juhà), storie di animali, leggende di santi, miti delle origini ed escatologici. Questa varietà è stata resa possibile, tra l'altro, dalla diversa estrazione dei narratori: da vecchi pescatori della costa atlantica a cantastorie di professione che si esibivano nelle piazze delle città; da un'anziana donna residente in città a membri di tribù nomadi che si esibivano nelle loro tende; da gruppi di giovani spensierati a membri di confraternite sufi. E' abbastanza completo anche il panorama geografico. Infatti, per quel che riguarda le zone di provenienza dei singoli racconti, sono rappresentate un po' tutte le zone di lingua berbera del Marocco: il sud, in cui si parlano dialetti della tashelhit, il centro (dialetti tamazight) e la regione costiera del nord, il cosiddetto Rif (dialetti tarifìt). Per l'Algeria, nel vastissimo panorama di opere esiXVIII
stenti, sia in berbero sia in traduzione, si è pensato di tradurre una raccolta particolare, opera di Taos Amrouche. Questa autrice (1913-1976), pur avendo scritto soprattutto in francese, viene considerata una figura di primo piano della cultura berbera, che contribuì a diffondere in occidente, anche in qualità di interprete canora di numerosi canti tradizionali della Cabilia. Marguerite era sorella di un altro scrittore di primo piano (sia in lingua francese sia in berbero), Jean Amrouche, e figlia di quella Fadhma Ait Mansour Amrouche (1888-1967) la cui autobiografia, Histoire de ma vie, è un ineguagliabile affresco della vita dei Berberi d'Algeria nella prima metà del secolo. La raccolta di fiabe qui tradotta (Marguerite-Taos Amrouche, Le grain magique. Contes, poèmes, proverbes berbères de Kabylie, Paris, Maspéro, 1966) è considerata ormai un "classico". Essa rappresenta la trascrizione in francese dei racconti appresi in cabilo dalla madre, e il debito nei suoi confronti è testimoniato dal nome cristiano di quest'ultima, Marguerite, preposto a quello di Taos (che era invece battezzata col nome di Marie-Louise). La più genuina tradizione berbera vuole che alla narrazione dei brani favolistici vengano intercalate canzoncine, ninne-nanne, proverbi e modi di dire, e Taos Amrouche aveva conservato questo procedimento anche nel testo scritto. Purtroppo per motivi editoriali non è stato possibile mantenere tali intermezzi ricreativo/educativi caratteristici del contesto narrativo. Questa traduzione sarà quindi limitata ai testi dei racconti. In compenso, tali racconti presentano diverse caratteristiche che li rendono particolarmente interessanti: innanzitutto essi sono stati concepiti già dall'autrice per essere pubblicati, e quindi non danno quell'impressione di "incompletezza" che è tipica dei racconti orali trascritti tali e quali con perdita di tutti gli elementi mimici, gestuali e allusivi che rendono perfettamente comprensibile la trama agli ascoltatori; inoltre, abbiamo qui una narraXIX
zione da parte di donne, che sono le vere depositarie del patrimonio favolistico berbero, con le quali però è raro che gli studiosi (perlopiù maschi) riescano ad avere contatti diretti, data la rigida separatezza dei sessi nella società tradizionale. Questa provenienza femminile è particolarmente notevole in alcune fiabe, come nella Storia della rana o in Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere queste fiamme!: qui i mestieri di casa vengono descritti con una minuzia e una precisione quali solo le donne, le dirette interessate, potrebbero avere. Quanto alle fiabe dell'area tuareg, è stata qui tradotta - direttamente dal tuareg - una serie di testi pubblicati a scopo perlopiù di studio linguistico. I primi nove si trovano in: Dominique Casajus, Peau d'àne et autres contes Touaregs, (Parigi, L'Harmattan,1985); i ventidue successivi (dal 10 al 31 della presente raccolta) sono contenuti in: Petites soeurs de Jésus, Contes touaregs de l'Air, (Parigi, SELAF, 1974); gli ultimi quattro, infine, sono riportati nella grammatica di Adolphe Hanoteau, Essai de grammaire tamachek', (Algeri, 1859). A parte, quindi, qualche racconto della regione dell'Azger (Tuareg del Nord), si tratta fondamentalmente di due raccolte relative alla regione dell'Air (in Niger, nei presi di Agadez), composte in un dialetto particolarmente arcaizzante e fino a qualche anno fa poco studiato. Delle tre parti della raccolta quella tuareg è indubbiamente quella che più risente di uno stile "orale", in quanto non è, come le prime due, mediata, vuoi dall'autrice francese, vuoi dal curatore tedesco. Nella traduzione si è cercato di evitare una rigida versione letterale quando ciò potesse creare difficoltà di comprensione al lettore europeo, e si sono ridotte al minimo le lunghe ripetizioni che abbondavano nel testo originale. Questo fenomeno delle ripetizioni è particolarmente caratteristico dei racconti tuareg. Si pensi che, mentre un lettore italiano è abituato al massimo a imbattersi in qualche formula del tipo "Cammina, cammina...", nei racconti tuareg non è XX
raro incontrare, in un contesto analogo, qualcosa come "Andò, andò, andò, andò...", ripetuto anche dieci volte. Purtroppo, non di tutti i racconti conosciamo esattamente le circostanze della narrazione e l'esatta origine del parlante. Quando vi è una indicazione (la raccolta di Casajus), si vede che si tratta generalmente di racconti fatti da inaden "artigiani" o "fabbri", una categoria di persone considerate razzialmente esterne alle tribù tuareg presso le quali risiedono (tant'è che contraggono matrimoni solo tra loro), ma che di fatto sono assai integrate, al punto di essere considerate dallo studioso francese "i veri depositari della letteratura orale del gruppo". Il secondo gruppo di testi è stato invece raccolto da suore missionarie, in località anche distanti da quelle di origine degli informatori, che vengono citati solo per nome senza ulteriori specificazioni circa la loro tribù e la loro posizione sociale. Viceversa, gli ultimi racconti furono raccolti nel secolo scorso dalla viva voce di alcuni nobili, parenti dei capitribù degli Ifoghas nell'Azger, a oriente dell'Ahaggar, che ne fornirono anche una versione scritta in tifìnagh. Rappresentano quindi un frammento autentico di quel mondo eroico, allora quasi incontaminato. Nota sulle trascrizioni Nelle trascrizioni di termini berberi e arabi si è cercato di mantenere una certa omogeneità e precisione senza sovraccaricare il testo di simboli diacritici. Per questo mancano i punti sottoscritti delle "enfatiche" e di una particolare h, e si è ricorso a digrammi per: sh (se di scena); kh (un suono analogo al tedesco eh di brauchen); gh (il corrispettivo sonoro: ghayin arabo); th (come th inglese in three) e dh (come th inglese in this). In qualche rara occasione il segno ' rende il suono 'ayin dell'arabo, ma perlopiù si è evitato di trascriverlo. XXI
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Glossario
agersemmi Frutti selvatici di montagna (Grewia villosa). amico di Allah Resa italiana del termine wali "vicino, amico", che indica quelle persone che per devozione e santità sono ritenute particolarmente vicine a Dio e in grado di intercedere presso di Lui. Di qui un culto popolare corrispondente a quello dei nostri santi, burnus Caratteristico capo dell'abbigliamento maschile in Nordafrica. Consiste in un ampio mantello con cappuccio. cadì È colui che amministra la legge islamica su incarico dell'autorità politica. Per questo suo legame col potere è spesso visto con sospetto dalla gente semplice, co-sposa Traduco così il termine berbero takna, che indica la "parentela" tra due donne, spose dello stesso uomo. cuscussiera Stoviglia apposita per la cottura del cuscus, che deve essere effettuata a vapore, darwish "Derviscio". Persona dedita a pratiche ascetico-mistiche. Fàtiha Letteralmente "La Aprente". È il nome della prima sura del Corano, assai usata nelle preghiere e per suggellare contratti e cerimonie. Festa del Sacrificio Detta anche "Grande festa" (contrapposta alla "Piccola festa" della rottura del digiuno di Ramadan): festività in cui si commemora il sacrificio del primogenito di Abramo. In tale occasione ogni XXVII
capofamiglia è tenuto - se appena i mezzi glielo consentono - a sacrificare un montone o, all'occorrenza, altri animali. gandura Semplice vestito maschile costituito da una tunica scollata, senza maniche né cappuccio, hadith Racconti di detti o fatti della vita di Maometto, utilizzati, insieme al Corano, come fonte del diritto islamico. Hajj Titolo onorifico che viene aggiunto al nome di chi ha effettuato il pellegrinaggio alla Mecca, henné Sostanza ricavata da una pianta (lawsonia inermis) e utilizzata per tingere di rosso i capelli o parti del corpo (viso, mani, piedi) con disegni simili a tatuaggi in occasione di determinate cerimonie, in particolare nei matrimoni. ifrit Jinn particolarmente imponente e, spesso, malvagio. imam Letteralmente "colui che sta davanti", cioè chi guida la preghiera. jallaba Sinonimo di gandura. jinn Misteriose creature nominate spesso nel Corano e al centro di particolari credenze in tutto il mondo musulmano. Sarebbero stati creati di pura fiamma e sarebbero perlopiù invisibili. Ve ne sarebbero di buoni e di cattivi, di musulmani e di infedeli, jinniya Femmi ile di jinn. kif Denominazione locale della canapa indiana, il cui uso è ancora relativamente diffuso in Marocco, kohl Polvere di solfuro di antimonio che, stemperata in acqua, viene usata per tingere di nero ciglia e sopracciglia. luigi Moneta d'oro, un tempo diffusa in tutto il Nordafrica. Oggi il termine designa, per antonomasia, qualunque moneta d'oro. Mahdi Personaggio dell'escatologia islamica, la cui venuta, alla fine del mondo, farà rifiorire la giustizia e l'equità. marabutto Si definiscono così quei pii personaggi apXXVIII
partenenti a un movimento di rinnovamento religioso che si diffuse intorno al XV secolo, a partire da Seguia El Hamra, località nel sud del Marocco. I marabutti rivendicavano una discendenza dal Profeta e diedero vita a intere tribù "marabùttiche", i cui membri sono ancora oggi trattati con venerazione. muezzin La persona addetta ali'adhan, cioè al richiamo ad alta voce dei fedeli alla preghiera dall'alto dei minareti. Oggi è sovente sostituito da un altoparlante, reale Antica moneta spagnola, un tempo diffusa in tutto il Nordafrica. Era la moneta di minor valore del sistema. ribat Costruzione fortificata adibita a luogo di ritiro spirituale e sede di comunità religiose islamiche. Vi si addestravano i marabutti. sheikh Letteralmente "anziano". Vale anche "persona degna di rispetto", "capo" di una tribù (il nostro sceicco) o di una comunità religiosa. sufi Letteralmente "l'uomo vestito di suf, di lana grezza". Era la divisa dei poveri religiosi, dediti a pratiche mistiche e ascetiche. Da qui il termine "sufismo", che designa l'ascetico-mistica dei musulmani, sura Ciascuno dei "capitoli" in cui è diviso il Corano, libro sacro dell'Islam. taghoda Cyperus bulbosus, varietà di ciperacea. tajin Una sorta di spezzatino; ragù. Taleb Letteralmente "studente" (di scuola coranica). Può designare, in generale, una persona particolarmente istruita nel campo della religione, tallero Moneta d'argento di origine europea ma ancora usata in Nordafrica fino agli inizi del secolo, trilli (lanciare) Tipica espressione (solitamente collettiva) di gioia o di dolore delle donne del Nordafrica. tuwila Sclerocarya birrea, albero dal legno pregiato per la fabbricazione di oggetti d'artigianato, visir Primo ministro e consigliere privato del re. wajjag Cenchrus biflorus, varietà di graminacea nota anche come "cram cram". XXIX
Fiabe del popolo Tuareg
Parte I
Fiabe dei Berberi del Marocco
Fiabe di incantesimo
1. IL M O S T R O
Una giovane donna era rimasta sola col padre anziano. Quando, un giorno, questi cadde inanimato, venne creduto morto e deposto nella tomba. Sua figlia gli portava tutti i giorni del cibo, e gli domandava: «Come posso venire da te, caro babbo?». Ed egli le diceva: «Figlia mia, fa' tintinnare i tuoi braccialetti ed entrerai da me». La donna eseguiva e poteva così raggiungerlo e portargli del cibo. Un giorno, uscita la figlia, ecco u n a iena bussare con le zampe alla t o m b a dell'uomo e chiedere: «Come posso venire da te, caro babbo?». E l'uomo rispose: «Fa' tintinnare i tuoi braccialetti!». Allora la iena fece un r u m o r e simile con le zanne e si intrufolò nella tomba. A questo punto chiese: «Dove devo cominciare a mangiare? Dai piedi o dalla testa?». «Comincia dai piedi» disse l'uomo. Più tardi arrivò la figlia e chiese: «Come posso venire da te, caro babbo?». E l'uomo: «Figlia mia, il nostro Signore ti dia forza. C'è un animale selvatico che mi sta divorando!». «Fino a che p u n t o ti è arrivata la sensibilità?» chiese la figlia. «Fino alle caviglie» rispose il padre. Quando la figlia venne la volta successiva, chiese: «Caro babbo, fino a che punto ti è arrivata la sensibilità?» e questi rispose: «La bestia è arrivata a divor a r m i fino alle ginocchia». Q u a n d o t o r n ò la volta 5
successiva: «Fino all'inguine». E poi: «Fino all'ombelico». E quando arrivò al torace, il padre disse: «Figlia mia, che il Signore ti aiuti, la fiera ti perseguiterà per divorare te». Allora la d o n n a a n d ò nell'accampamento e trovò u n a canna di palude. La sollevò ed ecco un uccellino posarvisi sopra cantando. «O uccellino della canna, che vedi, che scorgi?» chiese la d o n n a . «Vedo u n a cosa grande come un chicco di miglio e sta venendo qui!» E dopo un po' tornò a chiedergli: «O uccellino della canna, cosa vedi?». E l'uccellino rispose: «Vedo u n a cosa grande come un chicco di frumento». E la volta successiva: «Grande come un chicco di granturco». E la quarta volta: «Grande come un montone. Più viene vicino più diventa grosso». La quinta volta era già grosso come un toro e la sesta come un cammello. Allora la donna gettò via la canna e fuggì da un contadino che in quel m o m e n t o stava a r a n d o con u n a coppia di muli. «Amico,» gli disse «la tua protezione è la protezione di Dio. Aiutami e mi potrai sposare!» «Cosa posso fare io contro il mostro! L'unica speranza è che ti aiutino i miei animali. Mettiti in mezzo alle d u e mule aggiogate. Ora, se il m o s t r o caricherà da davanti, i miei animali lo afferreranno coi loro denti, mentre se attaccherà da dietro, lo colpiranno coi loro zoccoli.» Il mostro infatti non riuscì a divorare la donna e le disse: «Ehi, tu, apri la bocca e parliamo!». E lei di rimando: «Che cosa a b b i a m o in c o m u n e di cui io possa parlarti?». Allora egli le gettò un pezzo di brace, colpendola su un dente e annerendoglielo. Dopodiché le disse: «Adesso ti posso riconoscere! Andrò in giro per il paese travestito da taglialegna o da mercante, vendendo cucchiai o merci varie, e ti ritroverò». «Tu n o n hai un bel niente da poter vendere» rispose la donna. 6
Dopo che il mostro se ne fu scappato, il padrone dei muli prese in casa la donna e la sposò. Essa gli partorì un figlio. Il mostro si era trasformato in un mercante e in questa veste attraversava gli accampamenti e i villaggi delle montagne alla ricerca della donna. Tutte le donne che volevano comperare qualcosa dovevano togliersi il velo davanti a lui, altrimenti egli non vendeva loro nulla. Così il mercante andava in giro finché non giunse nell'accampamento di quella donna. Essa gli si presentò velata ma egli le disse: «Non vendo nulla a chi porta il velo!». Allora essa si tolse il velo ed egli la riconobbe subito. Le disse: «Se questa notte mi fai pernottare da te ti darò quello che vorrai della mia mercanzia senza farti pagare». «Volentieri!» disse la donna. «Sii il benvenuto!» Nella tenda il mercante tirò fuori le sue merci e le regalò tutto quello di cui essa aveva bisogno. Quando poi venne la sera e giunse l'ora della m u n gitura, essa diede il figlioletto alla d o n n a a n z i a n a che era nella tenda e andò a mungere le pecore. Allora il mercante si avvicinò alla vecchia e le disse: «Da' q u a il b a m b i n o che te lo tengo!». La vecchia glielo diede ed egli lo prese e lo inghiottì in un batter d'occhio. Poi macchiò di sangue il petto della vecchia e le appese al collo la m a n i n a del bimbo. Q u a n d o la d o n n a tornò dalla m u n g i t u r a e richiese il b a m b i n o alla vecchia, questa disse: «Non ce l'ho. L'ho dato al mercante». «Lei non mi ha dato niente» disse questi alla madre del bimbo. Allora la m a d r e si graffiò le guance dal dolore e gridò: «Che cosa mi hai fatto?». E la vecchia: «Che cosa ti ho fatto? È stato il tuo mercante che se l'è divorato!». Allora essa si graffiò le guance in segno di lutto fino a sfinirsi. Il mattino successivo venne deciso di trasferire l'accampamento. Il mercante si offrì di pascolare i 7
cammelli mentre la gente preparava i bagagli. Egli sospinse i cammelli nel bosco, divorò il più grosso e si infilò nella sua pelle, e poi ricondusse indietro i rimanenti. La gente pose i propri carichi sui cammelli, e sul più grosso fu sistemata la tenda grande. Poi la carovana si mise in marcia. Il cammello grosso, che portava la tenda pesante, fece un paio di passi e poi crollò. Venne scaricato il suo fardello, il cammello venne fatto inginocchiare come si deve e fu caricato di nuovo. Sulla sponda di u n a fiumara il cammello cadde di nuovo e il carico finì in fondo all'avvallamento. Allora il mostro uscì dal travestimento e balzò sulla donna gridando: «Ti divorerò! Divorerò tutto, perfino la terra su cui cammini!». «Per Allah,» disse la d o n n a «permettimi solo di chiamare qui un cane per dargli l'addio.» «Fa' pure!» rispose il mostro. Allora essa si mise a gridare: «Padrone dei cavalli, padrone delle pastoie!». Allora suo marito accorse e si rese conto di quello che stava succedendo. Si preparò alla lotta e disse alla moglie: «Se vedrai sanguinare me per primo, allora lancia trilli di gioia, ma se è il mostro che sanguinerà per primo, allora gambe in spalla e mettiti in salvo!». L'uomo lottò col mostro, e questi staccò via il mignolo all'uomo; allora la donna lanciò trilli di gioia. Quindi fu l'uomo che staccò u n a testa al mostro, e poi ancora un'altra, poi la terza, la quarta, la quinta e anche la sesta, ma non l'ultima. Allora il gigante gli disse: «Staccami anche la settima!». Ma l'uomo non lo fece, e invece gli disse: «Solo un vecchio setaccio lascia passare tutto!». Infatti egli sapeva bene di non potergli staccare a n c h e l'ultima testa, perché altrimenti sarebbero ricresciute da capo tutte e sette. Così il mostro dovette morire. Allora la gente r e c u p e r ò la t e n d a dal letto della 8
fiumara, la caricò su un cavallo e continuò il trasferimento fino al nuovo posto dove collocare l'accamp a m e n t o . Qui t r o v a r o n o u n a m u l a che pascolava. «Guarda!» disse il marito. «È di sicuro Allah che ci fa d o n o di q u e s t a m u l a in sostituzione del n o s t r o cammello.» Presero la mula e la legarono a un paletto davanti alla loro tenda. Allora la mula disse alla donna: «Guarda i miei denti, con cui ti divorerò!». La donna fu colpita dalla p a u r a e fuggì da suo marito. «Guarda che la mula adesso vuole mangiarmi!» «Leghiamo stretta la bestia!» disse il contadino. E così fecero. Dopo cena la donna chiamò il suo cane, se ne andò fino all'acacia che si trovava nelle vicinanze e vi si nascose. Nel frattempo la mula rosicchiò i suoi legacci, si avventò sull'uomo e lo uccise. Lo inghiottì, poi si slanciò sulla tenda e se la divorò tutta. Quindi, furibonda, si mise a cercare la donna, ma non la trovò. All'alba comparvero dei cavalieri e videro la d o n n a sull'albero. La aiutarono a scendere e le chiesero: «Che cosa è successo?». «È stata quella mula laggiù» rispose la donna. «Ha divorato la nostra tenda e inghiottito mio marito.» Con le sciabole sguainate i cavalieri si gettarono contro la mula gridando: «Restituisci Ali come era!». Allora la mula lo restituì vivo. La povera donna tuttavia morì dallo spavento, il suo fegato era spezzato.
2. L'ACQUA C H E N O N CADE DAL C I E L O E N O N S G O R G A DALLA T E R R A
Nei tempi antichi viveva u n a volta un u o m o anziano che aveva un solo figlio di n o m e Yasin. Yasin crebbe fino a diventare un giovanotto, ma non possedeva né un cavallo né un fucile. Non si è considerati un vero 9
u o m o se non si h a n n o né un cavallo né un fucile, e per questo Yasin si vergognava sempre, tutte le volte che incontrava i suoi amici, a tal p u n t o che finì per ammalarsene. Suo padre era molto povero, ma amava Yasin e rifletté a lungo sul m o d o di aiutarlo, e un giorno gli disse: «C'è u n a sola soluzione. Vendimi, così potrai comprarti ciò che ti spetta». Yasin andò al mercato con suo padre e lo vendette, tuttavia il ricavato bastò a p p e n a per un cavallo, dal m o m e n t o che suo padre era anziano, e di conseguenza il suo prezzo era basso. A capo chino Yasin fece ritorno a casa sul suo cavallo. Allora la m a d r e , che era m o l t o p r e o c c u p a t a per lui, gli disse: «Vendi me, figliolo, affinché col ricavato tu possa comprarti un bel fucile ed essere un u o m o tra gli uomini». Yasin si recò con lei al mercato e la vendette, poi acquistò un fucile, salì a cavallo e prese a cavalcare nella steppa cacciando. Arrostì quello che aveva cacciato e se lo mangiò, finché gli venne sete; però non aveva acqua con sé. Cavalcò a lungo in tutte le direzioni alla ricerca di qualche beduino, ma senza risultato. Alla fine si coricò all'ombra del suo cavallo per riposare. Ma la sete si faceva sempre più forte. Allora si rivolse al cavallo e alzò la m a n o passandogliela s o t t o l'ascella e bevve il b i a n c o s u d o r e . In q u e s t o m o d o egli potè p r o s e g u i r e il suo c a m m i n o f i n o a raggiungere u n a grande città. Alle m u r a e agli alberi di questa città erano appesi teschi e ossa u m a n e . Yasin ne volle sapere il motivo e interrogò un vecchio che trovò seduto sotto i bastioni. Il vecchio gli rispose: «Su di noi si è abbattuta u n a grossa sventura. Il re vuole fare s p o s a r e sua figlia Amina, ma essa vuole accettare solo un u o m o che sia più intelligente di lei. Il pretendente deve porle 10
un indovinello, e se essa n o n riesce a risolverlo lo sposerà. Ma se lo risolve, ordina al boia di tagliargli la testa; finora non ha trovato nessuno che la vincesse. Tutti quelli che ci si sono provati sono stati decapitati, e le loro teste sono state appese alle mura». Yasin ringraziò il vecchio e diresse il suo cavallo verso il palazzo del re. La p r i n c i p e s s a lo vide e lo invitò a e n t r a r e . Poi pretese che lui le ponesse un indovinello. Yasin rifletté un momento, poi disse: Dimmi: chi ha venduto sua madre e suo padre? Chi ha bevuto l'acqua che non sgorga dalla terra e non cade dal cielo? La p r i n c i p e s s a disse: «Lasciami sette giorni di tempo. Se entro questi sette giorni io avrò trovato la soluzione, ti farò tagliare la testa; ma se non ci riuscirò, ti sposerò». Yasin a c c o n s e n t ì e se ne a n d ò . Prese dimora in u n a casa diroccata ai margini della città e si riposò del suo lungo viaggiare. Dopo sei giorni di attesa, si recò al castello per vedere se la principessa avesse trovato la soluzione dell'indovinello. Quando la incontrò, essa era in grandi angustie perché continuava a non conoscere la soluzione. Per Yasin non era però ancora il m o m e n t o di rallegrarsi, dal m o m e n t o che restava ancora un giorno. La p r i n c i p e s s a aveva u n a g r a n d e p a u r a di essere sconfitta e n o n voleva darsi per vinta. Perciò si travestì da vecchia mendicante e seguì le tracce di Yasin, per scoprire dove alloggiasse. Qui essa attese che fosse calata la notte, dopodiché entrò da lui e gli disse con voce contraffatta: «Buona sera, figliolo! Vedo che sei contento. Ma come si può essere contenti in un paese come questo, dove le m u r a 11
sono guarnite di teschi u m a n i ! Liberaci da questo malanno, dalla principessa Amina!». Yasin le disse: «O nonnina, già da domani la figlia del re non farà più danno, perché all'alba di domani mi sposerà. Essa n o n può trovare la soluzione dell'indovinello, e io sono convinto che sarà sconfìtta». Allora la principessa travestita da mendicante gli chiese di r a c c o n t a r e la sua storia, e lo s p r o n ò con molte parole, maledicendo mille volte la principessa Amina. Allora Yasin le raccontò come avesse venduto suo padre e sua m a d r e e come avesse bevuto il sudore del cavallo q u a n d o aveva avuto sete. La vecchina fece un'altra volta i suoi auguri a Yasin, imprecò contro la figlia del re e riprese il cammino. Yasin si add o r m e n t ò e sognò la sua vittoria sulla principessa. Quando, il mattino seguente, si destò, trovò lì vicino un fazzoletto e riconobbe subito che era il fazzoletto della principessa Amina. Essa lo aveva perduto il giorno p r i m a senza accorgersene. Allora Yasin si avvide di avere commesso un grande errore, e rimase perplesso sul da farsi. Abbandonare il paese con u n a fuga ignominiosa, o affrontare a testa alta la morte? Alla fine decise di affrontare a testa alta la morte. Yasin cavalcò fino al palazzo, dove già lo attendeva la principessa col suo seguito. Egli la salutò rispettosamente e le chiese la soluzione dell'indovinello. Allora essa n a r r ò tutta la storia e chiamò il boia. In quell'istante Yasin disse: Ditemi quale colomba è volata coi venti e ha perso una penna dell'ala; e ciò che è stato detto ieri sera, com'è che lo sentiamo oggi? 12
Poi estrasse il fazzoletto di Amina e lo agitò per salutare. Il seguito della principessa riconobbe subito il fazzoletto, cosicché essa dovette a m m e t t e r e la propria sconfitta e sposare Yasin.
3. IL M E R C A N T E , L'IFRIT E I T R E V E C C H I
Si n a r r a che nei tempi antichi avvenne questo: un m e r c a n t e , che col c o m m e r c i o aveva a c c u m u l a t o molte ricchezze, un giorno uscì a cavallo dalla sua città per vedere la campagna, e q u a n d o il caldo si fece opprimente, si sedette a riposare sotto un albero. Per rifocillarsi prese dalla tasca della sella u n a manciata di datteri e li mangiò, gettando i noccioli dietro di sé con noncuranza. Tutt'a un tratto sorse davanti a lui un gigantesco ifrit che, b r a n d e n d o u n a spada, gli disse con voce imperiosa: «Alzati, che ti voglio uccidere, perché tu hai ucciso mio figlio!». Il mercante, i m p a u r i t o , rispose: «Come? Io avrei ucciso tuo figlio?». Al che l'ifrit ribatté: «Tu hai gettato dietro di te i noccioli dei datteri che hai mangiato. Un nocciolo ha colpito mio figlio al petto, lo ha passato da parte a parte e lo ha ucciso all'istante». Il mercante rispose: «Sappi, o ifrit, che io sono un u o m o dabbene, con u n a grande quantità di beni e moglie e figli. Perciò, ti prego, lasciami t o r n a r e a casa p e r assegnare a ciascuno la sua parte di eredità secondo misura e giustizia. Poi tornerò da te, affinché tu possa fare di me ciò che vorrai. E ti giuro che lo farò, e che Allah sia il garante delle mie parole!». L'ifrit gli credette e lo lasciò andare. Q u a n d o egli giunse a casa, r a d u n ò i n t o r n o a sé moglie, figli e servi, e comunicò loro ciò che gli era capitato. Essi cominciarono a piangerlo, ma egli li 13
consolò dicendo di avere ancora tempo fino alla fine dell'anno. Nel f r a t t e m p o egli regolò le sue faccende, poi si vestì a festa e si preparò per il viaggio. La sua famiglia, i suoi vicini e amici lo accompagnarono fino alla p o r t a della città tra pianti e lamentazioni. Così egli uscì verso la c a m p a g n a diretto al luogo in cui aveva incontrato l'ifrit, dove giunse proprio il p r i m o giorno del nuovo anno. Allora si sedette piangendo il proprio destino. Alle sue spalle si fece avanti fino a lui un vecchio con u n a gazzella al guinzaglio, e gli disse: «Salve, s t r a n i e r o , ti a u g u r o u n a l u n g a vita! Perché te ne stai seduto qui, in questo luogo di asilo dei jinn?». Allora il mercante gli narrò quale sciagura lo minacciasse e perché se ne stava in attesa in quel luogo. Il padrone della gazzella si meravigliò e disse: «Per Allah, tu sei un u o m o dabbene e il tuo destino è singolare, ma non è determinato in m o d o immodificabile». Poi si pose a sedere accanto a lui e gli disse: «Fratello, n o n ti lascerò più finché n o n avrò visto che cosa farà di te L'ifrit». Ciononostante, il mercante aveva u n a grande paura e tremava. Ed ecco avanzare verso di lui un secondo vecchio, che portava con sé due cani neri. Salutò tutti e due cortesemente e chiese loro perché se ne stessero seduti in quel luogo infestato dai jinn. Allora il mercante gli riferì tutto dal principio, e come egli fosse così rattristato perché di lì a poco sarebbe giunto l'ifrit per prendersi la sua vita. A quel p u n t o anche il secondo vecchio si sedette e promise di rim a n e r e loro a c c a n t o . M e n t r e essi p a r l a v a n o così, c o m p a r v e un t e r z o vecchio che aveva con sé u n a m u l a . Egli s a l u t ò s e c o n d o l'uso della regione e si informò sulla salute di quegli uomini e volle sapere perché essi se ne stessero seduti in un luogo che apparteneva ai jinn. Il mercante tornò a raccontare la 14
p r o p r i a esperienza con l ' i f r ì t , la sua p r o m e s s a e il motivo della sua tristezza. Improvvisamente si levò un grande turbine di sabbia che avvolse completamente gli uomini. La sabbia non aveva fatto in tempo a posarsi che già l'ifrit si trovava davanti a loro con la spada sguainata, e diceva al mercante: «Alzati, che ti voglio uccidere, perché tu hai ucciso mio figlio!». Il mercante proruppe n u o v a m e n t e in alte lamentazioni, per cui il p r i m o vecchio, quello della gazzella, si alzò, baciò la m a n o del l'ifrit e disse: «O spirito, incoronato re dei jinn, se io ti raccontassi quello che mi è capitato con questa gazzella che qui vedi e tu trovassi s t u p e f a c e n t e il mio racconto, mi faresti dono di un terzo del sangue di quest'uomo?». «Sì, vecchio,» rispose l'ifrit «se troverò stupefacente il tuo racconto ti farò dono di un terzo del sangue di quest'uomo.» «Devi d u n q u e sapere» cominciò a raccontare il vecchio «che questa gazzella è la figlia di mio zio, sangue del mio sangue, e che io l'ho sposata quand'era ancora molto giovane, e a b b i a m o vissuto insieme per t r e n t a n n i , senza però che lei mi desse un figlio. Allora mi presi u n a schiava come seconda moglie, e questa mi partorì un figlio. Egli diventò un bel giovane dagli occhi chiari e di spirito brillante. Q u a n d o ebbe quindici anni, dovetti intraprendere un lungo viaggio che mi tenne parecchio tempo lontano da casa. «Mia moglie da piccola aveva imparato la magia, e così, durante la mia assenza, gettò un incantesimo su m i o figlio t r a s f o r m a n d o lui in un torello e s u a m a d r e , la mia s e c o n d a moglie, in u n a m u c c a , e li consegnò ai nostri pastori. Al m i o r i t o r n o da quel lungo viaggio, chiesi a mia moglie dove fossero mio figlio e sua madre. Essa mi disse: "La tua seconda moglie è morta e tuo figlio è fuggito, e non so dove si sia diretto". 15
«Trascorsero molti anni e il mio cuore era pieno di tristezza. Giunse l'annuale Festa del Sacrifìcio, e io ordinai al pastore di portarmi u n a vacca grassa, ed egli mi portò colei che era diventata u n a m u c c a in seguito all'incantesimo di mia moglie. Io mi preparai, presi il coltello grande e mi accinsi a macellare l'animale, quando vidi che la vacca era tutta pelle e ossa ed era assolutamente priva di grasso. Allora la riconsegnai al pastore e gli chiesi un altro animale che fosse più in carne. Egli mi portò un torello, e per la precisione proprio quello che era mio figlio e aveva assunto questo aspetto in seguito all'incantesimo di m i a moglie. Q u a n d o mi vide, si liberò c o n u n o strappo della fune che lo teneva, mi si avvicinò e cominciò a brucare accanto a me. E intanto emetteva sonori lamenti. Allora mi colse la compassione e dissi al pastore: "Portami pure la mucca e lascia stare questo toro!". Quando il toro udì le mie parole, prese a piangere ancora di più.» E il p a d r o n e della gazzella proseguì: «O signore, re dei jinn, t u t t o ciò è a c c a d u t o veramente, e m i a moglie, la figlia di mio zio, assisteva anch'essa e mi diceva: "Orsù, sacrifica q u e s t o toro, dal m o m e n t o che è bello grasso!". O r d i n a i q u i n d i al p a s t o r e di prenderlo e sgozzarlo lui, perché il mio cuore n o n lo avrebbe sopportato. Allora il pastore si rivolse a me e mi disse: "Mio signore, io ho u n a figlia che fin da piccola ha imparato da u n a vecchia le arti magiche. Ieri mia figlia è venuta a casa con un torello e ho visto che si era coperta il volto e piangeva; poi si mise a ridere e mi disse: 'Padre mio, d a m m i in sposa a quest'uomo che sta accanto a me'. Io chiesi: 'Dov'è un u o m o accanto a te, e perché p r i m a piangi e poi ridi?'. E lei mi rispose: 'Questo toro che sta accanto a me è il figlio del tuo padrone, ma è in preda a un incantesimo e così pure sua madre: è questo il segreto 16
del mio pianto e del mio riso'. Sul m o m e n t o però io n o n le ho creduto, e solo q u a n d o ho visto come tu esitavi a macellare la m u c c a e il t o r o che ti avevo portato ho capito che doveva essere vero". «Quando udii queste parole, o signore dei jinn, mi colse u n a grande gioia e mi recai in fretta col pastore nella sua casa, salutai sua figlia e le baciai la mano, poi le chiesi: "Mostraci che le tue parole sono vere e libera dall'incantesimo questo toro e sua madre, se lo puoi!". Essa disse: "Sì, signore, lo farò". Allora le promisi la proprietà di tutti i beni che suo padre, il pastore, amministrava per mio conto. Essa sorrise e disse: "Non voglio ricevere dei beni, ma ti richiedo solo due cose: per p r i m a cosa che tu mi lasci sposare tuo figlio, e per seconda cosa ti chiedo di potere punire io stessa con un incantesimo colei che ha fatto l'incantesimo a lui e a sua madre". «Quando udii queste parole, o signore dei jinn, mi rallegrai ancora di più e accettai entrambe le condizioni. Allora la figlia del pastore prese un recipiente, lo riempì d'acqua e ne asperse il toro dicendo: "Come è vero che Dio ti ha fatto assumere le tue attuali sembianze, così possa tu ora tornare nel tuo aspetto precedente, quello con cui Dio ti ha originariamente creato!". Allora il toro ridivenne un u o m o , e io gli dissi: "Per Allah, raccontaci tutto quello che è successo a te e a tua madre!". Egli ci fece il resoconto, dopodiché la figlia del pastore liberò dall'incantesimo anche la m a d r e trasformata in mucca. «Con grande gioia permisi alla figlia del pastore di sposare mio figlio e concessi loro tutti i beni che il pastore aveva a m m i n i s t r a t o per conto mio, e molti altri a n c o r a . D o p o d i c h é la figlia del p a s t o r e trasformò mia moglie in u n a gazzella, che è quella che tu vedi qui accanto a me, o signore dei jinn. Questa è la mia storia. Non la trovi stupefacente, o signore dei 17
jinn?» Egli rispose: «Questa storia è davvero stupefacente, e io ti faccio dono di un terzo del sangue del mercante». Allora si alzò il secondo vecchio, quello che aveva due cani, e disse: «O signore, re dei jinn, questi due cani sono i miei fratelli, e se io ti raccontassi come è successo che si sono trasformati in cani, e tu trovassi stupefacente la mia storia, mi faresti poi dono di un terzo del sangue di questo mercante?». L'ifrit rispose: «Sì, raccontamelo, e se lo troverò stupefacente, ti farò dono di un terzo del sangue di questo mercante». Allora il vecchio prese a narrare la storia seguente: «Eravamo tre fratelli. Quando morì nostro padre, ci lasciò tremila dinari. Con essi aprii un negozio e cominciai a vivere di commercio. Un giorno dovetti intraprendere un lungo viaggio d'affari e affidai il negozio ai miei fratelli. Q u a n d o , d o p o l u n g h e peripezie, fui finalmente di ritorno, non avevo più nulla con me, perché t u t t o era a n d a t o p e r d u t o nel viaggio. I miei fratelli, però, non mi biasimarono, e anzi divisero con me quello che nel frattempo avevano guadagnato col negozio. Allora lodai Dio di avermi dato questi fratelli, e ricominciai il mio commercio nel negozio. «Qualche tempo dopo, f u r o n o i miei fratelli a voler intraprendere un viaggio, e mi pregarono di and a r e c o n loro. Avevo un bel r i c o r d a r e loro le mie sventure e gli incerti dei viaggi per affari: essi non si lasciarono dissuadere e continuarono con insistenza a pregarmi, finché cedetti. C o n t a m m o d u n q u e il den a r o che avevamo g u a d a g n a t o tutti e tre insieme, u n a metà la impiegammo nell'acquisto di merci, cavalli e animali da soma, e l'altra metà la dividemmo in tre parti uguali, in m o d o che ciascuno di noi rice18
vette la sua parte e la nascose p e r l'eventualità che dovessimo tornare senza alcun ricavo. «Quindi p a r t i m m o per il viaggio e c o n d u c e m m o la nostra carovana per un mese intero attraverso territori desolati, finché g i u n g e m m o a u n a città dove per le nostre merci ricavammo il decuplo di quanto ci e r a n o costate. Con q u e s t o ricavo a c q u i s t a m m o merci di grande valore e ci m e t t e m m o di nuovo in c a m m i n o per t o r n a r e nella nostra città di origine. Quando giungemmo sulla riva del mare, mi apparve all'improvviso u n a giovane donna svestita, di grande bellezza e dai lunghi capelli lucenti. Costei mi disse: "Se hai bontà e possiedi dei beni, d a m m e n e un po' e io ti contraccambierò!". Io risposi: "Di beni io ne ho di certo, e anche di bontà non me ne manca, per cui ti voglio fare un dono". Essa mi disse: "Poiché tu mi doni qualcosa, anch'io ti f a r ò un dono: p r e n d i me come mio dono per te!". Allora la presi, la rivestii di splendide stoffe e la feci salire sul mio cavallo. Mi ci affezionai a tal p u n t o che non volevo più separarmi da lei né di giorno né di notte, poiché aveva conquistato appieno il mio cuore. «I miei fratelli, però, c o m i n c i a r o n o a invidiarmi per questa bella donna, e lo potevo vedere dai loro sguardi. La mia donna mi mise in guardia contro di loro dicendo: "Essi ti uccideranno e p r e n d e r a n n o i tuoi beni, per possederli tutti da soli". Io però non le credetti, e le raccontai invece q u a n t o i miei fratelli fossero stati buoni con me quando, la p r i m a volta, ero ritornato dal viaggio senza più un soldo. "Essi s o n o b u o n i nei loro cuori, e n o n f a r a n n o nulla di male" le dissi. «Ma quella notte, mentre io dormivo accanto a mia moglie, essi ci sollevarono, ci portarono sulla scogliera e ci gettarono in mare. Mia moglie, che era la figlia di un jinn, si trasformò istantaneamente in un grande 19
uccello, e quando io riemersi dall'acqua, mi afferrò e mi portò su un'isola vicina. Quindi tornò ad assumere il suo aspetto di donna e disse: "Io sono la figlia di un jinn e ti ho salvato t r a s f o r m a n d o m i in uccello. Non avere timore, io appartengo a quei jinn che h a n n o optato per Dio e il suo regno. Ora mi vendicherò sui tuoi fratelli e li ucciderò". Io ne fui assai stupito e la pregai di risparmiare i miei fratelli. Essa disse: "Allora n o n li annegherò, come avevo deciso di fare. Ma questa notte mi trasformerò di nuovo in un uccello. Allora siediti sul mio dorso: volerò fino al tuo paese". «Quella notte si trasformò nuovamente in un grosso uccello e mi trasportò per il lungo tratto che ci divideva da casa mia. Qui giunti, mi depose sul tetto. Il mattino scesi, salutai la mia gente ed entrai in casa, dove trovai questi due cani legati. Quando essi mi videro, si misero a guaire. Ma io non sapevo da dove venissero, finché mia moglie, che era tornata ad assumere sembianze umane, disse: "Questi sono i tuoi due fratelli, che non ho potuto annegare perché tu mi hai pregato di risparmiarli. Li ho invece m a n d a t i da mia sorella, che li ha trasformati in cani per dieci anni, passati i quali essi ridiverranno uomini". «Questa, o signore e padrone dei jinn, è la mia storia. Non la trovi stupefacente?» «Sì,» disse l'ifrit «essa è stupefacente e io ti faccio dono di un terzo del sangue di questo mercante.» Allora si alzò il terzo vecchio, quello con la mula, e disse: «O signore e re di tutti i jinn, questa m u l a è mia moglie, e se ti racconterò come ha fatto a diventare così e tu troverai stupefacente la mia storia, mi farai dono di un terzo del sangue di questo mercante?». «Sì,» disse l'ifrit «così sia.» Allora il terzo vecchio incominciò il suo racconto: «Tornando un giorno da un lungo viaggio, trovai mia moglie nel letto con due schiavi negri, che si diverti20
vano, scherzavano e giocavano insieme. Mi colse allora l'ira e stavo per precipitarmi su di loro q u a n d o essa prese un vaso con dell'acqua e mi asperse con essa dicendo: "Abbandona il tuo aspetto attuale e assumi l'aspetto di un cane!". «Divenni così un cane e corsi fuori dalla porta ritrovandomi nella via dove c'era un macellaio, al quale rubai un pezzo di carne. Allora il macellaio mi catturò, mi legò e mi portò a casa sua per uccidermi. Sopraggiunse la figlia dell'uomo e si coprì il volto davanti a me. Poi chiese a suo padre: "Perché h a i p o r t a t o qui quest'uomo?". Suo p a d r e disse: "Dov'è un uomo?". Essa rispose: "Questo cane è un u o m o che ha subito un incantesimo da parte di sua moglie. Ma io posso liberarlo". All'udir ciò, suo padre disse: "Dio sia con te, figlia mia, libera quest'uomo!". Allora essa prese un recipiente con dell'acqua, recitò degli scongiuri e mi asperse con un po' di quell'acqua. Aggiunse poi queste parole: "Abbandona il tuo aspetto attuale e assumi il tuo aspetto originario e persisti in esso!". Allora le baciai le mani e la pregai di gettare un incantesimo sulla m i a moglie malvagia, così come essa aveva fatto nei miei confronti. Essa prese dal recipiente un po' dell'acqua su cui aveva recitato gli scongiuri, me la diede e disse: "Va' da tua moglie, e q u a n d o la troverai a d d o r m e n t a t a , aspergila con l'acqua e la trasformerai in quello che vorrai!". «Io feci c o m e mi aveva detto, e la t r a s f o r m a i in u n a mula. E questa mula che voi vedete qui accanto a me, o re e signore di tutti i jinn, è colei che un tempo è stata mia moglie.» Si rivolse quindi alla mula e le chiese: «È vero ciò che ho detto?» e la mula fece cenno col capo per significare che era vero. Allora l'ifrit si alzò, si scosse la polvere di dosso e disse al terzo vecchio: «Trovo stupefacente la tua storia e ti faccio d o n o dell'ultimo terzo del sangue di 21
questo mercante». Quindi l'ifrit sfrecciò via come un uragano. Il mercante abbracciò i tre vecchi, ringraziandoli più e più volte, d o p o d i c h é tutti fecero r i t o r n o alle proprie case e vissero felici in mezzo ai loro cari finché la morte li portò via.
4. IL PRINCIPE M O H A M M E D , C H E RAPÌ LA FIGLIA DEL CAPOTRIBÙ DEI NOMADI
Un giorno il principe M o h a m m e d se ne andava a passeggio a cavallo in compagnia della sua guardia del corpo quando giunse nell'accampamento di un capotribù dei n o m a d i . Qui egli vide u n a fanciulla bellissima, e a partire da quel m o m e n t o non disse più u n a parola. Tornò a casa, si mise a letto e non parlò più con nessuno, n e m m e n o con il padre o la madre. Allora il re fece bandire per la città questo annuncio: "Chi riuscirà a porre a mio figlio u n a dom a n d a capace di ottenere u n a sua risposta, riceverà in dono tutto quello che desidera al mondo. Ma a colui cui mio figlio non risponderà farò tagliare la testa". Si fecero avanti i suoi amici e lo interrogarono, ma egli non rispose n e m m e n o u n a parola. Il re fece tagliare loro la testa. Alla fine f u r o n o in novantanove ad avere la testa tagliata. Si fece quindi avanti u n a vecchina che disse al re: «Voglio p o r r e io u n a dom a n d a a tuo figlio!». Il re disse: «Vattene, vecchia!». La vecchina aveva i capelli bianchi e le rimaneva un solo dente che assomigliava alla chiave di u n a prigione. La vecchia t o r n ò a ripetere: «Eppure, io voglio porre u n a d o m a n d a a tuo figlio!». Il re aggiunse: «Sono già novantanove le teste che ho fatto tagliare, con te potremo completare il centinaio». La vecchia 22
disse solo: «Macché, se solo riuscissi a parlargli!». Allora il re disse: «Avanti, entra!». La v e c c h i n a e n t r ò al c o s p e t t o del p r i n c i p e Mohammed, lo guardò e quindi gli disse: «Che cosa ti m a n c a , p e r s t a r t e n e disteso nel t u o giaciglio a guardare fìsso il cielo? Sei stato forse colpito da due occhi neri?». Al che il figlio del re balzò in piedi e disse: «Sì, vecchia!». Allora il re comandò: «Portate qui la vecchia!». Il re le diede tutto ciò che desiderava ed essa se ne a n d ò . A q u e s t o p u n t o il p r i n c i p e andò dal re e gli disse: «Voglio solo questa fanciulla nomade!». Il re gli rispose: «Va' e prendi con te delle guardie del corpo!». Allora essi partirono e chiesero la m a n o della fanciulla al capotribù dell'accampam e n t o di nomadi. Il capotribù rispose: «Datemi solo un mese per pensarci su!». Essi si dissero d'accordo e fecero ritorno a casa. Quando essi si f u r o n o allontanati, il capotribù fece b a n d i r e p e r l ' a c c a m p a m e n t o : "Cosa dovrò fare per non farmi portare via la figlia dal figlio del re? A chi saprà d a r m i un b u o n consiglio, la concederò in sposa". Nell'accampamento viveva a n c h e un u o m o m a l a t o di tigna, che si fece avanti e gli disse: «Ti d a r ò io un consiglio sul da farsi p e r evitare che il principe ti porti via la figlia». E il capotribù dei nomadi disse: «Se tu mi darai un b u o n consiglio, te la darò in sposa». Il tignoso gli chiese: «Quanto è lungo il tempo che hai stabilito col figlio del re per pensarci su?». Il capotribù rispose: «Ci siamo accordati per un mese». Allora il tignoso disse: «E tu per un mese devi viaggiare!». Il capotribù disse: «D'accordo. Faremo così!». E ordinò a tutti: «Domani leveremo le tende!». Così il mattino seguente partirono. Viaggiarono per un mese intero. Ma in tutti i luoghi ove facevano t a p p a per la notte la fanciulla deponeva un 23
piccolo panino, u n a ciotola d'acqua e u n a manciata di chicchi d'orzo. Ritorniamo ora con la storia al figlio del re! Quando fu trascorso un mese, egli disse alle sue guardie del corpo: «Orsù, a n d i a m o dal capotribù dei nomadi!». Balzarono a cavallo e raggiunsero il luogo dove era stato l'accampamento, ma lo trovarono deserto. Allora il figlio del re rovistò con un bastone il terreno, fino ad arrivare al luogo dove era stata la tenda della fanciulla, e disse ai suoi uomini: «È qui che stava la mia fanciulla!», poiché aveva trovato la pagnottella, la ciotola d'acqua e la m a n c i a t a d'orzo. Disse tra sé: "La f a n c i u l l a vuole che io la segua". Disse quindi alle sue guardie del corpo: «Chi vuole, può seguirmi; chi non vuole, torni indietro fino alla città!». Allora le guardie del corpo tornarono indietro, e il figlio del re proseguì il viaggio da solo. Alla fine giunse al castello di un ifrit, lo osservò per bene e disse tra sé: "È proprio qui che deve trovarsi la mia fanciulla!". Mentre egli attendeva all'entrata, vennero f u o r i tre fanciulle, che gli dissero: «O bel giovane, vattene via! Qui c'è un ifrit che sta per venire a divorarti!». Il giovane disse loro: «Se verrà l'ifrit, so ben io che cosa gli farò!». Il giovane si pose a sedere e aspettò che giungesse la notte. Allora apparve l'ifrit, scorse il giovane e gli chiese: «Che cosa ti ha portato qui, o pezzo di briccone trasportato dal fiume?». Il giovane ribatté: «Fatti avanti e affrontami, orsù combattiamo! Sguaina la spada!». Poi disse: «Nel nome di Dio!». L'ifrit sguainò la spada e il giovane sguainò la sua e si affrontarono. Alla fine il giovane lo sollevò in alto e lo scaraventò a terra, dopodiché afferrò la spada e si accingeva a ucciderlo quando l'ifrit gli gridò: «Non uccidermi! Tu sarai il mio padrone in questo e nell'altro mondo!». Poi l'ifrit si rialzò e disse: «Vieni, entriamo in casa!». 24
Venne giù la maggiore delle tre fanciulle, che voleva portare su l'ifrit. Ma l'ifrit le disse: «Porta questo giovane, egli è il mio padrone in questo e nell'altro mondo!». Il giovane le disse: «Non portarmi!». Salirono tutti insieme e vi rimasero tre giorni, dopodiché il giovane disse all'ifrit: «Tu rimani qui fino al mio ritorno», e gli raccontò tutto quello che gli era accaduto. Allora egli disse al giovane: «Non mi abbandonare! Io ti accompagnerò in questo e nell'altro mondo!». Allora essi si misero in viaggio insieme e raggiunsero l'accamp a m e n t o della fanciulla. Qui essi appresero che quello stesso giorno doveva aver luogo il matrimonio della fanciulla; il tignoso voleva farla sua sposa. Allora si precipitarono al gran galoppo nell'accampamento, p u n t a n d o dritti verso la tenda della fanciulla. Gli abitanti dell'accampamento si alzarono e f u r o n o assai stupiti nel vedere i due cavalieri. Essi proseguirono nel galoppo, l'ifrit, in veste di servitore negro, afferrò la fanciulla e la collocò sul cavallo dietro al principe M o h a m m e d . Quindi i due, con la fanciulla, si diedero alla fuga. In seguito a ciò gli abitanti delle tende levarono grandi grida e presero a inseguirli. Quando li ebbero raggiunti, il principe M o h a m m e d disse all'ifrit: «Rivolgiti contro di loro!». Allora il servitore negro si rivolse contro di loro, sollevò in alto un cavallo degli avversari e con esso abbatté cinquanta uomini in un sol colpo. Dopodiché proseguirono il loro c a m m i n o e raggiunsero nuovamente la casa dell 'ifrit, dove rimasero tre giorni. Da lì presero con sé le tre fanciulle e si diressero alla volta della città del re; avevano ora quattro fanciulle al loro seguito. Quando il re le vide, fu preso da un ardente desiderio e disse ai suoi fidi: «Provvedete a uccidere mio figlio!». Essi risposero: «Lo faremo». Poi a n d a r o n o dal figlio del re e gli dissero: «Vieni con noi a fare un'escursione a cavallo!» e lo 25
condussero in un luogo selvaggio per ucciderlo. Ma ebbero compassione e gli dissero: «Per Allah, ti caver e m o gli occhi». Egli d o m a n d ò : «Perché?». Ed essi ribatterono: «Tuo padre ci ha c o m a n d a t o di ucciderti». Egli disse: «Mi sta bene». E quelli gli cavarono gli occhi. Il povero giovane si sedette sotto un albero, quand'ecco avvicinarglisi due colombe, che cominciarono a parlare tra loro. Una disse all'altra: «Se sapessi che proprietà ha il mio albero, ti meraviglieresti!». E l'altra le chiese: «Che p r o p r i e t à ha?». La p r i m a rispose: «Se un cieco prende u n a foglia dell'albero e fa gocciolare negli occhi il liquido che ne fuoriesce spremendola, torna a vedere». Poi chiese: «E il t u o albero, che proprietà ha?». Essa rispose: «Il mio? Se si mette u n a sua foglia in un otre per fare il b u r r o e lo si scuote, tutto quello che c'è dentro diventa burro». Il giovane era stato ad ascoltare, trovò l'albero, prese u n a foglia, la schiacciò e fece gocciolare il liquido negli occhi; ed ecco che tornò a vedere. Disse: «Sia lode ad Allah!», poi si portò dov'era l'altro albero e si riempì le tasche di foglie. Quindi proseguì, incontrò un pastore e gli disse: «Se vorrai d a r m i i tuoi abiti, io ti darò i miei, ma mi dovrai dare anche quel capretto spelacchiato». Il pastore disse: «Mi sta bene». Si tolse quindi i propri indumenti e li diede al giovane, mentre il giovane deponeva gli abiti regali e li dava al pastore; d o p o d i c h é p r e s e il capretto, lo sgozzò e lo scuoiò. Prese la pelle, la portò a un corso d'acqua e la lavò, poi se la avvolse intorno al capo in m o d o da sembrare un tignoso. Raggiunse un accamp a m e n t o di nomadi, dove trovò u n a vecchia che era tutta sola, e le disse: «Per Allah! O vecchia, posso restare da te?». La vecchia gli rispose: «Vieni pure, fi26
gliolo, io non ho nessuno, tu sarai per me un figlio, dal m o m e n t o che n o n ne ho alcuno!». Prese così ad a b i t a r e c o n la vecchia, e q u a n d o , u n a volta, costei volle fare il burro, il giovane prese l'otre e le disse: «Farò io il burro!». Scosse un po' l'otre, e q u a n d o la vecchia n o n guardava, vi introdusse di nascosto u n a foglia. Ed ecco in un istante il latte rappreso trasformarsi in burro. La vecchia rit o r n ò e constatò che l'otre era pieno di b u r r o fino all'orlo. Meravigliata, lo andò a raccontare alla gente. Q u a n d o la notizia giunse all'orecchio del capo dell'accampamento, questi disse ai suoi uomini: «Far e m o fare il b u r r o a quel giovane, ora per questo ora per quello, a turno, in m o d o che costui produca molto b u r r o per ogni abitante dell'accampamento». R i t o r n i a m o ora a p a r l a r e di suo padre! Q u a n d o f u r o n o di r i t o r n o i suoi a c c o m p a g n a t o r i , egli dom a n d ò loro: «Avete ucciso mio figlio?». Ed essi dissero: «Lo abbiamo ucciso». Allora il padre inviò dalle fanciulle d u e delle sue g u a r d i e del corpo, ma q u a n d o costoro fecero per entrare, l'ifrit li apostrofò: «Dove volete andare?». Essi risposero: «Vogliamo andare dalle fanciulle, per portarle dal re». L'ifrit disse: «Qui non può entrare nessuno al di fuori del mio padrone!». Ma essi insistettero: «Noi abbiamo l'ordine di entrare!» e quando vollero mettersi a combattere, egli afferrò u n o di loro e colpì l'altro con esso. M o r i r o n o tutti e due. Allora il re m a n d ò c i n q u e guardie del corpo, ma l'ifrit le uccise tutte. Quello ne inviò dieci, ed egli le uccise tutte; quello ne inviò cento, e lui le uccise tutte; quello inviò un esercito, ed egli lo annientò completamente. Allora il re fece b a n d i r e : «Orsù, sia guerra!». Il servitore n e g r o li combatté e li sopraffece tutti quanti. Quando la notizia di tutto questo giunse agli abitanti dell'accampamento di nomadi e costoro si mi27
sero a p r e p a r a r e le armi in vista della guerra, il tignoso (Mohammed) disse: «Andrò io da solo!». Il capotribù gli disse: «Come pensi di riuscire tu là dove non arrivano gli uomini validi? Faresti meglio a restartene con il tuo burro!». Il tignoso rispose: «Dammi solo un cavallo e me ne andrò alla guerra!». Ora, egli c o m b a t t é insieme a loro per un giorno intero, e sconfisse il servitore negro. Vergognandosi, il negro andò dalle fanciulle e disse: «Tra di loro vi è u n o che combatte come il mio padrone». Allora esse gli dissero: «Prendi questa arancia! Se domani il tuo avversario arriverà e ti sconfiggerà, gettagli questa arancia! Se egli la prenderà e la bacerà, deve trattarsi del tuo padrone». Il negro la prese e la ripose. Il giorno successivo, q u a n d o il tignoso si ripresentò p e r c o m b a t t e r e c o n t r o di lui, il negro prese l'arancia e gliela gettò. Il suo p a d r o n e l'afferrò e la baciò, poi tirò via la pelle che gli copriva il capo e lasciò scendere liberi i capelli. Allora il negro lo precedette ed entrarono in casa. La gente li seguì dicendo: «Il tignoso è entrato in casa». Ma a questo punto egli si rivolse contro di loro e prese a combatterli. Quando raggiunse suo padre, lo colpì e gli tagliò la testa. Divenne quindi re e la gente fu felice perché egli governò con rettitudine. Dopo che li ho lasciati, sono subito venuto qui.
5. A H M E D U-N-AMIR
C'era u n a volta un giovane, al quale era rimasta solo la madre. Tutti i giorni egli andava alla scuola coranica e si istruiva. Di notte, però, mentre dormiva, venivano gli angeli e gli tingevano le mani di rosso con l'henné. Al mattino andava a scuola, il maestro vedeva le mani rosse di henné e lo picchiava col suo ba28
stone. Un giorno il giovane disse al maestro: «Mio signore, non sono io a tingermi le mani di henné, questo avviene di notte, m e n t r e d o r m o . Al m a t t i n o , q u a n d o mi sveglio, le mani sono tinte di rosso». Allora il maestro disse: «Sai cosa devi fare?» e proseguì: «La p r o s s i m a notte, q u a n d o ti stendi per dormire, prendi un vaso, mettici dentro u n a piccola lucerna a olio accesa e mettici sopra un coperchio, in m o d o che all'esterno non si veda alcuna luce. Poi sta' molto attento e non addormentarti, ma fai solo fìnta di dormire». «Sì, mio signore» disse lo scolaro e tornò a casa. La sera egli fece come gli aveva consigliato il maestro. Verso mezzanotte giunsero degli angeli femmina, e gli tinsero le m a n i con l'henné. Allora egli ne afferrò una, ma le altre fuggirono. Q u a n d o il giovane tolse il c o p e r c h i o dal vaso, scorse u n a fanciulla. La fanciulla disse: «O Ahmed, lasciami andare! Tu non potresti esaudire il mio desiderio». Egli disse: «Non ti lascerò andare, visto che per colpa vostra subisco ogni giorno delle bastonate». Ma la fanciulla tornò a pregarlo: «Lasciami andare, Ahmed! Tu n o n potresti esaudire il mio desiderio». Allora egli chiese: «E qual è il tuo desiderio?». Essa rispose: «Io ho bisogno di sette stanze, u n a dentro l'altra, e devono potersi aprire tutte con u n a chiave». Egli disse: «Così sarà». Lei proseguì: «Nessuno al di fuori di te deve poter entrare nelle stanze!». Egli disse: «Mi sta bene». La fanciulla abitò quindi nella sua stanza, finché egli ebbe costruito le sette stanze, dopodiché si sposarono. Essi vissero insieme per molto tempo. Tutte le volte che egli usciva, chiudeva a chiave le stanze e nascondeva la chiave nel letamaio. A sua m a d r e egli non aveva però detto che cosa si trovava nelle stanze. Essa aveva u n a gran voglia di entrarvi, ma non 29
sapeva dove il figlio nascondesse la chiave. Un giorno u n a gallina, razzolando nel letame, portò alla luce la chiave. La m a d r e la trovò, schiuse le stanze u n a dopo l'altra, finché giunse nell'ultima stanza e vide la fanciulla. Costei si spaventò moltissimo, ma ancora di più si spaventò la madre, che fuggì via. Richiuse a chiave tutte le stanze e tornò a mettere la chiave nel letamaio. Q u a n d o il giovane fu di ritorno, prese la chiave, aprì la p r i m a stanza e la trovò bagnata. Nella seconda stanza l'acqua gli arrivava ai malleoli, nella terza fino al polpaccio, nella q u a r t a fino alle ginocchia, nella quinta fino alla coscia, nella sesta fino alla cintola, e nella s e t t i m a fino alle spalle. Allora vide la fanciulla, che era seduta sul davanzale della finestra e piangeva. Allora le chiese: «Che cosa ti è successo?». Essa disse: «Nulla, solo che tua m a d r e è venuta fin qui. Ora aprimi subito la finestra, in m o d o che io possa riprendermi un po'». Quando il giovane ebbe aperto la finestra, la fanciulla voleva volarsene via; egli le afferrò in fretta la m a n o per tenerla ferma, ma lei gli lasciò in m a n o un anello. Poi si trasformò in u n a colomba e volò via, dicendo: «Se tu vuoi, raggiungimi nel settimo cielo!» e scomparve. Il giovanotto uscì, si comprò un cavallo e si mise in viaggio. Per tre anni andò in giro per il paese. Un bel giorno si imbatté nei piccoli di un falco immenso, che sembrava u n a casa volante quando si librava nell'aria. Il giovanotto sgozzò il suo cavallo e ne diede la carne ai piccoli del falco. Quando la loro m a d r e fu di ritorno, vide i suoi piccoli che mangiavano contenti la carne, e quindi esclamò: «Chi ci ha fatto quest'opera di bene? Che venga fuori, e ciò che egli desidera possa il nostro Signore concederglielo!». Allora il giovanotto rispose dicendo: «Sono stato io!». E l'uccello replicò: «Che cosa desideri?». 30
Il giovane rispose: «Io desidero solo che tu mi porti f i n o al s e t t i m o cielo». Il volatile rispose: «Sii il benvenuto!» e proseguì: «Sali e mettiti a cavalcioni sul mio dorso!». Il giovane salì e subito partirono in volo. Quando il falco fu giunto al settimo cielo depose il giovane. Il giovanotto si diresse allora verso u n a sorgente, e vide un albero accanto a essa, su cui si arrampicò. Giunse u n a schiava negra per attingere acqua. Essa vide il volto del giovane riflesso nell'acqua. Si mise quindi a gridare: «Sono così bella e devo continuare a portare l'acqua alla mia padrona?». Sollevò in aria il vaso e stava per fracassarlo a terra. Ma il giovane la apostrofò: «Aspetta, aspetta! Quello che hai visto è il m i o viso!» e p r o s e g u ì chiedendole: «Di chi sei schiava?». Ed essa gli disse il nome della sua padrona. Egli le ordinò: «Prendi questo anello e portalo alla t u a padrona!». La schiava prese l'anello e se ne andò. Quando fu giunta a casa, consegnò l'anello alla padrona. Allora la p a d r o n a le disse: «Prendi il mio asino e caricalo di fieno, poi infila il giovanotto nel fieno e portalo così in casa!». La schiava andò e fece proprio ciò che le aveva detto la padrona. Portò così in casa il giovanotto che, qui giunto, uscì dal fieno. Ora, egli visse per un certo t e m p o insieme a sua moglie. Essa andò e gli fece vedere tutta la casa. Arrivata davanti a u n a botola del pavimento, disse: «Tu puoi entrare in tutte le stanze della casa, solo n o n devi varcare mai questa porta!». Così egli rimase con lei e passò molto tempo. Un giorno, era la grande Festa del Sacrificio, egli disse tra sé: "Per Dio, per u n a volta voglio guardare al di là di questa porta che mi è stato detto di n o n aprire mai!". Egli vi andò, la aprì e vide sua m a d r e sulla terra che teneva con u n a m a n o u n m o n t o n e , ma n o n riusciva a sgozzarlo. Allora essa esclamò: 31
«Dove sei, mio Ahmed, aiutami a sgozzare il montone!». Dopodiché si mise a piangere. Quando il giovanotto ebbe visto ciò, fu preso da pena per la m a d r e e balzò giù. I venti lo ridussero completamente in polvere. Una goccia del suo sangue cadde sul m o n t o n e e lo uccise, le dita caddero su di u n a roccia, e subito ne s g o r g a r o n o c i n q u e sorgenti. Ma lui era m o r t o . Andate in pace!
6. IL RE CON UN FIGLIO BIANCO E UNO N E R O
Un re aveva due mogli: u n a era bianca, bella come u n a giornata luminosa, e l'altra era nera, bella come u n a notte serena. Ambedue le mogli gli diedero un figlio, ciascuno somigliante alla sua m a m m a . Ma il re amava il figlio bianco più di quello nero. Un giorno si presentò a palazzo reale un viandante, che disse al re: «O re, mio signore, tu non devi stim a r e in m a n i e r a differente ciò che Dio ti ha donato!». Q u a n d o egli uscì, il principe bianco gli corse dietro e lo apostrofò: «Cosa stai cercando qui da noi, straniero?». Il v i a n d a n t e gli disse: «Quello che ho detto n o n l'ho detto per conto mio. Ma dal m o m e n t o che tu sei così adirato, ti dirò qual è il tuo destino: lontano da qui vive u n a fanciulla, bella come tu non hai mai visto, essa sarà il tuo destino». Dopodiché se ne uscì dal palazzo. Il principe, però, divenne assai triste e domandava a t u t t i dove si potesse t r o v a r e la bella fanciulla. Quando non potè più resistere, pregò il fratello nero di mettersi in viaggio con lui alla ricerca della fanciulla. Così essi partirono sui loro cavalli e giunsero in u n a i m m e n s a foresta, e qui si fece notte. Essi trovarono u n a grotta e vi si distesero per dormire. Ma il principe nero n o n dormì, e rimase di guardia. Intor32
no a mezzanotte giunse un leone che voleva divorarli. Allora il principe nero prese la propria spada e uccise il leone. Poi gli tagliò le orecchie e si mise a dorm i r e . Al m a t t i n o , il p r i n c i p e b i a n c o vide il leone morto, si spaventò e chiese al fratello: «Cosa vuol dire tutto ciò?». Allora il principe nero raccontò come avesse ucciso il leone che li voleva divorare. Continuarono quindi a viaggiare nella foresta per tutto il giorno, e anche la notte successiva giunsero a u n a grotta, dove viveva un'orchessa. Il principe bianco voleva entrare subito, ma il fratello nero voleva dissuaderlo. Allora l'orchessa venne fuori e li invitò a e n t r a r e . Essi d u n q u e e n t r a r o n o , m a n g i a r o n o u n a p a p p a preparata dall'orchessa e si distesero per dormire. Ma l'orchessa aveva anch'essa due figli, che si stesero su un bel t a p p e t o m o r b i d o , m e n t r e i d u e principi dovettero d o r m i r e per terra. Non a p p e n a anche l'orchessa si fu addormentata, il principe nero si alzò, trasferì i figli dell'orchessa dal tappeto in terra e mise suo fratello a dormire sul tappeto, su cui anch'egli si distese e si addormentò. Nella notte, l'orchessa si alzò, prese il suo coltellaccio e tagliò la testa ai due figlioli stesi per terra, perché credeva che fossero i due forestieri. Poi tornò a coricarsi e riprese a dormire. Ma il principe nero stava in guardia e q u a n d o scoprì quello che era successo, svegliò il fratello e tutti e due se ne andarono di nascosto. Il principe nero si portò anche via il paiolo dell'orchessa. Viaggiarono t u t t a la m a t t i n a t a e g i u n s e r o a un ampio fiume che attraversarono con l'aiuto dei loro cavalli. Erano appena arrivati dall'altra parte quando videro l'orchessa che, s e g u e n d o le loro tracce, aveva raggiunto la riva del fiume. Vedendo i due che se ne stavano sull'altra sponda, essa domandò: «Come avete fatto ad arrivare di là?». E il principe nero le rispose: «Abbiamo nuotato sui nostri cavalli, altri33
menti n o n avremmo potuto farcela». Dal m o m e n t o che l'orchessa n o n aveva cavalli, dovette tornarsene indietro. I due c o n t i n u a r o n o a cavalcare e giunsero a u n a steppa arida. Qui essi trovarono dei pastori con le loro greggi di capre. Accanto ai m a g r i pascoli vi era però un bel bosco con l'erba di un bel verde vivo. Allora il principe nero chiese: «Perché non andate più avanti a pascolare i vostri animali, in quel bel bosco, invece che qui in questo arido pianoro?». I pastori risposero: «Quel b o s c o a p p a r t i e n e a un orco, che non ci lascia pascolare, ci mangerebbe tutti». Ma il principe nero disse: «Andate pure fin laggiù e fateci pascolare i vostri animali! L'orco n o n vi farà nulla di male». Allora i pastori condussero i loro armenti nel verde bosco, ma b e n presto giunse di corsa l'orco, che disse: «Cosa avete intenzione di fare nel mio bosco? Allontanatevi, marmaglia!». In quella il principe nero gli si p a r ò dinanzi e gli disse: «Lasciali pascolare o ti ucciderò!». L'orco sollevò la sua clava, ma il principe fu più veloce e gli tagliò la testa con la spada. Il principe nero tagliò via il lungo ciuffo di capelli all'orco morto e lo ripose nelle tasche della sella insieme alle orecchie del leone e al paiolo. Dal mom e n t o che da lì in avanti la foresta si faceva sempre più fitta, lasciarono i loro cavalli presso i pastori e proseguirono a piedi. Verso sera giunsero alla grotta di un gigante e gli chiesero riparo per la notte. Il gigante li fece entrare. Poi il principe nero prese il suo rasoio e gli tagliò i capelli e la barba. Ciò fece molto piacere al gigante, che quindi si informò sullo scopo del loro viaggio. Il principe bianco raccontò allora come si fosse innam o r a t o p e r d u t a m e n t e di quella bella fanciulla che doveva essere il suo destino. D o m a n d ò anche: «Dove p o t r ò m a i trovarla?». Allora il gigante gli rispose: 34
«Salite su quel monte, arrampicatevi fino in cima, e troverete un castello. Là vive mio fratello, che tiene prigioniere due fanciulle, u n a bianca e u n a nera. Sono sicuramente loro quelle che cercate». Il mattino dopo, i due principi si inerpicarono sulla cima dell'alto m o n t e ed entrarono nel castello. Il gigante però n o n c'era, perché era già a caccia. I due principi attraversarono tutte le stanze e alla fine trovarono le due fanciulle, u n a bella come u n a giornata l u m i n o s a , e l'altra bella c o m e u n a n o t t e s e r e n a . Q u a n d o i d u e giovani le videro, esse g r i d a r o n o : «Correte via, presto, perché qui vive un gigante che ci tiene in suo potere. Se torna, vi mangerà!». Ma essi non se ne fuggirono via, e si misero invece a parlare con le belle fanciulle. Q u a n d o fu sera, sentirono avvicinarsi il gigante, e allora le fanciulle nascosero i due principi in due grossi vasi. Il gigante entrò e subito disse: «Sento odore di umani! Dove sono?». Ma le fanciulle risposero: «Come p o t r e b b e un u m a n o osare entrare in questo castello? Devi esserti sbagliato. Deponi il capo sul mio grembo, ti voglio accarezzare un po'». Allora il gigante si distese e si lasciò accarezzare dalle fanciulle, fino ad addormentarsi. A questo p u n t o i due principi uscirono dai vasi, presero per m a n o le fanciulle e lasciarono con loro il castello. Raggiunsero nuovamente i pastori, ripresero i loro cavalli e se ne a n d a r o n o via al galoppo. Quando il gigante si svegliò, n o n trovò più le due fanciulle, e capì subito che e r a n o fuggite. Allora si precipitò sulle loro tracce e giunse dai pastori. Chiese loro: «Non avete visto due fanciulle passare per di qua?». Ma i pastori risposero: «Abbiamo visto solo due animali ciascuno dei quali aveva quattro zampe e trasportava quattro zampe». Dal m o m e n t o che il gigante non capì la risposta, dovette tornarsene a casa a mani vuote. 35
I due principi con le loro fanciulle giunsero a un f i u m e che era molto impetuoso. Il principe bianco disse al fratello: «Passa tu per primo, io ti seguirò!». Il principe nero entrò nel fiume col suo cavallo, e a quel p u n t o il principe bianco afferrò u n a pietra e la scagliò c o n t r o suo fratello, che c a d d e i m m e d i a t a m e n t e nel fiume e a n d ò a fondo. Il cavallo e la sua d a m a si salvarono giungendo sull'altra riva, mentre il principe nero veniva trasportato via dalla corrente. Fu poi il principe bianco che penetrò nel fiume col suo cavallo e riuscì felicemente a portarsi sull'altra sponda insieme alla sua fanciulla. Qui prese la fanciulla nera, la minacciò di morte se n o n avesse taciuto, e la fece continuare a piedi dietro al suo cavallo come propria schiava. Arrivarono così al castello del p a d r e , dove v e n n e r o accolti con gioia. Il p r i n c i p e r a c c o n t ò di avere c o m p i u t o lui t u t t e le gesta più eroiche, mentre il fratello sarebbe m o r t o nel tentativo di imitarlo. Allora il re fece annunciare le nozze. Torniamo ora dal principe nero. Egli non era morto, era rimasto solo tramortito. Più a valle il fiume lo gettò sulla riva. Q u a n d o il giovane si fu ripreso, risalì l'argine e ritrovò anche il suo cavallo. Balzò in sella e si diresse verso la sua città natale. Qui si recò in un albergo e si f e r m ò per riposare. Q u a n d o poi u d ì che suo fratello voleva festeggiare le nozze, si r e c ò al castello, dove si teneva un g r a n d e t o r n e o equestre. Entrò anch'egli col suo cavallo nella corte, e u n o alla volta a b b a t t é tutti i cavalieri, f i n c h é si trovò a tu p e r tu c o n il fratello. E, a f f r o n t a t o l o a duello, lo sconfisse e gli tagliò la testa. Mentre tutti già stavano balzando sul principe nero per via di questa cosa inaudita, costui si portò a cavallo al cospetto del re e gli disse: «Caro padre, io sono l'altro tuo figlio». Quindi gli raccontò come si 36
era svolta ogni cosa e gli fece vedere le prove, che portava con sé nella tasca della sella: le orecchie del leone, il ciuffo di capelli dell'orco e il paiolo dell'orchessa. Allora anche la fanciulla nera prese a narrare come il principe bianco avesse colpito il fratello con u n a pietra mentre egli attraversava il fiume. A questo p u n t o il re proclamò davanti a tutti: «Ecco il mio figlio diletto, sarà lui che regnerà dopo di me!». Poi lo sposò con le due fanciulle. Che Allah perdoni noi e voi!
7. L'UCCELLO BIANCO E L'UCCELLO N E R O
C'era u n a volta, molto, m o l t o t e m p o fa, un re che aveva u n a figlia bellissima. Quando essa fu cresciuta, la fece vivere sempre in u n a casa che le aveva fatto costruire nel giardino, in m o d o che non le capitasse mai di provare il dolore. Una vecchia schiava negra le portava tutti i giorni da mangiare, e nessun altro aveva il permesso di andare da lei. Tutti i cibi e r a n o scelti con cura: la c a r n e senza ossa, il p a n e senza crosta, i datteri senza noccioli. Un giorno, al m o m e n t o di andarsene, la schiava si dimenticò di richiudere la porta. Allora un giovane penetrò nella casa e raccontò alla fanciulla che nella vita reale il bello e il brutto, il d u r o e il morbido, il dolce e l'amaro, la gioia e il dolore sono mischiati tra loro, cosicché la figlia del re fu colta dalla bramosia di sperimentare tutto ciò e se ne uscì nel giardino. Da un punto in cui poteva guardare al di là delle mura vide un q u a r t i e r e del b a z a r e la m o l t i t u d i n e di gente che vi si aggirava. Udì anche un u o m o che annunciava: «Semi dei fiori della tristezza!». E r a n o proprio quello che faceva al caso suo, e la figlia del re corse incontro all'uomo e si fece dare un po' di se37
mi. Dopodiché fece ritorno a casa e interrò i semi in un vaso posto sul balcone. In poco tempo le piantine germogliarono e la fanciulla ebbe ben presto la gioia di vedere degli splendidi fiori. Il mattino dopo corse a vedere i suoi fiori e c o n g r a n d e s o r p r e s a scoprì che d u e uccelli, u n o b i a n c o e u n o nero, e r a n o giunti in volo e coi loro becchi strappavano le corolle e rovinavano le piante. Allora, non avendo niente altro sottomano, prese il proprio bracciale e lo scagliò contro gli uccelli per scacciarli; l'uccello b i a n c o a f f e r r ò con destrezza il bracciale e se ne volò via portandolo con sé, accomp a g n a t o dall'uccello nero. La figlia del re r i m a s e sconsolata p e r c h é i suoi fiori e r a n o ridotti in u n o stato miserevole. Il mattino dopo, recandosi sul balcone, scoprì con gioia che i fiori si erano ripresi e che nuovi calici si offrivano alla sua vista. Ma la sua gioia si rivelò di breve durata perché tornarono a farsi vivi i due uccelli, che ripresero a strappare i fiori. Non avendo niente altro s o t t o m a n o , la principessa prese la coroncina che aveva in capo e la scagliò contro gli uccelli, che però anche questa volta in un baleno la afferrarono e se la portarono via. Questo fatto si ripetè ogni mattina per un'intera settimana, e ogni volta essa scagliò un monile contro gli uccelli, che se lo presero. Allora la principessa fu colta da u n a profonda tristezza per la perdita dei suoi fiori e si confidò col padre. Essa lo pregò di convocare da lei tutte le d o n n e della città che avessero provato un dolore perché potessero raccontarle ciascuna la propria vicenda. Così fu fatto. Il giorno dopo molte donne convennero nella casa della principessa e, dal m a t t i n o fino alla sera, a n d a r o n o avanti a raccontare t u t t o ciò che pesava sui loro cuori, ma dopo ogni racconto la figlia del re 38
ripeteva: «Non è poi così grave, il mio dolore è molto maggiore». Da ultimo, venne il turno di u n a giovane schiava negra, che disse: «Ieri, mentre mi recavo al fiume per lavare gli indumenti, vidi giungere sull'altra riva un cammello che non era condotto da nessuno. Nelle sue borse vi erano delle stoviglie d'argento, che se ne andavano da sole nel fiume e si lavavano come m o s s e da m a n i invisibili. D o p o d i c h é le stoviglie rientrarono nelle borse e il cammello si accinse a partire. Non vedendo intorno anima viva, venni colta dalla curiosità; lasciai perdere gli indumenti da lavare, guadai rapidamente il fiume e seguii il cammello tenendomi attaccata alla sua coda. Giungemmo così a un'alta parete rocciosa, e mentre già pensavo che la strada terminasse lì, le rocce si aprirono e noi p o t e m m o entrare. All'interno della montagna vi era un magnifico castello, le cui porte si aprirono da sole. Entrai e vidi giungere in volo due uccelli, u n o c o m p l e t a m e n t e bianco e u n o c o m p l e t a m e n t e nero, che si immersero nella vasca per fare il bagno. Quando riemersero erano due bei giovani, u n o bianco come un principe e uno nero come u n o schiavo. Si trasferirono in u n a delle stanze, dove mani invisibili servirono loro i cibi più squisiti. Ma il principe non toccò nulla di tutto ciò e così pure il suo servitore. Il principe disse al servitore: "Portami il cofanetto con i monili!". Il giovane negro portò il cofanetto e lo aprì. Allora il principe ne tirò fuori un bracciale d'oro, u n a coroncina e un fermaglio, sollevò i monili in m o d o che questi risplendessero alla luce, e disse con voce triste: "Questo bracciale, questa coroncina e questo fermaglio me li ha lanciati lei. Oh, potesse essere presto mia! Quanto è bella, dalla p u n t a dei capelli fino ai piedi, tutto è assolutamente armonioso in lei!"». 39
Con un sospiro, la figlia del re invitò la giovane negra a proseguire il suo racconto. Ed essa continuò: «Quando il principe parlò con tanta tristezza, i gioielli scoppiarono in singhiozzi nelle sue mani. Io passai la notte nel castello senza farmi scoprire e al mattino ritornai al fiume insieme al cammello, quando questo portò di nuovo le stoviglie a lavare. «Non credi, cara signora, che il dolore di questo principe sia più grande del tuo?» La principessa sospirò ancora più profondamente, quindi chiese alla giovane negra: «Domattina vieni a prendermi presto e portami al fiume, dopodiché seguiremo tutte e due il cammello. Ma di tutto ciò non fare parola con nessuno». Come promesso, il mattino successivo la giovane negra venne a prendere la figlia del re. Corsero al fiume e, quando videro arrivare il cammello sull'altra sponda, lo guadarono, osservarono le stoviglie che si lavavano da sole e seguirono quindi il cammello nel suo c a m m i n o verso i monti. Anche questa volta la roccia si aprì, cosicché le due giovani poterono entrare nel castello. Si nascosero dietro u n a tenda e si misero ad aspettare che l'uccello bianco e quello nero giungessero in volo e si immergessero nella vasca per fare il bagno. Osservarono gli uccelli trasformarsi in giovani e andare in u n a stanza dove aprirono il cofanetto dei gioielli. Ma quando il principe estrasse u n o per u n o i monili, questi cominciarono a ridere di cuore e a parlarsi con allegria. Sbalordito, il principe domandò: «Di che cosa ridete?». Ed essi risposero: «Ridiamo perché la nostra p a d r o n a è qui!». Il principe, però, non capiva il significato di queste parole e disse con tono addolorato: «Oh, se lei fosse qui, lei che è la più bella di tutte, colei che io tanto amo!». A questo p u n t o la figlia del re non potè più trattenersi e balzò fuori dicendo al giovane: «Essa è qui e ti ama!». Cad40
dero l'uno tra le braccia dell'altra e si scambiarono la promessa di matrimonio. La giovane negra abbracciò lo schiavo negro e anch'essi si scambiarono la promessa di matrimonio. Sette giorni e sette notti durarono i festeggiamenti delle nozze, e nessuno ha più sentito parlare di loro. Sottil guscio han le teiere ogni cruccio si dilegui! Se hai scolato già il bicchiere, va': il cammino tuo prosegui!
8. A G G E L A M U S H
C'erano u n a volta un marito e u n a moglie che avevano u n a b a m b i n a . Essa era così a m a t a e benvoluta che i genitori non erano mai capaci di rifiutarle alcun desiderio. Ma l'uomo, poveretto, non possedeva proprio nulla. Si avvicinava la Festa del Sacrificio, in cui ciascuno gusta la carne che Dio ha fatto avere agli uomini, ma il p o v e r u o m o non aveva pecore e si domandava che cosa avrebbe potuto sacrificare per l'occasione. Quando fu il giorno della festa, sul far del mattino egli invocò: «Nel n o m e di Dio, che Allah mi sia benevolo, giacché in Allah noi confidiamo!». Dopodiché uscì nel giardino che aveva davanti alla casa, e vi trovò u n a lepre. In un balzo le fu addosso, la catturò e, tenendola stretta in braccio, rientrò in casa. Andò da sua moglie e le disse: «Prendi questa lepre, che sacrificheremo per la festa!». La d o n n a prese la lepre, la ficcò sotto u n a pentola rovesciata e la nascose così. Dopo un po' arrivò da quelle parti la b a m b i n a tutta contenta: «Oggi, per la festa, ci sarà della carne da 41
mangiare!». Corse dal padre, gli baciò il capo e domandò: «Babbo, d o v e il nostro arrosto della festa?». Il p o v e r u o m o temette che la fanciulla potesse piangere; le rispose quindi: «Figliola, chiedilo a t u a madre!». E la b i m b a corse allegramente dalla madre, le baciò il capo e d o m a n d ò : «Mamma, dov'è il nostro arrosto della festa?». Anche la m a d r e temette che la figlia potesse mettersi a piangere il giorno di festa; le rispose quindi: «Figliola, chiedilo a tuo padre!». Allora la b i m b a tornò di corsa dal padre e pianse. Il p a d r e la zittì: «Fa' silenzio, b i m b a mia, n o n piangere!». Q u a n d o anche la m a d r e vide la piccola in lacrime, la chiamò a sé, e q u a n d o questa fu giunta, le disse: «Fa' silenzio, figlia mia, non piangere! Ti farò vedere io il nostro arrosto della festa!». Allora la piccola tornò allegra e ridente. «Va' un po' a vedere, b i m b a mia!» disse la madre. «L'arrosto della festa è là, in c a m e r a , sotto la pentola!» La fanciulla a n d ò nella stanza e sollevò un po' la pentola; ma q u a n d o vide la lepre si spaventò. Si fermò a guardarla, ma la lepre scappò via. Allora la m a m m a si mise a gridare e a inseguire all'aperto la fuggitiva; a sua volta, anche la b a m b i n a corse dietro alla m a d r e gridando. Bisogna sapere che a quel t e m p o tutte le cose del m o n d o avevano il dono della parola: potevano parlare le pietre, potevano parlare gli alberi, le strade: in breve, tutto ciò che vi era al mondo. Mentre la d o n n a inseguiva la lepre, questa correva lesta in avanti, e la donna le correva sempre appresso, finché si ritrovarono, lei e la figlia, in un luogo selvaggio. E r a o r m a i notte fatta. La lepre, intanto, era sparita. A questo p u n t o la donna disse alla figlia: «Arrampichiamoci su quest'albero, affinché gli animali selvatici n o n ci divorino!». Si a r r a m p i c a r o n o q u i n d i sull'albero e dalla cima tennero d'occhio i dintorni. 42
Verso mezzanotte udirono sotto di sé un fragore come di t u o n o , i n s i e m e a molte voci. P r o p r i o sotto quell'albero, infatti, un leone teneva lezione a tutti gli animali del mondo: le pantere, le iene e gli uccelli, in breve, tutti gli animali che vi erano. Questa lezione del leone aveva luogo sempre intorno a mezzanotte. Tra essi vi era anche u n o sciacallo; questi si sedette e g u a r d ò in aria. All'udire t u t t e q u e s t e voci, la b a m b i n a ebbe p a u r a e disse alla madre: «Mamma, devo f a r e pipì!». La m a d r e rispose: «Allora, figlia mia, falla almeno nella tua scarpa destra, che non è bucata, in m o d o che nulla goccioli in testa alle fiere!». Invece la b i m b a fece i suoi bisogni nella scarpa sinistra che aveva un buco. Così il liquido colò in basso, e u n a goccia cadde sul naso dello sciacallo. Quando gli cadde la goccia sul naso, questi prese ad a n n u s a r e fino ad accorgersi che sull'albero si trovava un essere u m a n o . Allora disse al leone: «Signore, qui c'è odore di uomini!». Il leone, che teneva lezione agli animali, lo sgridò: «Lazzarone, leggi, se non vuoi che q u e s t a n o t t e io ti mangi!». Lo sciacallo a n d ò avanti a leggere, ma poco dopo cadde nuovam e n t e su di lui u n a goccia. Di nuovo lo sciacallo disse al leone: «Signore, qui c'è odore di uomini!». Allora il leone ordinò: «Animali, fate silenzio!». Q u a n d o gli animali ebbero fatto silenzio, il leone chiese loro: «Chi di noi salirà sull'albero per vedere chi si trova in cima?». Nessun animale rispose, tranne la cornacchia, che disse: «Signore, volerò io lassù». Il leone ribatté: «Bene!». Allora la cornacchia volò fino alla cima dell'albero e, raggiunta la donna, la vide in lacrime. Le chiese: «Perché piangi? Quanto a te, è certo che le fiere ti divoreranno, ma io salverò t u a figlia e così p u r e il b i m b o che si trova nel t u o ventre, e anche la t u a m a m m e l l a destra!». Dopodi43
ché la cornacchia ritornò dal leone e gli disse: «Innanzitutto promettimi solennemente che mi consenti di esigere per me due cose, e solo allora ti dirò che cosa si trova sull'albero!». Il leone rispose: «Ti do solennemente la mia parola di concederti anticipatamente un diritto sulle due cose che tu nominerai sempreché ciò mi sia possibile». Allora la cornacchia riferì: «Signore, sull'albero si trova u n a donna incinta, che presto partorirà e che ha accanto u n a figlia ancora piccola». Allora il leone disse agli animali: «A chi riuscirà ad arrampicarsi su quest'albero e a p o r t a r m i giù la donna, darò ciò che desidera». Ma l'albero era altissimo e nessuno degli animali era in grado di arrampicarvisi t r a n n e un serpente, che disse al leone: «Io sono in grado di arrampicarmici». Il leone gli rispose: «Allora fallo!». Il serpente cominciò a salire e ben presto raggiunse la donna; a questo p u n t o le disse: «Cara signora, per favore, mi porga da succhiare il mignolo del piede!». La d o n n a gli porse il mignolo del piede e il serpente cominciò a succhiarlo, facendo risalire il veleno nel corpo della donna. La b a m b i n a chiese alla madre: «Mamma, fino a dove ti è arrivato adesso il veleno?». La m a d r e le rispose: «Figlia, mi è giunto fino alle ginocchia!». Dopo un po' la piccola tornò a domandare: «Mamma, fino a dove ti è arrivato adesso il veleno?». La m a d r e le rispose: «Figlia mia, mi è giunto fino all'ombelico». Per la terza volta la b a m b i n a domandò: «Mamma, fino a dove ti è arrivato adesso il veleno?». E di nuovo la madre rispose: «Figlia, mi è penetrato nel capo». Quindi la donna ammutolì e non disse più u n a parola; ma il serpente continuò a succhiarla, finché la d o n n a rese l'anima; a questo punto la disgraziata precipitò in basso in mezzo alle fiere che stavano ai piedi dell'albero, mentre il leone teneva loro lezione. Le belve si 44
rallegrarono che Dio avesse fatto loro dono di u n a preda così buona; balzarono addosso alla donna, la afferrarono, le lacerarono il ventre e vi trovarono dentro un bimbo. Allora la cornacchia si fece largo tra gli animali, e il leone, rivolgendosi a lei, disse: «Cornacchia, prenditi adesso ciò che avevi prenotato, come siamo rimasti d'accordo!». Al che la cornacchia si prese il neonato e staccò alla d o n n a la mammella destra, che mise in bocca al piccolo per farlo poppare. Dopo qualche t e m p o gli animali partirono, ciascuno diretto alla propria tana. Torniamo ora a occuparci della bambina. La cornacchia andò da lei portandole il bimbo che gli animali selvatici avevano strappato dal ventre della mad r e . La c o r n a c c h i a a i u t ò a s c e n d e r e a t e r r a la b a m b i n a , che se ne stava a n c o r a s e d u t a in c i m a all'albero, e le disse: «Prendi tuo fratello e va' via di qui! Ti spiegherò io quello che devi fare!». Quindi la b i m b a prese in braccio il fratellino e gli diede da succhiare il seno della madre morta. La cornacchia accompagnò la piccola e la precedette fino a un luogo selvaggio in cui si trovava un palazzo che risaliva al tempo dei tempi. Allora la cornacchia disse alla bambina: «Ti spiegherò che cosa devi fare! Adesso vieni qui e restaci, tu e il tuo fratellino! Tu però dovrai cominciare a rovistare in questo letamaio! Se troverai un chicco d'orzo, mangiatelo tu, ma se ne trovi u n o di frumento, dallo a tuo fratello! Se troverai u n a pagnottella d'orzo, mangiatela tu, ma se troverai u n a pagnottella di frumento, dalla a tuo fratello! Dovrai continuare così finché non ti sarai aperta un varco nel letame fino alla casa in cui vive un mostro, di nome Aggelamush!». Al che la b a m b i n a disse alla cornacchia: «Ti sono assai riconoscente, possa Dio concederti di ottenere ogni bene!». La c o r n a c c h i a replicò: «Vieni, piangi 45
finché le t u e lacrime n o n a v r a n n o r i e m p i t o quella buca, cosicché in essa io possa detergermi dal sangue che aderisce al m i o piumaggio!». La b a m b i n a disse a n c o r a : «Vieni!» e i n s i e m e alla c o r n a c c h i a andò a quella buca, in cui pianse tutte le sue lacrime, finché questa non ne fu completamente riempita. A q u e s t o p u n t o la c o r n a c c h i a si fece avanti, si tuffò nella buca e si deterse il sangue che aderiva al suo piumaggio. Quando si fu ripulita per bene, disse alla b a m b i n a : «Addio, abbi c u r a del t u o fratellino finché sarà lui in grado di esserti utile!». La fanciulla rispose: «Addio! Tu sei b u o n a come un padre e u n a madre!». E la cornacchia se ne tornò a casa. Da quel m o m e n t o in poi i due sventurati vissero in quello strano palazzo e la b a m b i n a si mise ben presto al lavoro. Prese il fratello, si recò al letamaio di cui le aveva parlato la cornacchia, e cominciò a scavare al suo interno. Quando trovava un chicco d'orzo se lo m a n g i a v a lei, q u a n d o invece trovava un chicco di f r u m e n t o lo dava al fratello; e lo stesso faceva q u a n d o le capitava di trovare u n a pagnottella d'orzo o u n a di frumento. Così essa finì il lavoro e si fece strada scavando fino ad Aggelamush. Quando lo raggiunse, scoprì che era ricoperto da u n a capigliatura lunga dieci braccia. Allora fuggì via prendendo con sé il fratellino e lo nascose in m o d o che Aggelam u s h non lo vedesse. Poi si mise a riflettere sul da farsi. Dopo aver riflettuto sulla propria situazione, tornò a stare nel luogo precedente. Quando però lei e il suo fratellino avevano fame, aspettava finché Aggelamush si fosse addormentato, quindi, mentre il mostro dormiva, gli rubava un po' di b u r r o , di miele e di farina, e a n c h e un secchio: portava tutto dal fratello, e insieme mangiavano. Col tempo, comunque, aveva studiato così a fondo Agge46
lamush, da conoscere le sue abitudini fin nei dettagli. Rimase quindi a vivere là. Ma ora vi voglio raccontare di questo Aggelamush, che genere di vita conduceva: Aggelamush possedeva un n u m e r o incalcolabile di pecore, cammelle e mucche, oltre a quantità enormi di frumento, orzo, burro, miele; in poche parole, Aggelamush possedeva ogni ben di Dio. Inoltre, egli aveva u n a particolarità: che qualunque cosa ordinasse, questa si realizzava immediatamente. Quando, per esempio, voleva mungere le sue pecore, gli bastava dire: «Mungetevi, mungetevi, mie pecore!». E le pecore si mungevano da sole. Oppure esclamava: «Mungetevi, mungetevi, m i e cammelle!» o: «Mungetevi, mungetevi, mie mucche!» e gli animali eseguivano. Se diceva: «Versati, versati dal secchio, latte!», ecco il latte versarsi da sé; se esclamava: «Agitati, agitati, otre del burro!», questo si agitava; oppure: «Rapprenditi, rapp r e n d i t i , burro!», q u e s t o si r a p p r e n d e v a . E t u t t o quello che Aggelamush ordinava ai suoi animali, essi lo eseguivano immediatamente. E r a anche solito dire alla ricotta: «Ricotta, staccati da sola dall'otre del burro!». Perché a mezzogiorno Aggelamush mangiava la ricotta. Questo era il genere di vita consueto di Aggelamush. La fanciulla lo osservò c o n t i n u a m e n t e fino a conoscere con assoluta precisione come si comportava. Cosicché, appena Aggelamush si addormentava, essa prendeva un secchio e vi metteva del b u r r o e della farina e con la pasta ottenuta faceva u n a specie di gnocco. Quando poi Aggelamush era immerso in un sonno profondo, prendeva del b u r r o e glielo spalmava su tutta la coda. Allorché al m a t t i n o Aggelam u s h si svegliava, si trovava sempre la coda spalmata di burro. Allora accendeva un fuoco, prendeva un ceppo di legno acceso, se lo portava alla coda e ogni 47
volta gridava: «Aspetta! - tuo padre sia maledetto g u a r d a che ti brucio! M e n t r e io d o r m o , tu, c o d a svergognata, te ne vai e mi consumi tutto il burro! Il b u r r o è solo p e r me, a n c h e il miele è solo per me, tutto quanto è solo per me!». La fanciulla ascoltava di nascosto tutte queste parole: le conosceva ormai con precisione. Una notte, q u a n d o Aggelamush si fu a d d o r m e n t a t o , tirò fuori un secchio e lo riempì di b u r r o e di farina; ne fece degli gnocchi, p e r la precisione ne fece dieci, e li p o r t ò a c c a n t o ad Aggelamush. Q u a n d o lo vide in p r e d a a un s o n n o p r o f o n d o , prese la pasta, u n o gnocco alla volta, e ne strofinò u n o sul naso, un altro sulla coda, un terzo sul fianco sinistro, e così via. Poi se ne tornò dal suo fratellino, che invece lasciò dormire. Per farla breve, la fanciulla ripetè più volte questo trattamento ad Aggelamush. Finché u n a mattina Agg e l a m u s h si svegliò e si ritrovò a n c o r a u n a volta completamente u n t o di pasta, scoppiò in un accesso d'ira, accese un fuoco e si tenne la coda nella fiamma. Allora il fuoco gli si appiccò a tutto il corpo producendo u n a grossa fiammata. La fanciulla osservò n a t u r a l m e n t e t u t t o con attenzione, e q u a n d o vide che Aggelamush andava a fuoco, gli gridò: «Paglia, paglia, Aggelamush!». Udendo queste parole, l'animale impazzito credette che il b u o n Dio gli stesse parlando. «Paglia, paglia, Aggelamush!» Corse quindi in tutta fretta al deposito in cui era conservata la paglia: anch'esso prese fuoco. Mentre il fuoco si appiccava a tutto quanto, la fanciulla corse a versare altro olio su di lui che già stava bruciando. Il suo fratellino aveva portato dell'acqua, ma lei gli sbarrò la strada e gettò via l'acqua e continuò a versare olio su Aggelamush finché questi non fu completamente carbonizzato. 48
Morto che fu Aggelamush, essa prese il fratello e si installarono tutti e due nella sua casa, mangiarono e bevvero. La fanciulla si rivolse agli a n i m a l i nello stesso identico m o d o usato da Aggelamush, ma nessuno di essi volle mungersi da sé. Allora si diede da fare lei, prese un secchio e li m u n s e con le proprie mani; prep a r ò da sé a n c h e il b u r r o e p a s c o l ò il b e s t i a m e . Q u a n d o il fratello fu un po' più cresciuto, fu lui a condurre al pascolo le pecore, i cammelli e i buoi di Aggelamush. Tutti questi animali il giovane li faceva uscire di p r i m a mattina in un unico gregge. Ma lui non era stolto, bensì piuttosto avveduto. Un g i o r n o la sorella gli disse: «Fratello m i o M o h a m m e d , se tu c o n d u c i al pascolo le pecore di p r i m a mattina, ti p r e p a r e r ò s e m p r e u n o gnocco di pasta e lo metterò in questa nicchia accanto al portone. Se tu, al ritorno dal pascolo, lo troverai ancora caldo, saprai che io sono in casa! Se invece lo troverai freddo, saprai che non sono in casa! E la casa si apre solo se io emetto dei trilli!». Il fratello le disse: «Sorella mia, n o n uscire di casa di giorno, affinché nessuno ti veda e ti porti via!». Il giovane conduceva quindi le pecore al pascolo e suonava il suo zufolo di canna. Quando alla sera faceva r i t o r n o a casa, cercava nel b u c o del m u r o ed estraeva il suo gnocco caldo. Poi gridava: «Sorella, emetti il tuo trillo, affinché la porta si apra!». La sorella emetteva il suo trillo e la porta si apriva; e così il giovane poteva riportare dentro il bestiame. Dopodiché la sorella emetteva un altro trillo e la porta si richiudeva. Un giorno la ragazza udì battere alla porta. Guardò giù dal tetto e vide un ebreo davanti alla casa. L'ebreo vendeva essenze profumate. Notò la fanciulla e quasi perse i sensi q u a n d o vide la bellezza di cui Dio l'aveva 49
dotata. Ora, la fanciulla disse all'ebreo: «Che cosa vendi, ebreo?». Egli rispose: «Signora, tutto quello che puoi desiderare ce l'ho a casa mia! Per me, ti chiedo soltanto di d a r m i da bere un po' di siero di latte». La ragazza gli rispose: «Sono senza chiavi di casa». Allora l'ebreo m o n t ò in groppa al suo asino e ritornò per la strada da cui era venuto. Bisogna sapere che questo ebreo era al servizio di un sultano. Ripartì d u n q u e da lì e ripercorse la strada da cui era venuto. Ben presto giunse al palazzo del sultano e si recò subito nella sala del consiglio, dove cominciò a gridare. Il sultano lo udì gridare e ordinò al visir: «Conducimi qui l'ebreo che grida in questo modo!». Allora il visir andò dall'ebreo e gli disse: «Va' dal sultano!». L'ebreo a n d ò con lui e q u a n d o fu al cospetto del sultano rimase in piedi davanti a lui. Allora il sovrano gli chiese: «Che cosa ti è successo, ebreo, da levare tutte queste grida?». «Come è vero Dio, mio signore, oggi ho visto un'autentica bellezza: da quando sono al m o n d o non mi è mai capitato di vederne u n a simile. Per la tua testa! N e m m e n o tu potresti avere u n a così bella figlia, o u n a d o n n a di tale bellezza!». Allora il sultano, meravigliato, disse all'ebreo: «Se tu riuscirai a procurarmela ti darò tutto quello che vorrai!». L'ebreo rispose: «Mio signore, ce la farò senz'altro, se tu me lo comandi!». Il sultano insistette: «Se me la porterai qui, ti darò tutto l'oro del mondo, e ti farò anche visir, e potrai mangiare e bere qui insieme a me». L'ebreo rispose: «Va bene, mio signore!». L'ebreo possedeva un asino che comprendeva tutto quello che il s u o p a d r o n e diceva. Dopo essersi p r o c u r a t o tutte le possibili essenze p r o f u m a t e di questo m o n d o e averle caricate sull'asino, se ne andò fino alla casa della fanciulla e lì si fermò. Disse allora all'asino: «Se ti ordino di non muoverti, mettiti a correre; ma se ti dico di correre, sta' fermo!». Quindi 50
aprì la cesta che aveva caricato sull'asino: dentro vi era ogni tipo di cose belle, di quelle che piacciono alle donne. Dopo avere aperto la cesta, l'ebreo bussò alla porta; allora la fanciulla lo guardò dall'alto. Appena vide la cesta decorata di seta per poco non svenne. Le chiese allora l'ebreo: «Signora, che cosa desideri? Quali sono i tuoi desideri?». «Ebreo,» disse la bella «desidero solo qualche essenza profumata.» Al che l'ebreo disse: «Signora, p o r t a m i però p r i m a un po' di siero da bere! Ti darò gratuitamente delle essenze». La fanciulla fece appena in tempo a sentir parlare di essenze p r o f u m a t e senza spesa che già accorreva con un secchio pieno di siero. Quindi gli disse: «Però la p o r t a di casa è c h i u s a e io n o n ho la chiave». L'ebreo replicò: «Per favore, signora, calami il siero legato ai tuoi capelli e io ti farò anche vedere come le d o n n e impiegano queste essenze!». La fanciulla sciolse i suoi lunghi capelli, vi assicurò il secchio e lo fece scendere fino all'ebreo. Giunto che fu il secchio fino all'ebreo, questi aprì del tutto la cesta, fece come se volesse bere e trascinò giù la fanciulla per i capelli, facendola cadere nella cesta. A questo punto richiuse la cesta sulla ragazza e disse all'asino: «Sta' fermo! La tua signora vuole scendere!». Allora l'asino prese a correre c o m e un f u l m i n e . Si diresse di corsa al palazzo del sultano e l'ebreo gli tenne dietro. Davanti al palazzo, l'asino si f e r m ò e q u a n d o fu giunto anche l'ebreo, entrò subito e si recò dal sultano. Costui aprì la cesta e scoprì la fanciulla che vi era dentro: u n a bellezza come quella di cui Dio l'aveva dotata, il sultano non l'aveva ancora mai vista, era bella come la luna e il sole! Il sultano sposò la fanciulla; q u a n t o all'ebreo, lo fece suo visir e questi mangiava e beveva presso di lui. Torniamo adesso col racconto al ragazzo! Quando 51
al t r a m o n t o r i p o r t ò a casa il b e s t i a m e , trovò u n o gnocco freddo. Chiamò la sorella; ma gli rispose solo un gatto: «Miao, miao! Tua sorella l'ha portata via il sultano!». Allora il poveretto cominciò a piangere: dove avrebbero dormito, adesso, lui e i suoi animali? Il giovane si rivolse agli animali e disse loro: «Miei cammelli e buoi! A chi sarà in grado di sfondare questa porta darò u n a grossa ciotola piena di grano!». Udito quello che diceva il giovane, ogni a n i m a l e a t u r n o prese la r i n c o r s a e si p r e c i p i t ò con la testa contro la porta. Ogni sforzo fu però vano, finché giunse il turno di un montone, tutto rognoso, magro e diarroico. Mentre cominciava a caricare, il giovane rideva e gli gridava: «I signori corridori tutti insieme non riescono a far nulla e pensi di combinare qualcosa tu, signor trottapiano!». Tuttavia il m o n t o n e fece r i s u o n a r e con la sua testa un bel "crac" nella porta e irruppe all'interno, fin nella corte. A questo p u n t o a n c h e il giovane entrò in casa, ma non vi trovò la sorella. Cominciò a piangere. Allora il gatto tornò a dirgli: «Tua sorella l'ha portata via il sultano!». Da allora il giovane continuò a vivere nella casa di Aggelamush per altri due anni. Ma trascorsi due anni, si mise in viaggio e, poiché era assai avveduto, p r e s e con sé un b a s t o n e d ' a r g e n t o e u n o d'oro, e inoltre un pettine d'oro e u n o d'argento. Si incamm i n ò e prese a girare il m o n d o alla ricerca della sorella. Cammina cammina, giunse a un fiume, in cui vi era un cammello morto, che era crepato di rogna! Estrasse allora il coltello e tagliò via dall'animale un pezzo di pelle, da cui ricavò u n a sorta di copricapo; fece in modo che esso gli coprisse del tutto la testa, così da s e m b r a r e un tignoso. Proseguì q u i n d i nel suo cammino e giunse a un altro fiume, nei cui pressi vi era u n a sorgente; qui vide quattro donne che si 52
lavavano la testa. Si diresse incontro a loro, e giunto che fu al loro cospetto si fermò lì, al di sopra delle donne, sul bordo della sorgente. Una delle donne lo apostrofò allora: «Cosa ti conduce qui, tignoso? Se il sultano ti vede, ti farà tagliare la testa!». Il giovane rispose: «Per favore, donne, datemi un pettine per pettinarmi!». Ma tutte gli spiegarono: «Non ti daremo il nostro pettine perché tu sei tignoso! Noi siamo le mogli del sultano Afàn. Abbiamo p a u r a di prenderci anche noi la tigna!». Tra le donne si trovava però anche sua sorella. Essa non lo aveva riconosciuto, ciononostante prese il suo pettine e glielo diede. Il giovane lo prese e si pettinò con esso; ma nel far ciò ruppe il pettine. Quand'egli lo ebbe rotto, le altre donne derisero quella che gli aveva dato il suo pettine, e le dissero: «Lo racconteremo al sultano!». Quando il giovane le sentì ridere in modo così malvagio, prese il suo pettine d'oro e lo diede alla donna (a sua sorella). Quando le altre donne videro che egli le aveva dato un pettine d'oro, gli gridarono tutte quante in coro: «Orsù, prendi anche i nostri!». Ma lui rispose: «Tanti saluti!». Quindi proseguì nel suo c a m m i n o e ben presto incontrò un gruppo di giovani che giocavano a palla in un c a m p o (una sorta di hockey su p r a t o ) . Tra di essi vi era il figlio del sultano. Quando M o h a m m e d fu giunto da loro e li vide immersi nel gioco, disse loro: «Ragazzi, chi di voi mi vuole dare il suo bastone per giocare a palla?». Come un sol uomo, coloro cui aveva rivolto la richiesta dissero: «No, no!». Unica eccezione fu un ragazzino che gli diede il suo bastone. Con esso M o h a m m e d diede un colpo molto forte, col risultato di spezzarlo. Quando ebbe rotto il bastone del ragazzino, gli altri si misero a correre tutti insieme gridando: «Lo diremo al sultano!» e derisero il ragazzo, che stava già per scoppiare in lacrime. Allora il tignoso tirò fuori il suo ba53
stone d'oro e lo diede al piccino. Quando videro ciò, tutti gli altri ragazzi gridarono in coro: «Ecco qui, tieni!», ma M o h a m m e d per tutta risposta disse: «Tanti saluti!». Fece quindi ritorno a casa e vi rimase per un certo tempo. Un bel giorno se ne a n d ò nello spiazzo che sovrastava la sorgente che a b b i a m o già visto, e salì su un albero. Ben presto giunse u n a schiava di sua sorella per attingere acqua. In piedi sul bordo della sorgente, d e p o s e la b r o c c a p e r r i e m p i r l a d ' a c q u a . All'improvviso la negra scorse il volto del giovane riflesso in mezzo all'acqua e credette che quel bel viso fosse il suo. Perciò disse tra sé: "Ho un aspetto così attraente, e p p u r e sono solo u n a schiava!". Così dicendo sollevò in alto la brocca dell'acqua intenzionata a fracassarla, q u a n d o il giovane che stava sull'albero le gridò: "Non romperla, Massuda!». A questo p u n t o la schiava guardò in alto e vide il giovane; il suo viso grazioso era proprio uguale a quello della sua padrona, che era la moglie del sultano. Allora fu presa dalla paura. Il giovane scese dall'albero e c h i a m ò la schiava: «Massuda!». Essa rispose: «Ti ascolto, mio signore!». Il giovane proseguì: «Quando, a casa, versando l'acqua, sarai arrivata a metà della brocca, di' alla tua padrona di versare lei il resto!». «Va bene, mio signore» disse la schiava. E il giovane aggiunse: «Se Dio vuole d o m a n i mi incontrerai di nuovo qui a c c a n t o all'albero». Il giovane tornò alla sua dimora e anche la schiava partì e, giunta a casa, prese il recipiente e cominciò a vuotarlo. Arrivata a metà della brocca, chiamò la sua padrona e le disse: «Padrona, vieni, versa tu l'acqua rimasta!». La donna si meravigliò che la serva le avesse detto di versare l'acqua da sé. Prese comunque la brocca e versò l'acqua restante. Dalla brocca 54
cadde f u o r i l'anello di suo fratello; essa lo prese e scoppiò in lacrime. Ma la schiava cominciò a dirle: «Sta' tranquilla, padrona! Non piangere! Se vuoi rivedere tuo fratello, te lo porterò domani». La d o n n a udì le parole della schiava, la baciò sul capo e le disse: «Se farai in m o d o di p o r t a r m e l o qui senza che n e s s u n o lo veda, ti r e n d e r ò la libertà in q u e s t o e nell'altro mondo!». Quando fu il momento, la schiava prese u n a gerla e disse alle c o m p a g n e : «Vado a raccogliere del fieno». Dopo che ebbe raggiunto la sorgente e vi ebbe trovato il giovane, tirò fuori u n a bracciata di fieno. Si accostò quindi al giovane, lo mise nella gerla, tornò ad appoggiarvi sopra il fieno e si pose la gerla sulle spalle, e così riuscì a introdurre il giovane nel palazzo. Qui lo accolse la sorella e lo nascose in u n a stanza sotto un mucchio di lana. Gli diede da mangiare, ma viveva sempre nel timore che il sultano lo scoprisse e gli facesse tagliare la testa. La sorella del giovane, dopo che l'ebreo l'aveva rapita dal palazzo di Aggelamush, aveva sposato il sultano e gli aveva partorito due figli. Essi erano ancora piccoli, ma sapevano già un po' parlare. Così, quando un giorno il giovane strisciò fuori dalla lana sotto la quale lo teneva nascosto la sorella, i due bimbi lo videro e chiesero alla m a m m a : «Chi è quello là sotto la lana?». Essa rispose: «Bambini, è vostro zio!». Un giorno il sultano si intratteneva con i suoi figli. Mentre giocavano, il più piccolo gli disse: «Papà!». «Sì, che c'è?» «Lo tio, lo do totto la lana!» Il sultano, un po' sconcertato, chiese: «Cosa dice il piccino?». «Cosa vuoi che dica...» intervenne f r e t t o l o s a m e n t e la moglie. «Continua a giocare con i bambini!» Ma il sultano si impuntò: «Mi devi spiegare che cosa vuole dire il piccino!». Allora la moglie si fece vicino al sult a n o e gli disse: «Se p r i m a mi dai la t u a p a r o l a d'onore che non gli accadrà nulla, ti spiegherò a chi 55
si riferiva il bambino!». Il s u l t a n o glielo p r o m i s e : «Non gli succederà nulla che n o n possa accadere a me stesso». La moglie un po' fu spaventata da queste parole, un po' fu contenta per il fratello; baciò il capo del sultano e gli disse: «Caro marito, è arrivato mio fratello!». «Conducimelo qui!» disse il sultano. «Deve essere il b e n v e n u t o e deve trovarsi c o m e se fosse a casa sua!» Allora il giovane strisciò fuori dalla lana e il sultano lo potè vedere bene: la bellezza di cui Dio aveva dotato il giovane eguagliava quella del giacinto o della perla! Il giovane baciò il sultano sul capo, e questi gli disse: «Tu potrai condurre i cammelli al pascolo!». Bisogna p e r ò s a p e r e che il giovane s u o n a v a lo zufolo di c a n n a in un m o d o meraviglioso: chi lo udiva non poteva fare a m e n o di mettersi subito a piangere. Il giovane portava dunque al pascolo i cammelli del s u l t a n o . Dopo averli c o n d o t t i all'aperto, suonava il suo zufolo: ma non appena gli animali lo sentivano suonare non potevano più andare avanti a b r u c a r e ; i c a m m e l l i n o n e r a n o più in g r a d o né di mangiare né di bere per il dolce suono dello zufolo. Quando, al calar del sole, il giovanotto riportava a casa i cammelli, questi s e m b r a v a n o s e m p r e secchi come un chiodo; ciò era dovuto alla fame, perché dimenticavano di mangiare per via delle melodie del giovane. Un giorno, quando egli li riportò a casa, il sultano li vide e chiese: «O M o h a m m e d , come m a i questi cammelli sono così secchi? S e m b r a che abbiano mangiato del veleno!». Il giovane gli rispose: «Mio signore, in verità, io li conduco là dove vi è tanto cibo!». Un giorno il sultano ordinò al giovane: «Vieni, tagliami i capelli!». Il giovane si avvicinò per tagliargli i capelli, e scoprì che sul capo il sultano aveva due corna, e se ne meravigliò assai. Il mattino dopo portò di 56
buon'ora i cammelli in aperta campagna e si mise a suonare lo zufolo accanto all'apertura di u n a cisterna, lo zufolo gli cadde giù nella cisterna e cominciò, di laggiù, a suonare la stessa canzone che Mohammed era solito cantare, le cui parole dicevano: "Il sultano ha le corna!". Ma il giorno in cui il sultano si era fatto tagliare i capelli dal giovane, gli aveva spiegato: «Nessuno, al di fuori di te, sa che ho le corna; se tu lo racconterai a qualcuno, ti farò tagliare la testa». Il giovane, però, q u a n d o si trovava da solo in aperta campagna e suonava lo zufolo, aveva sempre cantato: "Il sultano ha le corna!". Questa volta era seduto sul b o r d o della c i s t e r n a e stava g u a r d a n d o giù q u a n d o lo zufolo di c a n n a gli era scivolato dentro. Senza interrompersi, esso era a n d a t o avanti a suonare la canzone "Il sultano ha le corna!". E purtroppo nella cisterna era impossibile calarsi. E sul fondo lo zufolo continuava a s u o n a r e via via s e m p r e più forte la vecchia canzone: "Il sultano ha le corna!". Il sultano disse intanto all'ebreo, suo visir: «Vieni! Andiamo u n a b u o n a volta a controllare se è vero che il giovane p o r t a a pascolare i cammelli p r o p r i o là dove c'è cibo in abbondanza». Andarono e giunsero ben presto alla cisterna da cui lo zufolo faceva risuonare la sua canzone. Trovarono i cammelli che danz a v a n o i n t o r n o alla cisterna: n o n b r u c a v a n o , m a avevano orecchio solo per la melodia. In quel mom e n t o anche il sultano udì la canzone dello zufolo, che fuoriusciva dal pozzo e, costernato e accasciato, scoppiò anche lui in lacrime. Chiamò a sé il giovane e gli disse: «Se non fosse per la promessa che ho fatto a tua sorella, ti farei tagliare la testa!». Il sultano tornò a casa. Fece quindi venire l'ebreo. Per incarico del sultano, questi si calò nella cisterna e recise la canna. Ma dopo qualche tempo essa tornò a germogliare e ricominciò la sua canzone, cantando 57
come aveva fatto in precedenza. Allora l'ebreo si calò un'altra volta, recise la c a n n a e questa volta versò della pece sul m o n c h e r i n o . Questa volta esso n o n tornò più a germogliare. Un giorno il sultano si rivolse alla moglie, la sorella del giovane, con queste parole: «Cara, ho bisogno di qualcuno che mi tagli i capelli». Di rimando, essa disse: «Chi l'ha già fatto u n a volta può ben farlo un'altra volta». Egli rispose: «È stato tuo fratello Mohammed, ma temo che si metta di nuovo a cantare: "Il sultano ha le corna!"». Ma lei disse: «Affida a lui l'incarico, visto che lui sa già tutto». «Fallo chiamare!» ordinò il sultano. Allora la moglie andò dal fratello e gli disse: «Se, mentre tagli i capelli al sultano, arrivi vicino al suo collo, sgozzalo e non avere p a u r a di nessuno!». Allora il giovane si mise all'opera, prese il rasoio e lo affilò. Lo rese così tagliente che poteva tagliare perfino le pietre. Si recò quindi dal sultano e cominciò a tagliargli i capelli. Giunto alle sue corna, si meravigliò n u o v a m e n t e del f a t t o che avesse le c o r n a . Proseguì con calma a tagliare i capelli, ma q u a n d o arrivò all'arteria giugulare vi affondò con forza la lama e sgozzò il sultano. Quindi prese l'ebreo, lo stesso che era diventato visir, e gli tagliò la testa. Fu così che il giovane M o h a m m e d uccise il sultano e il visir e divenne a sua volta il sultano Si Mohammed. Così ha lasciato scritto la gente dei tempi antichi, e io l'ho raccontato a mia volta. Salute a tutti! 9 . L A D O N N A C H E V E N N E R A P I T A D A U N JINN
C'era u n a volta un ragazzo povero, che sognò di sposare u n a bella fanciulla, e q u a n d o si svegliò era così c o n t e n t o del sogno che partì i m m e d i a t a m e n t e per trovare la moglie a lui destinata. Viaggiò a lungo per 58
tutto il paese, e alla fine la trovò nella figlia di u n a coppia di poveri contadini. La riconobbe subito e la trovò così bella che a n d ò dall'uomo a chiederla in moglie. Quello acconsentì e così si c e l e b r a r o n o le nozze. Qualche tempo dopo, portò con sé la giovane sposa al suo paese e prese a vivere con lei felice e laborioso nella sua piccola capanna. Un giorno però ebbero un litigio, e u n a parola tirò l'altra. La moglie r i m p r o v e r a v a al m a r i t o di essere così povero, e il m a r i t o replicava ricordandole che a n c h e lei era figlia di povera gente. Continuando a litigare, venne la sera e i due non avevano ancora mangiato. Allora la moglie mise u n a pentola d'acqua sul fuoco per prep a r a r e un semolino, ma quando l'acqua cominciò a bollire, l'alterco ricominciò, e la d o n n a uscì dalla p o r t a con la pentola e versò fuori l'acqua bollente. Subito essa venne afferrata e portata via da un jinn. L'uomo si pentì allora di aver litigato con la sua a m a t a sposa, e fece fagotto, intenzionato a percorrere il paese in lungo e in largo. Cercò la moglie in tutte le città e tutti i villaggi, senza riuscire a trovarla da nessuna parte. Alla fine capitò in un territorio desertico e si smarrì. Si sedette sulla sabbia, meditando tristemente sul proprio destino. Quand'ecco sop r a g g i u n g e r e un s a n t o e r r a b o n d o , che gli chiese quali fossero le sue preoccupazioni. Ed egli gli raccontò il suo errore e come la moglie gli fosse stata rapita da un jinn. Il santo tracciò dei segni nella sabbia, quindi disse: «Recati all'albero sacro del re degli spiriti» e gli descrisse con precisione la località «e chiedi a lui, allora saprai se ti sarà dato di rivedere tua moglie!». L'uomo si mise subito in viaggio e dopo pochi giorni giunse a quell'albero. Ai suoi piedi era seduto un sant'uomo, che giocava con pietre bianche e nere. Do59
po un po' alzò lo sguardo e chiese al suo visitatore che cosa desiderasse. «Cerco mia moglie, che è stata rapita da un jinn» disse il p o v e r u o m o . Allora il santo seguitò a giocare con le pietre, e dopo molto tempo rispose: «Rimani qui questa notte. Domattina presto giungerà qui un uccello, cui non dovrai rivolgere la parola. Saligli in groppa e vola via con lui. Egli ti condurrà all'assemblea degli spiriti, e là potrai allora avere notizie sulla tua sventura, forse il re deciderà a tuo favore, forse a tuo sfavore. Se avrai successo e potrai tornare con tua moglie, non dovrai ricompensarmi, se non avrai successo, non dovrai maledirmi». Il p o v e r u o m o dormì quella notte ai piedi dell'albero, e quando si ridestò, davanti a lui stava un uccello. Senza aprire bocca gli salì in groppa e si fece portare via. In m e n che n o n si dica giunsero in un castello dove erano radunati tutti gli spiriti del mondo. Il p o v e r u o m o si presentò davanti al trono del re e disse: «Io sono un p o v e r u o m o e ho p e r d u t o mia moglie, un jinn me l'ha rapita». Il re rivolse allora la d o m a n d a a tutti gli spiriti: «Chi di voi ha rapito la moglie di quest'uomo?». Un jinn si fece avanti e disse: «Sono io che l'ho rapita». «Perché l'hai fatto?» chiese ancora il re. «Nostro sire, ascolta: quella donna ha rovesciato dell'acqua bollente nell'oscurità, e nel fare ciò ha colpito i miei figli, che si sono scottati. Così è incorsa nella giusta punizione.» Allora il re fece p o r t a r e la d o n n a al suo c o s p e t t o e le chiese: «Perché hai buttato via dell'acqua bollente nell'oscurità? Non hai visto che i figli di questo jinn vi stavano giocando?». «No» rispose la d o n n a . «Per noi i jinn sono invisibili, sia di giorno sia di notte. N o n potevo sapere di far del male a qualcuno.» Allora il re disse: «La donna è innocente. E tu,» disse rivolto al jinn «tu non devi lasciar giocare i tuoi figli di nascosto nelle vicinanze degli uomini!». 60
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Fu così che l'uomo potè riprendersi la moglie. Salirono in g r o p p a all'uccello e vennero subito ritras p o r t a t i a casa. Un a n n o d o p o il m a r i t o disse alla moglie: «Facciamo un pellegrinaggio fino a quel s a n t ' u o m o che se ne sta sotto l'albero, per ringraziarlo della nostra fortuna!». Si recarono dunque in pellegrinaggio fino a quell'albero, ma non vi trovarono il santo. Sulla via del ritorno incontrarono invece il santo errabondo che per primo aveva dato il consiglio di andare fino a quell'albero. Il p o v e r u o m o gli raccontò di come avesse voluto ringraziare il santo, ma l'errabondo gli disse: «Non avresti dovuto farlo. Nel preciso istante in cui tu hai preso questa decisione, quell'uomo è stato ucciso dal jinn i cui figli erano stati scottati».
