Nautilus Collana diretta da Alberto Abruzzese 18
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a cura di Stefano Cristante
L’onda anonima Scritti sull’opinione pubblica di Tocqueville, Lippmann, Tönnies, Allport, Lazarsfeld, Habermas, Luhmann, Bourdieu, Noelle-Neumann, Landowski
MELTEMI
Indice
p.
7
Introduzione L’ombra del Leviatano. Le scienze sociali e l’enigma dell’opinione pubblica Stefano Cristante
15
La libertà di stampa negli Stati Uniti Alexis de Tocqueville
25
L’onnipotenza della maggioranza negli Stati Uniti e i suoi effetti Alexis de Tocqueville
43
Gli stereotipi Walter Lippmann
56
Critica dell’opinione pubblica Ferdinand Tönnies
77
Verso una scienza della pubblica opinione Floyd H. Allport
98
La ricerca empirica e la tradizione classica Paul F. Lazarsfeld
119
Delimitazione propedeutica di un tipo di sfera pubblica borghese Jürgen Habermas
148
L’opinione pubblica Niklas Luhmann
182
L’opinione pubblica non esiste Pierre Bourdieu
202
Chiave lessicale per una teoria dell’opinione pubblica Elisabeth Noelle-Neumann
229
L’opinione pubblica e i suoi portavoce Eric Landowski
257
Autori
267
Bibliografia
Introduzione L’ombra del Leviatano. Le scienze sociali e l’enigma dell’opinione pubblica Stefano Cristante
Ho cestinato l’introduzione già pronta a questa antologia di scritti sull’opinione pubblica. Cestinare – come citare, correggere, inserire materiale iconografico, e così via – non è sempre un atto privato. Pur svolgendosi nella mente di un singolo individuo, un’azione del genere avviene in seguito a una battaglia di idee. E rappresenta dunque, in via metaforica, un percorso collettivo dentro un singolo individuo. Per questo vorrei darne conto al lettore. Il progetto di questo volume nasce molto tempo fa, nei primi anni Novanta, quando tentavo di caratterizzare la mia collaborazione con la Cattedra di sociologia delle comunicazioni di massa tenuta da Alberto Abruzzese alla “Sapienza”. Qualche anno prima avevo scritto la tesi di laurea sull’impatto sociologico dell’opinione pubblica, lavoro che mi aveva aiutato a ricostruire un legame tra i classici della sociologia e questa misteriosa e melliflua macrotematica (l’opinione pubblica medesima). Inoltre il tema mi ossessionava da tempo: credo che la fascinazione consistesse nel sentire (e non nel pensare) che tra la comunicazione e il modellamento di idee collettive esistesse un forte legame, che aveva questo nome (“opinione pubblica”) perché nasceva nel secolo dei Lumi e si allungava nella matura modernità e quindi nella postmodernità. Qui cominciavano i miei problemi analitici: ero così sicuro che la tesi di Jürgen Habermas (1962), secondo cui non si poteva parlare correttamente di opinione pubblica
STEFANO CRISTANTE
prima dell’avvento della sfera pubblica borghese nel Settecento inglese e francese, fosse del tutto corretta? Mi sembrava evidente – ad esempio esaminando la sfera dell’opinione attraverso la dinamica delle istituzioni politiche – che in qualsivoglia momento della storia umana si creassero circostanze capaci di modificare nelle menti degli individui giudizi ed estetiche, opinioni politiche e urbanistiche, pregiudizi e forme scientifiche. Circostanze in grado dunque di esprimere un passaggio di fase, un cambiamento, una reazione. E anche in periodi più statici, non erano sempre e comunque al lavoro le intemperanze e le simpatie, gli stereotipi e il carisma e il pettegolezzo? Come si poteva tenere fuori tutto questo versante problematico dal lavoro teorico sull’opinione pubblica? Infatti con Habermas l’iniziale apertura storiografica prende poi la via di un risucchio hegelo-marxiano: c’era un tempo in cui la sfera pubblica borghese produceva genialità e rivoluzione (lo Spectator di Addison e Steele, le opere di Swift e La democrazia in America di Tocqueville); venne il tempo di una normalizzazione democratico-rappresentativa, venne quello del fordismo e del welfare; infine eccoci alla dissoluzione mediatica del concetto di opinione pubblica, alla TV generalista inventrice di opinioni prefabbricate, al giornalismo carta straccia. Tutto il percorso di Francoforte si riconfigura egemone: l’avanguardia intellettuale predice l’Apocalisse in quanto fine della funzione critica del sapere. Ogni tanto riprendevo in mano alcuni degli scritti che mi erano sembrati dire qualcosa di diverso dalla pur ricca lezione di Habermas. Tocqueville per primo, che aveva disseminato La democrazia in America di spunti eccellenti sullo spirito della mega-nazione statunitense (potremmo anche dire: sull’immaginario collettivo americano), non tralasciando di notare il profilo dinamico delle maggioranze attive calate nel vivo dell’epica della frontiera. Si determinavano nuovi bisogni
L’OMBRA DEL LEVIATANO
collettivi, l’informazione si mescolava all’inserzione a pagamento. La pubblicità sui giornali e le gazzette esplodeva in un paese vasto, dotato di risorse che solo uno spirito collettivo organizzato su valori forti poteva incanalare produttivamente. La pubblicità era finalmente un bisogno collettivo e una strategia comunicativa. C’erano naturalmente anche autori più recenti del conte di Tocqueville, come il geniale metodologo austriaco Paul Lazarsfeld, che durante la sua permanenza negli Stati Uniti mise a punto strumenti di misurazione delle opinioni capaci di far compiere un salto strategico ai sondaggi e alle ricerche, cioè al mercato e al sapere. Pur così interno a un modo normalizzato (funzionalista) di studiare e interpretare l’opinione pubblica, Lazarsfeld proponeva nei simposi dell’American Sociological Society di considerare il lavoro sull’opinione pubblica un progetto comune alle diverse discipline sociali. Sentiva il bisogno di andare più in profondità, Lazarsfeld, e anche di riprendere il contatto con alcuni classici della prima modernità che avevano per primi abbozzato il legame tra reputazione, opinione e potere. A fare da sfondo a queste mie investigazioni private era la constatazione che nell’impetuoso flusso multimediale globale dell’ultimo decennio del Novecento l’espressione “opinione pubblica” tendesse a situarsi in modo sempre più stabile e capillare. A ogni nuovo evento degli ultimi anni del secolo (il dopo muro di Berlino e il conflitto dei Balcani, la prima guerra in Iraq, la presidenza Clinton, l’avvento di Internet, il Sexgate, la guerra del Kosovo) sentivo che l’idea di raccogliere gli scritti di alcuni scienziati sociali sulle concezioni teoriche dell’opinione pubblica sarebbe stato utile per chiarire alcuni equivoci di fondo (espressioni che si accavallano: clima di opinione, sondaggi, profezie che si autoavverano, leader di opinione, opinion-makers ecc.) e avrebbe costituito una prima base dimostrativa del fatto che le scienze sociali non ignoravano la complessità di quel misterioso oggetto di studi.
STEFANO CRISTANTE
Abruzzese a un certo punto mi restituì la cartella che conteneva le fotocopie dei brani selezionati di una decina di autori, dicendomi che secondo lui c’era una questione di diritti d’autore (a partire da Habermas, che nell’antologia aveva un ruolo fondamentale), e che avrei dovuto occuparmene direttamente oppure trovare qualche esperto editoriale che mi desse una mano. Ci provò Lorenzo Pavolini, che mi lasciò gentilmente dei recapiti telefonici stranieri e delle mail. Nel frattempo avevo cominciato a scrivere la tesi di dottorato di ricerca sul rapporto tra potere e comunicazione e il progetto dell’antologia restò a riposare per un bel po’ d’anni, anche se ho continuato a occuparmi di analisi dell’opinione pubblica e a tornare spesso agli scritti classici sull’argomento. Alcuni saggisti specializzati in opinione pubblica li ritrovai più convincenti a una seconda lettura: è il caso di Walter Lippmann, che nel 1922 fece uscire sul mercato statunitense Public Opinion, un libro molto ben scritto e soprattutto la conferma che per capire da dove vengono le nostre difficoltà concettuali occorreva puntare sulla continuità tra sfera grafica (i giornali) e sfera audiovisiva (le TV). Lippmann scriveva negli anni precedenti l’avvento compiuto dell’audiovisivo, eppure già attribuiva un’importanza straordinaria (e cogente) ai media. Gli uomini ne hanno bisogno, diceva Lippmann, per interpretare tutti gli eventi non direttamente attinenti alla sfera intima e domestica. E aggiungeva che per orientare il nostro bisogno d’informazione esistono raggruppamenti oggettuali che chiamiamo stereotipi, i quali possono diventare armi strategiche in presenza di fasi conflittive acute (Lippmann era stato sottosegretario aggiunto al Ministero della guerra statunitense durante la grande guerra, quindi era competente in propaganda bellica). Alcuni autori li incontrai per citazioni dirette e indirette, talvolta accompagnati dalla successiva lettura dei testi originali. In particolare, una vera e propria scoperta fu La spirale del silenzio della studiosa tedesca Elizabeth NoelleNeumann. L’edizione americana completa era disponibile
L’OMBRA DEL LEVIATANO
fin dall’84, ma in Italia si parlava della Neumann soprattutto per la teoria degli “effetti forti dei media”, così tradotta da Mauro Wolf in un fortunato manuale. Ma il sottotitolo della Spirale parlava chiaro: L’opinione pubblica, la nostra pelle sociale. Quel libro, che nelle successive edizioni in varie lingue assunse un più corposo volume di pagine e di riferimenti bibliografici, apriva la strada all’analisi dell’onnipresenza della categoria “opinione pubblica” nella storia, anche al di fuori del perimetro della modernità. Noelle-Neumann proponeva il ridimensionamento dell’idea di Habermas: certamente vi era stata un’accelerazione della sfera pubblica in seguito all’affermazione della modernità capitalistica, ma a ben guardare i sintomi dell’opinione pubblica si perdevano nella notte dei tempi. Ad esempio: non era forse l’imbarazzo un sintomo di disagio comunicativo universale? E non era questo disagio forse collegato a una reazione del soggetto nei confronti dell’ambiente sociale, da quello più vasto (una platea televisiva, una seduta della boulé di Atene, una festa di corte seicentesca) a quello più limitato (gli amici, la famiglia, i colleghi di lavoro)? E non era quella reazione un sintomo della centralità delle opinioni dell’ambiente sociale subita dal soggetto? Non era forse allora l’opinione pubblica dotata di una risonanza profonda nelle strutture del generale comportamento umano, fino al punto da esercitare una pressione e un controllo nei confronti di tutti? Certamente un bel salto prospettico. Fatte le debite proporzioni, la Neumann ha preso Storia e critica dell’opinione pubblica di Habermas e l’ha disattivata come esclusiva interpretazione storico-sociale del fenomeno opinione pubblica, un po’ come Weber fece con i testi marxiani attraverso L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Weber non dimostrò che Marx aveva torto a condurre un’analisi della società a partire dall’esistenza di una struttura economica governata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione; dimostrò piuttosto che era possibile condurre un’investigazione altrettanto ragionevole sulla genesi del
STEFANO CRISTANTE
capitalismo occidentale partendo dall’etica protestante, cioè da quella che nel linguaggio marxiano si sarebbe definita una sovrastruttura. Per Habermas la sfera pubblica borghese produce e accelera l’opinione pubblica della modernità. Ma la modernità non spiega l’importanza dell’opinione pubblica nel corso dell’intera storia umana. Non spiega il fatto che l’opinione pubblica sia il vestito – anzi, la pelle – della società nel suo complesso, il primo strato sensibile del corpo sociale. Attraverso il lavoro di Noelle-Neumann, John Locke, David Hume, Jean-Jacques Rousseau uscivano dai musei di storia della filosofia e, scrollatisi di dosso la polvere dei manuali, dimostravano precocemente la centralità dello scambio di opinioni tra individuo e società, tra controllo, ragione e utopia. Ma anche Lippmann veniva riacciuffato grazie al concetto di stereotipo e persino Erving Goffmann dimostrava una plusvalenza cognitiva per via della microanalisi sulle forme dell’agire non intenzionale nella rappresentazione della vita quotidiana. Aver curato l’edizione italiana della Spirale del silenzio mi ha notevolmente aiutato nel mio lavoro di riattualizzazione dell’antologia che ho proposto a Meltemi, che è anche l’editore della traduzione italiana dell’opera di NoelleNeumann (2002). Inoltre, grazie alla gentilezza di un gruppo di case editrici italiane (Laterza in primis), la possibilità di editare l’antologia auspicata nei primi anni Novanta ha potuto prendere forma. Personalmente credo che oggi ci troviamo in un momento di necessità e di urgenza teorica: viviamo immersi nei climi di opinione simulati attraverso la diffusione e la penetrazione mentale dei sondaggi. Demonizzarli non serve a nulla, come non serve a nulla opporsi o lamentarsi della diffusione delle nuove tecnologie: occorre farci i conti. Mi sembra però anche opportuno dare sinteticamente la parola a quanti hanno riflettuto in temini analitici sull’o-
L’OMBRA DEL LEVIATANO
pinione pubblica, tenendo conto di contributi assai più avanzati della vulgata giornalistica che – con la pesante riduzione di complessità che è tipica del giornalismo in genere – chiama “opinione pubblica” soggetto e oggetto, l’io narrante e la società. Ritengo che uno sguardo utile sull’insieme di campi di forze e tensioni e conflitti e acquiescenze che rielaboriamo in presenza di un’evocazione collettiva metaforica come l’opinione pubblica possa essere oggi rappresentato da una doxasfera scomponibile analiticamente. Per doxasfera intendo uno spazio sociale e segnico che può fibrillare dallo stato rivoluzionario sino all’effervescenza del corroboree, o viceversa può stagnare in una palude di conformismi attendendo la città delle macchine e le sue conseguenze fantascientifiche come nella saga di Matrix. Per scomporre una doxasfera occore individuare degli attori, se non dei contendenti. Dei decisori, innanzitutto, non solo nella versione elitistica della circolazione imperfetta delle classi dirigenti ma nella visione globale di lobby aggreganti e disaggreganti, di forme associate cristallizzatesi provvisoriamente nel governo dell’esistente. Dei movimenti di pressione, oggigiorno scatenati nella ricerca di un’identità globale non solo negazionistica, oppure nella deriva localista delle forze etniche prossime all’aggressività xenofoba. E dei media, naturalmente, insieme attori e territorio conflittivo, la cui importanza strategica nella risoluzione delle contese sfiora l’autorevolezza (talvolta l’autorità) dei poteri statuiti (esecutivo, giudiziario e legislativo) mentre talvolta si limita a scimmiottarne i comportamenti, gli stili, l’opacità. E infine, certamente non ultimo per importanza, l’insieme del pubblico generalista, dei consumatori, dei cittadini. Non la faccio lunga, e concludo: c’è bisogno di una nuova architettura dello studio e dell’interpretazione delle opinioni, bene strategico che vale la transizione da una società dello spettacolo a una società dell’informazione, della seduzione e dell’illusione.
STEFANO CRISTANTE
L’ipnosi e il blocco mentale delle scienze sociali attuali, così spesso sgradevoli nel riconfermare steccati e paletti di recinzione specialistica, non sono più consentiti. Gli scritti contenuti in questo volume hanno l’ambizione di presentare approcci diversi, ma non certo autosufficienti. Anche i classici hanno dei limiti. Ma hanno anche molti pregi, tra cui il più prezioso è non aver ignorato la complessità dell’enigma culturale rappresentato dall’opinione pubblica. Enigma che è venuto il momento di ascoltare di nuovo, e possibilmente con l’urgenza di studiosi che sanno che il mondo di Blade Runner, del dopo 11 settembre e della multimedialità connettiva è già in atto.
La libertà di stampa negli Stati Uniti* Alexis de Tocqueville
La libertà di stampa esplica il suo potere non solo sulla politica ma anche sull’opinione pubblica: non influisce solo sulle leggi ma anche sui costumi. In altra parte di questa opera cercherò di precisare il grado d’influenza esercitato dalla libertà di stampa sulla società civile negli Stati Uniti e mi sforzerò di discernere l’indirizzo che essa ha dato alle idee, nonché le abitudini che ha fatto prendere allo spirito e ai sentimenti degli americani. Qui invece mi limito all’esame degli effetti prodotti dalla libertà di stampa nel mondo politico. Confesso di non sentire per la libertà di stampa quell’amore completo e istantaneo che si prova per le cose sovranamente buone per natura. Io l’amo assai più dei mali che essa impedisce che dei beni che produce. Se qualcuno mi mostrasse, fra l’indipendenza completa e l’intero asservimento del pensiero, una via intermedia in cui mi fosse possibile restare, forse mi ci fermerei, ma chi mai potrà scoprire questa posizione intermedia? Voi partite dalla licenza della stampa e volete giungere all’ordine: che cosa fate? Sottoponete prima gli scrittori ai giurati ma, se i giurati assolvono, quella che prima era soltanto l’opinione di un uomo isolato diviene l’opinione del paese. Avete dunque fatto troppo e insieme troppo poco; bisogna ancora andare avanti. Sottoponete allora gli autori a magistrati permanenti, ma questi giudici sono pure obbligati ad ascoltarli prima di condannare: allora quello che si temeva di confessare nel libro viene proclamato impunemente in tribunale, ciò che si era detto oscuramente in uno scritto viene così ripetuto in mille altri. L’espressione è, se così può dirsi, la for-
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
ma esteriore del pensiero, ma non il pensiero stesso: i tribunali arrestano il corpo ma l’anima sfugge loro e scivola sottilmente fra le loro mani. Avete dunque ancora fatto troppo e troppo poco; bisogna andare ancora più avanti. Abbandonate allora gli scrittori ai censori; benissimo! Ci avviciniamo. Ma la tribuna politica non è forse libera? Voi non avete dunque fatto ancora nulla, anzi, se non mi sbaglio, avete accresciuto il male. Scambiate forse il pensiero per una di quelle potenze materiali che si accrescono col numero dei loro agenti? Valuterete dunque gli scrittori come i soldati di un esercito? Contrariamente a tutte le potenze materiali, il potere del pensiero aumenta spesso col piccolo numero di quelli che l’esprimono. La parola di un uomo potente che penetra sola in mezzo a un’assemblea silenziosa è più efficace delle grida confuse di mille oratori e, per poco che si possa parlare liberamente in un solo luogo pubblico, è come se si parlasse pubblicamente in ogni villaggio. Bisogna dunque distruggere la libertà di parlare come quella di scrivere; questa volta ci siamo: ognuno tace. Ma dove siete giunti? Siete partiti dall’abuso della libertà e siete giunti sotto il piede di un despota. Siete passati da un estremo all’altro senza trovare, in un cammino così lungo, un solo luogo in cui vi fosse possibile fermarvi. Vi sono dei popoli i quali, oltre alle ragioni generali sopra enunciate, ne hanno di particolari per affezionarsi alla libertà di stampa. Presso alcune nazioni, che si pretendono libere, qualsiasi agente del potere può violare impunemente la legge senza che la costituzione del paese dia agli oppressi il diritto di appellarsi alla giustizia. Presso questi popoli la libertà di stampa deve essere considerata come una garanzia, anzi come la sola garanzia che resti alla libertà e alla sicurezza dei cittadini. Se dunque gli uomini che governano queste nazioni volessero togliere la libertà di stampa, il popolo intero potrebbe rispondere per loro: lasciateci perseguire i vostri delitti davanti ai giudici ordinari e allora forse noi consentiremo a non chiamarvi più davanti al tribunale dell’opinione pubblica.
LA LIBERTÀ DI STAMPA NEGLI STATI UNITI
In un paese in cui regni apertamente il dogma della sovranità del popolo la censura è non solo un pericolo ma anche una grande assurdità. Quando si concede a ognuno il diritto di governare la società, bisogna anche riconoscergli la facoltà di scegliere fra le diverse opinioni che agitano i suoi contemporanei e di apprezzare i differenti fatti la cui conoscenza può servire da guida. Sovranità del popolo e libertà di stampa sono dunque due cose interamente correlate: la censura e il voto universale sono dunque due cose che si contraddicono e non possono incontrarsi a lungo nelle istituzioni politiche di uno stesso popolo. Fra dodici milioni di uomini che vivono sul territorio degli Stati Uniti, non se ne trova uno solo che abbia ancora osato proporre di restringere la libertà di stampa. Il primo giornale («Vincenne’s Gazette») che cadde sotto i miei occhi, quando arrivai in America, conteneva il seguente articolo, che traduco fedelmente: In tutto questo affare il linguaggio tenuto da Jackson [il presidente] è stato quello di un despota senza cuore, occupato unicamente a conservare il suo potere. L’ambizione è il suo delitto e vi troverà la sua pena. Egli ha per vocazione l’intrigo e l’intrigo confonderà i suoi disegni e gli strapperà il potere. Egli governa con la corruzione e le sue manovre colpevoli torneranno a sua confusione e onta. Egli si è mostrato nell’arena politica un giocatore spudorato e sfrenato. È riuscito, ma l’ora della giustizia si avvicina; presto egli dovrà rendere quello che ha guadagnato, gettar lontano da sé il suo dado ingannatore e finire in qualche rifugio in cui possa liberamente bestemmiare contro la sua follia; perché il pentimento non è una virtù che sia mai stata conosciuta dal suo cuore.
Moltissimi in Francia credono che la violenza della stampa dipenda dall’instabilità del nostro Stato sociale, dalle nostre passioni politiche e dal disagio generale che ne è una conseguenza. Essi aspettano sempre un’epoca in cui, avendo la società ripreso un assetto tranquillo, la stampa a sua volta diverrà calma. Per parte mia, attribuirei volentieri
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
alle cause sopra indicate l’estremo ascendente che essa ha sopra di noi, ma non credo che queste cause influiscano gran che sul suo linguaggio. Mi pare che la stampa periodica abbia istinti e passioni suoi particolari, indipendentemente dalle circostanze in mezzo a cui agisce. Quello che avviene in America me lo prova completamente. L’America è forse, in questo momento, il paese del mondo che ha nel suo seno minori germi di rivoluzione. In America, tuttavia, la stampa ha gli stessi gusti distruttori che in Francia e la stessa violenza, senza avere le stesse cause di collera. In America, come in Francia, essa è quella straordinaria potenza, così stranamente mescolata di bene e di male, senza la quale la libertà non potrebbe vivere e con la quale l’ordine si mantiene a malapena. Quello che bisogna dire è che in America la stampa ha assai meno potere che da noi. Niente di più raro tuttavia, in quel paese, che vedere un processo diretto contro di essa. La ragione di questo è semplice: gli americani, ammettendo fra loro il dogma della sovranità del popolo, ne hanno fatto un’applicazione sincera. Essi non hanno preteso fondare, con elementi che cambiano ogni giorno, costituzioni eterne. Attaccare le leggi esistenti non è dunque un delitto, purché non ci si voglia sottrarre alla legge con la violenza. Essi credono d’altronde che i tribunali siano impotenti a moderare la stampa e che, dato che la leggerezza del linguaggio umano sfugge sempre all’analisi giudiziaria, i reati di questa natura sfuggano sempre in qualche modo alla mano che si allunga per afferrarli. Pensano che per potere efficacemente agire sulla stampa occorrerebbe trovare un tribunale che, non solo fosse devoto all’ordine costituito, ma anche potesse mettersi al disopra dell’opinione pubblica che si agita intorno a esso, un tribunale che giudicasse senza pubblicità, che pronunciasse le sue sentenze senza motivarle, e punisse l’intenzione più ancora che le parole. Chiunque riuscisse a creare e a mantenere un simile tribunale perderebbe il suo tempo a perseguire la libertà di stampa, poiché egli sarebbe senz’altro padrone assoluto della società stessa e potrebbe sbarazzarsi degli scrittori in-
LA LIBERTÀ DI STAMPA NEGLI STATI UNITI
sieme ai loro scritti. In materia di stampa non vi è dunque via di mezzo fra la servitù e la licenza. Per raccogliere i beni inestimabili prodotti dalla libertà di stampa, bisogna sapersi sottomettere ai mali inevitabili che essa fa nascere. Volere ottenere gli uni sfuggendo agli altri equivale ad abbandonarsi a una di quelle illusioni in cui si cullano ordinariamente le nazioni malate, quando, stanche di lotte ed esaurite dagli sforzi, cercano il mezzo di far coesistere, sullo stesso terreno, opinioni e principi contrari. La scarsa potenza dei giornali in America dipende da parecchie cause, di cui ecco le principali. La libertà di scrivere, come tutte le altre, è tanto più temibile quanto più è nuova: un popolo che non abbia mai trattato gli affari dello Stato crede al primo tribuno che gli si presenti. Presso gli angloamericani questa libertà è antica quanto la fondazione delle colonie; inoltre la stampa, che sa così bene infiammare le passioni umane, non può tuttavia crearle da sola. Ora in America la vita politica è attiva, variata, agitata, ma raramente è turbata da passioni profonde ed è raro che queste si sollevino quando gli interessi non sono compromessi, e negli Stati Uniti gli interessi prosperano. Per giudicare della differenza esistente su questo punto fra gli angloamericani e noi, basta osservare un momento i giornali dei due paesi. In Francia gli annunci commerciali occupano uno spazio ristrettissimo e anche le notizie sono poco numerose; la parte vitale di un giornale è quella in cui si trovano le discussioni politiche. In America i tre quarti dell’immenso giornale che vi cade sotto gli occhi sono pieni di annunci, il resto è occupato il più spesso da notizie politiche o da semplici aneddoti, solo di tanto in tanto si scorge in un angolo nascosto qualcuna di quelle ardenti discussioni che da noi costituiscono il pasto giornaliero dei lettori. Ogni potenza aumenta l’azione delle sue forze via via che ne accentra la direzione: è questa una legge generale della natura che s’impone all’osservatore e che un istinto più sicuro ancora ha fatto conoscere anche ai despoti più mediocri.
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
In Francia per la stampa si hanno due specie distinte di centralizzazione: quasi tutto il suo potere è concentrato in un solo luogo e, per così dire, nelle stesse mani, poiché i suoi organi sono in piccolo numero. Così costituita in mezzo a una nazione scettica, la stampa ha un potere quasi illimitato. Essa è un nemico col quale un governo può fare tregue più o meno lunghe, ma di fronte al quale può resistere assai difficilmente. Né l’una né l’altra di queste due specie di centralizzazione esistono in America. Gli Stati Uniti non hanno una grande capitale: la civiltà e la potenza sono disseminate in tutte le parti di questa immensa contrada; i raggi dell’intelligenza umana, invece di partire da un unico centro, s’incrociano in tutti i sensi; gli americani non hanno accentrato in alcun posto la direzione generale del pensiero o quella degli affari. Ciò dipende da circostanze locali indipendenti dagli uomini, ma che hanno per conseguenza che negli Stati Uniti non vi sono licenze per gli stampatori, né timbri, né registrazioni per i giornali e vi è sconosciuta la legge della cauzione. Ne risulta che la creazione di un giornale è un’impresa semplice e facile; pochi abbonati bastano perché il giornalista copra le sue spese: così il numero degli scritti periodici o semiperiodici negli Stati Uniti sorpassa ogni immaginazione. Gli americani più colti attribuiscono a questa incredibile disseminazione di forze la scarsa potenza della stampa: è un assioma di scienza politica negli Stati Uniti che il solo mezzo di neutralizzare gli effetti dei giornali sta nel moltiplicarne il numero. Non riesco a capire come una verità così evidente non sia divenuta comune presso di noi. Che coloro che vogliono fare delle rivoluzioni con l’aiuto della stampa cerchino di darle solo pochi organi potenti è cosa facilmente comprensibile, ma che i partigiani ufficiali dell’ordine costituito e i sostenitori naturali delle leggi esistenti credano di attenuare l’azione della stampa concentrandola, ecco ciò che non riesco a concepire. Sembra che i governanti europei agiscano di fronte alla stampa alla stes-
LA LIBERTÀ DI STAMPA NEGLI STATI UNITI
sa maniera degli antichi cavalieri con i loro avversari: essi si sono accorti, per esperienza propria, che la centralizzazione è un’arma potente e ne vogliono provvedere il loro nemico, senza dubbio allo scopo di aver più gloria a vincerlo. Negli Stati Uniti non vi è quasi una borgata che non abbia il suo giornale. Si comprenderà facilmente che, con tanti combattenti, non si può stabilire né disciplina né unità d’azione: così si vede ognuno alzare la sua bandiera. Non che tutti i giornali politici degli Stati Uniti si siano schierati pro o contro l’amministrazione, ma essi l’attaccano o la difendono in cento modi diversi. I giornali non possono dunque creare in America quelle grandi correnti di opinioni capaci di costruire o di rompere le più potenti dighe. Questa divisione di forze della stampa produce inoltre altri effetti non meno rimarchevoli: poiché la creazione di un giornale è una cosa facile, tutti possono occuparsene e, d’altra parte, poiché la concorrenza impedisce che un giornale possa sperare grandi profitti, le alte capacità industriali non si mescolano a questo genere di imprese. Ma, anche se i giornali fossero fonti di ricchezze, dato che sono eccessivamente numerosi gli scrittori di talento non basterebbero a dirigerli. I giornalisti hanno dunque, in genere, negli Stati Uniti una posizione poco elevata, una rudimentale educazione e un indirizzo di idee spesso volgare. La maggioranza fa legge; essa stabilisce certi modi di vita cui tutti in seguito si conformano e l’insieme di queste abitudini si chiama spirito: vi è lo spirito di tribunale, lo spirito di corte. Lo spirito del giornalista, in Francia, consiste nel discutere in modo violento, ma elevato e spesso eloquente, i grandi interessi dello Stato e, se questo non avviene sempre, è perché ogni regola ha le sue eccezioni. Lo spirito del giornalista, in America, consiste nello stimolare grossolanamente, senza preparazione né arte, le passioni di coloro cui s’indirizza il giornale, nel lasciare i principi per impadronirsi degli uomini, seguirli nella vita privata e metterne a nudo le debolezze e i vizi. Un simile abuso del pensiero è senza dubbio deplorevole; più avanti avrò occasione di studiare l’influenza esercitata dai giornali sui gusti e sulla moralità del popolo ameri-
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
cano; qui, ripeto, non mi occupo che del mondo politico. Non ci si deve nascondere che gli effetti politici di questa licenza della stampa non contribuiscono al mantenimento della tranquillità pubblica. Ne risulta che gli uomini che hanno già raggiunto posizioni elevate nell’opinione dei loro concittadini non osano scrivere sui giornali e perdono così l’arma più formidabile di cui si possono servire per volgere a loro profitto le passioni popolari1. Ne risulta soprattutto che le opinioni personali espresse dai giornalisti non hanno, per così dire, alcun peso agli occhi dei lettori. Quello che essi cercano in un giornale è la conoscenza dei fatti; e non è alterando o snaturando questi fatti che il giornalista può ottenere qualche influenza. Anche ridotta a queste sole risorse, la stampa esercita ancora un grande potere in America. Essa fa circolare la vita politica in tutte le zone di quel vasto territorio; con occhio sempre vigile, mette a nudo i segreti moventi della politica e costringe gli uomini pubblici a comparire volta a volta davanti al tribunale dell’opinione pubblica. Essa riunisce gli interessi intorno ad alcune dottrine e formula i simboli dei partiti; per suo mezzo i partiti si parlano senza vedersi, s’intendono senza mettersi in diretto contatto. Quando numerosi organi di stampa giungono a camminare in un’unica direzione, la loro influenza diviene, alla lunga, irresistibile e l’opinione pubblica, colpita sempre dalla stessa parte, finisce per cedere sotto i loro colpi. Negli Stati Uniti ogni giornale ha individualmente scarso potere, ma la stampa periodica è ancora, dopo il popolo, la prima delle potenze.
Le opinioni che si stabiliscono in America sotto l’impero della libertà di stampa sono spesso più tenaci di quelle che si formano altrove sotto il regime della censura Negli Stati Uniti la democrazia porta continuamente uomini nuovi alla direzione degli affari; vi è pertanto poco ordine e poca continuità nell’azione governativa. Ma i principi generali del governo vi sono più stabili che in molti al-
LA LIBERTÀ DI STAMPA NEGLI STATI UNITI
tri paesi e le opinioni principali regolanti la società si mostrano più durevoli. Quando un’idea ha preso possesso dello spirito del popolo americano, sia o no giusta e ragionevole, è molto difficile estirparla. Lo stesso fatto è stato osservato in Inghilterra, il paese d’Europa che ha avuto durante un secolo la più grande libertà d’opinione e insieme i più invincibili pregiudizi. Io attribuisco questo effetto proprio alla causa che, a prima vista, dovrebbe impedirgli di prodursi: alla libertà di stampa. I popoli presso i quali esiste questa libertà si affezionano alle loro opinioni per orgoglio oltre che per convinzione. Essi le amano, perché sembrano loro giuste e anche perché sono scelte liberamente da loro, e ci tengono, non solo come a una cosa vera, ma anche come a una cosa che è loro propria. Vi sono poi molte altre ragioni. Un grand’uomo ha detto che l’ignoranza è alle due estremità della scienza. Forse sarebbe stato più esatto dire che le convinzioni profonde si trovano solo agli estremi e che nel mezzo è il dubbio. Si può considerare, effettivamente, l’intelligenza umana in tre stati distinti e spesso successivi. L’uomo crede fermamente, perché accetta le opinioni senza approfondirle. Dubita quando gli si presentano le obiezioni. Spesso riesce a risolvere tutti i suoi dubbi e allora ricomincia a credere. Questa volta egli non s’impadronisce della verità per caso o in mezzo alle tenebre, ma la vede faccia a faccia e marcia direttamente verso la sua luce2. Quando la libertà di stampa trova gli uomini nel primo stato, essa lascia loro per molto tempo ancora questa abitudine di credere senza riflettere; soltanto cambia giornalmente l’oggetto delle loro irriflessive credenze. In tutto l’orizzonte intellettuale lo spirito umano continua a vedere un punto per volta, ma questo punto varia continuamente. È il tempo delle rivoluzioni improvvise. Sfortunate le generazioni che ammettono tutto a un tratto la libertà di stampa! Tuttavia il circolo delle idee nuove è percorso rapidamente. Si forma l’esperienza e l’uomo cade nel dubbio e nella diffidenza.
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
Si può assicurare che la maggior parte degli uomini si fermerà sempre in uno di questi due stati: essi o crederanno senza sapere perché o non sapranno precisamente che cosa bisogna credere. Quanto a quell’altro tipo di convinzione riflessa e padrona di sé che sorge dalla scienza e si eleva in mezzo alle agitazioni del dubbio, esso potrà esser raggiunto solo da un piccolo numero di uomini. Ora, si è notato che nei secoli di fervore religioso gli uomini cambiano talvolta di fede, mentre nei secoli di dubbio ognuno conserva ostinatamente la sua. Così succede in politica sotto il regno della libertà di stampa. Poiché tutte le teorie sociali sono state a volta a volta contestate e combattute, coloro che si sono fissati sopra una di esse la difendono, non tanto perché sicuri della sua bontà, quanto perché non sono sicuri che ve ne sia una migliore. In questi secoli non si mette facilmente a repentaglio la vita per le proprie opinioni, ma neppure si cambiano; si trovano meno martiri, ma anche meno apostati. Aggiungete a questa ragione quest’altra ancora più forte: nell’incertezza delle opinioni gli uomini finiscono per attaccarsi unicamente agli istinti e agli interessi materiali, che sono per loro natura per noi più visibili, più afferrabili e più duraturi delle opinioni. È una questione molto difficile da risolvere quella di sapere se governi meglio la democrazia o l’aristocrazia, ma è chiaro che la democrazia incomoda alcuni e l’aristocrazia opprime altri. È questa una verità che si rivela da sola senza bisogno di discussione, come dire: voi siete ricco e io povero.
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Da Tocqueville 1835, pp. 193-199 della trad. it. Essi scrivono sui giornali solo in casi rari, quando vogliono rivolgersi al popolo e parlare in proprio nome: quando, per esempio, sono state sparse sul loro conto imputazioni calunniose, ed essi vogliono ristabilire la verità dei fatti. 2 Ancora non saprei se questa convinzione riflessa e padrona di sé può mai alzare l’uomo al grado di ardore e di devozione che gli ispirano le credenze dogmatiche. 1
L’onnipotenza della maggioranza negli Stati Uniti e i suoi effetti* Alexis de Tocqueville
È nell’essenza stessa dei governi democratici che il dominio della maggioranza sia assoluto, poiché fuori della maggioranza nelle democrazie, non vi è nulla che possa resistere. La maggior parte delle costituzioni americane tende ad aumentare ancora, artificialmente, questa forza naturale della maggioranza1. Di tutti i poteri politici quello che più volentieri obbedisce alla maggioranza è il corpo legislativo. Orbene, gli americani hanno stabilito che i membri di esso siano nominati direttamente dal popolo e per un periodo molto breve, per obbligarli così a sottomettersi, non solo alle opinioni generali, ma anche alle passioni momentanee degli elettori. Essi hanno tolto dalle stesse classi ed eletto allo stesso modo i membri delle due camere, in modo che i movimenti del corpo legislativo sono quasi altrettanto rapidi e irresistibili di quelli di un’unica assemblea. Costituito a questo modo il corpo legislativo, hanno riunito in esso quasi tutto il governo. Nel tempo stesso che alcuni poteri già naturalmente forti si accrescevano, altri, già naturalmente deboli, venivano sempre più sminuiti. La legge non assicura ai rappresentanti del potere esecutivo né stabilità, né indipendenza e, sottomettendoli completamente ai capricci della legislatura, essa toglie a essi quel poco di influenza che la natura del regime democratico avrebbe loro lasciato. In parecchi Stati la costituzione affida il potere giudiziario all’elezione della maggioranza e, in tutti, essa lo fa di-
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pendere, in certo modo, dal potere legislativo, poiché lascia ai rappresentanti il diritto di fissare annualmente lo stipendio dei giudici. Gli usi sono andati ancora più lontano delle leggi. Si diffonde sempre più negli Stati Uniti un costume che finirà per rendere inutili le garanzie del governo rappresentativo: avviene molto spesso che gli elettori, eleggendo un deputato, gli traccino un piano d’azione e gli impongano un certo numero di obblighi positivi da cui egli non può in alcun modo allontanarsi. Non considerando il tumulto, è come se la maggioranza deliberasse direttamente sulla piazza pubblica. Parecchie altre circostanze particolari tendono ancora a rendere, in America, il potere della maggioranza non solo predominante, ma irresistibile. L’impero morale della maggioranza si fonda in parte sull’idea che vi sia più saggezza e acume in molti uomini riuniti che in uno solo, nel numero piuttosto che nella qualità dei legislatori. È la teoria dell’eguaglianza applicata alle intelligenze. Questa dottrina attacca l’orgoglio dell’uomo nel suo ultimo rifugio, perciò la minoranza l’ammette solo a fatica e vi si abitua solo col tempo. Come tutti i poteri, e più forse di alcuno di essi, il potere della maggioranza ha bisogno di durare per apparire legittimo. All’inizio si fa obbedire con la forza; si comincia a rispettarlo solo dopo che si è vissuti a lungo sotto le sue leggi. L’idea del diritto della maggioranza a governare la società è stata portata sul suolo degli Stati Uniti dai primi abitanti. Questa idea, che da sola sarebbe sufficiente a creare un popolo libero, è oggi passata nei costumi e la si trova nelle più piccole abitudini della vita. I francesi, sotto l’antica monarchia, erano certi che il re non potesse mai sbagliare e quando accadeva che egli agisse malamente, pensavano che fosse colpa dei suoi consiglieri. Ciò facilitava grandemente l’obbedienza. Si poteva mormorare contro la legge, senza cessare di amare e rispettare il legislatore. Gli americani hanno la stessa opinione riguardo alla maggioranza.
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L’impero morale della maggioranza si fonda anche su questo principio: che gli interessi del maggior numero debbono essere preferiti a quelli del piccolo. Ora, si comprende facilmente come il rispetto professato a questo diritto della maggioranza aumenti o diminuisca naturalmente secondo lo stato dei partiti. Quando una nazione è divisa fra parecchi grandi interessi inconciliabili, il privilegio della maggioranza è spesso misconosciuto, poiché è troppo scomodo sottomettervisi. Se esistesse in America una classe di cittadini che venisse dal legislatore spogliata di certi vantaggi esclusivi, posseduti da secoli, e fosse spinta a discendere da una situazione elevata per perdersi nella massa, è probabile che la minoranza non si sottometterebbe tanto facilmente alla maggioranza. Ma, poiché gli Stati Uniti sono stati popolati da uomini eguali tra loro, non c’è ancora un dissidio naturale e durevole fra gli interessi dei loro abitanti. Vi è un certo Stato sociale in cui i membri della minoranza non possono sperare di trarre a sé la maggioranza, poiché sarebbero costretti, per far questo, ad abbandonare l’oggetto stesso della lotta che sostengono contro di essa. Un’aristocrazia, per esempio, non potrebbe diventare maggioranza conservando i suoi privilegi esclusivi e non potrebbe abbandonare i suoi privilegi senza cessare con ciò di essere un’aristocrazia. Negli Stati Uniti le questioni pubbliche non possono porsi in modo così generale e assoluto e tutti i partiti sono disposti a riconoscere i diritti della maggioranza, poiché sperano tutti di potere un giorno esercitarli a proprio profitto. La maggioranza ha dunque negli Stati Uniti un’immensa potenza di fatto e una potenza di opinione quasi altrettanto grande; quando essa si forma riguardo a qualche questione, non vi sono ostacoli che possano, non dico arrestare, ma anche solo ritardare la sua marcia per lasciarle il tempo di ascoltare le proteste di coloro che essa colpisce nel suo passaggio.
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Le conseguenze future di un simile stato di cose sono funeste e pericolose.
L’onnipotenza della maggioranza contribuisce ad aumentare in America l’instabilità legislativa e amministrativa che è naturale alle democrazie Ho parlato precedentemente dei vizi naturali ai governi democratici; di questi non ve n’è alcuno che non cresca insieme al potere della maggioranza. Cominceremo dal più evidente. L’instabilità legislativa è un male inerente al governo democratico, poiché è nella natura della democrazia rinnovare frequentemente gli uomini al potere. Ma questo male è più o meno grande secondo la potenza e i mezzi d’azione riconosciuti al legislatore. In America si attribuisce all’autorità legislativa un potere sovrano. Essa può abbandonarsi rapidamente e facilmente a ogni suo desiderio; inoltre, ogni anno le si danno nuovi rappresentanti. Vale a dire che si è adottata precisamente la combinazione più favorevole all’instabilità democratica, che permette alla democrazia di applicare le sue mutevoli volontà agli oggetti più importanti. Perciò l’America è oggi il paese del mondo in cui le leggi durano meno. Quasi tutte le costituzioni americane sono state emendate in trent’anni. Non vi è dunque uno Stato americano che non abbia, durante questo periodo, modificato il principio delle sue leggi. Quanto alle leggi stesse, basta gettare un colpo d’occhio negli archivi dei diversi Stati dell’Unione per convincersi che in America l’azione del legislatore non si allenta mai. Non già che la democrazia americana sia per natura più instabile di un’altra, ma le è stato dato il mezzo per seguire, nella formazione delle leggi, la naturale instabilità delle sue tendenze2. L’onnipotenza della maggioranza e il modo rapido e assoluto con cui le sue volontà si eseguono negli Stati Uniti
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non soltanto rende la legge instabile, ma esercita la stessa influenza sull’esecuzione della legge e sull’azione dell’amministrazione pubblica. Poiché la maggioranza è la sola potenza cui sia necessario piacere, tutti concorrono con ardore alle opere da essa intraprese ma, dal momento in cui la sua attenzione si rivolge altrove, tutti gli sforzi cessano; mentre in Europa, ove il potere amministrativo ha un’esistenza indipendente e una posizione sicura, le volontà del legislatore continuano invece a essere eseguite anche quando egli si occupa d’altro. In America si applicano a certi miglioramenti uno zelo e un’attività assai più grandi che altrove. In Europa, invece, s’impiega per queste stesse cose una forza sociale assai meno grande, ma più continua. Or sono molti anni, alcuni uomini profondamente religiosi si diedero a migliorare il sistema carcerario; il pubblico fu scosso dalla loro voce e la riabilitazione dei criminali divenne un’opera popolare. Si fabbricarono allora nuove prigioni e, per la prima volta, l’idea del colpevole penetrò nelle segrete insieme all’idea del castigo. Ma la felice rivoluzione, cui il pubblico s’era associato con tanto ardore e che diveniva sempre più irresistibile per gli sforzi concordi dei cittadini, non poteva operarsi in breve tempo. A fianco dei nuovi penitenziari, il cui sviluppo veniva affrettato dal voto della maggioranza, sussistevano le antiche prigioni, che continuavano a contenere un gran numero di condannati; sembra che queste divenissero sempre più insalubri e corruttrici a misura che le nuove divenivano più riformatrici e più sane. Questo doppio effetto si comprende facilmente: la maggioranza, preoccupata dall’idea di fondare i nuovi stabilimenti, aveva dimenticato quelli che già esistevano e, poiché nessuno si occupava di una cosa che non attirava più l’attenzione del governo, la sorveglianza era completamente cessata. Un po’ alla volta si era allentata, e poi era sparita, ogni disciplina. E, a fianco di una prigione che rappresentava meravigliosamente la
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mitezza e la cultura del nostro tempo, si trovavano segrete che rammentavano la barbarie medievale.