10. L ' U O M O C O N L A P I P A
Un pescatore aveva cinque figli e u n a bellissima figliola. Un giorno la figlia scomparve, e nessuno sapeva dove potesse essere. Allora il pescatore disse ai suoi figli: «Mettetevi in c a m m i n o e cercate vostra sorella!». I cinque fratelli andarono sulla riva del mare, si sedettero su u n o scoglio e si misero a riflettere sul da farsi. Trascorsero là tre giorni. Il maggiore dei fratelli era un f u m a t o r e di kif, e ogni giorno sminuzzava il suo mazzetto di canapa e se lo f u m a v a nella pipa. Orbene, mentre costui, seduto così sullo scoglio, stava sminuzzando il mazzetto di canapa sopra un tagliere, i semi, che non servono al fumatore, caddero in m a r e e un grosso pesce fece un balzo per acchiapparli e li divorò. Quando giunse dagli altri pesci, essi dissero: «Dov'è che sei diventato così grasso? Dove hai trovato un nutrimento così buono?». Allora il grosso pesce fece giurare agli altri pesci che gli avreb61
bero obbedito, e dopo che essi ebbero giurato li condusse presso lo scoglio su cui era seduto il figlio del pescatore, il quale anche il giorno dopo tornò a sminuzzare il mazzetto di canapa lasciando cadere i semi in mare. I pesci scattarono per afferrare i semi di canapa e ne f u r o n o così entusiasti che u n o di loro disse: «Sveleremo al giovanotto dove potrà ritrovare la sorella». Il pesce grande fu d'accordo e così disse al ragazzo del pescatore: «Ascoltami, giovane pescatore, ti devo dire u n a cosa!». «Ti ascolto.» «Tua sorella è stata rapita da un ifrit che vive in alto, lassù, sulle montagne, dentro u n a caverna.» Allora il giovanotto ringraziò e riprese a tagliare la sua c a n a p a in m o d o da poterla f u m a r e , dopodiché se la f u m ò contento. II terzo giorno convocò i suoi fratelli e raccontò loro quello che il pesce gli aveva svelato. Ma i fratelli risero, e il s e c o n d o di età gli disse: «In te p a r l a il kif!». Tuttavia, dal m o m e n t o che non avevano niente di meglio da proporre, decisero c o m u n q u e di andare in m o n t a g n a . Sellarono i loro muli, presero con sé delle provviste e partirono. Dopo aver cavalcato per molti giorni addentrandosi sempre più nel deserto, i muli non ne poterono più di affrontare senza nutrimento i difficoltosi sentieri montani, e si dissero tra loro: «Scrolliamoci di sella i nostri cavalieri, a b b i a m o già f a t t o fin troppo!». Il maggiore udì queste parole e mise sull'avviso i fratelli, ma questi si limitarono a ridere, dicendo: «In te parla il k i f ! ». A u n a brusca svolta della strada, i muli fecero cadere di sella i loro cavalieri, tranne il maggiore, che scese da solo di sella. Lamentandosi per il dolore, i ragazzi si precipitarono verso u n a caverna e vi si riposarono tre giorni. 62
Il maggiore riprese a tagliuzzare il suo mazzetto di canapa, lasciando distrattamente cadere i semi intorno a sé. Questo gesto fu visto da due tortore che vivevano nella caverna, le quali m a n g i a r o n o i semi di canapa e presero a parlare tra loro. Una disse: «Lo sai che l'ifrit ha preso u n a nuova fanciulla?». «No» disse l'altra. «Dove la tiene prigioniera?» «La tiene in quella grotta, su quel monte lassù.» Il maggiore finì di tagliare la c a n a p a e si fece la sua pipata, dopodiché si distese per riposarsi. Il giorno dopo disse ai suoi fratelli: «Lassù, in quel monte, vi è u n a caverna, dove vive l'ifrit che tiene prigioniera nostra sorella». Ma i fratelli dissero di nuovo: «In te parla il kif!». Allora il giovanotto disse: «Datemi la sciabola di mio padre, ucciderò da solo l'ifrit!». Essi gli diedero la sciabola e il giovanotto si a r r a m p i c ò sul monte e penetrò nella caverna. Sulla porta della caverna incontrò u n a fanciulla, che gli disse: «Che Dio ti aiuti, dove vuoi andare?». Egli rispose: «Cerco l'ifrit e voglio ucciderlo!». Al che la fanciulla rispose: «Tornatene indietro, invece, perché l'ifrit è più potente di qualunque essere umano». Ma il giovanotto le mostrò la spada rilucente e la fanciulla si fece da parte e gli aprì la porta. Egli entrò e dopo un tratto di strada al buio si imbatté in u n a seconda porta, davanti alla quale, di nuovo, vi era u n a fanciulla, che gli chiese: «Che Dio sia con te, dove stai andando?». Egli rispose: «Dove sta l'ifrit, voglio ucciderlo!». Essa lo mise in guardia da quell'essere possente, ma il giovanotto sollevò alta la sua spada scintillante, ed essa arretrò e lo fece passare per quella porta. La stessa cosa si ripetè altre tre volte, e sull'ultima porta a riceverlo fu sua sorella, che, piangendo, gli disse: «Fuggi, caro fratello, perché l'ifrit ti ucciderà!». 63
Ma il giovanotto le fece vedere la spada del padre e disse: «Dov e colui che ti ha rapita?». Allora essa lo fece passare e gli fece vedere l'ifrit, che dormiva. Poi aprì u n o sportello nella parete e ne estrasse la spada deìl'ifrit, dicendo al fratello: «Solo con questa sua spada potrai uccidere l'ifrit. Prendila!». Il giovanotto a f f e r r ò la s p a d a scintillante e staccò un braccio all'ifrit. Quest'ultimo lanciò un grido e ordinò al giovanotto di staccargli anche l'altro braccio, ma lui n o n lo fece p e r c h é sapeva che se avesse fatto così l'ifrit sarebbe sopravvissuto. In questo modo, invece, n o n sfuggì alla morte per dissanguamento. Allora il giovanotto prese per m a n o la sorella e risalì rapidamente con lei verso l'uscita. Per strada si unirono a loro le cinque fanciulle che erano a guardia delle porte. All'imboccatura della grotta erano in attesa i fratelli che, a un suo richiamo, calarono u n a fune. Egli vi assicurò per p r i m a la sorella, essi la tirarono su e f u r o n o molto contenti. Poi egli li richiamò ma essi n o n volevano p i ù c a l a r e la corda, f i n c h é egli n o n gridò loro: «Qui ci sono ancora molte altre belle cose che potete tirare su!». Allora essi c a l a r o n o nuovam e n t e la fune ed egli vi assicurò un'altra fanciulla, che essi tirarono su r i m a n e n d o estasiati per la sua bellezza. Si misero però a litigare su chi dovesse tenersela, finché egli gridò: «Calate la fune, qui ci sono altre cose belle!». Allora gli calarono ancora la fune, cui egli assicurò la fanciulla successiva, che fu anch'essa tirata su. Proseguirono in questo m o d o finché fu rimasta u n a sola fanciulla, quella che egli aveva incontrato alla p r i m a porta. Essa gli disse: «Non fidarti dei tuoi fratelli! Ecco, prendi il mio anello, e q u a n d o lo girerai, io penserò a te. Un giorno ci sposeremo». Il giovanotto si mise l'anello al dito e assi64
curò alla f u n e la fanciulla, poi i fratelli la sollevarono. Quindi chiesero: «Ce ancora qualcosa laggiù?». «Sì» gridò lui. «Qui ci s o n o a n c o r a oro, a r g e n t o e pietre preziose!» Allora calarono ancora molte volte la fune ed egli vi assicurò tutti i tesori che potè trovare nella caverna. Alla fine egli aveva fatto piazza pulita, e i fratelli avevano issato tutto. Allora egli gridò: «È tutto, adesso tiratemi su!». Ma essi non calarono la fune e se ne andarono. Il giovanotto si mise a sedere, tirò fuori la pipa e f u m ò qualche boccata, finché, tranquillizzatosi, fu in grado di riflettere. Ripensando per bene alla propria situazione, osservò che la fanciulla che gli aveva dato l'anello gli aveva parlato con sincerità, poiché gli aveva detto di stare attento ai fratelli. Si ricordò allora dell'anello che costei gli aveva dato, lo rigirò e pensò a lei. Immediatamente gli apparve davanti un jinn che gli chiese quali fossero i suoi ordini. «Fammi risalire alla superficie!» disse il giovanotto, e istantaneamente venne sollevato e si ritrovò seduto sulle pendici del monte su cui era salito giorni prima. Dei suoi fratelli non vi era più traccia: avevano sellato in tutta fretta le bestie ed erano ripartiti verso casa insieme alle fanciulle e ai tesori. Ciò indispettì assai il giovanotto, a tal punto che non volle più tornare a casa, ma proseguì in un'altra direzione. Camminò a lungo, finché giunse nei pressi di u n a g r a n d e città. Qui i n c o n t r ò un p a s t o r e e s c a m b i ò i suoi vestiti con lui, quindi gli diede la sua spada e p r e s e in c a m b i o u n a p e c o r a . Si r e c ò al t o r r e n t e , sgozzò la pecora, ne ripulì gli intestini e se li avvolse intorno al capo, in m o d o che nessuno vedesse i suoi lunghi capelli. In questo misero abbigliamento e con l'aspetto di un tignoso, entrò quindi in città. Si recò dai fabbricanti di dolci e chiese al capo della corpo65
razione se avesse del lavoro da dargli. Costui disse: «Oh, povero me, n o n h o a b b a s t a n z a d a f a r e p e r riempire la giornata e tu vorresti anche lavorare per me?». «Non sarà necessario che tu mi paghi» disse il giovanotto. «Dammi solo u n a ciambellina da ogni vassoio, mi accontento di questo.» Allora il pasticciere fu d'accordo e assunse il giovanotto. Alla fine della giornata di lavoro, quando il fornaio era già tornato a casa, il giovanotto, che era rimasto a dormire nel negozio, cominciò a f u m a r e il suo kif. Dopodiché prese pasta e zucchero, spezie e uvette e s p e r i m e n t ò molte nuove idee sul m o d o di ottenere dei dolci prodotti da forno. Il giorno successivo il pasticciere ritornò al negozio, si stupì del bel lavoro, mise tutti i dolci nel forno e quando f u r o n o ben cotti li vendette con grande guadagno. In seguito a ciò ottenne u n a tale folla di clienti che la voce si sparse ovunque fino a giungere all'orecchio della figlia del sultano. Un giorno essa inviò al negozio la sua schiava negra con un vassoio di paste con l'ordine di farsele cuocere i m m e d i a t a m e n t e . La schiava si fece largo nella fila dei clienti che aspettavano e si presentò dir e t t a m e n t e al g i o v a n o t t o con la tigna e gli disse: «Cuocimi subito queste!». Il giovanotto le diede un sonoro ceffone e la m a n d ò via. Allora il padrone del forno cominciò a lamentarsi: «Cos'hai fatto! Per me è finita! Hai schiaffeggiato la schiava della principessa!». «Va bene così» rispose il giovanotto. «Non ti preoccupare, vedrai che ce ne verrà del bene!» Quando la schiava fu di ritorno al palazzo, la principessa le chiese perché non avesse adempiuto l'incarico. Allora la schiava raccontò come erano andate le cose. Quindi la principessa le chiese: «C'era u n a coda di gente in attesa?». «Sì» rispose la schiava. «E tu non hai aspettato, come si conviene?» proseguì la 66
principessa. «No» ammise la schiava. Allora la principessa le appioppò un secondo ceffone, questa volta sull'altra guancia, e la congedò. Quando fu notte, si recò di soppiatto alla bottega del fornaio e, g u a r d a n d o attraverso le fessure della porta, vide il giovanotto che si toglieva dal capo la parrucca di intestini di pecora e lasciava liberi i suoi lunghi capelli. Si i n n a m o r ò di lui e ritornò in fretta al palazzo. Si recò subito dal padre e gli disse: «Caro padre, tu non hai figli maschi ma solo noi, cinque figlie. Se dovessi morire, nessuno ti succederebbe sul trono e il disordine regnerebbe nel tuo reame. Sposaci a cinque uomini dabbene, dopodiché potrai scegliere tu stesso tra questi il tuo successore!». Il sultano chiese tempo per riflettere, quindi disse alla figlia, che era la più piccola e la sua preferita: «Mi hai dato un b u o n consiglio. Domani annuncerò che m a r i t e r ò le mie figlie e che tutti gli u o m i n i in condizione di sposarsi dovranno ritrovarsi nella mia sala del trono. Quindi potrete scegliere voi stesse, figlie mie, il vostro sposo». E così fu fatto. Il mattino successivo in tutte le case dei più ricchi, dei ministri e dei giudici, cominciò u n a festosa eccitazione; dovunque i migliori figlioli venivano rivestiti con abiti di festa e condotti al palazzo del sultano. Quando fur o n o tutti r a d u n a t i nella sala del trono, il s u l t a n o diede u n a mela e un fazzoletto a ciascuna delle sue cinque figliole e disse: «Colui cui darete il vostro fazzoletto e la vostra mela sarà il vostro sposo». Allora gli u o m i n i passarono in lunga fila davanti alle cinque principesse, e u n a dopo l'altra le principesse diedero la mela e il fazzoletto all'uomo di loro scelta. Solo la principessina più giovane conservava ancora mela e fazzoletto, perché il garzone del fornaio non era tra gli aspiranti. Quando il sultano se ne accorse, chiese alla figlia 67
da che cosa dipendesse, ed essa rispose: «Oh, caro p a d r e , fai p o r t a r e qui dai vicoli della città tutti i mendicanti, fannulloni e tignosi, p u ò darsi che tra loro trovi colui che sposerò!». Dal m o m e n t o che il sultano amava moltissimo la figlia, esaudì il suo desiderio, per quanto strano fosse. Le sue guardie dovettero d u n q u e andare in giro per la città a raccattare tutti i mendicanti, gli storpi, i fannulloni e i giovanotti male in arnese, e così buss a r o n o a n c h e alla p o r t a del fornaio. Costui si spaventò moltissimo, perché credeva di essere chiamato a rispondere del gesto insolente del suo aiutante, e in effetti, appena aprì la porta, le guardie afferrarono il giovanotto e lo p o r t a r o n o in fretta a palazzo. Egli li seguì impaurito, per vedere che cosa sarebbe successo al suo abile aiutante. Dopo che t u t t i i m e n d i c a n t i e gli storpi f u r o n o p o r t a t i al cospetto della principessa, t r a s c i n a r o n o davanti a lei a n c h e il tignoso, ed essa lo riconobbe immediatamente e gli diede il suo fazzoletto e la sua mela. Furono quindi celebrate le quintuplici nozze. Ma gli altri q u a t t r o generi del sultano disprezzavano il tignoso e non volevano avere nulla a che fare con lui. Tuttavia, il sultano si a m m a l ò , e la sua malattia continuava a peggiorare. Convocò i suoi visir e chiese loro quale medicina lo potesse guarire. Essi dissero: «Invia i tuoi cinque generi in missione e fatti port a r e un rimedio!». Allora il s u l t a n o c h i a m ò i suoi generi e li incaricò di procurargli la medicina capace di risanarlo. Essi dissero: «Signor padre e nostro sovrano! Ti porteremo questo rimedio, ma permettici di partire senza questo tignoso. Egli se ne a n d r à da solo per la sua strada!». Il sultano fu d'accordo. Il giovanotto si mise a f u m a r e la pipa in santa pace, quindi rigirò l'anello e al jinn che gli apparve ri68
chiese: «Portami il rimedio che può risanare il sultano!». Il jinn disse: «Subito, mio signore e padrone!» e in un batter d'occhio gli portò la medicina. Quando i quattro cognati fecero ritorno, dopo un viaggio lungo e infruttuoso, il giovanotto si portò davanti alla città, si fece dare dal jinn vesti sontuose e un bel destriero, e a n d ò incontro ai quattro. Incontrandosi, si scambiarono le formule di saluto, dopodiché il giovanotto chiese ai suoi cognati - che non lo avevano riconosciuto, perché si era tolto la parrucca di intestini - donde venissero e che cosa recassero con sé. Al che essi presero a lamentarsi dell'insuccesso, e il giovanotto ascoltò ogni cosa. Quindi disse: «Se mi date i fazzoletti che vi sono stati dati dalle vostre spose, vi darò io il rimedio che cercate». I q u a t t r o trovarono soddisfacente lo scambio e gli d i e d e r o i fazzoletti in c a m b i o della m e d i c i n a . La p o r t a r o n o quindi al sultano, che b e n presto ne fu guarito. Un a n n o dopo il sultano si a m m a l ò nuovamente, si trovò un'altra volta in pericolo di vita, e richiese u n a nuova medicina. Anche questa volta inviò alla ricerca i quattro generi, e il tignoso non potè andare con loro. Ma dal m o m e n t o che a n c h e questa volta essi tornarono senza avere trovato nulla, il giovanotto a n d ò loro incontro un'altra volta con un altro travestimento e diede loro il rimedio in cambio delle mele che essi avevano avuto dalle rispettive spose, e ritornò, senza farsi riconoscere, al palazzo, dove si fece di nuovo vedere come un tignoso. I quattro generi portarono al sultano il nuovo rimedio, grazie al quale egli tornò in salute. Lo stesso avvenne u n a terza volta: il sultano si ammalò correndo il rischio di morire e inviò i generi a cercargli il rimedio. E per la terza volta il giovanotto si fece portare dal jinn il rimedio, andò incontro ai quat69
tro cognati e chiese loro che cosa li preoccupasse. Anche questa volta essi non lo riconobbero, perché si era ancora mostrato loro con un abito e un cavallo differenti. Dal m o m e n t o che ora essi non avevano più nulla da dare in cambio, pretese da loro il mignolo della m a n o destra, e i quattro accettarono. Si a m p u t a r o n o i mignoli e li diedero al giovane in cambio della medicina. Con questa essi curarono il sultano. Quando il sultano si fu nuovamente rimesso, fece chiamare i suoi generi e disse loro: «Dal momento che voi mi avete portato questi rimedi da terre lontane, vi designerò miei successori e spartirò il mio regno fra voi». Allora i quattro dissero: «Però il tignoso non può avere nulla, perché egli non ci ha accompagnati». Allora il tignoso chiese: «Dove sono i vostri fazzoletti e le vostre mele, che vi sono stati dati dalle principesse c o m e t e s t i m o n i a n z a del vostro m a t r i m o nio?». Essi n o n s e p p e r o cosa r i s p o n d e r g l i e il giovanotto tirò fuori le cinque mele e i cinque fazzoletti, e li fece vedere al sultano. Quindi disse: «Signor padre e nostro sovrano! Tutti gli uomini h a n n o cinque dita nella mano, osserva ora le mani dei tuoi generi!». Allora essi dovettero fargli vedere le mani, e il sultano vide che mancavano loro i mignoli. Il giovanotto raccontò quindi come fosse stato lui a procurare loro i rimedi in cambio di tutto ciò. Il sultano si meravigliò assai e disse: «Allora sarai tu solo il m i o successore e il s o v r a n o del m i o regno!». A questo punto, il giovane si tolse la parrucca di intestini di pecora e sciolse i suoi lunghi capelli, in modo che questi potessero ondeggiare liberamente. Poi abbracciò il sultano e gli chiese: «Caro padre, per favore lasciami p r i m a intraprendere un viaggio, perché devi sapere che avevo già u n a moglie p r i m a di maritarmi con tua figlia. E devo liberare anche lei 70
dalle mani dei miei fratelli!». Sellò quindi un bianco stallone e partì con un drappello di cavalieri alla volta della sua città d'origine. Per strada dovette passare attraverso un paese governato da u n a regina così dispotica e crudele che non permetteva a nessuno di attraversarlo. Essa era però di u n a bellezza così straordinaria che chiunque la vedesse si i n f i a m m a v a subito d ' a m o r e p e r lei. Q u a n d o il suo esercito combatteva contro un altro esercito e stava indietreggiando, irrompeva di persona nella mischia, cavalcando davanti al comandante nemico e scoprendosi il volto dinanzi a lui. Allorché questi, colto da a m o r e per lei, abbassava la guardia, essa lo uccideva con la sua spada e metteva in fuga i nemici. In questo stesso m o d o essa volle annientare anche l'uomo con la pipa da kif, q u a n d o questi con i suoi compagni attraversò il suo paese senza ritirarsi davanti ai suoi soldati. Essa gli andò incontro e si scoprì il viso, ma il giovanotto disse: «Quand'anche tu ti scoprissi interamente, non riusciresti a impressionarmi!». Costrinse quindi il cammello della regina a inginocchiarsi e la minacciò con la spada. Allora essa implorò di lasciarla in vita dicendo: «Non uccidermi, e invece sposami e il m i o palazzo e tutto il m i o r e g n o s a r a n n o tuoi!». Il g i o v a n o t t o trovò attraente la proposta e andò con i suoi cavalieri nel castello, dove per sette giorni festeggiarono le nozze. Quindi egli le disse: «Aspettami qui, devo andare a liberare la mia prima moglie dalle mani dei miei fratelli». Viaggiò parecchi giorni insieme ai suoi compagni, fino ad arrivare al m a r e e alla città dei suoi genitori. Là vide, davanti alla città, un grande palazzo e ne fu assai meravigliato. «A chi appartiene quel palazzo?» chiese a un pescatore che i n c o n t r ò sulla spiaggia. 71
«Appartiene ai quattro fratelli figli di un pescatore, che un giorno tornarono con ricchi tesori dalle montagne, portando con sé la sorella e delle belle mogli.» E il giovanotto capì che doveva trattarsi dei suoi fratelli. Ordinò ai suoi compagni di m o n t a r e l'accampamento, dopodiché se ne andò a piedi alla fontana davanti al palazzo e attese. Dopo qualche t e m p o uscì u n a serva con u n a brocca per attingere acqua. Dopo che questa ebbe riempito la brocca, egli le chiese un sorso d'acqua. Essa gli porse la brocca ed egli bevve, e poi fece cadere di nascosto l'anello nella brocca. La serva, oltrepassato il portone, portò la brocca all'interno del castello e la diede al padrone di casa. Il pescatore bevve l'acqua, vuotò la brocca, trovò l'anello sul fondo e chiese alla serva: «Cosa ci fa questo anello nella brocca?». Allora la serva a f f e r r ò l'anello, se lo infilò al dito e disse, gioiosamente: «Devi sapere, o mio signore, che questo anello appartiene al mio sposo, il quale non è altri che il tuo figlio maggiore, che credi morto. Infatti è stato lui a uccidere l'ifrit con la spada e a liberare t u a figlia e noi cinque fanciulle. I suoi quattro fratelli lo h a n n o a b b a n d o n a t o privo di aiuti nella grotta e mi h a n n o minacciata di morte se li avessi traditi. Deve trattarsi sicuramente di quell'uomo che mi ha chiesto un sorso d'acqua q u a n d o ho riempito la brocca alla fontana». Allora il pescatore disse: «Allora p o r t a m i qui mio figlio!». La serva uscì di corsa verso la fontana, ma n o n riuscì a trovare lo sposo da nessuna parte. Tornò allora m e s t a m e n t e al castello e si recò nella sua stanza. Mentre rifletteva, triste, sul m o d o di rinc o n t r a r e il suo a m a t o , le venne in m e n t e il potere dell'anello. Lo rigirò e al jinn che le si presentò ordinò di portarle il suo sposo. L'ordine venne esaudito sull'istante, e i due si abbracciarono colmi di felicità. 72
Poi essa gli rivelò il tradimento dei suoi fratelli e come lei avesse dovuto fare la serva nel castello per tutto l'anno. I due andarono dal vecchio pescatore che r i c o n o b b e subito il figlio. Dopodiché quest'ultimo chiamò i suoi fratelli e consegnò loro il castello. Prese con sé il padre, la sorella e la moglie e ritornò coi suoi compagni nel suo regno. Per strada passò a prendere l'altra regina, la sua seconda moglie, facendo così un ingresso trionfale nella capitale. Q u a n d o morì il vecchio sultano, suo suocero, salì lui al trono e regnò per molti anni in pace. 11. LA F I G L I A D E L JINN
C'era u n a volta un u o m o ricco che partì per il pellegrinaggio lasciando a suo figlio u n a grande quantità di beni e di luigi d'oro. Ma il figlio si diede al gioco e perse tutto, le sue ricchezze e perfino i suoi terreni. Gli rimase solo la tristezza per la perdita. Prese allora la sua pistola e se ne andò nel bosco, intenzionato a spararsi. Qui giunse un jinn che gli chiese perché volesse uccidersi, ed egli rispose: «Mio p a d r e mi ha lasciato molti beni che mi sono stati portati via col gioco, e per questo voglio uccidermi». Il jinn gli disse allora: «Se tu fai un patto con me, ti salverò». Fecero il patto e il jinn gli disse: «Un giorno dovrai venire da me sui m o n t i e i n c o n t r a r m i ; nel frattempo prendi dei sassi e riempine le stanze in cui prima erano ammucchiate le ricchezze; poi chiudile a chiave e rientraci solo al mattino presto!». L'uomo fece q u a n t o gli e r a stato detto e la m a t t i n a dopo, q u a n d o vi entrò, trovò le stanze piene come prima di luigi d'oro. Ora, q u a n d o il p a d r e r i t o r n ò dal pellegrinaggio, 73
suo figlio gli disse: «Devo partire». «Dove vuoi andare?» chiese il padre, e il figlio gli raccontò: «Devo rispettare un patto concluso con un jinn». «Quand'è così, va' pure, figliolo!» replicò il padre. Il giovanotto prese delle provviste e partì. Quando, in territorio selvaggio, giunse a u n a fonte, tirò fuori il suo pane e si mise a mangiare. In quella arrivarono sette colombe che cominciarono a bere. Queste colombe in realtà erano le figlie del jinn con cui egli aveva concluso il patto. Finito di bere, deposero il loro abito di piume e si trasformarono in fanciulle. Il giovanotto si avvicinò, prese un abito di p i u m e e lo nascose. Q u a n d o le altre se ne volarono via, u n a dovette rimanere indietro: quella il cui abito era stato portato via, perché era rimasta in forma umana. Essa si mise quindi a gridare: «A colui che mi renderà l'abito di piume, possa Dio donare la ricchezza!». Al che il giovanotto le rese l'abito di p i u m e . «Dove sei diretto?» gli chiese la colomba. «O signora,» disse egli «io ho stretto un patto con un jinn e mi tocca ora andare a trovarlo dove abita, in cima al monte tale, che non so n e m m e n o dove si trovi.» La colomba gli rispose: «Noi sette colombe siamo le figlie di quel jinn». Comunque si fece promettere che l'avrebbe sposata, ed egli accettò. Essa gli indicò il monte su cui suo padre viveva insieme alle figlie. Egli vi si recò, e appena giunto il jinn gli si fece incontro, lo salutò e lo pregò di entrare in casa. Là egli trascorse la notte. La mattina seguente egli lo prese con sé e lo portò su un altro monte, e gli ordinò di spianare quel monte fino a trasformarlo in u n a pianura. Il giovanotto rifletté a lungo su cosa dovesse fare per spianare la montagna. Quand'ecco arrivare la figlia del jinn con cui si era fidanzato, p o r t a n d o con sé la colazione. 74
Ma egli non voleva mangiare nulla e continuava a riflettere. Allora essa gli disse: «Chiudi gli occhi!». Non fece in tempo a chiuderli e a riaprirli che vide il m o n t e trasformato in u n a pianura. «Non dire nulla di tutto ciò a mio padre!» essa gli ordinò. Quando il jinn ripassò di lì, trovò il monte trasform a t o in p i a n u r a . La m a t t i n a d o p o p o r t ò con sé il giovanotto su un altro monte e gli ingiunse di tagliare tutti gli alberi che vi erano per poterli sostituire con delle b u o n e piante da frutto. Quando la fanciulla ritornò a portargli la colazione, lo trovò immerso in meditazione. Anche questa volta essa gli chiese di chiudere gli occhi, e quando egli li riaprì l'intera foresta era diventata un bel frutteto in cui crescevano splendide piante da frutto di ogni qualità. Quando il jinn ripassò di lì e vide il frutteto, disse a sua moglie: «Quest'uomo è assai capace!». Ma la moglie ribatté: «È tua figlia che gli fa vedere come deve fare!». Allora il jinn rinchiuse la figlia e portò f u o r i con sé il giovanotto. Portò un sacco pieno di p i u m e e lo svuotò sulla m o n t a g n a , d o p o d i c h é suscitò un vento che sparpagliò le piume per ogni dove. A questo punto egli ordinò al giovanotto di raccogliere tutte le p i u m e e di rimetterle nuovamente nel sacco. Allora il giovanotto si sedette e c o m i n c i ò a pensare come poteva fare per recuperare tutte quelle piume. Attraverso un piccolo foro, un uccellino era riuscito a infilarsi nella stanza in cui la figlia del jinn era prigioniera. Essa lo afferrò e gli scrisse sulle ali delle parole magiche, dopodiché lo lasciò nuovamente libero di volare. L'uccello volò fin dal giovanotto e cominciò a beccare un po' del suo pane. Allora il giovane catturò l'uccello e cominciò a spennarlo, ottenendo tante di quelle piume da riempire tutto il sacco. A questo p u n t o il giovanotto andò dal jinn e gli re75
stituì il sacco, che era pieno c o m e p r i m a . Allora il jinn disse a sua moglie: «Anche questa volta tua figlia gli ha detto precisamente che cosa dovesse fare?». «È davvero strano» dovette a m m e t t e r e lei. A questo p u n t o essi si convinsero che quelle azioni andassero attribuite al giovanotto e n o n alla loro figlia, per cui la lasciarono libera. Poi il jinn disse al giovanotto: «C'è ancora u n a cosa che ti resta da fare: se m i p o r t e r a i u n a m e l a che cresce s u u n m o n t e i n mezzo al m a r e ti darò in sposa u n a delle mie figlie!». Il giovanotto si mise in viaggio e giunse f i n o al mare, ma n o n era in grado di attraversarlo. Allora giunse la fanciulla e lo trovò meditabondo sulla riva. «Uccidimi!» essa gli ordinò, ma dal m o m e n t o che egli si ritraeva inorridito e n o n voleva farlo, gli sottrasse essa stessa il coltello e si uccise. In precedenza gli aveva spiegato: «Quando sarò morta, mettimi a c u o c e r e p e r bene, f i n c h é t u t t o diventi u n b r o d o . Quando saranno rimaste solo le ossa, prendile e versa il brodo nel mare. Esso si consoliderà e ti consentirà un passaggio fino a quel melo!». Il giovanotto fece t u t t o quello che essa gli aveva chiesto, e per quella via arrivò fino a cogliere il frutto di quel melo. Con le ossa della fanciulla si era costruito u n a scala a pioli per superare la ripida erta che conduceva in cima al monte. Quando tornò giù con le mele, riprese con sé le ossa, ma dimenticò un ossicino, quello del mignolo di un piede. Tornò quindi dal jinn e gli diede la mela richiesta. Allora il jinn dispose in fila le sue figlie e disse al giovanotto: «Chiudi gli occhi e scegline una! Quella che sceglierai sarà tua moglie!». La sua a m a t a gli aveva consigliato di tastare i piedi e di prendere quella cui fosse m a n c a t o un mignolo del piede. Il giovanotto fece così, e il jinn gliela diede in moglie. Dopo avere abitato là per un mese, disse alla mo76
glie: «Andiamo a far visita a mio padre e a mia madre!». «Volentieri» rispose la moglie. Montarono su un mulo e partirono. Giunti in prossimità del villaggio del marito, la moglie disse: «Ti aspetterò qui int a n t o che tu spieghi ogni cosa ai tuoi. Dopodiché, t o r n a a p r e n d e r m i ! Ma n o n dimenticarmi! Sta' attento, quando torni, al m o m e n t o dei saluti: anche se ti vorranno dare dei baci sulla bocca, tu salutali solo con la mano. Se dovessero baciarti sulla bocca, ti dimenticheresti di me!». Il marito stette bene attento: al m o m e n t o di salutare i suoi parenti si limitò a salutarli con la mano, ma da ultima giunse u n a sua vecchia zia, che gli arrivò da dietro e lo baciò sulla bocca. Immediatamente egli dimenticò sua moglie. Costei rimase afflitta per la lunga attesa, e q u a n d o capì che non sarebbe arrivato, trasformò per incanto il mulo in u n a tenda, in cui cominciò a servire il caffè. La gente di quei paraggi lo venne ben presto a sapere, e tutti quelli che andarono da lei a prendere il caffé f u r o n o colpiti dalla sua bellezza, e ciascuno credeva di poterla sposare. Uno di costoro, che avrebbe volentieri trascorso la notte con la donna, rimase a scherzare con lei dopo la cena. E q u a n d o essa si accorse di quello cui lui mirava, gli disse: «Metti fuori il gatto!» e si ritirò. Egli provò a mettere fuori il gatto, ma tutte le volte quello ritornava, fino a che si fece giorno. A quel p u n t o l'uomo, stanco e spaventato, se ne andò via. Anche la notte successiva ci fu u n o con le stesse intenzioni del primo. Si trattenne da lei fino a che tutti f u r o n o andati a dormire, e a quel punto essa gli diede un secchio e gli disse: «Vai a prendere dell'acqua!». Ma q u a n d o costui stava per tirare f u o r i dal pozzo il secchio pieno d'acqua, la corda si fece sempre più lunga, al punto da non arrivare mai alla fine. 77
Questo andò avanti fino al mattino, q u a n d o egli fu preso dal timore e fuggì. La sera dopo arrivò suo marito per avere un rinfresco in quel caffè. Quand'essa lo vide, lo riconobbe subito, mentre lui n o n si ricordava più di lei. Anche lui rimase, con le stesse intenzioni dei p r i m i due, finché tutti a n d a r o n o a dormire, poi essa gli diede un recipiente e gli chiese di versarne fuori l'acqua. Egli andò a versare fuori l'acqua, ma q u a n d o stava per ritornare, si accorse che il recipiente era ancora pieno, e tornò a vuotarlo, e così da capo fin nel cuore della notte. Allora essa gli disse: «Getta via il recipiente con l'acqua e vieni qui!». Egli fece ciò che essa gli aveva ordinato, e a n d ò dalla donna, che gli chiese: «Non hai u n a moglie?». «No» rispose lui. Allora essa cominciò a ricordargli quello che aveva fatto: «Ricordati che io sono v e n u t a qui con te, io, la figlia del jinn, che ti avevo promesso di sposarti. Ti avevo p u r consigliato di n o n farti baciare sulla bocca, perché in tal caso mi avresti dimenticata». Allora al marito tornò la memoria, ed egli si convinse che essa diceva la verità. Quando giunse il mattino, tutto ritornò come u n a volta, ed essi m o n t a r o n o sul mulo e si recarono alla casa dei genitori di lui. Si celebrò per loro la festa di nozze, e il marito rimase con la moglie presso i genitori. Da lì io sono venuto fin qui e n o n ho n e m m e n o portato con me un altro paio di sandali di paglia.
12. IL JINN DI I M Z U W U R T
Si r a c c o n t a che un giorno un r e m o t o a n t e n a t o di Hajj Hassan Ahanshi degli Ait Tamlal portò con sé un cane dal m e r c a t o di Tamanar. Questo cane era 78
completamente nero e si era messo da solo a seguire quell'uomo. Dal m o m e n t o che aveva p r o p r i o bisogno di un cane, egli lo prese con sé, lo tenne nel cortile nutrendolo bene. Ora, a più riprese, all'uomo capitò di scoprire che al m a t t i n o il suo cavallo aveva tutta la pancia bianca di sudore misto a incrostazioni di salsedine, come dopo un pesante lavoro, e ne fu assai meravigliato. Un giorno egli lo disse alla moglie e le chiese se non sapesse nulla di ciò. Anch'essa n o n sapeva di dove venisse l'incrostazione salmastra, ma gli consigliò di vegliare di notte senza perdere di vista il cavallo. Il m a r i t o fece così. Q u a n d o tutti dormivano, egli vide che il cane nero scioglieva la corda che teneva legato il cavallo, dopodiché gli montava in groppa e partiva al galoppo in direzione del Capo Amikaid. Fece r i t o r n o solo p o c o p r i m a dell'alba, e tornò a legare il cavallo, la cui pancia luccicava per il bianco del sale umido. L'uomo n e f u assai meravigliato, m a p e r p a u r a non ne parlò con nessuno. Ora, bisogna sapere che q u e s t o Capo Amikaid è un grosso scoglio a strapiombo sul m a r e per più di cinquanta metri. La striscia costiera ai suoi piedi, accessibile solo da u n a parte, e a scalatori provetti, in caso di bassa marea è d i s s e m i n a t a di scogli che s e m b r a n o i resti di un c a m p o da gioco dei giganti dei t e m p i antichi. In mezzo a queste rocce, così nascosto che solo chi se lo fa indicare da altri può trovarlo, vi è l'ingresso di u n a caverna. Il suo percorso si allarga, dopo i primi metri che si devono percorrere strisciando, e conduce a grandi sale in cui vi è posto per intere case. A esse è c o n g i u n t o un intrico di passaggi in cui senza u n a corda si sarebbe perduti perché non si ritroverebbe mai più l'uscita. Uno di questi passaggi conduce per diversi chilometri all'interno e si snoda anche sotto il villaggio di Ait Tamlal. Là, in mezzo ai cam79
pi, esiste u n a minuscola apertura in cui, quando c'è l'alta marea, si sente mugghiare il mare. In questa caverna capita spesso, verso sera, di udire u n a musica, un suono di flauto e un tambureggiare metallico, come di solito nelle feste di matrimonio. Questa bella musica, di cui non si distingue la provenienza, è prodotta dai jinn che vi abitano e vi custodiscono i tesori che nel corso dei secoli sono stati accumulati dai pirati. Tutto questo ritornò alla m e n t e dell'uomo, e per questo egli non si fidò a parlare della cavalcata notturna del cane nero. La figlia dell'uomo, che cresceva in casa, non aveva p a u r a del cane. Di giorno gli portava da mangiare e si intratteneva con lui. Un giorno essa disse alla madre: «Cara m a m m a , parla per favore col babbo, e digli che mi dia in sposa al cane, dal m o m e n t o che il cane me lo ha chiesto». La donna rimproverò la figlia, ma questa anche in seguito continuò più volte ad avanzare tale richiesta, finché la madre chiese al marito di tenere d'occhio la figlia q u a n d o portava da mangiare al cane. L'uomo si pose dietro u n a porta in cortile, g u a r d a n d o attraverso le fessure. E fu così che egli udì la figlia dire al cane: «Mia m a d r e n o n vuole che tu mi sposi. Che cosa possiamo fare?». E il cane rispose: «Adesso taci perché dietro la porta vi è tuo padre che ci sta spiando». L'uomo fu assalito dalla paura, perché si rese conto che quel cane era un jinn. La notte stessa il cane scomparve insieme ad Aisha (così si chiamava la fanciulla), e per molti anni n o n si sentì più parlare della fanciulla. Un giorno, però, essa tornò col cane e con due figli. Il padrone di casa era in quel m o m e n t o al mercato di Tamanar. Aisha entrò in casa e disse alla madre: «Cara m a m ma, t u a figlia Aisha è ritornata. Guarda qui, questi 80
due bimbi sono i tuoi nipotini. Permettimi di stare con te, e proteggimi dal babbo!». La d o n n a glielo promise. Quando il padre fece ritorno dal mercato, la moglie gli disse: «Tua figlia Aisha è ritornata e ha portato con sé i suoi due figlioletti. Permettile di stare con noi!». L'uomo pretese di vedere il padre dei bambini, e la moglie gli disse: «Aspetta solo che sia notte, e poi osserva il cane. Sicuramente si trasformerà in un giovane». Il padre fu d'accordo, e la sera si rinchiuse nella stanza in cui dormivano Aisha e i due bambini, e allora vide che il cane si era levato la pelle nera ed era un bel giovanotto. Il padre prese di nascosto la pelle di cane, ma in quella il giovanotto si destò e, sotto f o r m a di nebbia, si dileguò nella caverna di Imzuwurt. La notte stessa Aisha sellò un asino, prese i due figli e se ne partì nella stessa direzione verso il Capo Amikaid. Non la vide più nessuno. Tuttavia, alcuni n a r r a n o di avere avuto, in diverse occasioni, rapporti con un jinn che forse vive nella caverna di Imzuwurt. Così narra anche la sorella di Hajj Hassan Ahanshi: un giorno essa avrebbe udito u n a voce che la chiamava; essa salì sul tetto a terrazza della casa e stava per ritornare giù, dal momento che non vedeva nessuno, quando venne graffiata a un orecchio, in m o d o che ne fu strappato via un pezzetto di carne. Allora essa vide u n a fine nebb i o l i n a che si dirigeva v e r s o il C a p o A m i k a i d e scompariva. Per conciliarsi il jinn di Imzuwurt tutti gli anni, a primavera, nelle capanne vuote che si trovano lassù, nel p u n t o più estremo del p r o m o n t o r i o a picco sul mare, si tiene u n a festa in cui si portano cibi per il jinn e per i due corvi che lassù h a n n o il loro nido.
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13. L A N E G R A C O N I D U E G O M I T O L I
C'erano u n a volta due giovani che vivevano soli, con u n a sorella e la sua schiava negra. In primavera conducevano le loro greggi sui pascoli dei monti e lasciavano alla fattoria la sorella con la schiava. Dopo un certo tempo che erano sui monti li assalì un gran desiderio di rivedere la sorella, per cui le m a n d a r o n o u n a mula su cui essa potesse venire a trovarli, legando sotto la sella quattro grosse conchiglie. La fanciulla prese con sé delle provviste e salì in groppa alla m u la, seguita dalla schiava che andava a piedi. Quando la schiava fu stanca, disse alla sua padrona: «Scendi e lasciami salire in sella!». Allora la fanciulla chiamò i suoi fratelli, e u n a delle conchiglie risuonò e rispose: «Sì?». Essa disse: «La schiava vuole che io scenda per poter salire lei in sella». La conchiglia replicò: «Falla andare a piedi, sei tu la padrona, e se non le va bene, arrivo io e le spezzo il groppone!». Così la schiava dovette continuare a camminare. Quando fu un'altra volta stanca, disse: «Scendi e lasciami salire in sella!». Di nuovo la fanciulla chiamò i fratelli, e la seconda conchiglia rispose: «Sì?». «La schiava vuole che io scenda per poter salire lei in sella.» La conchiglia rispose: «Falla andare a piedi, sei tu la padrona, e se n o n le va bene, arrivo io e le spezzo il groppone!». Quando giunsero a u n a sorgente, la ragazza chiese di porgerle da bere, ma la schiava disse: «Se vuoi bere, scendi di sella e serviti da sola! Quando te l'ho chiesto, tu non mi hai lasciato salire in sella, e adesso io non ti do da bere». La fanciulla dovette quindi scendere e andare a prendere da sé l'acqua. La schiava però aveva con sé due gomitoli di filo, u n o bianco e u n o nero. Li gettò nell'acqua, dopodiché colpì col gomitolo nero la propria padrona, che divenne per82
ciò nera, e se stessa con quello bianco, diventando così bianca. A questo p u n t o salì lei in g r o p p a alla mula, e l'altra dovette proseguire a piedi. La fanciulla fu b e n presto stanca, perché n o n era a b i t u a t a a camminare: i suoi piedi cominciarono a sanguinare. Alla fine giunsero dai fratelli. Essi, n a t u r a l m e n t e , credettero che colei che era in sella (essendo bianca) fosse la loro sorella. Furono molto contenti di rivederla. Un p a i o di giorni d o p o , q u a n d o i piedi della "schiava" f u r o n o guariti, i fratelli le dissero: «Va' a pascolare i cammelli!». Essa vi andò, ma m e n t r e i c a m m e l l i pascolavano si mise a piangere. «O madre,» si lamentava «i miei fratelli trattano la negra come u n a regina e la sorella la m a n d a n o a custodire i cammelli.» All'udir ciò, i cammelli accorsero singhiozzando, si inginocchiarono e piansero anche loro. Un giorno, u n o dei due fratelli si accorse che i cammelli erano magri da morire. Disse alla negra: «Disgraziata! Q u a n d o ti diciamo di p o r t a r e i cammelli nel tal posto, tu n o n ce li porti, e loro non mangiano più nulla da quando li abbiamo affidati a te!». «Mio signore, eppure li ho condotti là dove tu mi hai detto.» Allora egli la minacciò: «Ti spezzo il groppone se non li porti a quel pascolo!». Essa li condusse dunque su quel pascolo al quale l'aveva inviata il fratello, e quest'ultimo la seguì di nascosto. Sul prato i cammelli si dispersero, mentre la fanciulla si sedette e pianse: «O madre, aiutami, i miei fratelli trattano la negra come u n a regina e la sorella la m a n d a n o a custodire i cammelli». Quando i cammelli udirono i suoi lamenti, accorsero singhiozzando, si misero in ginocchio e cominciarono anch'essi a piangere. Il fratello vide tutto ciò 83
e ne fu assai meravigliato. Andò dalla fanciulla e le chiese: «Cosa hai detto?». «Fratello, sono io vostra sorella» rispose la fanciulla. «Che cosa ti è successo?» chiese allora il fratello. Essa gli raccontò tutto quello che era successo. Allora egli le disse: «Alzati e vieni con me!». Per strada essa gli disse: «Se non mi credi e pensi che tua sorella sia l'altra, allora chiedile di aprire la cassa e tirarti fuori il tuo nastro di seta, perché lei avrà certamente la sua chiave! Quando però essa n o n sarà in grado di aprire la cassa, saprai che io ti ho detto la verità». A casa il fratello chiamò la bianca e le disse: «Sorella, apri la cassa e tirami fuori il mio nastro di seta!». Essa andò alla cassa ma non fu in grado di aprirla. Allora il giovane le tolse di m a n o la chiave e la diede a colei che pascolava i cammelli. Ed essa aprì immediatamente la cassa. Così egli fu convinto che essa gli aveva detto la verità. Si rivolse quindi all'imbrogliona e la minacciò di strapparle il fegato se non avesse immediatamente ripetuto lo stesso incantesimo con cui aveva trasformato in negra la sorella. Allora quella disse: «Portate un secchio d'acqua». Quindi prese i due gomitoli di spago, u n o bianco e u n o nero, li immerse nell'acqua e si colpì col gomitolo nero, ridiventando nera, mentre colpì la sua p a d r o n a col gomitolo bianco, ed essa ridiventò bianca. I fratelli f u r o n o contenti e piansero insieme alla sorella sul dolore che essa aveva dovuto sopportare. Presero quindi due cammelli per punire la colpevole; a un cammello diedero orzo da mangiare tutto il giorno e tutta la notte, mentre all'altro non diedero neppure un granellino. La mattina dopo legarono u n a gamba della negra al collo del cammello sazio, e l'altra gamba al collo di quello affamato. Posero quindi dell'acqua davanti al cammello sazio e dell'orzo davanti a quello affamato. A 84
quel p u n t o i cammelli partirono di corsa verso ciò di cui sentivano la mancanza, e così la negra venne squartata e morì. 1 4 . 1 D U E F R A T E L L I E L'IFRIT
Questa è la favola di due fratelli, un ragazzo e u n a ragazza, che n o n avevano né p a d r e né m a d r e . Un giorno essi a n d a r o n o a caccia, si a d d e n t r a r o n o in luoghi selvaggi, si s m a r r i r o n o e n o n f u r o n o più in grado di ritrovare la loro città. Errarono a lungo nella foresta, finché si fece loro incontro un cane bianco. Impauriti, essi gli gettarono un pezzo di pane. Quando ripartirono, egli li seguì. Continuarono a vagare, finché si fece loro incontro un altro cane, identico al primo. Anch'esso andò loro dietro, e alla fine i due arrivarono alla dimora di un ifrit. Bussarono, e uscì fuori un negro alto sette metri; aveva al collo un blocco di ferro che pesava sette quintali. Se qualcuno entrava in casa sua, il negro gli faceva cadere in testa il blocco di ferro, lo sfracellava facendone poltiglia e se lo mangiava. Li'ifrit stava per fare la stessa cosa con i due fratelli che stavano per entrare in casa, q u a n d o i due cani gli saltarono addosso e lo uccisero. Il ragazzo trovò sette chiavi, le prese e aprì le stanze. Qui trovò denaro, farina, grano e tante altre cose. Quindi disse alla sorella: «Rimani qui e prepara da mangiare! Io invece andrò a caccia e procurerò della carne». Così egli fece il p r i m o e il secondo giorno. Il terzo giorno, m e n t r e egli era fuori, la fanciulla guardò il negro e scoprì che si muoveva. Allora il negro le disse: «Per Allah, figliola, se tu vuoi, curami finché sarò di nuovo guarito. Poi io ti sposerò». La fanciulla gli rispose: «Va bene!». Quindi il negro disse: «Prendi 85
quella cassetta, dentro c'è un unguento: spalmamelo e tornerò sano!». Allora la fanciulla prese la cassetta e spalmò l'unguento sul negro. Poi il negro le diede della f a r i n a e le disse: «Mettila nel p r a n z o , ma tu non mangiarne!» ed essa così fece. Quando il fratello t o r n ò , volle m a n g i a r e , p e r cui disse alla sorella: «Mangia con me!». Ed essa rispose: «Non sto bene». Ma quando stava per mangiare e aveva già preso la prima cucchiaiata, il cane gliela fece cadere di mano; prese la seconda e anche questa volta il cane gli fece cadere di m a n o il cucchiaio. Allora il fratello disse alla sorella: «Andiamocene via da qui!». I due se ne a n d a r o n o . Il fratello prese la chiave, chiuse la casa e gettò la chiave in un fiume. C a m m i n a c a m m i n a , ben presto giunsero in u n a città dove vi era un re. Trovarono tutti gli abitanti della città nell'afflizione e il ragazzo chiese: «Cosa è successo alla gente di qui?». Gli risposero: «In questa città vive un serpente con sette teste. Ogni venerdì gli si deve dare u n a fanciulla da divorare. Oggi è arrivato il t u r n o della figlia del re, che tra poco verrà ingoiata dal serpente». Allora il giovane andò all'ingresso della caverna da cui soleva fuoriuscire il serpente, si sedette e aspettò. In quella arrivò la figlia del re, che gli disse: «Che cosa fai qui? Va' a casa; il serpente verrà fuori e ci divorerà tutti e due». Il giovane rispose: «Non me ne andrò finché il serpente non uscirà di qui!». Essa disse: «Va bene». Aspettò a n c o r a finché, alla fine, il s e r p e n t e venne fuori. A questo punto il ragazzo estrasse la spada, lo colpì e lo uccise all'istante. Allora la fanciulla gli chiese: «Che cosa desideri in dono?». Egli disse: «Donami soltanto il tuo fazzolettino!». Essa estrasse il suo fazzoletto e glielo diede. Egli lo prese, tagliò le sette lingue del serpente, le mise nel fazzoletto e se ne andò. Passò di lì un carbonaio e trovò il serpente morto. 86
Lo esaminò e guardò che non gli mancasse nulla. Allora prese la sua scure, tagliò le sette teste e le portò dal re. E là giunto disse: «Io ho ucciso il serpente!» e gli fece vedere le sette teste. Allora il re o r d i n ò : «Conducetelo nei bagni!». I m m e d i a t a m e n t e lo condussero nei bagni, dopodiché si cominciò subito a fare i preparativi per le sue nozze con la figlia del re. Mentre già si festeggiavano le nozze, arrivò il cane bianco e portò via il piatto che stava davanti al carb o n a i o . I servitori i n s e g u i r o n o il cane, che si era messo a correre, e giunsero alla casa del giovanotto. Allora dissero al giovane: «Vieni subito dal re!». Il giovane andò con loro finché f u r o n o al cospetto del re. Il re chiese: «Perché hai m a n d a t o il t u o cane a portare via il piatto dello sposo?». Il giovane rispose: «Egli non si è meritato il piatto». Allora il re chiese ancora: «Perché?». Il giovane rispose: «Quel piatto se lo m e r i t a di più il cane». Ancora gli fu chiesto: «Perché?» ed egli rispose: «Che cos'ha portato costui come prova?». Gli risposero: «Ha portato le sette teste». Il giovane disse: «Osservate ben bene le teste, n o n è che m a n c h i loro qualcosa?». Vennero esaminate le teste e si scoprì che m a n c a v a n o le sette lingue. Allora il giovane disse loro: «Ecco qui le sette lingue e il fazzoletto della figlia del re». Allora p r e p a r a r o n o le nozze p e r il giovane, che sposò la figlia del re. Quando il re morì, divenne re al suo posto.
15. L ' U O M O C H E A V R E B B E D O V U T O SEMINARE FAVE
C'era u n a volta un uomo, che aveva due mogli e viveva contento insieme a loro. Un giorno esse dissero: «Caro marito, seminaci delle fave, in m o d o che in in87
verno abbiamo qualcosa da mangiare!». Gli diedero due sacchi di fave da seminare. Il marito se li portò nella sala da tè e disse al padrone del locale: «Cucinami tutti i giorni un b u o n piatto di fave!». Così l'uomo mangiò per molti giorni minestra di fave ed era sempre di b u o n u m o r e . Q u a n d o venne il periodo di raccogliere le fave, le mogli gli chiesero: «Dicci dov'è il n o s t r o c a m p o , cosicché noi p o s s i a m o a n d a r e a prendere le nostre fave». E il marito rispose: «È proprio in d i r e z i o n e est, oltre la g r a n d e m o n t a g n a . Prendete con voi questo bastone e misurate con esso le piante di fave. Quando troverete fave alte così, saprete che si t r a t t a delle vostre fave. Quelle potrete raccoglierle». Le due d o n n e c a m m i n a r o n o a lungo nella direzione indicata, e trovarono il c a m p o di fave in cui le piante erano alte come il loro bastone. Allora cominciarono a raccoglierle. Mentre erano a metà della raccolta, s o p r a g g i u n s e di corsa u n ' o r c h e s s a gridando: «Lasciate stare le mie fave!». Ma le donne non ebbero paura, e proseguirono nella raccolta. Allora l'orchessa a n d ò su tutte le furie e prese sottobraccio le d u e d o n n e e le p o r t ò nella sua caverna. Qui essa voleva gettarle nel suo paiolo, ma queste chiesero che risparmiasse la vita dei figli che portavano in grembo. L'orchessa nutrì le due donne fino a che esse diedero alla luce i loro figli, dopodiché divorò le madri e crebbe i due figli. Dava sempre loro da mangiare le parti migliori, tenendo per sé solo le ossa e le pelli. Ed essi divennero due splendidi piccoli umani: un ragazzo e u n a ragazza. Quando f u r o n o cresciuti, l'orchessa m a n d ò il ragazzo nel bosco, per cacciare, mentre la fanciulla rimaneva a casa a occuparsi della cucina. Tutti i giorni il ragazzo portava a casa della selvaggina, e col passar del tempo divenne grande e forte. Un giorno, nel bosco incontrò un vecchio solitario, che gli chie88
se da dove venisse e che cosa intendesse fare. Il giovanotto disse: «Io sono il figlio dell'orchessa che vive in quella caverna laggiù, e caccio la selvaggina per fornirle n u t r i m e n t o » . Allora il vecchio gli rispose: «Ma tu non sei un orco, bensì un essere umano!». Ora, quando il giovane tornò nella caverna, raccontò alla sorella di questo avvenimento, ed essa gli disse: «Dobbiamo fuggire, perché chissà che un giorno l'orchessa non ci divori». Quindi chiese all'orchessa: «Madre, da che cosa si capisce che tu stai dormendo?». L'orchessa rispose: «Quando sentirai dalla mia pancia risuonare le voci degli animali - il ruggito dei leoni e il grugnito dei cinghiali, l'ululato degli sciacalli e il canto degli uccelli - in breve tutti i rumori degli animali, saprai che io sto dormendo». Allora la fanciulla prese l'astuccio con gli aghi da cucito, la cassettina col sale e il grosso paiolo, e q u a n d o udì rumoreggiare tutti gli animali nel ventre dell'orchessa, destò il fratello e fuggì con lui dalla caverna. C a m m i n a r o n o p e r un po'; si fece chiaro, ed essi, volgendosi a guardare indietro, videro l'orchessa che si avvicinava a grandi passi. In fretta la fanciulla tirò fuori gli aghi da cucito e li gettò alle proprie spalle, ed ecco crescere un'intricata siepe di rovi. L'orchessa ebbe grandissima difficoltà a farsi strada, si strappò tutti i vestiti e anche la pelle. Finalmente, però, riuscì a passare oltre e tornò ad avvicinarsi ai due fuggiaschi. Allora la fanciulla gettò alle proprie spalle del sale, che divenne un grande deserto abbacinante. L'orchessa rischiò di morire e si debilitò assai, ma alla fine superò anche questo e tornò ad avvicinarsi ai due fuggiaschi. Allora la ragazza gettò alle proprie spalle il grande paiolo, che divenne un'alta catena montuosa, al di là della quale l'orchessa non riuscì a passare. A questo p u n t o i due giunsero a un fiume in piena, che scorreva impetuoso e spumeggiante. Allo89
ra il giovane disse al fiume: «Buon fiume dalle acque tranquille e limpide, lasciaci passare, per favore!». Il f i u m e n o n aveva m a i sentito parole così cortesi, e immediatamente si placò lasciando passare i due ragazzi. Quando f u r o n o sull'altra sponda, i due videro che l'orchessa aveva oltrepassato i monti ed era arrivata al fiume. Essa disse al fiume: «Ehi, tu, mostro spumeggiante e selvaggio, fa' scomparire le tue sozze masse d'acqua che io voglio passare!». Il fiume fece calare le sue acque solo per un istante, dopodiché si gonfiò in m o d o terribile p e r l'ira e a n n e g ò l'orchessa che aveva appena cominciato il guado. Vedendo ciò, i ragazzi si tranquillizzarono e proseguirono il c a m m i n o fino ad arrivare a u n a grande p i a n u r a . E qui, g u a r d a n d o s i i n t o r n o , la f a n c i u l l a scorse u n a mosca che li seguiva. Dopo un po' tornò a guardarsi indietro e vide che la mosca era già diventata g r a n d e come un calabrone. Dopo un altro po' esso si era avvicinato ed era già grande come un uccellino. Allora la fanciulla ebbe p a u r a e propose al fratello: «Riposiamoci un po'!». Giunti dopo poco a un pozzo, si sedettero sul bordo. Lì videro un rospo, che chiese con insistenza: «Gettatemi in acqua, cari ragazzi!». Dopo la terza volta che ripeteva la richiesta, il ragazzo prese il rospo e lo gettò nel pozzo, ma gli rimase attaccato, e finì per precipitare dentro anche lui. A questo punto, la ragazza si rese conto che l'orchessa si era t r a s f o r m a t a in un rospo, e quindi fuggì alla ricerca di un aiuto per tirare fuori il fratello. Incontrò due giovanotti e chiese loro cosa stessero facendo e da dove venissero. Uno dei due disse: «Io sono un principe e sto cacciando in questi paraggi. Questo è il mio servitore». Allora la fanciulla raccontò quello che era successo a suo fratello e chiese aiuto ai due. Essi diressero quindi i loro cavalli verso il pozzo. 90
Torniamo ora a occuparci del fratello che era precipitato nel pozzo. Laggiù egli si guardò intorno e vide u n a luce e decise di andarle incontro. Strisciò per un lungo passaggio, e q u a n d o giunse al t e r m i n e , trovò u n a fanciulla di incomparabile bellezza. Costei gli disse: «Vattene via in fretta, perché qui abita un drago che, appena tornato, ti ucciderà». Il ragazzo le rispose: «Non ho p a u r a di nulla, io! Dimmi solo come si deve fare per uccidere il drago!». La fanciulla rispose: «Va' in quella sala, vi troverai u n a spada appesa alla parete: prendila! Se sarai in grado di tenerla in m a n o potrai anche ucciderlo. Altro mezzo non c'è». Il ragazzo a n d ò nella sala, prese la spada dalla parete e attese il drago. Quando questi ritornò, il ragazzo lo colpì producendogli u n a grave ferita. Allora il drago gli disse: «Colpiscimi un'altra volta!». Ma il ragazzo disse: «Fossi matto, ci tengo alla pelle!». E così il drago morì dissanguato. Il ragazzo prese con sé la fanciulla e la condusse al fondo del pozzo, e proprio in quel m o m e n t o i due cavalieri stavano calando u n a corda per tirarlo su. Allora il ragazzo disse alla fanciulla: «Sali pure tu per prima!». La fanciulla gli chiese con grande insistenza di salire lui per primo, ma egli non si lasciò convincere. Allora essa gli consegnò l'anello che aveva al dito e un fazzoletto, e gli diede un bacio p r i m a di farsi tirare fuori. Quando il principe ebbe estratto dal pozzo la bellissima fanciulla, fu colmo di felicità. Anche il suo servitore sperò in un identico colpo di fortuna, ma q u a n d o si accorse che stava tirando fuori dal pozzo il ragazzo, lo lasciò ricadere sul fondo. Dopodiché i due cavalieri, con le due fanciulle, se ne tornarono al castello del rispettivo padre e re, lasciando il ragazzo nel pozzo. Costrinsero invece le fanciulle a non rivelare nulla, minacciando, altrimenti, di ucciderle. Il ragazzo, frattanto, era tornato nella caverna dove 91
trovò il drago disteso nel proprio sangue. Gli tagliò la lingua e la mise insieme al fazzoletto e all'anello nella tasca. Proseguì quindi e trovò il rospo che lo aveva attirato nel pozzo. Al vederlo, esso fuggì fino al fondo del pozzo, ma egli lo bloccò e lo uccise con la spada del drago. Quindi si distese accanto a lui e si addormentò. Quando si ridestò, dal corpo del rospo era cresciuto un albero, che si elevava per tutta l'altezza del pozzo fino al bordo. Arrampicandosi sull'albero, il ragazzo arrivò all'aperto. A questo punto riprese il c a m m i n o nella stessa direzione di p r i m a fino ad arrivare a u n a città dove trovò un alloggio. Il p r o p r i e t a r i o della l o c a n d a gli raccontò che nel castello reale stavano per festeggiare u n a doppia festa di nozze, purché venisse rispettata ancora u n a condizione: chi fosse stato in grado di riportare alla seconda fanciulla l'anello che aveva al dito sarebbe stato il suo sposo. Quando fu giunto il giorno delle nozze, il servitore del principe le portò un anello, ma la fanciulla lo respinse perché non le andava bene. Si fecero avanti allora ancora altri giovanotti, ma n e s s u n o degli anelli le andava bene. A questo punto giunse anche il ragazzo che le diede il suo anello, e questa volta esso le andava a pennello. Il re, però, non voleva che tutto andasse così liscio, e chiese alla fanciulla chi volesse sposare. Costei disse: «Colui che mi riporterà il fazzoletto di seta che ho perduto sarà il mio sposo». Allora il servitore portò un fazzoletto di seta, ma la fanciulla lo respinse perché non era quello giusto. Solo quando il ragazzo le porse il suo fazzoletto essa lo riconobbe immediatamente e si rallegrò. Il re, tuttavia, pretese un'ulteriore prova. Allora la fanciulla disse: «Colui che ha ucciso il drago nel pozzo sarà di diritto il mio sposo». A questo punto nessuno fu in grado di portare alcunché. Solo il ragazzo portò la lingua del drago e venne 92
riconosciuto vincitore. Allora le doppie nozze vennero festeggiate in p o m p a magna, il ragazzo ebbe in sposa la fanciulla e sua sorella il principe. E q u a n d o morì il re, divisero il regno in due parti uguali e regnarono in piena concordia.
16. L ' U C C E L L O D A L L E U O V A D ' O R O
C'era u n a volta un povero taglialegna al quale la moglie aveva p a r t o r i t o d u e figli. Tutti i giorni il p o v e r u o m o andava nel bosco, tagliava la legna e la t r a s p o r t a v a a spalle fino in città, dal fornaio, e in cambio riceveva due pani e un po' di denaro che bastava sì e no per sopravvivere. Un giorno, recatosi come al solito nel bosco per tagliare la legna, trovò un uccello, grazioso e mansueto, che si lasciò prendere in mano. L'uomo pensò di portarlo ai suoi figli perché si divertissero con lui, e prese la via del ritorno. Quando arrivò a casa così in anticipo, senza pane né soldi, la moglie gli chiese che cosa fosse successo. Egli si limitò a far vedere l'uccello, dandolo ai figli, ma la moglie gridò fino a che egli non tornò nel bosco a finire il suo lavoro. I bambini presero a giocare con l'uccellino e gli fabbricarono un nido con u n a cassettina, che piacque molto al volatile, il quale si mise a cantare armoniosamente. Il giorno dopo i bimbi trovarono nella cassettina un uovo d'oro. Lo fecero vedere al padre, che ne fu assai contento e si recò con esso da un ebreo nel bazar degli orafi e glielo vendette a un prezzo vantaggioso; con questi soldi egli potè finalmente acquistare cibi e indumenti di qualità, e, felice, portò tutto a casa. Anche la mattina dopo i bimbi trovarono un uovo d'oro nella cassetta dell'uccellino, e anche questa vol93
ta il padre andò dall'ebreo e ne riportò un bel po' di denaro. La cosa si ripetè per diverso tempo. Al punto che l ' u o m o potè a c q u i s t a r e u n a casa bella e spaziosa, terreni, bestiame, schiavi e pastori, inviare i figli alla scuola coranica e c o n d u r r e per conto suo u n a vita felice e contenta. Un giorno disse alla moglie: «Cara moglie, adesso noi abbiamo tutto quello che occorre per vivere bene, non ci m a n c a nulla. E tuttavia c'è u n a cosa che io desidero fare più di ogni altra, vale a dire il pellegrinaggio alla Mecca, luogo della grazia. Tu sei provvista di ogni cosa, per cui posso partire tranquillamente e, se Dio vuole, tornerò da te sano e salvo». Prese commiato dai figli e dalla moglie, diede ordine alla sua schiava più fedele di portare ogni giorno l'uovo d'oro all'ebreo, e partì per il lungo viaggio fino in Arabia. Per qualche giorno tutto andò bene, ma poi la moglie fu assalita dalla curiosità e u n a mattina accompagnò la schiava fin dall'ebreo al quale essa vendeva l'uovo d'oro. Quando l'ebreo vide la donna, fu rapito dalla sua bellezza, e a n c h e lui piacque alla donna. Egli le disse: «Da dove arrivano queste uova d'oro che mi vengono portate in continuazione?». La donna rispose: «A casa abbiamo un grazioso uccello che ogni giorno depone un uovo d'oro». «Mi piacerebbe proprio vederlo, un simile uccello» disse l'ebreo. Allora la donna lo portò con sé a casa e gli fece vedere l'uccello nella sua cassettina. Quando l'uccello vide i due, intonò u n a canzone: Chi mangia la mia testa diventerà re, chi mangia il mio cuore diventerà giudice. Udito ciò, l'ebreo si fece molto intraprendente con la d o n n a e le disse: «Tuo marito è partito per un lun94
go viaggio. Chissà se tornerà mai. Io ti sposerò!». La d o n n a acconsentì. Stabilirono il giorno delle nozze e l'ebreo chiese soltanto che l'uccellino gli venisse servito al p r a n z o di nozze. D u r a n t e i festeggiamenti, la d o n n a o r d i n ò alla schiava di uccidere l'uccello e di cucinarlo. Frattanto arrivarono i due figli, di ritorno da scuola, si recarono in cucina e videro l'uccello sul fuoco. Allora si misero a spilluzzicare qualcosa: u n o prese la testa, l'altro il cuore, e li mangiarono tutti e due. Q u a n d o v e n n e servito l'uccello arrosto, l'ebreo cercò invano la testa e il cuore, e, adiratosi moltissimo, fece chiamare la schiava. La d o n n a chiese alla schiava: «Non sei stata attenta all'arrosto? Mancano due pezzetti!». La schiava disse: «A parte me e i vostri figli nessun altro è entrato in cucina». Allora la donna chiamò i suoi figli e questi ammisero di avere spilluzzicato due pezzetti dall'arrosto. Allora l'ebreo pretese: «A questo punto tu devi sacrificare i tuoi figli e farmi portare ciò che vi è nei loro stomaci!». La donna incaricò la sua schiava di portare con sé nel bosco i due ragazzi, ucciderli, prendere quindi dai loro stomaci la testa e il cuore e riportarglieli. Quand'essi f u r o n o nel bosco, la schiava raccontò ai due ragazzi ciò che la madre le aveva ordinato di fare, e aggiunse: «Io n o n ce la faccio a uccidervi. Catturate quindi un uccello che assomigli al vostro, e io prenderò il suo cuore e la sua testa e li riporterò a casa!». I due giovani fecero così, dopodiché se ne andarono, giurando che non sarebbero mai più tornati indietro. La schiava riportò a casa testa e cuore dell'uccello e li porse all'ebreo, che però gridò: «Non sono loro!». Allora la donna maledisse la schiava e la cacciò di casa. 95
A questo punto l'ebreo prese con sé la donna in casa e vissero insieme alcuni anni. Nel frattempo i due ragazzi avevano continuato a vagare, fino a giungere alla città più grande del paese, in cui era appena morto il re. Era stato però sentenziato: chi p e r p r i m o al m a t t i n o a t t r a v e r s e r à la porta per entrare in città sarà il nuovo re. Ora, i due ragazzi passarono per primi attraverso la porta, vennero presi dalle guardie e condotti a palazzo. Là essi vennero presentati all'assemblea e tutti f u r o n o contenti dei bei giovanotti. Il maggiore fu fatto re, e suo fratello minore giudice supremo. I due governarono con piena soddisfazione di tutti gli abitanti e mai furono trovati un re migliore o un giudice più giusto. Dopo alcuni anni anche quell'uomo, il p a d r e dei due ragazzi, ritornò dall'estenuante viaggio e fu assai triste q u a n d o trovò la s u a casa a b b a n d o n a t a . Chiese in giro e venne a sapere che sua moglie era andata a stare da un ebreo, mentre i due figli non li aveva più visti nessuno. Se ne andò davanti alla casa dell'ebreo, si mise a fare un gran baccano reclamando la propria moglie. Ma questa prese a ingiuriarlo e a dire: «Portate via questo tizio, io n o n lo conosco, deve essere impazzito!». E dal m o m e n t o che l'uomo n o n voleva acquietarsi, l'ebreo fece c h i a m a r e le guardie del mercato e lo fece imprigionare. Ma questi continuò a gridare a tutti ad alta voce: «Questa d o n n a è mia moglie, n o n è moglie dell'ebreo!». Fu allora condotto al cospetto del giudice, che però n o n se la sentì di emettere u n a sentenza, e dispose che i tre contendenti venissero condotti alla capitale, davanti al re che aveva il giudice più giusto. Vennero quindi condotti al cospetto del re e di suo fratello, il giudice, i quali riconobbero subito i loro genitori. Ma sulle prime non dissero nulla. La donna si lamentava del marito e continuava a ripetere che 96
doveva essere impazzito se pretendeva che lei fosse sua moglie. Il marito invece insisteva a far valere le sue ragioni ed esigeva da lei notizie sulla sorte dei due figli. Quando i due figli udirono la propria madre giurare così falsamente, ne f u r o n o assai sconvolti e r a c c o n t a r o n o c o m e e r a n o a n d a t e le cose. Abb r a c c i a r o n o quindi il padre, lo presero con sé e lo fecero vivere con loro. Quanto alla m a d r e e all'ebreo, li c o n d a n n a r o n o : i d u e v e n n e r o legati alla coda di due muli e trascinati in lungo e in largo finché morirono.
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Racconti
17. L ' U O M O E I L G I G A N T E
Nulla al m o n d o è più astuto dell'uomo, e n e s s u n a creatura sfugge al suo potere. Gli animali soffrono s e m p r e sottomessi alla sua malignità, e p e r f i n o il forte toro è incapace di opporvisi. Un giorno il Gigante i n c o n t r ò un t o r o e un c a m m e l l o , che e r a n o stati entrambi percossi dall'Uomo, si fermò e chiese loro: «Chi vi ha fatto tutto ciò?». Essi gli risposero: «L'Uomo!». Allora il Gigante andò in collera, gli occhi gli si fecero rossi dall'ira e disse: «Fatemi vedere quell'Uomo che osa sfidarmi! Fatemelo vedere, sono curioso di sapere se è davvero così terribile!». Il toro e il cammello gli indicarono l'Uomo, che in quel m o m e n t o stava a b b a t t e n d o u n a l b e r o c o n l a sua scure. Il Gigante andò da lui e vide quanto l'Uomo si affaticasse e come ansimasse per far breccia nel tronco dell'albero, cosicché il sudore gli colava a fiumi giù per il corpo. Il Gigante lo salutò e gli chiese: «Sei tu l'Uomo?». L'Uomo gli gridò per tutta risposta: «Sì, sono io. Che cosa vuoi da me?». «Calma, calma,» disse il Gigante «perché gridi così forte?» «Io gridare? No, è il m i o m o d o di parlare!» Allora il Gigante si m o s t r ò amichevole e disse: «Va bene, va bene. D a m m i questa scure, in m o d o che io ti mostri come si abbattono gli alberi». Con u n a rapida mossa il Gigante afferrò la 98
scure e con un sol colpo abbatté l'albero al suolo. Allora l'Uomo tirò il Gigante per il grembiule di pelle e gli gridò: «Perché lo hai fatto? È il mio divertimento più gradito e tu me lo hai rovinato! Se lo avessi voluto, avrei sbriciolato l'albero con un sol colpo!». Il Gigante rispose: «Non ti arrabbiare: ci sono tanti alberi in questo bosco, potrai divertirti con un altro». «Per questa volta ti perdono, ma n o n farlo più! E adesso» proseguì l'Uomo «metti i tuoi piedi nelle fessure dell'albero, in m o d o che io possa tirare fuori la scure!» Il Gigante infilò i piedi nelle f e s s u r e dell'albero e l'Uomo tirò fuori la scure. Allora l'albero imprigionò i piedi del Gigante come tra due mascelle, cosicché questi vi rimase intrappolato. A questo p u n t o l'Uomo afferrò un randello e lo abbatté sul Gigante. Poi se ne andò, lasciando il Gigante prigioniero. Dopo un po' il Gigante riuscì a liberarsi. Cercò l'Uomo e q u a n d o lo trovò gli disse: «Perché mi hai fatto questo?». L'Uomo rispose: «Avrei potuto ucciderti, ma n o n l'ho fatto, e invece ti ho fatto dono della vita affinché tu mi ringraziassi!». Il Gigante non insistette oltre. Offrì all'Uomo la propria amicizia e gli propose di vivere con lui nella sua capanna. L'Uomo acconsentì. Ma l'Uomo n o n cessò di f a r e sfoggio della s u a grande forza. Un giorno disse di voler preparare da mangiare, ma dal m o m e n t o che mancava la legna da ardere, il Gigante chiese all'Uomo di andare nel bosco a raccoglierla. L'Uomo andò nel bosco, ma invece di raccogliere rami, legò insieme tutti gli alberi con u n a lunga corda. Q u a n d o al Gigante s e m b r ò che l'Uomo fosse t r o p p o in ritardo, a n d ò a cercarlo. Lo trovò e vide che cosa aveva fatto. Quando gliene fece cenno, il taglialegna rispose: «Non vorrei che tu mi chiedessi tutti i giorni di andare a prendere legna. Per questo 99
prenderò tutto il bosco, cosicché la legna ci duri un bel po'». «No, no» disse allora il Gigante. «Da noi non c'è abbastanza spazio per tutto questo!» Quindi sradicò un albero e se lo pose sulle spalle. L'Uomo si arrampicò lesto sui r a m i dell'albero e si fece così trasportare dal Gigante per tutto il viaggio di ritorno. Q u a n d o g i u n s e r o davanti alla c a p a n n a , l'Uomo balzò giù rapidamente e fece il gesto di scuotersi via la polvere dalla spalla, dopodiché disse al Gigante: «Me l'hai fatta! Ho portato io da solo tutto il peso sulle spalle». Il Gigante gli credette. Un giorno il Gigante chiese al taglialegna di prendere il secchio e andare al pozzo a prendere acqua. Il secchio era oltremodo pesante per l'Uomo, e la corda ancora più pesante, ma egli n o n poteva rifiutarsi. Nascose il secchio e prese c o n sé c o r d a e vanga. Giunto al pozzo, cominciò a scavare tutt'intorno, dopodiché legò la corda ai due pali del pozzo e attese. Quando al Gigante sembrò che l'Uomo fosse troppo in ritardo, a n d ò a cercarlo. Lo trovò accanto al pozzo e gli chiese: «Perché hai fatto così poco in tutto questo tempo?». L'Uomo rispose: «Volevo portarti l'intero pozzo, in m o d o che tu non mi chieda tutti i giorni di andare a prendere l'acqua». Il Gigante n o n replicò e riempì da sé il secchio; ma non era contento dell'Uomo. Allora l'Uomo gli disse: «Cominci a mancare di attenzioni nei miei c o n f r o n t i . Per q u e s t o d o b b i a m o misurarci nella lotta e allora vedrai che cosa si abbatterà su di te!». Il Gigante ebbe p a u r a e chiese all'Uomo di ritornare sulla sua decisione, ma questi si impuntò. Il Gigante sperava sempre di evitare il peggio, e per questo disse all'Uomo: «Però è i m p o r t a n t e che noi ci misuriamo alla lotta da amici, senza ferirci». Ma l'altro replicò: «No. N o n vi sarà alcuna pietà. Comun100
que sta' attento: q u a n d o vedrai la mia lingua uscire dalla bocca e i miei occhi sporgere fuori dalle loro orbite, vuol dire che sto cercando un posto dove scagliarti». Nonostante la sua opposizione, il Gigante dovette a questo punto disporsi alla lotta. Ma mentre stava schiacciando con forza l'Uomo tra gli avambracci, vide che la sua lingua usciva dalla bocca e i suoi occhi sporgevano dalle orbite, e chiese pieno di paura: «Che cosa stai facendo?». Con voce soffocata l'Uomo gli rispose: «Cerco un posto dove scagliarti!». Allora il Gigante, letteralmente terrorizzato, cercò di fuggire lontano dall'Uomo, ma l'Uomo lo inseguì e lo calmò. La notte seguente, il Gigante dormì male. Per tutto il tempo continuò a pensare al m o d o di liberarsi dall'Uomo, e decise di ucciderlo. L'Uomo però si era già insospettito, e non dormì nel suo letto. Collocò invece un grosso paiolo sotto le coperte e se ne a n d ò a d o r m i r e in un altro angolo della capanna. Intorno a mezzanotte, il Gigante si alzò, prese un grosso randello e assestò con forza estrema un gran colpo sul letto dell'Uomo. Il paiolo andò fragorosamente in frantumi, e così il Gigante credette di avere sfracellato la testa del taglialegna. Tutto contento se ne t o r n ò a letto, convinto che il suo n e m i c o fosse morto. La mattina dopo il Gigante si alzò presto, cantando e saltando dalla gioia, perché credeva di avere ucciso l'Uomo. I m p r o v v i s a m e n t e sentì l'Uomo che gli diceva: «Perché questa notte hai fatto come se io fossi tua moglie?». Il Gigante, spaventato, chiese con meraviglia: «Come dici?». «Intorno a mezzanotte sei venuto da me e mi hai baciato» replicò l'Uomo. 101
Il Gigante si stupì ancora di più e n o n credeva alle proprie orecchie. Si disse: "E sì che l'ho colpito con un grosso randello, eppure per lui questo non è stato più che un bacio amichevole. Non c'è dubbio che sia assai più forte di me". I giorni passavano e il Gigante e l'Uomo vivevano insieme in questo m o d o singolare. Un giorno il Gigante disse all'Uomo: «È da tanto che non mangiamo carne fresca. Che ne dici di a n d a r e in quella fattoria e rubare un paio di pecore?». L'Uomo rispose: «Va bene. Ma io non mi abbasso a prendere u n a sola pecora: o tutto il gregge o niente!». Allora il Gigante disse: «D'accordo, tu n o n p r e n d e r a i niente. Vado dentro io da solo e prendo le pecore. Intanto tu farai attenzione che non arrivi nessuno». I due a n d a r o n o alla fattoria e il Gigante rubò le pecore. Ne prese due sotto le ascelle e se ne ritornò indietro. L'Uomo lo seguì, ma q u a n d o si trattò di saltare oltre la siepe, rimase impigliato con un piede, e si ferì con u n a spina. Cominciò allora a lamentarsi e a gridare: «Ahi! Ahi! Ahi!». Il Gigante gli chiese il motivo di t u t t o quel gridare. «Una spina! Una spina! Una spina!» si lamentò l'Uomo. «Ma perché gridi tanto?» chiese il Gigante, ma l'Uomo non fece altro che continuare a gridare: «Una spina! Una spina! Una spina!». Quando f u r o n o abbastanza lontani dalla fattoria, il Gigante disse all'Uomo: «Fammi vedere la spina che ti fa tanto male!». L'Uomo si stese a terra e protese il piede verso il Gigante. Questi estrasse la spina e disse: « D u n q u e il motivo era solo questo! Tutto qui! E tu eri quello che mi aggrediva e si metteva t a n t o in m o s t r a ! Dov'è finita t u t t a la t u a p o t e n z a ? Dov'è la tua forza?». E con un gesto rapido il Gigante si ficcò come se niente fosse la spina in un occhio. Si rivolse quindi all'Uomo e lo uccise con un sol colpo. 102
18. I L F A B B R I C A N T E D ' O R O
C'era u n a volta, t a n t o t e m p o fa, u n a g r a n d e città, che aveva molte belle case e palazzi, alte m u r a e un p r o p r i o re. Un g i o r n o arrivò in q u e s t a città u n o scienziato e si fece a s s u m e r e c o m e i n s e g n a n t e in u n a delle maggiori scuole. Costui però era in grado di trasformare in oro vili metalli, e la notizia di ciò giunse fino all'orecchio del sovrano. Egli fece chiam a r e al suo cospetto lo scienziato e gli chiese: «È vero che tu sai trasformare i metalli in oro?». Lo scienziato rispose: «No, n o n è vero». Allora il re si a r r a b b i ò , ripetè a n c o r a due volte la d o m a n d a allo scienziato, in tono sempre più aspro, e dal m o m e n t o che questi continuava a negare, lo fece rinchiudere in un sotterraneo, dove si trovò completamente solo. Dopo qualche tempo, il re, travestito, andò dal prigioniero e gli fece credere di essere anche lui prigioniero. «Dal m o m e n t o che siamo chiusi qui dentro insieme,» disse allo scienziato « a b b a n d o n i a m o ogni diffidenza e raccontiamoci l'un l'altro il motivo per cui siamo prigionieri.» Allora lo scienziato raccontò all'altro di essere stato rinchiuso dal re per non avergli svelato come si faccia a trasformare i metalli in oro. «Sei davvero in grado di farlo?» chiese il compagno di prigionia, stupito. «Sì,» rispose lo scienziato «e se vuoi te lo spiego!» E così gli svelò l'arte di trasformare gli elementi. Poco dopo il re si allontanò di lì, ritornò nella sala del t r o n o e fece c h i a m a r e lo scienziato. «Tu eri in prigione» gli disse «e io ti ho ingannato. È a me, infatti, che tu hai svelato l'arte di trasformare i metalli in oro.» Lo scienziato ne fu assai contrariato. A questo punto, quando fu di nuovo a casa, prese un pacco di fogli, scrisse in molte copie come si fa a trasformare i metalli in oro e andò a distribuirli in tutte 103
le case della città. Ben presto gli abitanti cominciarono a t r a m u t a r e tutto in oro, e in questo m o d o divennero incredibilmente ricchi. Non ebbero più bisogno di a r a r e , a b b a n d o n a r o n o l ' i n s e g n a m e n t o , divennero pigri e negligenti. Ben presto da loro il grano divenne così caro che ogni chicco era venduto a peso d'oro; e dopo qualche tempo di grano n o n ce ne fu proprio più. Allora la gente provò a mangiare e a respirare oro in polvere, ma ne morirono. La terra invece diede u n o scrollone e fece precipitare le mura, e l'oro rimase sparpagliato sotto forma di pietre e terra sbriciolata, e nessuno lo volle. Fu così che la grande città cadde completamente in rovina e adesso non la abita più nessuno.
19. I L C O N T A D I N O E I L R E
C'era u n a volta un re che aveva un figlia a lui assai cara. Un giorno, mentre era seduta sul balcone, il fazzoletto di seta in cui aveva avvolto il proprio anello le cadde a terra senza che essa se ne accorgesse. In quel m o m e n t o di sotto passava u n a mucca nera con u n a macchia bianca sulla fronte, che ingoiò il fazzoletto con l'anello. Unica testimone u n a contadina che, trovandosi nei pressi, aveva visto tutto. Ora, q u a n d o la principessa si accorse che il suo fazzoletto con l'anello n o n c'era più, pianse a lungo la sua perdita. Ben presto il re si avvide che la figlia era triste e gliene chiese il motivo. Allora essa gli raccontò che il suo fazzoletto di seta e il suo anello erano scomparsi, e lei n o n sapeva come. Il re fece subito annunciare per tutta la città che chi avesse saputo indovinare dov'erano il fazzoletto e l'anello della principessa sarebbe dovuto venire a palazzo, dove lo attendeva u n a ricompensa. Allora la contadina disse al marito: «Va' dal re, trac104
cia linee magiche sulla sabbia come f a n n o gli indovini, e annuncia al re che gli oggetti perduti si trovano nello stomaco di u n a vacca nera con u n a macchia bianca sulla fronte». L'uomo si recò allora dal re, fece finta di essere un indovino, e alla fine disse: «Il fazzoletto e l'anello si trovano nello stomaco di u n a vacca nera con u n a macchia bianca sulla fronte». Il re fece passare in rassegna tutte le mucche del palazzo finché trovò quella descritta dal contadino. Fece quindi venire il macellaio che dovette sgozzare la mucca. Quando fu aperto lo stomaco, al suo interno vennero trovati il fazzoletto e l'anello. Allora il re disse ai suoi visir: «Ricompensate questo sapiente!». Il contadino ricevette la sua ricompensa e se ne andò per la sua strada. Un giorno u n a b a n d a di quaranta ladroni penetrò nella stanza del tesoro del re e p o r t ò via u n a g r a n quantità di oggetti preziosi. Allora i visir dissero al re: «C'è solo u n a persona che sia in grado di dire chi ha depredato la stanza del tesoro, ed è quel sapiente che ha permesso il ritrovamento del fazzoletto con l'anello della principessa». Il re fece venire il contadino e gli disse: «Uomo sapiente, la mia stanza del tesoro è stata depredata. Tu devi dirmi chi è stato il ladro!». Il contadino rispose: «Lo scoprirò, ma devi avere un po' di pazienza!». Tornò quindi a casa e disse alla moglie: «Qualcuno ha depredato la stanza del tesoro del re, e adesso il re pretende che io scopra chi è stato il ladro. Sei tu che mi hai cacciato in questa difficile situazione, adesso aiutami a venirne fuori!». La moglie rispose: «Di' al re che deve darti q u a r a n t a giorni di tempo, e un montone ogni giorno». Il contadino si ripresentò al re e gli chiese quaranta giorni di tempo e altrettanti montoni. Il re acconsentì e gli diede subito il primo montone. In tutta la città si sparse immediatamente la voce 105
che lo stesso sapiente che aveva scoperto l'ubicazione del fazzoletto e dell'anello della principessa era stato incaricato di rintracciare i ladri del tesoro reale. Q u a n d o i ladroni ebbero notizia di ciò, tennero consiglio e decisero di m a n d a r e uno di loro a casa di quel sapiente per scoprire se quell'uomo sapeva veramente qualcosa o no. Il ladrone andò a casa sua e si arrampicò sul tetto per sentire quello che si diceva all'interno. Proprio in quel m o m e n t o il contadino arrivava a casa col suo primo montone, e appena entrato disse alla moglie: «Eccone uno!» alludendo al m o n t o n e . Ma il ladrone sul tetto si disse: «Mi ha visto!» e decise di andarsene. Giunto dai suoi compagni, raccontò loro quello che era successo. Allora essi decisero di m a n d a r e l'indomani un altro ladrone a casa del sapiente per poi riferire. Il giorno dopo il contadino riportò a casa un altro montone, ed entrando disse alla moglie: «Ecco qui il secondo!». Il secondo ladrone si spaventò perché anche lui pensò che alludesse a lui, e fuggì a rotta di collo dai suoi compagni. E la stessa cosa si ripetè nei giorni che seguirono. Il quarantesimo giorno l'uomo disse: «Questo è il q u a r a n t e s i m o e ultimo!» e il ladrone sul tetto lo udì, scappò come tutti quelli che lo avevano preceduto e riferì la cosa ai suoi compagni. Allora essi tennero un lungo consiglio sul da farsi, p e r c h é e r a n o convinti che il sapiente avesse visto o g n u n o di loro e potesse descriverli al re. Alla fine decisero di recarsi di notte a casa del sapiente e di corromperlo affinché non li tradisse. Si recarono quindi di soppiatto quella notte a casa del contadino e gli diedero u n a bella s o m m a di denaro. «Questo te lo regaliamo se tu non riveli la nostra identità al re. Questa notte riporteremo anche tutti gli oggetti che avevamo rubato nella stanza del tesoro.» 106
Il contadino accettò il denaro e promise loro di tacere. Il giorno dopo a n d ò dal re e gli disse: «O mio signore! Nella tua stanza del tesoro è ora presente tutto quello che mancava». Ma non tradì i ladroni. Il re si accertò da sé che tutto fosse esatto e fece ricompensare generosamente quell'uomo. Ma i visir erano invidiosi del contadino e sussurr a v a n o di n a s c o s t o che egli n o n fosse un sapiente bensì un semplice contadino. Naturalmente la voce giunse al re, e chiese ai visir che cosa proponessero. «Dovremmo mettere alla prova quell'uomo!» dissero tutti quanti, e il re accettò. Presero allora tre vasi e misero nel primo del burro, nel secondo del miele e nel terzo della pece, dopodiché li sigillarono col coperchio e li collocarono in u n a stanza che chiusero a chiave. Venne q u i n d i c h i a m a t o il sapiente e gli fu chiesto: «Che cosa c'è in questa stanza? Se sei capace di dircelo ti riconosceremo come saggio!». Il c o n t a d i n o rifletté a lungo, f i n o a essere assai stanco, e alla fine esclamò: «La p r i m a è stata un burro, la seconda dolce come il miele, ma la terza è nera come la pece!» alludendo con ciò alle tre occasioni in cui gli era stato richiesto di fare l'indovino. Il re e i visir credettero che l'uomo avesse scoperto il contenuto dei tre vasi, e dissero che era veramente un sapiente. Lo r i c o m p e n s a r o n o n u o v a m e n t e e da allora in poi lo tennero sempre nella più alta considerazione.
20. I L P E S C A T O R E C H E A N D Ò DAL R E
C'era u n a volta un pescatore, che un giorno catturò un bel pesce. Allora pensò: "È il p r i m o pesce che ho catturato quest'anno. Lo donerò al re". Prese il pesce, a n d ò al p a l a z z o e si p r e s e n t ò nella sala delle 107
udienze. I sorveglianti gli chiesero: «Perché sei venuto qui?». Egli rispose: «Voglio fare un d o n o al re». Allora lo condussero al suo cospetto. Il pescatore si fece avanti, reggendo il pesce con le due m a n i e si inchinò davanti al re toccando terra con la fronte. Il re disse: «Dategli cento monete d'oro!». I sorveglianti gli diedero ciò che il re aveva comandato, e il pescatore uscì. Allora il visir disse al re: «Ti ha dato un pesce e tu gli hai dato cento monete d'oro. In questo m o d o la camera del tesoro si svuoterà in fretta!». Il re rispose: «Ormai l'ho fatto». Ma il visir proseguì dicendo: «Richiamalo e chiedigli se quel pesce è maschio o femmina. Se il pescatore dice che è un maschio, digli: "Portami anche u n a femmina!" e se dice che è u n a femmina, digli: "Portami anche un maschio!"». I sorveglianti richiamarono il pescatore, e q u a n d o questi entrò, il re gli chiese: «Questo pesce è maschio o femmina?». Il pescatore si inchinò e rispose: «O mio signore, esso è ermafrodito, e quindi non è né maschio né femmina». Allora il re ordinò: «Dategli cento monete d'oro per questa risposta!». I sorveglianti gli diedero di nuovo cento monete d'oro, e il pescatore uscì un'altra volta. Mentre attraversava l'anticamera, gli cadde a terra u n a moneta d'oro. Egli si chinò e la raccolse. Il re e il visir lo videro. Allora il visir disse al re: «Hai visto, mio signore? Quest'uomo, cui tu hai dato duecento monete d'oro, non ha saputo resistere e si è chinato a raccogliere un'unica moneta d'oro che gli era caduta a terra. Non ha voluto lasciarla ai sorveglianti». Allora il re disse: «Richiamatelo!». 1 sorveglianti richiamarono il pescatore, e per la terza volta costui entrò nella sala delle udienze. Il re gli disse: «Io ti ho dato duecento monete d'oro, a te ne è caduta in terra u n a sola e tu n o n hai saputo resistere e ti sei chinato a raccoglierla». Il pescatore gli rispose: 108
«Che Dio ti dia la grazia, o mio signore! Non ho mancato in quanto al mio comportamento, dal m o m e n t o che sulle monete d'oro sta scritto il nome del mio sovrano. Se io avessi lasciato stare la moneta d'oro, altri l'avrebbero calpestata. È per questo che ho sollecitamente raccolto da terra il nome del mio sovrano». Allora il re si rivolse al visir e gli disse: «Di solito chi si reca dal sovrano gli porta qualcosa per arricchirlo. Quest'uomo si è recato da noi e invece sta a noi arricchirlo. Gli vengano date altre cento monete d'oro. E tu» ordinò al visir «dagli trecento monete d'oro perché mi hai dato questi consigli». Al p e s c a t o r e v e n n e r o quindi d a t e cento m o n e t e d'oro, e dal visir egli ne ebbe altre trecento, cosicché se ne tornò a casa con seicento monete d'oro.
21. LA SCHIAVA F U R B A
C'era u n a volta un re che aveva u n a schiava negra molto furba. Un giorno, mentre era seduto con lei sulla veranda, vide passare nel vicolo sottostante un u o m o che recava sulla schiena u n a fascina di legna. Allora il re disse: «Guarda questo p o v e r u o m o ! Come si affatica e quanto sudore gli cola dalla fronte!». La schiava rispose: «Dipende tutto da sua moglie! O è pazza, o p p u r e è assai f u r b a e sa come tenere il marito!». Il re fu indispettito da queste parole - che dipendesse, cioè, dalla d o n n a se il marito fosse ricco o povero e disse al suo servitore: «Fai salire qui quel taglialegna!». Quando il taglialegna comparve al cospetto del re, questi gli disse: «Ti faccio dono di questa schiava». Pensava infatti tra sé: "Voglio proprio vedere se può o meno rendere ricco quest'uomo". Ciò detto li licenziò entrambi. 109
Il taglialegna vendette come al solito la sua fascina al mercato e si portò dietro la schiava fino a casa. Q u a n d o essa vide q u a n t o p o c o aveva o t t e n u t o al mercato per il legname, gli disse: «Ecco, prendi questi dieci talleri e con essi compra tutto quello di cui a b b i a m o bisogno; ma domani non portare al mercato la legna da ardere, portala a me!». L'uomo fece come essa gli aveva detto e il giorno dopo portò a lei la legna che aveva raccolto. La schiava esaminò per bene la fascina e si accorse che era legno di aloe della migliore qualità, troppo prezioso per usarlo come legna da ardere. Sarebbe stato molto meglio, pensò, usarlo per incensare gli ambienti. Perciò diede ancora all'uomo del denaro per fare le compere, e anche il giorno seguente si fece portare la legna. Separò il legno più pregiato da quello di m i n o r valore, dopodiché confezionò delle fascine col legno migliore, ne fece un involto e le portò in dono ai signori del governo e ai ricchi della regione. Tutti conti accambiarono con altri doni, a seconda delle loro ricchezze, e così la donna ottenne assai più di quanto fosse il valore del legname sul mercato. Andò avanti parecchio t e m p o in questo modo, e la schiava riuscì a metter via u n a considerevole s o m m a di denaro. Con esso acquistò un giorno un gruppo di case, le fece radere al suolo e al loro p o s t o fece c o s t r u i r e un p a l a z z o identico, fin nei minimi dettagli, a quello del re. Inviò quindi un servitore dal sovrano e gli chiese di venire al palazzo in qualità di ospite. Il re venne e fu molto stupito q u a n d o si trovò davanti al portone e vide che era bello come il suo. Entrò e si meravigliò ancor di più perché anche all'interno il palazzo era identico al suo. I servi portarono da mangiare e anche questo cibo era cucinato come quello che mangiava tutti i giorni. Allora entrò la schiava, lo salutò r i s p e t t o s a m e n t e e gli chiese: «O m i o signore, che 110
hai? N o n dici nulla!». Allora egli riconobbe la sua schiava e rispose: «Non mi resta che dire: "Dipende solo dalla donna!"».
22. IL M E D I C O S A G G I O
C'era u n a volta un re - benché in verità non vi sia vero re al di fuori di Allah -, e questo re amava il cibo sopra ogni cosa. Ogni giorno ne mangiava immense quantità e non era soddisfatto finché la pancia non era p i e n a al p u n t o da poterci t a m b u r e l l a r e sopra. Così ingrassò e, strato di lardo dopo strato di lardo, diventò r o t o n d o c o m e u n a botte e pieno c o m e un sacco. A un certo punto non potè più uscire all'aperto (andare a cavallo non gli riusciva più già da tempo) e se gli capitava di passeggiare qualche istante nel giardino, sudava e ansimava come un mantice. Ben presto dovette trascorrere l'intera giornata disteso sul sofà, sentendosi poco bene. Quando infine si accorse di essere malato, chiamò il dottore e si fece somministrare i suoi rimedi, ma nessuno di essi gli diede g i o v a m e n t o . Li provò u n o d o p o l'altro e m a n d ò giù diverse medicine, ma sempre senza successo. Fece allora annunciare dai banditori per tutta la città che il medico che lo avesse guarito avrebbe ottenuto in moglie sua figlia; ma chi non avesse avuto successo sarebbe stato decapitato. N a t u r a l m e n t e , nessun medico si azzardò a farsi vedere a corte, poiché tutti temevano per la propria vita. Tra i consiglieri del re vi era però un u o m o saggio che, p u r non essendo un dottore, si recò un giorno in udienza dal re, lo baciò e gli disse: «O re, mio signore, io sono medico e astrologo, e per guarirvi devo osservare le stelle questa notte». «Fatelo allora» ili
disse il re «e domattina presto venite subito da me e datemi il responso!» L'uomo andò a casa, mangiò, bevve e si mise tranquillamente a dormire. La mattina seguente le guardie del corpo del re bussarono alla sua porta, ed egli fece riferire loro dai servi che alle nove si sarebbe presentato. E difatti, all'ora stabilita, si recò nella sala delle udienze, baciò il re e gli disse: «Non sforzatevi a trovare un rimedio, o re mio signore, giacché vi rimane solo un mese di vita». Questi gli chiese imperiosamente: «È vero quello che dite?». «Sì,» rispose l ' u o m o «potete f a r m i gettare in p r i g i o n e e se t r a trenta giorni non sarete ancora morto, allora potrete farmi tagliare la testa.» Allora il re lo fece gettare in prigione. Ma dal mom e n t o che era f e r m a m e n t e convinto che questa diagnosi fosse vera, non ebbe più voglia di mangiare e non riuscì n e m m e n o più a starsene fermo sul letto. Divenne inquieto, si aggirava per il giardino ammir a n d o la bellezza degli alberi e dei fiori, gustando il loro p r o f u m o e i loro colori; gli destava grande mestizia il fatto di dovere abbandonare tutte queste bellezze, e per l'afflizione non riusciva più né a mangiare né a dormire. Dopo dieci giorni, ebbe perso tanto grasso da essere in grado di farsi sellare il cavallo e montarlo, facendo un giro in luoghi selvaggi. Il gran m o v i m e n t o gli fece p e r ò bene, e la fatica gli fece quasi dimenticare le sue preoccupazioni. Continuava invece a trovare poco gusto per il cibo e si nutriva assai poco, divenendo, in capo ad altri dieci giorni, veramente magro. Il prigioniero chiese al g u a r d i a n o della prigione c o m e stesse il re, e venne i n f o r m a t o dei singolari cambiamenti che si erano prodotti in lui. Allora fece p o r t a r e al re dal g u a r d i a n o u n a missiva in cui gli chiedeva udienza. Il re gliel'accordò. Dopo avere sa112
lutato e baciato il re, il saggio gli disse: «O re, mio signore, promettetemi che non mi punirete e io vi com u n i c h e r ò u n a cosa». Il re gli p r o m i s e l'impunità per ciò che avrebbe detto, e l'uomo proseguì: «Dovete sapere, o re, che io non sono un medico e neppure un astrologo; ho dovuto ricorrere a quest'astuzia per guarirvi, perché solo questo avrebbe funzionato: la p a u r a della m o r t e , i pensieri e le p r e o c c u p a z i o n i . Ora voi siete tornato in salute, e vi posso confessare che io n o n so q u a n t o a lungo durerà la vostra vita, perché nessuno al di fuori di Allah conosce la lunghezza della vita degli uomini. Vi auguro u n a lunga vita! Siate riconoscente ad Allah per la salute che vi ha restituito, lodate l'Onnipotente per i suoi beni e mantenete la promessa che avevate fatto di dare vostra figlia in moglie a colui che vi avesse guarito!». Allora il re lo baciò sulla fronte, gli perdonò l'astuzia e disse: «Le nozze saranno tra otto giorni». Quindi n o m i n ò ministro quell'uomo saggio e da quel giorno governò con m o d e r a z i o n e e r i m a s e in salute per tutta la vita. Sia lode a Dio che conserva nelle proprie mani malattia e guarigione!
23. U N S A G G I O C O N S I G L I O
Un u o m o , m o r e n d o , disse al figlio: «Non s p o s a r e u n a vedova, non comprare un cavallo recalcitrante e non diventare amico del cadì!». Il figlio tenne a mente tutto ciò, deciso, un giorno, a verificarlo. Qualche t e m p o dopo la m o r t e del padre, si sposò con u n a vedova, acquistò un cavallo ostinato e fece dei doni al cadì fino ad acquisirne l'amicizia. Una notte andò di nascosto in cortile, prese u n a pecora, la ricoprì col suo mantello, dopodiché la mise accanto al suo cavallo, rientrò in casa e 113
svegliò la moglie: «Guarda, un ladro vuole portarmi via il cavallo!». La moglie disse: «Prendi il tuo fucile e uccidi il ladro!». Il giovane fece come gli era stato consigliato, poi le chiese: «E adesso dove metto il cadavere?». «In u n a cassa» disse la moglie. Egli nascose il fagotto insanguinato in u n a grande cassa e cominciò quindi a percuotere la moglie finché questa si mise a gridare così forte da far accorrere tutta la gente. «Prima ha s p a r a t o a un u o m o , e adesso mi vuole uccidere» continuava a gridare. Allora vennero i soldati per arrestarlo. Egli cercò di mettersi in salvo fuggendo a cavallo, ma l'animale recalcitrante n o n gli fu di nessun aiuto. I soldati lo a f f e r r a r o n o e lo p o r t a r o n o dal cadì. Costui lo fece gettare in prigione, ma l'uomo si mise a ridere a crepapelle facendo un tale r u m o r e che il cadì lo fece richiamare e gli chiese perché ridesse in quel modo. «Se tu sapessi la mia storia, rideresti anche tu» rispose il giovane. Raccontò quindi al cadì quello che gli aveva consigliato il padre p r i m a di morire e perché avesse f a t t o t u t t a q u e s t a c o m m e d i a . Il cadì m a n d ò subito i soldati a casa della vedova per prendere il cadavere del ladro, e questi tornarono con la pecora uccisa. Allora risero tutti e due, e l'uomo disse: «Aveva d u n q u e ragione mio padre q u a n d o mi disse: "Non sposare u n a vedova, n o n comprare un cavallo recalcitrante e n o n diventare amico del cadì!"».
24. LA G R O S S A E R E D I T À
C'era u n a volta un u o m o che nell'arco di u n a vita passata nel commercio aveva guadagnato molte ricchezze, ma le aveva spese t u t t e c o n u n a c o n d o t t a dissipata, dedita allo sfarzo, al bere e al gioco d'azzardo. Q u e s t ' u o m o aveva due figli. Q u a n d o questi 114
f u r o n o cresciuti e c o m i n c i a r o n o a g u a d a g n a r e per conto loro, ricavandone di che vivere bene, si adirarono col padre che aveva scialacquato tutti i suoi beni. Dal m o m e n t o che ora quell'uomo stava diventando anziano e imbelle ma n o n riceveva aiuti dai figli, a n d ò da un a m i c o e gli disse: «La pace sia con te, mio caro amico, che Dio ti benedica! Vorrei da te un consiglio su quello che dovrei fare perché i miei figlioli n o n mi a m a n o e mi f a n n o m a n c a r e ogni sostegno». Allora l'amico rispose: «Che Dio ti dia clemenza! Tu devi dire così ai tuoi figlioli: "Una volta ho prestato u n a grossa s o m m a di denaro al mio amico, o r a egli me la restituirà"». L'uomo lo r i n g r a z i ò e tornò a casa. Qualche giorno più tardi venne a visitarlo l'amico p o r t a n d o con sé u n a grande e pesante cassapanca. «Che Dio accresca il tuo bene!» disse costui. «Eccoti indietro il tuo denaro.» L'uomo mostrò grande contentezza e disse ai suoi figli: «Questo denaro che il mio amico mi ha restituito lo lascio a voi in eredità. Io controllerò solo che nulla vada perduto. Un terzo di esso a n d r à distribuito ai poveri e un terzo appartiene a ciascuno di voi». Da allora in poi l'uomo fece la guardia alla cassapanca; se doveva assentarsi un attimo, chiudeva per bene a chiave la porta della stanza. I suoi figli n o n gli fecero m a n c a r e nulla, esaudirono ogni suo desiderio fino alla sua morte. In tal m o d o egli aveva nuov a m e n t e e d u c a t o al b e n e i suoi figlioli. Q u a n d o morì, essi aprirono la cassapanca e la trovarono piena di sassi. Allora essi riconobbero che l'educazione al bene e l'amore per i genitori sono meglio di qualunque ricchezza di questo mondo.
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25. LA G U A R I G I O N E D E L L ' A V A R O
Nel nostro paese viveva un t e m p o un u o m o così avaro che dava da mangiare alla moglie solo zuppe brodose o minestrine annacquate. Addirittura, se arrivavano degli ospiti, si nascondeva e faceva dire da sua moglie che lui non era in casa, in modo da n o n dovere offrire loro il pane e il miele con cui si sogliono accogliere gli ospiti. E tuttavia non era così povero come sembrava, anzi conservava oro e argento in un nascondiglio sotto il materasso. Un giorno i due fratelli della moglie vennero in visita alla sorella e le chiesero come se la passasse. Ed essa si lamentò con loro della povertà in cui versava e del fatto che il marito la nutrisse solo con minestrine a n n a c q u a t e . Ciò suscitò l'ira dei fratelli, che si misero d'accordo con la sorella per dare u n a lezione a quell'avaraccio. La sorella acconsentì. I d u e fratelli a n d a r o n o allora al m e r c a t o e comprarono dell'oppio. Quindi cercarono il cognato e lo invitarono a mangiare in u n a tenda del mercato. Fecero servire u n a portata dopo l'altra: montone arrosto, cuscus, dolci di mandorle. Mentre loro due n o n m a n g i a r o n o quasi nulla, il cognato si avventava su ogni portata, perché - si diceva - quello che è regalato ha più sapore. I fratelli lo a c c o m p a g n a r o n o fino alla porta di casa, quindi si accomiatarono. A casa l'uomo andò a stendersi e cominciò ben presto a dormire come un sasso, o meglio perse i sensi in seguito alla grande quantità di oppio che aveva ingerito, senza saperlo, insieme al cibo. Quando fu buio, i due fratelli ritornarono, portarono fuori l'uomo privo di sensi, lo cucirono in un bianco lenzuolo, in cui lasciarono solo u n a piccola apertura all'estremità del capo, e lo portarono al cimitero. Qui scoperchiarono u n a t o m b a vuota e vi posero dentro l'uomo, proprio 116
come avrebbero fatto con un cadavere. Poco alla volta, vuoi per il freddo della notte, vuoi per la scomodità del trasporto, l'uomo cominciò a riprendersi. A questo p u n t o i due fratelli si travestirono: u n o si infilò nella pelle di u n a iena, e l'altro in quella di u n a pantera nera. Presero anche un manganello ciascuno e cominciarono, a turno, a somministrare u n a gragnuola di colpi all'individuo avvolto nel lenzuolo fùnebre. In questo m o d o l'uomo si ridestò completamente e riprese i sensi. Attraverso l'apertura che era stata lasciata all'estremità del capo vide che si trovava al cimitero e comprese subito la sua terribile situazione: le due figure animalesche che lo bastonavano n o n potevano essere altro che Munkir e Nakir, i due angeli inquisitori. Quando, a questo punto, cominciò a gemere e a chiedere pietà, i due uomini travestiti si fermarono per un po' e cominciarono il loro interrogatorio: «Quando hai dato ai poveri quello che ti era possibile?» . E l'altro chiese: «Quando hai procurato a tua moglie un vestito nuovo o un pasto decente?». E così via con le domande, cui l'avaro poteva rispondere solo: «Ho tralasciato di farlo». Lo incalzarono a tal punto da farlo scoppiare in lacrime. Allora lo percossero ancora più forte di p r i m a fino a fargli perdere conoscenza un'altra volta. Si tolsero i travestimenti e riportarono a casa l'uomo privo di sensi. Alla sorella dissero: «Non preoccuparti, q u a n d o domattina si risveglierà sarà guarito dall'avarizia! ». E se ne andarono per la loro strada. Quando, l'indomani, l'uomo tornò in sé e si fu, un po' alla volta, ripreso dalle percosse, andò al mercato e acquistò farina di qualità, miele e mandorle, carne e frutta, in breve tutto quello che occorre a un u o m o per m a n d a r e avanti la casa. A tutti i mendicanti che incontrò diede u n a ricca elemosina. Quando fu di ritorno con tutte queste buone cose da mangiare e le 117
diede da cucinare alla moglie, essa fu felice della trasformazione. Non ebbe più da lamentarsi, perché il marito rimase generoso e liberale finché visse.
26. IL CADÌ E IL C A C C I A T O R E
Nei t e m p i a n t i c h i viveva un c a c c i a t o r e che t u t t i i giorni se ne andava nella steppa ricca di prede o nel folto dei boschi, e tornava alla sera con il nutrimento per l'indomani. Un giorno uccise u n a p e r n i c e così grassa c o m e non ne aveva mai ucciso. Allora egli decise di farla arrostire nel f o r n o del villaggio farcita di tutto ciò che poteva insaporirla: aglio, cipolla, spezie ed erbe aromatiche. La mattina dopo la portò dal fornaio e gli raccom a n d ò di occuparsi di quella gustosa pernice e di non dimenticarla nel forno lasciandola bruciare. Il caso volle che quel giorno il cadì passasse davanti al forno, nel corso della sua passeggiata quotidiana, e, raggiunto dall'odorino delizioso, si dirigesse incuriosito dal fornaio al quale disse: «Quale cibo gustoso sta d u n q u e cuocendo nel tuo forno?». «O signore,» rispose il fornaio «si tratta di u n a pernice ripiena, che appartiene al cacciatore del villaggio. È il suo cibo per il pranzo di oggi.» Al che il cadì gli disse, con l'acquolina in bocca: «Dammi questa pernice! È di mia spettanza, la mangerò io». Ma il f o r n a i o replicò s c o n t e n t o : «Io n o n p o s s o darti qualcosa che non mi appartiene! E cosa dirò al cacciatore?». «Dammi ciò che ti ho ordinato!» disse il cadì con energia. «E se viene il cacciatore, cerca di liberartene. Se non riesci a persuaderlo, allora digli che la pa118
rola toccherà al cadì!» E ciò detto il cadì si prese la pernice e se ne andò. Quando, a mezzogiorno, il cacciatore venne al forno, richiese la propria pernice, ma il fornaio replicò: «Ma di quale pernice parli? Tu n o n mi hai dato un bel niente. Guarda nel forno! C'è dentro solo pane». Allora il cacciatore esclamò: «Ma cosa stai dicendo? Questa mattina ti ho lasciato u n a pernice ripiena e ti avevo detto di cuocermela». Il fornaio rispose: «Vedo proprio che non mi vuoi credere. Vieni, a n d i a m o dal cadì. Deciderà lui la nostra controversia!». Il cacciatore accettò la proposta e a n d a r o n o tutti e due dal cadì. Quando giunsero da lui, il cadì disse al cacciatore: «Esponi le tue lamentele!». «O signor giudice,» esordì il cacciatore «stamattina presto ho dato u n a p e r n i c e a q u e s t o f o r n a i o p e r c h é me la cuocesse. Adesso che sono venuto a riprendermela, egli sostiene che io non gli avrei dato un bel niente. Voglio avere la m i a pernice, p e r c h é si t r a t t a del m i o p a s t o odierno!» Il cadì rifletté sulla risposta, dopodiché disse in tono di sfida: «Per questa lagnanza dobbiamo chiedere consiglio al libro sacro. Esso ci rivelerà la soluzione della vertenza».Quindi il cadì aprì un libro e disse: «Il libro sacro dice che la tua pernice se ne volata via». Il cacciatore fu m o l t o meravigliato di questa risposta e chiese: «Se la mia pernice se n'è volata via, se ne sarà volata via in c o m p a g n i a dell'aglio, delle spezie e del resto?». Il cadì fu sorpreso dall'assennatezza del cacciatore e riferì quello che era successo: «Sono io che ti ho preso la pernice perché il suo p r o f u m i n o mi aveva solleticato le narici. Ma n o n sia detto che tu debba rinunciare a questo pasto. Ti pagherò il valore della pernice, e ti invito a colazione con me». 119
In questo m o d o il cacciatore si sedette alla mensa del cadì e o t t e n n e in d o n o u n a b o r s a di m o n e t e d'oro. La saggezza e la prontezza nel parlare sono la via del riscatto.
27. L O S T R A N O D O N O N U Z I A L E
In u n a lontana città viveva un tempo un vecchio saggio e devoto. Viveva solo col suo unico figlio, perché la moglie era m o r t a p r e m a t u r a m e n t e . Il vecchio provvedeva da sé all'educazione del figlio, il quale così amava e rispettava suo padre. Quando il figlio ebbe finito il corso di studio nella scuola coranica del luogo, volle a n d a r e alla scuola superiore di teologia nella capitale, e cominciò quindi a parlarne col padre. Un giorno gli disse: «Padre mio! Che Dio ti prolunghi la vita fino a vedere tuo figlio diventare cadì. Ho infatti intenzione di a n d a r e alla scuola superiore di teologia nella capitale e studiare giurisprudenza e chiedo perciò la tua approvazione insieme alla tua benedizione. Infatti tu hai sacrificato tutto per il mio bene, hai vegliato insonne perché io potessi riposarmi, i n s o m m a sei stato per me al contempo un padre e u n a madre!». L'anziano genitore n o n era m a i a n d a t o a scuola ma aveva i m p a r a t o a leggere nel libro della vita. Quando suo figlio gli comunicò il proposito di divent a r e giudice, lo osservò c o n i suoi occhi divenuti stanchi e saggi per la lunga vita e gli disse: «Figliolo, io preferirei invece che tu restassi a vivere con me. Sarebbe per me preferibile che tu allevassi pecore e capre e vendessi carbone di legna piuttosto che vederti studiare e sciupare il tempo con l'intenzione di diventare cadì». 120
Il figlio fu assai meravigliato da questa risposta, per cui chiese al padre: «Perché giudichi così male il mestiere di cadì? I giudici non sono forse coloro che conoscono il Corano e vegliano sulla sua osservanza? Non sono essi che puniscono i ladri e proteggono i buoni?». Per convincere il figliolo, il padre prese a narrare la storia che segue: «Si racconta che un tempo vivesse un giovane di n o m e H a s s a n . Un g i o r n o q u e s t o Hassan si i n n a m o r ò di u n a ragazza di n o m e Zeinab, che però era assai più ricca di lui. «Ciononostante, Hassan andò dai genitori di lei a chiedere la sua m a n o , ma, come era da aspettarsi, costoro si rifiutarono di dare la figlia in moglie a un giovane più povero. Dal m o m e n t o che Hassan persisteva nella s u a richiesta, il p a d r e della ragazza richiese un dono nuziale che Hassan n o n avrebbe mai potuto permettersi: per sua figlia esigeva cento cammelli color zafferano. Sulle p r i m e H a s s a n respinse questa richiesta sconsiderata, ma poi si rassegnò e acconsentì a pagare questo dono nuziale. «Sfortunatamente, l'unico che allevasse cammelli color zafferano era il principe della loro tribù. Ma costui ne era estremamente geloso e le sue guardie non conoscevano la pietà; a chi veniva scoperto m e n t r e tentava di rubare i cammelli veniva tagliata la m a n o destra. «Un giorno Hassan si aggirava per la città meditando sul m o d o di ottenere la sua sposa. In quella vide sollevarsi nell'aria in lontananza u n a grande nuvola di polvere: era il principe della tribù che ritornava dalla caccia. Il drappello a cavallo si avvicinava e già Hassan poteva distinguere il principe in mezzo alle sue guardie e ai suoi consiglieri. «Improvvisamente balzò fuori un leone, che aveva atteso i cavalieri acquattato dietro u n a roccia, e as121
salì il drappello. I cavalli fecero uno scarto e lasciarono cadere i loro cavalieri. Tutte le guardie e la gente del seguito fuggirono e il principe si trovò all'improvviso solo, a tu per tu con la belva. «Allora Hassan estrasse la spada, si gettò sul leone e con un colpo preciso gli divise in d u e la testa. Il leone crollò a terra morto. « Q u a n d o le guardie videro ciò, si a f f r e t t a r o n o a tornare, ma il principe le scacciò con un gesto irato. Quindi, deposta l'ira, si rivolse al giovane che gli aveva salvato la vita e gli disse: "Ragazzo, ti devo la vita! Per ricompensa potrai chiedere quello che vorrai". « H a s s a n rispose: "Mio signore! Io so q u a n t o tu ami i tuoi cammelli colore del miele e dello zafferano. Ma io ho bisogno di cento di essi come dono nuziale per colei che a m o . R i m a n g o n o due sole soluzioni: o tu mi d a r a i ciò c h e ti chiedo, o p p u r e mi taglierai la testa per avere osato avanzare u n a richiesta così spropositata". «Il principe si passò le dita nella barba, poi disse: "Tu sei coraggioso e le tue richieste non meritano alcun biasimo. Ti darò volentieri ciò che hai chiesto. Ma sta' in guardia da quella gente che ti ha imposto un simile dono nuziale! Essi vogliono la tua rovina". «Hassan toccava il cielo con un dito. Adesso poteva sposare colei che amava. Si recò dai genitori di Zeinab e consegnò loro i cento cammelli color zafferano. Ma le sue fatiche non erano ancora terminate. Il padre di Zeinab fu molto stupito di vedere arrivare Hassan coi cammelli, allora, furioso, disse: "I cento cammelli che hai portato erano la condizione posta dalla m a d r e di Zeinab. Anche a me spetta porre u n a condizione. Dovrai portarmi due grossi sacchi pieni di scorpioni vivi!". «Hassan rimase ammutolito dallo stupore q u a n d o udì questa richiesta insensata. Che dono nuziale sin122
golare! E dove avrebbe trovato u n a simile quantità di scorpioni vivi? Volevano davvero la sua rovina! Tuttavia accettò e uscì tristemente. «Un giorno, m e n t r e se ne stava seduto per terra e tracciava linee e figure nella s a b b i a p e r svelare il proprio destino, sopraggiunse un u o m o che gli chiese: "Perché stai f a c e n d o ciò, figliolo?". H a s s a n gli raccontò tutta la storia della sua richiesta di matrim o n i o e concluse, sospirando, che n o n sapeva che fare. Ridacchiando tra sé l'uomo rispose: "Questo è un p r o b l e m a di facile soluzione. Va' al c i m i t e r o e cerca la t o m b a di un cadì. Scava via la terra dalla tomba e troverai ciò che ti serve". «E così avvenne. H a s s a n prese il suo cammello, due sacchi e un forcone e si recò al cimitero. Davanti alla tomba di un cadì si arrestò. Cominciò a scavare e a togliere la terra, e cosa vide? Quale orrore! La fossa pullulava di neri scorpioni, ne era piena fino all'orlo! «Hassan riempì in fretta i due sacchi e tornò febbrilmente a casa di Zeinab. Le sue prove f u r o n o così finite perché i genitori di Zeinab cessarono di porgli condizioni e gli concessero la m a n o della figlia.» E il vecchio concluse il suo racconto con le parole: «Figlio mio! Vedi quanto è importante condurre u n a vita pura. Le porte del Paradiso sono chiuse per colui che ha mangiato sui beni degli orfani. E vedi quale vergogna insegue un cadì anche dopo la sua morte. È p e r q u e s t o che ti consiglio di a b b a n d o n a r e questa strada che volevi percorrere, perché io n o n vorrei che ti perseguitasse la maledizione degli uomini, in vita e in morte». Il figlio annuì col capo, e u n a lacrima gli percorse la guancia e finì a terra. Si passò la m a n o sul viso, si chinò sulla m a n o del padre e la baciò.
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Storie facete
28. IL S U L T A N O E I B E R B E R I
In quel tempo vi fu un'ennesima tribù berbera che manifestò la propria insubordinazione nei confronti del sultano: non pagavano più tasse e imposte, in occasione delle festività non inviavano più doni ed erano arrivati al punto di malmenare i messaggeri che il sultano inviava loro. Al sultano n o n restò altro da fare che inviare le proprie truppe sui monti contro questa tribù per sottometterla, cosa questa che fu effettuata con successo. A questo p u n t o u n a delegazione dei notabili di q u e s t a t r i b ù dovette recarsi a Fez dal s u l t a n o p e r chiedergli perdono. Essi si avviarono d u n q u e con timore e amarezza. Quando vennero introdotti al cospetto del sultano e videro il suo volto rosso dall'ira, il loro cuore dette un balzo. Parlò allora il più anziano della tribù, un vecchio con la b a r b a bianca, e disse al sultano: «O mio signore, ascoltaci: noi siamo il pascolo e tu sei il ronzino che ci sta sopra, divoraci a piacimento! Noi siamo gli arieti e tu sei il pastore: guardaci secondo la tua volontà! Noi siamo la segale e tu sei l'asino: divoraci come preferisci!». Quando il sultano udì queste parole, scoppiò in u n a sonora risata, quindi disse ai Berberi: «Vi ho perdonati. Ma non sollevatevi mai più contro di me!». 124
29. IL M A E S T R O DI C O R A N O T R A I B E R B E R I
Lassù in alto, in mezzo alle montagne, vivono numerose tribù berbere che parlano solo il loro idioma, la lingua tashelhit, e non conoscono u n a parola di arabo. Del Corano e delle formule di preghiera h a n n o solo u n a vaga idea. Ciononostante si sentono tutti musulmani. Durante la riunione annuale di u n a di queste tribù di montagna, i vecchi si trovarono a parlare ancora u n a volta di questa situazione di emergenza. «Non conosciamo n e m m e n o le parole precise della preghiera» disse un vecchio con la barba bianca. «È u n a vergogna, poiché noi siamo p u r sempre dei buoni musulmani.» Allora un giovane fece la proposta di chiedere al sultano di m a n d a r e u n a persona colta, in grado di istruirli almeno nelle cose essenziali. Venne quindi inviata al sultano di Fez u n a delegazione di notabili che chiese l'invio di u n a persona colta. Il sultano fu lieto di questo zelo religioso e promise loro un maestro di Corano. Scelse quindi u n o di quei sapientissimi uomini della rinomata università Qarawiyyin, e questi dovette andarsene sui monti insieme a quegli uomini. L'intera tribù lo accolse con grande gioia e gli diede ospitalità. Ora, quando giunse l'ora della preghiera pomeridiana, il maestro si alzò e convocò la gente per la preghiera. Tutti gli uomini eseguirono le abluzioni e si disposero in file seguendo le disposizioni del maestro. Davanti alla prima fila prese posto lui stesso per fungere da imam, e stava già per iniziare la preghiera quando si avvide che il terreno su cui si trovava era ancora inzuppato dall'ultima pioggia. Temendo di sporcare il proprio abito bianco immacolato in quella fanghiglia, prese un pezzo di u n a porta che si trovava nei pressi e lo pose dinanzi a sé. Le assi erano però unite alla bell'e meglio e tra di esse vi erano delle fessure. 125
A questo punto egli salì su questa porta di assi e sollevò le m a n i c o m e prescrive la tradizione, ed esclamò: «Allàhu àkbar» («Allah è grande!»), e tutti gli u o m i n i schierati dietro Yimam i m i t a r o n o i suoi movimenti e ripeterono il grido: «Allàhu àkbar-». Dopo la Fatiha e la sura del Corano, Yimam si inchinò e disse: «Subhàn Allàh» («Dio sia lodato!»), e tutti obbedienti seguirono i suoi movimenti e ripeterono le parole arabe. Quindi l'orante si prostrò a terra, fino a toccare le assi con la fronte, e disse le parole rituali, e tutti lo imitarono e ripeterono le parole in arabo che n o n c o m p r e n d e v a n o . F a c e n d o pressione sulle assi, tuttavia, la fessura tra esse si allargò, cosicché il n a s o del dotto si trovò nello spazio tra d u e assi, e q u a n d o volle rialzarsi, f a c e n d o così d i m i n u i r e la pressione sulle assi, la fessura si restrinse e il naso rimase intrappolato. Cercò di tirare fuori il naso con la forza, ma non ci riuscì. Allora esclamò ad alta voce: «Ho il naso imprigionato!» e tutti ripeterono le parole arabe: «Ho il naso imprigionato!». Egli gridò allora: «Venite ad aiutarmi!» ed essi ripeterono con fervore: «Venite ad aiutarmi!». Sempre più in difficoltà, Yimam gridò: «Ma non capite proprio niente?» e tutti r i p e t e r o n o zelanti: «Ma n o n capite p r o p r i o niente?». A questo p u n t o con u n o strattone Yimam riuscì a tirare fuori il naso, lasciando la p u n t a nella fessura. Terminò in fretta la preghiera, salì sul suo asino e, accingendosi a partire, disse: «Imparate prima l'arabo, e poi verrò a insegnarvi a pregare!».
30.I
FIGLI DELL'AVARIZIA
Viveva un tempo in mezzo ai monti u n a tribù berbera denominata dei Beni Shahih, che vuole dire Figli dell'Avarizia. Ed e f f e t t i v a m e n t e essi e r a n o noti in 126
ogni dove per la loro avarizia e la loro grettezza. Chi si trovava a passare, nel corso di un viaggio, attraverso il loro territorio, sapeva già che si sarebbe dovuto aspettare per cena al massimo del siero allung a t o con a c q u a - cosa q u e s t a che di solito viene versata nella ciotola dei cani. Un giorno, u n o degli uomini della tribù cominciò a trovare spiacevole di essere sempre preso in giro, con la sua gente, a causa dell'avarizia. Rifletté quindi un po' su c o m e p o t e r c a m b i a r e la cattiva f a m a della tribù, e alla fine ebbe un'idea. Quando fu giorno di mercato salì sull'altura che sta presso la piazza del mercato e, convocati a gran voce gli uomini, disse: «È u n a vergogna che tra tutte le altre tribù noi siamo conosciuti come i Figli dell'Avarizia. Abbiamo intenzione di cambiare questa situazione e di far vedere agli altri che noi siamo generosi e liberali, munifici e ospitali». Tutti espressero festosamente il loro accordo e gli chiesero che cosa dovessero fare. L'uomo disse: «Ciascuno di noi p o r t e r à un otre pieno di siero di latte puro e di buona qualità, in modo da riempire questa grande cisterna in cui solitam e n t e è c o n t e n u t a acqua, cosicché ogni viandante potrà placare la sete con dell'ottimo siero di latte. Allora tutti l o d e r a n n o la n o s t r a generosità e m u n i f i cenza, e f a r a n n o circolare in lungo e in largo per il paese la notizia». Gli astanti si dissero d'accordo e decisero di rivedersi la mattina seguente per mettere in atto il proponimento. A casa propria, però, ciascuno riempì il p r o p r i o otre d'acqua, pensando che in u n a cisterna piena di ottimo siero nessuno si sarebbe accorto che c'era anche un po' d'acqua. Nessuno ne fece parola con altri. L'indomani vennero tutti alla cisterna, ma nessuno voleva essere il primo a vuotare il proprio otre, perché la c i s t e r n a e r a a n c o r a v u o t a . O g n u n o diceva 127
all'altro: «Versa tu per primo, poi io ti seguirò!». Alla fine u n o degli uomini disse: «Scommetto che nei vostri otri c'è soltanto acqua!». E gli altri ribatterono: «E noi scommettiamo che anche tu hai dentro solo acqua!». Allora scoppiarono tutti in u n a risata rendendosi conto che è i m m e n s a m e n t e difficile m u t a r e il proprio carattere.
31. LA P E L L E MAGICA
Nella città di Marrakesh viveva un tempo un giovane povero. Non aveva appreso alcun mestiere, perché suo padre era m o r t o quand'egli era ancora bambino. Inoltre, non possedeva né campi né piante di olivo o palme, né t a n t o m e n o bestiame. Viveva miseramente con la madre in u n a casuccia nella città vecchia e si cibava di quello che Dio e i vicini gli procuravano. Dal m o m e n t o che aveva un b u o n c a r a t t e r e ed era sempre contento, era ben tollerato e gli si perdonava volentieri ogni scherzo. Tutti lo chiamavano soltanto Juhà, perché il n o m e del padre n o n se lo ricordava nessuno. Un giorno J u h à si ritrovò un'altra volta senza un soldo, completamente al verde. Si mise a cercare in ogni angolo e in ogni c a n t u c c i o della casa, finché n o n gli capitò tra le mani u n a vecchia pelle a m m u f fita e dura. J u h à prese u n o straccio di lana, si riempì d'acqua la bocca e la spruzzò sulla pelle, poi strofinò via la muffa con lo straccio, rendendo la pelle nuovam e n t e pulita e m o r b i d a . La ripiegò più volte su se stessa, l'avvolse in un asciugamano e legò l'involto. Lo diede quindi alla madre con queste parole: «Va' nel vicolo dei mercanti di stoffe, deponi la pelle davanti ai tuoi piedi e vendila! Se qualcuno ti chiede 128
che razza di pelle sia, digli: "È u n a pelle magica, e costa cento reali!"». La m a d r e si mise il velo, si avvolse nel mantello e indossò i suoi ampi pantaloni. Calzò quindi le scarpe e se ne a n d ò nel vicolo dei mercanti di stoffe. Qui si mise a sedere, slegò il f a g o t t o e distese la pelle sull'asciugamano. I commercianti si d o m a n d a r o n o come mai la vecchia volesse vendere u n a pelle nel vicolo delle loro botteghe, dove invece si p o t e v a n o a c q u i s t a r e solo stoffe e abiti preziosi. Uno a n d ò da lei e le disse: «Signora, che razza di pelle è questa?». Essa rispose: «È u n a pelle m a g i c a e costa c e n t o reali». Il c o m m e r ciante lo riferì ai colleghi, che si guardarono per un po' incerti sul da farsi e poi si allontanarono. Arrivò quindi Juhà, che mise la m a n o sulla pelle e disse: «Questa voglio p r i m a saggiarla bene!». Misurò quindi la pelle a spanne e dichiarò: «La pelle è buona. Quanto costa, signora?». «Cento reali» rispose lei. J u h à chiese u n o sconto e disse allora: «Ti do cinq u a n t a reali». «Cento reali, non u n o di meno» rispose la donna. Un ebreo, che stava osservando la scena dal suo negozio, disse tra sé: "Questa pelle deve essere veramente preziosa, la comprerò. Poi J u h à mi dovrà dire a che cosa serve". Così pensando, uscì dal suo negozio e arrivò dalla d o n n a proprio m e n t r e stava contrattando con Juhà, e udì quest'ultimo dire: «Cara signora, n o n ho abbastanza soldi». Quando J u h à vide arrivare l'ebreo, si fece da parte e voltò la testa. L'ebreo diede alla vecchia cento reali per la pelle, lei prese il denaro e in un batter d'occhio scomparve. L'ebreo rientrò nel suo negozio, chiamò J u h à e gli disse: «Entra e dimmi, per quel Dio che distribuisce a ciascuno la sua religione, a che cosa serve la pelle!». J u h à rispose: «Che ti 129
devo dire, caro signore? Se non va bene per u n a borsa, a n d r à bene per u n a sacca». L'ebreo guardò in cielo e lo trovò troppo lontano, poi osservò la terra e si accorse di trovarvisi lui stesso. Allora sospirò e si rivolse ancora a Juhà, che voleva già andarsene, gli diede la pelle e disse: «Tu volevi comprarla, forse ti servirà a qualcosa!». J u h à se ne andò a casa contento, gettò la pelle in un angolo e per qualche t e m p o non ebbe più preoccupazioni. Ma questa f o r t u n a n o n d u r ò in eterno. Venne il giorno in cui tutto fu speso e J u h à n o n ebbe più nulla da mettere sotto i denti. Dal m o m e n t o che si era proprio all'inizio del periodo di festa, la miseria gli pesava particolarmente. Riprese a frugare in tutti gli angoli della casa e gli ritornò tra le mani la vecchia pelle. Questa volta essa n o n poteva essergli d'aiuto, pensò; si sedette quindi sulla pelle e si mise a meditare. Improvvisamente gli venne u n a b u o n a idea, e q u a n d o si alzò la lisciò ben b e n e e la depose nella cassapanca, p e r c h é ora era a n c h e lui convinto che fosse d o t a t a di qualità magiche. Avrebbe avuto lo stesso l a m p o di genio se n o n si fosse s e d u t o sulla pelle? Il giorno dopo era il primo giorno di festa, e tutti indossavano i vestiti più belli e delle scarpe nuove. J u h à uscì nel vicolo e invitò a colazione a casa sua alcuni conoscenti, dicendo: «Oggi si fa festa a casa mia». Costoro vennero, entrarono in casa e lasciarono le scarpe, com'è consuetudine, all'ingresso. Juhà chiese loro di prendere posto, dopodiché se ne uscì di nuovo. Raccolse tutte le scarpe, le portò al mercato e le lasciò in pegno al commerciante in cambio di pane, b u r r o e miele. Tornò quindi a casa con ciò che aveva acquistato e lo diede alla m a d r e in cucina dicendo: 130
«Metti in ogni scodella del b u r r o e del miele insieme al p a n e e p o r t a t u t t o nella s t a n z a degli ospiti!». Quindi si mise a sedere insieme agli altri. Poco più tardi fece il suo ingresso la madre con i d o l c i u m i e gli u o m i n i si fecero avanti e p r e s e r o a mangiare timidamente. Allora Juhà cominciò a sgridarli e li esortò a servirsi senza complimenti, dicendo: «Mangiate solo la vostra fortuna! Il meglio verrà alla fine!». Gli ospiti dissero: «Che la grazia di Dio sia su Juhà!» e c o m i n c i a r o n o a i m m e r g e r e il p a n e nel b u r r o sciolto nelle scodelle e a mangiare di b u o n appetito. Sul fondo delle scodelle trovarono il miele denso e si riempirono per bene lo stomaco. Q u a n d o f u r o n o sazi, r u t t a r o n o e l o d a r o n o Dio, com'è consuetudine, quindi chiesero di potersi alzare e t o r n a r e a casa. Ma n o n t r o v a r o n o le p r o p r i e scarpe. Allora dissero: «Ehi, Juhà, dove sono le nostre scarpe?». J u h à rispose: «Vi avevo p u r detto che stavate mangiando la vostra fortuna e che il meglio sarebbe venuto alla fine! O avete mai sentito dire che Juhà sia ricco? Chi vuole riavere le proprie scarpe le dovrà riscattare a p a g a m e n t o dal venditore di dolciumi!». Allora tutti risero, misero m a n o al portamonete, tirarono fuori del d e n a r o ciascuno secondo le proprie possibilità e lo diedero a J u h à affinché questi andasse a riscattare le scarpe che aveva dato in pegno. E avanzò anche u n a bella sommetta, che J u h à intascò. Dal m o m e n t o che ora J u h à possedeva del denaro, concluse un p a t t o c o n un ebreo, s e c o n d o il quale ciascuno dei due si impegnava ad acquistare del ferro e a tenerlo da p a r t e in attesa che salisse il suo prezzo, per rivenderlo in un secondo momento. Cominciarono ad acquistare il ferro, poi l'ebreo lo 131
depositò nella cantina di casa sua, mentre lui abitava al piano di sopra. Q u a n d o il prezzo del metallo p r e s e a salire, l'ebreo lo v e n d e t t e senza avvisare Juhà. Un giorno J u h à andò dall'ebreo e gli disse: «È il m o m e n t o di vendere il ferro, perché adesso il suo valore è salito!». Ma l'ebreo rispose: «Il ferro se lo sono mangiato i topi». Al che J u h à rispose: «I topi n o n m a n g i a n o il ferro. Ti porterò davanti al cadì!». L'ebreo ribatté: «Bene, a n d r e m o dal cadì domattina presto. Adesso è ancora notte». Quando J u h à se ne fu andato, l'ebreo si recò da solo dal cadì, gli diede u n a bustarella e lo avvisò che l'indomani sarebbe venuto Juhà a reclamare giustizia. Il cadì disse: «Domattina venite tutti e due!». La mattina dopo, J u h à e l'ebreo a n d a r o n o dal cadì. J u h à raccontò quello che era successo. Al posto dell'ebreo rispose il cadì: «Il ferro se lo sono mangiato i topi. Quand'ero ancora bambino, mia m a d r e mise un pezzo di lardo sotto i mortai di ferro, ma lo stesso venne un topo, fece un buco nei mortai e si mangiò tutto il lardo. Dunque i topi possono rosicchiare il ferro e tu n o n puoi esigere nulla dall'ebreo». Allora J u h à uscì, si recò dal pascià e gli chiese di essere n o m i n a t o sorvegliante dei topi. Il pascià scrisse u n a licenza e vi appose il suo sigillo; questa licenza faceva di J u h à il sorvegliante dei topi. J u h à prese la licenza e se ne andò sulla piazza dove si radunavano coloro che cercavano lavoro. Ben presto trovò anche u n a ventina di massicci lavoratori provenienti dal Sahara (queste persone sono rinomate per la loro bravura nei lavori di scavo), con le loro zappe e badili. J u h à si rivolse a loro dicendo: «Entrate al mio servizio! Come ricompensa riceverete due talleri al giorno». Gli u o m i n i f u r o n o d'accordo e lo seguirono. Egli li condusse alla casa dell'ebreo e ordinò: «Porta132
te alla luce le f o n d a m e n t a di questa casa!». L'ebreo era seduto al piano di sopra, ma a un certo punto la casa cominciò a vacillare. Allora balzò su e corse fuori, dove incontrò Juhà con i suoi operai che stavano p o r t a n d o alla luce le f o n d a m e n t a . Allora l'ebreo esclamò: «Ohimè, ohimè! Che cosa sta succedendo?». Juhà estrasse dalla borsa la licenza del pascià e gliela porse: «Leggi che cosa c'è scritto!». L'ebreo lesse e disse: «O signore, tu sei il sorvegliante dei topi». «Sì» disse Juhà. «Sto facendo disseppellire i topi che si sono mangiato il mio ferro per giudicarli e condannarli.» Allora l'ebreo disse: «O signore, ti darò il valore del ferro e anche di più purché tu faccia smettere di scavare!». J u h à prese il denaro e si recò con gli operai a casa del cadì. Anche qui diede ordine di portare alla luce le fondamenta. Il cadì udì i rumori dello scavo, corse in fretta fuori di casa e chiese a Juhà: «Che cosa sta succedendo?». J u h à mostrò al cadì la licenza del pascià e aggiunse: «Io sono il sorvegliante dei topi e sto facendo tirare fuori i topi che h a n n o bucato i mortai e divorato il lardo, perché devo condannarli». Il cadì si stupì di questa astuzia e diede a Juhà molto denaro purché questi facesse smettere di scavare. Ed era u n a s o m m a maggiore del valore del ferro. Anche nella città di Fez viveva un giovane di nome Juhà. La sua casa si trovava accanto alla casa di un ebreo e aveva con essa un m u r o in comune. Ma p u r essendo vicini di casa, i due non si frequentavano. Nel cortile dell'ebreo si ergeva un grande albero che faceva ombra a tutto il cortile. L'ebreo aveva u n a bottega e viveva di compravendite. Alla sera l'ebreo arrivava a casa e mangiava insieme alla sua famiglia. Dopo il pasto serale, andava in cortile, stendeva la sua stuoia sotto l'albero e pregava Dio. Dopo la pre133
ghiera rituale ringraziava il Cielo di conservarlo in vita e chiedeva ulteriori grazie; q u e s t o succedeva tutti i giorni. Un g i o r n o J u h à salì sul tetto della s u a casa, guardò nel cortile della casa adiacente e vide l'ebreo che pregava. R a p i d a m e n t e s i a r r a m p i c ò sui r a m i dell'albero e se ne stette lì in silenzio. Quando l'ebreo ebbe finito le preghiere e p a s s ò a ringraziare Dio, J u h à disse ad alta voce: «O mio servitore! Ho esaudito la tua preghiera e ti farò salire in Paradiso perché tu veda il luogo della tua vita futura. Ma p r i m a da' al t u o vicino J u h à c i n q u e c e n t o talleri, e io e s a u d i r ò ogni tuo desiderio». L'ebreo fu assai contento di ciò, andò dalla moglie e le disse: «Cara moglie, il nostro Signore mi ha appena parlato e mi ha incaricato di dare cinquecento talleri al nostro vicino Juhà. Dopo mi farà salire fino al Paradiso ed esaudirà ogni mio desiderio». Essa rispose: «Fa' quello che ha detto il Signore». L'ebreo trascorse la notte contando i cinquecento talleri e n o n vedeva l'ora che fosse mattina. Quando infine sorse l'alba del nuovo giorno, l'ebreo era stanco m o r t o . Ben p r e s t o a n d ò a b u s s a r e da J u h à , gli diede il d e n a r o e disse: «Prendi quello che Dio ti dà!». E J u h à si prese il denaro. La sera successiva J u h à prese u n a grande cesta, vi legò u n a c o r d a e salì sull'albero. Q u a n d o v e n n e l'ebreo per la preghiera, J u h à calò la cesta e disse: «Entraci dentro, mio servitore, affinché io ti sollevi!». Ma a metà strada J u h à recise la corda: l'ebreo precipitò a terra e si sfracellò. Allora nella casa si levarono grandi lamentazioni. Dopo qualche tempo lo stesso J u h à prese a vantarsi di questa storia, cosicché di bocca in bocca venne a conoscenza di tutto il regno. Quando essa giunse alle orecchie di J u h à di Marrakesh, questi si disse: 134
"Questo Juhà di Fez deve essere sicuramente un tipo orribile! Me ne andrò fin là e mi misurerò con lui". J u h à prese la sua sacca, vi mise datteri e fichi secchi, calzò i sandali, prese il bastone da viaggio e si inc a m m i n ò alla volta di Fez. Q u a n d o Dio volle, egli arrivò a Fez. Vi e n t r ò da u n a p o r t a e seguì s e m p r e le m u r a finché la strada non si biforcò. Allora imboccò la direzione del centro della città. Mentre passava per un vicolo, incontrò un u o m o che stava appoggiato a un m u r o con la schiena. Era J u h à di Fez, ma J u h à di Marrakesh non lo sapeva. Lo salutò secondo l'uso del paese e gli chiese: «Signore, conosci J u h à di Fez?». L'uomo rispose: «Certo che lo conosco. Che cosa vuoi da lui?». Juhà di Marr a k e s h disse: «Io s o n o J u h à di M a r r a k e s h e cerco J u h à di Fez per misurarmi con lui». «Te lo vado a chiamare,» disse l'uomo «ma devi sapere, signore, che io sono il sorvegliante di questo m u r o e devo fare attenzione che non cada. Se vieni tu qui a sostenerlo con la tua schiena posso andare a p r e n d e r e Juhà. Ma b a d a di non a n d a r t e n e via, per non far crollare il muro!» Juhà di Marrakesh andò a mettersi con la schiena contro il m u r o per sostenerlo. Invece Juhà di Fez se ne andò dove gli pareva. Sul far del mezzodì, la gente uscì dai negozi per andare a mangiare. Passarono anche da quel vicolo e videro lo s t r a n i e r o che sosteneva il m u r o con la schiena. Dopo il pasto fecero ritorno ai loro negozi e videro quell'uomo s e m p r e f e r m o nella stessa posizione. All'ora del pasto serale uscirono a n c o r a dai negozi e tornarono a casa passando dal vicolo. L'uomo era sempre fermo con la schiena contro il muro. Allora u n o di essi a n d ò dallo straniero e gli chiese cortesemente: «Signore, è tutto il giorno che ti vediamo sostenere il m u r o con le spalle. Tu n o n mangi, 135
n o n bevi e p e r t u t t o q u e s t o t e m p o hai d i g i u n a t o . Qual è il motivo di questo comportamento?». Juhà disse: «Io sono J u h à di Marrakesh e sono venuto fin qui da Marrakesh a piedi per misurarmi con Juhà di Fez. In questo luogo ho incontrato un u o m o cui ho chiesto notizie di J u h à di Fez. L'uomo mi ha detto: "Mettiti qui e reggi il m u r o con la s c h i e n a mentre io vado a chiamarlo". Se ne andato e mi ha lasciato solo. Per tutto questo tempo ho continuato a sostenere il m u r o con la schiena per timore che crollasse». Allora il commerciante gli disse: «O signore, l'uomo che ti ha lasciato solo, affidandoti l'incarico di sostenere il m u r o con la schiena per evitare che cadesse, era proprio J u h à di Fez. Si è m i s u r a t o lui con te prima che tu potessi misurarti con lui». Q u a n d o J u h à udì queste parole, p r o r u p p e in pesanti b e s t e m m i e e giurò che n o n avrebbe mai più menzionato il nome di J u h à di Fez. Quindi prese la sua sacca e il bastone da viaggio e rifece all'inverso la strada che aveva fatto per venire.
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Storie di donne
32. I L P O T E R E D E L L E D O N N E
I C'era u n a volta un orfanello, che n o n aveva né padre né madre, ma solo u n a sorella sposata. Q u a n d o fu adulto, le disse: «Sorella mia, desidero sposarmi!». E lei gli rispose: «Fratello mio, n o n sei ancora abbastanza m a t u r o per il matrimonio!». E lui: «E invece sì, lo sono!». Ma lei rimase della sua idea: «No, non sei ancora maturo. Sta' attento, il potere delle d o n n e è spietato!». «Cosa intendi dire con "il potere delle donne"?» egli le chiese. Invece di dargli u n a spiegazione, essa gli fornì un esempio molto istruttivo. «Ti farò vedere con mio m a r i t o q u a n t o le d o n n e siano potenti. Va' al mercato e c o m p r a m i un pesce!» «D'accordo» disse il giovane. Andò al m e r c a t o e acquistò un pesce. La sorella prese il pesce, lo nascose sotto il vestito e andò poi col fratello da suo marito che stava arando nel campo p e r portargli il p a s t o di m e z z o g i o r n o . Q u a n d o egli, completato un solco, giunse alla strada, essa gli disse: «Lascia il tuo cammello e vieni a mangiare!». Gli porse il cibo, e m e n t r e lui m a n g i a v a gli disse: «Stanotte ho sognato che avremmo fatto u n a festa». Egli le rispose: «Se Dio ci sarà clemente, un giorno faremo u n a festa!». Allora prese lei l'aratro e arò per un po', nascondendo nel frattempo il pesce in un solco. Finito che ebbe di m a n g i a r e , il m a r i t o riprese 137
l'aratro mentre lei e il fratello si incamminavano per t o r n a r e a casa. Ed eccolo gridare! «Venite un po' qui!» «Che cosa succede?» chiese lei. «Guarda qui,» disse lui «ho trovato un pesce nel solco. Dio ci aiuta, in modo che possiamo festeggiare. Prepara già tutto, oggi verrò con il maestro e i suoi discepoli e faremo u n a bella festa.» «D'accordo» disse lei. Andò a casa col fratello e cucinò il pesce, dopodiché tutti e due se lo mangiarono e nascosero le lische. Alla sera, dopo il lavoro, il marito tornò a casa dal c a m p o e per strada passò dalla moschea. Qui disse al maestro: «Venite tutti con me, oggi facciamo u n a festa!». Il maestro e i suoi discepoli accompagnarono il marito a casa e qui giunti egli chiamò la moglie: «Hai preparato tutto, tè, cibo e p r o f u m i per gli ospiti?». «Che cosa succede?» chiese la moglie di rim a n d o . «Non ti ho detto che questa sera a v r e m m o fatto u n a festa?» chiese il marito. «E con che cosa vorresti festeggiare?» chiese ancora la moglie. «Hai comprato forse della carne, dello zucchero o del tè?» «Ma no, ti avevo d a t o quel pesce q u a n d o e r a v a m o sul campo» gridò il marito. «E dove lo avresti trovato questo pesce?» chiese la moglie. Ed egli rispose: «L'avevo trovato in terra m e n t r e aravo». Allora lei esclamò: «Si è mai visto che i pesci si trovino sulla terraferma?». «Vorresti dire che sono pazzo?» chiese il marito. Allora la donna proruppe in un grido e si rivolse al maestro: «Per favore, non piantatemi in asso! Quest'uomo è impazzito. O è immaginabile che abbia davvero trovato un pesce sul suo terreno?». Le diedero ragione e legarono il marito. «Gettatelo in cantina» disse la d o n n a «in m o d o che n o n ci possa fare danno, altrimenti è capace di uccidermi!» Essi eseguirono, dopodiché m a e s t r o e allievi se ne andarono a casa. Quella sera la donna prese la macina di pietra e si 138
sedette sopra la botola della cantina a macinare fagioli. Il r u m o r e che fece apparve al prigioniero come un r o m b o di tuono. Di tanto in tanto essa prendeva u n a fiaccola e la passava rapidamente davanti alle fessure della botola, in m o d o da fargli credere che ci fossero dei lampi. Alla fine versò dell'acqua sopra l'apertura, in m o d o che egli dovette cercare riparo in un angolo da quella che credeva essere acqua piovana. Di primo mattino vennero in visita alcuni uomini del villaggio e gli chiesero: «Come stai, poveruomo?». «Dio sia lodato,» disse egli «non mi m a n c a nulla. Cercano solo di farmi passare per matto, ma io sono in p i e n o possesso delle mie facoltà. Dite un po', i campi sono ancora nelle condizioni di ieri?» «Perché, cosa è successo?» «Ha tuonato e lampeggiato così forte e ha piovuto così tanto che deve essere tutto sottosopra!» Allora quelli gli dissero: «Che Dio possa risanarti, poveruomo!». Credettero davvero che fosse pazzo e lo lasciarono in cantina. Finirono per tirarlo fuori di lì solo dopo due settimane. Il giovanotto rifletté a n c o r a a lungo su q u e s t a azione della sorella e si disse: «Il potere delle donne è spietato, non mi sposerò mai». II C'era u n a volta u n a bella donna, che si i n n a m o r ò di un p o v e r u o m o . Essa gli disse: «Ti sposerò se tu mi lascerai libera di fare quello che voglio con gli uomini». L'uomo fu d'accordo. Si sposarono e andarono a vivere insieme. Un giorno la donna si portò in casa un ebreo che già da tempo le faceva la corte, ma proprio mentre lui cominciava a fare il cascamorto, si sentì bussare alla 139
porta. La donna disse: «È di sicuro mio marito. Se ti trova con me ci uccide tutti e due!». «Cosa possiamo fare?» chiese l'ebreo pieno di paura. «Prendi questo camice da lavoro strappato, togliti quella sopravveste elegante e quei gioielli e indossalo, poi prendi quelle pietre e portale sul terrazzo come se fossi un muratore!» L'ebreo fece subito come la donna gli aveva consigliato, e q u a n d o il marito entrò nella stanza vide l'operaio alle prese con le pietre. Quand'ebbe finito di trasportare pietre fin sul terrazzo, il marito gli chiese: «Quant'è per il tuo lavoro?». «Due reali» disse l'ebreo. L'uomo gli diede due reali e lo congedò. La donna prese la preziosa sopravveste e i monili dell'ebreo e andò a vendere il tutto al mercato. Un'altra volta essa accolse in casa il cadì, che aveva da tempo messo gli occhi su di lei. Mentre i due e r a n o seduti u n o accanto all'altra, si sentì bussare alla porta. «Sarà mio marito» disse la donna. «Se ci scopre insieme ci ucciderà.» «Cosa possiamo fare?» chiese il cadì alla d o n n a . « E n t r a p r e s t o in q u e s t a cassapanca» gli suggerì la donna, e il cadì eseguì. Il marito entrò, inchiodò la cassapanca e la portò, insieme alla moglie, fino al mercato dove si vendeva la merce al miglior offerente. Fece quindi avvisare il figlio del cadì che in quella cassapanca era nascosto suo padre. E questi venne di corsa e si aggiudicò ad alto prezzo la cassapanca, per potersi riportare a casa il padre inosservato.
33. LALLA M A G H N I A
Nei pressi di M a r n i a in quello che fu il r e g n o di Tlemcen si trovava la casa di riunione di u n a confraternita sufi retta da un vecchio maestro, che era assai venerato nella regione. Questi morì senza lascia140
re figli maschi, ma aveva educato alla mistica la sua u n i c a figlia in un m o d o così c o m p l e t o che costei potè subentrare al padre alla guida della c o m u n i t à sufi. Essa era u n a combattente di grande valore, u n a p e r s o n a di g r a n d e cultura, oltre a essere, naturalmente, assai versata in tutti gli esercizi dei sufi. Per decisione u n a n i m e della c o m u n i t à fu lei a essere scelta per succedere al padre alla guida della scuola. Pur assumendo questo ufficio prestigioso essa mantenne un contegno modesto. Ma l'ottavo giorno dopo la morte del maestro, alle cerimonie che facevano seguito alla sepoltura, fece la sua comparsa il figlio del fratello del maestro col suo schiavo negro, e avanzò il p r o p r i o diritto alla successione - e tra l'altro anche alla guida della comunità sufi - e, secondo la legge e le tradizioni, glielo si dovette accordare. Questo nipote del maestro, però, era un combattente di poco valore, dedito alle più crudeli ruberie col suo schiavo, che era stato allevato insieme a lui come un fratello di latte. Viveva nell'abbondanza e in un torbido legame con questo negro, sfacciato e altezzoso e a m a n t e del lusso. Per le donne non aveva la m i n i m a considerazione. Lalla Marnia (che vuole dire "signora Marnia", così veniva rispettosamente chiamata) era di u n a bellezza fuori dell'ordinario, e a n c o r a giovane. Aveva fatto voto di castità davanti a Dio e aveva m a n t e n u t o questo voto anche quando il sultano di Fez, cui era giunta voce della sua grande bellezza e del suo fare assennato, le aveva inviato messaggeri pregandola di diventare sua moglie. Il rifiuto di Lalla M a r n i a fu considerato un'offesa personale dal sultano, che diede ordine a un drappello di cavalieri di devastare il paese tutto intorno alla casa di riunione della conf r a t e r n i t a . I soldati e s e g u i r o n o il c o m a n d o c o n la 141
m a s s i m a crudeltà, e b e n c h é tutti si battessero con valore, comprese le donne, con alla testa Lalla Marnia, dovettero soccombere e f u r o n o sconfitti. Dopo il ritiro dei cavalieri il paese si impoverì, e q u a n d o a ciò tenne dietro u n a prolungata siccità, la popolazione sopravvissuta fu ridotta alla fame. Quando, nel successivo mese del digiuno, u n a carovana di pellegrini di ritorno dal santuario di Sidi Yahia di Orano passò per il paese e chiese cibo per i cavalli sfiniti, Lalla Marnia portò fuori l'unica misura di grano che era ancora disponibile e la versò davanti ai cavalli. Ma la misura tornò di nuovo piena, e questo continuò a ripetersi a m a n o a m a n o che lei ne gettava fuori. Fu questo il p r i m o miracolo compiuto da Lalla Marnia. Un giorno essa vide un pastore che veniva avanti s u o n a n d o il flauto, e s u b i t o se ne i n n a m o r ò . Nello stesso istante riconobbe la propria colpa perché aveva offeso il suo voto di castità, e si pentì con tutto il cuore. Ma il breve sogno a occhi aperti continuava a opprimerla e pesava sul suo animo. Alla fine intraprese il pellegrinaggio alla Mecca e si recò anche fino alla t o m b a del profeta M o h a m m e d a Medina, dove implorò la liberazione dalla sua oppressione. E qui le venne imposto, per penitenza, di sposare suo cugino, il capo della scuola sufi. Col cuore pesante essa diede la sua promessa, e tornata a casa la mantenne. Grazie a questa fortuna immeritata, l'uomo da orgoglioso che era si fece sempre più arrogante. Dopo che essa gli ebbe partorito un figlio, Houari, la sua alterigia non conobbe più limiti. Maltrattava in modo vergognoso sia lei sia la gente che lo circondava. Dopo l'ennesima volta che ciò si verificava, essa invitò il suo sposo a smetterla e a m u t a r e la propria vita, perché in caso contrario il loro figlio sarebbe 142
morto. Ma l'uomo se ne fece beffe. La sera stessa il figlioletto moriva. Allora lui la accusò di stregoneria e la gettò in prigione. Poi m a n d ò da lei il suo schiavo, che la batté e pretese, in nome del suo padrone, che lei falciasse t u t t a l'erba da lì fino all'Atlantico. Stanca morta, essa prese in m a n o il falcetto e n o n aveva ancora cominciato che tutta l'erba si abbatté davanti a lei come se fosse stata falciata, senza che lei dovesse m u o v e r e un dito. Il negro impallidì, si strappò i capelli e immediatamente tornò al galoppo dal suo p a d r o n e p e r riferirgli il miracolo. Questi schernì lo schiavo, ma poi si recò sul luogo e vide coi propri occhi che cosa era successo. Allora la sua ira crebbe ed egli le diede un nuovo ordine: avrebbe dovuto filare in u n a sola n o t t e u n ' e n o r m e m o n t a g n a d i lana, che n o r m a l m e n t e avrebbe richiesto un a n n o intero. S t r e m a t a , Lalla Marnia si sedette senza riuscire neppure a cominciare il lavoro, ma la m a t t i n a successiva tutta la lana era stata filata. Allora egli la lasciò libera, ma Lalla Marnia divenne pazza. Il pastore che essa per un istante aveva desiderato era stato trasformato in u n a palma. Un giorno Lalla Marnia disse ai suoi genitori adottivi: «Quando sarà g r a n d e , m o s t r a t e q u e s t a p a l m a a m i o figlio» (che però da lungo tempo era già morto). Quando morì, essa stessa divenne u n a palma, cresciuta accanto a quella del pastore.
34. LA P R I N C I P E S S A G A Z Z E L L A
C'era u n a volta un re, il quale aveva sposato u n a jinniya (femmina di jinn) che gli aveva dato u n a bellissima figlia. Q u a n d o la regina morì, il re si risposò. Da quel giorno in poi la giovane principessa a m m u 143
tolì e nessuno fu più capace di farla tornare a parlare. Allora il re suo padre la confinò in u n a fitta boscaglia e fece circondare la foresta dalle guardie in m o d o che nessuno potesse arrivare fino a lei. Dalla seconda moglie il re ebbe tre figli maschi, che lo resero assai felice. Quando i figli f u r o n o cresciuti, egli rafforzò la guardia intorno alla foresta e proibì a chiunque, p e n a la morte, di r a c c o n t a r e ai principi che essi avevano u n a sorella. Essi sapevano s o l t a n t o che n o n era loro c o n s e n t i t o di p e n e t r a r e nella parte più fìtta della foresta. Quando il re morì, il maggiore dei principi disse ai suoi fratelli: «Voglio vedere questa foresta e scoprire il suo segreto!». Uscì di nascosto dal castello per evitare che se ne accorgesse lo zio, fratello del precedente re, che gli era succeduto sul trono. Egli era a cavallo, le guardie dovettero lasciarlo passare, e così si precipitò all'interno della foresta. Ben presto si ritrovò in un meraviglioso giardino, come non ne aveva mai visti; gli giungevano all'orecchio musiche, voci e canti, ma non riuscì a vedere nessuno. All'improvviso il principe si vide passare davanti u n a gazzella, che fuggì fino a u n a roccia. Questa si aprì e la gazzella scomparve al suo interno. Il principe volle inseguirla, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte. Fu colto allora da u n a smania febbrile di cacciare che lo fece vagare a lungo per la foresta fino a farlo smarrire del tutto. Dal m o m e n t o che il tempo passava e non lo si rivedeva ancora, il secondo principe decise di mettersi in cerca del fratello, e il re suo zio lo lasciò partire sperando di rivederli presto entrambi. Ma al secondo toccò la stessa sorte del primo, e anche lui non fece più ritorno. Allora il più giovane dei tre principi volle mettersi in viaggio alla ricerca dei suoi fratelli, ma il re temeva per lui e non lo lasciava partire. Però il principe ripetè con tanta insistenza la sua richiesta 144
che alla fine il re cedette. E così il principe partì a cavallo, giunse fin nella parte più remota della foresta e arrivò anche lui al giardino fatato con i suoni festosi di cui n o n si poteva individuare l'origine. E anche lui scorse la gazzella e la seguì fino a smarrirsi nel bosco. Quando si vide che anche il più giovane dei principi n o n faceva r i t o r n o , il re inviò le sue guardie a rastrellare la foresta. Esse vi entrarono e giunsero fino al bel giardino con suoni di festa, senza vedere alcuno, e alla fine anche loro scorsero la meravigliosa gazzella e la videro s c o m p a r i r e nella roccia. Ma f u r o n o abbastanza assennati da non inseguirla e se ne ritornarono dal re a fargli rapporto di t u t t o quello che avevano visto e udito. Allora il re convocò i suoi consiglieri e chiese loro quale soluzione avessero da proporre. Ma essi rimasero in silenzio. Solo un vecchio, alla fine, raccontò che il precedente re, fratello dell'attuale, aveva c o n f i n a t o in quella foresta la p r o p r i a figlia e che s i c u r a m e n t e questo era il motivo dell'incantesimo. Allora il re fece venire i suoi m a g h i e indovini e chiese il loro aiuto. Per un certo tempo essi si sforzarono di spezzare l'incantesimo della foresta con formule di scongiuro e fumigazioni di incenso, ma senza esito. Il s e t t i m o g i o r n o f i n a l m e n t e essi videro passare di corsa davanti a loro u n a gazzella e allora comunicarono al re che c'era qualche speranza. Dopo qualche tempo i principi tornarono indietro, u n o d o p o l'altro, nello stesso o r d i n e in cui e r a n o scomparsi. Ciascuno raccontò la stessa storia: dopo avere inseguito la gazzella ed essersi s m a r r i t o nel bosco, aveva perso i sensi e si era svegliato in un palazzo dove tre belle fanciulle e u n a jinniya si erano prese cura di lui e gli avevano dato tutta la felicità che u n u o m o p u ò provare. C i a s c u n o dei principi 145
aveva avuto un anello da u n a delle fanciulle ed era poi stato rispedito a casa. Ora, i principi chiesero allo zio di poter sposare le belle fanciulle, ma nessuno sapeva come poterle far giungere fin lì. Allora l'anziano consigliere propose di far rigirare gli anelli ai principi, e non appena essi lo fecero le fanciulle apparvero e posero le loro condizioni: ciascuna voleva sposare il proprio innamorato ed essere partecipe della sovranità sul r e a m e . Ciò venne loro promesso. Allora esse dissero che si sarebbero trattenute ancora sette giorni nel loro regno dopodiché sarebbero tornate definitivamente. E così avvenne. Vennero celebrate le nozze più fastose che si fossero m a i viste. Sette giorni dopo le nozze, fece il suo r i t o r n o a n c h e la sorellastra dei principi, la gazzella, questa volta sotto forma di bellissima fanciulla, che p u r t r o p p o però era muta. Il re l'avrebbe volentieri sposata, ma essa non si fece convincere da nessuno a parlare. Allora egli riconobbe che non era adatta a lui e fece annunciare per tutto il regno che colui che l'avesse indotta a parlare sarebbe stato il suo legittimo sposo ed erede al trono. Col passare del tempo si fecero avanti sempre nuovi giovani disposti a tentare la prova, anche se la condizione era che chi non ci fosse riuscito sarebbe stato decapitato. Le teste dei candidati sfortunati vennero appese alle m u r a e sulla p o r t a d'ingresso del palazzo, e chiunque le vedesse si rivoltava dall'orrore. Si disse anche che questo destino fosse già stato predetto al re precedente e che in tutta la terra un solo giovane fosse d e s t i n a t o a r i d a r e la p a r o l a alla p r i n c i p e s s a muta. I giovani che si erano sottoposti alla prova erano già quattro volte sette e avevano pagato con la vita questo tentativo. Dopodiché nessuno più si fece at146
trarre dalla prova, e il re fece comunicare il suo bando anche nei regni vicini. Passato qualche tempo si vide di nuovo un principe che chiese di essere pres e n t a t o alla principessa. Per p r i m a cosa gli fecero vedere le teste dei candidati uccisi sui merli del castello, dopodiché gli ripeterono un'altra volta l'incarico e la condizione. Il principe non batté ciglio e si dichiarò pronto. Allora lo condussero dalla principessa muta. Quando egli la vide, fu subito colto da un ardente a m o r e per lei e pose le proprie condizioni: tutta la corte doveva assistere, e nessuno al di fuori di lui poteva pronunciare u n a parola, pena la decapitazione. Queste condizioni vennero accettate. Allora egli si ritirò acconsentendo a effettuare la prova l'indomani. Il giorno dopo la corte era r a d u n a t a al gran completo intorno al re e alla principessa, che stava al suo fianco. Il principe entrò e cominciò il seguente racconto: «Durante un viaggio, mi è capitato di incontrare un falegname che aveva intagliato un manichino nel legno, e questo manichino era somigliantissimo a u n a donna, solo che era completamente rigido. Allora l'artigiano andò da un fabbro e gli fece fare delle articolazioni, cosicché il manichino potè muoversi come un essere u m a n o . Quindi il falegname andò con il suo manichino da un sarto e gli fece cucire un abito meraviglioso su misura. Andò quindi da un profumiere e lo fece aspergere di profumi. Ora il manichino sembrava proprio u n a d o n n a vera. Gli mancava solo l'autonomia nel muoversi. Andò allora da un sant'uomo, e insieme a lui vi andarono tutti gli altri: il fabbro, il sarto e il profumiere, perché erano come rapiti da questa bella figura. Essi rivolsero al santo la richiesta di animare la bambola, e il santo, alle cui richieste Dio non aveva mai detto di no, promise di pregarlo di 147
infondere la vita in quel manichino. Levò le mani, pregò, e fu esaudito. «Ora, q u a n d o la b a m b o l a si destò, era diventata u n a splendida donna, e tutti e cinque gli uomini, il falegname, il fabbro, il sarto, il profumiere e il santo, f u r o n o colti dall'amore per lei e volevano prenderla in moglie. "Io l'ho liberata dal legno" disse il falegname "e quindi appartiene a me!" Il fabbro ribatteva: "Ma io le ho dato il movimento. Senza il mio intervento sarebbe ancora un rigido pezzo di legno". "Io invece l'ho rivestita, e colui che fornisce l'abito è lo sposo legittimo!" "No," disse il profumiere "signore e padrone è colui che fornisce il nutrimento alla donna." Il santo propose di cercare un giudice e lasciare decidere a lui. Andarono quindi da un giudice e gli chiesero il suo parere. Il giudice decise che colui che aveva modellato il manichino da un pezzo di legno fosse il suo vero creatore e signore. Ora io vi chiedo: questo giudice ha deciso rettamente?» Ma tutti i presenti tacquero, pensando alla severa punizione che il re aveva minacciato loro conformemente all'accordo col principe. Allora il principe ripetè un'altra volta la d o m a n d a e disse poi: «Se n o n siete di opinione diversa da quella del giudice, io tornerò là e dichiarerò valido il parere del giudice». A questo p u n t o la principessa sospirò e disse: «Il giudice ha dato u n a sentenza errata. La fanciulla deve essere di quel santo, perché è lui che l'ha portata in vita». «Così dicendo hai pronunciato anche la tua sentenza» disse il principe, felice «perché tu ora sei mia moglie, dal momento che io ti ho restituito la parola.» Si celebrarono allora le nozze e la giovane coppia salì al trono e governò a lungo e con saggezza.
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35. L'ASTUTA A I S H A
Aisha di M a r r a k e s h giocava s e m p r e b r u t t i scherzi agli uomini e si prendeva beffe di loro. Un giorno se la prese con un asinaio, al quale disse: «Noleggiami u n o dei tuoi asini, ti ricompenserò». Egli le affidò un asino, lei lo vendette e spese il suo denaro. Quando l'asinaio, venutolo a sapere, la cercò per chiederle i soldi, lei non si fece più trovare per qualche tempo. Un giorno, però, egli la incontrò sulla strada e la minacciò di portarla davanti al cadì. Ma lei gli rispose: «Dove sei stato tutto questo tempo? Ti ha inghiottito la terra o ti ha accolto il cielo? Quanti giorni ho continuato a cercarti per ridarti il tuo asino, provvedendo io nel frattempo a nutrirlo! Ma lo sai quanto ha mangiato nel frattempo? Adesso vieni con me». I due proseguirono un po' lungo la strada, finché g i u n s e r o al negozio di un b a r b i e r e , e lei escogitò un'altra astuzia. Bisogna sapere che questo barbiere esercitava a n c h e il mestiere di cavadenti. Lei disse all'asinaio: «Aspetta qui un attimo, vado da m i o figlio e ti porto subito fuori il d e n a r o che ti spetta». Ciò detto s c o m p a r v e nel negozio m e n t r e l'asinaio stava fuori ad aspettare. All'interno, lei disse al barbiere: «L'uomo che c'è fuori dalla porta è mio figlio. Dovete sapere che è un po' demente, non date retta a quello che vi dirà. Ma io voglio che gli caviate due denti, u n o superiore e u n o inferiore. Eccovi dieci reali per il vostro disturbo». Il barbiere acconsentì. Allora Aisha uscì e chiese all'asinaio di entrare. «Adesso ti d a r a n n o i tuoi soldi.» Appena messo piede nel negozio, l'asinaio fu afferrato dai due aiutanti del barbiere, costretto a sedersi e tenuto ben fermo mentre il padrone con le tenaglie gli strappava, con m a n o esperta, due molari, u n o superiore e u n o inferiore. L'asinaio si ribellò con 149
tutte le sue forze, ma il barbiere, che ci era abituato, portò speditamente a compimento il suo lavoro. Allora l'asinaio portò il barbiere davanti al cadì e lo denunciò. Il cadì si fece raccontare tutto, dopodiché c o n d a n n ò il barbiere e lo fece gettare in prigione. Ma Aisha non lo seppe mai.
36. L A M O G L I E I N N A M O R A T A
Tutti gli anni, per la grande Festa del Sacrifìcio, ogni capofamiglia m u s u l m a n o sacrifica un m o n t o n e , e questo è più di u n a b u o n a consuetudine: è un dovere religioso. Anche i poveri devono cercare con tutte le loro forze di a d e m p i e r e q u e s t o dovere m o r a l e e a questo proposito sono centinaia le storie che si narrano. C'era u n a volta un povero artigiano, che avrebbe voluto sapere quanto la moglie lo amasse. Quando si appressò la Festa del Sacrificio, c o m p r ò in segreto un m o n t o n e e lo p o r t ò da un vicino. Andò q u i n d i dalla moglie e le disse: «Ascolta, mia cara, noi siamo così poveri che quest'anno non potremo permetterci un montone. Spero che tu, anche senza carne, sarai contenta di me». Ma la donna cominciò a lamentarsi, ripetendo in continuazione: «Non sta bene passare la festa senza il montone. Va' fuori e cerca qualunq u e cosa che ci p e r m e t t a di avere un m o n t o n e da sacrificare!». Il giorno dopo l'artigiano tornò a casa e disse alla moglie: «Il sultano ha fatto sapere che chi si farà dare cento bastonate potrà avere un m o n t o n e come ricompensa. Cosa ne pensi? È il caso che io vada a farmi dare cento bastonate per permetterci di avere un m o n t o n e per la festa?». Essa rispose: «Fa' quello che è il tuo dovere, in m o d o che possiamo avere un mon150
tone per la festa!». Il p o v e r u o m o disse: «Nel n o m e di Allah! Allora a n d r ò a porgere la mia schiena alle b a s t o n a t e » . Ma m e n t r e stava avviandosi verso la porta, sentì la moglie gridare: «Aspetta un attimo!» e già si immaginava che lei gli dicesse: "Lascia perdere, p o s s i a m o p u r e a s p e t t a r e l ' a n n o p r o s s i m o p e r mangiarci il montone!". Si voltò quindi a sentire, e lei gli disse: «Mi è appena venuto in mente che anche mia m a d r e è senza montone. Potresti farti dare duecento bastonate e portare a casa due montoni?».
37. IL M A G I C O C U S C U S
C'erano u n a volta d u e fratelli, che a n d a r o n o sui monti a caccia di porcospini. Per tutto il giorno si arrampicarono sulle rocce, frugarono ogni cavità, e a sera si ritrovarono così stanchi che decisero di sedersi e riposarsi in un luogo pianeggiante. Volevano a s p e t t a r e che sorgesse la luna, p e r t o r n a r e a casa con il suo chiarore. Mentre si riposavano, u d i r o n o un r u m o r e come di legni picchiati u n o contro l'altro in continuazione. Quando sorse la luna, si avviarono in direzione di quel r u m o r e e videro u n a vecchia accucciata a terra che percuoteva insieme un legno e un osso, facendo un r u m o r e come di cavalli al galoppo. Inoltre essa cantava u n a canzone, ma i due uomini non capivano le parole. A questo punto la donna si alzò e cominciò a ballare, b a t t e n d o il t e m p o con il legno e l'osso. Dopo che la vecchia ebbe così danzato e cantato per un certo tempo, la luna si a b b a s s ò e si fermò, grandissima, sopra le loro teste, m e n t r e ne colava giù dell'acqua, che la d o n n a raccolse in u n a grossa ciotola. Arrivò quindi un morto, ancora avvolto nel suo lenzuolo funebre, come fosse appena uscito dal151
la t o m b a . La vecchia se lo caricò sulla schiena in m o d o che le braccia del morto le pendevano davanti. Prese quindi della semola, la mise in m a n o al morto e con le sue dita preparò le palline del cuscus. Impastava e arrotolava, impastava e arrotolava mischiando il tutto con l'acqua della luna, fino a preparare un cuscus dalle palline finissime. Questo cuscus è carico di u n a magia potentissima: se u n a donna lo dà da mangiare al marito, questi diventa ubbidiente come un cagnolino ed esegue a bacchetta i comandi della moglie, che così può far di lui quello che vuole. Se lei gli dice: «Va' a invitare i tuoi amici a pranzo!» egli lo fa. Quindi siedono e mangiano, e se poi lei dice al marito: «Adesso esci e stattene fuori per un po'!» lui fa anche questo, e lei si diverte con i suoi amici. Questo magico cuscus le d o n n e di città lo c o m p r a n o dalle vecchie, p a g a n d o per esso molto denaro. Q u a n d o ne e b b e r o a b b a s t a n z a di s t a r s e n e sui monti a osservare la vecchia, i due fratelli le saltarono addosso e la uccisero.
38. LA P O V E R A D O N N A E L ' O R C H E S S A
Una coppia di poveri contadini abitava in alto tra i monti, b a d a n d o a u n a fattoria isolata. Avevano un paio di campi e un piccolo gregge di capre, un paio di mucche e delle api. I vicini più prossimi abitavano in u n a fattoria altrettanto isolata, a u n a mezz'ora di distanza. In questi monti si trovavano ancora, a quei tempi, degli orchi, che vivevano in caverne e divoravano ogni essere vivente che riuscivano ad acciuffare, compresi i bambini. Il contadino morì ancora giovane e lasciò la moglie con sette bambini. La contadina non volle però 152
andarsene dalla fattoria, e si mise a fare lei tutti i lavori degli uomini. Un giorno, m e n t r e stava arando, venne da lei u n ' o r c h e s s a e le chiese: «Non h a i un marito che possa arare al tuo posto?». E lei rispose: «Se n'è a n d a t o via un m o m e n t o , ma t o r n a subito. Sta' a t t e n t a che n o n ti incontri!». L'orchessa se ne andò, ma ritornò il giorno dopo. E di nuovo vide la donna che arava e cominciò a intuire come stessero le cose. La sera scavalcò la siepe spinosa che circondava la fattoria e si sedette acc a n t o alla c o n t a d i n a , che in quel m o m e n t o stava spremendo dell'olio di argania. Tutti e sette i bambini le erano seduti intorno e guardavano con l'acquolina in bocca l'olio spremuto. Quando la donna vide gli occhi cupidi dell'orchessa, capì immediatamente che era venuta per papparsi i bambini. Disse quindi al maggiore: «Alzati e va' in casa a p r e n d e r e u n a m a n c i a t a di f a r i n a tostata (che si m a n g i a insieme all'olio)!». Il ragazzo aveva capito subito ciò che voleva dire la m a m m a , e se ne andò in casa. Quindi la d o n n a disse al secondo figliolo: «Va' anche tu a prendere un po' di farina!». E così, u n o dopo l'altro fece entrare in casa sei bimbi, ma il settimo era t r o p p o piccolo e non comprese l'avvertimento; non ubbidì e non volle andare in casa. Allora si alzò direttamente la m a d r e e andò in casa a prendere u n a grossa scure. Nel f r a t t e m p o l'orchessa i m m e r s e il più piccino nell'olio, ve lo rigirò e se lo mangiò. Quindi si diresse verso la casa, si chinò e infilò la testa nel vano della porta. La contadina le staccò la testa con la scure. Allora l'orchessa fece passare dalla porta la sua seconda testa: la contadina gliela decapitò, e così via con la terza, la quarta, la quinta, la sesta e la settima testa. Ma istantaneamente le teste ricrebbero. L'orchessa fece nuovamente passare la sua p r i m a testa attraverso la porta, ma questa volta la donna non la 153
colpì. Allora l'orchessa disse: «Tagliami via a n c h e questa!». Ma la contadina non lo fece, perché sapeva che sarebbe ricresciuta. L'orchessa ordinò di nuovo: «Staccamela!». Ma la donna non lo fece. E così l'orchessa morì immediatamente. In tal modo la m a m ma aveva salvato sei b a m b i n i e p e r d u t o solo l'ultimo, che non aveva voluto ubbidire.
39. L E D O N N E A S T U T E
C'erano u n a volta tre sorelle, che scesero in strada per cercare qualcuno da ingannare. La maggiore si recò alla p o r t a della città e si m i s e ad a s p e t t a r e . Giunse un giovane con un asino carico di sacchi di grano. La d o n n a gli si fece incontro, lo salutò e gli chiese: «Dove sei stato, caro cugino, e dove stai andando?». Allora egli le confidò che stava p o r t a n d o due sacchi di grano al mercato per venderli. La donna gli disse in tono assai amichevole: «Vieni con me, ti pagherò il prezzo di questo grano!». Poi lo condusse in u n o stretto vicolo e gli disse: «Aspetta qui, vado a scaricare i sacchi e ti porto i soldi». Così dicendo condusse l'asino nel suo cortile e scomparve. Dopo aver atteso a lungo invano il r i t o r n o della donna, il giovane vide arrivare la seconda sorella che gli disse: «Che cosa fai qui?». «Sto aspettando m i a cugina. Mi ha comprato del grano e mi deve portare i soldi. È entrata qui!» rispose lui indicando la porta del cortile. «Ohibò,» disse la donna «allora avrai un beli'aspettare. Vieni con me, ti aiuterò.» Lo prese per m a n o e lo condusse in un altro cortile. Qui gli fece vedere il pozzo e gli disse: «Mi è caduto lì dentro un bracciale. Se tu ti cali a riprendermelo, ti procurerò anche i soldi per i tuoi sacchi di grano». Allora egli si tolse le sopravvesti, si legò alla corda e si fece aiutare 154
da lei a scendere nel pozzo. Mentre lui ancora cercava il bracciale, lei gli aveva già preso i vestiti e li aveva rivenduti al mercato. Da solo il giovanotto n o n poteva t o r n a r e f u o r i dal pozzo e si mise a gridare aiuto. Ma per molto tempo non venne nessuno. Alla fine giunse la terza sorella e aiutò il giovane a r i t o r n a r e f u o r i . Gli pose p e r ò u n a condizione: «A patto che tu mi sposi!». Il giovane rispose: «Va bene, nel n o m e di Dio!» e si fece tirare fuori. Dopodiché la donna se ne andò con lui da un ricco mercante, che vendeva vestiti e oggetti per la casa. «Perché» disse «devi avere dei bei vestiti e arredarmi la casa, altrimenti n o n possiamo sposarci». Essa scelse bei vestiti, stoffe e gioielli, stoviglie e coperte, e gli disse: «Resta qui intanto che vado a casa a prendere i soldi». Portò con sé tutto quello che riuscì a portare e lasciò solo il giovanotto. Dopo un po' di tempo, il commerciante si fece impaziente: «Dove starà tua moglie tutto questo tempo?» chiese al giovanotto. Allora egli confessò che non era ancora sua moglie e che non la conosceva. Allora il mercante chiamò le guardie e fece gettare il giovanotto in prigione. Quella notte la sorella minore se ne andò al cimitero e dissotterrò un b a m b i n o appena sepolto, lo avvolse nei panni da bebé e con questo fardello si recò di primo mattino dal mercante. «Dov'è mio marito?» chiese al mercante. «In prigione!» rispose quest'ultimo. Allora la donna divenne cattiva e assalì il mercante, che fu costretto a difendersi. In quella la donna lasciò cadere a terra il fagotto e saltò fuori il bambino. Era morto. Allora la donna levò un alto grido e accusò il mercante di avere ucciso il suo unico figliolo. Il mercante venne portato dal giudice e dovette pagare il prezzo del sangue per l'ucciso. Il giovanotto venne rimesso in libertà. E dal m o m e n t o che la donna provava dell'attrazione per lui, se lo sposò. 155
40. C O M E FU C H E IL G A R Z O N E M A N G I Ò A SAZIETÀ
Dal m o m e n t o che il maestro della scuola coranica passava la maggior parte del t e m p o nella moschea, trascorrendovi anche la notte, sua moglie si annoiava spesso, e per questo iniziò ad avere un rapporto con un m a n d r i a n o del cascinale vicino. Una notte, però, il maestro sentì desiderio e se ne andò a casa, ma per quanto forte picchiasse alla porta, la moglie non gli aprì. Il garzone, risvegliato dal baccano, guardò attraverso le f e s s u r e della p o r t a del soggiorno, vide la moglie del maestro insieme al m a n d r i a n o e capì al volo che cosa stava succedendo. Non essendo riuscito a entrare in casa, il maestro se ne andò nella stalla ed ebbe un rapporto con l'asina. Il garzone lo pedinò e vide tutto. La mattina, di buon'ora, mentre la donna si accomiatava dall'amante, il garzone la sentì dire: «Oggi preparerò un buon pasto; fatti trovare nei pressi del c a m p o che oggi dovrà essere arato dal nostro garzone. Verso mezzogiorno io porterò il cibo ai bordi del campo e tu potrai mangiare con noi». Quella mattina la donna sgozzò u n a gallina grassa, c u c i n ò un b u o n tajin e verso m e z z o g i o r n o lo portò al campo dove il garzone era intento all'aratura. Anche il marito si trovò là per tempo, e q u a n d o s t a v a n o per a c c o m o d a r s i a m a n g i a r e vide il m a n driano che pascolava i buoi nelle vicinanze. Allora la moglie disse al marito: «Mio caro, invitiamo anche lui, visto che è già qui!». Il maestro incaricò il garzone di invitare il m a n d r i a n o a m a n g i a r e con loro, e questi vi andò. Al m a n d r i a n o però disse: «Al padrone è giunta voce della tua avventura della scorsa notte, cerca di svignartela!». Ritornò quindi dai due e disse: «Quell'uomo non vuole venire: chi sono io per invitarlo a mangiare? Vuole che sia tu in persona a in156
vitarlo a tavola». Allora il maestro si alzò e si diresse verso il m a n d r i a n o , ma questi si allontanò rapidamente e il maestro prese a corrergli dietro. Quando la donna ebbe visto ciò, il garzone le disse: «Guarda guarda, sta inseguendo il t u o amante! Sicuramente sa tutto su quello che hai fatto la notte scorsa». Allora la donna si impaurì e tornò in fretta a casa. Q u a n d o il m a e s t r o fu di r i t o r n o senza avere concluso nulla e chiese al garzone dove fosse s u a moglie, questi rispose: «Tua moglie ti ha osservato q u e s t a n o t t e nella stalla, e adesso n o n vuole più mangiare con te». Allora il maestro corse via per la vergogna e il g a r z o n e potè m a n g i a r e con gusto la gallina grassa e l'ottimo tajin.
41. L ' A D U L T E R I O
Un u o m o e u n a donna fecero un patto di alleanza e si diedero la parola d'onore di essersi fedeli. Chi dei d u e fosse p e r p r i m o v e n u t o m e n o a q u e s t o p a t t o avrebbe dovuto lasciare p e r s e m p r e il paese. Per molti anni entrambi m a n t e n n e r o la loro promessa, finché un giorno l'uomo commise u n a m a n c a n z a e dovette andarsene via. L'uomo vagò sulla terra in lungo e in largo, come impazzito. Un giorno, m e n t r e stava per recitare la sua preghiera su u n a pietra piatta, la pietra prese a t r e m a r e e a scuotersi, f a c e n d o l o cadere. Più tardi l'uomo si distese sulla pietra per dormire, ma anche questa volta la pietra prese a scuotersi fino a farlo cadere. Quella stessa sera egli vide in l o n t a n a n z a u n a luce che sembrava provenire da un focolare; si avviò allora in quella direzione, ma la strada sembrava n o n finire mai. Fu solo nel cuore della notte che egli riuscì a raggiungere la lucina. Essa proveni157
va da u n a grande caverna sprangata da u n a grata di ferro. Dietro alla grata si trovava quello che sembrava un essere u m a n o . Costui chiese all'uomo: «Sei un u o m o o un jinn?». L'uomo rispose: «Un uomo». «Sei venuto m e n o a un patto?» proseguì quello nella caverna. «L'hai detto» rispose l'uomo stupefatto. «Come lo sai?» Ma colui che si trovava dietro la grata non rispose e si limitò a chiedere: «Uomini e d o n n e v a n n o già promiscuamente al mercato?». «No» disse l'uomo. «Uomini e donne ballano già insieme alle feste?» «No» disse l'uomo. «Gli uomini ciarlano e spettegolano già nelle case di preghiera q u a n d o h a n n o terminato le preghiere?» «No, questo no!» disse l'uomo. «Allora devo ancora aspettare p r i m a di essere liberato» disse lo spirito.
42. LA BELLA D O N N A
Un giovane pescatore vide un giorno sulla sua strada u n a donna bellissima. Gli apparve così bella che credette non ne potesse esistere al m o n d o un'altra simile. Dal m o m e n t o che essa gli sorrideva ammiccando, si mise a seguirla come rapito. Giunsero a u n a grande casa, che era circondata da un fastoso giardino. Quando essa vi entrò, il giovane le andò dietro, come se fosse ammaliato. Entrati che furono, essa gli disse: «Non vuoi chiedermi nulla?». «Sì» rispose il giovane, poi le chiese: «Chi è tuo marito?». La donna rispose: «Egli mi ha donato questa casa ed è partito. R i t o r n e r à solo q u a n d o sarò m o r t a . N o n a b b i a m o 158
quindi nulla da temere da parte sua. Vieni, spogliami e abbracciami!». Allora il giovane cominciò a fare ciò che essa desiderava da lui, e q u a n d o l'ebbe spogliata udì all'improvviso un forte r u m o r e di tuono. Allora la donna fu colta dal terrore e disse: «Mio marito è tornato adesso». Quando la porta si spalancò ed entrò un servo, la d o n n a morì di paura. A questo punto, vedendo che la donna era morta, il giovane si vergognò e si p e n t ì di essersi d e n u d a t o p e r c a u s a sua. Il servo gli chiese: «Hai posseduto la donna?». Il giovane rispose: «No». Allora il servo ribatté: «Scegli tu la tua condanna!». Il giovane fu assalito dal terrore e supplicò il servo: «Lasciami in vita!». Il servo rispose: «Hai scelto tu stesso la tua condanna. Vivrai per sempre e nel tuo petto arderà sempre il desiderio d i q u e s t a d o n n a che n o n h a i p o t u t o appagare!». Quindi chiuse la porta e lasciò solo il giovane.
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Storie di animali
43. LA M U C C A D E I D U E O R F A N E L L I
C'era u n a volta un cacciatore, che n o n avendo avuto figli dalla moglie, ne sposò u n a seconda, che gli partorì due figli. Purtroppo, però, questa seconda moglie morì ed egli rimase con la p r i m a che, invidiosa dei due b a m b i n i cercava ogni pretesto per sbarazzarsene. Un giorno il marito a n d ò a caccia e t o r n ò con due sole pernici. La moglie gli disse: «Mio caro, queste due pernici non sono sufficienti per tutti; devi deciderti a liberarti di queste bocche in più». Alla fine il marito cedette. Condusse i due fanciulli nel bosco, portandosi dietro u n a b u o n a mucca da latte, in m o d o che i piccoli potessero nutrirsi. Quindi disse loro: «Pascolate qui la mucca finché sarà diventata bella grassa. Quando il grasso le uscirà dalle narici, p o t r e t e sgozzarla». E con q u e s t e p a r o l e li a b b a n donò. I due fratelli sorvegliarono la m u c c a e ne bevvero il latte, crescendo così sani e robusti. Ma la m u c c a n o n ingrassava. Un giorno chiesero consiglio a un corvo. Il corvo disse loro: «Piangete in questa cavità della roccia, e io vi farò bagnare i miei piccoli. Per ringraziarvi, vi darò l'opportunità di sgozzare la vostra mucca». I b i m b i piansero e riempirono con le loro lacrime la cavità della roccia, in m o d o che il corvo vi potè immergere i suoi piccoli. Quindi il corvo volò fino al macello, p r e s e nel becco un po' di 160
grasso e lo spalmò intorno alle narici della mucca. Q u a n d o i fanciulli videro ciò, presero un coltello e uccisero la mucca. Le tirarono via la pelle e suddivisero la carne in quattro parti. Attirato dall'odore di sangue fresco, si fece avanti un leone e pretese la sua parte. Dapprima gli lanciarono la testa della mucca, ma il leone non si accontentò. Allora gli lanciarono u n a parte della carne, ma il leone ne voleva ancora. Gli gettarono la seconda parte, e quando il leone ne richiese ancora, anche la terza e infine la quarta parte della carne. «Ne voglio ancora!» ruggì il leone. «È rimasta solo la pelle» risposero i fanciulli. «Date qua!» ordinò il leone, ed essi gliela lanciarono. «Ne voglio ancora!» gridò il leone p e r t u t t a risposta. «Che cosa r e s t a ancora?» «Siamo rimasti soltanto noi due» risposero i ragazzi. «Allora scannatevi!» c o m a n d ò il leone. «Il più forte mi getterà il perdente!» Ma i d u e fratelli e r a n o di uguale forza, per cui l o t t a r o n o a lungo e alla fine caddero ambedue esausti ai piedi del leone. Il leone li infilò nella pelle della mucca, la richiuse con un nodo e se ne andò, lasciandoli sul bordo di u n a strada che portava al mercato. Passò di lì per primo un cammello, che udì i fanciulli gridare: «Aiuto, tirateci fuori!». Il c a m m e l l o chiese: «Chi vi ha rinchiusi lì dentro?». «Il leone» risposero quelli. «Allora n o n posso aiutarvi, p e r c h é nessuno può mettersi contro il leone.» Passò poi per quella strada un mulo, e di nuovo i bimbi gridarono: «Aiuto, tirateci fuori!». Il mulo fece la stessa domanda e anche lui si rifiutò. Anche un asino di passaggio non volle aiutarli per p a u r a del leone. Invece il riccio non ebbe esitazioni. Fece fermare la gallina che stava cavalcando e, sentita la storia dei due sventurati, eccolo estrarre la sua sciabola, squarciare la pelle e liberare i fanciulli, proseguendo poi per la sua via. 161
Quando il leone ritornò e trovò la pelle vuota, chiese a tutti gli animali chi fosse stato a liberare i fanciulli. Il cammello, il mulo e l'asino negarono di averlo fatto, mentre il riccio ammise con orgoglio la sua impresa. «Ti sfido a combattermi!» disse al leone. Il leone raccolse intorno a sé tutti i grandi animali e li dispose in un mucchio per la battaglia. Il riccio prese con sé le api, le vespe, le zanzare e altre bestioline che pungono, e le tenne nascoste. Quando iniziò la battaglia, il riccio gridò: «Voi zanzare, attaccate le loro orecchie!» e poi alle vespe: «Pungeteli!» e lo stesso fece con le altre bestiole. Allora tutti i grossi animali fuggirono, e il leone balzò per primo nel suo covo. Ma il riccio lo inseguì. Prese u n a p i u m a della gallina che cavalcava e la piantò davanti alla tana del leone. Tutte le volte che il leone guardava fuori, vedeva la p i u m a e pensava che il riccio fosse ancora lì. E dal m o m e n t o che non si fidava a uscire, morì di fame.
44. IL R I C C I O E LO SCIACALLO
Il riccio ha f a m a di essere l'animale più saggio, e per questo nel m o n d o animale svolge la funzione di giudice. Un giorno il riccio e lo sciacallo, a n d a n d o a spasso, giunsero davanti a un giardino dove crescevano frutti dolcissimi. Trovarono un piccolo passaggio nella siepe e si introdussero nel giardino. Qui si misero a mangiare i frutti più dolci, ma il riccio, saggiamente, sapeva che non bisognava mangiare troppo. Scivolò di n u o v o f u o r i dal b u c o nella siepe e chiamò lo sciacallo, ma questi n o n cessò di mangiare fino a che fu diventato così grasso da non passare più attraverso la siepe. Allora prese a lamentarsi, perché aveva p a u r a di 162
essere acchiappato l'indomani dal padrone. «Signor riccio,» i m p l o r ò « a i u t a m i in q u e s t a s i t u a z i o n e di emergenza!» E il riccio gli disse: «Quando arriverà il padrone, domattina presto, gettati per terra e fa' finta di essere morto. Vedrai che l'uomo ti butterà fuori dalla siepe». E difatti così avvenne.
45. COSÌ VA IL M O N D O
Si racconta che il riccio incontrò lo sciacallo e gli rivolse la parola: «Buongiorno, dove stai andando?». «A cercar fortuna» rispose lo sciacallo. Camminarono insieme per un po' e giunsero a un pozzo. Dalla carrucola pendeva u n a corda con due secchi all'estremità per attingere acqua. Tutti e due avevano sete e volevano bere. Rapido, il riccio saltò in un secchio e si lasciò calare nel pozzo. Dopo che ebbe bevuto, gridò: «Qui ci sono otto pecore con i loro agnellini!». Allora lo sciacallo, gridando: «Aspetta! Vengo giù anch'io!», balzò nell'altro secchio e precipitò in f o n d o al pozzo, f a c e n d o c o n t e m p o r a n e a m e n t e risalire il riccio in superficie. Qui giunto, uscì dal secchio e guardò giù. «Ma che succede?» chiese stupito lo sciacallo. Il riccio rispose: «Così va il mondo, c'è chi scende e c'è chi sale».
46. LA F I G L I A S T R A E IL R I C C I O
C'era u n a volta u n a donna che aveva u n a figliastra. Un giorno il padre della ragazza volle partire per il pellegrinaggio: lasciò quindi alla moglie provviste p e r un anno, m a i s e altri generi alimentari. Aveva calcolato tutto c o m e si deve. Dopodiché si mise in 163
viaggio. Un giorno la moglie stese al sole il mais sul terrazzo e vi lasciò la figlia dicendole di sorvegliarlo. Ma a p p e n a la d o n n a se ne fu andata, la ragazza si mise a guardare in aria; vennero due galline e si portarono via tutto il mais. Al suo ritorno, la d o n n a bastonò la figliastra fino a lasciarla tramortita. Dopodiché la scacciò dal suo tetto. Arrivò un leone e si portò via la ragazza; la legò a un albero vicino alla strada. Diversi animali passarono di lì a n d a n d o al mercato. Capitò per p r i m a u n a pecora, cui la fanciulla disse: «Per l'amor di Dio, pecora, liberami da questi legami!». La pecora chiese: «Chi ti ha legata in questo modo?». «Il leone!» rispose la ragazza. «No, con lui di mezzo non posso intromettermi.» Passò poi un cane. Anche lui rispose allo stesso modo. Arrivò quindi un cammello, che ebbe le stesse parole. E lo stesso risposero un bue, u n o sciacallo e un levriero. Dopo che f u r o n o passati tutti questi animali, da ultimo sopraggiunse un riccio. Cavalcava u n a gallina. Aveva u n a staffa di maiolica, u n a sella di sterco di cavallo e come redini un cordino. La fanciulla gli disse: «Per l'amor di Dio, riccio, liberami dai legami che mi avvincono!». «Chi ti ha legata qui?» «È stato il leone.» Allora il riccio esclamò: «Ah, ah! L e g a n d o t i in questo m o d o ha mostrato di essere un vigliacco!». E così dicendo il riccio liberò la fanciulla, che se ne potè andare. Il riccio proseguì la sua strada fino al mercato; ma q u a n d o il leone giunse al luogo in cui aveva lasciato la fanciulla, vide che essa non c'era più. Si sedette al bordo della strada a osservare gli altri animali. A tutti quelli che passavano, domandava: «Sei tu che hai slegato la ragazza?». Uno d o p o l'altro, tutti gli ani164
mali risposero: «No!». Quando, per ultimo, arrivò il riccio e il leone gli gridò: «Sei tu che hai slegato la ragazza, palla del demonio?», il riccio rispose: «Che c'è di tanto i m p o r t a n t e ? Sì, sono io che l'ho slegata!». Allora il leone esclamò: «Oh, che cosa potrei fare da solo contro questa palla del demonio! Sì, se tu n o n fossi un esserino così buffo ti si potrebbe ingoiare senza neanche toccarti con le zanne!». Il riccio replicò: «Se è così, e se hai veramente coraggio, prova a ingoiarmi senza n e a n c h e toccarmi con le zanne!». Allora il leone lo afferrò e lo ingoiò; ma il riccio gli r i m a s e i n c a s t r a t o in gola e lo p u n g e v a con i suoi aculei andando su e giù. Il leone disse: «Per l'amor di Dio, per l'amor di Dio, salta fuori!». Il riccio disse: «Promettimi solennemente davanti a Dio che non mi divorerai se salto fuori e che non mi afferrerai con le tue zanne!». Il leone promise: «Se vieni fuori non ti azzannerò e non ti divorerò». Allora il riccio si lasciò sputare fuori, e q u a n d o il leone lo ebbe risputato gli disse: «Orbene! R a d u n a le tue truppe e io radunerò le mie; quindi ci faremo guerra!». A questo punto il leone chiamò dalla sua tutti gli animali del mondo. Il riccio invece strappò dal terreno stoppie legnose e le a c c a t a s t ò in un m u c c h i o grande come u n a montagna. Il leone andò alla testa delle sue truppe e gridò al riccio: «Scendi nella pianura! Dobbiamo combattere!». Ma il riccio rispose: «Sali tu sulle alture!». «Sei riuscito a procurarti delle truppe?» chiese il leone. «Sì!» rispose il riccio. «Allora fa' vedere alla gente chi sono i tuoi!» disse il leone. A q u e s t o p u n t o il riccio chiese all'Onnipotente: «Mandami, ti prego, un po' di vento!». Allah gli inviò del vento. Allora un truciolo legnoso a n d ò a finire nel d e r e t a n o di o g n u n o degli a n i m a l i avversari, e 165
tutti fuggirono. In questo m o d o il riccio sconfìsse i suoi avversari. Salute a tutti!
47. LA TARTARUGA
Un giorno la tartaruga se ne andava a spasso canticchiando. Un falco la udì, la afferrò, la portò in alto nel cielo e la lasciò cadere. Allora la tartaruga disse: «Ecco come vanno le cose, cara mia, u n o non vuole tener chiusa la bocca, e la bocca chiude lui (cioè la sua vita)!». La udì un u o m o ed esclamò: «Che meraviglia, add i r i t t u r a u n a t a r t a r u g a che parla!». La prese, la portò dal re e gliela donò, dicendogli: «Mio signore, questa è u n a tartaruga parlante!». Il re gli disse: «Allora f a m m i vedere c o m e fa a parlare!». L'uomo si diede da fare con lei dicendole: «Parla, tartaruga!». Ma la tartaruga si rifiutò di parlare. Lui le disse: «Di' quello che hai detto quando ti ho trovata in campagna!». Ma lei si rifiutò di parlare. Allora il re disse: «Prendetelo e tagliategli la testa! Non è ancora nato chi riesce a prendersi gioco di me mentre io sono ancora vivo». Allora lo presero e gli tagliarono la testa.
48. D A D O V E V E N G O N O L E C I C O G N E
Nei tempi antichi viveva il cadì di u n a grande città in cui amministrava il diritto. Ciò gli aveva procurato sempre lauti guadagni. Un a n n o non piovve per tutto l'inverno e i contadini non poterono coltivare i loro campi. Quando, intaccate le provviste di grano per il pane, gli abitanti della città cominciarono a soffrire la f a m e , si r e c a r o n o dal loro cadì i cui m a g a z z i n i erano pieni di grano. Essi gli dissero: «Che Allah ci 166
salvi! Vendici un po' di grano!». Il cadì rispose: «Va bene, tornate d o m a n i e ne distribuirò u n a p a r t e a ciascuno!». Dopo che la gente se ne fu andata, egli ordinò ai suoi servitori di portare il grano nella stanza superiore e di appendervi u n a bilancia. Questa stanza sopraelevata dava su due scale: u n a per la salita e u n a p e r la discesa. Nella notte il cadì p r e s e un grosso pezzo di sapone e lo spalmò sui gradini della scala di discesa. Il g i o r n o d o p o g i u n s e r o gli a b i t a n t i della città e salirono la scala che non era stata insaponata. Nella stanza venne loro distribuito il grano, essi lo pagarono e se ne andarono via caricandosi i sacchi sulle spalle. Ma nello scendere la scala i n s a p o n a t a scivolarono e caddero a terra. Allora il cadì proruppe in sonore risate. Ma Dio lo trasformò in u n a cicogna con u n a camicia bianca e u n a mantellina nera.
49. P E R C H É G L I ASINI H A N N O I L M U S O B I A N C O
L'asino è molto paziente, lo si p u ò caricare fino a far traboccare le some e lui sopporta tutto. Ci si rende conto di quanto si pretende dall'asino solo q u a n d o schiatta, e allora vuol dire che era troppo. I maggiori dolori gli asini li s u b i s c o n o a o p e r a dei b a m b i n i , q u a n d o vengono portati al pascolo. I b a m b i n i percuotono l'asino con i bastoni e gli tirano pietre, gli saltano in groppa e si fanno trasportare in cinque alla volta. Pazientemente, egli li lascia fare. Un g i o r n o alcuni angeli dissero al Signore dei mondi: «O Signore, osserva l'asino, è l'immagine della pazienza e della resistenza! Non avrebbe diritto anche lui al Paradiso?». «Sì,» disse il Signore «conducetelo qui!» Allora gli angeli a n d a r o n o dall'asino, 167
lo presero e lo trasportarono all'ingresso del Paradiso. Volevano spingerlo dentro, ma l'asino, a p p e n a messo dentro il m u s o con circospezione, vide il gran n u m e r o di bambini che c'era all'interno e n o n volle più andare avanti. Era troppa la p a u r a dei bambini, che lo avevano sempre maltrattato. Gli angeli cercar o n o d a p p r i m a di convincere l'asino con le buone, poi con la forza, ma n o n ci fu m o d o di smuoverlo di lì. Allora gli angeli riportarono l'asino al pascolo. Ma siccome aveva infilato il m u s o nel Paradiso, e questo era stato illuminato dalla luce divina, ora l'asino aveva il m u s o bianco. E da allora tutti gli asini h a n n o il m u s o bianco.
50. C O M E S I O R I G I N A N O L E C A V A L L E T T E
Laggiù nel m a r e vive un mostro gigantesco, che viene chiamato balena. Alcuni marinai raccontano che u n a simile balena p u ò ingoiare un'intera nave; nella pancia della balena è buio pesto e per questo i marinai accendono un fuoco. La balena non p u ò sopportarlo e sputa fuori la nave. Un giorno Giona, il profeta di Dio, venne ingoiato da u n a balena. Egli predicò nel ventre del mostro e grazie a ciò esso divenne pacifico e risputò Giona. Nel luogo in cui egli toccò terra, nei pressi dell'odierna rìbat di Massa, alla foce del fiume Massa, si costruì u n a cella e santificò tutto il territorio. Qui vi fu per molto tempo un santuario, costruito interamente di costole di balena, perché in questo luogo vanno ad arenarsi molte balene morte. Il meglio delle balene è l'ambra, che si trova nei loro intestini. Questa s o s t a n z a preziosa, che si conserva p e r molti a n n i senza irrancidire, serve per la fabbricazione di profumi. I pescatori di quel tratto di costa sezionano le 168
carcasse delle balene, p r e n d o n o l'ambra e la rivendono a caro prezzo, arricchendosi. Essi raccontano che le balene, q u a n d o sono vecchie e sentono prossima la morte, n u o t a n o fino in m a r e aperto, dove si trova u n a p i a n t a particolare. Ne m a n g i a n o p e r c h é sanno che essa provoca stitichezza, dopodiché vanno ad arenarsi a terra e m u o i o n o . Lo dice l ' a m b r a che è nel loro corpo. Quando i pescatori h a n n o fatto a pezzi la balena m o r t a e ne h a n n o estratto l'ambra, dalla carne del m o s t r o fuoriescono tantissimi vermi, che crescono sempre più fino a diventare cavallette. Le cavallette diventano sciami e si precipitano su campi e orti e divorano tutte le piante che trovano. Allora accorrono in folla i contadini e raccolgono le cavallette, le salano e le vendono in grande quantità come nutrimento per la gente. Nei primi secoli, i re pagavano u n a rendita mensile a quella tribù del Sus che è stanziata alla foce del fiume Massa per il servizio che rendeva loro: questa gente bruciava le balene morte, in modo che n o n potessero uscirne cavallette che avrebbero spogliato il territorio. Ma da q u a n d o il re non paga più per il sos t e n t a m e n t o di q u e s t a tribù, a n c h e i suoi u o m i n i n o n bruciano più le balene, e da allora si verificano spesso invasioni di cavallette. Queste bestie sono così n u m e r o s e e voraci da arrivare fino alle m u r a di Rabat, scavalcare le m u r a e penetrare nelle case più vicine. Sui campi e nei vigneti divorano tutto fino a lasciarli spogli e non vi è preghiera o lettura del Cor a n o che vi si opponga, perché q u a n d o Allah ha deciso, va fino in fondo.
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L'inizio e la fine del mondo: storie mistiche
51. G L I I N I Z I D E L M O N D O
Dopo che Allah ebbe creato il m o n d o , volle creare anche gli uomini. Inviò allora il suo angelo prediletto, Iblis, a prendere u n a m a n c i a t a di terra da ogni regione. Iblis le portò ad Allah e con esse Allah modellò il primo uomo, Adamo, padre di tutti gli u m a ni. La sua compagna, Hawa (Eva), m a d r e di tutti gli umani, la fece dal fianco sinistro di Adamo. Mentre il blocco di argilla giaceva a n c o r a inanimato, l'angelo Iblis gli girava intorno domandandosi che tipo di c r e a t u r a ne s a r e b b e v e n u t a fuori. Con estrema cautela girò quaranta volte intorno al blocco di argilla senza arrischiarsi a toccarlo. Solo u n a volta tastò leggermente col suo bastone al centro del blocco, ed è così che si è originato l'ombelico. Q u a n d o Allah diede o r d i n e allo spirito vitale di trasferirsi nel blocco di argilla, questo si ritrasse spaventato. Allora Allah gli disse: «Tu devi entrarci rapid a m e n t e e senza titubanze, e altrettanto rapidamente dovrai a n c h e t o r n a r t e n e f u o r i q u a n d o io ti richiamerò». (La seconda parte si riferisce alla morte degli uomini.) Dopo che i due esseri u m a n i ebbero ottenuto la vita, presero ad a n d a r e di qua e di là per il giardino, godendo dei suoi frutti. Allora Allah r a d u n ò tutte le creature spirituali e mostrò loro la nuova creatura, l'uomo. Allah pretese da tutte le creature spirituali 170
che lo adorassero, e la maggior parte degli angeli e dei jinn obbedirono al suo ordine, tranne Iblis con la sua schiera. Egli disse ad Allah: «Mio signore, tu hai creato questo essere con la terra. Io però sono migliore di lui, perché tu mi hai creato con il fuoco». Allora Allah disse: «E allora tu ritornerai a essere fuoco!». «E sia,» a c c o n s e n t ì Iblis «ma p e r m e t t i m i u n a richiesta: d a m m i i figli di questi due, che mi acc o m p a g n i n o nel fuoco!» Allora Allah disse: «Quelli dei loro figli che vorranno seguirti, potranno venire con te». Adamo e Hawa vissero a lungo felici nel giardino dell'Eden. La prima cosa che essi videro nel giardino fu u n a grossa tavola che dal cielo veniva giù fino a terra. In cima alla tavola lessero le parole della professione di fede islamica: "Non vi è Dio all'infuori di Allah e Maometto è il suo inviato e profeta". Sotto di essa erano messi per iscritto tutti gli avvenimenti degli uomini futuri, anche se non sotto forma di giudizio emesso in m o d o irrevocabile, bensì tracciati in m o d o leggero, come su u n a lavagna di scuola, su cui è possibile cancellare quello che è stato scritto. Così Allah p u ò cancellare q u e s t a o quell'altra f r a s e se l'uomo non si mostra degno del proprio destino. Ma se qualcuno lo trasgredisce, egli non scrive subito un nuovo destino per l'uomo, perché Allah è longanime. Solo dopo secoli o millenni Allah cancella la frase e ne scrive sulla tavola u n a nuova, m e n o favorevole. Gli angeli p o s s o n o s e m p r e vedere q u e s t a faccia della tavola, e così pure alcuni santi cui ciò è concesso. Ma il retro della tavola nessuno l'ha mai visto, e solo Allah sa cosa vi ha scritto. E Allah mise in guardia Adamo e Hawa nei confronti dell'angelo Iblis, che non gli si era sottomesso. «Egli vi sarà sempre nemico, non seguitelo!» Adamo e Hawa vivevano senza preoccupazioni nel giardino e 171
n o n mancava loro nulla; solo di un albero non potevano mangiare, perché era il p r i m o albero che Allah aveva posto nel Paradiso. Un giorno Iblis disse ad Adamo: «O Adamo, ti voglio mostrare l'albero della vita, se tu mangerai dei suoi frutti diventerai onnisciente come gli angeli e vivrai in eterno». Ma Adamo pensò al divieto di Allah e rifiutò con decisione. Allora Iblis a n d ò da Hawa e cercò di persuaderla a mangiare u n a mela del primo albero, ma anche lei rifiutò. Allora Iblis ricorse a un'astuzia. Mise u n o specchio davanti al viso di Hawa e le chiese: «Conosci questa donna?». H a w a era stupefatta: non aveva m a i visto il proprio viso e non sapeva di essere sempre lei. Credette che oltre a lei nel Paradiso ci fosse un'altra donna. Allora Iblis proseguì: «Vedi com'è bella questa donna. Sicuramente un giorno Adamo la vedrà e la prenderà in moglie e si dimenticherà di te». Allora H a w a ebbe p a u r a e chiese un consiglio a Iblis. Egli disse: «Se tu mangi di quell'albero e dai da mangiare anche ad Adamo di quella mela, egli non potrà mai più dimenticarsi di te né prendere alcun'altra moglie». Allora Hawa prese u n a mela di quell'albero, a n d ò da Adamo e gli offrì di mangiarne, dandovi nel fratt e m p o un morso deciso lei stessa e dicendo quant'era b u o n o il suo sapore. Allora anche Adamo vi diede un morso, ma il pezzo gli rimase conficcato in gola. Da allora tutti gli uomini h a n n o il p o m o di Adamo. Il pezzo mangiato da Hawa, invece, le passò attraverso il corpo e tornò fuori come sangue dal suo sesso, ed è per questo che le donne h a n n o un flusso di sangue tutti i mesi. A quel tempo erano ancora completamente nudi; ora cominciarono a provare vergogna e si rivestirono. Allora Allah m a n d ò un angelo e li fece scacciare 172
dal giardino. Egli disse: «Andate via di qui e siate estranei l'uno all'altra!». Fu così che Adamo e H a w a dovettero lasciare il g i a r d i n o e p r e s e r o a e r r a r e , s e p a r a t a m e n t e l'uno dall'altra, per la vasta terra. Adamo viveva in quella parte del m o n d o che oggi si chiama Asia e Hawa in quell'altra che oggi si chiama Africa. Per questo essi non si potevano incontrare, per quanto chiamassero e cercassero e interrogassero tutti gli a n i m a l i e le piante. Si trovarono a essere più vicini quando passarono a vagare in quel territorio che costituisce il collegamento tra i due continenti. Tuttavia non poterono ancora incontrarsi finché un giorno Dio decise che avevano s o f f e r t o a b b a s t a n z a e che p o t e v a n o nuovamente incontrarsi. Fu per p r i m a Hawa che vide Adamo, giacché essa vagava notte e giorno per il paese alla ricerca di Adamo, mentre quest'ultimo andava in giro solo di giorno, e di notte dormiva. Così u n a notte H a w a vide Adamo che dormiva e si nascose nei pressi sotto u n a roccia. Quando, la mattina dopo, Adamo si rimise in cammino, trovò Hawa sotto la roccia e le chiese come fosse giunta fin lì. Ma lei disse di non essersi mai mossa da lì, e Adamo disse che questa era u n a bugia, p e r c h é egli era p a s s a t o più volte a c c a n t o a quella roccia e non l'aveva mai vista. Dopo qualche tempo Hawa partorì due figli, Habil e Qabil. A loro volta questi ebbero u n a figlia ciascuno. Qabil voleva sposare la figlia di suo fratello e dare a lui in sposa la propria figlia, ma Habil non voleva s p o s a r e la figlia di suo fratello p e r c h é n o n era b u o n a c o m e la p r o p r i a . Per questo Qabil uccise il fratello. In piedi accanto al cadavere, Qabil fu preso da un grande terrore, perché fino ad allora nessun essere u m a n o era ancora morto. Qabil non sapeva che fare 173
di suo fratello. Lo prese sulle spalle e se lo tirò dietro dovunque andasse per un a n n o intero, cosicché il cadavere cominciò a decomporsi e a puzzare. Allora, senza più sapere che fare si sedette e non voleva fare più nulla. Ma a questo p u n t o Allah decise di fargli vedere un e s e m p i o . Inviò d u e corvi (che in r e a l t à erano angeli), in lotta tra loro. Essi continuarono a beccarsi a vicenda con i loro forti rostri finché u n o dei d u e c a d d e a t e r r a m o r t o . Allora l'altro corvo scavò u n a buca profonda, vi rinchiuse il corvo morto e vi accumulò sopra terra e pietre, trascinandole col becco. A questo p u n t o Qabil capì che cosa si dovesse fare col cadavere del fratello, e da allora gli uomini seppelliscono i loro morti.
52. D E L L A C A D U C I T À D E I B E N I DI QUESTO MONDO
Il più antico re di cui il nostro popolo si ricordi si chiamava Jedad u b e n Ad. Era signore sui jinn e sugli uomini e visse in epoche di cui si è persa la memoria. Egli diceva: «Io non muoio!». Appoggiato al suo bastone, sedeva e amministrava la giustizia. Se ne stette lungo tempo seduto in tal modo, senza che né gli u o m i n i né i jinn si accorgessero che era già morto. Dopo anni e anni, però, un tarlo si fece strada nel bastone su cui era appoggiato il re, finché esso si spaccò e il re defunto cadde a terra. Allora i jinn e gli uomini fuggirono. Dov'è Jedad u ben Ad? Costruì mura d'oro E mura di rame, Aveva l'argento tra sé e il suolo. 174
Il trono su cui sedeva, Era d'oro puro. Ed ecco venire l'angelo della Morte: Inutili furono tutti i suoi beni! Già da molto t e m p o n e s s u n o più sapeva dove si trovasse la città di Jedad, re degli Ad. Un giorno la f a m a di quel principe potente giunse fino a Salomone, figlio di Davide, sul suo t r o n o a Gerusalemme. Allora Salomone chiamò a sé tutti gli uccelli, i jinn e gli uomini, e chiese di colui che nei tempi antichi era stato signore dei jinn e degli uomini. Ma nessuno sapeva dove fosse situata la sua città. Allora Salomone chiese: «Dov'è la vecchia aquila?», ma p e r m o l t o tempo l'aquila non venne. Passarono nove giorni, e alla fine l'aquila giunse in volo e disse: «O potente re Salomone, non ero potuta venire perché mi trovavo col mio vecchio padre nell'isola lontana in mezzo all'oceano. Mio padre ha novecento anni, è debole, cieco e senza p e n n e . Io debbo proteggerlo dalla grande calura volandogli al di sopra e facendogli ombra. Lasciami tornare subito da lui!». Allora Salomone disse: «Vola da tuo padre e chiedigli di Jedad, della stirpe di Ad, e dell'ubicazione della s u a città! Poi t o r n a i n d i e t r o e riferiscimi!». La vecchia aquila tornò rapidamente dal padre e gli pose la domanda. E questi rispose: «Io personalmente non mi ricordo di quel sovrano, ma mio nonno, che aveva milletrecento anni q u a n d o morì, me ne parlò. Questo Jedad u ben Ad possedeva tutti i beni di questo mondo, e nulla era fuori dalla sua portata, ma alla morte n o n potè sfuggire... Siamo fatti di terra, viviamo sulla terra e alla terra ritorneremo». Q u i n d i p a s s ò a descrivere a suo figlio, la vecchia aquila, l'ubicazione della città di Jedad. E lui tornò 175
in fretta a rapporto da Salomone e si mise a volare alla testa di Salomone e del suo esercito, conducendoli, attraverso un deserto, fino al mare. Volò in cerchio sempre più in alto, dopodiché si lasciò cadere in picchiata c o m e un sasso fin sulle rovine della città, facendo vedere dove era stato il luogo delle impiccagioni, dove vi era u n a p a l m a e dove giaceva il palazzo ricoperto dalla sabbia. Tuttavia, nessuno riusciva a trovare l'ingresso del palazzo. Allora l'Onnipotente fece soffiare a lungo un vento, p r i m a il vento del nord, poi quello dell'ovest, poi quello del sud e infine quello dell'est. Esso spazzò via la sabbia e mise allo scoperto un ingresso del palazzo. Quando gli uomini vi entrarono, trovarono la sala del trono, e in essa u n a statua che teneva in bocca u n a tavoletta d'argento su cui era scritto, in lettere "greche": Io Ho vissuto mille anni e ho dominato mille città, ho cavalcato mille cavalli e ucciso mille guerrieri, ho avuto mille mogli e mille figli maschi. Avevo mille saggi consiglieri, ma all'Angelo della Morte non son potuto sfuggire. Nessuno può essere più ricco di me o più potente o vivere più a lungo di me, perciò, ascoltate il mio consiglio: la ricchezza non può esservi d'aiuto! Il e tutti i viventi periscono! 176
Allora Salomone a b b a n d o n ò il palazzo di J e d a d con i suoi uomini e fece ritorno a casa. Una tempesta di sabbia ricoprì di nuovo il palazzo, e oggi nessuno più sa dove si trovasse quella città.
53. I L S A R T O N E L L A CITTÀ F E L I C E
Dalle nostre parti viveva un tempo un povero sarto, che n o n aveva né moglie né figli. Era un u o m o diligente e sobrio, che lavorava da m a t t i n a a sera, cuc e n d o camicie e p a n t a l o n i , mantelli e caffettani. Inoltre fungeva da muezzin e compiva sempre puntualmente e senza errori il suo dovere: già di primo mattino, q u a n d o ancora tutti dormivano, saliva sul minareto della nostra moschea e chiamava i credenti alla preghiera. A mezzogiorno piantava in asso il suo lavoro e saliva ancora a far risuonare il richiamo alla preghiera; e così p u r e nel pomeriggio, a m e t à del lavoro, e alla sera, quando il sole tramontava; e per finire un'ultima volta, quando la notte cominciava a essere fonda. Così trascorsero gli anni, e il sart o - m u e z z i n era c o n o s c i u t o d a t u t t i c o m e p e r s o n a tranquilla e a m m o d o . Ogni volta che saliva tutti quei gradini di pietra fino in cima al minareto, il sarto rivolgeva il pensiero ad Allah e si augurava, un giorno, di poter avere u n a moglie e u n a casa felice. Quindi faceva risuonare i sette melodiosi versi del richiamo alla preghiera e ridiscendeva devotamente per eseguire la sua preghiera insieme agli altri uomini nella moschea. Un giorno, però - a quanto si racconta -, il sarto, appena fatte risuonare le ultime parole del richiamo alla p r e g h i e r a , v e n n e a f f e r r a t o dagli artigli di un grosso uccello rapace che se lo portò via volando alto nel cielo, scavalcando montagne e deserti, e poi al 177
di là del mare, fino alla riva opposta, dove l'uccello lo depose dolcemente ai margini di u n a bella città. Il sarto entrò coraggiosamente nell'abitato, meravigliandosi della pace e tranquillità che vi regnavano. Nei bazar non si mercanteggiava e non si litigava, n o n si udiva n e m m e n o un sussurro. Gli abiti della gente erano confezionati con tessuti preziosi ed erano tutti puliti, i volti erano tutti radiosi; tutti gli uomini, grandi e piccoli, erano felici e contenti. Il sarto era sempre più meravigliato e, quando si avvicinò ai negozi per ascoltare, cosa udì e vide? Le persone non pagavano con denaro quello che acquistavano, ma si limitavano a dire al venditore: «Preghiere alla bellezza!», m e n t r e prendevano la merce. A seconda del valore delle merci ripetevano u n a o più volte questo curioso «Preghiere alla bellezza! », e ciascuno era contento così. Il sarto si soffermò allora davanti alla bottega di un collega, lo osservò per un certo tempo e q u a n d o si fu convinto che anche costui sembrava altrettanto felice quanto gli altri abitanti di questa strana città, si fece coraggio, entrò, lo salutò e gli disse: «Anch'io sono un sarto come te e mi piacerebbe vivere in questa città della felicità. Non avresti del lavoro a n c h e per me?». «Certo che sì» rispose il sarto. «Siediti qui e rallegraci, svolgi il tuo lavoro insieme a me e avrai la tua ricompensa: cinquanta preghiere alla bellezza ogni settimana.» Il sarto si rallegrò e cominciò a lavorare insieme al collega. In breve tempo venne informato dell'usanza di quel paese: ogni commercio e ogni lavoro venivano ricompensati con le parole: «Preghiere alla bellezza» e nessuno mancava di nulla. Vi era anche questo uso: q u a n d o u n giovane i n t e n d e v a sposarsi, bastava che andasse il giovedì sulla spiaggia. In questo giorno della settimana le ragazze in età da marito erano solite passeggiare su e giù recando con sé 178
u n a brocca piena d'acqua. Se un giovane trovava che u n a ragazza gli piaceva al punto di volerla sposare, le chiedeva un sorso d'acqua della sua brocca e ringraziava dicendo: «Preghiere alla bellezza!» e se anche lui piaceva alla ragazza, questa diveniva sua moglie e vivevano insieme. Quando il sarto udì queste cose, non vide l'ora che giungesse il giovedì, e quel giorno si recò alla spiaggia, cercò u n a bella fanciulla e le chiese dell'acqua, dicendole: «Preghiere alla bellezza!». Lei gli porse l'acqua e si mostrò contenta di lui, così divennero marito e moglie e misero su u n a bella famiglia. Ogni giorno, dopo il lavoro, il sarto andava al mercato, comprava le cose necessarie per vivere, dopodiché tornava in fretta a casa dalla moglie ed era felice con lei. Un giorno, al mercato vide esposto in vendita un pesce gigantesco e disse tra sé: "Che pesce magnifico, la sua carne bianca deve avere un ottimo sapore, e sicuramente mia moglie ne t r a r r à un b u o n pasto a b b o n d a n t e " . Acquistò il pesce in c a m b i o di "preghiere alla bellezza" e se lo portò a casa. Ma quando sua moglie lo vide entrare in casa con quel pesce gigante, parve molto spaventata ed esclamò: «Che cosa pensi di fare con questo pesce enorme, che p u ò a n d a r bene per dieci persone, mentre noi siamo solo in due!». Il sarto rispose: «L'ho preso al mercato, e mi piacerebbe che tu me lo cucinassi per il pasto». Ma la donna si fece ancora più agitata e disse: «Hai preso molto più di quanto ti spetta. Adesso non potrai più vivere nella nostra città». Il sarto uscì mestamente di casa, ed ecco sopraggiungere dal cielo l'uccello rapace che lo afferrò e, sorvolando il m a r e e valicando monti e deserti, lo riportò alla sua città natale. Lo depose in cima al minareto, proprio dove lo aveva preso. Al sarto parve quasi di udire ancora l'eco del proprio richiamo alla 179
preghiera. Scese e pregò insieme agli u o m i n i nella moschea. Quindi ritornò nel suo negozio e riprese il lavoro, che sembrava a p p e n a a b b a n d o n a t o . Mestam e n t e ripensò ai bei tempi nella città felice, e ogni volta che saliva sul minareto per chiamare i credenti alla p r e g h i e r a sperava di rivedere l'uccello r a p a c e che un g i o r n o lo aveva p o r t a t o via. Ma esso n o n tornò mai più. Questo è ciò che mi h a n n o raccontato gli abitanti della mia città, e solo Allah, l'Onnipotente, conosce tutti i miracoli e sa che cosa c'è di vero.
54. AATIALLAH
Ai tempi antichi vivevano in un paese lontano tre uomini, f u m a t o r i di hashish. Il re di questo paese era un tiranno e aveva proibito a chiunque di circolare in città dopo il tramonto. Egli, invece, ogni notte a n d a v a in giro, insieme al suo visir, nei vicoli deserti della città, per controllare che la gente obbedisse ai suoi ordini. Una notte avvenne che i due notassero in un vicolo u n a luce che filtrava attraverso le fessure della porta di un negozio. Allora il re disse al visir: «Voglio entrare qui e vedere che cosa succede in questo negozio». Il visir bussò alla porta, e q u a n d o questa fu aperta disse: «Veniamo da lontano; potete accoglierci per questa notte? Ce ne ripartiremo domani al levar del sole». Uno dei tre fumatori di hashish che erano seduti nel negozio disse: «Siate i benvenuti! Siete ospiti di Dio». Quando vennero portati i narghilè, gli uomini com i n c i a r o n o a f u m a r e . I tre p a r l a r o n o di molteplici cose e alla fine il discorso cadde sulla città e sul suo re. Il p r i m o disse: «Oh, se il re mi desse in moglie 180
sua figlia, e inoltre un cavallo carico di doni preziosi, potrei proprio considerarmi fortunato e lasciare il paese». Il secondo disse: «Non dimenticare che a n c h e il visir ha u n a bella figliola. Se mi desse lui la figlia in sposa, e insieme un cavallo carico di doni preziosi, anch'io lascerei il paese». Il terzo invece disse loro: «Io non b r a m o nulla delle ricchezze del re. Non vi è vero re al di fuori di Allah, e io mi accontento di ciò che Egli, mio creatore, mi dona». Dopodiché passarono a parlare di altri argomenti ancora, finché l'hashish ebbe fatto il suo effetto e i tre si f u r o n o addormentati. Allora il re e il visir lasciarono il negozio e nell'uscire fecero un segno di riconoscimento sulla porta. La mattina dopo fecero convocare i tre uomini al palazzo e li interrogarono, ma essi non erano in grado di ricordare quello che avevano detto la sera precedente. Il re e il visir ebbero un bell'insistere nel dire che gli uomini avevano desiderato il matrimonio con la figlia del re e con quella del visir, ma senza successo. Allora il visir propose di far portare dei narghilè, e q u a n d o gli u o m i n i ebbero ripreso a f u m a r e , t o r n ò loro la m e m o r i a . Il p r i m o a f f e r m ò di desiderare il matrimonio con la figlia del re, il secondo ammise di desiderare il m a t r i m o n i o con la figlia del visir e il terzo confessò di non b r a m a r e alcunché da parte di chicchessia al di fuori di Allah, l'Onnipotente. Allora il re stabilì la dote di sua figlia e la diede in sposa al primo fumatore, fu quindi il visir che stabilì la dote della figlia e la diede in sposa al secondo fumatore; dopodiché il re si rivolse al terzo e diede ordine di decapitarlo sulla pubblica piazza, dicendo: «Per vedere se Allah ti può salvare!». Aatiallah (che vuole dire "Dio mi ha dato" ed era il n o m e del terzo) venne gettato in prigione in attesa 181
del giorno del mercato, quando sarebbe stato giustiziato. Giunto il giorno dell'esecuzione, Aatiallah venne condotto per le vie della città, in m o d o che tutti gli abitanti potessero schernirlo, come era consuetudine. Alla fine gli fu chiesto se avesse un desiderio, e Aatiallah rispose che voleva pregare Dio nella moschea. Ciò gli fu concesso, ma vennero collocate delle guardie davanti alla p o r t a per evitare eventuali tentativi di fuga. Mentre Aatiallah pregava, si aprì u n a fessura nella parete. Aatiallah vi entrò e si nascose alla vista delle guardie; cercò quindi la salvezza nella fuga e abbandonò il paese. Anche i suoi due amici lasciarono il paese con le loro mogli. Viaggiavano di giorno e d o r m i v a n o di notte. Un giorno incontrarono Aatiallah e festeggiarono con lui l'incontro. Poi gli proposero di entrare al loro servizio, prendendosi cura dei loro cavalli e c o n d u c e n d o i cammelli delle loro spose. Aatiallah accettò la loro proposta a condizione di non essere ricompensato con oro o argento; si sarebbe accontentato del cibo e delle bevande che gli avrebbero dato. Gli amici aderirono alla sua richiesta. Un giorno la comitiva a cavallo si fermò a riposare all'ombra di u n a collina. Le due donne avevano sete, e così i loro mariti partirono alla ricerca dell'acqua e le lasciarono in custodia ad Aatiallah. L'attesa si protrasse a lungo, ma i due uomini non ritornavano ancora. Allora Aatiallah decise di andare a cercarli. Dopo un po' di t e m p o li trovò che giacevano m o r t i presso u n a fonte e capì che l'acqua di quella fonte era avvelenata. Seppellì là i due uomini e fece ritorno mestamente dalle due donne, cui raccontò quello che era successo. La figlia del re e quella del visir p i a n s e r o i loro sposi, ma la presenza di Aatiallah leniva le loro pene. 182
L'orgoglio impediva loro di fare ritorno nel regno, e dal m o m e n t o che anche Aatiallah non poteva tornare, per timore della punizione del re, proseguirono insieme il cammino. Una sera giunsero in un luogo i cui abitanti li indirizzarono a un vecchio castello a b b a n d o n a t o . Questo castello era incantato, e nessuno era ancora riuscito a trascorrervi u n a notte ed essere ancora vivo al mattino. Ma Aatiallah non aveva scelta. Portò le due donne in u n a stanza, in cui potevano trovare posto insieme alle loro cose, e scese quindi in cantina per mettersi a dormire. Ma mentre scendeva la scala, un vecchio dalla b a r b a bianca lo fermò. E r a un ifrit travestito da essere umano, che chiese ad Aatiallah: «Sei tu Aatiallah?». «Sì, sono io.» «Io s o n o il g u a r d i a n o di q u e s t o castello» disse l'ifrit «e da anni sto attendendo te. Tutti coloro che pernottano in questo castello muoiono. Così ha voluto il loro destino. Nessuno al di fuori di te è destinato a essere il padrone di questo castello.» Allora il vecchio ifrit fece visitare il castello ad Aatiallah e gli fece vedere che la c a n t i n a conteneva ogni b e n di Dio: vi e r a n o dozzine di s t a n z e piene all'inverosimile di orzo, olive, fichi secchi, chicchi di f r u m e n t o e fagioli alternate ad altre stanze ricolme di oro e pietre preziose. E l'ifrit disse che tutto questo sarebbe appartenuto a lui, Aatiallah. Aatiallah ne fu assai lieto e ringraziò Allah per tutti questi beni. La mattina dopo gli abitanti del luogo erano radunati davanti alla porta del castello e attendevano il levar del sole per entrare a prendere i corpi degli incauti e seppellirli. Quale n o n fu la loro meraviglia quando videro Aatiallah uscire vivo e vegeto dal castello. Poi Aatiallah distribuì ai poveri denaro e cibarie. 183
Gli abitanti del luogo lodarono Dio e la sua bontà e saggezza. Passarono gli anni. Nel paese il cui re era stato t r a t t a t o così m a l e d a Aatiallah scoppiò u n a grande carestia. Allora il re propose al visir di prendere cento cammelli e a n d a r e alla ricerca di grano per nutrire il suo popolo minacciato dalla morte per inedia. La carestia si era diffusa in tutto il paese. Allora il re e il visir si misero in viaggio. Dopo molti giorni g i u n s e r o nel luogo in cui viveva Aatiallah. Quando ebbero chiesto agli abitanti se lì fosse possibile acquistare cento carichi di cammello di frumento, questi li indirizzarono al castello di Aatiallah. Il re bussò alla porta e Aatiallah venne ad aprire di persona. Riconobbe il re e il visir e li invitò a entrare, m e n t r e questi n o n lo riconobbero. Egli propose loro di trattenersi da lui quella notte e di riposarsi p r i m a di riprendere il viaggio. I due accettarono l'invito. Prima di mettersi a tavola con i suoi ospiti, Aatiallah vietò alle mogli dei suoi due amici di entrare nella sala, perché non dovevano vedere i nuovi venuti. Dopo il pasto, egli batté le m a n i per far sì che esse recassero dei dolciumi. N o n a p p e n a ebbe b a t t u t o le m a n i , le due d o n n e entrarono. Quando il loro sguardo cadde sul re e sul visir, i d o l c i u m i scivolarono loro via di m a n o , e o g n u n a delle d u e si precipitò tra le braccia del rispettivo genitore raccontandogli quello che era accaduto. Allora anche il re e il visir riconobbero Aatiallah e gli chiesero perdono. Le porte del reame erano aperte per lui, diceva il re, che gli offriva il trono e il regno. Ma Aatiallah p r e f e r ì vivere in p a c e in quel luogo in cui tutti gli abitanti lo amavano.
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55.1 DUE FRATELLI
Vivevano un t e m p o due fratelli, u n o assai ricco e l'altro invece povero. Il fratello ricco coglieva ogni occasione per denigrare il fratello nei discorsi con i compaesani, cosicché la differenza appariva ancora più marcata. La moglie del povero ne era molto scontenta e domandava sempre dove fosse andata la b u o n a sorte e se n o n sarebbe mai venuta da loro. N o n sapendo trovare u n a risposta, il marito si mise in viaggio per andare a porre a Dio la d o m a n d a . C a m m i n a c a m m i n a , dopo molti giorni giunse al mare. Qui incontrò un penitente in ginocchio su u n a roccia aguzza c o m e un chiodo in mezzo alle onde spumeggianti del m a r e . Costui gli chiese che cosa cercasse, e l'uomo rispose: «Io cerco Allah, per fargli u n a d o m a n d a sulla b u o n a sorte». «Orsù, allora,» ribatté il penitente «quando avrai trovato Allah, chiedigli p e r favore a n c h e q u a n d o g i u n g e r à da me la b u o n a sorte!» L'uomo glielo p r o m i s e e si rimise in viaggio. Dopo molti giorni si imbatté, tra le sabbie del deserto, in u n a testa u m a n a , e avvicinandosi si accorse che apparteneva a un u o m o sepolto fino al collo nella sabbia. Anche costui chiese al viaggiatore che cosa cercasse, e il viaggiatore gli rispose: «Io cerco Allah, per fargli u n a d o m a n d a sulla b u o n a sorte». «Se lo incontri» lo p r e g ò l ' u o m o sepolto nella s a b b i a «chiedigli a n c h e per q u a n t o t e m p o dovrò resistere così sepolto.» Il viaggiatore glielo promise e riprese il cammino. Dopo molti giorni giunse sui monti spogli, dove viveva un eremita, e gli chiese ospitalità. L'uomo viveva già da lungo t e m p o nel suo romitaggio e veniva n u t r i t o in m a n i e r a prodigiosa: ogni giorno un corvo gli portava un pane nero di segale e un grappolo di uva nera. L'eremita invitò il viandan185
te e quando il corvo gli portò il pasto quotidiano, ne fu assai stupito: insieme al p a n e di segale e all'uva nera vi era un pane di f r u m e n t o e un grappolo d'uva gialla. "Questo sarà sicuramente per il mio ospite" si disse l'eremita, ma dal m o m e n t o che p e r t u t t o l'anno aveva mangiato solo p a n e di segale e uva nera, prese per sé il bianco pane di f r u m e n t o e l'uva gialla, e diede all'ospite il p a n e di segale e l'uva nera. Prima che riprendesse il cammino, chiese al viandante il motivo del suo girovagare, e questi gli rispose: «Io cerco Allah, p e r fargli u n a d o m a n d a sulla b u o n a sorte». «Allora» disse l'eremita «chiedigli anche se mi ha già preparato un posto in Paradiso!» «Lo farò» promise il viandante, e se ne andò. Viaggiò ancora parecchi giorni attraverso u n a landa desolata e u n a sera giunse a u n a casa, dove chiese un riparo per la notte. Ma la donna gli rispose: «Presto, corri via, se ti è cara la vita, perché mio marito è un bandito che ha già ucciso novantanove uomini, e tu saresti il centesimo!». «Ma fuori sarebbero le bestie feroci che mi s b r a n e r e b b e r o , e s a r e b b e assai peggio che essere ucciso da un bandito. F a m m i entrare, per favore» implorò il viandante, e la d o n n a lo fece e n t r a r e . Q u a n d o il b a n d i t o r i t o r n ò a casa, la moglie gli disse che aveva accolto un ospite. Allora il bandito sgozzò un m o n t o n e e trattenne l'ospite per tre giorni nella sua casa p r i m a di lasciargli riprendere il viaggio. Al m o m e n t o di congedarlo, gli chiese: «Quando avrai incontrato Allah, chiedigli se mi ha già preparato un posto all'Inferno». Dopo molti giorni il viandante giunse in u n a fitta foresta. Là dove il bosco era più fitto e non lasciava più alcuna via di uscita, il viandante udì all'improvviso u n a voce: «Chi cerchi?». «Io cerco Allah, per far186
gli u n a d o m a n d a sulla b u o n a sorte» rispose il viandante. Allora Allah parlò per mezzo di quella voce: «La t u a b u o n a sorte tu già la possiedi, solo che ancora n o n lo sai. Tornatene a casa, la t u a f o r t u n a è là!». Dopodiché il viandante si informò anche della sorte di quelle quattro persone che glielo avevano chiesto, e Allah rispose per mezzo della voce: «Di' all'uomo sulla roccia in mezzo al mare: q u a n d o le onde si abbatteranno ancora più in alto, la b u o n a sorte giungerà da lui. E all'uomo nella sabbia di': se egli è impaziente, farò soffiare un vento che porterà via tutta la sabbia ed egli se ne resterà là spoglio. All'eremita di': il suo posto è già pronto all'Inferno, e al bandito di': per il suo pentimento è già pronto per lui un posto in Paradiso». Il viandante riprese la strada di casa e passò dagli uomini che gli avevano affidato le loro domande, riferendo loro le risposte che Allah gli aveva dato nella foresta. Tornato che fu a casa, tutto cominciò ad andargli nel migliore dei modi. S u a moglie gli diede molti figli, e la ricchezza fece il suo ingresso nella casa. Un giorno Allah si affacciò, sotto le spoglie di un povero m e n d i c a n t e , alla p o r t a della sua casa e gli chiese un pasto. Sulle prime l'uomo voleva sgozzare per lui un capretto, ma la moglie lo prese da parte e gli disse: «Non vorrai sacrificare un c a p r e t t o p e r questo straccione! Abbiamo un gatto, e per lui a n d r à benissimo». Allora l'uomo prese il gatto, lo sgozzò e lo fece cucinare e servire. Allora l'ospite disse: «Gatto, salta fuori!», e il gatto saltò fuori vivo e vegeto. Insieme a lui, anche la b u o n a sorte scomparve dalla casa. Il m e n d i c a n t e se ne a n d ò lasciandosi dietro quelle persone, che da quel m o m e n t o in poi riprese187
ro a impoverirsi, fino a ritrovarsi misere come erano all'inizio: senza figli né beni. Infatti n o n e r a n o diventati v e r a m e n t e ricchi, lo erano diventati solo esteriormente.
56. I L N O M E S U P R E M O D I D I O
«Orsù, vecchio, raccontaci per favore la storia del sup r e m o tra i nomi di Dio!» «Non conosco u n a simile storia.» «Ma sì, ne conosci addirittura parecchie di storie sul supremo tra i nomi di Dio! Per favore, raccontacene una!» «Ma allora voi conoscete il supremo n o m e di Dio?» «No, vecchio, se lo conoscessimo, pot r e m m o con esso trasformare il mondo, perché colui che conosce il s u p r e m o tra tutti i nomi di Dio potrà con esso impartire a tutti gli uomini e gli spiriti ordini che dovranno essere eseguiti immediatamente.» «Allora è certo che oggi nessuno conosce il supremo nome di Dio. E così, rassicurato, posso passare a narrarvi di quellosheikh che lo conosceva.» Per sfuggire al diavolo sterminatore cerco rifugio in Dio, clemente, misericordioso! Uno di quei poveri che si sono dedicati interamente al c a m m i n o che porta a Dio viaggiò in lungo e in largo sulla terra i n t e n z i o n a t o a recarsi da un vecchio, che si diceva conoscesse il supremo tra tutti i n o m i di Dio. Egli giunse al suo eremo al m o m e n t o della preghiera di mezzanotte, e dopo la preghiera chiese allo sheikh: «Venerato m a e s t r o , p u o i insegnarmi il supremo n o m e di Dio?». «Potrò farlo solo q u a n d o tu ne sarai degno» rispose il maestro. «Sarò lieto di m o s t r a r m e n e degno» disse il darwish. Allora 188
il maestro disse: «Recati alla porta della città e osserva che cosa vi accade, poi torna a riferirmelo!». Il darwish si recò alla porta della città, si sedette e attese. Giunse allora un a n z i a n o taglialegna, che conduceva innanzi a sé il suo asino carico di legna da ardere. Un guardiano lo fermò, gli portò via la legna e colpì il vecchio. Triste e indignato il darwish fece ritorno dal maestro e gli r a c c o n t ò cosa era successo. Quindi lo sheikh gli chiese: «Se tu avessi saputo il nome supremo di Dio, che cosa avresti fatto in quel frangente?». «Avrei chiesto la morte per il soldato!» Al che il maestro proseguì: «Vedi come sei indegno. Devi sapere, figliolo, che è stato proprio quel taglialegna a insegnarmi il supremo nome di Dio. E lui che lo conosce non lo adopera per vendicarsi!». «Orsù, vecchio, raccontaci ancora un'altra storia sul n o m e supremo di Dio. Ne conosci così tante!» «E quand'anche io ve ne raccontassi altrettante, lo stesso voi non arrivereste a comprendere che cosa voglia dire possedere il supremo tra i nomi di Dio.» «Non importa, racconta, vecchio, vogliamo essere pazienti e imparare!» «Non imparerete un bel nulla dai miei discorsi, vi accadrebbe la stessa cosa che accadde a quel povero che non riuscì a eseguire n e m m e n o u n a volta un incarico semplicissimo, nonostante si fosse esercitato per ben sette anni nell'arte della persever a n z a e della continenza.» «Che cosa gli accadde, vecchio?» «Orbene, dopo che costui ebbe trascorso tutto questo tempo seguendo la via del darwish, udì un giorno che nella lontana città del Cairo viveva un maestro che conosceva il nome supremo di Dio. Allora si mise in viaggio alla volta di questa città, e, giunto alla casa di riunione della c o m u n i t à di quel maestro, entrò a far parte della schiera dei suoi discepoli e stette per un certo tempo al suo servizio. In 189
u n a circostanza in cui il maestro lo pose al di sopra della schiera dei discepoli con elogi e benedizioni, il darwish disse al maestro: «O ricolmo di grazie, io ho a d e m p i u t o i miei doveri nei tuoi confronti con tua soddisfazione, accordami ora u n a ricompensa, poiché me la sono guadagnata». «Che cosa desideri?» chiese il maestro. «Io so» proseguì il darwish «che tu, venerato maestro, conosci il n o m e s u p r e m o di Dio. Rendimi partecipe di questo segreto, e io lo serb e r ò fedelmente!» Il m a e s t r o t a c q u e p e r un po', quindi congedò il darwish con un cenno della mano. Trascorsero sei mesi. Un giorno il maestro chiamò a sé il darwish e gli affidò un grande vassoio, che era ricoperto da un panno. «Tu conosci il nostro amico, il sarto della città vecchia» gli disse. «Fammi il piacere, portagli questo vassoio!» Il darwish prese il vassoio e uscì. Per strada lo tormentava la curiosità, e pensava: "Se il maestro mi fa p o r t a r e un d o n o a quell'amico, si t r a t t e r à sicuram e n t e di qualcosa di meraviglioso. Di che si tratterà?". Alla fine non riuscì a dominarsi oltre, scostò il vassoio e sollevò il panno. Sotto vi era un recipiente con un coperchio. Il darwish aprì il coperchio e... ne saltò fuori un topolino! Furente per questo tiro e per se stesso, fece ritorno dal maestro, il quale, già all'apparire del s u o discepolo, aveva capito c o m e erano andate le cose. E in proposito citò il versetto del Corano: «Lo abbiamo fatto per metterti alla prova!» aggiungendo quindi più piano: «Ti ho affidato un topino e tu mi hai tradito. Che cosa faresti se ti affidassi il n o m e supremo di Dio? Ora va', non ti voglio più vedere». E il vecchio concluse il suo racconto con la frase: «Che Dio ci perdoni, me e voi tutti!». E gli ascoltatori risposero: «Amen!». 190
57. IL S A N T O IN P A R A D I S O
C'era u n a volta un sant'uomo, che era amico di Dio e le cui preghiere venivano esaudite. Un giorno egli chiese ad Allah di poter vedere la Morte, per sapere c o m e fosse. Allora Allah gli fece vedere la Morte. Un'altra volta il santo chiese ad Allah di poter entrare in Paradiso, e Allah ve lo fece entrare. Quando il s a n t o e b b e visto t u t t o b e n bene, Allah gli disse: «Adesso torna fuori!». Ma il santo non gli ubbidì, e disse invece ad Allah: «Il Paradiso è così immensamente bello, permettimi di indugiarvi un po'». Per la seconda volta Allah gli disse: «Adesso devi uscire, perché solo chi ha visto la Morte p u ò r i m a n e r e in Paradiso!». Al che il santo rispose: «Ma tu mi hai già fatto vedere la Morte, e allora io me ne sto in Paradiso». E Allah lo fece restare in Paradiso.