Tirannide della maggioranza Io considero empia e detestabile questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto; tuttavia pongo nella volontà della maggioranza l’origine di tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso? Esiste una legge generale che è stata fatta, o perlomeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia. La giustizia è dunque il limite del diritto di ogni popolo. Una maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e applicare la giustizia che è la sua legge. La giuria rappresenta la società; deve essa avere più potenza della società stessa di cui applica le leggi? Quando dunque io rifiuto di obbedire a una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di comandare: soltanto mi appello non più alla sovranità del popolo ma a quella del genere umano. Vi sono alcuni i quali osano dire che un popolo, negli oggetti che interessano lui solo non può uscire interamente dai limiti della giustizia e della ragione e che quindi non si deve avere paura di dare ogni potere alla maggioranza che lo rappresenta. Ma questo è un linguaggio da schiavi. Cosa è mai la maggioranza, presa in corpo, se non un individuo che ha opinioni e spesso interessi contrari a un altro individuo che si chiama minoranza? Ora, se voi ammettete che un uomo fornito di tutto il potere può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete ciò anche per la maggioranza? Gli uomini, riunendosi, mutano forse di carattere? Divenendo più forti, divengono anche più pazienti di fronte agli ostacoli3? Per parte mia, non
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posso crederlo; e non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto a un uomo solo, fosse accordato a parecchi. Non già che io creda che per conservare la libertà si possano unire parecchi principi diversi in un solo governo, in modo da opporli l’uno all’altro. Il cosiddetto governo misto mi è sempre sembrato una chimera. Non vi è, per dire il vero, governo misto (nel senso che si dà generalmente a questa parola), perché in ogni società si finisce per scoprire un principio di azione che domina tutti gli altri. L’Inghilterra dell’ultimo secolo, che è stata citata frequentemente come un esempio di questo genere di governo, era uno Stato essenzialmente aristocratico, benché vi fossero nel suo seno molti elementi democratici. Infatti le leggi e i costumi vi erano costituiti in modo che l’aristocrazia doveva sempre, a lungo andare, predominarvi e dirigere gli affari politici secondo la sua particolare volontà. L’errore è nato dal fatto che, vedendo gli interessi dei grandi in continua lotta con quelli del popolo, non si è pensato che alla lotta in sé, senza fare attenzione al suo risultato, cioè al punto più importante. Quando una società giunge ad avere veramente un governo misto, vale a dire esattamente diviso fra principi contrari, essa entra in rivoluzione o si dissolve. Bisogna sempre, dunque, porre in qualche parte un potere sociale superiore a tutti gli altri; ma la libertà è in pericolo quando questo potere non trova innanzi a sé alcun ostacolo che possa rallentare il suo cammino, dandogli il tempo di moderarsi. L’onnipotenza in sé mi sembra una cosa cattiva e pericolosa; il suo esercizio è superiore alle forze dell’uomo, chiunque esso sia; solo Iddio può essere onnipotente senza pericolo, perché la sua saggezza e la sua giustizia sono sempre eguali al suo potere. Non vi è dunque sulla terra autorità, tanto rispettabile in se stessa o rivestita di un diritto tanto sacro, che possa agire senza controllo e dominare senza ostacolo. Quando, dunque, io vedo accordare il diritto o la facoltà di fare tutto a una qualsiasi potenza, si chiami essa popolo o re, democrazia o aristocrazia, si eser-
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citi essa in una monarchia o in una repubblica, io dico: qui è il germe della tirannide; e cerco di andare a vivere sotto altre leggi. Ciò che io rimprovero di più al governo democratico, come è stato organizzato negli Stati Uniti, non è, come molti credono in Europa, la debolezza, ma al contrario la sua forza irresistibile. Quello che più mi ripugna in America, non è l’estrema libertà, ma la scarsa garanzia che vi è contro la tirannide. Quando negli Stati Uniti un uomo o un partito soffre di qualche ingiustizia, a chi volete che si rivolga? All’opinione pubblica? È essa che forma la maggioranza. Al corpo legislativo? Esso rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? Esso è nominato dalla maggioranza ed è un suo strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza rivestita del diritto di pronunciare sentenze: i giudici stessi, in alcuni Stati, sono eletti dalla maggioranza. Per quanto la misura che vi colpisce sia iniqua o irragionevole, bisogna che vi sottomettiate4. Supponete, al contrario, un corpo legislativo composto in modo tale che esso rappresenti la maggioranza senza essere necessariamente lo schiavo delle sue passioni; un potere esecutivo che abbia una forza propria e un potere giudiziario indipendente dagli altri due poteri; avrete ancora un governo democratico, ma non vi sarà più pericolo di tirannide. Io non dico che attualmente si faccia in America un uso frequente della tirannide; dico che non vi è contro di essa alcuna garanzia e che le cause della mitezza del governo devono essere cercate nelle circostanze e nei costumi piuttosto che nelle leggi.
Effetti dell’onnipotenza della maggioranza sul potere discrezionale dei funzionari pubblici americani Bisogna distinguere il potere discrezionale dalla tirannide. Questa può esercitarsi anche per mezzo della legge e al-
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lora non è arbitraria; il potere discrezionale può esercitarsi nell’interesse dei cittadini e allora non è affatto tirannico. La tirannide si serve ordinariamente del potere discrezionale, ma può benissimo farne a meno. Negli Stati Uniti l’onnipotenza della maggioranza, nel tempo stesso che favorisce il dispotismo legale del legislatore, favorisce anche il potere discrezionale del magistrato. La maggioranza, essendo padrona assoluta di fare la legge e di sorvegliarne l’esecuzione e avendo un eguale controllo sui governanti, considera i funzionari pubblici come suoi agenti passivi e si serve volentieri di essi per eseguire i suoi disegni. Essa non entra dunque nei particolari dei loro doveri e non si cura di definire i loro diritti in precedenza, ma li tratta come un padrone potrebbe fare con i suoi servitori, come se, vedendoli sempre lavorare sotto i suoi occhi, potesse dirigere o correggere la loro condotta ogni momento. In generale, la legge lascia i funzionari americani assai più liberi dei nostri nel cerchio tracciato intorno a loro. Talvolta avviene anche che la maggioranza permetta loro di uscirne. Garantiti dall’opinione della maggioranza e forti del suo concorso, essi osano cose di cui un europeo, pur abituato allo spettacolo dell’arbitrio, si meraviglierebbe. Si formano così in seno alla libertà abitudini che un giorno potranno divenire funeste.
Influenza della maggioranza in America sul pensiero Quando si vuole esaminare quale sia negli Stati Uniti l’esercizio del pensiero, ci si accorge chiaramente a qual punto il potere della maggioranza sorpassi tutti i poteri che noi conosciamo in Europa. Il pensiero è un potere invisibile e quasi inafferrabile, che si prende gioco di ogni tirannide. Ai nostri giorni i sovrani più assoluti d’Europa non saprebbero impedire ad alcuni pensieri ostili alla loro autorità di circolare sordamente nei loro Stati e fino in seno alle loro corti. Non
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è lo stesso in America: finché la maggioranza è incerta, si può parlare; ma, dal momento in cui essa si è irrevocabilmente pronunciata, ognuno tace; sembra che amici e nemici si siano attaccati di concerto al suo carro. La ragione di ciò è semplice: non vi è un monarca tanto assoluto che possa riunire nelle sue mani tutte le forza della società e vincere le resistenze, come può farlo una maggioranza investita del diritto di fare le leggi e di metterle in esecuzione. Inoltre, un re ha solo un potere materiale, che agisce sulle azioni ma che non può toccare la volontà, mentre la maggioranza è dotata di una forza, insieme materiale e morale, che agisce sulle volontà come sulle azioni e che annienta nel tempo stesso l’azione e il desiderio di azione. Non conosco un paese in cui regni, in generale, una minore indipendenza di spirito e una minore vera libertà di discussione come in America. Non vi è una teoria religiosa o politica che non possa diffondersi liberamente negli Stati costituzionali dell’Europa e che non riesca a penetrare anche negli altri, poiché non vi è in Europa un paese talmente sottoposto a un solo potere che colui che vuol dire la verità non trovi un appoggio capace di rassicurarlo contro i pericoli che possono nascere dalla sua posizione indipendente. Se egli ha la sventura di vivere sotto un governo assoluto, ha spesso dalla sua il popolo; se vive in un paese libero, può all’occorrenza ripararsi dietro l’autorità regia. La frazione aristocratica della società lo può sostenere nei paesi democratici e la democrazia negli altri. Invece, nel seno di una democrazia organizzata come quella degli Stati Uniti, non si trova che un solo potere, un solo elemento di forza e di successo, e nulla al di fuori di esso. In America la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’interno di quei limiti lo scrittore è libero, ma guai a lui se osa sorpassarli. Non già che egli abbia da temere un autodafè, ma è esposto ad avversioni di ogni genere e a quotidiane persecuzioni. La carriera politica è chiusa per lui, poiché egli ha offeso la sola po-
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tenza che abbia la facoltà di aprirgliela. Tutto gli si rifiuta, anche la gloria. Prima di rendere pubbliche le sue opinioni, egli credeva di avere dei partigiani; ma, dal momento in cui si è scoperto a tutti, gli pare di non averne più, poiché coloro che lo biasimano si esprimono a gran voce, mentre coloro che pensano come lui, senza avere il suo coraggio, tacciono e si allontanano. Egli allora cede, si piega sotto uno sforzo quotidiano e rientra nel silenzio, come se provasse il rimorso di aver detto la verità. Un tempo la tirannide faceva uso di strumenti grossolani, come le catene e il boia; oggi la civiltà ha perfezionato anche il dispotismo, che pure sembrava non avesse nulla da imparare. I principi avevano, per così dire, materializzato la violenza; le repubbliche democratiche del nostro tempo l’hanno resa intellettuale come la volontà umana che essa vuole costringere. Sotto il governo assoluto di uno solo il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva grossolanamente il corpo; e l’anima, sfuggendo a quei colpi, si elevava gloriosa sopra di esso; ma nelle repubbliche democratiche la tirannide non procede a questo modo: essa non si cura del corpo e va diritta all’anima. Il padrone non dice più: “Voi penserete come me o morrete” ma dice: Voi siete liberi di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto vi resta; ma da questo momento voi siete stranieri fra noi. Voi manterrete i vostri diritti politici, ma essi saranno inutili per voi poiché, se cercherete di essere eletti dai vostri concittadini, essi non vi accorderanno il loro voto e, se chiederete la loro stima, essi ve la rifiuteranno. Voi resterete fra gli uomini, ma perderete il vostro diritto all’umanità. Quando vi avvicinerete ai vostri simili, essi vi fuggiranno come un essere impuro; e anche quelli che credono alla vostra innocenza vi abbandoneranno per timore di essere a loro volta sfuggiti. Andate in pace, io vi lascio la vita, ma vi lascio una vita peggiore della morte.
Le monarchie assolute avevano disonorato il dispotismo; facciamo attenzione che le repubbliche democratiche
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non lo riabilitino e, rendendolo più pesante per qualcuno, non gli tolgano, agli occhi della maggioranza, l’aspetto odioso e il carattere avvilente. Presso le nazioni più fiere dell’antichità si sono pubblicate opere destinate a dipingere fedelmente i vizi e la ridicolaggine dei contemporanei. La Bruyère, quando compose il suo capitolo sui grandi, abitava il palazzo di Luigi XIV e Molière criticava la corte in commedie che faceva rappresentare davanti ai cortigiani. Ma la potenza che domina negli Stati Uniti non vuole essere presa in giro. Il più leggero rimprovero la ferisce, la minima verità piccante la rende feroce e bisogna lodarla dalle forme del suo linguaggio fino alle sue più solide virtù. Nessuno scrittore, qualunque ne sia la notorietà, può sfuggire all’obbligo di incensare i suoi concittadini. La maggioranza vive dunque in una perenne adorazione di se medesima; solo gli stranieri, o l’esperienza, possono far giungere alcune verità all’orecchio degli americani. Se l’America non ha ancora avuto dei grandi scrittori, non dobbiamo cercarne altrove le ragioni: non esiste genio letterario senza libertà di pensiero e non vi è libertà di pensiero in America. L’inquisizione non ha mai potuto impedire che in Spagna circolassero libri contrari alla religione della maggioranza. L’impero della maggioranza fa di più negli Stati Uniti: esso toglie anche il pensiero di pubblicarne. Si trovano degli increduli in America, ma l’incredulità non trova, per così dire, alcun organo. Vi sono governi che si sforzano di proteggere i costumi condannando gli autori di libri licenziosi. Negli Stati Uniti non si condanna alcuno per questo genere di opere, ma nessuno è tentato di scriverne. Non già che tutti i cittadini abbiano dei costumi puri, ma la maggioranza ha costumi normali. In questo caso l’uso del potere è buono, senza dubbio: ma io non parlo che del potere in se stesso. Questo potere irresistibile è un fatto continuo e il suo buon impiego non è che un accidente.
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Effetti della tirannide della maggioranza sul carattere nazionale degli americani. Lo spirito di corte negli Stati Uniti L’influenza di quello che precede si fa sentire ancora debolmente sulla vita politica; ma se ne notano già alcuni brutti effetti nel carattere nazionale degli americani. Io credo che si debba attribuire all’azione sempre crescente del dispotismo della maggioranza lo scarso numero di uomini notevoli che si mostrano sulla scena politica americana. Quando la rivoluzione d’America scoppiò, essi comparvero in folla; l’opinione pubblica allora dirigeva le volontà senza tiranneggiarle. Gli uomini celebri di quell’epoca, associandosi al movimento degli spiriti, ebbero una grandezza che fu loro propria: essi sparsero il loro splendore sulla nazione e non lo ricevettero da essa. Nei governi assoluti i grandi che si avvicinano al trono adulano le passioni del padrone e si piegano volontariamente ai suoi capricci. Ma la massa della nazione non si presta alla servitù, essa vi si sottomette spesso per debolezza, per abitudine o per ignoranza, talvolta per amore della regalità o del re. Si sono visti popoli mettere una specie di piacere e di orgoglio a sacrificare la loro volontà a quella del principe e introdurre così una specie d’indipendenza spirituale anche nell’obbedienza. Presso questi popoli si trova meno degradazione che miseria. Vi è d’altronde una grande differenza fra il fare ciò che non si approva e il fingere di approvare quello che si fa: l’uno è proprio dell’uomo debole, mentre l’altro appartiene alle abitudini del servo. Nei paesi liberi, in cui ognuno è, più o meno, chiamato a dire la sua opinione sugli affari dello Stato; nelle repubbliche democratiche, in cui la vita pubblica è continuamente mescolata alla vita privata, in cui il sovrano è avvicinabile facilmente ovunque, tanto che basta alzare la voce per giungere al suo orecchio, si trova un numero assai maggiore di persone che cercano di speculare sulle sue debolezze, e vivere a spese delle sue passioni, di quello che si trova nelle monarchie assolute. Non che nelle democrazie gli uomini siano naturalmente peggiori che al-
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trove, ma la tentazione è più forte e si offre a più gente nello stesso tempo. Le repubbliche democratiche mettono lo spirito di corte alla portata della maggioranza e lo fanno penetrare simultaneamente in tutte le classi. È questo uno dei principali rimproveri che si possano far loro. Questo è vero soprattutto negli Stati democratici organizzati come le repubbliche americane, in cui la maggioranza ha un potere tanto assoluto e irresistibile che chi volesse allontanarsi dalla strada da essa tracciata deve in certo modo rinunciare ai diritti di cittadino e quasi alla qualità di uomo. Nella folla immensa che negli Stati Uniti gareggia nella carriera politica ho visto ben pochi uomini dotati di quella virile semplicità, di quella maschia indipendenza di pensiero, che ha spesso distinto gli americani dei tempi passati e che, ovunque la si trovi, forma il tratto essenziale dei grandi caratteri. Si direbbe, a prima vista, che in America gli spiriti siano stati tutti formati sullo stesso modello, tanto essi seguono esattamente le stesse vie. Lo straniero trova, è vero, degli americani che si allontanano dal rigore delle formule e deplorano i difetti delle leggi, l’instabilità della democrazia e la sua mancanza di cultura; che si spingono spesso fino a notare i difetti che alterano il carattere nazionale, e indicano i mezzi che si possono usare per correggerlo; ma nessuno, tranne voi, li ascolta; e voi, cui essi confidano questi segreti pensieri, siete uno straniero e ve ne andate presto. A voi svelano volentieri delle inutili verità, ma poi, scesi in piazza, tengono un linguaggio ben diverso. Se questo mio libro sarà mai letto in America, sono sicuro di due cose: la prima, che i lettori alzeranno subito la voce per condannarmi; la seconda, che molti di loro mi assolveranno in fondo alla loro coscienza. Ho sentito parlare di patria, negli Stati Uniti; ho trovato nel popolo del vero patriottismo, ma spesso l’ho cercato invano in coloro che lo dirigono. Questo si comprende facilmente per analogia: il dispotismo degrada assai più colui
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che vi si sottomette di colui che lo impone. Nelle monarchie assolute il re ha spesso grandi virtù, ma i cortigiani sono sempre vili. È vero che i cortigiani, in America, non dicono: “Sire e Vostra Maestà”, grande e capitale differenza; ma essi parlano sempre dell’intelligenza naturale del loro padrone; essi non pongono il problema di sapere quale delle virtù del sovrano sia più degna d’ammirazione per la semplicissima ragione che dichiarano che egli possiede tutte le virtù, senza averle ricevute, quasi senza volere; essi non gli danno le loro mogli e le loro figlie perché egli si degni di farle sue amanti ma, sacrificando le loro opinioni, prostituiscono se stessi. In America i moralisti e i filosofi sono costretti a nascondere le loro opinioni sotto il velo dell’allegoria; ma, prima di arrischiare qualche verità poco piacevole, dicono: Noi sappiamo di parlare a un popolo troppo superiore alle debolezze umane per non essere capace di dominarsi. Non terremmo un simile linguaggio se non sapessimo di rivolgerci a uomini che per le loro virtù e la loro cultura, soli fra tutti gli altri, sono degni di essere liberi.
Gli adulatori di Luigi XIV non avrebbero fatto meglio. Per parte mia, credo che in tutti i governi la bassezza si attaccherà sempre alla forza e l’adulazione al potere. E conosco un solo mezzo per impedire che gli uomini si degradino: non accordare ad alcuno, con l’onnipotenza, il sovrano potere di avvilirli.
Il più grande pericolo per le repubbliche americane viene dall’onnipotenza della maggioranza I governi ordinariamente periscono per impotenza o per tirannide. Nel primo caso il potere sfugge loro, nel secondo viene loro strappato. Molti vedendo cadere gli Stati democratici nell’anarchia, hanno pensato che il governo in questi Stati fosse natural-
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mente debole e impotente. Il vero è che, quando scoppia la guerra fra partiti, il governo perde il controllo della società. Ma non credo che la natura di un potere democratico sia di mancare di forza e di risorse, credo invece che sia quasi sempre l’abuso della sua forza e il cattivo impiego delle sue risorse che lo fanno perire. L’anarchia nasce quasi sempre dalla tirannide e dall’incapacità, non dall’impotenza. Non bisogna confondere la stabilità con la forza, la grandezza di una cosa con la sua durata. Nelle repubbliche democratiche il potere che dirige5 la società non è stabile, perché cambia spesso di mano e di oggetto. Ma, ovunque esso si trovi la sua forza è irresistibile. Il governo delle repubbliche americane mi sembra altrettanto accentrato e più energico di quello di molte monarchie assolute d’Europa: non credo dunque che esso possa perire per debolezza6. Se mai in America la libertà finirà, bisognerà prendersela con l’onnipotenza della maggioranza, che avrà portato le minoranze alla disperazione, costringendole a fare uso della forza materiale. Si giungerà allora all’anarchia, ma essa sarà una conseguenza del dispotismo. Il presidente James Madison ha espresso gli stessi pensieri nella rivista «The Federalist». È molto importante nelle repubbliche, non solo difendere la società contro l’oppressione di coloro che la governano, ma anche garantire una parte della società contro le ingiustizie dell’altra. La giustizia è lo scopo cui deve tendere ogni governo; è lo scopo che si propongono gli uomini riunendosi. I popoli hanno fatto e faranno sempre grandi sforzi verso di esso, fino a che saranno riusciti a raggiungerlo o avranno finito per perdere la loro libertà. Se esistesse una società nella quale il partito più potente fosse in grado di riunire le sue forze e opprimere il più debole, si potrebbe affermare che in essa regna l’anarchia come nello Stato di natura, in cui l’individuo più debole non ha alcuna garanzia contro la violenza del più forte; e, come nello Stato di natura, gli inconvenienti di una sorte incerta e precaria spingono i più forti a sottomettersi a un governo che protegga i deboli come loro stessi,
L’ONNIPOTENZA DELLA MAGGIORANZA NEGLI STATI UNITI
così in un governo anarchico gli stessi motivi condurranno a poco a poco i partiti a desiderare un governo che possa proteggerli tutti egualmente, il forte e il debole. Se lo Stato di Rhode Island fosse separato dalla confederazione e avesse un governo popolare, esercitato sovranamente entro stretti limiti, si potrebbe star sicuri che la tirannide delle maggioranze vi renderebbe talmente incerto l’esercizio dei diritti da far reclamare un governo completamente indipendente dal popolo. Le fazioni stesse che l’avranno reso necessario si affretteranno a ricorrervi.
Jefferson diceva inoltre: Il potere esecutivo nel nostro governo non è il solo, né forse il principale oggetto della mia sollecitudine. La tirannide dei legislatori è attualmente, e sarà per molti anni ancora, il pericolo più formidabile. Quella del potere esecutivo verrà a suo tempo, ma in epoca più lontana7.
Preferisco citare Jefferson piuttosto che un altro, perché lo considero come il grande apostolo della democrazia.
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Da Tocqueville 1835, pp. 253-265 della trad. it. Abbiamo visto, quando abbiamo esaminato la costituzione federale, che i legislatori dell’Unione avevano fatto degli sforzi in senso contrario, con il risultato di rendere il governo federale più libero, nella sua sfera d’azione, di quello dei singoli Stati. Ma il governo federale si occupa quasi soltanto degli affari esteri, mentre i governi degli Stati dirigono realmente la società americana. 2 Gli atti legislativi promulgati nel solo Stato del Massachusetts a partire dal 1780 fino ai nostri giorni riempiono già tre grossi volumi. E bisogna inoltre notare che questa raccolta è stata riveduta nel 1823 e che sono state scartate molte vecchie leggi diventate inutili. Ora lo Stato del Massachusetts, che è popolato circa quanto un nostro dipartimento, passa per il più stabile di tutta l’Unione e per quello che mette più continuità e saggezza nelle sue iniziative. 3 Nessuno vorrà sostenere che un popolo non possa abusare della forza di fronte a un altro popolo. Ora, i partiti formano altrettante piccole nazioni in una grande; essi hanno fra loro rapporti di stranieri. Se si conviene che una nazione possa essere tirannica nei riguardi di un’altra, come negare che un partito possa esserlo riguardo a un altro partito? 4 Si vide a Baltimora, all’epoca della guerra del 1812, un esempio impressionante degli eccessi cui può giungere il dispotismo della maggioranza. A 1
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quell’epoca la guerra era colà assai popolare e un giornale che si mostrava contrario eccitò l’indignazione degli abitanti. Il popolo si riunì, distrusse la tipografia e prese d’assalto le case dei giornalisti. Si tentò allora di mobilitare la milizia ma questa non rispose all’appello: allora, per salvare i disgraziati minacciati dal furore pubblico, si decise di condurli in prigione come dei criminali. Ma questa precauzione fu inutile: durante la notte il popolo si riunì nuovamente e, non essendo i magistrati riusciti a riunire la milizia, la prigione fu forzata, uno dei giornalisti ucciso, gli altri quasi morti: e i colpevoli denunciati alla giuria furono assolti. Io dicevo un giorno a un abitante della Pennsylvania: “Spiegatemi, vi prego, come mai, in uno Stato fondato da quaccheri e famoso per la sua tolleranza, i negri affrancati non sono ammessi a esercitare i diritti politici. Essi pagano le imposte, non è giusto che votino?”. “Non fateci l’ingiuria” egli rispose “di credere che i nostri legislatori abbiano commesso un atto così grossolano di ingiustizia e di intolleranza”. “Così da voi i negri hanno diritto di votare?”. “Senza dubbio”. “Allora come mai stamani al collegio elettorale non ne ho visto alcuno nell’assemblea?”. “Questa non è colpa della legge” mi disse l’americano “i negri hanno è vero il diritto di presentarsi alle elezioni, ma si astengono volontariamente”. “Ecco della modestia da parte loro”. “Ah! Non è per questo, essi temono di essere maltrattati. Da noi avviene talvolta che la legge manchi di forza, quando la maggioranza non l’appoggia affatto. Ora, la maggioranza ha dei grandi pregiudizi contro i negri e i magistrati, dal canto loro, non hanno la forza di garantire a questi i diritti loro legalmente conferiti”. “E che! La maggioranza che ha il diritto di fare la legge vuole anche quello di disobbedire alla legge?”. 5 Il potere può essere accentrato in un’assemblea: allora è forte, ma non stabile; può essere accentrato in un uomo: allora è meno forte ma più stabile. 6 Penso che sia inutile avvertire il lettore che qui, come in tutto il resto del capitolo, non parlo del governo federale ma dei governi particolari di ogni Stato diretti dispoticamente dalla maggioranza. 7 Lettera di Jefferson a Madison, 15 marzo 1789.
Gli stereotipi* Walter Lippmann
1. Ciascuno di noi vive e opera su una piccola parte della superficie terrestre, si muove in un cerchio ristretto e solo di pochi dei suoi conoscenti giunge a essere intimo. Di tutti gli avvenimenti pubblici che hanno vasti effetti, vediamo al massimo solo una fase e un aspetto. Questo vale sia per gli eminenti personaggi che redigono trattati, legiferano, ed emanano ordini, sia per quelli per i quali questi trattati vengono redatti, queste leggi vengono promulgate e questi ordini vengono dati. Inevitabilmente le nostre opinioni coprono uno spazio più ampio, un tempo più lungo, un numero maggiore di cose di quanto possiamo direttamente osservare. Debbono, perciò, essere costruite sulla base di ciò che ci viene riferito da altri, e di ciò che noi stessi riusciamo a immaginare. D’altronde, nemmeno il testimone oculare riporta un’immagine semplice della scena che ha visto1. Infatti l’esperienza sembra dimostrare che alla scena che poi porta con sé egli già in partenza reca degli elementi, e che più spesso di quanto si creda ciò che egli crede il resoconto di un fatto è già in realtà la sua trasfigurazione. Sono pochi i fatti che sembrano venire registrati dalla coscienza come sono; la maggior parte dei fatti contenuti nella coscienza appaiono in parte costruiti. Il resoconto è il prodotto congiunto di colui che conosce e della cosa conosciuta, in cui il ruolo dell’osservatore è sempre selettivo e di solito creativo. I fatti che vediamo dipendono dal punto di vista in cui ci mettiamo, e dalle abitudini contratte dai nostri occhi.
WALTER LIPPMANN
Una scena non familiare è come il mondo del bambino: “Una grande confusione, fiorente e ronzante” (James 1890, I, p. 488). È in questo modo, dice John Dewey (1910, pp. 221-222), che ogni cosa nuova colpisce l’adulto, sempre che la cosa sia davvero nuova e insolita. Le lingue straniere che non comprendiamo ci danno sempre l’impressione di un confuso chiacchierio, un cicaleccio in cui non è possibile fissare alcun gruppo di suoni nettamente definito e ben individualizzato. Accade lo stesso al provinciale in una affollata via cittadina, all’abitante della terra ferma sul mare, all’ignorante in faccende sportive che assiste a una discussione fra competenti a proposito di una partita complicata. Ponete un uomo privo di esperienza in una fabbrica, e il lavoro gli sembrerà sulle prime un miscuglio di cose senza significato. Gli stranieri di un’altra razza proverbialmente si somigliano tutti, agli occhi del visitatore forestiero. In un gruppo di pecore, ognuna delle quali è perfettamente individualizzata per il pastore, un estraneo percepisce soltanto grossolane differenze di grandezza e di colore. Ciò che non comprendiamo ha per noi il carattere di un indiscriminato mutamento, di una macchia in espansione. Il problema dell’acquisto dei significati dalle cose, o (detto in altro modo) il problema di formare abiti di apprendimento diretto è dunque quello di introdurre: a) definitezza o distinzione e b) coerenza, costanza, o stabilità di significati in cose che altrimenti sono vaghe e fluttuanti.
Come siano questa precisione e questa costanza dipende però da chi le introduce. In un brano successivo (pp. 247-248) Dewey fornisce un esempio di come possano differire le definizioni del termine “metallo”, date rispettivamente da un profano che ha qualche esperienza in proposito e da un chimico. La levigatezza, la durezza, la lucentezza e lo splendore, il notevole peso in rapporto alla grandezza; (…) proprietà utili come la capacità di essere rese malleabili dal calore ed essere indurite dal freddo, di conservare la forma e la figura date, di resistere alla pressione e al logoramento,
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entrerebbero probabilmente nella definizione del profano. Ma il chimico probabilmente trascurerebbe queste qualità estetiche e utilitarie, e definirebbe metallo “un elemento chimico che entra in combinazione con l’ossigeno in modo da formare una base”. Nella maggior parte dei casi noi definiamo non dopo, ma prima di aver visto. Nella grande, fiorente e ronzante confusione del mondo esterno trascegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo trascelto nella forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi. Dei grandi uomini che si sono riuniti a Parigi per decidere le sorti dell’umanità, quanti erano davvero in grado di vedere qualcosa dell’Europa? Se qualcuno avesse potuto entrare nella mente di Clemenceau, vi avrebbe trovato le immagini reali dell’Europa del 1919 o non piuttosto un forte sedimento di idee stereotipate accumulate e irrigiditesi nel corso di una lunga e combattiva esistenza? Vedeva i tedeschi del 1919, o il tipo germanico che aveva imparato a vedere fin dal 1871? Vedeva proprio quest’ultimo, e tra i vari rapporti che gli arrivavano dalla Germania dava peso a quelli – e, a quanto pare, solo a quelli – che si attagliavano al tipo che aveva nella mente. Se uno junker diventava minaccioso, quello era un autentico tedesco; se un dirigente sindacale riconosceva la colpa dell’impero, non poteva essere un vero tedesco. A un congresso di psicologia, svoltosi a Gottinga, è stato fatto un interessante esperimento su un gruppo di osservatori presumibilmente addestrati (Van Gennep 1910, pp. 108-109). Non lontano dalla sala delle riunioni c’era una festa pubblica, con ballo in maschera. Improvvisamente la porta della sala si apre, un clown si precipita come un folle inseguito da un negro armato di pistola. I due si fermano in mezzo alla sala e s’insultano; il clown cade, il negro gli salta addosso, spara e subito entrambi escono dalla sala. Il tutto dura appena venti secondi. Il presidente pregò i membri presenti di scriver subito un rapporto perché sicuramente ci sarebbe stata un’inchie-
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sta giudiziaria. Furono consegnati quaranta rapporti. Uno solo aveva meno del venti per cento di errori relativi al preciso svolgersi dei fatti; quattordici avevano dal venti al quaranta per cento di errori, dodici dal quaranta al cinquanta per cento, e tredici più del cinquanta per cento. Inoltre, in ventiquattro rapporti il dieci per cento dei dettagli erano puramente inventati, e questa percentuale d’invenzione era ancora maggiore in dieci rapporti e minore in sei. In definitiva un quarto dei rapporti dovette essere considerato come falso. Non è necessario dire che tutta la scena era stata concordata e anche fotografata prima. I dieci rapporti falsi sono dunque da inserire nella categoria dei racconti e delle leggende, altri ventiquattro sono semileggendari e i sei rimanenti hanno più o meno il valore di testimonianza esatta.
Sicché, di quaranta osservatori allenati che hanno scritto un resoconto responsabile di una scena appena accaduta dinanzi ai loro occhi, più della maggioranza ha visto una scena che non aveva avuto luogo. Che cosa avevano visto, allora? Sembrerebbe più facile raccontare ciò che è accaduto, che inventare qualcosa che non è accaduto. Essi hanno visto il loro stereotipo di una zuffa. Tutti nel corso della loro vita avevano acquisito una serie di immagini di zuffe, e queste immagini sfilarono dinanzi ai loro occhi. In uno solo di loro queste immagini soppiantarono meno del 20 per cento della scena reale; in tredici di loro più della metà. In trentaquattro dei quaranta osservatori gli stereotipi si appropriarono di almeno un decimo della scena. Un eminente critico d’arte ha scritto (Berenson 1909) che Date le forme quasi innumerevoli che assume un oggetto (…) data la nostra insensibilità e la nostra scarsa attenzione, le cose difficilmente avrebbero per noi tratti e contorni così precisi e chiari da poter essere richiamati a volontà, se non fosse per le forme stereotipate che l’arte ha prestato loro.
La verità è ancor più ampia di quel che lui pensasse, perché le forme stereotipate fornite al mondo non provengono solo dall’arte, intesa nel senso di pittura e scultura e
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letteratura, ma anche dai nostri codici morali, dalle nostre filosofie sociali e dalle nostre agitazioni politiche. Sostituiamo, in quest’altro brano di Berenson, le parole “politica”, “economia” e “società” alla parola “arte”, e le sue affermazioni resteranno egualmente vere: A meno che anni e anni dedicati allo studio di tutte le scuole artistiche non ci abbiano insegnato anche a vedere con i nostri occhi, cadiamo ben presto nell’abitudine di modellare tutto quello che osserviamo nelle forme che ci offre quella sola arte che ci è familiare. Essa è la misura con cui giudichiamo la realtà artistica. Basta che qualcuno ci dia forme e colori che non trovano riscontro istantaneo nel nostro misero repertorio di forme e tinte trite e ritrite, ed ecco che scuoteremo la testa perché questi non ha riprodotto le cose come sappiamo che debbono essere, o lo accuseremo di insincerità.
Berenson parla del disappunto che proviamo quando un pittore “non visualizza gli oggetti esattamente come noi”, e della difficoltà di apprezzare l’arte del Medioevo perché da allora “la nostra maniera di visualizzare le forme è cambiata in mille modi”2. Passa poi a dimostrare in che modo ci è stato insegnato a vedere quello che vediamo della figura umana. Creato da Donatello e Masaccio, e sanzionato dagli umanisti, il nuovo canone della figura umana, la nuova forma dei lineamenti (…) presentava alle classi dirigenti di quell’epoca il tipo di essere umano che con maggiori probabilità poteva affermarsi nello scontro delle forze umane (…) chi aveva il potere di spezzare questo nuovo cliché visivo e di scegliere dal caos delle cose forme più precisamente espressive della realtà di quelle fissate da uomini di genio? Nessuno aveva un tale potere. La gente doveva per forza vedere le cose in quel modo e in nessun altro, e vedere solo le forme ritratte, amare solo gli ideali offerti.
2. Se non riusciamo a comprendere pienamente le azioni degli altri finché non sappiamo che cosa credono di sapere,
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allora, per essere equi, dobbiamo vagliare non solo le informazioni che erano a loro disposizione, ma anche le menti con cui le hanno filtrate. Infatti i tipi accettati, gli schemi correnti, le versioni standard intercettano le notizie prima che arrivino alla coscienza. L’americanizzazione, per esempio, è, almeno superficialmente, la sostituzione di stereotipi americani a stereotipi europei. Così il contadino che magari vedeva il proprietario come il signore del castello, e il suo datore di lavoro come il magnate locale, impara dall’americanizzazione a vedere il proprietario e il datore di lavoro secondo i canoni americani. Ciò costituisce un mutamento di mentalità, che in sostanza, quando l’inoculazione riesce, è un mutamento del modo di vedere. Il suo occhio vede in modo diverso. Un’amabile gentildonna confessava che gli stereotipi sono di un’importanza così soverchiante che, quando i suoi vengono contrastati, lei da parte sua non riesce nemmeno più ad accettare la fraternità umana e la paternità divina. I vestiti che portiamo c’influenzano stranamente. L’abbigliamento crea un’atmosfera psicologica e sociale. Che cosa si può sperare dall’americanismo di un individuo che insiste a farsi fare i vestiti a Londra? Il cibo stesso influisce sull’americanismo di una persona. Che specie di americanismo può maturare in un’atmosfera di crauti e di formaggio di Limburgo? Che cosa ci si può aspettare dall’americanismo dell’individuo il cui fiato puzza continuamente d’aglio? (Bierstadt 1921, p. 21).
Questa signora avrebbe potuto essere la patrona di una parata a cui assistette una volta un mio amico. S’intitolava “Il Crogiuolo”, ed ebbe luogo un 4 luglio in un centro dell’industria automobilistica dove lavorano molti operai di origine straniera. Al centro del campo di baseball, all’altezza della seconda base, era stato messo un enorme pentolone di legno e tela. Su due lati c’erano delle scalinate che portavano fino all’orlo. Dopo che il pubblico si fu sistemato e la banda musicale ebbe suonato, entrò da un’apertura a un lato del campo una processione. Era composta di uo-
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mini di tutte le nazionalità straniere presenti nelle fabbriche. Indossavano i costumi del loro paese d’origine, cantavano i loro canti nazionali, danzavano i loro balli popolari e portavano le bandiere di tutti i paesi d’Europa. Fungeva da maestro di cerimonie il direttore della scuola elementare, vestito da zio Sam. Fu lui a condurli al pentolone; li fece salire per le scalinate e li portò dentro. Poi si mise dall’altra parte e li invitò a uscire. Ricomparvero in bombetta, giacca, pantaloni, gilet, colletto duro e cravatta a pallini – e senza dubbio, diceva il mio amico, ognuno con una matita Eversharp nel taschino – cantando tutti insieme l’inno nazionale americano. I promotori di questa parata, e probabilmente la maggior parte dei protagonisti, credevano di essere riusciti a esprimere quella che costituisce la difficoltà più intima di associazione amichevole tra le vecchie stirpi americane e le nuove. Il conflitto dei loro stereotipi impediva il pieno riconoscimento della loro comune umanità. Le persone che hanno cambiato il loro nome lo sanno; intendono cambiare se stessi e l’atteggiamento degli altri nei loro confronti. Naturalmente c’è un nesso fra la scena esterna e la mente con cui la osserviamo, proprio come nelle riunioni della sinistra ci sono uomini con i capelli lunghi e donne con i capelli corti. Ma per l’osservatore frettoloso è sufficiente un nesso superficiale: se tra il pubblico ci sono due donne con i capelli alla maschietta, e quattro barbe, agli occhi del cronista il quale sa in precedenza che queste riunioni sono frequentate da persone che hanno questi gusti in fatto di acconciatura, quello sarà un pubblico tutto alla maschietta e barbuto. C’è un nesso tra la nostra visione e i fatti, ma spesso è un curioso nesso. Un tale, supponiamo, non ha mai guardato un paesaggio se non per esaminare la possibilità di dividerlo in lotti fabbricabili, ma ha visto invece un certo numero di paesaggi appesi in salotto. E da questi ha appreso a concepire il paesaggio come un tramonto rosato o come una strada di campagna con un campanile e una luna d’argento. Un giorno va in campagna e per varie ore non vede un solo paesaggio. Poi il sole cala e in quel mo-
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mento sembra rosa. Di colpo riconosce un paesaggio ed esclama che è bellissimo. Ma due giorni dopo, quando cerca di ricordare quello che ha visto, nove volte su dieci ricorderà soprattutto un paesaggio visto in salotto. Se non era ubriaco, e non sognava, e non era pazzo, ha visto un tramonto; ma ci ha visto, e soprattutto ne ricorderà, più quello che le oleografie gli hanno insegnato a osservare di quello che un pittore impressionista, per esempio, o un giapponese colto, ci avrebbe visto e ne avrebbe riportato. E il giapponese e il pittore a loro volta avranno visto e ricordato soprattutto la forma che avevano imparato, a meno che per caso non fossero tra quei pochissimi che scoprono all’umanità nuovi modi di vedere. L’osservatore inesperto sceglie nell’ambiente dei segni riconoscibili: i segni stanno al posto di idee, e queste idee vengono riempite del nostro repertorio di immagini. Non è che vediamo davvero quest’uomo e quel tramonto; ma piuttosto notiamo che l’oggetto è un uomo o un tramonto, e poi vediamo soprattutto ciò di cui la nostra mente è già piena al riguardo. 3. Un atteggiamento di questo genere risparmia energie. Infatti il tentativo di vedere tutte le cose con freschezza e in dettaglio, invece che nella loro tipicità e generalità, è spossante; e quando si è molto occupati, è praticamente impossibile. In un circolo di amici, e nei confronti di stretti collaboratori o correnti, non esistono scorciatoie – né surrogati – a una conoscenza individualizzata. Quelli che ammiriamo di più sono gli uomini e le donne la cui coscienza è popolata fittamente di persone piuttosto che di tipi; che conoscono noi piuttosto che la classificazione nella quale potremmo essere fatti rientrare. Infatti, anche senza formularlo chiaramente a noi stessi, avvertiamo per intuizione che tutte le classificazioni sono in funzione di fini che non sono necessariamente i nostri; che nessun’associazione tra due esseri umani ha vera dignità se in essa ciascuno non consideri l’altro come un fine in sé. C’è un vizio organico
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in ogni contatto tra due persone in cui non si affermi come un assioma l’inviolabilità personale di entrambi. Ma la vita è affannosa e multiforme e soprattutto la distanza fisica separa uomini che spesso si trovano in un rapporto reciproco fondamentale, come il datore di lavoro e il suo dipendente, l’elettore e l’eletto. Non c’è il tempo né la possibilità per una conoscenza profonda. E così ci limitiamo a notare un tratto, che caratterizza un tipo ben conosciuto, e riempiamo il resto dell’immagine grazie agli stereotipi che ci portiamo in testa. Quello è un agitatore: fin lì notiamo, o ce lo dicono. Ebbene, un agitatore è fatto così e colà, e quindi anche lui è fatto così e colà. È un intellettuale. È un plutocrate. È uno straniero. È un “sudeuropeo”. È un “bramino” di Boston3. È uno di Harvard. Com’è diverso dal dire: è uno di Yale. È una brava persona. È uno che è stato a West Point. È un vecchio sergente di carriera. È un abitante del Greenwich Village: cosa non sappiamo di lui, o di lei, allora? È un banchiere internazionale. È un abitante di Main Street. Le più sottili e contagianti influenze sono quelle che creano e conservano il repertorio degli stereotipi. Sentiamo parlare del mondo prima di vederlo. Immaginiamo la maggior parte delle cose prima di averne esperienza. E questi preconcetti, se non siamo stati resi molto avvertiti dall’educazione, incidono profondamente nell’intero processo della percezione. Contrassegnano certi oggetti come familiari o estranei, mettendone in risalto la differenza, sicché ciò che conosciamo appena ci sembra ben noto, e quello che ci è un po’ estraneo ci appare decisamente alieno. Vengono suscitati da piccoli segni, che possono variare dal vero indice alla vaga analogia. Una volta suscitati, inondano la visione fresca e immediata di vecchie immagini, e proiettano nel mondo ciò che la memoria ha fatto risuscitare. Se nell’ambiente non ci fossero delle uniformità di fatto, non ci sarebbe economia, ma soltanto errore nell’abitudine umana di accettare la previsione come visione. Ma ci sono invece delle uniformità abbastanza costanti, e la necessità di economizzare l’attenzione è così inevitabile
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che l’abbandono di tutti gli stereotipi, per un atteggiamento completamente innocente di fronte all’esperienza, impoverirebbe la vita umana. Ciò che conta è la natura degli stereotipi, e la credulità con cui li adoperiamo. E questo in ultima analisi dipende da quegli schemi generali che costituiscono la nostra filosofia della vita. Se in questa filosofia assumiamo che il mondo è codificato secondo un codice di cui siamo in possesso, probabilmente descriveremo, nei nostri resoconti degli avvenimenti, un mondo retto dal nostro codice. Ma se la nostra filosofia ci dice che ogni uomo è solo una particella del mondo, che la sua intelligenza ne cattura, nel migliore dei casi, solo qualche frase e qualche aspetto in una rozza trama di idee, allora, quando usiamo i nostri stereotipi tendiamo a renderci conto che sono soltanto degli stereotipi, li consideriamo senza troppo impegno, e li modifichiamo di buon grado. Tendiamo anche a renderci conto sempre più chiaramente del momento in cui le nostre idee sono sorte, della loro origine, di come sono arrivate sino a noi, e del motivo per cui le abbiamo accettate. Tutta la storia utile è antisettica allo stesso modo. Ci consente di sapere quale fiaba, quale testo scolastico, quale tradizione, quale romanzo, dramma, quadro, frase abbia seminato un preconcetto in questa mente, un altro preconcetto in quell’altra. 4. Almeno quelli che vogliono censurare l’arte non sottovalutano questa influenza. In genere la fraintendono, e quasi sempre s’intestardiscono scioccamente non voler impedire agli altri di scoprire qualcosa che loro non hanno sanzionato. Ma a ogni modo, come Platone quando parla dei poeti, essi intuiscono vagamente che spesso i tipi acquisiti attraverso l’invenzione della fantasia vengono poi imposti alla realtà. Così non c’è dubbio che il cinema sta continuamente costruendo immagini, che vengono poi richiamate alla mente dalle parole che la gente legge nei giornali. Nell’intera esperienza della specie umana non
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c’è stato un altro strumento di visualizzazione della potenza del cinema. Se un fiorentino voleva avere un’immagine dei santi, poteva andare a guardare gli affreschi della sua chiesa, dove gli veniva offerta una visione dei santi che era stata standardizzata per la sua epoca da Giotto. Se un ateniese voleva farsi un’immagine degli dei, andava in un tempio. Ma il numero di oggetti che venivano ritratti non era molto grande. E in Oriente, dove lo spirito del secondo comandamento era largamente accettato, la rappresentazione di cose concrete era ancora più scarsa; ed è forse proprio per questa ragione che la capacità di decisione pratica è risultata lì così ridotta. Nel mondo occidentale, invece, c’è stato nel corso degli ultimi secoli un enorme aumento, sia in volume che in ampiezza, della rappresentazione laica, attraverso la descrizione verbale, la narrativa, la narrativa illustrata, e infine il cinema e forse il cinema sonoro. Le fotografie hanno sull’immaginazione odierna lo stesso tipo di autorità che ieri aveva la parola stampata e in precedenza aveva avuto la parola parlata. Sembrano del tutto vere. Ci figuriamo che arrivino sino a noi direttamente, senza intromissioni umane; e sono per la mente il cibo più facile. Ogni descrizione verbale, o anche ogni immagine inerte, richiede uno sforzo di memoria prima che l’immagine si produca nella mente. Ma sullo schermo l’intero processo dell’osservare, descrivere, riferire e poi immaginare, è già stato compiuto per noi. Senza uno sforzo maggiore di quello richiesto per restar svegli, il risultato a cui costantemente mira la nostra immaginazione viene proiettato sullo schermo. L’idea nebulosa diventa vivida: la nostra confusa idea, poniamo, del Ku Klux Klan, acquista chiarezza e intensità, grazie a Griffith, quando assistiamo a La nascita di una nazione. Storicamente può essere un’immagine sbagliata, moralmente può essere perniciosa, ma è un’immagine, e io dubito che qualcuno che abbia visto il film, e non sappia del Ku Klux Klan più di quanto ne sapeva Griffith, potrà mai più sentirlo nominare senza vedere quei cavalieri bianchi.
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5. E allo stesso modo, quando parliamo della mente di un gruppo di persone, della mente francese, della mente militarista, della mente bolscevica, andiamo soggetti a gravi confusioni se non accettiamo di separare le disposizioni istintive dagli stereotipi, dagli schemi e dalle formule che giocano una parte così decisiva nella costruzione del mondo mentale cui il carattere originario si adatta e risponde. La mancata distinzione tra questi due ordini di fatti spiega i fiumi di chiacchiere che si sono fatte a proposito di menti collettive, anime razionali e psicologia delle razze. Naturalmente uno stereotipo può essere così coerentemente e autorevolmente trasmesso di padre in figlio da sembrare quasi un fatto biologico. Sotto certi aspetti, forse siamo davvero diventati, come dice Wallas (1921, p. 17), biologicamente parassitari nei confronti del nostro retaggio sociale. Ma certamente non esiste la minima prova scientifica che consenta di sostenere che gli uomini nascano con gli atteggiamenti politici del paese in cui vedono la luce. Nella misura in cui in una nazione gli atteggiamenti politici sono simili, i primi luoghi in cui si deve cercare una spiegazione sono la stanza dei bambini, la scuola, la chiesa, e non quel limbo abitato dalle Menti di Gruppo e dalle Anime Nazionali. Finché non si dimostra che non esiste una trasmissione di tradizioni da parte dei genitori, degli insegnanti, dei preti e degli zii, si cade in un errore madornale attribuendo le differenze politiche alla cellula embrionale. Si può fare qualche generalizzazione, e sempre con la dovuta umiltà, sulle differenze comparative entro la stessa categoria di educazione e di esperienza. Ma anche questa è impresa piena di trabocchetti. Infatti nemmeno due esperienze sono veramente identiche, nemmeno quelle dei due bambini cresciuti nella stessa famiglia. Il figlio maggiore non fa mai l’esperienza di essere il minore. E perciò, finché non siamo in grado di valutare le differenze di formazione, dobbiamo sospendere il giudizio sulle differenze di natura. Sarebbe come giudicare la produttività di due terreni, confrontando la loro resa prima di sapere quale
GLI STEREOTIPI
dei due si trova nel Labrador, e quale nello Iowa, e se sono stati coltivati e concimati, oppure eccessivamente sfruttati o lasciati incolti.