58. N O S T R O S I G N O R E K H A D I R
Un giorno Mosè incontrò il nostro signore Khadir, cui il Buon Dio ha svelato la conoscenza delle cose celate. Mosè gli disse: «Accettami come tuo discepolo e i n s e g n a m i la t u a scienza!». Il n o s t r o signore Khadir gli rispose: «Tu n o n avrai la pazienza necessaria per viaggiare con me e seguire i miei insegnamenti». Mosè rispose: «Possa Dio d a r m i la forza di avere pazienza e ubbidire ai tuoi ordini». Disse allora il n o s t r o signore Khadir: «Se tu vuoi seguirmi, non chiedermi la motivazione delle mie azioni, finché non parlerò io stesso!». Così essi si misero in viaggio insieme e giunsero a un fiume, e a questo punto il nostro signore Khadir fece un foro nel fondo di u n a barca di pescatori, che colò a picco; quindi ripresero il cammino, ma Mosè 191
n o n potè trattenersi dal chiedere al nostro signore Khadir perché avesse provocato u n a falla a quella barca. Il nostro signore Khadir si limitò a rispondere: «Non ti avevo detto che tu non avresti avuto pazienza con me?». Mosè gli chiese perdono e lo seguì nel suo cammino. Incontrarono quindi un giovane e il nostro signore Khadir lo colpì, uccidendolo. Mosè era atterrito e disse: «Hai ucciso un innocente!». Ma anche stavolta il nostro signore Khadir si limitò a rispondere: «Non ti avevo detto che tu non avresti avuto pazienza con me?». E anche questa volta Mosè gli chiese perdono e riprese a seguirlo nel cammino. Giunsero infine in u n a città e chiesero un riparo e del cibo, ma la gente della città negò loro l'ospitalità. Quando videro un m u r o che minacciava di cadere, Khadir lo rimise in piedi. Quindi proseguirono. Allora Mosè chiese: «Perché non hai preteso alcuna ricompensa per questo lavoro?». Il nostro signore Khadir rispose: «Questa è la terza volta che tu mi dom a n d i la motivazione di u n a mia azione, ora devi lasciarmi. Ma p r i m a ti voglio far sapere quali sono stati i motivi del m i o agire: la b a r c a a p p a r t e n e v a a poveri pescatori e io l'ho messa fuori uso perché il re di questo paese ha deciso di requisire per i suoi scopi tutte le imbarcazioni che siano in qualche m o d o utilizzabili. In questo modo la barca resterà di proprietà dei pescatori. Quanto al giovane che ho ucciso, i suoi genitori erano dei credenti e questo giovane un malfattore, che avrebbe portato i genitori alla corruzione. Dio, nostro Signore, donerà loro un altro figlio che sarà più puro e più vicino alla grazia. Quel muro, invece, l'ho riparato perché sotto di esso giace un tesoro che appartiene a due orfanelli che abitano là. Il loro p a d r e ha lasciato loro in eredità questo tesoro ed essi ne t r a r r a n n o un utile q u a n d o 192
s a r a n n o a b b a s t a n z a grandi. Tutto q u e s t o n o n l'ho fatto di mia iniziativa ma su ordine di Dio, nostro Signore. Tu n o n hai avuto pazienza e per questo ora devi lasciarmi». Oggi il nostro signore Khadir vive celato alla vista degli uomini e non si mostra loro. Solo un amico di Allah p u ò talora vederlo o parlargli. Il nostro signore K h a d i r n o n m u o r e . Egli vive in c o n t r a d e selvagge con i suoi quaranta compagni e si reca tra gli uomini solo a l l o r q u a n d o l ' O n n i p o t e n t e ve lo m a n d a . Una volta ogni q u a r a n t a giorni si reca presso u n a fonte che nessuno conosce e beve da essa. Il motivo per cui il nostro signore Khadir vive nascosto viene così spiegato: il nostro signore Khadir aveva il compito di destare al mattino presto gli uomini di b u o n a fede per la preghiera - e questo soprattutto per quanti vivevano tra i monti, dove non vi sono muezzin per chiamare alla preghiera. Un giorno egli destò un u o m o che si era addormentato all'aperto dopo u n a festa di matrimonio durata tutta la notte. Ma l'uomo, ubriaco, lo respinse: «Lasciami in pace, vattene a casa!». Il nostro signore Khadir lo svegliò u n a seconda volta, e allora l'uomo gli disse: «Se non mi lasci dormire, vado in giro a dire a tutti che sei tu Khadir». Allora il nostro signore Khadir fuggì via e da quel giorno se ne sta nascosto.
59. J U J U M A J U J
Alcuni n a r r a n o che negli ultimi tempi vivranno dei giganti c h i a m a t i J u j u m a j u j . N o n c o n o s c e r a n n o tim o r d i Dio n é p a u r a degli u o m i n i , n o n s a p r a n n o n e m m e n o che, q u a n d o si parla di qualcosa che si riferisce al futuro, si deve dire Inshallah, che significa "se Dio vuole". E così, q u a n d o un b i m b o p o r t e r à 193
questo nome, Inshallah, i J u j u m a j u j sorgeranno dalla terra e p r e n d e r a n n o possesso dei paesi. È allora che comincerà la fine dei tempi. Altri n a r r a n o che i J u j u m a j u j sarebbero un popolo di nani che vivranno agli estremi confini del tempo. Ma a differenza dei giganti, essi non saranno un popolo straniero, bensì i discendenti degli u o m i n i attuali. S a r a n n o piccoli come b a m b i n i , senza Dio, e molto, m o l t o rapidi. S a r a n n o così n u m e r o s i che, quando giungeranno a un lago, in m e n che n o n si dica lo prosciugheranno bevendoci. Come succederà che un giorno gli uomini diventer a n n o così piccoli? Orbene, questo lo si p u ò osservare già al giorno d'oggi. Un tempo i denti da latte dei bambini avevano tre molari per lato sia sopra che sotto, quindi dodici in totale, e p r i m a ancora addirittura quattro per parte, vale a dire sedici molari, come i denti di un adulto. Oggi invece nei denti da latte dei bambini vi sono solo due molari per parte, sopra e sotto, e quindi solo otto in totale, e un giorno i bambini avranno solo quattro molari, e capita già adesso che ci siano b a m b i n i che crescono dopo avere avuto solo quattro molari. Allo stesso m o d o anche la forza e la taglia degli uomini va diminuendo. Un giorno la dentatura da latte non avrà più molari, e allora gli uomini resteranno piccoli come nani, che possono a stento vedere oltre il bordo del paiolo stando sulla p u n t a dei piedi. Questi sono i J u j u m a j u j . Il Mahdi dichiarerà guerra a questi nani ed essi periranno.
60. I L D R A G O R O S S O D E L D U J J A N
Dujjan è Satana, il Diavolo. Egli vive in u n a caverna ed è i n c a t e n a t o m a n i e piedi. Sulla sua f r o n t e sta scritto: "Io rinnego Dio". 194
Dujjan possiede un drago rosso che vive su un'isola nel m a r e e dice: «Circonderò la t e r r a in c a p o a quattro giorni». Dujjan e il suo drago rosso sono i corruttori degli uomini alla fine del tempo. Gli uomini che vivranno allora n o n c o n o s c e r a n n o più a l c u n rispetto, n o n avranno considerazione n e m m e n o dell'età e dei loro genitori. Abbaieranno come cagnolini nel ventre delle cagne. I loro figli vorranno avere ragione rispetto agli anziani. Quando Dujjan si sarà liberato e il suo drago avrà circondato la terra in quattro giorni, si ritirerà nel mare. Ogni suo passo sarà lungo come venti passi. Farà risuonare u n a musica piacevole, che si sentirà a centinaia di chilometri di distanza. Molti uomini milioni - verranno attratti da quella musica e accorr e r a n n o per seguire Dujjan e il suo drago rosso. E questi dividerà le acque del m a r e e vi si inoltrerà, e tutti coloro che lo seguiranno vi si inoltreranno con lui. Poi il m a r e si riunirà abbattendosi su di loro e t u t t i a n n e g h e r a n n o . Coloro che n o n s e g u i r a n n o Dujjan e il suo drago rosso non f a r a n n o ciò in base a u n giudizio più consapevole; s e m p l i c e m e n t e , n o n sarà questo il loro destino. Vivranno ancora qualche t e m p o . Poi verrà Gesù e li a b b a t t e r à tutti. P e r c h é non vi saranno più credenti tra gli uomini.
61. L A F I N E D E L M O N D O
È m o l t o t e m p o che m a n c a u n a g r a n d e pioggia, il m o n d o h a a n c o r a bisogno d i u n a g r a n d e pioggia. Come al tempo del profeta Lot - che Dio lo benedica! Fu allora che cominciò la sventura! Un fuoco abbagliante accecò gli uomini. Non vi erano più donne. 195
Per q u a r a n t ' a n n i la t e r r a c o n t i n u ò a scuotersi, in ogni luogo vi f u r o n o terremoti, di i m m a n e violenza. Venne poi il diluvio, e ciò fu al t e m p o del nostro signore Noè - che Dio lo benedica! L'acqua sprizzò fra le tre pietre del focolare in tutti i focolari degli uomini. Là dove p r i m a bruciavano le fiamme sgorgava ora acqua e ricopriva tutta la terra. Il profeta Noè aveva già da tempo costruito la sua arca, e a questo punto prese e rinchiuse con sé nell'arca un maschio e u n a f e m m i n a di ogni essere vivente. L'acqua cominciò a salire, e l'arca, galleggiando su di essa, fluttuò sulle acque per cinquantadue periodi; quindi l'acqua rifluì nel m a r e e l'arca si posò al suolo. La terra aveva ritrovato la calma, non si scuoteva più. I m o n t i , le ossa della terra, r i m a n e v a n o tranquilli. Il suolo era ora q u a t t r o metri più elevato di prima. Tutto il male dell'epoca precedente era stato ricoperto. Gli uomini ripresero a moltiplicarsi come piante seminate: spuntavano dalla terra. Un g i o r n o si r i p e t e r à u n a n u o v a catastrofe: un grande fuoco si accenderà sulla terra e divamperà fino al cielo. Da ogni parte convergeranno quindi gli esseri u m a n i per fuggire dal fuoco. Così essi verranno portati tutti insieme in u n a località che si chiama S h a m . Quindi il v e n t o cesserà, vi sarà u n a vera e propria assenza di vento! Quando gli uomini si troveranno in questo luogo di raduno, vedranno discendere dal cielo la bilancia e v e d r a n n o il libro delle azioni compiute. Ciascuno saprà allora quello che avrà fatto, lo vedrà chiaramente dinanzi a sé. Dopodiché anche tu partirai per la tua destinazione come un pacco che è stato legato come si deve e munito di indirizzo. Chi non vuole cadere deve guardare innanzi!
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62. UNA P R O F E Z I A
Mogador è la capitale della tribù degli Haha. Essa sorge su u n a bassa scogliera sulla costa dell'oceano, raffreddata dai venti e umida della s p u m a salmastra del mare. Nessuno più r a m m e n t a chi abbia cominciato a costruire la città, ma sull'isolotto nella baia è stata trovata u n a pietra che reca la parola mogon in caratteri fenici, e in seguito a ciò si racconta che Mog a d o r s a r e b b e stata f o n d a t a d a u n certo c a p i t a n o Mogon, che le avrebbe dato il proprio nome. Costui viene venerato, col nome di Sidi Megdul [Nostro Signore Megdul], in u n a bella t o m b a con u n a cupola verde ai margini della città, e tutti gli anni vengono celebrate due grandi feste in suo onore. Il suo contrassegno, costituito da due pesci, è un simbolo di fertilità, e ogni giovane donna porta su di sé due pesci d'argento come ornamento, per r a m m e n tare in ogni m o m e n t o a Sidi Megdul il suo compito. Dopo che, un paio di secoli fa, la città era andata completamente distrutta da un incendio, il sultano M o h a m m e d b e n Abdullah la fece ricostruire completamente, con le sue moschee e le sue mura. Poiché vi era scarsità di terra, si fecero confluire qui tutti i prigionieri dell'intero regno, e con essi si costituì u n a catena che dai monti giungeva fino a Mogador. La terra, raccolta in ceste, venne trasportata di m a n o in m a n o da uomini e donne, fino a riempire i vuoti tra le rocce su cui si doveva costruire la città. A tale p r o p o s i t o i prigionieri c a n t a v a n o la seguente canzone in arabo dialettale: Medinat Esswira seghir suwar dyelho qalil errisk dyelho taji min el-ba'id ghadi dabbhd nhar jum'a o nhar l'id. 197
che in italiano suona così: La città di Mogador è piccola e la sua terra è poca il suo guadagno viene da lontano sarà distrutta un venerdì o un giorno di festa. Con queste parole, che equivalgono a u n a profezia, i prigionieri si vendicavano del loro lavoro coatto. Ma nessuno sa se la città verrà distrutta dal fuoco, da u n a guerra o dal mare. Il bel porto sarà allora come un mortaio. Numerosi come i semi di r a f a n o che possono essere contenuti nelle borse di un cammello, s o r g e r a n n o allora u o m i n i dal m a r e diretti verso la t e r r a f e r m a . A m o n t e vi s a r a n n o così tanti morti che nessuno sarà in grado di seppellirli, e la pernice farà il nido nel torace di un uomo. Il paese dietro a quei tumuli sembrerà u n a noce schiacciata dalla zampa di un cammello. Verrà quindi un vento che riporterà alla luce la moschea di Massa, che ora è sepolta sotto la sabbia. Il Signore dell'Ora [il Mahdi], che in essa riposa, salirà allora sul minareto e farà risuonare il ric h i a m o alla p r e g h i e r a a b b r e v i a t o , e allora t u t t i sapranno che sarà scoppiata la grande guerra santa. Non lo p o t r a n n o uccidere né proiettili d'arma da fuoco né colpi di a r m a da taglio. La sua signoria durerà quaranta periodi, che p o t r a n n o essere quaranta ore o quaranta giorni o q u a r a n t a n n i , nessuno lo sa. In quel tempo i fanciulli giocheranno coi serpenti velenosi, e tuttavia questi non f a r a n n o loro del male.
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63. L A P O R T A D E L R A V V E D I M E N T O È ANCORA APERTA
Circa sette anni fa un saggio sheikh mi raccontò la seguente profezia, che mi pare di estremo interesse: «La fine del tempo è vicina, ma è ancora molto lontana. Infatti la porta del ravvedimento è ancora aperta. La preghiera e la carità h a n n o ancora un senso. La porta della remissione non è ancora chiusa! «Quando la porta si sarà chiusa, per tre giorni il sole non apparirà più, cosicché ci si domanderà che cosa è successo. «Poi esso sorgerà sul mare (e quindi a occidente), e salirà fino al punto più alto del mezzogiorno, dopodiché invertirà il suo corso e ritornerà nel mare. Questo sarà il q u a r t o giorno. Quindi r i p r e n d e r à il suo corso consueto. «Ma d o p o di allora gli u o m i n i vivranno senza amore per il prossimo, senza preghiere da farsi esaudire, senza pace e senza dottrina. Infatti il Giardino, la d i m o r a celeste dei redenti, s a r à pieno, n o n vi verrà accolto più nessuno. All'Inferno, invece, nel fuoco, vi sarà ancora posto per molti. «Quel m o n d o sarà più grande di quello attuale e durerà più a lungo di quanto sia durato il m o n d o dal principio fino alla chiusura della porta, e lo abiterà un n u m e r o maggiore di esseri. «È solo dopo di ciò che essi verranno annientati dal fuoco.» Alle mie d o m a n d e , in un incontro successivo, il vecchio mi diede queste ulteriori spiegazioni: «Dio non ha fretta. Da qui alla fine del tempo può mancare un giorno come quarantamila anni. Nessun essere u m a n o può saperlo. «E n e s s u n o avrà bisogno di saperlo, p e r c h é la porta si chiuderà solo quando nessuno più attesterà 199
l'esistenza di Dio. Solo allora il Cielo sarà pieno. E se non vi sarà nessuno degno di andare in Paradiso, solo allora si c o m i n c e r à a r i e m p i r e l ' i n f e r n o . È quello l'istante in cui la p o r t a del r a v v e d i m e n t o verrà chiusa.»
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Parte II
Fiabe dei Berberi dell'Algeria
1. IL C H I C C O FATATO
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'erano u n a volta, in un villaggio, sette fratelli, tutti maschi. Si riunirono e dissero: «Se il prossimo figlio che nostra m a d r e metterà al m o n d o sarà ancora un maschio, ce ne a n d r e m o in esilio. Fuggiremo da qui». Il giorno in cui la madre doveva partorire, si allontanarono dal villaggio e attesero, seduti in cerchio. Settut, la vecchia strega, si fece loro i n c o n t r o e disse: «Congratulazioni per il vostro nuovo fratellino!». Ed essi le risposero: «Che tu sia maledetta!». E partirono senza voltarsi indietro. Settut aveva mentito. Il suo scopo era quello di vedere in esilio i sette fratelli. Il nuovo nato non era un maschietto ma u n a femminuccia. La m a d r e si prese cura di lei. Quando fu più grandicella, andava a riempire il suo otre alla f o n t a n a . Ma un giorno vi incontrò Settut, che attingeva acqua servendosi di u n a cupola di ghianda. La ragazza le disse: «Quando finirai di riempire la tua brocca con questa cupola? Se hai t e m p o da perdere, lasciami passare davanti!». Settut le rispose: «Come osi parlare tu, i cui sette fratelli sono andati in esilio il giorno della tua nascita?». La ragazza fece ritorno a casa con il suo otre vuo203
to. La febbre si impadronì di lei. La madre in lacrime si avvicinò p e r chiederle: «Che cos'hai, figlia mia? Sei appena uscita tutta allegra e in b u o n a salute. Che cosa ti è stato detto di malevolo?». Allora la figlia si confidò ma pretese che sua m a d r e le spiegasse le parole di Settut. «Figlia mia,» confessò la m a d r e «i tuoi sette fratelli si erano detti: "Se verrà al m o n d o un ottavo fratello, fuggiremo via senza neanche vederlo, senza nepp u r e conoscerlo". Sono t r a s c o r s i o r m a i q u i n d i c i anni da quando sono partiti, e n o n ne sappiamo più nulla.» La ragazza dichiarò: «Voglio mettermi in cerca di loro per riportarli a casa». La m a d r e cercò di trattenerla: «A che servirebbe, a b b i a m o già cercato tanto. E mi resti solo tu». Ma la figlia rispose in tono fermo: «Dal m o m e n t o che n o n mi conoscono, n o n fuggiranno davanti a me». Allora la m a d r e le diede un cavallo, delle provviste e u n a serva negra per accompagnarla. Le diede inoltre il "chicco fatato", che la figlia nascose nel corsetto, e le fece questa suprema raccomandazione: «Sulla tua strada incontrerai due fontane. Una è quella delle schiave negre, l'altra quella delle bianche libere. Sta' attenta a non fare il bagno nella fontana dei negri e a non bere la sua acqua! Saresti t r a m u t a t a in negra!». La ragazza promise di fare b u o n uso di tutti questi consigli, e salì a cavallo. Si mise quindi in viaggio a cavallo, seguita, a piedi, dalla negra. Di collina in collina, di tappa in tappa, la madre chiamava la figlia. La ragazza, che poteva u d i r l a grazie al chicco f a t a t o , le r i s p o n d e v a allora per rassicurarla. E il chicco trasmetteva la sua voce, per quanto debole e lontana. Quando f u r o n o in vista delle fontane, la negra si precipitò verso l'acqua delle bianche, e vi fece il ba204
gno. La ragazza si avvicinò alla fonte delle negre, vi bevve e vi si immerse. Poi, mentre stava per risalire a cavallo, perse il chicco fatato. A m a n o a m a n o che si allontanava dal luogo in cui esso era caduto, la figlia udiva sempre m e n o la voce di sua madre. E a un certo punto arrivò il m o m e n t o in cui n o n l'udì più del tutto. E la sua pelle si scuriva, m e n t r e quella della n e g r a diventava s e m p r e più bianca. Q u a n d o la negra fu diventata del tutto bianca, si voltò verso la c o m p a g n a e le disse con arroganza: «Scendi da cavallo!». Ma la fanciulla rifiutò. Quand'ebbe raggiunto u n a roccia, si mise a cantare con voce lamentosa: Innalzati, innalzati, o roccia Roccia, innalzati Affinché io arrivi a vedere Il paese di mio padre e mia madre! Una sporca negra mi dice: «Scendi, che salgo io a cavallo!». Una m a l i n c o n i c a eco le rispose: «Va'... va'... va'!...». La negra, i m p a u r i t a , n o n insistette. Ma un m o mento dopo, spazientita ed esasperata, di nuovo disse: «Scendi da cavallo, ti dico!». Invano la ragazza chiamò la madre. Dal m o m e n t o che il chicco non rispondeva più, la negra costrinse la giovane a scendere. La spogliò dei suoi abiti per rivestirsene lei. Poi salì lei a cavallo e a s s u n s e un portamento fiero. La povera ragazza dovette seguirla a piedi. C a m m i n a c a m m i n a , alla fine le due viaggiatrici giunsero al villaggio in cui vivevano i sette fratelli: si fecero indicare la loro casa. Essi erano usciti per an205
dare a caccia. Ne attesero il ritorno. Quando, la sera, essi rientrarono, la negra a n d ò loro incontro e li abbracciò dicendo: «Fratelli miei b e n e a m a t i , adesso che vi ho visti posso dire di avere vissuto abbastanza! Settut mi ha insultata. Mi ha detto che venendo al m o n d o vi avevo scacciati di casa. Settut - che Dio la bruci! - vi ha ingannati. E adesso eccomi qui! Devo restare con voi o mi accompagnerete alla casa di papà e m a m m a ? » . Essi le risposero: «Riposati qualche giorno. Penseremo poi al da farsi». La negra si installò da p a d r o n a nella casa dei sette fratelli. La ragazza dovette servirla e portare i cammelli al pascolo. Ogni mattina la negra le dava u n a r u s t i c a focaccia di f a r i n a d'orzo. Appena a r r i v a t a sull'altura, la ragazza si metteva a cantare con voce lamentosa, circondata dai sette cammelli affidati alla sua custodia: Innalzati, innalzati, o roccia Roccia, innalzati Affinché io arrivi a vedere Il paese di mio padre e mia madre! La negra ha preso dimora in casa Io invece sono stata messa a guardia dei cammelli, Piangete, cammelli, come piango io! Posava quindi la focaccia d'orzo su u n a pietra e si lasciava morire di fame. Sei cammelli la imitavano e piangevano con lei. Solo il settimo, che era sordo, andava avanti a mangiare e prosperava, mentre gli altri sei cammelli diventavano magri come un chiodo. Un giorno, il minore dei fratelli pensò: "Che cosa sta succedendo? Da quando è qui, questa serva n o n fa che deperire. E come lei deperiscono anche i cammelli. Deve esserci un motivo". 206
Un m a t t i n o decise di precedere la ragazza, raggiungere il pascolo dei cammelli e nascondersi nei pressi. Vide allora la ragazza salire in cima all'altura. La vide posare la focaccia sopra a tutte quelle che n o n aveva m a n g i a t o e che f o r m a v a n o u n a pila su u n a pietra. E l'udì cantare con voce lamentosa: Innalzati, innalzati, o roccia Roccia, innalzati Affinché io arrivi a vedere Il paese di mio padre e mia madre! La negra ha preso dimora in casa Io Piangete, cammelli, come piango io! Il terrogò la ragazza. Le disse: «Chi sei, creatura?». Ed essa rispose: «Io? Sono tua sorella. Quand'ero a casa di mio padre, sono andata un giorno alla font a n a e vi ho i n c o n t r a t o Settut che attingeva acqua con la cupola di u n a ghianda. Io le ho detto: "Lasciami il posto!" perché avevo fretta. Ed essa mi ha risposto: "Come osi parlare, tu, i cui sette fratelli sono andati in esilio il giorno della tua nascita?". E io ho detto a mia m a d r e "Spiegami le parole di Settut". Essa me le ha spiegate e io sono partita in cerca di voi. Mia madre mi ha dato un cavallo, un chicco fatato e u n a serva negra. Strada facendo ho incontrato d u e f o n t a n e : mi s o n o sbagliata. Ho f a t t o il b a g n o nell'acqua dei negri e ho perso il chicco che mi teneva in c o n t a t t o con m i a m a d r e . La negra, invece, avendo fatto il bagno nell'acqua delle donne bianche è divenuta bianca, mentre io diventavo nera. Ma la vostra sorella sono io». Il più giovane dei sette ragazzi si recò dai fratelli e ripetè loro ciò che aveva appena saputo. Ma essi non 207
credettero u n a parola di questa storia e gli dissero: «Da che cosa p o t r e m m o capire se questa serva è veramente nostra sorella?». C o n s u l t a r o n o quindi il Vecchio Saggio. Gli raccontarono come i cammelli deperissero e come piangessero; come condividessero la pena della serva che li custodiva. Il Vecchio Saggio li ascoltò e disse loro: «Una cosa non ha potuto trasformarsi nella vera negra: i suoi capelli. La sua pelle sarà anche diventata bianca come il latte, ma i suoi capelli saranno rimasti crespi. La ragazza che mostrerà di avere i capelli lisci sarà vostra sorella. La negra però n o n vorrà togliersi il foulard in vostra presenza. Allora, a n n u n c i a t e a t u t t e e d u e che avete c o m p r a t o dell'henné e dite loro: "Oggi è giorno di festa. Desideriamo che, in nostra presenza, vi tingiate i capelli di henné"». I sette fratelli a n d a r o n o a p r e n d e r e l'henné. La serva lo pestò, ne fece u n a pasta e la porse loro. Allora il maggiore ordinò alle due ragazze di togliere i foulard. La serva obbedì e i suoi capelli si sparsero in boccoli di seta che scendevano fino alla vita. Ma la negra gridò: «Fratelli miei beneamati, come potrei s c o p r i r m i la testa davanti a voi? Avrei vergogna! Quando sarete usciti mi spalmerò l'henné sui capelli». Il più piccolo dei fratelli le a n d ò alle spalle di soppiatto e le strappò il foulard. E apparve u n a capigliatura ispida, che saliva verso il cielo. I sette ragazzi attorniarono la negra, e le dissero con tono minaccioso: «Sei d u n q u e u n a negra? E hai usurpato il posto di nostra sorella!». Si rivolsero quindi alla sorella per chiederle: «Che cosa p o t r e b b e d a r sollievo al t u o cuore?». Essa rispose: «Vorrei usare la sua testa come pietra del focolare; i piedi come attizzatoi e le mani come pala della cenere». 208
Sgozzarono dunque la negra. La bruciarono e dispersero le ceneri all'esterno. Poi portarono alla sorella dell'acqua a t t i n t a alla f o n t a n a delle b i a n c h e . Essa se ne asperse. Il suo viso e il suo corpo ridivennero chiari come prima. I sette fratelli poterono ritornare a dedicarsi al loro passatempo preferito: la caccia. La sorella preparava loro i pasti e accudiva alla casa. L'anno successivo, in primavera, nel luogo in cui erano state disperse le ceneri della negra spuntò un cespo di malva. La ragazza lo tagliò e con esso cucinò un p i a t t o che diede da m a n g i a r e ai fratelli q u a n d o t o r n a r o n o dalla caccia. M a n g i a r o n o t u t t i con grande appetito. I sette ragazzi f u r o n o trasformati in colombi, e la ragazza in u n a colomba. E tutti presero il volo nel cielo. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
2. LUNJA, FIGLIA DI T S E R I E L
Che il mio r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! Si narra che in inverno due giovani partirono, sotto la neve, per cacciare in m o n t a g n a . Uccisero u n a pernice. La sgozzarono, il suo sangue colò sulla neve e la colorò di porpora. Uno disse: «Fortunato colui che sposerà u n a ragazza dal colorito bianco come la neve e vermiglio come il sangue!». L'altro rispose: «Non vi è che L u n j a , la figlia di Tseriel che abbia queste caratteristiche: è bianca come la neve e vermiglia come il sangue». «E dove si trova questa Lunja figlia di Tseriel?» d o m a n d ò il primo. L'altro gli indicò u n a direzione e disse: «Laggiù, molto lontano». 209
Allora colui che sognava u n a moglie dal colorito bianco come la neve e vermiglio come il sangue lasciò al compagno la pernice, mise il fucile in spalla e seguì la direzione che gli era stata indicata. C a m m i n a c a m m i n a , avanzò per un giorno e u n a notte p r i m a di entrare in u n a foresta e scorgere del f u m o che saliva al di sopra degli alberi. Disse fra sé: "Non mi fermerò finché n o n avrò raggiunto questo fumo". Proseguì in quella direzione e scoprì u n a casupola, circondata da u n a siepe di spine. Chiamò; u n a r a g a z z a si fece vedere. Dio solo aveva p o t u t o crearla: il suo colorito era bianco come la neve e vermiglio come il sangue. «Ho perso la strada» disse il giovane «e n o n so dove andare. Non potresti offrirmi un asilo per questa notte, in n o m e di Dio?» Essa rispose: «Io sono la figlia di Tseriel. La figlia dell'orchessa. Mia m a d r e è andata a caccia; non tornerà che al calar del sole. Se ti va di entrare, entra». Egli disse: «D'accordo». Ed entrò. Essa gli diede da mangiare e da bere. E poi, quando calarono le tenebre, lo nascose in un sotterraneo di cui celò l'imboccatura posandovi sopra un grande piatto di legno. Lunja aveva a p p e n a finito di mettere al sicuro il giovanotto, che già udiva l'arrivo della m a d r e . Tseriel, l'orchessa, c a m m i n a v a p e s a n t e m e n t e : Tseriel aveva u n a statura che andava dalla terra al cielo. La sua testa era un vero cespuglio di rovi. Per entrare dovette piegarsi. Fin dalla soglia, inspirò profondamente l'aria e disse: «Sento un odore che n o n è il nostro. Sento odore di uomo!». Lunja rispose: «Questa sera è passato di qui un mendicante, e gli ho fatto l'elemosina, nel n o m e di Dio. Quello che senti è il suo odore». Tseriel si fece avanti e comandò: «Servimi la cena!». 210
Lunja gliela servì. Poi andò a sedersi sul piatto di legno che nascondeva l'imboccatura del sotterraneo. Quand'ebbe finito di mangiare, Tseriel dichiarò: «Questa sera ho deciso di tingere con l'henné tutti i miei piatti di legno e tutte le mie ciotole». E si mise a chiamarli per nome. Essi vennero da lei uno alla volta. Solo il piatto su cui era seduta Lunja non si mosse. L'orchessa lo chiamò di nuovo. Ma la ragazza disse: «Lascialo stare. A lui toccherà domani. Oggi sono t r o p p o b e n s e d u t a p e r s c o m o d a r m i » . Tseriel, che amava la figlia, non insistette, e non tardò ad addormentarsi. Lunja fece finta di dormire. In realtà spiava il mom e n t o in cui avrebbe udito le grida di tutti gli animali inghiottiti dalla m a d r e nel corso della giornata. Fu solo nel cuore della notte che udì le vacche e i vitelli muggire, le pecore e le capre belare, l'asino ragliare e le galline chiocciare. Ne approfittò per liber a r e il giovane dicendogli: «Presto, sta d o r m e n d o . Gambe in spalla!». Ma egli le rispose: «Non partirò se tu non mi accompagni. Giacché è per te che sono venuto fin qui». «Va bene» disse lei. E uscirono. Li arrestò u n a siepe di spine. Lunja disse: «O siepe di miele e di b u r r o , lasciaci passare!». La siepe di spine si aprì per lasciarli passare, e poi si richiuse alle loro spalle. Essi si misero a correre, a correre con tutte le loro forze. Ma apparve dinanzi a loro un fiume tumultuoso. Lunja supplicò: «O fiume di miele e di burro, lasciaci passare!». Le acque del fiume si ritirarono davanti a Lunja e al giovanotto. E si richiusero u n a volta che questi ebbero raggiunto la sponda opposta. Tseriel si svegliò mentre la figlia, dal colorito bianco c o m e la neve e vermiglio c o m e il sangue, stava fuggendo. L'orchessa chiamò: «Lunja, Lunja!». Ma il suo richiamo si perdeva nel vuoto. Essa si sporse al 211
di sopra del sotterraneo e a n n u s ò l'aria. Gettò u n o sguardo al letto di Lunja e comprese tutto. Si mise a gridare: «Lunja, figlia mia, mi hai tradita! Lunja, mi hai abbandonata!». E partì alla sua ricerca. Alla siepe di spine disse con voce furibonda: «Schifosissima siepe, lasciami passare!». Le spine si fecero ancora più aguzze, si ingrandirono a dismisura. Tseriel riuscì ugualmente a passare, ma i suoi piedi ne f u r o n o lacerati, e gli indumenti fatti a brandelli. Si mise a correre, a correre come u n a forsennata, facendo echeggiare per ogni dove: «Lunja, Lunja, mi hai tradita! Mi hai abbandonata!». Ma Lunja aveva cambiato padrone! Il fiume arrestò l'orchessa. Tseriel gli gridò con furia: «Schifosissimo f i u m e , voglio passare!». Ma il fiume si mise a mugghiare in m o d o minaccioso. Tseriel vi si gettò. Un'onda enorme la portò via. Ma prima di essere inghiottita, l'orchessa esclamò un'ultima volta: «Che Dio ti tradisca come tu hai tradito me, Lunja!». Il giovane e la fanciulla bianca come la neve e vermiglia come il sangue erano già lontani. Giunsero in vista di un'altura. «Il mio villaggio è laggiù» disse il giovane stendendo il braccio. «Ci arriveremo al calare della notte.» E cominciarono a inerpicarsi. Scarpinarono a lungo sulla montagna. Quando stavano per valicare un colle, scorsero d u e aquile che l o t t a v a n o tra loro. L'uomo le s e p a r ò con un b a s t o n e . Ma l'aquila più grande si vendicò: prese sotto l'ala il giovane e lo sollevò in aria. Lunja gridò: «Oh, ho tradito mia m a d r e ed eccomi tradita a mia volta!». Ma il giovane ebbe il tempo di gridarle: «Vai ancora avanti. Incontrerai u n a fontana. Una negra, u n a nostra serva, vi arriverà con i nostri asini e i nostri otri. Dovrai ucciderla per rivestire la sua pelle scura. 212
A questo punto n o n ti resterà che seguire gli asini. Ti porteranno a casa nostra. E là giunta, dirai a mio padre: "Tuo figlio è stato portato via da un'aquila"». L u n j a vide la n e g r a che arrivava alla f o n t a n a . Aspettò che avesse riempito gli otri e li avesse caricati sugli asini. Quindi balzò fuori, la uccise e ne rivestì la pelle. Seguendo gli asini arrivò alla casa del giovane. E quando vi fu entrata, disse al padre: «Tuo figlio è stato afferrato da un'aquila che se l'è messo sotto l'ala e se l'è portato via in cielo». Il padre lasciò passare qualche giorno nella speranza che l'aquila lasciasse la sua preda. Ma poi si decise a consultare il Vecchio Saggio. Quest'ultimo lo rassicurò e gli disse: «L'aquila n o n deve aver ucciso tuo figlio. Di sicuro se se l'è messo sotto l'ala, n o n l'ha ucciso. Per liberare t u o figlio, ecco quello che devi fare: devi salire sulla cima più alta, dove sacrificherai u n a giovenca, la più bella, la più grassa che avrai trovato. Le aquile scenderanno per pascersene. Quella che tiene tuo figlio prigioniero sotto l'ala sarà più p e s a n t e delle altre; avrà difficoltà a volarsene via. Tu dalle un colpo di bastone sull'ala. Ed essa lascerà cadere tuo figlio». Il padre salì allora sulla cima più alta, sacrificò la più bella giovenca e si allontanò per spiare le aquile. Le vide calare; le osservò mentre mangiavano. La più grande fra tutte era tanto appesantita che a stento riusciva a muoversi. Quando fu in procinto di volarsene via, il padre le colpì l'ala con un bastone: il giovane cadde a terra. Sull'erba, era gracile e debole come un uccellino. Il padre lo abbracciò e lo riportò a casa. Lunja si prese cura di colui che amava. Aveva sofferto la fame: essa lo nutrì solo di carne alla griglia, uova, miele, b u r r o e frutta. E ben presto egli ridivenne com'era prima. Allora il giovane a n d ò a trovare 213
suo padre e gli disse: «Voglio sposare la negra». «Come oseremo guardare in faccia i nostri vicini?» si indignò il padre. «Tu vuoi il nostro disonore.» Ma il giovane disse ancora: «La sposerò o morrò». Fu così che la sposò. Lunja ricevette ricchi doni d'ogni genere e venne assunta u n a nuova serva. Il giovane attese la notte per spogliare la moglie della pelle che velava la sua bellezza. Al mattino, la serva fu la prima a essere stupita per tale beltà. Venuta per portare la colazione agli sposi, ritornò annunciando a tutti: «La signora non è u n a negra! La signora è bianca c o m e la neve e vermiglia come il sangue!». Tutti accorsero per constatare il miracolo. Ora, il giovane marito aveva un fratello minore che gli chiese: «Come è potuto succedere?». «Mi è bastato pron u n c i a r e le parole: "O figlia di negri, spogliati di questa pelle!"» rispose il fratello maggiore. Il minore pensò allora: "Se u n a negra si rivela u n a vera bellezza, chissà cosa p o t r e b b e succedere con u n a cagna?... Non si rivelerà u n a dea?". Sposò quindi u n a cagna. La notte, quando fu solo con lei nella stanza nuziale, le disse: «Figlia di cani, spogliati di questa pelle!». Per tutta risposta essa cominciò ad abbaiare furiosamente. «Spogliati di questa pelle!» ordinò un'altra volta. Essa lo assalì e lo divorò. Il mattino, q u a n d o la serva entrò per salutare gli sposi e servire loro la colazione, scoprì la cagna che vegliava g e l o s a m e n t e i resti dello sposo. La serva fuggì allora urlando: «Il signore è fatto a pezzi, la sig n o r a vi si è accucciata sopra! Il signore è fatto a pezzi, la signora vi si è accucciata sopra!». Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori! 214
3. STORIA DELLA RANA
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! Nei tempi antichi, ai tempi in cui gli animali parlavano, la rana era la sposa del rospo. Essi vivevano in c o m p l e t a felicità. L'abbondanza e la p r o s p e r i t à riempivano la loro casa. Si era in piena stagione dei fichi, e si avvicinava l'autunno. Un mattino la rana disse al rospo: «Marito! I fichi sono maturi, e siccome si suole dire: "Chi trova un fico prepari un ceppo", è tempo che cominciamo a pensare all'inverno. Recati al mercato e compra della lana. Ti tesserò un burnus scuro per la pioggia. Compra anche un po' di carne. La preparerò e domani la porteremo con noi, perché sin dall'aurora ce ne and r e m o al fiume a lavare la nostra lana, e passeremo tutto il giorno all'aperto. Torneremo a casa p r i m a di notte, portando con noi verdure, uva e fichi». Il rospo si prese u n a sporta e un sacco e si diresse al mercato. Quanto alla rana, essa corse p r i m a alla fontana per cercare dell'acqua e poi alla foresta per andare a prendere u n a fascina di legna, e rientrò per rimettere in ordine la casa. A mezzogiorno ebbe appena il tempo di mangiare. Prese a macinare un'intera giara di grano. Quand'ebbe finito passò la farina al setaccio. La semola più fine, quella più bella, la utilizzò per farne u n a focaccia che mise da parte per farla vedere al suo sposo. E poi preparò le palline del cuscus. Quand'ebbe messo la pentola sul fuoco, non le rimase che attendere. Al tramonto si fece incontro allo sposo che avanzava a fatica. Essa lo raggiunse, lo aiutò a deporre il carico di lana e gli prese la sporta con le provviste che pendeva dalle sue spalle. Rientrarono a casa. Essa accese la l a m p a d a a olio, mise la carne a bollire 215
nella pentola e il cuscus a cuocere al vapore. Si avvicinò q u i n d i al sacco di lana. Cominciò a scuotere con forza la lana per farne cadere la polvere e la paglia. E disse al rospo: «I bioccoli più morbidi, i più bianchi, li impiegherò per il tuo burnus. Quanto alla lana più ruvida, ne farò u n a coperta che poi tingerò. E quest'inverno staremo al caldo». Fece un m u c c h i o della lana migliore, rimise nel sacco quella di qualità inferiore, si lavò le mani e si occupò della cena. Quando fu pronta, posò a terra la pentola e al suo posto mise sul fuoco un paiolo pieno d'acqua. La rana e il rospo cenarono in santa pace. Quand'ebbero finito, l'acqua bolliva. La r a n a vi gettò della cenere e mise a bagno la lana. Poi fece i mestieri di casa. Il rospo, che era stanco, se ne andò a letto di buon'ora. La rana, più in forze, tirò fuori la lana dal paiolo, la strizzò e la mise a sgocciolare in u n a cesta. Riempì la sacca delle provviste: focaccia e carne. Infine, dovendosi alzare all'alba, andò anche lei a dormire. L'indomani, q u a n d o si destarono, era ancora buio. Si prepararono e fecero colazione in tutta fretta. La rana, con la cesta sulle spalle, e il rospo, con la sacca a tracolla e in m a n o lo strumento per battere la lana, uscirono di casa alle prime luci dell'alba. La strada che portava al fiume era in discesa. Essi vi si diressero. Raggiunsero il fiume q u a n d o il sole cominciava a farsi vedere. La rana posò il suo carico di lana, il rospo appese fa sacca a un albero. E si misero al lavoro. Il rospo raccolse delle pietre e costruì u n o sbarramento per trattenere l'acqua. È in questa piccola pozza d'acqua che la rana doveva disfare la lana, sfilacciarla in piccoli bioccoli, a m a n o a m a n o che il suo sposo la batteva. A mezzogiorno, tutta la lana era lavata. Pensarono allora a m a n g i a r e . La r a n a disse al rospo: «Va' in 216
quella direzione; cerca di trovare, tra i rovi, qualche m o r a matura, e porta anche dei fichi, se ci riesci». Il rospo partì alla ricerca dei frutti: tagliò dei giunchi, li intrecciò per ricavarne un canestro che riempì di fichi, di uva e di more. La sua sposa lo attendeva pazientemente. Essa aveva scoperto un posto all'ombra e aveva deposto in terra, su un foulard, la focaccia e la carne. Fece le parti e mangiarono. Fecero onore ai frutti: non ne lasciarono u n o solo nel canestro. Bevvero a u n a fonte, nel cavo della mano. E poi, dal m o m e n t o che l'aria era calda e il sole scottava, si apprestarono a fare la siesta. Il rospo distese il suo burnus all'ombra dei pioppi: vi si distesero sopra. Quando il sole cominciò a calare, la rana disse al rospo: «Marito! Alzati. Bisogna partire. Va' a prendere delle verdure, intanto che io rimetto tutto a posto». Il rospo prese la sacca e il canestro di giunchi, e si recò in un orto che si trovava vicinissimo al fiume: le verdure che vi crescevano, nutrite d'acqua in abbondanza, erano splendide. Il rospo colse dei peperoncini, delle zucchine e dei pomodori. Ne riempì la sacca. Nel canestro mise fichi e uva. Se ne tornò dalla sua sposa. Essa gli disse: «Non siamo mai stati più felici. Se q u e s t o g i o r n o potesse n o n finire mai!». «Torneremo q u a n d o vorrai» rispose il rospo. La r a n a si caricò in spalla la cesta della lana e si incamminarono. Avanzavano con fatica, perché quella che al mattino era stata u n a discesa adesso era diventata u n a salita. Inoltre e r a n o a p p e s a n t i t i da t u t t o quello che avevano m a n g i a t o . S o p r a t t u t t o la r a n a era m o l t o s t a n c a . C a m m i n a c a m m i n a , q u a n d o videro u n a quercia la r a n a sospirò: «Sono stanca. Non potremmo riposarci un po' sotto questa quercia?». Si fermarono un istante, e poi il rospo disse: «Fatti coraggio. La notte sta per sorprenderci e la nostra casa è anco217
ra lontana». C a m m i n a r o n o ancora a lungo. Apparve u n a collina. «Sono stanca» riprese la rana. «Solleva la testa,» rispose il rospo «il villaggio si trova dietro questa collina. Tra poco vedremo i tetti delle case.» Ma la rana, stremata, si sedette sul bordo del sentiero e dichiarò: «Parti da solo, se vuoi. Io non riesco più a fare un passo». Allora il rospo la prese a cavalcioni sulle spalle. Dopo qualche istante disse, contrariato: «Che cos'è questo liquido che mi bagna i talloni?». La r a n a rispose: «È l'acqua della lana che gocciola fuori dalla cesta». Ma il r o s p o riprese, s e m p r e più irritato: «Non è che per caso tu mi abbia pisciato addosso? Sento delle gocce sui talloni». «Ti dico, amico mio, che è la lana!» Il rospo, esasperato, lasciò cadere dalla schiena la rana. Ora, nei pressi si trovava u n a pozza d'acqua. La r a n a vi saltò dentro, a b b a n d o n a n d o sul bordo la cesta con la lana. Il rospo si acquattò un po' più in là, triste, con la sacca delle verdure e il canestro di frutta ai piedi. Capitò di lì il capraio: «Che t'è successo, zio rospo?» domandò. «Cosa non mi è successo! La regina delle donne è fuggita: è nella pozza d'acqua.» «È tutto qui? Te la riporto io!» «Madama rana!» chiamò. «Chi c a m m i n a sopra al mio tetto?» rispose lei, irritata. «Mi cadono dei calcinacci sulla cena.» «Sono il capraio. Vieni, Dio voglia ispirarti. Ritorna da tuo marito.» «Vattene, occupati piuttosto dei tuoi piedi pieni di screpolature.» «Sono forse venuto per farmi insultare? Resta nella pozza d'acqua, se ti ci trovi bene!» S o p r a g g i u n s e lo sciacallo: «Che cos'hai, r o s p o , che stai qui a sorvegliare il sentiero?». «La giovincel218
la del giovincello mi ha lasciato!» «La pregherò di ritornare, se Dio vorrà consigliarla.» «Madama rana!» chiamò. «Chi va là?» «È lo sciacallo che viene verso di te, lo sciacallo agile e furbo.» «Davvero? Se tu fossi l'agile e f u r b o sciacallo, ti avrei forse trovato con la zampa rotta in fondo a u n a scarpata?» Capitò di lì il leone: «Che cos'hai, rospo, che stai qui a sorvegliare il sentiero?». «O mio signore, è la bellezza dell'universo che se ne fuggita e mi ha abbandonato!» «Non ti perdere d'animo. Te la riporterò io.» «Chi c a m m i n a sopra il mio tetto?» d o m a n d ò la rana, irritata. «Mi cadono dei calcinacci sulla cena.» «È il tuo signore il leone, il re delle fiere. Vieni, seguimi. Ritorna da tuo marito.» «Tu mio signore? Se tu fossi il re delle fiere, n o n ti faresti trascinare da un Arabo legato a u n a corda come un cane.» Il leone, scoraggiato, se ne tornò dal rospo. Passò il gipeto: «Che cos'hai, zio rospo?». «La grazia del m o n d o è e n t r a t a in quella pozza d'acqua!» «Tutto qui?... Non è grave.» Prese il volo. «Chi è sopra il mio tetto?» gridò la rana. «Mi c a d o n o dei calcinacci sulla cena!» «È il tuo signore, il gipeto, figlio di gipeti e bianco come il latte.» «Ah, davvero? Se tu fossi il mio signore, il gipeto dei gipeti e bianco come il latte, ti avrei trovato intento a mangiare u n a carogna, su un mucchio di letame?» Sopraggiunse il corvo: «Che cosa c'è, zio rospo? Che cosa fai per strada a quest'ora?». «La grazia del m o n d o mi ha lasciato!» «Non temere, essa non resisterà alla mia voce.» 219
«Madama rana!» chiamò. «Seguimi, sono il corvo, il marabutto che torna dalla Mecca.» «Ah, davvero? Se tu tornassi dalla Mecca, n o n avresti tradito la fiducia che in te aveva riposto il Profeta. Dio n o n ti avrebbe maledetto. Dopo essere stato tutto bianco, n o n saresti divenuto tutto nero e n o n puzzeresti di marcio!» Il corvo se ne partì con le ali basse. Arriva la pernice: «Che cos'hai, zio rospo? È calata la notte; che cosa ci fai tutto solo sul sentiero?». «Il sale dell'universo è fuggito. La moglie mi ha abbandonato.» «Corro a riportartela.» «Madama rana!» chiamò. «Chi c a m m i n a sopra il mio tetto? Mi cadono dei calcinacci sulla cena.» «È la pernice più bella del paese.» «Davvero? Se tu fossi la pernice più bella del paese, avrei trovato le tue sorelle ammucchiate nel carniere di un cacciatore?» La pernice se ne tornò piangendo. Ecco infine presentarsi lo scricciolo: «Che cos'hai, zio rospo? Perché quest'aria disperata?». «È la giovincella del giovincello che se n'è fuggita nella pozza d'acqua e mi ha lasciato. In tanti h a n n o già provato a riportarmela. Ma essa non li ha accolti bene.» «Vedrai che mi seguirà, perché non la pregherò.» «Chi picchia al mio nido? Mi cadono dei calcinacci sulla cena!» «È il tuo signore, lo scricciolo degli scriccioli, verde come il fiele. C a m m i n a davanti a me o assaggerai il bastone!» «Un istante che mi agghindo! Un po' di rossetto, un po' di trucco sugli occhi e precedo il mio signore!» Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
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4. C H I DI N O I È LA P I Ù BELLA, O LUNA?
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! Si narra che nei tempi antichi vi era u n a giovane d o n n a , bella c o m e la luna. E q u e s t a d o n n a , nelle notti di luna piena, si truccava, pettinava e profumava i suoi lunghi capelli, indossava i suoi abiti più ricchi, si ornava con tutti i suoi gioielli e usciva. Per avere u n a migliore vista del cielo, saliva su un'altura. E qui, rivolgeva il proprio viso splendente verso la luna e le chiedeva: «Chi di noi è la più bella, o luna? Chi di noi è la più bella?». E la luna rispondeva: «Tu e io siamo ugualmente belle, ma la figlia che porti in te ci supererà in bellezza». E la giovane donna si lamentava e malediceva la b i m b a che portava in seno. Per mesi andò avanti a rivolgersi in questo m o d o alla luna chiedendole: «Chi di noi è la più bella, o luna? Chi di noi è la più bella?». E ogni volta la luna rispondeva: «Tu e io siamo ugualmente belle, ma la figlia che porti in te ci supererà in bellezza». Essa m i s e a l m o n d o u n a b a m b i n a dai capelli d'oro, u n a b a m b i n a più bella della luna nel firmamento. La chiamarono Jejjiga, "fiore". La sua bellezza cresceva di giorno in giorno. Le vicine dicevano alla madre: «Già tu sei bella, ma la bellezza di tua figlia eclisserà la tua». E la giovane d o n n a , all'udire queste parole, si sentiva trafitta da stilettate di gelosia. Diceva in cuor suo: "Quando questa bimba sarà diventata un'adolescente nessuno più mi guarderà". La b a m b i n a aveva ora otto anni. Era piena di vita e di grazia. La m a d r e le disse u n a sera: «Domani metteremo sul telaio u n a grande coperta. Dovremo preparare l'armatura. Ci accompagnerà la nostra vicina». Al mattino prese due solidi pali che dovevano 221
fungere da m o n t a n t i e un grosso gomitolo di lana. Chiamò la vicina e tutte e due se ne andarono, portando con sé la piccina. Si lasciarono alle spalle in lontananza il villaggio e raggiunsero u n a collina. La m a d r e disse allora alla figlia: «Noi pianteremo in terra i pali verticali e tu farai correre la lana tra di noi. Adesso sei grande, ce la farai a tenere in m a n o il gomitolo?». La m a d r e sapeva bene che cosa stava facendo. La ragazzina si mise a far scorrere la lana. «Più svelta, più svelta!» le disse la madre. Il gomitolo era pesante. Sfuggì di m a n o alla piccina e cominciò a rotolare. «Corri a riacchiapparlo!» gridò la madre. La bimba si slanciò. La m a d r e tagliò il filo e il gomitolo prese a rotolare sempre più veloce, sempre più veloce, trascinando con sé Jejjiga verso il precipizio. Poi, all'improvviso, il gomitolo scomparve. La piccina lo cercò invano tra i rovi e nei cespugli. Tornare indietro?... Aveva perso la strada. Allora si mise a c a m m i n a r e a caso sulle sue esili gambette. Cammina cammina, arrivò al limitare del bosco. Fu allora che scoprì, seminascosto da u n a fitta vegetazione, l'ingresso di u n a caverna. Si aprì un varco ed entrò. La caverna era profonda. Quando ebbe fatto qualche passo e si fu abituata all'oscurità, la b i m b a vide, avvolto su se stesso come un enorme braccialetto, un serpente. Lanciò un grido. Esso sollevò il capo, aprì due occhi che parevano stelle e la osservò. Vide quella r a g a z z i n a che Dio solo aveva p o t u t o creare. La corsa aveva reso il suo viso simile a u n a rosa; le spine avevano graffiato i suoi piedini e le sue manine. I suoi abiti erano strappati. Tanta beltà abbagliò il serpente; tanta grazia e fragilità lo commossero. Ringraziò Dio in cuor suo. La bimba tremava. Egli le disse: «Non avere paura, non ti farò alcun male. Ma dimmi, piccina, che 222
cosa ti ha condotta fino a me». Essa era sul punto di mettersi a piangere. Udendo il serpente rivolgersi a lei con un linguaggio u m a n o , si sentì rassicurata. Gli disse: «Io tenevo un gomitolo di lana, un gomitolo pesante. Mi è caduto di m a n o e ha cominciato a rotolare senza fermarsi. Io l'ho seguito... Poi l'ho perso di vista e ho continuato a c a m m i n a r e fino ad arrivare qui». Egli prese dell'acqua per lavarle il viso, le m a n i e i piedi. La fece sedere e le servì da mangiare. Lei m a n g i ò un po' di focaccia di grano e bevve del latte. In un angolo b e n riparato le apprestò un giaciglio e ve la condusse per farla riposare. Bisogna sapere che questo serpente n o n era un vero serpente. Un tempo era stato un u o m o felice: aveva u n a casa, u n a moglie, numerosi campi e ogni sorta di b e n i e di ricchezze. Ma u n a notte, s e n z a avvedersene, mise un piede su un serpente. Questo serpente lo fissò, si rizzò e alitandogli in viso gli disse: «Tu mi hai schiacciato. Diventerai un serpente come me e tale resterai finché vivrò, in m o d o che gli uomini ti calpesteranno!». Fu così che venne trasformato in un serpente. Abb a n d o n ò la famiglia, la casa e tutti i suoi beni. Fuggì dalla gente e si rifugiò nella foresta. Si avvicinò alle fiere, si mise a vivere come loro, a nutrirsi di carne e sangue. Ma se il suo corpo era quello di un serpente, il suo cuore e il suo spirito erano rimasti quelli di un uomo. Se fuggiva i suoi simili era solo per il timore di essere schiacciato da loro. Ma la solitudine gli era a m a r a e lo consumava. Quando gli apparve la ragazzina era da molto tempo che non vedeva più l'ombra di un essere u m a n o . Per questo alla vista del suo viso di rosa e delle sue piccole m e m b r a stanche il cuore del serpente si era sciolto per la tenerezza. La piccina si era a d d o r m e n t a t a . Egli uscì, uccise d u e pernici, raccolse della v e r d u r a e della f r u t t a e 223
rientrò. Accese il fuoco, m i s e a c u o c e r e il cibo e a n d ò a ridestare la bimba. Le chiese con dolcezza: «Come ti chiami? Qual è il n o m e del tuo villaggio e dei tuoi genitori, affinché io ti riconduca a loro?». Essa rispose: «Io mi chiamo Jejjiga, ma n o n so né il nome dei miei genitori né quello del mio villaggio». Il serpente, che n o n poteva ripresentarsi agli occhi degli umani, rimase in silenzio. Rifletté a lungo, si guardò intorno e alla fine disse: «Rimarrai qui finché Dio non ti aprirà u n a strada. Sposo la tua f a m e e la tua sete: sarai la mia bambina. Ma dovrai obbedirmi e n o n oltrepassare m a i la soglia della caverna. Qui siamo nel regno degli animali; se ti ci avventurassi potrebbe succederti qualcosa di brutto». Il serpente l'allevò. Fu per lei padre e m a d r e allo stesso tempo. Le insegnò a preparare da mangiare e ad a m a r e l'ordine. La colmò di ogni attenzione, la circondò di tenerezza. Essa gli obbedì finché fu piccola; ma, fattasi adolescente, cominciò a conoscere la noia. Ebbe nostalgia del cielo, del sole. Volle scoprire il mondo. Il s e r p e n t e la lasciava spesso sola p e r a n d a r e a caccia e a tagliare la legna: essa approfittò di queste assenze. Dapprincipio si accontentò di lanciare timidi sguardi al di là delle alte erbe e dei rami che celavano l'ingresso della caverna. Poi però prese ad avventurarsi all'esterno. Ma rientrava s e m p r e p r i m a che tornasse il serpente. Un giorno un taglialegna la scorse e ne fu meravigliato. Come si avvicinò per osservarla meglio, essa scomparve. Di ritorno al villaggio raccontò la sua avventura a chi la voleva ascoltare: «Stavo per tagliare della legna nella foresta quando vidi uscire da terra u n a creatura, u n a creatura... u n a coltre d'oro la ricopriva fino ai piedi. La luce che ne emanava mi abbagliò. Si sarà trattato della fata guardiana della fo224
resta? Volevo avvicinarmi per vederne il viso, ma essa era già scomparsa!». Questa storia, trasmessa di bocca in bocca, arrivò all'orecchio del principe, che non esitò a interrogare il taglialegna. «Principe,» rispose il taglialegna «una creatura mi è davvero apparsa sul limitare della foresta. Era in piedi, contro un albero. Era un angelo, u n a fata?... Il suo viso sfidava la luce. Un m a n t o d'oro la rivestiva. Quando volli osservarla più da vicino, mi accorsi che n o n c'era più!» «Domani, alle p r i m e luci dell'alba, mi condurrai là dove essa ti è apparsa!» disse il principe. L'indomani la ragazza finì per mostrarsi all'ingresso della caverna. Il m a n t o d'oro che la rivestiva erano i suoi capelli. E fu tutto quello che videro il principe e il taglialegna che la spiavano attraverso il fogliame. Il principe decise di rimanere solo per sapere se la strana creatura fosse un mortale o u n a fata. La giovane rimase a lungo ferma sulla soglia e poi rientrò. Poco dopo il principe vide questa cosa che lo stupì: il serpente che avanzava in piedi, recando verdure, f r u t t a e selvaggina, giacché q u a n d o portava dei carichi esso n o n strisciava! Il serpente mangiò, fece la siesta (era estate) e uscì per fare u n a passeggiata. Allora il principe potè avvicinarsi alla caverna e contemplare la ragazza. Essa si teneva appoggiata a un albero e portava alla bocca dei chicchi d'uva. Egli pensò: "Dal m o m e n t o che sta mangiando, posso avvicinarmi!". Scostò i r a m i e, facendosi avanti, le disse: «In nome di Dio, te ne prego, d i m m i chi sei, creatura!». Essa rispose: «Sono un essere come te. Sono la figlia del serpente». Egli la osservò m e n t r e parlava, meravigliandosi del suo viso sbocciato come u n a rosa. Le chiese del suo villaggio e dei suoi genitori, ed essa rispose: «Qui, in questa caverna ho vissuto e sono cresciuta. Il serpente mi ha allevata: 225
io sono s u a figlia. Ma è a s u a i n s a p u t a che vengo fuori. Mi raccomando, non dirglielo, non raccontargli che mi hai vista!». E rientrò. Il principe andò a trovare suo padre e gli dichiarò: «Voglio sposare la figlia del serpente». Il re si indignò. Il principe cadde a m m a l a t o di un grave male: la febbre non lo abbandonava né di giorno né di notte. il re finì per chiedergli: «Figlio mio, che cosa ti potrebbe guarire?». «Permettimi di sposare la figlia del serpente e vedrai che guarirò.» Dal m o m e n t o che il principe deperiva ogni giorno di più, il re cedette. Si recò dal serpente e gli disse: «Dammi tua figlia per mio figlio». Il serpente rispose: «O re, è da sette anni che essa è venuta da me. Io l'ho allevata come u n a figlia. Mi è più cara del firmamento. Ma dal m o m e n t o che tu la vuoi, o re, eccotela: te l'affido. Colmala di doni e veglia su di lei come ho fatto io stesso fino a ora. Quanto a me, ti chiedo u n a sola cosa: un otre di sangue». Il giorno in cui essa doveva separarsi da lui per seguire il re a corte, il serpente disse alla ragazza: «Va', figlia mia, sii brava, va' e, mi raccomando, non voltarti indietro ma guarda sempre avanti!». Essa salì su u n a giumenta tutta ingualdrappata di seta, con il re che la scortava. Ma dopo un istante gridò: «Ho dimenticato il mio pettine!». Scese allora da cavallo e corse verso la caverna, dove sorprese il serpente intento a pascersi di sangue. Lo vide cambiare espressione. Egli le disse, tutto vergognoso: «Non ti avevo raccomandato di non tornare indietro?... Te ne pentirai». Allora essa tornò spaventatissima dal re. A corte visse felice per alcuni mesi. Il principe, suo marito, l'amava. Con gran gioia di tutta la famiglia reale, essa mise alla luce un b i m b o dai capelli d'oro, un figlio che le assomigliava. Lo custodì per quaranta giorni, dopodiché, u n a mattina, si alzò per 226
unirsi alla vita della corte. Quando ritornò dal bambino, esso era scomparso. Lo cercarono a lungo, ma invano. L'anno successivo essa ebbe un nuovo b a m b i n o , un b i m b o come il primo, dai bellissimi capelli d'oro. In capo a quaranta giorni anch'esso scomparve. Il re e la regina dissero allora al figlio: «Risposati! Che bene ci p u ò venire dalla figlia del serpente?». Ma il principe, che riponeva in Dio le sue speranze, rispose al re e alla regina: «Io ho scelto Jejjiga per se stessa, e n o n per i figli che mi avrebbe dato». Uno dopo l'altro, la giovane principessa ebbe sette figli, sette bimbi dai capelli d'oro, che f u r o n o tutti rapiti q u a r a n t a giorni d o p o la nascita. Essa fu sop r a n n o m i n a t a "Colei che divora i suoi figli". Ma il principe continuava ad amarla. Otto anni erano trascorsi da quando Jejjiga aveva lasciato la caverna del serpente per la corte del re, q u a n d o u n a sera essa disse al principe: «Domani, c o n d u c i m i d a m i o p a d r e a f f i n c h é egli m i p e r d o ni...». Egli la accontentò. Appena arrivati alla caverna, il principe e la principessa videro sei fanciullini dai capelli d'oro che giocavano e si inseguivano in m a n i e r a incantevole. Un vecchio teneva in braccio il settimo b i m b o dai capelli d'oro. La principessa cercava con gli occhi il serpente. Allora il vecchio si fece avanti e le disse: «Non cercarlo, sono io. Molto tempo fa, u n a notte, ho messo un piede su un serpente per disattenzione. Egli si è vendicato perché mi ha trasformato in serpente come lui. Ora però è m o r t o e con lui è m o r t o anche il potere che aveva su di me». Disse inoltre: «Il giorno in cui mi hai lasciato per andare verso il tuo sposo ti avevo raccomandato di n o n tornare indietro. Tu sei ritornata e mi hai sorpreso mentre bevevo del sangue. Mi hai umiliato e io ti ho detto: "Te ne penti227
rai"». Tese alla principessa il bebé che aveva in braccio e si rivolse al principe: «Sono io, o principe, che sono venuto a cercare i tuoi figli u n o dopo l'altro per punire mia figlia. Li ho allevati con tenerezza come avevo allevato la loro madre. Per sette volte, o principe, ti sei trovato davanti a u n a culla vuota e non hai disperato e non hai umiliato mia figlia. Al contrario, l'hai a m a t a e protetta. Ecco i tuoi figli... Te li rendo». E sospinse verso di lui i sei fanciulli dai capelli d'oro. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
5. AISHA, FIGLIA MIA, UNA POZZA IN CUI S P E G N E R E Q U E S T E FIAMME!
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! Si n a r r a che nei tempi antichi vi era u n a vedova attorniata da sette figli, sette bambini assai vicini tra loro di età. Lei era m o l t o povera e la s u a vita era molto dura. Di giorno lavorava per gli altri; di notte lavorava per sé. Si recava alla f o n t a n a alle p r i m e luci dell'alba, e poi al bosco in cui andava a prendere fascine di legna ed erba per i suoi conigli e per la sua capra. Aiutava a falciare l'orzo e il frumento, al m o m e n t o della mietitura, e andava nei campi a spigolare. D'estate, coloro che possedevano orti e frutteti in m o n t a g n a la m a n d a v a n o a raccogliere p e r loro legumi e f r u t t i . Essa tornava carica d'uva, di fichi, di pesche e di pere, e per ripagarla delle sue fatiche gliene davano un paniere pieno. D'inverno, raccoglieva le olive e riceveva in cambio dell'olio. In questo m o d o riusciva a n u t r i r e e f a r crescere i suoi sette b a m b i n i . Alcuni 228
riuscivano a seguirla e venivano qualche volta a trovarla nei campi. Gli altri, li lasciava in custodia alla maggiore, u n a bimbetta che la miseria e le preoccupazioni avevano reso già matura. La vedova abitava in u n a capanna, fuori del villaggio. Essa ne veniva via prima del levar del sole e non vi faceva ritorno p r i m a del tramonto. È solo di notte che essa trovava il tempo di macinare l'orzo e il frum e n t o quotidiani, ed è sempre di notte che tesseva, al chiarore di u n a lanterna a olio. La stagione dei fichi era fuggita. Sugli alberi non vi erano quasi più melagrane. Tra poco il freddo si sarebbe presentato sulla soglia; la vedova lo sentiva. Per questo, essa aveva cominciato col telaio u n a bella coperta in m o d o che i suoi piccini avessero caldo in inverno, e passava le notti vegliando al telaio. Una n o t t e le s e m b r ò di sentire nell'aria c o m e l'odore delle olive e della neve. Aveva fatto cenare i suoi bambini e aveva disteso per loro delle coltri vicino al focolare. Si accostò al telaio più presto del solito, e vi entrò tenendo in m a n o la lanterna a olio. Continuò a tessere, a tessere fin verso la metà della notte, preoccupata di non farsi sorprendere dall'inverno. I bambini dormivano. La c a p a n n a era immersa nell'oscurità. La rischiaravano debolmente il fuoco che ardeva al centro e la l a n t e r n a a olio posata accanto al telaio. All'improvviso, la porta che era rimasta socchiusa venne sospinta e la vedova vide penetrare u n a sagoma gigantesca, formidabile. I piedi calpestavano il suolo di terra battuta; la testa toccava il tetto di paglia. I capelli si rizzavano verso il cielo come un cespuglio spinoso. Era Tseriel. Essa si diresse verso il telaio e vi entrò. Si sedette accanto alla vedova e le disse: «Fatti in là, ti do u n a m a n o io». E si mise a tessere. Tesseva, tesseva come un demonio, m e n t r e la vedova tremava e pensava: 229
"Mamma mia! M a m m a mia! Ci ingoierà tutti, i miei bambini e me!". Esse continuarono a tessere, a tessere tutte e due fino a che vi fu del filo. Ma l'orchessa scorse delle cordicelle. Se ne impadronì e disse: «Le tesseremo e continueremo il nostro lavoro». Quando n o n vi f u r o n o più cordicelle, Tseriel e la vedova uscirono dal telaio e si sedettero accanto al fuoco. La vedova aggiunse un ceppo e ne scaturirono alte fiamme. Un istante dopo, la vedova sentì un p r u r i t o alla testa. Afferrò al centro un tizzone e si grattò con l'estremità che n o n ardeva. Tseriel la volle imitare. Ma quella che applicò alla sua testa fu la parte incandescente. I suoi capelli presero fuoco in un lampo e quel cespuglio spinoso che non erano altro fu tutto u n a fiamma. Essa si slanciò all'esterno, e si mise a correre, inseguita da tutti i cani del vicinato. Il vento ripiegò le fiamme verso le sue spalle. Il fuoco si appiccò ai suoi vestiti e discese fino ai suoi piedi. Ben presto essa n o n fu che u n a torcia al vento che correva, correva, gridando per strada: «O Aisha, figlia mia, u n a pozza in cui spegnere queste fiamme, u n a pozza in cui spegnere le fiamme!». Una torcia alle prese con l'immenso ululare dei cani e del vento. Finalmente davanti a lei apparve u n a pozza d'acqua. Tseriel vi si gettò e si i m p a n t a n ò nel fango. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
6. LA MUCCA DEGLI ORFANELLI
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'era u n a volta, in un certo villaggio, un u o m o che aveva u n a moglie e due figli. La primogenita era u n a bambina: essa si chiamava Aisha. Il piccolo si chia230
mava Ali. La loro m a d r e possedeva u n a mucca. Ma ecco che un giorno la madre si a m m a l ò di u n a grave m a l a t t i a . Q u a n d o si vide p r o s s i m a alla m o r t e , c h i a m ò il m a r i t o e gli disse: «Promettimi che n o n venderai mai la mucca, e che la conserverai sempre per i piccoli orfanelli!». Egli glielo promise solennemente ed essa morì. Ai fanciulli era rimasto solo il padre. Essi si strinsero a lui. Ma egli n o n era capace di curarli e Aisha, la bimba, era troppo piccola per preparare i pasti e fare i mestieri di casa. Il padre si risposò. All'inizio, la matrigna non fece alcun male agli orfanelli. Ma le capitò di mettere al m o n d o u n a b i m b a che chiamò Johra, e dal giorno in cui le nacque questa figlia prese a detestare gli orfanelli. Li percuoteva. Li lasciava soffrire la fame. La bimba e il fratellino conducevano la mucca al pascolo e bevevano il suo latte. Ciascuno di loro si attaccava a u n a mammella. Così essi avevano un bell'aspetto, e la matrigna se ne stupiva e diceva tra sé: "Come possono prosperare, crescere e rafforzarsi se io li privo di tutto?". A sua figlia essa dava tutto ciò che aveva di meglio. Agli orfani dava gli avanzi. Ma per quanto rimpinzasse sua figlia Johra, questa invece di diventare bella si faceva di giorno in giorno più brutta, gracile e giallastra. Infatti, invece di fare progressi, regrediva come i piccoli dell'asino, che in fatto di bellezza n o n migliorano. Si s a r e b b e d e t t o che la m a d r e le desse da mangiare del veleno. Comunque Johra, bene o male, cresceva. Gli orfanelli, invece, diventavano ogni giorno più bianchi e rosei: le loro guance erano come due melagrane. E ogni volta che la matrigna posava gli occhi su di loro si sentiva morire dalla gelosia. Così, u n a sera, disse alla figlia: «Domani seguili e torna a dirmi che cosa m a n g i a n o nei campi». Consegnò alla 231
b i m b a d u e uova sode e u n a focaccia di f r u m e n t o . Agli orfani diede u n a focaccia di crusca e fece loro questa r a c c o m a n d a z i o n e : «Vostra sorella J o h r a vi accompagnerà. Vegliate su di lei, e che non le succeda nulla di male!». Gli orfani amavano la loro sorella. Partirono tutti e tre. Appena arrivati, si riposarono un po'. Quindi giocarono a nascondino nei campi. All'ora di pranzo Johra tirò fuori da un cestino la sua focaccia di f r u m e n t o e le sue uova sode. Gli orfanelli mangiarono la loro focaccia di crusca. Poi and a r o n o dalla m u c c a per bere il suo latte. J o h r a osservò ma n o n si avvicinò. Al r i t o r n o disse alla madre: «Mamma, adesso so perché sono così bianchi e rosei: bevono il latte della mucca». «Devi fare come loro» rispose la m a d r e . «Tutto quello che faranno, fallo, così ingrasserai pure tu.» L'indomani, Johra attese che Aisha e Ali avessero finito di bere per avvicinarsi a sua volta alla mucca. Ma la mucca le assestò un calcione con lo zoccolo. J o h r a se ne t o r n ò a casa con un b e r n o c c o l o sulla f r o n t e e, piangendo, si l a m e n t ò con la madre: «La m u c c a mi ha colpita m e n t r e stavo avvicinandomi per prendere la sua mammella!». La sera, al rientro del padre, la m a t r i g n a si fece avanti e gli disse: «La m u c c a che ha colpito la mia b a m b i n a n o n p u ò più vivere i n casa m i a . M a r i t o mio, domani tu la venderai. La venderai!». Egli le rispose: «Moglie mia, Dio voglia farti ragionare: come potrei vendere la m u c c a degli orfanelli? Chi me la comprerebbe? Ho giurato alla loro madre, sul letto di morte, che n o n me ne sarei m a i liberato». «Hai sentito? Tu venderai la mucca. La venderai o prenderò mia figlia per m a n o e ti lascerò alla tua casa, ai tuoi figli e alla tua mucca.» 232
Invano egli la pregò e la supplicò. Alla fine dovette cedere. L'indomani trascinò la mucca al mercato. Gli orfanelli piansero e si lamentarono. Quando fu arrivato in piazza, il padre si mise a gridare: «Chi vuole comprare la mucca degli orfanelli?». A ogni persona che si avvicinava per chiedere: «Che m u c c a è questa?» egli diceva: «È la mucca degli orfanelli». «Che Dio ci preservi dalla maledizione degli orfani!» era la risposta. «Non priveremo gli orfani dei loro beni.» Al t r a m o n t o riportò a casa la m u c c a e disse alla moglie: «Nessuno ha voluto c o m p r a r l a . Mi h a n n o tutti detto: "Dio ci preservi dalla maledizione degli orfani!"». Tornò a portare la m u c c a al m e r c a t o altre due o tre volte. Ma non trovò nessuno che gliela comprasse. Allora sua moglie dichiarò: «Siccome non riesci a venderla, la sgozzerai. Perché la mucca che ha colpito la mia b a m b i n a non può più vivere in casa mia». Egli sgozzò la mucca. Gli orfanelli si r e c a r o n o allora al c i m i t e r o p e r piangere sulla t o m b a della madre. Ma ecco che due canne crebbero sulla tomba. Una dispensava burro, l'altra miele. I bimbi si chinarono e si misero a succhiare u n o dopo l'altro. Grazie alle canne, gli orfanelli, che erano deperiti, ripresero il loro colorito bianco e roseo. Di nuovo la matrigna pensò: "Eccoli ancora con due guance che s e m b r a n o m e l a g r a n e m e n t r e m i a figlia è s e m p r e secca e giallastra. Cos'altro avranno scoperto per ingrassare?". Diede ordine alla figlia di seguirli e imitarli in tutto e per tutto. Johra li seguì d u n q u e al cimitero. Li vide accostarsi alla t o m b a della m a d r e e c h i n a r s i sulle canne che vi erano spuntate per succhiarle. La ragazzina tornò dalla m a d r e per riferirle quello che 233
aveva visto. La m a d r e le disse: «Non ti avevo raccom a n d a t o di fare tutto quello che li avessi visto fare? Imitali in tutto, succhia anche tu le canne della tomba per avere anche tu guance rosee e candide». Così fece Johra l'indomani. Ma appena accostata la bocca alle canne, ricevette da esse un getto di fiele e di sangue. Fece ritorno vomitando per strada. Allora sua madre, furiosa, prese un vecchio piatto sbrecciato, lo riempì di brace, raccolse dei legni secchi e corse al cimitero per bruciare la tomba. Per privare gli orfanelli di ciò che la provvidenza aveva loro concesso. Aisha la vide bruciare la tomba. Aisha era cresciuta; stava ora uscendo dall'adolescenza. Disse al fratello più giovane: «Dal m o m e n t o che h a n n o bruciato la t o m b a di nostra m a d r e non ci resta che l'esilio». Si infilò nel corsetto un pezzo di focaccia, prese per m a n o il fratello e p a r t i r o n o dritti d a v a n t i a loro. C a m m i n a c a m m i n a , al crepuscolo giunsero a u n a foresta. Passarono la notte tra i r a m i di u n a palma da datteri. Al mattino si rimisero in viaggio. Chiedevano la carità di villaggio in villaggio. Per strada si i m b a t t e r o n o in u n a fonte: il ragazzo vi bevve e fu trasformato in u n a gazzella. Allora Aisha si sfilò la lunga cintura di lana e la legò al collo della gazzella. E da allora temette per suo fratello e n o n se ne separò mai. Così, se lo portava dietro mentre chiedeva la carità, e ogni sera cercava un luogo impervio, un luogo sicuro in cui nascondersi con lui. All'alba si rimetteva in viaggio. Ma ecco che un giorno, in un villaggio, un sultano la notò. Ingiunse ai suoi servitori di condurgliela. Aisha si mise a correre, a correre come il vento. Il suo fratello-gazzella la seguiva da presso. Una palma da dattero gigantesca si p a r ò loro dinanzi: u n a p a l m a che da terra arrivava al cielo. La gazzella si stese ai 234
piedi della palma, mentre Aisha si arrampicava fino ai rami più alti. Gli uomini che la inseguivano le dissero di scendere, ma essa rifiutò. Essi le ripeterono di scendere, ma essa rifiutò u n ' a l t r a volta. Allora, mentre già si accingevano ad abbattere l'albero, Settut, la vecchia strega, biascicò: «Per questa notte, lasciatela stare. È inutile abbattere la palma, mi incarico io di farla scendere d o m a n i . Ma se devo farle prendere confidenza, dovete allontanarvi». L'indomani Aisha guardò tra i rami della palma e vide u n a vecchia tutta curva: era Settut che aveva portato un piatto di quelli che servono per fare le focacce e della farina avvolta in u n o straccio. Essa scavò un focolare ai piedi dell'albero, lo m u n ì di tre grandi pietre e accese il fuoco. Appena scaturite le fiamme, posò sul fuoco - alla rovescia - il piatto per le focacce e si mise a preparare la pasta. Dall'alto dell'albero Aisha le rivolse la parola: «Non è così, b u o n a madre, che si posa il piatto per le focacce!». Settut rispose: «Non so come fare, figlia mia. Io non ci vedo». La ragazza g u a r d ò p r u d e n t e m e n t e tutt'intorno e n o n vide n e s s u n o . Allora scese p e r aiutare Settut. Ma appena toccata terra la strega la afferrò e fece segno a quelli che volevano impadronirsi di lei. Fu così che Aisha v e n n e c o n d o t t a dal s u l t a n o . A lui essa n a r r ò la sua storia fin dall'inizio. Gli r a c c o n t ò la morte della madre, la morte della mucca. E gli disse: «È a causa di mio fratello che sono fuggita davanti ai tuoi servitori. Mio fratello ha bevuto l'acqua di u n a fonte ed è stato t r a m u t a t o in gazzella». Il sultano ne fece la sua sposa. Aisha e il fratellogazzella vissero felici per qualche tempo. Il sultano possedeva un i m m e n s o giardino; la gazzella poteva percorrerlo in lungo e in largo a piacimento. In mezzo al giardino c'era un pozzo. E a questo pozzo n o n si attingeva più acqua: era troppo vecchio. 235
N o n passò molto t e m p o e nel regno si diffuse la notizia che Aisha stava per dare alla luce un bambino. Il sultano era al settimo cielo, perché, p u r avendo sposato diverse mogli, nessuna gli aveva ancora dato un erede. Una di queste mogli si ingelosì di Aisha. Approfittando di un viaggio del sultano, attirò la giovane sultana vicino al vecchio pozzo, la fece sedere sul bordo, si accovacciò ai suoi piedi e le disse: «Guarda che cos'ho tra i capelli, ho un prurito alla testa». E mentre Aisha si chinava, la rivale la spinse nel pozzo: e Aisha vi cadde dentro. Da allora, la gazzella b r a m i v a p e r t u t t a la casa, bramiva per tutto il giardino. La moglie gelosa aveva un bel legarla, la gazzella rompeva i lacci, se ne andava fino al pozzo e si metteva a bramire girandovi intorno. La moglie gelosa finì per dire a un servo: «Sgozzami questa gazzella!». L'uomo prese un grosso coltello e si avvicinò alla gazzella. Ma questa lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. Allora il domestico tornò dalla p a d r o n a e le disse: «Non ce la faccio a ucciderla: questa gazzella n o n è un animale, bensì un essere u m a n o . Mi guarda, e a me cadono le braccia!». Uno dopo l'altro, la moglie gelosa chiese a tutti i servi di sgozzargliela. Ma u n o dopo l'altro tutti le risposero: «Non ce la facciamo a uccidere questa gazzella dallo sguardo umano». Fin dall'aurora la gazzella si recava al pozzo. Si chinava sul bordo e diceva alla sorella: Stanno affilando lame Per Alì-povera-gazzella O mia sorella Aisha, figlia di mia madre, Liberami! 236
E la sorella gli rispondeva: Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te! Ora, il Genio del pozzo era u n a fata-guardiana. Quando Aisha era stata precipitata dalla malvagia rivale, la fata l'aveva afferrata al volo e condotta in u n a grotta affinché essa vi mettesse al m o n d o il figlio del sultano. La fata ebbe cura amorevolmente della madre e del bambino. Ma il pensiero fisso di Aisha era sempre il fratello-gazzella: non appena sentiva la sua voce lamentosa, rispondeva dal fondo del pozzo: Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te! Solo lo Sheikh della Moschea poteva udirli, perché lui solo passava accanto al pozzo prima del levar del sole, in quell'ora in cui la gazzella aveva l'uso della parola. Fu così che udì più volte la gazzella dire al pozzo: Stanno affilando lame Per Alì-povera-gazzella O mia sorella Aisha, figlia di mia madre, Liberami! E fu così che udì a n c h e il pozzo rispondere alla gazzella: Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo 237
Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te! Lo Sheikh della Moschea andò a trovare il sultano ritornato dal viaggio, e gli disse: «Il tuo pozzo è infestato! da presenze s o p r a n n a t u r a l i . D o m a n i all'alba vieni con me e vedrai e udrai». L'indomani il sultano si alzò alle prime luci dell'alba e andò a raggiungere lo Sheikh in giardino. Videro la gazzella sporgere la testolina oltre il bordo. Si avvicinarono e l'ascoltarono mentre diceva lamentosamente al pozzo: Stanno affilando lame Per Alì-povera-gazzella O mia sorella Aisha, figlia di mia madre, Liberami! Udirono anche il pozzo rispondere alla gazzella: Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te! Assai sorpreso, il sultano avanzò verso il pozzo e g u a r d ò dentro: vide u n a giovane d o n n a che alzava tra le braccia un b a m b i n o così bello che emanava luce intorno a sé, perché i suoi capelli erano d'oro e d'argento. Il sultano gridò: «È Aisha! Chi ha potuto portarla qui?». La liberò. I servitori denunciarono la malvagia rivale. Il sultano la fece decapitare. Un bel giorno, lo Sheikh della Moschea chiese al sultano: «E questa gazzella, chi è?». «Questa gazzella? È il fratello della mia giovane sposa» rispose il 238
sultano. «Ha bevuto o mangiato qualcosa, non so bene cosa, che l'ha così trasformato in gazzella.» Allora lo Sheikh prese dell'acqua (perché era anche un mago), pronunciò delle parole magiche e fece bere un po' di quest'acqua alla gazzella. Dopodiché la asperse con essa dicendo: Se sei nata gazzella resta gazzella Se sei nata uomo, ridiventalo Per la forza di Dio e degli amici di Dio! Fu così che Ali ritrovò la sua forma u m a n a e che sua sorella e lui conobbero infine la pace e la felicità. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
7. LA PRINCIPESSA S U M I S H A
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'era u n a volta un re (benché n o n vi sia vero re all'infuori di Dio) e questo re aveva un solo figlio, cui diede il nome di Mehend. Fin dalla nascita, lo installò al settimo piano del suo palazzo, nella stanza più riposta, la più segreta, quella che si apriva non sulla strada ma sul cielo, e incaricò i servitori più fedeli di vegliare gelosamente su di lui. Raccomandò loro soprattutto di non servire al figlio - appena fu in grado di mangiarla - carne che non fosse priva di ossa. Mehend visse al riparo dal male, visse da recluso e raggiunse l'adolescenza ignorando tutto del mondo. Ma un giorno un servitore gli portò un piccolo cosciotto d'agnello che aveva trascurato di disossare. Il principe lo mangiò con grande appetito; quando restò solo l'osso, lo prese e lo batté contro il m u r o per 239
e s t r a r n e il midollo: il colpo fu così violento che sbrecciò il muro, producendovi un foro da cui irruppero sole e luce a profusione. Abbagliato, il giovane vi accostò l'occhio. Vide allora quello che non aveva mai visto: la folla sulla piazza del mercato. Uscì come un pazzo dalla stanza, s'impadronì di un puledro senza perdere t e m p o a sellarlo e, aggrappato alla sua criniera, si slanciò al galoppo. La folla stupefatta lo g u a r d ò e si aprì p e r lasciar p a s s a r e il figlio del re, avendolo riconosciuto. Settut, la vecchia strega, fu l'unica a s b a r r a r g l i il passo. Dal m o m e n t o che Mehend la spingeva, essa gridò: «Dimmi, Mehend, figlio di re, non avrai per caso come moglie Sumisha figlia di Hitin per essere così fiero da calpestarmi?». Il giovane se ne r i t o r n ò a p a l a z z o i m m e r s o nei suoi pensieri. E n t r ò nella stanza in cui risiedeva la m a d r e e si gettò su un letto in preda ai brividi. La regina, inquieta, gli prese la mano: «Figlio mio,» disse «ti h a n n o gettato u n a fattura. Sguardi malevoli si sono posati su di te e ora eccoti preda dei demoni». Essa m a n d ò a cercare lo Sheikh della Moschea, ma questi, a dispetto di tutta la sua scienza, si dichiarò impotente. Allora il principe m o r m o r ò : «Se Settut, la strega, venisse qui e facesse cuocere sotto i miei occhi un semolino, io guarirei». Una negra partì i m m e d i a t a m e n t e alla ricerca di Settut. La strega, appoggiandosi pesantemente a un bastone, entrò nella stanza in cui vi era il malato. Al centro ardeva un fuoco su cui u n a pentola non tardò a bollire. Essa vi gettò la semola in fine polvere e rimestò pian piano per evitare che si formassero grumi. Mehend di scatto afferrò la m a n o della strega e la immerse nella minestra bollente. Settut urlò. «Non tirerò fuori la tua m a n o finché non mi avrai detto dove si trova Sumisha, figlia di Hitin» disse il 240
principe. Allora, c o n la m a n o libera, essa indicò l'Oriente. Il principe si diresse in fretta verso la propria camera, ordinò che gli si preparassero delle provviste e che gli si sellasse il cavallo. Poi si congedò dai genitori. Il re e la regina lo supplicarono v a n a m e n t e di restare. Egli rispose con voce ferma: «Tornerò con Sumisha come compagna o morirò». Allora, col cuore desolato, lo lasciarono allontanarsi e lo seguirono a lungo con lo sguardo. Come u n a freccia, Mehend si diresse verso oriente. Viaggiò per giorni e giorni, percorse pianure, attraversò fiumi, valicò montagne. Uccise serpenti nei campi, uccelli nel cielo e belve nelle foreste. A tutti quelli che incontrava domandava, instancabilmente: «Conoscete il paese di Sumisha, figlia di Hitin?». E tutti indicavano a oriente e rispondevano: «Va', va' sempre in direzione del sol levante!». Dopo molti giorni giunse in riva al m a r e e sulla spiaggia vide un pescatore che aveva appena estratto dall'acqua un pesce della g r a n d e z z a di un u o m o . Questo pesce era a n c o r a vivo e si dibatteva ferocem e n t e per uscire dalla rete. Il pescatore aveva già sollevato il suo coltello quando il principe Mehend si i n t r o m i s e e disse: «Prendi il m i o cavallo e d a m m i questo pesce». Il pescatore pensò a u n o scherzo. Si mise a ridere: «Chi mai scambierebbe il proprio cavallo con un pesce, p e r q u a n t o grande?». Ma il p r i n c i p e ripetè: «Prendi il mio cavallo e d a m m i questo pesce». Allora il pescatore liberò il pesce e si allontanò conducendo via il cavallo per la briglia. Mehend si stese sulla sabbia, accanto al pesce, e si mise a riflettere; era lontano dal suo paese e dai suoi genitori; aveva esaurito tutte le provviste e barattato il cavallo con questo pesce. E n o n possedeva altro 241
che questo pesce. Si a d d o r m e n t ò . Nel sonno, sentì u n a m a n o posarsi dolcemente sulla spalla e udì u n a voce che gli diceva: «Alzati, Mehend, e partiamo». Il sole si era appena ritirato dietro le montagne. Il cielo, la sabbia e l'acqua ne erano tutti tinti di rosa. Il principe si ridestò, cercò il pesce e non lo vide. Fu allora che n o t ò un giovane bello c o m e il c h i a r o r e della luna. Lo s c o n o s c i u t o e r a di nobile s t a t u r a ; guardò Mehend e gli disse: «Sono tuo fratello. Non hai che da seguirmi e tutti i tuoi desideri s a r a n n o esauditi». Partirono. Insieme attraversarono i deserti, le pianure, i boschi e le foreste. Costeggiarono fiumi, percorsero contrade di volta in volta verdeggianti o povere e a t t r a v e r s a r o n o un g r a n n u m e r o di città e villaggi. Continuavano ad andare, col viso rivolto a oriente, bevendo alle fonti che incontravano e chiedendo talora l'elemosina. Si guadagnavano da vivere anche con lavori stagionali: d'inverno raccoglievano le olive; nella bella stagione aiutavano nella mietitura, nella v e n d e m m i a , nella r a c c o l t a dei fichi o di ogni tipo di frutti e di verdure. Passarono così giorni, mesi, anni. Mehend era un giovanotto dagli occhi limpidi, dai capelli color granturco. Il suo compagno era b r u n o e di statura imponente. La sua f r o n t e sembrava perdersi tra le nubi e i suoi occhi erano di un nero così brillante che era impossibile sostenerne lo splendore. Le mani e il viso emanavano u n a luminosità soprannaturale e dolce. Era senza età. Mehend lo amava come un fratello. Sette anni e r a n o trascorsi da q u a n d o il principe aveva lasciato il suo paese, da q u a n d o il suo amico e lui erravano di contrada in contrada alla ricerca di Sumisha, q u a n d o , un giorno d'estate, si t r o v a r o n o davanti alle m u r a di u n a città poderosa. Lo Sheikh 242
dall'alto del minareto chiamava i fedeli alla preghiera. Era mezzogiorno. I due viaggiatori erano coperti di polvere e spossati. Avevano sete. Avevano fame. Si f e r m a r o n o alla p r i m a p o r t a e chiesero in n o m e di Dio u n a brocca d'acqua e un pezzo di focaccia. Una vecchia serva portò loro dell'acqua, u n a focaccia di f r u m e n t o , dei fichi, dei datteri e u n a borraccia di siero di latte. Bevvero e mangiarono, mangiarono e bevvero, e si distesero su delle stuoie. Quando furono riposati, si bagnarono i piedi doloranti e si accinsero a ripartire. Appena usciti videro u n a moltitudine di corvi che volteggiavano s o p r a la casa più i m p o n e n t e e l'accerchiavano, s t r i n g e n d o l a q u a s i d'assedio. «Cosa vengono a fare qui questi uccelli del malaugurio?» chiesero a un passante i due amici. «Dunque non lo sapete?» si stupì il passante. «Dovete essere stranieri... Quella che vedete è la dimora del nostro signore. Alle finestre, ai muri e alle porte sono appese delle teste mozzate. Sono tutte queste teste che attirano i corvi. È per esse, infatti, che questi uccelli vengono qui ogni giorno.» E dopo un lungo silenzio il passante disse ancora: «Un tempo, in questa città, vivevamo felici e tranquilli, perché il nostro signore era il più appagato di tutti gli uomini. Aveva u n a figlia bella come la luna nel cielo e dolce come l'erba e il respiro dei fiori. Essa era la sua gioia. Viveva solo per lei. Pazientemente le stava cercando u n o sposo che fosse alla sua altezza e degno di regnare su di noi un giorno, quand'ecco, all'improvviso, la nostra principessa cadde a m m a l a t a di u n a grave malattia. Da allora essa non parla, non sorride e deperisce in c o n t i n u a z i o n e . E sì che m a n g i a e beve. Ma t u t t o quello che mangia, invece di andare a suo profitto, va a profitto dei geni malvagi che si sono impadroniti di lei. Invano il padre ha chiamato maghi e fattuc243
chiere. Sheikh, scienziati, maghi e fattucchiere si sono dovuti riconoscere impotenti. Allora, disperato, il n o s t r o signore ha p r o m e s s o la figlia in sposa a chiunque l'avesse guarita, fosse anche stato un mendicante. Ma giurò anche che tutti coloro che, dopo aver visto la principessa, avessero fallito, sarebbero stati decapitati, e la loro testa sarebbe stata data in pasto ai corvi. Un gran n u m e r o di uomini giovani e vecchi s o n o accorsi da tutti i paesi, spinti gli u n i dall'amore, gli altri dall'avidità. Ma nessuno è riuscito a guarire la nostra principessa e tutti ebbero la testa tagliata. Quelle che vedete da qui sono le loro teste». Il passante tacque, poi aggiunse: «La sventura è sulla nostra città». Allora il giovane dalla statura imponente e dagli occhi di falco dichiarò: «Guarirò io la giovane principessa!». «Fratello mio,» gridò Mehend, impallidito «non mi lasciare, tu che ho incontrato sulla mia via mentre ero solo e lontano dal mio paese. Ricordati che senza di te non sarei in grado di ritrovare colei che cerco.» «Non temere» rispose il giovane dagli occhi di falco. «Sono sotto la protezione di Dio.» Poco dopo era al capezzale della principessa che s e m b r a v a d o r m i r e . Egli le disse: «O S u m i s h a , più bella della luna nel cielo, possa tu levarti davanti a noi come un melo in fiore! Ascolta questa storia. Tre fratelli, appena adolescenti, abbandonarono un giorno il tetto paterno per percorrere il mondo. Si amav a n o di un a m o r e assai tenero. P r i m a di lasciarli partire, il p a d r e r a c c o m a n d ò loro solennemente di a m a r s i s e m p r e e di n o n s e p a r a r s i mai. Essi glielo promisero e si allontanarono. C a m m i n a r o n o a lungo, finché, u n a mattina, giunsero a u n a foresta. Era immensa, quella foresta; in u n a giornata non riuscirono ad attraversarla tutta. La notte li sorprese ancora al suo interno. Dovettero rifugiarsi in u n a ca244
verna. Il più giovane ebbe l'incarico di accendere il g r a n d e fuoco per tenere a distanza le belve feroci, m a n t e n e n d o l o acceso m e n t r e i fratelli dormivano. La luna piena illuminava la foresta in m o d o meraviglioso. All'improvviso gli occhi del fratello che vegliava si soffermarono su un arboscello vivo e flessuoso come un corpo u m a n o che, all'ingresso della caverna, ondeggiava e fremeva sotto la luna c o m e u n a f o r m a femminile. Con un colpo di scure il giovane lo tagliò. E si mise a scolpirlo, dandogli un volto. Il fratello maggiore si ridestò e venne a sedersi acc a n t o al fuoco. E s s e n d o un sarto, fece u n a t u n i c a per l'arboscello e si r i a d d o r m e n t ò , con la testa del fratello minore appoggiata alla spalla. I due dormivano da un po' quando il secondo di età si ridestò a sua volta: accanto a sé scoprì u n a d o n n a i m m e r s a nel chiarore lunare. Si mise a implorarla nella notte: "Per Dio e il suo Profeta, o donna, guardami, parlami e dimmi chi sei!". Ed essa gli rispose in un bisbiglio: "Io sono colei che ti ama". Il maggiore e il minore dei fratelli udirono queste parole. Si alzarono e si gettarono sul secondo, armati dei loro coltelli. E i tre fratelli uniti c o m e le dita di u n a m a n o , che si a m a v a n o di un a m o r e così tenero, si uccisero a vicenda per la donna-arboscello che altri n o n era se non u n a fata malvagia. E la donna-arboscello pianse il giovane che amava e la felicità che l'aveva abband o n a t a . Ma v e d e n d o cadere il c o r p o dell'amato, giurò, la subdola, di sottrarre la gioia e la salute alla più bella ragazza del mondo». E il giovane dagli occhi di falco riprese, con la voce più imperiosa, guardando intensamente la ragazza: «Per la grazia di Dio che è grande e per la mia, o fata malvagia, esci da questa ragazza, io te lo ordino. Te lo o r d i n o p e r la grazia di Dio e degli amici di Dio!». 245
Sumisha, la principessa, chiuse lentamente le palpebre e spalancò la bocca: ne fuoriuscì u n a lunga vipera nera che si dissolse in u n a nuvola di fumo: era la fata malvagia che Sumisha aveva ingoiato inavvertitamente, u n a notte, bevendo l'acqua di u n a fonte. Allora, le teste dei suppliziati f u r o n o deposte in fretta e i corvi si allontanarono in voli pesanti e serrati. A tutte le finestre fecero la loro comparsa uccelli delle isole. Il cielo cantava a squarciagola: «Sumisha, la nostra principessa, è ritornata in vita; gli spiriti malvagi l'hanno abbandonata!». E l'acqua lo diceva alle radici, e le radici lo dicevano agli alberi che riprendevano questo canto con tutte le loro foglie. In un frullo d'ali, i passerotti, le rondini, le colombe, i fringuelli, i merli e via via fino agli scriccioli - tutti uccelli che avevano abbandonato i giardini da tantissimo tempo - presero a volare verso la stanza di Sumisha. Allora gli uomini seppero che era tornato il tempo della fiducia: ricominciarono a vivere e a lavorare. Le sorgenti, che la disgrazia aveva prosciugato, ripresero a scorrere. L'erba e i fiori crebbero magnifici e folti. Allora, tutto il reame si preparò a celebrare le nozze della principessa. I taglialegna abbatterono tronchi enormi. Ciascuno offrì il proprio f r u m e n t o più brillante e le donne prepararono cantando il cuscus delle nozze. Tra le danze e le risa vennero sacrificati dei vitelli e anche degli agnellini. Cominciarono i festeggiamenti che durarono sette giorni e sette notti. Infatti per sette giorni tamburi e tamburelli, pifferi e clarinetti riempirono ogni dove di canti e ritmi. Per sette giorni e sette notti la polvere da sparo fece sentire alta la propria voce, propagando la gioia fino ai confini del regno, e i trilli delle donne si innalzarono nel cielo come fuochi artificiali. Per tutti questi giorni e queste notti, le m a n i del sultano f u r o n o come fontane di abbondanza. I pove246
ri presero anch'essi parte ai festeggiamenti e si credettero alla pari dei privilegiati di questo mondo. Il sultano fece distribuzioni di semola, di carne e di spezie; diede abiti e calzature scarlatte ai mendicanti e fece doni alle moschee. Giacché a ognuno il sultano sembrava dire: "O tu, che hai condiviso la mia pena, vieni e gioisci con me". La sera delle nozze, Sumisha, meravigliosamente a g g h i n d a t a sotto un lungo velo di tulle con stelle d'oro che l'avvolgeva tutta quanta, attendeva pazientemente il suo sposo nella stanza nuziale, seduta su soffici tappeti, con le candide m a n i ricoperte di anelli. Apparve allora Mehend, seguito dal giovane con gli occhi di falco. Rivolgendosi alla principessa stupefatta, colui che l'aveva salvata le disse: «O giovanetta più bella della luna nel cielo, io n o n posso essere t u o sposo, p e r c h é s o n o il Genio del m a r e e le acque sono il mio regno. Ma ascolta la mia avventura: un giorno, per divertirmi, ho assunto la f o r m a di un e n o r m e pesce. E stavo ridendo della mia metamorfosi quando mi sentii imprigionare nella rete di un pescatore e venni estratto dall'acqua e gettato con violenza sulla spiaggia. Il m i o d i b a t t e r m i fu vano. Già un coltello era alzato su di me q u a n d o sopraggiunse l'uomo che qui vedi. Egli offrì il suo cavallo al p e s c a t o r e e o t t e n n e me in c a m b i o . Poi si a d d o r m e n t ò p r o f o n d a m e n t e sulla sabbia. Approfittando del suo sonno, ripresi la mia f o r m a u m a n a per vegliare su di lui. Egli aveva a b b a n d o n a t o i genitori e il suo p a e s e p e r a n d a r e alla r i c e r c a di S u m i s h a , la principessa lontana di cui Settut, la strega, gli aveva rivelato l'esistenza. Sono sette anni che non ci lasciamo, lui e io, e c a m m i n i a m o in direzione di te, Sumisha, volgendo s e m p r e il viso a oriente. È lui il t u o sposo: è figlio di re». E il giovane dagli occhi di falco scomparve, la247
sciando soli con la loro gioia Mehend e Sumisha figlia di Hitin. Mehend e Sumisha si a m a r o n o come due colombi. Quando il cielo diede loro un erede, la loro felicità n o n ebbe più limiti. Mehend scelse il giorno della nascita del figlio per recarsi dal sultano e parlargli in questi termini: «O re onnipossente, permetti che ti racconti la mia storia, prima di giudicarmi. Tu mi hai dato la tua unica figlia, credendo che essa mi spettasse. Senza dubbio ignoravi che nessun essere al m o n d o aveva il potere di salvarla, e che il mio solo merito, di me povero principe, era quello di amarla più del vasto cielo e di averla cercata perdutamente per tutta la terra. Un altro ha invece fatto per me quello che io non potevo fare. Giacché colui che ha richiamato in vita la principessa per la tua e la nostra felicità, o re, è il Genio del mare. Egli l'ha conquistata come sai, non per sé ma per me, e ha fatto ritorno al suo impero marino che da sette anni aveva abbandonato, lasciando noi due, tua figlia e me, faccia a faccia nella stanza nuziale. Era ancora qui per unirci, con la sua statura imponente e il suo viso luminoso q u a n d o all'improvviso non lo vedemmo più! Grande fu il mio smarrimento, nonostante la presenza di Sumisha, che mi abbagliava come u n a lampada nella sua veste nuziale. O re, da sette anni era mio amico e fratello, vegliava su di me giorno e notte. Ero appena un adolescente quando lo incontrai. Ero appena sfuggito per miracolo alla sorveglianza tirannica di un padre che mi costringeva a vivere come un recluso. Giacché per isolarmi dal m o n d o e da ogni bruttura, mio padre - un sultano nobile come te - mi installò, fin dalla nascita, al settimo piano del suo palazzo, nella camera più riposta, quella le cui finestre si aprivano tutte sul cielo. Nessuno doveva accostarsi a me al di fuori 248
di mia madre e dei servi più fedeli, che avevano la consegna di n o n p o r t a r m i che c a r n i disossate. E m i o p a d r e , nel s u o a c c e c a m e n t o , si felicitava di avermi così s o t t r a t t o alle tentazioni, e godeva in cuor suo del fatto che non mi sarebbe mai potuto venire il desiderio di a b b a n d o n a r l o p e r vedere il mondo! Non sapeva che Dio aveva deciso di rivelarmi lo splendore della sua creazione. Sia benedetto quel servo distratto che, un giorno d'estate, mi portò un cosciotto d'agnello non disossato! Il sole era alto nel cielo. La noia, u n a nostalgia indefinibile mi illanguidivano. Quand'ebbi mangiato, presi l'osso e lo scagliai contro il m u r o per farne fuoriuscire il midollo. Gli angeli mi prestarono la loro forza?... Per l'urto nel m u r o si aprì u n a fessura e un fiotto di luce inondò la stanza. Mi avvicinai e vidi quello che non mi si era ancora mai presentato alla vista: la piazza del mercato, la folla in movimento e tutte le ricchezze esposte in pieno sole, tra gli uomini e gli animali: la frutta, le verdure, i cereali e i fiori. Come ho lasciato la mia celletta e mi sono trovato nella scuderia di mio padre n o n saprei dirlo, o re! Ero a malapena cosciente di quello che facevo. Mi sembra di rivedermi m e n t r e , a g g r a p p a t o alla criniera di un giovane puledro, mi lanciai verso il mercato. La folla che mi vide mi riconobbe dalla mia cavalcatura e si fece da parte (io ero inesperto e il puledro era focoso). Solo S e t t u t ebbe l ' a u d a c i a di s b a r r a r m i il cammino. Essa mi disse: "Non avrai per caso come moglie Sumisha figlia di Hitin, o Mehend, per essere così fiero da calpestarmi?" (mi sembra ancora di sentire la sua voce stridula). Dopo avermi piantato questa spina nel cuore, essa scomparve e io feci ritorno al palazzo malato d'amore ma risoluto a scoprire Sumisha o a morire. Solo Settut poteva aiutarmi, ma come indurla a farlo, se n o n con l'astuzia? 249
Allora, fingendo u n a forte febbre, convinsi mia madre che se la strega avesse preparato sotto i miei occhi un semolino io sarei guarito. Essa venne per ord i n e del s u l t a n o , m i o p a d r e . A p p r o f i t t a n d o del m o m e n t o in cui stava r i m e s t a n d o il semolino, di scatto le immersi la m a n o nel liquido bollente. Essa urlò. "Non ti tirerò f u o r i la m a n o finché n o n mi avrai indicato la strada che porta a Sumisha" le dissi con fermezza. Allora, con la m a n o libera, essa mi indicò l'oriente. A tutti quelli che incontravo domandavo, instancabilmente: "Conoscete il paese di S u m i s h a , figlia di Hitin?". E t u t t i i n d i c a v a n o a oriente e rispondevano: "Va', va' sempre in direzione del sol levante!". Avevo già esaurito le mie provviste e il d e n a r o che m i o p a d r e mi aveva c o n s e g n a t o , q u a n d o arrivai alla riva del mare. Un pesce enorme si dibatteva vanamente in u n a rete, e il pescatore già levava su di lui il suo coltello q u a n d o offrii in cambio il solo bene che mi rimanesse: il mio cavallo. E rimasi solo sulla riva, con il mio pesce. Le preoccupazioni, lo scoraggiamento mi attendevano al varco. Il caso volle che mi addormentassi sulla sabbia tiepida e n o n mi ridestassi che al tramonto. Una m a n o salda e tenera mi toccava la spalla, u n a voce suadente mi diceva all'orecchio: "Mehend, alzati e seguimi". Ora, il pesce era scomparso, e davanti a me vi era il giovane dagli occhi di falco che doveva salvare tua figlia! Divenne come un fratello per me. Per sette anni a b b i a m o errato per il mondo, alla ricerca del tuo regno e di quanto di più prezioso tu possedevi: tua figlia. Egli ha fatto di me l'uomo che tu vedi. Mi ha condotto fino al tuo palazzo, lui che trionfa sui misteri. E ora, o re potente e rispettato, tu conosci la mia storia. Non è legittimo che io vada verso quel padre il cui delitto è stato quello di avermi troppo a m a t o e verso quella madre che mi pian250
ge da tanti anni? Trattieni presso di te il nostro piccolo: sarà il tuo erede. E lasciaci andare, tua figlia e me, verso mio padre e mia madre». «Figliolo,» rispose gravemente il sultano «tutto ciò che hai appena detto è giusto. Tratterrò con me il principino. Egli sarà la mia gioia. Non appena mia figlia sarà più in forze vi metterete in cammino, quand'anche ciò mi dovesse costare non poche lacrime.» Sumisha, ripresasi dal parto, potè intraprendere il viaggio in primavera. Il sultano le diede u n a scorta scelta e u n a lunga carovana di muli carichi di u n o s p l e n d i d o c o r r e d o e di i n n u m e r e v o l i doni. E Mehend, cullato dal passo del suo cavallo nero, pregustava strada facendo la gioia che avrebbe recato ai suoi genitori e al suo popolo. "Mi c r e d e r a n n o senz'altro morto" pensava ogni tanto con u n a certa tristezza "e vi sono sorprese troppo forti che posson o f a r cedere u n c u o r e d i m a m m a logorato dalla sventura e dall'attesa..." Giacché egli non sapeva che sua m a d r e era stata avvisata del suo ritorno (ma poteva forse i m m a g i n a r e che col favore del cielo sua m a d r e lo aveva seguito tappa per tappa, a dispetto della distanza e del silenzio, per questi otto anni di assenza, lunghi come un secolo?). La povera regina aveva versato torrenti di lacrime dopo la partenza del figlio per il paese di Sumisha, e per giorni e giorni si era tenuta alla larga dalla luce e dal cibo. Dio finì per muoversi a compassione e le inviò un sogno. E da allora essa conobbe la pace. Era u n a notte di forte vento. La regina, spossata, si era a p p e n a assopita q u a n d o vide, al posto della breccia fatta nel m u r o dall'osso del cosciotto, un'alta finestra tutta di m a r m o bianco. Davanti a questa finestra, in un'enorme giara, u n o slanciato melograno era sbocciato al sole. La regina udì u n a voce che le sussurrava nell'orecchio: «Fintanto che quest'albero 251
che vedi avrà le foglie verdi, la salute di t u o figlio p r o s p e r e r à . Q u a n d o esso avrà dei fiori, t u o figlio gioirà. Quando avrà due frutti, tuo figlio si sposerà. Q u a n d o ne avrà tre, t u o figlio avrà un b a m b i n o . E ogni volta che si accrescerà la famiglia, tu vedrai apparire un nuovo frutto». Appena sveglia, la regina fece aprire u n a finestra nella s t a n z a di M e h e n d , al p o s t o della breccia, e piantare in u n a giara un giovane melograno, che collocò in piena luce davanti alla finestra. Poi si fece portare il letto, gli abiti e gli oggetti familiari accanto a questa finestra e a questo melograno. L'albero crebbe. Conservò miracolosamente le foglie estate e inverno. Per sette anni, continuò a produrre fiori. La m a d r e fiduciosa pensava: "Mio figlio sta bene". E visse felice e tranquilla vicino a quest'albero. Sul volgere dell'ottavo a n n o , si f o r m a r o n o d u e melagrane. La m a d r e corse ad annunciare la notizia al sultano: «Nostro figlio ha incontrato la donna che a m a e l'ha sposata!». Il sultano sorrise tristemente senza osare contrariarla. L'anno successivo apparve u n a terza melagrana: «Nostro figlio ha avuto un bambino» disse la m a d r e con aria trionfante al sultano. «Nostro figlio ritornerà. Può darsi che sia addirittura già in viaggio!» Il sultano n o n seppe cosa risponderle. Ma tale era la sicurezza della moglie che si mise a sognare i grandi f e s t e g g i a m e n t i che avrebbe o r d i n a t o in o n o r e di questo ritorno. Mehend e Sumisha avevano lasciato lontano alle loro spalle il paese d'Oriente. Quelle che venivano loro incontro erano ora le terre dell'Occidente. La regina ripeteva ogni giorno, con aria fiduciosa: « S a r a n n o qui d o m a n i » . E interrogava il cielo e la strada, mentre Sumisha si lasciava portare dalla sua 252
giumenta azzurra veloce come un fulmine. E cercava di percepire la voce lontana della polvere mentre Mehend, ardente di impazienza, spronava il suo cavallo nero, gridando alla sua interminabile scorta di affrettarsi, dal m o m e n t o che le frontiere del regno erano da poco in vista. La regina, quel mattino, si era vestita di porpora. La voce della polvere riempiva tutto il cielo. E la terra tremava per il galoppo dei cavalli. Accanto all'albero magico, essa pettinava con cura i suoi lunghi capelli di seta. La speranza l'aveva m a n t e n u t a giovane e bella. E Mehend, abbagliato, la scorse di lontano. In un baleno fu alle porte del palazzo. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
8. IL FLAUTO D'OSSO
Nei tempi più antichi, in uno sperduto villaggio della Cabilia, viveva u n a famiglia composta da padre, madre e due figli. Il maggiore, Abderrahman, aveva dieci anni. Il più giovane, Hassan, ne aveva solo sette. Quanto Hassan era bello, tenero e grazioso altrettanto Abderrahman era brutto, subdolo, tetro e spiacevole. D'inverno, durante le veglie, q u a n d o le porte erano chiuse e il bestiame dormiva sotto lo stesso tetto, vicinissimo agli umani, la madre, seduta davanti al fuoco, attirava a sé la testolina graziosa del piccolo Hassan e la appoggiava sulle sue ginocchia per accarezzarla a p i a c i m e n t o m e n t r e bisbigliava le tenere ninne-nanne che nascevano nel suo cuore. Fuori, il vento soffiava, accumulando contro le porte e le fin e s t r e p e s a n t i c u m u l i di neve. E il b a m b i n o , così cullato, si addormentava dolcemente, sotto l'occhio malevolo del fratello. 253
Non che la m a d r e non amasse il figlio maggiore, del quale pure si prendeva cura. Però lo viziava di meno, gli dispensava m e n o carezze, considerandolo già un ometto e volendolo preparare alla vita rude che lo attendeva. Inoltre, va detto, non è che ne fosse incantata. Ora, ecco che, all'insaputa della madre, la gelosia prese a germogliare nel cuore del figlio maggiore e crebbe come u n a cattiva pianta, nera e spinosa. Gli inverni e le primavere, le estati e gli autunni si susseguirono, e il t e m p o trascorse. I b i m b i e r a n o adesso degli adolescenti che conducevano al pascolo le greggi sulle creste dei monti. Partivano all'alba, p o r t a n d o con sé u n a focaccia d'orzo, dei bei fichi biondi, un uovo sodo e qualche volta delle olive, oltre a u n a borraccia di siero di latte. E trascorrevano le loro giornate tra le montagne, vicino al cielo. Il maggiore, Abderrahman, era cresciuto come un bastone di aloe. Era lungo e gracile, e pallido come la paura. Aveva la fronte bassa e chiusa, lo sguardo s f u g g e n t e e u n a voce di cui n e s s u n o conosceva il s u o n o o il colore, p e r c h é egli era e t e r n a m e n t e di u m o r nero. Talvolta la madre gli si accostava per dirgli: «La tua fronte è dura e nodosa come la radice di un albero. Eppure hai un padre e u n a madre e non m a n c h i di nulla. Non potresti imitare un po' tuo fratello? Guarda come il Signore l'ha creato aggraziato: "La sua bellezza si fa beffe degli ornamenti, essa illumina i sentieri"». La m a d r e , accecata, n o n sospettava n e p p u r e di gettare olio sul fuoco. Abderrahman detestava ferocemente il fratello. Hassan era troppo biondo, troppo roseo e troppo fortunato. Neppure il sole implacabile d'agosto, questo sole capace di abbattere un somaro, impediva al suo colorito di essere diafano e fresco, e ai suoi occhi di essere verdi e lucenti come l'erba dei prati. Ma quelli che il fratello maggiore de254
testava erano soprattutto i suoi capelli, capelli lisci e brillanti che la madre si dilettava ancora ad accarezzare davanti al fuoco. Tanta bellezza e grazia erano un'offesa per Abderrahman e lo facevano soffrire. Il povero H a s s a n , da p a r t e sua, n o n notava nulla. Il fratello aveva un bel trattarlo con asprezza, picchiarlo qualche volta anche selvaggiamente e mangiare la parte più grande del pasto, lui non si lamentava di nulla e continuava a far risuonare la m o n t a g n a dei suoi canti e delle sue risa, perché era come gli uccellini, felice di vivere e colmo di spensieratezza. Un giorno di tempesta, il fratello maggiore ritornò a casa s e n z a il suo a m a b i l e c o m p a g n o . Le capre, spaventate, si erano ribellate e disperse per la montagna. Avevano dovuto chiamarle e cercarle a lungo, con la pioggia e il vento, i n c u r a n t i dei tuoni e dei lampi. La violenza e la follia del tempo avevano finito per aver ragione del cuore nero del fratello maggiore?... Perché fu quel giorno che Abderrahman sospinse il suo giovane fratello giù da u n a r u p e . La testolina graziosa a n d ò a s c h i a n t a r s i c o n t r o delle grosse pietre, in f o n d o a un precipizio. Abderrahm a n si calò a ricoprire di terra il povero corpicino e attese la fine della tempesta per fare ritorno a casa. Dal m o m e n t o che i suoi genitori si stupirono al vederlo tornare solo, egli raccontò loro di avere perso di vista il fratello nella tormenta, e che questi doveva essere stato trascinato via dal fiume, e aveva probabilmente trovato la sua t o m b a in un crepaccio. I genitori a l l a r m a t i chiesero l'aiuto dei loro p a r e n t i e amici. Si f o r m ò così u n a comitiva che partì alla ricerca del bell'adolescente. Ma né nel fiume, né nelle s c a r p a t e fu più t r o v a t a t r a c c i a di colui che e r a la bontà e la grazia personificate. Il padre e la m a d r e avevano perso in un colpo solo la gioia dei loro occhi. La casa che rispecchiava il 255
b u o n u m o r e e il carattere solare del piccolo precipitò per sempre nel lutto. La madre fu colpita da u n a malattia grave che, se non se la portò via, la lasciò com u n q u e inferma. Il padre, che sembrava sopportare il dolore con più coraggio, divenne ben presto cieco. Il fratello colpevole, ogni giorno più cupo, che faceva? Si pentiva forse o, al contrario, si compiaceva, nell'intimo, di essersi sbarazzato per sempre dell'essere delizioso che odiava? Chi si ricordava ancora, a questo punto, del povero Hassan?... Molti anni erano passati. Il dolore dei genitori non era più così vivo. Il ragazzo taciturno si era fatto un u o m o che rifiutava ferocemente di prender moglie e fuggiva ogni compagnia. Il suo viso affilato e pallido come u n a pietra faceva paura ai b a m bini, che si m e t t e v a n o in salvo c o m e uccellini spauriti non appena lo scorgevano. Ma era scritto che il delitto di Abderrahman n o n rimanesse per sempre ignorato, che la giustizia implacabile di Dio facesse luce. Da molto tempo le piogge avevano dilavato la terra che ricopriva il corpo di Hassan, facendo affiorare le sue ossa. Il sole le aveva calcinate, il vento le aveva disperse. Gli a n i m a l i le avevano 'portate l o n t a n o . Tutto quello che rimaneva era l'osso dell'avambraccio. Un giovane pastore notò quest'osso bianco come il gesso e ripulito al sole, un giorno che inseguiva nella scarpata u n a capra fuggitiva. Lo raccolse e se ne fece un flauto. Quando ebbe fatto sette buchi e intagliato l'estremità, volle ricavarne dei suoni. Ma app e n a portò alla bocca il flauto, u n a voce cristallina si mise a cantare: O pastore, perché ridestarmi?... Da dieci anni io dormivo... Mio fratello Abderrahman m'ha sospinto 256
Dall'alto di una rupe Nel precipizio. La terra franata Ha ricoperto il mio corpo. Il pastore si recò al villaggio per fare udire sulla pubblica piazza la voce meravigliosa del flauto. Da molto t e m p o la m a d r e era m o r t a dal dispiacere. Il padre cieco non usciva più di casa. Ma il colpevole, che passava di lì per caso, comprese che il suo delitto era stato scoperto. Lasciò immediatamente il villaggio per non farvi mai più ritorno. Nessuno conobbe la fine del suo triste destino. Ma tutto quanto il paese, informato dal flauto, cantò la morte tragica di Hassan, l'adolescente che Dio si era compiaciuto di adornare di tutti i doni e di tutte le grazie.
9. I CAVALLI DI L A M P I E DI V E N T O
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'erano u n a volta due gemelli che erano del tutto identici: stessi capelli biondi, stessi occhi azzurri, stessa carnagione chiara, stessa statura. Uno si chiam a v a Ahmed e l'altro Mehend. La loro m a d r e , per distinguerli, aveva f o r a t o a u n o l'orecchio destro e all'altro quello sinistro. Essi le erano cari come il cielo, dal m o m e n t o che era vedova e non aveva nessun altro al mondo. Il padre aveva lasciato loro qualche sostanza. App e n a ne f u r o n o in grado, i ragazzi a n d a r o n o nei campi e custodirono le greggi. Vissero senza preocc u p a z i o n i fino all'adolescenza. M a u n giorno u n o disse all'altro: «Questa vita n o n mi piace. Recarmi al mattino da casa ai campi e la sera dai campi a casa, 257
no! Sono stufo dei prati e del cielo di qui. Voglio scoprire il mondo». «Ma, fratello,» rispose l'altro «nostra madre n o n ha che noi...» Il p r i m o lo interruppe: «Tu veglierai su nostra madre, sulla nostra casa e sui nostri beni. E io partirò da solo sul mio cavallo di lampi e di vento. Prenderò la m i a carabina, la mia sciabola e u n o dei nostri levrieri, lasciando a te l'altro. Pianterò un albero: fintantoché le sue foglie sar a n n o verdi, sta' sicuro che d o v u n q u e io mi trovi sarò in b u o n a salute. Se le vedrai ingiallire, allora capirai che mi è capitata u n a sventura, e volerai in mio soccorso. Il levriero che ti lascio ti condurrà fino a me». Prese la sua sciabola, la sua carabina, il suo levriero e partì sul suo cavallo di lampi e di vento. E r a da poco in viaggio q u a n d o incontrò due pastori di capre. E r a n o assai contrariati e agitati. Gli dissero: «Lo sciacallo ci m a n g i a t u t t o il b e s t i a m e . Questa notte lo attenderemo al varco». «Veglierò con voi» dichiarò il giovane. «Se ci libererai da lui,» ripresero i caprai «ti daremo u n a capra.» Egli uccise lo sciacallo nel c u o r e della notte, al m a t t i n o scelse la sua capra e disse ai pastori: «Custoditela fino al m i o ritorno». Dopodiché si allontanò. Cavalcava da molto tempo quando lo fermarono dei pecorai: «Per Dio,» gli dissero «uccidi l'uccello predatore che afferra tra le sue grinfie i nostri agnelli!». Nell'ora in cui il sole è più potente, l'ora calda in cui i pastori si riposano sotto gli alberi, un'aquila discese dal cielo. Mentre stava per gettarsi in picchiata su un agnello, ricevette un colpo mortale e si abbatté al suolo, con le ali distese. I pastori presero a gridare: «Che Dio rafforzi il tuo braccio. Noi ti siamo grati! Adesso, scegli la t u a pecora». Egli indicò la più bella e disse: «Custoditela f i n o al m i o ritorno». E 258
proseguì il suo viaggio. Continuò ad andare, ad andare, ed ecco che lo scorsero dei m a n d r i a n i . Essi corsero da lui, dicendogli: «È Dio che ti m a n d a per liberarci da u n a tigre mostruosa che, ogni notte, divora u n o dei nostri animali!». Il giovane ebbe ragione a n c h e della tigre. I m a n d r i a n i gli d i e d e r o u n a mucca (la più bella). Ma egli disse loro: «Custoditemela, ritornerò». E risalì sul suo cavallo di lampi e di vento. Stava percorrendo grandi distese aperte quando dei custodi di giumente si lanciarono per sbarrargli la strada: «La t u a f a m a è giunta fino a noi» gli dissero. «Accetta la nostra ospitalità e uccidi il leone che non solo di notte, ma anche di giorno ci sottrae le nostre giumente». Il giovane si nascose dietro un albero e tese un'imb o s c a t a al leone. Udì da l o n t a n o il leone avanzare ruggendo. Lo lasciò avvicinare e mirò alla sua fronte, p r o p r i o in mezzo agli occhi. Il leone crollò e il giovane ricevette u n a nobile giumenta. Ma disse a coloro che gliela offrivano: «Custoditela fino al mio ritorno». E si allontanò sul suo cavallo di lampi e di vento. Ma degli allevatori di cammelli lo bloccarono. Gli dissero: «Conosciamo le tue gesta da prode; hai ucciso u n a tigre, un leone. Ma un animale feroce, n o n sappiamo quale (tigre, leone o pantera), ci sta decim a n d o il gregge. Se tu trionferai su di lui, ti d a r e m o quello che vorrai». Il giovane uccise l'animale (era u n a pantera), scelse u n a cammella e disse agli allevatori di cammelli: « Custoditemela, ritornerò ». Dopodiché si affidò al suo cavallo di lampi e di vento e si lasciò trasportare da lui. Viaggiò, viaggiò, giorno e notte, incessantemente. Attraversò fiumi, percorse pianure, valicò monti. 259
Lasciò in lontananza il suo paese, sempre più distante alle sue spalle, e penetrò in u n a contrada fertile e verdeggiante. Un grande villaggio apparve alla sua vista; egli vi entrò. Un banditore stava proclamando per le vie: «Il sultano fa sapere: "A colui che libererà il mio reame dal drago-dalle-sette-teste che impedisce alla gente e agli animali di avvicinarsi alla fonte, c o n d a n n a n d o l i a m o r i r e di sete, a c c o r d e r ò quello che domanderà"». Mehend si recò nel luogo in cui si r i u n i v a n o gli anziani e i notabili. Si fece avanti e chiese: «Informatemi: chi è questo drago che c o n d a n n a alla sete tutta la contrada?». Uno di essi rispose: «È un drago che ha sette teste e u n a coda temibile; se ne sta vicino alla fonte. L'uomo o l'animale che osa andare fin là è perduto: viene preso tra le sette teste e la coda del drago, e in un lampo di lui n o n resta più nulla». Il giovane rifletté e di nuovo chiese: «Tra tutte le ricchezze del sultano, qual è la più preziosa?». «Sua figlia,» rispose il più anziano dell'assemblea «la sua unica figlia che supera in bellezza tutte le fanciulle del regno. B i a n c a e rosea, g r a z i o s a e a s s e n n a t a , i suoi capelli sono morbidi e r a m a t i come quelli del mais. Quanti pretendenti sono venuti invano da ogni dove per sposarla! Il sultano n o n la d a r à che a un u o m o valoroso, capace di azioni da prode.» «Domani, sul far del giorno, conducetemi al luogo dove si trova il drago-dalle-sette-teste!» e s c l a m ò Mehend. L'indomani all'alba era già in piedi. Prese la sciabola, condusse con sé un pastore col suo gregge per attirare il drago. Seguì quindi la via che portava alla fonte, accompagnato dagli anziani e dai notabili. Al loro avvicinarsi, la fonte si mise a ribollire e il drago fece emergere u n a delle sue teste: il giovane la tagliò. 260
«Questa n o n è u n a m i a testa» disse il drago. E Mehend replicò: «E questo non è un mio colpo!». Il drago mostrò un'altra testa. Il giovane la mozzò. Il drago disse ancora: «Questa non è u n a mia testa!» e il giovane rispose: «E questo non è un mio colpo!». Per sei volte il drago mostrò u n a testa e questa testa fu m o z z a t a . Per sei volte disse: «Questa n o n è u n a mia testa!» e Mehend rispose: «E questo non è un mio colpo!». Alla fine il drago fece emergere la settima testa, di tutte la più mostruosa. Il giovane, afferrata la sciabola con entrambe le mani, la tagliò di netto e la fece volare lontano. I campi f u r o n o di nuovo irrigati. E le d o n n e p o t e r o n o avvicinarsi alla f o n t e con le loro brocche e i loro otri, e gli animali poterono dissetarsi. Gli anziani e i notabili, muti per l'ammirazione, condussero Mehend dal sultano. «Figlio mio, che cosa mi chiederai?» gli disse il sultano. «Quello che mi chiederai lo otterrai. Non è forse vero che tu hai trionfato sul drago e che io avevo dichiarato: "Colui che ce ne libererà parli e avrà quello che vorrà"? Ho u n a sola parola, io.» «Quello che ti chiederò tu me lo accorderai?» insistette il giovane. «Te lo accorderò» ribadì il sultano. «Parla!» «Allora voglia Dio ispirarti di darmi tua figlia in sposa!» Il sultano rimase un istante in silenzio, poi rispose: «Dopodomani u s c i r a n n o dal m i o palazzo cento fanciulle. Se tu riuscirai a riconoscere tra loro mia figlia, prenditela, essa sarà tua». E fece bandire per tutto il reame: "Che novantanove fanciulle, dopodomani, indossino i loro abiti più ricchi, si adornino di tutti i loro gioielli e vengano al mio palazzo cavalcando giumente azzurre!". Il giorno stabilito, novantanove fanciulle, rivestite d'oro e d'argento, col capo adorno di lunghi veli svolazzanti di seta a stelle d'oro, in sella a giumente az261
zurre veloci come il vento, uscirono dal palazzo, u n a dopo l'altra. Un po' in disparte, tenendo accanto a sé il suo levriero, Mehend le osservò passare. Ogni volta che ne compariva una, il sultano gli chiedeva: «È questa?». E il giovane rispondeva: «No!». Esse sfilarono lentamente davanti a lui, u n a più splendida dell'altra, senza che egli ne fermasse alcuna. Fu allora che comparve la centesima, vestita in m o d o estremamente semplice. Essa uscì da palazzo a cavallo di u n a giumenta bianca che zoppicava legg e r m e n t e . Il levriero partì p e r p r i m o e M e h e n d scattò. Prese tra le braccia la fanciulla, così bella che intorno a lei t u t t o sembrava più luminoso. La sollevò in aria, la mise a sedere davanti a sé sul suo cavallo di lampi e di vento, e la ricondusse a palazzo. La festa di nozze durò sette giorni e sette notti. Il sultano vi invitò tutti i suoi sudditi. Alle novantanove fanciulle offrì dei doni. Q u a n d o i festeggiamenti ebbero termine, disse al genero, che era un grande cacciatore: «Potrai percorrere tutto il mio regno, andare dovunque vorrai, t r a n n e che dalla parte della foresta, poiché tutti coloro che h a n n o preso quella direzione non sono più tornati!». Per qualche tempo, il giovane rispettò questa raccomandazione. Partiva alle p r i m e luci dell'alba, accompagnato dal suo levriero, sul suo cavallo di lampi e di vento. Cacciava p e r t u t t a la giornata e n o n faceva ritorno che al calar della sera. Ma q u a n d o ebbe percorso tutto il regno, esplorato tutti i boschi e non gli rimaneva più nulla da scoprire, cominciò ad annoiarsi. La principessa era felice e il sultano era contento di lui. Ma Mehend, per parte sua, era stufo di rivedere sempre le stesse praterie, le stesse montagne, gli stessi boschi, di ripassare per gli stessi sentieri. Una sera disse tra sé: "Perché il sultano mi ha vietato di avvicinarmi alla foresta, perché?... Non è 262
che vi si celi qualche meraviglia e che lui non voglia che io la veda?". Si alzò alle prime luci dell'alba, portò con sé il suo levriero, salì sul cavallo di lampi e di vento e si allont a n ò nella direzione che n o n avrebbe m a i dovuto prendere. Raggiunse la foresta nel m o m e n t o in cui il sole faceva la sua comparsa; vi entrò di slancio. Ne attraversò la parte più fitta. Ne stava appena fuoriuscendo, quando udì il r u m o r e dell'acqua. Questo rum o r e lo condusse fino al fiume. Lo attraversò ed è allora che gli apparve un giardino! In verità era il giardino più prodigioso che si possa vedere, dal momento che vi si trovavano tutti i frutti del paradiso e tutti i fiori e tutti gli uccelli. Esclamò: «Adesso capisco perché il sultano temeva che io mi avvicinassi alla foresta!...». Avanzava lentamente, sul suo cavallo di lampi e di vento, meravigliandosi di tanto ben di Dio. Tseriel, l'orchessa, lo spiava ma lui non la vedeva. Quando fu al centro del giardino, essa gli si mostrò e gli disse: «Che tu sia il benvenuto, ben arrivato, Mehend, figlio mio! È da t a n t o t e m p o che mi p a r l a n o di te e che ti attendo!». Lo afferrò e lo inghiottì. E inghiottì pure il cavallo di lampi e di vento e il levriero. Allora, le foglie dell'albero che M e h e n d aveva piantato prima della partenza si misero a ingiallire. Ahmed, che le teneva d'occhio, se ne accorse subito. Pensò: "Mio fratello è in pericolo". Corse verso la m a d r e e le disse: «È capitata u n a sventura a mio fratello. Io parto. Preparami delle provviste per il viaggio e che le tue benedizioni mi accompagnino!». Montò in sella al suo cavallo di lampi e di vento, chiamò il suo levriero, prese la sua sciabola, la sua c a r a b i n a e, a s u a volta, si allontanò. E r a a p p e n a uscito dal villaggio che dei pastori di capre lo chia263
marono: «La tua capra ha fatto figli, vieni a vedere i tuoi capretti!». Ma lui rispose: «Ritornerò». E pensò: "Che fortuna! Dunque mio fratello è passato di qua". Più avanti incontrò dei pecorai. Essi gli dissero: «La tua pecora è divenuta un gregge!». Egli rispose: «Lasciatemi andare, ritornerò». E continuò ad andare, ad andare, sul suo cavallo di lampi e di vento. Ma dei mandriani lo scorsero e c e r c a r o n o - invano - di fermarlo: «Prenditi la t u a mucca e i tuoi vitelli!». Egli disse loro: «Ritornerò». E passò oltre. Stava raggiungendo le grandi distese aperte che aveva attraversato suo fratello Mehend quando accorsero dei guardiani di giumente: «Eccoti tornato, finalmente! Prenditi la tua giumenta e i suoi puledri». Ma egli gridò loro: «Ritornerò!». Fece loro segno di scostarsi e passò. Il suo cavallo lo trasportava così in fretta che a m a l a p e n a distingueva il paesaggio. Degli allevatori di cammelli scattarono per annunciargli con gioia: «La tua cammella e i suoi piccoli ti aspettano!». Ma egli passò davanti a loro come un fulmine. Continuò a viaggiare, notte e giorno, gli occhi fissi sul levriero che sembrava volare, tanto correva. Tutto assorbito dalla speranza di ritrovare il fratello, Ahmed si lasciò portare dal suo cavallo di lampi e di vento, attraversò i fiumi, percorse le pianure e valicò i monti. Quando, a sua volta, penetrò in u n a verde e ricca contrada, il sole stava s o r g e n d o . Gli a p p a r v e un g r a n d e villaggio, il villaggio che suo fratello aveva liberato dal drago. Il levriero rallentò la sua a n d a t u r a . Il cavallo lo imitò e il giovane vide avanzare verso di lui u n a folla enorme. «Eccoti dunque, finalmente, Mehend!» gli gridavano da ogni dove. «Sei stato assente così tanto! Eri tornato al tuo paese?... La figlia del sultano, tua moglie, ha partorito un maschietto mentre tu eri assente.» 264
Sopraggiunse il sultano in persona: «Da dove torni?» gli chiese. «Ero così inquieto per te!» Fu allora che Ahmed parlò. «Vi sbagliate» disse. «Io non sono Mehend, sono suo fratello gemello. Quando Mehend partì, p i a n t a m m o un albero. Dal m o m e n t o che le sue foglie h a n n o cominciato a ingiallire, ho capito che dovevo m e t t e r m i i m m e d i a t a m e n t e alla ricerca di mio fratello.» Il sultano lo guardò a lungo, e alla fine disse: «Figliolo, t u o fratello viveva felice in mezzo a noi. La sua f a m a lo aveva preceduto fin qui; la notizia delle sue imprese era giunta fino a me. Nel corso del suo viaggio aveva seminato il bene, ucciso u n o sciacallo, un'aquila in volo, u n a tigre, un leone, u n a pantera. Quando Dio ce lo mandò, il drago-dalle-sette-teste ci tiranneggiava e ci condannava a morire di sete. Tuo fratello entrò in questo villaggio mentre vi facevo annunciare: "A colui che ci libererà dal drago-dalle-sette-teste, darò quello che mi chiederà". Egli riportò la vittoria su di lui e io gli diedi in sposa mia figlia, dai capelli di seta, la mia unica figlia, cara ai miei occhi quanto il firmamento e più del mio regno e di tutti i regni della terra. Sapevo che t u o fratello era un grande cacciatore. Un giorno gli dissi: "Ecco il mio regno; potrai percorrerlo tutto a tuo piacimento, andare a est, a ovest, a sud, a nord, andare dovunque vorrai, tranne che dalla parte della foresta, poiché di tutti coloro che h a n n o preso quella direzione non è più tornato nessuno!". Vivevamo in pace. Vivevamo felici. Mia figlia stava per darci di lì a poco un bambino. E speravamo di vedere il mio palazzo popolato da principini e p r i n c i p e s s i n e q u a n d o t u o fratello partì per non fare più ritorno. Pensammo: "Avrà forse avuto nostalgia del suo paese?...". Adesso t e m o che se ne sia andato dalla parte della foresta e gli sia successo qualcosa!». 265
Ahmed lo ascoltò e quindi ripartì alla ricerca di suo fratello senza n e m m e n o riposarsi. Andò a vedere il Vecchio Saggio e gli chiese, dalla soglia: «Perché il sultano ha vietato a mio fratello di avvicinarsi alla foresta?». «Perché nella foresta si trova il giardino di Tseriel» rispose il Vecchio Saggio. «Se Mehend vi si è avventurato, essa lo avrà inghiottito. Ma se tu riuscirai a sorprenderla e a tagliarle in due la testa, salverai t u o fratello, perché allora ti basterà aprire con delicatezza il ventre dell'orchessa e tirarlo fuori.» Ahmed risalì sul suo cavallo di lampi e di vento, chiamò il suo levriero e si diresse verso la foresta. Vi entrò nell'ora più calda. La attraversò f r e m e n d o di impazienza, guidato dal suo cane. Aveva appena oltrepassato il fiume che Tseriel gli apparve, immensa, nel suo meraviglioso giardino: «Che tu sia benvenuto, ben arrivato, Ahmed, figlio mio!» gli gridò con gioia. «È da tanto tempo che attendevo la tua venuta!» E si fece avanti, ma più svelto di lei egli la colpì alla testa con la sua sciabola. Essa si rovesciò e cadde a terra pesantemente. Allora egli scese da cavallo, prese un pugnale affilato e aprì con la m a s s i m a delicatezza il ventre di Tseriel. Per primo, tirò fuori il levriero, che distese al sole. Poi suo fratello. E per finire il cavallo di lampi e di vento. Erano tutti e tre deboli come uccellini, ma il loro cuore batteva ancora. Conservavano a n c o r a un soffio di vita. Ahmed distese il fratello su un giaciglio d'erba e si sedette a c c a n t o a lui p i a n g e n d o . Piangeva e si lamentava: «Fratello mio, che fare per te?... Fratello mio, che fare per te?...». A un tratto, notò due lucertoline che stavano lottando tra loro. Una colpì l'altra, che cadde inanimata. Ahmed sussurrò: «Anche gli animali si f a n n o male a vicenda!». Ma la lucertola che lo u d ì rispose sarcastica: «Piangi per te, piangi la tua miseria, per266
ché io, se ho ucciso un mio simile, sarò ben capace di resuscitarlo!». La lucertolina scelse un'erba, la spremette e fece cadere due gocce verdi nelle narici del suo simile. La lucertola priva di sensi starnutì, aprì gli occhi e cominciò a muoversi. Ahmed pensò: "Se la lucertola ha resuscitato un suo simile, non può darsi che anch'io riesca a resuscitare m i o fratello?". Colse un ciuffo della stessa e r b a e lo schiacciò tra le dita. Diverse gocce di un liquido verde c a d d e r o sul viso di Mehend, colarono sulle palpebre e penetrarono nel naso. Ahmed lo vide r i t o r n a r e in vita, aprire p i a n piano gli occhi. Allo stesso m o d o rianimò il cavallo di lampi e di vento e il levriero. Dopodiché, trascinò il cadavere dell'orchessa fino al fiume e ve lo gettò. Ritornò allora sui suoi passi meravigliandosi di tutte le bellezze sparse intorno a lui. Ahmed esplorò il dominio di Tseriel e scoprì la sua casa sotto gli alberi. Vi erano ammassate tutte le sue ricchezze: materassi, coperte, tappeti, cuscini, morbidi tendaggi e ogni sorta di frutti. Traboccava di fichi, di burro, di latte, di frumento, di olio e di uova. Traboccava di fichi secchi, di uvetta, di datteri, di mandorle e di noci. Egli se ne rallegrò e corse a ritrovare il fratello nel giardino. Lo sollevò, lo prese tra le braccia e lo portò fino alla dimora dell'orchessa. Lo distese con precauzione sulle coltri più soffici e lo osservò intensamente mentre dormiva. Gli vide le guance più piene e colorite: ne fu lieto e uscì di nuovo per cercare il cavallo di lampi e di vento e il levriero che attendevano in giardino. La n o t t e colse i d u e fratelli seduti u n o a c c a n t o all'altro nella casa di Tseriel. Li trovò intenti a m a n giare uova fresche, focacce di grano, b u r r o e miele. Intenti a mangiare frutta e a bere latte. Si riposarono alcuni giorni. Poi, u n a mattina, ricordandosi del267
la giovane p r i n c i p e s s a e di suo p a d r e , il sultano, m o n t a r o n o in sella ai loro cavalli di lampi e di vento. Preceduti dai loro levrieri, a b b a n d o n a r o n o il giardino dell'orchessa, attraversarono il fiume e si inoltrar o n o nella foresta. La a t t r a v e r s a r o n o senza fretta, come se stessero facendo u n a passeggiata; p r i m a di mezzogiorno raggiunsero il villaggio. La notizia del loro arrivo si propagò rapidamente da u n a via all'altra. Uomini e bambini li acclamarono e li accompagnarono fino al palazzo. «Ho ucciso l'orchessa» annunciò Ahmed al sultano. «Il fiume sta trascinando il suo cadavere verso il mare!» «Che Dio ti benedica, figliolo, e ti ricolmi dei suoi benefici! Sei valoroso quanto tuo fratello!» esclamò il sultano. E corse dalla figlia a portarle la lieta novella. La principessa pianse di gioia mentre mostrava suo figlio a Mehend. E la corte e tutto il regno festeggiarono il ritorno dei gemelli. Ma l'indomani Ahmed disse: «Mia m a d r e mi chiama. La sento in pena, e i nostri campi e il nostro bestiame mi aspettano». «Anch'io ho nostalgia» rispose Mehend. «Voglio rivedere m i a m a d r e e portarle mia moglie e mio figlio.» Invano il sultano cercò di trattenerlo. All'ora in cui la calura si fa m e n o opprimente, la giovane principessa, in sella a u n a giumenta azzurra veloce come il vento, col figlioletto in braccio, uscì dal palazzo. La seguivano i due gemelli, sui loro Cavalli di lampi e di vento, accompagnati dai loro levrieri. Viaggiarono tutta la notte e tutto il giorno. Lasciarono lontano alle loro spalle il villaggio e la bella contrada verdeggiante. Percorsero le pianure, attraversarono i fiumi, valicarono le montagne. Dopodiché li scorsero degli allevatori di cammelli: «Dov'è la mia cammella?» gridò loro Mehend. 268
Essi gliela condussero, attorniata dai suoi piccoli, ed essa andò a disporsi dietro i cavalli di lampi e di vento. E i viaggiatori si allontanarono. Il frastuono del loro passaggio corse come il vento e li precedette al villaggio natio. Ben p r e s t o videro sulla strada, a l l ' o m b r a di un grande albero, u n a giumenta bianca e i suoi puledrini. M e h e n d r i c o n o b b e la s u a p r o p r i e t à . Ne p r e s e possesso e il viaggio proseguì. La principessa e i due gemelli attraversavano ora delle distese aperte. M e n t r e r a s e n t a v a n o un p r a t o che costeggiava la strada, u n a bella mucca rossiccia, seguita dai suoi vitelli, a b b a n d o n ò l'erba verdeggiante per unirsi alla giumenta e ai puledri. E il viaggio proseguì. La principessa, col suo piccino in braccio, e i due gemelli continuavano ad avanzare senza sosta, ma più l e n t a m e n t e . Stavano r a g g i u n g e n d o il luogo in cui Mehend aveva ucciso in volo un uccello rapace q u a n d o videro, lungo un fossato pieno di fiori, u n a pecora bianca e dolce, circondata da u n a moltitudine di agnellini. La pecora a b b a n d o n ò il fossato e si unì, coi suoi agnellini, alla m u c c a e ai vitelli. E il viaggio proseguì ancora più lentamente. I gemelli sentivano già nell'aria la vicinanza della terra natia. Andavano e andavano, con gioia, sui loro cavalli di lampi e di vento e la principessa, sulla sua giumenta azzurra, condivideva la loro gioia. II sole calava. Campi coltivati a fichi e olivi fiancheggiavano la s t r a d a che s t a v a n o p e r c o r r e n d o : e qui li attendeva u n a capra nera; attorno a essa brucavano dei capretti più lucidi della seta. Quando apparvero i viaggiatori, la capra si sistemò dietro alla pecora, e i suoi capretti, in fila indiana, la imitarono. E la cavalcata riprese lenta, lentissima. La principessa e i due fratelli avanzavano felici e 269
stanchi. Di tanto in tanto Mehend si voltava indietro per contemplare il suo bestiame. Era ancora giorno q u a n d o finalmente si presentò ai loro occhi il villaggio, ed essi vi fecero il loro ingresso seguiti da tutto il bestiame che faceva loro da scorta. Quando gli ultimi capretti ebbero varcato le porte del villaggio, era già notte. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
10. L O S V E G L I O E I L S E M P L I C I O T T O
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! Si narra che, nei tempi antichi, vivevano in un villaggio due vecchi (un u o m o e u n a donna), che avevano due figli ancora giovani, u n o lucido, sveglio, e l'altro tutto candore: era un sempliciotto. Ora, questi poveri vecchi n o n erano più in grado di lavorare la terra. Dissero un giorno ai figli: «Adesso sarete voi che lavorerete per noi. Andrete nei campi al nostro posto e seminerete piselli e fave». Un mattino, la m a d r e diede loro u n a focaccia di frumento, delle uova sode, delle olive, dei fichi e u n a bisaccia piena di piselli e fave che erano stati messi a bagno il giorno p r i m a per farli germogliare più in fretta. Il padre consegnò loro delle zappe e disse: «Sapete dove si trova il nostro campo?... Prima lo zapperete, poi lo concimerete e infine lo seminerete». I ragazzi si misero in cammino. Giocarono, giocar o n o p e r t u t t o il percorso, s g r a n o c c h i a n d o le fave (erano quasi tenere). Sgranocchiarono anche i piselli. Dopodiché si distesero al sole nel campo. Quando non rimase loro più n e m m e n o u n a fava né un pisello, mangiarono la focaccia, le uova, le olive e i fichi. 270
Prima di sera raccolsero dell'erba per il loro asino e un po' di legna secca. E fecero ritorno a casa tutti contenti con u n a bracciata di fieno e un'enorme fascina di legna. Q u a n d o f u r o n o di r i t o r n o , il p a d r e chiese loro: «Come avete fatto?». Essi risposero: «Abbiamo cominciato dalla parte alta del campo. Abbiamo tracciato dei solchi, e giorno per giorno scenderemo un po' alla volta verso il torrente». I ragazzi si recarono al c a m p o diverse mattine di seguito. Ma invece di zapparlo e seminarlo, giocavano e sgranocchiavano i piselli e le fave. Una sera il padre disse loro: «A questo punto dovreste avere finito. Fino a dove avete seminato?». Essi risposero: «Le fave? Ne abbiamo seminate fino al torrente. Il campo di fave arriverà di sicuro fino al torrente. Quanto a quello dei piselli, arriverà fino al ruscello!». Durante l'inverno, appena si faceva vedere il sole, il padre diceva ai due ragazzi: «Andate un po' a vedere se i nostri piselli e le nostre fave crescono. Strappate le erbacce, date un'occhiata a tutto e fate ritorno p r i m a del b u i o e del f r e d d o » . Lo sveglio e il sempliciotto passavano tutto il giorno giocando come preferivano, e al ritorno magnificavano: «Fave fino al torrente. Piselli fino al ruscello!». Andarono avanti così fino a primavera. L'ape si mise a ronzare, l'uccello a cantare: era arrivata la stagione delle fave. Il padre disse ai ragazzi: «Le n o s t r e fave devono essere m a t u r e . Andate al c a m p o a prenderne un po'». Essi vi andarono, ma per dire al ritorno: «Non sono ancora mature: il c a m p o è esposto all'ombra». Nel mese di maggio, tutte le fave della regione erano mature. Gli asini che le andavano a prendere tornavano stracarichi. «Le nostre sono sicuramente mature!» affermaro271
no di nuovo i due vecchi. «Domani andrete a raccoglierle.» Lo sveglio e il sempliciotto partirono all'alba col loro asino, portando un setaccio e due grandi ceste. Allora il sempliciotto chiese allo sveglio: «Che fare? Ti rendi conto che n o n abbiamo seminato le fave?». «Non ti inquietare» rispose lo sveglio. «Facciamo rotolare il nostro setaccio, dove si fermerà, ci metteremo a raccogliere fave a più non posso. È il periodo dell'abbondanza! » Lanciarono quindi il loro setaccio che cominciò a rotolare, rotolare. Essi lo seguirono e ben presto si trovarono in mezzo a un campo, un campo!... Mai, proprio mai avevano visto un simile ben di Dio! E r a n o delle belle fave maltesi: ogni baccello era lungo come un avambraccio. Attaccarono l'asino a un albero e si misero a sbucciarle. Ne sbucciarono, c o n t i n u a n d o a m a n g i a r n e , setacci su setacci, che versavano poi nelle ceste. Ora, questo c a m p o miracoloso era quello dell'orchessa Tseriel. Costei ritornò dalla caccia nel pomeriggio, trovò l'asino e lo divorò in un sol boccone, lasciando solo le orecchie che attaccò da u n a parte e dall'altra di un ramo. Di tanto in tanto, lo sveglio diceva al sempliciotto: «Va' a vedere se l'asino non si è slegato». E il sempliciotto rispondeva: «È s e m p r e allo stesso posto. Vedo m u o versi le sue orecchie». Andarono avanti tutto il giorno a sbucciare fave. Sbucciarono e mangiarono fino a che non si resero conto dell'ora. La notte li sorprese, ma le loro ceste erano piene. Quando si accinsero a caricarle sull'asino, scoprirono che di esso n o n r i m a n e v a n o che le orecchie! Si stavano chiedendo che cosa avrebbero dovuto fare q u a n d o sopraggiunse Tseriel. Essa disse loro con voce gioiosa: «Siate i benvenuti, figlioli, sia272
te i benvenuti! Restate qui questa notte, ripartirete al mattino». La sua casa era nei pressi, nascosta da grandi alberi. Tseriel li fece entrare e chiese loro: «Che cosa m a n g i a t e ? Cuscus di g r a n o o c u s c u s di cenere?». «Io» disse il sempliciotto «voglio del cuscus di grano.» L'orchessa replicò bruscamente: «Avrai del cuscus di cenere». Lo sveglio disse: «A me, madre-nonna, da' p u r e quello che ti piacerà. Fosse a n c h e cuscus di cenere, lo mangerò». «Tu, invece, avrai del cuscus di grano.» L'orchessa servì la cena e si accinsero tutti e tre a passare la notte. Fu in quella che lo sveglio, con la voce più dolce che gli veniva, disse a Tseriel: «Madrenonna, come fa a entrare in te il sonno? Da che cosa potrò riconoscere che tu starai dormendo, in m o d o da non destarti, visto che qualche volta di notte mi capita di alzarmi e parlare senza accorgermene?». Essa rispose: «Quando u d r a i l'asino ragliare nel mio ventre, i vitelli muggire, le capre e le pecore belare, q u a n d o u d r a i le m u c c h e muggire, le galline chiocciare e tutti gli animali che ho inghiottito nel corso della giornata emettere i loro gridi, allora sta' sicuro che io dormo». «Bene, madre-nonna!» disse lo sveglio che andò a letto e fece finta di dormire. In realtà spiava Tseriel. Aspettava che si mettessero a gridare tutti gli animali che essa aveva mangiato, per potersi salvare. Fu solo nel cuore della notte che udì l'asino ragliare, la pecora e la capra belare, la mucca muggire e le galline chiocciare. Pensò: "Sta dormendo". Prese u n a corda e le legò insieme i piedi. Suo fratello dormiva. Lo scosse e gli disse: «Alzati, alzati, sbrighiamoci intanto che dorme!». Ma il sempliciotto brontolò nel sonno: «Lasciami dormire!». Allora lo sveglio gli diede un pizzicotto per farlo 273
destare subito. Poi tirò il paletto, socchiuse la porta e scivolò per p r i m o fuori. «Non dimenticare di tirarti dietro la porta!» raccomandò al fratello. Il sempliciotto scardinò la porta e se la caricò sulla schiena. Attraversarono il cortile e si trovarono di fronte a u n a siepe di spine. Lo sveglio si aprì un varco e disse al fratello: «Adesso pensa alle spine!». Il sempliciotto depose la p o r t a p e r prendersi sulla schiena un cespuglio di spine. Era notte. Lo sveglio correva sempre dritto davanti a sé, senza voltarsi. Ma non cessava di dire al fratello: «Corri, corri!». Ma il sempliciotto non poteva correre altrettanto in fretta: soffiava e sbuffava. Un pietrone ostruiva il passaggio. Lo sveglio lo aggirò e gridò al fratello: «Bada alla pietra!». E il sempliciotto lasciò il cespuglio e prese la pietra. Lo sveglio correva, correva sempre. I n c o n t r ò un ulivo: «Bada all'ulivo!» gridò a n c o r a al fratello. Il sempliciotto, che avanzava a fatica sbuffando, si sep a r ò dalla pietra per sradicare l'ulivo e caricarselo sulle spalle. Lo sveglio correva s e m p r e . All'alba raggiunse il torrente, ma n o n osò passarlo senza il fratello. Lo attese e lo vide arrivare sorreggendo l'ulivo. «Perché, fratello mio, t r a s p o r t i q u e s t o ulivo?» «Sei tu che me lo hai detto.» «Io ti ho detto questo? Ti ho detto di prenderti sulle spalle quest'ulivo? Io ti ho gridato: "Bada alla pietra, b a d a all'albero...". Avanti, posa il tuo ulivo!» Il sempliciotto lo prese per m a n o e cercò il guado. Quando ebbero finito di attraversare il torrente faceva giorno. Poterono senza fatica ritrovare la strada del loro villaggio. C'era della gente che li stava cercando. Lo sveglio e 274
il sempliciotto scorsero da lontano il loro padre che si appoggiava a un bastone. Gli corsero incontro e gli confessarono di non avere mai seminato le fave né i piselli. Gli raccontarono tutte le loro avventure: «Siamo sfuggiti a Tseriel» disse il sempliciotto. «Eravamo nel suo campo, intenti a sbucciare delle grosse fave. Lei ha mangiato il nostro asino e ha attaccato le sue orecchie a un ramo. La notte ci ha sorpresi e Tseriel ci ha portati a casa sua.» Lo sveglio aggiunse: «Ho spiato il m o m e n t o in cui si sarebbero messi a gridare tutti gli animali divorati dall'orchessa nel corso della giornata. Ho udito contemporaneamente l'asino ragliare nel suo ventre, la capra e la pecora belare, la mucca e il vitello muggire, le galline chiocciare. Allora ho svegliato mio fratello e ci siamo salvati». Il padre disse loro: «Quello che è stato è stato: io n o n sarei mai riuscito a punirvi come Dio vi ha appena puniti. Andiamo presto a trovare vostra madre: non ha cessato di piangere tutta la notte». Quando le ebbero raccontato la loro avventura, la m a d r e gridò: «Che mi importa dell'asino, che mi importa delle fave, dal m o m e n t o che mi siete stati restituiti!». Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
11. M I A M A D R E M I H A S G O Z Z A T O , MIO PADRE MI HA MANGIATO, MIA SORELLA HA RADUNATO LE M I E OSSA
Si narra che un tempo, q u a n d o la carne era rara, così rara che se la sognavano, un u o m o disse un giorno alla moglie: «Domani a v r e m o degli invitati. Comprerò della carne al mercato perché tu possa farci un b u o n cuscus delle grandi occasioni». 275
Si recò quindi al mercato al m a t t i n o presto e ritornò tenendo tra le mani u n a filza di pezzi di carne, infilati come cipolle lungo lo stelo di un giunco. Era della bella carne di montone tenera e grassa. La moglie aveva già acceso il fuoco in cortile e preparato i grani del cuscus, dei grani così biondi che emanavano luce. Aveva sbucciato e lavato le verdure. Aveva messo la carne a macerare nell'olio di oliva con ogni sorta di aromi e spezie: la carne e le verdure riempivano u n a terrina. La donna versò il tutto nella pentola. Dopodiché mise a cuocere il cuscus a vapore e a n d ò t r a n q u i l l a m e n t e a sedersi sulla soglia dell'uscio; suo marito sarebbe stato fiero di lei, il pasto sarebbe stato pronto all'ora giusta e prometteva di essere eccellente. In un attimo, un gradevole p r o f u m i n o cominciò a diffondersi nel cortile. La d o n n a si alzò per controllare il sale. La carne era quasi cotta: ne prese un pezzetto e si allontanò. Ma l'odore la seguiva, il b u o n odore del sugo la avvolgeva e la richiamava irresistibilmente verso la pentola. La d o n n a attizzò il fuoco, aggiunse un ceppo, se ne andò fino all'otre di pelle di capra all'altro capo del cortile. Ma il vento le rigettava in viso il b u o n odore del sugo. Allora, tornò sui suoi passi, prese a girare, aggiunse ancora della legna e finì per sollevare il coperchio. Tirò f u o r i un pezzetto di carne, poi un altro. Un altro e ancora un altro... Mangiava così febbrilmente e in fretta che si scottò le dita e la lingua. E se almeno fosse stata soddisfatta la sua golosità! Ma si sarebbe detto che questa si faceva sempre più esigente a m a n o a m a n o che la donna tirava fuori un pezzo dopo l'altro. Decisa a m a n g i a r n e un u l t i m o pezzo, la d o n n a a f f o n d ò p e r l'ultima volta il cucchiaio nella pentola, ma non tirò fuori che verdure. Sconvolta, la donna lo introdusse a n c o r a più e più volte d i s p e r a t a m e n t e : la p e n t o l a 276
non conteneva più n e m m e n o un pezzo di carne! Allora la sventurata si sovvenne degli invitati che suo marito doveva condurle. Che cosa avrebbe presentato loro? Mentre si strappava i capelli in preda all'angoscia, il suo figlioletto Ali spinse la porta ed entrò. Aveva appena finito di correre nei campi e di bere alla sorgente. E r a r o s e o e t u t t o t r a f e l a t o . Essa lo sgozzò come un agnello e lo fece a pezzetti, che si affrettò a gettare nella pentola. Stava facendo sparire le ultime tracce del suo delitto quando rientrò la figlia maggiore, u n a ragazzina silenziosa e dolce. Zaina capì ma non disse motto, temendo probabilmente di fare la stessa fine. Si ritirò triste in un angolo. Poco dopo arrivò il padre, in compagnia dei suoi invitati. Il p a s t o era p r o n t o e il sugo m a n d a v a un odore invitante. Mangiarono tutti di b u o n appetito, a eccezione della fanciulla. Il marito si stupì di non vedere il piccolo, che amava come la pupilla dei suoi occhi. Ma la moglie rispose: «I miei genitori sentivano la sua mancanza. Sono venuti questa mattina a cercarlo col loro asino». Il m a r i t o si rimise a m a n g i a r e di b u o n a lena. Quando non rimase più un solo pezzo di carne né un granello di cuscus, l'uomo, soddisfatto, offrì ai suoi ospiti della frutta e del caffè. Dopodiché li riaccompagnò. E la moglie corse a riportare un setaccio che le era stato prestato da u n a vicina. Allora Zaina si accostò al grande piatto di legno che aveva contenuto il banchetto: adesso era vuoto. Solo degli ossicini bianchi e fragili giacevano sparpagliati sul fondo: era tutto quello che rimaneva di suo fratello. La fanciulla li raccolse con cura, li asciugò e li distese sul tetto. Quando f u r o n o ben secchi, li avvolse delicatamente in u n a tela fine e li nascose nel suo lettino. Appena i suoi genitori si allontanavano, la fanciul277
la prendeva la tela sulle ginocchia e piangeva, piangeva il suo piccolo compagno. Fece così ogni giorno. Ora, avvenne che, per effetto delle lacrime che tutti i giorni cadevano a dirotto su di loro, questi ossicini finirono per saldarsi gli uni agli altri. E u n a mattina, dalla tela scappò fuori un bell'uccellino che si posò sul tetto e cantò: Mia madre mi ha sgozzato, sgozzato... Mio padre mi ha mangiato, mangiato... Mia sorella ha radunato le mie ossa. La ragazzina riconobbe la voce del fratello e si mise a tremare. "Cosa farà mio padre quando lo udrà?" si disse. Infatti ogni giorno il padre chiedeva: «Dov'è il piccolo?». E la moglie rispondeva, sempre più imbarazzata: «È dai miei genitori, tornerà presto». Giunse il m o m e n t o in cui la d o n n a non potè più c o n t i n u a r e a rispondere: "È dai miei genitori, tornerà presto". Perché il marito si stava insospettendo. Dovette finire per dirgli, il giorno in cui si sentì messa alle strette: «Non so cosa ne sia di lui. Mia m a d r e mi pa detto che è scomparso». La moglie aveva appena portato un grande piatto di cuscus con carne e legumi, perché era giorno di mercato. «È stato un giorno come questo, e alla stessa ora, che per la prima volta mi sono inquietato per il piccolo» disse l'uomo con voce cupa. In quel m o m e n t o l'uccellino si posò sul tetto e si mise a cantare: Mia madre mi ha sgozzato, sgozzato... Mio padre mi ha mangiato, mangiato... Mia sorella ha radunato le mie ossa. Il padre comprese tutto. Si alzò, terribile, e avanzò 278
verso la moglie. Ma allora l'uccellino cantò di nuovo, con la voce dolce del fanciullo: Guardati bene dall'ucciderla, ucciderla... Perché mia sorella piangerebbe, piangerebbe... E sarebbe orfana. L'uccello n o n tornò più sul tetto. La madre fu perd o n a t a . La fanciulla smise di t r e m a r e . Ma l ' u o m o perse per sempre il gusto di vivere.
12. L A Q U E R C I A D E L L ' O R C O
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! Si racconta che nei tempi antichi vi era un povero vecchio che si ostinava a vivere e ad a t t e n d e r e la m o r t e tutto solo nella sua casupola. Abitava fuori del villaggio. E non entrava né usciva mai perché era paralizzato. Gli avevano trascinato il letto vicino alla porta, e questa porta aveva un paletto che si tirava con un cordino. Ora, questo vecchio aveva u n a nipotina, poco più di u n a bimbetta, che tutti i giorni gli portava il pranzo e la cena. Aisha veniva dalla parte opposta del villaggio, m a n d a t a dai suoi genitori che n o n p o t e v a n o p r e n d e r s i c u r a di p e r s o n a del vecchietto. La fanciulla, recando u n a focaccia e un piatto di cuscus, cantilenava appena arrivata: «Aprimi la porta, padre mio Inubba, padre mio Inubba!». E il nonno rispondeva: «Fa' r i s u o n a r e i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!» . La fanciulla faceva tintinnare u n o contro l'altro i suoi braccialetti ed egli tirava il cordino. Aisha entrava, scopava la casetta, rifaceva il letto. Poi serviva 279
al vecchio il suo pasto, gli versava da bere. Dopo essersi l u n g a m e n t e intrattenuta accanto a lui, faceva ritorno a casa, lasciandolo tranquillo e sul p u n t o di addormentarsi. Ogni giorno la ragazzina raccontava ai genitori come si era presa cura del n o n n o e che cosa gli aveva detto per distrarlo. Il n o n n o era molto contento q u a n d o la vedeva arrivare. Ma un giorno, l'orco scorse la fanciulla. La seguì di n a s c o s t o f i n o alla c a s u p o l a e l'udì c a n t i l e n a r e : «Aprimi l a p o r t a , p a d r e m i o I n u b b a , p a d r e m i o Inubba!». Udì il vecchio rispondere: «Fa' risuonare i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!». L'orco disse fra sé: "Ho capito. Tornerò d o m a n i e ripeterò le parole della ragazzina; lui mi aprirà e io lo mangerò!". L'indomani, poco p r i m a che arrivasse la fanciulla, l'orco si presentò davanti alla casupola e disse con la s u a voce p r o f o n d a : «Aprimi la p o r t a , p a d r e m i o Inubba, padre mio Inubba!». «Mettiti in salvo, maledetto!» gli rispose il vecchio. «Credi che n o n ti riconosca?» L'orco tornò a diverse riprese, ma ogni volta il vecchio indovinava chi fosse. Alla fine l'orco se ne andò a trovare lo stregone. «Ecco,» gli disse «c'è un vecchio immobilizzato che abita fuori del villaggio. Non vuole aprirmi perché la mia voce profonda mi tradisce. Indicami il m o d o di avere u n a voce fine e chiara come quella della sua nipotina.» Lo s t r e g o n e rispose: «Va', cospargiti la gola di miele e stenditi a terra al sole, con la bocca spalancata. Vi entreranno delle formiche e ti raschieranno la gola. Ma un giorno non basterà per farti schiarire e affinare la voce!». L'orco fece quello che gli aveva r a c c o m a n d a t o lo stregone: c o m p r ò del miele, se ne riempì la gola e 280
a n d ò a s t e n d e r s i al sole, c o n la b o c c a a p e r t a . Un esercito di formiche entrò nella sua gola. In capo a due giorni l'orco si recò alla casupola e cantò: «Aprimi la porta, padre mio Inubba, padre mio Inubba!». Ma il vecchio lo riconobbe ancora. «Allontanati, maledetto!» gli gridò. «Lo so bene chi sei!» L'orco se ne tornò a casa. M a n g i ò a n c o r a e a n c o r a il miele. Si distese p e r lunghe ore al sole. Lasciò andare e venire per la sua gola legioni di formiche. Il quarto giorno, la sua voce era fine e chiara come quella della fanciulla. L'orco se ne andò allora dal vecchio e cantilenò davanti alla sua casupola: «Aprimi la porta, padre mio Inubba, p a d r e mio Inubba!». «Fa' risuonare i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!» rispose il nonno. L'orco si era m u n i t o di u n a catenella: la fece tintinnare. La porta si aprì. L'orco entrò e divorò il povero vecchio. Dopodiché indossò i suoi abiti, prese il suo posto e attese la fanciulla per divorare anche lei. Essa venne. Ma, appena giunta davanti alla casupola, notò che del sangue colava sotto la porta. Pensò: "Che cosa sarà successo a mio nonno?". Sprangò la p o r t a dall'esterno e cantilenò: «Aprimi la porta, padre mio Inubba, padre mio Inubba!». L'orco rispose con la sua voce fine e chiara: «Fa' risuonare i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!». La fanciulla, che n o n r i c o n o b b e in q u e s t a voce quella del n o n n o , posò sul sentiero la focaccia e il piatto di cuscus che aveva portato, e corse al villaggio a dare l'allarme ai suoi genitori. «L'orco ha m a n g i a t o il n o n n o » a n n u n c i ò loro piangendo. «Gli ho sprangato la porta. E adesso che faremo?» Il padre fece annunciare la notizia sulla pubblica piazza. Allora ogni famiglia offrì u n a fascina e da ogni parte accorsero degli uomini per portare queste 281
fascine fino alla casupola e appiccarvi il fuoco. Invano l'orco cercò di fuggire. Fece forza con tutto il suo peso sulla porta che resistette. Fu così che bruciò. L'anno seguente, nello stesso luogo in cui l'orco fu bruciato spuntò u n a quercia. La chiamarono la "quercia dell'orco". Da allora, la si mostra ai passanti. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
13.I
SETTE ORCHI
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'erano u n a volta, in u n a lontana contrada, un uomo e u n a donna che avevano un bambino. E r a n o già vecchi quando Dio fece loro dono di questo unico figlio. Lo chiamarono Mehend e vissero con gli occhi sempre su di lui. Dio regnava nei cieli e il b a m b i n o sulla t e r r a : a p p e n a M e h e n d l a m e n t a v a il m i n i m o male i suoi genitori ne erano atterriti perché trepidavano all'idea di vederlo sparire. Tutto ciò che al mondo vi era di bello e di b u o n o , glielo davano, se ne avevano la possibilità. Lo n u t r i v a n o meglio di un principino e vegliavano gelosamente su di lui. Non permettevano che gli andassero vicino persone malvagie. Non sopportavano di vederlo toccare u n a spina. Lo videro così crescere al riparo dal male, dalle brutture e dai pericoli, ma con u n a grande passione per la caccia. Adolescente, prese ad andare a suo piacimento di c a m p o in c a m p o e di bosco in bosco col fucile a tracolla. Un giorno incontrò u n a creatura così bella da indurre chi la vedeva a benedire Dio per il fatto di averla creata. Era bianca e rosea, luminosa, e i suoi capelli folti e lunghi la coprivano d'oro fino alla vita. 282
Egli ne rimase abbagliato e pensò: "È come se vedessi la luce per la p r i m a volta. La mia vita e la mia anima sono in lei!". La prese per m a n o e la condusse dai suoi genitori, incurante del fatto che lei fosse u n a sconosciuta di passaggio. Egli dichiarò loro: «Voglio sposare lei o morirò». Il padre rispose: «Figlio mio, io ti ho dato tutto, ti ho accordato tutto fino a oggi. Mi sei più caro del m o n d o e della vita e caro quanto il firmamento, ma questa ragazza io n o n l'accoglierò. Scegliti u n a fidanzata tra le fanciulle del villaggio e posa la m a n o su di lei. Non farò caso né al denaro né ad altro. Ma lasciarti sposare u n a v a g a b o n d a i n c o n t r a t a p e r la strada, e di cui n o n sappiamo nulla, non posso tollerarlo: l'onore ce lo vieta, figlio mio, e il nostro n o m e è grande!». Mehend prese per m a n o la fanciulla e si allontanò con lei senza dir motto. Quando ebbero fatto qualche passo, le disse: «Siamo u n a cosa sola, tu e io». Infatti egli credeva di essere riamato dalla fanciulla. Non sapeva che essa lo aveva stregato. Percorsero un lungo tratto di strada e si addentrar o n o in piena campagna. Raggiunsero l'eremo, circondato da praterie, in cui abitava un Vecchio Saggio, amico del giovane. L'amico diede il benvenuto ai visitatori e servì loro un b u o n pasto. Li invitò a trattenersi presso di lui per tutto il tempo che avessero voluto, ed e b b e così p i e n a m e n t e agio, lui che e r a perspicace, di studiare la ragazza. La osservò a lungo, con attenzione, e si stupì di n o n subire il suo fascino. Alla fine pensò: "È bella fuori ma brutta dentro". E si ripromise di avvertire di ciò quanto p r i m a il suo giovane amico. Approfittò di u n a m a t t i n a in cui si trovava solo con lui nel giardino, per dirgli: «Prima che sia trop283
po tardi, separati da questa ragazza. Non p u ò renderti felice perché n o n reca in cuore il bene. Come osi sacrificare a lei i tuoi genitori, i tuoi vecchi genitori che h a n n o atteso così a lungo la tua nascita e ti h a n n o visto venire alla luce solo dopo aver veduto le stelle a mezzodì! La terra è piena di donne!». Ma M e h e n d rispose: «Non esistono più d o n n e al m o n d o p e r chi ha visto questa!». «Che tu possa non avertene mai a pentire!» gli disse a n c o r a il Saggio. Dopo essersi ben riposati, Mehend e colei che egli amava più della luce lasciarono u n a mattina l'eremo e proseguirono il loro cammino. Andarono dritti davanti a loro, vivendo di elemosine. Attraversarono fiumi, valicarono alture. C a m m i n a r o n o , c a m m i n a rono fino a essere spossati e fecero il loro ingresso in u n a c o n t r a d a che non era abitata da anima viva. La ragazza dichiarò: «Sono molto stanca!». Proprio allora scorsero in lontananza un filo di fumo. Mehend tese il braccio in quella direzione e disse alla compagna: «Dev'esserci u n a casa laggiù. Dirigiamoci là e trascorriamoci la notte». Procedettero a fatica verso la casa, che era protetta da u n a siepe di spine. Mehend chiamò: sulla soglia si fece vedere un u o m o grandissimo. Egli fece entrare i due viaggiatori. E fu allora che Mehend e la sua a m a t a scoprirono altri sei uomini identici al primo, in d i s p a r t e nella p e n o m b r a . La bella r a g a z z a venne condotta a riposarsi in u n a stanza. E il maggiore dei fratelli disse al giovane: «Tu e io ci misureremo nella lotta». Mehend, che era agile e robusto, stordì il suo avversario con u n a testata. Ma un altro si alzò e disse: «Eccomi!»- A sua volta esso fu abbattuto, e u n o dopo l'altro lo f u r o n o tutti. I sette fratelli giacevano in disordine e Mehend li 284
guardava chiedendosi che cosa gli convenisse fare di loro, q u a n d o scorse u n a botola. Ne afferrò l'anello e tirò: apparve u n a buca profonda. Vi discese e all'improvviso, dalla quantità di ossa u m a n e che ricoprivano il pavimento, capì di trovarsi nella casa dei sette orchi. Pensò: "Mamma mia, m a m m a mia! Prima che loro uccidano me, bisogna che io uccida loro!". E finì i sette orchi. Dopodiché gettò i loro corpi nella buca. L'indomani, fin dal p r i m o m a t t i n o , M e h e n d esplorò la casa e la trovò ricolma di u n a profusione di ricchezze. Fece u n a passeggiata nel giardino, adibito per metà a frutteto e per metà a orto: la foresta era lì vicino, e la selvaggina era abbondante. Il giovane si sentì al colmo della felicità. Si recò dalla sua bella compagna e le disse: «Quanta felicità ci attende! Ho ucciso i sette orchi. Tutte le loro ricchezze ci a p p a r t e n g o n o : a b b i a m o cavalli, m u c c h e , c a p r e e pollame. Orsù, oggi è il giorno delle nostre nozze!». Per un certo tempo vissero felici e contenti. Ma un giorno che Mehend era andato a caccia di buon'ora, la sua sposa udì come un debole gemito. Tese l'orecchio: il suono veniva dalla botola. Tirò l'anello: u n o dei sette orchi era ancora vivo! Era ferito. La giovane donna lo curò e lo nutrì. Gli tenne compagnia e n o n richiuse su di lui la botola se n o n verso sera, all'ora in cui il marito era solito fare ritorno. M e h e n d r i t o r n a v a t u t t o c o n t e n t o dalla caccia. Portava con sé molta selvaggina. Ma trovò la compagna a letto in preda alla febbre. Si mise a sedere acc a n t o a lei e le disse con tenerezza: «Che cos'hai? Questa mattina quando ti ho lasciata non scoppiavi di salute come u n a melagrana, e non eri tutta sorridente?». Essa rispose: «Se tu mi ami, se ci tieni a vedermi 285
guarita, procurami la mela fatata che dà l'eterna giovinezza». Il giovane non riuscì ad addormentarsi tanto era inquieto. Si recò di buon'ora dal Vecchio Saggio, suo amico, che lo accolse con queste parole: «Non ti avevo detto che da questa donna dal cuore nero non ti poteva venire alcun bene? Come puoi essere ancora abbagliato dal suo viso? Non sai che essa mira a toglierti la vita?». «Se sei mio amico,» rispose Mehend «indicami dove posso p r o c u r a r m i la mela fatata.» «Nel giardino di Tseriel» acconsentì a dire il Vecchio Saggio. «Ma per non farti divorare dall'orchessa, dovrai s o r p r e n d e r l a m e n t r e sta m a c i n a n d o il grano: avrà i seni gettati indietro sulle spalle. Tu buttati su di lei, afferra uno dei suoi seni e succhialo come farebbe un neonato. Essa ti dirà con rabbia: "Ah, se tu n o n avessi bevuto del mio latte, ti avrei divorato e avrei divorato fin la terra che hai calpestato! Ma dal m o m e n t o che hai bevuto del mio latte, che cosa posso fare per te?". Allora tu le chiederai di lasciarti cogliere la mela fatata. Va', e che Dio venga in aiuto di colui che per u n a donna ha perso la ragione!» Mehend si allontanò. Camminò a lungo prima di scoprire il giardino di Tseriel. E r a l'ora più calda; l'orchessa, nuda fino alla cintola, con gli occhi chiusi, i seni gettati indietro sulle spalle, era intenta a macinare del grano, cantando delle lugubri lamentazioni. Il giovane fece un balzo e chiuse la bocca intorno a u n o dei suoi seni. Essa gridò: «Sventurato! Se tu non avessi bevuto del mio latte, ti avrei divorato e avrei divorato fin la terra che hai calpestato! Ma dal m o m e n t o che lo hai fatto, che cosa posso fare per te?». «Madre-nonna,» rispose Mehend «mi hanno detto che tu avevi nel tuo giardino delle mele fatate, delle mele che conferiscono, ai fortunati che le assaggiano, un'eterna giovinezza.» 286
L'orchessa condusse il giovane verso un bell'albero carico di frutti. Mehend colse tante mele quante ne potè contenere il suo paniere e riprese la via di casa. Appena udì il suo passo, la moglie richiuse la botola sull'orco e corse a buttarsi sul letto. Il giovane sposo le si avvicinò con estrema delicatezza e le consegnò le mele fatate. Essa ne mangiò e sembrò tornare in vita, il che rassicurò Mehend. Essa ritrovò la sua allegria e convinse lo sposo a ritornare a caccia già il giorno successivo. E cercò ogni scusa per mandarcelo anche parecchi giorni successivi. Appena lui si era allontanato, la sposa dal viso luminoso saltava giù dal letto e si precipitava verso la botola. Liberava l'orco e trascorreva tutta la giornata in sua compagnia, dal m o m e n t o che l'orco tornava nel suo nascondiglio solo al tramonto. Quest'ultimo, però, u n a volta guarita la sua ferita, si stancò b e n p r e s t o di questa vita e divenne più esigente. Così, u n a mattina disse alla giovane donna: «Ne ho abbastanza di stare sempre sul chi vive. Dobbiamo assolutamente m a n d a r e tuo marito in un luogo da cui gli sia impossibile fare ritorno. Domani, n o n esitare a dirgli: "Voglio che tu mi dia da bere l'acqua dei più alti ghiacciai. L'acqua per la quale si s c o n t r a n o le m o n t a g n e " . Il suo a m o r e p e r te lo sconvolge a tal p u n t o che lo indurrà a salire verso le alture più inaccessibili dove le aquile lo divoreranno». Un'altra volta il giovane trovò la sposa che tremava e batteva i denti. Si r a b b u i ò : «Che cos'hai?» le chiese, atterrito. «Non ti ho portato la mela fatata, la mela dell'eterna giovinezza? E sì che ti ho lasciata gioiosa e in b u o n a salute quando sono partito per la caccia.» Essa rispose con un sospiro: «Se mi ami, se ci tieni a vedermi sorridere e camminare, d a m m i da bere l'acqua per la quale si scontrano le montagne». 287
Mehend ritornò presso il suo vecchio amico e gli disse con aria avvilita: «Ecco che mi chiede l'acqua per la quale si scontrano le montagne!». Il Saggio lo fissò a lungo p r i m a di rispondere: «Credimi, te lo giuro per questa b a r b a tutta bianca e per questo Dio che ci ha creati, questa donna ce l'ha con la tua anima. Finirà per strappartela. Ma dal m o m e n t o che tu vuoi morire, ecco: prendi u n a giovenca, la più bella che troverai, e sgozzala sulla montagna. Le aquile scenderanno dal cielo per pascersene e la più vecchia ti verrà in aiuto. Va' e che Dio ti renda la ragione!». Il giovane si mise in cerca della giovenca più grassa. La condusse sui monti e la sgozzò. Nascosto diet r o un albero, attese le aquile. B e n p r e s t o le vide scendere e le g u a r d ò m a n g i a r e . Esse m a n g i a r o n o , mangiarono a più non posso. Allora quando f u r o n o tutte sazie, il padre delle aquile parlò: «Se conoscessi colui che ci ha fornito un così bel banchetto, farei tutto quello che mi chiederebbe». Mehend si fece vedere e disse: «Sono stato io. Vorrei che tu mi portassi sul più alto ghiacciaio e mi permettessi di prendere con me un po' di quest'acqua meravigliosa per cui si scontrano le montagne». Il padre delle aquile lo prese sotto la sua ala e lo sollevò fino al Settimo Monte, di tutti il più maestoso e il più vicino al cielo. Attese che il giovane avesse riempito il suo otre e poi lo riportò dove lo aveva trovato, ai piedi dell'albero. Mehend fece ritorno a casa in tutta fretta. Al calare della notte la moglie udì il suo passo. Dopo aver riso e scherzato con l'orco per tutto il giorno, essa ebbe app e n a il tempo di gettarsi sul letto: "E io che speravo tanto di non rivederlo mai più!" disse fra sé, delusa. Bevve l'acqua per la quale si scontrano le montagne e cessò di tremare. La febbre sembrò abbandonarla, 288
con gran gioia di Mehend, che potè credere che la pace e la felicità fossero tornate per sempre. Ma u n a mattina che il giovane marito era tornato a cacciare, l'orco disse alla s u a bella c o m p a g n a : «Ascolta, tu e io a b b i a m o atteso troppo. Questa volta m a n d e r e m o Mehend tra le fauci del leone. Quando tuo marito ritornerà questa sera, fìngi di essere malata da morire e digli: "La mia ultima ora è arrivata. Nulla sarebbe in grado di salvarmi a parte, forse, un po' di latte di leonessa contenuto in un otre di pelle di leoncino legato con due peli sottratti ai baffi di un leone"». L'orco e la giovane donna si sentirono felici e senza problemi per tutto il giorno, tanto erano sicuri di sbarazzarsi presto di Mehend. Se ne stettero a lungo in giardino a oziare al sole, e rientrarono solo all'ora del p a s t o p e r c o n s u m a r e i n s i e m e u n a focaccia d i f r u m e n t o così bionda che emanava luce e bere u n a terrina di latte. Dopodiché la giovane donna preparò il pasto della sera. L'orco m a n d ò giù di furia la cena e, dirigendosi verso la botola, disse alla sua compagna: «Questa volta, se farai le cose a m o d o e seguirai le mie raccomandazioni, nulla più si f r a p p o r r à tra noi due. È duro, credimi, dormire tutte le notti solo in questa buca u m i d a e nera come u n a tomba!». La giovane donna attese che l'orco fosse scomparso per spogliarsi e andare a letto. Il marito non tardò a rientrare. Appena lo udì, essa si mise a gemere e a piangere. Egli impallidì e disse: «Che hai, Dio mio, ma che cos'hai? Quale sorte si accanisce contro di noi? E sì che non abbiamo distrutto un santuario! E i miei genitori mi a m a n o troppo per perseguitarmi con le loro maledizioni per il fatto che ti ho sposata contro la loro volontà». Tra le lacrime, essa rispose: «Sarebbe meglio che ti rassegnassi a vedermi morire, questa volta. Sento 289
che solo un po' di latte di leonessa, contenuto in un otre fatto di pelle di leoncino e legato con due peli strappati dai baffi di un leone sarebbe, forse, in grado di rianimarmi!». Mehend sentì la gioia abbandonarlo per sempre. Si alzò all'alba, m o n t ò a cavallo e corse verso il suo amico fedele: «Ecco che adesso per vivere essa pretende del latte di leonessa contenuto in un otre fatto di pelle di leoncino e legato con due peli strappati dai baffi di un leone!» disse con a n i m o oppresso. «Non capisci, sventurato, che essa vuole p e r tre volte la tua morte, e che a volerla sono in due? Fino a dove g i u n g e r à il t u o a c c e c a m e n t o ? Credimi, c'è qualcuno che la ispira e la guida!» Ma il giovane lo i n t e r r u p p e con queste parole: «Voglio farle vedere per l'ultima volta di che cosa sono capace e fino a che p u n t o giunge il mio amore; obbedire un'ultima volta al suo capriccio». Il Saggio n o n insistette. «Dal m o m e n t o che sei contento di m o r i r e per lei, scegli u n a bella capra e conducila nella foresta. Legala a un albero. Ben presto la sentirai belare e vedrai accorrere il leone e la leonessa. Allora tu approfitta del m o m e n t o in cui sar a n n o intenti a sbranarla per introdurti nella loro tana e rapire loro due leoncini...» La capra che Mehend portò con sé nella foresta si mise a belare a più non posso. Le belve la udirono e si fecero avanti ruggendo. Il giovane attese di vederle attaccare la loro preda prima di lanciarsi verso la tana: vi si trovavano due adorabili leoncini. Ne nascose u n o nel c a p p u c c i o del burnus, m e n t r e l'altro lo uccise e lo scuoiò. Le belve n o n lasciarono nulla della povera capra e ritornarono soddisfatte alla loro tana. Il leone, satollo, si distese c o m o d a m e n t e e si addormentò. Ma la leonessa, da b u o n a madre, si mise a cercare i suoi fi290
gli. Non trovandoli, li chiamò e si mise a ruggire in m o d o lamentoso. Quand'ebbe pianto e chiamato invano, il giovane si fece vedere tenendo in m a n o un otre di pelle di capra: «Uno dei tuoi piccoli è in mano mia» le disse. «Chiedimi tutto quello che vorrai» rispose la leonessa «ma restituiscimi il mio piccolo.» «Per p r i m a cosa, f a m m i prendere un po' del tuo latte in questo otre, e inoltre approfitta del fatto che il tuo signore, il leone, d o r m e per strappargli due peli dai baffi e darli a me.» La leonessa obbedì. Si lasciò docilmente mungere. Dopodiché si avvicinò con la massima circospezione al leone per strappare due peli ai suoi nobili baffi. Allora il giovane scoprì il leoncino che teneva nascosto nel cappuccio del burnus e lo diede alla madre. Mehend si allontanò rapidamente. Si fermò solo il tempo necessario a travasare il latte nell'otre di pelle di leoncino e a legare questo otre con i peli del leone. Tuttavia, invece di ritornare direttamente a casa sua, il giovanotto fece sosta dal suo amico. Il Saggio, che lo sentiva cupo e disorientato, si offrì di accompagnarlo. Cavalcarono in silenzio fianco a fianco, nel crepuscolo, e arrivarono che era già buio. La casa era là, dietro u n a siepe di aloe. Mehend e il suo amico att a c c a r o n o i cavalli a un albero e a t t r a v e r s a r o n o il giardino senza far rumore. La luce filtrava attraverso le fessure della porta. Si avvicinarono e guardarono, u n o dopo l'altro, dal buco della serratura. Fu allora che videro! Videro l'orco e la giovane d o n n a seduti u n o di fronte all'altra, alle due estremità di un e n o r m e piatto di cuscus, annaffiato di sugo scarlatto e guarnito di ali e cosce di pollo. Intorno a essi ardevano numerose lanterne. La giovane donna dal cuore nero si era agghindata per questa festa: aveva indossato il ricco abito delle sue nozze. La sua fronte 291
minuta scintillava come u n o specchio e i suoi capelli sciolti la coprivano d'oro fino alla vita. L'orco semb r a v a o c c u p a r e t u t t o lo spazio. La sua testa m o struosa sfiorava le travi del soffitto e la sua contentezza era enorme. Le sue risate squassavano i muri: l'orco e la sua bella c o m p a g n a celebravano la sera delle loro nozze. Tra u n a risata e l'altra si dicevano: «Finalmente, grazie al leone, ci s i a m o liberati di M e h e n d ; o che f o r t u n a , il leone ci ha liberati di Mehend! ». L'orco e la giovane donna n o n cessavano di ridere e di scherzare in mezzo alle lanterne accese! Stavano già per dirsi un'ennesima volta, tra u n a risata e l'altra: «Mehend, lo a b b i a m o a f f i d a t o alle fauci di un leone», quando la porta si aprì bruscamente. Un colpo di sciabola troncò la testa all'orco e la fece volare in pezzi. Allora, t e n e n d o s i sulla soglia, M e h e n d guardò la giovane donna e le disse con voce terribile: «Per te ho a b b a n d o n a t o padre e madre; per te mi sono esposto parecchie volte a morte certa, e tu mi hai preferito un orco! Che Dio ti tradisca come tu hai tradito me, p e r c h é n o n meriti di m o r i r e p e r m a n o mia». E, lasciando la giovane d o n n a in c o m p a g n i a dell'otre di latte e del cadavere dell'orco, Mehend riprese con il suo amico il sentiero della foresta. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
14. S T O R I A D E L B A U L E
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! C'era u n a volta un re - benché n o n vi sia altro re all'infuori di Dio - e questo re aveva un figlio, teneramente amato, che gli disse: «O re, mio padre, lascia292
mi a n d a r e al mercato a vedere i tuoi sudditi». «Fai come vuoi» gli rispose il re. Il principe se ne a n d ò dunque al mercato e disse a tutti gli uomini: «Voi n o n venderete né comprerete, non comprerete né venderete finché non avrete capito questi indovinelli. Il primo: "Qual è l'essere che al mattino c a m m i n a su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre?". Il secondo: "Qual è l'albero che ha dodici rami, su ognuno dei quali vi sono trenta foglie?"». Nessuno seppe rispondere. Tutti gli uomini rimasero muti. Il mercato si dissolse. Passò u n a settimana. Il g i o r n o del m e r c a t o si rivide il figlio del re. Questi chiese: «Avete trovato u n a risposta ai miei indovinelli?». E anche questa volta tutti tacquero e si dispersero. Chi doveva comprare non comprò. E chi doveva vendere non vendette. Il mercato si dissolse. Ora, tra gli u o m i n i così r a d u n a t i si trovava il sorvegliante del m e r c a t o . E r a assai povero e aveva d u e figlie: u n a bellissima e l'altra, la più giovane, mingherlina ma piena di spirito. La sera, q u a n d o suo p a d r e fece ritorno, quest'ultima gli disse: «Padre mio, con questo sono due mercati che parti e torni a mani vuote. Perché?». «Figlia mia,» rispose il sorvegliante «è venuto il figlio del re e ha proclamato: "Voi n o n venderete né comprerete, non comprerete né venderete finché n o n avrete capito il senso di quello che sto per dire".» «E che cosa vi ha chiesto di indovinare il principe?» riprese la fanciulla. «Ci ha chiesto qual è l'essere che al mattino camm i n a su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre; qual è l'albero che ha dodici r a m i , su ognuno dei quali vi sono trenta foglie.» La fanciulla rifletté un po' p r i m a di rispondere: «È facile, padre mio: l'essere che al m a t t i n o c a m m i n a su q u a t t r o 293
zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre è l'uomo. Al mattino della sua vita c a m m i n a carponi sulle m a n i e sui piedi; quand'è più grande c a m m i n a sui d u e piedi. Da vecchio, si a p p o g g i a a un b a s t o n e . Quanto all'albero, è l'anno: l'anno ha dodici mesi e in ogni mese vi sono trenta giorni». Passò u n a settimana. Il giorno del mercato si rivide il figlio del re. Questi chiese: «E oggi avete indovinato?». Parlò il sorvegliante. Disse: «Sì, signore. L'essere che al mattino c a m m i n a su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre è l'uomo. Al m a t t i n o della sua vita c a m m i n a carponi sulle mani e sui piedi; q u a n d ' è più grande c a m m i n a sui d u e piedi; da vecchio, si appoggia a un bastone. Quanto all'albero, è l'anno: l'anno ha dodici mesi e in ogni mese vi sono trenta giorni». «Aprite pure il mercato!» c o m a n d ò il figlio del re. Quando venne la sera, il principe si accostò al sorvegliante e gli disse: «Voglio entrare in casa tua». Il sorvegliante rispose: «Va bene, signore». E si avviarono a piedi. Il principe a f f e r m ò : «Ho fuggito il paradiso di Dio. Ho rifiutato ciò che voleva Dio. La strada è lunga; portami o io porterò te. Parla o parlerò io». Il sorvegliante rimase in silenzio. Incontrarono un torrente. Il figlio del re disse: «Fammi attraversare il torrente o te lo farò attraversare io». Il sorvegliante, che non capiva nulla, n o n rispose. Giunsero in vista della casa. Aprì loro la figlia minore del sorvegliante (quella che era mingherlina ma piena di intuito). Essa disse loro: «Siate i benvenuti. Mia m a d r e è andata a vedere un essere che n o n aveva m a i visto. I miei fratelli colpiscono l'acqua con l'acqua. Mia sorella si trova tra un m u r o e l'altro». Il figlio del re entrò. Vedendo la figlia più bella del 294
sorvegliante disse: «Il piatto è bello ma ha un'incrinatura». La notte trovò tutta la famiglia riunita. Venne ucciso un pollo e si fece un cuscus delle grandi occasioni. Q u a n d o il pasto fu pronto, il principe disse: «Farò io la divisione del pollo». Diede la testa al padre, le ali alle fanciulle, le cosce ai due maschi, il petto alla madre. E per sé tenne le zampe. Tutti mangiarono e si apprestarono a passare la notte. Il figlio del re si rivolse allora alla ragazza piena di spirito e le disse: «Avendomi tu detto: "Mia madre è a n d a t a a vedere un essere che non aveva mai visto" vuol dire che è u n a levatrice. Avendomi tu detto: "I miei fratelli colpiscono l'acqua con l'acqua", significa che essi stavano innaffiando i giardini. E quanto a tua sorella, "tra un m u r o e l'altro", essa tesseva la lana, avendo dietro di sé un m u r o e davanti a sé un altro muro: il telaio». La fanciulla rispose: « Q u a n d o vi siete messi in viaggio, tu hai detto a mio padre :"Ho fuggito il paradiso di Dio". È la pioggia che, per la terra, è il paradiso di Dio: temevi dunque di bagnarti? E poi hai detto: "Ho rifiutato ciò che voleva Dio". È la morte che rifiutavi? Dio vuole che noi m o r i a m o , ma noi n o n vogliamo. Alla fine hai detto a m i o padre: "La strada è lunga; portami o io porterò te. Parla o parlerò io", perché la strada ti sembrasse più corta. Come q u a n d o tu gli hai detto, allorché vi siete trovati davanti il torrente: "Fammi attraversare il torrente o te lo farò attraversare io". Volevi dire: "Indicami il guado o lo cercherò io". Quando sei entrato in casa nostra, hai guardato mia sorella e hai detto: "Il piatto è bello ma ha un'incrinatura". Mia sorella è effett i v a m e n t e bella, è virtuosa, ma è figlia di un p o v e r u o m o . E poi hai diviso il pollo. A mio p a d r e hai dato il capo: lui è il capo della casa. A mia m a d r e 295
hai dato il petto: essa è il cuore della casa. A noi figlie hai dato le ali: noi non resteremo qui, prenderemo il volo. Ai miei fratelli hai dato le cosce: essi sono il sostegno, i pilastri della casa. E tu, per te hai preso le z a m p e p e r c h é tu sei l'invitato: sono i tuoi piedi che ti h a n n o portato fin qui, sono loro che ti riporter a n n o a casa». L'indomani il principe andò a trovare il re suo padre e gli comunicò: «Voglio sposare la figlia del sorvegliante del mercato». Il re si indignò: «Come potresti tu, figlio di re, sposare la figlia di un sorvegliante? Sarebbe un'onta. Diventeremmo la favola dei paesi vicini!». «Se non sposo lei» disse il principe «non mi sposerò mai.» Il re, che non aveva altri figli, finì per cedere: «Se l'ami, figlio mio, sposala!». Il principe offrì alla fidanzata oro, argento, ricche stoffe di seta e ogni sorta di meraviglie. Ma le disse a n c h e , con aria grave: «Ricordati b e n e questo: il giorno in cui la tua sapienza supererà la mia, quel giorno ci separeremo». Essa rispose: «Farò sempre quello che vorrai». Comunque sia, p r i m a del giorno delle nozze fece chiamare il falegname e gli ordinò un baule delle dimensioni di un uomo, col coperchio m u n i t o di piccoli fori. A questo baule essa rivestì l'interno di raso; vi sistemò quindi il proprio corredo e lo portò con sé in casa dello sposo. Le nozze diedero luogo a festeggiamenti che durarono sette giorni e sette notti. Il re imbandì un enorme banchetto. Per molti anni il principe e la principessa vissero felici a palazzo. E q u a n d o il re morì, suo figlio gli succedette. Un giorno in cui il giovane re amministrava la giustizia, si presentarono a lui due donne con un bam296
bino che era conteso tra le due. Una diceva: «È mio figlio!» e l'altra, a sua volta: «È mio figlio!». Si misero a gridare, a prendersi per i capelli. Il re era perplesso. La regina, incuriosita, chiese informazioni a un servo. Costui le disse: «Ci sono due donne con un bambino che tutte e due rivendicano. Ciascuna aveva un bambino. Uno di questi piccoli è morto, e il re non riesce a scoprire qual è la madre del bimbo ancora vivo». La regina rifletté un istante. Dopodiché rispose: «Che il re dica semplicemente alle due donne: "Farò dividere in due il b a m b i n o e ciascuna di voi ne avrà u n a metà". Allora u d r à la vera madre gridare: "Signore, non ucciderlo, in n o m e di Dio!"». Il servo corse a indicare al re l'astuzia che avrebbe fatto trionfare la verità. Il re si volse al ministro e disse: «Porta u n a lama, in modo che possiamo dividere in due il bambino». «No, signore!» gridò u n a delle donne. «Così morirà!» Allora il re consegnò a lei il b a m b i n o e disse: «Sei tu s u a m a d r e , dal m o m e n t o che n o n hai voluto la sua morte». Poi il re andò a trovare la regina e le disse: «Ti ricordi quello che avevamo c o n v e n u t o il giorno del nostro matrimonio?... Ti avevo detto: "Il giorno in cui la t u a s a p i e n z a si rivelerà s u p e r i o r e alla mia, quel giorno ci separeremo"». Essa rispose: «Me ne ricordo. Ma accordami ancora u n a grazia: pranziamo insieme per un'ultima volta, dopodiché partirò». Egli glielo concesse e aggiunse: «Scegli quello che più ti piace nel palazzo e portalo via con te». Essa preparò personalmente il pasto. Senza che il re se ne accorgesse, gli s o m m i n i s t r ò un narcotico. Egli mangiò. Bevve. E all'improvviso si addormentò. Essa lo sollevò e lo distese nel baule che chiuse poi con cura. Quindi chiamò i domestici e annunciò loro 297
che sarebbe a n d a t a in vacanza presso la sua famiglia. Raccomandò loro di trasportare con delicatezza il baule. E lasciò il palazzo senza perdere di vista il baule che la seguiva. Una volta che fu a casa dei suoi genitori, la giovane regina aprì il baule. Prese d e l i c a t a m e n t e tra le braccia il suo sposo e lo distese sul letto. Seduta al suo capezzale, attese pazientemente il suo risveglio. Fu solo verso sera che il re aprì gli occhi. Chiese: «Dove sono? E chi mi ha portato qui?». Essa rispose: «Sono stata io». Ed egli disse ancora: «Perché?... Come sono arrivato qui?». Sorridendo essa rispose: «Ricordati. Tu mi hai detto: "Guardati intorno, scegli quello che più ti piace nel palazzo e portalo via con te". Ora, nel tuo palazzo nulla mi è più caro di te. Ti ho preso, e ti ho portato via con me in un baule». Il re e la regina si compresero. Fecero r i t o r n o a palazzo, dove vissero felici fino alla morte. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
15. 0 B U - I E D M I M , F I G L I O M I O !
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'era u n a volta, in un villaggio, un u o m o che possedeva u n a pernice, u n a pernice che ai suoi occhi era più cara di qualunque cosa al mondo. Più cara di sua moglie e di sua figlia. Lui solo le si avvicinava, lui solo le dava da bere e da mangiare. Aveva detto e ripetuto a quanti gli stavano intorno che se la pernice gli fosse scappata sarebbe successo un disastro. Quest'uomo era terribile. Nessuno era tentato di disobbedirgli, tranne la sua figlioletta, Reskia, che da molto tempo desiderava vedere la pernice. 298
Una mattina, essa disse alla madre: «Te ne prego, lasciamela solo intravedere, solo intravedere!». E insistette tanto che la gabbia venne aperta e l'uccello volò via. «Non ci resta che andarcene,» disse la madre, «perché se tuo padre ci trovasse qui ci ucciderebbe!» La m a d r e r i e m p ì un p a n i e r e di provviste, prese per m a n o la figlia e uscì. C a m m i n a r o n o fino a sera. La povera d o n n a era prossima a mettere al m o n d o un figlio: si sentiva stanchissima, e altrettanto la sua figlioletta. La notte le sorprese nel cuore della foresta. Dove a v r e b b e r o p o t u t o t r o v a r e un rifugio?... Scorsero u n a palma da dattero così alta da toccare la terra e il cielo. Si arrampicarono lungo il tronco e si nascosero tra i suoi rami. A notte fonda, gli animali selvatici si r a d u n a r o n o e si a m m a s s a r o n o ai piedi dell'albero: «Sento odore di umani!» annunciò il leone. P r o p r i o in quell'istante la r a g a z z i n a bisbigliò: «Mamma, mi scappa la pipì». «Trattienila!» supplicò la madre. «Non ce la faccio!» rispose la bimba. Allora la m a d r e le porse le orecchie u n a dopo l'altra, mugugnando: «Falla qui, tu che sei causa della mia rovina!». Una goccia finì per cadere sui baffi del leone. Egli ruggì: «Un essere u m a n o deve essersi nascosto sui rami più alti della palma, ma chi salirà per scoprirlo?». «Io, signore!» dichiarò la formica. Essa si arrampicò e morse la m a d r e a u n a gamba. Ma la formica ne morì, perché venne schiacciata. Gli altri animali attesero invano il suo ritorno. Allora il serpente disse: «Alla f o r m i c a è successo qualcosa. Tocca a me salire». Strisciò lungo l'albero e m o r s e la povera d o n n a che cadde pesantemente. Gli animali stavano per gettarsi su di lei e farla a 299
pezzi q u a n d o il leone diede ordine di allontanarsi. Allora, volgendosi a lui, la coniglia gli rivolse questa richiesta: «Signore, io n o n p r e t e n d e r ò nulla della madre. Se sei d'accordo, ti chiederò solo il b a m b i n o che essa porta in seno. Prendilo delicatamente, non fargli alcun male. E dallo a me». Il leone aprì con delicatezza il ventre della madre, ne trasse dolcemente il figlio e lo consegnò alla coniglia. Gli animali si divisero la povera donna. Ben presto, di lei non rimasero che poche ossa e dei brandelli di vestito nei quali la coniglia avvolse il neonato. Sul far del giorno, gli animali si dispersero e la coniglia rimase sola. Allora volse lo sguardo verso l'albero e disse alla bimba: «Scendi, scendi adesso, tu che non hai più madre, tu che sei la causa della sua morte!». Reskia scese. La coniglia r a d u n ò le ossa sparpagliate, scelse l'osso più grosso e lo depose vicino a sé. Le altre le spezzò, servendosi di u n a pietra, p e r estrarne il midollo. Riempì di midollo l'osso che aveva posato vicino a sé e lo porse alla bimba. Le affidò q u i n d i il fratello. Glielo mise in b r a c c i o e disse: «Ascolta, ascoltami bene, Reskia, e segui tutte le mie prescrizioni. Tua m a d r e è morta, ma ecco tuo fratello Ali. Portalo con te: è tuo. Lungo il c a m m i n o che dovrai percorrere, di tappa in tappa, nutrilo con un po' di midollo ed esclama: "O gioia, mio fratello balbetta, mio fratello sorride!" e lo sentirai balbettare e lo vedrai sorridere... "O gioia, mio fratello sta in piedi sulle sue gambette!" e lo vedrai reggersi in piedi. "O gioia, mio fratello mette un piede davanti all'altro!" e lo vedrai fare un passo. "O gioia, mio fratello è un ometto: p o t r e b b e fare il pastorello!" e f a r à le corse intorno a te. "O gioia, mio fratello è un adolescente!" e lo vedrai accanto a te come un giovane arbusto. "O gioia, mio fratello è un uomo!" e lo scopri300
rai dietro a te. Hai capito bene?... Va' e che Dio sia con te». Reskia strinse forte a sé il fratello e si allontanò piangendo. Piangendo avanzava attraverso gli alberi. Le apparve u n a radura; la fanciulla si fermò, mise un po' di midollo t r a le l a b b r a del piccino ed esclamò: «O gioia, mio fratello balbetta, mio fratello sorride!». E lo vide sorridere e lo sentì balbettare. Allora cessò di piangere e si rimise in cammino. Attraversò la foresta, tutta la foresta. Quando ne uscì, appoggiò il piccino a un rialzo del terreno e disse: «O gioia, mio fratello sta in piedi!». E si meravigliò di vederlo stare dritto sulle sue gambette. Allora gli diede da mangiare ancora un po' di midollo e proseguì il viaggio. Seguiva la direzione dell'ombra e si sentiva più coraggiosa p e r c h é si era lasciata alle spalle la f o r e s t a e non doveva più temere gli animali selvatici. Accettò di riposarsi solo al tramonto, alle porte di un villaggio. Mise un po' di midollo sulle labbra del b i m b o ed esclamò: «O gioia, mio fratello m e t t e un piede davanti all'altro!». E lo vide m u o v e r e il suo p r i m o passo. Allora lo sollevò in b r a c c i o ed e n t r ò nel villaggio. E r a così stanca che si fermò davanti alla p r i m a casa per chiedere ospitalità. Le offrirono un b u o n pasto e le prep a r a r o n o un letto. Al levar del sole, ripartì s e m p r e nella stessa direzione. Accanto a un ruscello, depose il fanciullo ed esclamò: «O gioia, mio fratello cammina!». E lo vide c a m m i n a r e lungo il corso d'acqua. Gli diede a n c o r a un po' di midollo e p r o s e g u i r o n o il viaggio. L'ora della calura li sorprese sotto gli ulivi. Reskia mangiò dei fichi e un pezzo di focaccia. Poi mise un po' di midollo sulle labbra di Ali ed esclamò: 301
«O gioia, mio fratello è un ometto, potrebbe fare il pastorello!». E lo vide correre intorno agli alberi. Lo chiamò. Si distesero all'ombra e si a d d o r m e n t a r o n o . Un vento fresco li ridestò. Ripartirono e c a m m i n a r o n o a lungo, p e r monti e pianure. Fecero u n a breve sosta in un c a m p o di fichi; in esso zampillava u n a sorgente; vi si avvicinarono per bere nel cavo delle mani. E Reskia disse: «0 gioia, mio fratello è un adolescente!». E improvvisamente lo vide davanti a sé come un giovane arbusto. Gli diede ancora un po' di midollo e ripartirono tenendosi per mano. Andarono, andarono, in direzione di un villaggio che scorgevano in lontananza. Vi giunsero e Reskia offrì al fratello ciò che le restava del midollo, e s c l a m a n d o : «O gioia, mio fratello è un uomo, mio fratello è un uomo!». Reskia e il fratello e n t r a r o n o nel villaggio al tramonto. Notarono u n a vecchina che veniva avanti a p o c h i passi da loro. La r a g g i u n s e r o e le dissero: «Madre, dacci un riparo, in n o m e di Dio!». Essa aprì loro la sua casa, diede loro da mangiare del cuscus, del latte e della frutta, e preparò loro due letti. D o r m i r o n o p r o f o n d a m e n t e . Il giovanotto si svegliò p e r p r i m o . Andò dalla vecchia e le disse: «Mia sorella e io v o r r e m m o vivere in questo paese. Dove potrei trovare u n a casetta e del lavoro?». La vecchia gli rispose: «Io sono anziana, stanca, sola al m o n d o e mi annoio. Rimanete con me, tu e tua sorella. Essa baderà alla casa m e n t r e tu ti occuperai del bestiame e coltiverai i campi». Essi si stabilirono quindi presso di lei e vissero felici e contenti insieme alla vecchia. Ma quest'ultima dopo un certo t e m p o morì e la loro felicità ebbe termine, sebbene essa avesse lasciato loro tutto quello che possedeva: la sua casa, i suoi oliveti e i campi di fichi, la sua porzione di foresta e il suo bestiame. 302
Una sera, Reskia affrontò decisamente il fratello e gli disse: «Ali, fratello mio, voglio che tu prenda moglie!». Egli rispose: «Sorella mia, n o n siamo felici noi due? Perché f a r entrare u n ' e s t r a n e a che ci potrebbe dividere?». Ma la sorella riprese: «C'è qualcuno che p u ò separarci?... Rassicurati: nulla al m o n d o ci potrà dividere. Già da domani mi metterò in cerca per trovarti u n a fidanzata tra le fanciulle più a m m o do del villaggio». Il matrimonio fu fatto. E Zahua, la giovane sposa, detestò sua cognata e divenne gelosa di lei. Reskia aveva un ascendente sul fratello, che non avrebbe intrapreso nulla senza chiederle consiglio e la circondava di mille attenzioni. Zahua non potè sopportarlo. Un giorno di primavera, l'odio a c c u m u l a t o nel suo cuore n o n potè più essere contenuto. E r a u n a mattina. La giovane sposa e la fanciulla si trovavano nei campi; nell'attraversare un prato, ciascuna di loro scoprì, celate nell'erba, delle uova. Quelle che aveva trovato Reskia erano uova di quaglia. Ma Zahua aveva messo le mani su uova di serpente... Tornarono a casa. L'indomani, Z a h u a fece m a n g i a r e alla c o g n a t a queste uova di serpente: esse si schiusero nelle viscere della povera fanciulla, che nel volgere di p o c h i giorni vide il p r o p r i o ventre gonfiarsi e il colorito scurirsi mentre il viso si copriva di macchie. Mentre da parte sua Reskia n o n aveva alcun sospetto, u n a sera Zahua tirò a sé in un angolo il suo sposo e gli bisbigliò: «Hai osservato t u a sorella? L'hai g u a r d a t a bene?... Guarda il suo ventre che di giorno in giorno si fa sempre più grosso. Non avrà qualcosa da rimproverarsi?...». «Non ti vergogni?» replicò il fratello. «Come osi parlarmi così di colei che ti ha data a me, di colei che mi ha allevato? Non devo a lei se ora sono un uomo?» «Va bene» proseguì la giovane donna. 303
«Se n o n vuoi c r e d e r m i , d o m a n i di' a t u a sorella: "Sento un p r u r i t o alla testa, g u a r d a un po' se c'è qualcosa". Appoggerai la testa sulle sue ginocchia, come se fossi un bambino, e ascolterai con attenzione . E allora sentirai...» Poco t e m p o dopo, Ali vide sua sorella s e d u t a in cortile al sole. Le si avvicinò, si allungò ai suoi piedi e sprofondò la testa nell'incavo delle ginocchia. Essa, con la m a s s i m a naturalezza, si mise ad accarezzargli i capelli. Egli r i m a s e così, immobile, f i n o a quando udì la vita fremere in lei. Dopodiché si alzò. Attese la n o t t e p e r ritrovare s u a moglie e dirle: «Hai detto la verità!». «Fa' di lei quello che vuoi» rispose Zahua. «Non possiamo tenerla con noi: ci coprirebbe di onta. Ci disonorerebbe agli occhi dei vicini e non o s e r e m m o più rivolgerci ad anima viva in questo villaggio.» Alì d o r m ì m a l e quella notte. Si ridestò all'alba. Prese u n a c o r d a e se ne a n d ò a trovare la sorella: «Vieni con me» le disse. «Dobbiamo andare a tagliare della legna, n o n ne abbiamo più». Partirono e raggiunsero la foresta. Qui si trovava u n a buca profonda: il giovane vi condusse la sorella e ve la precipitò senza dir motto. Essa chiamò e pianse, in un p r i m o m o m e n t o invano. Ma si diede il caso che passasse di lì un cavaliere di ritorno da un mercato nelle vicinanze. Egli la udì piangere. Scese da cavallo e si mise a cercare da dove provenissero quei lamenti. Si guardò intorno da ogni parte e finì per scoprire la buca, al cui interno scorse la p o v e r i n a che piangeva. Allora, si sfilò la lunga cintura di lana e gliela lanciò, gridandole: «Attaccatela bene ai fianchi!». E si mise a tirare Reskia fuori della buca, a forza di braccia. Non appena l'ebbe vicino a sé, le chiese spiegazioni ed essa parlò. Disse: «Mio fratello all'al304
ba mi ha detto: "Andiamo a tagliare della legna, non ne abbiamo più". Mi ha portata fin qui ed ecco che cosa mi ha fatto! Io l'ho allevato. Gli ho trovato u n a moglie. Sua moglie mi ha detestata dal primo istante, ma lui mi ha a m a t a e rispettata fino a oggi. Tutto è cambiato per me da quel mattino di primavera in cui m i a cognata e io a b b i a m o scoperto delle uova nel prato... Il mio ventre si va gonfiando ogni giorno di più, e il mio colorito si guasta. Ed ecco che il mio a m a t o fratello mi getta in questa b u c a nel cuore della foresta e mi ci abbandona!». Il cavaliere la osservò, la osservò a lungo in silenzio. Poi la fece salire davanti sul suo cavallo e la portò via con sé. Le aprì la sua casa e, appena si fu riposata per bene, le disse: «Tu e io, se vuoi, ci recheremo dal Vecchio Saggio. Lui, ne sono sicuro, ci rivelerà la verità». Al Vecchio Saggio bastò un'occhiata alla fanciulla per annunciare: «Quello che questa povera piccola ha nel ventre sono dei serpenti. Qualcuno deve averle fatto mangiare delle uova di serpente». «E che cosa posso fare per liberarla?» d o m a n d ò il cavaliere. «Dalle da mangiare a forza u n a gran quantità di carne ai ferri che avrai salato e s a g e r a t a m e n t e , e n o n darle da bere, p e r c h é t u t t a la c a r n e è d e s t i n a t a ai serpenti. Se sarà molto salata, avranno u n a gran sete. Quando questa fanciulla avrà mangiato a sazietà, a p p e n d i l a p e r i piedi a testa in giù, c o n la b o c c a aperta al di sopra di un bacile pieno d'acqua che dovrai rimestare con un bastone, in m o d o che, udendo il r u m o r e dell'acqua, i serpenti accorrano e cadano u n o dietro l'altro.» Il cavaliere riportò a casa Reskia e le diede tanta carne alla griglia q u a n t a ne potè mangiare. Poi l'appese al soffitto, proprio al di sopra di un i m m e n s o piatto di legno pieno d'acqua. E si mise a rimestare 305
quest'acqua facendo un gran rumore. Uno dopo l'altro, sette serpenti vi caddero dentro. Il cavaliere continuò ad agitare l'acqua. Ma, non vedendo comparire altri serpenti, si fermò. Slegò la fanciulla e la fece stendere su un letto. Mentre si accingeva a uccidere i serpenti e a gettarli via, essa lo supplicò: «Schiaccia loro solamente la testa, ma n o n gettarli via!». Egli fece s e c o n d o i suoi desideri. Allora essa li prese, li salò, li espose al sole, e q u a n d o f u r o n o completamente secchi li rinchiuse in un otre. Poco t e m p o dopo, la bellezza di Reskia tornò a sbocciare in tutto il suo fulgore. Il suo colorito ridivenne chiaro e la sua bocca, color della melagrana, riprese a ridere. Ritrovò i suoi occhi lucenti e i suoi capelli di seta, i suoi occhi che nessuno poteva a m m i r a r e senza restarne ammaliato e la massa dei suoi capelli che le arrivavano fino alla vita. Il cavaliere l'amava. La sposò. Era ricco; possedeva numerosi campi coltivati a ulivi e a fichi, boschi, vigneti, diverse case e un giardino, un giardino di montagna in cui crescevano fiori di ogni sorta e in cui cantavano, sugli alberi da frutta, uccelli di ogni specie. In questo giardino Reskia amava passeggiare per lunghe ore. Quanto a lui, al suo sposo, la circondava di tenerezze, la colmava di doni per farle dimenticare le sue antiche tristezze. Era sempre teso a soddisfare ogni suo minimo desiderio, felice se la vedeva allegra, infelice se la vedeva cupa. Ma essa, tra tante ricchezze, e malgrado un tale amore, non dimenticava suo fratello, giacché accanto a lui aveva lasciato il suo cuore. Reskia rimase incinta. Mise al m o n d o un maschietto e lo chiamò Bu-Iedmim, che vuol dire "biancospino". Ma la nostalgia che aveva del fratello invece di diminuire aumentava. E il tempo trascorse. Il b i m b o aveva ora sette anni. Una mattina la madre gli disse: «Ascolta, Bu-Iedmim, q u a n d o t u o pa306
dre rientrerà a casa stasera, di ritorno dal mercato, n o n dimenticarti di metterti a piangere davanti a lui dicendo: "Tutti i bambini del m o n d o h a n n o degli zii e li vanno a trovare, tranne me. Voglio che mi portiate da mio zio Alì"». Il padre, rientrando, trovò il figlio in lacrime. Ora, egli lo amava con u n a tenerezza infinita. Questo b a m b i n o era la sua vita. Gli domandò: «Bu-Iedmim, figlio mio, che hai? Non sarai mica malato?». «Voglio a n d a r e da mio zio.» «Piccino mio,» riprese il padre «tu non hai zii. Tua m a d r e l'ho trovata nel bosco.» Ma il bimbo proseguì: «Io ho il mio zio Alì, lasciami andare a trovarlo insieme alla m a m m a » . A sua volta, la m a d r e prese la parola. Disse: «Sono otto anni che non so più nulla di mio fratello, lasciaci partire e Dio te ne renderà merito». Il padre la guardò e non disse u n a parola. Reskia si alzò all'alba. Si vestì p o v e r a m e n t e , si gettò sulle spalle l'otre con i serpenti, prese il figlio con u n a m a n o e un cestino di provviste con l'altra e uscì senza far r u m o r e . Era estate. La m a d r e e il figlio partirono a piedi come due mendicanti. Cammin a r o n o p e r d u e giorni, senza a r r e s t a r s i se n o n di tanto in tanto sotto degli alberi o sulla riva di un ruscello per mangiare, bere e riposarsi. Il villaggio dello zio era vicinissimo, q u a n d o la m a d r e disse al b a m b i n o : «Siamo p r o p r i o stanchi. B u s s e r e m o alla p r i m a casa che i n c o n t r e r e m o e c h i e d e r e m o che ci p e r m e t t a n o di passarvi la notte. Tu, però, a p p e n a avremo mangiato e ci accingeremo a passare la notte, n o n dimenticarti di dirmi: "Mamma, prima di add o r m e n t a r m i voglio u n a storia". Piangi e supplicami fino a che non te ne avrò raccontata una. Hai capito bene?». Reskia spiò il fratello. Lo vide tornare dai campi al calare della sera e dirigersi verso casa. Essa lo seguì 307
e gli disse: «Dacci asilo per questa notte, nel n o m e di Dio!». Egli li fece entrare tutti e due, lei e suo figlio. Mentre tutti si preparavano per la notte, Bu-Iedm i m si mise a fare i capricci: «Ma sì, raccontagli u n a storia» consigliò il fratello. «Il piccolo si addormenterà, mentre noi ci distrarremo.» E Reskia cominciò la sua storia: «C'era u n a volta u n u o m o che possedeva u n a pernice, u n a p e r n i c e che lui amava più di qualunque altra cosa al mondo; più di sua moglie e di sua figlia. Aveva detto e ripetuto a quanti gli stavano intorno che se la pernice fosse scappata sarebbe successa u n a sciagura. La pernice scappò. E la m a d r e e la figlioletta fuggirono per il terrore. C a m m i n a r o n o , c a m m i n a r o n o a lungo. La notte le sorprese nel cuore della foresta. La povera donna era prossima a dare alla luce un figlio: era assai stanca. Gli animali selvatici si r a d u n a r o n o e se la spartirono. Ma il leone risparmiò il bimbo che essa portava in grembo e lo diede alla coniglia. Anche la fanciulla si salvò. La coniglia le affidò il neonato dopo molte r a c c o m a n d a z i o n i : era un maschietto. La sorella lo strinse a sé piangendo. Lo portò in braccio per giorni e giorni. Lo allevò, lo nutrì con il midollo che la coniglia aveva estratto dalle ossa della m a d r e stessa, e ne fece un uomo. Una sera, all'ingresso di un villaggio sconosciuto, fratello e sorella incontrarono u n a vecchia. Le dissero: "Madre, dacci un riparo, in n o m e di Dio!". E s s a li accolse, li a m ò e li a d o t t ò . E r a sola al m o n d o : m o r e n d o lasciò t u t t i i suoi beni ai due orfani. Il fratello e la sorella vivevano uniti e felici. Ma la sorella volle per il fratello u n a felicità ancora più perfetta. Gli trovò u n a sposa, e la giovane moglie riuscì a dividere coloro che e r a n o più uniti delle dita di u n a mano. Detestò a tal punto la c o g n a t a che u n a m a t t i n a di p r i m a v e r a le fece m a n g i a r e uova di serpente. Esse si schiusero nelle 308
viscere della sventurata che non aveva alcun sospetto. Allora, la giovane sposa disse al fratello: "Hai osservato tua sorella? È incinta... Se vuoi convincertene, appoggia la guancia sul suo ventre e sentirai il fremito della vita". Quelli che lui sentì fremere erano i serpenti, ma credette ben altro... E fu così che egli portò con sé la sorella nei boschi, la fece precipitare in fondo a u n a buca e la abbandonò senza dir motto. Essa pianse. Pianse e si mise a chiamare. Dapprima invano. Ma poi si trovò a passare di lì un cavaliere che t o r n a v a da un m e r c a t o vicino: era Dio che lo mandava. Liberò la fanciulla. La portò con sé nella sua dimora. La curò e la sposò». A m a n o a m a n o che Reskia parlava, vedeva farsi sempre più pallida la cognata e sempre più pallido il fratello, mentre la terra si schiudeva sotto di loro per inghiottirli. Tirò r a p i d a m e n t e f u o r i dall'otre i serpenti disseccati e, mostrandoli al figlio, fece udire questa lamentazione: O Bu-Iedmim, figlio mio, Cosa mi ha fatto tuo zio Alì! Mi ha condotta nei boschi E mi ha abbandonata!...