* Da Lippmann 1922, pp. 77-90 della trad. it. Si ringrazia l’editore Donzelli per l’autorizzazione alla riproduzione. 1 Cfr., ad esempio, Locard (1920). Negli ultimi anni è stato raccolto parecchio materiale interessante sulla credibilità del testimone, ed esso dimostra, come dice un acuto recensore del libro del dottor Locard nel supplemento letterario del «Times» di Londra del 18 agosto 1921, che la credibilità varia a seconda delle categorie di testimoni e delle categorie di avvenimenti e anche a seconda del tipo di percezione. Così le percezioni tattili, olfattive e gustative servono poco ai fini della testimonianza. Il nostro udito è difettoso e arbitrario quando giudica la fonte e la direzione del suono, e nell’ascoltare la conversazione di altre persone “le parole che non vengono udite verranno fornite in perfetta buona fede dal testimone. Avrà una sua opinione a proposito del senso della conversazione, e organizzerà i suoni che ha udito in modo che vi si accordino”. Anche le percezioni visive vanno soggette a gravi errori d’identificazione, di riconoscimento, di valutazione della distanza, di valutazione quantitativa, come ad esempio l’entità di una folla. Il senso del tempo dell’osservatore comune varia molto. Tutte queste debolezze originarie vengono poi complicate dagli scherzi della memoria e dell’incessante creatività dell’immaginazione. Cfr. anche Sherrington (1906, pp. 318-327). Il professor Hugo Münsterberg ha scritto su questo argomento un libro di successo, intitolato On the Witness Stand. 2 Si veda anche il suo commento su Le immagini visive di Dante, e i suoi primi illustratori. “Noi non possiamo fare a meno di vestire Virgilio come un romano antico, e di dargli un “profilo classico” e un “portamento statuario”, ma l’immagine visiva che Dante aveva di Virgilio era probabilmente non meno medievale, non più basata su una ricostruzione critica dell’antichità, di quanto lo fosse tutta la concezione del poeta romano. Gli illustratori del Trecento danno a Virgilio l’aspetto di un dotto medievale, e non c’è motivo per cui l’immagine visiva che ne aveva Dante dovesse essere diversa da questa” (Berenson 1920, p. 13). 3 Nel testo: “He is from Back Bay”: area di Boston nella quale erano concentrati gli wasp (N.d.T.).
Critica dell’opinione pubblica* Ferdinand Tönnies
Opinare e opinione, opinioni comuni Il concetto di opinione Volendo analizzare il concetto d’opinione, dobbiamo attenerci al significato che essa ha in comune con le parole corrispondenti delle lingue latina e romanza: è il senso intellettualistico (…) segnalato nelle altre lingue di norma per mezzo di parole che significano “pensare, credere, supporre”. (…) Le ferme convinzioni, ma anche la ferma volontà, i principi vincolano l’agire, almeno nel caso della persona ferma di carattere, della quale si sa bene che “ha un’opinione”, che ha una volontà. In questo senso si loda l’uomo che ha “il coraggio delle proprie opinioni”, e l’acquisizione di un’opinione, ancor più la “formazione” di un’opinione viene rappresentata come una prestazione, come un’attività volontaria che implica l’esercizio di uno sforzo e che ha un certo costo in termini di tempo. (…) Stati di aggregazione dell’opinione Per stati di aggregazione dell’opinione, concetto che deve includere qui anche le credenze, intendo la misura in cui l’uomo è o è diventato, nelle sue opinioni o convinzioni, “concorde con se stesso”; più completo è l’accordo nel suo animo, più incrollabile è la sua credenza o la sua opinione; più è incompleto, più egli si sente insicuro, più la sua credenza è vacillante, egli lotta allora contro il dubbio, crede ma allo stesso tempo prega “Signore, aiuta la mia incredulità”. Egli è inquieto e agitato: come quello stato d’animo può essere detto solido, questo può essere paragonato con
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un fluido o addirittura con lo stato dei gas. La fede si trova piuttosto in quello, l’opinione piuttosto in questo stato. Poiché l’opinione si dà come incerta, è spesso connessa al dubbio, non dissimula la propria “soggettività”. Lo stato fluido è quello prevalente nel pensiero umano, poiché è quello che corrisponde maggiormente alla vita animale e al condizionamento attraverso l’attività degli organi di senso, ossia ai bisogni della vita quotidiana, del movimento e del lavoro per il loro soddisfacimento, alla miscela di percezioni sensoriali e di idee e illusioni fondate sulla memoria (…). (…)
Condizioni della comunanza Probabilità dell’accordo Che due o più persone siano veramente della stessa “opinione” su una questione appare tanto più degno di nota perché tanto più improbabile A) quanto più difficile, ingarbugliata, insondabile è la questione; B) quanto più diverse sono le persone per condizioni di vita individuali e sociali, per bisogni e interessi; C) quanto più soprattutto i singoli, che possono essere capaci e disposti a giudicare, sono individui diversi in parte per i propri talenti e in parte per la propria mentalità e per la propria vita emotiva, quanto più dunque ognuno si è differenziato dagli altri nel suo sviluppo e nella sua educazione. (…) Così il dissenso è tanto più probabile quanto più le tre difficoltà coincidono e concorrono. (…) Accordo e coercizione Un problema comune, in cui è compreso quello di una “opinione pubblica” (…), è dunque l’affinità e l’accordo fra più persone soprattutto sulle proprie opinioni o “pareri”, e con ciò anche sulle proprie idee religiose, Weltanschauungen, principi morali ecc. Consideriamo qui (…) le idee degli individui come espressione dei loro sentimenti o addirittura della loro volontà consapevole diretta a uno scopo e a un mezzo. Perciò
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per spiegare – almeno in una certa misura – le opinioni comuni è necessario risalire ai sentimenti comuni e alla volontà collettiva. La comunanza non è intesa qui secondo il libero uso linguistico, per cui è comune a due persone o due oggetti ciò che l’uno ha e ha anche l’altro, ma pensiamo invece a sentimenti ecc., che sono espressione di un legame fra persone e che al tempo stesso contribuiscono a creare questo legame. I legami e i rapporti positivi sono (secondo i concetti che io utilizzo) di tipo comunitario (gemeinschaftlich) o sociale (gesellschaftlich), o meglio indicano più l’una o l’altra direzione. (…) Un settore particolare della volontà collettiva è quello che si presenta come un imperativo attraverso il quale viene vincolata la volontà individuale. Una tale volontà collettiva determina in generale le azioni dei singoli, sia che chi agisce sia consapevole o meno della propria ubbidienza alla volontà collettiva, sia che riconosca la volontà collettiva come tale o meno. L’azione va qui tuttavia intesa in un senso molto ampio. Anche parlare in modo comprensibile, l’utilizzo di una lingua, è in questo senso una forma di azione. Nei significati delle parole e nelle regole della lingua si esprime una volontà collettiva. Anche pensare e avere un’opinione è in questo senso un’azione. Siamo abituati a considerare l’espressione dei propri pensieri, l’esternazione di un’opinione come un’azione “libera”. Al contrario il pensiero stesso e le credenze, in quanto involontari, spontanei, sembrano sottratti all’effetto di disposizioni e divieti. In verità [il pensiero] non è immediatamente dipendente da decisioni e intenzioni, tuttavia non è neanche, come altrimenti una libera azione, immediatamente condizionato dalla speranza e dal timore, come i sentimenti che una volontà altrui, ivi inclusa una volontà collettiva, può essere in grado di ispirare. Questi [sentimenti] caratterizzano però solo il più vistoso, ma assolutamente non unico genere d’influenza di una volontà su un’altra, in particolare di una volontà collettiva sui sentimenti e la mentalità del singolo che si trova all’interno del campo di questa volontà collettiva. Piuttosto è un fenomeno abbastanza regolare che il
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pensiero di una persona venga condizionato, come dall’intero ambiente circostante, così anche dall’atmosfera in cui il pensiero vive, dal nutrimento che esso riceve quotidianamente e costantemente, così che esso si attiene e si sottomette alle espressioni della volontà sociale che conosce e riconosce, dalla quale si sente sorretto: [si sottomette alle espressioni] dello “spirito” in cui il suo stesso spirito nasce. Il confine tra il pensiero e la parola, tra l’opinione e la sua esternazione è di norma un confine fluttuante; l’esternazione e, in modo più compiuto, l’esternazione abitudinaria e in qualche modo professionale agisce di rimando sul pensiero e sull’opinione, e dunque sulla mentalità. Non si può, con successo, imporre o vietare di pensare la tale cosa, di credere alle tali frasi, di nutrire le tali opinioni, ma si può imporre o vietare di comunicare le relative opinioni, e a maggior ragione di esternarle pubblicamente, di diffonderle per iscritto e attraverso la stampa, di persuadere e convincerne gli altri, in sintesi, di sostenerle facendo loro pubblicità (“fare propaganda”). Se ciò che viene imposto viene inizialmente fatto con riluttanza, e ciò che viene vietato abbandonato con risentimento, si verifica però come in tutti i casi di pressione e interdizione per lo più un adattamento e un’uniformazione: i pensieri si sottomettono alla pressione. Le opinioni inibite, fintanto che non vengono sostenute da altre parti, perdono vigore e retrocedono sullo sfondo della coscienza. (…)
Forme della volontà collettiva - concordia - consuetudine religione (…) L’opinione pubblica è l’espressione più intellettuale della stessa volontà collettiva che si esprime nella convenzione e nella legislazione. Possiamo determinare il suo soggetto, che si accoda dunque alla società e allo Stato come soggetti di quella, come “il pubblico” o, più precisamente, se si tratta di un pubblico sapiente, istruito, informato, come la “repubblica degli eruditi”, che per la sua indole si riunisce e si concentra a livello internazionale, ma è anche disseminata all’in-
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terno di un paese come élite intellettuale nazionale, soprattutto nelle città, specialmente nelle metropoli e nei luoghi della cultura, più di tutto nelle capitali; essa viene non di rado definita anche come “intellighenzia” o come “gli intellettuali”. La si può intendere convenientemente come un’ideale riunione del consiglio che attraverso le proprie delibere dà delle norme, o, in modo ancor più calzante – così come spesso è accaduto nella realtà –, come una corte di giustizia le cui decisioni o scoperte reclamano per se stesse la validità ideale di sentenze e, sebbene senza l’assistenza di un potere esecutivo, rappresentano un potere e una forza capaci di conferire onori come di disonorare, di esaltare come di annientare, di glorificare come di condannare, ma che si possono anche muovere fra questi due confini come assoluzioni, silenzi, atti di tolleranza. Questi verdetti o cognizioni sono l’opinione pubblica nella sua forma fluida – effimera –, nella quale essa viene di solito giudicata. (…)
Vita pubblica e frazionamento in gruppi Sfera pubblica La sfera pubblica è legata, per il proprio carattere generale, a ogni forma di vita politica evoluta. Perciò in primo luogo in modo marcato con la vita delle città. Essa ha il suo luogo naturale, come lo scambio di merci e denaro, per strada (“in publico”), in particolare nella piazza del mercato, sia essa a cielo aperto o in spazi al coperto accessibili a chiunque (portici, mercati coperti, bazar). (…) Opinione pubblica e un’Opinione Pubblica Non appena però e fintantoché le differenti classi sociali partecipano alla libertà di stampa e di parola oppure riescono a oltrepassare le barriere tracciate, così da questa libertà collettiva dell’espressione dell’opinione risultano immediatamente una pluralità e una molteplicità, ma anche una contraddizione e una controversia delle opinioni espresse pub-
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blicamente. L’opinione pubblica in questo senso non è assolutamente omogenea. Può essere recepita come un’unità, in quanto viene pensata come totalità della vita intellettuale di un’unità che si rende manifesta, in particolar modo di una nazione unificata in uno Stato; quasi come l’unità di un recipiente, in cui si trovano però mescolati elementi di diversa configurazione. L’opinione pubblica in questo senso ha come solo sostanziale segno distintivo che essa viene espressa, annunciata, e cioè alla “collettività”, ossia viene annunciata a qualsiasi ascoltatore o lettore, al contrario 1) dell’opinione come qualcosa dotato di una sua propria natura rivolta all’interno e al proprio (privato), ma anche al contrario 2) dell’opinione comunicata in modo confidenziale a determinate persone conosciute. Se ora l’opinione che si annuncia così è l’opinione e il giudizio di molti, di una maggioranza, di conseguenza – se il suo peso viene valutato pari a quello della maggioranza di un’assemblea – come quello di una totalità, di una cerchia, di un’unità legata in forma di Gemeinschaft (comunità) o di Gesellschaft (società), allora è dato ciò che si può chiamare “una” opinione pubblica. “Una” opinione pubblica è dunque l’opinione effettivamente unanime, o avente tale valore, di una qualsiasi cerchia, il giudizio compatto di una collettività, in particolare quando e fintantoché questo si fa sentire affermativo o negativo, con approvazione o in modo sprezzante, con ammirazione e onori o come condanna. In questo senso proprio i luoghi piccoli, e meno le città, hanno un’opinione pubblica i cui portatori sono innanzitutto i “notabili”, ai quali si unisce una quantità indefinita di quanti desiderano appartenere alla “società”. Va intesa in questo senso anche l’espressione nel § 186 del codice penale tedesco (…): “Chi sostiene o diffonde in riferimento a qualcun altro un fatto passibile di rendere quest’ultimo disprezzabile o di screditarlo nell’opinione pubblica….”1, poiché l’Opinione Pubblica (vera e propria), nel senso in cui la prenderemo in considerazione più avanti, non si preoccupa delle offese che Tizio e Caio si scagliano l’un contro l’altro. Essa viene sollecitata soltanto quando l’offensore o l’offeso, più facilmente se entrambi, sono persone o società eminenti
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e universalmente note, completamente quando l’offesa è un’evidente espressione di impetuose lotte partitiche, alle quali la sfera pubblica partecipa con attenzione. Si può attribuire un’opinione pubblica a ogni cerchia aperta o chiusa che ha in quanto tale un siffatto peso per le persone che vi appartengono che queste orientino la propria condotta, persino l’espressione delle proprie opinioni, in base all’opinione predominante nella cerchia, che diventa tanto più forte quando è unanime; esse temono di dare scandalo e traggono gioia e godimento dal consenso e dall’approvazione [della loro cerchia] (…). In ogni gruppo al cui interno si sviluppino dinamiche sociali, ogni partecipante ha per così dire il suo pubblico, cui egli vuole piacere o, quanto meno, non dispiacere. Da ciò derivano però numerosi casi di scontro. Spesso ci si fa carico della riprovazione di una cerchia allo scopo di guadagnarsi l’approvazione di un’altra; in particolare, il consenso di un gruppo più piccolo è disdegnato quando si prospetta quello di un gruppo di maggiori dimensioni, quello di uno vicino messo da parte quando quello di uno lontano appare raggiungibile2.
Origine e carattere dell’Opinione Pubblica Uso linguistico e concetti Per il momento “una” opinione pubblica rimane qui esclusa dalla riflessione. A maggior ragione è importante operare una distinzione chiara e netta fra l’opinione pubblica come totalità esteriore di molteplici opinioni contraddittorie che vengono espresse pubblicamente ad alta voce e “la” Opinione Pubblica come forza e potere uniforme ed efficace. (…) Nell’uso linguistico opinione pubblica significa non soltanto l’opinione espressa, ma l’opinione espressa e destinata alla sfera pubblica, al pubblico, alla collettività. Ma questo significato si mescola proprio nell’uso linguistico con altri, secondo i quali la collettività o il “pubblico” vengono pensati innanzitutto o quanto meno anche come soggetti delle opinioni: in questo senso si è già parlato delle opinioni e del be-
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ne comune del pubblico politico. Il pensiero scientifico deve non soltanto differenziare fra questi due significati, ma deve svilupparne due concetti ben distinti, come accade qui laddove raffiguriamo l’opinione pubblica “non articolata” separatamente da quella articolata, “la” (vera e propria) Opinione Pubblica. Per entrambi i concetti rimane essenziale il pubblico annuncio e il riferimento ad affari pubblici, cioè in prima linea politici. Là però – per opinione pubblica – viene coinvolta la collettività solamente in quanto “tutti” in qualche modo partecipano attivamente o con sopportazione all’annuncio pubblico delle opinioni; qui invece il soggetto dell’Opinione Pubblica è una totalità unita in modo sostanziale, soprattutto dal punto di vista politico, che ha convenuto di giudicare in modo unanime e che proprio per questo appartiene naturalmente alla sfera pubblica, alla vita pubblica. Ciò conduce a una forte differenza nel significato della formazione stessa di un parere. Lì ha prevalentemente un senso mentale (intellettuale), qui prevalentemente un senso intenzionale (volontaristico). Lì sono i pareri annunciati pubblicamente, comunicati a tutti – contraddittori fra loro, molteplici e variopinti, appassionatamente in lotta fra loro – pareri dietro i quali certo si celano, subconsci, consci e più che coscienti, i desideri e le aspirazioni, gli interessi dei gruppi e dei singoli; pareri che di regola sono nel contempo giudizi, rifiuti e approvazioni. Qui invece l’Opinione Pubblica è sostanzialmente una volontà, volontà nel e attraverso il giudizio; il giudizio è però un atto unitario, quindi si tratta di una forma di volontà consapevole e spiccata, alla maniera della sentenza di una corte di giustizia o altrimenti di un’assemblea riunita “in numero legale”. È una decisione unanime, espressione della volontà di una totalità che non è riunita come pubblico o come soggetto dell’Opinione Pubblica, se non in spirito, e che è di regola troppo ampia per poter essere immaginata come assemblea. (…)
Stati di aggregazione dell’Opinione Pubblica Proprio come nel caso dell’opinione individuale, vanno distinti nell’opinione sociale, generale, nell’Opinione Pub-
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blica diversi stati di aggregazione. Il grado della sua solidità è il grado della sua unitarietà. Anche nello stato gassoso essa può apparire unitaria 1) se questo stato insorge per così dire attraverso l’evaporazione di un’unità più solida e più profondamente connessa, cioè risulta da uno stato di aggregazione fluido o direttamente solido. L’Opinione Pubblica solida si fluidifica quando il suo movimento viene alimentato, e ciò può avvenire attraverso una qualche percezione, una qualche idea, una qualche esperienza dalla quale l’insieme che presentiamo come soggetto dell’Opinione Pubblica viene toccato, commosso. L’Opinione Pubblica solida è una convinzione comune e incrollabile del pubblico che, come portatore di tali convinzioni, rappresenta un intero popolo o una cerchia ancora più vasta dell’“umanità civilizzata”. Non ne esistono poche, di tali convinzioni; per esempio sul piano politico che l’assolutismo o l’autocrazia di un monarca come forma di Stato sia un male, o su quello giuridico che la tortura come prova o la pena di morte qualificata come pena siano “barbare”, dunque deplorevoli. Possono fluidificarsi se per esempio si viene a sapere che un’autocrazia, del cui crollo l’Opinione Pubblica ha appreso con soddisfazione, si ristabilisce con violenza e terrore sotto l’apparenza del costituzionalismo, come è successo in Russia con Stolypin. La convinzione si arricchisce allora di passione, ma perde di solidità e unitarietà: l’opinione che non ci sia altro che un costituzionalismo apparente e un’ingiusta persecuzione dei rivoluzionari può essere contestata, ma attraverso l’opposizione diviene più forte. La concordia dell’Opinione Pubblica sulle idee generali è la più completa, come si evince dall’emotività della lingua, che mette al bando parole come “tirannia”, “dispotismo”, “barbarie”, spesso anche “medioevo” e consimili; diversamente accade quando si pone la domanda: “questa è tirannia, queste sono condizioni medievali?”; del tutto diversamente poi quando qualcosa appare riprovevole, esecrabile e viene per questo spacciata come tale senza attenersi a questo schema. In tali casi nasce un’Opinione Pubblica gassosa a partire da una fluida o, con la mediazione di questa, da una solida. Questo gas è ciò che viene
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comunemente inteso come “l”’Opinione Pubblica, perché essa si manifesta qui nel modo più vistoso, impetuoso, irruente. Qui si evidenzia però anche il suo carattere partitico. Essa si fonda sulla mentalità moderna, i cui fondamenti generali sono comuni ai partiti e non vengono quasi mai messi in discussione; ma nei dettagli di qualunque genere non soltanto ci sono opinioni divergenti, ma interi gruppi e partiti, che hanno i loro capi anche fra uomini e donne molto istruiti e che sono attaccati alle vecchie idee e mentalità, anche se le loro voci vengono di norma forse sovrastate. Perché nell’Opinione Pubblica il più forte è proprio il nuovo, il moderno, il pensiero illuminato, e ha per lo più una forza incontrastabile. L’Opinione Pubblica si presenta sempre con la pretesa di essere decisiva, esige approvazione e fa del silenzio, dell’astensione dall’opporre obiezioni, quanto meno un obbligo. Con maggiore o minore successo: più completo è il successo, più essa si dimostra essere l’Opinione Pubblica, nonostante l’opposizione messa a tacere in maggiore o minore misura. Tutto ciò si manifesta nel modo più chiaro nelle questioni riguardanti la religione. Così la teocrazia e la convinzione che un re venga investito di un incantesimo divino attraverso l’unzione sacerdotale sono in Europa praticamente abbandonate. Ma senza dubbio esistono in ogni paese molte persone, anche molto istruite, che venerano nel proprio re e persino forse in ogni principe qualcosa come una creatura superiore, particolarmente dotata per volontà celeste. Allo stesso modo si solleva la tempesta dell’Opinione Pubblica quando poi un re rivendica una saggezza ultraterrena e pretende obbedienza per un proprio ordine dicendosi ispirato da Dio, il quale consacra l’ordine dato. Addirittura, se anche il comando di per sé non appare insensato, l’Opinione Pubblica condannerà comunque con la più completa fiducia questa arroganza. Lo stesso nei casi in cui è messa in dubbio l’umanità, con la quale in generale l’Opinione Pubblica è strettamente connessa (…), ugualmente un’estrema disumanità – come per esempio il maltrattamento di un soldato ritardato da parte dei suoi superiori – viene condannata dall’Opinione Pubblica con apparente unani-
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mità, anche quando si sa che ci sono molti che approvano incondizionatamente il comportamento del superiore o che comunque nelle condizioni date lo considerano giustificato.
Generalizzazione di un’opinione parziale Ma l’Opinione Pubblica gassosa, che possiamo intendere anche come l’Opinione Pubblica del giorno, nasce anche in altri modi, vale a dire attraverso un’opinione parziale che si completa e si generalizza, ossia un’opinione parziale che non ha il proprio sostegno in un’Opinione Pubblica solida, ma è piuttosto volta nella direzione contraria a essa. Se consegue una vittoria, è solo momentanea, in un determinato contesto e riferimento. A questa stessa vittoria, se si ripete, può seguire una dura e faticosa sconfitta; può però anche divenire una vittoria duratura, e lo diventa soprattutto quando è in linea con un’evoluzione naturale, sostenuta cioè da altri potenti fattori. È stato questo il caso in generale della libertà di religione, civica e politica, per la quale intellettuali illuminati e, dietro di loro, la classe borghese ma anche quella operaia hanno combattuto da circa 400 anni a questa parte con energia lentamente crescente e sempre maggiore audacia. (…) Manifestazioni volgari dell’Opinione Pubblica Rapporto con gli stati di aggregazione dell’Opinione Pubblica Se la stampa quotidiana ha effetto per sua natura soprattutto sull’opinione pubblica gassosa del giorno e allo stesso tempo la sospinge davanti a sé, se non è spinta da essa, si può giungere alla conclusione che le forme più dense possono essere in un rapporto simile e in interazione con altra letteratura più solida. E in effetti è proprio questo il caso. Si tratta di cerchie, che si restringono, del pubblico dei lettori che abitualmente leggono settimanali, mensili, trimestrali e volantini, infine persino libri; e più stretta è la cerchia, più si delinea in essa un tipo scientifico, più è rappresentativa di settori della “repubblica degli eruditi”, che rappresenta in un paese e allo
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stesso modo nel “mondo” la maggiore istanza dell’Opinione Pubblica. L’opinione stessa acquista solidità, dunque forza di resistenza, ma ha una minore esigenza di annunciarsi in modo chiassoso. Come caso normale si può immaginare che le opinioni di questa cerchia, e di conseguenza anche gli stati di aggregazione dell’opinione, siano concordi; ma essi possono anche divergere e contrastarsi l’un l’altro. L’Opinione Pubblica gassosa è quella che solitamente viene chiamata così; essa si considera come l’unica e la vera Opinione Pubblica e viene per lo più anche considerata tale. Viviamo in essa, la inaliamo, la sentiamo nella pelle come il freddo e il caldo. Le forme più dense di Opinione Pubblica si trovano a un livello più profondo nel cuore e nella mente, dunque nell’anima. Esse sono, per la propria essenza, più durature (…). Ciò vale per la coscienza sociale come per quella individuale, per le opinioni parziali all’interno della società, ossia per quelle di un partito, come per l’Opinione Pubblica. All’interno di una mentalità e di un impegno partitico l’“antisemitismo” rappresenta un buon esempio. Esso è per il partito cosiddetto tedesco-nazionale (…) più un’opinione fluida del giorno; le ferme convinzioni di molti membri lo mantengono in flusso e questa corrente straripa in occasione di elezioni pubbliche. Ma esso non può diventare una ferma opinione di partito, un punto effettivo del programma; piuttosto il nocciolo più solido del programma gli è contrario. Questo vuole e deve essere in accordo col cristianesimo positivo; il cristianesimo positivo non può respingere, quantomeno, gli ebrei battezzati. Inoltre le casse del partito difficilmente sono forti abbastanza da respingere i contributi di questi ultimi. E ancora è noto il fatto che l’unica giustificazione filosofica che il conservatorismo prussiano sia riuscito a trovare si deve all’ebreo battezzato Stahl. Soltanto una cerchia ristretta all’interno del partito pensa e conosce tali cose. Ma essa è comunque abbastanza influente da impedire incauti flussi e bande di opinione. Simili osservazioni possono essere fatte anche in riferimento all’Opinione Pubblica unitaria di un intero paese. Così nel Reich tedesco l’Opinione Pubblica del giorno nei tre anni fra il 1918 e il 1921 era senza dubbio sempre a favore del rifiuto delle
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inaudite pretese che dalla cosiddetta Intesa sono state subordinate alle condizioni della concessione dell’armistizio e della pace e infine per più volte meramente a favore della determinazione delle prestazioni imposte. L’Opinione Pubblica inizialmente latente, ma più solida, sapeva bene che a una nazione schiavizzata, come a un uomo caduto nelle mani di banditi, resta solo la scelta fra la perdita della borsa o della vita, e che da molti milioni di persone, di cui la maggioranza costituita di donne, bambini e anziani, non si può pretendere la scelta della morte alla vergogna e alla decadenza. Questa consapevolezza venne alla luce nelle decisioni dell’assemblea nazionale e del Parlamento tedesco, e i dissenzienti poterono sopportare bene la responsabilità del proprio no perché avevano solo questa responsabilità. In sostanza, a un livello più profondo, l’opinione vincente era anche la loro opinione, benché rimasta latente, ed essa sarebbe prima o dopo venuta alla luce come l’Opinione Pubblica, se anziché perdente nell’opposizione fosse stata responsabile al governo. Ma forse anche allora si sarebbe lasciata convincere soltanto attraverso fatti durissimi o si sarebbe lasciata muovere all’ammissione del proprio errore. I presunti precursori del “diritto”, della “libertà”, della “civiltà”, gli antichi alleati dello zarismo, non avrebbero di certo fatto mancare questo genere di gravi fatti. (…)
Forme della volontà sociale Ho classificato il concetto di Opinione Pubblica in quanto esprime una forma della volontà sociale e cioè di una volontà della Gesellschaft (società) che si differenzia da tutte le forme della volontà di una Gemeinschaft (comunità). È qui ancora una volta riassunta la dottrina delle forme della volontà sociale. Sono state distinte sei forme della volontà comunitaria (gemeinschaftlich) e sei della volontà sociale ( gesellschaftlich ), di cui tre sono le forme semplici o elementari e tre quelle composte o superiori. La tabella di queste categorie è:
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A. Comunità (Gemeinschaft) a) comprensione, b) tradizione, c) fede aa) concordia, bb) consuetudine, cc) religione.
B. Società (Gesellschaft) d) contratto, e) ordinamento, f) dottrina dd) convenzione, ee) legislazione, ff) Opinione Pubblica.
Le forme indicate da lettere semplici (da a a f) sono le forme elementari, quelle indicate da lettera doppia quelle composte o superiori, come abbiamo chiamato quelle della volontà collettiva. Tutte queste forme sono imparentate fra loro, sono interdipendenti, si confondono l’una nell’altra. Le forme di tipo A. sono originarie e sono diventate essenziali – corrispondono alle forme della volontà naturale individuale. Le forme di tipo B. sono derivate e vengono rese essenziali, corrispondono alle forme della volontà razionale individuale. Le forme di tipo A. della volontà sociale non sono esse stesse necessariamente espressione di volontà naturali, così come le forme di tipo B. non sono necessariamente espressione di volontà razionale. Tuttavia la volontà naturale individuale è partecipe in modo decisivo delle forme di tipo A. e la volontà razionale individuale delle forme di tipo B. della volontà sociale. Dunque queste devono essere riconosciute e giudicate in se stesse come forme sociali e come forme comunitarie. Il principio di classificazione è la triplice natura dell’animo umano, che è fondato nella vita vegetativa, è attivo nella vita animale e si realizza come spirito nella vita intellettuale e specificamente umana. Questa trinità va intesa sempre come interazione e collaborazione. (…)
Interazioni sociologiche Applicazione a “l”’Opinione Pubblica I molteplici fenomeni e influssi, che accompagnano e agiscono sull’evoluzione della civiltà sociale devono ritrovarsi anche nelle forme di tipo B della volontà sociale e nei
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loro rapporti con le forme di tipo A. Se la convenzione si riferisce sostanzialmente alla vita in generale, quindi alla vita economica, e la legislazione alla vita politica, così l’Opinione Pubblica si riferisce essenzialmente all’aspetto etico (e in relazione a esso, a quello estetico) della convivenza: ossia al suo “spirito”. Oppure: mentre la convenzione è sostanzialmente una prescrizione (una raccomandazione, una disposizione), la legislazione è un comando (ordine e divieto), così l’Opinione Pubblica è fondamentalmente un giudizio. Può anche accadere che queste espressioni siano strettamente correlate e sfumino l’una nell’altra. Si può però enunciare la regola che: più gli individui pensano in modo conscio e definiscono i propri desideri attraverso propositi, progetti e concetti, più sarà viva la loro partecipazione alla vita sociale e pubblica, il loro contributo alle vicende sociali e politiche e più intensamente parteciperanno alla costituzione di convenzione, legislazione e Opinione Pubblica. Perciò vale anche in questo caso la scala gerarchica in base alla quale è stato misurato il livello di orientamento verso la società di diversi individui e fasce sociali, vale a dire che gli uomini più delle donne, la gente di città più della gente di campagna, gli abitanti delle metropoli più degli abitanti di piccole cittadine, i signori più del popolo ecc.3, prendono parte alla formazione dell’Opinione Pubblica, della convenzione e della legislazione. Ma mentre nel caso della convenzione la posizione sociale è decisiva – si tratta di una questione preferibilmente relativa alle fasce superiori (per nascita, per ricchezza o per rango); mentre nel caos della legislazione è determinante l’interesse politico – qui è più efficace la connessione dell’interesse privato con le vicende pubbliche, per cui gli uomini d’affari (…) – proprietari terrieri e capitalisti – stanno maggiormente in primo piano quanto più significativi sono gli interessi in gioco e quanto più a fondo la legislazione incide nella vita economica; così la formazione dell’Opinione Pubblica è determinata principalmente dalla sapienza, dal pensiero e dalla cultura, così che la classe dei signori, dei
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cittadini e degli uomini, in quanto mediamente i più istruiti, più pensatori, più sapienti, sono quelli che vanno considerati in prima linea come i portatori e i soggetti dell’Opinione Pubblica; in tutto ciò non si deve però mai perdere di vista il legame esterno e interno di questi gruppi con quelli che sono stati caratterizzati come i portatori e i soggetti della convenzione e della legislazione. Dunque: più la cultura, soprattutto la cultura politica, si espande a cerchie più ampie e viene diffusa, e quindi più essa cattura anche le donne, la gente di campagna e il popolo, in particolare la classe operaia, maggiore diventa il contributo di queste classi all’Opinione Pubblica e più essa diventa davvero universale, ma al tempo stesso diventa, in quanto unità, più inverosimile come Opinione Pubblica unanime. Se essa però è ugualmente in grado di esserlo e di farsi valere come tale, il suo potere e la sua importanza sono maggiori. Ma anche in questo caso colore e tono le proverranno dall’interno: lo spirito necessario a guidare l’Opinione Pubblica si manifesterà come tale, lo spirito che è o sembra essere lo spirito dei superiori, dei più vivaci, dei più istruiti. (…)
Le caratteristiche empiriche dell’Opinione Pubblica effimera L’idea di Opinione Pubblica viene qui distaccata dal concetto corrispondente, viene osservata nel suo aspetto quotidiano, sottostante all’uso linguistico del termine, dunque nel suo stato aereo o gassoso. Essa ha le seguenti spiccate caratteristiche: 1) è incostante. Nasce così in fretta come passa, e ciò perché cambia il proprio oggetto. L’attenzione pubblica non si sofferma a lungo su uno stesso oggetto, si ritrae da sé o viene distolta. Ciò è caratteristico soprattutto dell’Opinione Pubblica in un contesto metropolitano: per quanto riguarda questo aspetto, a Parigi essa è caratterizzata nella maniera più chiara. Parigi si sente la capitale del mondo, come Roma lo era una volta. E il poeta romano rammenta: …Nec si quid turbida Roma Elevet, accedas, nec te quaesiveris extra!
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un’esortazione che il pensatore si ripeterà sempre nei confronti dei turbini dell’Opinione Pubblica. La sua incostanza determina i suoi frequenti e improvvisi cambiamenti. Che cosa la fa cambiare così? In primo luogo e soprattutto un fatto, un avvenimento, un successo, in riferimento a una personalità. La fama cambia radicalmente le persone. Inoltre anche un movimento, o della propaganda, tanto più se gli avvenimenti vengono in suo aiuto. Un esempio classico è la vittoria della Anti-Corn-Law-League in Inghilterra. (…) 2) L’Opinione Pubblica è precipitosa. Parla troppo e in fretta, come i giovani, spesso presenta i tratti caratteriali di un bambino, e il più delle volte non di uno particolarmente ben educato. La velocità e la fretta sono più naturali e necessarie quanto più l’Opinione Pubblica si forma all’interno di una grande città, soprattutto in una capitale, dove un’impressione scaccia via l’altra. Anche senza prendere in considerazione la partecipazione di grandi masse popolari ed esaminando solo la formazione del giudizio normativo, in maggior misura nelle vicende politiche, gli eruditi rappresentano già essi stessi una “moltitudine” e presentano quindi le caratteristiche tipiche di essa. Una di queste caratteristiche è, prima delle altre, la facile, rapida eccitabilità derivante dal fatto che l’eccitazione si propaga facilmente e velocemente e che si rafforza in ognuno attraverso la comunicazione reciproca. Lo si può osservare quando gli individui in una folla si trovano a stretto contatto fisico gli uni con gli altri: maggiore è il gruppo, più ognuno si sente sicuro all’interno di esso e più tutti incoraggiano il singolo e rafforzano la sua passione. La cultura facilita, a dispetto della lontananza fisica, l’unione spirituale con molti altri dei quali si sa o si crede e ci si aspetta la condivisione delle proprie idee e quindi anche reazioni emotive uguali alle proprie di fronte a una determinata esperienza o all’impressione successiva a un avvenimento. (…) 3) L’Opinione Pubblica è superficiale: ciò consegue dalla sua fretta e vivacità. Giudica secondo le apparenze e si lascia definire attraverso la prima impressione. Questa impressione può essere quella giusta, l’unica possibile, a con-
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dizione che le notizie su cui si basa siano veritiere. Ma spesso non è così. (…) 4) L’Opinione Pubblica è dunque credulona e acritica – soprattutto quando un fatto reale o presunto viene incontro ai suoi pensieri e intenti preconcetti, che attendono il proprio nutrimento e che addirittura lo gustano quando esso è di per sé sgradevole per i soggetti dell’opinione, in maggior misura dunque quando esso soddisfa dei desideri, e più vivace è il desiderio, maggiore è la fretta, tanto più credulona è l’Opinione Pubblica. 5) È piena di pregiudizi, che sgorgano dall’Opinione Pubblica fluida e, più compiutamente, da quella solida: dalle opinioni più ferme e dalle espressioni di volontà, dalle convinzioni dominanti e dai sentimenti a esse collegati. Questi [pregiudizi] sono di regola meno mutevoli quanto più si fondano su tradizioni, quanto più cioè l’individuo li ha “assimilati con il latte materno” (…). Perciò ogni giudizio singolo è molto spesso la semplice conseguenza di un pregiudizio, che si difende poi da pensieri e ragioni volti in altra direzione. In ciò è inclusa una contraddizione con la prima caratteristica, l’incostanza. 6) L’Opinione Pubblica ha anche una propria perseveranza e ostinazione. Si distrae temporaneamente e si abbandona al momento, ma ritorna anche in modo elastico nella posizione a lei più abituale, più gradita. E questo in modo tanto più tenace e certo quanto più è tenace il suo pregiudizio relativo alla cosa o personalità in questione. 7) Ma è particolarmente perseverante per quanto riguarda le personalità – molto più perseverante che non nei confronti delle cose. Perché qui il sentimento – entusiasmo o avversione – ha la massima libertà d’azione ed è legato in modo immediato alla sensazione del bene o del male, di ciò che è auspicato o non auspicato che emana o sembra emanare dalla persona. Più questi sentimenti si consolidano, tanto più l’Opinione Pubblica diventa simile alla religione, sebbene gli oggetti della venerazione (o del timore) siano completamente diversi dagli oggetti altrimenti abituali della fede. Le persone vengono “idolatrate” (o, al contrario,
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“condannate”, questione dalla quale qui si prescinderà). Questa tendenza all’idolatria è ancora maggiore dopo la morte delle persone (minore, nel caso contrario). Se però l’originaria e genuina religiosità permette che questi morti continuino a dominare e a esercitare influenza, e proprio per questo fa dei sacrifici allo spirito trapassato per ammansirlo e per richiamare il suo aiuto in casi di necessità e pericolo, l’Opinione Pubblica non si distanzierà invece così facilmente dalla sua base, dalla mentalità scientifica. (…) 8) L’Opinione Pubblica del giorno risente delle impressioni del giorno, viene perciò di regola agitata o mossa da forti passioni. Perciò solo di rado corrisponde all’idea che ci siamo formati di un’Opinione Pubblica come forma mentale della libera volontà sociale. Ma essa stessa considera lo stato di eccitazione da cui è dominata come qualcosa di estraneo e fa appello a verità e validità come base del giudizio. E ciò a maggior ragione quanto più essa è espressione di un’Opinione Pubblica fluida o addirittura solida; perché in questi stati di aggregazione l’eccitazione si è “calmata”, sono degli stati “raffreddati” in cui la ragione prevale o vuole prevalere. Ciò non esclude che la passione possa comunque farsi valere. Una ferma “convinzione” e un’opinione risoluta – che sembrano scontate per una persona raziocinante – spesso non si lasciano “invischiare in una discussione” e sorridono delle opinioni opposte come di superstizioni e sciocchezze; così essa le condanna e le disapprova subito. Ciò è anche in armonia con la natura dell’Opinione Pubblica, così come si mostra nella sua fermezza. (…) La vera Opinione Pubblica rimane, come Weltanschauung razionale, al di sopra dei partiti e dei loro molteplici scopi. L’Opinione Pubblica del giorno rimane sempre sotto l’influenza dell’Opinione Pubblica solida e fluida, sebbene questa dipendenza venga spesso oscurata e non esclude contrasti e opposizioni. 9) In conformità alle idee di ordine, diritto e morale che si trovano così marcate nell’Opinione Pubblica solida o fluida, anche l’Opinione Pubblica gassosa è fondamentalmente a favore del mantenimento di queste forze sociali (…). In particolare è la morale, in base ai concetti di cui facciamo uso, il
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vero e proprio campo dell’Opinione Pubblica, nel quale essa si muove continuamente anche nelle sue forme diffuse. Essa s’inchinerà sempre davanti alla morale. (…) Nelle sue battaglie non può fare a meno delle insegne della morale e le innalza ovunque le trovi sul suo cammino; ma esse si trovano lungo il cammino come degli “slogan”. 10) Dunque l’utilizzo di slogan contraddistingue l’Opinione Pubblica del giorno. La madre dello slogan è sempre e solo la passione, la lotta e il disaccordo degli animi. Analizzando parole come liberalismo, progresso, l’uomo della strada, proletario, libertà di stampa, politica mondiale, rivincita, cubismo o naturalismo, si vedrà che sono tutte caratterizzate da lotte e liti. (…). Come il conquistatore issa la sua bandiera sulla fortezza conquistata in segno di successo, così anche gli slogan non sono altro che stendardi di quei poteri intellettuali che hanno guadagnato terreno (Bauer 1872, pp. 212-223).
11) Quando dunque è il partito per primo a captare lo slogan, a sostenerlo e a lottare in suo nome, conseguendo spesso delle vittorie, il pubblico, soggetto dell’Opinione Pubblica, si mostra come un partito generalizzato, in particolare come il partito divenuto vincente. Ovviamente ci sono determinate visioni dell’ordine, del diritto, della morale che si affermano nella convenzione, nella legislazione e infine in modo decisivo nell’Opinione Pubblica, diventando normative e trasformandosi così esse stesse in norme. Esse si cristallizzano in slogan, ma ciò non significa che non vengano considerate vere con forte convinzione, che non si sia formata un’Opinione Pubblica su di esse e che questa non sia diventata una forza incontrastabile. (…) L’Opinione Pubblica prende forma molto chiaramente anche nello stesso linguaggio. Non solo il contenuto, ma il suono delle parole spesso esprime le emozioni legate alle rappresentazioni evocate da queste parole. (…) 12) La grande debolezza dell’attaccamento alle parole tuttavia non grava soltanto sull’Opinione Pubblica del giorno, ma anche su quella duratura e solida e sul pensiero vol-
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gare in generale. Con le parole essa è frettolosa, sbrigativa come lo sono i giovani, e più si accanisce e più è difficile istruirla. L’educazione, l’intellettualità si manifestano in essa, ma solo al livello medio di giudizio. (…) [Il pubblico] ha spesso buone ragioni di reclamare e indignarsi per la stupidità dell’Opinione Pubblica. L’Opinione Pubblica è sciocca quando esprime giudizi basati sull’apparenza, sulla base di conoscenze superficiali, di una notizia diffusa in modo tendenzioso o addirittura distorta, sulla base di opinioni preconcette e poco fondate, o quando il pubblico per la trascuratezza delle sue idee e illusioni abituali esprime giudizi su cose e questioni che richiedono una profonda riflessione, un’accurata verifica, la conoscenza di fatti e moventi celati, che richiedono un intelletto al di sopra della media anche soltanto per poter essere compresi.
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Da Tönnies 1922. Trad. it. di Sabra Befani. Secondo il Commento al codice penale di Frank, “l’opinione pubblica nel senso della legge” è “l’opinione della maggior parte della popolazione individualmente non determinata”. 2 Böhm-Bawerk parla di una “opinione pubblica della scienza”, nel «Times» si parla speso della “commercial public opinion”; al contrario S. e B. Webb parlano di “una” opinione pubblica che si sarebbe costituita verso il 1867 fra i sindacati inglesi (History of Trade Unionism, p. 250). 3 Cfr. al riguardo il punto 6. del testo originale, p. 225, qui non riportato, in cui l’autore segnala delle differenze fra diversi strati sociali nel livello di orientamento verso la società. Tönnies segnala tra le altre, oltre alla differenza fra uomini e donne, fra gente di città e di campagna ecc., anche distinzioni basate sull’età, sulla residenza in zone costiere o nell’entroterra, nelle valli o sui monti, nelle colonie piuttosto che nella madrepatria (N.d.T.). 1
Verso una scienza della pubblica opinione* Floyd H. Allport
La letteratura e l’uso popolare del linguaggio, in relazione all’opinione pubblica, contengono molti concetti che impediscono un chiaro orientamento. Queste nozioni sono tratte da analogie, personificazioni e altre figure del discorso e sono impiegate per gergo giornalistico, con il proposito di suscitare vivide immagini, oppure per nascondere la tendenza emotiva dello scrittore. Esse sono così diffuse nell’uso e sono considerate con tanto rispetto, perfino nei testi di scienze politiche e sociali, che è necessario un riesame come primo passo nella formulazione di un approccio scientifico e realizzabile.