Alì e la nevano fuori solo le loro teste quando Reskia balzò verso il fratello. Lo afferrò per i capelli, lo tirò fuori, mentre lasciò che la cognata sparisse e la terra si richiudesse su di lei. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
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16. S T O R I A D E L V E C C H I O L E O N E E D E L L O S T O R M O DI P E R N I C I
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! Ai tempi in cui gli animali parlavano, un leone già anziano si riscaldava al sole sul fianco di u n a collina, quando capitò di lì uno sciacallo che disse al re degli animali: «Padrone, vuoi ritrovare l'agilità della tua gioventù?». «Confesso che la cosa non mi dispiacerebbe» rispose il leone. «Allora, abbi un attimo di pazienza. Sarò ben presto di ritorno.» E lo sciacallo partì alla ricerca di u n a bella pelle di mucca, e non tardò a scoprirla. Immerse questa pelle nell'acqua e la tagliò in quattro parti uguali. Cominciò quindi a fabbricare per il vecchio leone dei mocassini che aderissero strettamente alle sue zampe. Lo sciacallo imprigionò ogni zampa del leone in un pezzo di pelle, imbevuto per bene d'acqua, che aveva b a d a t o a cucire s t r e t t a m e n t e e ad allacciare con delle stringhe di cuoio. Poi gli disse: «Rimani al sole quanto più a lungo ti sarà possibile. E non ti dimenticare di cambiare ogni tanto la posizione delle zampe, in m o d o che i tuoi mocassini si secchino per bene. Quando saranno secchi, alzati. Correrai come n o n hai mai corso fino a oggi, e ti sentirai le ali ai piedi. Non saprai più come dimostrarmi la tua gratitudine». Il leone era ingenuo. Espose coscienziosamente le zampe al sole, b a d a n d o bene di cambiare ogni tanto la loro posizione. Ora il sole era a picco. In tal modo la pelle n o n ci mise molto a ritirarsi diventando più dura del legno. Dapprima il leone provò un po' di fastidio, poi un dolore, t a n t o più vivo q u a n t o più le stringhe di cuoio gli penetravano nelle carni. Cercò invano di liberarsi. In u n o sforzo s u p r e m o tentò di 310
sollevarsi e rotolò nel precipizio: se non morì fu un vero miracolo Incapace di muoversi e più dolorante che se fosse stato bastonato di santa ragione, impotente e inerme come un agnello, il vecchio leone umiliato gemeva, maledicendo, dal f o n d o del precipizio, lo sciacallo che lo aveva tradito. Quand'ecco che u n o stormo di pernici passò p e r caso sopra la s u a testa, f a c e n d o frullare r u m o r o s a m e n t e le belle ali. «Che hai, nostro re, ti è capitata u n a sventura?» chiesero le pernici dall'alto del cielo. E il leone raccontò loro la sua triste avventura. «Se ci prometti solennemente di n o n mangiarci» ripresero quelle «ti libereremo.» «Lo giuro» rispose il leone. Allora le pernici si posarono con grazia intorno a lui per confortarlo. Poi trotterellarono fino alla fonte lì vicino per raccogliere nel becco l'acqua necessaria ad ammorbidire i lacci di cuoio. Ma il loro becco ne conteneva così p o c a che dovettero fare t a n t i s s i m i viaggi, cosa di cui esse non si lamentarono, tutt'altro, tanto le addolorava la sorte del loro sventurato capo. Alla fine i lacci si ammorbidirono. Le pernici poterono allora scioglierli senza troppa difficoltà e sfilare i mocassini che torturavano il loro re. E b b e r o anche la buona idea di bagnare le zampe del leone, il che alleviò il suo dolore e gli c o n s e n t ì di alzarsi. Quando lo videro in piedi, ancora maestoso a dispetto dell'età e del cattivo trattamento che aveva appena subito, le pernici si sentirono largamente ricompensate della pena che si erano date. «Che Dio vi benedica e vi dia il prestigio e la maestà del leone, voi che a ragione venite chiamate "le belle del paese"!» disse il leone con la s u a voce profonda. 311
Le pernici presero il volo. E da allora, il loro frullo imita il ruggito del leone. Poco tempo dopo, arriva lo sciacallo, impaziente di impadronirsi della preda che, questa volta, era regale. Scorge il leone nella scarpata. Scende verso di lui e dice: «Come ti senti, o re degli animali? A giudicare da quello che vedo, le tue gambe ti h a n n o portato davvero l o n t a n o . Devi p r o p r i o avere ritrovato l'agilità della tua giovinezza!». Il leone si g u a r d ò b e n e dal r i s p o n d e r e , e fece il morto. Lo sciacallo gli si avvicinò fino a sfiorarlo. Allora il leone allungò la sua zampa possente e afferrò lo sciacallo per la coda. Ma il f u r b o animale si dib a t t é così b e n e che riuscì a scappare, lasciando la coda nella zampa del leone. «Sarò facilmente in grado di riconoscerti, p o i c h é tengo la t u a c o d a nella mia zampa!» gli disse con calma il leone. Lo sciacallo corse come un fulmine a r a d u n a r e un centinaio di suoi simili e annunciò loro gioiosamente: «Conosco un fico coperto di frutti maturi al punto giusto, fichi grossi come zucche. Chi vuole rimpinzarsene mi segua!». Gli sciacalli, allettati, corsero più veloci di lui e salirono sull'albero di fichi. Mentre essi si arrampicavano da un r a m o all'altro, lui, con u n a corda, legava le loro code all'albero. Q u a n d o ebbe fissato tutte e cento le code, si allontanò e si mise a gridare come un ossesso: «Si salvi chi può! Il proprietario dell'albero è qui!». Gli sciacalli cercarono di fuggire. Presi dal panico, tirarono con tutte le loro forze e finirono per scappare lasciando la loro coda attaccata all'albero. Fu così che il leone si vide improvvisamente circondato da u n a moltitudine di sciacalli senza coda. Ci voleva u n a bella abilità per riconoscere, in questo caso, il suo nemico! Il leone, i m b a r a z z a t o , a n d ò a 312
trovare il Vecchio Saggio e gli raccontò il tiro birbone che gli era stato giocato dallo sciacallo. «Non ti disperare» gli disse il Vecchio Saggio «perché a b b i a m o già in pugno il t u o nemico. Procurati un animale bello grasso, uccidilo e abbandonalo in un c a m p o in cui gli sciacalli siano soliti passare. Nasconditi e osserva: li vedrai accorrere u n o dopo l'altro per mangiarselo. Uno solo di loro si avvicinerà c o n u n a certa i n q u i e t u d i n e , c o m e s e fiutasse u n a trappola. Mi raccomando, non lo mancare, perché è lui che ha voluto la tua morte!» Il leone ringraziò il Vecchio Saggio e si mise immediatamente in cerca della giovenca più grassa. La uccise. La fece a pezzi e l'abbandonò ai piedi di un ulivo. Nascosto dietro a un grosso albero, si mise ad a t t e n d e r e . Uno, due, tre sciacalli si avvicinarono all'animale con tutta naturalezza. All'improvviso, ne notò u n o che si faceva avanti con grande circospezione, guardava a destra e a sinistra, come se temesse di essere preso. Il leone fece un balzo e con la sua zampa possente afferrò l'avversario. «Finalmente ti tengo!» gli disse. E ne fece un sol boccone. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
17. S T O R I A D I M O S H E D E L L E S E T T E F A N C I U L L E
E Dio gli disse: «Poiché non sei stanco di perseguitare gli uomini sarai a tua volta perseguitato dalla tua coda» Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! Si narra che nei tempi antichi vi erano sette fan313
ciulle graziose come pernici: tra loro vi era poca differenza di età. La maggiore aveva quindici anni. La più giovane, Aisha, ne aveva solo sette. Aisha amava starsene vicino al fuoco, così vicino che aveva sempre i capelli impolverati di cenere e le sue sorelle la soprannominavano: Aisha-Cenerella. Queste piccine, ahimè, non avevano più la m a m ma. Il padre, in un p r i m o momento, cercò di prendersi cura di loro, ma era maldestro e il compito era pesante. Si risposò. Come tutte le matrigne, a n c h e questa matrigna non tardò a detestare le orfanelle e a esigere che il padre se ne sbarazzasse. E sì che le più grandicelle aiutavano già nei lavori dei campi, c o n d u c e v a n o le greggi al pascolo, raccoglievano il fieno, coglievano le v e r d u r e e i f r u t t i negli orti di montagna, riempivano alla fonte lontana gli otri di pelle di capra e portavano anche dalla foresta carichi di legna secca. Le più piccole zampettavano per casa e cercavano di rendersi utili. Le poverine speravano così di d i s a r m a r e la malevolenza della m a t r i g n a , giacché avevano ben presente il proverbio: È sempre troppo grosso il pezzo di focaccia che sta in mano all'orfano. Solo Aisha rimaneva accanto al focolare e si accontentava di spingere nel fuoco i noccioli di olive sparpagliati intorno a lei. Se ne stava là come un oggetto grazioso, con le manine intrecciate e i piedini ripiegati sotto di sé. Guardava le f i a m m e senza stancarsi. E ascoltava il vento. La cenere si posava come u n a polvere argentea sul suo viso e sul suo vestito. Nessuno si stupiva di vederla silenziosa e dolce, immobile per ore. La matrigna e il padre, ritenendola troppo piccola per capire, non se ne preoccupavano e parlavano davanti a lei in tutta libertà. Aisha non si allontanava se non malvolentieri dal fuoco, come se temesse di perdersi qualche grave rivelazione. Giac314
ché Aisha-Cenerella era perspicace, e n o n perdeva u n a parola degli aspri rimproveri che la matrigna riversava un giorno dopo l'altro sul capo del suo povero marito. «La casa è piena delle tue figlie» gli diceva c o n voce i n a s p r i t a . «Circondano così da vicino il piatto di legno che riesco a malapena a far passare la m i a m a n o e a prendere un po' di cibo. Dovrai scegliere tra le tue figlie e me: o via loro o via io!» «Moglie mia!» supplicava il padre. «Moglie mia, Dio voglia indurti alla ragione! Cosa farei delle mie figlie più piccole? La loro m a d r e morendo me le ha affidate. Non hai un cuore? E non hai accettato questo carico q u a n d o ci siamo sposati?» Raddoppiò le proprie attenzioni. Viziò follemente la propria sposa, ma era come uno che danzasse davanti a un cieco. Una mattina, la matrigna affrontò il padre con decisione: «Marito, questa volta la mia pazienza è esaurita. Questo giorno che splende è l'ultimo che passerò sotto questo tetto, se ci restano le tue figlie». Il p a d r e chinò il capo. Gli sembrava che la terra gli si aprisse sotto i piedi, perché amava questa donna. Sicura del suo potere, la matrigna riprese: «Domani, di' alle tue figlie di alzarsi presto e di accompagnarti nella foresta in cerca di legna. E non avere p a u r a di a d d e n t r a r t i con loro nel folto. Q u a n d o le vedrai stanche, abbandonale al loro destino e torna a casa. S o n o o r m a i grandicelle. Capiterà b e n e un passante che le prenda con sé!». Il p o v e r u o m o lottò, pregò, supplicò ma finì per cedere. Accoccolata accanto al fuoco, Aisha assistette m u t a alla propria disfatta. Come rovinare, lei, così piccola, i piani malvagi della matrigna?... Ci pensò su tutto il giorno e parte della notte. Si alzò all'alba e si preparò come le sue sorelle. Ma mentre la matrigna distribuiva le provviste - focaccia e fichi - Aisha 315
sgattaiolò vicino al focolare, riempì in fretta il suo corsetto di noccioli di oliva e seguì docilmente il padre e le sorelle. Nel c a m m i n a r e Aisha restava a p p o s i t a m e n t e un po' indietro e nessuno se ne stupiva: era così piccola! In questo m o d o essa poteva infilare la m a n o nel corsetto e tirar fuori dei noccioli che poi disseminava l u n g o il c a m m i n o . Il p a d r e e le figlie r a g g i u n s e r o verso mezzogiorno il cuore della foresta. Si fermarono a mangiare accanto a u n a sorgente. E le fanciulle si riposarono un po'. Aisha si teneva in disparte, appoggiata contro un albero: non abbandonava il padre c o n gli occhi. Arrivò il m o m e n t o di m e t t e r s i all'opera. Le piccine, incoraggiandosi a vicenda, raccolsero come potevano della legna secca. Si trovavano nel punto più inestricabile della foresta quando, all'improvviso, non videro più il loro padre. Lo cercarono. Lo chiamarono sempre più forte e si misero a piangere. Allora Aisha radunò le sorelle e disse loro: «Non piangete. Nostro padre ci ha abbandonate a causa della nostra matrigna. Ma io ho segnato la strada con noccioli di olive». Aisha aprì il cammino. E al calare della notte le sette fanciulle bussavano alla porta del padre, con s o m m o dispiacere della matrigna che si disse: "Che astuzia dovrò ancora architettare per essere finalmente sola in questa casa?". Trascorsero alcune settimane in u n a pace ingannevole prima che sbocciasse in lei l'idea malefica che inseguiva, p e r c h é la m a t r i g n a dal c u o r e n e r o n o n aveva deposto le armi. Una mattina si alzò tutta allegra per annunciare gioiosamente alle orfanelle che i loro zii e zie m a t e r n e le invitavano a u n a festa di nozze, molto lontano, al di là delle montagne. Sarebbe stata necessaria u n a mula per portare i regali, e conveniva c o m i n c i a r e a p r e p a r a r s i senza p e r d e r e tempo. 316
L a s c i a n d o le fanciulle al c o l m o della s o r p r e s a , corse a far sapere la notizia al villaggio e a farsi prestare, di casa in casa, i ricchi abiti e i gioielli di cui intendeva ornare le orfanelle. Tinse loro con l'henné i capelli, le mani e i piedi. Cominciò a macinare u n a cesta di grano e a cuocere - come voleva la tradizione - il cestino pieno di frittelle che le fanciulle avrebb e r o p o r t a t o in o f f e r t a alla sposina. La m a t r i g n a consegnò loro inoltre dei panieri di uova sode, noci, uvetta, arachidi e datteri. Se n o n l'avessero frenata avrebbe dato loro tutto il miele e il burro della casa. Dopodiché fece il bagno alle sette fanciulle. Le vestì, le agghindò, le p r o f u m ò . Le poverine non riconoscevano più la loro matrigna e ingenuamente si rimproveravano in cuor loro di averla giudicata così male. Solo Aisha prevedeva giusto. Il padre fece partire la mula e la carovana si allontanò. Aisha era la sola a sapere che cosa significassero questo viaggio e l'allegria della matrigna. Standosene a c c a n t o al f u o c o aveva infatti colto oscuri conciliaboli, aveva udito il padre parlare di un misterioso crepaccio, e la matrigna pretendere che egli vi precipitasse, u n a dopo l'altra, tutte e sette le fanciulle, dopo averle spogliate dei vestiti e dei gioielli che si erano fatte prestare. Le orfanelle, in c a m p a g n a , e r a n o graziose come fiori al sole. Il padre, invece, appoggiandosi a un bastone, avanzava quasi con riluttanza, seguito dalla mula appesantita dai regali. Preoccupata di conservare il segreto e di prevenire questo nuovo pericolo, Aisha si teneva il c u o r e c o n a m b o le m a n i , senza osare alzare lo sguardo sul p o v e r u o m o che le conduceva alla morte. Le fanciulle c a m m i n a r o n o di b u o n a lena. Ma verso m e z z o g i o r n o dissero di essere stanche. Faceva caldo, il padre stese loro il burnus sull'erba, all'om317
b r a di un fico. Esse vi si sedettero in cerchio come donnine, p r e o c c u p a t e di n o n sgualcire i loro begli abiti di festa. Mangiarono, bevvero e appena si furono rifocillate ripresero il cammino, tanta era la fretta che avevano di giungere al villaggio della madre, dietro la m o n t a g n a , dove r i s u o n a v a n o il c a n t o dei flauti e il battito dei tamburi. Quanti giardini di fichi e quanti campi di ulivi attraversarono! Quante greggi incontrarono! «Arriveremo p r i m a del calar del sole?» domandavano di tanto in tanto al padre. E la sua risposta si udiva a stento dietro la folta barba. La mula adesso posava il piede con particolare prudenza perché avevano da poco fatto la loro comparsa delle rocce e il luogo era impervio. Il padre si arrestò davanti a un crepaccio e disse alle figlie: «Vedete questa buca?... È di qui che dovremo scendere per giungere al villaggio di vostra madre, se non vogliamo perderci il c u s c u s e il c o n c e r t o di q u e s t a sera. Ma p e r n o n strappare le vostre belle vesti e non rischiare di perdere i vostri gioielli, toglieteveli e tenete solo la camicia. Questa corda mi servirà a calarvi giù; è solida e in grado di reggere il peso di un bue. Quando sarete arrivate, vi basterà aprire le braccia per ricevere i vestiti e i gioielli che vi lancerò, oltre alle ceste di ghiottonerie e al cestino delle frittelle. E a me non resterà che raggiungervi». Tutte, tranne Aisha, si svestirono senza sospettare nulla e a b b a n d o n a r o n o abiti e gioielli. Una dopo l'altra, il p a d r e le calò giù. R i m a n e v a Aisha, m i n u t a , graziosa e dolce. Era la sua preferita, gli costava sacrificare anche lei. Le si avvicinò, ma essa gli disse, abbassando gli occhi: «Padre, allontanati un istante, ti prego, perché non oso svestirmi davanti a te». Egli sorrise mestamente e fece come essa voleva. Allora Aisha si impadronì rapidamente del cestino, 318
delle ceste, degli abiti e dei gioielli ammassati ai suoi piedi e li gettò alla rinfusa in fondo al crepaccio. Poi, facendo passare la corda intorno a un picchetto, si lasciò scivolare giù. Appena ebbe ritrovato le sorelle, tirò lesta la corda in m o d o che il padre non potesse raggiungerle. Il p a d r e era già di ritorno. Adesso era sul b o r d o della buca. Ma dove si trovavano Aisha e tutti i regali? Dov'erano la corda, gli abiti sontuosi e i gioielli? Tutto, perfino la mula, era scomparso! Aisha gli aveva giocato un tiro?... Cercò dietro alle rocce. Chiamò, chiamò disperatamente, ma solo il vento gli rispose, un vento che urlava a morte. Allora il padre fece rotolare u n pietrone e n o r m e fino all'apertura del crepaccio e prese la via del ritorno, vergognoso e intimorito. Aveva a p p e n a consegnato alla m o r t e le sue sette figliole seppellendole vive. Ma faceva asseg n a m e n t o sui p i a n i i m p e r s c r u t a b i l i di Dio. E più avanzava verso la sua dimora, più il p o v e r u o m o tremava immaginandosi come l'avrebbe presa la matrigna. Vedendolo tornare senza la mula, a mani vuote e il cuore pieno di tristezza, avrebbe avuto u n o scoppio d'ira e lo avrebbe subissato di sarcasmi e di ingiurie. Avrebbe avuto la forza di varcare la soglia di casa sua? Nella c a v e r n a in cui si t r o v a v a n o le orfanelle, l'oscurità era completa. Mentre le sue sorelle piangevano e si disperavano, Aisha tastava le pareti nella s p e r a n z a di scoprire u n a via d'uscita: la g r o t t a le parve spaziosa. Ma la piccina n o n scoprì nient'altro. Per qualche giorno le fanciulle si nutrirono delle ghiottonerie e delle frittelle. Ma ebbero sete. Allora Aisha scavò nel suolo col dito. Per f o r t u n a era u n a sabbia molto umida. Scavò, scavò più forte con tutte e d u e le m a n i : con s u a g r a n d e gioia si f o r m ò u n a polla d'acqua, e le fanciulle p o t e r o n o riempire dei 319
gusci d'uovo e placare la loro sete. Ma a un certo punto, nonostante le economie di Aisha, le provviste vennero a mancare. Le sorelle maggiori attorniarono la piccola e le dissero: «Arrangiati per trovarci da mangiare o m a n g e r e m o te, che sei la più debole». Aisha si rivolse a Dio e si rimise a grattare il suolo. Grattò così bene che le sue dita incontrarono u n a fava. La sbucciò, ne fece sei parti e le distribuì senza tenere nulla per sé. L'indomani ne trovò altre due, e le divise a n c o r a tra le sorelle. La fanciulla aveva messo la m a n o su u n a miniera di fave. E il t e m p o passò. Un mattino che Aisha-Cenerella estraeva l'ultima fava, u n a forte luce irruppe tra le sue dita attraverso un minuscolo forellino. La piccina vi incollò ansios a m e n t e l'occhio e vide un f u o c o che b r u c i a v a al centro di u n a grande sala. Accanto a questo fuoco, su u n a pelle di pantera era coricato un enorme gatto dal pelo fulvo. Si teneva tra le zampe la sua bella coda a p e n n a c c h i o e diceva, con aria irritata: «Chi è che mi spia? Sento u n a presenza nella mia dimora». Aisha tirò prudentemente indietro l'occhio e si allontanò, lasciando il gatto a prendersela con la coda che non rispondeva. Il bell'animale aveva l'abitudine di alzarsi all'alba e partire per la caccia, e non rientrava prima di sera. Allora, riattizzava il fuoco, si stendeva sulla pelle di p a n t e r a e se la prendeva o s t i n a t a m e n t e con la sua coda. Le diceva, caricandola di rimproveri e di graffi: «O Mosh, d o v u n q u e tu sia e q u a l u n q u e cosa tu faccia non sei mai solo. C'è la tua coda che ti accompagna e ti spia. La tua coda è presente come testimone indesiderato!». Mosh, il gatto, non tornava mai durante il giorno. Così Aisha ne approfittò per arrischiarsi u n a mattina nel suo rifugio. Si meravigliò che fosse illuminato 320
dalla luce del giorno e pieno di ricchezze: c'erano fior di farina, fichi, datteri, noci e uva passa; c'era olio, burro, miele e un mucchio di altre cose ancora. Aisha, che era t o r m e n t a t a dalla f a m e , riempì u n a ciotola di farina d'orzo abbrustolita, innaffiandola generosamente d'olio e insaporendola con zucchero di canna. Si impadronì anche di un cestino di fichi e corse dalle sue sorelle con questi cibi insperati. E quel giorno nella grotta non vi fu che buona armonia e gioia. Al calare della notte, Aisha si metteva di vedetta e vedeva passare Mosh, maestoso e fulvo. Soffiava sulle braci, faceva crepitare il suo fuoco, disseminava noccioli di olive intorno al focolare e si stendeva senza preoccupazioni sulla pelle di pantera. Ogni volta, Aisha si illudeva che la nottata sarebbe trascorsa pacificamente e che il gatto non avrebbe tormentato la sua povera coda. Ma bruscamente l'umore di Mosh si faceva tempestoso e i suoi occhi m a n d a v a n o scintille. Allora diceva alla coda con t o n o minaccioso: «Chi è entrato a casa mia e dov'è la fava che avevo preparato per la mia cena? Parla o piscerò sul fuoco p e r spegnerlo». E siccome essa n o n rispondeva, la percuoteva con le zampe. F i n c h é Aisha n o n e b b e necessità di servirsi del fuoco, non si inquietò per le minacce del gatto. Ma dal giorno in cui le sue sorelle cominciarono a pretendere dei pasti veri, ebbe paura di vedere Mosh pisciare sulle braci. Ogni m a t t i n a aspettava ansiosam e n t e che egli lasciasse il s u o r i f u g i o p e r introdurvisi. In un batter d'occhio preparava u n a focaccia di f r u m e n t o lucente come un luigi d'oro, oppure delle frittate che spalmava di miele. Si azzardò perfino a preparare il cuscus (aveva infatti scoperto u n a giara piena di semola essiccata al sole). Passaro321
no così alcune settimane, senza che Mosh fosse riuscito a far parlare la coda o a sorprendere Aisha. Un pomeriggio di primavera, seduta in mezzo alle sorelle nella caverna oscura, la fanciulla rifletteva malinconicamente: "Se nostro padre non avesse fatto rotolare q u e s t o e n o r m e m a s s o al di s o p r a delle n o s t r e teste, nella g r o t t a s a r e b b e c h i a r o c o m e da Mosh; p o t r e m m o intravedere un po' di cielo e sar e m m o più felici. Tra poco sarà estate; ed è così tanto tempo che le mie sorelle non h a n n o visto la luce del giorno... E invece lui e n t r a ed esce q u a n d o gli pare! . Aisha si ripromise di seguire ogni movimento del gatto e di esplorare il suo rifugio palmo a palmo. Quella sera Mosh rientrò più tardi del solito. Era troppo scuro perché Aisha potesse scoprire qualcosa. Ma non si perse d'animo e disse fra sé: "Quello che mi è sfuggito stasera non mi sfuggirà al levar del sole!". Si mise di vedetta assai di buon'ora e vide, attraverso il b u c o g r a n d e c o m e u n a fava, M o s h che si portava in un angolo della sala e scompariva dietro u n a grossa pietra senza più ritornare. Colma di speranza, Aisha si avvicinò alla pietra, la toccò, le girò intorno lentamente e capì che si muoveva. Ne scoprì il meccanismo segreto e prese la via dei campi. Chi p u ò dire la sua meraviglia davanti al ruscelletto che scorreva rapido e allegro tra le canne? Vi si b a g n ò il viso e sollevò lo s g u a r d o verso gli alberi maestosi che ridevano nel cielo chiaro con tutte le loro foglie e i loro frutti. Aisha si trovava in un frutteto incantato in cui gli uccelli si rimpinzavano di albicocche, di pesche, di prugne, di pere e di nespole. Si arrampicò di r a m o in r a m o e mangiò di tutti questi frutti fino ad avere l'impressione che albicocche, pesche, pere, p r u g n e e nespole le uscissero dalle orecchie e dalle narici. Allora pensò alle sorelle. Ri322
v o l t a n d o le c o c c h e del vestito lo r i e m p ì di f r u t t i . Nell'euforia della raccolta se ne mise fin nel corsetto. Carica come un somaro, Aisha riuscì a stento a raggiungere il rifugio del gatto. In un baleno fece cuocere la solita focaccia di f r u m e n t o rotonda e dorata come u n a l u n a e si a f f r e t t ò ad a n d a r e dalle sorelle, t e n e n d o un cesto di f r u t t a sotto il braccio. Anche quel giorno la grotta risuonò delle grida di gioia delle sette fanciulle. E per tutta l'estate Aisha potè così nutrire le sorelle. «La mia fava o spengo il fuoco!» minacciava Mosh tutte le sere, senza portare a compimento la minaccia. Ma da molto t e m p o Aisha n o n se ne spaventava più. Aveva cessato di spiarlo dal b u c o grande come u n a fava da q u a n d o aveva imparato le sue abitudini e i suoi segreti. Ma lui non rinunciava all'idea di scop r i r e la p e r s o n a a u d a c e che si introduceva a casa sua per mangiare le sue provviste e bruciare la sua legna. Più che mai esigeva dalla coda che questa gli desse delle informazioni. Quella sera d ' a u t u n n o segnata dal destino, Mosh rientrò più cupo, più nervoso del solito. Aleggiava per l'aria un odore di neve precoce e Mosh temeva i primi freddi. Fece un gran fuoco, vi si accostò il più possibile e si distese soddisfatto sulla pelle di pantera. Questa volta bisognava a ogni costo che la coda parlasse e informasse il suo padrone. La prese risolutamente tra le grinfie e le disse, fulminandola con gli occhi: «Questa volta mi dirai chi osa entrare qui in mia assenza! Mi dirai chi mi ha derubato della grossa fava che avevo tenuto da parte per cena! Parla o piscio sulle braci e ti c o n d a n n o a morire di freddo». Siccome essa taceva, si mise a riempirla di colpi, e nel far ciò si avvicinò inavvertitamente e pericolosam e n t e al fuoco. Nel suo furore la percosse e la graffiò così forte che il pelo veniva strappato a ciuffi e 323
svolazzava per la sala. La fece roteare tanto che essa sfiorò un tizzone a r d e n t e . In un l a m p o il f u o c o si propagò a tutta la pelliccia e trasformò Mosh in u n a torcia che saltava, si rotolava, si torceva nelle fiamme e rimbalzava. N e s s u n o udì le sue lugubri urla. Morì tra disperati miagolii. E n t r a n d o nel rifugio di Mosh, l'indomani, Aisha fu colpita, fin sulla soglia, da u n o strano odore. Colta dall'inquietudine, tornò sui suoi passi. Spiò invano p e r q u a l c h e g i o r n o il r i t o r n o del gatto. E solo q u a n d o vide le sorelle affamate che la assalivano come lupe e minacciavano di divorarla trovò il coraggio di recarsi dal suo temibile vicino. Fece con circospezione il giro del rifugio: il f u o c o era spento; di Mosh n o n restava altro che u n a scia di grasso e delle ossa calcinate. Allora Aisha-Cenerella chiamò le sue sorelle. In un attimo i resti del gatto f u r o n o seppelliti e la dimora s p a z z a t a . Le o r f a n e l l e p r e s e r o p o s s e s s o delle ricchezze che Mosh aveva a m m a s s a t o nel corso di lunghi anni. Finalmente le poverine ebbero u n a casa da cui n e s s u n o a v r e b b e p o t u t o scacciarle. Fecero un'ispezione di tutti i loro beni e resero grazie a Dio nel loro cuore: quanti tappeti, coperte e stoffe sontuose! E quante provviste! Aisha accese il fuoco e le orfanelle m a n g i a r o n o e bevvero, bevvero e mangiarono con u n a gioia rinnovata. E Aisha p e n s a v a , f a c e n d o vagare lo s g u a r d o t u t t ' i n t o r n o : "Che felicità sarà p e r le m i e sorelle q u a n d o avrò rivelato loro l'esistenza del ruscello e del frutteto dagli innumerevoli uccelli canterini!". Sotto i loro occhi stupefatti smosse la pietra. Un fiotto di sole invase il rifugio e le sette fanciulle scapp a r o n o fuori e si misero a correre come gazzelle per tutto il frutteto. Poi partirono, dritte davanti a loro, fiutando il vento e dandosi alla pazza gioia. 324
Proseguirono nel loro cammino, meravigliandosi di n o n incontrare anima viva. Apparvero loro le porte di u n a città, delle porte enormi. Qual era questa città m o r t a che si stendeva sotto i loro occhi? Mentre avanzavano impietrite, scorsero sulla soglia di u n a miserabile catapecchia un vecchio paralitico. La sua bocca secca, circondata da u n a b a r b a irsuta si schiuse per dire: «Chi siete, belle fanciulle dalle gote fresche e dagli occhi trasparenti, p e r avventurarvi nella città devastata da Mosh-il-Crudele? Non sapete che tutti gli abitanti sono fuggiti davanti a lui che distruggeva greggi e bambini?». «Mosh è morto!» a n n u n c i a r o n o le sette fanciulle con voce decisa. «Mosh è bruciato vivo nel suo rifugio!» «Dio sia lodato!» esclamò il vecchio. «Ha avuto la morte che da sempre lo attendeva!» E u n a gioia indicibile gli illuminò lo sguardo. Rifletté un po' p r i m a di proseguire: «Ma, dal m o m e n t o che Dio vi ha condotte qui, dal m o m e n t o che ha concesso alle vostre tenere bocche di portare u n a notizia così importante, sedetevi in m o d o che io vi racconti u n a storia». E le sette fanciulle f o r m a r o n o u n a ghirlanda intorno al vecchio che cominciò così: «Figlie mie, Mosh era il signore e p a d r o n e onnipossente di questa città. E r a un principe di u n a bellezza meravigliosa m a era a s p r o c o m e u n a l a m a oltre che sacrilego, p e r c h é volle sostituirsi allo stesso Iddio. Per avere un esercito innumerevole, che sconfiggesse i regni vicini e li asservisse, pretese dalle donne che mettessero al m o n d o figli senza posa. Ora, è solo Dio che concede i figli, li concede come intende lui e stabilisce il loro destino. Ma il nostro principe maledetto n o n aveva a cuore altro che la rovina del paese: sem i n ò il male ventiquattr'ore su ventiquattro e fece scorrere le lacrime. Dio lo avvertì u n a prima volta di 325
b a d a r e a n o n offenderlo più. Lo avvertì a n c h e u n a seconda volta, nella sua pazienza e m a n s u e t u d i n e . Ma Mosh l'orgoglioso, Mosh l'empio, si fece beffe di quei messaggi. Allora sopraggiunse un giorno un arcangelo che con un colpo d'ala trasformò il bel principe crudele in Mosh, il gatto c o n d a n n a t o a essere p e r s e g u i t a t o dalla s u a coda, m e n t r e nello stesso istante la terra si aprì per inghiottire il suo palazzo e tutti i suoi splendori! Ma il principe, divenuto Mosh, fu altrettanto sanguinario quanto era stato implacabile da u o m o . Costrinse i suoi sudditi a fuggire la città e addirittura tutta la regione. Sia lode mille volte a Dio che alla fine ce ne ha liberati, figlie mie!». Le sette fanciulle fecero ritorno alla loro nuova dim o r a prima del calare della notte. Ma dov'era la caverna di Mosh?... Al suo posto era sorto u n o splendido palazzo, quello stesso che la terra aveva inghiottito. Le orfanelle vi a n d a r o n o ad abitare e fecero sapere a tutto il paese che Mosh-il-Maledetto era morto, morto tra le fiamme. E tutti coloro che erano fuggiti per il terrore e avevano sofferto l'esilio fecero ritorno alle loro dimore e ai loro beni. E la città e tutto il paese conobbero la pace e la prosperità di un tempo. Le fanciulle, a eccezione di Aisha, sposarono principi venuti dai regni vicini. Aisha r e g n ò da sola sull'impero di Mosh con giustizia e amore. Ma la sera non poteva impedire al suo cuore di riempirsi di malinconia. D'inverno, amava sempre tenersi accanto al focolare gettando nel fuoco noccioli di olive, a manciate, come q u a n d o era piccola e la cenere impolverava i suoi capelli. Che ne era stato di suo padre?... Era morto? Era riuscito a sfuggire a quel genio malvagio che era la moglie? E r a la v e n u t a del padre quello che Aisha attendeva, contro ogni saggio consiglio, per sposarsi anche lei? Perché il suo cuore le diceva che era in c a m m i n o diretto da lei. 326
Una sera d'estate, un p o v e r u o m o imbiancato dalla polvere e vestito come un mendicante si presentò alle porte del palazzo. Teneva in m a n o il bastone dei pellegrini. Aisha gli corse incontro: «Figlia mia,» le disse lui con voce umile «non osavo sperare che mi fosse d a t a la gioia di rivedere te e le tue sorelle! Scacciato dalla mia stessa dimora e triste da morire, non mi rimaneva che l'esilio e questo bastone da pellegrino. Dove indirizzare i miei passi e in quale acqua lavare la mia onta? Perché vi credevo morte, figlie mie! Poteva esistere qualcuno più miserabile di me?... Assalito da ogni parte dalle mosche del rimorso, a n d a v o verso il deserto, con gli occhi b r u c i a t i dalle vie calcinate e dalle l a c r i m e vane. Fu allora che, a p p a r e n d o tra le dune, un Vecchio Saggio mi disse: "Uomo! le tue figlie sono ancora in vita. Dirigi i tuoi passi verso contrade più verdeggianti!"». Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
18. S T O R I A D E L L A P U L C E E D E L P I D O C C H I O
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! Nei tempi antichi, q u a n d o gli animali avevano la parola, il pidocchio abitava in montagna. La pulce, invece, aveva costruito la sua casa più in basso, in pianura. Ma un giorno si alzò un forte vento che si portò via la casa del pidocchio. Questi si recò subito dalla pulce con dieci soldi e le disse: «Ecco tutte le mie sostanze. Mettiamoci a vivere insieme». Essa acconsentì. Allora i due sposi decisero, con questi dieci soldi, di fare il pranzo di nozze. Ci pensarono su un po' e si dissero: «E adesso che cosa c o m p r e r e m o ? Della carne? Per dieci soldi n o n ce ne venderanno. 327
Una testa? Non avremmo che delle ossa. Ci resta solo la possibilità di acquistare della trippa. Ne avremo parecchia e m a n g e r e m o a sazietà». Il pidocchio a n d ò al mercato. La pulce si mise a macinare il frumento. Quando il pidocchio fu di ritorno, trovò la sposa che stava mettendo la pentola sul fuoco. Lavarono insieme la trippa e la versarono nella pentola. R i f o r n i r o n o di ceppi il focolare e la pulce disse: «Non ho più acqua. Corro alla fontana. Tu va' nella foresta a cercare della legna. Chi tornerà per primo controllerà se c'è abbastanza sale». La pulce prese un otre di pelle di capra, e il pidocchio u n a fune. Uscirono insieme tirandosi dietro la porta. La pulce se ne andò davvero fino alla fontana. Il pidocchio, invece, se ne a n d ò p o c o l o n t a n o , in quel punto del villaggio dove si gettano i rifiuti per raccogliervi qualche rametto: aveva fretta di arrivare per primo e controllare lui se stava bene di sale. Apre la porta, entra, lancia un'occhiata a destra e a manca: è proprio il primo! Allora, prende il mestolo, si avvicina alla pentola; sale su u n a pietra del focolare, solleva il coperchio, si sporge e i vapori lo f a n n o cadere dentro! D o p o p o c o arriva la pulce. Si g u a r d a i n t o r n o : niente pidocchio! Tutta contenta, dice fra sé: "Non è a n c o r a tornato. S e n t i a m o se sta bene di sale!". Assaggia quindi il brodo e lo trova salato al punto giusto. Quando immerge il mestolo per la seconda volta, vede galleggiarvi d e n t r o il suo sposo! Lascia ricadere il mestolo, prende la pentola per i due manici e va a rovesciarla su un mucchio di letame. Dopodiché si va a sedere poco discosto, tutta raggomitolata su se stessa. Il mucchio di letame crolla! Passa il capraio, preceduto dal suo gregge. Vede la pulce: «Che hai, m a d a m a pulce?» le chiede. «Ohi, ohi! Cosa mi è successo! Il mucchio di letame è crol328
lato. Il signore degli u o m i n i è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» Il capraio getta lontano il suo vincastro. Le sue capre si disperdono e si sparpagliano per i sentieri. Passa il portatore d'acqua che tornava dalla fontana tra i suoi due asini carichi. Domanda: «Che hai, m a d a m a pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! Il capraio senza vincastro, il m u c c h i o di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» Il portatore lascia cadere i suoi otri pieni, si carica sulle spalle i basti e a b b a n d o n a gli asini. Una vicina, che si accingeva a cuocere delle focacce, esce di casa, con u n a focaccia cruda in ogni mano. A sua volta chiede: «Che hai, m a d a m a pulce?». «Ohi, ohi! Che cos'ho? Cosa mi è successo! Il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È c a d u t o nella pentola ed è scomparso!» La vicina si spiaccica u n a focaccia su ogni guancia. La casa della vicina si sposta e chiede: «Che hai, m a d a m a pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il m u c c h i o di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» La casa crolla. Arriva la sorgente: «Che hai, m a d a m a pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» La sorgente si inaridisce. Passa di lì u n a pecora. Anch'essa dice: «Che hai, 329
m a d a m a pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» La pecora si avvicina a u n a siepe spinosa e vi appende il suo vello. La siepe spinosa si sporge e chiede: «Che hai, mad a m a pulce?». «Ohi, ohi! Che cos'ho? Cosa mi è successo! La pecora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il m u c c h i o di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» La siepe spinosa si sradica e finisce per precipitare nel fiume. Il fiume si fa avanti e dice: «Che hai, m a d a m a pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La siepe annegata, la pecora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il port a t o r e coi d u e basti, il c a p r a i o s e n z a vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» Il fiume straripa e provoca un'alluvione. La terra trema. Una roccia chiede: «Che hai, mad a m a pulce?». «Ohi, ohi! Che cos'ho? Cosa mi è successo! Il fiume straripato, la siepe annegata, la pecora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» La roccia frana. Parla ora il sole. Dice: «Che hai, m a d a m a pulce?». 330
«Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La roccia franata, il fiume straripato, la siepe annegata, la pecora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!» Dei lampi squarciano il cielo. Le nuvole si aprono in un diluvio di pioggia. «Che hai, m a d a m a pulce?» chiede alla fine il mare. «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! Il cielo in tempesta, il sole fuggito, la roccia franata, il fiume straripato, la siepe annegata, la pecora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il m u c c h i o di letame crollato. Il signore degli u o m i n i è disceso agli inferi. È c a d u t o nella pentola ed è scomparso!» Allora il m a r e in tempesta si fa avanti e spazza tutto. Trascina via la roccia, la siepe spinosa e la casa crollata. Porta via la pecora spogliata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro. Inghiotte il m u c c h i o di l e t a m e crollato, m a d a m a pulce e il signore degli uomini! Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
19. R U N J A , L A F A N C I U L L A P I Ù B E L L A DELLA LUNA E DELLA ROSA
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! C'era u n a volta un sultano che si disperava di non avere figli. A dispetto della sua potenza e delle sue ric331
chezze, era infelice. Un giorno, in cui si sentiva il più povero degli uomini, partì all'alba in pellegrinaggio. Il santuario cui era diretto emergeva sfolgorante tra l'erba dei campi. Mentre il sultano vi si avvicinava, un angelo se ne distaccò p e r venirgli incontro e dirgli: «Dove conduci i tuoi passi così di b u o n mattino, sultano? Non sei già ricco e potente, che cosa puoi desiderare di più?». «Ahimè,» gemette il sultano «non ho eredi, e se dovessi morire, i miei beni andrebbero a degli estranei.» L'angelo gli consegnò u n a bella mela lucente e gli disse: «Da' la buccia di questa mela alla tua giumenta e la polpa a tua moglie. La sultana sarà incinta e metterà al m o n d o un maschio. Ma guardatevi bene dallo scegliere un n o m e per questo figlio p r i m a che io sia tornato ad apparirvi». Trascorsero nove mesi, e la sultana mise al m o n d o un maschietto, che venne c h i a m a t o semplicemente Principe. Quando fu grande abbastanza per andare a scuola, il popolo volle che gli si desse un nome, e si recò quindi al palazzo, gridando di lontano al sultano: «La pace sia su di te, sultano! Veniamo per dare un n o m e a t u o figlio, n o s t r o principe, che a n c o r a n o n ne ha». «Chiamatelo come vi piacerà» rispose il sultano. Proprio in quel m o m e n t o fece la sua comparsa l'angelo, in mezzo alla folla impietrita. Egli disse: «Il b a m b i n o si chiamerà Sheikh Smain». Poi scomparve. Il principino si chiamò Sheikh Smain e crebbe nel bene. Fattosi adolescente, disse un giorno a suo padre: «Nobile sultano, padre mio, amerei uscire e andare a caccia». «Va bene, figlio mio» rispose il sultano. E c o m a n d ò a due servi fidati di scortare il giovane cacciatore. Arrivato al primo bivio, il principe si rivolse ai suoi compagni: «Separiamoci» disse loro. 332
«Prendete per di qua mentre io andrò per di là, e ritroviamoci stasera sotto questo albero.» Al calare della notte, i servi arrivarono con il carniere pieno. Sheikh Smain aveva il suo vuoto. Essi glielo riempirono e fecero ritorno con lui al palazzo. L'indomani Sheikh S m a i n volle a n c o r a cacciare. E questa volta lo a c c o m p a g n a r o n o altri due servitori. Il principe si divise da loro al bivio e disse, tendendo la m a n o : «Andate per la vostra strada, mentre io andrò per la mia e ritroviamoci qui questa sera». Sheikh Smain fece qualche passo e scorse un perniciotto che zampettava sul sentiero. Lo seguì e lo vide scomparire sotto u n a tenda. Si accostò alla tenda e disse a voce alta: «Datemi la mia preda!». Comparve u n a fanciulla, più bella della luna e della rosa, che gli disse: «Mi chiamo Runja. Questo perniciotto non appartiene a te più di quanto appartenga a noi». E si ritirò. Il principe fece ritorno trasognato al palazzo. Finse u n a forte febbre e si mise a letto. Non mangiò più e n o n parlò più. Fuori di sé, il sultano chiamò al capezzale dell'erede tutti i dottori e i maghi del paese. Poiché questi sfilarono tutti invano davanti al malato, il sultano fece annunciare: "A colui che guarirà l'erede al trono darò tutto quello che mi chiederà". Fu allora che si presentò un giovane: «Portatemi un chilo di candele» disse. «Io sono u n o scienziato e vi dico che il principe parlerà e guarirà.» Dopo avere acceso un b u o n n u m e r o di candele, ne prese u n a e la mise proprio davanti a sé. Rivolgendosi a essa, con voce suadente disse: «Parla, candela, e racconta la storia dei fratelli che vivevano insieme in quel frutteto di m o n t a g n a dove si trovava l'uva rosata più prodigiosa della terra. Parla, candela, o parlerò io. Ti ricordi, erano in tre: u n o era falegname, l'altro sarto e l'ultimo poeta, che vegliavano a turno 333
per far la guardia al frutteto. Il poeta e il sarto dormivano q u a n d o il falegname notò un esile arboscello che s e m b r a v a d a n z a r e sotto la luna. Lo tagliò e si mise a scolpirlo, rivolto verso la luna, dandogli un corpo e un viso di donna. A sua volta, il sarto si destò e le fece u n a tunica. Alla fine, il poeta aprì gli occhi e scorse a c c a n t o a sé questa b a m b o l a vestita. Pensò: "Il falegname le ha dato un corpo, il sarto un vestito. Io, invece, p r e g h e r ò Dio di d a r l e u n ' a n i m a " . E la b a m b o l a divenne u n a d o n n a di incomparabile bellezza. Al mattino, il falegname disse: "Questa d o n n a è mia, perché io le ho dato il corpo". Il sarto disse: "Essa è mia, perché io le ho dato l'abito". E il poeta disse: "Essa è mia, p e r c h é io le ho d a t o l'anima". Candela, tu che lo sai, dicci di chi è questa donna». Allora Sheikh Smain si alzò e disse, spazientito, al giovane scienziato: «Taci. Non mi affaticare oltre: la donna spetta al poeta che le ha dato l'anima. Che il sultano, mio padre, mi dia in sposa R u n j a e io guarirò». L'indomani stesso, accompagnato da u n a ingente scorta, il sultano si presentò, colmo di gioia, davanti alla tenda. Ne uscirono sette uomini, maestosi e imponenti come querce: erano i fratelli della fanciulla più bella della luna e della rosa. Il sultano disse loro: «Mio figlio, Sheikh Smain, ha deciso di sposare vostra sorella o di morire». I sette fratelli a n d a r o n o a cercare R u n j a . Il sultano potè così c o n t e m p l a r l a a piacimento e benedire Dio che aveva creato u n a bellezza così sorprendente. E i t a m b u r i e i flauti annunciarono a t u t t o il paese il f i d a n z a m e n t o di Sheikh Smain e della fanciulla più bella che si potesse trovare sotto il sole. Il principe era al colmo della gioia e il sultano, che l'aveva creduto malato da morire, ne era assai lieto. Solo Settut era verde di gelosia (la vecchia strega ce 334
l'aveva con Sheikh Smain dal giorno in cui, amministrando la giustizia, non si era precipitato da lei, lasciando perdere tutto, per occuparsi del suo eterno processo). E così, essa n o n aspirava ad altro che a fargli del male. Una mattina in cui Settut tornava a casa più furiosa del solito, si tinse in fretta i capelli e le m a n i di henné. Indossò gli ornamenti più belli e partì alla ricerca di Runja e dei suoi sette guardiani. «Arriva il sultano per portarsi via la nuora!» annunciò in tono secco ai sette fratelli. «Preparatevi a riceverlo.» E se ne tornò a casa leggera, felice di essersi finalmente potuta vendicare di Sheikh Smain. «Quand'è così,» dissero mortificati i sette fratelli «poiché il sultano non si cura n e m m e n o di avvisarci in anticipo del suo arrivo e ci tratta senza riguardi, partiremo senza perdere un momento. E quando arriverà, troverà solo il vento!» R u n j a si affrettò a scrivere qualche parola nascondendo poi il proprio messaggio sotto u n a pietra accanto al focolare, prima di seguire docilmente i suoi fratelli. Questo messaggio diceva: "La pace sia su di te, Sheikh Smain. Se mi vuoi ancora come sposa, vieni a cercarmi nel paese delle Indie". Più malefica del diavolo, Settut si compiacque di f a r sapere al sultano che la f i d a n z a t a di suo figlio aveva abbandonato il reame, che i suoi sette fratelli avevano deciso di p i a n t a r e le t e n d e ai confini del m o n d o e di promettere Runja a un principe infinitam e n t e più valoroso e f o r t u n a t o di Sheikh S m a i n . Toccato sul vivo, il sultano proibì di informarne il figlio, perché temeva di vederlo nuovamente perdere la voglia di mangiare e di bere. Fece anche sapere, con discrezione, ai suoi sudditi: «Colui che oserà dire a mio figlio che la sua fidanzata l'ha lasciato per un altro, sarà decapitato». 335
Era destino, tuttavia, che la notizia dovesse arrivare ugualmente alle orecchie del principe. Una bella sera due giovani stavano facendo il gioco delle arance davanti alla sua porta. Il perdente esclamò all'improvviso: «Questo b r u t t o tiro assomiglia m o l t o a quello che h a n n o giocato a Sheikh Smain!». Ora, Sheikh Smain era alla finestra. Si sporge e grida al giovanotto: «E qual è questo bel tiro che mi avrebbero giocato? Me lo vuoi dire? Perché Sheikh Smain s o n o io». «Ebbene, la t u a f i d a n z a t a ha lasciato il paese. I suoi fratelli l'hanno portata con sé all'altro capo del mondo.» Il principe pagò le arance del perdente. Poi prese il fucile e il cavallo, e partì in tutta fretta verso la foresta. Ma dov'era la tenda che ospitava la fanciulla più bella della luna e della rosa?... Il principe stava per fare dietrofront, q u a n d o u n a cosa attrasse la sua attenzione: era, sotto u n a pietra, il messaggio che gli aveva lasciato Runja. Egli lo lesse: "La pace sia su di te, Sheikh S m a i n . Se mi vuoi a n c o r a c o m e sposa, vieni a cercarmi nel paese delle Indie". Il principe tornò al palazzo senza perdere tempo, riempì un sacco di monete d'oro e, tenendo per le redini il cavallo, annunciò ai genitori che era risoluto a ritrovare Runja, più bella della luna e della rosa, o a morire. Invano sua m a d r e cercò di trattenerlo con le sue lacrime. Egli partì. E lei lo seguì a lungo con lo sguardo. Andò. Andò sul suo cavallo nero. Incontrò un pastore: «Pastore, non hai notato u n a carovana che si portava via u n a fanciulla?» gli gridò Sheikh Smain. «Due giorni or sono è passata u n a fanciulla più bella della luna nel firmamento. Essa mi ha gettato questo anello con queste parole: "Da' questo anello al cavaliere che ti chiederà notizie di me".» Il principe si 336
mise l'anello al mignolo e diede al pastore u n a manciata di monete d'oro. Viaggiò notte e giorno, con la pioggia e col vento. Attraversò numerose contrade e penetrò in un paese desolato. Gli spalti della capitale e r a n o ornati, in m o d o sinistro, di teste tagliate e infilzate su delle picche. Il cavallo fece un balzo prodigioso e Sheikh Smain si ritrovò all'interno della città. Un filo di fumo saliva nell'aria da u n a casa lì vicino, il cui ingresso era guardato da un negro gigantesco. Il negro disse: «Dove hai preso l'audacia di arrivare fin qui? Non sai che sono io che ho r i d o t t o in rovina q u e s t a città?». «Prendi la t u a sciabola» rispose con calma Sheikh Smain. «Prendi la tua sciabola e battiamoci.» Il negro ebbe la peggio, cadde e il principe stava per finirlo quando, con sua grande meraviglia, vide questo negro trasformarsi e assumere le sembianze di u n a d o n n a dalla nobile acconciatura. Essa supplicò: «Per Dio, non uccidermi. Come donna, sarò la tua schiava. Come negro, non avrai guardia del corpo migliore di me, perché mi batterò per te fino alla morte». Sheikh Smain prese il negro per m a n o e si allontanò con lui. Camminarono, c a m m i n a r o n o a lungo. Al calare della notte, scorsero sulla collina u n a casupola illuminata. Vi abitavano sette fratelli con la loro sorella, u n a giovane fanciulla, che osservavano con inquietudine l'avvicinarsi dei viaggiatori. Il maggiore disse: «Se sono degli onesti viandanti, offriremo loro l'ospitalità. Se sono dei malfattori, ci difenderemo». Sheikh Smain e il negro entrarono. Un'adolescente dal viso dolce li accolse insieme ai fratelli e offrì loro della focaccia di frumento, della frutta e del latte. «Questa giovane fanciulla è nostra sorella» spiegò il maggiore dei fratelli. «Il re degli infedeli ce la vuole rapire e ogni giorno, per difenderla, ci b a t t i a m o 337
contro un esercito. Ma ci b a t t e r e m o così fino alla morte, perché nulla ci è più caro al m o n d o di questa nostra sorella dal viso di latte e dai capelli color del mais.» «Domani» promise Sheikh Smain «assisteremo non visti al combattimento.» L'indomani, vedendo che non vi erano né vinti né vincitori il principe e il suo negro fedele presero le loro sciabole e si unirono ai sette fratelli. L'esercito del re degli infedeli fu decimato. I sette fratelli, che non erano degli ingrati, si rivolsero a Sheikh Smain e gli dissero: «Grazie a te e al tuo valente compagno, abbiamo trionfato. Prendi in sposa nostra sorella, te la sei meritata». «La p r e n d e r ò con gioia,» rispose Sheikh Smain «ma solo al mio ritorno, perché ho un impegno da assolvere lontano da qui.» Seguito dal suo negro fedele, Sheikh Smain prese la via delle Indie. Per giorni e giorni c o n t i n u a r o n o ad andare, meravigliandosi e disperandosi, a seconda delle circostanze, per ciò che incontravano. Alla fine penetrarono nel paese delle Indie. Una grande spossatezza era nelle loro m e m b r a : non aspiravano che a riposarsi del loro interminabile viaggio, e lo stesso valeva anche per il loro cavallo. Incontrarono u n a vecchia, vestita poveramente. Sheikh Smain le rivolse la parola dolcemente, dall'alto della sua cavalcatura: «Madre,» le disse «noi veniamo da molto lontano e siamo stremati. Dacci ospitalità per questa notte, nel n o m e di Dio». La vecchia li fece entrare nella sua casa, e si disse desolata di non avere altro da offrire che u n a focaccia d'orzo e u n a brocca d'acqua. Sheikh Smain le porse u n a manciata di monete d'oro ed essa corse al villaggio ad acquistare verdure, carne e frutta. Così potè preparare un pasto degno dei suoi ospiti e della loro grande fame. Nel corso della notte, il principe, rivolto alla vecchia, le chiese: «Madre, n o n sai se degli stranieri so338
no venuti a stabilirsi qui da poco tempo?». «Qualche giorno fa sono arrivati degli stranieri, figliolo, che portavano con sé u n a fanciulla più bella della luna e della rosa. Appena l'ha vista, il nostro sultano, abbagliato, l'ha sposata. Ma essa, a q u a n t o dicono, si è rinchiusa in u n a torre e non permette a nessuno di avvicinarsi a lei. A coloro che cercano di farlo essa scaglia delle pietre. Dicono addirittura che qualcuno ne sia morto.» «Non vorresti vederla da p a r t e nostra?» supplicò Sheikh Smain. «Figliolo, Dio mi è testimone che io non chiederei altro che di darvi gioia, perché siete stati tutti e due generosi con me. Ma come fare ad avvicinarmi a questa fanciulla, che dicono sia mezza matta?» «Quando la vedrai p r o n t a a farti del male, gettale questo anello, ed essa ti riceverà, ne sono sicuro» aggiunse Sheikh Smain. La vecchia si vestì decorosamente e se ne andò a trovare il sultano. Gli disse: «Questa notte ho sognato che riuscivo a convincere la tua giovane moglie ad accettarti come sposo. Permettimi di cercare di persuaderla». «Che Dio voglia prestarti ascolto e venirti in aiuto!» sospirò il sultano. E le indicò la via della torre. La fanciulla era alla finestra, e metteva in mostra il viso più meraviglioso che si possa vedere sotto la luce di Dio. La vecchia le sorrise da lontano e le fece segni di amicizia. Arrivata davanti alla torre, fece brillare nel sole l'anello che le aveva consegnato Sheikh Smain e glielo lanciò. R u n j a lo afferrò al volo, lo riconobbe e accolse nella torre la messaggera. La fanciulla era così felice che a stento riusciva a parlare. «Va' dal sultano e digli che se vuole che io scenda dalla m i a torre e sia veramente sua moglie deve ordinare che la città rimanga deserta per tutto il giorno, dal m o m e n t o che io desidero percorrerla in carrozza in lungo e in largo e non intendo essere vista da nessuno. E raccomanda a Sheikh Smain di 339
tenersi pronto a rapirmi non appena passerò davanti alla sua casa.» La vecchia fece r i t o r n o dal s u l t a n o e gli disse: «Dio è venuto in mio soccorso: la sultana acconsente a divenire realmente la tua sposa e a scendere dalla sua torre. Ma pretende che nessuno esca per strada oggi in città, dal m o m e n t o che intende passeggiare in carrozza». «Si compia la sua volontà, Dio sia lod a t o p e r averti m a n d a t a ! Oggi n e s s u n o uscirà in strada per tutta la città, pena la morte. E n e p p u r e domani.» Allora la vecchia corse come il vento da Sheikh Smain e dal suo b u o n negro che la attendevano con impazienza. «Preparati a partire» gridò con gioia al principe. «La fanciulla più bella della luna e della rosa passerà in carrozza davanti alla porta e non avrai che da prenderla al volo e affidarla al tuo cavallo nero.» Runja, più bella della luna e della rosa, non tardò a passare di lì. Sheikh Smain fece un balzo, la prese in braccio, e il cavallo più r a p i d o di un l a m p o li portò via tutti e due. A qualche passo di distanza li seguiva il negro fedele. Giunti che furono sulla sommità di u n a collina, il p r i n c i p e e R u n j a scesero da cavallo p e r riposarsi. Sheikh Smain appoggiò la testa sulle ginocchia della fidanzata e si addormentò. Si ridestò però di soprassalto perché u n a lacrima gli era caduta sulla guancia. Allora vide che la sua a m a t a stava piangendo. «Che hai?» le disse. «Non sei felice accanto a me?» Ma essa gli indicò in lontananza dei cavalieri che sopraggiungevano, e m o r m o r ò timorosa: «Ci inseguono. Stanno cercando me per riprendermi e riportarmi al sultano!». Sheikh S m a i n e r a già b a l z a t o in piedi: «Non avere alcun timore» disse teneramente alla fanciulla. «Con l'aiuto di Dio e del mio amico fedele li sconfiggeremo.» 340
Il principe e colui che non lo abbandonava né di giorno né di notte attendevano con la sciabola sguainata i cavalieri del sultano. E certamente gli angeli guerrieri del cielo f u r o n o dalla loro parte, perché di questo bell'esercito che veniva verso di loro in u n a nuvola di polvere ben presto non rimasero che morti, feriti e qualche povero fuggiasco. Sheikh S m a i n potè risalire t r a n q u i l l a m e n t e con Runja in sella al suo cavallo nero, seguito dal negro che faceva b u o n a guardia. Continuarono ad andare così, tutti e tre, giorno e notte, attraversando numerose contrade. Una mattina si spalancò alla loro vista un paese ridente, quello della fanciulla dai capelli color del m a i s e dal viso di latte che il p r i n c i p e aveva conteso al re degli infedeli. Essa se ne stava sulla soglia, in piedi, attorniata dai fratelli, rivestita di lunghi veli di seta a stelle d'oro. Attendeva che il suo sposo venisse a prenderla per m a n o e la portasse via con sé. Sheikh Smain apparve, la fece sedere acc a n t o a R u n j a sul suo cavallo nero, e p r o s e g u ì il viaggio, sempre accompagnato dal suo fedele negro. E continuarono a viaggiare, così, tutti e quattro, per giorni e giorni. Il principe si avvicinava ora al suo regno. Appena il suo cavallo nero ne ebbe varcato i confini, il negro t o r n ò ad a s s u m e r e le s e m b i a n z e di u n a splendida donna, dalla nobile acconciatura. Partito per riconquistare la fidanzata più bella della luna e della rosa, Sheikh S m a i n faceva d u n q u e ritorno insieme a tre donne di u n a bellezza abbacinante. Mentre le teneva tutte e tre sul suo cavallo nero e faceva insieme a loro il suo ingresso nella città natale, la più giovane dal viso di latte gli disse: «Io posso, se lo desideri, edificarti un palazzo ancora più imponente di quello di tuo padre, il sultano». «Quanto a me,» disse R u n j a «io posso creare attorno al palazzo il giardino più in341
caritevole, con fiori, f r u t t a e a d d i r i t t u r a gli uccelli del paradiso.» «Se tu lo vuoi,» disse alla fine la terza, dalla nobile acconciatura «io posso fare sgorgare in tutto il giardino fonti abbondanti e limpide che non si esauriranno né di giorno né di notte.» Gli abitanti della città furono colti dallo spavento quando, al levar del sole, videro ergersi davanti a loro il palazzo incantato nel bel mezzo di un folto parco e u d i r o n o il m o r m o r i o delle molteplici f o n t a n e frammisto al canto di innumerevoli uccelli. Il muezzin, m e n t r e c h i a m a v a i fedeli alla p r e g h i e r a , p e r l'impressione cadde dal minareto. E il sultano, ridestato di soprassalto da un r u m o r e inquietante, credette che qualche nemico fosse sotto le m u r a della città: "Chi sarà in grado di procurarmi informazioni corrette?" si chiedeva ansiosamente. Fu allora che gli si presentò Settut, la vecchia strega. Essa gli disse: «Andrò io a cercare informazioni, sultano. E neppure il vento mi batterà in velocità!». Prese quindi un cesto di farina, a n d ò a piazzarsi davanti all'ingresso del magico palazzo e cominciò ad accendere un bel fuoco di frasche in mezzo a tre grosse pietre. Poi impastò la sua focaccia e la mise a cuocere nel piatto che aveva di proposito posto alla rovescia sul fuoco. Le tre mogli di Sheikh Smain la osservavano dalla finestra. «Rovescia il piatto,» le gridò u n a di loro «altrimenti la tua focaccia non cuocerà mai!» «Io sono cieca, povera figlia mia» rispose Settut. «Non potresti venire a darmi u n a mano?» Quella delle spose che aveva il potere di trasformarsi in negro scese e si fece avanti con nobile incedere, facendo risuonare i pesanti anelli che ornavano le sue caviglie. «Chi sei, figliola?» chiese Settut col tono più insinuante. «Se devo giudicare dalla tua voce che è dolce e dalla tua m a n o che è perfetta, devi essere assai 342
bella e, se non bastasse, anche buona, perché ti occupi di u n a povera maldestra come me.» «Io sono la moglie di Sheikh Smain. E le mie due compagne che ti s o r r i d o n o dal b a l c o n e s o n o a n c h ' e s s e spose di Sheikh Smain. Se non fossi cieca le potresti vedere.» «Sheikh Smain!» esclamò Settut. «Hai proprio detto Sheikh Smain? Ma quello che hai appena nominato è il figlio della m i a cara sorella! Conducimi da lui immediatamente, in m o d o che io sia la prima a salutarlo e a stringerlo contro il mio cuore!» La giovane d o n n a la prese per m a n o e la condusse al cospetto del suo padrone. Settut si gettò sul principe e lo abbracciò. Facendogli mille moine, venne a sapere da lui tutto quello che sperava di udire. Dopodiché, si separò da lui e corse dal sultano veloce come il fuoco. «Sheikh Smain, tuo figlio, è ritornato!» gli a n n u n c i ò a n s i m a n d o . «Ha p o r t a t o con sé R u n j a più bella della l u n a e della rosa e d u e altre giovani d o n n e , oltretutto di u n o splendore pari al suo. E q u e s t o p a l a z z o che fa impallidire il t u o al confronto, questi giardini incantevoli e queste fontane appartengono tutti a lui!» Il sultano provò un grande dispiacere a vedersi superato in tutto. Sheikh Smain si considerava il più appagato degli u o m i n i : aveva ritrovato il suo paese. E viveva in m e z z o a spose belle e a s s e n n a t e le quali, lungi dall'invidiarsi e dal nuocersi a vicenda, si amavano. Così, non mancava ogni mattina di rendere grazie a Dio, nel suo cuore, per tutto questo, col viso rivolto a oriente. Ma ecco che un bel giorno volle associare a questa felicità suo padre, il sultano. Eccolo decidere di offrire un banchetto degno di lui. Allora, quella tra le sue spose che aveva il viso di latte non dovette far altro che rigirare un anello d'oro che aveva al dito per 343
veder sorgere innumerevoli tavoli di legno pregiato, ricoperti di grandi vassoi d'argento pieni di succulenti manicaretti. Davanti a un banchetto così regale, il s u l t a n o impallidì p e r lo s t u p o r e e l'invidia. Mangiò facendosi andare tutto di traverso e si sentì l a c e r a r e dagli artigli della gelosia. Giacché, lungi dall'incantarlo, la meravigliosa bellezza delle sue nuore era per lui invece u n a tortura. Così, da quel m o m e n t o , prese nel suo cuore vile la decisione di sopprimere suo figlio, Sheikh Smain, e di rapirgli le sue mogli e i suoi beni. Si sforzò c o m u n q u e di sorridere q u a n d o disse al principe: «Stasera sono stato tuo ospite. Ma domani, lo sarai tu da me». L'indomani, q u a n d o Sheikh S m a i n volle recarsi dal padre, Runja, più bella della luna e della rosa, lo trattenne con queste parole: «Mio signore, vedo del sangue tra i tuoi parenti». Egli rispose: «Si compiano la volontà di Dio e quella di mio padre!». «Ma alm e n o » proseguì la giovane d o n n a «prendi q u e s t o anello e fallo cadere nel tuo piatto tutte le volte che ti presenteranno u n a nuova portata.» Grazie all'anello prezioso, il principe sfuggì a u n a morte orribile. Il sultano, che si aspettava di vederlo c a d e r e a t e r r a f u l m i n a t o al t e r m i n e del pasto, fu enormemente deluso nel vedere il suo aspetto florido e il suo occhio vivace. «Non avevo o r d i n a t o di avvelenare t u t t o quello che sarebbe stato offerto al principe?» tuonò davanti ai suoi servi radunati. «Signore,» risposero i servi tremebondi «siete stato ubbidito, dal m o m e n t o che non vi è nulla tra quello che ha m a n g i a t o il principe che non contenesse del veleno, e che veleno!... Per avere assaggiato un avanzo di carne, un povero mendicante è morto sul colpo: lo abbiamo visto diventare tutto nero e rotolarsi per terra, senza poterlo soccorrere.» 344
Questa notizia parve placare un poco il sultano. Sospirò e si mise a pensare a un'astuzia per avere ragione di Sheikh Smain e di tutti gli angeli che vegliavano su di lui. Trascorsero settimane p r i m a che gli venisse un'idea fruttuosa. Ma un giorno si alzò sollevato e ordinò ai suoi uomini più devoti di scavare in fretta numerose botole nella sala dei ricevimenti. Queste botole vennero riempite all'inverosimile di spade e pugnali e ricoperte di tappeti sontuosi. Nessuno avrebbe potuto sospettare che in questa nobile sala fosse disseminata per ogni dove la morte. E il sultano si diceva, speranzoso: "Questa volta n o n mi sfuggirà. Soccomberà trafitto da spade e pugnali!". E, contento, se ne andò a trovare il principe per dirgli, nel m o m e n t o più favorevole: «Figlio mio, è l'effetto della vecchiaia?... Le sere mi s e m b r a n o sempre troppo lunghe. Domani, non potresti venire a passare la sera con me? È tanto che non godo più della tua piacevole compagnia!». L'indomani, mentre Sheikh Smain si accingeva a partire, la giovane moglie dal viso di latte e dai capelli color del mais lo arrestò: «Mio signore,» gli disse con tenerezza «vedo del sangue sui tuoi vestiti». Egli rispose: «Si compiano la volontà di Dio e quella di mio padre!». «Ma almeno» proseguì la sposa «prendi con te in braccio questa piccola levriera: essa ti guiderà. Ma, per Dio, seguila docilmente o sei perduto!» Il principe prese sottobraccio la cagnolina e si all o n t a n ò nell'oscurità. La lasciò a n d a r e sulla soglia della sala che doveva attraversare accanto al padre, e la seguì passo passo. Il sultano ebbe un bel cercare di distrarlo: il principe n o n aveva occhi che per la cagnolina. Alla fine essa si fermò. Sheikh Smain la prese allora sulle ginocchia, si sedette nel punto che essa gli aveva indicato e si mise a conversare col pa345
dre nel m o d o più piacevole di questo m o n d o , raccontandogli del suo viaggio fino al paese delle Indie. Bianco dalla p a u r a e dalla r a b b i a , il s u l t a n o lo ascoltava appena. Respirava a fatica, e la gelosia lo rodeva c o m e un f u o c o divoratore. Fu così che Sheikh Smain sfuggì a questa m o r t e che sembrava così sicura. Ma quanto più il sultano si sentiva impotente contro suo figlio e le forze che lo proteggevano tanto più si esasperava il suo desiderio di stroncarlo. Una mattina, n o n p o t e n d o n e più, a n d ò a trovare S h e i k h Smain e gli chiese: «Di grazia, esiste qualcosa in grado di sopraffarti? Forse la polvere da sparo, o il ferro, o la corda?». Il principe, che si stava riposando accanto a u n a fontana, nel suo magnifico giardino, rispose semplicemente: «Io non temo né il piombo, né il ferro né i legami. Tutti i fucili del m o n d o potrebbero sparare contro di me senza colpirmi; tutte le lame potrebbero trafiggermi senza che io soccomba. E spezzerei qualunque legame, foss'anche fatto con pesanti catene». «Ma allora, qual è la cosa che potrebbe avere ragione di te? Ce ne sarà pure una!» Il principe rifletté un po' p r i m a di rispondere. Disse: «Qui, nella mia tasca, tengo u n a catenella d'argento. Se acconsentissi a consegnartela in m o d o che tu possa avvolgermela intorno ai polsi, solo allora sarei senza difesa». «Ti prendi gioco di me» riprese il sultano. «Come vuoi che ti creda?» «Prova. Quando mi avrai legato con questa catenella dall'apparenza così fragile, mi vedrai in t u a balia e alla m e r c é di chiunque mi volesse far del male.» Tremante, il sultano prese la catenella e legò i polsi di suo figlio, che tentò invano di liberarsi. Solo allora il principe si sovvenne di ciò che gli aveva detto la giovane moglie dalla nobile acconciatura per met346
terlo in guardia, q u a n d o si era avviato verso la fontana dove lo attendeva suo padre: «Mio signore,» gli aveva gridato la sposa che aveva il potere di trasformarsi in un negro «mio signore, vedo del sangue tra i tuoi parenti e questa volta temo che nulla possa salvarti!». Ed era stato così sventato da risponderle ancora: «Si compiano la volontà di Dio e quella di mio padre!». Una gioia diabolica pervadeva il sultano davanti a questo figlio invulnerabile rimasto ormai senza più difesa. Si poteva essere così stupidi o pazzi da consegnarsi tra le mani del proprio peggior nemico? Finalmente il sultano avrebbe potuto godere del palazzo incantato, dei giardini dalle molteplici fontane e delle tre d o n n e meravigliose che vi regnavano! Delirante di gioia, chiamò i suoi servitori e ordinò loro di cavare gli occhi a Sheikh Smain e di metterglieli nelle tasche. Il principe privo della vista rimase fermo, in piedi, più debole di un bambino, con i polsi segati e insanguinati dalla minuscola catenella che si era sforzato disperatamente di rompere. Il sultano diede ordine di caricarlo su un mulo e di condurlo nel folto della foresta per farlo divorare dalle belve feroci. Appena g i u n t o nel fitto della foresta, Sheikh S m a i n disse al servo che lo a c c o m p a g n a v a : «E tu non avrai pietà di me, n o n mi libererai i polsi, non spezzerai questa maledetta catena che ha fatto di me la più miserabile tra le creature?». Il servo lo liberò e si ritirò tutto confuso. E il povero principe si sedette ai piedi di un albero e si mise a meditare. Stava sopraggiungendo la notte, u n a notte fresca. Sheikh Smain era solo col r u m o r e delle foglie e del vento. Per difendersi non aveva che un bastone posato accanto a lui e qualche pietra. Ma avrebbe poi potuto servirsene? E r a cieco... All'improvviso percepì, molto in alto, u n a sorta di lamento: era un'aqui347
la tutta spiumata che implorava i suoi piccoli di coprirla con le loro ali perché tremava di freddo. «Niente da fare» rispondevano feroci gli aquilotti. «Puoi tranquillamente morire di freddo, se vuoi. Quello che succede a Sheikh Smain ci insegna che non bisogna aspettarsi bontà da parte dei genitori e che bisogna trattarli senza pietà. Maledetto sia il padre che ha cavato gli occhi del migliore dei principi e lo ha condotto nella foresta perché finisca in pasto alle bestie feroci!» «Sheikh Smain ha i suoi occhi nelle tasche» rispose in tono grave la vecchia aquila. «Se vuole rivedere la luce del b u o n Dio, prenda un po' di foglie di questo bell'albero al quale è addossato, le mastichi e poi se le sprema contro le palpebre. Dopodiché, dovrebbe rimettere delicatamente ogni occhio al suo posto e attendere. Di lì a un momento, la luna rotonda gli apparirebbe tra le stelle, nel cielo, e domani la luce del giorno lo abbaglierebbe al risveglio.» Sheikh S m a i n ascoltò il d i s c o r s o della vecchia aquila e pregò Dio che si realizzasse quello che aveva appena udito. Tese le braccia e colse u n a manciata di foglie strappandole da un r a m o basso. E r a n o foglie strette e lisce. Le masticò. Non appena ne ebbe spremuto il succo nelle orbite, prese delicatamente gli occhi e se li rimise, quello sinistro a sinistra e quello destro a destra, con grande pazienza, per paura di sbagliare. Poi chiuse le palpebre e attese, trem a n d o per la speranza. Quando li riaprì, un attimo dopo, la luna lo guardava nel cielo trapunto di stelle. Sheikh Smain ringraziò la vecchia aquila e rese grazie a Dio nel suo cuore. Quindi si avvolse stretto nel burnus e si a d d o r m e n t ò felice, su un giaciglio di foglie secche. La luce del b u o n Dio lo abbagliò al risveglio. Si alzò. Colse un mazzo di foglie dell'albero miracoloso, riprese il suo bastone e si rimise in cammino. Andò s e m p r e d r i t t o a t t r a v e r s o la foresta. Cam348
minò, c a m m i n ò a lungo. Q u a n d o si vide davanti a dei bei campi coltivati, si fermò per riprendere fiato. Un vecchio, intento a spingere un gregge, lo notò sul bordo del sentiero e gli m a n d ò u n o sguardo pieno di bontà. «Padre mio,» gli disse il principe «mi vorresti come figlio? Tu sei anziano e ti vedo ancora costretto a lavorare.» «Figliolo,» rispose il vecchio «è Dio che ti manda, perché siamo soli, m i a moglie e io. I nostri campi sono vasti, tu li coltiverai per noi e alla nostra morte tutto quello che possediamo sarà tuo.» Sheikh Smain e il b u o n vecchio entrarono nel villaggio. Si fermarono davanti alla p r i m a casa: era rustica ma tenuta bene; un bel fico le faceva ombra e la rendeva accogliente. «Dio ci ha m a n d a t o un figlio!» annunciò dalla soglia il vecchio alla sua compagna. Comparve u n a d o n n a anziana ma a n c o r a in forze. Alzò sul principe lo sguardo t r a s p a r e n t e e sorrise: «Sii il benvenuto, figliolo!» gli disse prendendogli la testa tra le sue mani scure. «Avevamo u n a tale p a u r a di morire soli. Potevamo augurarci un figlio più ammodo?» Essa servì, nella stanza più luminosa, un grande piatto di cuscus innaffiato di latte. Al principe, che aveva u n a gran fame, sembrava di non avere mai assaggiato cibo più delizioso. Per festeggiare questo incontro fortunato vi f u r o n o anche frutta e caffè. E i due vecchi e il principe resero grazie a Dio per avere concesso un figlio a due anziani solitari e dei genitori a un giovane odiosamente tradito dal proprio stesso padre. Per tutti si apriva u n a vita nuova. Una vita pacifica e dolce. L'indomani, q u a n d o la vecchia si accingeva a fare il b u r r o in u n a zucca svuotata che le serviva da zangola, Sheikh Smain si fece avanti e dichiarò: «Tutto questo latte che vedi diventerà burro». Gettò quindi nella zangola u n a delle foglie che aveva colto dall'al349
bero m i r a c o l o s o e t u t t o il latte si t r a s f o r m ò in un enorme blocco di burro. Stupita, la vecchia chiamò le vicine: esse accorsero a frotte per constatare il miracolo e supplicare Sheikh Smain di venire da loro a battere il burro. Ben presto il principe si vide attribuito l'epiteto di "Mehend che batte il burro", e la sua popolarità si estese a tutto il regno. Sheikh Smain conobbe la pace in mezzo a queste persone semplici che lo amavano. Ma stava scritto che dovesse conoscere altre tribolazioni. Se ne rese conto il giorno in cui vide il padre adottivo estrarre da un vecchio cassettone un fucile antiquato e arrugginito e cominciare a lucidarlo. «Padre mio,» disse «perché quest'arma?» «Figliolo, il nostro signore, il sultano, vuole che a n d i a m o anche noi a batterci contro il negro che difende il palazzo e le mogli di suo figlio. Giacché non gli basta aver dato in pasto alle belve della foresta il nostro bel principe, dopo avergli fatto cavare gli occhi. Ecco che adesso insidia i suoi beni e le sue mogli. Ma un negro terribile le dif e n d e f e r o c e m e n t e e le d i f e n d e r à fino alla m o r t e . Sventura agli imprudenti che gli si avvicineranno!» «Padre mio,» disse Sheikh Smain «il tuo posto non è in combattimento. Mi batterò io in vece tua.» «No, figliolo. La mia vita volge al termine, mentre la tua è a p p e n a agli inizi. La m o r t e p u ò a n c h e p r e n d e r m i , n o n sarebbe u n a grande perdita.» «Partirò io!» riprese con maggiore ardore il principe. E la disputa rischiava di prolungarsi, se la vecchia non vi avesse posto fine. «Partite tutti e due» disse. «Il padre vigilerà sul figlio e io pregherò perché mi siate resi al più presto.» Partirono dunque, il vecchio a r m a t o di un bastone e il figlio di un fucile. Un negro gigantesco faceva la guardia al palazzo incantato. Brandendo u n a scimitarra, menava gran fendenti a destra e a sinistra. Ap350
pena scorse attraverso u n o spioncino Sheikh Smain, che si era reso irriconoscibile con u n a maschera, il negro annunciò alle due giovani donne, sue compagne, che all'interno del palazzo tremavano dal terrore: «Sento l'odore del mio signore!». «Ahimè» risposero quelle tristemente. «Il nostro signore è morto. Così, q u a n d o sentirai venir m e n o la tua forza, n o n m a n c a r e di avvisarci, in m o d o che noi possiamo inghiottire il veleno che abbiamo preparato. Giacché è meglio m o r i r e che essere del p a d r e m o s t r u o s o del nostro b e n e a m a t o signore.» Sheikh Smain, sciabola alla m a n o , si era aperto un passaggio in mezzo alla folla stupefatta. «Sento l'odore del mio signore!» disse di nuovo il negro, ma q u e s t a volta con m a g g i o r e convinzione, alle d u e d o n n e che osservavano dallo spioncino. Allora Runja, più bella della luna e della rosa, disse: «Ecco u n a mela. Gettagliela: se egli se la porterà alle narici e se la metterà in tasca, sarà davvero lui. Ma se la lascerà a terra, non ci resterà che morire». Il negro gettò la mela. Il giovane guerriero la raccolse, ne aspirò a lungo la fragranza e se la fece scivolare in tasca. «È lui, è p r o p r i o lui! Dio sia lodato!» e s c l a m a r o n o R u n j a e la sua c o m p a g n a dal viso di latte. E u n a grande speranza colmò i loro cuori. Sheikh Smain, adesso, si trovava a tu per tu col negro. Sottovoce gli disse: «Uccidi un animale e riempi di sangue l'intestino; legatelo intorno al petto, sotto i vestiti. Io p e r f o r e r ò l'intestino con la m i a sciabola. Il sangue si spargerà sul tuo corpo: a questo punto, tu fingiti morto e lasciati cadere a terra». Quella notte il negro fedele sgozzò un agnello, ne riempì di sangue gli intestini e all'alba se li arrotolò intorno al petto nudo. Sheikh Smain si batteva come un leone. Compiva tali e tanti atti di valore che non 351
si potè impedire che u n a voce si levasse e dicesse alla folla: «Se volete che questo negro venga abbattuto, date a questo giovane valoroso l'armatura e il cavallo di Sheikh Smain, perché merita questo onore. E vedrete che ucciderà il negro irriducibile». Avvisato, il sultano diede al guerriero il cavallo e la sciabola di suo figlio che credeva morto da tempo. Sheikh Smain, in sella al celebre cavallo che gli era valso tante vittorie, si accinse a piantare la sciabola nell'intestino gonfio di sangue. Il negro si accasciò. Alcuni dei combattenti si staccarono dalla folla per gettarsi pieni di odio su di lui, con la pretesa di vendicare q u a l c h e c o n g i u n t o . Ma il g u e r r i e r o li fermò. Ponendosi davanti alla vittima, disse a gran voce: «Quest'uomo è morto e il suo cadavere spetta a me. Che nessuno gli si avvicini!». I m p a z i e n t e di i m p a d r o n i r s i del p a l a z z o e delle mogli del figlio, il sultano convocò l'indomani i notabili della città e disse loro: «Ordino che voi dichiariate davanti ai miei sudditi che non vi è alcunché di sacrilego nel fatto che io sposi le vedove di mio figlio; ordino che voi proclamiate ad alta voce che al sultano è consentito sposare le vedove del figlio». «Va bene, signore» risposero umilmente i notabili. Una folla enorme si assiepava davanti al palazzo che non era più difeso da nessuno. Infatti il sultano aveva i n n a l z a t o il suo s p l e n d i d o t r o n o d a v a n t i al maestoso ingresso ed era circondato dai sette notabili che sembravano altrettanti bianchi colombi. Un immenso clamore si alzò: erano sei notabili, che gridavano, col viso rivolto al cielo: «Sì, brava gente, è lecito, è degno e giusto che il sultano sposi le vedove di suo figlio!». Una voce sola, inesorabile e fredda come u n a lama, si alzò a sua volta per proclamare: «Sventura al padre che osa insidiare le sue nuore. Sventura al pa352
dre che osa sposare le vedove di suo figlio, perché commette un sacrilegio!». E questa voce era quella del settimo notabile. Il sultano lanciò u n o sguardo severo al guastafeste che osava contraddirlo, e diede ordine ai suoi domestici di bastonarlo di santa ragione. Per sette volte i primi sei notabili dichiararono: «La legge di Dio permette l'unione del padre con le sue nuore». E per sette volte, la voce del settimo notabile proclamò, sempre più patetica: «Dio maledice l'unione del padre con le sue nuore!». E per sette volte questo giusto venne bastonato di santa ragione e ricoperto di insulti. Alla fine, Sheikh Smain lasciò cadere la maschera che lo rendeva irriconoscibile per chiunque non fosse il suo fedele negro, e si piazzò davanti a suo padre. Sulla sua magnifica cavalcatura, appariva prestigioso come il f u l m i n e , temibile q u a n t o l'Angelo della Morte. «Scendi da questo trono!» intimò a suo p a d r e , con voce s p r e z z a n t e . «Perché è n e c e s s a r i o che sia fatta giustizia!» Costrinse il sultano a sedersi per terra come un mendicante e si servì del suo ginocchio come di un ceppo per tagliare la testa ai sei notabili che avevano osato p r o c l a m a r e d i n a n z i al cielo: "Dio p e r m e t t e l'unione del p a d r e con le sue nuore". Al settimo disse: «Uomo giusto, ti faccio dono di tutti i beni di questi empi». Da ultimo si rivolse al padre e gli inchiodò al muro le m a n i e i piedi. Con voce cupa ordinò: «Si accenda un fuoco lento sotto i suoi piedi, affinché bruci a poco a poco e si ricordi di tutti i suoi misfatti». «Padre indegno,» proseguì dolorosamente il principe «non sei tu che mi hai insegnato u n a simile crudeltà? E la sorte che ora subisci tu, non la faresti subire a me se io cedessi alla pietà? Ricordati dei tuoi delitti contro di me: Non hai cercato per tre volte di togliermi la vita? Dapprima hai fatto ricorso al vele353
no; un anello magico mi ha salvato. Allora hai pensato di farmi cadere in u n a botola colma di spade e di pugnali dissimulata da sontuosi tappeti. Ed è alla mia levriera che devo il fatto di n o n essere morto, trafitto da ogni parte. Alla fine, hai voluto sapere che cosa mi potesse rendere impotente e innocuo quanto un b a m b i n o , e sono stato t a n t o ingenuo da consegnarmi in m a n o tua e farmi incatenare dalla catenella d'argento che, sola, aveva il potere di immobilizzarmi. Mi hai così avuto alla tua mercé e mi hai fatto cavare gli occhi. Mi hai consegnato in pasto alle belve: io, tuo figlio, cieco e disarmato. Ma questo ancora non ti bastava: hai corrotto i notabili, hai insidiato le mie spose e i miei beni!» E Sheikh Smain, sordo alle grida strazianti che gli giungevano attraverso le alte fiamme, si allontanò, triste da morire. Nel suo meraviglioso palazzo lo attendevano il negro fedele che, al vederlo, tornò ad assumere le semb i a n z e di d o n n a dalla nobile a c c o n c i a t u r a . Ma il canto delle molteplici fontane e degli innumerevoli uccelli, la freschezza della sua sposa dal viso di latte e dai capelli color del mais, la fedeltà e l'amore del suo popolo, oltre allo splendore di Runja, più bella della luna e della rosa, riuscirono a malapena a sedare il male segreto che gli rodeva il cuore. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
20. S T O R I A DI B E L À J U D H E D E L L ' O R C H E S S A T S E R I E L
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si d i p a n i c o m e un lungo filo! Viveva u n a volta in un certo villaggio un ragazzino che si c h i a m a v a B e l à j u d h , e q u e s t o B e l à j u d h era 354
sempre in cerca di qualche scherzo per divertire e prendere in giro i suoi simili. Un bel giorno, si arrampicò sul fico che cresceva sul m a r g i n e del sentiero e si mise a gridare: «Chi vuole m a n g i a r e dei fichi, chi ne vuole? Il fico di B e l à j u d h è carico di f r u t t i m a t u r i al p u n t o giusto. Chi vuole mangiare dei fichi fuori stagione? Quelli che vogliono m a n g i a r n e a c c o r r a n o : il p a r a d i s o di Dio è sceso in terra!». Beninteso, il fico non aveva n e m m e n o un frutto. Nell'ora più calda, passò l'orchessa. C'era un sole da far stramazzare un asino: Tseriel, l'orchessa, si recava a bere al ruscello che lambiva il fico. Essa udì B e l à j u d h che gridava: «Chi vuole m a n g i a r e dei fichi?...». Tseriel era cieca ma gigantesca; la sua chioma si rizzava al cielo come un cespuglio. Tseriel disse: «Cercavo proprio te!». Protese il braccio verso l'albero, e afferrò Belàjudh per un piede. Lo tirò giù e lo rinchiuse in un otre. Non avendo u n a corda, cercò a tentoni intorno a sé qualcosa per legarlo: le sue dita incontrarono delle foglie di cipolla selvatica. Se ne servì per legare l'otre che poi appoggiò al fico. Poi si apprestò a recitare la sua preghiera del mezzodì. Belàjudh attese che essa a n d a s s e al ruscello a fare le sue abluzioni, q u i n d i ruppe il fragile legame e se ne uscì. Raccolse dei sassolini, ne riempì l'otre, lo richiuse e poi si allontanò. Tseriel pregò. Poi estrasse dal corsetto un pezzo di focaccia e dei fichi. Mangiò, bevve al ruscello, e alla fine si diresse verso l'otre, mentre Belàjudh raggiungeva u n a piccola sporgenza del terreno per non perdersi nulla della scena. Tseriel cercò di sollevare l'otre. L'otre le c a d d e di m a n o . Disse tra sé: "Che cos'ha m a n g i a t o ? Per quale motivo B e l à j u d h , che era così leggero un m o m e n t o fa, adesso è così pesante?". Alla fine riuscì a caricarsi l'otre sulle spalle. Fe408
ce qualche passo, ma i sassolini si misero a punzecchiarle le spalle. Gridò: «Tira indietro le ginocchia, Belàjudh, mi fanno male contro la schiena!». Da lontano, Belàjudh le rispose scoppiando a ridere: «Cosa vuoi da me, madre-nonna? Credevi davvero di riuscire a tenermi legato con foglie di cipolla selvatica? Apri un po' il tuo otre, per vedere che cosa c'è dentro!». Furiosa, l'orchessa gettò a terra l'otre. Il legaccio si spezzò e i sassolini schizzarono fuori e si dispersero per ogni dove, ferendo Tseriel a un piede. «Che Dio ti tragga in inganno come tu hai tratto in i n g a n n o me!» gridò. «Un giorno toccherà a te e ti catturerò.» Sperando di sorprendere Belàjudh, l'orchessa n o n mancava di tornare tutti i giorni dalle parti del fico. Un bel mattino, Belàjudh tornò sul fico. Si arrampicò sul r a m o più alto e guardando non i suoi piedi ma il cielo, si mise a gridare: «Chi vuole mangiare dei fichi, chi ne vuole? Il fico di Belàjudh è carico di frutti m a t u r i al p u n t o giusto. Chi vuole mangiare dei fichi fuori stagione? Quelli che vogliono mangiarne accorrano: il paradiso di Dio è sceso in terra!». Nell'ora più calda, passò l'orchessa. Udì Belàjudh che gridava: «Chi vuole dei fichi?...». Protese allora il braccio tra i rami, e afferrò Belàjudh per un piede. Lo rinchiuse in un otre e lo legò saldamente. «Questa volta non ti salverai!» gli disse buttandosi in fretta l'otre sulle spalle. Invano Belàjudh cercò di pungerla con i gomiti e con le ginocchia. Per quanto si girasse e si rigirasse nell'otre, non riuscì a sfuggire all'orchessa. Appena arrivata a casa, Tseriel palpò Belàjudh e lo trovò magrolino. Per farlo ingrassare, lo rinchiuse in una dispensa traboccante di miele, di burro, di fichi secchi, di datteri e di noci, raccomandandogli: 409
«Mangia tutto quello che vuoi». E gli chiuse la porta in faccia. Belàjudh mangiava e dormiva, dormiva e mangiava. L'orchessa gli dava da bere attraverso un piccolo sportello. Trascorsa u n a quindicina di giorni, si avvicinò allo sportello e gli disse: «Belàjudh, figliolo, porgimi la tua m a n i n a perché io veda se è più paffutella». Egli le allungò il manico di un cucchiaio di legno. «Sei sempre così secco!» gli disse indispettita. E se ne andò a caccia. Dopo qualche giorno, disse di nuovo: «Porgimi la tua m a n i n a , Belàjudh, figlio mio!». Egli le offrì il manico di u n a scure. Ma l'orchessa dichiarò: «Ti do a n c o r a otto giorni. È tutto quello che Dio ti avrà concesso di vivere: m a g r o o grasso, fa lo stesso. Vado a invitare i miei parenti e a cercare mia figlia Butellis che è da sua zia». L'indomani portò con sé Butellis. Butellis aveva un occhio bianco (ci vedeva, cioè, solo dall'altro). La vigilia del gran giorno, Tseriel si rivolse a lei e le disse: «Macina del frumento, prepara semola in quantità, prepara i grani del cuscus, perché all'alba me ne andrò a invitare le mie sorelle, i miei fratelli, le mie zie, insomma tutta la nostra famiglia. Al ritorno passeremo dalla foresta e prenderemo della legna. Nel frattempo, tu accendi il fuoco e mettici sopra il pentolone dei matrimoni. Dopodiché, fa' uscire Belàjudh dalla dispensa, sgozzalo e gettalo nella pentola dopo averlo fatto a pezzettini. Non dimenticarti il sale, il peperoncino, le spezie e gli aromi. E che sia tutto pronto per il nostro arrivo». Belàjudh, con l'orecchio attaccato alla porta, non si perdeva u n a p a r o l a delle r a c c o m a n d a z i o n i che l'orchessa faceva alla figlia. Tseriel uscì all'alba. Butellis riordinò la casa, accese il fuoco, sbucciò parecchie grosse cipolle che poi fece macerare in olio e peperoncino. Quindi mise sul 410
fuoco il pentolone dei matrimoni e si diresse verso la dispensa. Ma appena ebbe aperto l'anta, Belàjudh le saltò alla gola. La sgozzò e la buttò nella pentola. Rivestì quindi i suoi abiti, si coprì il capo col suo foulard, cinse la sua cintura e si occupò del banchetto. Fece cuocere il cuscus a vapore, poi lo imburrò per separarne con cura i granelli. Lo suddivise in tre immensi piatti di legno e n o n si dimenticò di gettare nel sugo u n a m a n c i a t a di spezie. Q u a n d o t u t t o fu p r o n t o , siccome Butellis aveva un occhio b i a n c o , Belàjudh per non farsi riconoscere si mise u n a benda sull'occhio: avrebbe fatto finta che il f u m o facesse lacrimare il suo occhio perduto. E Belàjudh salì sul tetto per spiare l'arrivo dell'orchessa e del suo seguito. Da lontano li vide avanzare recando con sé tronchi d'albero e fascine. E r a n o novantanove. Con Tseriel erano cento: intorno a loro c'era un gran viavai di orchetti e orchette. Belàjudh scese e si fece loro incontro. Imitando la voce di Butellis diede a tutti il benvenuto. Gli orchi si raccolsero intorno a un piatto di cuscus, le orchesse intorno a un altro, e gli orchetti e le orchette intorno a un terzo piatto. E si misero a mangiare con grande appetito. Belàjudh versava il sugo, serviva la carne, portava da bere, si occupava di tutti. Le orchesse gli dissero: «Orsù, vieni a mangiare, Butellis!». Ma egli rispose amabilmente: «Quando avrete finito, zie. Prima voglio servirvi!». N o n l o n t a n o dal focolare, nel cortile, i t r o n c h i d'albero e le fascine che orchi e orchesse avevano recato formavano un enorme cumulo. Belàjudh prese un tizzone ardente e lo infilò al centro del mucchio di legna per darvi fuoco e prepararsi la fuga. Proprio in quel m o m e n t o , u n ' o r c h e t t a , m a n g i a n d o , trovò l'occhio b i a n c o di Butellis. Tirò la m a d r e p e r un braccio e bisbigliò: «Mamma, l'occhio della cugina 411
Butellis!». «Dai, mangia!» le rispose la m a d r e . Ma Forchetta riprese, a l z a n d o la voce: «Ti dico che è l'occhio della cugina Butellis!». L'occhio passò di m a n o in mano. E ciascuno disse: «È l'occhio di Butellis!». Belàjudh prese allora u n a manciata di peperoncino in polvere e saltò sul tetto gridando: «Tseriel ha mangiato sua figlia!». Tseriel si era già precipitata su di lui. Aveva appen a a f f e r r a t o B e l à j u d h p e r u n piede q u a n d o questi scoppiò a ridere dicendo: «Ah, ah! Ha preso u n a radice e crede che sia il mio piede!». E s s e n d o cieca, essa mollò la presa. B e l à j u d h le gettò in faccia la manciata di peperoncino in polvere. Tseriel si piegò verso terra con gli occhi in fiamme. Orchi, orchesse, orchetti e orchette si stavano già lanciando in suo aiuto q u a n d o alte f i a m m e avvolsero il cortile. Tseriel e i suoi familiari ebbero il loro da fare per spegnere l'incendio. Ed è così che Belàjudh riuscì a sfuggire loro. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
21. IL G A T T O P E L L E G R I N O
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani c o m e un lungo filo! C'era u n a volta, in un villaggio, un gatto che sterm i n a v a tutti i topi del circondario. E r a b e n conosciuto e quando lo scorgevano - foss'anche da grande d i s t a n z a - topini e topine fuggivano a g a m b e levate. Per molto tempo rimase così a mani vuote. Allora, si mise a pensare al m o d o di attirare verso di sé i topi. Per qualche giorno n o n si fece vedere in giro e fe412
ce circolare la voce che fosse andato in pellegrinaggio. Un bel mattino, uscì, si fece vedere e fece annunciare sulla pubblica piazza e fuori dal villaggio: «Sono andato alla Mecca; mi sono purificato. Adesso onorerò Dio. Non mangerò più un solo topolino. Mi sposerò e inviterò alla festa i miei amici e anche i miei nemici. A tutti offro un banchetto. Chi mi vuole bene, venga a f a r m i un saluto. Dovunque vi sia un topo, venga a farmi visita, affinché ci riconciliamo e diveniamo amici». La notizia si sparse di villaggio in villaggio. I topini e le topine che si i n c o n t r a v a n o si dicevano l'un l'altro: «Avete sentito? Il gatto è tornato dal pellegrinaggio! Si sposa e ci invita alle nozze! D o b b i a m o portargli i nostri saluti e le nostre felicitazioni». I topi erano pervasi di allegria e speranza: «Dove ti metteremo, o gioia!» gridavano. «Non conosceremo più la paura. Potremo entrare e uscire a nostro piacimento perché non dovremo più temere, ormai, il nostro unico nemico!» Per rendere onore al gatto pellegrino, i topi indossarono i loro abiti più belli: delle bianche gandura, dei burnus del Djerid. Si p o s e r o in capo degli alti turbanti e si infilarono le scarpe più nuove. Le topine, da parte loro, si truccarono con cura: si tinsero di rosso le labbra con corteccia di noce. Si passarono del n e r o sugli occhi e del r o s a sulle g u a n c e . Estrassero dai forzieri i loro ornamenti più brillanti e li indossarono: vesti di seta, veli di tulle. Si annodarono sulla fronte i foulard dalle lunghe frange e si misero tutti i loro gioielli. Vestirono a festa anche i loro piccoli. E poi, prepararono dei doni: uova, frutta, fichi secchi, noci, uvetta, datteri, grano, fave. Tutte misero in piccoli cesti quanto di più prezioso possedevano per offrirlo al gatto pellegrino. Da parte sua, quest'ultimo preparò con cura il suo 413
ricevimento. Tappezzò la casa di stuoie, tappeti, coperte. Sigillò anche tutti i buchi. In un angolo collocò il proprio trono: lo ricoprì di drappi scarlatti, lo guarnì di cuscini. Lasciò u n a sola apertura, quella attraverso la quale dovevano entrare i topi. Davanti a questa apertura fece appostare un micetto con l'incarico di c o n d u r r e fino al t r o n o tutti i topi che si presentavano. Dopodiché pensò alla sua toilette. Indossò u n a jallaba bianca come la neve e si avvolse intorno al capo il t u r b a n t e verde dei pellegrini. Prese posto sul trono e attese i suoi invitati. Per prime entrarono le topoline, che tenevano con u n a m a n o i loro doni e con l'altra i loro piccoli. Seguivano, a gruppi, i topi. Dapprima il micetto condusse dal gatto pellegrino le topoline. Esse gli baciarono il capo e le mani e gli dissero: «La pace sia su di te, gatto pellegrino! Come stai, zio pellegrino? Dio sia lodato perché sei tornato sano e salvo!». A loro volta si fecero avanti i topi. «Che la tua vita sia lunga e prospera!» gli dissero. «Sia benedetto il tuo pellegrinaggio! Possa tu far ricadere sul nostro capo qualcuna delle grazie che hai riportato con te dalla Mecca!» «Siate i benvenuti» rispose loro il gatto lisciandosi lentamente i baffi. «Eccomi di ritorno. Non abbiate alcuna inquietudine, solo il bene ci u n i r à d'ora in poi. Ho giurato alla Mecca di non prendermela più con alcun topo.» Alle topine più timide disse con voce suadente: «Avvicinatevi, avvicinatevi, mettetevi a sedere senza timore accanto a me». Il micetto ritirava tutte le offerte per poi metterle in luogo sicuro. Ben presto la casa fu piena. Si form a r o n o dei gruppi. Le topine si confidavano tra loro: «Vedete com'è scritta chiaramente sul suo viso la bontà! Reca con sé il paradiso e la pace!». I topi e le topine erano in quantità tale che i tappe414
ti e le tappezzerie scomparivano sotto il loro numero. Ve n'erano di distesi, di appesi e di arrampicati dappertutto, e perfino sul soffitto. Ve n'erano anche a grappoli e a ghirlande; formavano delle catene intorno al trono. Allora, q u a n d o si fu assicurato che tutti i topi dei dintorni avevano risposto al suo appello, il gatto pellegrino fece segno al micetto: «Chiudi la porta e tieniti pronto!» gli disse con un tono che non ammetteva repliche. «E che non si salvi n e m m e n o un orecchio!» Cominciò con le topine che si erano sedute accanto a lui, e in seguito inghiottì u n o per uno tutti i topi che, presi in t r a p p o l a , cercavano, v a n a m e n t e , di uscire. Un solo vecchio topo si era rifiutato di entrare. Se ne stava in piedi, sull'ingresso, e osservava. Aspettava di vedere u s c i r e quelli che aveva visto e n t r a r e . Gridò al gatto pellegrino: «Io n o n mi sono fidato di te: la crusca non diventa farina, il nemico non diventa amico!». Nel giro di due giorni migliaia di topi f u r o n o divorati. Lui solo sopravvisse. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
22. IL F E G A T O D E L CAPPUCCIO
«Quando io ero giovane» mi dice l'ammirevole narratrice «non capivo perché le madri amassero i propri figli più di quanto questi ultimi le amassero a loro volta. Un giorno, mi rivolsi alla mia vecchia amica Gida Nana per manifestarle il mio stupore per come la nostra vicina adorasse e proteggesse il suo disgraziato figlio da cui non riceveva che insolenze. Gida Nana, i cui occhi chiari leggevano in tutte le cose e nei cuori, 415
mi disse: "Figlia mia, tu non sai (ma sei ancora tanto giovane!) che l'amore di una madre è tanto più forte quanto più questa madre ha sofferto e bevuto fiele per suo figlio e per opera di suo figlio?... Ma sta' a sentire questa leggenda che mi è stata tramandata da mia nonna, che l'aveva udita dalla sua, e così via, risalendo di nonna in nonna, fino al principio dei tempi".» Nei tempi antichi, molto, molto t e m p o fa, vi era un u o m o che viveva insieme alla sua vecchia madre e alla s u a giovane moglie. Come nell'arca di Noè, suocera e nuora non si potevano soffrire, e ogni min i m o incidente dava adito a interminabili dispute. Se la m a d r e diceva bianco, immediatamente la nuora diceva nero e, conteso tra queste due furie, il pov e r u o m o era infelice. Se prendeva le parti della madre, in un baleno la sposa faceva fagotto e correva a rifugiarsi dai suoi, lasciando il m a r i t o sconcertato. Se dava ragione alla moglie, u n a grandinata di insulti e maledizioni si abbattevano su di lui: la madre, p r e n d e n d o il cielo a testimone, lo sopraffaceva e lo sbeffeggiava. Lo stuzzicava nel suo orgoglio di maschio, accusandolo di non vedere che attraverso gli occhi di quella disgraziata di sua moglie. E per settimane, mesi, anni, l'uomo visse in un inferno. Ma un giorno, la sposa lo prese in disparte e gli disse: «Marito mio, fintantoché tua m a d r e sarà viva, n o n avremo mai pace e n o n conosceremo la gioia. D o b b i a m o d u n q u e ucciderla. D o m a n i , chiedile di a c c o m p a g n a r t i nel bosco: raccoglierete della legna secca. Quando la vedrai chinata, dalle un bel colpo di scure sulla testa e non dimenticare, prima di seppellirla, di strapparle il fegato e di portarmelo come prova della sua morte». L'indomani, all'alba, il figlio disse alla madre: «Ho lasciato molta legna secca nella foresta e l'inverno si 416
avvicina. Prendi u n a corda e vieni con me; tra tutti e due ne porteremo a casa un bel carico e domani toccherà a mia moglie accompagnarmi». La madre, senza sospettare nulla, prese u n a corda e seguì il figlio. La foresta era vicino al villaggio; vi giunsero di b u o n mattino. Raccolsero legna e fecero due fascine. Mentre la m a d r e si chinava per caricarsene u n a sulla schiena, il figlio la atterrò con un colpo di scure. Trascinò poi il cadavere verso un precipizio e qui gli aprì l'addome per estrarne il fegato. Quando lo ebbe avvolto con cura in un fazzoletto e gettato, ancora caldo, in fondo al cappuccio del suo burnus, n o n gli restò che seppellire la madre, cosa che fece in tutta fretta. Ma ecco che per strada due figli del male lo assalirono. Incuriositi dall'aspetto del cappuccio, avevano scambiato il fegato della vecchia per u n a borsa piena d'oro. I d u e m a l f a t t o r i avevano già sollevato il randello q u a n d o il fegato balzò fuori dal cappuccio, si liberò del fazzoletto e si mise a sussultare e a palpitare al suolo, a strisciare, a torcersi orrendamente, a danzare fremente e impazzito, a saltare, a svolazzare da un assalitore all'altro implorando: «Io l'ho partorito, lui n o n mi ha partorito, o figli del male, non uccidetelo!». Per lo stupore, i m a l f a t t o r i lasciarono a n d a r e il randello e si rivolsero all'uomo che tremava dal terrore. Allora, egli raccontò loro la sua storia: «O abitanti della terra,» disse «questo fegato che mi ha difeso, questo fegato che mi ha salvato, è il fegato di quella stessa m a d r e che ho appena ucciso e seppellito nella foresta. Lo avevo staccato ancora caldo per portarlo a mia moglie che lo aveva preteso. Già, perché per far piacere a mia moglie, ho assassinato mia madre!». E da allora, di villaggio in villaggio, per la Grande 417
e la Piccola Cabilia si racconta il miracolo del "fegato del cappuccio".
23. L ' U C C E L L O D E L L A T E M P E S T A
Che il m i o r a c c o n t o sia bello e si dipani come un lungo filo! In un villaggio remoto, molto, molto tempo fa, vivevano, in mezzo ai loro numerosi figlioli, un u o m o e u n a donna. Dio aveva concesso più figlie che figli, ma i genitori, nella loro saggezza, n o n se n'erano lamentati. Il padre lavorava nei campi con solerzia. La madre, per rivestire i suoi, trascorreva tutto il giorno, e anche u n a parte della notte, filando e tessendo. Le figliolette si rendevano utili e trotterellavano per casa: erano loro che andavano alla fontana a riempire b o r r a c c e e otri, che si r e c a v a n o nella f o r e s t a a prendere piccoli carichi di legna secca, che lavavano le stoviglie e preparavano di solito i pasti. I ragazzi aiutavano nel lavoro dei campi e, d'estate, portavano al pascolo le greggi in montagna. Agnelli e capretti fornivano in parte n u t r i m e n t o per questa casa che era invidiata nel circondario non solo per il suo buon u m o r e ma anche e soprattutto per il suo spirito di carità. Quando un mendicante chiedeva l'elemosina, nessuno faceva orecchie da mercante o rispondeva crudelmente: «Dio provvederà», giacché in questa famiglia il m e n d i c a n t e e r a c h i a m a t o "l'ospite di Dio". Appena si udiva la sua voce, u n o dei fanciulli si alzava per andare da lui. Non appena si udiva salire, al tramonto, il grande lamento: «Il pane di Dio, uomini di b u o n a volontà», un fanciullo correva a p o r t a r e all'ospite di Dio la sua parte di focaccia, di cuscus o 418
di latte. È per questo che regnava la letizia e ciascuno traeva profìtto dal nutrimento. Una sera d'inverno, u n a sera di tempesta, si udì la voce potente di un mendicante, che sovrastava il frastuono della pioggia e del vento. «Il pane di Dio, uomini di b u o n a volontà!» implorava questa voce. La m a d r e guardò i suoi figlioli e il marito, seduti i n t o r n o al piatto da p o r t a t a di legno pieno fino al bordo. Riempì quindi u n a scodella di cuscus, di verdure e di carne, e disse: «Chi vuole andare a portare questo allo sventurato che n o n ha p a u r a di uscire con un tempo simile?». «Vado io!» disse Yamina, la più piccola delle ragazze. E, b u t t a t a s i sulle spalle u n a vecchia coperta, a t t r a v e r s ò il cortile sotto lo scroscio, aprì la porta e disse all'ospite di Dio: «Ecco la tua porzione di cena!». Ma il mendicante prese la scodella ancora calda, la posò sulla soglia, si caricò sulle spalle la fanciulla e s'involò con lei come un uccello sotto la tempesta. Volò, volò a lungo, lontano da quel villaggio, lont a n o dal p a e s e di Yamina. Fu solo sul finire della notte che sospese il volo e depose la bimba. La fece sedere e mangiare al buio e le parlò in questi termini: «Dal m o m e n t o che sei caritatevole e buona, dal m o m e n t o che non hai avuto p a u r a di venire da me con q u e s t o t e m p o , ho voluto la tua felicità e ti ho portata via con me. Vivrai al centro di un vero e prop r i o p a r a d i s o terrestre. Ti b a s t e r à r i g i r a r e q u e s t o anello che ti infilo alla m a n o sinistra perché ti sia accordato tutto quello che puoi desiderare. Abiterai in un palazzo. Avrai vestiti di lusso e gioielli a profusione, e p e r a m i c i t u t t i i fiori che ti d i s p e n s e r a n n o , d'estate come d'inverno, i loro sorrisi e le loro grazie. E i f r u t t i più rari s a r a n n o in attesa di essere colti dalla tua mano. Solo, quanto a me, che sono accanto a te e ti parlo, non potrai mai vedermi, perché devo 419
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restare invisibile fino al giorno in cui sarò liberato da un sortilegio che mi è stato gettato da u n o spirito malvagio. Fino ad allora, piccola, n o n vedrai né il mio viso né i miei occhi. Dormirò sì accanto a te, ma senza che tu possa conoscere la m i a figura. Infatti ogni giorno me ne andrò prima dell'alba lasciandoti addormentata, e non farò ritorno che a notte inoltrata. Se accetti queste condizioni, se prometti di n o n cercare di sorprendermi, non ti mancherà nulla. La m i a presenza ti sarà p r e a n n u n c i a t a da u n a brezza leggera. Veglierò su di te e ti t e r r ò s e m p r e al m i o fianco». Yamina, che era a n c o r a u n a b i m b a , non poteva capire. «Io mi c h i a m o Yamina, ma te, c o m e devo chiamarti?». «Io sono l'Uccello della Tempesta.» «Allora accetto» disse Yamina. E si a d d o r m e n t ò del sonno dell'infanzia. L'indomani si svegliò molto tardi e credette di sognare q u a n d o si vide sola, in un letto immenso, in mezzo a seta, lana fine e piume. Yamina era in u n a stanza meravigliosa. Distese mollemente il braccio e scoprì su un vassoio del caffè, del latte, burro, miele, ogni sorta di ghiottonerie e di dolci. Aveva fame: mai nella sua bocca era entrato cibo più delicato. Accanto al letto la attendevano dei vestiti, disposti in bella vista, insieme a sciarpe preziose. Yamina, abbagliata, ci mise parecchio a fare la sua scelta. Indossò un abito giallo come lo zafferano. Calzò delle pantofoline che sembravano di corallo e uscì per fare il giro della sua d i m o r a . Attraversò stanze e s t r e m a m e n t e sontuose ma deserte; l'ultima si apriva sul più indimenticabile dei giardini. Yamina era v e r a m e n t e al c e n t r o di un p a r a d i s o terrestre. Gli occhi n o n le bastavano per a m m i r a r e tutto. Vi era ogni genere di frutta suscettibile di mat u r a r e sotto il sole di Dio, e c o n t e m p o r a n e a m e n t e 367
frutti autunnali, primaverili, invernali ed estivi. Si facevano allegramente compagnia uva, fichi, arance, prugne, pesche, albicocche, melagrane, nespole, fragole, mele e pere, per non parlare dei frutti venuti da terre lontane e di cui n o n conosceva n e m m e n o il nome. Gli uccelli che volavano di r a m o in r a m o stordivano Yamina col loro canto. Essa assaggiò tutto, oziò lungo il ruscello, all'ombra delle palme. Prestò ascolto al m o r m o r i o dei fiori e si divertì con i giochi dei pesciolini nell'acqua corrente. Colse gelsomini a manciate. Intrecciò corone e ghirlande e finì per addormentarsi sotto un alto albero nell'erba folta: sembrava un grande fiore giallo disteso. Quando si ridestò, l'attendeva un pasto servito su foglie di b a n a n o e di fico. Davanti al formaggio bianco, alle focacce, alle frittelle, al miele, alle mandorle, ai datteri e alle noci, la fanciulla sospirò: «Che gioia sarebbe la mia se fossero qui mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle e potessero godere con me di tutte queste delizie!». Yamina fece ritorno al tramonto nel palazzo, lasciando il giardino con le braccia cariche di fiori. Così passarono giorni, settimane e mesi. Quando la notte era più fonda, u n a brezza leggera annunciava l'Uccello della Tempesta. Era lì, vicinissimo, e le chiedeva a bassa voce: «Sei felice? Parla, c'è qualcosa che tu desideri nell'intimo del tuo cuore?». E la fanciulla, semiaddormentata, rispondeva, girandosi verso la parete: «Non desidero nulla che già n o n abbia». Adesso Yamina era u n a fanciulla che conosceva la noia nella sua splendida d i m o r a e p e r f i n o nel suo giardino. Le g i o r n a t e le s e m b r a v a n o lunghe. N o n aveva più coscienza della sua fortuna. Vagava, bella come la luna nel firmamento, attraverso tante meraviglie, senza più stupirsi di nulla. E si sorprendeva a 421
sospirare, a rimpiangere i giorni passati: la presenza di suo padre e di sua madre, i giochi con i fratelli e le sorelle sullo spiazzo del frantoio, la focaccia d'orzo, il c u s c u s di f r u m e n t o , l'olio r o b u s t o e il s o n n o profondo dell'infanzia. Era soprattutto quando rientrava nel suo palazzo solitario e si stendeva sul suo letto t r o p p o vasto che sospiri grandi come o n d a t e s c u o t e v a n o il suo petto, m e n t r e grosse lacrime le scorrevano sulle guance. Per f o r t u n a il sonno n o n t a r d a v a ad arrivare. Ma u n a sera, l'Uccello della Tempesta sorprese questa mestizia che non avrebbe mai sospettato. Si chinò su di lei e le disse in un soffio: «Perché piangi? Questo benessere non ti basta più?...». «Vorrei rivedere la mia famiglia» gemette Yamina. «Ero piccola quando ho lasciato i miei genitori e ora sono u n a donna!» «Partiremo questa notte stessa» disse l'Uccello della Tempesta. «Ti do un mese per godere della compagnia di tuo padre, tua madre e dei tuoi fratelli e sorelle; per ritrovare il sapore dell'acqua e del pane della tua infanzia. Tra un mese, né un giorno più né u n o meno, verrò a cercarti. Ti riporterò verso questa felicità che oggi sdegni ma che, domani, sarai lieta di riscoprire.» Attese che la notte fosse completamente buia. Dopodiché, si librò nel cielo, tenendo sul cuore Yamina addormentata. Sembrava quasi che con le sue grandi ali fendesse delle coltri di seta nera. Volò, volò. Poco prima dell'alba, depose dolcemente la fanciulla sulla soglia della casa familiare. Yamina sapeva che suo padre e sua madre non si perdevano mai la preghiera dell'alba. Perciò attese pazientemente il loro risveglio per entrare in cortile e presentarsi a loro. «Figlia nostra!» esclamarono. «Sei proprio tu, che o r m a i credevamo perduta per sempre?... E da dove torni così g r a n d e e bella, da quale regno? E com'è che ti trovi qui, ritta e bianca 422
così di primo mattino? Chi ti ha condotta qui, rivestita di questi abiti da principessa, tu che sei scomparsa tanto t e m p o fa, sotto u n a terribile tempesta, lasciandoci per tutto ricordo u n a ciotola ancora calda e u n a brutta coperta bucata?» «È stato il mendicante che mi ha portata via con sé» spiegò Yamina dopo avere abbracciato i genitori. «Il mendicante se involato con me nel firmamento e mi ha deposta in un p a r a d i s o in cui n o n mi m a n c a v a che la vostra presenza. Questo bisogno di tornare a vedervi e sentirvi si è fatto così aspro che ho finito per ottenere di ritornare tra voi, ma solo per trenta giorni. Perché esattamente fra trenta giorni mio m a r i t o tornerà a cercarmi.» I suoi fratelli e le sue sorelle accorsero dai villaggi vicini per festeggiare il suo ritorno. E la casa fu di nuovo piena, come ai tempi felici dell'infanzia. Per trenta giorni, Yamina conobbe la felicità di un tempo, senza rimpiangere per un solo istante le delizie che aveva lasciato. Partecipò ai lavori nei campi. Si recò alla fontana, con la brocca sulla spalla. Mangiò il cibo frugale ma g u s t o s o della m a d r e , bevve l'acqua attinta all'otre di pelle di capra e d o r m ì su u n a stuoia, per ritrovare il sonno innocente dei suoi primi anni. Ma ecco che, p o c h i giorni p r i m a del r i t o r n o dell'Uccello della Tempesta, le sue sorelle le chiesero: «Yamina, perché non fai che parlarci dello splendore di ciò che ti circonda e non ci parli mai, invece, di tuo marito? Vuoi partire senza dirci com'è? Forse tu non lo ami? Perché è fuggito via senza farsi vedere dai nostri genitori? È grande, è b i a n c o come la neve o nero come un corvo? Parla. È giovane, è vecchio e usa il tuo braccio come guanciale? È bello come il chiarore della luna o tanto b r u t t o da doversi velare la faccia?». 423
Yamina finì per ammettere: «Non so come sia perché non l'ho mai visto!». Sulle prime le sorelle non le credettero. Yamina proseguì: «Non l'ho m a i visto perché un sortilegio gli proibisce di mostrarsi a me. E non conoscerò il suo volto fintantoché questo sortilegio peserà su di lui, perché mi sono impegnata, sposandomi con lui, a non cercare mai di sorprenderlo». «E tu, povera ingenua,» esclamarono le sue sorelle indignate «hai vissuto tutto questo tempo senza mai ardire di alzare lo sguardo su di lui! Chi se non tu, sventurata, accetterebbe per marito un essere di cui non potesse conoscere che la voce?» Yamina abbassò il capo. Allora, la maggiore parlò a n o m e di tutte. Disse: «Ascolta, se lo volessi, n o n dovresti far altro che nascondere u n a candela accesa nel fondo di un vasetto, e così scopriresti il volto del tuo sposo». Tutti gli animali della stalla - le mucche, le pecore, gli agnelli e perfino l'asino - si misero allora a s u s s u r r a r e in m o d o che solo Yamina potesse udirli: «I tuoi parenti faranno la tua infelicità. I tuoi parenti faranno la tua infelicità!». Era arrivato l'ultimo giorno. All'ora di cena scoppiò la tempesta attesa, simile a quella che un tempo aveva portato via Yamina. Al culmine della tormenta si udì u n a forte voce gridare: «Il pane di Dio, uomini di buona volontà!». Yamina era pronta: le sorelle le avevano consegnato u n a piccola candela che lei aveva fatto scivolare nel corsetto. L'Uccello della Tempesta si levò in volo con la sposa, avanzò attraverso flutti d'inchiostro e giunse al suo regno poco prima dell'alba. La fanciulla si ridestò nello splendore della sua stanza tutta tappezzata di seta. Ma dov'era la meraviglia dei primi giorni? Non le restava più nulla da scoprire. Prese un abito a caso e sorrise tristemente 424
a tanta bellezza che n o n la accontentava più. Pensò: "Forse sarò più felice nel mio giardino...". Ma anche qui essa non si sentì meglio, p e r c h é né i fiori né i frutti che pendevano in abbondanza dai rami, né gli uccelli, i pesci e gli insetti dorati avevano più il potere di sollevarla: Yamina non era felice e adesso sapeva il motivo della sua infelicità. Era turbata da quanto le avevano detto le sorelle. Invano gli animali le avevano sussurrato: "I tuoi parenti f a r a n n o la tua infelicità. I tuoi parenti f a r a n n o la tua infelicità!". Nulla poteva lottare contro questa piccola candela nel suo corsetto, che teneva desto in lei il fuoco di u n a curiosità divorante. La sua vita di sogno non le bastava più, ma si ricordava della sua promessa. È per questo che si sentiva dilaniata fin nell'intimo. Chi poteva aiutarla a respingere la tentazione di conoscere u n a b u o n a volta il viso dello sposo, a mantenersi fedele alla parola data? Ahimè, essa era sola, sempre sola. Venne il giorno in cui non riuscì più a trattenersi: q u a l u n q u e cosa le parve preferibile alla sua sorte. Fece r i t o r n o in c a m e r a al t r a m o n t o . E s t r a s s e dal corsetto la preziosa candela, la accese e la collocò in fondo a un vaso di inestimabile valore. Ricoprì questo vaso con un piatto e lo collocò vicino al letto, a portata di mano. Quella sera il sonno n o n voleva sap e r n e di venire da lei. Yamina a t t e n d e v a ansiosamente la brezza leggera che ogni notte le annunciava il ritorno del marito. Appena percepì che l'Uccello della Tempesta era sulla soglia, volle scoprire la luce. Ma fece appena in tempo a toccare il piatto che un vento furioso rovesciò il vaso, spegnendo la candela. Yamina udì u n a specie di ruggito. Attorno a lei faceva molto freddo. Non era più la seta che l'avvolgeva, bensì un vento malvagio che la ghiacciava fin nel suo cuore. Yamina 425
era in u n a foresta, alla mercé della t e m p e s t a e del freddo. Udì allora u n a voce ben nota, u n a voce cupa come la morte, che le diceva: «Hai m a n c a t o al tuo giuramento. Hai interrotto la tua gioia. Non mi rivedrai mai più. Anche tu, come me, hai udito gli animali che ti dicevano: "I tuoi parenti f a r a n n o la tua infelicità. I tuoi p a r e n t i f a r a n n o la t u a infelicità!". Ah! perché non hai prestato ascolto alla mucca, alla capra, alla pecora, all'agnello e all'asino! Adesso, torna alla tua vita di un tempo: per aver voluto conoscere il mio volto, mi perdi tutto intero, tu che possedevi la mia voce e la mia presenza accanto a te». Yamina pianse, supplicò, ma invano. Per l'ultima volta egli la prese tra le braccia. Se la caricò in spalla e la portò con sé attraverso la pioggia e i fulmini. Yamina parlò, ma il vento coprì la sua voce. L'Uccello della Tempesta squarciava la notte con le sue grandi ali. Lasciò Yamina come un cencio sulla soglia della casa di suo padre e si allontanò. Yamina vide morire il padre e la madre. Yamina si separò dai fratelli e dalle sorelle ma non lasciò mai la casa. Attese giorni, settimane, mesi, stagioni intere; p e r a n n i attese il r i t o r n o dello sposo. Ma p e r quanti temporali scoppiassero, essa n o n udì mai la forte voce che, sovrastando la tempesta, dicesse: «Il pane di Dio, uomini di b u o n a volontà!». Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!
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Parte III
Fiabe dei Tuareg
Fiabe di incantesimo
1. T E S S H E W A , LA FANCIULLA SPOSATA DAL F R A T E L L O
C'era u n a volta u n a ragazza che aveva madre, padre, un fratello minore e un fratello maggiore già ammogliato. Essa era solita lavarsi i capelli nella bacinella del fratello maggiore. Continuò così finché un giorno egli, dovendo partire, prese la sua bacinella di rame, la lavò per bene, e disse: «A partire da questo momento, se qualcuna, foss'anche mia madre, si laverà la testa in questa bacinella, la sposerò». Quindi partì e andò lontano. Durante la sua assenza ci fu u n a persona che osò lavarsi nella sua bacinella: la sorella minore. «Sta' attenta,» le ripeteva la m a d r e «è capace di fare quello che ha detto!...» Ma ogni volta lei rispondeva: «Suvvia, si è mai visto un fratello che sposa la sorella?» e andava avanti a lavarsi. Quando si dice, però, il caso: quella bacinella aveva un manico, e un capello della ragazza vi rimase impigliato. Al ritorno il fratello ispezionò la bacinella e lo scoprì: «Chi si è lavato nella mia bacinella?». «Tesshewa» fu la risposta. La notte stessa stesero il contratto nuziale e il matrimonio venne celebrato. All'alba, q u a n d o la tenda nuziale era ancora immersa nell'oscurità, Tesshewa uscì e prese ad allontanarsi. Vai e vai, vai e vai, alla fine trovò un albero di tuwila e vi salì sopra. E da lì non si mosse, n o n si 377
mosse, non si mosse, finché si trasformò in uccello. E rimase sempre su quell'albero. Finché un giorno (dopo la sua s c o m p a r s a i suoi avevano perso la s p e r a n z a di rivederla), finché un giorno, dicevamo, essa scorse il fratello minore che pascolava il bestiame nella pianura. Scese dall'albero e lo c h i a m ò . Cominciò a spulciarlo a f f e t t u o s a mente come sogliono fare tra loro i cognati. Lui aveva con sé della m i n e s t r a di miglio f r e d d a e gliene diede un po'. Essa mangiò e poi riprese a spulciarlo, e continuò per tutto il pomeriggio. Sul far della sera egli le disse: «Adesso devo ritornare». E lei rispose: «Domani porta qui di nascosto delle forbici e un pettine: ti taglierò i capelli e ti farò la treccia. Ma per evitare che q u a l c u n o si accorga del taglio, tienti sempre riportato sul capo un lembo della tunica». L'indomani essa gli tagliò i capelli e glieli acconciò. Poi si dissetarono e rimasero accanto all'albero per tutta la giornata. Sul far della sera egli tornò all'accampamento tenendosi coperto il capo con un lembo della tunica. Qui giunto, tutti si dom a n d a r o n o : «Ohibò, e adesso che cos'è successo a questo giovanotto, che si copre così il capo con un lembo della tunica?». La cosa suscitò u n a tale curiosità che finirono per afferrarlo e scoprirgli il capo con la forza. Gli dissero: «Questa è un'acconciatura come quelle che suole fare Tesshewa!». E lui: «Ma no!». Allora presero a percuoterlo, a percuoterlo per farlo confessare. Egli non confessò. Tuttavia, seguendo pazientem e n t e le sue o r m e a r r i v a r o n o all'albero di tuwila. Guardarono in su, tra i suoi rami, e lassù se ne stava appollaiata Tesshewa. I familiari avevano p o r t a t o con loro u n a bacinella di r a m e piena d'acqua. Suo p a d r e le disse: «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!». 378
Ma lei gli rispose: «Padre mio, mio suocero, n o n la voglio. Bevila tu!». Allora egli diede la bacinella alla madre. «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Mamma mia, mia suocera, n o n la voglio. Bevila tu!» Allora diedero la bacinella al fratello maggiore, colui che l'aveva sposata. «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Marito mio, mio fratello, non la voglio. Bevila tu!» La diedero allora al fratello minore, quello che lei aveva rasato. «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Fratello mio, mio cognato, non la voglio. Bevila tu!» La diedero infine alla c o g n a t a (la p r i m a moglie del fratello maggiore). «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Co-sposa mia, mia cognata, non la voglio. Bevila tu!» In poche parole, si rifiutò di scendere. Allora abbatterono l'albero, nella caduta essa rimase stordita e poterono prenderla. Non dobbiamo dimenticare che essa era diventata un uccello. Così la p r e s e r o e suo p a d r e la mise in u n a tasca. Passò del tempo e lei crebbe al p u n t o di non star più nella tasca. La misero allora in un sacchetto. Dopo un po' non stava più n e m m e n o nel sacchetto. La misero in un sacco. Anche nel sacco dopo un po' non ci stava più. La misero in u n a federa. Dopo un po' fu troppo grande anche per la federa. Allora la misero... in un asino. Sì, proprio dentro a un asino. All'alba ponevano un otre in groppa all'asino. Intanto le capre lo precedevano al pozzo. Quando Tesshewa e l'asino arrivavano a loro volta, se al pozzo c'era qualcuno, se ne andavano sotto gli alberi e lì ri379
manevano finché non se ne fosse andato. Andati via tutti, l'asino raggiungeva il pozzo e lei ne fuoriusciva, dopodiché riempiva l'otre, abbeverava le capre e se ne andava. Tornati all'accampamento, l'otre veniva scaricato e l'asino restava libero. Un bel giorno, però, il figlio del re si disse: "Adesso voglio proprio scoprire chi riempie l'otre posto su questo asino e dà da bere alle sue capre". Decise così di arrampicarsi su un albero per vedere bene dall'alto. Mentre sopraggiungeva l'asino, salì sull'albero. Arrivato l'asino al pozzo, Tesshewa riempì l'otre e prese dell'acqua per lavarsi. Per fare ciò si era tolta i vestiti, e il principe scese e glieli prese, così, quand'essa ritornò per rimetterseli, non li trovò più. Allora disse: «Tu che mi hai preso la gonna, rendimela e vedrai un m o d o di fissarla in vita migliore di quello della madre di tua madre!». Ed egli gliela lanciò. «Tu che mi hai preso la sopravveste, rendimela e vedrai un m o d o di fissarla in vita diverso da quello della m a d r e di tua madre!» Ed egli gliela lanciò. «Tu che mi hai preso la camicia, rendimela e vedrai un m o d o di indossarla diverso da quello di tua madre!» Ed egli gliela lanciò. «Tu che mi hai preso il velo, rendimelo e vedrai un m o d o di coprirsi il capo diverso da quello di u n a sorella maggiore!» Ed egli glielo lanciò. «Tu che mi hai preso i sandali, rendimeli e vedrai un m o d o di infilarli diverso da quello di u n a cugina!» Ed egli glieli lanciò. «Chi mi ha preso la tracolla, me la renda e vedrà un petto degno di indossarla e diverso da quello della m a d r e di sua madre!» Ed egli gliela lanciò. «Chi mi ha preso l'amuleto d'argento, me lo renda 380
e vedrà un m o d o di a n n o d a r l o al collo diverso da quello di sua madre!» Ed egli glielo lanciò. A q u e s t o p u n t o , il p r i n c i p e scese dall'albero, m o n t ò in sella, fece salire in groppa Tesshewa, e ripartirono insieme. Giunti in vista dell'accampamento, essa si sfilò il bracciale e lo lasciò cadere, dicendo: «Ahimè, mi è caduto il bracciale». «Aspetta, che vado a prendertelo.» «No, lascia, nessuno può toccarlo all'infuori di me!» E scese lei di sella, raccolse il bracciale, ma ne approfittò per rientrare nell'asino. Quando il principe si voltò non la trovò più. Scese di sella e proseguì a piedi. Arrivato a casa, disse a suo padre: «Ho deciso di sposare questo somaro». «Ma, figliolo, cosa vuoi combinare con un somaro?» «Ho deciso di sposare questo s o m a r o , l'asina di Tal dei Tali.» A n d a r o n o a p r e n d e r e l'asina, la legarono e celebrarono le nozze, tenendo sempre l'asina lì attaccata per tutta la cerimonia. Quando, alla fine, il neo-sposo e n t r ò nella t e n d a nuziale, fecero e n t r a r e a n c h e l'asina e la legarono a un sostegno della tenda, tutta vestita e a g g h i n d a t a c o m e u n a sposa. Poco d o p o , Tesshewa uscì dall'asina, indossò gli abiti nuziali, slegò l'asina e la condusse fuori della tenda. La mattina seguente avreste dovuto vedere come si era trasformata l'asina: tutti quelli che entravano nella tenda svenivano dalla meraviglia! Proprio così: chiunque arrivasse, sveniva, ed essa lo r i a n i m a v a versandogli in viso qualche stilla del sudore della sua fronte. Venne perfino il re, gli bastò un'occhiata e cadde svenuto. E anche a lui Tesshewa dovette versare in viso qualche stilla del proprio sudore. Dopodiché egli se ne andò, e anche gli altri se ne t o r n a r o n o a casa. Passò del tempo, e la luna di 381
miele ebbe termine. Il re d o m a n d ò al figlio: «Hai finito la luna di miele?». «Sì.» «Bene, allora possiamo metterci in viaggio. Preparati e va' a prendere il tuo cavallo.» Il principe andò a prendere il cavallo, e partirono a c c o m p a g n a t i da d u e dei loro schiavi. A un certo punto, arrivarono a un pozzo assai profondo. (Bisogna sapere che il giorno in cui gli aveva fatto la treccia, la moglie gli aveva nascosto dei datteri tra i capelli.) Il padre gli disse: «Calati nel pozzo!». «Ma, padre, ci sono gli schiavi per questo.» «Non voglio bere acqua attinta da u n o schiavo.» E così il principe si calò nel pozzo e p r o c u r ò lui l'acqua da bere. «Adesso fatemi uscire!» «Nemmeno per sogno!» E, così dicendo, il re lo a b b a n d o n ò in f o n d o al pozzo e se ne andò. Il fatto è che si era innamorato di s u a n u o r a , della moglie del figlio. L a s c i a r o n o quindi il cavallo attaccato vicino al pozzo, mentre il re faceva ritorno. Q u a n d o li vide t o r n a r e senza il marito, Tesshewa non rise più. In fondo al pozzo, il principe, a un certo punto, si grattò la testa, e nel far ciò trovò i datteri nei capelli. Ne mangiò uno e lasciò cadere il seme. Da questo seme spuntò u n a palma, che prese a crescere in fretta e senza interruzione. Egli vi si arrampicò fino a raggiungere il b o r d o del pozzo. Anzi, no, dovette ridiscendere perché n o n ci arrivava. Dovette r i m a n e r e in attesa ancora per un mese: solo allora potè risalire. Arrivato al b o r d o del pozzo, vide il suo cavallo che lo stava osservando, e così egli potè afferrare le briglie e farsi sollevare e p o r t a r f u o r i di slancio dall'animale. M o n t ò q u i n d i in sella e se ne a n d ò . Quando f u r o n o a poca distanza dall'accampamento, 382
il cavallo si mise a nitrire. Al sentire questo suono, Tesshewa si mise a ridere: «Ah, ah, ah, ah, ah!». Tutti accorsero chiedendosi: «Che cosa ha fatto ridere costei? Che cosa l'ha fatta ridere?». Essa però rispose: «Ma io non ridevo affatto. Stavo solo c h i a m a n d o la mia schiava». E così, dopo poco, tutti tornarono a casa. E a questo punto, q u a n d o tutti se ne f u r o n o andati, ecco farsi avanti il figlio del re. Arrivato, scese di cavallo, se ne stette fermo due giorni per riprendere le forze, dopodiché fece visita a diverse persone, dicendo a ognuno: «Intervenite tutti alla festa che sto per dare». Scavò un pozzo p r o f o n d o chissà q u a n t e braccia; sul fondo accese un fuoco, ricoprì il tutto con u n a coperta e vi collocò sopra u n a poltrona. A chi cercava di sedervisi diceva: «No, no, no, no. Questo posto è riservato a mio padre». Quando alla fine il padre arrivò, lui andò a mettersi su un angolo della coperta, senza sedersi. E quando il re stava per sedersi, afferrò per un angolo la cop e r t a tirandogliela via di sotto, così che c a d d e in fondo al pozzo, in fondo in fondo. Il racconto se n'è andato, lo ha scacciato Kashe.
2. IL R A P I M E N T O DI KHAWATAN
C'era u n a volta u n a vecchia che aveva u n a figlia di n o m e Khawatan. Costei aveva delle amiche, che un giorno vennero da lei e le dissero: «Vieni con noi a raccogliere della taghoda». «D'accordo» disse, e partirono. Mentre le altre raccoglievano la taghoda, lei se la mangiava, e al suo posto metteva nel sacco dei pezzi di carbonella. Quando i sacchi f u r o n o pieni, le ami383
che dissero: «Chi non porta taghoda alla sua m a m m a non vale niente!». «Accidenti a voi! Aspettatemi, che ne raccolgo un po' per mia mamma!» «Facciamo così: f i n t a n t o c h é sentirai il tintinnio dei n o s t r i orecchini s a p r a i che noi s i a m o qui nei pressi.» Ma esse a p p e s e r o ai r a m i le loro scodelle, e lei, continuando a sentire il tintinnio prodotto dalle scodelle, credeva che le amiche fossero sempre lì. Invece esse se n'erano andate, lasciandola sola. Orbene, dopo che esse se ne f u r o n o a n d a t e lasciandola sola, arrivò un jinn. Teneva la testa al livello del suolo e i suoi piedi arrivavano al cielo. Una sua dormita durava la bellezza di sette anni. Costui le disse: «Spidocchiami, e al mio risveglio ti riempirò il sacco. Suvvia, spidocchiami!». Va ricordato che il suo sonno durava sette anni. Comunque sia, essa lo spidocchiò. In quella le si presentò u n a lucertola che le disse: «Figliola, c o s a stai f a c e n d o qui?». «Le mie amiche se ne sono andate via e io ho paura che questo J a b b a r mi divori!» Il jinn si chiamava, in effetti, Jabbar. Allora la lucertola le disse: «Bene, allora riempi il mio sacco di taghoda e io ti riporterò a casa». Così Khawatan si mise al lavoro per riempirle il sacco, e q u a n d o questo fu pieno, la lucertola le disse: «Bene, vieni che ce ne andiamo!». La ragazza le salì in groppa, e via che se ne andarono. Ma m e n t r e essa arrivava all'accampamento, Jabb a r si ridestava. Le cercò con lo s g u a r d o e le vide laggiù, lontane, ormai dentro all'accampamento. Un passo, un altro, e già le aveva raggiunte. La madre disse a Khawatan: «Chi sta agitando la tenda da fuori?». «Sarà u n a lepre o u n a capra.» «Va' 384
fuori e dagliele!» Mentre si alzava per uscire, la ragazza replicò: «Mamma, non vorrei che la lepre fosse inseguita da u n a iena, che potrebbe mangiarmi!». «Non fare storie!» replicò la madre, spingendola fuori. E quando fu fuori, J a b b a r le balzò addosso. E così essa fu portata via di nuovo. Quando arrivò il fratello, D e r i m a n , chiese alle a m i c h e : «Dov'è K h a w a t a n ? » . «È stata r a p i t a da Jabbar!» Allora il fratello le pregò: «Orsù, c a n t a t e m i u n a strofa che evochi Khawatan». Ed esse cantarono: Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi Perché non pascolare il cammello grigio, fargli ingrossare la gobba? Riporterà Khawatan, che ora è in altri paesi... Udendo ciò, egli si mise a piangere, a piangere a dirotto, e pianse fino a riempire di lacrime l'abbeveratoio di suo p a d r e . Poi c h i a m ò u n o schiavo e gli disse: «Orsù, prepara per un viaggio il mio cavallo, uno schiavo e me stesso!», poi, rivolto alle ragazze, le esortò: «Fatemi gustare ancora un po' di quel canto!». Ed esse cantarono: Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi Perché non pascolare il cammello grigio fargli ingrossare la gobba?... Udendo ciò, egli si mise a piangere, a piangere a dirotto, fino a riempire nuovamente di lacrime l'abbeveratoio di suo p a d r e . A questo p u n t o t u t t o era pronto, ed essi partirono. 385
Q u a n d o J a b b a r aveva r a p i t o K h a w a t a n , l'aveva portata nella sua tenda. Deriman e il suo schiavo, in sella a un cavallo e a un c a m m e l l o , p a r t i r o n o in quella direzione. Giunsero davanti a un albero vecchissimo, decrepito, da cui si levava un bellissimo rametto nuovo. Deriman lo apostrofò: «0 albero, possa colpirti la maledizione di Dio riservata agli spergiuri se mentirai a questa domanda: chi è più bello tra me, il mio schiavo, il mio cammello e il mio cavallo?». «Possa colpirmi la maledizione di Dio riservata agli spergiuri se non dico il vero: tu, il tuo schiavo, il tuo cavallo e il tuo cammello siete di pari bellezza, ma vi supera tutti u n a fanciulla che è passata di qui. E stato sufficiente il tocco delle sue dita per farmi spuntare questo nuovo ramo.» Proseguirono quindi il cammino. Giunsero davanti a un vecchissimo albero della gomma, o r m a i decrepito. Deriman lo apostrofò: «O albero, possa colpirti la maledizione di Dio riservata agli spergiuri se mentirai a questa domanda: chi è più bello tra me, il mio schiavo, il mio cammello e il mio cavallo?». «Tu, il tuo schiavo, il tuo cavallo e il tuo cammello siete di pari bellezza, ma vi supera tutti u n a fanciulla che è passata di qui proprio poco tempo fa. È stato sufficiente che passasse di qui e mi toccasse con le sue dita per farmi spuntare questo bellissimo ramo.» Ripresero quindi il cammino. Giunsero davanti a u n a vecchia tenda, abitata da u n a donna molto anziana. La tenda era decrepita, malmessa e polverosa. Quando fu al cospetto della vecchia, Deriman la salutò: «Che la pace sia su di voi! » ripetè tre volte. E la vecchia rispose: «Che la pace sia su di voi! Chi è che mi saluta così?». «Desidero porti u n a d o m a n d a , vecchia: chi è più 386
bello tra me, il mio schiavo, il mio cammello e il mio cavallo?» «Tu, il tuo schiavo, il t u o cavallo e il tuo cammello siete di pari bellezza, ma c'è u n a fanciulla che vi supera tutti. È stato sufficiente che toccasse con le sue dita la t e n d a p e r f a r e a p p a r i r e q u e s t a bellissima stuoia.» Riprese allora il cammino, mentre la vecchia, alle sue spalle, m o r m o r a v a : «Puoi r i n g r a z i a r e Dio di avermi salutato correttamente, poco fa, se no avrei divorato te, il tuo schiavo, il tuo cammello e il tuo cavallo!». Proseguì d u n q u e il c a m m i n o , e d o p o un po' abb a n d o n ò il c a m m e l l o e il cavallo, e si inoltrò solo con il suo schiavo nella zona vicina alla tenda di Jabbar. Arrivarono così da Khawatan, che li nascose sotto il suo letto. Proprio in quel m o m e n t o sopraggiunse Jabbar, lo sposo di Khawatan, il quale, appena arrivato, si stese sul letto, dopo aver messo due pentole sul fuoco. La pentola più grossa cominciò a dire: «Kedel kedel». E l'altra: «Kedel kedel». Ma la p r i m a continuò: «C'è gente sotto il letto!». Al che l'altra le disse: «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto Khawatan? Perché ce l'hai con lei?». Ma di nuovo la p r i m a ricominciò: «Kedel kedel, c'è gente sotto il letto!». A questo punto J a b b a r chiese: «Che cosa vogliono queste pentole?». «Vogliono più fuoco. Alzati e va' a mettere altra legna.» E intanto la pentola: «Kedel kedel kedel, c'è gente sotto il letto!». «Che cosa vogliono queste pentole?» «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto? Perché ce l'hai con lei?» «Ma insomma, che cosa vogliono queste pentole?» 387
«Vogliono che le ritiri dal fuoco.» Ciò che J a b b a r si affrettò a fare. Ma la p r i m a pentola riprese: «Kedel kedel, c'è gente sotto il letto!». E l'altra: «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto? Perché ce l'hai con lei?». E Jabbar: «Cosa vogliono?». «Che prendiamo ciò che contengono.» Ma la pentola grossa, quella della polenta di miglio, ricominciò: «Kedel kedel kedel, c'è gente sotto il letto!». E l'altra, quella del sugo: «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto? Perché ce l'hai con lei?». «Cosa vogliono?» «Che mangiamo.» E così si misero a mangiare, e Khawatan diede del cibo anche agli ospiti sotto il letto, i quali mangiarono a sazietà ciò che essa diede loro, restituendole poi le ciotole. Quando f u r o n o andati a dormire, Khawatan chiese a Jabbar: «Dimmi, Jabbar, dove si trova la t u a anima?». «Se vuoi trovare la mia anima, devi aspettare che venga ad abbeverarsi un'antilope femmina, poi che ne arrivi un'altra, e dopo questa un'altra ancora. Finite le femmine, dovrà arrivare un maschio, poi un altro e un altro ancora. Finiti questi, dovrà arrivare u n a gazzella maschio poi un'altra e un'altra ancora, dopodiché arriverà u n a femmina, poi un'altra, e infine l'ultima, zoppa, con un occhio solo, e anche con un solo corno. Se colpirai il corno, esso cadrà e si romperà. All'interno troverai un sacchetto. Dentro a questo ce n'è un altro, dentro a questo ce n'è un terzo e in questo ce n'è un quarto. Finiti i sacchetti, troverai dentro u n a scatola. Nella p r i m a ce n'è u n a seconda, e poi u n a terza e u n a quarta. Finite le scatole, 388
nell'ultima troverai due capelli. Se spezzerai quello nero, morirò. Se spezzerai quello bianco, vivrò.» Khawatan seguì queste istruzioni, spezzò il capello nero e Jabbar morì. Deriman e lo schiavo la presero e fecero ritorno con lei. Poco prima di arrivare la nascosero in un sacco. Al loro arrivo si presentarono le a m i c h e di K h a w a t a n p e r chiedere: «Deriman, dov'è Khawatan?». «Khawatan non c'è. Orsù, ripetetemi quel canto.» Ed esse cantarono: Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi. Ed egli rispose: Perché non pascolare il cammello grigio, che ingrossi la sua gobba? Riporterà Khawatan, che ora è in altri paesi... Lo schiavo gli disse: «Questo canto non mi basta. C a n t a t e l o a n c o r a u n a volta. K h a w a t a n n o n è qui quest'anno». Infatti essa era nascosta nel sacco. Allora esse cantarono: Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi. Ed egli rispose: Perché non pascolare il cammello grigio, che ingrossi la sua gobba? Riporterà Khawatan, che ora è in altri paesi... 389
E concluse: «Tutto s o m m a t o il vostro canto è proprio azzeccato». E fece uscire Khawatan dal sacco. Ecco, il racconto se n'è a n d a t o per di là, è stato Kashe che lo ha fatto scappare. 3. LA B E L L I S S I M A T E Y L A L E N E IL JINN
C'erano due fratelli che avevano u n a sorella minore di nome Teylalen, mentre il padre e la madre erano morti. Un giorno decisero di fare un viaggio verso il sud. P o r t a r o n o quindi la sorella dalle altre d o n n e della tribù e chiesero loro: «Siamo in partenza per un lungo viaggio. Potete prendervi cura voi di nostra sorella?». «D'accordo» fu la risposta. Così p a r t i r o n o , diretti verso il sud. Le d o n n e li avevano rassicurati: «Dal m o m e n t o che ce l'affidate, state tranquilli che nessuno le torcerà un capello, se Dio vuole». Ora, mentre loro compivano questo lungo viaggio al sud, la sorella, crescendo, divenne più bella di tutte le altre donne. Così, queste si dissero: «Guardate questa ragazza: q u a n d o arriveranno i nostri mariti e la vedranno, si i n n a m o r e r a n n o di lei e non ne vorranno più sapere di noi. Orbene, che cosa si può fare?». Una disse: «Impicchiamola!». Ma le risposero: «No, no, la si vedrebbe e ci prenderebbero». Un'altra propose: «Gettiamola in fondo a un pozzo!». «No, imputridirebbe e la scoprirebbero.» Una terza suggerì: «So io che cosa si deve fare. Bisogna prenderla, sigillarle la bocca con dei rovi e fare altrettanto con le sue orecchie, e infine portarla in cima a quella montagna. Là ci sono dei nidi di avvoltoi, e noi la getteremo in u n o di essi». 390
Fu così che la presero, le tapparono bocca e orecchie, la portarono fino a un nido di avvoltoi, e ve la gettarono dentro. Fatto ciò, t o r n a r o n o al villaggio, sacrificarono u n a c a p r a dalla cui pelle ricavarono un otre, come p r e v e d o n o i riti f u n e b r i , dopodiché sotterrarono un mortaio per simulare u n a tomba. Quando f u r o n o di ritorno i fratelli della ragazza, chiesero alle donne: «Dov'è Teylalen?». Ed esse risposero: «Fatevi forza: m e n t r e voi facevate questo viaggio Teylalen è mancata». Alla notizia essi si misero a piangere, si misero in lutto e non si mossero più dalla regione. Un giorno, uno di loro andò a cogliere del foraggio p e r il cammello e q u a n d o fu ai piedi del monte su cui si trovava Teylalen, gli si parò dinanzi un avvoltoio che gli cantò: «Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, tra sputi e deiezioni di ogni genere!». Tese l'orecchio e l'avvoltoio gli ricomparve dinanzi dicendo: «Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, tra sputi e deiezioni di ogni genere!». Correndo e piangendo, egli si affrettò allora a raggiungere i suoi compagni (i due fratelli si chiamavano u n o Khaydara e l'altro Minjolo), ai quali annunciò: «Mi è a p p a r s o un avvoltoio che mi ha detto: "Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, tra sputi e deiezioni di ogni genere!"». Mentre era ancora trafelato per la corsa, gli chiesero: «E d o v e che si trova?». «Su quel monte laggiù.» Allora si misero in viaggio, e mentre andavano, si presentò loro un avvoltoio che ripetè: «Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, tra sputi e deiezioni di ogni genere!». Si inerpicarono così sulla montagna, fino ad arrivare in cima. Arrivarono dove si trovava la sorella, tra sputi e deiezioni di ogni genere. La raccolsero, la riportarono all'accampamento, la lavarono e le tolsero 391
le spine. Poi presero il suo cammello, vi caricarono il suo palanchino delle grandi occasioni, vi collocarono delle coperte e uno splendido cuscino, dopodiché se ne andarono. Abbandonarono così queste donne che avevano gettato la loro sorella in un nido di avvoltoi. Cammina, cammina, giunsero a un pozzo profondo. Fecero arrestare il cammello della sorella col suo bel palanchino e si apprestarono a dar da bere alle cavalcature. Ma, appena calato il recipiente per attingere l'acqua dal pozzo, qualche cosa lo afferrò e lo trattenne sul fondo. Essi gridarono: «Qualunque cosa tu sia, lascia andare il secchiello e ti d a r e m o cento cammelle». «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» « Q u a l u n q u e cosa tu sia, lascia a n d a r e il n o s t r o secchiello e ti daremo cento vacche.» «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» « Q u a l u n q u e cosa tu sia, lascia a n d a r e il n o s t r o secchiello e ti daremo cento capre.» «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» « Q u a l u n q u e cosa tu sia, lascia a n d a r e il n o s t r o secchiello e ti daremo cento pecore.» «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» « Q u a l u n q u e cosa tu sia, lascia a n d a r e il n o s t r o secchiello e ti daremo Teylalen e il suo cammello.» Allora la cosa lasciò a n d a r e il recipiente ed essi poterono dar da bere al bestiame. Dissero però ai loro servitori: «Abbeverate gli animali, e quando avremo finito ce ne a n d r e m o via portando con noi Teylalen e il suo cammello. Non la daremo certo a quella stupida cosa che sta in fondo al pozzo». Così, finito che ebbero di abbeverare il bestiame, diedero il segnale di partenza e dissero alla sorella: «Teylalen, fa' alzare il t u o cammello!». Ma q u a n d o essa cercò di farlo rialzare, esso si rifiutò. Lei lo batté, lo batté fino a stancarsi, ma lui continuò a ri392
fiutarsi. Arrivarono i fratelli e lo percossero così forte da fargli mordere il fianco dal dolore, ma egli continuò a rifiutare di alzarsi. Essi cominciarono ad avviarsi, ma avevano f a t t o p o c h i passi che Teylalen cantò loro: «Khaydara, Minjolo, ve ne andate, mi abb a n d o n a t e qui!». Allora t o r n a r o n o indietro e picchiarono il cammello, lo picchiarono tanto da stancarsi, dopodiché provarono di nuovo ad avviarsi, ma anche questa volta udirono alle spalle la sorella che cantava rivolta a loro: «Khaydara, Minjolo, ve ne andate, mi a b b a n d o n a t e qui!». Tornarono di nuovo e questa volta ridussero il cammello a mal partito a furia di botte. Loro si stancarono di suonargliele, ma lui rifiutò di alzarsi. Cercarono di tirare via la sorella dal palanchino, ma ebbero un bel tirare: rischiarono di farla a pezzi ma n o n riuscirono a strapparla dalla groppa del cammello. Era colpa di quella cosa appostata in fondo al pozzo, che era un jinn e che la tratteneva: aveva a f f e r r a t o un piede di Teylalen e u n a z a m p a del cammello e li teneva stretti. Per farla breve, dopo un po', nonostante i suoi richiami, dovettero a b b a n d o n a r l a lì. La ragazza continuò a ripetere fino allo stremo: «Khaydara, Minjolo, ve ne andate, mi abbandonate qui!». Ma essi ormai se n'erano andati lontano. Arrivati in un luogo, decisero di fermarsi e di non muoversi più. Si gettarono a terra e piansero. Le cammelle cessarono di brucare, cessarono di defecare, cessarono di fare rumore, non si nutrirono più. Tutto il loro bestiame cessò di pascolare. Avevano u n o schiavo, e anche lui si gettò a terra accanto a loro. Intanto, la cosa che stava in fondo al pozzo disse a Teylalen: «Chiudi b e n e gli occhi che esco dal pozzo!». Essa chiuse per bene gli occhi, e allora egli venne f u o r i dal pozzo e le disse: «Puoi riaprirli: s o n o uscito». Essa aprì gli occhi e vide... cosa vide! Pensa393
te un po': un jinn sporco e pelosissimo che dal pozzo le veniva incontro. Prese il cammello per il morso, lo fece alzare e si incamminò tenendolo così. Il jinn portò con sé la ragazza e avanzò a lungo tenendo il cammello al passo finché giunsero in u n a pianura vastissima. Qui egli le disse: «Guarda, tu che sei giovane e ci vedi bene, guarda in questa pianura e dimmi che cosa vedi. Guarda, guarda. Cosa vedi?». «Vedo u n a tenda di tela circondata da piccoli di cammello.» «La nostra è meglio! Guarda, guarda. Cosa vedi?» «Vedo u n a tenda di pelli di m u c c a circondata da vitelli.» «La nostra è meglio! Guarda, guarda. Cosa vedi?» «Vedo u n a tenda di stuoie circondata da agnelli.» «La nostra è meglio!» Proseguirono ancora per un po', quindi lui le chiese: «Guarda, guarda. Cosa vedi?». «Vedo u n a tenda di pelli di c a p r a c i r c o n d a t a da capretti.» «La nostra è meglio! Guarda, guarda. Cosa vedi?» «Vedo u n a tenda di corteccia con vicino u n a cagna zoppa e con un occhio solo.» «È la nostra. Avanti, dirigiamoci là!» E così fecero: arrivarono quindi a questa tenda. Quando f u r o n o giunti, il jinn disse a Teylalen: «Chiudi gli occhi che faccio f e r m a r e il cammello». Essa chiuse gli occhi ed egli fece fermare il cammello. Il jinn le ordinò: «Entra!». La ragazza entrò e si accorse che le cortecce racchiudevano al loro interno intere contrade, numerose e ampie. Vi si installarono, e q u a n d o anche la ragazza si fu sistemata, poco prima dell'alba del giorno dopo, il jinn partì per la caccia. Bisogna sapere che il jinn dava la caccia agli esseri u m a n i con l'intenzione di cibarsene. Gira e rigira, prima di sera uccise un uomo, lo portò a casa, lo cu394
cinò, ne mangiò e ne diede da mangiare alla ragazza. Andò a caccia anche la notte successiva. Fu allora che Teylalen fu avvicinata da u n a donna, un'artigiana, che le disse: «Ehi, tu, chi ti ha portata qui?». «Nient'altro che la stupidità dei miei fratelli maggiori. Eravamo arrivati a un pozzo e qualcosa ha afferrato il secchiello che avevano calato per prendere l'acqua. Per liberarlo gli offrirono tante cose, e alla fine fecero il mio nome. Così la cosa lasciò andare il recipiente. Liberato il secchiello e abbeverati gli animali, il mio c a m m e l l o si è rifiutato di alzarsi, e io stessa n o n sono riuscita a staccarmi da lui. I miei fratelli si misero a dargliele, e lo suonarono di santa ragione, fino a stancarsene. Ma alla fine, stufi, finirono per andarsene.» «Va bene» disse la donna. «Però, questa cosa, questo jinn, se u n a sera dovesse ritrovarsi senza nulla da m a n g i a r e , m a n g e r e b b e te! Tuttavia posso darti un consiglio che ti consentirà di scappartene via, se lo seguirai.» «Dammelo!» «Prendi il tuo cammello, mettigli il palanchino e vattene.» «D'accordo.» La d o n n a la pettinò, la tinse con l'henné ed essa potè partire. Prima però le fece questa raccomandazione: «Se dovessi vedere la cosa che ti sta raggiungendo, devi dire: "O ragno, ricordati la nostra passata amicizia e costruiscimi un riparo con la tua tela". Quando il ragno ti avrà lasciata libera, rivolgi la stessa richiesta all'albero di henné». «D'accordo.» «Mi spiace di n o n poterti a c c o m p a g n a r e , ma rischierei di far scoprire le mie tracce.» E così la ragazza se ne andò. Prese il suo cammello, vi m o n t ò sopra e partì. Cammina, cammina, mentre 395
lei si allontanava, il jinn rientrò e chiese: «Dov e Teylalen?». «Non s a p p i a m o dove sia a n d a t a . L'ultima volta che l'abbiamo vista era nella sua tenda.» «Adesso, quando la ritrovo, la divoro senza neanche lasciar cadere un osso a terra.» E partì all'inseguimento. Cerca che ti cerca, alla fine la vide. Ma q u a n d o le fu vicino, essa disse: «O ragno, ricordati la nostra passata amicizia e costruiscimi un riparo con la tua tela». Il ragno le costruì un riparo ed essa scomparve agli occhi del jinn. Questi continuò la ricerca fino a stancarsi. Lei attese a n c o r a un po' d o p o che lui se n'era a n d a t o , quindi disse: «O ragno, ricordati la n o s t r a passata amicizia e liberami». E il ragno la lasciò andare. Lei continuò nella sua fuga, ma a un certo p u n t o il jinn si voltò, la vide e riprese a inseguirla. Ancora u n a volta, però, quando se lo vide vicino, implorò: «O albero di henné, ricordati la nostra passata amicizia e c o s t r u i s c i m i un r i p a r o coi tuoi r a m i » . L'albero di h e n n é le fornì un r i p a r o coi suoi r a m i , e il jinn la perse nuovamente di vista. Ebbe un bel cercare, ma q u a n d o si fu stancato senza averla trovata, dovette tornare indietro. Quand'era già da un po' sulla via del ritorno, si voltò e la vide di nuovo. Allora essa disse: «Albero di henné, lasciami andare; ragno, lasciami andare; e tu, cammello elegante come u n o struzzo, ricordati della nostra passata amicizia, salta con me nel fiume: dal giorno in cui sei nato, ti ho lasciato libero di farti allattare da tua madre, che Dio mi punisca se ti ho mai fatto soffrire la f a m e privandoti del suo latte, anche q u a n d o mungevano le altre cammelle». Allora il cammello simile a u n o struzzo lanciò tre forti bramiti, quindi prese la rincorsa e si tuffò nel fiume, emettendo altri bramiti. E tu, jinn? Anche tu hai cercato di far tuffare nel 396
fiume il tuo cavallo, ma esso ci è caduto dentro e il fiume lo ha portato via. A questo punto il cammello di Teylalen lanciò ancora un bramito, e questa volta lo udì lo schiavo di Khaydara, u n o dei fratelli della ragazza, il quale corse ad a n n u n c i a r e : «Minjolo, K h a y d a r a , ho sentito bramire il cammello di vostra sorella!». «Tu menti! Perché ci ricordi questi tristi fatti?» E si avventarono su di lui pestandolo di santa ragione fino a farlo finire per terra. Poi tornarono a coricarsi. Ma dopo un po' egli tornò a dir loro: «Fatemi quel che vi pare, uccidetemi o lasciatemi in vita, ma io sento bramire il cammello di vostra sorella». E anche questa volta essi si avventarono su di lui pestandolo di santa ragione fino a stancarsi. Lo lasciarono più morto che vivo e tornarono a stendersi dov'erano prima, q u a n d o arrivò fino lì il terzo bramito del cammello. Come lo udirono, le cammelle si misero a bramire, ripresero a urinare e a far rumore. Anche i fratelli udirono questo grido e andarono incontro al cammello. Di corsa arrivarono al cammello, su cui stava Teylalen col suo palanchino. Furono contenti da impazzire. C o n d u s s e r o poi c o n loro il c a m m e l l o e, giunti all'accampamento, la fecero scendere e sistemare. E lì si sistemarono anch'essi. Il r a c c o n t o se n'è a n d a t o , è M u s a che l'ha f a t t o fuggire, mentre Senji lo precede.
4. KHAYATAN, LA FANCIULLA V E N D U T A DAI F R A T E L L I A UN JINN
Questa è la storia di due uomini che vendettero a un jinn la loro sorella. C'erano due uomini che avevano u n a sorella di no397
me K h a y a t a n . Gli a n n i passavano; la r a g a z z a ora aveva u n ' e t à che le consentiva di m o n t a r e un bel cammello, con u n a sella pregiata di Mauritania, di avere un bel corredo, ogni genere di o r n a m e n t o e splendide vesti. Un giorno a r r i v a r o n o a un pozzo. Ma in questo pozzo vi era un jinn che ne custodiva le acque. Vi calarono un recipiente e lo stavano già ritirando pieno d'acqua quando il jinn lo afferrò senza lasciarlo più risalire. Lo implorarono: «Lascia libero il secchio e ti d a r e m o un cammello..., ti d a r e m o questo..., ti daremo quello...». Ma qualunque cosa gli nominassero, egli la rifiutava, fino a q u a n d o giunsero a promettergli u n a fanciulla. Gli dissero: «... ti d a r e m o u n a fanciulla bellissima». Nelle loro intenzioni si trattava di un trucco. Ma anche il jinn era un tipo sveglio. E, l a n c i a n d o u n ' o c c h i a t a di sbieco, lasciò andare il secchio. La fanciulla aveva fatto sosta col suo cammello a poca distanza dal pozzo, e il jinn, facendo passare le sue unghiacce attraverso la terra, arrivò ad artigliare il ventre del cammello. Non so bene in che modo, sta di fatto che riuscì ad artigliare anche la fanciulla, la quale rimase come inchiodata alla sella mentre i fratelli facevano abbeverare tutto il loro bestiame. A un certo punto, le dissero: «Khayatan, fa' voltare dall'altra parte il cammello, in m o d o che possa abbeverarsi anche lui». Essa cercò di farlo girare, ma senza riuscirci. Cercò allora di farlo alzare, ma a n c h e questo invano. Le dissero allora: «E tu, che hai? Su, scendi di sella!», ma lei stessa n o n fu più in grado di scendere dal cammello. Cercarono di fare alzare l'animale con lei in groppa, ma senza riuscirci. Cercarono di tirarla giù a forza: macché, niente da fare. Ogni tentativo di far qualcosa andò a vuoto. 398
Io credo che l'unico modo di trarsi d'impiccio sarebbe stato lo "stratagemma della spada". È un trucco che si a d o t t a c o n t r o i jinn e va eseguito con la spada: si t r a t t a di f a r l a p a s s a r e sotto la p a n c i a dell'animale bloccato. Se, per esempio, un animale è stato bloccato durante l'abbeverata, dicono che per liberarlo si debba dare un colpo con la spada tra le zampe dell'animale. I jinn, infatti, non a m a n o affatto le spade: le spade e, in generale, qualunque oggetto di ferro. Dicevamo, dunque, che, per quanti tentativi facessero, n o n sortivano alcun risultato. Così dovettero arrendersi e si accinsero ad andarsene, abbandonando la sorella, che intanto si era messa a lanciare grida strazianti. A nessuno di loro venne in mente di ricorrere allo stratagemma che ho detto, che consiste nel far passare u n a spada sotto la pancia del cammello. La spada è proprio un ottimo rimedio contro i jinn. Comunque sia, visto che tutto era stato vano, la lasciarono e se ne andarono, mentre lei continuava a gridare. Q u a n d o i fratelli f u r o n o fuori dalla loro vista, il jinn balzò fuori dal pozzo e disse a Khayatan: «Cosa preferisci: che io ti tenga con me come u n a figlia o che ti mangi?». «Preferisco che tu mi faccia da padre.» E così il jinn la prese, la spostò, mettendola sulla testa del cammello, e prese il suo posto sulla sella pregiata di Mauritania, su cui si pose rigido e impacciato. Partirono, quindi, e proseguirono per un po'. A un certo punto il jinn disse alla ragazza: «Guarda, guarda, cosa vedi?». «Vedo u n a tenda molto, molto bella, ricoperta di 399
splendide coperte e attorniata da giovani cammelli dal pelame bicolore.» «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'altra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo u n a tenda molto, molto bella, bianca, attorniata da giovani torelli.» «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'altra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo u n a tenda molto bella, attorniata da agnelli. » «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'altra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo u n a t e n d a molto bella, a t t o r n i a t a da capretti.» «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'altra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo una tenda molto, molto brutta, rivestita di pezzi di corteccia e vicino alla quale si aggira u n a cagna più morta che viva, con gli intestini che strascicano per terra.» «È la nostra, è proprio la nostra!» Si diressero quindi verso la tenda, e vi entrarono. La ragazza aveva p a u r a del jinn, che n o n le aveva detto cosa la attendeva. Lasciamo i due a questo punto, e vediamo che cosa era accaduto ai fratelli della ragazza. Essi erano tornati al pozzo, ma n o n avevano trovato nessuno, n e m m e n o u n a traccia. Niente di niente. Provarono a chiedere in giro, ma nessuno li aveva visti partire. 400
Cerca di qua, cerca di là, alla fine pensarono che la sorella non fosse più in vita. Passarono gli anni. Un giorno, alcune mucche di loro proprietà si trovarono a passare vicino alla ragazza. Essa ne fermò una, si tolse l'anello e glielo infilò in un corno. Quando la mucca fu di ritorno, i fratelli la munsero, e al termine dell'operazione si avvidero dell'anello. Capirono così che Khayatan era ancora viva, e si misero di nuovo alla sua ricerca. Uno di essi partì in sella a u n o splendido cammello nero, di n o m e Engal, in compagnia di u n o schiavo negro che montava u n a giumenta. Lungo la strada, a un certo punto, giunsero in u n a località dove vi era un accampamento. Il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questo cammello, ho questo schiavo negro, questa sella da cammello, questa sella da cavallo, questo sacco di pelle, questa bacinella, questo scudiscio, queste briglie...» e così dicendo e n u m e r ò loro t u t t o quello che aveva, senza dimenticarsi nulla, e concluse: «Cosa può esserci di più bello al mondo?». «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui dieci anni fa.» Proseguirono allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». Cammina, c a m m i n a , q u a n d o giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questo, q u e s t o e quest'altro: cosa può esserci di più bello al mondo?». 401
E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui nove anni fa». Proseguirono allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché n o n fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». Cammina, c a m m i n a , q u a n d o giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questo cammello, questo cavallo, q u e s t o schiavo negro, q u e s t a sella da cammello, questa sella da cavallo, questa bacinella, e così via: cosa può esserci di più bello al mondo?». E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui otto anni fa». Proseguirono allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché n o n fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». Cammina, cammina, quando giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questa sella da cammello, questo cavallo, questo schiavo negro, e inoltre ci sono io stesso: cosa p u ò esserci di più bello al mondo?». E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel402
lezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui sette anni fa». P r o s e g u i r o n o allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché n o n fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». (E così via, s e m p r e d i m i n u e n d o gli anni: sapete come vanno le cose nei racconti, è tutta questione di fantasia.) Cammina, c a m m i n a , q u a n d o giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse c o m e sempre ai suoi abitanti: «Io ho questo, questo e quest'altro». (Io penso che fosse un esped i e n t e p e r o t t e n e r e i n f o r m a z i o n i . ) «Io ho q u e s t o c a m m e l l o , q u e s t o cavallo, q u e s t o schiavo, q u e s t a splendida sella, e così via: cosa p u ò esserci di più bello al mondo?» E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui tre anni fa». (...) Cammina, c a m m i n a , q u a n d o giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questo, q u e s t o e quest'altro: cosa può esserci di più bello al mondo?». E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui un a n n o fa». P r o s e g u i r o n o allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo 403
aggiunse: «Perché n o n fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». Cammina, cammina, q u a n d o giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse ancora ai suoi abitanti: «Io ho questo, questo e quest'altro: cosa può esserci di più bello al mondo?». E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui nove mesi fa». Proseguirono allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché n o n fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». (...)
Cammina, cammina, q u a n d o giunsero in u n a località dove vi era un accampamento, il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questo cavallo, questo cammello, q u e s t o schiavo, poi ci sono io stesso, e inoltre questa sacca, questa bacinella, e così via: cosa può esserci di più bello al mondo?». E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui tre mesi fa». P r o s e g u i r o n o allora il viaggio, e q u a n d o f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». Cammina, cammina, giunsero a un accampamento, e di nuovo il p a d r o n e si rivolse ai suoi abitanti, chiedendo che cosa ci fosse al m o n d o di meglio di 404
tutte le sue proprietà, del suo schiavo, di lui stesso e di tutto il suo equipaggiamento. E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste vostre cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte u n a fanciulla che è passata di qui due mesi fa». Più avanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khayatan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché n o n fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?». Cammina, cammina, alla fine la raggiunsero, trovarono l'accampamento in cui si trovava Khayatan. Era pomeriggio inoltrato, ed essa aveva appena finito di farsi fare la treccia. Quando f u r o n o all'accampamento, il fratello chiese agli abitanti: «Io ho un cavallo, u n o schiavo, u n a sella da cavallo, u n a sella da cammello, u n a sacca di pelle, poi ci sono io stesso. Ora, viste tutte queste mie cose, che cosa può esserci di più bello?». E la gente dell'accampamento rispose: «Tutte queste vostre cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi b a t t e u n a fanciulla che è stata qui questo pomeriggio a farsi fare la treccia». A questo punto, si fecero dire con precisione dove avrebbero potuto trovare la ragazza, e quando l'ebbero saputo, vi si diressero. Trovandosi a poca distanza, nascosero le loro cavalcature - la giumenta e il cammello presso questa gente, e proseguirono a piedi. Quando giunsero da lei, la trovarono sola, dal mom e n t o che il jinn non era nella tenda. Essa li nascose sotto il letto, ed essi rimasero così, distesi. A sera il jinn fece ritorno e mise a cuocere la carne che aveva p r o c u r a t o . Si trattava - credo - di selvaggina, u n a 405
gazzella o qualcosa del genere. Aveva fatto un giro a controllare le tagliole. Ora, mentre i due erano sempre stesi sotto il letto, il jinn fece cuocere la carne, e poi la diede a Khayatan. Costei, stando seduta sul letto sotto il quale si trovavano i due uomini, ne approfittò per dare loro da m a n g i a r e . Finito che ebbero, le r e s t i t u i r o n o il piatto vuoto, e lei lo rese al jinn. Questi le chiese: «Non sei ancora sazia?». «No, non sono sazia.» Allora gliene diede ancora u n a porzione, ed essa la passò ai due sotto al letto. Questa volta essi le fecero capire di essere sazi. Naturalmente esprimendosi a gesti, perché non potevano parlare. Mangiò a n c h e lei e si saziò, d o p o aver d a t o da mangiare ai due, poi a n d a r o n o a coricarsi. Mentre Khayatan e il jinn dormivano, i due sotto il letto cominciarono a fare delle cose audaci, al limite dell'incoscienza. Dal m o m e n t o che il jinn era vicinissimo a loro, e a momenti li toccava, essi presero a pungerlo con un punteruolo. Se ne stavano sotto il letto, mentre il jinn si contorceva sul letto. «Ohimè, misericordia! Questa notte nel letto c'è u n a formica, sì, proprio u n a formica. » E i n t a n t o quei d u e c o n t i n u a v a n o a t o r m e n t a r l o col punteruolo. Lo pungevano e lui si contorceva sul letto. «Questa notte nel letto c'è u n a formica, eh sì, dev'esserci proprio u n a formica.» Alle p r i m e luci dell'alba (il sole n o n era a n c o r a sorto), la ragazza gli chiese: «Babbo...» «Sì?» «Mi sapresti dire dove si trova la t u a a n i m a , in m o d o che io possa mettervi anche la mia?» «La mia anima... Dunque, devi cercare la gazzella dal dorso infossato e con un corno solo. Poi prendi 406
un bastone, colpisci il corno con il b a s t o n e fino a farlo cadere, e quindi raccogli il sacchetto che vi troverai dentro. In questo sacchetto ce n'è un altro, in questo ce n'è un altro ancora, che ne contiene un altro, e così via fino al decimo sacchetto. Nel decimo ci sarà u n a scatolina, e questa scatolina ne contiene un'altra, in cui ve n'è un'altra ancora, e così via fino alla decima. La decima scatolina contiene un capello bruno: in esso è racchiusa la mia anima.» Allora la fanciulla prese un bastone, andò in cerca della gazzella dal dorso infossato e con un corno solo, la trovò e la prese. Slegò u n o per u n o i sacchetti e ogni volta che ne apriva u n o ne trovava un altro, finché fu giunta al decimo, che conteneva u n a scatolina. Ma non era u n a scatolina sola: ce n'erano parecchie. Ogni volta che ne apriva u n a , ne trovava un'altra al suo interno. Arrivata alla decima, vi trovò dentro il capello bruno. Lo prese e lo portò con sé fino all'accampamento. Qui giunta, vide che il jinn quel giorno non era ancora uscito, e lo chiamò: «Babbo...». «Sì?» Essa strappò il capello ed egli si accasciò a terra. Aveva tirato le cuoia.
5. A Y O R E T A Y O R T
Si racconta che c'era un u o m o che si ferì a un ginocchio mentre tagliava un ramo di u n a pianta per darlo da mangiare alle capre. Si spezzò così la rotula e ne fuoriuscirono due uova, che egli si affrettò a raccogliere e a d e p o r r e in un l e m b o ripiegato della stuoia principale della sua tenda. A partire da quel momento, q u a n d o gli capitava di lasciare legati dei capretti, li ritrovava dopo un po' 407
slegati; quando invece li lasciava liberi insieme alle loro madri, al suo ritorno li trovava legati. La cosa si ripetè una, due, diverse volte: lasciava i capretti legati e li ritrovava slegati; li lasciava liberi insieme alle madri e al ritorno li trovava legati... Provò allora a guardare nella piega della stuoia, e vi trovò d u e b a m b i n i così piccoli da p o t e r stare all'interno di questo lembo ripiegato. Li tirò fuori e li depose a terra. Ed essi partirono. Per strada i n c o n t r a r o n o u n a p e r s o n a che chiese loro: «Dov'è vostra madre?» «Se n'è andata dove la terra è bucata per farvi un rammendo.» «E dov'è vostro padre?» «È andato dove il cielo sta crollando per metterci dei puntelli.» Dopodiché proseguirono il cammino. Si chiamavano Ayor e Tayort. Strada facendo si imbatterono in u n a pozza di orina di gazzella. Ayor si disse che non avrebbe proseguito senza bere da quella pozza. E così - attenti bene a quello che accadde - depose lì accanto le sue frecce, e dopo un po' disse alla sorella: «Tayort, ho d i m e n t i c a t o le mie frecce vicino a quella pozza di orina. Sì, le ho proprio dimenticate laggiù». «Lascia, te le vado a prendere io.» «No, no, le vado a prendere io.» «Lascia, vado io.» Alla fine fu lui che tornò indietro, e potè bere alla pozza di orina. Ma in seguito a ciò subì u n a trasformazione: divenne metà u o m o e metà gazzella. Eh sì, Tayort dovette proseguire il c a m m i n o portando con sé questa mezza gazzella. A un certo p u n t o giunse dove si trovavano delle vecchie che coglievano spighe di wajjag, e chiese lo408
ro: «Mi sapete dire come si fa a separare un u o m o da u n a gazzella?». «Certo che lo sappiamo.» E, preso un pesante pestello per il miglio, assestarono un colpo che fece andare l'uomo da u n a parte e la gazzella dall'altra. La fanciulla potè così continuare il suo c a m m i n o finché giunsero al palmizio del sultano di Agadez. Arrampicatisi su u n a palma, si divertivano a tirare giù i datteri: quelli ancora verdi sulle guardie, quelli maturi sulla testa del sultano. «Se siete degli uccelli, volate via; se siete degli uomini, venite giù! Se avete sete, berrete; se avete fame, mangerete.» E Tayort rispose: «Abbiamo sete, a b b i a m o fame; a b b i a m o sete, abbiamo fame». «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete u n a sopravveste.» E le diedero u n a sopravveste. «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete u n a camicia.» «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete u n a gonna.» «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete il resto dell'abbigliamento.» «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete dei sandali.» Le diedero tutto quello che aveva chiesto, ed essa scese dalla palma. «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete dei pantaloni.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete u n a camicia.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete un turbante col velo.» 409
«Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete dei sandali.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete u n a spada.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete dei pantaloni.» Alla fine scesero tutti e due. Il sultano, quando fu al cospetto di Tayort, ne rimase molto colpito. Egli era già sposato con Janegerfadan, e tuttavia, quando vide Tayort, si disse che in t u t t a la vita n o n aveva mai visto u n a donna più bella di lei. E così la sposò. Da allora in poi, Tayort prese l'abitudine di scoprirsi il bel seno q u a n d o era il m o m e n t o di mungere le cammelle. Le dicevano: «Tayort, fa' risplendere il tuo bel seno!». E anche il sultano ripeteva: «Tayort, fa' risplendere il tuo bel seno in m o d o da facilitare la mungitura!». Allora essa si scopriva il seno e le cammelle si lasciavano m u n g e r e volentieri. Al vedere ciò, il suo gemello Ayor a n d a v a a raccogliere la schiuma del latte e se la beveva. Le cose andarono avanti così per un bel po', ma un giorno la co-sposa di Tayort la prese da parte e le disse: «Tayort, vieni: a n d i a m o a bagnarci nello stagno». «No, non vado allo stagno. Io il bagno lo faccio nel latte.» «Suvvia, solo u n a risciacquata!» «Ma io non voglio andarci a piedi.» «Ti porterò sulla schiena.» «Non voglio scottarmi al sole.» «Prowederò anche a farti ombra.» E così se la prese sulla schiena, la coprì p e r c h é non prendesse sole, e la portò fino allo stagno. Qui giunte, si svestirono per entrare nell'acqua. Janegerf a d a n aveva deposto Tayort sulla riva dello stagno dalla parte dove l'acqua era più profonda, dopodiché cominciò a spingerla un po' più in là, sempre più in 410
là, dicendole: «Su, dai, fatti più in là, c'è ancora spazio tra qui e l'acqua». E così, scivolando sempre più verso lo stagno, a un tratto, pluff, Tayort finì nell'acqua profonda. A questo p u n t o l'altra prese un grosso macigno e glielo fece cadere sopra, proprio là dove essa era scivolata in acqua. Ciò fatto, ripartì e se ne tornò all'accampamento rivestita degli abiti di Tayort. E quando, scambiandola per la co-sposa, le dissero: «Tayort, fa' risplendere il tuo bel seno!» le cammelle invece di dare latte diedero del pus. E quando Ayor venne per raccogliere la schiuma, essa lo batté col mestolo. Allora egli si disse: "Costei non è Tayort, no di certo". La mattina dopo andò allo stagno e si mise a cantilenare: «Tayort, Tayort, mia Tayort!». Essa rispose: «Ayor, Ayor, mio Ayor! Se parlo l'acqua mi affogherà; se taccio ti spezzerò il cuore!». Tornato a l l ' a c c a m p a m e n t o , diede l'allarme: «Tayort è nello stagno! Tayort è nello stagno!». Gli risposero: «Se quello che dici è u n a m e n z o g n a , ti sgozzeremo con questo pugnale. Ti faremo la pelle». Si fece quindi a c c o m p a g n a r e dalla gente dell'acc a m p a m e n t o , e con loro vennero capre, cammelli, asini, mucche e ogni possibile essere vivente in grado di ingollare acqua, di bere e di muoversi. Ogni essere vivente venne con loro. Bevvero tutti insieme l'acqua di quello s t a g n o e ne s v u o t a r o n o la m e t à . Ayor se ne stava un po' al di s o p r a e cantilenava: «Tayort, Tayort, mia Tayort!». Essa rispose: «Ayor, Ayor, mio Ayor! Se parlo l'acq u a mi affogherà; se taccio ti spezzerò il cuore!». Alcuni la u d i r o n o , altri no. Di nuovo egli cantò: «Tayort, Tayort, mia Tayort!». Essa rispose: «Ayor, Ayor, mio Ayor! Se parlo l'acqua mi affogherà; se taccio ti spezzerò il cuore!». Questa volta tutti la udirono. 411
Si fece allora avanti un ariete e disse: «Se mi lasciate fare u n a bella succhiata del latte di mia m a d r e fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò fuori io». Succhiò quindi il latte della m a d r e fino a farsi sgocciolare la schiuma dal muso. Lanciò q u i n d i un grido, p r e s e la r i n c o r s a , p a r t ì e a n d ò a sbattere contro il masso, ma questo n o n si smosse di un millimetro. Si fece allora avanti un toro e disse: «Se mi lasciate fare u n a bella succhiata del latte di mia m a d r e fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò f u o r i io». S u c c h i ò quindi il latte della m a d r e f i n o a farsi sgocciolare la s c h i u m a dal m u s o . Poi prese la rincorsa, partì e a n d ò a sbattere contro il masso, ma questo n o n si smosse di un millimetro. Si fece allora avanti un cammello e disse: «Se mi lasciate fare u n a bella succhiata del latte di mia madre fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò fuori io». Succhiò quindi il latte della m a d r e f i n o a farsi sgocciolare la s c h i u m a dal m u s o . Poi partì alla carica e finì per dare un gran colpo con le zampe contro il masso, ma questo non si smosse di un millimetro. Si fece allora avanti un caprone e disse: «Se mi lasciate fare u n a bella succhiata del latte di mia m a d r e fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò fuori io». Succhiò quindi il latte della m a d r e f i n o a farsi sgocciolare la s c h i u m a dal m u s o . Poi prese la rincorsa, partì e, lanciando un gran grido, a n d ò a sbattere c o n t r o il masso, ma questo n o n si smosse di un millimetro. A questo p u n t o si fece avanti un m o n t o n e piuttosto male in arnese e interamente ricoperto di pulci: era veramente incredibile la quantità di pulci che lo infestavano. I pareri f u r o n o contrastanti: «Lasciatelo provare!» 412
«Sì, fatelo provare!» «Ma no, fermatelo. Come pensate che possa farcela? Ci h a n n o già provato senza riuscirci animali ben più robusti e validi!» «Sì, fatelo provare!» «No, fermatelo!» «Sì, fatelo provare!» Alla fine, lo fecero tentare. Succhiò quindi il latte della m a d r e fino a farsi sgocciolare la schiuma dal m u s o . Poi prese la rincorsa, partì e, l a n c i a n d o un gran grido, andò a sbattere contro il masso, e riuscì a smuoverlo. Così Tayort fu libera. La giovane era stata salvata da quel piccolo a m m a s s o di pulci. Le ridiedero i suoi vestiti e le chiesero: «Cosa vuoi che facciamo a Janegerfadan?». «Ebbene, fatela montare su un cammello cieco, legatela con delle funi a questo cammello cieco e fatelo condurre da u n a sorda cui darete del miglio in un paniere. Attaccatela dunque al cammello!» Così fu fatto: la legarono al cammello, diedero il miglio in un p a n i e r e alla s o r d a e costei, a piedi, portò il cammello in mezzo a u n a macchia di alberi spinosi. «Ehi, tu!» diceva Janegerfadan. «Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» E continuava imperterrita a portarla in mezzo alle spine. «Ehi, tu! Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» «Ehi, tu! Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» Vai e vai, J a n e g e r f a d a n era s e m p r e più graffiata dalle spine; a m a n o a m a n o che si staccavano pezzi 413
di carne, la sorda li raccoglieva e li metteva nel paniere. «Quante volte ti devo ripetere: "Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine"?» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» E la tortura continuava. «Ehi, tu! Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» Quando Janegerfadan fu di ritorno, le sue carni si erano completamente staccate dalle ossa. Non ne rimaneva più nulla. Tutto quello che era rimasto era un mucchio di ossa spolpate. La sorda fece ritorno all'accampamento, e poi se ne andò. Fecero a pezzettini le sue carni, le misero in u n a pentola e ne diedero a Tayort. Ne mangiò anche sua madre, che trovò l'anello di Janegerfadan e scoppiò in lacrime. E pianse, pianse a dirotto, senza interruzione. Tayort ritrovò il marito: Janegerfadan era stata infine separata dal sultano. Il racconto se ne è andato per di là; Ahalu gli blocca la strada per non farlo più tornare.
6. LA FANCIULLA MALTRATTATA DAL PADRE
C'era u n a volta u n a ragazza orfana di madre, che viveva da sola col padre. Un giorno il padre si risposò ed essa si trovò così con u n a matrigna, che aveva già delle figlie sue. Prima di morire, la madre della ragazza aveva detto alla mucca: «Corna-in-giù, mi prometti di prenderti cura della mia bambina?». E l'animale aveva risposto: «Sì!». Il padre, p u r volendole bene, la maltrattava spesso, accecato dall'amore per la seconda moglie. E così 414
la spediva in m a l o m o d o a p a s c o l a r e il b e s t i a m e , mentre permetteva alle figlie della moglie di restarsene a casa senza far nulla. Quando si trovava nella boscaglia a pascolare, assalita dalla f a m e la fanciulla chiamava: «Corna-ingiù, Corna-in-giù, la m a m m a n o n ti aveva detto di prenderti cura di me?» e la m u c c a accorreva muggendo, le dava da mangiare e se ne tornava insieme al resto del bestiame. Nutrita dalla mucca, la ragazzina faceva ritorno all'accampamento del padre. Qui giunta, però, la m a t r i g n a e le sorellastre le davano da mangiare solo raschiatura dei piatti invece di darle la polenta di miglio e nutrirla come si deve. Così, q u a n d o aveva bisogno di mangiare qualcosa durante il giorno, se ne andava nella boscaglia e chiamava: «Corna-in-giù, Corna-in-giù, la m a m m a non ti aveva detto di prenderti cura di me?». Un giorno, trovandosi f u o r i d e l l ' a c c a m p a m e n t o c o n u n a sorellastra, le disse: «Mi p r o m e t t i che se adesso ti faccio vedere u n a cosa tu non la farai sapere in giro?». «Va bene, non dirò nulla.» Allora chiamò la mucca. Anzi, prima disse: «Io ho u n a mucca che, quando la chiamo, mi dà tutto quello di cui ho bisogno». «Prova a chiamarla!» «Corna-in-giù, la m a m m a n o n ti aveva d e t t o di prenderti cura di me?» La mucca accorse, e le diede del cibo, anche se in piccola quantità, avendo notato l'altra ragazza. Dopodiché fece dietrofront e scomparve. La ragazza offrì il cibo alla sorellastra, invitandola a mangiare. Senza farsi vedere, questa ne fece aderire un po' all'unghia. Dopo aver trascorso tutta la giornata al pascolo, alla fine tornarono all'accampamento. E appena arrivate dai genitori, la sorellastra annunciò: «Guarda415
te un po' di che cosa si nutre questa ragazza! Venite a vedere! Questo cibo le viene somministrato da u n a mucca!». Allora quella d o n n a , la m a t r i g n a della ragazza, disse al marito: «Se non ucciderai la mucca che dà da mangiare alla ragazza, non farti più vedere nella mia tenda: n o n mi lascerò più avvicinare da te». E così l'uomo dovette avviarsi in cerca della mucca. Seguì la figlia, che era andata a pascolare le capre. Q u a n d o l'ebbe raggiunta, le disse: «Chiama la t u a mucca!». «Corna-in-giù, la m a m m a n o n ti aveva d e t t o di prenderti cura di me?» La mucca accorse, ma q u a n d o vide l'uomo, tornò sui suoi passi, sempre correndo. Allora il p a d r e le diede u n o s c h i a f f o e ripetè: «Chiama la t u a mucca!». Fu tale la f o r z a dello schiaffo che la ragazza svenne. Quando si riebbe, il padre ripetè: «Chiama la tua mucca!». «Corna-in-giù, la m a m m a n o n ti aveva d e t t o di prenderti cura di me?» La m u c c a accorse di b u o n grado, ma q u a n d o fu vicina vide l'uomo a r m a t o di u n a spada e t o r n ò di corsa sui suoi passi. Questa volta il p a d r e prese a percuoterla selvaggiamente, dicendole: «Chiama la tua mucca!». La ragazza la chiamò, la mucca accorse, e q u a n d o fu vicina, il padre, con un colpo di spada, le tagliò i garretti, e, dopo averla così ferita, la finì. La fanciulla se ne andò via in preda a un pianto dirotto. Pensava: "Ormai per me è finita. A che prò vivere ancora? Finora c'è stata questa mucca che mi ha nutrita, ma adesso che è morta, che ne sarà di me?". Alla fine prese la zucca vuota in cui teneva l'acqua, la riempì e se ne andò lontano lontano, senza fermarsi. 416
Cammina, cammina, giunse in un a c c a m p a m e n t o abitato da donne dedite alla stregoneria. Quando vi arrivò, esse e r a n o assenti. C o m u n q u e essa pestò il miglio p e r f a r n e polenta, p r e p a r ò da m a n g i a r e e scopò le loro tende in attesa del loro ritorno. Quando f u r o n o arrivate, mangiarono, e finito di mangiare la ragazza strofinò i denti a ciascuna di loro, e quello che venne via lo raccolse sulla m a n o porgendolo poi loro affinché lo mangiassero. Esse mangiarono tutto, e alla fine le dissero: «Adesso va', incamminati verso le uova che si trovano nel tal posto, e quando ci sarai arrivata, aprile. Se un vecchio ti sbarrasse il cammino, prendi un bastone e picchiaglielo sulla g a m b a per fargliela piegare, in m o d o che tu possa passare. E quando sarai arrivata, va' verso le uova che non ti chiameranno, e n o n verso quelle che ti chiameranno». Essa seguì queste istruzioni, si mise in viaggio e q u a n d o fu a r r i v a t a lasciò p e r d e r e le uova che la c h i a m a v a n o p e r dirigersi verso quelle che n o n la chiamavano. Ne riempì lo scialle e ripartì. Cammina, cammina, si ritrovò in u n a pianura vastissima. Qui le venne fatto di esclamare: «Fortunato colui che potesse abitare qui con degli schiavi, dei dipendenti, dei pastori e u n a gran quantità di bestiame: u n o che piantasse qui la sua tenda e si stabilisse qui, in mezzo alla pianura!». Mentre continuava a camminare in mezzo a questa pianura, le cadde un uovo, che si ruppe, lasciando fuoriuscire schiavi e cammelli. Si fermò allora a rompere tutte le altre: ruppe un uovo e ne uscirono m u c c h e e schiavi; ne r u p p e un altro e ne uscirono dei vitelli con degli schiavi che se ne occupavano; ne r u p p e un terzo e ne uscirono capre e relativi schiavi; ne r u p p e un quarto e ne uscì dell'argento; ne r u p p e un quinto e ne uscì dell'oro; ne ruppe un sesto e ne 417
uscirono cavalli e cavalieri; ne ruppe un settimo e ne uscì il suo sposo e la sua tenda; ne ruppe un ottavo e ne uscirono delle schiave. Le schiave m o n t a r o n o la tenda, ed essa andò a stabilirvisi con il marito e con le sue schiave. Q u a n d o il p a d r e che l'aveva m a l t r a t t a t a venne a conoscenza della sua nuova condizione, disse: «Oggi andrò a far visita a mia figlia. Sì, oggi andrò a far visita a mia figlia». Indossò u n a tunica di intestini di asino, calzò sandali fatti di zoccoli di asino, si mise dei pantaloni fatti di pelle di pancia di asino e un velo fatto col posteriore di un asino, dopodiché si mise in viaggio per andare a trovarla. Quando fu da lei, essa ordinò alle schiave: «Orsù, sgozzate il toro più grosso! Sgozzatelo per m i o padre!». Ed esse lo sgozzarono, lo prepararono e lo cucinarono. Poi essa c o m a n d ò a u n o schiavo: «Lava mio padre!» e subito venne accontentata. Quindi gli diede u n a tunica di tessuto indaco di Kora, dei pantaloni di raso, u n a t u n i c a di t e s s u t o i n d a c o di Keykey, un velo normale, u n o di tessuto indaco e un paio di sandali. Dopodiché, gli fece servire la carne dagli schiavi, dicendo loro: «Andate, date da mangiare a mio padre carne finché ne vuole». Gli fece mettere a disposizione splendidi letti e stuoie e gli fece servire la carne. Calzati dei sandali, andò essa stessa a porgergli la carne. Il p a d r e si mise a m a n g i a r e a q u a t t r o palmenti. Dopo un po', la figlia gli chiese: «Padre, ci sono ancora delle parti di carne che tu desideri p e r essere soddisfatto?». Dapprima il padre rispose: «Il fegato e il cuore». Ma poi, sopraffatto dalla vergogna per il m o d o in cui veniva trattato da colei che tanto male da lui aveva ricevuto, esclamò: «Terra, apriti sotto di me! Terra, inghiottimi!». 418
Ma la figlia intervenne: «No, terra! Non inghiottire mio padre!». Dopo un po' la figlia gli chiese ancora: «Padre, ci sono ancora delle parti di carne che tu desideri per essere soddisfatto?». «Il fegato e il cuore.» E poi: «Terra, apriti sotto di me! Terra, inghiottimi!». «No, terra! Non inghiottire mio padre!» Passò ancora un po' e la terra cominciò a inghiottirlo. Già n o n si sentiva più la voce del padre, inghiottito dalla terra, quando la figlia implorò: «Terra, ti prego, lascia andare mio padre! Quando gli ho fatto quella domanda, non intendevo farlo vergognare del suo comportamento! Semplicemente, per essere soddisfatto desiderava ancora il fegato e il cuore del toro. Terra, lascia andare mio padre!». La terra lasciò allora libero il padre, e la figlia si affrettò a dirgli: «Padre, quello che ti è successo n o n è causato dalla mia domanda. Il fatto è che da quando, ancora lattante, rimasi orfana e mia madre, morendo, mi lasciò a te, il tuo comportamento nei miei c o n f r o n t i è stato influenzato dal t u o a m o r e per la t u a nuova moglie, che per me era u n a m a t r i g n a e non mi voleva bene; e sei arrivato al punto di uccidere la mia mucca...». Il padre si avviò per tornare al suo accampamento, e la figlia gli diede tutto quello che poteva: bestiame e altri doni. Arrivò al p u n t o di fargli o m a g g i o p e r f i n o di alcuni schiavi. Il p a d r e p a r t ì e m a r c i ò , marciò a lungo, e mentre era ancora in cammino, a un certo punto la terra lo inghiottì. Dopo qualche tempo, la notizia che la terra aveva inghiottito suo p a d r e giunse alle orecchie della ragazza, che disse: «E adesso, cosa farò? Orsù, terra, cessa di tenere mio padre nelle tue viscere!». Ma le fu risposto: «Ohibò, pensi forse che quello che fa la 419
terra quando inghiotte un u o m o lo possa fare senza che ne sia a conoscenza l'Onnipotente?». Queste parole la illuminarono, ed essa si sottomise alla volontà divina. Ecco, il mio racconto è finito. Riavvolgi il nastro che lo risentiamo.
7. LA F A N C I U L L A E LA M A T R I G N A CATTIVA
C'era u n a volta un u o m o che aveva u n a figlia. La madre della ragazza era morta, e il padre si era ben presto risposato con u n a d o n n a che aveva già u n a figlia sua. Dopo che l'ebbe sposata, costei venne ad abitare nella tenda che era stata della moglie morta. Installata così la nuova moglie, l'uomo se ne partì per u n a razzia. Era solito infatti fare razzie di mucche. Tra le bestie che si era così procurato ce n'erano una nera, u n a giallo-oro e u n a col muso bianco. Partendo, l'uomo lasciò la figlia con la d o n n a che aveva sposato e che, c o m e si è già visto, aveva già u n a figlia propria. E, via il padre, questa donna ebbe in suo potere la figlia. Le dava da mangiare solo insetti e cose disgustose; le lasciava la testa spettinata, senza farle la treccia. Quanto a sua figlia, invece, se la pettinava, le faceva la treccia, le faceva ogni genere di cosa piacevole, la nutriva a sazietà. Quando le ragazze erano al pozzo, la gente diceva: «Schifo-schifo è ben pettinata, mentre Capelli-d'oro è tutta spettinata!». Tornate a casa, la m a d r e chiese: «Cosa h a n n o detto uomini e donne?». « H a n n o detto: "Capelli-d'oro è t u t t a s p e t t i n a t a mentre la racchia è ben pettinata!".» La d o n n a provò allora a d a r da m a n g i a r e cose buone e a pettinare per bene la figlia del marito, la420
sciando invece spettinata la propria figlia e dandole da mangiare insetti. Tornate che f u r o n o un'altra volta al pozzo, la gente disse: «Capelli-d'oro è ben pettinata, mentre Schifoschifo è tutta spettinata!». A questo punto la donna non seppe più che fare: la sua mente era obnubilata. Alla fine decise di ricorrere a un sortilegio in conseguenza del quale la figliastra perse la ragione e andò a vivere in un branco di gazzelle. La matrigna prese un mortaio e un pestello e andò a seppellirli in m o d o da simulare u n a tomba, affinché il padre, al suo ritorno, credesse che la figlia era morta. Essa aveva u n a cagna, chiamata Rosicchia-midollo. Quando passò il branco di gazzelle tra le quali vi era la ragazza, la cagna corse verso di loro cercando di riprenderla. Ma costei prese a cantare: Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana Un'altra ha il muso bianco 421
tan-gangana E un'altra è giallo-oro tan-gangana. La c a g n a fece allora r i t o r n o a l l ' a c c a m p a m e n t o . L'indomani la cosa si ripetè. Quando passò il branco di gazzelle, la donna incitò la cagna: «Su, su, Rosicchia-midollo, guarda le gazzelle!». La cagna raggiunse la ragazza trasformata in gazzella e cercò di afferrarla, ma essa tornò a cantare: Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana E quella giallo-oro è mia tan-gangana. La cosa si ripetè anche il giorno successivo: la ragazza passò ancora lì vicino, la cagna le corse incontro cercando di afferrarla, ma la fanciulla le cantò: Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana 422
Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana E quella giallo-oro è mia tan-gangana. Quando finalmente il padre della fanciulla fu di ritorno, chiese: «Dov'è la ragazza?». «Ahimè, Allah è grande, che Dio abbia pietà di lei! Essa è morta. È proprio morta. Questo è il luogo dove giace.» E mostrandogli il luogo in cui aveva sepolto mortaio e pestello, ripetè: «È qui che giace». L'uomo si sedette lì accanto, e proprio in quella passarono di lì le gazzelle. E anche allora la cagna si mise a correre, cercando di afferrare la ragazza, la quale le cantò: Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana 423
Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana E quella giallo-oro è mia tan-gangana E quella dal muso bianco è mia tan-gangana.
Il padre udì tutto. Si alzò, andò dalla donna e gliele suonò di santa ragione. Quindi scacciò lei e la figlia e le lasciò sole nella steppa. Eresse quindi u n a tenda bellissima. La rivestì di coperte. Vi collocò dei letti e della mobilia bellissima. Vi fece bruciare dell'incenso p r o f u m a t o . Andò quindi verso il branco di gazzelle, lo aggirò e lo sospinse verso la tenda u m a n a . Q u a n d o la r a g a z z a p a s s ò vicino a q u e s t a tenda così bella non resistette alla tentazione di entrarvi per vedere che cosa vi fosse celato all'interno. E q u a n d o fu dentro, prese ad aggirarsi rapita tra tutti questi mobili così belli. Così il padre riuscì ad afferrarla e, u n a volta che l'ebbe presa, le potè tagliare il pelo di gazzell su t u t t o il corpo. La rese n u o v a m e n t e presentabile ed essa ridiventò bella come un tempo. Il racconto si f e r m a qui, Dominique. È finito. Lo ha scacciato Katia.
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8. KUTYANGA, IL FRATELLINO ASTUTO E LA V E C C H I A JINNIYA
Si racconta che c'era u n a volta u n a donna. Uno dopo l'altro, essa aveva messo al m o n d o sette figli. Ma ogni volta che ne partoriva uno, arrivava u n a jinniya che si portava via il neonato. Finalmente ne nacque u n o che non venne portato via. Si chiamava Kutyanga. La jinniya si era p o r t a t a via, dunque, tutti i fanciulli, e li aveva radunati tutti in un posto, con l'intenzione di sgozzarli. Ma proprio il giorno in cui intendeva sgozzarli, il loro fratellino chiese alla m a d r e notizie dei fratelli. «Tu hai dei fratelli maggiori, ma se li è portati via tutti u n a jinniya.» Il ragazzo, che aveva u n a capretta di nome Abla, disse alla madre: «Per favore, m a m m a , non mi sgozzare Abla, perché è con lei che andrò alla ricerca dei miei fratelli maggiori». Attese quindi che la capra fosse cresciuta. E quando fu cresciuta, partì a cavallo della capra e raggiunse il luogo in cui si trovavano i suoi fratelli. Nascose quindi la capra e prese ad aggirarsi nei dintorni, attendendo che si preparassero a dormire. Fu solo allora che si avvicinò, quatto quatto. La vecchia jinniya che li aveva rapiti li aveva dati in moglie alle proprie figlie, che erano pari a lei in perfidia. Approfittando del fatto che la jinniya era andata a raccogliere fascine di legna con l'intenzione di sgozzarli e cucinarseli, il ragazzino si intrufolò da loro e li avvertì: «Questa notte, proponete alle vostre mogli uno scambio di indumenti». E così fecero: proposero alle mogli di scambiarsi gli indumenti, ed esse accettarono. Calata la notte, la jinniya si avvicinò di soppiatto. Al suo arrivo, le mogli si erano già coperte il volto 425
col velo degli u o m i n i m e n t r e gli u o m i n i avevano i fianchi cinti con la sopravveste delle donne. Sollevò la parte inferiore del velo (ricordiamoci che tutte le donne, avendo messo il velo dei mariti, sembravano degli uomini), sgozzò col suo coltello quelli che credeva degli uomini e uscì. Passò da u n a tenda all'altra finché non ebbe sgozzato sette persone. Q u a n d o la vide uscire per c e r c a r e altra legna, Kutyanga andò a ridestare e far fuggire i fratelli. La vecchia, credendo di sgozzare i giovani rapiti, aveva invece sgozzato le proprie figlie m e n t r e questi ultimi erano rimasti incolumi. Essa aveva anche un'altra figlia, non maritata, alla quale disse: «Domattina all'alba va' a destare le tue sorelle che stanno dormendo accanto ai cadaveri dei mariti». E l ' i n d o m a n i all'alba la figlia a n d ò a fare quanto le era stato detto. Ma in ogni letto essa trovò u n a sola persona, e quando si rese conto di ciò che era successo, cominciò a piangere a calde lacrime. A giorno inoltrato sopraggiunse la vecchia, e la figlia le disse: «Mamma, nelle tende n o n ho trovato a n i m a viva: in ognuna c'era solo u n a persona sgozzata». «Ahimè, sono perduta. Solo Kutyanga può avermi giocato un simile tiro!» E così dicendo ripartì alla ricerca del ragazzo. Cerca che ti cerca, alla fine lo trovò presso degli artigiani. Avvicinandosi di soppiatto, riuscì a catturarlo e a portarselo via. Lo portò via e lo gettò in un pozzo, dopodiché andò a raccogliere legna, non prima di avere consegnato alla figlia un grosso randello con questa raccomandazione: «Adesso bada che non esca; se cerca di venir fuori, picchiaglielo sulla testa!». Kutyanga, q u a n d o era stato catturato, aveva in tasca dei pezzetti di c a r b o n e di legna, e in f o n d o al pozzo si mise ostentatamente a masticarli. La figlia 426
della jinniya che faceva la guardia gli chiese: «Che cosa stai mangiando?». «Dei datteri. Me li ha dati il sultano.» «Fammeli assaggiare.» «No. A m e n o che tu non entri qui facendo uscire me. Solo q u a n d o sarai entrata te li farò assaggiare: te li darò appoggiandoli sulla camicetta che adesso è lì, vicino al bordo del pozzo. Quando avrai finito di mangiare i datteri, rientrerò io e uscirai tu.» E così fecero: la ragazza scese nel pozzo m e n t r e lui ne usciva. Appena fuori brandì lui il randello alto sopra la testa, mentre lei, arrivata sul fondo, scoprì che non c'erano datteri, ma solo dei pezzi di carbonella. «Dove sono i datteri?» «Sono qui.» E quando vide arrivare la madre di lei, Kutyanga la avvisò: «Sta venendo qui t u a madre». S e n t e n d o avvicinarsi la jinniya, la figlia la implorò: «Ahimè, sono perduta! Mamma, non mi bruciare! Ahimè, sono perduta! Mamma, non mi bruciare!». Ma costei, appena arrivata, cominciò a gettare la legna nel pozzo. Ne gettò un bel po', e alla fine le diede fuoco. Kutyanga intanto se n'era andato per la sua strada. La jinniya si mise alla sua ricerca per vendicarsi. Cerca che ti cerca, le capitò di trovare u n a sorella minore di Kutyanga, che già da molto tempo si era sposata ed era andata a stare con la famiglia del marito. In quel m o m e n t o si trovava in visita ai suoi genitori. E lì la vecchia jinniya la trovò, e le cavò un occhio, rendendola guercia. Q u a n d o la vide ridotta così, Kutyanga le chiese: «Chi ti ha fatto questo?». «È stata la jinniya.» «Che sia maledetta! Adesso le farò vedere io!» E p a r t ì alla sua ricerca. I n t a n t o , a n c h ' e s s a era 427
s e m p r e alla ricerca di lui. K u t y a n g a giunse in un luogo in cui scavò un pozzo profondo, terminato il quale prese u n a coperta e la pose sull'imboccatura. Celata in questo m o d o l'apertura, si mise ad aspettare lì vicino. Q u a n d o la vide arrivare, le disse: «Mettiti t r a n quilla, sono qui che ti sto aspettando. Smetti di perseguitarmi e io voglio dimenticarmi tutto quello che mi hai fatto. Siediti qui e discutiamo sul modo di sistemare con giustizia la nostra contesa». La jinniya si avvicinò, salì sulla coperta e si ritrovò in fondo al pozzo. Kutyanga prese della legna, ve la gettò dentro e le diede fuoco, facendola così morire. Aveva cancellato tutta la sua stirpe.
9. T E R S H E D D A T E LE SUE COMPAGNE G E L O S E
C'era u n a volta u n a fanciulla di n o m e Tersheddat. Bisogna s a p e r e che q u e s t a Tersheddat era o d i a t a dalle sue compagne perché era più bella di loro. Si recarono a un pozzo, che apparteneva a un u o m o di nome K a m e n d a . Qui giunte, le dissero: «Orsù, Tersheddat, aiutaci ad attingere acqua; Tersheddat, aiutaci ad attingere acqua e ti potrai lavare anche tu». «No, io faccio il bagno nel latte, non mi lavo con l'acqua.» «Suvvia, vieni a fare un bagno; dopo esserti lavata con l'acqua, al t u o r i t o r n o p o t r a i s e m p r e risciacquarti col latte.» Essa si rifiutò, ma le compagne insistettero a lungo, ed essa finì per andare ad attingere l'acqua. Mentre stava svolgendo questa operazione, le compagne le diedero u n a spinta e la fecero cadere nel pozzo. Poi fecero ritorno all'accampamento. Così Tersheddat era improvvisamente scomparsa. 428
N o n la si trovava più. Vennero a c e r c a r l a a n c h e i suoi genitori, ma n o n la t r o v a r o n o . P r o v a r o n o a chiedere in giro ma non ottennero alcuna informazione utile. Tuttavia c o n t i n u a r o n o a cercarla senza smettere, finché un giorno... Bisogna sapere che la ragazza, stando nel pozzo, si era t r a s f o r m a t a in un uccello. E così un giorno u n o schiavo di suo p a d r e , a d d e t t o al pascolo dei cammelli, a n d ò a pascolarli e, nel suo girovagare, passò p r o p r i o di lì. E m e n t r e si trovava nei pressi con i suoi cammelli, la vide, appollaiata su un albero. E lei, benché t r a s f o r m a t a in uccello, q u a n d o lo vide prese a cantare: Questo cammello è di mio padre, questa cammella è di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda. Lo schiavo tese l'orecchio, e di nuovo essa cantò: Questo cammello è di mio padre, questa cammellate di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda. Per tre volte lo schiavo udì questo canto. E subito si affrettò all'accampamento. E q u a n d o vide i genitori della ragazza disse loro: «Ho visto Tersheddat appollaiata su un albero!». «Ma va' là, schiavo, e dove sarebbe Tersheddat, scomparsa e trasformata in uccello?» 429
«Orsù, venite tutti e due e ve la farò vedere!» «Ma va' là, e dove sarebbe Tersheddat?» Questo dialogo si ripetè per tre volte, ma alla fine i genitori della r a g a z z a p a r t i r o n o con lo schiavo e quando f u r o n o arrivati, egli li fece arrestare in prossimità del luogo, al quale si diresse lui solo. Quando lo vide avvicinare, l'uccello cantò: Questo cammello è di mio padre, questa cammella è di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda. Tesero l'orecchio, e di nuovo essa cantò: Questo cammello è di mio padre, questa cammella è di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda. Tesero ancora l'orecchio... Quando ebbero udito più volte il canto f u r o n o certi che fosse proprio lei. Tornarono all'accampamento chiedendosi: «E adesso c o m e f a r e m o a p r e n d e r e questo uccello?». «Eh, già, come faremo?» Tennero consiglio per decidere il da farsi. Qualcuno suggerì: «Andate al pozzo in cui era caduta Tersheddat prima di trasformarsi in un uccello, erigetevi u n a bella t e n d a , rivestita di coperte, p r o p r i o davanti all'imboccatura del pozzo. Con un po' di fortuna l'uccello deciderà di fare lì il suo nido». Così fu fatto: eressero u n a tenda, l'uccello vi entrò 430
e decise di costruirvi il suo nido. In tal m o d o poterono prenderla. La sorpresero nel nido che aveva costruito e la riportarono all'accampamento. Qui giunti, la misero in u n a scatolina di cuoio, dal m o m e n t o che era p r o p r i o piccola. Col tempo però crebbe, a tal p u n t o che nella scatolina non ci stava più. La misero allora in u n a scatola più grande. Passò dell'altro tempo, crebbe ancora e divenne troppo grande anche per questa scatola. La misero allora in un sacchetto, ma dopo un po' divenne troppo grande a n c h e per il sacchetto. Si chiesero: «Come f a r e m o adesso?». La misero in un sacco più grande, ma ben presto lei superò anche le dimensioni di questo sacco. «E adesso che ne facciamo?» La misero sotto un letto. Ma lei continuò a crescere e dopo un po' non ci stava più n e m m e n o sotto il letto. «E adesso che ne facciamo? Me lo dite che cosa ne facciamo?» Q u a l c u n o p r o p o s e : «Cercate un a s i n o g r a n d e e grosso e mettetecela dentro». Così fu fatto: trovarono un asino e Tersheddat vi entrò dentro. Vi era lì vicino un pozzo, al quale la gente era solita attingere acqua. Venivano al pozzo, riempivano gli otri, abbeveravano il bestiame, e facevano ritorno dopo avere caricato gli otri sugli asini. Quel pomeriggio, quando fu certo che se ne fossero andati via tutti, l'asino si recò al pozzo. Qui giunto, la fanciulla uscì fuori, diede da bere all'asino, si lavò, lavò i vestiti, dopodiché m o n t ò in groppa all'asino e si diresse all'accampamento. Quando fu nei pressi dell'accamp a m e n t o , rientrò nell'asino che giunse solo, venne scaricato degli otri pieni e se ne andò per conto suo. La cosa si ripetè: la gente si recò di b u o n ' o r a al pozzo, si dissetò, diede da bere agli asini e fece ritorno all'accampamento, e q u a n d o fu pomeriggio an431
che l'asino prese la via del pozzo, dove si replicò lo spettacolo. Quando la cosa si ripetè per la terza volta, la gente cominciò a chiedersi: «Chissà chi dà da bere a questo asino!». Non avevano mai visto la persona che si trovava all'interno dell'asino stesso. Un giovanotto disse: «State un po' a vedere cosa vi faccio! Salirò su quell'albero per vedere chi dà da bere all'asino e gli riempie gli otri che porta sulla schiena». Il giovanotto a n d ò d u n q u e ad appostarsi: si arr a m p i c ò sull'albero che si protendeva sul pozzo, e quando tutti gli uomini se ne f u r o n o andati spuntò l'asino. Giunto che fu al pozzo, ne uscì la ragazza che gli diede da bere, riempì l'otre, si spogliò e si lavò. Ma mentre lei, svestita, si lavava, il giovanotto balzò sui suoi abiti e se ne impadronì. «Ridammi i miei vestiti!» «No, non te li rido.» «Ridammi i miei vestiti!» «No, non te li rido, a m e n o che tu non mi dica che mi ami e mi vuoi sposare. In tal caso ti renderò i vestiti.» «Va bene, ti amo, sposami!» Allora lui le restituì i vestiti ed essa fece ritorno all'accampamento. Il giovanotto, tornato anche lui all'accampamento, a n n u n c i ò ai suoi genitori: «Voglio sposare quel vecchio somaro». Proprio così. Disse: «Voglio sposare quel vecchio somaro». «Ma come, figliolo? Vorresti sposare un'asina?» Infatti essi non sapevano che dentro all'asina vi era u n a fanciulla, e credevano che lui volesse davvero sposare un asino. «L'amo, mi trovo bene con lei, voglio sposarla.» I genitori, in lacrime, gli chiesero: «Ma come? Vorresti sposare un'asina?». 432
«Sposatemi a lei!» E così prepararono la tenda nuziale e celebrarono le nozze con l'asina. Una volta eretta la tenda vi legarono l'asina, celebrando così il rito della sposa che viene condotta nella tenda nuziale. Quando gli invitati si furono dispersi, e lo sposo fu rimasto solo con l'asina, la fanciulla se ne uscì in tutta la sua bellezza e il suo splendore. Aveva un aspetto veramente magnifico. Dopodiché i due sposi diedero u n a pacca all'asina che se ne andò. Orbene, alle p r i m e luci dell'alba, a p p e n a sveglia, la m a d r e dello sposo andò a fargli visita. Si era detta: "Sarà bene che corra a vedere se mio figlio è ancora vivo o se l'asino lo ha ucciso". Ma appena giunta, le bastò un colpo d'occhio per vedere quanto quella fanciulla fosse bella. Fu tale lo stupore che perse i sensi. Allora la fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse la suocera e la fece ritornare in sé. Anche il padre del giovane venne a vedere e cadde privo di sensi. La fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse il suocero e lo fece ritornare in sé. Quando fu il turno del fratello maggiore, anch'egli si mise a tremare e perse i sensi. La fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse il cognato e lo fece ritornare in sé. Venne la sorella maggiore del giovane e al vederla perse i sensi. La fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse la cognata e la fece ritornare in sé. Il racconto se n'è andato via di corsa ed è finito.
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Racconti di animali
10. L O S C I A C A L L O E L A L E P R E
Vi racconterò quello che è successo allo sciacallo e alla lepre. C'erano u n a volta due amici, M o k h a m m e d e Fatimata. Mokhammed era lo sciacallo e Fatimata era la lepre. F a t i m a t a aveva u n a m u c c a e M o k h a m m e d aveva un bue. Un bel giorno, Fatimata rimase all'acc a m p a m e n t o , m e n t r e il suo c o m p a r e M o k h a m m e d era a n d a t o al pozzo. Bisogna sapere che da molto tempo Mokhammed era invidioso del fatto che Fatim a t a avesse a disposizione t a n t o latte m e n t r e lui non poteva averne. Orbene, quel giorno in cui si recò al pozzo, vi trovò la mucca di Fatimata. La affrontò, lottò a lungo con lei finché riuscì a farla cadere e a ricoprirla di fango. Al ritorno dal pozzo, si mise a inseguire la mucca, gridando alla lepre: «Ehi, tu, attenta a quell'animale feroce!». Allora la lepre, n o n sapendo che si trattava della sua mucca ricoperta di fango, la colpì e la abbatté. Morta la mucca, i due la tagliarono in pezzi e fecero essiccare la sua carne. Quindi, riempirono ciascuno il proprio sacco di questa carne secca e partirono. Avevano d u e asini uguali, e a n c h e i sacchi e r a n o identici. I sacchi, anche a osservarli bene, non si distinguevano l'uno dall'altro. Gli asini, anche a osservarli bene, n o n si distinguevano l'uno dall'altro. Si misero dunque in viaggio e c a m m i n a r o n o fino a un 434
luogo in cui passare la notte. Qui giunti, lo sciacallo rubò, senza farsi scoprire, il sacco della sua amica lepre. Ne estrasse tutta la carne che c'era dentro e lo r i e m p ì di n u o v o con quei r e s i d u i di fieno che si estraggono dallo stomaco dei ruminanti, lasciando solo u n o strato di carne vicino all'apertura. Quando tornò la luce del giorno, caricarono i sacchi sugli asini e partirono. Erano già in c a m m i n o da un po' quando, a un certo punto, la lepre tastò il sacco e lo trovò leggero come se non ci fosse dentro nulla. Allora disse a Mokhammed: «Amico, ho dim e n t i c a t o il m i o p u n t e r u o l o . Potresti t o r n a r e nel luogo in cui a b b i a m o pernottato e riportarmi il punteruolo?». «Ma certo» rispose. «Vado io perché sono più veloce. Tu ci impiegheresti di più.» E, fatto dietrofront, si mise in marcia fino a raggiungere quel luogo. Ma per quanto cercasse, dovette tornarsene a mani vuote. Al ritorno era furente, e si rivolse a Fatimata dicendole: «Bene, a questo punto le nostre strade si dividono. Tu non mi sei di alcuna utilità, e inoltre mi hai ingannato: mi hai fatto fare u n a grande stancata ma non avevi perso un bel nulla». «E invece sì,» essa rispose «me l'ero proprio dimenticato.» Bisogna sapere che, mentre lo sciacallo era sulla via del ritorno, la lepre, approfittando del tempo in cui erano rimasti divisi, era balzata sull'asino dello sciacallo che era carico di carne. Dunque si separarono: lei se ne andò in u n a direzione e lui in un'altra. Cammina, cammina, lo sciacallo si imbatté in un gruppo di Tuareg. Quando li vide andò loro incontro dicendo: «Bene, bene: eccomi qua. A c h i u n q u e mi porterà u n a scodella piena di latte darò in c a m b i o dei pezzi di carne». I Tuareg a n d a r o n o da lui portandogli scodelle di 435
latte. Ottenne tanto latte, ma la carne n o n c'era più. Ignaro, cominciò a tirare fuori i cinque pezzetti che vi erano all'imboccatura del sacco, ma sotto di essi non trovò più nulla. I Tuareg lo presero, lo legarono al tronco di un albero e gli dissero: «Adesso per punizione ti legheremo qui e ti riempiremo di bastonate». E giù bastonate, giù b a s t o n a t e f i n o a stancarsi. Alla fine se ne a n d a r o n o lasciandolo legato. Dopo tre giorni e tre notti riuscì a rompere la corda e ad andarsene. Si mise in c a m m i n o f u r i b o n d o nei confronti della lepre che lo aveva ingannato. La cercò, la cercò, la cercò finché la trovò seduta su un albero, sotto il quale aveva acceso un fuoco per abbrustolire la carne, che faceva pendere dall'alto. «Da dove a r r i v i , M o k h a m m e d ? » gli c h i e s e la lepre. Ed egli rispose: «Vengo da un a c c a m p a m e n t o dove ho lasciato le mie cose: u n a gran quantità di ricchezze e di bestiame. Se accetti di venire, ti ci porto». «No, non posso. Sto facendo questo lavoro.» «Allora, f a m m i salire lì sopra!» «D'accordo.» E gli calò u n a fune dicendogli: «Afferrala!». Egli afferrò la f u n e e disse: «La tengo! Tirami su!». Essa cominciò a tirarlo su, ma a metà strada egli disse: «Soffoco!». Allora lo fece ridiscendere. Ma quando lo ebbe calato (sul fuoco), egli gridò: «Brucio, brucio!». E la lepre: «Qualunque cosa io faccia tu trovi sempre da ridire!». E lo lasciò bruciare finché n o n le sembrò morto. Dopodiché lo gettò da parte. Dopo essersi assicurata che fosse veramente morto, lo trascinò via e lo lasciò in terra. Sopraggiunse u n a schiava, che passava da quelle parti. Lo raccolse e si mise a saltare dalla gioia: «Che bellezza, che bellezza, avevo proprio bisogno di un otre! Che bellezza, un otre!». Terminate queste manifestazioni di gioia, lo prese e lo mise in un vassoio 436
pieno di giuggiole. Arrivata sotto un albero, si fermò per riposarsi all'ombra. Lasciò quindi la pelle destinata a diventare un otre, insieme al vassoio e a un bambino, e se ne andò in giro. Al suo ritorno, delle giuggiole non ne era rimasta n e m m e n o una. Pensò che se le fosse mangiate il bambino e gliele suonò di santa ragione. Dopo un po' lasciò stare il bambino, prese la pelle per l'otre e la portò a u n a pozza d'acqua per bagnarla. Qui giunta, la bagnò e la riportò poi da un'artigiana per farla cucire. Arrivata dall'artigiana, le diede l'incarico di fabbricare un otre. L'artigiana prese a esaminare ben bene la pelle ma l'unico foro che trovò fu quello dell'occhio. Credendolo un buco, vi ficcò dentro un punteruolo. Lo sciacallo diede un balzo improvviso, ricadde lontano e fuggì di corsa, lasciando le due donne int e n t e a discutere, r e c l a m a n d o quello che avevano perduto: u n a il suo punteruolo, l'altra il suo otre. Lui se ne era andato, riprendendo il suo girovagare. Qui finisce il racconto. Lo i n s e g u o n o M o k h a m med e Fatimata.
11. L A I E N A E L A L E P R E
C'era u n a volta u n a iena che aveva nascosto in u n a b u c a i suoi piccoli. Ogni giorno sul far del m a t t i n o partiva per la caccia e ritornava con u n a preda che poi dava loro da mangiare. Ma un bel giorno... Un bel giorno giunse u n a lepre, che scoprì i cuccioli della iena soli, mentre la loro m a d r e era via. Entrò da loro ed essi le chiesero: «Di dove sei, ospite?». Rispose: «Io n o n sono un ospite, sono un vostro fratello più anziano». «E come ti chiami?» «Il mio n o m e è Tutti-voi.» 437
Rimasero a lungo in attesa, finché arrivò la iena col cibo. Di solito, la iena quando portava da mangiare non rivolgeva loro la parola, ma si limitava a porgere il cibo, e se le chiedevano: «Per chi è questo?» rispondeva: «Per tutti voi». E ripartiva senza n e m m e n o guardarli. Quel giorno, q u a n d o essa arrivò, i cuccioli, afferrando il cibo, le chiesero: «Per chi è questo?». Ed essa rispose: «Per tutti voi». Allora essi lo presero e lo diedero alla lepre. La lepre mangiò senza dire nulla, anche i cuccioli se ne rimasero quieti senza dir nulla, e la iena tornò a cacciare. Attesero ancora a lungo l'arrivo della iena. Essa tornò un'altra volta recando del cibo, e si limitò a porgerlo loro. «Per chi è questo?» «Per tutti voi.» Allora essi lo presero e lo diedero alla lepre. La lepre mangiò la sua razione senza curarsi degli altri. Le cose andarono avanti così per tanto, tanto tempo finché, un giorno, la iena tese l o r o il cibo e si sentì chiedere: «Per chi è questo cibo?». «Per tutti voi.» Ma questa volta rimase lì vicino e si sedette, aspettando che avessero finito di mangiare. Dopodiché li chiamò: «Uscite, fatevi vedere!». Ma essi risposero: «Non possiamo». «Cosa vi è successo?» «Abbiamo fame!» «Ah, no!» ribatté la iena. «Io so bene di avervi dato da mangiare come si deve. Cosa vi è successo? Tutto quello che trovavo nella savana ve lo portavo.» «È la lepre che è venuta qui qualche giorno fa, dicendoci di chiamarsi Tutti-voi. E così, ogni volta che tu portavi del cibo, q u a n d o ti chiedevamo per chi fosse ci dicevi che era per "tutti voi", e noi lo p r e n d e v a m o e lo d a v a m o a lei, che se lo mangiava senza curarsi di noi.» «Ora capisco!» rispose la iena. «E adesso dov'è?» «È ancora qui.» Allora la iena disse: «Vieni f u o r i , signor Tuttivoi!». Al che la lepre rispose: «Un m o m e n t o solo che 438
arrivo. Aspetta che mi preparo». E dopo un po': «Comincia a prendere i miei sandali». E fece sporgere in fuori le sue orecchie. La iena, credendo che fossero davvero i suoi sandali, afferrò le orecchie e le gettò lontano, insieme alla loro proprietaria. Appena la lepre si trovò nella savana, si mise a correre di gran carriera, m e n t r e la iena non se ne curava, intenta c o m ' e r a a controllare l'ingresso della t a n a . I suoi cuccioli le dissero: «Smetti di cercarla, l'hai f a t t a uscire. Inutile continuare a chiedere di lei: l'hai gettata fuori insieme ai suoi sandali! Ti ha mentito: non erano i suoi sandali, erano le sue orecchie!». A quel punto la iena non ci vide più dalla collera e si mise a p e r c o r r e r e il paese in lungo e in largo alla ricerca della lepre. E la lepre, da parte sua, si mise a correre a tutta velocità. Il racconto è finito. Lo h a n n o cacciato Fatimata e Mokhammed.
12. L ' E L E F A N T E E L O S C I A C A L L O
C'è un racconto che voglio farvi, io Mokhammed Ag Ghali. Si tratta di uno che si è preso gioco del capo degli animali della savana, vale a dire dell'elefante. Colui che si prese gioco dell'elefante è Mokhammed lo sciacallo. I due erano compagni inseparabili, e andavano sempre insieme, fino a un certo giorno. Essi avevano avuto l'idea di fare u n a passeggiata nell'interno del paese, e così se ne stavano a n d a n d o a spasso. Cammina, cammina, ai due venne sete. In quella trovarono u n a piccola pozza d'acqua. Ma questa piccola pozza n o n era sufficiente per dissetare entrambi. L'elefante disse al suo compagno: «Bevi tu che n o n hai u n o stomaco molto capace». Lo sciacallo si accostò alla pozza ma si limitò a poche sorsate 439
rapide, bevve poco sostenendo che per lui era abbastanza. L'elefante lo esortò: «Bevi!», ma lui rispose: «Mi basta così». Allora l'elefante con la sua proboscide prosciugò tutta la pozza, lasciando soltanto del fango. A questo punto ripresero il cammino. Cammina, cammina, quando f u r o n o in un certo punto, lo sciacallo disse: «Elefante, io ho sete, n o n ce la faccio più ad andare avanti. Sento che morirò». E l'elefante di rimando: «Be', ci devo pensare: al giorno d'oggi non ci si può fidare di nessuno, perfino gli amici tradiscono la fiducia di chi li ha rifocillati!». «Ma che dici! Come p o t r e i t r a d i r e la f i d u c i a di u n o che mi ha fatto bere? Se mi fai bere, come potrei farti qualcosa di male?» «Se non fosse che temo che tu tradisca la mia fiducia, l'unica soluzione sarebbe di farti entrare nel mio stomaco per bere.» «Non andrò da nessuna parte. Mettimi là dove io possa bere!» «Va bene, vieni qui.» E così dicendo gli aprì il proprio ano e lo fece entrare. Lo sciacallo là dentro trovò l'acqua e si mise a bere, a bere, a bere. Dopo un po', finito di bere, guardò alla propria destra e vide i reni; guardò a sinistra e vide il grasso. Ne tagliò via un pezzo. L'elefante gli chiese: «Ehi, ehi, cosa stai facendo?». Ma lo sciacallo non se ne curò e tornò a dilaniare le interiora. Di nuovo l'elefante ripetè: «Ehi, ehi, vieni fuori, ti ho detto! Cosa stai facendo?». Ma anche questa volta lo sciacallo non si curò di lui e continuò a tagliuzzare di q u a e di là. Quand'ebbe finito di lacerare le interiora, l'elefante cadde morto. E q u a n d o fu sazio, lo sciacallo uscì fuori. In breve si sparse la voce che l'elefante era morto. Il re degli animali, il leone, r a d u n ò i suoi sudditi dicendo loro: «Venite qui tutti!». Essi vennero ed egli li apostrofò: «Bene, adesso dovete tutti tagliare a pez440
zetti la carne dell'elefante, e ciascuno deve poi metterne un pezzo a bollire in u n a pentola sul fuoco». Gli animali andarono, tagliarono in pezzi la carne, accesero il fuoco e vi misero sopra le pentole. Il leone proseguì: «Adesso, dunque, tutte le pentole sono sul fuoco. Colui il cui pezzo di carne domattina non sarà ancora cotto si rivelerà l'uccisore dell'elefante, e sarà punito con la morte». Terminato che ebbero di mettere le pentole sul fuoco, andarono tutti a dormire. Ma tu, sciacallo, proprio tu laggiù, tu lo sai cosa ti aspetta, e per tutta la notte non hai dormito. Assaggia il p r o p r i o pezzo di c a r n e , c o r r e tra le pentole, ne assaggia il contenuto, torna indietro, ed è solo il suo pezzo che n o n si decide a cuocere. Corre di qui, corre di là, torna indietro, va di qua, va di là, ma n o n c'è p r o p r i o m e z z o di f a r c u o c e r e la c a r n e della sua pentola. Va ad assaggiare quella della iena, ed è quasi pronta. La lascia, torna e si stende come per dormire. Dopo un certo tempo, eccolo partire, andare alla pentola della iena e rubarla. Dopo averla rubata, la mise sul suo fuoco, poi prese la sua pentola e la portò sul fuoco della iena. Quindi tornò e si addormentò. Poco prima dell'alba giunse il leone per passare in rassegna le pentole e procedere all'assaggio; convocò quindi tutti gli animali, facendoli alzare. Dopo averli fatti alzare, disse: «Bene, che ciascuno prenda la propria pentola e la deponga davanti a sé». Vennero tutti con le loro pentole, e ciascuno si sedette davanti alla propria. Il leone le passò in rassegna u n a per u n a finché n o n le ebbe terminate tutte. Ritornò quindi indietro fino a quella della iena, l'unica ad avere la carne non cotta. Allora presero la iena e si misero a batterla di santa ragione, fino a farla morire. R e c i t a r o n o la preghiera su di lei, perché era stata punita con la morte. 441
13. L O S C I A C A L L O , L ' O T A R D A E L A I E N A
C'era u n a volta u n o sciacallo che, all'inizio, n o n aveva altro cibo che le galline faraone. Ma allora le faraone non potevano volare, in quel tempo non ne erano capaci. Lo sciacallo non doveva far altro che raggiungerle e mangiare, mangiare, mangiare. Quando era sazio, se ne andava. E la mattina dopo tornava da loro per mangiare. Finché un giorno giunse da loro u n ' o t a r d a , che chiese loro: «Ma in conclusione, che cos'è che vi sta sterminando?». «Lo sciacallo.» «E come ha fatto a sterminarvi?» «Mangiandoci.» «Ma perché vi mangia?» «E cosa possiamo fargli noi? Non possiamo affrontarlo perché è più forte di noi: noi siamo deboli.» «Ma non sapete volare?» «No, no!» L'otarda disse allora: «Guardate, la prossima volta che lo vedrete arrivare, mettetevi tutte a schiamazzare, d o p o d i c h é salite in c i m a a un albero, e a quel punto n o n potrà più mangiarvi». Ora, la mattina dopo arrivò lo sciacallo, molto affamato, ma n o n aveva a n c o r a raggiunto le faraone che queste si misero a schiamazzare e si affrettarono a salire in cima a un albero. Egli chiese loro: «Chi vi ha insegnato a fare così?». «È stato M o k h a m m e d coi-Pantaloni, l'otarda». Allora lo sciacallo partì alla ricerca dell'otarda. Cerca di qua, cerca di là, non riuscendo a trovarla decise di a n d a r e sotto un albero della g o m m a trasudante g o m m a arabica e si seppellì sotto questo albero lasciando fuori solo le fauci. Tu, otarda, q u a n d o passi di lì, n o n stai t r o p p o a 442
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controllare, dal m o m e n t o che n o n vedi altro che g o m m a arabica. Eccola dunque passare di lì, alzare lo sguardo alla cima dell'albero per contemplare la g o m m a arabica, finendo così per trovarsi sopra le fauci dello sciacallo. Con un balzo lo sciacallo le afferrò u n a zampa. L'otarda gli chiese: «Caro amico, cosa vuoi da me, per avermi afferrato in questo modo?». E lo sciacallo rispose: «È con te che ce l'ho. Cerco proprio te». «Che cosa ti ho fatto?» «Che bisogno avevi di insegnare a volare alle faraone? Esse sono il mio sostentamento. Adesso che ti sei intromessa tu e hai insegnato loro a volare, io morirò di fame!» «Volare non è poi u n a cosa così difficile. Te lo posso insegnare io, se vuoi, e potrai raggiungerle volando come fanno loro.» «Va bene, insegnamelo.» «Afferra la mia ala e voleremo tutti e due. Quando saremo sopra quei pastori, essi diranno: "Guardate, M o k h a m m e d che vola!". E tu dirai loro "Che Dio vi benedica!".» Lo sciacallo a f f e r r ò allora l'ala dell'otarda e cominciò a volare con lei. Quando f u r o n o in vista delle p e r s o n e che, nella p i a n u r a , avevano r a d u n a t o le greggi per la m u n g i t u r a del mezzodì, si sentì dire: «Guardate M o k h a m m e d che vola!». Allora lo sciacallo disse: «Che Dio vi benedica!». (E n e l l ' a c c o m p a g n a r e il saluto c o n un gesto, si staccò dall'ala dell'otarda.) Lo sciacallo p i o m b ò sui Tuareg che lo presero e si misero a picchiarlo, a picchiarlo fino a ridurlo a mal partito. Gli fecero un solido recinto e ve lo legarono dentro. Lo sciacallo rimase là cinque giorni, durante i quali lo fecero bersaglio dei sassi che erano soliti mettere nelle pentole in cui cuoceva il latte per fare 443
il formaggio, e degli ossi avanzati dai pasti. Il quinto giorno la iena si trovò a passare da quelle parti. Passando vicino allo sciacallo, lo vide e gli chiese: «Come ti trovi qui? Cosa ci fai?». «Che Dio ti benedica! Sono satollo. Vedi gli avanzi del latte, vedi gli avanzi della carne: non li posso più vedere.» Ora, la iena, m o l t o p r o b a b i l m e n t e , n o n aveva mangiato nulla da diverso tempo, per cui disse allo sciacallo: «Mi faresti un favore se facessi stare qui me per un paio di giorni, finché io non abbia placato la mia fame». Lo sciacallo rispose: «Non ti potrei don a r e nulla di meglio al m o n d o , dal m o m e n t o che quando u n o si trova in un posto simile non vorrebbe mai lasciarlo». Alla fine, però, la iena lo pregò con tanta insistenza che lo sciacallo accondiscese a cederle il suo posto. E così la iena si trovò legata al posto dello sciacallo, e lo sciacallo si ritrovò libero. I Tuareg si misero a gridare e a percuoterla, a percuoterla fino a scorticarle la schiena. Con la schiena ferita, la iena rimase lì fino al giorno in cui gli uomini tolsero l'accampamento. Allora caricarono su di lei la più anziana delle vecchie, insieme ai suoi capretti e a tutte le sue cose. La iena stette tranquilla finché non fu sicura che la gente si era già messa in viaggio mentre loro erano rimasti indietro, poi disse alla vecchia: «Calami giù un capretto se vuoi che ti trascini in avanti per un po'». Essa glielo calò e la iena lo mangiò. Andò avanti così finché non f u r o n o finiti i capretti, dopodiché la iena scaricò la vecchia facendola cadere, le addentò u n a coscia e se ne andò. La iena si mise a cercare lo sciacallo. Cerca di qua, cerca di là, finalmente, un giorno, entrambi si trovarono ad aggirarsi nei pressi dell'accampamento. Lo sciacallo si accostò all'accampamento, e lo stesso fece 444
la iena. Tuttavia fu lo sciacallo a vedere per primo la iena. Si nascose allora dietro a un sasso e con questo la colpì. Spaventata, la iena se ne andò via. Passò ancora del tempo e la iena raggiunse lo sciacallo. Q u a n d o lo ebbe raggiunto, lo minacciò con forza, mettendolo in difficoltà. «Perché mi hai fatto quello che mi hai fatto?» Lo sciacallo rispose: «Lasciamo perdere questo; piuttosto, per questa tua ferita, dovresti procurarmi u n a pecora bella grassa e io potrò curarti». Allora la iena si mise in cerca, credendo a n c o r a alla parola dello sciacallo che pure in precedenza l'aveva ingann a t a . Dopo un po' che era in giro, t o r n ò p o r t a n d o u n a pecora bella grassa, le tolse la pelle, ne estrasse i visceri, mentre lo sciacallo mise delle pietre sul fuoco. Q u a n d o q u e s t e f u r o n o rosse, le disse: «Bene, adesso ti metterò u n a pietra sul dorso. Quando sentirai dolore, dovrai dire: " S o p p o r t o come m i o padre"». Lo sciacallo mise un po' di grasso sulla ferita, e vi pose sopra la pietra. E la pietra, crepitando, attraversò lo strato di grasso e arrivò a contatto della ferita. La iena sopportò stoicamente senza muoversi e la pietra finì per caderle nel ventre.
14. L O S T R U Z Z O E I L R I C C I O
Ecco un racconto che narra quello che accadde tra un riccio e uno struzzo. Una volta il riccio disse: «Caro struzzo, io ti batto nella corsa». E lo struzzo di rimando: «Sono io che ti batto nella corsa». E cominciarono così u n a discussione. Dopo aver lungamente discusso, lo struzzo n o n era ancora convinto che il riccio potesse competere con lui nella corsa, e gli disse: «Va bene, facciamo co445
sì: domani dall'alba al tramonto tu e io faremo u n a corsa». Il riccio accettò. Il riccio a n d ò allora a c h i a m a r e i suoi amici, e quando ne ebbe r a d u n a t o u n a quantità innumerevole, disse loro: «Ciascuno di voi a n d r à a sistemarsi in un luogo prestabilito. Ho già fissato io l'ordine in cui dovrete mettervi. Quando lo struzzo passerà accanto a u n o di voi e dirà: "Riccio!", voi rispondetegli: "Perdi il tuo tempo!"». Ciò detto, il riccio che aveva avuto la discussione con lo struzzo se ne andò. Giunto che fu il momento, ebbe inizio la corsa. Lo struzzo cominciò a correre, a correre a più non posso. Quando, avendone abbastanza, chiamò: «Riccio!», un riccio che era alla sua altezza gli gridò: «Perdi il tuo tempo!». Egli aveva già corso parecchio, ma riprese a correre. Ogni volta che si fermava da qualche parte, chiamava: «Riccio!», e ce n'era sempre uno che gli rispondeva: «Perdi il tuo tempo!». Ormai lo struzzo era stremato dalla sete, sul punto di morire dalla fatica, eppure c'era sempre un riccio a c c a n t o a lui. Q u a n d o chiamava: «Riccio!», ce n'era s e m p r e u n o che gli rispondeva: «Perdi il t u o tempo!». Alla fine, non potendone più, lo struzzo si buttò a terra, vinto dalla stanchezza. Qui termina il racconto.
15. L O S C I A C A L L O E L O S T R U Z Z O
C'erano u n a volta u n o sciacallo e u n o struzzo. Bisogna sapere che lo struzzo e lo sciacallo litigavano a proposito delle giuggiole. Ora, essavevano un albero di giuggiole, ed e r a n o soliti recarvisi, scuotere il tronco della pianta e mangiare i frutti più bassi che avevano fatto così cadere. 446
Venne però il giorno in cui tutte le giuggiole vicine alla base erano state mangiate e sull'albero rimanevano solo quelle prossime alla cima. Ora, né lo sciacallo né lo struzzo arrivavano a queste giuggiole. Allora lo sciacallo disse: «Senti un po', struzzo, facciamo u n a gara!». «Che gara?» «Una gara per vedere chi di noi due riesce a scavalcare il giuggiolo con un salto.» «Va bene, facciamo questa gara!» Lo sciacallo disse allora: «Comincerò io. Solo che q u a n d o sostengo u n a prova difficile non a m o che mi si guardi. Facciamo così: tu guarda di là e non guardare me. Se mi guardi, non riuscirò a fare un b u o n salto». Era u n a menzogna: lo sciacallo sapeva bene quello che diceva. Lo struzzo guardò dall'altra parte e non guardò lo sciacallo. Lo sciacallo si mise a correre, oltrepassò il giuggiolo, e non appena lo ebbe superato gli disse: «Ecco! Io l'ho saltato. Adesso tocca a te». Solo allora lo struzzo si girò a guardare, e vedendo lo sciacallo al di là dell'albero credette che avesse fatto un salto. A questo punto lo struzzo prese la rincorsa. Quando fu a poca distanza dal giuggiolo spiccò il salto e... patapunfete, finì impigliato tra i suoi rami. Ora, cercando di tirarsi fuori, fece cadere delle giuggiole, e lo sciacallo si mise a raccoglierle e a mangiare, a mangiare... Quando ebbe finito di mangiare, disse allo struzzo: «Divincolati, e vedrai che ricadrai giù!». Lo struzzo si agitò, col solo risultato di far cadere u n a gran quantità di giuggiole, che lo sciacallo si affrettò a mangiare. E la cosa andò avanti così per un bel po': quando finiva di mangiare le giuggiole e ne voleva ancora, lo sciacallo diceva all'amico: «Divincolati e ne verrai fuori!». Lo struzzo si agitava, cadevano le giuggiole e lo sciacallo le prendeva. 447
Q u a n d o fu sazio di giuggiole, lo sciacallo se ne andò, lasciando lo struzzo tra i rami dell'albero.
16. LA I E N A E LA Z U C C A
C'era u n a volta u n o sciacallo che era solito recarsi al pozzo verso il t r a m o n t o , ma q u a n d o voleva p o r t a r via quello che vi aveva trovato, per esempio qualche capo di bestiame rimasto indietro rispetto al gregge, arrivava u n a iena e glielo soffiava. Un bel giorno si disse: "Che posso fare adesso a questa iena?". Si mise allora in cerca e trovò delle grosse zucche usate come recipienti, ancora in buono stato. Le depose quindi vicino all'imboccatura del pozzo. Tu, iena, quando sei arrivata qui e hai visto quelle grosse zucche, nella notte hai p e n s a t o che fossero delle sagome di pecore. Avanzi ora q u a t t a q u a t t a , quatta quatta, fino a portarti molto vicino... Ed eccoti saltare e piombare di peso su u n a zucca. La zucca, che non ha appoggi, comincia a rotolare, e rotola, rotola, finché... patapunfete, finisce nel pozzo, e tu con lei... Allora la iena disse: «Ahimè, che sventura!». E lo sciacallo rispose: «E questo è niente, aspetta che arrivino i proprietari del pozzo!...».
17. I L L E O N E E L ' A S I N O
Una volta tutti gli animali selvatici che vivono nella savana si trovavano in u n o stesso posto, insieme al loro re, il leone. Costui, a n d a n d o in giro, uccise un asino veramente molto robusto. Lo portò quindi indietro e lo gettò in mezzo a loro, dicendo: «Chi di voi 448
me lo scuoierà, mi p r e p a r e r à la c a r n e e mi t i r e r à fuori i pezzi migliori? Però, se ne mangerà anche solo un pezzetto io me ne accorgerò e lo ucciderò. Gli darò io stesso quel che si merita!». Dopo questa premessa, tutti gli animali selvatici dicevano di non essere in grado. Saltò fuori lo sciacallo, che disse: «Per me va bene, solo, mettimelo laggiù, in un posto in cui tu non mi possa vedere». Il leone portò l'asino in un luogo dove non lo si potesse vedere, e lo sciacallo lo aprì, ne estrasse il c u o r e e se lo m a n g i ò . Dopo avere estratto e mangiato il cuore, scuoiò l'asino, lo smembrò, preparò la carne e dispose per bene ogni parte. A questo p u n t o chiamò tutti gli altri, dicendo: «Venite!». Vennero tutti, e tra essi il leone, che gli chiese: «Dov'è la tale parte?». «Eccola qui.» «Dov'è quest'altra parte?» «Eccola qui.» «Dov'è quest'altra parte?» «Eccola qui.» «Dov'è quest'altra parte?» «Eccola qui.» Alla fine chiese: «E il cuore, dov'è?». «Il cuore, se ne avesse avuto uno, n e m m e n o tu avresti potuto ucciderlo! Adesso d a m m i la mia paga.» Fu così che tutti gli animali selvatici seppero che non tutti gli asini h a n n o un cuore, perché se un asino forte come quello avesse avuto un cuore, nemmeno il leone avrebbe osato misurarsi con lui. Era stata l'assenza del cuore che lo aveva reso possibile.
18. L O S C I A C A L L O E I L L E O N E
C'erano u n a volta u n o sciacallo e un leone, che abitavano in u n o stesso luogo allevando degli asini. Un bel giorno lo sciacallo disse al leone: «Vedi, in questo m o m e n t o la cosa migliore da fare è andarcene al sud, tu e io, per prendere del miglio. Ci portere449
mo dietro come merce di scambio le nostre madri, p e r c h é n o n servono più a nulla o r a che s o n o vecchie». Il leone disse: «D'accordo». E così si misero in viaggio verso il sud. Proseguirono finché arrivarono in un luogo in cui dovevano passare la notte, in u n a sorta di p i a n o r o desertico, a u n a giornata di distanza dal paese del sud. Lo sciacallo disse al leone: «Guarda, questa notte, sarà meglio legarle per evitare che ci scappino!». Il leone disse: «D'accordo». Così il leone andò verso sua madre e la legò ben stretta con u n a corda, riducendola c o m e un salame. Lo sciacallo fece il giro dall'altra parte, a n d ò verso la sua e la legò con u n a specie di filo, dicendole: «Sta attenta: q u a n d o f a r à notte, taglia il filo; ci ritroviamo lassù, sulla cima di quella m o n t a g n a . Io arriverò col miglio e con tutti gli asini». E lei rispose: «Va bene». Dopodiché, tornarono a dormire. Al primo albeggiare, il leone si alzò per destare lo sciacallo: «Sciacallo! Sciacallo! Sciacallo!». Lo sciacallo rispose: «Eh...». Prima ancora di alzare la testa, lo sciacallo chiese: «Le due vecchie sono ancora qui, vero?». «C'è solo la mia.» «Quella bastarda della mia deve essere riuscita a fuggire.» Allora partì in cerca di tracce. Cerca di qua, cerca di là, arrivò fino a un certo p u n t o , poi t o r n ò indietro, dicendo: «Non c'è più». «E ora che faremo?» chiese il leone. «Tua m a d r e è g r a n d e e grossa, è appariscente, ha un bel pelo. Sarà meglio partire, cominciare a vendere lei, e caricare gli asini col miglio che ne ricaveremo. Q u a n d o t o r n e r e m o , venderemo poi l'altra.» «D'accordo» disse il leone. E così, partirono e vendettero la m a d r e del leone. Quando l'ebbero venduta, caricarono di miglio gli asini e si rimisero in viaggio. Cammina, cammina, a un certo punto il leone chiese allo sciacallo: «E ades450
so dove ci a c c a m p e r e m o ? Dove m e t t e r e m o le tende?». Lo sciacallo rispose: «Continuiamo senza fermarci finché saremo arrivati a un p u n t o d'acqua». C a m m i n a , c a m m i n a , c a m m i n a , lo sciacallo, sap e n d o che in quel luogo, accanto a u n a grande pozza d'acqua, vi era u n a zona melmosa, disse al leone: «Tu fa' il giro da questa parte e va' a cercare un posto adatto per accamparci». E mentre il leone faceva un lungo giro, lui spinse gli asini portandoli in cima a quell'altura su cui aveva d a t o a p p u n t a m e n t o alla madre, dopodiché tornò dal leone facendo attenzione di n o n essere visto. Quando fu arrivato più o meno a metà strada, il leone udì lo sciacallo gridare... O sciacallo, tu prima, mentre portavi via gli asini, avevi tagliato a o g n u n o di loro la p u n t a delle orecchie, e avevi tagliato via anche le cocche di ogni sacco, eri tornato a questa palude melmosa e non avevi fatto altro che conficcare nel fango le orecchie degli asini e le estremità dei sacchi! A q u e s t o p u n t o lo sciacallo gridò: «Ehi, leone! Ehi, leone! Dai, corri qua, gli asini e i sacchi sono stati inghiottiti dalla palude». Quando arrivò, il leone potè solo dire: «Che disastro!». Non vedeva infatti che le orecchie degli asini. Lo stesso sciacallo si era cosparso di fango e diceva: «Ho rischiato io stesso di essere inghiottito. E n t r a anche tu nel fango, per renderti conto!». Il leone accorse, e le orecchie che tirava, n o n essendoci l'asino, si staccavano e gli restavano in mano; si rivolse quindi alle cocche dei sacchi, ma a n c h e queste, u n a volta tirate, gli restavano in mano. A questo punto, disse allo sciacallo: «Che disastro! E adesso, cosa faremo?». «Eh, sì. Ci è capitata p r o p r i o u n a sventura!» rispose lo sciacallo. «A questo punto ci conviene cercare un altro posto dove sistemarci.» Partirono d u n q u e di lì e andarono a stabilirsi sot451
to un grande albero, e da allora presero a compiere le loro escursioni a partire da quel loro giuggiolo. Quando il leone dormiva, lo sciacallo se ne andava, e... via di corsa, fino al luogo in cui lo attendeva sua madre, che lo rimpinzava di pasta di miglio, dopodiché tornava e si metteva a dormire. E a n d a r o n o avanti così finché il leone morì di fame.
19. L O S C O I A T T O L O S C A V A T O R E E L ' E L E F A N T E
Lo scoiattolo scavatore e l'elefante ebbero u n a lite. Tu, elefante, avevi un toro, e tu, scoiattolo, avevi u n a mucca. Ora, la mucca dello scoiattolo un bel giorno partorì un vitello. Ma l'elefante lo prese, lo mise sotto il toro, dicendo: «Il mio toro ha partorito!» e a n d ò in giro sostenendo con tutti questa versione dei fatti. Lo scoiattolo allora si mise a p i a n g e r e a dirotto. Pianse, pianse, pianse. Venne allora proposto: «Andate a cercare lo sciacallo, giudicherà lui, Mastro Mokhammed». E così andarono a cercare lo sciacallo. Lo sciacallo disse loro: «E adesso, c o m e f a r ò a giudicare? Portatemi del latte m u n t o dai vostri animali. Tu, elefante, va' a m u n g e r e il t u o toro, e tu, scoiattolo, va' a mungere la tua mucca!». Lo scoiattolo corse a prendere la sua scodella e si mise a mungere il suo latte. L'elefante, invece, disse: «Ma il mio animale n o n ha latte!». «Ebbene, se non ha latte, come fa ad avere un vitello?» Qui finisce il racconto.
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20. IL L E O N E E LA CAPRA
C'era u n a volta un leone che aveva sposato u n a capra. Quell'anno c'era stata u n a carestia e tutti gli animali selvatici avevano lasciato il paese. E r a n o andati in un'altra regione e il leone era rimasto solo con la capra. Essa vagava di qua e di là cogliendogli le poche giuggiole sopravvissute alla siccità, oppure frutti selvatici di agersemmi o altre cose ancora, in attesa che passasse la stagione secca. Trascorsa che fu l'estate, lo sciacallo disse che sarebbe sceso per vedere dove, nella regione, vi fosse dell'acqua. Scese d u n q u e e prese ad andare di qua e di là, finché giunse dove si trovava il leone. Quando lo incontrò, la capra non c'era, era in giro. Allora, il leone gli chiese: «Come va?». «Bene, grazie!» «E com'è la regione in cui ve ne siete andati tutti?» «Ah, siamo andati a stare in u n a regione bellissima! Sono venuto per te, per venire a prenderti. Dal m o m e n t o che hai s p o s a t o quello s c a r t o del regno animale - basti pensare che gli uomini ne fanno un sol boccone e poi se ne vanno -, ti farò vedere le femmine che ci sono: la gazzella, la gazzella-dama, l'antilope-orice, l'antilope-adax: queste sì che sono femmine adatte a te! Quando hai sposato questo scarto del regno animale ti sei condannato inutilmente alla fame. Gli uomini ne f a n n o un sol boccone e poi se ne vanno.» «Allora fermati qui. Quando arriverà la ucciderò, ce la mangeremo e poi partiremo insieme.» Tu, capra, sei sulla via del r i t o r n o e, vedendo lo sciacallo che si dirige verso di te, ti viene in mente un'idea: ti torna in m e n t e che poco p r i m a ti eri arrampicata su un albero con u n a fessura in cui avevi visto del miele. Allora attraverso la fessura tu prendi 453
il miele e lo porti via con un pezzo di legno. Mentre stai arrivando con queste cose e sei ancora in cammino, il leone appare combattuto: stai forse andando da lui per farti uccidere? Ora, q u a n d o la capra si fermò, il leone le chiese: «Da dove vieni? Cos'hai da camminare così di fretta?». «Assaggia questo: laggiù ci sono delle persone che s p r e m o n o gli sciacalli e ne estraggono questa cosa dolce, mentre tu te ne stai lì senza far nulla!» Allora egli prese il miele e leccò, leccò, leccò. Quindi chiese: «Questa cosa dove l'hai trovata?». «È quella cosa che gli uomini spremono fuori dagli sciacalli.» Allora il leone balzò sullo sciacallo cercando di afferrarlo. Questi saltò via dicendo: «Io sono già stato spremuto! Sono già stato spremuto!». Ma il leone rispose: «Preparati, bisogna spremerti ancora di più!» e così dicendo lo afferrò e cominciò a spremere, a spremere... Quando gli ebbe fatto fuoriuscire gli e s c r e m e n t i che aveva nell'intestino, vi mise dentro la z a m p a e se la leccò, ma all'assaggio trovò che non erano buoni. Allora riprese a spremere, a spremere, m e n t r e lo sciacallo continuava a dire: «Sono già stato spremuto!». Ma anche il leone ripeteva: «Bisogna spremerti ancora di più!» e a f u r i a di spremere finì per ucciderlo. Il leone e la capra continuarono a vivere insieme. Lo sciacallo era morto.
21. IL GALLO E LO SCIACALLO
C'era u n a volta un gallo, che se ne stava appollaiato su un albero. Mancava poco all'alba ed egli si mise a cantare il suo richiamo del mattino. 454
Uno sciacallo lo udì e, trotterellando, si diresse verso di lui e si fermò sotto l'albero. Quindi gli disse: «Scendi giù e preghiamo insieme, visto che hai segnalato l'ora della preghiera». Il gallo guardò giù e si accorse che chi gli parlava così era lo sciacallo. Allora gli disse: «Aspetto che venga un marabutto, un imam p e r dirigere la preghiera». E lo sciacallo: «Chi è il marabutto che da voi suole dirigere le preghiere?». «Il cane.» «Ah! Allora aspettatemi qui, che vado a fare le mie abluzioni.» Lo sciacallo partì e non fece più ritorno.
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Racconti faceti e con la morale
22. LA PIROGA
Questo è un racconto, ma è anche un indovinello riguardante u n a piccola piroga. Questa piroga porta cento chili: solo cento chili sono il carico che può portare. Ora, ci sono un u o m o con la moglie e due figli, e tutti e quattro devono attraversare un fiume. Il marito pesa cento chili. La moglie pesa cento chili. I figli pesano cento chili tra tutti e due. Orbene, la sola cosa da fare è questa: i due figli, che in totale pesano cento chili, entrano insieme nella piroga. Q u a n d o s o n o arrivati sull'altra s p o n d a , u n o solo dei due rimane, e l'altro torna indietro. Tornato indietro, rimane sulla sponda, mentre il padre va lui dall'altro figlio, che era rimasto sull'altra sponda del fiume. Qui scende e lascia la piroga al figlio, che così può tornare dalla madre e dal fratello. Arrivato su questa sponda, prende con sé il fratello e torna dall'altra parte. Arrivati dal padre, lascia scendere ancora il fratello, e sarà un solo ragazzo a ritornare. Arrivato dalla m a d r e , il ragazzo scende e lascia entrare nella piroga la madre. Questa compirà la traversata fino a giungere dal marito e dall'altro figlio che già erano dall'altra parte. Qui giunta, dà la piroga all'altro ragazzo, che era già lì, e lei scende. 456
A questo punto l'altro ragazzo ritorna dal fratello. Arrivato da lui lo prende con sé. E così h a n n o tutti effettuato la traversata e sono giunti all'altra sponda.
23. I L M E N T I T O R E
C'erano u n a volta due uomini, due fratelli, u n o più anziano e l'altro più giovane. Il fratello minore era un mentitore, ma proprio un vero mentitore: non faceva altro che mentire. Era lui che trovava il cibo per l'altro, che invece non mentiva mai. Le cose andarono avanti così a lungo, finché il fratello maggiore non ne ebbe abbastanza e disse al fratello: «Senti un po', d'ora in poi non voglio più cibo p r o c u r a t o p e r m e z z o di m e n z o g n e . Tu resta p u r e qui; io troverò del cibo anche dicendo la verità». Partì, dunque, e andò in giro continuando a dire la verità dall'alba al tramonto. Ma agendo così tornò senza avere trovato nulla. Dopo tre giorni trascorsi senza trovare neppure un granello di cibo, il mentitore gli disse: «Di questo passo m o r i r e m o di f a m e senza profitto, non sei riuscito a ricavare un bel nulla. Adesso vieni e seguimi». Ed egli lo seguì. Partirono, dunque, e si recarono in un grande villaggio. Q u a n d o vi giunsero, la moglie del capo era appena morta: da tre giorni era m o r t a la moglie del g r a n d e capo. N e s s u n o rideva, n e s s u n o batteva il tamtam, nessuno cantava: tutti, tutti, tutti tacevano. Il mentitore arrivò, cercò un posto dove fermarsi, e quando si fu installato chiese: «Che cosa è successo al villaggio di questi tempi?». «È morta la moglie del capo.» «Da quanto tempo è morta?» 457
«Da tre giorni.» «Ebbene, volete che non sia capace di resuscitarla dopo soli tre giorni?» «Saresti davvero capace di resuscitarla?» «Certamente!» «Possiamo riferirlo al capo?» «Riferiteglielo pure!» Il capo, quando fu avvisato di questo fatto, disse: «Andate a chiamarli!». Il mentitore se ne venne insieme al fratello maggiore. Il fratello maggiore era sul p u n t o di morire dalla paura per la menzogna che stavano sostenendo, ma il mentitore gli disse: «Sta' tranquillo, lascia fare a me». Quindi il c a p o gli chiese: «Dunque tu saresti in grado di resuscitare questa donna?». «Certamente!» r i s p o s e il m e n t i t o r e , e proseguì: «Adesso voglio che tu convochi tutti quanti gli abitanti: che vengano tutti domani affinché io resusciti tua moglie». Allora si batterono i tamburi nel villaggio e tutti si r a d u n a r o n o per sentire l'annuncio: «Domani la moglie del re resusciterà! La moglie del re resusciterà! La moglie del re resusciterà!». Tutti quanti udirono la notizia: «È arrivato un u o m o che dice di poter resuscitare la moglie del re». Passò la notte. Il mattino seguente la gente cominciò ad affluire in massa, e in breve t e m p o furono radunati tutti quanti. Il mentitore chiese al re: «Bene, e per me che ricompensa è prevista?». «Qualunque cosa tu vorrai, ma proprio tutto, tutto quello che vorrai, io te lo d a r ò se resusciterai mia moglie!» «Siamo intesi!» Si misero allora tutti in cammino, alla volta del cimitero. Arrivati al cimitero, il mentitore si rivolse alla gente dicendo: «Voi restate qui tutti quanti!». E la 458
gente si dispose ordinatamente in fila all'esterno. Lasciati tutti in fila, lui passò oltre ed entrò nel cimitero. Si diresse alla t o m b a della donna, e cominciò a scavare dalla parte della testa. Scava che ti scava, arrivò al legno della bara, e ne tirò via tre pezzi. Dopodiché si chinò verso l'interno della t o m b a e stette lì chino p e r un po'. Dopo essere rimasto così per un certo tempo, si rialzò, sollevò la testa, si mise a ridere, poi tornò ad abbassare la testa. Rimase così ancora a lungo, dopodiché tornò a sollevare la testa e a ridere. A questo punto, si alzò e c h i a m ò a sé il re. Mentre il re gli si avvicinava, egli gli andò incontro, e q u a n d o f u r o n o faccia a faccia gli disse: «Bene, tua moglie è resuscitata, non vi è dubbio che sia resuscitata. Però ha detto che non si alzerà e non verrà fuori dalla t o m b a se non in compagnia di suo padre». Bisogna sapere che il padre della donna era il precedente capo del villaggio prima che prendesse il potere il capo attuale. Così, il mentitore proseguì: «Suo padre, appena resuscitato, dirà certamente di tagliare la testa all'uomo che gli ha portato via il comando. Ora, che dici di fare?». Il capo rispose: «A questo punto ti darò la ricomp e n s a p a t t u i t a , h o visto che hai v e r a m e n t e f a t t o quello che promettevi, ma adesso lasciala stare rinchiusa dove si trova». E così l'uomo ritornò alla sepoltura, rimise a posto i pezzi di legno e ricoprì la tomba della donna, dopodiché tornò dal re. A tutti coloro che chiedevano al re se sua moglie fosse resuscitata, egli rispondeva: «Sì, è resuscitata, è davvero resuscitata». Fecero quindi r i t o r n o al villaggio. Il re gli d o n ò greggi in grande, grandissima quantità e lo invitò ad andarsene in fretta, t e m e n d o che i figli del d e f u n t o re gli o f f r i s s e r o u n a q u a n t i t à di b e s t i a m e a n c o r a maggiore a patto che egli resuscitasse il loro padre. 459
E infatti, anche a questi figli giunse voce della cosa, e così essi si misero a cercare l'uomo, con l'intenzione di offrirgli grandi quantità di bestiame purché resuscitasse il loro padre. Quando il re sentì ciò, aumentò ancora il bestiame offerto al mentitore e lo fece fuggire nella notte. Egli divenne incredibilmente ricco. Aveva ottenuto ricchezze smisurate.
24. IL F I G L I O D E L RE E IL F I G L I O D E L P O V E R O
C'era u n a volta il figlio di un re, che aveva stretto u n a grande amicizia con il figlio di un povero. La loro era un'amicizia v e r a m e n t e assai stretta. Se suo p a d r e gli c o m p e r a v a un cavallo, lui diceva c h e lo avrebbe accettato solo a patto che ne comprasse u n o anche per il suo amico. E il padre glielo comprava; se gli faceva c o n f e z i o n a r e un abito, gli diceva che doveva farne fare u n o anche per l'amico. E r a n o sempre insieme; i n s o m m a la loro amicizia era così forte che non se n'era mai vista u n a uguale. Un bel giorno, però, il figlio del povero, l'amico del figlio del re, ricevette un bigliettino da parte della moglie del re (che non era la m a d r e naturale del suo amico), su cui era scritto: "Ti amo". Fece vedere la lettera all'amico, il quale gli disse: «Ricambia pure il suo amore. Da parte mia, dal m o m e n t o che n o n è mia madre naturale, che mi importa?». E così egli stabilì con lei u n a relazione appassionata. La possedeva tutte le notti in cui il re era via. A quel punto si misero d'accordo su u n a cosa: bisogna sapere che all'ingresso di casa vi era un grande vaso, e allora, u n a volta che lui era da lei, essa gli disse: «Quando vieni qui, infila la m a n o nel vaso: se ci trovi u n a sola noce, puoi entrare, vuol dire che il re è 460
via; se invece trovi due noci, torna indietro, vuol dire che il re è in casa». Il giovanotto continuò così per diverso tempo, seguendo sempre queste indicazioni, fino al giorno in cui la d o n n a gettò le due noci perché quella notte il re sarebbe rientrato, m a , per la fretta, u n a di esse finì fuori dall'imboccatura del vaso e cadde di fianco a esso. Quando giunse il giovanotto, infilò la m a n o e trovò u n a sola noce. Allora entrò e avanzò a tastoni, finendo sulla b a r b a del re, che diede un balzo e gli afferrò la mano. Tira di qua, tira di là, il giovanotto riuscì a svincolarsi ma il suo anello rimase nelle mani del re. Di corsa si recò dal suo amico, dal figlio del re, e lo svegliò. « Alzati! » «Che cosa c'è?» «Domani sarò morto. Tuo padre mi ha afferrato la mano. Io sono riuscito a liberarmi ma non ho più il mio anello, che è facilmente riconoscibile. Domattina mi metteranno a morte.» «Non è nulla. Dormi! Poco prima dell'alba sellerai i nostri cavalli.» Il figlio del re dormì. Ma quell'altro, come avrebbe potuto trovare il sonno in questa angoscia? Poco p r i m a dell'alba a n d ò a prendere i cavalli, li sellò e chiamò l'amico: «Alzati! Su, alzati!». Montarono quindi a cavallo e il figlio del re gli disse: «And i a m o in questa direzione: ho sentito dire che da queste parti c'è un luogo in cui u n a f e m m i n a di leopardo ha appena partorito». Presero quella direzione e continuarono a cavalcare... I n t a n t o al villaggio, a p p e n a fu giorno, risuonò il t a m t a m e tutti quanti gli abitanti si radunarono, e si fece un'assemblea in cui fu annunciato che il giovane cui apparteneva quell'anello doveva essere catturato e messo a morte. Tutti coloro cui il re mostrava 461
l'anello dicevano che era del tal giovanotto. S u o figlio e quell'altro giovane e r a n o introvabili. Perciò l'assemblea continuò a lungo, e a lungo continuarono a suonare i tamburi. I due erano in viaggio. Quando arrivarono alla tana, presero il cucciolo di leopardo, poi spronarono i cavalli e ripartirono di gran carriera. Il figlio del re teneva il piccolo leopardo. Al gran galoppo giunsero davanti a suo padre. L'amico si arrestò a u n a certa distanza, mentre quello che teneva il cucciolo si arrestò davanti a suo p a d r e e gli lanciò in braccio il piccolo leopardo, che gli si aggrappò. II re ebbe un soprassalto: «Che cos e questo? Che cos'è questo?». «Il fatto è che io e lui a b b i a m o fatto u n a scommessa. Io gli avevo detto che se qualcuno fosse riuscito impunemente a toccare, al buio, il capo di mio padre, io gli avrei portato un cucciolo di leopardo. Lui è partito e mi ha detto che è riuscito a toccarti la testa nel buio, e che quando ha cercato di ritrarre la m a n o tu sei riuscito solo a portargli via l'anello. E così anch'io da parte mia sono partito per a n d a r e a trafugare il cucciolo di leopardo.» Allora il re disse: «È vero. Quello che avete fatto è tutto vero. Ecco il vostro anello. Andate».
25. L ' U O M O DI K A N O E L ' U O M O DI K A T S I N A
C'erano u n a volta due uomini, u n o di nome Dan Kano (o "Uomo di Kano") e l'altro Dan Katsina (o "Uomo di Katsina"). A c i a s c u n o dei d u e era g i u n t a all'orecchio la f a m a dell'altro per quanto riguarda il furto e il malaffare. Così un bel giorno si misero in viaggio per incontrarsi. Quando f u r o n o faccia a faccia, u n o chiese all'altro: «Tu chi sei?». 462
«Io sono Dan Kano. E tu?» «Io sono Dan Katsina.» E ciascuno disse all'altro: «Stavo proprio cercando te». «Va bene. Allora stringiamo società.» E partirono insieme. C a m m i n a , c a m m i n a , a r r i v a r o n o in vista di un gruppo di persone che formavano u n a grande carovana, e si erano fermate per u n a sosta. Come luogo di sosta avevano scelto un sito accanto a un pozzo vecchio e profondo. Allora, u n o dei due ripiegò u n a gamba e se la legò alla coscia, p r e n d e n d o poi un b a s t o n e in m o d o da sembrare con u n a g a m b a monca al ginocchio. L'altro, invece, chiuse gli occhi e vi fece a d e r i r e u n o s t r a t o di g o m m a a r a b i c a , incollandoli con q u e s t a g o m m a in m o d o da sembrare cieco. Dopodiché, lo zoppo si mise a guidare il cieco, e tutti e due si inc a m m i n a r o n o alla volta della carovana. Qui giunti, salutarono e si sistemarono. Le persone della carovana venivano a vederli e li compiangevano: «Guardate! Poveretti! Uno zoppo e l'altro cieco!». Diedero loro p e r f i n o un'elemosina e li fecero mangiare. Quando tutti f u r o n o addormentati, i due presero le mercanzie - si trattava di tessuti - e le gettarono in f o n d o al pozzo. A n d a r o n o avanti t u t t a notte, in m o d o che alla fine avevano trasportato u n a grandissima quantità di merci. Poi tornarono al loro posto e si addormentarono. Quando gli altri si svegliarono, al mattino, fu tutto un gridare: «Oh, no! Sono passati di qui dei ladri!». Si misero in cerca delle tracce, ma n o n trovarono n e m m e n o un'impronta di qualcuno che fosse entrato nell'accampamento. C'erano solo le tracce del cieco e dello zoppo. Niente da fare! Non c'era nemme463
no u n a traccia di qualcuno che avesse lasciato l'accampamento. Macché! Alla fine si stancarono di cercare, tanto più che m a n c a n d o le tracce era impossibile seguirle. Fecero quindi fagotto e partirono, per andarsene via di lì. Anche il cieco e lo zoppo partirono. Seguirono gli altri p e r d u e giorni, d o p o d i c h é fecero r i t o r n o al pozzo. «Bene,» disse Dan Katsina «chi si calerà nel pozzo?» «Io» rispose Dan Kano. «No, no,» disse Dan Katsina «vado giù io!» E così fu Dan Katsina che si calò nel pozzo. Una volta giù, tirò via tutti gli imballaggi delle merci e cominciò a legare alla fune le merci prive di imballaggio. Andò così avanti per un bel pezzo a legare alla f u n e e far risalire le merci non imballate. Alla fine n o n r i m a n e v a n o da p o r t a r e su che delle vecchie stuoie consunte, qualche pezzo di cuoio e poche altre cose. Prese allora ad avvolgersi in esse, mettendosi poi in u n a rete legata alle corde, in m o d o che u n a persona che lo avesse tirato su non se ne sarebbe accorta. Disse quindi al socio: «Dopo questo carico resto solo io». «Benone!» e lo tirò su, un po' alla volta, fino a farlo uscire dal pozzo. Dopodiché lo mise da parte. Eh, sì! Tutti i carichi che aveva tirato su, Dan Kano li aveva messi da parte nascondendoli in un posto. Dopo avere portato l'ultimo carico nel suo bagaglio, cominciò a trasportare pezzi di legno e a gettarli nel pozzo. Andò avanti per un bel po', finché non ne ebbe gettati parecchi, e diede fuoco al tutto. Se ne t o r n ò quindi dove aveva lasciato i bagagli ma scoprì che il compare si era preso tutto quanto e se n'era andato portandoselo via. Disse allora fra sé: "Gente, quest'uomo adesso avrà bisogno di un asino per t r a s p o r t a r e tutto il bagaglio!". E così si mise a 464
imitare il raglio di un asino. Ben presto l'altro venne nella sua direzione, cercando di scoprire dove fosse l'asino che sentiva ragliare. Fu così che i due si incontrarono. «Salve!» «Salve!» «Ehi, tu! Non puoi portarti via tutto il bagaglio!» «Va bene!» Allora decisero di dividersi il carico. Fatte le parti, Dan Katsina disse a Dan Kano: «Preferiresti forse che io ti lasciassi in prestito la mia parte?». «Sì.» «Già, ma quando me la restituirai?» «Il tal giorno, tra un anno a partire da oggi, né un giorno più né u n o meno.» «D'accordo.» Così Dan Kano partì portandosi via anche la parte dell'altro, e andò a stare da un'altra parte. Quando si accorse che mancava poco al giorno prestabilito, si ritirò nella tenda senza più uscirne, dicendo ai familiari: «Sentite, q u a n d o vedrete arrivare un u o m o dovrebbe arrivare domani -, mettetevi a piangere, a piangere a dirotto, dicendo che io sono morto. Gli direte che non ho lasciato nulla, poi mi laverete, mi prenderete e, sotto il suo sguardo, mi avvolgerete in un sudario, mi porterete al cimitero e mi deporrete in u n a tomba, mentre lui resterà a guardare, fino al m o m e n t o di andarsene». E così, quando lo videro e si f u r o n o accertati che era proprio il suo uomo, i suoi figli si misero a piangere, e anche le mogli si misero a piangere. Fu portata l'acqua per il lavaggio del cadavere, fu portato il sudario, tutti piangevano e a n d a r o n o a prendere il corpo, mentre solo il nuovo arrivato se ne stava seduto. Lo lavarono, lo avvolsero nel sudario, lo solle465
varono, lo trasportarono al cimitero e lo seppellirono. Finita la sepoltura, rientrarono a casa. Rientrati che furono, Dan Katsina li apostrofò: «Io a quest'uomo avevo fatto un prestito. Venivo appunto per vederlo, ma adesso è morto. Non mi ha lasciato nulla?». «Nulla. Non ci ha lasciato n e m m e n o un pollo.» «Be', a questo punto non mi resta che andarmene. Partirò questa notte stessa.» «Non aspetti l'alba?» «No, no.» Dopo aver cenato, partì la sera stessa. Lo videro partire, e lui se ne andò. Ma arrivato alla tomba, si mise a scavare con le mani. Scava, scava, arrivò ai piedi. Quando si accorse di aver messo allo scoperto i suoi piedi, vi affondò le unghie e si mise a fare il verso della iena. A questo punto l'altro credette che a scavare fosse u n a iena, e proruppe in un grido disperato: «Gente, venite a difendermi! La iena mi mangia! Gente, venite a difendermi! La iena mi mangia!». Allora Dan Katsina gli prese la m a n o e la tirò fuori con forza, dicendogli: «Ehi, tu, q u a n d o si tratta di rubare i miei beni, va tutto bene, ma quando arriva u n a iena ti viene paura, eh? Uno che ha p a u r a di u n a iena, come può pensare di rubare i miei beni?». «E già!»
26. LA C O P E R T A
C'erano u n a volta, tanto tempo fa, due ricchi giovanotti arabi. Ciascuno di loro disse al padre: «Padre, d a m m i u n a gran quantità di merci: me ne andrò in un altro paese a venderle», e a ciascuno di essi il pa466
dre disse: «Va bene». Li fornì quindi entrambi di u n a quantità enorme di mercanzie, ed essi partirono. Arrivati in un paese lontano, ciascuno cercò u n a casa dove sistemarsi. C'era tutto un quartiere abitato da commercianti, e a u n o di loro venne indicata u n a casa di straordinaria bellezza, superiore a tutte le altre, ma in cui fino ad allora chiunque fosse andato ad abitare era poi m o r t o . Ciononostante egli disse che ci sarebbe andato ad abitare. «Ma sta' attento! Questa casa contiene le foto di tutte, ma proprio tutte le donne del villaggio, sia di quelle sposate sia di quelle non ancora sposate. Inevitabilmente la foto di qualcuna finirà per farti innam o r a r e , e si t r a t t e r à di u n a che n o n p o t r a i avere. Magari sarà già sposata e l'amore ti farà morire.» Ciononostante egli disse che ci sarebbe andato ad abitare, e lo fece. Entrò, la esaminò tutta, e giunto al piano superiore, il suo sguardo fu calamitato, né più riusciva a staccarsene, dalla foto di u n a d o n n a , ritratta insieme al m a r i t o e col suo n o m e scritto sopra. In un balzo tornò al piano di sotto, e q u a n d o fu di sotto cadde contorcendosi come se lo avesse colto u n a colica di fegato. Accorse da lui u n a vecchia, che gli chiese: «Che ti è successo, figliolo?». «Mi sono i n n a m o r a t o della tale, moglie del tale. Ecco cosa mi è successo.» «Tirati su e fa' conto di essere guarito. Per questo male la medicina posso procurartela io.» «E allora, dov'è la medicina che intendi procurarmi?» «Lo so io.» «E allora, se lo sai, procuramela!» E così dicendo le diede cento monete d'oro. La vecchia se ne andò. Si recò al negozio del marito di quella d o n n a bellissima. Nel negozio esaminò 467
delle coperte di un tipo inconsueto per quella città, dopodiché ritornò dal giovane che aveva lasciato, al quale disse: «Adesso alzati e vammi a comprare u n a di quelle coperte». Allora il malato d'amore a n d ò a comprare u n a di quelle coperte. Quando poi tornò, la vecchia prese la coperta, vi fece u n a b r u c i a t u r a che lasciò un b u c o al centro, quindi se ne a n d ò dicendogli: «Tornerò a trovarti». Andò alla casa del marito della donna, vi entrò e salutò la moglie: «Buongiorno, figliola, come va? Sai, sono un'amica di tua madre, e anzi, alla lontana, sono anche tua parente». E trascorse con lei le ore della siesta. Quando fu l'ora della p r i m a preghiera del pomeriggio, le chiese: «Dov'è un luogo p u r o in cui tu preghi?». Ed essa rispose: «Vieni che ti porto nel luogo in cui è solito dormire mio marito. È là che prego». E la condusse sulla coperta del marito. La vecchia si mise a pregare m e n t r e lei uscì. Allora lei ne approfittò per tirar fuori la sua coperta e la stese sotto la coperta del marito. Poi, finito di pregare, se ne andò. Si recò poi dal giovane e gli disse: «Bene, la trappola è preparata». «Benissimo!» Orbene, il m a r i t o di quella d o n n a , q u a n d o fu il m o m e n t o di andare a dormire, sentì qualcosa sotto la coperta, la tirò fuori e vide che si trattava della coperta comprata nel suo negozio da quel giovanotto. "Vuoi vedere che quell'uomo se la intende con mia moglie?" Roso dalla gelosia, l'uomo chiamò la m o glie e la rimandò a casa sua. La cacciò di casa. Il m a t t i n o dopo, la notizia della cacciata giunse all'orecchio della vecchia, la quale allora andò a trovare la madre di quella donna e le disse: «Ho sentito dire che tua figlia è stata scacciata dal marito. Adesso aspetto che mia figlia mi dia altre notizie: conosci 468
le giovani, sono sempre loro che vengono a sapere le novità». E proseguì: «Venivo a sentire se p u ò venire da me per un lavoro che ho da fare a casa: se viene con me, mi aiuterà a finirlo». Ed essa rispose: «Va bene». Così, agghindò la giovane e la portò via con sé. La portò a casa di quel giovanotto, la fece entrare e ve la chiuse dentro insieme a lui... Ogni mattina, di buon'ora, la vecchia passava di là, il giovane le dava cento monete d'oro, ed essa tornava a casa sua. Rimasero così soli in quella casa, senza vedere anima viva, per u n a settimana intera. L'ottavo giorno, q u a n d o la vecchia p a s s ò di lì di b u o n mattino, l'uomo le disse: «Adesso puoi riportare via la giovane». Essa la riportò da sua madre, gliela riconsegnò dicendole che avevano terminato il loro lavoro insieme. R i t o r n a t a dal giovanotto, disse: «Orsù, ora sarà bene riaccomodare quello che abbiamo guastato». «In che modo possiamo risistemare le cose?» «Questo pomeriggio, all'ora della seconda preghiera, vatti a sedere davanti all'ingresso della bottega dell'arabo che è il marito della donna. Quando sarai seduto lì dove ti ho detto, io vi passerò davanti e tu, al vedermi, mi salterai addosso, mi strattonerai con violenza, e solleverai il braccio come se volessi colpirmi. A questo punto la gente intorno ti chiederà: "Che cosa ti ha fatto questa vecchia?". E tu risponderai loro: "Questa vecchia... Avevo comprato u n a coperta da quest'uomo, ma poi un b a m b i n o se l'è messa addosso e ha finito per bruciarla. Lei si è fatta avanti dicendo che conosceva qualcuno in questo villaggio che era in grado di mettere u n a toppa dal disegno simile a quello della coperta. Io le ho chiesto quanto avrebbe voluto quest'uomo, lei mi ha detto u n a cifra e io gliel'ho 469
data, insieme alla coperta, ma da allora non si è fatta più vedere. È u n a ladra!".» Fecero d u n q u e così: il giovanotto andò a sedersi davanti all'ingresso della bottega del marito (il quale, ovviamente, lo detestava). Dopo un po' passò la vecchia, sgranando il suo rosario. Appena la vide, il giovanotto le saltò addosso, la s t r a t t o n ò così forte che la fece cadere, e dopo averla strattonata, sollevò il braccio come per colpirla. A questo punto, le persone che c'erano nei pressi saltarono su di lui chiedendogli: «Che cosa stai f a c e n d o ? Come m a i vuoi uccidere questa vecchia?». «Questa vecchia è u n a ladra, un'imbrogliona!» «Perché? Che cosa ti ha fatto?» «Avevo c o m p r a t o u n a coperta da te» e si rivolse, ciò dicendo, al proprietario della bottega «e q u a n d o l'ho portata a casa se l'è messa addosso un b a m b i n o e ha finito p e r bruciarla. Questa vecchia si è fatta avanti dicendo che conosceva q u a l c u n o che era in g r a d o di m e t t e r e u n a t o p p a dal disegno simile a quello della coperta. Io le ho chiesto quanto avrebbe voluto quest'uomo e gliel'ho dato, ma da allora n o n si è fatta più vedere.» Allora chiesero alla vecchia: «È vero?». «Ebbene, sì, è vero.» «E allora dov'è la sua coperta?» «Non so più dove ho la testa. Questa coperta n o n mi ricordo più dove l'ho messa. Mi sono proprio dimenticata dove l'ho messa. Non sapevo che fare. Ho avuto vergogna di tornare da lui. Adesso cercherò di ricordare. Può darsi che mi torni in mente o che voi mi possiate aiutare, dicendomi se è da loro che l'ho dimenticata. Ero tornata in u n a casa dove mi ricordavo d i essere stata, m a m i h a n n o detto che n o n l'avevo lasciata lì.» 470
L'uomo da cui era stata acquistata le chiese: «Non è che tu sei passata anche da casa nostra?». «Sì, ero passata anche di lì, e vi avevo anche eseguito la preghiera, nella tua stanza, quella in cui sei solito dormire.» «Ebbene, e chi ti ha impedito di ritornare?» «No, no. Io sono tornata ma mi h a n n o detto che nella casa non c'era nessuna donna, e allora me ne sono andata.» A questo punto l'uomo disse al giovane: «Lasciala stare. La tua coperta se l'è dimenticata a casa nostra. Orsù, gente, siatemi tutti testimoni! Io ho sospettato mia moglie di menzogna. Ho creduto che mi tradisse con quest'uomo, e che questi avesse dimenticato da lei la sua coperta, perché sapevo che era stato lui a comperarla. Ma a questo punto, dal m o m e n t o che è questa vecchia che l'ha dimenticata, farò tornare mia moglie. Vi c h i a m o a testimoni che la risarcirò, io che sono stato colpevole nei suoi confronti». E così fece ritornare sua moglie e ridiede alla vecchia la coperta. Date retta a me, quello che sa fare quella vecchia, n o n lo sa fare n e m m e n o il diavolo.