Finzioni e vicoli ciechi 1) La personificazione dell’opinione pubblica L’opinione pubblica, secondo questa finzione, è pensata come una specie di essere che dimora nel o al di sopra del gruppo, e lì esprime i suoi punti di vista sui vari problemi via via che essi sorgono. La “voce dell’opinione pubblica” oppure la “coscienza pubblica” sono metafore di questo tipo. Questa finzione sorge dal pensare un’espressione data da un “gruppo” una volta e una diversa espressione data dallo stesso gruppo un’altra volta, e poi presumere una continuità dovuta a una specie di principio animistico tra le due espressioni. Si potrebbe dire, per esempio, che la pubblica opinione nel 1830 favoriva la schiavitù, ma nel 1930 l’avversava; e si pensa che il demonio del gruppo ha
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cambiato idea. Questa finzione, quando è osservata da un punto di vista scientifico, naturalmente scompare, e troviamo solo raggruppamenti d’individui con un certo accordo comune in un periodo e un differente tipo di accordo in un altro. Sebbene induca all’errore dal punto di vista della ricerca, questa finzione può in parte essere sorta da una situazione del tutto genuina. Una certa continuità psicologica esiste nel fatto che, in un periodo di tempo, si stabiliscono negli individui un numero di idee abituali, di tradizioni, di consuetudini, e formulazioni di esperienze passate, in breve, una “riserva” di opinioni accettate e di abitudini, in base alle quali si decidono molte delle abituali controversie. L’errore, comunque, consiste nel pensare che queste inclinazioni abituali, nervose negli individui, collettivamente formino un’anima o un essere chiamato “opinione pubblica” che medita e decide sulle dispute pubbliche via via che esse sorgono. 2) La personificazione del pubblico Una finzione congiunta alla precedente è quella in cui la nozione di un essere super-organico, collettivo, è applicata non allo stesso processo formativo dell’opinione, ma al pubblico che a tale processo “partecipa”. Si parla di “Pubblico” (personificato) come di un qualche cosa che può volgere il suo sguardo intento ora da questa parte, ora da quella, come per decidere ed esprimere la sua opinione. Uno degli effetti di questa maniera di scrivere scorretta, giornalistica, è che dal momento che il pubblico non è una realtà esplicitamente visibile, ma una metafora, gli si può attribuire ogni tipo d’opinione senza la possibilità di controllare l’asserzione. 3) L’errore di gruppo del pubblico Un po’ meno mistico, ma ugualmente non critico, è l’uso di quelli che rinunciano all’idea di un’entità collettiva o di una mente di gruppo, sostenendo che, quando dicono “il pubblico”, essi intendono gli individui; ma che, nondimeno, continuano a usare frasi come “il pubblico vuole co-
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sì e così”, oppure “il paese votò per il proibizionismo”. Personificando o no la nozione di “pubblico”, è probabile che commettiamo un errore quando usiamo il termine collettivo come soggetto di un verbo che indica un’azione. Poiché l’affermazione che il verbo implica sarà spesso vera solo per una parte dell’aggregato interessato. A causa di questa sorta di terminologia, che è anche stata chiamata “l’errore della parte per il tutto”, si nascondono i fatti concernenti le minoranze, fatti che devono essere scoperti dai ricercatori. 4) L’errore dell’inclusione parziale nell’uso del termine “pubblico” Applicando la critica precedente sorge la questione, “cosa intendiamo per pubblico”? È una popolazione definita da una giurisdizione geografica, sociale, politica, o da altri limiti; oppure è solamente un raggruppamento di persone, in una determinata area, che hanno un interesse comune? Nella prima ipotesi il termine è totalmente inclusivo, cioè è impiegato includendo tutto di ciascun individuo nell’area, il suo corpo, i suoi bisogni, i suoi processi fisiologici e anche le sue varie opinioni e reazioni. Questa accezione, comunque, non è comune perché troppo completa; include così tanto, che le categorie dei leader e degli scienziati sociali non possono essere usate intelligentemente nei suoi confronti. Non possiamo parlare dell’opinione di questo pubblico, perché include troppi allineamenti d’opinione, molti dei quali possono essere irrilevanti o perfino contraddittori. Il secondo significato del termine “pubblico” è perciò quello a cui di solito ci si riferisce. Questo significato è fatto non di interi individui, ma dall’astrazione di un interesse specifico (o di un gruppo di interessi) comune a un certo numero all’interno della popolazione. Quelli che hanno un tale interesse comune si dice che costituiscono un “pubblico”. Questo uso del termine pubblico è un esempio di inclusione parziale. Ora supponiamo che gli individui aventi un particolare interesse (vale a dire considerati
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come pubblico dal punto di vista del parzialmente inclusivo) non siano anche membri di qualche altro pubblico parzialmente inclusivo. Cioè ipotizziamo che un pubblico non si sovrapponga a nessun altro pubblico. Considerando l’opinione che si accompagna a un certo interesse, come è possibile nei problemi importanti, questo pubblico diverrebbe partecipe della diffusione di un’opinione su di un certo parere. Il pubblico, in altri termini, sarebbe definito come il numero di persone aventi una certa opinione e le persone aventi quella opinione sarebbero identificate come appartenenti a quel pubblico. La definizione del termine pubblico sarebbe in tal modo circolare. Il termine pubblico, come fenomeno parzialmente inclusivo, sarebbe inutile ai fini della ricerca, e il problema si ridurrebbe esclusivamente al compito di scoprire dove e in quale misura si trovano questi allineamenti di individui che hanno opinioni simili. Ora, d’altra parte, supponiamo che un pubblico si sovrapponga a un altro, cioè che un individuo possa appartenere contemporaneamente a due o più raggruppamenti a causa delle differenti opinioni e interessi che ha sui diversi problemi. In tal caso se tentassimo di definire, o di scoprire con una ricerca, l’opinione di un determinato raggruppamento parzialmente inclusivo (un “pubblico”), non sapremmo dove, un certo individuo, dovrebbe essere posto. Dal momento che egli è in due gruppi, può avere atteggiamenti che tendono a contraddirsi su certi argomenti. Uno di questi atteggiamenti deve essere soppresso in favore dall’altro. Se lo collochiamo arbitrariamente in un pubblico potremmo aver giudicato male quale atteggiamento è dominante, producendo così un falso risultato. Collocandolo, invece, in entrambi i tipi di pubblico, o lo contiamo due volte, o si annulla da solo; entrambi i risultati sono però assurdi. Con una tale terminologia diventa impossibile definire il nostro problema, e scoprire le nostre unità empiriche di studio. Le opinioni sono reazioni di individui: non possono essere attribuite a tipi di pubblico senza diventare ambigue e inintelligibili per la ricerca.
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5) La finzione di un’entità ideale Un altro modo non scientifico di parlare della pubblica opinione, qualche volta incontrato nell’uso popolare del linguaggio e perfino nella letteratura, si ha quando si considera il contenuto dell’opinione come una specie di essenza, che, alla stregua dell’idea platonica, è distribuita nelle menti di tutti quelli che l’appoggiano. L’espressione che una certa opinione è “pubblica” illustra questa abitudine. 6) Il prodotto di gruppo, o la teoria “emergente” Le formulazioni che faremo si riferiscono non alle personificazioni o alle azioni, ma ai loro risultati. In questo senso la pubblica opinione è considerata come un nuovo prodotto emergente dalla discussione integrata di un gruppo, il prodotto di un pensiero concertato individuale differente sia dalla media delle opinioni, sia dall’opinione di un qualunque individuo in particolare. Una variante di questa definizione è quella che descrive la pubblica opinione come “un passo sulla via della decisione sociale, una specie di punto di raccolta della volontà sociale nel suo organizzarsi verso l’azione”. Questa finzione sarà discussa in connessione con la seguente teoria. 7) La teoria encomiastica Quelli che sono portati a considerare la pubblica opinione come il risultato emergente della pubblica discussione di gruppo, di solito sostengono anche che questo risultato non solo è differente dai prodotti delle menti che lavorano da sole, ma ha anche caratteristiche superiori. Si pensa che nel processo d’interazione siano eliminati gli errori, cosicché alla fine prevarrà l’opinione migliorata dalla discussione del più illuminato. In tal modo la pubblica opinione è considerata non come un segmento del comportamento comune a molti, ma come il singolo prodotto ideale di personalità creative e interagenti. La critica alle teorie encomiastica ed emergente richiede alcune accorte distinzioni. Sin dall’inizio è scontato che quando un individuo entra in discussione con altri, spesso
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perviene a conclusioni diverse da quelle cui perverrebbe attraverso una riflessione solitaria. L’affermazione da cui dobbiamo guardarci, perché intrattabile nella metodologia scientifica, è che questo prodotto emergente, quasi galleggiante nello spazio, appartiene a una mente di gruppo piuttosto che alle reazioni degli individui. L’argomento A deve essere connesso agli argomenti B e C nella mente di un particolare individuo. A non può essere nella mente di una persona, B in un’altra, e così via, e poi dare un qualunque prodotto emergente che sia umanamente comprensibile. Il prodotto emergente deve essere espresso da individui o altrimenti non possiamo averne conoscenza; e se è espresso da individui, diventa difficile sapere di quanto l’influenza della discussione integrata abbia contribuito a formarlo. Non importa quale risultato comune gli individui abbiano raggiunto con la discussione con altri, poiché quando si tramuta la conclusione in azione, per esempio votando, essi esprimono non solo ciò che pensano, ma anche ciò che vogliono. Il cosiddetto “pensiero di gruppo” può aver preso posto negli individui, come abbiamo mostrato; ma nell’attività pratica sono gli individui che agiscono e non il prodotto integrato dal pensiero di gruppo. Può accadere che gli individui agiscano in accordo con il pensiero di gruppo; ma nei grossi allineamenti d’opinione ciò è difficile da accertare in quanto è così difficile conoscere quale sia il contenuto dell’opinione emergente. Dobbiamo renderci conto, naturalmente, che ciò che costituisce il contenuto del fenomeno della pubblica opinione non sono fatti accertabili, ma opinioni. In tali casi non c’è alcun modo di sapere se il prodotto dell’interazione degli individui è in un ordine più alto o più basso per ciò che concerne la verità, o anche il valore. Una tale interazione esplicita più in dettaglio i problemi, e mostra più chiaramente come gli individui si allineino su differenti lati. In altre parole dà un quadro più chiaro di ciò che gli individui vogliono. Questo risultato, nondimeno, non costituisce necessariamente una soluzione intelligente del problema.
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A tale soluzione si può giungere solo quando il tempo e l’esperienza hanno formato delle basi su cui giudicare; vale a dire quando il problema è diventato fino a un certo punto un dato di fatto. Quando si giunge a questo punto, è probabile che il prodotto emergente sarà il risultato non solo di una deliberazione di gruppo, ma anche di una considerevole quantità di un’aperta sperimentazione. Non stiamo negando la possibilità che un prodotto superiore dell’interazione di gruppo possa esistere. Stiamo semplicemente dicendo che, se esiste un tale prodotto emergente, noi non sappiamo dove sia, come possa essere scoperto, identificato, esaminato, oppure quali siano gli standard per giudicare il suo valore. Sebbene non discreditate nel mondo della possibile verità astratta, le teorie di questa sorta sembrano essere dei vicoli ciechi per quanto riguarda il trattamento scientifico del problema. Gli scrittori che le hanno messe in rilievo hanno forse in mente piccole comunità rurali, pionieristiche, totalmente inclusive, dove l’adattamento alla natura e agli altri uomini è diretto, e dove l’opinione comune integrata è praticamente sinonimo della vita in comune; o anche essi possono aver pensato a gruppi di discussione in cui si fa un deliberato tentativo di raggiungere un risultato soddisfacente secondo il desiderio e il giudizio di tutti i partecipanti. Nelle nostre moderne popolazioni urbane, vaste e sempre in aumento, dove il contatto faccia a faccia di intere personalità è sostituito da raggruppamenti occupazionali o d’altro tipo, è dubbio quanto dell’effetto integrativo prenda posto nelle idee degli individui attraverso la discussione con gli altri. Senza dubbio un qualche effetto si ha, ma probabilmente è mischiato con gli effetti del condizionamento emotivo, con le influenze dei termini stereotipati, simbolici, ambigui dei capi politici, e infine con un’inamovibile preoccupazione per i propri interessi. In ogni caso l’idea che la pubblica opinione sia un prodotto del pensiero di gruppo superiore al pensiero individuale, ed efficace come una specie di volontà o giudizio di un gruppo super-individuale, è scientificamente sterile.
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Questa teoria, come le altre che abbiamo discusso, può essere motivata dal desiderio dei pubblicisti di un “sostegno sociale”, da parte della comunità, alle loro azioni. Sebbene confortevolmente ottimistiche, le teorie emergente ed encomiastica possono farci cullare in un’atmosfera di falsa sicurezza, dove c’è il pericolo che venga dimenticato il bisogno di ricerca e di fatti riguardanti tendenze e processi di condizionamento. 8) La confusione dell’opinione pubblica con la presentazione pubblica dell’opinione (L’errore giornalistico) La precedente discussione ha trattato le teorie sulla natura dell’opinione pubblica. A queste si dovrebbe aggiungere l’errore comune concernente il criterio in base al quale il contenuto di una data opinione deve essere considerato come “pubblico” (cioè, largamente accettato). Così si rafforza l’illusione che ciò che si legge nei giornali come “pubblica opinione”, o ciò che si sente nei discorsi e nei giornali radio come “informazione pubblica” o “sentimento pubblico”, realmente abbia grande importanza e sia largamente appoggiato dalla popolazione. Questo ingenuo errore è stato incoraggiato da riviste e giornali, e da indagini che premono per una azione pubblica o legislativa, in cui l’evidenza dell’opinione pubblica consiste in ritagli di articoli presi dai vari giornali del paese. La mancanza di una base statistica, o di studi sulla vera distribuzione delle tendenze nella popolazione, è così ovvia che ogni ulteriore commento è superfluo.
Gli accordi comuni e alcune distinzioni proposte Nonostante la gran quantità di futili caratterizzazioni della pubblica opinione, ci sono nei lavori di vari studiosi alcuni punti di accordo comune che possono essere utili nel superare i vicoli ciechi e nel guidarci sulla via giusta. Chi scrive si azzarda a riformulare questi punti di accordo e ad aggiungere qualche distinzione che ha valore per la ri-
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cerca. I fenomeni studiati con il termine “opinione pubblica” sono essenzialmente esempi di comportamento a cui vanno ascritte le seguenti condizioni: a) Sono comportamenti d’individui. b) Implicano una verbalizzazione. c) Sono compiuti (o le parole sono espresse) da molti individui. d) Sono stimolati e diretti verso una situazione o un fine universalmente conosciuto. e) L’oggetto, o la situazione che sta alla base di un certo comportamento, è importante per molti. f) Rappresentano l’azione o le buone disposizioni verso l’azione al posto dell’approvazione o della disapprovazione dello scopo comune. g) Sono frequentemente compiuti con la sensazione che altri stanno reagendo alla stessa situazione in modo simile. h) Le tendenze e le opinioni che esse implicano sono espresse, oppure, almeno, sono nella condizione di essere espresse dagli individui. i) Gli individui che si comportano in un determinato modo o che si accingono a farlo, possono o non possono essere in presenza di altri (Situazione della pubblica opinione in relazione alla folla). l) Essi possono implicare un contenuto verbale di carattere sia permanente che transitorio, che costituisce rispettivamente il “materiale di sfondo genetico” e l’“attuale allineamento”. m) Essi sono della natura degli sforzi attuali per opporsi o per favorire qualcosa, piuttosto che duraturi nella coerenza di comportamento (i fenomeni dell’opinione pubblica in contrasto con la legge e le usanze). n) Poiché sono sforzi verso fini comuni, spesso hanno il carattere di conflitto tra individui allineati su lati opposti. o) I comportamenti comuni sono sufficientemente forti e numerosi da determinare la probabilità di poter essere effettivi nel raggiungere i propri fini. Questi punti di accordo comune richiedono qualche commento. Il punto a) si spiega da solo quando afferma
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che il contenuto del fenomeno deve essere concepito in relazione al reale comportamento degli individui. Per esempio, non può essere semplicemente dovuto all’invenzione di un giornalista il fatto che egli voglia far apparire l’opinione pubblica fatta esclusivamente di consensi. Nel punto c) non si può definire il numero che sta per “molti individui” dacché varierà secondo la situazione. Il numero richiesto per produrre un effetto per un fine (m) deve essere considerato sotto questa luce. b) Verbalizzazione. La situazione o lo scopo comune stimolante dev’essere qualcosa che possa essere espresso in parole; dev’essere possibile poterlo immediatamente e chiaramente definire. Non può esistere l’opinione senza la corrispondente formulazione del contenuto dell’opinione in forma di linguaggio. La risposta degli individui a questa comune situazione stimolante può essere sia verbale che non verbale. Per esempio può essere una smorfia, un gesto, oppure un’espressione emotiva. Questa reazione deve, tuttavia, essere potenzialmente traducibile con estrema facilità in parole, per esempio in espressioni di approvazione o consenso. d) Lo stimolante oggetto comune. L’oggetto o una situazione verso cui sono dirette le risposte degli individui devono essere chiaramente capiti e nell’ambito dell’esperienza di tutti. L’oggetto dev’essere sufficientemente limitato per poter rappresentare un definito invito all’azione. Non potrebbe essere, per esempio, il generale argomento delle tasse, ma potrebbe essere la proposta di qualche particolare legge sulle tasse. Per parlare in termini corretti, non esiste una pubblica opinione sulla natura di Dio, mentre potrebbe esistere in merito alla violazione di credi teologici comunemente accettati. e) La stimolante situazione comune non deve solamente essere ben conosciuta; ma dev’essere d’importanza universale. Non è sufficiente un semplice interesse; la situazione deve toccare bisogni o desideri fondamentali. I rischi corsi da un uomo a bordo di una mongolfiera possono suscitare un grande interesse, tuttavia non potrebbero essere facil-
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mente definiti argomento di opinione pubblica, poiché non sono importanti per molti. Una politica governativa per la costruzione di aerei per la “difesa nazionale” potrebbe facilmente diventare argomento di pubblica opinione. f) Prontezza nell’approvazione o nella disapprovazione. Le reazioni suscitate o preparate negli individui devono essere del tipo: mi piace, o non mi piace, approvo, o disapprovo. Per esempio, la comune conoscenza dei vari metodi di controllo della vendita dei liquori e dei relativi vantaggi non appartiene alla pubblica opinione, a meno che tale conoscenza non sia connessa all’ampio favore o all’opposizione di molti contro alcuni particolari metodi. g) Consapevolezza dell’altrui reazione. Un certo numero di scrittori sostiene che il fenomeno della pubblica opinione implica una “coscienza della specie” negli individui che hanno o esprimono l’opinione comunemente accettata. Ci può essere una considerevole differenza nel comportamento di una persona qualora appoggi o si opponga a una particolare misura, se ne è consapevole, o immagina, solamente, che altre persone stanno reagendo allo stesso modo. Sebbene questa “impressione di universalità” sia importante nel processo dell’opinione pubblica, è forse meglio non considerarla come elemento essenziale in ogni allineamento d’opinione che deve essere studiato. Altrimenti si potrebbero sottovalutare importanti aspetti del problema, come, per esempio, la distribuzione delle opinioni nel primo momento in cui appare lo scopo stimolante, o la proposta comune, e prima che la gente abbia avuto la possibilità di essere cosciente, o preoccupata delle reazioni altrui. h) Le opinioni espresse. Se il punto (g), l’effetto dell’opinione altrui, è accettato come un aspetto importante del fenomeno dell’opinione pubblica, segue come corollario che le opinioni degli individui devono essere esternamente espresse, o almeno devono essere rapidamente dedotte. Come viene mostrato nel lavoro del dott. Richard Shanck, c’è una sostanziale differenza in come una persona sente o
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pensa, tanto se l’opinione è quella che l’individuo prontamente esprime o attribuisce ad altri, quanto se è la sua personale, privata. Il dott. Shanck ha definito questi due tipi di reazione rispettivamente “atteggiamento pubblico” e “privato”. Per un pubblicista, di solito, l’opinione inespressa non è importante, poiché non rappresenta un allineamento riconoscibile. Non si preoccupa delle ragioni per le quali differenti personalità hanno o no una certa opinione comune. Solo il fatto del comune consenso o rifiuto è significativo. Da un punto di vista scientifico, tuttavia, pur riconoscendo che il fenomeno della pubblica opinione richiede l’espressione di opinioni, non possiamo trascurare il campo delle tendenze private. A lungo andare, può essere molto importante l’esistenza di grande somiglianza nelle opinioni private inespresse da molti, e questo dovrebbe essere scoperto e misurato dalle nostre tecniche. Si consideri, per esempio, l’importanza potenziale dell’opinione che un gran numero di tedeschi o di italiani hanno dei loro capi, ma non osano rivelarla. i) In relazione alla presenza o all’assenza di altri. Alcuni scrittori hanno discusso sulla differenza tra pubblico e folla. In genere essi sono d’accordo, tuttavia, che i fenomeni della pubblica opinione possono accadere in entrambi i casi. La condizione d’inclusione parziale caratteristica, come prima abbiamo scritto, della solita definizione di pubblico, fa scaturire l’implicazione, su cui tutti concordano, che l’individuo può appartenere contemporaneamente a vari tipi di pubblico diversi, ma a una sola folla. Un altro modo di definire la cosa si ha riconoscendo che in entrambi i casi abbiamo una situazione in cui molti individui reagiscono a una situazione o a un oggetto comune, ma in differenti condizioni di associazione, vicinanza, stimoli e reazioni. Lì dove gli individui sono separati dagli altri, per esempio nelle loro case, non c’è la possibilità di avere quel contatto visivo, tattile, olfattivo che si ha in una folla. La radio moderna, tuttavia, ha introdotto nuovi stimoli uditivi, come quando ascoltiamo l’applauso del pubblico in un discorso
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politico. Queste limitazioni nel campo delle possibilità sensoriali producono probabilmente questo effetto: quello che la forza e la facilità di reazione e di risposta è minore rispetto a quanto avviene nel comportamento della folla; ma questa forza non viene mai abolita del tutto. In poche parole, quando gli individui reagiscono in presenza di altri, le risposte eterogenee hanno la possibilità di essere più espressive, aperte, vigorose e dirette nella loro azione. Nei casi in cui gli individui sono separati, le reazioni tendono a essere più implicite, e di solito possono diventare effettive solo attraverso un meccanismo simbolico o rappresentativo, oppure attraverso un indiretto processo politico, come il voto. Per la maggior parte, comunque, la distinzione tra l’azione della folla e i fenomeni dell’opinione pubblica sembra essere di grado, piuttosto che di specie. j) Aspetti transitori e permanenti. Nello studio dei fenomeni dell’opinione pubblica alcuni scrittori hanno sottolineato il carattere stabile e razionale del contenuto e l’aspetto della sua accettazione universale mentre altri hanno rappresentato il contenuto dell’opinione come instabile, emotivo, opportunistico, soggetto alla propaganda, e diviso sugli argomenti controversi. Questo disaccordo può essere risolto se consideriamo il fenomeno come un processo con una sua dimensione temporale, in cui il vecchio contenuto diventa la porzione stabile e universale, mentre il contenuto più recente rappresenta l’attuale allineamento di opinioni sempre in mutamento. Sopra abbiamo fatto riferimento a ciò che figuratamente abbiamo chiamato una “riserva” di opinioni comuni, di atteggiamenti, di conoscenze che forma una parte di ciò che il sociologo chiama “modello culturale”. Più specificatamente, questi modi di pensare e di sentire sono semplicemente delle reazioni che, si può predire, avverranno sempre con maggiore frequenza, ora e nel futuro, più che altri tipi di reazione. Alcuni di questi comportamenti che esistono da molto tempo hanno un aspetto razionale; oppure possono essere dovuti all’esperienza di prove sbagliate su larga scala come, per esempio, l’isolazionismo americano, o il desiderio di evitare l’inflazione. Altri
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comportamenti possono ugualmente esistere da molto tempo ed essere prevedibili nonostante il carattere più emotivo come, per esempio, la discriminazione razziale. Ora nei processi di formazione dei nuovi allineamenti di opinione pubblica, gli agenti di pubblicità impiegano queste vecchie e diffusissime tendenze per raggiungere i loro fini immediati: essi indirizzano la vecchia reazione verso un nuovo stimolo per mezzo del metodo, noto a tutti, del riflesso condizionato. La vecchia risposta di avvicinamento, di allontanamento, di rifiuto, di lotta è evocata tramite il vecchio stimolo, e la s’introduce quando il nuovo stimolo sta agendo, in modo da trasferirla nella nuova direzione. Nell’immediato futuro il risultato sarà l’associazione della vecchia risposta con il nuovo stimolo. Ecco un suggerimento per risolvere il disaccordo riguardante il contenuto dell’opinione pubblica. Le vecchie risposte, stabili e universalmente accettate nel loro originale e legittimo stimolo, ancora esistono sullo sfondo. Esse rappresentano l’aspetto stabile, sperimentato, universale dell’opinione. Ma il loro trasferimento tramite il condizionamento a un nuovo stimolo è qualcosa di nuovo, d’instabile, di opportunistico ed effettivo su alcune parti della popolazione (che è più influenzata, più facile da ingannare, più soggetta alla propaganda), ma non su altre. Da ciò si desume la spiegazione dell’aspetto irrazionale, diviso, mutevole dell’opinione pubblica. Per dare un esempio del processo di condizionamento sopra descritto, consideriamo l’enunciato “Tutti gli uomini sono creati uguali”. Quest’idea è stata da lungo tempo accettata come parte integrante della vita americana. Ora una tale attitudine da sola non soddisfa il nostro criterio per il fenomeno della pubblica opinione, poiché da sola non suggerisce un’azione definita verso un obiettivo. Nondimeno, è una delle basi psicologiche su cui si possono fondare gli allineamenti di opinione che invece soddisfano il nostro criterio di scelta. Nel 1776 si sollecitò l’appoggio per la guerra contro Giorgio III, condizionando le risposte di consenso, sorte da questa formula, alle proposte per un’azione rivoluzionaria. Così la
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vecchia massima dell’uguaglianza individuale rappresentava la fase stabile, duratura e unanimemente accettata del fenomeno. Il suo trasferimento alla causa rivoluzionaria era il nuovo aspetto, opportunistico e in principio altamente controverso. Tra il 1830 e il 1861 la stessa reazione di eguaglianza individuale e di libertà si sviluppò di pari passo con l’argomento contro la schiavitù; e dopo la guerra civile, la reazione contro la schiavitù divenne anche una parte essenziale del costume. Negli anni successivi la stessa dottrina (con l’aggiunta dell’avversione alla schiavitù) è stata impiegata per allineare gli individui verso l’abolizione della prostituzione legalizzata (schiavitù bianca), di indesiderate condizioni di lavoro (schiavitù salariale), del lavoro infantile (schiavitù infantile). Similmente (per fare un altro esempio) l’unanime inveterato orgoglio della razza e della cultura, combinato con un vecchio pregiudizio contro gli ebrei, sono stati impiegati da Hitler come strumenti con cui unificare i suoi seguaci nell’appoggio verso il regime nazista. Possiamo chiamare questo corpo di vecchie attitudini comuni, che sono condizionate alle nuove situazioni, la base di risposte genetiche dell’opinione pubblica; e in contrapposizione possiamo considerare il consenso di molti individui causato dal trasferimento delle vecchie reazioni ai nuovi stimoli, come presente allineamento. Uno degli importanti problemi della ricerca è scoprire il materiale base sull’importanza reale o potenziale dell’opinione in una popolazione, e determinare la sua relazione con gli allineamenti già esistenti o in processo di formazione. k) L’azione verso un obiettivo presente. La distinzione tra la base genetica e l’allineamento suggerisce un ulteriore contrasto tra i fenomeni dell’opinione pubblica e un altro gruppo di comportamenti che esistono da lungo tempo, cioè quelli che riguardano le leggi, i costumi, le tradizioni. Questi ultimi fenomeni sono forse dei casi speciali della base genetica su cui si può costruire un allineamento di opinione. Essi, tuttavia, differiscono dall’altra base per l’esistenza di un esagerato conformismo, risultante dalla più vigorosa coercizione della punizione e della pubblica di-
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sapprovazione per coloro che non si allineano. Di solito, comunque, il fenomeno dell’opinione non rappresenta un condizionamento della risposta legalizzata a un nuovo stimolo, ma la lotta ampiamente diffusa contro gli individui o le proposte che non si adeguano alla pratica abituale o legalmente prescritta. Con ciò non vogliamo dire che una legge che richieda al proprietario della casa di spalare la neve dal marciapiede di fronte alla sua abitazione sia parte del fenomeno dell’opinione pubblica, fin quanto tutti quanti l’osservano. È semplicemente un’abitudine comune e attesa dai cittadini. Se comunque, alcuni individui non rimuovessero la neve dai loro marciapiedi, causando inconveniente e pericolo ai loro vicini, può sorgere un allineamento d’opinione espressa contro di loro. Per rendere tale allineamento effettivo è probabile che si citi l’abitudine comune come una legge attesa e prescritta. Le leggi che proteggono la proprietà non sono di per sé delle pubbliche opinioni ma se dovessero accadere in una comunità numerosi furti impuniti in un breve tempo, potrebbe rapidamente crearsi la condizione soddisfacente a tutti i criteri d’opinione pubblica. I fenomeni della pubblica opinione sorgono quando degli anticonformisti apertamente rifiutano di rispettare la bandiera nazionale, d’indossare abiti o di adeguarsi ad altre abitudini. Rispetto alle leggi non in vigore, ma sulla via di esserlo, la situazione è opposta. Non è ora un caso che i fenomeni dell’opinione pubblica insorgano contro quelli che violano una pratica legale o creduta tale, ma che la nuova legge venga appoggiata o combattuta, a seconda che si conformi o faccia violenza alla preesistente base genetica (o la si faccia credere tale). Un esempio di tale relazione è fornito dalla legge che proibisce ai negri d’insegnare nelle scuole dei bianchi in tutte quelle località in cui era probabile la loro nomina. Qui la base genetica del pregiudizio razziale era la risposta allo stimolo condizionato rappresentato dalla nuova legge. l) In relazione al problema e alla lotta. I fenomeni dell’opinione pubblica, come abbiamo visto, sono quelli che implicano una disposizione all’azione verso uno scopo
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non ancora raggiunto. La situazione comunemente stimolante verso cui le risposte sono indirizzate è un piano o una politica per mezzo della quale molti individui cercano di ottenere ciò che vogliono. Essendo ciò vero, sorgono spesso delle situazioni in cui gli individui sono allineati in gruppi con interessi particolari, in cui i membri di ciascuna parte tentano di ottenere ciò che vogliono, in contrasto con gli individui allineati in un gruppo opposto. In questo caso le opinioni delle due parti sono solo gli aspetti o i sintomi di una lotta più profonda e generale. Esse possono essere solo la razionalizzazione di questa lotta per assicurarsi i favori dei neutrali o una più forte lealtà degli aderenti al gruppo nel cammino verso il vero scopo, che spesso è più biologico e prepotente di quanto l’opinione formulata dagli stessi sostenitori non suggerirebbe. La Dottrina dei diritti degli Stati, per esempio, è stata usata come egida sotto cui raccogliere individui con forti interessi economici di vario genere. Qui entriamo nel campo della pubblica opinione, connesso con le pressioni politiche, alle lotte di classe e dei lavoratori, e ai conflitti sociali di ogni tipo. In tal caso diventa necessario trascurare il punto di vista del pubblicista, che di solito è interessato a un solo aspetto della controversia, poiché l’allineamento, o la formazione di un gruppo è comprensibile solo alla luce di una contrapposizione di opinioni. In un sistema politico bipartitico l’allineamento di ciascun partito ha pieno significato solo in relazione all’allineamento del partito oppositore. Forti sviluppi del comunismo sono contemporanei con forti allineamenti capitalisti e fascisti, e un raggruppamento sembra assumere significato solo se in contrasto con l’altro. È inadeguata l’opinione comune che questi vari “ismi” sorgano come filosofie politiche acquistando forza, via via che si diffondono, grazie all’indottrinamento. Queste filosofie rappresentano la razionalizzazione di fattori più potenti e sottostanti. Esse sono l’aspetto verbale delle lotte di individui allineati su sponde opposte. Esse sono la parte verbale di tecniche che gli individui usano nella lotta per ottenere ciò che vogliono. Nei conflitti in-
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ternazionali, parimenti, il campo dell’opinione pubblica è più ampio e va molto oltre i confini di un singolo paese. I mutamenti di attitudini in un paese hanno una definita prevedibile relazione con i mutamenti di un altro. m) Probabilità dell’effetto. Il nostro criterio finale, quello di un probabile grado di efficacia è, dal punto di vista del controllo, il più importante di tutti. In tutta la popolazione esaminata si troveranno affermazioni di individui a favore o contro una serie di scopi comuni con tutta una varietà di dati, di numeri, d’intensità di convinzione, di sforzi compiuti. Un programma di ricerca approfondito dovrebbe includere l’analisi statistica di queste affermazioni. Da un punto di vista più pratico, tuttavia, dovremmo probabilmente scegliere da questi svariati numeri i particolari allineamenti in cui siamo più interessati. E in questa scelta il criterio di selezionare quelli che promettono di essere in qualche modo efficaci si dimostrerà probabilmente il più utile e naturale da usare. Nel fare tale scelta spesso si commette l’errore di scegliere l’allineamento che sembra essere il più grande come numero di sostenitori. Un’accorta considerazione dei probabili effetti di un certo allineamento, in cui altri fattori oltre al numero sono presi in considerazione, ci aiuterà a fare una scelta migliore. Ci possono essere molti casi in cui una grande massa di gente è propensa per l’azione, ma ciò non rappresenta il massimo delle probabilità a favore dell’azione. Si devono anche considerare le variabili intensità, cioè grado di sentire, o la validità dello sforzo con cui gli individui cercano di raggiungere un obiettivo comune. Per esempio una votazione nazionale ha rivelato che una sostanziale maggioranza è in favore del controllo delle nascite. Ciononostante non si è portata avanti un’azione legislativa che sostenesse tale controllo, probabilmente perché non era desiderato in una maniera sufficientemente intensa. Vale a dire: il bisogno e il desiderio di informazioni sugli anticoncezionali, di aiuto che ora non può essere ottenuto dallo stesso individuo non è abbastanza sentito dai membri di questa maggioranza, in modo
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da sollecitare un’azione organizzata in opposizione a una minoranza, che invece si oppone intensamente a questa opinione. Risultati collettivi sono ottenuti per mezzo di persone che hanno un’opinione, che l’esprimono in maniera decisa, e che agiscono in conformità. La situazione deve assicurare che un numero sufficiente di persone siano intensamente e in misura sufficiente influenzate. Naturalmente le altre influenze devono essere riconosciute nella previsione o nella comprensione della produzione degli effetti. Sono importanti la presenza di un certo tipo di organizzazione per diffondere l’azione collettiva, e la facilità dell’uso di tale organizzazione. La presenza di individui di eccezionale influenza e abilità per dirigere l’opinione pubblica è un altro fattore. Un terzo fattore è il grado di rafforzamento che l’individuo riceve dalla sensazione che altri individui hanno la sua stessa attitudine; e di conseguenza ciò dipende dalla facilità, dalla velocità, dalla libertà di comunicazione tra gli individui. Bisogna anche considerare i canali attraverso cui il cittadino esprime i suoi desideri alle autorità. Bisogna anche tener presente che il processo che rende operativo un allineamento è complicato da una circolarità di rafforzamento. Quando, per esempio, un editore pretende nelle sue colonne di esprimere la “pubblica opinione” in conseguenza di ciò da una parte influenza le autorità, e dall’altra, rafforza l’allineamento tra la gente. Quest’ultima influenza aumenta la manifestazione popolare dell’opinione, con l’effetto di far crescere ancora di più la sicurezza e l’aggressività dell’editore nel presentare i suoi editoriali come opinione pubblica. È vero che attualmente questi vari fattori sono difficili da isolare e da misurare. Uno dei problemi della nuova scienza della pubblica opinione è separarli e studiare il contributo di ciascuno all’effetto totale. Per adesso dobbiamo fidarci, in assenza di una conoscenza più specifica, della familiarità pratica che abbiamo con queste situazioni complesse. Nell’applicare i criteri dell’efficacia non è, tuttavia, necessario aspettare che l’effetto si sia prodotto. Se aspettassimo fino a tale momento, perderemmo alcuni im-
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portanti aspetti del fenomeno via via che essi prendono forma. Né è necessario essere certi che l’effetto ci sarà e che l’allineamento d’opinione che stiamo considerando giocherà una parte definita nel produrlo. È sufficiente, quando esaminiamo l’intera situazione, che sembrino esserci delle probabilità a favore dell’effetto. Questo, infatti, è il metodo che i capi politici usano per farsi un concetto dell’importanza potenziale dei movimenti di opinione pubblica nelle comunità a favore dei loro programmi. E, sebbene abbiano questo giudizio soggettivo delle probabilità su cui fare affidamento, nondimeno, accettando un certo allineamento d’opinioni e agendo come se dovesse diventare efficace, le risposte dei cittadini aderenti a quell’allineamento tenderanno a diventare efficaci o più efficaci di quanto non lo fossero prima. Essendo importante l’originale attitudine degli individui, dobbiamo anche considerare l’intera situazione di controllo, con i numerosi fattori influenzanti che abbiamo citato, come una configurazione in un campo plurindividuale. Questa fase del problema non può essere sottovalutata se siamo capaci di predire o anche capire gli effetti. Nel linguaggio della nuova psicologia topologica, possiamo definirli vettori operanti in un campo sociale.
Definizione della situazione dell’opinione pubblica La discussione sulle finzioni e sui metodi a vicolo cieco ci ha mostrato quali siano gli errori maggiori. Quando tentiamo di trovare un oggetto corrispondente al termine “opinione pubblica”, cioè quando lo consideriamo come un’entità o un contenuto da essere scoperto e poi studiato o analizzato, i nostri sforzi avranno scarsi risultati. Ma quando distinguiamo in questa parola una situazione plurindividuale, o qualcuna delle relazioni di questa situazione e calandoci in tale situazione incominciamo a studiare il materiale che esplicitamente ci offre, si può ottenere qualche considerevole risultato.
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Sorge ora il problema sulla natura di questa “situazione dell’opinione pubblica” e su come possano essere riconosciuti i suoi rapporti caratteristici. E la risposta a questa domanda si deve trovare in quei punti di accordo comune dei quali abbiamo già discusso. Noi abbiamo a che fare con situazioni che implicano reazioni verbali da parte di molti individui, i quali sono orientati verso situazioni, comunemente stimolanti, importanti per molti, giacché queste reazioni mostrano la tendenza ad agire a favore o contro la situazione, a essere influenzati dalla coscienza che altri reagiscono, ad associare le vecchie attitudini con i nuovi problemi, a essere diretti verso un obiettivo diverso dallo “status quo”, a essere frequentemente coinvolti in conflitti concertati e a suggerire la probabilità di essere efficaci. Grazie all’uso di questi criteri, usiamo il termine opinione pubblica in modo aderente alla realtà, scartando così quei primi tentativi di formulazione che ci hanno condotti sulla via sbagliata. Abbiamo identificato il fenomeno dell’opinione pubblica, e allo stesso tempo ci siamo attenuti a quelle realtà, ai comportamenti degli individui che possono essere misurati e trascritti sotto forma di distribuzione statistica. L’intero argomento può essere sintetizzato dalla seguente affermazione, condensata e in qualche modo formale: Il termine opinione pubblica acquista significato solo se in relazione a una situazione plurindividuale, in cui gli individui esprimono se stessi, o sono chiamati a farlo, per favorire o sostenere (o anche per disapprovare oppure opporsi) una certa condizione, persona o proposta d’importanza largamente diffusa, in una tale proporzione di numero, intensità, e costanza da aumentare le probabilità d’influenzare un’azione, direttamente o indirettamente, verso lo scopo desiderato.
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Da Allport 1937, pp. 267-280.
La ricerca empirica e la tradizione classica* Paul F. Lazarsfeld
Con molta probabilità l’emergere e l’affermarsi della ricerca empirica nelle scienze sociali verrà considerato un giorno come un tratto caratteristico del XX secolo. Ma questa affermazione non è avvenuta senza sforzo. Durissime sono state le lotte con quella che chiameremo la tradizione classica. Dopo tutto, per duemila anni e più si è riflettuto e scritto in merito di problemi umani e sociali. La tendenza empirica ha costituito un’innovazione significativa? Ha avuto un effetto dannoso? Sono questi gli interrogativi su cui si è molto discusso negli ultimi anni. Il dibattito relativo alle ricerche sull’opinione pubblica fornisce probabilmente il miglior esempio in proposito. Dai primi anni del XVIII secolo si è avuta una quantità costantemente crescente di scritti su questo argomento da parte di studiosi di diversa estrazione (scienziati, politici, storici, filosofi ecc.). Verso l’inizio del XX secolo, comunque, questa tradizione classica è stata affrontata dagli empiristi, con le loro ricerche sugli atteggiamenti. La tradizione empirica nelle ricerche sulle opinioni e sugli atteggiamenti iniziò in modo abbastanza sommesso in Germania con semplici esperimenti di laboratorio in cui venne coniata la nozione di “mental sets”. Acquistò vigore dal lavoro della scuola sociologica di Chicago, che portò alla ribalta lo studio degli atteggiamenti e dei valori. Pochi anni dopo, gli psicometrici, sotto la guida di Thurstone, introdussero il grosso problema della misurazione. E infine vennero le ricerche, i sondaggi d’opinione che se da un lato ne restrinsero la sfera concettuale, dall’altro estesero il campo delle applicazioni pratiche1.
LA RICERCA EMPIRICA E LA TRADIZIONE CLASSICA
Circa dieci anni fa l’aspirante nuova scienza e la tradizione classica si confrontarono come petulanti antagonisti. Tre indirizzi presidenziali di saluto, negli annuali congressi dell’American Association for Public Opinion Research a partire dal 1950 sono stati dedicati alla discussione della relazione tra le ricerche sull’opinione pubblica e la storia, la teoria politica e la teoria sociologica, rispettivamente. Né gli esponenti della tradizione classica ci hanno lasciato dimenticare le loro rivendicazioni: Lindsay Rogers ha sviluppato alcuni violenti attacchi; Herbert Blumer ha espresso le sue rimostranze e gli storici hanno mostrato il loro disprezzo per le ricerche sull’opinione pubblica, ricerche da loro ignorate, parlandone solo occasionalmente e dietro richiesta. Questa situazione è stata abilmente riassunta da Bernard Berelson in un articolo molto ricco di concetti e di informazioni (1956, pp. 299-318). Volendo definire la situazione attuale, difficilmente si potrebbe aggiungere qualche cosa alle affermazioni di Berelson e se si vuole discutere sui progressi futuri, il suo saggio è molto stimolante anche in tal senso. Berelson considera lo stato presente delle ricerche sull’opinione pubblica il settimo stadio di un processo irreversibile, che ebbe inizio dalla generale sensazione dell’importanza di un qualcosa chiamato opinione pubblica. Come risultato di ciò insigni scrittori svilupparono un’ampia speculazione su di essa durante una seconda fase dello sviluppo. In una terza fase vennero raccolti dati empirici dovunque era possibile, considerando articoli di riviste, discorsi o altri documenti. La raccolta di questi dati condusse a un intenso interesse per la metodologia della ricerca in questo settore. È a questo punto che si ha un quinto stadio del processo in cui agenzie commerciali specializzate e istituti universitari si dedicano alla ricerca. Si sono poi avuti contatti con discipline affini, quali l’antropologia e la psicologia. Questo ha reso possibile un settimo stadio, nel quale stiamo entrando ora, stadio in cui si vanno sviluppando studi sistematici sull’opinione pubblica: la ricerca sull’opinione pubblica è divenuta una scienza sociale empirica. Se ci occupassimo di una disciplina come la chimica o qualsiasi altra scienza naturale, noi saremmo abbastanza sicu-
PAUL F. LAZARSFELD
ri che ogni nuova fase ha incorporato ciò che di valido era presente nel lavoro precedente. Nelle scienze sociali la situazione non è così semplice. I progressi nella chiarezza delle formulazioni e nella rigorosità delle verifiche empiriche sono spesso accompagnati da una mancanza di sensibilità per una visione più vasta dei problemi e per il patrimonio di riflessione e di idee frutto di una più antica tradizione di studio. Lo scontro tra gli empiristi e i sostenitori della tradizione classica si presenta in molti altri settori ed è quasi sempre produttivo, da più di un punto di vista. In primo luogo lo sviluppo empirico costringe di solito a elaborare strumenti concettuali più acuti, che ci consentono di considerare i classici da un nuovo vantaggioso punto di vista: ciò che era percepito solo oscuramente può ora essere compreso chiaramente e, come risultato, nuove implicazioni di tutti i generi possono essere portate alla luce. In secondo luogo, il prendere in considerazione l’apporto della tradizione classica ci porta a considerare problemi che sarebbero altrimenti trascurati, o per la preoccupazione del lavoro quotidiano, o perché i ricercatori empirici sono inclini a essere guidati dall’attualità, piuttosto che dall’importanza dei problemi. Infine la tradizione classica, come è stato esemplificato dalle prime due fasi di Berelson, non è affatto superata. Noi speriamo che gli studiosi continueranno a considerare i problemi in un’ampia prospettiva, senza tener conto del fatto che siano disponibili dati o schemi rigorosi d’indagine. La stessa teorizzazione può progredire e la logica della ricerca empirica può contribuirvi. Il nostro compito concettuale è legare le fasi di Berelson in anelli per vedere come le prime fasi si uniscono alle successive.
Complessità della nozione classica di “opinione pubblica” Possiamo iniziare esaminando le discussioni sorte a proposito della definizione stessa di opinione pubblica. Non è per caso che sia Blumer che Rogers avanzano questa obiezione: quando i ricercatori usano il termine “opinione pubblica”, non sanno né possono dire che cosa intendono.
LA RICERCA EMPIRICA E LA TRADIZIONE CLASSICA
Ora, in linea di principio, questa non è un’obiezione inutile. Le definizioni, sia implicite che esplicite, hanno invero una grande influenza sull’attività degli studiosi. In un altro senso, comunque, l’obiezione è piuttosto strana. Nessuno dei due autori propone una definizione. E se si considera la raccolta di citazioni che Rogers fa in uno dei suoi capitoli in The Pollsters si è colpiti dal fatto che pochi tra i classici offrono una definizione. In effetti gli scrittori più antichi ci sommergono di commenti circa il carattere misterioso e intangibile dell’opinione pubblica. Perché l’opinione pubblica è così difficile da definire? Si è generalmente d’accordo sul fatto che l’affermarsi della classe media, il diffondersi delle istituzioni democratiche, il ridursi dell’analfabetismo e lo sviluppo degli strumenti di comunicazione di massa hanno fatto sorgere un interesse per ciò che venne liberamente definito “opinione pubblica”. Con questo termine molti autori della scuola classica si riferiscono a persone non appartenenti alla classe dirigente, nella quale vengono reclutati i governanti, e che tuttavia rivendicano una voce negli affari pubblici2. Ma due questioni divennero cruciali. Una di tipo normativo: qual è la relazione migliore fra opinione pubblica e il governo? L’altra è di tipo descrittivo: come esercita effettivamente la sua influenza l’opinione pubblica? Il termine “opinione pubblica” venne introdotto nel modo assolutamente casuale cui abbiamo accennato. Pur essendo apparentemente un concetto unitario, esso sta oggi a significare un insieme complesso di osservazioni, problemi pratici e riferimenti normativi. Vale senz’altro la pena di seguire da vicino questo sorprendente brano di storia intellettuale: come la complessità di una situazione storica in sviluppo venne considerata una difficoltà linguistica perché non esistevano categorie logiche atte a definirla. In linguaggio moderno si direbbe che esisteva una confusione tra il linguaggio principale concernente le osservazioni di fatto e il linguaggio riflesso attraverso il quale le osservazioni dovevano essere analizzate3. Possiamo trarre l’esempio principale per questo problema da un saggio dello storico tedesco Hermann Oncken su
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Lo storico, l’uomo di Stato e la pubblica opinione. Secondo Oncken l’uomo di Stato si occupa fondamentalmente degli interessi durevoli del paese; perciò i suoi scritti di storia non sono attendibili. Lo storico è soprattutto sensibile al problema della verità; egli non deve essere troppo implicato nelle vicende politiche per non correre il rischio di un conflitto di valori tra verità e opportunità. “L’Opinione Pubblica – osservare la personificazione – sta a significare le fluttuazioni della mente umana, libera da ogni responsabilità accademica e politica”. La trattazione di Oncken (1914, pp. 203-204) continua così: Ciò che è vago e fluttuante non può essere compreso coercitivamente entro una formula; certamente non quando è una vera e propria caratteristica di un concetto, che esso incorpori mille possibilità di variazione. Ma quando tutto è spiegato diffusamente, ognuno comprende che cosa significa opinione pubblica. Se deve essere messa in parole, allora essa deve essere espressa con molte clausole restrittive: l’opinione pubblica è un complesso di voci similari di più o meno vasti settori della società concernenti i pubblici affari (1, 2); a volte spontaneo, a volte artificialmente manipolato (3); espressa in una molteplicità di modi, in club, assemblee, soprattutto a mezzo stampa o forse soltanto come sentimenti inespressi di ciascuno di noi (4); dell’uomo della strada o di una ristretta cerchia di persone colte (8); ora un elemento di grande importanza che gli statisti devono considerare, ora un fatto di nessun peso politico (5); qualcosa inoltre che deve essere valutato in modo differente in ogni paese (5 o 6); qualche volta un blocco unico, che si erge come un’onda di marea contro il governo e gli esperti di pubblici affari, qualche volta divisa, conciliando tendenze contrastanti (7); ora esprimendo i sentimenti semplici e naturali del popolo, ora le brutali manifestazioni irrazionali dell’istinto (6); sempre guidando ed essendo guidata (5, 3); guardata dall’alto in basso dalla gente sofisticata, eppure capace di forzare la mano degli uomini (6, 5); contagiosa come una epidemia (10); capricciosa, infida (9) e pazza di potere (somigliando all’uomo stesso) (6); e poi ancora solo una parola dalla quale sono stregati coloro che detengono il potere.
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(Si sono inseriti dei numeri dopo le frasi in questo passaggio, cosicché sia agevole il riferimento). Ora, ciò che è interessante in questa sorprendente formulazione è che può essere facilmente districata appena la si confronta con quella che si potrebbe definire una completa distribuzione di atteggiamenti. È un luogo comune per molti di noi che un sondaggio di opinione non consiste solo nell’individuare quante persone siano pro o contro qualcosa. Abbiamo bisogno di conoscere le caratteristiche sociali e demografiche di coloro che rispondono e ci preoccupiamo di distinguere tra coloro che conoscono e che sono interessati al problema e coloro che non lo sono. In altre parole una buona indagine di pubblica opinione non si risolve in una sola distribuzione di opinioni, ma in molte distribuzioni, ciascuna per un diverso settore della popolazione. In questo senso, Oncken dà senz’altro una definizione di pubblica opinione. È una distribuzione statistica di voci (nn. 1 e 7) espresse da vari settori della popolazione (n. 2) e questi settori possono e devono essere classificati a seconda del loro grado di competenza (n. 8). Ma mescolati a questa definizione sono alcuni problemi empirici che s’incontrano in investigazioni più complesse delle semplici indagini per diversi settori. Quali fattori determinano una certa distribuzione di opinioni in un dato momento (n. 3)? Quali effetti esercita sui politici e sul processo legislativo in generale (n. 5)? Come vengono trasmesse e diffuse le opinioni (n. 10)? Due ulteriori elementi nel brano citato preannunciano argomenti che sono ora di grande interesse tecnico per noi. Come si deve scegliere tra le diverse fonti e i diversi metodi che possono essere usati per descrivere una distribuzione di atteggiamenti (n. 4)? Oncken menziona solo ciò che è detto nel corso di raduni e nella stampa di massa. Oggi noi aggiungeremo le indagini per questionario e altre procedure di ricerca più sistematiche. E ora tradurremo la frase “capriccioso e infido” (n. 9) nella terminologia delle tecniche di panels, distinguendo le persone che dopo ripetute interviste mostrano atteggiamenti costanti da quelle i cui atteggiamenti
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fluttuano. Infine Oncken s’interessa ovviamente al problema normativo di come certe opinioni debbano essere valutate; una questione sulla quale ritorneremo in seguito. Questo intrecciarsi di questioni definitorie e di problemi sostanziali è caratteristico della tradizione classica. Probabilmente si è qui di fronte a uno sviluppo irreversibile. Ora che esistono i sondaggi, continueremo senza dubbio a definire l’opinione pubblica una distribuzione ben analizzata di atteggiamenti. Ma certamente nessuno può negare che si conosce tuttora molto poco sul modo in cui tali complete distribuzioni di atteggiamenti vengono in essere e quale parte esse sostengono attualmente nella formazione delle decisioni pubbliche. E sotto il titolo generale del “fenomeno della società di massa” continueremo sicuramente a preoccuparci del ruolo che l’opinione pubblica dovrebbe avere. Così il problema della definizione si risolve in una maniera interessante. I critici del sistema dei sondaggi temono che la soddisfazione di aver ottenuto una maggiore chiarezza concettuale ci conduca a dimenticare alcuni dei gravi problemi tecnici ed empirici di cui si sono occupati i classici (e hanno ragione a preoccuparsi, almeno per quanto riguarda alcuni ricercatori). Ma ciò che si è trascurato è quanto è accaduto spesso nel corso della storia del pensiero: una tecnica nuova ha permesso di discernere i vari aspetti di un problema noto e ha preparato il terreno per un approccio più razionale ai suoi diversi elementi4.
Il “sistema dell’opinione pubblica” come ponte Vi è stato recentemente un tentativo interessante di trovare una formulazione che superi il solco tra la tradizione classica e gli eventi attuali. MacIver (1954) ha introdotto il concetto di “sistema di opinione pubblica”5. Esso implica una chiara comprensione del fatto che l’intrico di fatti e di problemi di fronte a cui si trovavano gli scrittori di un tempo può essere districato solo distinguendo diverse dimensioni nel concetto di opinione pubblica. Una prima dimen-
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sione è data dall’“allineamento delle opinioni”. Corrisponde al tipo d’informazione che si ottiene con i moderni sondaggi d’opinione. La seconda dimensione è costituita dalla “struttura della comunicazione”. Questa si riferisce a un gruppo di problemi di cui s’interessano molti sociologi: il ruolo delle associazioni e della leadership e il modo in cui i mezzi di comunicazione di massa e il loro pubblico s’influenzano a vicenda. La terza dimensione è data dall’“area di consenso”, una dimensione che tiene conto di una distinzione che ha turbato altri scrittori. Alcuni degli atteggiamenti rilevanti per lo studio di situazioni storiche specifiche, presentano caratteri molto duraturi: la gente è poco consapevole di essi, li dà per scontati: essi vengono alla ribalta in situazioni in cui queste convinzioni basilari sono in qualche modo minacciate. Queste “aree di consenso” dovrebbero essere tenute distinte dalle opinioni sui temi controversi di attualità. Le tre componenti formano insieme il “sistema della pubblica opinione” e due di esse sono chiaramente parallele ai due gruppi di elementi che troviamo in Oncken. La terza componente si propone di prendere in considerazione un’altra difficoltà che ha tormentato gli scrittori del secolo scorso: quali aspetti dei sentimenti popolari sono significativi per l’analisi degli eventi sociali? Lo psicologo sociale francese Gabriel Tarde6 ha proposto di distinguere tra tradizione, opinione e moda. Il sociologo tedesco Tönnies ha utilizzato la ben nota distinzione tra Gemeinschaft e Gesellschaft, coordinando la religione con la prima e l’opinione con la seconda. Il problema consisteva sempre nel collocare l’“opinione pubblica” in posizione intermedia tra il sistema di valori di una società, abbastanza stabile e al livello del subconscio, e la fugace reazione della gente agli eventi quotidiani. Probabilmente la formulazione più produttiva di questo tipo è stata posta e sviluppata dagli storici con il concetto di “clima di opinione”7. Questo concetto diventò di moda nel XVII secolo e acquistò vigore attraverso l’analisi di Carl Becker dell’Illuminismo francese del Settecento. Esso è sovente usato dagli storici per spiegare i motivi per i quali non
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sono interessati alle indagini attuali; essi asseriscono che noi non investighiamo i sentimenti semi-permanenti dai quali si sviluppano le opinioni sugli eventi concreti.
La ricerca del “clima d’opinione” Questo è davvero un argomento sul quale i classici hanno molto da insegnarci. Qui essi si muovevano davvero sul loro terreno, perché i documenti storici, le leggi e le consuetudini sono un’importante fonte di ricerca dei climi d’opinione. Ma, ancora, la situazione è piuttosto complessa. Alcuni dei nostri più raffinati ricercatori odierni sostengono che possiamo scoprire i valori fondamentali d’ogni gruppo di popolazione utilizzando dei “test proiettivi”; gli antropologi soprattutto inclinano verso questo punto di vista. Ma tali procedure sono costose, anche se utilizzate su scala ridotta ed è quasi impossibile applicarle con un campione sufficientemente rappresentativo. Una soluzione di compromesso consiste nello sviluppo di elementi proiettivi piuttosto semplici, che si possono adoperare nell’ambito di una ricerca campionaria sufficientemente estesa. Non abbiamo ancora fatto grandi progressi in questa direzione e vale quindi la pena di cercare di valutare la situazione attuale. Alcuni esempi si possono trarre dagli studi correnti sul “carattere nazionale”. Troviamo differenze considerevoli tra le nazioni se poniamo domande del tipo: “Si può aver fiducia nella gente? È possibile mutare la natura umana? I figli dovrebbero consultare i propri genitori prima di sposarsi? È pericoloso contraddire i propri superiori? Il clero e gli insegnanti dovrebbero essere rispettati nella comunità? Vivreste volentieri in un altro paese? Che cosa approvate o disapprovate maggiormente nei vostri vicini?”. Entro uno stesso paese, le differenze di classe sono state oggetto d’indagini particolari. Così chiedendo per esempio “per quali colpe si dovrebbero punire i ragazzi? Quanta fiducia hanno gli adolescenti nei loro genitori? Quali decisioni prende il marito senza consultare la mo-
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glie?” le risposte indicano se i “mores” varino tra i differenti strati sociali. In più le tensioni tra le classi possono essere investigate con test proiettivi. Si può domandare: “I tribunali e la polizia sono considerati imparziali, o favoriscono i ricchi? Il lavoratore o l’uomo d’affari pensano di avere più tratti in comune con persone della stessa classe sociale di altri paesi o con le persone di una diversa classe del proprio paese? È particolarmente interessante leggere novelle e romanzi che parlino di gente della propria classe sociale?”8. Un interesse particolare possono avere le ricerche ripetute al cambiare della scena politica. In un’inchiesta condotta in Germania nel 1946, si chiese a un campione della popolazione se considerava il coraggio fisico una qualità importante per un uomo. Più del 90 per cento rispose di no. Questo rifletteva probabilmente la disillusione per l’ideologia nazista, e anche uno sforzo di indovinare ciò che l’intervistatore americano desiderava sapere. Sarebbe stato molto istruttivo ripetere questa domanda pochi anni dopo la ricostituzione dell’esercito tedesco. Se il prestigio del coraggio fisico accresce rapidamente, possiamo cominciare a preoccuparci delle conseguenze del riarmo tedesco.
Rileggendo Dicey: l’effetto di “feed-back” Al di là del contrasto sulle definizioni, poi, esistono serie difficoltà concernenti la scelta dei problemi importanti. La scelta dei problemi, a sua volta, aiuta a determinare quali tipi di tecniche abbiano bisogno di sviluppo e quali dati debbano essere raccolti. Ma vi è anche un’altra relazione tra il modo di pensare in una scienza sociale e il suo sviluppo tecnico. Le proposizioni sviluppate dai classici erano di natura più vasta e in certo modo differente da quella dei risultati più macroscopici di cui c’interessiamo oggi. Solo raramente la discrepanza è abbastanza ridotta da permettere che i problemi della tradizione classica siano avvicinati con le nuove tecniche e i nuovi orientamenti.
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Si ha un’eccezione in uno dei più famosi testi classici: The Relations Between Law and Public Opinion in England During the 19th Century (1920) del Dicey. Il titolo lascia trasparire chiaramente lo scopo del lavoro. L’interesse dell’autore è rivolto principalmente ai mutamenti che ebbero luogo in Inghilterra tra il 1840 e il 1880. La prima data rappresenta l’apice del laisser faire, quando ci si sforzò di ridurre al minimo l’interferenza del governo negli affari economici. Dal 1880 venne posta in vigore una cospicua legislazione sociale, e iniziò un’epoca che non incontra il favore del Dicey e che egli definisce indifferentemente l’era del collettivismo o del socialismo. Egli non solo tenta di descrivere gli effetti delle tendenze delle opinioni prevalenti sulla legislazione: egli cerca anche di rendersi conto dei mutamenti d’opinione e individua un certo numero di “caratteristiche”, cioè generalizzazioni che vogliono tentare di spiegare i modi in cui avvengono tali cambiamenti. Una di queste regole riguarda ciò che oggi si potrebbe chiamare un effetto di feed-back: “le leggi alimentano o creano le opinioni”. Oggi disponiamo di un considerevole ammontare di dati che dimostrano che Dicey aveva ragione. Cantwell e Hyman hanno dimostrato che immediatamente dopo che il Congresso approva una legge, tende a esserci un aumento nel numero di persone che l’approvano (i loro esempi vanno dai dibattiti sull’allargamento della Corte Suprema al Piano Marshall). Plank ci fornisce dati simili per la Francia, dove le inchieste sull’opinione pubblica hanno posto in luce un aumento di approvazione per una serie di accordi internazionali proprio in seguito alla loro firma. Ma come poteva Dicey essere a conoscenza di questo, quando ovviamente non erano disponibili prove del genere? Ancora una volta, un’attenta lettura delle sue argomentazioni permette di separare gli elementi “all’antica” da quelli creativi e durevoli. Da un lato, egli definisce la sua regola una “verità incontestabile” e sembra pensare di poterla derivare da principi fondamentali. Dall’altro egli appoggia la sua tesi su esempi, sviluppando diverse idee interessanti nel corso della sua argomentazione. Secondo lui, molte persone sono
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abbastanza incerte in quanto a opinione, così che quando una legge è attuata “i principi ispiratori di questa acquistano prestigio dal suo mero riconoscimento da parte del Parlamento”. In effetti, egli dice, quanto meno chiaramente questo principio ispiratore è formulato, con più probabilità esso verrà accettato. La legislazione spicciola su questioni secondarie spesso “introduce clandestinamente delle idee che non sarebbero accettate se portate di fronte all’attenzione del paese in una forma più esplicita”. In ciò si può quasi vedere una prima formulazione di una teoria su come i “fatti compiuti” trovano approvazione. Termini moderni come “legittimazione”, “nuovo indirizzo dell’attenzione” e “natura di un equilibrio instabile in una debole struttura di opinione” si possono facilmente inserire nelle discussioni di Dicey. Ma il fatto più interessante dal nostro punto di vista è che in nessuna delle pubblicazioni moderne, che presentano dati sul fenomeno di feed-back è stato fatto il più piccolo sforzo per spiegarlo. Questa “rilettura” dell’opera di Dicey mostra una seria lacuna nel nostro approccio odierno e costituisce il primo impulso per colmarla.
La verifica empirica delle intuizioni classiche Sensibilizzati da un tale episodio, adesso possiamo sollevare di nuovo la questione di dove possiamo trovare ulteriore materiale da applicare alle osservazioni degli autori classici. Ovviamente questo materiale non può provenire da una singola inchiesta sull’opinione pubblica, e i periodi di tempo coperti dalla ricerca empirica sono generalmente troppo brevi per essere di grande aiuto. Ma adesso stiamo iniziando a collezionare dati comparati sulla pubblica opinione, e questi costituiscono la base per generalizzazioni più ampie. L’impulso in questo senso è venuto ampiamente da altri settori. Le inchieste sui modelli di cultura compiute a Yale da alcuni antropologi hanno dato luogo a una quantità di opere interessanti che confrontano la struttura sociale o le pratiche di educazione dei fanciulli di parecchie tribù primitive. I so-
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ciologi industriali hanno confrontato la produttività di gruppi di lavoro con diverse condizioni di leadership e d’interazione personale tra i membri. Gli studiosi di scienza politica hanno incominciato a servirsi dei quarantotto Stati del nostro paese come di una specie di laboratorio politico. Lentamente la ricerca sugli atteggiamenti è stata inclusa in questo nuovo movimento. James Bryce ha confrontato l’Inghilterra e gli Stati Uniti, tra loro, in termini di partecipazione politica. Egli giunge alla conclusione che in ogni paese si possono distinguere tre strati: quelli che prendono decisioni politiche; quelli che le discutono seriamente e influenzano gli esecutori attraverso la stampa e i libri, i convegni e così via; e infine le masse politiche inerti e disinteressate. Bryce (1920) pensava che il gruppo centrale fosse considerevolmente più vasto negli Stati Uniti che in Europa; ma non aveva prove. Oggi prove precise potrebbero essere fornite dall’“indice di attività politica” costruito da Julian Woodward ed Elmo Roper (1954, pp. 872 sgg.). Essi hanno ottenuto informazioni sulle attività dei loro intervistati nei partiti e nei gruppi di pressione; la misura in cui essi discutevano di politica con gli amici, la frequenza con cui votarono ecc. Infine, hanno diviso la popolazione americana in quattro gruppi: coloro che erano molto attivi (10 per cento), coloro che erano attivi (17 per cento), gli inattivi (35 per cento) e coloro che erano molto inattivi (38 per cento). Probabilmente non erano inclusi nel loro campione coloro che prendevano realmente le decisioni, ma una lettura ragionata delle domande posta da Woodward e Roper farebbe corrispondere il 27 per cento di attivi al secondo gruppo di Bryce e il 73 per cento di inattivi al terzo gruppo. Come di consueto, la divisione è necessariamente un po’ arbitraria, ma un tale indice, una volta costruito, potrebbe essere idoneo a operare confronti nel tempo e nello spazio. In campo internazionale, il nostro miglior esempio proviene da un’inchiesta sugli atteggiamenti effettuata dall’UNESCO in nove paesi nel corso del 1948 (Buchanan, Cantril 1953). Scegliamo una fase di questo studio perché pone gli atteggiamenti in relazione con un indice economico. Si
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chiese agli intervistati di nove nazioni quale paese del mondo poteva offrire loro la vita che avrebbero desiderato condurre. Per ciascuna delle nove nazioni la proporzione degli intervistati che nominarono il loro paese venne considerata come un “indice di soddisfazione”. Tale indice venne utilizzato in connessione con un gruppo di dati che indicavano per ogni paese il numero di calorie disponibili pro-capite. Tale misura di benessere economica correlava allo 0,75 con l’indice di soddisfazione. Anche le deviazioni suggerirono interessanti considerazioni. Per esempio, il Messico aveva lo standard di vita più basso, ma il grado di soddisfazione dei suoi abitanti era relativamente elevato. Gli olandesi, d’altro canto, presentavano un basso grado di soddisfazione, nonostante un livello di vita relativamente buono. Questo potrebbe essere dovuto alla devastazione della guerra, la perdita dell’Indonesia, o all’alta densità di popolazione dell’Olanda.
Accertamento empirico e “dover essere” Dobbiamo adesso ritornare a un elemento del quadro che abbiamo trascurato in precedenza. La tradizione classica è molto interessata al problema di ciò che dovrebbe essere la giusta relazione tra opinione pubblica e governo democratico. L’obiezione più valida di Rogers ai ricercatori contemporanei concerne esattamente questo punto: essi o non si occupavano del problema o fanno ingenue asserzioni sul fatto che il governo dovrebbe fare ciò che le inchieste di pubblica opinione indicano essere i desiderata della popolazione. Questo è un problema normativo e perciò è importante sapere quale può essere la relazione tra le scelte di valore e i risultati di fatto della ricerca empirica. Maggiore è la conoscenza che noi abbiamo delle probabili conseguenze di certe misure, maggiore è la certezza che possiamo nutrire sulla possibilità che avranno di realizzarsi i valori per cui ci battiamo, e più razionale quindi sarà la scelta tra gli stessi valori qualora fossero in conflitto9.
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Nei primi scritti sull’opinione pubblica, problemi di valore come questo erano discussi in un linguaggio pseudofattuale che rendeva particolarmente difficile il dialogo tra le generazioni. Si consideri, per esempio, il primo importante libro americano sull’argomento: Public Opinion and Popular Government di A. Lawrence Lowell (1913). Nelle prime ottanta pagine di questo libro, Lowell si propone di scoprire cosa sia la “vera” opinione. La prima reazione di un lettore moderno, è di considerare la questione assurda (sarebbe come chiedersi: “che cos’è la vera elettricità?”) e scartare il libro. Sarebbe però un errore. Perché, dopo considerevole sforzo, si apprende che, per “vero”, Lowell intende il tipo di pubblica opinione che un governo democratico dovrebbe tenere in considerazione. Sulla base di questa premessa si scopre che Lowell ha tre criteri molto diversi per classificare la “vera” opinione pubblica. In termini correnti possiamo esprimerli così: a) Dovrebbero essere considerate solo le opinioni espresse dopo un’idonea discussione generale e solo di persone che hanno considerato a lungo la questione. Se si volesse tener conto di ciò negli odierni sondaggi d’opinione, mentre le persone caute e attente potrebbero essere prontamente identificate dalle buone inchieste, il momento in cui il sondaggio deve essere effettuato, se questo deve essere utilizzato dai dirigenti governativi, fa sorgere un gran numero di problemi importanti. b) Né le elezioni né i referendum in realtà accertano esattamente le opinioni delle persone; le prime falliscono perché non sono centrate intorno ad argomenti, e i secondi perché non sappiamo se vi partecipano le persone “giuste” (informate). Certamente Lowell avrebbe ben accolto i sondaggi, purché propriamente analizzati e interpretati. c) Certi argomenti non dovrebbero mai essere sottoposti a legislazione e, perciò, non possono essere oggetto di “vera” opinione pubblica; la religione è un esempio specificamente menzionato dalla costituzione americana. Qui ci imbattiamo nell’intricato problema dell’esclusione di certi argomenti dalle valutazioni dell’opinione pubblica. In questi campi la “vera” opinione dovrebbe essere accertata
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da un’inchiesta sull’opinione pubblica, dall’analisi storica della tradizione di un paese, o da una considerazione filosofica generale? Lowell non solleva e non risponde a queste domande, ma suggerisce interrogativi interessanti su ciò che la gente considera argomento privato e ciò che considera argomento pubblico in varie circostanze.
Opinione pubblica e politica governativa La relazione tra l’opinione e la politica governativa è stata discussa in un altro tipo di letteratura, alla quale potremmo con profitto fare più attenzione di quanto abbiamo fatto precedentemente. Vi sono scrittori che tentano di accostare questioni normative a mezzo di un’attenta analisi degli avvenimenti storici, analisi nella quale essi prima descrivono poi giudicano le conseguenze delle misure effettivamente prese. Prima di considerare esempi concreti si deve fare attenzione agli aspetti storici del problema stesso. Gli studi storici di Emden (1956)10 rivelano i grandi mutamenti che avvennero nel clima di opinione britannico in proposito. Un secolo e mezzo fa, per esempio, era illegale pubblicare qualsiasi resoconto dei dibattiti del Parlamento britannico. In seguito furono permessi dei riassunti, ma non potevano essere resi pubblici i voti dei singoli membri. Soltanto dal 1845, e dopo serio dibattito, vennero pubblicati rapporti ufficiali. Per converso, fino al 1880 circa, era considerato inammissibile per gli uomini politici, ministri inclusi, tenere comizi alla popolazione. Essi potevano rivolgersi al loro collegio elettorale, ma altrimenti solo il Parlamento era considerato il luogo idoneo per un dibattito11. Tre studi monografici dettagliati hanno analizzato la relazione tra la politica governativa e l’opinione pubblica in un modo particolarmente interessante. Uno fu pubblicato nel 1886 ed è spesso citato, ma è raramente letto a causa della sua eccessiva lunghezza (Thompson 1954). Esso tratta della tensione tra Russia e Turchia intorno al 1880, che condusse al Congresso di Berlino. Il motivo di discordia tra i due paesi
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era la protezione della popolazione cristiana dei Balcani, allora parte dell’impero turco. Secondo l’autore, la popolazione britannica era per la liberazione delle province balcaniche, un desiderio che corrispondeva alle richieste del governo russo. Disraeli (Lord Beaconsfield) temeva un’estensione dell’influenza russa in Europa, e la sua politica era sostanzialmente quella di aiutare i turchi. Così si ebbe una situazione in cui il governo britannico agiva deliberatamente in politica estera contro l’opinione della maggioranza della stampa inglese e delle organizzazioni civiche. Thompson dà una descrizione vividamente documentata delle drammatiche azioni e reazioni delle due parti in lotta: come gli avvenimenti rafforzassero ora l’uno e ora l’altro dei contendenti e come ciascuno di essi reagisse alle mosse dell’altro. Il problema normativo che interessa l’autore è se un governo, pur avendo la maggioranza in Parlamento per l’appoggio del suo partito, deve rassegnare le dimissioni quando vi sono segni inconfondibili che la popolazione in genere non è d’accordo sulla sua politica. Intorno al 1880 questo non entrava ancora nella tradizione britannica; probabilmente vi rientrerebbe oggi. I dati sui quali si basava Thompson erano discorsi, mozioni, articoli di fondo e documenti similari. Il suo contributo consiste nell’analisi minuziosa delle diverse fasi del conflitto. Ma egli doveva esaminare la materia, per così dire, dall’esterno; egli non aveva nessuna informazione sul modo in cui venivano prese le decisioni o nel gabinetto britannico o nei vari gruppi che organizzavano ciò che egli chiamava le “agitazioni”, il movimento anti-turco. Un libro molto più recente di Lynn M. Case (1954) è importante perché possiede proprio questo tipo d’informazione. Durante il secondo impero il governo francese possedeva un’organizzazione accurata per ottenere rapporti sull’opinione pubblica attraverso funzionari amministrativi di tutto il paese. Questi non erano i consueti rapporti della polizia segreta, che denunciavano singole persone, ma erano piuttosto impressioni spassionate sul modo in cui i vari gruppi sociali reagivano alla politica di Napoleone III12. In tempi di crisi questi rapporti arrivava-
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no con una frequenza settimanale. Case non solo traccia un ottimo quadro di questi interessanti rapporti; egli parla anche dell’effetto che essi ebbero sulla politica estera del secondo impero, citando verbali delle sedute di gabinetto, durante le quali furono discussi e usati come argomentazione dai partecipanti. Questo libro include un drammatico episodio in cui le implicazioni normative risaltavano con particolare chiarezza. Nel 1866, Napoleone desiderava intervenire nella guerra austro-prussiana, per evitare una vittoria prussiana. I rapporti sull’opinione pubblica indicarono, comunque, un tale desiderio di pace nella popolazione e un tale pericolo di rivoluzione in caso di guerra, che il gruppo, che nel gabinetto era contrario alla guerra, riuscì a prevalere. Il risultato fu che la Prussia divenne tanto potente che quattro anni più tardi poté dichiarare guerra alla Francia, guerra che condusse alla sconfitta di Napoleone III e alla fine del regime. Case pone in dubbio l’efficacia di una politica estera guidata dall’opinione pubblica13. Infine, abbiamo lo studio di W. P. Davison sul ponte aereo di Berlino. Egli vi riporta dati ottenuti da un sondaggio tenuto in vari settori di Berlino e da interviste, effettuate tra funzionari politici americani e tedeschi a vari livelli. Egli mostra come la reazione del pubblico passasse dall’incredulità, attraverso l’esitazione, alla decisione di schierarsi a lato delle potenze occidentali. Davison pone l’accento su un complesso gioco di azioni e reazioni: la determinazione americana venne rafforzata dall’atteggiamento favorevole dei tedeschi; per contro il ponte aereo rafforzò le speranze tedesche che gli alleati non li avrebbero abbandonati e che i russi non avrebbero potuto occupare la città; questo spinse molti individui incerti a prendere parte apertamente ad attività anticomuniste. Le principali applicazioni pratiche di questo studio riguardano la relazione tra leadership e opinioni pubbliche in periodi cruciali a causa della necessità di un’azione rapida. Davison pensa che i capi dell’apparato amministrativo debbano correre dei rischi e confidare che la massa della popolazione li appoggi in seguito14.
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Necessità di una sintesi classico-empirica In conclusione, sono disponibili scritti di valore sulla relazione tra le decisioni governative e l’opinione pubblica. Essi sono inadeguati a un tipo ideale di ricerca solo nella misura in cui l’informazione sull’opinione pubblica è di natura più o meno deduttiva. Senza dubbio, ci vorrà un bel po’ di tempo prima che si giunga a una unione delle due correnti: un’attenta analisi secondo la tradizione classica integrata da moderni dati empirici. Adesso, non sembra ingiustificato concludere queste considerazioni in un modo un po’ utopistico. Durante un dibattito sul rapporto tra storia e ricerche sull’opinione pubblica, uno storico osservò che anche nel futuro i suoi colleghi non avranno bisogno di studi sugli atteggiamenti; essi sapranno ciò che è accaduto in un dato periodo e da questo potranno inferire che cosa era “l’opinione pubblica effettiva” del tempo. Tuttavia lo storico dell’economia francese Ferdinand Braudel ci fornisce una replica pertinente: Gli eventi vittoriosi avvengono come risultato di molte possibilità spesso contraddittorie, tra le quali la vita ha infine fatto la propria scelta. Per una possibilità che si è realizzata, innumerevoli altre sono cadute. Queste sono possibilità che hanno lasciato scarsa traccia per gli storici. Eppure è necessario dare loro il posto che meritano perché i movimenti perdenti sono forze che hanno influenzato in ogni momento il risultato finale, talvolta ritardando e talvolta accelerando il suo sviluppo. Lo storico dovrebbe essere interessato anche agli elementi di opposizione, al loro flusso che non fu arrestato con facilità a quel tempo. Le idee che non hanno potuto essere realizzate in un dato momento, possono tuttavia aver reso possibile la vittoria di un’altra idea15.
In altre parole, se un avvenimento è il risultato di parecchie tendenze potenziali, nessuna delle quali è stata interamente attuata, allora non può essere compreso a fondo se non si conoscono le “tendenze”. È illogico rovesciare l’analisi e derivare ciò che era potenziale da ciò che era in atto,
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perché diverse combinazioni di tendenze potrebbero avere condotto allo stesso risultato. Soltanto i dati sugli atteggiamenti possono fornire le componenti che produssero il risultato finale. In tal modo, la necessità di ampi studi sugli atteggiamenti diventa sempre più ovvia sotto tutti gli aspetti. Ma diviene più evidente anche la complessità di questo compito. Mentre i cultori moderni di studi empirici hanno ragione di rallegrarsi dei loro progressi, non vi è dubbio che essi possono guadagnare molto da uno stretto contatto con la tradizione classica. Non dobbiamo lasciarci spaventare dal modo di ragionare un po’ superato dei classici. È stato detto che l’essenza del progresso consiste nel lasciare le ceneri e prendere le fiaccole dagli altari dei propri antenati.
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Da Lazarsfeld 1957, pp. 891-913 della trad. it. Per una breve, eccellente storia degli sviluppi della scuola empirica vedere G. Allport (1935). 2 In un libro di Emden (1956), sul quale torneremo in seguito, si può trovare un’interessante storia del termine “il popolo”. Egli mostra come in vari periodi della storia inglese “il popolo” fosse costituito da coloro che non avevano ancora il diritto di voto, ma l’avrebbero ottenuto con la successiva riforma parlamentare. In Germania, prima della prima guerra mondiale gli intellettuali liberali erano in pratica esclusi dal governo; non è pertanto sorprendente che il sociologo tedesco Tönnies abbia definito l’opinione pubblica come l’opinione degli esperti (Gelehrte), degli uomini cioè che si occupavano di problemi politici, ma che non avevano accesso ai centri di potere. 3 È interessante notare che almeno uno storico si è occupato di un problema simile in un’epoca precedente. Lucien Febvre (1947, pp. 383-481) asserisce che nella Francia del XVI secolo era impossibile lo sviluppo di una forma sistematica di scetticismo religioso, perché il linguaggio non forniva la necessaria base intellettuale. 4 Si può fare un parallelo interessante, con l’invenzione dei numeri arabi. Anche questa invenzione era di natura squisitamente tecnica, ma permise in seguito la formulazione e la soluzione di problemi che non si potevano studiare col simbolismo numerico conosciuto nell’antichità. 5 La “struttura delle comunicazioni” come parte del “sistema di opinione pubblica” è una maniera felice di evidenziare un tratto comune a molti scrittori della tradizione classica. Hans Speier (1950, pp. 376-388), per esempio, prende “un approccio storico alla opinione pubblica”; egli fornisce principalmente materiale interessante sul come si forma un’opinione per esempio nei 1
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caffè, nei bar ecc. Egli s’interessa solo marginalmente al processo di “allineamento dell’opinione”. 6 Il suo libro in materia (Tarde 1901), non è ancora stato tradotto in inglese. Esso comunque è stato ben riassunto in Sorokin (1928). Anche il saggio di Herbert Blumer (1953, pp. 43-49) in materia di massa e opinione è un’interpretazione del pensiero di Tarde. 7 Per qualche riferimento storico sul termine “clima di opinione” vedere Merton (1958, p. 216, nota 6). 8 La funzione di tali domande nei questionari è discussa in generale ed esemplificata da Jean Stoetzel in un articolo (1953, pp. 527-536) sull’uso dei sondaggi nell’antropologia sociale. Tra l’altro, Stoetzel è stato il primo, nella sua dissertazione francese, a porre l’accento sui rapporti che intercorrono tra la storia e le ricerche sugli atteggiamenti. 9 Mentre vi è accordo sulla logica generale del problema, scarso lavoro è stato compiuto per analizzare quali argomentazioni sono oggi suffragate dai fatti nella discussione dei problemi sociali. Ovviamente, questo non corrisponde alle regole della logica formale. Ma non ci riferiamo neppure agli abusi della propaganda che sono stati descritti mediante analisi del contenuto. Ciò che intendiamo è la descrizione sistematica dei tentativi di giungere a conclusioni ragionevoli partendo da dati necessariamente insufficienti. Il problema è simile all’altro – altrettanto poco studiato – che consiste nello scoprire in che misura le decisioni del governo e del mondo degli affari sono connesse ai dati di fatto a loro disposizione. 10 Questo libro contiene molte informazioni interessanti, per esempio, la storia delle petizioni nel XIX secolo (pp. 74 sgg.). Le petizioni caddero in disuso, perché non era possibile sapere quale settore della popolazione fosse rappresentato dai firmatari. Una lettura della discussione, effettuata quasi cento anni fa, mostra che ciò che si cercava a quell’epoca era un campionamento rappresentativo, effettuato da un organo neutrale. 11 Anche oggi la tradizione inglese è completamente diversa da quella americana. Se il Congresso sta discutendo una legge, la radio e la televisione ci sommergono di dibattiti e conferenze stampa sull’argomento. La British Broadcasting Corporation, invece, non permette che si parli delle leggi nelle due settimane precedenti il dibattito parlamentare, al fine d’impedire che la voce pubblica abbia un’influenza sulle deliberazioni del corpo legislativo. 12 Nella parte storica del suo libro, Tönnies (1935) dedica un capitolo alla Francia. Egli vi riporta una lettera di Mirabeau a Luigi XVI per sollecitare proprio questo tipo di organizzazione. Non è dato sapere se l’organizzazione descritta da Case risalga a questi primi tentativi. 13 Egli assume una posizione simile a quella di Almond e Speier nei loro scritti sull’argomento. 14 Questo studio è il primo che combini dati tratti da un sondaggio con un’analisi storica tradizionale. 15 Da una risposta polemica in materia di “economia storica” apparsa sulla «Revue Economique», 1952.
Delimitazione propedeutica di un tipo di sfera pubblica borghese* Jürgen Habermas
Il problema iniziale L’uso linguistico di “pubblico” e di “sfera pubblica” tradisce una molteplicità di significati concorrenti. Essi risalgono a diverse fasi storiche e, una volta applicati sincronicamente ai rapporti della società borghese industrialmente avanzata e organizzata nelle forme dello Stato sociale, stabiliscono contatti equivoci. Indubbiamente però questi stessi rapporti, mentre resistono al tradizionale uso linguistico, pretendono comunque un’applicazione anche approssimativa di questa parola e addirittura un impiego terminologico. Infatti non solo il linguaggio corrente, e particolarmente quello coniato dal gergo delle burocrazie e dei mezzi d’informazione di massa, continua a usarle, ma anche le scienze, soprattutto la giurisprudenza, la politica e la sociologia, si dimostrano chiaramente incapaci di sostituire categorie tradizionali come “pubblico” e “privato”, “sfera pubblica” e “opinione pubblica” con determinazioni più precise. Innanzitutto questo dilemma si è ironicamente vendicato di quella disciplina che assume espressamente a proprio oggetto la pubblica opinione: sotto l’assalto delle tecniche empiriche, si è dissolto in quanto grandezza inafferrabile quel che in realtà doveva essere colto dalla public opinion research1; ciò nonostante la sociologia si sottrae alla conseguenza di rinunciare a queste categorie, e di pubblica opinione parla oggi come ieri. Definiamo “pubbliche” quelle istituzioni che, contrariamente alle società chiuse, sono accessibili a tutti – nello stesso senso in cui parliamo di piazze pubbliche o di case pub-
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bliche. Ma già dire “edifici pubblici” non si riferisce soltanto alla loro generale accessibilità: neppure occorre che essi siano aperti alla pubblica frequentazione; semplicemente danno ricetto a istituti statali e come tali sono pubblici. Lo Stato è il “potere pubblico”. Deve l’attributo di “pubblico” al suo compito di provvedere al bene pubblico e comune di tutti coloro che sono consociati sotto lo stesso diritto. La parola acquista un altro significato se si parla, per esempio, di un “ricevimento pubblico”; in tali occasioni si manifesta una forza di rappresentanza nel cui “carattere pubblico” trapassa, in qualche modo, il pubblico riconoscimento. Ciò nonostante il significato si modifica se diciamo che qualcuno si è fatto pubblicamente un nome: il carattere pubblico della reputazione o addirittura della fama risale a epoche che non sono quelle della “buona società”. Ciò non pertanto, non abbiamo ancora accennato all’uso più frequente di questa categoria, nel senso di pubblica opinione, di sfera pubblica indignata o informata, significati, questi, che si riconnettono a quelli di “pubblico”, “pubblicità”, “pubblicare”. Il soggetto di questa sfera pubblica è il pubblico quale depositario della pubblica opinione; alla sua funzione critica si riferisce la pubblicità: per esempio, il carattere pubblico dei dibattiti processuali. Nell’ambito dei mass media, la “pubblicità” ha indubbiamente mutato significato. Da funzione dell’opinione pubblica essa diventa altresì attributo di colui che attira su di sé l’opinione pubblica: le public relations, quelle attività che recentemente hanno preso il nome di “lavoro di contatto con il pubblico”, mirano alla creazione di una tale publicity. Lo stesso carattere pubblico si presenta come una sfera; a quello privato si contrappone l’ambito pubblico. Talora esso appare semplicemente come la sfera della pubblica opinione che è appunto in antitesi al potere pubblico. A seconda dei casi, sono considerati “organi della sfera pubblica” gli organi dello Stato oppure invece i mass media, i quali, come la stampa, servono alla comunicazione nel pubblico. Un’analisi storico-sociale della sindrome semantica di “pubblico” e “sfera pubblica” potrebbe ricondurre i diversi
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strati storico-linguistici al loro concetto sociologico. Già è istruttivo il primo riferimento etimologico al termine Oeffentlichkeit. Nella lingua tedesca il sostantivo si forma dall’aggettivo öffentlich, più antico, solo nel corso del XVIII secolo in analogia con publicité e publicity (Grimm, Grimm 1889); ancora alla fine del secolo la parola è così inusitata che Heynatz ha difficoltà ad accettarla (Weigand 1910). Il fatto che soltanto in questo periodo si senta il bisogno di dare un nome alla nozione di “sfera pubblica”, ci autorizza a supporre che, almeno in Germania, questa sfera si sia creata e abbia assunto la sua funzione soltanto allora; essa appartiene specificamente alla “società borghese” che si costituisce proprio in quel tempo con le sue proprie leggi, come ambito dello scambio di merci e del lavoro sociale. Già molto tempo prima, tuttavia, si parla di “pubblico” e di ciò che non è pubblico, ma “privato”. Si tratta di categorie di origine greca, che ci sono state trasmesse nello stampo linguistico romano. Nella città-stato greca al culmine del suo sviluppo, la sfera della polis, che è comune (koinon) ai liberi cittadini, è rigorosamente separata dalla sfera dell’oikos, che è propria di ogni singolo (idion). La vita pubblica, bios politikòs, si svolge sulla piazza del mercato, l’agorà, ma non è legata a fatti locali: il carattere pubblico si costituisce tanto nel dialogo (lexis), che può assumere anche la forma del dibattito e della sentenza giudiziale, quanto nell’agire comune (praxis), riguardi esso la condotta della guerra oppure i giochi agonistici. (Spesso vengono chiamati stranieri a legiferare; la redazione delle leggi non appartiene specificamente ai compiti pubblici.) L’ordinamento politico, com’è noto, poggia sull’economia schiavistica in forma patrimoniale. I cittadini, cioè, sono affrancati dal lavoro produttivo; la partecipazione alla vita pubblica dipende, però, dalla loro privata autonomia di capi-famiglia. La sfera privata non è legata alla casa soltanto per il nome (greco); ricchezza mobile e disposizione sulla forza-lavoro non possono surrogare il potere sull’economia domestica e sulla famiglia, mentre, all’opposto, la povertà e la mancanza di schiavi costituirebbero già di per sé un impedimento per
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l’ammissione alla polis: proscrizione, espropriazione e distribuzione della casa fanno tutt’uno. La posizione nella polis si fonda così sulla posizione dell’oikos-despòtes. Sotto la protezione del suo dominio si svolge la riproduzione della vita, il lavoro degli schiavi, il servizio delle donne, si susseguono nascite e morti; il regno della necessità e della caducità resta immerso nell’ombra della sfera privata. Di fronte a esso la sfera pubblica si leva, nell’autointendimento dei greci, come un regno della libertà e del permanente. Solo alla luce della sfera pubblica ciò che è diventa manifesto, tutto diventa visibile a tutti. Nel dialogo dei cittadini fra loro le cose si articolano nel linguaggio e acquistano forma; nella lotta degli eguali fra di loro si mettono in vista i migliori e conquistano la loro essenza, l’immortalità della gloria. Mentre nei confini dell’oikos i bisogni elementari e il conseguimento del necessario alla vita sono pudicamente celati, la polis offre campo libero a chi vuole distinguersi onorevolmente: i cittadini trattano, sì, da eguali con eguali (homoioi), ma ognuno si sforza di emergere (aristoièin). Le virtù, il cui catalogo è codificato da Aristotele, trovano conferma unicamente nell’ambito pubblico e in esso trovano il loro riconoscimento. Questo modello della sfera pubblica ellenica (ultimamente in Arendt 1958), così come ci è stato trasmesso, in forma stilizzata, nell’autointerpretazione dei greci, a cominciare dal Rinascimento fino ai nostri giorni ha in comune con tutta la cosiddetta “classicità” una forza normativa peculiare. Non la formazione sociale che ne è il fondamento; ma proprio il paradigma ideologico ha conservato, oltre i secoli, la sua continuità, appunto come continuità storico-spirituale. Innanzitutto, attraverso il Medioevo, le categorie del pubblico e del privato sono state tramandate nelle definizioni del diritto romano, la sfera pubblica come res publica. Senza dubbio è soltanto con la formazione dello Stato moderno e di codesta sfera, da esso distinta, della società civile borghese, che tali categorie trovano un’applicazione efficace sotto il profilo tecnico-giuridico. Esse servono sia all’interpretazione politica che all’istituzionalizzazione giuridica di una “sfera pubblica” borghese in senso specifico. Frattanto,
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da circa un secolo, le sue basi sociali stanno per la verità nuovamente disfacendosi; la tendenza alla disgregazione della dimensione pubblica è inequivocabile: mentre la sua sfera si estende sempre più vistosamente, la sua funzione si va ulteriormente depotenziando. Ciò nonostante, l’ambito pubblico continua a essere un principio di organizzazione del nostro ordinamento politico. Esso è manifestamente qualcosa di più e di diverso da un brandello d’ideologia liberale che potrebbe essere tranquillamente spazzato via dalla democrazia sociale. Se si riesce a capire storicamente, nelle sue strutture, l’insieme che oggi, abbastanza confusamente, sussumiamo sotto il titolo di “sfera pubblica”, possiamo per ciò stesso sperare di cogliere sistematicamente, al di là di una chiarificazione sociologica del concetto, la nostra stessa società prendendo le mosse da una delle sue categorie centrali.
La sfera pubblica rappresentativa Durante il Medioevo europeo la contrapposizione tra publicus e privatus2, propria del diritto romano, sebbene in uso, non ha avuto carattere vincolante. Anzi, proprio il precario tentativo di applicare tale antitesi ai rapporti giuridici tipici della signoria fondiaria feudale e del vassallaggio fa intravedere, suo malgrado, che non esiste un contrasto tra dimensione pubblica e sfera privata come nel modello antico (o moderno). Certamente anche in questo periodo un’organizzazione economica del lavoro sociale stabilisce nella casa del signore il centro di tutti i rapporti di dominio; tuttavia la posizione del capofamiglia nel processo produttivo non può paragonarsi con il potere di disposizione “privato” dell’oikosdespòtes o del pater familias. Per quanto la signoria fondiaria (e il vassallaggio che ne deriva), intesa quale complesso di tutti i singoli diritti di dominio signorile, possa essere interpretata come iurisdictio, non si adatta tuttavia alla contrapposizione di potere di disposizione privato (dominium) e pubblica autonomia (imperium). Vi sono “autorità” superiori e inferiori, “privilegi” superiori e inferiori, ma nessuno status definibile
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in termini di diritto privato dal quale i privati possano, per così dire, farsi innanzi in una sfera pubblica. Giunta al culmine della sua evoluzione nell’alto Medioevo, la signoria fondiaria diventa in Germania proprietà fondiaria privata soltanto con il XVIII secolo, in connessione alla liberazione dei contadini e all’affrancamento delle terre. Il potere domestico non è signoria privata, né nel senso del diritto civile classico né in quello del diritto moderno. Quando le sue categorie vengono trasferite a rapporti sociali che non forniscono una base per una distinzione tra sfera pubblica e ambito privato, sorgono delle difficoltà (Brunner 1943, pp. 386 sg.): Se prendiamo la terra come la sfera del pubblico, nella casa e nel potere esercitato dal capo-famiglia abbiamo a che fare con un potere pubblico di second’ordine, potere che certamente è privato in rapporto a quello a esso sovraordinato dal Land, anche se in senso molto diverso da quello di un moderno ordinamento giuridico privato. È a mio parere così spiegabile che i diritti “privati” e “pubblici” di signoria si fondano in una compatta unità in modo da costituire entrambi emanazione di un potere unitario, entrambi legati alla terra e tali da poter essere trattati come diritti privati ben acquisiti.