27.I
T R E P R E T E N D E N T I DELLA FIGLIA DEL CAPO
C'erano tre p e r s o n e che e r a n o in viaggio. Stavano c o m p i e n d o un viaggio come sono soliti fare quelli che si recano in Libia e a Tamanrasset per cercare lavoro. Ciascuno di loro conosceva bene un mestiere. Questi tre amici, nel corso del loro viaggio, giunsero in un paese e si stabilirono da u n a vecchia che vi risiedeva. Le dissero: «Siamo dei poveracci in cerca di lavoro. Preferiamo fermarci da te mentre cerchiamo se c'è qualche lavoro che possiamo fare». 471
«Va b e n e . Mi b a s t a che p a g h i a t e il cibo che vi darò.» E così si stabilirono da lei, a n d a n d o e venendo dal villaggio in cerca di lavoro. Un bel giorno, nel villaggio essi incontrarono u n a splendida fanciulla. Quando la videro cominciarono a litigare. Ciascuno diceva: «Oh, quant e bella questa fanciulla. Voglio essere io a sposarla. Bisogna che mi sforzi di trovare il m o d o di guadagnare del denaro e poterla sposare!». Erano tutti e tre innamorati, e così cominciarono ad accapigliarsi tra loro. Continuarono a litigare durante tutta la strada del ritorno fino alla casa della vecchia dove si erano stabiliti. Essa portò loro da mangiare ma essi rifiutarono il cibo. «Cosa vi succede?» chiese la vecchia. «Abbiamo visto u n a ragazza, o g n u n o d i noi h a detto di esserne i n n a m o r a t o , e allora a b b i a m o cominciato a litigare.» «E chi è, di preciso?» «È la tale, figlia del tale.» «Ah, è la figlia del capo di questo villaggio. Lasciate fare a me. Ci penso io. Vado io dal capo a informarlo.» «Va' pure.» E così la vecchia andò dal capo del villaggio e gli disse: «Alcuni giovanotti, ospiti miei, h a n n o visto tua figlia e ciascuno di loro dice di essersene innam o r a t o , al p u n t o che si a c c a p i g l i a n o tra loro. Se vuoi, te li vado a chiamare». «Valli a c h i a m a r e , in m o d o che io possa vedere che tipi sono.» La vecchia partì, tornò dai giovanotti e disse loro: «Il capo ha detto che chi di voi a m a sua figlia deve a n d a r e da lui». Allora essi si r e c a r o n o dal capo. Quando f u r o n o al suo cospetto, egli disse loro: «Riguardo a mia figlia, devo mettervi alla prova tutti e 472
tre per scegliere il migliore. Dal m o m e n t o che tutti e tre sostenete di esserne innamorati, bisogna che vi sottoponga a u n a prova in cui u n o di voi prevalga sui suoi compagni, affinché io mi renda conto di chi sia il più astuto e il più degno di sposarla. Ora, che cosa sa fare ciascuno di voi?». Uno disse di essere un marabutto coltissimo, un altro disse di essere un gran ladro e il terzo disse che q u a l u n q u e cosa cercasse al m o n d o riusciva a ottenerla. «Bene,» disse rivolto al m a r a b u t t o «metterò p e r p r i m o te alla prova.» Gli diede quindi da fare le cose che sogliono fare i marabutti, dicendogli di farle in pochissimo tempo. Ed egli eseguì tutto come gli era stato detto di fare. «Bene, il tuo m o d o di fare è veram e n t e ineccepibile. Siediti qui.» Passò quindi a colui che sosteneva di essere in grado di ottenere qualunque cosa desiderasse, e gli disse: «Riempimi la casa d'oro in brevissimo tempo!». «Dammi u n a notte di tempo. Se Dio vuole, domattina sarà piena.» «D'accordo.» Andarono a dormire, e l'indomani all'alba la casa era piena d'oro. Se avesse fatto dei trucchi al mom e n t o di riempirla, usando per esempio dei semplici sassolini, o se l'avesse realmente riempita d'oro, non lo sappiamo... A questo punto, restava da vedere in azione solo il ladro. Il capo gli disse: «Bene, per te che rubi: ti indicherò un luogo pieno di gendarmi che f a n n o la guardia. Voglio vedere se tu riesci a portar via il loro tavolo, proprio quello su cui scrivono, che si trova in quel posto supercustodito». «Proverò. Vedrò.» Partì, andò in un villaggio dove acquistò degli indumenti femminili, sopravvesti dai colori sgargianti, 473
un grande recipiente e delle bottiglie di bevande alcoliche. Dopodiché prese gli indumenti femminili, li indossò e si travestì da anziana venditrice di bevande alcoliche. Si recò quindi da quei gendarmi, che al vederlo lo chiamarono: «Ehi, tu, che cosa vendi?». «Bevande alcoliche.» «E quanto costano? Quanto?» «Costano tanto.» E disse loro un prezzo. Essi videro che era conveniente, e dal m o m e n t o che amavano molto l'alcol tutti ne acquistarono un po'. Rimaneva il loro capo, ma anche a lui dette un po' di bottiglie: alcune gliele vendette, altre gliele regalò. Essi le bevvero tutte: bevve il capo della guarnigione, bevvero tutti gli altri, e così caddero tutti ubriachi. Il ladro andò dal capoguarnigione, il capo di tutti quanti, lo spogliò, gli sottrasse tutti i vestiti, li indossò e si allontanò. Andò a prendersi il cavallo del capo, lo sellò e partì, in sella a questo cavallo, vestito con i suoi abiti. Arrivato dal capo del villaggio, arrestò la sua cavalcatura e gli disse: «Eccoti qualcosa che è anche meglio della tavola: i vestiti del capo di quella guarnigione, che ho indosso, e il suo cavallo». «Va bene» gli disse il capo. «Hai compiuto questa impresa in maniera impeccabile; direi anzi addiritt u r a in m o d o s t u p e f a c e n t e ! Se riesci a c o m p i e r e u n ' a l t r a i m p r e s a del genere, ti do in sposa m i a figlia.» E così dicendo prese in consegna ciò che il ladro gli aveva portato. Dopodiché gli disse: «Orbene, il lenzuolo in cui d o r m o si trova all'interno di casa mia, custodito da mia moglie. Questa notte tu cercherai di rubarmelo, e io ne sarò al corrente. Se riuscirai lo stesso a rub a r m e l o , vieni a p o r t a r m e l o d o m a n i ! S a r ò allora convinto che sei davvero un f u r b o da quattro cotte». «D'accordo. Appena sarà notte sta' bene attento al tuo lenzuolo.» 474
Passò un po' di tempo, e q u a n d o fu buio il ladro confezionò un pupazzo a grandezza naturale: lo prep a r ò come si deve con della paglia, gli mise dei pantaloni, u n a bella tunica e un velo sul volto. Questo pupazzo poteva reggersi in piedi anche se era inanimato. Egli lo collocò davanti a sé e lo portò con sé. Quando arrivò alla casa del capo, questa non era ancora chiusa. Allora egli entrò e andò a mettersi vicino alla p o r t a della c a m e r a da letto del capo. Quest'ultimo, q u a n d o entrò in camera da letto, disse alla moglie: «Tu tieni d'occhio il lenzuolo, che n o n venga il ladro a rubarmelo. Stanotte bisognerà stare molto attenti». Nel m o m e n t o in cui egli stava f a c e n d o l ' a m o r e con la moglie, accadde però che sulla porta si profilasse l'ombra di un u o m o immobile lì fuori. Allora andò a prendere un bastone dicendo: «È lui che è arrivato!». E mentre prendeva il bastone disse alla moglie: «Tienimi tu il lenzuolo! Difendilo bene. Io vado fuori per ucciderlo». E b r a n d e n d o il bastone colpì il p u p a z z o inanimato. Questo, lasciato andare dal ladro, cadde di sotto. Ma mentre il capo era andato a colpire il pupazzo e a controllare che questo cadesse di sotto, il ladro si intrufolò in camera e, fingendosi il marito, nell'oscurità si fece dare il lenzuolo dalla moglie e se ne andò via con esso. Quando il capo fu ben certo che la sagoma non si rialzasse più, tornò dalla moglie e le chiese: «Dov'è il mio lenzuolo? Adesso quel disgraziato non c'è più: è morto». «Ma come, il lenzuolo non me lo hai appena preso tu? Io non ce l'ho più!» «Che disastro! Ebbene, ha vinto lui, siamo d'accordo.» Andarono a d o r m i r e e l'indomani il ladro si pre475
sento a palazzo a w o l t o nel lenzuolo. Il capo gli disse: «Se Dio vuole, dunque, sei tu che otterrai mia figlia in sposa. Ma m a n c a ancora u n a dimostrazione di destrezza. Ora, se me la saprai eseguire, non ci sar a n n o più esitazioni: mia figlia sarà tua». «Che cosa devo fare?» «Voglio che tu rapisca il cadì, colui che rende giustizia. Quando lo avrai rapito devi portarmelo senza che lui si sia reso conto che sei stato tu a rapirlo. E a questo punto, niente storie, sarà veramente finita.» «Se Dio vuole, ci proverò.» Quel pomeriggio a n d ò al m e r c a t o e c o m p r ò dei piccioni, del cotone e molte di quelle vaschette in cui la gente del mercato metteva olio e stoppini di cotone dandovi poi fuoco, vale a dire delle piccole lanterne notturne. Acquistò anche un grande rosario bianco e degli abiti tutti bianchi per se stesso. Aspettò che fosse notte fonda e che tutti dormissero. Andò alla moschea, l'aprì, vi entrò, la disseminò p e r ogni dove di lumini, in m o d o da illuminarla a giorno. Prese poi i piccioni e li sparpagliò nell'interno. E r a n o stati messi dentro grandi recipienti, parecchi alla volta, e vi producevano un r u m o r e "gluglu-glu-glu" che risuonava per tutta la moschea. Egli si pose al centro, reggendo il rosario e sgranandolo. Si era annerito le palpebre con il kohl e si pose a sedere in atteggiamento ieratico. Si era p r o f u m a t o e aveva con sé molte cose. A un certo punto il cadì si svegliò nel cuore della notte, chiedendosi: "Che cosa sta succedendo nella moschea senza che io lo sappia?". Infatti la sua casa era adiacente alla moschea. "Sta' a vedere che si recita u n a preghiera a m i a insaputa!" E così si avviò verso la m o s c h e a . M e n t r e si avvicinava alla m o schea, udì i r u m o r i che vi e r a n o all'interno, senza riuscire a riconoscerli. Si disse: "Questo che sta av476
venendo oggi è un miracolo di Dio!". Infilò la testa nell'interno e scorse u n a figura u m a n a bianca e gigantesca che teneva in m a n o un rosario. Non aveva mai visto u n a scena simile. Il giudice ne fu spaventato. Cadde a terra e si mise a c a m m i n a r e a q u a t t r o zampe. Non aveva mai visto quell'uomo. Quello gli disse: «Avvicinati. È per te che sono venuto». «Ma chi sei?» «Sono l'angelo Gabriele. È Dio che mi ha inviato. I buoni giudizi che dai e il t u o lavoro gli sono assai graditi. Egli ha decretato che tu vada da lui, e ha inviato me a cercarti.» «Ah, bene. Dal m o m e n t o che è Dio che mi cerca, che posso volere di più oggi?» Tutto felice, si prosternò, cadendo col viso al suolo. L'imbroglione gli disse: «Quanto a te, il tuo destino è già deciso. Dio vuole solo vederti per conversare con te, e io sono venuto a cercarti». In breve, andò di f r o n t e a lui, si mise a q u a t t r o z a m p e e gli disse: «Aspetta un a t t i m o che ti p r e n d o e ti carico sulla schiena per portarti fino da Dio». «Benissimo. S o n o d'accordo. Dal m o m e n t o che oggi mi sei venuto a prendere per portarmi da Dio, rendiamo grazie a Dio!» Il ladro prese il suo sacco (aveva un sacco grande come u n a persona), e gli disse: «Adesso entraci dentro e allarga bene le gambe». Egli distese le gambe u n a a destra, l'altra a sinistra, e il ladro proseguì: «Adesso sali a cavalcioni sulla mia schiena e voleremo in alto fino ad arrivare là dove si trova Dio. Allora, fintantoché mi vedrai avanzare così, saprai che staremo volando in cielo; quando poi lo avremo oltrepassato te ne accorgerai perché mi chinerò.» Lo fece quindi salire in groppa e si mise a camminare a quattro zampe pian piano, pian piano, contin u a n d o a portarlo in giro finché fu giorno. 477
Al mattino, quando il capo uscì dal palazzo, c'era fuori solo lui, col cadì sulla schiena. Arrivato davanti al capo, si chinò e lo fece rotolare giù, dicendogli: «Apri gli occhi: siamo arrivati al cospetto di Dio». Quando il cadì si guardò intorno tutto quello che vide fu il capo. Il l a d r o lo fece uscire e gli disse: «Ecco q u a il cadì!». «Siamo d'accordo. Sei tu che hai ottenuto il diritto di sposare mia figlia.»
28. IL SACCO DI M E N Z O G N E
C'era un u o m o che aveva due figlie e un figlio. Se ne andò a spasso e arrivò in un luogo dove l'acqua fuoriusciva da u n a cavità della roccia. Vi i m m e r s e la bocca per bere, ma mentre stava bevendo sentì qualcosa che gli afferrava la barba. E r a un jinn. «Lasciami a n d a r e la barba!» gli disse, p r o m e t t e n d o g l i in cambio questa o quella cosa, ma qualunque cosa gli offrisse, il genio rispondeva: «No! No!» e concluse: «Quello che voglio è che tu mi riempia un sacco di menzogne. Tornatene a casa. Domani verrò a trovarti. Se non mi avrai riempito di menzogne questo sacco, io vi ucciderò tutti e il mio sciacallo vi mangerà». «D'accordo.» Q u a n d o giunse a casa, il vecchio piangeva. Gli chiesero: «Cosa ti è successo?». «C'era un jinn che mi ha afferrato la barba e mi ha liberato a un patto: d o m a n i verrà a trovarmi, e se per allora non gli avrò riempito un sacco di menzogne, ci ucciderà tutti e poi lo sciacallo che lo accompagna ci mangerà.» Allora la figlia minore gli disse: «Papà, smetti di 478
preoccuparti. D o m a t t i n a tu e la m a m m a partirete, lasciando qui solo me e il mio fratellino piccolo». Trascorsero così la notte, e all'alba se ne partirono il vecchio padre, la m a d r e e la sorella maggiore della ragazza. Anche a quest'ultima essa disse di partire. E così essi se ne a n d a r o n o . Rimase la ragazza con il fratellino piccolo al suo fianco. Q u a n d o apparve il jinn con il proprio sciacallo - lo sciacallo lo seguiva c o m e un cane, e q u a n d o lui uccideva qualcuno, lo sciacallo poi se lo mangiava -, q u a n d o arrivò, dunque, il jinn la chiamò: «Ehi, tu, ragazzina!» «Eh?» «Dov'è tuo padre?» «Mio padre è partito insieme a degli uomini. Sono a n d a t i in un p o s t o in cui il cielo sta cadendo, p e r metterci dei puntelli.» «Ah! E tua m a d r e allora?» «La m a m m a è andata con delle donne in un posto in cui la terra si sta sdrucendo, per metterci u n a pezza.» «E dov'è tua sorella maggiore?» «Mia sorella ieri era andata al pozzo, e nel ritorno le era caduta u n a coscia, per cui adesso è tornata indietro per cercarla.» A questo p u n t o la ragazza diede un pizzicotto al bimbo, che si mise a piangere. Vedendolo piangere, il jinn domandò: «E adesso che cos'ha da piangere questo bambino?» «Il motivo per cui adesso sta piangendo è che ieri a quest'ora gli avevamo dato dieci teste di sciacallo per giocare e ballarci intorno, m e n t r e oggi prevede di poterlo fare solo con la testa dello sciacallo che è con te.» All'udire queste parole, lo sciacallo corse via. E ve479
dendo fuggire lo sciacallo, anche il jinn ebbe p a u r a e fuggì pure lui. E questo è tutto.
29. LA CIVETTA
A proposito della civetta - o del barbagianni, non so bene, c o m u n q u e uno dei due - dicono che il suo verso, che si sente di notte, dica: «Nekk teqqiim da!» («Per me, è rimasta sola!»). Un tempo la civetta era u n a donna con un marito che l'amava assai. A quel tempo, la gente sapeva in anticipo quanto era destinata a durare la propria vita. Ora, al m a r i t o venne a n n u n c i a t o che a v r e b b e avuto ancora due anni di vita, mentre la moglie sarebbe m o r t a di lì a un anno. Allora quest'uomo prese u n a decisione, e poiché era i n n a m o r a t o della moglie, le disse: «Uno dei due anni che mi restano da vivere lo dono a te: tu vivrai ancora due anni, mentre io ne vivrò u n o solo; morirò p r i m a di te». Tutti f u r o n o molto impressionati da questo fatto, e la voce arrivò fino a un tale che ne fu oltremodo colpito: per quanto u n a persona possa a m a r e un'altra, non le fa dono di metà della propria vita. Riflettendo su questa notizia che gli era stata riferita, il tale si disse: "Quanto amore ha per sua moglie quest'uomo! Ma chissà se l'amore di questa d o n n a per lui è pari a quello di lui per lei?". Più ci pensava più la cosa gli sembrava stupefacente. Era veramente a m m i r a t o che qualcuno potesse far dono di metà della propria vita. Decise quindi di andare a trovarlo, e si mise in viaggio per recarsi da quest'uomo di cui aveva sentito parlare. Lui era u n a persona sicura di sé. Era un bell'uomo. Quando arrivò dall'uomo che aveva donato alla 480
moglie metà della propria vita, questi non era in casa. Chiese sue notizie e gli fu detto: «Non è qui». In quella uscì sua moglie che lo vide e se ne innamorò. Essa gli disse: «Non voglio restare qui. Voglio venire via con te». «Ah, no! Non a n d r ò via con te. Ho p a u r a di t u o marito.» «Oh, mio marito... Non è n e m m e n o il caso di parlarne. Verrò via con te.» Egli rifiutò, ma lei continuò a blandirlo, a fargli la corte, a blandirlo, a importunarlo. Dai e dai, alla fine l'uomo partì. Fuggì con lei mentre il marito non era ancora tornato. Dopo un certo tempo, l'uomo che stava fuggendo con la donna le disse: «Facciamo sosta qui per riposare». «No! Se ci f e r m i a m o qui mio m a r i t o ci raggiungerà subito. Meglio proseguire alla svelta p e r n o n farci raggiungere.» Così ripartirono e continuarono fino a un luogo in cui, comunque, finirono per far sosta. Scesero, si sedettero, e mentre erano fermi in quel posto la moglie scorse il marito che si stava dirigendo verso di loro seguendo le loro tracce. Gli disse quindi: «Non te l'avevo detto che se ci fossimo fermati quello ci avrebbe raggiunti? Eccolo che arriva». Egli r i m a s e ad attenderlo. Q u a n d o arrivò, ci fu u n a colluttazione tra il marito della d o n n a e l'altro u o m o . La lotta si p r o t r a s s e p e r un bel po', f i n c h é l'uomo che aveva rapito la donna si arrese e cadde a terra. Dopo averlo fatto cadere, il marito chiese alla moglie: «Passami il coltello che lo sgozzo!». La moglie si rifiutò. L'uomo, q u a n d o sentì che la d o n n a non avrebbe dato il coltello al marito, balzò su aggredendolo e facendolo cadere. A questo p u n t o 481
fu lui a chiedere alla donna: «Dammi il coltello che ti sgozzo il marito!». Questa volta la donna gli passò il coltello. Quando glielo ebbe dato, egli lo p u n t ò alla gola del marito legittimo della donna. «Ti rendi conto che sei morto? Non c'è più dubbio, sei morto!» «Sì.» A questo punto, l'uomo si rialzò lasciandolo andare, e gli disse: «Vedi, quello che voglio non è ucciderti, e n o n è n e p p u r e p r e n d e r m i t u a moglie. Quello che mi ha mosso è ciò che hai detto tempo fa: come hai potuto donare a t u a moglie metà della tua vita, dimostrandoti così innamorato? Questa d o n n a non dovrebbe a m a r e altri che te». E proseguì: «Ecco che il tuo proposito si è mostrato inutile, perché questa donna, p u r senza conoscermi, q u a n d o sono venuto da lei ha deciso di venir via con me». Ciò detto, l'uomo se ne andò, tornò da dove era venuto. Il marito tornò a casa sua. La lasciarono stare, ed essa rimase sola.
30. C H I È IL P I Ù O N E S T O ?
Si dice che vi siano due persone. Di queste due persone si vuole sapere quale sia la più onesta. Ci sono due amici, u n o che sta ad Agadès e u n o che sta a Tighazerin. Orbene, quello di Tighazerin quel giorno decise di partire per andare ad Agadès a trovare il suo amico. Dal m o m e n t o che ad Agadès può capitare di fare affari, prese con sé cinquemila reali. Si disse: "Aspetta che li metto in tasca, me ne vado ad Agadès, sbrigo i miei affari e vedo anche il mio amico". 482
Partì, si mise in c a m m i n o e a un certo p u n t o si trovò nella località di Tin Tebezgin, in un luogo deserto. Qui giunto pensò: "Però, se mi porto fino ad Agadès tutti i cinquemila reali rischio di sperperarli in affari di nessun profitto. Farò così: ne p r e n d e r ò quattromila, mi porterò fuori strada e, approfittando del fatto che n o n c'è nessuno che mi possa vedere, scaverò u n a b u c a e ve li metterò dentro. Li seppellirò fino al m i o r i t o r n o , e allora p a s s e r ò a riprendere i miei soldi". E così fece: mentre nessuno poteva vederlo, si allontanò dalla strada, andò in un p o s t o dove scavò u n a b u c a e seppellì q u a t t r o m i l a reali, tenendosene in tasca solo mille. Quindi ripartì, per andare ad Agadès dal suo amico. Già, il suo amico. Anche lui quel giorno aveva preso la decisione di partire per andare dal suo amico di Tighazerin. Anche lui prese cinquemila reali e li mise in tasca pensando che, quando fosse arrivato a Tighazerin, avrebbe p o t u t o fare acquisti di p r o d o t t i della regione, oltre a vedere il suo amico. Quando fu pressappoco a Tudu, i due si incontrarono. Incontrandolo, l'amico gli disse: «Guarda un po', stavo venendo proprio da te!». «Ah, sì? Anch'io stavo a n d a n d o a Tighazerin per venire a trovarti, e a questo punto, dal m o m e n t o che sono già sulla strada, è meglio che mi raggiunga tu dopo a Tighazerin.» «Va bene. D'accordo.» Quello che aveva in tasca mille reali riprese dunque il viaggio ed entrò in città. L'altro, invece, che ne aveva con sé cinquemila, riprese il c a m m i n o e quando si trovò davanti al luogo in cui l'altro aveva seppellito il suo d e n a r o , i suoi quattromila reali, ebbe anche lui l'idea che se fosse arrivato a Tighazerin avrebbe rischiato di dissipare i suoi soldi. Si allontanò dalla strada e Dio lo condus483
se davanti allo stesso albero sotto il quale l'amico aveva seppellito i suoi quattromila reali. Qui giunto, disse f r a sé: "Bene, adesso scaverò u n a b u c a e vi metterò i miei soldi". Scavò la buca, e mentre stava scavando si i m b a t t é p r o p r i o nei q u a t t r o m i l a reali dell'altro. Li vide, ma si limitò a estrarre i suoi quattromila e a deporveli, dopodiché ricoprì il tutto e se ne ripartì alla volta di Tighazerin. Qui giunto, vi rimase un certo tempo, mentre l'altro, che aveva seppellito i suoi soldi p r i m a di lui, dopo essere arrivato ad Agadès, sulla via del ritorno, si fermò alla buca e vi trovò ottomila reali, ma si limitò a t i r a r f u o r i i suoi q u a t t r o m i l a , lasciando gli altri quattromila dove stavano, e ricoprendoli di terra. Arrivò dove si trovava il suo a m i c o , ma n o n gli disse: "Ho visto dei soldi". N o n gli disse assolutamente nulla. Quest'ultimo, dopo un certo tempo, ripartì, e arrivato nel solito luogo, trovò che sotto terra c'erano solo i suoi quattromila reali, gli altri non c'erano più. C'erano solo quelli che lui aveva messo prima. A questo punto, si vuole sapere quale dei due sia il più onesto.
31. L E P E R S O N E N E L P O Z Z O
C'erano u n a volta u n a donna, suo marito, sua m a d r e e sua suocera. Essi erano in viaggio e, quand'ebbero sete, si fermarono a un pozzo profondo. Ora, il marito reggeva la m a n o di sua madre, che, appesa a lui, giungeva fino al fondo del pozzo. A sua volta, la m a n o dell'uomo era a p p e s a a quella della moglie, mentre la m a n o di quest'ultima la teneva la m a d r e di lei. Quando ebbero finito di attingere acqua dal pozzo 484
e di trasportarla fino alla superficie, la d o n n a disse al marito: «Lascia a n d a r e la m a n o di tua m a d r e se non vuoi che anch'io lasci andare la tua». A questo punto, che farà il marito? Se lascia andare la m a n o della madre, questa cadrà in fondo al pozzo e morrà. D'altra parte, se invece m a n t e r r à la presa, colei che odia la suocera lascerà a n d a r e tutti e d u e - forse a m a già un altro u o m o -, e m o r r a n n o in due. Altrimenti, che cosa può fare adesso? Lo chiedo a voi.
32. LA D O N N A E IL L E O N E
Una donna venne rapita: dei nemici la portarono via. Strada facendo, essa riuscì a fuggire. Trovò un leone, che la portò in groppa fino al suo villaggio. I suoi ne f u r o n o felici, e le chiesero: «Chi ti ha riportata qui?». Essa rispose: «Mi ha trasportata fin qui un leone: è stato b u o n o nei miei confronti, peccato che gli puzzasse la bocca». Il leone, acquattato nelle vicinanze, udì ciò che lei aveva detto e se ne andò. Passarono alcuni giorni, finché un giorno la d o n n a se ne andò a raccogliere legna. Incontrò allora un leone che le disse: «Prendi un bastone e colpiscimi». Essa gli rispose: «No, non ti colpirò. Un leone mi ha fatto del bene, non so se sei stato tu o un altro». Il leone le disse: «Sono stato io». Ed essa replicò: «Non posso colpirti». Il leone insistette: «Colpiscimi o ti mangerò!». La donna prese un bastone e lo colpì procurandogli u n a ferita. Allora il leone le disse: «Adesso vattene». Due o tre mesi dopo, il leone si trovò nuovamente a tu per tu con la donna. Il leone disse alla donna: «Vedi il posto dove mi hai colpito? È guarito o no?». 485
La donna gli rispose: «È guarito». Il leone le chiese: «Il pelo è ricresciuto?». E la d o n n a : «Sì». Allora il leone le disse: «Una ferita si rimargina, ma u n a parola cattiva non guarisce mai. Preferisco un colpo di spada alla lingua di una donna». Quindi l'afferrò e la divorò.
33. L A M A S S I M A D A C E N T O M O N E T E D ' O R O
Un u o m o aveva duecento monete d'oro. Un giorno affermò: «A colui che mi insegnerà u n a massima utile darò cento monete d'oro». E u n o gli disse: «Ti insegnerò io u n a massima utile». «E qual è?» «È meglio passare la notte con la collera che con il rimorso.» E quello gli diede cento monete d'oro. Quindi riprese a dire: «A colui che mi insegnerà u n a massima utile darò cento monete d'oro». Un altro: «Ti insegnerò io u n a massima utile». «E qual è?» «Quando rientri da un viaggio, non fermarti per la notte a poca distanza dalla tua tenda.» Ora, avvenne che l'uomo dovette intraprendere un viaggio, m e n t r e sua moglie aspettava un b a m b i n o . Rimase in viaggio anche d o p o la nascita del figlio, f i n c h é questi n o n fu c r e s c i u t o e si fu f a t t o u o m o . Q u a n d o ritornò, si unì a u n a c a r o v a n a n u m e r o s a . Cammina, cammina, giunsero a poca distanza dalla località in cui si trovava la sua tenda, prepararono la cena e si accinsero a trascorrere la notte. Si ricordò allora della massima che aveva acquistato per cento monete d'oro. Prese quindi la sua cammella, la sellò, partì e arrivò alla sua tenda nel cuore della notte. Trovò la moglie che dormiva con accanto un uo486
mo della sua stessa statura. Estrasse il pugnale e stava per piantarglielo nel ventre q u a n d o si sovvenne della massima secondo cui "È meglio passare la notte con la collera che con il rimorso". Rimise il pugnale nel fodero. R i m a s e fino al m a t t i n o in attesa che l'uomo si alzasse per poi ucciderlo. Q u a n d o fu mattina, udì sua moglie che diceva all'altro: «Alzati e prega Dio di far tornare tuo padre». Da ciò comprese che si trattava di suo figlio, per cui disse: «Ringrazio Dio di avere acquistato quella massima per cento monete d'oro: essa ha salvato la vita di mio figlio».
34. L ' U O M O C H E CERCAVA I L P A E S E DOVE NON SI MUORE
Questa è la storia di un u o m o che aveva u n a m a d r e molto anziana. Egli pensò di cercare un paese in cui non si morisse mai. Decise di mettersi in viaggio alla ricerca di questo paese in cui non si m u o r e mai, e se nei paesi in cui giungeva vedeva delle tombe, non si fermava ma proseguiva la ricerca di un paese in cui n o n vi fossero cimiteri. Attraversò tutti i paesi senza trovarne uno in cui non vi fossero cimiteri. Un u o m o gli disse: «Dove te ne vai in continuazione? Hai viaggiato per tutti i paesi lasciando sola la tua vecchia madre». Egli rispose: «Io cerco un paese in cui n o n vi siano cimiteri». E quello riprese: «Se mi pagherai il noleggio dei cammelli, ti farò vedere un paese in cui non vi sono tombe per i defunti». Al che egli rispose: «Se tu mi farai vedere un paese in cui la gente non m u o r e mai, ti darò tutti i beni che posseggo». Si misero in viaggio insieme e a r r i v a r o n o in un paese in cui n o n vi erano tombe per i defunti. Ferm a r o n o i cammelli presso questa gente. L'indomani 487
l ' u o m o che aveva f a t t o da guida chiese all'altro: «Adesso d a m m i ciò che mi spetta perché ti ho fatto conoscere un paese in cui n o n vi sono sepolture». Questi gli diede tutti i beni che possedeva e quell'uomo partì. Il nostro si installò in quel paese. Un giorno dovette andare in un luogo poco distante. Affidò ai vicini la m a d r e che stava dormendo. Quando la videro addormentata, i vicini la sgozzarono, la fecero a pezzi e ne tennero u n a parte per il figlio. Quando questi fu di ritorno, gli dissero: «Tua madre era sul punto di morire, noi l'abbiamo sgozzata e ci siamo divisi la sua carne. Ce ne u n a porzione anche per te». L'uomo rifletté: "Cercavo un paese in cui la gente non m u o r e mai e sono arrivato in un posto dove la mangiano!". E se la diede a gambe levate.
35. LA S T O R I A DI A M M A M E L L E N E DI E L I A S
Ammamellen aveva u n a sorella. Un indovino gli aveva predetto: «Sta scritto che tu avrai un nipote che sarà superiore a te in intelligenza». Perciò tutte le volte che la sorella dava alla luce un maschio, egli lo uccideva. Finché un giorno essa partorì contemporaneamente alla sua schiava. Prese quindi la propria creatura, la diede alla schiava e prese con sé il figlio di quest'ultima. Ammamellen arrivò, lo prese e lo uccise. Il figlio della p a d r o n a r i m a s e presso la schiava, crebbe e si fece uomo. Il suo n o m e era Elias. Ammamellen non lasciò nulla di intentato per riuscire ad attirarlo in un tranello e ucciderlo. Elias era superiore a lui, e Ammamellen non riusciva a ucciderlo. Un giorno Elias giunse molto assetato da Amma488
mellen. Quest'ultimo sapeva dove si trovava l'acqua nella montagna, ma non voleva fargliela vedere. La montagna non serbava tracce, dal momento che il suolo era completamente roccioso. Quando scendeva la notte, Ammamellen andava coi suoi schiavi ad abbeverare le greggi. Bevevano di notte e ritornavano mentre ancora tutti dormivano. Elias prese i sandali degli schiavi, ne unse le suole di grasso e attese. L'indomani potè seguirli fino al luogo in cui si erano recati: il terreno calpestato dalle suole, ancorché roccioso, conservava tracce di grasso, e così egli riuscì ad arrivare all'acqua. Ammamellen lo vide e lo seguì di nascosto. Mentre Elias stava chinato a bere, vide riflettersi nell'acqua l'ombra di Ammamellen che, con la spada sguainata, stava per colpirlo alla nuca. Fece allora un rapido balzo dall'altra parte e se ne fuggì via. Ammamellen fece ritorno alla sua tenda. Un bel giorno, se ne andò all'imboccatura di un vallone e vi lasciò delle tracce con le z a m p e di animali morti: cammelle, capre, pecore e asini. Vi fece entrare anche tre vecchi cammelli, u n o c o n un occhio solo, u n o con la rogna e u n o con la coda tagliata. Tornò alla sua tenda. L'indomani disse a Elias: «Va' a vedere quel vallone: sappimi dire che cosa c'è dentro». Elias andò a vedere il vallone e il suo contenuto, dop o d i c h é t o r n ò da A m m a m e l l e n . Questi gli chiese: «Elias, hai visto il vallone?». «Sì.» «Allora, cosa c'è e cosa non c'è? Ti piace o non ti piace?» «Mi piace, solo che ci sono delle tracce di animali morti e di tre vecchi cammelli, u n o con un occhio solo, u n o con la rogna e u n o con la coda tagliata.» Allora Ammamellen gli chiese: «Come fai a scoprire u n a d i f f e r e n z a f r a le tracce di un a n i m a l e vivo e quelle di un animale morto?». 489
«L'unghia di un animale vivo ritorna su se stessa portandosi dietro della sabbia; quella di un animale morto no.» «E come fai a scoprire u n a differenza tra un cammello che ha un occhio solo e u n o che li ha tutti e due?» «Il cammello con un occhio solo strappa dagli alberi le foglie solo dal lato dell'occhio che ci vede.» «E come fai a scoprire u n a differenza fra un cammello con la rogna e u n o senza?» «Quello con la rogna si gratta contro tutti gli alberi che incontra, lasciando tracce di questo sfregamento.» «E come fai a scoprire u n a differenza tra un cammello con la coda e u n o senza?» «Lo sterco del cammello senza coda rimane in un mucchio unico, mentre quello del cammello con la coda viene disperso e sparpagliato dalla coda.» Un'altra volta, Ammamellen partì e si recò in un luogo dove raccolse erba in abbondanza, ne fece dei fasci, li rivoltò e disse a Elias: «Domani andrete nel tal luogo e porterete via i fasci d'erba che vi ho radunato». Detto questo, se ne a n d ò e, di nascosto, lo precedette in quel luogo, se ne a n d ò verso un covone, vi entrò e si a c q u a t t ò a s p e t t a n d o che arrivasse Elias per ucciderlo. Q u a n d o arrivò Elias, raccolse tutti i fasci d'erba tranne uno, a cui rifiutò di avvicinarsi. I suoi compagni gli dissero: «Perché hai raccolto questi covoni e quello lo hai lasciato stare?». Ed egli rispose: «Questo qui respira, mentre gli altri non respirano». Udito ciò, Ammamellen balzò fuori, prese il giavellotto, glielo scagliò contro ma lo m a n c ò . Allora disse: «Mi inchino a te, figlio di mia sorella, che mia sorella ha partorito facendolo credere figlio di u n a schiava». 490
Nota ai testi
Parte I Le fiabe di questa parte provengono da: Uwe Topper, Màrchen der Berber, Colonia, Eugen Diederichs Verlag, 1986. Quando questo autore non ha tradotto materiale proprio ma è partito da un testo berbero già pubblicato, la traduzione è stata fatta su quest'ultimo. I casi sono segnalati volta per volta. 1. Il mostro. Tradotta da Laoust (1949) n. 94, era stata raccolta presso i Bani Mtir a El Hajeb, nel Medio Atlante. Nella trama, a prima vista piuttosto confusa, di questa fiaba, sono contenuti alcuni elementi che possono risalire a una remota antichità: in particolare il tema del riconoscimento della morte e dell'atteggiamento nei suoi confronti. La raffigurazione della morte sotto forma di una mula o di una giumenta (a Ouargla, nel Sahara algerino: Tagmart) è una immagine diffusa nel mondo berbero, ma non solo: si veda per esempio il sinistro personaggio di Spina de Mul nelle saghe ladine delle Dolomiti (Dal Lago 1989). Al terrore della morte che, sperimentata coi vecchi genitori, perseguita per tutta la vita la donna, il figlio e il marito, si contrappone in questo racconto la speranza in una salvezza che viene fornita dall'albero su cui la donna si arrampica, evidente ripresa dell'antichissima immagine dell' "albero della vita". All'interno della favolistica berbera, l'intreccio trova interessanti corrispondenze con la fiaba n. 12 della Parte II (La quercia dell'orco). Per l'espres491
sione finale "il suo fegato era spezzato", equivalente al nostro "ne ebbe il cuore spezzato", si vedano le osservazioni alla fiaba n. 17 della Parte III. 2. L'acqua che non cade dal cielo e non sgorga dalla terra. Questa fiaba, dettata a U. Topper da Abdullah Unwar, riprende temi assai diffusi sia in Oriente sia nel Nordafrica. In particolare, innumerevoli sono le fiabe che contengono il "motivo di Turandot", con la domanda da risolvere pena la decapitazione. Per il particolare dell'eroe che, nel corso di precedenti avventure, elabora un "indovinello" insolubile, si può dire che, mutatis mutandis, si abbia qui un corrispondente berbero della fiaba italiana nota come II figlio del mercante di Milano nella raccolta di Italo Calvino (1968). 3. Il mercante, l'ifrit e i tre vecchi. Narrata nel 1981 da Si Hsan, un cantastorie professionale, sulla piazza Djemaa el Fna di Marrakesh. Essa ripete con notevole fedeltà il testo di una celebre fiaba (Il mercante e il genio delle Mille e una notte). Solo il racconto del terzo vecchio risale a una versione completamente diversa e abbreviata; per il resto, la stupefacente identità di alcuni dettagli (per esempio il "ricavo decuplo" ottenuto dai fratelli commercianti, o l'incantesimo opera non della fata ma di una sua sorella, ecc.) è la prova della grande professionalità dell'esecutore. Circa la credenza, comune in tutto il mondo musulmano, della possibilità di irritare i jinn, invisibili, gettando sconsideratamente oggetti o acqua bollente, si può vedere anche, più avanti, il racconto n. 9. 4. Il principe Mohammed che rapì la figlia del capotribù dei nomadi. Tradotta dal testo in tashelhit di Hans Stumme (1895), n. 7. Abbastanza curiosa la posizione in questa e in numerose altre fiabe berbere - delle persone affette da tigna, le quali, nonostante il loro aspetto 492
poco accattivante, finiscono spesso per prevalere su tutti. Si veda anche, più avanti, le fiabe n. 8 e n. 10 . Secondo la tradizione, un re di Tlemcen di nome El-Ablaq El-Fertas ("L'Albino Tignoso") sarebbe il fondatore di Oujda (R. Basset, Nédroma, Parigi 1901, p. 208). La trasformazione, qui poco chiara, dell'ifrit in un servitore negro, è più comprensibile nella fiaba corrispondente in Cabilia (n. 19, Parte II). 5. Ahmed U-n-Amir. Fiaba narrata a U. Topper da Mohammed U-Lhajj nel 1985 e identica quasi parola per parola alla n. 10 della raccolta di Hans Stumme (1895). Il nome del protagonista, Ahmed U-n-Amir significa letteralmente "Ahmed Figlio-dell'Emiro". Sono relativamente frequenti in Nordafrica i racconti il cui protagonista è un principe innominato o noto solo come Figlio del Sultano, eventualmente accompagnato dal neutro Ahmed (o Mohammed), il nome più diffuso in ambito islamico, soprattutto tra i primogeniti. È curioso, qui, che al nome non corrisponda di fatto una discendenza regale del giovane. Riguardo all'usanza di tingere le mani con l'henné, va ricordato che essa è frequentissima tra le donne mentre per gli uomini tale operazione viene effettuata solo in casi eccezionali, p. es. nella notte delle proprie nozze. Per questo la tintura delle mani di Ahmed per opera degli esseri angelici ha qui anche il significato diretto di annunciare il matrimonio. Con la sua ricchezza di simboli "forti" il racconto si presta comunque a letture allegoriche. Un tentativo di interpretazione (basato anche su altre versioni) si trova in A. Bounfour, La parole coupée. Remarqu.es sur l'éthique du conte, in «Awal», 2 (1986), pp. 98-110. 6. Il re con un figlio bianco e uno nero. Raccontata a U. Topper da Mohammed U-Lhajj, della tribù degli Haha. Compare qui con ampio risalto la dicotomia 493
bianco-nero (normalmente associata alla dicotomia libero-schiavo), estremamente frequente nei racconti nordafricani. Assolutamente eccezionale è invece la circostanza che il ruolo positivo sia qui svolto dal nero e non dal bianco. (In Marocco sono tuttavia tramandate le imprese di un "Sultano Nero" che avrebbe regnato parecchi secoli fa e avrebbe assediato Tlemcen. Cfr. R. Basset, Nédroma, p. 11 e App. IV.) Un particolare che compare anche in numerose altre fiabe nordafricane è quello dell'arrestarsi degli orchi (o delle orchesse) di fronte ai corsi d'acqua mentre stanno inseguendo gli eroi del racconto. Ciò sottolinea il carattere selvatico di questi personaggi, così estranei al mondo civile degli umani da non sapere n e m m e n o nuotare, e questa estraneità alle espressioni della "civiltà" degli uomini vale, in generale, anche per ogni altra creatura non umana presente nelle fiabe. Per esempio, nel racconto n. 4 della Parte III, il narratore sottolinea con sarcasmo la scarsa abitudine a cavalcare del jinn rapitore di fanciulle, che se ne sta rigido e impacciato sulla sella pregiata di Mauritania. Questi esseri apprezzano, però, i risultati che si ottengono con le arti degli uomini, per cui, per esempio, non è raro che l'eroe riesca a ingraziarseli liberandoli, con una perfetta rasatura, dal pelame lungo e incolto che li caratterizza. 7. L'uccello bianco e l'uccello nero. Fiaba raccontata a U. Topper nel 1982 da Zahra bint Mohammed di Marrakesh. L'autore tedesco segnala una particolare variante turca da Istanbul - ampliata con una seconda parte - messa per iscritto tra il 1939 e il 1947 da Boratav (Zaman zaman iginde, Istanbul 1958; trad. tedesca di A. Uzunoglu-Ocherbauer, Tiirkische Màrchen, Frankfurt/M. 1982 (trad. it. di Oreste Bramati, Fiabe turche, Milano 1992). In essa si parla di un solo uccello bianco, mentre gli altri due uccelli che vi ricorrono sono senza significato. 494
8. Aggelamush. La fiaba proviene da Hans Stumme (1895), n. 16. In altre versioni marocchine della fiaba, il nome della strana creatura su cui si incentra la storia è Alì Amosh, vale a dire "Alì il Gatto". Di un gatto vero e proprio (denominato appunto Mosh, "gatto") si parla nella versione algerina riportata nella Parte II di questa raccolta col n. 17. La curiosa particolarità fisica del sovrano della seconda parte, che ha le corna, fa pensare ad Alessandro Magno, noto nel mondo islamico come Dhu 1-Qarnayn ("Quello dalle due corna"), nominato perfino nel Corano (sura XVIII, 83 ss.). Un racconto algerino su "Gennaio, l'uomo dal corno" è stato pubblicato nel 1903 nei Mémoirs de la Société de Linguistique de Paris da E. Doutté. Notevoli, comunque, in questa seconda parte, i richiami a motivi della mitologia classica, come la vicenda delle orecchie d'asino di re Mida, la cui esistenza venne divulgata inconsapevolmente dal suo barbiere che si liberò del segreto in una buca del terreno sulla quale in seguito crebbero delle canne che con il loro fruscio ripeterono la notizia. A Ouargla (Delheure 1989, 334 ss.) vi è un analogo racconto, in cui figurano delle orecchie di cane e la rivelazione è fatta da vermi della terra. 9. La donna che venne rapita da un jinn. Raccontata da un giovane dei pressi di Igherm nell'Anti-Atlante. Sulla credenza che, gettando oggetti o versando dell'acqua bollente alla cieca, si possa far male a un jinn, si veda anche sopra, la fiaba n. 3. U. Topper, che ha raccolto il racconto, riferisce di avere udito in proposito l'aneddoto che segue: «Un appartenente alla nostra confraternita gettò via sbadatamente l'acqua calda rimasta nel recipiente dopo l'abluzione per la preghiera notturna, e immediatamente ricevette uno schiaffo da un essere invisibile. Per questo bisogna guardarsi dal versare dell'acqua calda nell'oscurità». Una scena di giudizio presso il re degli spiriti che assolve l'umano 495
perché ignaro di aver danneggiato uno spirito è ricordata anche a Ouargla (J. Delheure 1988, p. 373). In questo, come in altri racconti (n. 19 e 27, ma anche n. 35 della Parte III), compare un accenno a riti di geomanzia, divinazione ottenuta interpretando segni casualmente tracciati sulla sabbia. Su questa tecnica, ancora piuttosto diffusa nel m o n d o berbero, si può vedere, da ultimo, Casajus (1993). 10. L'uomo con la pipa. Fiaba raccontata a U.Topper da un pescatore berbero della tribù Haha sull'Atlantico nel 1984. Come nella n. 54, anche qui risulta chiaro il valore attribuito ai fumatori di hashish, che diventano gli eroi della storia. In effetti gli stati di coscienza alterati indotti dalla droga possono essere - e nell'ambito di certe comunità mistiche sono - considerati sintomo di contatto con un mondo trascendente, ispirato. Questa lunga versione sembra comprendere l'unione di diversi nuclei narrativi, in cui sono presenti molti elementi diffusi in altre fiabe, berbere e non, per esempio il travestimento da tignoso del protagonista o il suo abbandono in fondo a un pozzo da parte dei fratelli. Frequente nella favolistica berbera è anche il modo di uccidere orchi e draghi per dissanguamento, evitando di tagliare loro tutti gli arti (o, più spesso, le teste), perché dopo l'ultima amputazione essi ricrescerebbero. 11. La figlia del jinn. Tradotta sul testo di Renisio (1932), pp. 188 ss. Anche questa fiaba riunisce in sé numerosi motivi assai noti sia in ambito magrebino sia altrove. Il tema del bacio che fa dimenticare la donna amata si ritrova anche, per esempio, nelle fiabe n. 187 e n. 194 della raccolta dei fratelli Grimm. 12. Il jinn di Imzuwurt. Raccontata a U. Topper da Mohammed U-Lhajj, della tribù degli Haha. A proposito di questa fiaba, U. Topper riferisce di averla udita 496
narrare a più riprese nel corso degli anni, per opera di diversi abitanti di Ait Tamlal, anche se solo pochi avrebbero trovato il coraggio di narrarla per intero. Le capanne sul Capo vengono visitate anche in altre epoche da singoli o da gruppi che intendono pregare per la fecondità. 13 .La negra con i due gomitoli. Tradotta dal testo in tashelhit di Emile Laoust (1949), n. 98, pp. 99-100, il quale lo aveva raccolto presso gli Ntifa a Tanant nel 1916. Molto diffuso in tutto il Nordafrica è il tema della usurpazione della posizione della padroncina bianca da parte di una schiava negra, anche se perlopiù lo scambio di colore della carnagione avviene in seguito a un bagno in fontane riservate una ai bianchi e una ai negri (si veda per esempio la fiaba n. 1 della Parte II). La spietatezza con cui viene tradizionalmente punita la serva è emblematica di quanto fosse cruciale nella società tradizionale il rigido mantenimento dei ruoli. Analoghe versioni europee (per esempio La ragazza delle oche nella raccolta dei fratelli Grimm, n. 89) sono invece incentrate sullo scambio di vestiti. 14. I due fratelli e l'ifrit. Dal testo in tashelhit di Hans Stumme, Màrchen der Schluh von Tazerwalt (Leipzig 1895), n. 4. Notevoli sono le congruenze col racconto I due fratelli dei fratelli Grimm (n. 60), dove l'eroe viene aiutato non da un cane ma da un leprotto. 15. L'uomo che avrebbe dovuto seminare fave. Narrata a U. Topper da Erqia, un'anziana donna della tribù degli Haha. Il tema della persona che, invece di seminare e coltivare fave, se le mangia salvo poi andarle a cercare nell'orto di un'orchessa, è diffuso in tutto il Nordafrica (si veda per esempio la fiaba n. 10 della Parte II). Quello delle creature magiche che per un furto nell'orto si prendono la figlia della colpevole è lo stesso 497
della Prezzemolina della tradizione italiana. La fanciulla che vive con l'orchessa qui non viene nominata; in un racconto analogo raccolto da Laoust (1949), n. 97, essa ha il nome di Lunja "del roccione". Su questo personaggio (altrove chiamato anche Runja, Nuja o simili), assai noto in Nordafrica, si possono vedere le fiabe n. 2 e n. 19 della Parte II. 16. L'uccello dalle uova d'oro. Fiaba narrata a U. Topper da un giovane della tribù degli Haha. Essa è ben nota in tutto il Nordafrica e anche altrove. Nonostante la trama nel complesso diversa, vi è accordo nel particolare dei due figli che mangiano le parti più pregiate dell'uccello fatato (il cuore e il fegato) con la fiaba n. 60 dei fratelli Grimm I due fratelli. Pressoché identica nella sostanza è invece la fiaba yiddish n. 27 della raccolta di Silverman Weinreich (1992). Ovviamente in quest'ultima versione il malvagio che alla fine viene punito non è un ebreo (il prototipo del malvagio nelle fiabe berbere), bensì un "signorotto"consigliato da un prete. 17. L'Uomo e il Gigante. Fiaba narrata a U. Topper da Abdullah Unwar. Anche questo testo contiene motivi assai diffusi sia in Nordafrica sia altrove. In ambito europeo, un confronto può essere fatto con due racconti dei fratelli Grimm: Il coraggioso piccolo sarto (sette in un colpo), n. 20 e II gigante e il sarto, n. 184, ciascuno dei quali contiene una parte degli episodi del racconto berbero. 18. Il fabbricante d'oro. Fiaba raccolta a Rabat da U. Topper. Al contenuto morale del racconto (che potrebbe far parte della serie di miti relativi alla città di Jedad u ben Ad) si affianca una probabile reminiscenza della tradizione alchemica araba. 498
19. Il contadino e il re. Fiaba raccolta a Rabat da U. Topper. Il tema centrale, basato su una serie di equivoci e giochi di parole che consentono a una persona qualunque di passare per grande indovino, è assai diffuso, anche al di fuori del Nordafrica. Un esempio tra tanti il Dottor Satutto dei fratelli Grimm (n. 98). 20. Il pescatore che andò dal re. Raccolta a Rabat da U. Topper. Benché le vicende siano nel complesso diverse, una certa analogia si può riscontrare con il racconto n. 101 della raccolta yiddish di Silverman Weinreich (1992) Perché i capelli diventano grigi prima della barba: anche in quest'ultima storia, infatti, vi è un umile lavoratore, favorito dal re per il suo buonsenso e osteggiato dai suoi consiglieri, il quale si cava d'impiccio in una circostanza proprio grazie all'identificazione delle monete con l'effigie del sovrano e il sovrano stesso. 21. La schiava furba. Raccontata a U. Topper da Zahra bint Mohammed a Marrakesh nel 1982. Non a caso, le fiabe che narrano l'abilità delle donne vengono solitamente narrate da donne. Nel mondo maschile, i racconti in cui la donna dimostra la propria bravura tendono solitamente a sottolinearne l'astuzia usata per prendersi gioco degli uomini. Si vedano più avanti le fiabe n. 32 e n. 35. 22. Il medico saggio. Questa, come le due fiabe successive, Un saggio consiglio e La grossa eredità sono state raccontate a U. Topper a Rabat da giovani originari dei monti circostanti. 23. Un saggio consiglio. Tradotta dal testo n. 66 di Laoust (1949), raccolto presso gli Ntifa dell'Alto Atlante. La trama prende spunto da un tema assai diffuso nella letteratura orale berbera di tipo gnomico, vale a dire l'enunciazione delle tre cose migliori o - più spes499
so - delle tre cose da evitarsi, ecc. Un lungo testo cabilo raccolto da M. Mammeri nei suoi Poèmes Kabyles anciens (Le mariage de Tartina, pp.226-257), consiste in una sorta di competizione poetico-retorica tra vari animali e uccelli per aggiudicarsi l'amore della bellissima Tanina, e contiene molti di questi "aforismi trimembri", p. es.: "Mio padre un giorno mi ha detto: un campo attraversato da troppi sentieri, un aratro traballante, una moglie con dei figli di primo letto, fuggiteli, amici!"; "Tre cose fanno piangere il cielo: chi si reca all'assemblea senza saper parlare; chi va di notte a rubare e si mette a cantare; chi testimonia su cose che non ha veduto"; "tre cose fanno piangere il gatto: chi sposa una racchia che fa la difficile; chi è ricco e lascia che i suoi parenti si nutrano d'erba; chi ha figli malvagi e si vanta della prole", e così via. La capacità di comporre rapidamente questi triplici aforismi (i cosiddetti timsal), in rima su una parola data, era una dote molto apprezzata per i depositari della cultura orale tradizionale, che in certi casi davano vita a vere e proprie "tenzoni oratorie" tra i "campioni" di diverse tribù. (Si veda al riguardo Allioui 1990.) 24. La grossa eredità. Raccontata a U. Topper a Rabat. Già presente nella raccolta di storielle edificanti del religioso Johannes Pauli, Schimpf und Ernst, Strasburgo 1522, dove peraltro dallo stesso fatto veniva tratta una morale diversa. 25. La guarigione dell'avaro. Raccontato a U. Topper dagli Haha, sul margine occidentale dell'Alto Atlante. Secondo la religione islamica i defunti subiscono nella tomba, subito dopo la morte, un primo giudizio in seguito a un interrogatorio da parte di due angeli, Munkir e Nakir, e nel caso siano trovati meritevoli di punizione vengono puniti in vario modo già nella tomba; alla fine del mondo, poi, avrà luogo il giudizio uni500
versale (su cui si veda la fiaba n. 61) con la definitiva condanna all'inferno o ammissione al paradiso. 26. Il cadì e il cacciatore. Raccontata a U. Topper da Abdallah Unwar. Sul tema del ribaltamento di una sentenza ingiusta, cfr. anche la n. 19 della Parte III. 27. Lo strano dono nuziale. Raccontata a U. Topper da Abdallah Unwar. Il tema dell'empietà dei cadì, soggetti spesso alla tentazione, alla corruzione e al male, è assai diffuso a livello popolare e compare anche in altre fiabe (p. es. la n. 23, la 26, la 48 e la 52 della Parte I). È credenza comune che le tombe dei malvagi ospitino spesso animali impuri (cani, serpenti, scorpioni). Si veda, per esempio, Yafi'i (1993) pp. 211-212. 28. Il sultano e i Berberi. Raccontata a U. Topper nelle tende degli Zayan nel Medio Atlante. La gag del vecchio con la barba bianca che non conosce abbastanza l'arabo per esprimersi con eleganza è molto riuscita. U. Topper riferisce che "tutti gli ascoltatori si piegano in due dalle risa quando viene narrato questo racconto buffo. Di fatto, le tre parole che il vecchio riferisce alla sua tribù: pascolo, ariete e segale, hanno un bel suono, mentre le espressioni riferite al re: ronzino, pastore e asino, suonano in modo sgradevole". 29. Il maestro di Corano tra i Berberi. Raccontata, come la precedente, nelle tende degli Zayan nel Medio Atlante. Anche questo racconto si incentra sulla incomprensione dell'arabo da parte dei Berberi. Una sorta di rivincita sui colti cittadini, depositari di questa lingua, privilegiata dalla religione ma troppo ostica per le popolazioni rurali. 30.I Figli dell'Avarizia. Raccontata a U. Topper dagli Zayan nei pressi di Ummer Rbia nel Medio Atlante. Per 501
capire appieno il senso della storia, va tenuto presente che il siero prodotto con la fabbricazione del burro è sempre assai abbondante e di scarsissimo pregio, al punto che non si esita a darlo agli animali. 31 .La pelle magica. Sono qui raccolti alcuni degli infiniti episodi della saga di Juhà, raccontati a U. Topper da Si Hsan sulla piazza Djemaa el Fna a Marrakesh. Su questo personaggio, ora tonto e ingenuo ora furbo e smaliziato, esiste una letteratura immensa. Particolarmente significativa la raccolta di Mouliéras (1987). Racconti della serie sono presenti anche nel meridione d'Italia, e in particolare in Sicilia, dove l'eroe ha prevalentemente il nome di Giufà (alcuni episodi sono compresi anche nelle Fiabe italiane di Calvino). Su questo personaggio, in diverse tradizioni, si può ora vedere Corrao (1991) e Cohen Sarano (1990). 32. Il potere delle donne. Ambedue i racconti sono stati raccolti da U. Topper a Asfi. Tipica espressione di una società maschilista, rappresentano un genere assai diffuso. A essi si possono accostare le fiabe n. 35 e n. 39 della Parte I e la n. 26 della Parte III. 33. Lalla Maghnia. Leggenda narrata a U. Topper da Zahra bint Mohammed, una donna di Marrakesh. Il personaggio al centro del racconto è una santa la cui tomba è ancor oggi venerata a Lalla Maghnia in Algeria. Una versione più completa, ma sostanzialmente aderente a questo testo, della leggenda di Lalla Maghnia è riportata in A. Maraval-Berthoin (1927). Come si può vedere, nel mondo delle confraternite sufi non vengono apprezzate solo le virtù religiose ma anche quelle guerresche. 34. La principessa Gazzella. Fiaba narrata a U. Topper da un giovane di Igherm nell'Anti-Atlante. Essa contiene 502
numerosi motivi assai diffusi, anche al di fuori del Nordafrica (p.es. la foresta interdetta e la caccia alla gazzella). Sul modo di far parlare la principessa muta, si veda la nota alla fiaba cabila n. 19 della Parte II. 35. L'astuta Aisha. Narrata a U. Topper da Zahra bint Mohamed di Marrakesh. Appartiene, come la n. 39 e la n. 32, a quel genere che si compiace di descrivere le astuzie femminili nei confronti degli uomini. Il "personaggio" di Aisha è comunque una figura che emerge a tal punto in questo genere da vivere quasi di vita propria. Su ciò, cfr. M. Virolle-Souibès (1993), pp. 377-390. 36. La moglie innamorata. Racconto recitato a U. Topper a Rabat da giovani originari dei monti circostanti. Numerosi racconti riferiscono le vicende penose di chi, non potendoselo permettere, cerca affannosamente il modo di sacrificare un animale in occasione della Festa del Sacrificio (p.es. n. 5 e n. 8). Il tema viene qui però affrontato in un modo quasi farsesco che ne fa una specie di "barzelletta". 37. Il magico cuscus. Raccontata a U. Topper nel 1985 da un giovane del Sus, che sosteneva trattarsi di "un avvenimento autentico". Per la preparazione del cuscus con la mano di un morto allo scopo di annullare la volontà dei mariti e altre pratiche magiche si può vedere Doutté (1984), pp. 302 ss. 38. La povera donna e l'orchessa. Raccontata a U. Topper da Erqia, una donna di circa settantanni della tribù Haha nell'Alto Atlante in lingua tashelhit. Per il suo contenuto, essa si può accostare alla fiaba n. 5 della Parte II, incentrata sul personaggio di una povera vedova che riesce, lavorando sodo e impiegando l'astuzia, ad allevare e a salvare dall'orchessa i suoi numerosi fi503
gli (sette è il numero magico di gran lunga più frequente nelle fiabe). 39. Le donne astute. Raccontata a U. Topper da Si Hsan nella Djemaa el Fna di Marrakesh. Il racconto - che appartiene allo stesso genere della fiaba n. 32 e delle altre ivi ricordate - è già apparso in Justinard (1926), pp. 49 ss. col titolo Le tre sorelle, ed è commentato in VirolleSouibes (1993), pp. 377-390. A Ouargla vi è una versione molto simile, che però si conclude male per colei che ha ecceduto nel prendersi gioco del prossimo (Delheure 1989, pp. 258 ss.) 40. Come fu che il garzone mangiò a sazietà. Questa storia è stata narrata a U. Topper ad Asfi. A questo stesso genere di astuzie che consentono ai servitori di farsi una bella mangiata alle spalle dei padroni appartiene, per esempio, la fiaba La saggia Gretel dei fratelli Grimm (n. 77), già presente nella raccolta del religioso Johannes Pauli, 1522, cit., la cui trama peraltro corrisponde in modo più preciso alla versione cabila presente nel Decamerone nero di L. Frobenius (Astuzia femminile, pp. 237-238). L'episodio di bestialità perpetrato con l'asina rimanda a pratiche non ancora scomparse nelle campagne (si veda anche il racconto Ainichthem dello stesso Decamerone nero). Probabilmente è nell'intenzione di evitare episodi del genere che va vista l'origine del tabù ancor oggi vigente in Cabilia (Algeria): in questa regione non viene tollerata la presenza di asini femmina, per cui non esiste un allevamento locale di asini, che vengono acquistati nelle regioni circostanti. 41. L'adulterio. Fiaba narrata a U. Topper da un vecchio pescatore della tribù degli Haha. Essa presenta una certa rassomiglianza col motivo di Adamo ed Eva (cfr. più avanti, n. 51), anche se qui è esplicitamente segnalato che fu l'uomo e non la donna a venire meno a un patto 504
(cosa questa piuttosto notevole se si considera il basso concetto che la società tradizionale ha della fedeltà delle donne). Il prigioniero della caverna (che compare anche nella fiaba n. 60), è il Dujjan, corruzione del nome arabo Dajjal, "Il (sommo) impostore", con cui si designa tradizionalmente una sorta di Anticristo, un personaggio che farà la sua comparsa, secondo l'escatologia musulmana, prima della fine del mondo. Sulla figura del Dajjal si può vedere Noja (1988), pp. 60 ss. 42. La bella donna. Narrata dallo stesso vecchio pescatore delle fiabe n. 51 e n. 52 . È chiaro il valore allegorico dell'intero racconto. Come riporta U. Topper, i simboli presenti in esso andrebbero così intesi: «Il giovane sta per ben Adam, l'uomo; la bella donna è l-'aql, l'intelletto, creato da Dio e caduco come tutte le cose create; la casa sta per la dunya, questo mondo; il servo, 'abd, è un angelo; il padrone di casa, da cui tutto e tutti dipendono, non si fa vedere affatto. Egli è Rabb, colui che ci sostenta, Iddio». 43. La mucca dei due orfanelli. Questa versione proviene dal Sus ed è stata messa per iscritto da Laoust (1921), pp. 245-248. È una delle fiabe più amate e diffuse tra le popolazioni berbere, compresi i Tuareg (cfr. qui la n. 6 della Parte III). Per la Cabilia, oltre alla versione di Mouliéras (1893-98), pp. 330-340, si veda anche la n. 6 della Parte II, dove è presente anche l'altro motivo che talora si sostituisce a quello della mucca che sostenta i due bimbi con il suo latte, vale a dire quello delle due canne cresciute sulla tomba della madre morta e ripiene l u n a di miele e l'altra di burro. Il Corano condanna severamente chi defrauda gli orfani: Sura delle Donne, IV, 10: "In verità coloro che consumano iniquamente i beni degli orfani, consumano fuoco nei loro ventri e saranno alimento del fuoco dell'Inferno". 505
44. Il rìccio e lo sciacallo. Raccontata a U. Topper nell'Alto Atlante. Per un'altra versione, quasi identica, nel Rif, cfr. Justinard (1926), pp. 40 ss. Sempre molto apprezzato in ambito berbero, nei racconti il riccio prevale per la sua astuzia e il suo coraggio anche su animali in teoria più forti e pericolosi. Lo zimbello preferito, in numerosissime fiabe, è proprio lo sciacallo. Questa considerazione per il riccio nel mondo berbero discende probabilmente dall'utilità di questo animale, che viene talora tenuto vivo nelle case per liberarle da insetti, scorpioni scarafaggi ed eventualmente serpenti e vipere. Il nome stesso con cui viene designato in Marocco, bu-mohammed, "Quello di Maometto", sembra indice di una particolare considerazione del riccio come colui che è aiutato da Dio. 45. Così va il mondo. Dal testo in lingua tashelhit in Laoust (1922), p. 243, dalla tribù dei Ntifa. Uno degli innumerevoli episodi della saga del riccio e lo sciacallo. Il particolare del pozzo con un animale che esce e l'altro che va a fondo è già presente in Le loup et le renard di La Fontaine (libro XI, fiaba VI). 46. La figliastra e il rìccio. Dal testo riportato in Hans Stumme (1895), n. 27. Un racconto assai simile, in cui un riccio salva alcune persone catturate da un leone, si trova anche nello Mzab (in Delheure 1986, pp. 314-316). 47. La tartaruga. Tradotta a partire dal testo riportato in Hans Stumme (1895), n. 31. C. Grottanelli mi ha fatto rilevare la curiosa coincidenza che si può rilevare con un episodio del racconto mande Surro Sanke riportato nel Decamerone Nero di L. Frobenius (1971, pp. 215 ss.), in cui pure vi è la necessità di mostrare che un teschio è dotato di parola. Se l'eroe di quest'ultima fiaba riesce alla fine ad avere una risposta e a salvare la propria vita, è curioso che il teschio dapprima continui 506
a ripetere: "Perché ho parlato troppo", e alla fine dica solo: "La bocca, la bocca!", quasi che si trattasse della testa tagliata al protagonista del racconto berbero... 48. Da dove vengono le cicogne. Narrata a U. Topper da un pastore degli Zayan. Sono piuttosto frequenti nel mondo berbero le leggende relative all'origine di diversi animali (perlopiù uccelli), visti come esseri umani trasformati nello stato attuale in seguito a qualche loro malefatta. Si veda anche, p. es., la fiaba n. 29 della Parte III. 49. Perché gli asini hanno il muso bianco. Narrata a U. Topper da Erqia, anziana donna della tribù Haha nella primavera del 1985. Ben nota, e addirittura proverbiale in tutto il Nordafrica, la sottomissione degli asini a qualunque percossa, viene spiegata dai Berberi di Ouargla, nel Sahara algerino, come punizione per un'insubordinazione dell'asino del Profeta. Per questa spiegazione, insieme a una versione in poesia della presente storia, si veda Delheure (1988), pp. 246-253. 50. Come si originano le cavallette. Narrata a U. Topper da Erqia, una donna della tribù Haha sulla settantina negli anni '80. Delle leggende relative alla città di Massa ha trattato con una certa ampiezza R. Montagne (1924): sia riguardo ai miti escatologici che prevedono qui la nascita del Dajjal e del Mahdi, sia riguardo alle credenze sulle balene, connesse a un culto, in questa località, del profeta Giona. Entrambe queste credenze, già riportate da Ibn Khaldun (XIV sec.) e da Giovanni Leone Africano (XVI sec.), sembrano avere un'origine assai remota. 51. Gli inizi del mondo. Narrata a U. Topper da un vecchio pescatore della tribù Haha sulla costa atlantica. La storia di Adamo ed Eva è ricordata in diversi punti del Corano (per esempio 2, 30-37; 7, 11-27). Rispetto alla 507
storia biblica, nella tradizione islamica il nome di Caino (Qabil), è ricalcato su quello di Abele (Habil). Anche nel Corano l'angelo ribelle (Iblis) non è punito per aver cercato di rivaleggiare con Dio ma per aver rifiutato di sottomettersi all'uomo. Il racconto aderisce in gran parte al testo coranico (anche per l'episodio di Caino e Abele: sura V, 27-31, dove si parla pure del corvo che fa capire le prescrizioni relative al seppellimento dei morti, secondo una versione di origine, sembra, talmudica). Innovazioni berbere sembrano essere il movente della gelosia per il peccato di Eva e la lunga peregrinazione di Adamo ed Eva separati dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Per altre versioni berbere di queste storie, cf. J. Delheure 1986, pp. 277 ss. (Mzab) e L. Frobenius 1971, pp. 11 ss. (Cabilia). 52. Della caducità dei beni di questo mondo. Dello stesso vecchio pescatore della fiaba precedente. L'episodio è narrato nel Corano, XXXIV, 14 dove viene attribuito a Salomone il fatto di essere rimasto appoggiato al bastone dopo la morte finché un "animale della terra" (termite? verme?) non lo ebbe rosicchiato facendolo cadere. Questo mito è unito a quello della città di Ad, la cui distruzione a opera dei venti è ripetutamente ricordata nel Corano stesso (p. es. XLVI, 21-28). Tale storia viene facilmente accostata alle numerose credenze di una città sotto la sabbia nei pressi di Massa, città da cui dovrebbero uscire, alla fine del mondo, il Dajjal, il Mahdi e Gesù figlio di Maria (cfr. R. Montagne 1924, pp. 112 ss.). A detta di U. Topper, di questo mito esisterebbe addirittura una redazione eseguita solo in una "lingua arcana" (in gebundener Sprache). 53. Il sarto nella città felice. Narrata da Abdullah Unwar a U. Topper, che segnala una versione analoga del XIII secolo, proveniente da Baghdad. In essa, la moglie del darwish cui era toccata questa singolare espe508
rienza gli diede addirittura dei figli, che egli rincontrò dopo molti anni nella sua vita "terrena", il che rafforzava il carattere realistico del racconto. La sostanza del racconto presenta analogie con la fiaba n. 5 o la n. 23 della Parte II (si veda il commento a quest'ultima), anche se qui la trasgressione non è un peccato di curiosità ma di avidità. 54. Aatiallah. Fiaba moraleggiante raccontata a U. Topper da Abdullah Unwar. A giudicare dal tema - l'assoluto abbandono al volere di Dio, senza cercare di intervenire attivamente nei suoi disegni - l'origine è quasi sicuramente sufi. 55. I due fratelli. Favoletta sufi, narrata a U. Topper da un Berbero della regione intorno a Sefru (Medio Atlante). È diffusa in numerose redazioni in tutto il Maghreb, e una sua variante (/ due fratelli che andarono al diavolo) compare perfino in una raccolta di racconti yiddish dell'Europa orientale (Silverman Weinreich 1992, p. 102). 56. Il nome supremo di Dio. Racconto sufi raccolto da U. Topper presso un giovane di Safi. La mistica islamica ha elaborato diverse teorie riguardo i nomi di Dio ("il Clemente", "il Misericordioso", ecc.), fissati nel numero canonico di 99 (in realtà esistono svariate raccolte di 99 nomi da parte di diversi autori, per cui il numero complessivo è di fatto superiore), cui se ne aggiungerebbe un centesimo e sommo, noto solo a pochissimi eletti, la cui conoscenza conferirebbe poteri quasi soprannaturali. Alcuni degli episodi qui riportati compaiono già in una raccolta del mistico yemenita del XIV sec. Abdallah ibn Asad al-Yafi'i (Yafi'i 1993, pp. 61-62 e 149-150). 57. Il santo in Paradiso. Raccontata a U. Topper da un pescatore sulla costa atlantica, tribù degli Haha, in 509
lingua tashelhit. Molto simile è il racconto yiddish Come Giuda Halevi salì in cielo da vivo di Silverman Weinreich (1992) pp. 286-287, n. 129, di lontane origini talmudiche. Il modo familiare - e qui quasi scanzonato - di trattare con lo stesso Padreterno è effettivamente abbastanza caratteristico del mondo giudaico più che di quello islamico, perciò mi sembra che per questo racconto si possa pensare a un'origine ebraica. Non va comunque dimenticato che un'analoga familiarità con Dio è tipica anche del mondo dei mistici musulmani. 58. Nostro signore Khadir. Narrata a U. Topper da un pescatore della tribù degli Haha. Khadir (o Khidr) sarebbe, secondo la tradizione, il personaggio di cui parla - senza farne il nome - il Corano nella sura XVIII, 6582, di cui la prima parte di questa fiaba è quasi una traduzione letterale. Questo personaggio (il cui nome vuol dire "il verde", riconducibile forse a un'antica divinità della vegetazione) è particolarmente caro ai mistici islamici, secondo i quali egli sarebbe il capo soprannaturale dei 40 abdal ("santi") presenti in ogni momento sulla terra (i "quaranta compagni" del racconto). Diverse avventure lo vedono protagonista in Yafi'i (1993), pp. 123 ss. e passim. 59. Jujumajuj. Questa fiaba, come pure le quattro successive, è stata narrata a U. Topper da un pescatore della costa atlantica in lingua tashelhit. Mentre le figure di Gog e Magog (=Jujumajuj) sono diffuse in tutto il mondo islamico, dal momento che ne parla già lo stesso Corano (Sura della caverna, XVIII, 94 e Sura dei profeti, XXI, 96), specificamente berbera sembra la previsione dell'avvento, alla fine dei tempi, di u n a moltitudine di nani. La descrizione di questi esserini, "che possono a stento vedere oltre il bordo del paiolo stando sulla punta dei piedi", coincide in modo impressionante con quella dei nani dell'escatologia cabila, 510
"sette dei quali potranno giocare in un amud (recipiente della capacità di circa 5 litri)". Cfr. C. Lacoste-Dujardin (1993) pp. 363-375. 60. Il drago rosso del Dujjan. Narrata a U. Topper da un pescatore. Questa fiaba aderisce più della precedente all' escatologia musulmana tradizionale (già elaborata a partire dai hadith) che prevede un unico essere mostruoso ribelle a Dio, il Dajjal, in Marocco anche Dujjal/Dujjan (cfr. anche, sopra, la n. 41), cui si opporranno vittoriosamente Gesù, figlio di Maria, e il Mahdi. In Cabilia, il corrispondente Tsejjal può essere un nano, oppure quella moltitudine di nani che nella fiaba precedente sono invece identificati con Gog e Magog. Cfr. C. Lacoste-Dujardin (1993) pp. 363-375. 61. La fine del mondo. Narrata a U. Topper da un pescatore. Tutto il materiale di questo racconto trae spunto da brani coranici. Su Lot, in particolare la sura XXVI, 160-175, dove si parla di "una pioggia: terribile pioggia", alludendo alla pioggia di fuoco che distrusse Sodoma. L' epressione "Non vi erano più donne" del racconto allude probabilmente al peccato dei Sodomiti, ricordato nello stesso brano del Corano: "V'accosterete voi ai maschi di fra le creature? E abbandonerete le spose che per voi ha creato il Signore?"(trad. di A. Bausani, Firenze, Sansoni, s. d. [1961]). Da Noè prende il nome la sura LXXI. Sono ricordati nel Corano anche la bilancia (VII, 8 e LV, 7) e il libro delle azioni compiute (XVII, 13-14). 62. Una profezia. Narrata a U. Topper da un vecchio pescatore nei pressi di Mogador (1973). Su Sidi Megdul e altre credenze e usanze religiose dei pescatori berberi della regione, cfr. E. Laoust (1923). Secondo Topper, il brano che comincia con "Il bel porto sarà allora..." e finisce con "una noce schiacciata dalla zampa 511
di un cammello" potrebbe provenire da Afkir Mohand Awzal, "un celebre veggente morto più di un secolo fa" (alludendo probabilmente all'autore di Awzali 1960). La profezia della venuta da Massa del Mahdi, o Bab-nSa'a ("Signore dell'Ora") è estremamente antica ed è già riferita da Ibn Khaldun nella sua Muqaddima ("Prolegomeni", cap. Ili, § 50) e da Giovanni Leone Africano. Le altre fonti islamiche riferiscono comunque che il Mahdi verrà "da occidente" (cfr. Noja 1988, p. 61). 63. La porta del ravvedimento è ancora aperta. Narrata a U. Topper dal capo di una confraternita religiosa nella piana del Sus. La parola tawba ("ravvedimento") ricorre nel Corano, e dà il nome alla sura IX. Secondo il poeta religioso berbero al-Awzali, vissuto nel XVIII sec. (1960, w. 316-317), la porta del ravvedimento (imi n tubt) per il singolo resta aperta fino ai rantoli dell'agonia. A questo punto la porta del pentimento si chiude; se si fa ancora prova di contrizione, non sarà più accettata e non vi sarà più possibilità di pentimento fino al giorno in cui il sole si leverà a occidente. L'interruzione e l'inversione del corso normale del sole è prevista da molti racconti escatologici. In Cabilia il "rivolgimento della terra" viene però normalmente inteso come un fuoriuscire nel mondo superiore degli esseri del sottosuolo (LacosteDujardin 1993, p. 369). Parte II Le fiabe di questa parte provengono da: MargueriteTaos Amrouche, Le grain magique. Contes, poèmes, proverbes berbères de Kabylie, Paris, Maspéro, 1966. 1. Il chicco fatato. Assai nota in tutta la Cabilia, ma anche altrove in Nordafrica, questa fiaba è stata già pubblicata in numerose raccolte (se ne veda p. es. una 512
versione marocchina al n. 13 della Parte I). La versione più estesa è forse quella di Belaid At Alì ( 1956). La figura della malvagia vecchia Settut (spesso con connotazioni di vera e propria strega) è frequente nelle fiabe cabile. La contrapposizione tra bianchi/liberi e negri/schiavi (quest'ultimo concetto è espresso in berbero da un unico vocabolo, akli), è sempre molto sentita e compare in questa fiaba esaltata al massimo. Il tema umoristico degli animali al pascolo che, commossi, piangono e non possono brucare, tranne uno sordo che ingrassa, è presente anche in altre fiabe. Un'eco di questo tema è inserita nel finale della fiaba marocchina n. 8 della Parte I. 2. Lunja, figlia di Tseriel. Il personaggio dell'orchessa, che in Cabilia assume il nome proprio di Tseriel, è una presenza immancabile nei racconti di tutto il Nordafrica. Il nome proprio Lunja, qui attribuito a una sua figlia (in verità di natura sostanzialmente umana), ritorna sotto varie forme: anche Runja o Nuja - in diversi racconti per denominare la bella che l'eroe va a cercare lontano e strappa a un'orchessa (sul personaggio cfr. ora Michael Peyron, An unusual case of bride quest: the Maghrebian "Lunja" tale and its place in universal folklore, in «Langues et littératures» 5, 1986, pp. 49-66). Non escludo che al nome della protagonista sia connesso quello di Lghunja, una bambola costituita da un mestolo ricoperto di abiti femminili che viene ritualmente portata in processione in periodo di siccità per implorare la pioggia ("Fidanzata di Anzar", dove Anzar è il nome della pioggia). Il fatto che il suo fidanzato in molti racconti venga rapito e sia quasi morto ma poi ritorni in vita è un chiaro rimando agli antichi miti sulla fertilità. L'attraversamento di un fiume facilitato magicamente ai protagonisti del racconto da un uso di parole educate ("dolci") è connesso con un proverbio cabilo: "Con la lingua dolce anche un fiume diventa un rigagnolo". 513
3. Storia della rana. Questa gustosa scenetta ricalca nella sua seconda parte, con toni evidentemente burleschi, il motivo del botta e risposta tra la massima bellezza pennuta (Tannina) e i vari uccelli (e animali), che si trova in Mammeri, Poèmes Kabyles anciens , pp. 227-257 e nella Legende des oiseaux, «Fichier de Documentation Berbère», 83, III, 1964. La rana è considerata il prototipo della bruttezza femminile: si veda il proverbio: "Lo scarafaggio si è sposato: ha sposato la rana". La leggenda vuole che il corvo sia diventato tutto nero per aver tenuto per sé un deposito che gli era stato affidato. 4. Chi di noi è la più bella, o luna?. In questo racconto, su un inizio affine a quello di Biancaneve si inserisce un tema assai diffuso anche tra le fiabe italiane: quello della fanciulla allevata da un essere mostruoso (serpente, drago, lucertolona, donna con testa bovina, ecc.), e da questi successivamente punita - e alla fine perdonata in seguito alla dimenticanza del pettine al momento di sposare un principe. Si veda, p. es., il commento di Italo Calvino (1968) alla storia Testa di bufala, che ricorda come ne sia nota una versione fin dal Seicento nel Pentamerone di Giambattista Basile (I, 8). Interessante la variante presente nelle fiabe dei fratelli Grimm (n. 3, La figlia di Maria), in cui la bellissima fanciulla è allevata dalla Madonna in Paradiso. 5. Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere queste fiamme! Un breve racconto, dalla tematica assai simile a quella della fiaba n. 38 della Parte I. Anche qui una povera vedova riesce, lavorando sodo e impiegando l'astuzia, ad allevare e a salvare dall'orchessa i suoi numerosi figli. Non a caso sia questa fiaba sia quella della prima parte sono state narrate da donne, in quanto tali bene a conoscenza del peso delle incombenze - qui descritte minuziosamente— che ricadono sulle spalle della donna berbera. Sarebbe inconcepibile per il mondo 514
dei maschi, nella società islamica, l'idea di una donna che riesca a cavarsela così brillantemente anche in questi frangenti pur essendo priva dell'assistenza di un maschio adulto (padre, marito o fratello). Il racconto costituisce dunque una sorta di compensazione gratificante per le donne che lo narrano e si rispecchiano nelle azioni della protagonista, eroica sia nelle fatiche quotidiane sia in circostanze fuori dall'ordinario. Un interessante parallelo a questa storia si ha tra i Tuareg, i quali tramandano la vicenda di una colossale e bellissima jinniya (in tuareg talhint), che sarebbe comparsa a un uomo di nome Shisshi e ne avrebbe copiato pedissequamente ogni gesto, compreso quello - fatale per la sua capigliatura - di porsi in capo un tizzone acceso. Ancora oggi essi chiamano "jinniya di Shisshi" chiunque sia solito imitare sempre ciò che fanno gli altri (Le génie de Cicci, in Foucauld 1984, pp. 294-295). Questa stessa entità misteriosa è nota a Ouargla come Tswirìyet, "L'Immagine" o, forse meglio, "Il Miraggio" ed è assai temuta. Anch'essa ripete (riflette?) ogni azione e può essere vinta inducendola con l'inganno ad accostarsi a braci ancora accese (J. Delheure 1988, p. 369). 6. La mucca degli orfanelli. Su questa fiaba, assai diffusa in tutto il mondo berbero, cfr. il commento a quella corrispondente raccolta in Marocco, Parte I, n. 43. Nel corso del racconto viene accennato un proverbio che la stessa Amrouche riferiva altrove per esteso: "Come il piccolo dell'asino: al mattino incanta; a sera delude". La fata-guardiana del pozzo, che si incontra nella storia, ricorda la credenza assai diffusa in Cabilia, secondo la quale ogni cosa, soprattutto nell'ambito della casa o delle sue adiacenze, sarebbe posta sotto la cura di un A'essas ("Guardiano"), il quale la custodisce per conto di Dio, che ne è l'unico vero proprietario, mentre gli uomini l'hanno solo in affidamento temporaneo. Normalmente invisibili, i Guardiani possono prendere 515
dimora in rocce o piante particolari, che divengono oggetto di mille riguardi. 7. La principessa Sumisha. L'espressione "occhi di falco" indica particolare bellezza dello sguardo. Il falco (Lbaz) è in Cabilia considerato un uccello quasi fiabesco, degno sposo della mitica Tanina, simbolo di suprema bellezza tra tutti gli animali. In questo racconto sono presenti, oltre a motivi originali, anche numerosi "luoghi comuni" della favolistica berbera. Per esempio, lo stratagemma di immergere nell'acqua bollente la mano della persona (spesso una vecchia) da cui si desiderano ottenere informazioni, oppure il racconto della statua muliebre portata alla vita e contesa tra gli uomini che hanno contribuito a costituirla, già visto in una fiaba marocchina (Parte I, n. 34) e presente anche, più estesamente, nella n. 19, più avanti. 8. Il flauto d'osso. Un tratto interessante di questa fiaba (come pure della n. 11 e della n. 22) è l'assenza delle formule di rito all'inizio e alla fine ("Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!" e "Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!"), il che fa capire che questa non viene intesa come una vera e propria fiaba, bensì come la narrazione di un fatto realmente accaduto. L'elogio fra virgolette che la madre fa del figlio più grazioso "la sua bellezza si fa beffe degli ornamenti, essa illumina i sentieri" proviene da una ninna-nanna che nel libro di T. Amrouche era riportata per esteso dopo la fiaba n. 10: Stella del mattino, te ne prego, Percorri i cieli / Alla ricerca del mio bambino / E raggiungilo là dove riposa. // Lo troverai ancora nel sonno: / Sistemagli delicatamente il cuscino / E guarda che non gli manchi nulla. / Il Signore lo ha creato pieno di grazia, / La sua bellezza si fa beffe degli ornamenti, / Essa illumina i sentieri. 516
9.I cavalli di lampi e di vento. A proposito dell'epiteto del cavallo, anche in una fiaba raccolta da Mokrane Chemime, Adar iteddu s azar, 1991, p. 32 (Mhemmed At Seltan) si descrive una cavalcatura "le cui zampe anteriori sono (veloci come) il vento, quelle posteriori (come) il lampo". 10. Lo sveglio e il sempliciotto. Interessanti confronti si possono fare con la fiaba n. 15 della Parte I, dove il tema è più esteso rispetto al nostro, che assume un semplice aspetto di racconto didascalico sulla necessità dell'obbedienza, unita al "tutto è bene ciò che finisce bene". 11. Mia madre mi ha sgozzato, mio padre mi ha mangiato, mia sorella ha radunato le mie ossa. Anche qui (come nelle fiabe n. 8 e n. 22) l'assenza delle formule di rito all'inizio e alla fine fa capire che questa non viene intesa come una vera e propria fiaba, bensì come la narrazione di un fatto tragico realmente accaduto. Un episodio analogo si ritrova nelle fiabe dei fratelli Grimm (n. 47, Il ginepro), e perfino tra i racconti yiddish dell'Europa orientale. Cfr. la fiaba di Moyshele e Sheyndele in Silverman Weinreich (1992), n. 24, col ritornello « Ucciso da mia madre, mangiato da mio padre e da Sheyndele: quando ebbero finito, mi succhiarono il midollo dalle ossa e le buttarono dalla finestra». Un'analisi di questo tema del cannibalismo parentale e della reincarnazione del bimbo in un uccello, sulla scorta anche delle versioni internazionali, in S. Zoulim, Du cannibalisme parental. A propos de l'oiseau funebre, in «Libyca» 28-29 (1980-81), pp. 193-197. 12. La quercia dell'orco. Questa versione nordafricana della storia di Cappuccetto Rosso è interessante perché si pone in certo qual modo a metà strada tra la fiaba europea e un racconto dall'aspetto decisamente autoctono, anzi considerato estremamente antico co517
me quello della fiaba n. 1 della Parte I. Questa ambivalenza tra fiabe di aspetto originale e possibili contaminazioni con tradizioni anche assai lontane è costante in quasi tutti i racconti del Nordafrica. Il vecchio che la fanciulla va a visitare è qui suo nonno, mentre nel ritornello usato per farsi aprire la porta si parla di un "padre". Questo ritornello, riportato per esteso nel «Fichier périodique» del 1976 in appendice a una versione della fiaba assai simile (in cui però si parla sempre di un padre e una figlia), è diventato molto popolare presso i giovani da quando è stato musicato dal cantante Idir (Canciani 1991, p. 130). 13.I sette orchi. Sul tema del tradimento dell'eroe da parte di una donna in combutta con un orco creduto morto, cfr. anche la fiaba n. 14 della Parte I. Il trucco con cui l'eroe riesce a sfuggire all'ira dell'orchessa ricorre frequentemente nelle fiabe nordafricane. Esso si basa sulla condizione di "parentela di latte" che si viene ad acquisire con la balia. Bastano poche gocce per instaurare un rapporto per molti versi simile a quello tra madre e figlio. Ancora oggi tra due persone di diverso sesso che hanno avuto la stessa balia il matrimonio è impensabile, come tra fratello e sorella. 14. Storia del baule. Il genere letterario dell'indovinello è assai diffuso in tutto il territorio berbero e in particolare in Cabilia. Per un quadro generale della situazione si possono consultare ora i tre volumi di Devinettes berbères curati da Fernand Bentolila (1986), che contengono materiale proveniente dal Marocco (meridionale, centrale, Rif), dall'Algeria (Cabilia e Mzab) e dai Tuareg di Niger e Mali. Tra gli indovinelli contenuti in questo racconto, non può non destare una certa impressione quello che riecheggia la domanda che la Sfinge pose a Edipo. Che difficilmente si tratti di una aggiunta di Fadhma o Taos Amrouche - dotate entram518
be anche di una profonda conoscenza della cultura classica - emerge dal fatto che nel corso della succitata indagine curata da Bentolila un identico indovinello è stato raccolto, dalla bocca di "illetterati", in quattro località berbere ben distanti tra loro (Rif, Niger, Mzab, Cabilia), e questo sembra rimandare con ogni verosimiglianza a un'antichissima tradizione del mito. Quanto all'intreccio complessivo del racconto - un duello a colpi di astuzia tra il re e la regina, con la conclusione favorevole a quest'ultima, che, scacciata, stordisce e porta con sé il marito -, esso è molto diffuso anche in Europa. Una versione italiana si può trovare nella III delle Sessanta novelle popolari montatesi di Gherardo Nerucci (1891), anch'essa - non a caso - narrata da una donna. Una versione yiddish si trova in Silverman Weinreich (1992), pp. 203-205. 15. O Bu-Iedmim, figlio mio! Un altro "classico" della letteratura orale cabila, già riportato, tra l'altro, da Belaid At Alì (1956) e da M. Mammeri in Machaho!... (1980). L'inizio presenta strette analogie con l'avvio della fiaba n. 8 della Parte I (Aggelamush), che peraltro appare composita e contiene anche il materiale del gatto Mosh (qui col n. 17). Il tema delle uova di serpente inghiottite da una cognata che si schiudono nel suo corpo e l'eliminazione dei serpentelli dalla bocca della donna appesa a testa in giù si ritrova già nella n. 219 delle Trecentonovelle di Franco Sacchetti (fine del XIV sec.). 16. Storia del vecchio leone e dello stormo di pernici. Altra coppia "classica" nella favolistica berbera è quella formata dal leone e dallo sciacallo (cfr. anche la n. 18 della Parte III), in cui lo sciacallo sfida con l'inganno l'autorità del leone e ricorre a ogni trucco per sfuggire (non sempre con successo) alla punizione. Il trucco della coda tagliata è diffuso in tante versioni (p. es. Justinard 1926, pp. 46 ss., ma anche in La Fontaine: Le re519
nard ayant la queue coupée, libro V, fiaba V); nella fiaba n. 12 della Parte III si vedrà un altro modo di fuggire alla punizione. In evidente connessione con questo racconto il proverbio cabilo: "Il leone invecchiato dagli sciacalli è picchiato". 17. Storia di Mosh e delle sette fanciulle. A differenza della fiaba marocchina n. 8 della Parte I, qui sono sette sorelle quelle che finiscono per godere delle ricchezze di questo "gatto mammone" berbero. È interessante osservare come la prerogativa della protagonista, Aisha, fosse quella di starsene tutto il giorno accanto al fuoco, che è una ben nota caratteristica dei gatti, ricordata in un indovinello cabilo: hanùn/zanùn/ur yetfaraq tiggura l-lkanùn ("È dolce/fa le fusa/e non si stacca dall'angolo del focolare"). Sui gatti, con riferimento anche alle vicende di Mosh, vi è in Cabilia anche il proverbio: '"Chi è il tuo testimone, gatto?' 'La mia coda'". 18. Storia della pulce e del pidocchio. Questo racconto, che è in verità il pretesto per una filastrocca "ad accumulo", ricorda molto Pidocchietto e Pulcettina, fiaba n. 30 della raccolta dei fratelli Grimm, e trova un'interessante corrispondenza in una filastrocca siro-libanese raccolta, oltre un secolo fa, da H.H. Jessup (1874, pp. 321-325). Qui è la "nobile pulce" (noble Flea) che è finita nel fuoco ed è una "distinta cimice" (brilliant Bug) che intona il lamento, cui si uniscono, con drammatici atti di cordoglio, un corvo, una palma, un lupo, un fiume, un pastore col suo gregge, una madre col padre e la figlia, nonché tutta la città. 19. Runja, la fanciulla più bella della luna e della rosa. Il particolare iniziale della mela da mangiare solo in parte per ottenere la nascita di un figlio si ritrova in numerose altre fiabe cabile. Solitamente a questa consumazione parziale del frutto corrisponde la nascita di 520
un bimbo particolarmente piccolo (ma astuto e audace), tant'è che spesso l'eroe di tali fiabe è soprannominato "metà", "dimezzato" o simili. Il tema del racconto della statua portata in vita, narrato per far tornare la parola a un principe (o una principessa), è assai diffuso in Nordafrica (si veda la fiaba n. 34 della Parte I o la n. 7 di questa), e la sua diffusione arriva fino in Europa orientale, dove esso è attestato, per esempio, nella fiaba yiddish Saggezza o fortuna?, in Silverman Weinreich (1992), p. 27. È notevole osservare lo stretto accordo di quest'ultima versione con quella del presente racconto, dal momento che anche in essa, il narratore non si rivolge direttamente al malato ma ostenta di parlare a un candeliere. Il "gioco delle arance", ancora oggi diffuso tra i giovani in Cabilia, consiste nel far rotolare delle arance come fossero bocce su un terreno più o meno inclinato. Colui che con la sua arancia riesce a colpirne un'altra si impossessa di tutte le arance già giocate. Il nome del protagonista, Smain, e i toni quasi mistici con cui egli dichiara ripetutamente: "Si compiano la volontà di Dio e quella di mio padre!" fanno pensare che in questa fiaba si siano innestati, su un racconto sostanzialmente analogo a quello della n. 4 della Parte I, elementi della storia di Ismaele (in cabilo: Smail, ma spesso vi sono scambi -U-n finali, p. es. l'angelo Azrail/Azrain), primogenito lungamente atteso da Abramo e da questi condotto al sacrificio: secondo la tradizione islamica fu lui, e non Isacco, che venne sottoposto a questa prova (Corano XXXVII, pp. 101 ss.). Una bella composizione poetica cabila incentrata su questo sacrificio è riportata da M. Mammeri nella raccolta Poèmes Kabyles anciens, pp. 272 ss. 20. Storia di Belàjudh e dell'orchessa Tseriel. Le vicende del personaggio di Belàjudh (o Bel Ajjud; in Marocco anche Hamerqejjud) corrispondono in parte a quelle 521
dell'eroe cabilo Meqidesh, che si misura anch'egli con un'orchessa cieca e con sua figlia guercia. A quest'ultimo è dedicata un'approfondita analisi da parte di Lacoste-Dujardin (1982). Rispetto al furbo Meqidesh, Belàjudh è più sventato e sciocco. Un parallelo assai stretto si ha col Pierino Pierone che è II bambino nel sacco nella omonima fiaba italiana (per la precisione friulana) della raccolta di I. Calvino, dove, per motivi di latitudine, l'albero da cui l'eroe si prende gioco della strega non è un fico ma un pero. 21. Il gatto pellegrino. Fin dall'antico Egitto l'eterna lotta tra gatti e topi ha dato lo spunto a fiabe e leggende. Una vicenda analoga alla nostra è Le chat et le vieux rat di La Fontaine (libro III, fiaba XVIII). Uno studio specifico su questo racconto e sulla sua collocazione nel panorama delle letterature è: El-Mostafa Chadli, "Le chat pélerin": un essai de traitement sémiotique", in «Langues et littératures» 2, 1982, pp. 29-46. 22. Il fegato del cappuccio. Che questo racconto non venga inteso come una vera e propria fiaba, bensì come la narrazione di un fatto tragico realmente accaduto non è solo desumibile dall'assenza delle frasi di rito all'inizio e alla fine (come nelle fiabe n. 8 e n. 11), ma è esplicitamente segnalato nell'introduzione. Il modo in cui le madri cabile sono pronte a ogni sacrificio pur di accontentare i propri figli è proverbiale, come ricorda il detto: "Il figlio di una Cabila sta meglio del figlio di un re". 23. L'Uccello della Tempesta. Nonostante un contesto a prima vista differente, questa fiaba si può considerare una riuscita versione (al femminile) di Ahmed U-nAmir (n. 5 della Parte I): anche qui vi sono infatti le nozze con un'personaggio misterioso e restio a farsi vedere, il trasporto in una splendida dimora celeste, la 522
trasgressione all'unico divieto imposto e un finale amaro per il/la protagonista. E come quest'ultima fiaba, è suscettibile di u n a lettura allegorica (la condizione umana dopo il peccato di Adamo ed Eva). Parte III Le fiabe di questa parte sono state tradotte dai testi tuareg pubblicati in: Dominique Casajus, Peau d'àne et autrescontes Touaregs, Parigi, L'Harmattan,1985 (nn. 1-9); Petites Sceurs de Jésus, Contes touaregs de l'Air, Parigi, SELAF, 1974 (nn. 10-31); Adolphe Hanoteau, Essai de grammaire tamachek', Algeri, 1859 (nn. 32 -35). 1. Tesshewa, la fanciulla sposata dal fratello. Raccolta presso Ghaisha Ult Khamed, detta Tata, degli Iberdiyanan, una tribù vassalla dei Kel Ferwan (Air). L'inizio della storia presenta molte analogie (ritrovamento di un capello, nozze col fratello e fuga) con un racconto cabilo, Zalgoum, presente nella raccolta Tellem chaho di M. Mammeri (1980), il cui seguito tuttavia è differente. In un'altra versione di Zalgoum, pubblicata nel «Fichier Périodique» del 1976, compare anche - abbreviato - il particolare della ragazza che si riveste prima di uscire dal suo rifugio. Quello che è stato qui tradotto con "pettine" è in realtà uno strumento per dividere le ciocche di capelli prima di fare delle treccine, che costituiscono di solito l'elemento fondamentale dell'acconciatura maschile tradizionale, lasciando tuttavia rasata gran parte del capo. 2. Il rapimento di Khawatan. Raccolta nel 1980 presso Adama, artigiana di Tedu (vicino ad Agadez). Presso i Tuareg è assai diffusa la credenza nell'esistenza di esseri giganteschi, denominati jabbar, che sarebbero una categoria particolare di jinn caratterizzata dalle dimensioni 523
enormi. Questa credenza è rafforzata, se non originata, dall'esistenza, in diverse località del Sahara, di enormi "monumenti" costituiti da tumuli di pietre di varie forme e grandi dimensioni (edebni) che per la loro forma fanno pensare a tombe di giganti (per esempio la Tomba di Tin Hinan ad Abalessa). Scavi archeologici compiuti su alcuni di questi monumenti mostrano che effettivamente essi di solito contengono sepolture preistoriche. 3. La bellissima Teylalen e il jinn. Raccolta nel 1980 presso Kauja, degli Iberdiyanan. Il particolare dei ragni che con la loro tela sottraggono l'eroe alle ricerche dei nemici è assai antico e diffuso. Ben nota in tutto il mondo islamico è la vicenda di Maometto che, nel corso dell'egira, in fuga con il suo compagno Abu Bakr, avrebbe trovato riparo in una caverna al cui ingresso un ragno tessè miracolosamente una tela in pochissimo tempo sviando le ricerche dei Coreisciti (cfr. al-Tabari 1992, p. 125). È poi caratteristico di molte fiabe berbere che l'eroina in fuga si sottragga all'orchessa o al jinn attraversando il fiume. Il carattere selvatico di questi personaggi non consente loro di nuotare (cfr. Parte I, n. 6). 4. Khayatan, la fanciulla venduta dai fratelli a un jinn. Narrata nel 1977 a Makhmud Khawad da Khaled Mokhamed. Interessante è qui la digressione sul valore del ferro come protezione dai jinn e dai cattivi spiriti. È tale la considerazione delle proprietà del ferro che la sua lavorazione viene delegata, nella società tuareg, a una particolare "casta", quella degli inaden (quelli che in questi racconti vengono chiamati "artigiani", ma spesso il termine viene tradotto con "fabbri" per sottolineare questo loro monopolio della lavorazione dei metalli). Tale credenza non è limitata ai soli Tuareg ma è assai estesa nel mondo berbero. Diffusissima è, per esempio, la pratica di porre oggetti di ferro accanto a 524
un defunto per evitare danni a lui o alla sua famiglia. Engal, qui nome proprio del cammello, significa "cammello grigio scuro", ed è usato come nome comune per descrivere il cammello di Deriman nella fiaba n. 2 di questa Parte III. 5. Ayor e Tayort. Raccolta nel 1979 presso Tazubila Ult Delu, artigiana di Gufat. In tuareg ayor significa "piccolo di gazzella" maschio, e tayort è il suo femminile. Per il contesto originario dello strano "interrogatorio" iniziale con risposte strampalate, privo di una sua funzionalità in questo racconto, si veda più avanti la fiaba n. 28. Il particolare di Tayort che scopre il bel seno al momento della mungitura è legato alla credenza che la vista delle cose belle predisporrebbe gli animali a produrre di più e meglio (per l'antichità di queste credenze si veda p. es. l'episodio biblico di Gen. 30, 35-41). Il motivo dell'animale più brutto e debole, che riesce là dove hanno fallito esemplari ben più prestanti è piuttosto diffuso nelle fiabe berbere. Lo si è già incontrato, per esempio, nella n. 8 della Parte I. 6. La fanciulla maltrattata dal padre. Raccolta presso la narratrice della fiaba precedente. Per il motivo della mucca cui è affidato il sostentamento dell'orfanella, cfr. la fiaba n. 43 della Parte I e commento relativo. Nel corso del racconto si ricorda che "le schiave montarono la tenda, ed essa vi si andò a stabilire con il marito e con le sue schiave". La tenda nuziale è un elemento fondamentale per le donne tuareg: essa appartiene a loro e non al marito (che in caso di separazione dovrà tornare a quella dei genitori o farsi ospitare da una sorella). Le molteplici implicazioni culturali della tenda presso i Tuareg sono al centro del saggio di Casajus (1987). 7. La fanciulla e la matrigna cattiva. Raccolta nel 1977 presso Bogenda, schiavo degli Iberdiyanan. Molto 525
chiara è in questa fiaba l'equazione tra natura selvaggia e mancanza di cura personale, per cui cessando di pettinarsi i capelli la fanciulla perde quasi del tutto la natura umana, mentre il taglio del pelame, unito agli agi della civiltà (l'interno di una tenda), basta a ridonarle un aspetto umano. 8. Kutyanga, il fratellino astuto e la vecchia jinniya. Raccolta nel 1979 presso Emuman, artigiano dei Kel Tisemt. È la versione tuareg del celebre racconto cabilo di Meqidesh, cui è dedicata un'approfondita analisi da parte di Lacoste-Dujardin (1982). 9. Tersheddat e le sue compagne gelose . Raccontata nel 1989 ad Agadez da un'artigiana. Presenta molti punti di contatto con la n. 1, anche se vi figurano elementi dei racconti successivi. Nel suo complesso richiama anche molte altre fiabe berbere, come La jeune fille et ses six soeurs di Ouargla (Delheure 1989, pp. 118 ss.), in cui le nozze finali avvengono con una cagna invece che con un'asina. 10. Lo sciacallo e la lepre. Raccontata a Niamey nel 1963 da Mokhammed Ag Ghali. Nella prima parte contiene diversi elementi frequenti nelle storie del genere della n. 25, in cui due imbroglioni fanno società e tentano continuamente di ingannarsi a vicenda (tipica in particolare la sostituzione del contenuto dei sacchi). 11. La iena e la lepre. Raccontata a Niamey nel 1963 da Mokhammed Ag Ghali. Racconto basato sul gioco di parole col nome del protagonista (il più illustre antecedente ne è l'omerico Ulisse-Nessuno). Frequente anche in altre fiabe è lo stratagemma di squagliarsela facendosi buttare via, vuoi - come qui - facendo scambiare le orecchie con i sandali, vuoi facendo finta di essere morto. Nei racconti cabili del genere di Meqi526
desh è invece tipico far credere che la gamba afferrata dall'avversario sia in realtà una radice. 12. L'elefante e lo sciacallo. Raccontata a Niamey nel 1963 da Mokhammed Ag Ghali. Come nelle fiabe n. 13 e n. 16, nell'ordalia conclusiva emerge quella competizione tra i due predatori, lo sciacallo e la iena, che vede di solito quest'ultima soccombere allo sciacallo. Nella società tradizionale tuareg chi era chiamato a discolparsi di una grave accusa doveva affrontare una prova del fuoco come leccare lame arroventate, camminare sul fuoco o immergere una mano nell'acqua bollente. 13. Lo sciacallo, l'otarda e la iena. Raccontata a Niamey nel 1963 da Akru. Dai due episodi che compongono il racconto, emerge una gerarchia di astuzia (l'otarda che batte lo sciacallo, il quale a sua volta sconfigge la iena), inversamente proporzionale al grado di antipatia (e pericolosità) che i Tuareg attribuiscono ai singoli animali. 14. Lo struzzo e il riccio. Raccontata a Niamey nel 1963 da Akru. Racconto sostanzialmente simile a La lepre e il porcospino, n. 188 della raccolta dei fratelli Grimm, dall'andamento praticamente identico. Notevole come tra gli animali prescelti vi sia accordo riguardo al riccio, mentre il secondo è sempre l'animale veloce per antonomasia, vale a dire la lepre in Europa e lo struzzo in Africa. 15. Lo sciacallo e lo struzzo. Raccontata ad Azel nel 1969 da Zennu. Contrariamente agli altri racconti dello sciacallo (con il riccio, il leone, la iena, ecc.), solitamente ben rappresentati anche nel resto del mondo berbero, questo della gara di salto fatta con lo struzzo non sembra molto diffuso al di fuori dell'area tuareg e saheliana. 527
16 .La iena e la zucca. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Una variante originale alle numerosissime fiabe che si concludono con il rivale nel pozzo. (Come la n. 45 della Parte I, più aderente al modello tradizionale). 17. Il leone e l'asino. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. In questa favola il cuore viene usato come simbolo del coraggio. Noi diremmo il "fegato" (benché "coraggio" derivi proprio da "cuore"). Presso i Berberi "cuore" e "fegato" sono termini spesso intercambiabili nell'uso figurato, e non è raro l'uso di "fegato" come sede dell'affetto e della tenerezza. (Ciò spiega anche meglio il perché della presenza del fegato nella fiaba n. 22 della Parte II.) 18. Lo sciacallo e il leone. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Benché diversa nella concatenazione dei fatti, questa fiaba ricorda molto la n. 16 della Parte II, con un leone non tanto furbo in balia dei tiri di uno sciacallo. Sempre dello stesso genere la fiaba n. XIV (libro III) di La Fontaine Le lion devenu vieux. 19. Lo scoiattolo scavatore e l'elefante. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Dogo. Questo modo di ribaltare una sentenza ingiusta e basata su pretese assurde avanzando pretese altrettanto assurde è estremamente antico nella tradizione favolistica nordafricana. Già dall'antico Egitto ci è nota la storia di Verità e Menzogna, in cui l'onesto vede riconosciuta la propria innocenza solo quando il figlio incolpa il suo accusatore di delitti altrettanto assurdi. Per una situazione analoga, cfr. la n. 26 della Parte I. 20. Il leone e la capra. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il miele di cui tratta la storia è 528
miele d'api, benché tra i Tuareg sia più comune un miele vegetale estratto da certe varietà di tamerice. 21. Il gallo e lo sciacallo. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Fiaba sostanzialmente identica a Le coq et le renard di La Fontaine (libro II, fiaba XIV). Il termine impiegato per il richiamo del mattino ha solitamente il valore specifico di richiamo (da parte del muezzin) alla preghiera dell'alba. Il gallo e il pollame in generale sono tradizionalmente considerati un cibo tabù dai Tuareg, e la spiegazione che viene data per questo interdetto alimentare è proprio che questo animale servirebbe per il richiamo alla preghiera dell'alba nel deserto, dove non si trovano muezzin. 22. La piroga. Raccontata a Niamey nel 1963 da Akru. Un ben noto racconto-indovinello, di probabile origine scolastica per via del calcolo dei pesi (espressi in chili) invece della più diffusa prova di ingegno su come traghettare indenni un lupo, una capra e un cavolo o simili. 23. Il mentitore. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il tema dei due fratelli, uno dei quali dice sempre il vero mentre l'altro mente sempre, è antichissimo. Lo troviamo, infatti, già nella letteratura dell'antico Egitto, nel racconto L'accecamento di Verità per opera di Menzogna (benché poi la trama sia assai diversa). 24. Il figlio del re e il figlio del povero. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il tema della fiaba sarebbe molto diffuso, a detta di G. Calame-Griault, tra i Tuareg e in Africa occidentale. 25. L'uomo di Kano e l'uomo di Katsina. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il tema dei due furbacchioni disonesti che si incontrano e cercano 529
sempre di giocarsi dei tiri mancini è assai diffuso. A Ouargla esso è stato inserito nel ciclo di Juhà (Djeha de Ouargla et Djeha de Ngouga) con uno svolgimento in gran parte identico a questo racconto tuareg (Delheure 1988, pp. 278 ss.). Kano e Katsina sono due città della Nigeria verso le quali si dirigono a volte i commerci dei Tuareg (in particolare, a Kano si producono i tessuti color indaco del caratteristico velo degli "uomini blu"). Il motivo del finto seppellimento è frequente nei racconti tuareg, e vi è addirittura un gioco infantile per mostrare il proprio coraggio ( m u d d u r a n - m u d d u r a n ) che consiste nel farsi coprire di sabbia e resistere il più a lungo possibile sotto terra. 26 .La coperta. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Appartiene, come la fiaba n. 32, la n. 35 e la n. 39 della Parte I, a quel genere che si compiace di descrivere le astuzie femminili nei confronti degli uomini. Vi sono qui però alcune interessanti particolarità: innanzitutto, la casa in cui nessuno riesce a superare vivo una notte: un motivo assai diffuso (nelle Fiabe italiane di Calvino è il motivo conduttore di Giovannin senza paura), che tuttavia solo qui presenta come deterrente non un orco o un'oscura presenza bensì il pericolo di "morire d'amore"; inoltre vi è l'elemento moderno delle fotografie, che mostra come le fiabe non rimangano immutabili al di fuori del tempo ma integrino progressivamente elementi del mondo circostante. 27.I tre pretendenti della figlia del capo. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Tambo. Notevolissime le congruenze con la fiaba n. 193 dei fratelli Grimm II ladro maestro, dove il furbacchione, nell'ultimo episodio, invece di fingersi l'angelo Gabriele, si spaccia per San Pietro. L'unico particolare divergente è il quadro generale: una dimostrazione di abilità fine a se stessa invece che mirata a ottenere la mano della figlia del ca530
po del villaggio. Tale quadro generale (tre fratelli uno dei quali ottiene in sposa la figlia del re) è invece presente nella fiaba n. 33 II maestro ladro di Silverman Weinreich (1992), anche se qui le singole prove sono assai differenti. Il particolare del furto del lenzuolo si trova anche in una fiaba piemontese (Crich e Croch, in Davico Bonino 1988, 12). 28. Il sacco di menzogne. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il genere di fiaba "assurda" in cui si accumula una serie di fatti insensati non è frequente nel mondo berbero, mentre è tipica della tradizione yiddish, in cui simili racconti solevano essere fatti per la festa di Purìm (cfr. Silverman Weinreich 1992, pp. 41 s. Nella stessa raccolta, a p. 135, vi è il caso di un personaggio costretto a riempire un sacco di parole. Benché in modo diverso, anche qui l'eroe riesce a cavarsi brillantemente d'impaccio). 29. La civetta. Raccontata ad Azel nel 1969 da Zennu. Un'altra fiaba (come la n. 48 della Parte I) in cui l'origine di un dato animale viene fatta risalire alla mutazione subita da un essere umano come punizione di un torto commesso. Il motivo dell'uomo innamorato che cede metà della propria vita restante (in questo caso vent'anni su quaranta) alla moglie che ciononostante lo tradisce si trova anche in Cabilia: Aini in Frobenius (1971), pp. 45 ss. 30. Chi è il più onesto? Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Dogo. Fiaba a dilemma, diversa nel dettaglio ma simile nella sostanza, in particolare per via dell'interrogativo finale, a Les deux amis di La Fontaine (libro Vili, fiaba XI). 31. Le persone nel pozzo. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Altra fiaba a dilemma, piuttosto 531
diffusa nell'area tuareg e nell'Africa occidentale. G. Calame-Griaule segnala - nel volume da cui è tratta la fiaba - che altrove il dilemma è di solito tra la sorella e la moglie (qualche volta tra la sorella, la moglie e la suocera). Qui è molto ben inserito anche il timore dell'uomo per la propria stessa vita. 32. La donna e il leone (di Salem ag Mohammed, tribù degli Isaqqamaren, Ahaggar). Questo racconto, come pure il successivo, vale a illustrare proverbi e modi di dire diffusi tra i Tuareg, ma anche presso altre popolazioni berbere. Che una ferita nel fisico guarisca molto meglio di un'offesa nell'animo è proverbio noto anche altrove in Nordafrica, per esempio in Cabilia: "Le ferite si cauterizzano e guariscono; le ingiurie scavano e scavano sempre di più". Sempre in Cabilia si hanno echi della presente storiella in alcuni proverbi: "È in assenza del leone che si dirà che la sua bocca ha un cattivo odore", oppure: "Chi oserà dire al leone: 'La tua bocca ha un cattivo odore?'". 33. La massima da cento monete d'oro (di Bedda ag Idda, tribù degli Ifoghas, Azger). Anche la massima proverbiale al centro di questo racconto è diffusa altrove in Nordafrica, per esempio in Cabilia: "È preferibile coricarsi col dispiacere che risvegliarsi col rimorso". Una versione assai simile, che prevede l'acquisto di tre massime, di cui l'ultima e più importante suona: "La superbia della sera (as)serbala alla mattina", compare in una raccolta toscana del secolo scorso: Nerucci (1891), n. 53,1 tre consigli. 34. L'uomo che cercava il paese dove non si muore (di Bedda ag Idda, tribù degli Ifoghas, Azger). Il mito dell'uomo alla ricerca di un mezzo per assicurare l'immortalità a sé e ai propri cari è antichissimo e assai diffuso, da Gilgamesh in poi. L'inevitabile fallimento è qui 532
presentato con un'ironia che ne rende più agevole l'accettazione. 35. La storia di Ammamellen e di Elias. La fiaba è stata tradotta a partire dalla versione tuareg del nord (Azger) riportata da Hanoteau, n. 7, pp. 146 ss. Il particolare della predizione iniziale, necessario per una migliore comprensione del racconto, è aggiunto sulla scorta della versione presente nella raccolta di ag-Khamidun, p. 72. Tutte le popolazioni tuareg conoscono un ciclo di racconti su Ammamellen (noto anche col nome di Aligurran o Arigullan), cui vengono riconosciute grandi doti di intelligenza e astuzia, in eterna competizione col nipote Elias (altrove: Edeselegh) che finisce per sconfìggerlo proprio su questo terreno. Tra le numerose prove che quest'ultimo deve superare, non mancano episodi di astuzia già conosciuti anche in altre tradizioni, anche assai lontane nel tempo e nello spazio. Per esempio, un'identica capacità di indovinare caratteristiche e difetti fisici di un cammello da pochi indizi sul terreno veniva già attribuita dal persiano al-Tabari (morto nel 923) ai figli di Nizar, uno degli antenati di Maometto (Tabari 1992, p. 26). Il tentativo di uccidere il concorrente scagliandogli una lancia che viene schivata, seguito dal riconoscimento della sua superiorità, presenta una sconcertante analogia con l'episodio biblico di David e Saul (1 Sam. 18, 10-13). Per una prima valutazione complessiva del ciclo di Ammamellen ed Elias, si veda M. Aghali-Zakara-J. Drouin (1979), pp. 89 ss.
533
Indice
VII XXIII XXVI
Introduzione Bibliografia Glossario FIABE DEL POPOLO TUAREG
Parte I
F i a b e dei Berberi del M a r o c c o Fiabe di incantesimo 5 9 13 22 28 32 37 41 58 61 73 78 82
1. Il mostro 2. L'acqua che non cade dal cielo e non sgorga dalla terra 3. Il mercante, l'ifrit e i tre vecchi 4. Il principe Mohammed, che rapì la figlia del capotribù dei nomadi 5. Ahmed U-n-Amir 6. Il re con un figlio bianco e uno nero 7. L'uccello bianco e l'uccello nero 8. Aggelamush 9. La donna che venne rapita da un jinn 10. L'uomo con la pipa 11. La figlia del jinn 12. Il jinn di Imzuwurt 13. La negra con i due gomitoli 537
85 87 93
14. I due fratelli e ì'ifrit 15. L'uomo che avrebbe dovuto seminare fave 16. L'uccello dalle uova d'oro Racconti
98 103 104 107 109 111 113 114 116 118
17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 120 27.
L'Uomo e il Gigante Il fabbricante d'oro Il contadino e il re Il pescatore che andò dal re La schiava furba Il medico saggio Un saggio consiglio La grossa eredità La guarigione dall'avaro Il cadì e il cacciatore Lo strano dono nuziale
Storie facete 124 28. Il sultano e i Berberi 125 29. Il maestro di Corano tra i Berberi 126 30. I Figli dell'Avarizia 128 31. La pelle magica Storie di donne 137 140 143 149 150 151 152 154 156 157 158 538
32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42.
Il potere delle donne Lalla Maghnia La principessa Gazzella L'astuta Aisha La moglie innamorata Il magico cuscus La povera donna e l'orchessa Le donne astute Come fu che il garzone mangiò a sazietà L'adulterio La bella donna
Storie di animali 160 162 163 163 166 166 167 168
43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50.
La mucca dei due orfanelli Il riccio e lo sciacallo Così va il mondo La figliastra e il riccio La tartaruga Da dove vengono le cicogne Perché gli asini hanno il muso bianco Come si originano le cavallette
L'inizio e la fine del mondo: storie mistiche 170 174 177 180 185 188 191 191 193 194 195 197 199
51. Gli inizi del mondo 52. Della caducità dei beni di questo mondo 53. Il sarto nella città felice 54. Aatiallah 55. I due fratelli 56. Il nome supremo di Dio 57. Il santo in Paradiso 58. Nostro signore Khadir 59. Jujumajuj 60. Il drago rosso del Dujjan 61. La fine del mondo 62. Una profezia 63. La porta del ravvedimento è ancora aperta Parte II Fiabe dei Berberi dell'Algeria
203 209 215 221 228 230
1. 2. 3. 4. 5.
Il chicco fatato Lunja, figlia di Tseriel Storia della rana Chi di noi è la più bella, o luna? Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere queste fiamme! 6. La mucca degli orfanelli 539
239 253 257 270 275
7. 8. 9. 10. 11.
279 282 292 298 310
12. 13. 14. 15. 16.
313 327 331
17. 18. 19.
354 359 362 365
20.
21. 22.
23.
La principessa Sumisha Il flauto d'osso I cavalli di lampi e di vento Lo sveglio e il sempliciotto Mia madre mi ha sgozzato, mio padre mi ha mangiato, mia sorella ha radunato le mie ossa La quercia dell'orco I sette orchi Storia del baule 0 Bu-Iedmim, figlio mio! Storia del vecchio leone e dello stormo di pernici Storia di Mosh e delle sette fanciulle Storia della pulce e del pidocchio Runja, la fanciulla più bella della luna e della rosa Storia di Belàjudh e dell'orchessa Tseriel Il gatto pellegrino Il fegato del cappuccio L'Uccello della Tempesta
P a r t e III
Fiabe dei Tuareg Fiabe di incantesimo 377 383 390 397
1. 2. 3. 4.
407 414 420 425
5. 6. 7. 8.
540
Tesshewa, la fanciulla sposata dal fratello Il rapimento di Khawatan La bellissima Teylalen e il jinn Khayatan, la fanciulla venduta dai fratelli a un jinn Ayor e Tayort La fanciulla maltrattata dal padre La fanciulla e la matrigna cattiva Kutyanga, il fratellino astuto e la vecchia jinniya
428
9. Tersheddat e le sue compagne gelose Racconti di animali
434 437 439 442 445 446 448 448 449 452 453 454
10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.
17. 18.
19. 20. 21.
Lo sciacallo e la lepre. La iena e la lepre L'elefante e lo sciacallo Lo sciacallo, l'otarda e la iena Lo struzzo e il riccio lo sciacallo e lo struzzo La iena e la zucca Il leone e l'asino Lo sciacallo e il leone Lo scoiattolo scavatore e l'elefante Il leone e la capra il gallo e lo sciacallo
Racconti faceti e con la morale 456 457 460 462 466 471 478 480 482 484 485 486 487 488
22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35.
La piroga Il mentitore Il figlio del re e il figlio del povero L'uomo di Kano e l'uomo di Katsina La coperta I tre pretendenti della figlia del capo Il sacco di menzogne La civetta Chi è il più onesto? Le persone nel pozzo La donna e il leone La massima da cento monete d'oro L'uomo che cercava il paese dove non si muore La storia di Ammamellen e di Elias
491 Nota ai testi
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