Dalla tradizione giuridica antico-germanica e dalle sue distinzioni di gemeinlich (comune) e sunderlich (particolare), common e particular, emerge invero una certa corrispondenza con i classici publicus e privatus. Codesta contrapposizione si riferisce a elementi comunali nella misura in cui si sono andati affermando nell’ambito dei rapporti feudali di produzione. Il pascolo comunale è pubblico, publicum; il pozzo, la piazza del mercato sono accessibili al pubblico per l’uso comune, loci communes, loci publici. A questo “comune” a cui, secondo una linea storico-linguistica, si ricollega il bene pubblico o comune (common wealth, public wealth), si contrappone il “particolare”. Esso è ciò che sta separato, in un’accezione del privato che ancora oggi adottiamo equiparando gli interessi particolari a quelli privati. Nel quadro dell’organizzazione feudale, il particolare si riferiva per altro verso anche a coloro i quali godevano di particolari diritti, immunità e privilegi; in
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questo senso, il particolare, il luogo d’asilo, è il nucleo della signoria fondiaria e quindi, al tempo stesso, dell’elemento pubblico. Il coordinamento di categorie del diritto germanico e di quello romano si sconvolge appena le prime vengono assorbite dal feudalesimo, il common man è il private man. Serba traccia di questo rapporto l’uso linguistico di common soldier nel significato di private soldier, l’uomo comune senza rango, senza l’elemento particolare di un potere di comando interpretato poi come “pubblico”. Nei documenti medievali si usa “signorile” come sinonimo di publicus: pubblicare significa: confiscare per il signore (Kirchner 1949, p. 22). Nell’ambivalenza semantica di “comune” (common) come comunitario, cioè accessibile a tutti (pubblico), e di comune, cioè di diritto particolare, vale a dire signorile, escluso in generale dal (pubblico) rango, si riflette fino ai giorni nostri l’integrazione degli elementi di un’organizzazione comunale in una struttura sociale fondata sulla signoria fondiaria3. Nella società feudale dell’alto Medioevo la dimensione pubblica come ambito specifico, distinto dalla sfera privata, non può essere individuata dal punto di vista sociologico, cioè sulla base di criteri istituzionali. Tuttavia non a caso gli attributi della signoria, per esempio il sigillo del principe, si chiamano “pubblici”; non a caso il re inglese gode di publicness4; sussiste cioè una pubblica rappresentanza del dominio. Questo carattere pubblico rappresentativo non si costituisce come un ambito sociale, come una sfera pubblica; è piuttosto, se è possibile una traslazione del termine, qualcosa come un indice distintivo di status. Lo status del signore fondiario, qualunque sia il suo livello, è in sé neutrale rispetto ai criteri di “pubblico” e di “privato”; il suo detentore tuttavia lo rappresenta pubblicamente; egli si mostra, si esibisce come l’incarnazione di un potere comunque “superiore”5. Il concetto di questa rappresentanza si è conservato fino alla più recente dottrina costituzionale, secondo la quale la rappresentanza può “aversi soltanto nella sfera pubblica; non c’è rappresentanza che sia affare privato”6. E invero essa pretende di render manifesto un essere invisibile attraverso la persona pubblicamente presente del signore:
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(…) qualcosa di morto, d’inferiore o di nessun valore, qualcosa di volgare non è suscettibile di rappresentanza. Gli manca quel potenziamento nel suo modo di essere, che è in grado di dargli un rilievo nell’essere pubblico, un’esistenza. Parole come grandezza, altezza, maestà, gloria, dignità e onore cercano di cogliere questa particolarità di un essere cui inerisce capacità di rappresentanza.
L’investitura di un mandato, nel senso di rappresentanza della nazione o di determinati mandanti, non ha nulla a che fare con questo carattere pubblico rappresentativo, che aderisce alla concreta esistenza del signore e conferisce un’“aureola” alla sua autorità. Quando il signore territoriale raduna intorno a sé i signori laici ed ecclesiastici, i cavalieri, i prelati e i delegati delle città (o, come accadeva ancora nel Reich tedesco fino al 1806, quando l’imperatore invitava al Reichstag principi e vescovi, conti, legati delle città imperiali e abati), non si tratta di un’assemblea di delegati che rappresentano qualcun altro. Sintanto che il principe e i suoi ceti territoriali, invece di esserne meri mandatari “sono” il Land, essi possono rappresentare in senso specifico; rappresentano il loro dominio, anziché per il popolo, “dinanzi” al popolo. Il dispiegarsi del carattere pubblico rappresentativo è legato agli attributi personali: alle insegne (stemmi, armi), all’habitus (vesti, acconciature dei capelli), al gestus (forma di saluto, gesti) e alla retorica (formalità dell’allocuzione, solennità del discorso in genere)7, insomma a un codice rigoroso di “nobile” comportamento. Nel corso dell’alto Medioevo esso si cristallizza in un sistema di virtù cortigiane, in una forma cristianizzata delle aristoteliche virtù cardinali che fa sfumare l’elemento eroico nel cavalleresco e nel principesco. È indicativo il fatto che in nessuna di queste virtù l’elemento fisico perda del tutto il suo significato; la virtù infatti deve incarnarsi, deve poter farsi pubblicamente rappresentare (Hauser 1953, p. 321). È specialmente nel torneo – riproduzione dello scontro cavalleresco – che questa rappresentanza solenne acquista valore. Certo anche al carattere pubblico della polis greca non è estranea un’esibizio-
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ne agonistica dell’areté; ma il carattere pubblico della rappresentanza cortigiano-cavalleresca, che si dispiega non tanto nei giorni di udienza processuale, quanto in quelli di festa, nei “tempi solenni”, non costituisce una sfera di comunicazione politica. Come aureola dell’autorità feudale essa denota uno status sociale. Le manca perciò anche un “luogo” designato: il codice cavalleresco di comportamento è comune come norma a tutti i signori, scendendo dal re fino al semplice cavaliere semicontadino; costoro si orientano su esso non solo in determinate occasioni, in un determinato luogo, come eventualmente “in” una pubblica sfera, ma sempre e ovunque si trovino ad agire in vesti di rappresentanza nell’esercizio dei loro diritti di signoria. Al di là delle occasioni mondane, soltanto gli ecclesiastici, fra tutti i signori, hanno una sede propria di rappresentanza: la Chiesa. Nel rituale della Chiesa, liturgia, messa, processione, sopravvive ancor oggi un carattere pubblico rappresentativo. Stando a una nota affermazione, la Camera inglese dei Pari, lo Stato Maggiore prussiano, l’Accademia francese e il Vaticano romano sono state le ultime colonne della rappresentanza; alla fine è rimasta soltanto la Chiesa, “così solitaria che chi vede in essa solo una forma esteriore non può non dire, con scherno epigrammatico, che essa rappresenta ormai unicamente la rappresentanza” (Schmitt 1925, p. 26). Del resto il rapporto dei laici con il clero mette in evidenza quanto l’“ambiente” sia strettamente attinente al momento pubblico rappresentativo e al tempo stesso da esso escluso, sia, in certo senso, privato, allo stesso modo di quel private soldier che è escluso dalla rappresentanza, dalla dignità militare, sebbene “vi rientri”. A questa esclusione corrisponde un mistero nel circolo interno del carattere pubblico: esso si basa su un arcano: la messa e la Bibbia vengono lette in latino, non già nella lingua del popolo. La rappresentanza di tipo pubblico cortigiano-cavalleresca attinge la sua ultima e genuina figura nelle corti francesi e borgognone del XV secolo (Huizinga 1919). Il famoso cerimoniale spagnolo è la pietrificazione di questa tarda fioritura; in questa forma si conserverà ancora per secoli nelle corti
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absburgiche. In età moderna la sfera pubblica rappresentativa, le cui origini sono nella civiltà nobiliare cittadina dell’alta Italia protocapitalista, si forma dapprima a Firenze, quindi anche a Parigi e a Londra. Proprio assimilando l’incipiente civiltà borghese dell’Umanesimo essa conserva la sua forza: il mondo culturale umanistico è innanzitutto integrato nella vita di corte8. Sul filo dei primi educatori di principi, già intorno al 1400, l’Umanesimo, che solo nel corso del XVI secolo svilupperà le arti della critica filologica, concorre a un sostanziale mutamento di stile della stessa vita di corte. Con il Cortegiano, un uomo di corte di formazione umanistica subentra al posto del cavaliere cristiano. A questo modello corrisponderanno, un po’ più tardi, il gentlemen della vecchia Inghilterra e l’honnête homme francese. La loro socievolezza vivace ed eloquente contraddistingue la nuova “società”, che si rapporta alla corte come suo centro9. La nobiltà terriera indipendente, appoggiata alla sua proprietà fondiaria, perde forza di rappresentanza; la sfera pubblica rappresentativa si concentra nella corte del sovrano. Tutti i suoi momenti finiscono per raccogliersi ancora una volta insieme con particolare evidenza e sontuosità nella festa barocca. Rispetto alle feste mondane del Medioevo e anche a quelle del Rinascimento, il Barocco è già andato perdendo l’elemento pubblico in senso letterale. Torneo, danza e teatro si ritraggono dalle pubbliche piazze nei giardini del parco, dalle strade nelle sale del castello. Il parco del castello, che appare soltanto alla metà del XVII secolo e che insieme all’architettura del secolo “francese” non tarda a diffondersi in Europa, rende possibile lo stesso castello barocco, che è costruito per così dire intorno al grande salone delle feste, come pure una vita di corte già al riparo dal mondo esterno. Tuttavia lo schema dell’elemento pubblico rappresentativo non solo si conserva, ma addirittura si mette ancor più chiaramente in evidenza. Nelle sue Conservations, mademoiselle de Scudéry ci mette al corrente sugli strapazzi delle grandi feste; esse servivano non tanto al piacere dei partecipanti quanto a un’esibizione di grandezza, della grandeur appunto di chi le organizzava; il popolo, a cui non rimaneva che stare
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a guardare, si divertiva probabilmente molto di più (Alewyn 1959, p. 14). Anche in questo caso, dunque, il popolo non è escluso del tutto; esso resta costantemente presente nei vicoli; la rappresentanza è pur sempre rivolta a un pubblico, innanzi al quale si dispiega10. Soltanto i banchetti di notabili dell’alta borghesia diventano, a porte chiuse, esclusivi. Il carattere borghese si distingue da quello della corte per il fatto che nella casa borghese anche la sala delle feste è destinata ad abitazione, mentre nel castello perfino lo spazio abitativo è destinato alle feste. E in realtà, a partire da Versailles, la camera da letto reale diventa il secondo punto focale della pianta del castello. Qui si trova il letto, messo su come un baraccone da fiera, su una piattaforma rialzata, un trono per stare sdraiato, separato mediante un tramezzo dallo spazio degli spettatori, così che in effetti questo spazio è il palcoscenico quotidiano delle cerimonie del lever e coucher, che elevano ciò che vi è di più intimo a pubblica significanza (p. 43).
Nell’etichetta di Luigi XIV il carattere pubblico rappresentativo raggiunge la pointe raffinata della sua concentrazione cortigiana. Alla “società” aristocratica, scaturita dalla società rinascimentale, non compete più, o comunque non più in primo grado, una funzione di rappresentanza nei confronti della propria signoria; essa serve alla rappresentanza del monarca. Costituitisi, sulla base dell’economia commerciale protocapitalista, gli Stati assoluti nazionali e territoriali, e scosse le basi feudali del dominio, questo ceto aristocraticocortigiano è in grado di formare, soprattutto per quella sfera della “buona società” che pur conservando nel XVIII secolo una sua caratteristica indeterminatezza rivela già tratti chiaramente definiti, la platea di una socievolezza altamente individualizzata a onta di ogni etichetta (cfr. Joachimsen 1921). L’ultima figura dell’elemento pubblico rappresentativo, immiserita e al tempo stesso acuita alla corte del monarca, è già una riserva all’interno di una società che si separa dallo Stato. Ora soltanto si distaccano in un senso specificamente moderno la sfera privata e quella pubblica.
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Anche in tedesco infatti troviamo, soltanto a cominciare dalla metà del XVI secolo (Weigand 1910, p. 475), il termine privat, derivante dal latino privatus, nel senso che allora avevano assunto anche l’inglese private e il francese privé. Il significato è quello di “senza ufficio pubblico” (Grimm, Grimm 1889, pp. 2137 sg.), “not holding public office or official position”11, “sans emplois, que l’engage dans les affaires publiques”12. Privat indica l’esclusione dalla sfera dell’apparato statale, mentre pubblico (Öffentlich) si riferisce allo Stato formatosi con l’assolutismo, che si oggettiva rispetto alla persona del sovrano. Il pubblico, the public, le public, si contrappone alla “persona privata” come “potere pubblico”. I servitori dello Stato sono persone pubbliche, public persons, personnes publiques; essi occupano un ufficio pubblico, i loro affari d’ufficio sono pubblici (public office, service public) e pubblici sono detti gli edifici e gli istituti del governo. Dall’altro lato ci sono privati, uffici privati, affari privati e case private; Gotthelf infine parla di uomo privato. Di fronte all’autorità stanno i sudditi, che ne sono esclusi; quella è al servizio – così si dice – del bene comune, questi perseguono la loro privata utilità. Sono note le grandi tendenze che sino alla fine del XVIII secolo trovarono la loro realizzazione. Le potenze feudali, Chiesa, principi e ceto signorile, cui inerisce il carattere pubblico rappresentativo, si decompongono in un processo di polarizzazione e infine si disgregano in elementi privati da un lato, in elementi pubblici dall’altro. In connessione alla Riforma protestante muta la posizione della Chiesa; il legame con l’autorità divina, che essa rappresenta, diventa affare privato. La cosiddetta libertà di religione garantisce storicamente la prima sfera di autonomia privata; la Chiesa stessa continua a sussistere come una corporazione di diritto pubblico fra le altre. La corrispondente polarizzazione del potere dei principi viene visibilmente messa in rilievo, in primo luogo con la separazione del bilancio pubblico dal patrimonio privato del signore territoriale. Con la burocrazia e l’esercito (e in parte anche con la magistratura) le istituzioni del potere pubbli-
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co si oggettivano nei confronti della sfera sempre più privatizzata della corte. Dagli “Stati”, infine, gli elementi a essi appartenenti in quanto ordini dominanti si sviluppano in organi del potere pubblico: il parlamento (e, in parte, la magistratura); gli elementi dell’ordine professionale, in quanto si trovano già impiantati sulle corporazioni cittadine e su certe differenziazioni di “Stato” territoriale, si sviluppano nella sfera della “società civile”, che si porrà di fronte allo Stato come l’ambito genuino dell’autonomia privata.
Genesi della sfera pubblica borghese Con gli inizi del capitalismo finanziario e commerciale che a cominciare dal XIII secolo si diffonde dalle città dell’Italia del Nord anche verso l’Europa occidentale e settentrionale e fa sorgere prima gli empori del Paesi Bassi (Bruges, Lüttich, Bruxelles, Gand ecc.), poi le grandi fiere, agli incroci delle vie commerciali a lunga distanza, si formano gli elementi di un nuovo ordine sociale: indubbiamente essi vengono dapprima a integrarsi, ancora senza difficoltà, nel vecchio ordinamento politico. Quella iniziale assimilazione dell’umanesimo borghese a una cultura aristocratico-cortigiana che ci è dato osservare in modo esemplare nel processo di formazione della società rinascimentale, a Firenze, deve essere vista anche su questo sfondo. Il protocapitalismo è conservatore, non solo in quel modo di vedere l’economia così vivacemente descritta da Sombart (1919, II, 1), in una prassi affaristica modellata sul tipo del “guadagno onorevole”, ma anche politicamente. Fintantoché esso vive dei frutti del vecchio modo di produzione (della produzione economico-rurale soggetta a vincoli feudali, propria di una massa contadina non libera e della ristretta produzione di merci soggetta a vincoli corporativi caratteristica dell’artigianato cittadino), senza trasformarlo13, i suoi tratti restano ambivalenti; questo capitalismo stabilizza da un lato i rapporti di dominio basati sul ceto e libera dall’altro quegli elementi in cui essi un giorno si dissolveran-
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no. Ci riferiamo agli elementi della nuova struttura commerciale: la circolazione delle merci e delle notizie creata dal grande commercio internazionale del primo capitalismo. Naturalmente, sin dagli inizi, le città controllano i mercati locali. Soggetti come sono alle gilde e alle corporazioni, questi restano pertanto strettamente regolamentati, e sono da considerarsi piuttosto uno strumento di dominio sulle immediate adiacenze che di libero traffico di merci fra città e campagna (Dobb 1945, pp. 103 sgg.). Con il commercio internazionale, per il quale – secondo le osservazioni di Pirenne – la città fu più che altro una base di operazioni, sorgono mercati di altro tipo. Essi si consolidano in fiere periodiche e ben presto con lo sviluppo delle tecniche capitalistico-finanziarie (lettere di credito e di cambio sono già in uso nel XIII secolo nelle fiere della Champagne) si organizzano stabilmente in borse; nel 1531 Anversa diventa una “fiera stabile” (Sée 1926). Questo rapporto di scambio si evolve secondo regole che indubbiamente risultano manipolate altresì dal potere politico; si dispiega tuttavia una rete orizzontale, largamente estesa, di dipendenze economiche che in via di principio non possono più essere ricondotte a rapporti verticali di dipendenza, fondati su forme di economia chiusa di tipo familiare, e propri del sistema di dominio di ceti. L’ordinamento politico, invero, non è messo in discussione dai nuovi processi, che pure si sottraggono, in quanto tali, al quadro esistente, fintantoché il vecchio strato signorile vi partecipa soltanto come consumatore; anche se esso storna una parte crescente dei propri prodotti per beni voluttuari divenuti accessibili grazie al commercio internazionale, l’antica produzione, e con essa la base del suo dominio, non cade ancora per questo in stato di dipendenza rispetto al nuovo capitale. Lo stesso accade per la circolazione delle notizie, che si svolge sulle strade del traffico mercantile. Il calcolo commerciale orientato in base al mercato esigeva, con l’estensione dei traffici, informazioni più precise e frequenti su avvenimenti lontani nello spazio. A partire dal XIV secolo il vecchio scambio di lettere commerciali viene perciò perfezionato in una specie di sistema professionale di corrispondenza. I primi
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viaggi dei corrieri che partivano in giorni fissi, le cosiddette poste ordinarie, furono organizzati dalle associazioni di commercianti per i propri scopi. Le grandi città commerciali sono allo stesso tempo centri dello scambio di informazioni14. Anche la sua permanenza diventa urgente nella misura in cui diventa permanente il traffico delle merci e degli effetti. Pressappoco contemporaneamente alla nascita delle borse, la posta e la stampa istituzionalizzano contatti e comunicazioni stabili. Ai commercianti indubbiamente basta un sistema di informazioni professionale e segreto, alle cancellerie delle città e delle corti un sistema di informazioni a carattere amministrativo-interno. A nessuno dei due gruppi risulta conveniente la pubblicità dell’informazione. Corrispondono piuttosto ai loro interessi gli “avvisi scritti”, corrispondenze private organizzate su base professionale dai mercanti d’informazioni15. Il nuovo campo delle comunicazioni si adatta senz’altro, con le sue istituzioni per la circolazione di notizie, alle forme esistenti di comunicazione, fintantoché manca il momento decisivo, la pubblicità. Come si potrà parlare di “posta” secondo una precisazione di Sombart, soltanto allorché sarà regolarmente offerta alla generalità del pubblico l’opportunità di servirsi del trasporto della corrispondenza (Sombart 1919, II, p. 369), così anche esisterà una stampa in senso stretto, soltanto da quando una regolare informazione diventerà a sua volta pubblica, cioè accessibile alla generalità del pubblico. Ciò però accadrà soltanto alla fine del XVII secolo16. Fino ad allora l’antico ambito di comunicazioni della sfera pubblica rappresentativa non è fondamentalmente minacciato da quello nuovo, proprio di una sfera pubblica determinata in senso pubblicistico. Le notizie fatte conoscere su base professionale non sono ancora pubblicate, le novità irregolarmente pubblicate non si sono ancora oggettivate in notizie17. Gli elementi relativi alla struttura dei traffici del protocapitalismo, traffico di merci e di notizie, mostrano la loro forza rivoluzionaria soltanto nella fase del mercantilismo, in cui vengono formandosi, insieme allo Stato moderno, anche le economie nazionali e regionali (Schmoller 1898, p. 37). Quando nel 1597 la Hansa tedesca è definitivamente espulsa
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da Londra e, pochi anni più tardi, la compagnia dei Merchant Adventurers s’installa ad Amburgo, ciò significa non soltanto l’ascesa commerciale e politica dell’Inghilterra, ma soprattutto un nuovo livello raggiunto nel frattempo dal capitalismo. A partire dal XVI secolo le compagnie commerciali si organizzano su una base allargata di capitale e non si accontentano più, come i vecchi cavalieri d’industria, di mercati pur sempre limitati. Con spedizioni in grande stile esse aprono nuovi campi per il proprio mercato18. Per soddisfare il crescente bisogno di capitale e dividere i rischi sempre maggiori, queste compagnie si danno ben presto la forma di società per azioni. Ma oltre a ciò hanno bisogno di forti garanzie politiche. I mercati esteri sono ora considerati, a ragione, “prodotti istituzionali”; sono il risultato di sforzi politici e potenza militare. La vecchia base operativa dell’originario comune cittadino si allarga così in quella nuova del territorio statale. Comincia quel processo che Heckscher (1932, I, pp. 108 sgg.) ha descritto come la nazionalizzazione dell’economia cittadina. Indubbiamente soltanto in tal modo si costituisce quel che da allora verrà chiamato “nazione”: lo Stato moderno con le sue organizzazioni burocratiche e il suo crescente fabbisogno finanziario, che dal canto suo reagisce, accelerandola, sulla politica mercantilistica. Né i mutui privati fra principe e finanziatori, né i prestiti pubblici bastano a coprire tale fabbisogno; soltanto un efficace sistema di imposte supplisce al bisogno di capitali. Lo Stato moderno è essenzialmente uno Stato fiscale, l’amministrazione finanziaria è il nocciolo della sua amministrazione. La separazione, ormai divenuta matura, del patrimonio privato del principe dai beni dello Stato19 dimostra esemplarmente l’oggettivazione delle relazioni personali di dominio. Le amministrazioni locali sono poste sotto il controllo del governo, in Inghilterra mediante l’istituto dei giudici di pace, sul continente secondo il modello francese, con l’aiuto delle intendenze. La riduzione della sfera pubblica rappresentativa, che si verifica progressivamente con la mediatizzazione delle autorità di ceto a opera di quella del signore territoriale, dà spazio
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a un’altra sfera connessa con il termine di ambito pubblico in senso moderno: la sfera del potere pubblico. Questa si oggettiva in un’amministrazione stabile e in un esercito permanente; alla permanenza dei contatti nel traffico di merci e di informazioni (borsa, stampa) corrisponde ora un’attività statuale continuativa. Il potere pubblico si consolida in tangibile controparte per coloro che gli sono semplicemente soggetti e trovano in esso in primo luogo soltanto in via negativa la loro determinazione. Tali infatti sono i privati, che non occupando alcun ufficio sono esclusi dalla partecipazione al pubblico potere. “Pubblico”, in questo senso più ristretto, diventa sinonimo di statuale; l’attributo non si riferisce più alla “corte” rappresentativa di una persona fornita di autorità, ma piuttosto al funzionamento, regolato sulla base di specifiche competenze, di un apparato cui spetta il monopolio di un legittimo esercizio del potere. La signoria fondiaria si trasforma in “polizia”, i privati in essa sussunti costituiscono, in quanto destinatari del pubblico potere, il pubblico. La politica mercantilistica, formalmente orientata verso la bilancia commerciale attiva, fornisce una specifica configurazione al rapporto autorità-sudditi. L’apertura e l’ampliamento dei mercati esteri, nei quali le compagnie privilegiate conquistano, sotto la pressione politica, una posizione di monopolio, in una parola il nuovo colonialismo, entrano, com’è noto, poco alla volta al servizio dello sviluppo dell’economia industriale all’interno; in egual misura gli interessi del capitale manifatturiero si affermano di fronte a quelli del capitale commerciale. Per questa via quel singolo elemento dell’assetto protocapitalistico degli affari, il traffico di merci, rivoluziona ora anche la struttura della produzione: lo scambio delle materie prime importate con i prodotti finiti e semilavorati deve essere considerata funzione di un processo in cui l’antico modo di produzione si trasforma il quello capitalistico. Dobb fa notare che questa svolta si profila nella letteratura mercantilistica del tardo XVII secolo. Il commercio estero non vale più per sé come fonte della ricchezza, ma soltanto ancora nella misura in cui rende possibile l’occupazione della popolazione
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di quel paese: employment created by trade20. Le misure dell’amministrazione si commisurano sempre più all’obiettivo d’imporre il modo di produzione capitalistico. Al posto dei privilegi delle corporazioni professionali subentrano i privilegi personali concessi dal sovrano, destinati a trasferire nella produzione capitalistica le industrie esistenti o a creare nuove manifatture. In tal modo si fa sempre più vincolante, fin nei dettagli, la regolamentazione del processo stesso di produzione21. Come pendant all’autorità si costituisce la società civile. Le attività e le dipendenze, fino ad allora relegate nell’ambito dell’economia di tipo familiare, oltrepassano le soglie della sfera domestica per veder la luce della sfera pubblica. “Le antiche forme, che agganciavano l’intera personalità a sistemi di fini sovrapersonali, erano morte e l’economia singola di ogni famiglia era diventata il centro della sua propria esistenza; si era così venuta fondando una sfera privata, cui ora si contrapponeva quella pubblica come qualcosa di distinguibile; questa precisazione di Schumpeter (1918, p. 16) coglie soltanto un aspetto del processo – la privatizzazione del processo produttivo – non già anche la sua nuova rilevanza pubblica. L’attività economica privatizzata deve orientarsi verso uno scambio allargato di merci sotto pubblica direzione e sorveglianza; le condizioni economiche, nelle quali adesso si svolge, risiedono perciò fuori dei confini dell’economia familiare, sono per la prima volta d’interesse generale. A questa sfera privata, divenuta pubblicamente rilevante, della “società civile” allude Hannah Arendt, quando caratterizza, diversificandolo dall’antico, il moderno rapporto della sfera pubblica con quella privata, mediante lo sviluppo del “sociale”. La società è la forma del vivere associato, in cui la dipendenza dell’uomo dal suo simile giunge a pubblica significanza in ragione della vita e non d’altro, e in cui pertanto le attività che servono esclusivamente al mantenimento della vita non solo si manifestano nella dimensione pubblica, ma debbono necessariamente determinare la fisionomia dello spazio pubblico22.
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Nella trasformazione dell’economia tramandata dall’antichità in economia politica si riflettono i mutati rapporti. Addirittura il concetto dell’economico, che fino a tutto il XVII secolo era connesso all’ambito d’attribuzione dell’oikosdespòtes, del pater familias, del padrone di casa, solo adesso acquista il suo significato moderno, dalla prassi dell’azienda d’affari che calcola secondo i principi della redditività; i doveri del capo di casa si precisano, riducendosi alla parsimonia sul piano del regime familiare (Brunner 1943, pp. 242 sgg.). L’economia moderna non si orienta più verso l’oikos: alla casa è subentrato il mercato; l’economia diventa “scienza dei commerci”. Nella cameralistica del XVIII secolo (che trae il suo nome da camera, la camera del tesoro del signore territoriale), tale scienza, che precorre l’economia politica, si colloca significativamente accanto alla scienza delle finanze, da un lato, e alla dottrina della tecnica agraria, liberatasi dal tradizionalismo, dall’altro, come parte della “polizia”, la vera e propria scienza dell’amministrazione; tanto strettamente la sfera privata della società civile è subordinata agli organi del potere pubblico. All’interno di questo ordinamento politico e sociale trasformato nel corso della fase mercantilistica del capitalismo (ordinamento la cui nuova figura già comincia in gran parte a delinearsi nel distacco del momento politico da quello sociale) anche il secondo elemento del nesso della circolazione protocapitalistica sviluppa ora una sua propria forza dirompente: la stampa. I primi giornali23 in senso stretto, chiamati ironicamente anche “giornali politici”, appaiono in un primo tempo settimanalmente, ma diventano già quotidiani verso la metà del XVII secolo. Le corrispondenze private contenevano allora accurate ed estese informazioni su assemblee imperiali ed eventi bellici, su raccolti, imposte, trasporti di metalli preziosi e innanzi tutto, naturalmente, notizie del commercio internazionale (Kempters 1936). Ma soltanto un rigagnolo di questo torrente di notizie passa attraverso il filtro di tali giornali stampati. Gli abbonati di queste corrispondenze private non avevano alcun interesse a che il loro materiale diventasse pubblico. Perciò i giornali politici non esistevano per i com-
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mercianti, bensì viceversa i commercianti per i giornali. Erano chiamati “Custodes novellarum” dai loro contemporanei proprio a causa di questa dipendenza delle pubbliche informazioni dal loro privato traffico di notizie24. Passano il vaglio del controllo non ufficiale delle notizie da parte dei commercianti e quello della censura ufficiale delle notizie da parte delle amministrazioni sostanzialmente le informazioni dall’estero e dalla corte e le notizie commerciali poco importanti; del repertorio dei fogli volanti si conservano le tradizionali “novità”, le cure miracolose, i nubifragi, gli omicidi, epidemie e incendi (Groth 1928, p. 580). Così le notizie che giungono alla pubblicazione appartengono alle categorie residuali del materiale informativo in sé disponibile; tuttavia occorre spiegare perché esse vengano ora diffuse e siano accessibili a tutti, siano cioè rese pubbliche. È da chiedersi se sia bastato per questo l’interesse degli scrittori di “avvisi”: essi avevano comunque un interesse alla pubblicazione. Non solo il traffico di notizie si sviluppa in connessione con i bisogni del traffico mercantile, ma le notizie stesse diventano merci. L’informazione su base professionale risulta perciò subordinata alle stesse leggi del mercato, alla cui origine essa deve la stessa sua esistenza. Non a caso i giornali stampati si sviluppano spesso dagli stessi uffici di corrispondenza che già provvedevano ai giornali scritti a mano. Ogni informazione epistolare ha il suo prezzo; si capisce perciò che si voglia incrementare il guadagno allargando la vendita. Una parte del materiale informativo in questione è per questo motivo già stampato periodicamente e, venduto in forma anonima, ottiene quindi pubblicità. Maggior peso acquistava frattanto l’interesse dei nuovi governi, che ben presto utilizzarono la stampa ai fini dell’amministrazione. Dal momento che essi si servono di questo strumento per render noti ordini e disposizioni, i destinatari del potere pubblico diventano effettivamente il publicum. Sin dall’inizio i giornali politici avevano informato sui viaggi e i ritorni dei principi, sull’arrivo di eminenti personaggi stranieri, su feste, “solennità” della corte, nomine ecc.; nel contesto di queste notizie di corte, che possono essere interpretate co-
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me una specie di trasposizione della rappresentanza nella nuova configurazione della dimensione politica, apparvero altresì “disposizioni del signore per il bene dei sudditi”. Subito, tuttavia, la stampa venne posta al servizio dell’amministrazione in modo sistematico. Ancora una disposizione per la stampa del governo di Vienna del marzo 1769 attesta lo stile di questa prassi: “Affinché il giornalista possa sapere che genere di disposizioni interne, ordinanze e altre faccende eventuali è opportuno comunicare al pubblico, occorre che le autorità provvedano a raccoglierle settimanalmente e a trasmetterle ai giornalisti” (I, p. 585). Già Richelieu, come sappiamo dalle lettere di Hugo Grotius, allora inviato svedese a Parigi, avvertiva vivamente l’utilità del nuovo strumento (Everth 1931, p. 202). Sarà lui a proteggere il giornale di Stato fondato nel 1631 da Renaudot. Esso è il modello della «Gazette of London» che cominciò a essere pubblicata dal 1665, sotto Carlo II. Due anni prima era apparso anche, con autorizzazione ufficiale, lo «Intelligencer», che può riallacciarsi a un «Daily Intelligencer of Court, City and Country» sporadicamente già uscito nel 1643 (Morrison 1932). Ovunque questi fogli di annunci, sorti da principio in Francia come mezzi sussidiari delle agenzie di informazioni e inserzioni, diventano gli strumenti preferiti del governo25. Spesso le agenzie d’informazione sono rilevate dal governo e i giornali di notizie vengono trasformati in fogli ufficiali. Con questa sistemazione, come suona un ordine di gabinetto prussiano del 1727, si dovrebbe “far cosa utile al pubblico” e “agevolare il commercio”. Accanto alle ordinanze e ai proclami “in materia di polizia, commercio e manifattura”, appaiono le quotazioni dei mercati frutticoli, le tasse sui generi alimentari, i prezzi dei principali prodotti locali e importati; inoltre le quotazioni di borsa e le notizie commerciali, i rapporti sull’altezza delle acque ecc. In questo senso il governo del Palatinato-Baviera poteva annunciare al “pubblico che commercia” un foglio di avvisi “a vantaggio del commercio e dell’uomo comune, allo scopo di metterlo in grado di conoscere periodicamente le ordinanze del sovrano, nonché i prezzi delle diverse merci e così di collocarle con tanto maggior profitto”
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(Groth 1928, p. 85). L’autorità indirizza le sue notificazioni al pubblico, in linea di principio, dunque a tutti i sudditi; tuttavia di solito per questa via non raggiunge l’“uomo comune”, bensì in ogni caso i “ceti colti”. Insieme all’apparato dello Stato moderno è sorto un nuovo strato di “borghesi”, che assumono una collocazione centrale in seno al “pubblico”. Il loro nucleo è formato dagli impiegati dell’amministrazione del signore territoriale, specialmente da giuristi (comunque sul continente, dove la tecnica del recepito diritto romano viene usata come strumento per la razionalizzazione dei rapporti sociali). Vi si aggiungono medici, parroci, ufficiali e professori; i “dotti”, le cui gradazioni si estendono, passando per i maestri di scuola e gli scrivani, fino al “popolo”26. Nel frattempo, infatti, i veri “borghesi”, i vecchi ceti professionali degli artigiani e dei bottegai, sono socialmente decaduti; hanno perduto d’importanza con le città stesse, sul cui diritto di cittadinanza si fondava la loro posizione. Contemporaneamente i grandi commercianti sono cresciuti sino a eccedere il ristretto ambito della città e, tramite le compagnie, si sono collegati direttamente con lo Stato. Così anche i “capitalisti”, mercanti, banchieri, editori e manifatturieri, laddove la città non riusciva a riaffermare, come ad Amburgo, il proprio potere territoriale contro quello del principe, appartengono a quel gruppo di “borghesi” che sono tanto poco “borghesi” nel senso tradizionale quanto il nuovo ceto dei dotti27. Questo strato è il vero esponente del pubblico, che sin dall’inizio è un pubblico di lettori. Esso non può più, come a suo tempo i grandi commercianti cittadini e i funzionari della cultura aristocratica delle corti rinascimentali italiane, essere integrato nel suo complesso alla cultura nobiliare del languente barocco. La sua posizione egemonica nella nuova sfera della società civile conduce piuttosto a una tensione fra “città” e “corte”, delle cui manifestazioni tipicamente nazionali ci occuperemo ancora. In questo strato direttamente coinvolto e cointeressato dalla politica mercantilistica, l’autorità suscita una risonanza che rende il publicum, l’astratta controparte del potere pubblico, cosciente di sé come interlocutore, come pubblico di
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quella nascente sfera pubblica borghese che si va ora formando. Questa si sviluppa infatti nella misura in cui il pubblico interesse alla sfera privata della società civile non è più oggetto di cura esclusivamente da parte del governo, ma è preso in considerazione da tutti i sudditi come loro proprio interesse. Accanto agli esponenti del capitalismo commerciale e finanziario, è il gruppo crescente degli imprenditori del lavoro a domicilio, manifatturieri e fabbricanti a dipendere dalle misure amministrative; fermo restando in ogni modo il proposito che essi debbano essere non solo regolamentati nella loro attività industriale-imprenditoriale, ma anche, per mezzo del regolamento, spronati all’iniziativa. Il mercantilismo non protegge affatto, come vuole un diffuso pregiudizio, l’impresa di Stato; promuove invece la politica industriale, certo per via burocratica, la costruzione e l’espansione di imprese private attive in senso capitalistico28. Il rapporto governo-sudditi ricade con ciò nella caratteristica ambivalenza di regolamento pubblico e iniziativa privata. Diventa così problematica quella zona in cui il potere pubblico mantiene il collegamento con i privati, tramite continuati atti amministrativi. Questo non si verifica soltanto per la categoria di quanti partecipano immediatamente alla produzione capitalistica. A misura che questa si afferma, si riduce l’approvvigionamento in proprio e cresce la dipendenza dei mercati locali da quelli territoriali e nazionali, così che larghi strati della popolazione, innanzi tutto di quella cittadina, sono investiti come consumatori nella loro esistenza quotidiana dalle misure della politica mercantilistica. Non già riguardo ai famosi provvedimenti suntuari, bensì intorno alle tasse indirette e alle imposte, e in generale alle intromissioni pubbliche nella sfera domestica privatizzata finisce per costituirsi una sfera critica: stante la scarsità di granaglie si vieta per decreto il consumo di pane il venerdì sera (Sombart 1919, i, 1, p. 365). Poiché la società contrappostasi allo Stato da un lato delimita chiaramente un ambito privato nei confronti del pubblico potere, dall’altro, però, eleva a questione di pubblico interesse la riproduzione della vita, oltre i limiti di un potere domestico privato, quella zona di contatto amministrativo continuato diventa “critica”
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anche nel senso che provoca la critica di un pubblico raziocinante. Il pubblico può raccogliere questa sfida tanto più in quanto ha bisogno soltanto di cambiar funzione allo strumento con il cui aiuto l’amministrazione aveva già fatto della società una faccenda pubblica in senso specifico: la stampa. Già a partire dall’ultimo trentennio del XVII secolo i giornali sono integrati da riviste, che mirano principalmente non tanto all’informazione, quanto all’istruzione pedagogica e perfino alla critica e alla recensione. Le riviste scientifiche si rivolgono innanzi tutto alla cerchia dei laici colti: il «Journal des Savants» (1665) di Denys de Sallo, poi gli «Acta Eruditorum» di Otto Mencken (1682) e finalmente i celebri «Monatsgespräche» di Thomasius, che coniarono il modello per un’intera stirpe di riviste. Nel corso della prima metà del XVIII secolo, con il cosiddetto articolo dotto, l’argomentazione razionale fa il suo ingresso anche nella stampa quotidiana. Quando anche lo «Hallenser Intelligenzblatt», a partire dal 1729, fa apparire, oltre gli avvisi, articoli dotti, recensioni di libri e di tanto in tanto “una relazione storica scritta da un professore e dedicata al corso dei tempi”, il re di Prussia si vede spinto a prendere direttamente in mano questo processo di sviluppo. Anche l’argomentazione razionale come tale diventa oggetto di regolamentazione. Tutti i professori ordinari delle facoltà giuridiche, mediche e filosofiche devono, infatti, a turno “inviare una nota particolare, redatta con chiarezza e semplicità, con l’indicazione directorio, e in tempo, al più tardi giovedì”. I dotti devono principalmente “comunicare al pubblico verità suscettibili di applicazione”. I borghesi si procurano a questo punto, ancora per ordine del sovrano, quelle idee che poi sono le loro proprie e che si dirigono contro di lui. In un rescritto del 1784 Federico II ordina: Un privato non è autorizzato a esprimere giudizi pubblici, o addirittura di biasimo, sulle azioni, il comportamento, le leggi, le disposizioni e le ordinanze dei sovrani e delle corti, dei servitori dello Stato, dei collegi e delle corti giudiziarie, e neppure a divulgare a voce o con la stampa le notizie che
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gli pervengono a questo riguardo. Un privato non è del resto affatto in grado di giudicare in proposito poiché gli manca la piena conoscenza delle circostanze e dei motivi (Groth 1928, I, p. 623).
Pochi anni prima della rivoluzione francese, la situazione che in Francia e soprattutto in Inghilterra già all’inizio del secolo è in pieno movimento appare in Prussia come cristallizzata in un modello. I giudizi interdetti vengono chiamati “pubblici” in riferimento a una pubblica dimensione che senza dubbio aveva avuto valore come sfera del pubblico potere, ma che ora si staccava da questo in quanto foro nel quale i privati, raccolti come pubblico, si disponevano a costringere il potere pubblico a legittimarsi dinanzi alla pubblica opinione. Il publicum si evolve diventando pubblico, il subiectum soggetto, il destinatario dell’autorità suo interlocutore. La storia delle parole conserva le tracce di questa importante svolta. In Inghilterra, dalla metà del XVII secolo in poi, si parla di public, mentre si usava sino ad allora world o mankind. Analogamente nel francese emerge il termine le public per indicare ciò che nel XVIII secolo, stando al dizionario dei Grimm, aveva preso voga anche in Germania, dietro l’esempio berlinese, con il nome di Publikum; fino a quel tempo si parlava di “mondo dei lettori” o anche semplicemente di “mondo” (ancor oggi nel senso di alle Welt [tutti], tout le monde). Adelung29 distingue il pubblico che si riunisce in folla in un luogo pubblico intorno a un oratore o a un attore, dal pubblico dei lettori: in entrambi i casi, però, si tratta di un pubblico “giudicante”. Ciò che è sottoposto al giudizio del pubblico acquista “pubblicità” (Publizität). Alla fine del XVIII secolo l’inglese publicity viene derivato dal francese publicité: in Germania questa parola affiora nel XVIII secolo. La critica stessa si rappresenta nella figura della “opinione pubblica”, parola formata nella seconda metà del XVIII secolo su opinion publique. In Inghilterra public opinion appare all’incirca contemporaneamente: già molto tempo prima si parla invero di general opinion.
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* Da Habermas 1962, pp. 11-40 della trad. it. Si ringrazia l’editore Laterza per l’autorizzazione alla riproduzione. 1 Cfr. oltre in Habermas 1962, pp. 283 sgg. 2 Cfr. su questo Kirchner 1949. “Res publica è il possesso accessibile alla generalità del populus, la res extra commercium, è quella che viene esclusa dal diritto vigente per i privati e le loro proprietà; per es. flumen publicum, via publica ecc.”(pp. 10 sgg.). 3 Tralasciamo il problema della signoria cittadina del tardo Medioevo; sul piano del “territorio” incontriamo le città, che per lo più appartengono ai beni demaniali del principe, come una componente integrata al sistema feudale. Nel protocapitalismo invero le città libere assumono un ruolo decisivo per la formazione della sfera pubblica borghese. 4 The Oxford Dictionary, 1909, vol. VII, 2. 5 Cfr. per la storia del concetto di Repräsentation [rappresentanza] i cenni di H. G. Gadamer (1960, p. 134): “La parola familiare ai romani subisce una svolta radicale di significato alla luce del concetto cristiano dell’incarnazione e del corpus mysticum. Rappresentazione non significa più ora soltanto copia o esposizione figurativa (…) bensì ha il significato di sostituzione (…). Repraesentare significa lasciar-esser-presente (…). Il fatto più importante nel concetto tecnico-giuridico (giuridico-sacrale) di Repräsentation è che la persona repraesentata è il presentato-innanzi, il rappresentato, e nulla più, e che tuttavia il rappresentante, che esercita i diritti di questa, è da essa dipendente”. Cfr. anche il completamento a p. 476: “Repraesentatio, nel senso di rappresentazione sulla scena – ciò che nel Medioevo può significare soltanto: nello spettacolo religioso – si trova già nel XIII e XV secolo (…). Però repraesentatio non ha mai il senso di ‘esecuzione’, bensì significa, fino al XVII secolo inoltrato, la presenza rappresentata del divino stesso”. 6 Cfr. Schmitt 1957 (pp. 208 sgg.); sulla localizzazione in termini di storia della cultura di questo concetto medievale di sfera pubblica, cfr. Dempf 1945 (spec. cap. 2, pp. 21 sgg. sulle “forme della sfera pubblica”). 7 Carl Schmitt (1925, pp. 32 sg.) rileva che al carattere pubblico rappresentativo la formula retorica è congeniale quanto la discussione a quello borghese: “Proprio l’eloquenza che non discute e non sottilizza, ma se ci è lecito dirlo rappresenta, [è] l’elemento decisivo (…). Senza cadere in un’arringa, in un sentenziare e neppure in degenerazioni dialettiche, essa si muove nella sua propria architettura. La sua solenne scansione è più che una musica; è una dignità umana divenuta visibile nella razionalità di un parlare che si dà forma; tutto ciò presuppone una gerarchia, poiché la risonanza spirituale della grande retorica procede dalla fede, nella rappresentanza rivendicata dell’oratore”. 8 Contro la nota interpretazione di Jacob Burckhardt cfr. l’esposizione di Brunner (1949, pp. 108 sgg.). 9 Gadamer sviluppa la connessione, in termini di storia dello spirito, di questa prima tradizione dell’educazione umanistica con quei topoi del sensus communis e del “gusto” (una categoria filosofico-morale), nelle cui implicazioni sociologiche diventa chiaro il significato dell’Umanesimo cortigiano per la formazione della “sfera pubblica”. Dell’ideale educativo di Graciàn si dice: “Entro la storia dell’ideale occidentale di educazione il suo
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segno distintivo consiste nell’essere indipendente dalle pretese di ceto. È ideale di una società fondata sulla cultura (…). Il ‘gusto’ non è soltanto l’ideale che si pone una nuova società, ma quella che da allora viene chiamata la “buona società” si forma, per la prima volta, nel segno di questo ideale del “buon gusto”. Essa si riconosce e si legittima non più per nascita e rango, bensì fondamentalmente solo per il carattere comunitario dei suoi giudizi o, meglio, perché sa sollevarsi sopra la limitatezza degli interessi e l’ambito strettamente privato delle predilezioni a rivendicare un giudizio (…). Nel concetto di gusto è contenuto senza dubbio un modo di conoscenza. È nel segno del buon gusto che si è capaci di distacco da se stessi e dalle private preferenze. Perciò il gusto per sua propria natura non è qualcosa di privato, ma un fenomeno pubblico di primo rango. Può persino contrapporsi all’inclinazione privata del singolo come un’istanza di giudizio, in nome di un’universalità che esso significa e rappresenta” (Gadamer 1960, pp. 32 sgg.). 10 “In tutte le occasioni pubbliche, celebrazioni di vittorie e stipulazioni di pace, le luminarie e i fuochi di artificio sono soltanto la conclusione di una giornata che si apre all’alba con lo scoppio dei mortaretti e il suono dei pifferi cittadini su tutte le torri, nella quale scorre il vino dalle fontane della città e interi buoi vengono pubblicamente arrostiti allo spiedo, una giornata riempita fino a tarda notte dal ballo, dal gioco, dai canti e dalle risa di una folla confluita da lontano. Così avveniva nel tempo del barocco, non diversamente dalle antiche età e soltanto durante l’epoca borghese si è andata operando una graduale trasformazione” (Alewyn 1959, p. 23). 11 The Oxford Dictionary, pp. 1388 sg. 12 Dictionnaire de la langue française 1875, vol. III, voce privé. 13 Dobb (1945, p. 180): “In ogni caso è chiaro che anche un maturo sviluppo del capitale commerciale e finanziario non è di per se stesso garanzia dello sviluppo, nella sua scia, della produzione capitalistica”. 14 In Germania innanzi tutto Strasburgo, Norimberga, Augusta, Francoforte, Colonia, Amburgo, Lubecca e Lipsia. 15 Questo si verifica già molto presto a Venezia con gli “scrittori di avvisi”, a Roma con i “gazettani”, a Parigi con i “nouvellistes”, a Londra con i “writers of new’s letters”, in Germania infine con gli “Zeitunger” o “Novellisten”. Essi diventano, nel corso del XVI secolo, fornitori di vere e proprie rassegne settimanali, appunto le “notizie scritte”, di cui sono caratteristici esempi in Germania i cosiddetti giornali dei Fugger (queste circa 40.000 relazioni degli anni fra il 1565 e il 1604 provengono non soltanto da tali agenzie, ma anche da impiegati e corrispondenti della ditta Fugger). 16 A lungo si è considerato il più antico giornale la relazione dello stampatore e commerciante amburghese Johann Carolus; cfr. tuttavia lo studio di Fischer (1936). 17 Rientrava nella forma tradizionale del dominio anche la competenza di esporre e interpretare di volta in volta quella che veniva considerata la “vecchia verità”. Le informazioni relative a un fatto realmente avvenuto restano riferite a questo sapere tradizionale. La novità appare sotto l’aspetto di circostanze più o meno straordinarie. Alla corte della “vecchia verità”, i “fatti nuovi” si trasformano in segni e miracoli. I fatti si convertono in cifre. Il nuovo e
JÜRGEN HABERMAS
il mai sperimentato, essendo a essi consentita la semplice funzione di rappresentanti del sapere garantito dalla tradizione, acquistano struttura di enigmi. Così gli eventi storici non vengono distinti da quelli naturali; le catastrofi naturali e le date storiche appartengono egualmente a una storia di miracoli. Ancora i fogli volanti del XV secolo e quelli che appaiono come numeri unici nel XVI e che si chiamano «Neue Zeitungen» [Nuove notizie] attestano il vigore con cui un ininterrotto sapere tradizionale sa assimilare le informazioni, il cui flusso crescente già prelude invero a una nuova figura della sfera pubblica. Tali fogli diffondono notizie in maniera indiscriminata su lotte di religione, guerre contro i turchi, decisioni papali, come su piogge di sangue o di fuoco, parti mostruosi, invasioni di cavallette, terremoti, nubifragi e apparizioni, su bolle, capitolazioni elettorali, nuove scoperte geografiche come su battesimi di ebrei, roghi di streghe, supplizi infernali, giudizi di Dio e resurrezione di morti. Molto spesso le “ultime novità”, come precedentemente i fogli volanti, erano redatte in forma di canzonetta o di dialogo, con destinazione narrativa, dunque di lettura e di canto o perché venissero canticchiate da tutti. In tal modo, sottratta com’è alla sfera storica della “notizia” la novità viene ricondotta, come fatto indicativo e fuori dell’ordinario, in quella sfera della rappresentanza in cui una partecipazione ritualizzata e cerimonializzata del popolo alla sfera pubblica permette un semplice consenso, incapace di esprimere un’autonoma interpretazione. È significativo che come “ultime novità”, vengano stampate anche canzoni, per esempio i cosiddetti canti storico-popolari, che trasferiscono immediatamente gli avvenimenti politici quotidiani nella sfera dell’epos eroico. Cfr. Everth (1931, p. 114). In generale cfr. Bücher (1926, pp. 9 sgg.). Il contenuto di varie gazzette volanti si è conservato fino ad oggi in forma di filastrocche infantili. 18 Nella carta di fondazione del 1553 è chiamata “Adventurers” una corporazione e compagnia dei Merchant Adventurers per la scoperta di nuovi territori, contrade, isole e siti. Cfr. Sée (1926, pp. 67 sg.). 19 Nella sfera di validità del recepito diritto romano, diventando espressione giuridica di un bilancio statale autonomo rispetto alla persona del principe, la funzione del fisco offre al tempo stesso ai sudditi il vantaggio di poter avanzare pretese di diritto privato nei confronti dello Stato. 20 Dobb (1945, pp. 239 sgg.): “maggiori esportazioni significavano maggiori possibilità d’impiegare forze di lavoro nelle manifatture in patria; e ciò a sua volta significava l’allargamento delle prospettive offerte all’investimento di capitali nell’industria”. 21 Come mostrano i classici regolamenti di Colbert per le tecniche industriali della manifattura tessile. Ma anche in Inghilterra sussistono fino alla metà del XVIII secolo regolamenti che concernono la materia prima, i modi della sua lavorazione e la qualità dei prodotti finiti. Cfr. Heckscher (1932, I, pp. 118 sgg. e 201 sgg.). 22 Arendt (1958, p. 43), citato nella traduzione tedesca, Vita activa, Stuttgart 1960, p. 47. Indubbiamente ancora nell’uso linguistico del XVIII secolo Zivilsozietät, civil society, société civile tradiscono spesso la tradizione più antica della “politica”, che non distingue ancora la “società civile” dallo “Stato”. La nuova sfera del sociale acquista molto tempo prima, nel moderno diritto di natura, la concettualizzazione non politica che le è propria.
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23 Si tenga conto che Zeitung, “giornale”, aveva a partire dall’inizio del secolo il significato di “notizie di un determinato fatto” e addirittura originariamente, designava ciò che era avvenuto in un determinato momento. 24 Bode (1908, p. 25): “Il giornale era un organo di informazioni di second’ordine, mentre nel XVII secolo la missiva era ancora in generale la fonte di informazioni più attendibile e rapida”. Cfr. anche Goitsch 1939. 25 Sombart (1919, II, pp. 406 sgg.); anche Bücher (1926, p. 87). Come nei primi bollettini di avvisi, anche le inserzioni sui notiziari del XVIII secolo si riferiscono a merci e scadenze estranee al normale giro di affari, vendite d’occasione, libri e medicine, accompagnamento di viaggi, domestici ecc. Inserzioni commerciali, réclame in senso stretto, sono poco diffuse: il mercato locale dei beni e del lavoro si regola ancora face to face. 26 Cfr. Stadelmann, Fischer (1955, p. 40). Cfr. anche Kuske (1948). 27 Proprio nel confronto fra lo sviluppo sociale di Amburgo e quello del restante impero, questa distinzione è sottolineata da P. E. Schramm (1943, p. 37): “Proprio ciò che era venuto meno a essi (‘i borghesi’) vale a dire l’appartenenza, rafforzata dal giuramento dei consociati, a una comunità cittadina (…). Questi altri, che non erano cittadini, ma borghesi, servivano il loro signore, la loro Chiesa, il loro imprenditore oppure erano ‘liberi’ come membri di una libera professione; ma non avevano fra loro nient’altro in comune oltre all’appartenere al ‘ceto borghese’: tutto questo altro non significava se non che questa loro designazione li distingueva dalla nobiltà, dalla massa contadina e dagli strati inferiori della città. Questa espressione infatti non richiedeva neppure una residenza nella città; anche il pastore nella parrocchia rurale, l’ingegnere nel suo distretto minerario, l’impiegato nel castello del principe appartenevano al ‘ceto borghese’. Anch’essi venivano compresi nella borghesia colta in senso lato, la bourgeoisie, che si distingueva nettamente dal popolo, le peuple. Nell’industria il lavoro manuale, nel commercio la vendita al banco erano considerati il contrassegno esteriore di quanti non ‘appartenevano più’ alla borghesia, anche se un tempo proprio gli artigiani e i bottegai ne erano stati gli autentici rappresentanti”. 28 Cfr. Heckscher (I, p. 258) e anche Treue (1957, pp. 26 sgg.). 29 Cfr.Wörterbuch der hochdeutschen Mundart, 1808. Adelung significa di per sé das Adeln, cioè conferire il titolo di nobiltà, elevare all’ordine (Stand) aristocratico e quindi nobilitare a.
XV
L’opinione pubblica* Niklas Luhmann
Molti concetti classici della teoria politica si trovano oggi in una situazione ambigua: da una parte non li si può facilmente abbandonare, dall’altra non li si può accettare nel loro significato originale. Essi definiscono, a mio parere, importanti conquiste evolutive della società moderna e dei suoi sistemi politici; ma ciò avviene in misura poco soddisfacente, per così dire troppo diretta, unidirezionale, semplificata. Le più recenti correnti scientifiche della teoria dei sistemi, della teoria delle decisioni e della teoria dell’organizzazione, che cercano di ampliare gli orizzonti scientifici per elaborare i complessi dati reali, abbandonano il patrimonio di concetti tradizionale. Le discipline che tendono a conservarlo corrono, appunto per questo, il pericolo di rimanere arretrate o di limitarsi all’ermeneutica e alla storia del pensiero. In queste circostanze, diventa interessante ricostruire i concetti politici classici attraverso nuovi strumenti di pensiero. Tali concetti, infatti, non erano solo costruzioni scientifiche, ma soprattutto erano risposte dense di acuta e reale consapevolezza dei problemi. Concetti come politica, democrazia, dominio, legittimità, potere, rappresentanza, Stato di diritto, comportamento, opinione pubblica, non possedevano una grande facoltà di spiegare gli avvenimenti e i processi reali; essi servivano a determinare le soluzioni dei problemi intese come conquiste istituzionali, e la loro problematica consisteva in buona parte nel fatto che la superiore problematica del sistema rimaneva oscura, spesso ignota, e che la “soluzione” poteva consistere solo in una combinazione di esigenze di comportamento e di problemi
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conseguenti, non in un accantonamento del problema. Se questo assunto è vero, dovrebbe essere possibile, mediante la chiarificazione e la fondazione teorica dei problemi in questione, ricondurre queste risposte concettuali alle loro premesse, ricostruirne il senso, riconoscere la funzione delle strutture e dei processi in questione, e compararli con altre possibilità1. Tale tentativo deve essere qui intrapreso servendosi del concetto d’opinione pubblica2. Il presente lavoro si espone consapevolmente all’obiezione che tutto ciò che verrà trattato in seguito sotto l’etichetta d’opinione pubblica non ha più nulla a che fare con il concetto classico corrispondente o almeno perde l’essenza e la moralità che gli sono proprie. Per favorire tale obiezione, devono essere rese note le premesse che possono essere fatte oggetto di critica: noi basiamo il nostro diritto ad approfondire il concetto di opinione pubblica sulla continuità che esiste tra il problema e il suo ambito di soluzione, e consideriamo il problema a cui il concetto si riferisce nella contingenza delle possibilità giuridiche e politiche, e l’ambito di soluzione di tale problema nel processo di comunicazione politica. Dal riferimento al problema della contingenza deriva la necessità di reinterpretare il rapporto fra opinione pubblica e processo di comunicazione: l’opinione pubblica non può più essere considerata semplicemente come un fenomeno politicamente rilevante, ma deve essere concepita come struttura tematica della comunicazione pubblica; in altri termini, non deve più essere concepita casualmente come effetto prodotto e continuamente operante; ma si deve concepire funzionalmente, come strumento ausiliare di selezione in un modo contingente. 1. Quello di “opinione pubblica” è oggi un concetto il cui oggetto è divenuto dubbio, forse addirittura inesistente. Alla sua dissoluzione ha contribuito, e ciò è significativo, proprio l’intento di studiarlo empiricamente. L’indagine empirica ha dovuto sostituire ambedue gli elementi del concetto. L’elemento dell’opinione è stato sostituito dalle
NIKLAS LUHMANN
risposte fornite alle domande del ricercatore3. L’elemento della pubblicità è stato sostituito dall’interesse selettivo dei politici verso tali “opinioni” 4 o dall’influenza di alcuni gruppi sulla formazione dell’opinione. Combinando i sostituti dei due elementi del concetto, si delinea la problematica propria di tali indagini5. Gli incontestabili successi di queste indagini non possono in ogni caso fondarsi sulle loro premesse teoriche. Per quanto questa problematica scientifica sia nota da lungo tempo, rimane tuttavia vivo il ricordo del concetto classico d’opinione pubblica e della sua funzione politica. In tema d’opinione pubblica, diventa evidente quanto sia insufficiente una teoria politica che si rivolga solo verso ciò che è istituzionale. Il potere politico e la carica politica mi sembrano insufficienti ai fini di una comprensione completa dell’avvenimento politico e di un giusto mantenimento entro giusti binari. Con ironia e imbarazzo V. O. Key (1961, p. 8) definisce l’opinione pubblica come “lo spirito santo del sistema politico”. È pertanto opportuno trovare un concetto più appropriato che non sia calato né nella psicologia sociale né nella teologia, ma possa venire integrato in una teoria del sistema politico. Se si risale alla concezione liberale dell’opinione pubblica, appare anzitutto evidente dai suoi antefatti che essa era destinata a liberare la politica dai vincoli con la verità, che erano basati sul diritto naturale diffuso nell’antica Europa. L’evoluzione sociale del tardo Medioevo e dell’inizio dell’Evo Moderno aveva determinato una più marcata differenziazione tra religione, politica, economia e scienza, con la conseguente formazione, entro questi ambiti sociali, di nuove autonomie e di più astratti obiettivi. I tradizionali fondamenti di verità su cui si fondava la politica persero, perciò, la loro credibilità e il loro carattere dominante. Pur rimanendo ancora all’interno del diritto naturale inteso come diritto razionale, la dottrina giuridica del XVIII secolo si uniformò6 alla positività (alla statuizione mediante decisioni) dei fondamenti del diritto; a questo scopo, aveva bisogno di un nuovo quadro d’orientamento che fosse adegua-
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to alle ampie possibilità di ciò che è giuridicamente possibile. Nonostante tutti i tentativi di stabilire formule teleologiche invariabili e principi razionali come limiti della verifica, sorse la necessità di un valore dominante più duttile della verità, che potesse mutare i suoi punti di vista e i suoi temi. Esso non poteva più essere concepito come verità, ma soltanto come opinione, come giudizio provvisoriamente consolidato di ciò che è giusto, filtrato attraverso controlli razionali e soggettivi, e attraverso la discussione pubblica. L’opinione pubblica è, per così dire, una contingenza politica sostantivata, un sostantivo al quale si affida la soluzione del problema di ridurre le molteplicità soggettive di ciò che è giuridicamente e politicamente possibile. Per ulteriori chiarimenti è necessario pertanto indagare sulle basi di questa fiducia, sulle premesse strutturali del sistema su cui essa si fonda, e si può allora verificare se questi assunti sono validi ancora per il sistema sociale delle società industriali avanzate. Se le analisi di Habermas (1962, pp. 40 sgg.) colgono il segno, si può riconoscere che alla base del concetto classico d’opinione pubblica sta una determinata differenziazione sociale che presenta le seguenti caratteristiche: i sistemi di formazione dell’opinione sono piccoli circoli di discussione nei quali gli uomini si possono incontrare e accettare come tali7. Per l’ordinamento interno di tali sistemi è essenziale che non vi sia alcuna separazione tra conflitto e cooperazione; si cerca cioè di conquistare il consenso di coloro contro i quali si argomenta. Ciò è possibile nell’ambito di piccoli sistemi. L’orientamento, agevolato dalla differenziazione amico/nemico, viene sostituito dall’istituzionalizzazione del tatto, cioè dall’accettazione della libertà di autorappresentazione dell’altro come fondamento del proprio comportamento; e ciò con una certezza tale da fondare un affidamento reciproco. A questo ordinamento interno corrisponde, come condizione sociale di tali sistemi, una caratteristica combinazione di differenziazione e segmentazione. I circoli sono differenziati nel senso che i membri non si orientano secondo gli altri ruoli loro propri: sesso, età, posizione sociale, professione,
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condizione economica ecc.; anche ciò conferma la formula “uomini come uomini” o il concetto astratto di “soggetto”. I circoli nei loro rapporti reciproci sono segmentati poiché essi, al momento della loro costituzione, sono differenziati in modo segmentario e omogeneo, e non in base a una funzione particolare che viene loro attribuita. Questa particolare costellazione permetteva, rimanendo essa stessa latente, che il “generale” divenisse tema di discussione e perciò problema; essa rendeva contemporaneamente possibile la generalizzabilità della ragione. L’eguaglianza dei circoli di discussione e la neutralizzazione delle influenze economiche, politiche, di ceto, esercitate sulla discussione, permettevano che l’opinione che si formava in essi potesse venir supposta come generale; che le aspettative in essi sorte potessero apparire come generalmente valide; che le aspettative conseguenti al proprio comportamento potessero essere considerate come aspettative di tutti e potessero sostituire come tali le vecchie istituzioni; e che fosse possibile trovarsi d’accordo in questa comprensione di sé fondata moralmente senza dover tenere conto delle condizioni economiche, di classe, o di quelle derivanti dalla struttura del sistema che influenzano tale pensiero. Così potevano venire attivate le esperienze che permettevano un facile passaggio dalla ragione individuale a quella generale, e poi anche dalla volontà individuale a quella generale. I nuovi mezzi di diffusione di queste opinioni fecero anche più di quanto dovessero per convincere di tale possibilità. Sorprendentemente fu proprio l’ulteriore differenziazione di una società già funzionalmente differenziata che permise a coloro che discutevano di considerare se stessi come “la società”, una chance, questa, a dire il vero, provvisoria. Un breve sguardo nella storia del pensiero è in grado di dimostrare che quella fede nella ragione, e quindi anche la credenza nella capacità dell’opinione pubblica di esercitare un controllo critico e di mutare l’assetto del potere, non poteva durare a lungo. Per la sociologia è ovvio non concepire questo crollo come uno sviluppo dello spirito autoevidente, immanente, dialettico, ma attribuirlo all’im-
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probabilità e all’impossibilità di stabilizzazione di quella complessa struttura sistemica che aveva in sé questa credenza e che riconduceva a essa le necessarie esperienze. A noi mancano analisi sufficientemente formali nel campo della teoria sociale che possano motivare l’assunto che la differenziazione ulteriore di sottosistemi segmentari privi di funzioni specifiche sia generalmente instabile8. Lo sviluppo ulteriore della società moderna verso una continua industrializzazione ha comportato una progressiva differenziazione funzionale e una specificazione in sottosistemi. Pertanto non si può affermare che i gruppi che si sottraggono a questa differenziazione costituiscano la società. La differenziazione funzionale conduce all’astrazione di specifiche prospettive del sistema, alla sovrapproduzione di corrispondenti rappresentazioni di desideri ed esigenze di norme e, quindi, all’obbligo di selezione per tutti i partecipanti al gruppo. La specificazione in sottosistemi e i modi di selezione vengono consolidati in modo organizzato, vengono cioè compiuti dai sistemi che si conformano ai processi decisionali, i quali, creando le strutture necessarie a tale scopo, non possono più rappresentare alcun interesse generale. La società stessa, per esempio, non ne viene semplificata dal punto di vista organizzativo, né determinata dal punto di vista tecnico; al contrario, essa diventa un “campo turbolento” (Emery, Trist 1965, pp. 2132; McWhinney 1968, pp. 269-281) nel quale tutti i sistemi vengono fortemente condizionati dalla complessità, e non devono più soltanto adattarsi agli avvenimenti, ma anche agli adattamenti degli altri. Queste trasformazioni richiedono un riesame del concetto d’opinione pubblica più radicale di quello fornito dalle note concettualizzazioni di Habermas (1962, p. 264). Il concetto di opinione pubblica non può essere facilmente ripetuto all’interno dell’organizzazione, poiché le organizzazioni si fondano proprio sulla frammentazione della consapevolezza e in esse, quindi, non si possono realizzare né quelle premesse strutturali né le corrispondenti esperienze sulle quali si è fondata la supposizione dell’esistenza di un’opinione pubbli-
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ca critica. La “produzione di pubblicità” all’interno dell’organizzazione porta, nella migliore delle ipotesi, alla produzione di situazioni spiacevoli, non di rado anche a notevoli alterazioni di funzioni, le quali permettono a chi le produce l’emancipazione verso la consapevolezza del proprio ruolo, non però l’emancipazione come uomo verso il mezzo solidarizzante della pubblicità. Così le rappresentazioni dell’epoca dell’Illuminismo connesse al concetto di pubblicità vengono recepite troppo direttamente, troppo alla lettera. Si devono perciò trovare interpretazioni più astratte. 2. È possibile trovare un termine di paragone sufficientemente astratto quando indaghiamo sulla funzione di ciò che s’intende col concetto di opinione pubblica. In ultima analisi, si tratta del problema della contingenza giuridica e politica delle decisioni vincolanti: l’elevata arbitrarietà di ciò che è possibile politicamente e giuridicamente deve essere ridotta, se non mediante la verità, almeno mediante opinioni consolidate dalla discussione. Con il concetto di “opinione pubblica” viene proposto in primo luogo, come soluzione del problema, solo un sostantivo il cui substrato reale rimane oscuro. Mediante sostantivazione, tuttavia, non si possono risolvere i problemi; rimane senza risposta l’interrogativo circa i fatti e i criteri che si celano dietro il concetto di opinione. Neppure è sufficiente rendere paradossale il problema o dissolverlo romanticamente nell’infinito o formularlo in termini dialettici o utopici, poiché ciò non offre un contorno univoco né per la teoria né per la prassi. Come problema di riferimento delle analisi funzionali si può, d’altra parte, precisare la contingenza di ciò che è possibile giuridicamente e politicamente, e si può utilizzarla come punto di partenza per confronti con altre soluzioni del problema. La contingenza, nel senso di “essere-possibile-anche-diversamente”, diventa un problema quando le si contrappone il bisogno di struttura dell’esperienza e del comportamento umani. Il problema di dover porre le strutture in un orizzonte di altre possibilità, acquista un’importanza crucia-
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le per la formazione della coscienza nell’era moderna, in relazione alle trasformazioni evidenti delle strutture sociali. La nostra tesi è che il concetto d’opinione pubblica riferisce questo problema a un settore particolare dell’esperienza e del comportamento umani, cioè alla comunicazione interpersonale, soprattutto a quella di tipo politico. Se si considera che la comunicazione deve avvenire con un potenziale minimo di attenzione consapevole – e questo è il punto nel quale ci diversifichiamo dall’autocomprensione e dal concetto di ragione dell’età illuministica9 –, appare evidente che tale comunicazione deve stabilire dei presupposti, che essa deve sempre già avere dei temi possibili. Ciò che viene definito come opinione pubblica sembra porsi nell’ambito di tali temi della comunicazione, la cui presupponibilità limita la discrezionalità di ciò che è possibile politicamente. Con il termine “temi” noi intendiamo designare complessi di senso indeterminati e più o meno suscettibili di sviluppo, dei quali si può discutere e avere opinioni uguali, ma anche diverse: il tempo, la nuova automobile, la riunificazione delle due Germanie, il rumore della falciatrice del vicino, l’aumento dei prezzi, il ministro Strauss10. Tali temi costituiscono la struttura di ogni comunicazione, condotta come interazione tra più partners. Essi rendono possibile un riferimento comune a un identico significato e impediscono un rapporto verbale superficiale. Una comunicazione non può iniziare senza possibili oggetti comuni di comunicazione, e tali accordi preliminari si consolidano nel corso della comunicazione, divenendo limiti del sistema più o meno stabili in un mondo della vita generalmente accettato e presupposto come inarticolato11. La comunicazione presuppone pertanto, oltre al linguaggio comune, altri due diversi piani di determinazione del significato: la scelta di un tema e l’articolazione delle opinioni relative a questo tema. Solo all’interno di questa differenza può costituirsi la differenza fra opinioni concordi e discordi. In modo analogo, anche la storia dello sviluppo di un sistema di comunicazione può comportare mutamenti di significato su questi due piani, mutamenti di tematica e mutamenti delle opi-
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nioni espresse. Ambedue le variazioni dipenderanno, per la loro tipica natura, l’una dall’altra: la scelta dei temi non verrà effettuata indipendentemente da prevedibili o evidenti possibilità di consenso o di dissenso. Questa doppia struttura di temi e di opinioni è certamente indispensabile solo se la comunicazione viene condotta in maniera interattiva. Una scelta dei temi sui quali si discute è significativa solo se si presuppone che chi riceve la comunicazione sia in grado di rispondere, di non sottrarsi al tema, ma di esprimere altre opinioni riguardanti il tema stesso, introducendo in tal modo quella elevata complessità delle altre possibilità nell’ambito di ciò che deve essere sottoposto a un ordinamento. Una comunicazione unilaterale che esclude qualsiasi risposta (manipolazione), potrebbe fare a meno di questa struttura e suggerire subito la giusta opinione12. Il fatto che l’opinione pubblica si formi mediante quella doppia struttura, significa che nei canali di comunicazione in questione non si comunica in modo manipolato, ma in modo interattivo; per esempio si discute e si collabora cooperativamente alle discussioni. Dopo queste riflessioni, si possono individuare alcuni caratteristici pericoli che minacciano la funzione dell’opinione pubblica. Essi si presentano sotto forma di fusione di tema e opinione, il che esclude la possibilità di risposta alla comunicazione, rendendola quindi manipolativa. Ciò può verificarsi nel caso dell’unilateralità, provocata tecnicamente, della comunicazione attraverso i mass media, nel caso di esposizioni studiate coi mezzi della psicotecnica, ma soprattutto nel caso di attribuzione alla comunicazione di una valenza morale (e naturalmente, in maniera indubitabile, nel caso di concomitanza di tutti questi casi). L’uso di un linguaggio etico manipolativo ha suscitato finora, per le ragioni più diverse, scarso interesse13. Le circostanze sono infatti complesse. La condizione della sua esistenza è costituita da una società altamente complessa, la cui integrazione attraverso una morale collettiva è ormai impossibile, o in ogni caso non è più autoevidente. In queste condizioni, l’attribuzione alla comunicazione di una va-
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lenza morale diventa un mezzo per privarla di una risposta. Il destinatario di tale comunicazione si trova di fronte a un ruolo, attribuitogli implicitamente, che vincola il suo valore personale a determinate opinioni; e, cosa ancora più spiacevole, egli trova in questa imposizione un impegno morale del suo interlocutore che la delicatezza, la circospezione e il bisogno di quiete gli impediscono di sottovalutare. Egli deve ora attendere colui che lo attende considerandolo come qualcuno che egli non può essere, ed esce poi dal campo nel migliore dei modi sia mediante la sospensione, sia mediante la banalizzazione della comunicazione. Come ogni manipolazione, anche questa esclude qualsiasi differenziazione fra tema e opinione: l’istituzionalizzazione del tema viene fusa con le implicazioni morali delle opinioni in modo tale che l’affermazione di una morale appare connessa all’obbligo della sua accettazione. Diffusa dai mass media, dagli spettacoli, dai cartelloni pubblicitari, nasce così quella morale pubblica, priva di risonanze, che lascia tutti indifferenti. Se nel processo di comunicazione si giunge, d’altra parte, a una differenziazione fra causa della comunicazione e affermazione dei propri valori personali, l’opinione pubblica può formarsi come struttura di un processo di comunicazione limitatamente aperto. In tali processi di comunicazione si giungerà, disponendo di temi che implicano un impegno, alla divergenza di opinioni; ma attraverso morali che presuppongono un impegno non si giungerà alla controversia sul diritto di divergenza dalle opinioni. Possiamo esprimere il risultato di questa analisi nella regola generale che rapporti sociali sempre più complessi possono instaurarsi solo mediante processi di comunicazione sempre più complessi. La differenziazione fra temi e opinioni giova all’aumento di questo potenziale di complessità. Senza di essa, oggi, la comunicazione non può più essere condotta interattivamente, né può essere controllata la complessità di ciò che per più soggetti è significativamente possibile. Anche nel contesto politico non si può comunicare diversamente. Perciò i temi delle possibili comunicazioni sono d’importanza primaria. Essi fungono da re-
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gole per la continua attualizzazione di aspettative nelle interazioni concrete e guidano, in tal modo, la formazione delle opinioni. Il meccanismo di riduzione della comunicazione politica, che veniva definito col termine di opinione pubblica, non si basa affatto, quindi, sulle opinioni stesse, ma sui temi della comunicazione politica. In questo modo ritengo che si possa risolvere il vecchio problema dell’unità degli effetti nonostante la contraddittorietà dell’opinione pubblica14. La funzione dell’opinione pubblica non deve essere dedotta dalla forma delle opinioni – dalla loro generalità e opinabilità critica, dalla loro razionalità, dalla loro capacità di ottenere consenso, dalla loro sostenibilità pubblica –, ma dalla forma dei temi delle comunicazioni politiche, dalla loro idoneità come struttura del processo di comunicazione. E questa funzione non consiste nella giustezza delle opinioni, ma nella potenzialità dei temi di diminuire l’insicurezza e di fornire strutture. Il problema, quindi, non consiste nella generalizzazione del contenuto delle opinioni individuali in formule generali, accettabili da parte di chiunque sia dotato di ragione, ma nell’adattamento della struttura dei temi del processo di comunicazione politica alle necessità decisionali della società e del suo sistema politico. Tale spostamento di visuale dalle opinioni ai temi che ordinano le opinioni è opportuno non solo perché permette una migliore motivazione nell’ambito di una teoria dei sistemi di comunicazione, ma anche perché pone sul tappeto interessanti questioni. Esso permette di collegare le indagini sull’opinione pubblica con una teoria del sistema politico (e anche con una teoria del sistema sociale), che trova nella complessità di questo sistema la primaria variabile indipendente15. La complessità del sistema politico, cioè il numero e la multilateralità delle possibilità di esperienza e di azione in esso attuabili, è infatti in relazione con la sua “capacità tematica”, cioè con la strutturazione tematica dei suoi processi di comunicazione. La complessità condiziona la capacità tematica, e viceversa. Questo rapporto appare evidente non solo nell’esigenza d’astrazione dei contenuti di temi e opinioni,
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esigenza che può essere mascherata da varie circostanze di fatto. Esso possiede molti altri aspetti, che non potevano essere colti con il concetto classico d’opinione pubblica, ma che possono essere compendiati nel concetto funzionale d’opinione pubblica che qui si sostiene. Anche la dimensione dell’effettiva e tattica differenziazione fra temi e opinioni di cui si parlerà più avanti (2), la mobilità temporale dei temi (4) e le forme della loro istituzionalizzazione sociale (5) mutano con la complessità del sistema politico e con il peso della selezione dei suoi processi decisionali. 3. Dalla teoria generale dell’organizzazione sappiamo che in tutti i sistemi sociali complessi, occupati in processi decisionali, si manifesta una differenziazione fra “attention rules” e “decision rules”, poiché la capacità di operare confronti consapevoli non basta a esaurire le possibilità logiche della razionalizzazione (March 1962, pp. 191-208; Simon 1967, pp. 1-20). Poiché l’attenzione è scarsa, si sviluppano necessariamente regole sul convogliamento dell’attenzione, che si differenziano da quelle regole secondo le quali le decisioni vengono prese e considerate come corrette16. Solo nel quadro di ciò che generalmente viene considerato con attenzione – per così dire, quindi, dopo la scelta preliminare operata dalle regole dell’attenzione –, si può giungere a decisioni razionalizzabili. L’oggetto che suscita l’attenzione non è necessariamente identico all’oggetto sul quale, poi, effettivamente si decide (Vickers 1965, p. 194). I processi di distribuzione dell’attenzione nel sistema si differenziano, quindi, significativamente dai processi di attività decisionale e, se questa stessa differenziazione deve compiere la sua funzione, essi devono essere giudicati in base a criteri diversi. Questo giudizio, derivante da un ambito d’indagine completamente diverso, può essere riferito alla nostra distinzione fra temi e opinioni, e illustra una delle sue funzioni. Le regole dell’attenzione guidano la costruzione dei temi politici; le regole della decisione
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guidano la formazione dell’opinione, tra l’altro, nelle istanze decisionali. I temi non servono direttamente a determinare il contenuto delle opinioni, ma, in primo luogo, e soprattutto, a catturare l’attenzione. Essi rivelano ciò che nel processo politico di comunicazione si suppone possa avere risonanza e possa richiedere una capacità di risposta, ma non precisano quali opinioni vengano sostenute in riferimento al tema, quali siano quelle giuste, quali siano in grado di affermarsi. Convogliamento d’attenzione non significa ancora, perciò, legame a determinate opinioni e contenuti decisionali, ma è tutt’al più uno stadio preparatorio. E per converso, aspirazioni “di per sé” dotate di senso e opinioni esatte non possono in quanto tali diventare temi dei processi di comunicazione politica: essi devono prima passare attraverso il filtro delle regole dell’attenzione, costruito in base ad altri punti di vista. Questa funzione di filtro è premessa al processo di comunicazione. Ciò lascia supporre che il sistema politico, in quanto si fonda sulla pubblica opinione, non debba assolutamente venir integrato nelle regole della decisione ma nelle regole dell’attenzione. In ogni caso, le regole dell’attenzione offrono, dal punto di vista sociale, le più ampie possibilità di accesso e la maggior forza integrante: esse possono, anzi devono, essere “le stesse” anche per coloro che si attengono a differenti regole decisionali, mentre la relazione contraria non è possibile. In queste circostanze, potrebbe essere sia teoricamente che praticamente di grande importanza conoscere le regole di attenzione di un sistema politico. Ma senza un’indagine empirica specificamente rivolta a questo scopo non si può attualmente fare alcuna asserzione sicura su tale questione. Un occasionale esame della nostra scena politica dà adito, tuttavia, alla supposizione che, nella distribuzione dell’attenzione e nella formazione dei temi, ci si attenga, tra l’altro, alle seguenti regole: – Netta priorità di determinati valori, la cui minaccia o violazione fa sorgere da sé un tema politico. Si pensi, per esempio, alla minaccia contro la pace, alle interferenze nell’indi-
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pendenza della giustizia, agli aspetti morali degli scandali politici (Winkler 1968, pp. 225-244). I valori fungono quindi non solo da regole decisionali all’interno di programmi, ma contemporaneamente, in altro contesto, da regole di attivazione dell’attenzione, senza che per quest’ultima funzione sia essenziale la ponderazione del rapporto con altri valori. Un indicatore operazionalizzabile di tali priorità sarebbe il fatto che temi corrispondenti possano affermarsi di fronte ai termini prefissati dai politici (Luhmann 1971, pp. 143 sgg.). – Crisi o sintomi di crisi17. Le crisi sono minacce inattese (tematicamente non preparate) non solo nei confronti di singoli valori, ma nei confronti delle esigenze, intrinseche al sistema, che sono poste dalla sua stabilità. Le crisi stimolano e convogliano attenzione, e minacciando in maniera diffusa, indeterminata, il livello di attuazione di innumerevoli valori, lo pongono sotto l’incalzare del tempo (Hermann 1963, pp. 61-82). Su ciò si fonda il loro effetto d’integrazione, che deve essere distinto dagli effetti innovativi delle crisi, che derivano dal mutamento delle regole decisionali sotto la pressione di condizioni eccezionali (Crozier 1963, pp. 257 sgg., 291 sgg.). In tutti i sistemi sociali le crisi potrebbero rientrare tra le regole di distribuzione dell’attenzione; le loro differenze riguardano la questione degli eventi (per esempio dimissioni di un ministro, carestie, eccezionali aumenti di prezzi, sommosse e azioni di violenza) che fanno percepire e supporre una certa crisi, e quella del tempo che rimane ancora per decidere18. – Status dell’autore di una comunicazione. Capi politici, celebrità, grosse personalità, trovano per le loro comunicazioni più attenzione e più eco rispetto alle persone che non occupano posizioni di primo piano. Lo status sociale influisce in certo qual modo sulla comunicazione. Anche questo effetto è in primo luogo indipendente dal fatto che il detentore di questo status sia o meno in grado di affermare il suo volere nei casi singoli. – Sintomi di successo politico . Poiché nel complesso mondo della politica le reali condizioni del successo sono
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spesso incalcolabili e non sono disponibili informazioni sufficienti, al loro posto emergono sintomi dotati di maggior valore orientativo, per esempio un crescente numero di voti o la menzione di un nome o di un fatto nella stampa o il diretto accesso presso i detentori delle più alte cariche. Le circostanze che possono venir associate a tali sintomi di successo vengono tenute in maggior considerazione, specialmente da coloro che esercitano attivamente la politica, rispetto ad altre indicazioni che potrebbero forse essere altrettanto importanti per la formazione dell’opinione. – La novità degli avvenimenti. Le circostanze che si mantengono costantemente immutabili sfuggono a una consapevole attenzione, mentre i mutamenti colpiscono e attivano l’attenzione. Il “nuovo” di per sé ha un’apparenza d’importanza. Veramente nelle società più complesse diventa un problema (Hirschman 1968, pp. 353-361; Emery 1967, pp. 199-237) anche la percezione di innovazioni rilevanti, tanto che si formano per questo specifico scopo dei sottosistemi propri, in particolare la stampa quotidiana, che corrono poi il rischio di occuparsi troppo di novità invece che di questioni importanti. – Dolori o loro surrogati provocati dalla civilizzazione. Penose fatiche fisiche e organiche, “stress”, instabilità delle relazioni private, perdite di denaro, restrizioni economiche, perdite di posizioni sociali specialmente se commisurabili e paragonabili, sono molto allarmanti allorché non sono più collegate a convinzioni istituzionalmente accettate, né possono essere compensate dall’idea di un giusto sacrificio. Tutte queste, e forse altre regole dell’attenzione, derivano dalla struttura del sistema politico e si collegano a essa; non vengono quindi stabilite arbitrariamente, né possono essere mutate a piacere. In questo modo, la struttura del sistema politico regola l’opinione pubblica senza determinarla stabilmente. Proprio la pluralità delle regole dell’attenzione è determinante per la permanente apertura dell’opinione pubblica; essa impedisce che solo valori prestabiliti, solo crisi, solo comunicazioni dei detentori di uno status, solo la propria logica interna di successo del sistema politi-
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co, solo novità o solo dolori e loro surrogati determinino la tematica del processo politico di comunicazione. L’unilateralità dei punti di vista, necessaria per catturare attenzione, può essere così riequilibrata all’interno del sistema. 4. Che l’opinione pubblica, sotto forma di una differenziazione di temi e di opinioni, diventi rilevante ai fini del controllo di un sistema politico, lo dimostra l’elevata complessità di quest’ultimo. Questa complessità è una conseguenza della differenziazione sociale del sistema politico, della sua costituzione come sottosistema della società, separato dagli altri ambiti di funzioni (Luhmann 1968, pp. 705-733). Con tale differenziazione e aumento della complessità sottosistemica nasce, contemporaneamente, un bisogno di variazione strutturale nel sottosistema; poiché il numero delle possibili condizioni del sistema, necessario del resto ai fini dell’adattamento alla società, la “requisite variety” del sistema politico (Ross Ashby 1901, pp. 206 sgg.), può venire raggiunto solo mediante mutamenti strutturali abbastanza frequenti e di rapida attuazione. Per il processo politico di comunicazione, la mobilità della struttura dei suoi temi significa che i temi della comunicazione politica non solo devono essere mantenuti aperti alle diverse opinioni e decisioni, ma devono anche poter essere mutati secondo le necessità. Questo cambiamento sembra seguire un certo ordine. Benché anche qui manchi una sufficiente indagine empirica19, si può osservare che i temi politici, nel quadro strutturale del sistema politico, non possono venir prodotti e sviluppati a piacere, ma possiedono una sorta di storia di vita che, come la vita stessa, può percorrere diverse vie e può essere troncata prematuramente, ma può tuttavia essere regolata secondo fasi tipiche. Nelle singole fasi dell’iter di un tema rimangono di volta in volta aperte determinate possibilità, si presentano di volta in volta determinati problemi da risolvere e determinati presupposti di partecipazione da soddisfare; da ciò derivano strutturate possibilità d’azione per coloro che promuovono il tema, lo sti-
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molano, lo moderano, lo bloccano o lo vorrebbero condurre su determinati binari20. In genere, i temi politici attraversano, in un primo momento, una fase latente, durante la quale essi già appaiono possibili specialmente agli implicati e agli interessati, e prendono già avvio le attività che precedono la loro nascita; durante la quale, però, non si può ancora presumere che i politici, o addirittura i non-politici, conoscano il tema e siano disposti a occuparsene. Alcuni già intuiscono l’oggetto in questione; spesso però manca ancora il termine per designarlo – zone verdi, sinistra extraparlamentare, rivalutazione della moneta, riforma universitaria, cogestione delle imprese, vaccinazione anti-polio, misure di prevenzione degli infortuni stradali ecc. – sotto il quale il tema inizierà il suo iter e potrà cominciare a essere dibattuto. Non vi è ancora alcuna urgenza di decidere. Nulla deve avvenire. Spesso i temi vegetano a lungo in questa forma iniziale finché non abbiano raccolto la forza necessaria per un iter politico e non sia giunto il momento perché ciò si verifichi (e parecchi temi non lo raggiungono mai). Alcuni temi, però, riescono a sfondare. Ci sono persone audaci alle quali riesce di creare un tema politico, che credono in esso e lo diffondono dedicando tempo, risorse e relazioni personali. Spesso si tratta di uomini isolati, che sono interessati a un particolare tema e che politicamente non hanno molto da perdere; spesso si tratta di principianti che, grazie al tema, iniziano la propria carriera. Essi, se aiutati dalla fortuna, giungono a tanto successo che il tema non occupa più solo coloro che ne sono interessati, ma passa nelle mani di coloro che si occupano di politica servendosi di temi variabili. In questo stadio iniziale i temi possono ancora essere censurati, bloccati o dirottati sui binari secondari delle questioni estranee alla politica; i potenti hanno ancora la possibilità di accettare o respingere il tema. Se però il tema acquista popolarità, diventando di moda, allora esso assume la funzione di una struttura del processo di comunicazione. Esso diviene parte costitutiva dell’opinione pubblica, nel significato
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espresso dal nostro concetto; appare sulla stampa quotidiana in un articolo che presuppone che tutti siano a conoscenza degli antefatti del tema. In virtù della sua autoevidenza, di esso non si può disporre. Disponibile non è più il tema stesso, ma solamente le opinioni e le decisioni sul tema. Ora cambiano i promotori. Nominare il tema e approvarlo non è più rischioso, poiché esso è già passato sulla bocca dei ministri, dei presidenti, dei cancellieri, dei generali. Esso raggiunge il punto culminante del suo iter. Gli oppositori devono ritirarsi verso tattiche di temporeggiamento per guadagnare tempo, e verso un riconoscimento limitato, con riserva; ora i suoi promotori devono tentare di inserirlo nel bilancio o nei programmi decisionali dell’amministrazione. Il tempo per fare ciò è scarso; subito appaiono, infatti, i primi sintomi di stanchezza21, i primi dubbi, le esperienze negative. Si può esprimere il proprio parere anche in pubblico in maniera distaccata, includendo nell’esposizione i problemi in questione. Se nulla avviene nei riguardi del tema, ciò è sintomo di probabili difficoltà che non mancheranno di presentarsi. Poco dopo il tema perde d’interesse. Gli esperti gli voltano le spalle. Esso si sclerotizza e assume un’importanza soltanto rituale, divenendo un simbolo di buona volontà di fronte al quale tutti s’inchinano in determinate occasioni solenni. Esso appare nei discorsi ufficiali, nelle relazioni sulla produzione aziendale e negli indirizzi di saluto; oppure assume la forma di un vecchio sogno irrealizzato, che ha bisogno di scandali per ridestare, di tanto in tanto, l’attenzione – per esempio, l’impedimento della speculazione edilizia. Colui che s’impegna ancora con slancio per il tema, dimostra solo di non essere aggiornato. Il tema è decaduto e non è più in grado di dare impulso a mutamenti; in ogni caso, non può essere rianimato al pari dei temi che non sono mai nati, poiché la sua storia impedisce ogni suo rinnovamento. Se il tema non ha risolto i suoi problemi, deve essere rigenerato come tema nuovo. La più importante caratteristica di tale processo è forse la diminuzione della distanza fra tema e opinione oppure
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fra tema e decisione. La storia della vita di un tema è, al tempo stesso, una storia di consolidamento e di concretizzazione di significato. In tale concretizzazione la storia del tema assume il significato del tema stesso: oggi non si può propagandare una “riforma dell’amministrazione” senza conoscere, comprendere e presupporre come conoscenza altrui ciò che finora è stato tentato ed è fallito sotto questo termine; bisogna opporsi a questa storia, bisogna quindi esigere la “vera”, la “strutturale” riforma amministrativa “a medio termine”, “che non deve più essere solo”. La storia del tema, mantenuta nel significato del tema stesso, lo concretizza, e colma quella distanza tra regole dell’attenzione e regole della decisione che avevamo illustrato nel precedente paragrafo. La tendenza verso la formazione di opinioni e verso la decisione è propria dei temi politici dell’opinione pubblica, senza che essi stessi siano opinioni o decisioni. Il sistema politico non può interessarsi contemporaneamente di troppi temi; bisogna accantonarne alcuni per far posto ai nuovi, e ciò avviene con un ritmo tale che spesso non rimane il tempo sufficiente per un’adeguata trattazione dei temi stessi. È inoltre necessario che la storia della comunicazione politica appresa come parte costitutiva dei temi diventi struttura e possa essere, di quando in quando, messa da parte mediante la soppressione di vecchi temi e la creazione di nuovi. In tal modo s’impedisce che i temi della prassi politica quotidiana rimangano nell’astrattezza di valori integrati; essi giungono, almeno in parte, alla decisione. D’altra parte questo tipo di mobilità dei temi non garantisce sufficientemente, almeno per ora, riforme strutturali di natura durevole. La teoria liberale aveva riconosciuto l’instabile fluttuare dell’opinione pubblica, ma non aveva potuto approvare la sua labilità, né era riuscita a spiegare e a integrare la sua funzione; aveva perciò confidato nel progresso. Infine essa aveva continuato a cercare un significato costante come fondamento della prassi decisionale politica, se non proprio delle verità nel senso delle scienze moderne, almeno delle opinioni razionalmente fondate, universalmente valide. Muovendo
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da questa premessa l’opinione pubblica, secondo la più antica teoria liberale, poté manifestare, nel nome di costanti razionali comuni a tutti gli uomini, una pretesa di dominio, in pratica quella della borghesia in ascesa. Dato il carattere ideologico di questa pretesa, tale teoria dovette limitarsi a una funzione di critica e di controllo, che dà o nega rilevanza al tema in questione. Non si poteva ancora pensare che il dominio si fondasse sulla possibilità di compiere variazioni, il potere sulla possibilità di esercitare influenze. Così l’opinione pubblica ottenne il suo posto accanto al dominio politico inteso come il vero e proprio centro del sistema politico. Quest’ultimo veniva concepito, come in precedenza, alla stregua di un sistema di cariche politiche, e non come un processo di comunicazione strutturato. Questi assunti devono essere sottoposti a verifica. La normale conduzione del sistema politico di una società altamente complessa può essere esercitata solo da meccanismi che mostrano una corrispondente varietà, che sono in grado di organizzare uno scambio di argomenti di comunicazione ricollegandoli a esigenze strutturali più generali (per esempio a quelle della differenziazione del sistema). Nella misura in cui la struttura dei temi del processo politico di comunicazione, che noi definiamo col termine d’opinione pubblica, è in grado di compiere effettivamente una tale prestazione, essa assume la funzione di meccanismo-guida del sistema politico che non determina, è vero, né l’esercizio del dominio né la formazione delle opinioni, ma stabilisce i confini di ciò che è di volta in volta possibile. Nel processo politico di comunicazione ogni ruolo, in quanto non può fare a meno della comprensione e della risonanza dei temi, deve adattarsi alla struttura dei temi dell’opinione pubblica ossia alle regole del suo mutamento; esso, quindi, ha bisogno di essere compatibile con l’opinione pubblica. Tale inserimento di temi alterni, e mutabili in se stessi, nella struttura della comunicazione, non può non provocare ripercussioni sugli elementi strutturali, relativamente costanti, del sistema politico. Tali elementi devono essere adeguatamente resi astratti per poter sostenere temi mu-
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tabili. Questi mutamenti possono essere osservati: essi si verificano ora nell’organizzazione di un processo decisionale secondo un certo procedimento, ora nell’istituzionalizzazione di valutazioni astratte. I procedimenti dell’elezione politica, della legislazione parlamentare, della giurisdizione e dell’amministrazione sono disposti in modo tale che la loro forma e l’accettabilità dei risultati rimangono relativamente indipendenti dai tipi di temi trattati22; i procedimenti possono quindi assumersi, almeno in parte, il compito di sostenere e di mutare i temi dell’opinione pubblica di volta in volta attuali. I valori correnti, quali, per esempio, il denaro, la salute, la giustizia, l’arte, l’educazione, la protezione della natura, la pace, la repressione della criminalità, il miglioramento delle comunicazioni, il divertimento ecc., sono tanto astratti che nella discussione di numerosi temi ci si può tranquillamente riferire a essi senza dover temere che qualcuno sia contrario al loro valore in quanto tale. Per il loro riconoscimento non si devono addurre ragioni o motivi personali. Soltanto i rapporti di rilevanza fra i valori e la necessità di una parziale rinuncia a essi vengono di volta in volta messi in discussione e mutano coi temi dell’opinione pubblica (Luhmann 1967b, pp. 531-571). Quest’ultima, nel quadro di costanti punti di vista valutativi, deve essere in grado di organizzare il cambiamento delle preferenze attuali. (…) 6. Passando in rassegna gli aspetti dell’opinione pubblica che sono stati finora osservati – aspetti di tipo materiale, temporale e sociale – ci appare un quadro abbastanza complesso, sia per l’ordine di grandezza (numero dei temi, durata, numero dei partecipanti), sia soprattutto perché ne osserviamo una variabilità, ma non arbitraria, cioè non diffusa in modo puramente casuale. Esistono notoriamente limitazioni strutturali della compatibilità e della variabilità, o, detto in modo più formale, condizioni restrittive delle possibilità dell’opinione pubblica. E queste condizioni non
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risiedono semplicemente nei contenuti delle opinioni, che si possono avere o non avere e che possono essere giusti o errati, ma derivano dal fatto che l’opinione pubblica struttura un sistema sociale e che ciò può avvenire in modi diversi, ma mai in modo casuale. Se questo assunto corrisponde a verità, tali limitazioni strutturali devono poter essere trasformate in considerazioni strategiche; e da esse devono potersi ricavare le condizioni generali di un comportamento efficace e le diverse possibilità di partecipazione al sistema. La loro rappresentazione può essere articolata in linea di massima distinguendo la possibilità di eludere l’opinione pubblica dall’impiego tattico di tale possibilità. L’opinione pubblica può essere elusa nel processo politico solo quando è possibile evitare un’intensa comunicazione con sconosciuti. Una completa eliminazione dell’opinione pubblica in questioni di qualche importanza potrebbe essere oggi molto difficile, a meno che non si giunga a legittimare una segretezza degli organi ufficiali. Più importanti sono le strategie di elusione parziale: si mette il tema a disposizione dell’opinione pubblica, ma solo in ritardo, o soltanto evidenziandone singoli aspetti. Così, accade spesso che determinati propositi vengano portati a conoscenza dell’opinione pubblica solo in un secondo tempo, quando la loro attuazione è già assicurata mediante un contatto diretto con i livelli decisionali competenti, quando per esempio, il ministro delle Finanze ha già espresso la sua approvazione a uno stanziamento conforme al bilancio23. In questo modo i sostenitori di una questione possono evitare il rischio di un rifiuto pubblico; si può dire che essi abbiano già il successo in tasca quando si presentano al pubblico, ma in tal modo sottraggono le linee fondamentali del loro progetto alla discussione pubblica. Un’altra strategia d’elusione parziale non è tanto tipica dell’ambito burocratico quanto piuttosto della stampa. Essa si fonda sulla differenza fra temi e premesse; più precisamente, sulla possibilità di effettuare spostamenti nell’ambito di questa differenza. Le proposizioni usate per presentare un tema possono es-
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sere formulate in modo tale che le questioni preliminari sembrino aver già ottenuto una risposta o in modo tale da sottrarle, grazie alla loro presunta autoevidenza, alla discussione: dei monopoli si parla come fossero un male; un nuovo tema viene presentato, a seconda delle circostanze, come miglioramento strutturale o come mera tattica preelettorale. Questa strategia si serve della manipolazione24 poiché la comunicazione, in riferimento alle sue premesse, rimane unilaterale e senza possibilità di risposta. Tali meccanismi d’elusione, grazie ai limiti inevitabilmente elevati della disattenzione del pubblico, possiedono notevoli possibilità di successo. La portata politica dell’opinione pubblica può essere misurata, tra l’altro, in base al grado d’importanza oltre il quale i temi non possono più essere sottoposti così brevemente all’attenzione del pubblico. Da ciò devono essere distinti, ai fini di una migliore comprensione dell’opinione pubblica, i tentativi di operare con essa, cioè senza eluderla. La tattica che si propone di stimolare i temi dell’opinione pubblica si trova anzitutto a dover superare l’ostacolo dell’attenzione fortemente limitata del pubblico. Ciò comporta sia la necessità di ricorrere ad altri mezzi, particolarmente drastici, per ottenere un aumento d’attenzione e per incoraggiare determinate opinioni riguardanti il tema in questione, sia la nascita di problemi nel passaggio da una fase all’altra. Una soluzione relativamente inopportuna sarebbe, per esempio, quella di attivare l’attenzione del pubblico gettando volantini e arrivare subito dopo con cartelle e documenti di lavoro; in questo tipo di azione si dovrebbe almeno provvedere a uno scambio delle persone che agiscono nei due momenti, e ciò presuppone un’organizzazione. Possibilità di combinazione più astratte, ma più delicate quanto alla loro applicazione, vengono offerte dalla produzione di pseudo-crisi, pseudonovità o pseudo-sintomi della volontà dell’elettorato, che poi possono venir utilizzati come fondamento di un’argomentazione fondata su fatti reali; ciò, a sua volta, è possibile solo per un numero di temi molto limitato. Una terza possibilità, quella di provocare la comunicazione di un uo-
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mo politico altolocato, non è accessibile a tutti e viene inoltre ostacolata dal fatto che Egli normalmente sa e analizza assai bene ciò che esce dalla Sua bocca. A queste difficoltà, che derivano dalla differenza materiale fra regole dell’attenzione e regole della decisione, se ne aggiungono altre in connessione alla mobilità dei temi. Un fattivo contributo alla mobilità di un tema presuppone, come minimo, che se ne conosca la storia e le condizioni e che ci si tenga informati (o se ne venga informati). Il singolo individuo può fare ciò solo per pochi temi o solo con l’aiuto di un apparato che gli fornisca la “documentazione” di volta in volta necessaria25. Mediante la mobilitazione dei temi, le esigenze di una comunicazione dotata di senso aumentano a tal punto che possono essere soddisfatte solo in un contesto ristretto o con particolari accorgimenti. Infine, anche nella dimensione sociale, che attraverso l’istituzionalizzazione del tema dovrebbe essere assicurata come possibile oggetto di comunicazione, emergono particolari esigenze di sapere differenziato e di abilità tattica. L’istituzionalizzazione del tema non garantisce ancora alcuna effettiva, e tanto meno concorde, cooperazione al tema. Nel caso di temi noti, se ne può supporre la conoscenza, o l’impossibilità di sostenere la mancanza di conoscenza, utilizzandola come fondamento della comunicazione: si chiede una firma contro leggi eccezionali d’ordine pubblico senza che occorra spiegare cosa s’intenda per ordine pubblico e perché sia possibile abusare di tali leggi. In questo modo, però, non si ottiene molto; soprattutto non si giunge a consolidare determinate opinioni e decisioni. A tale scopo occorre poter prendere in considerazione i canali sociali attraverso i quali si diffondono e si consolidano le opinioni, e occorre poter valutare la disponibilità a sostenere un tema con determinate opinioni. Ciò presuppone una conoscenza molto concreta della scena politica. Tutto questo complesso di elementi porta a un risultato a prima vista paradossale: nelle condizioni descritte si deve tener conto, nell’ambito della politica, di una moltiplicazione di possibilità di comportamento e, contemporanea-
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mente, di una riduzione di possibilità di partecipazione attiva. La problematica e la rispettiva collocazione di temi pubblici nel sistema di comunicazione della politica permettono di volta in volta una pluralità di caratteristiche tattiche, lasciano aperte molte possibilità di sviluppo e inducono, così, all’attività; ma appunto per questo esse sottopongono l’azione comune a esigenze che solo pochi sono in grado di soddisfare. In sostanza, la produzione, la discussione e la ripresa dei temi dell’opinione pubblica diventano una prerogativa dei politici di professione, opportunamente preparati a tale scopo. Ciò che era previsto come management by partecipation diventa partecipation by management, cioè partecipazione di coloro che sanno valorizzare politicamente le informazioni, le situazioni, i legami, il numero dei voti e, non da ultimo, anche se stessi. Ci si può chiedere quali gruppi sociali, in queste circostanze, abbiano qualche possibilità di partecipazione che non sia soltanto passiva. I militari, per esempio, sono troppo abituati a un ambiente sociale privo di turbamenti, poco mutevole, per poter operare con successo nel sistema politico di comunicazione dell’opinione pubblica. Ai professori manca, per lo più, la capacità di subire influenze politiche. Gli studenti vengono considerati come persone ancora immature, perciò non vengono presi in seria considerazione come portatori di comunicazioni. Il significato politico di tali gruppi sembra, quindi, sintomo di una politica sottosviluppata, del fatto che la comunicazione politica non ha ancora raggiunto quel grado di complessità che sarebbe necessario per un costante adattamento allo sviluppo della società odierna. In questo modo viene confermata la nostra ipotesi circa l’esistenza di un rapporto tra differenziazione e complessità dei sottosistemi sociali. L’aumento di complessità dipende dalla formazione del sistema, quindi dall’ulteriore differenziazione sociale (Luhmann 1968). D’altra parte, appare ora più chiaramente che la crescente complessità di un sottosistema contribuisce alla sua ulteriore differenziazione e stabilisce i confini del sistema. Un comportamento dotato di senso dell’opinione pub-
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blica nel sistema di comunicazione richiede una riduzione dell’elevata complessità e richiede, soprattutto, un superamento della barriera del poter-anche-vivere-diversamente-e-agire-diversamente dagli altri, e diventa tanto ricco di condizioni e di difficoltà da rendere necessario un reclutamento nel sistema stesso; e ciò significa anche una socializzazione più o meno impercettibile nel sistema. Le posizioni e i ruoli estranei al sistema offrono, tutt’al più, possibilità d’accesso, ma nessun fondamento adeguato per una partecipazione attiva e duratura alla vita politica. Da ciò si potrebbe dedurre che l’opinione pubblica si sia ridotta a mezzo di comunicazione interno al sistema politico, al linguaggio usato dai politici nelle loro relazioni, a strumento delle loro reciproche contese, e abbia perso ogni funzione sociale; che l’opinione pubblica, insieme col sistema politico, sia stata, per così dire, differenziata dal mondo della vita, non specificato quotidianamente, dell’intera società. Questo sarebbe, tuttavia, un giudizio troppo affrettato. La questione implica interrogativi molto complessi, finora chiariti in modo insufficiente, intorno alla teoria generale dei sistemi sociali. Di essi dobbiamo occuparci concludendo – non per presentare subito risposte valide, ma per mostrare in che misura un’adeguata comprensione dell’opinione pubblica dipenda dall’ulteriore elaborazione di una teoria dei sistemi sociali molto più astratta. 7. Comunemente s’immaginano i sistemi sociali in maniera troppo concreta, per così dire reificata. La loro identità, tuttavia, non si fonda su un rapporto naturale di uomini o azioni, ma su regole di delimitazione e di correlazione che guidano l’elaborazione dell’esperienza umana dotata di senso. L’ulteriore differenziazione dei sottosistemi sociali deve, quindi, essere concepita come dipendente da tali regole di delimitazione e di correlazione che sono presenti nell’intero sistema sociale26. La differenziazione, perciò, non porta mai a uno sradicamento dal contesto della co-
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municazione sociale; essa deve essere vista, piuttosto, come regolatrice di questo contesto, come struttura che, mediante differenziazione (non però mediante invalicabili barriere interne), permette di raggiungere e di controllare una complessità più elevata. La differenziazione dei sottosistemi (o la crescente differenziazione interna del sistema sociale) non deve significare, quindi, che i rapporti causali o comunicativi di questi sottosistemi con il loro rispettivo ambiente sociale debbano venir spezzati o mantenuti entro limiti relativamente modesti27. L’identità e l’autonomia dei sottosistemi non dipendono dal fatto che essi comunichino esclusivamente o prevalentemente al loro interno; esse si fondano sulla riconoscibilità e sull’osservanza delle regole secondo le quali le comunicazioni producono operazioni selettive e s’inquadrano in determinati sistemi secondo il tipo e la direzione della selezione28. Perciò, la quantità di comunicazione e di reciproca dipendenza o indipendenza fra i sistemi deve essere considerata come una questione aperta, da risolversi in maniera diversa a seconda delle circostanze. In relazione a tale impostazione della teoria sistemica, che qui non può essere sufficientemente fondata, è impossibile considerare l’opinione pubblica esclusivamente come parte del sistema politico. Esiste tuttavia un particolare rapporto tra opinione pubblica e sistema politico che deve essere illustrato più dettagliatamente. I temi, anche quelli politici, dell’opinione pubblica vengono costituiti in modo relativamente indipendente dal contesto (e quindi in modo “astratto”). Essi possono venir discussi non soltanto nei rapporti interni al sistema politico, ma anche nella famiglia, nelle sedute del consiglio d’amministrazione, al tavolo degli avventori abituali di un bar, nelle lezioni universitarie ecc. Tuttavia, è noto che la trattazione di un tema politico può avere un contesto apolitico – per esempio si può conoscere l’impossibilità di sollevare qui e ora un certo tema e si può presupporre che su ciò vi sia un certo consenso. La scelta di occasioni e di temi, la direzione della loro articolazione, il tempo che s’im-
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piega per discutere di temi politici in un senso diverso da quello che si avrebbe nel sistema politico sono guidati da una consapevolezza, presente nell’atto della comunicazione, dei limiti del sistema. Grazie all’astrazione dei temi dell’opinione pubblica è possibile stabilire la loro identità e trasmissibilità, e trattare il tema in modo diverso a seconda del contesto del sistema. La struttura dei temi dell’opinione pubblica, pertanto, è dotata di funzioni sia differenzianti sia integranti e, a seconda della complessità sociale, deve presentare il necessario grado di astrazione e specificazione di temi relativamente liberi dal contesto. A conclusione del presente lavoro, questa funzione di mediazione deve essere illustrata sotto due profili, il primo più orientato a processi, il secondo a strutture. L’esistenza di temi politici correnti, contenuti nella discussione, consente di trattare uno stesso argomento in contesti politici e apolitici, e di trasferire opinioni da un contesto all’altro. L’identità del tema, in quanto apertamente indeterminato, dà ampio spazio a facili spostamenti di significato che spesso passano inosservati. Così, nel caso del tema dello studio sulla pace, i politici sembrano pensare a un particolare tipo di ricerca e gli scienziati a un particolare tipo di finanziamento della ricerca. Il processo di trasmissione stesso non ha necessariamente la forma di una comunicazione che supera i confini del sistema: l’arcivescovo si rivolge al ministro del culto, il capo dei sindacati al segretario di un partito. Questa forma di scambio presuppone una complementare corrispondenza di ruoli nei vari sistemi (e in pratica la loro strutturazione gerarchica). Accanto a tale forma esiste un’altra forma d’attivazione dei diversi ruoli che una stessa persona può ricoprire: al tavolo riservato agli avventori abituali si formano le opinioni su cui si fonda la loro decisione di elettori; lo svolgimento di un convegno scientifico dà al professore informazioni, motivi e ragioni utili per mettere a disposizione la sua competenza nella commissione di un ministero; durante la seduta di un consiglio di amministrazione un membro si offre di mettere i suoi rapporti di amicizia con determinati politici
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al servizio di una certa causa29. In questi casi, le comunicazioni politiche e non politiche riguardanti temi politici vengono mediate da combinazioni di ruoli. Anche per questo tipo di mediazione – e non soltanto per le comunicazioni dirette tra i sistemi – è necessaria una prestrutturazione mediante i temi dell’opinione pubblica. Anche al di fuori del sistema politico deve essere possibile valutare, pur con minore necessità, quali temi possano diventare politici, e forse anche quale destino politico essi possano avere in determinate condizioni. Considerando questa funzione di mediazione si può presumere che, nella struttura dei temi dell’opinione pubblica, sia contenuto, in ultima analisi, anche il fondamento della differenziazione e dell’acquisizione d’autonomia funzionale del sistema politico. In altri termini, l’opinione pubblica deve essere in grado di tollerare la distinzione tra politica e non-politica, e una relativa astrattezza e incomprensibilità dei dettagli dei processi politici decisionali. Essa deve essere in grado di produrre temi che, nonostante l’elevata complessità delle interazioni concrete presenti nel contesto del sistema, possano fungere da regola per la continua articolazione di aspettative significative e possano trasformare le esigenze sociali in problemi da decidere politicamente. Il problema risiede nel rapporto tra la selettività dei temi che si vanno formando e la ricchezza di possibilità che deriva dal progressivo aumento della complessità sociale. La concezione predominante, che in ultima analisi può essere ricondotta all’antica tradizione europea della filosofia sociale politica, ha un altro concetto della struttura e un’altra visione del problema. Essa ritiene che l’identità e l’autonomia del sistema politico (considerato come società o come sottosistema sociale) sia costituita attraverso il dominio. In tal modo, il problema viene definito sul piano dei ruoli che, di diritto o di fatto, sono in grado d’impartire e d’imporre ordini. La preminenza del concetto di ruolo nella più recente sociologia contribuisce a rafforzare ulteriormente, piuttosto che a ridurre, questa opzione concettuale30. L’opinione pubblica può al-
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lora assumere la funzione che le attribuì il liberalismo, funzione di critica e di controllo del dominio; intesa in questo modo, essa rimane perciò un contropotere che non può assumere dei ruoli ed è fin dall’inizio più debole. In quest’ottica, allora, la selezione sembra assumere l’aspetto di repressione, senza tenere conto del fatto che essa, in ogni caso, deve aver luogo31. Ci si deve ora domandare se in tal modo non venga colpito il piano strutturale all’interno del quale si decide lo sviluppo dei nostri sistemi politici e, di conseguenza, quello della nostra società. Nessuno negherà che esistono ruoli autoritativi che esercitano il potere sotto forma di competenze di comando o di chances di fatto consolidate. Ma questo potere non può essere concepito in maniera adeguata come causa, come volontà o come interesse32. Il grado della sua libertà rimane in un rapporto di dipendenza dalle strutture del sistema di comunicazione nel quale esso opera. L’opinione pubblica non può dominare e neppure sostituire il detentore del potere. Non gli può prescrivere il modo in cui egli deve esercitare il potere. Il suo rapporto con l’esercizio del potere non è un rapporto di causa ed effetto, ma di struttura e processo. La sua funzione non consiste nel far affermare la volontà – la volontà popolare, quella finzione del semplice pensiero causale – ma nell’ordinare operazioni selettive. Se si considerano le società e i loro ambiti politici funzionali, la comprensione del problema si sposta. Essa punta allora sul rapporto, estremamente complesso, tra i sistemi e il loro ambiente, e cercherà di spiegare le strutture e i processi che rendono possibile una comprensione dotata di senso e una riduzione di questa possibilità. Le strutture traducono la complessità delle multiformi possibilità reali in un linguaggio utilizzabile dal sistema. Se si considera l’opinione pubblica come struttura istituzionalizzata dei temi del processo sociale di comunicazione, essa diventa problematica in due sensi: non solo per quanto riguarda la produzione di una forte pressione d’opinione su coloro che decidono, ma anche per quanto riguarda la capacità
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della struttura di produrre temi. In quest’ottica, l’indeterminatezza e la debolezza esplicativa, la contraddittorietà e la labilità dell’opinione pubblica non appaiono più come carenze, ma come elementi della sua funzione, il cui correttivo deve essere ricercato non in se stessa, ma in altre istituzioni della società e del suo sistema politico, in particolare in quelle istituzioni che assicurano la capacità decisionale dei sistemi. Il duplice aspetto di questa funzione dell’opinione pubblica, il fatto cioè di essere aperta e istruttiva, è correlato all’evoluzione del sistema sociale. Per questo l’opinione pubblica è un fenomeno evolutivo. Essa assume la sua funzione solo quando la società ha raggiunto una complessità e una contingenza tanto elevate che la “guida” dell’ulteriore sviluppo sociale non s’identifica più con le decisioni quotidiane, non può più spettare a singole persone, a gruppi di persone o a ruoli, ma deve essere affidata a una struttura più instabile. Ci si deve ancora domandare se, e fino a che punto, la struttura di guida, ora necessaria, sia ancora unitaria e permetta di produrre effetti d’integrazione. Il termine “opinione pubblica” suggerisce troppa unità, e lo stesso vale per il concetto classico che, secondo il significato letterale del termine, presuppone un soggetto collettivo in grado di pensare. Dietro tali denominazioni sostantive e spiegazioni unidimensionali si manifesta oggi inevitabilmente il problema della complessità del sistema. Per l’accostamento a questo problema si renderanno necessari strumenti concettuali molto più complessi di quelli finora usati nell’indagine sull’opinione. Rimane ancora insoluta la questione se la supposta unità del termine e del concetto d’opinione pubblica non tragga in inganno. Ci si potrebbe avvicinare alla sua soluzione mediante indagini che accertino empiricamente in quale modo nei diversi sistemi sociali e politici i processi accennati d’articolazione materiale, temporale e sociale di temi e opinioni nel processo pubblico di comunicazione siano compatibili e si possano collegare tra loro.
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Da Luhmann 1971, pp. 85-129. L’astrazione funzionalistica non è l’unico metodo di trasformazione dei temi classici. Un tentativo, di natura completamente diversa, di utilizzare concetti quali potere, volontà, coscienza come metafore per indicare fatti quantificabili, e quindi modi di elaborare le informazioni, è stato compiuto da K. W. Deutsch (1966). Entrambi questi tentativi, tuttavia, non hanno ancora risolto i problemi connessi ai fondamenti teorici e alle possibilità di operazionalizzazione. 2 Per una simile trattazione di altri temi vedi N. Luhmann (1965; Condizioni sociali e politiche dello Stato di diritto; 1969a, pp. 149-170; Complessità e democrazia; 1969b). 3 Cfr., in proposito, L. A. Dexter (1955-56, pp. 408-414) e I. Deutscher (1966, pp. 235-254). 4 Così la definisce un noto testo: “‘Public Opinion’ in this discussion may simply be taken to mean those opinions held by private persons which government find it prudent to heed” (Key 1961, p. 14). Cfr. anche Hofstätter (1949); Schmidtchen (1965, p. 337). 5 A lungo, anche se con scarso successo, si è fatto riferimento a ciò. Cfr. Habermas (1962, pp. 261 sgg.). 6 Per il carattere europeo di questa trasformazione vedi Gagnér (1960). 7 Notevole, in questo contesto, è l’importanza del bar o dell’osteria o del club. Habermas, nella sua valutazione, si basa sulla tradizione letteraria. Recenti indagini empiriche hanno dimostrato che questi luoghi rappresentano sistemi sociali d’incontri umani, facilitano i contatti, neutralizzano le differenze di ceto sociale, sciolgono i vincoli con le proprie esperienze e i propri comportamenti precedenti, permettendo, quindi, la comunicazione. Tuttavia, proprio per questo motivo, si tratta solo di “small talk”. Vedi Cavan (1966, pp. 54 sgg.; 1943, pp. 186 sgg. 8 Premessa di tale ipotesi sarebbe l’assunto che un’ulteriore differenziazione dei sottosistemi del sistema sociale sia possibile non su una differenziazione segmentaria, ma soltanto su una differenziazione funzionale, da cui traggono origine diverse parti. Proprio in questa direzione si muove Émile Durkheim (1893). 9 In proposito vedi per una più completa trattazione Luhmann (1967a, pp. 97-123), recentemente pubblicato in Luhmann (1970). 10 Simile, ma limitato a temi trattati in modo controverso, è il concetto di “issues” in Easton (1965, pp. 140 sgg.). La comparabilità si basa sul fatto che anche Easton sottolinea la funzione di riduzione di tali “issues”. Vedi, per lo stesso concetto, anche Spiro (1962, pp. 577-595). 11 Nota che tali comprensioni preliminari fungono ampiamente da verità ovvie della vita quotidiana; vengono però appositamente ignorati e rimangono, perciò, allo stato latente. I temi delle possibili comunicazioni sono soltanto una delle innumerevoli forme di tali verità ovvie. Vedi, in proposito, soprattutto Garfinkel (1967). 12 La mancanza di libertà del manipolato, che viene spesso collegata con il concetto di manipolazione, viene qui esplicitamente esclusa. La comunicazione unilaterale, a cui non può seguire alcuna risposta, non comporta necessariamente una privazione di libertà, né come simbologia sociale della situazione del manipolato, né secondo la sua concezione soggettiva; e questo, poi, non si verifica qualora la manipolazione produca effetti altamente sicuri. Ciò 1
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accade perché, nonostante tutto, il manipolato, nell’orizzonte delle sue possibilità e secondo i propri criteri, può scegliere e accettare la manipolazione nella misura in cui egli si sia costruito, anticipatamente, le proprie possibilità di esperienza e di azione. Cfr. in proposito Mackay (1968, pp. 147-156; 1967). Presumibilmente, la comunicazione interattiva può comportare una privazione di libertà addirittura maggiore della manipolazione, in quanto essa induce ad assumersi l’orizzonte di possibilità del partner come limitazione delle proprie possibilità e a impegnarsi obbligatoriamente dinanzi all’altro. In tali condizioni sarebbe opportuno rinunciare a qualsiasi tipo di valutazione aprioristica dell’interazione e della manipolazione, lasciando aperta la questione sul particolare tipo di comunicazione che può essere considerato veramente funzionale in determinati contesti sistemici psichici e sociali. 13 Fra le ragioni si devono annoverare: l’insufficienza di strumenti analitici, vale a dire la mancanza di una teoria dell’opinione pubblica; la diffusione universale e la conseguente autoevidenza del fenomeno; e, non ultimo, il fatto che questa tecnica della manipolazione venga preferita proprio dai più sprovveduti oppositori della manipolazione. 14 Come ulteriore tentativo di natura puramente concettuale, oggi, per altro poco convincente, vedi Tönnies (1922, pp. 131 sgg.). 15 Indipendente non significa, però, che l’aumento o la diminuzione di complessità dei sistemi non abbiano cause che possono essere esaminate, quanto piuttosto che l’adattamento a una mutata complessità in generale non dipende dalle cause che, nel singolo caso, hanno determinato la trasformazione. 16 Il concetto di “regola” è qui inteso in senso lato come il concetto di grammatica nella teoria linguistica; esso non presuppone alcuna consapevolezza della regola nella sua applicazione. 17 Fino a che punto esista un collegamento storico tra opinione pubblica e coscienza della crisi deve essere ulteriormente chiarito, al di là del contributo di Koselleck (1959). 18 A proposito della previsione della soglia di pericolosità e della possibilità di guadagnare tempo mediante la programmazione dei sintomi della crisi, cfr. alcune osservazioni di Vickers (1959, p. 94). 19 Materiali sugli “issues” del processo di comunicazione politica e di decisione vengono forniti dalle indagini americane sul Community Power. 20 Come paragone, vedi il modello a fasi dei movimenti sociali che ha tracciato Smelser (1963). Altri paragoni possono essere fatti anche con la successione di crisi determinata da fattori socio-strutturali, teleologizzazione e quotidianizzazione, illustrata da Rammstedt (1966). Questi paralleli dovrebbero essere studiati con particolare attenzione, cercando soprattutto di chiarire quali presupposti permettano o impediscano al movimento dell’opinione pubblica di diventare un movimento sociale. 21 Ai sintomi di stanchezza che possono manifestarsi nell’opinione pubblica (intesa in senso socio-psicologico), e alla conseguente pressione temporale che si verifica nell’ambito della politica, hanno fatto riferimento anche Allport e Faden (1940, pp. 687-704). Il punto cruciale della loro tesi consiste nella convinzione che con l’intensità dei sentimenti in causa aumenti anche la pressione esercitata dall’opinione pubblica verso la risoluzione di una determinata questione.
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22 A questo riguardo, per una trattazione più approfondita, vedi Luhmann (1969). 23 È necessario verificare più attentamente le condizioni che determinano tale iter del tema. Una condizione sembra essere la natura stessa del problema politico, qualora esso consista non tanto nella valutazione dei fini, quanto nell’approvazione dei mezzi. 24 Nel senso definito al § 2. 25 Vedi inoltre le osservazioni di Gerhard Storz (1965) nel suo discorso inaugurale per la 15a Giornata dei sociologi tedeschi. 26 Non quindi, come spesso si ritiene, come operazione scientifica puramente analitica. 27 Così Deutsch (1966), il quale propone di misurare i limiti del sistema mediante la discontinuità di comunicazione. 28 Questo, in parte, è proprio un problema di percezione. Cfr. in proposito Campbell (1958, pp. 14-25). 29 Atti di questo tipo, in quanto non accessibili a tutti, vengono normalmente considerati come contrapposti all’opinione pubblica. Tuttavia l’ambiente del sistema politico non è privo di strutture (non è, per esempio, una massa di individui uguali che calcolano razionalmente), e quindi le possibilità di comunicazione all’interno di esso non possono essere distribuite in maniera eguale e non possono essere accessibili a tutti. L’uguale partecipazione di tutti costituisce, come postulato, una contraddizione alla realtà di una società differenziata. Il mantenimento di questa concezione del principio di eguaglianza come caratteristica concettuale dell’opinione pubblica, implica la rinuncia alla sua funzione di struttura nei processi politici e apolitici di comunicazione. Implica inoltre la messa in ombra, anzi, l’eliminazione, attraverso una definizione valutativa, del problema del sistema che viene risolto dall’opinione pubblica. Il problema del sistema consiste nel raggiungimento di un’effettiva strutturazione del processo di comunicazione politica relativa a una situazione sociale, e nella conseguente integrazione nella società del sistema politico, nonostante un’efficiente differenziazione funzionale. Per questo i temi devono essere adatti all’opinione pubblica, nel caso sia di comunicazione pubblica che di comunicazione non pubblica. Solamente questa impostazione del problema (e non un pregiudizio astratto, basato sul diritto naturale, su possibilità politiche uguali per tutti), permette una critica dotata di senso di quell’opinione pubblica che, di volta in volta, nasce in seno a una società. 30 È significativa, ad esempio, per la posizione di Ralf Dahrendorf, ma, naturalmente, è altrettanto determinante per i critici più estremi del potere. 31 “Se consideriamo le esigenze politiche articolate come la ‘materia prima’ del processo politico, in quanto devono essere elaborate e controllate come ‘dati esterni’ da parte delle istituzioni del sistema politico, allora, dalla selettività delle istituzioni, che hanno il compito di trasmettere tali esigenze, si può valutare il carattere repressivo di un sistema politico…”, sostiene Offe (1969) nel suo pregevole saggio. 32 Per l’esposizione di questa critica vedi Luhmann (1969a).
L’opinione pubblica non esiste* Pierre Bourdieu
Io dico che opinare significa parlare e che l’opinione consiste in un discorso esplicitamente pronunciato. Platone, Teeteto, 190a
Desidero innanzi tutto precisare che il mio proposito non è quello di denunziare in modo meccanico e sbrigativo i sondaggi d’opinione. Se è indubbio che i sondaggi d’opinione non sono ciò che si vuol far credere, essi non sono nemmeno ciò che comunemente si dice quando s’intende demistificarli. I sondaggi possono dare un contributo utile alla scienza sociale a condizione di essere trattati in modo rigoroso, cioè con particolari precauzioni. In altre parole, non è mia intenzione mettere sotto accusa chi si occupa dei sondaggi d’opinione: costoro fanno un certo mestiere che, se non è riducibile a una pura e semplice vendita di prodotti, non è nemmeno del tutto identificabile con una vera e propria ricerca scientifica.
I tre postulati impliciti Dopo questo preambolo, vorrei enunciare i postulati che dobbiamo esaminare per poter giungere a un’analisi rigorosa e fondata dei sondaggi d’opinione. Questi postulati sono tre. Innanzi tutto, ogni ricerca d’opinione presuppone che tutti possono avere un’opinione; oppure, in altre parole, che la produzione di un’opinione è alla portata di tutti. Pur sapendo di urtare un sentimento ingenuamente democratico, intendo contestare questo primo postulato. Secondo postulato: si presuppone che tutte le opinioni si equivalgano; ritengo di essere in grado di dimostrare che le cose non stanno così, e che il fatto di accumulare delle opi-
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nioni che non hanno per nulla la medesima forza reale porta a una distorsione assai marcata. Terzo postulato implicito: nel semplice fatto di porre a tutti la stessa domanda è implicita l’ipotesi che esista un consenso sui problemi; in altre parole, che esista un accordo sulle domande che meritano di essere poste. Questi tre postulati implicano, mi sembra, tutta una serie di distorsioni che si possono osservare anche quando tutte le condizioni del rigore metodologico sono state rispettate nella raccolta e nell’analisi dei dati. Si muovono spesso rimproveri tecnici ai sondaggi d’opinione. Per esempio, si mette in dubbio la rappresentatività dei campioni. Penso che, dato lo stato attuale dei mezzi utilizzati dagli uffici di produzione dei sondaggi, l’obiezione non sia davvero fondata. Si rimprovera loro anche di porre domande indirette, o meglio, di truccare le domande nella loro formulazione: questo è già più vicino alla verità e capita spesso, infatti, che si suggerisca la risposta attraverso il modo di porre la domanda. Così, per esempio, trasgredendo al precetto elementare che deve guidare la compilazione di un questionario, cioè quello di lasciare a tutte le risposte possibili la stessa probabilità, si omette spesso nelle domande, o nelle risposte proposte, una delle opzioni possibili, oppure, ancora, si propone parecchie volte la stessa opzione sotto formulazioni diverse. Non si è mai del tutto sicuri, salvo quando si fa un’inchiesta preliminare, d’aver previsto tutto l’universo delle possibili risposte, e quelle solamente. Si può anche prevedere più volte la stessa risposta, ciò che dà una maggiore probabilità alla risposta che è stata proposta più spesso; oppure e ancora, tra le risposte previste può capitare di omettere una risposta particolarmente importante togliendole così probabilità di comparizione.
Le problematiche obbligate Penso, dunque, che esistano possibilità di errori di questo tipo e sarebbe interessante chiedersi quali siano le con-
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dizioni sociali che determinano la comparsa di tali errori. Il sociologo suppone che nulla è dovuto al caso e che questi errori si possono spiegare. Il più delle volte essi sono dovuti alle condizioni in cui lavorano le persone che preparano i questionari. Ma vi sono anche altri ostacoli: c’è il fatto che le problematiche proposte dagli istituti di sondaggi d’opinione sono subordinate a una richiesta di tipo particolare. Chiedersi quali sono i principi generatori di queste problematiche significa domandarsi chi è in grado di pagarsi un sondaggio d’opinione. Avendo cominciato ad analizzare una grande inchiesta nazionale sull’opinione che hanno i francesi del sistema di insegnamento, e poiché avevamo a che fare con un campione spontaneo di risposte suscitate da un questionario diffuso da tutta la stampa francese, abbiamo voluto controllare la validità del nostro campione, e abbiamo rilevato negli archivi di un certo numero di istituti specializzati, tra cui l’IFOP, la SOFRES ecc., tutte le domande riguardanti l’insegnamento. Questa ricerca ci ha fatto notare che più di duecento domande sul sistema d’insegnamento sono state poste dopo il maggio 1968, mentre meno di una ventina tra il 1960 e il 1963. Ciò significa che le problematiche che s’impongono a questo tipo di organismo sono profondamente legate alla congiuntura e sono dominate da un certo tipo di richiesta sociale. In altre parole, i problemi che vengono posti sono problemi che s’impongono come problemi politici. La questione dell’insegnamento, per esempio, può essere posta da un istituto d’opinione pubblica soltanto quando diventa un problema politico. Si nota immediatamente la differenza che divide queste istituzioni dai centri di ricerca, i quali concepiscono le loro problematiche, se non proprio in un cielo puro, in ogni caso con un distacco molto maggiore rispetto alla domanda sociale nella sua forma diretta e immediata. Un’analisi statistica sommaria delle domande poste ci ha fatto notare che la maggior parte di esse era direttamente legata alle preoccupazioni politiche del “personale politico”. La domanda: “Si deve introdurre la politica nei
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licei?” (o le sue varianti) è stata posta molto spesso, mentre invece la domanda: “Si devono modificare i programmi?”, oppure: “Si deve cambiare il modo di trasmettere i contenuti?” è stata posta molto raramente. Così pure: “Si devono riciclare gli insegnanti?”. Si tratta, come si può vedere, di domande altrettanto importanti, perlomeno da un altro punto di vista.
Le funzioni del sondaggio Le problematiche che vengono poste dai sondaggi d’opinione sono problematiche interessate. Ogni problematica è interessata ma, nel caso specifico, gli interessi che sostengono queste problematiche sono interessi politici e ciò impone che ci si chieda, con gran forza e nello stesso tempo, sia il significato delle risposte sia il significato che viene dato alla pubblicazione delle risposte. Il sondaggio d’opinione è, allo stato attuale, uno strumento di azione politica; la sua funzione più importante consiste forse nel creare l’illusione che esista un’opinione pubblica come pura addizione di opinioni individuali. L’“opinione pubblica” che è manifestata sulle prime pagine dei giornali sotto forma di percentuale (il 60 per cento dei francesi sono favorevoli a…), questa opinione pubblica è un artificio puro e semplice la cui funzione consiste nel dissimulare il fatto che lo stato dell’opinione, in un determinato momento, è un sistema di forze, di tensioni e non vi è nulla di più inadeguato di un calcolo percentuale per rappresentare lo stato dell’opinione. Si sa che i rapporti di forza non si riducono mai soltanto a meri rapporti di forza: ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso che mira a legittimare la forza di colui che lo esercita; si può addirittura affermare che la particolarità di ogni rapporto di forza consiste nel dissimularsi come rapporto di forza e di esprimere tutta la sua forza soltanto nella misura in cui riesce a dissimularsi come tale. In breve, per dirla in modo semplice, l’uomo politico
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è colui che dice: “Dio è con noi”. L’equivalente di “Dio è con noi” è oggi “l’opinione pubblica è con noi”. L’effetto fondamentale del sondaggio d’opinione è questo: si costruisce l’idea che esiste un’opinione pubblica unanime per legittimare una politica e rafforzare i rapporti di forza che ne stanno alla base o la rendono possibile.
Le non-risposte Poiché ho espresso all’inizio quanto volevo dire alla fine, proverò a indicare molto rapidamente quali sono le operazioni per cui si produce questo effetto di consenso. La prima operazione, che ha come punto di partenza il postulato secondo il quale tutti devono avere un’opinione, consiste nell’ignorare le non-risposte. Da qualche tempo a questa parte, invece di dire: il 50 per cento dei francesi sono per la soppressione delle ferrovie, i giornali dicono il 50 per cento dei francesi sono per, il 40 per cento sono contro e 10 per cento non hanno un’opinione. Ma questo non basta. Per esempio, chiedete alla gente: “Siete favorevoli al governo Pompidou?”. Registrate un 30 per cento di nonrisposte, 20 per cento sì, 50 per cento no. Quindi potete affermare: la parte della gente contraria è superiore a quella favorevole e poi c’è quel residuo di 30 per cento. Oppure potete anche calcolare di nuovo i favorevoli e gli sfavorevoli escludendo le non-risposte. Questa semplice scelta è un’operazione teorica di straordinaria importanza e sulla quale desidererei soffermarmi. Eliminare le non-risposte è fare ciò che si fa in una consultazione elettorale quando ci sono delle schede bianche o nulle; è imporre al sondaggio d’opinione la filosofia implicita nel sondaggio elettorale. Se guardiamo più da vicino, possiamo osservare che il tasso delle non-risposte è generalmente più elevato tra le donne che tra gli uomini, che lo scarto tra le donne e gli uomini è tanto più alto quanto più i problemi posti sono di ordine propriamente politico, a tal punto che in un elenco di domande varie, per determinare
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se una domanda poteva essere considerata come politica o non politica ci è bastato successivamente valutare l’importanza dello scarto delle non-risposte tra uomini e donne. Un altro indice: più una domanda verte su problemi del sapere, della conoscenza, maggiore è lo scarto tra le non-risposte delle persone più istruite e quelle meno istruite. Un’altra osservazione: quando le domande vertono sui problemi etici, lo scarto delle non-risposte tra le classi sociali è minimo (per esempio: “Dobbiamo essere severi con i bambini?”). Altra osservazione ancora: tanto più una domanda propone problemi conflittuali, si riferisce cioè a un nodo di contraddizioni (per esempio, una domanda sulla situazione in Cecoslovacchia per le persone che votano comunista), tanto più quella domanda è generatrice di tensioni per una determinata categoria, tanto maggiore è la frequenza delle non-risposte in questa categoria. In altre parole, la semplice analisi statistica delle non-risposte ci offre un’informazione su ciò che significa la domanda e, allo stesso tempo, anche sulla categoria presa in considerazione, essendo quest’ultima definita tanto dalla probabilità di avere un’opinione che le viene attribuita quanto dalla probabilità condizionale di avere un’opinione favorevole o sfavorevole.
L’imposizione della problematica L’analisi scientifica dei sondaggi d’opinione mostra che, praticamente, non esiste un problema omnibus; non esiste cioè domanda che non sia reinterpretata in funzione degli interessi o dei non-interessi delle persone a cui è stata posta, perciò il primo imperativo è chiedersi a quale domanda le diverse categorie degli intervistati hanno creduto di rispondere. Uno degli effetti più dannosi del sondaggio d’opinione consiste proprio nel mettere gli individui in condizione di rispondere a domande che essi non si sono mai posti o, ancora, di rispondere a una domanda diversa dalla risposta avanzata, poiché l’interpretazione non fa altro che registrare l’equivoco.
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All’inizio, dicevo che i sondaggi d’opinione potevano essere riutilizzati scientificamente: ma ciò presuppone delle precauzioni che le condizioni sociali nelle quali lavorano gli uffici di studio escludono. I giornalisti che cercano soluzioni semplici semplificano i dati già semplificati che sono stati loro trasmessi, e quando si arriva al pubblico il risultato è questo: “50 per cento dei francesi sono per la soppressione delle ferrovie”. Un’interpretazione rigorosa dei sondaggi di opinione supporrebbe un quesito epistemologico su ognuna delle domande fatte e, in più, sul sistema di tali domande, poiché soltanto l’analisi del sistema completo di risposte può permettere di rispondere alla richiesta di sapere a quale domanda gli intervistati hanno risposto. Così accade per le domande che riguardano problemi di morale, sia che si tratti di domande sulla severità dei genitori, sia sui rapporti tra insegnanti e studenti o sulla pedagogia direttiva o non-direttiva ecc., problemi che sono maggiormente considerati problemi etici quanto più si scende nella scala sociale ma che, per le classi superiori, possono essere problemi politici: uno degli effetti di distorsione dell’indagine consiste nel trasformare, mediante la semplice impostazione della problematica, risposte etiche in risposte politiche.
I due principi di produzione delle opinioni Esistono molti principi sulla cui base si può concepire una risposta. C’è, prima di tutto, ciò che si può definire la competenza politica in riferimento a una definizione della politica arbitraria e legittima nello stesso tempo, cioè dominante e dissimulata come tale. Questa competenza politica non è universalmente diffusa; varia, grosso modo, come livello d’istruzione. In altre parole, la probabilità di avere un’opinione su tutte le domande che presuppongono una conoscenza della politica è abbastanza simile alla probabilità di visitare un museo; vale a dire che essa è in funzione del livello d’istruzione. Si notano delle varianti straordina-
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rie: là dove uno studente impegnato in un movimento di estrema sinistra scorge quarantacinque separazioni a sinistra del PSU, per un quadro amministrativo medio, invece, non c’è nulla. Nelle elezioni si pensa sempre alla scala politica, estrema sinistra, sinistra, centro-sinistra, centro, centro-destra, destra, estrema destra ecc. Uno dei dati importanti messo in rilievo da un nostro test è che tutto si svolge come se le diverse categorie sociali utilizzassero in modo molto diverso questa scala che le ricerche di “scienza politica” usano abitualmente. Certe categorie sociali utilizzano intensamente un piccolo settore dell’estrema sinistra; altre utilizzano soltanto il centro; altre ancora utilizzano tutta la scala; infine risulta che un’elezione è l’aggregazione di spazi del tutto differenti; si sommano individui che misurano in centimetri con altri che misurano in chilometri o, meglio, individui che contano da 0 a 20 con individui che contano da 9 a 11. La competenza si misura, tra l’altro, dal grado di acutezza di percezione (lo stesso avviene nel campo estetico, in cui certe persone sono in grado di distinguere le cinque o sei maniere successive di un solo pittore). Questo paragone può essere spinto più lontano. Anche per la percezione estetica esiste una condizione permissiva: la gente deve immaginare un’opera d’arte come tale; poi, dopo averla intesa come opera d’arte, deve possedere alcune categorie di percezione per costruirla, strutturarla ecc. Immaginiamo una domanda così concepita: “Siete per un’educazione direttiva o per un’educazione non-direttiva?”. Questa domanda può essere costruita come domanda politica poiché la rappresentazione dei rapporti genitori-figli s’integra in una visione sistematica della società. Da alcuni la domanda può essere intesa come politica; per altre persone si tratta di una pura questione morale. Nel questionario, di cui vi ho parlato, noi chiediamo alla gente: “Considerate politico o no fare uno sciopero, portare i capelli lunghi, partecipare a un festival pop ecc.?” per vedere come le persone utilizzano questa dicotomia; e, naturalmente, si possono notare profonde variazioni a seconda delle classi sociali.
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La prima condizione è, dunque, quella di essere capaci di costruire una domanda come una domanda politica; la seconda è di essere capaci, dopo averla costruita come tale, di applicare a essa delle categorie propriamente politiche, che possono essere più o meno adeguate, più o meno raffinate ecc. Queste sono le condizioni specifiche della produzione delle opinioni, condizioni che il sondaggio d’opinione presuppone come universalmente e uniformemente assolte mediante il primo postulato secondo il quale tutti possono produrre un’opinione. Il secondo principio che sta alla base della produzione di un’opinione è quello che io definisco l’“ethos di classe” (per non dire l’“etica di classe”), vale a dire un sistema di valori impliciti che gli individui hanno interiorizzato sin dall’infanzia e che genera le loro risposte ai più disparati problemi. Per esempio: sono convinto che la coerenza e la logica delle opinioni che le persone potrebbero scambiarsi al termine di una partita di calcio tra il Roubaix e il Valenciennes sia dovuta in parte all’ethos di classe. È molto probabile che giudizi come: “È stato un bel gioco ma troppo duro” oppure “È stato un gioco efficace ma brutto”, giudizi che sembrano arbitrari come i gusti e i colori, sono generati in realtà da quel principio del tutto sistematico che è l’ethos di classe.
Il dirottamento del senso Una quantità di risposte che sono considerate risposte politiche sono prodotte in realtà dall’ethos di classe e, allo stesso tempo, possono essere rivestite di tutt’altro significato quando vengono interpretate sul terreno politico. Cercherò di spiegare ciò che intendo e vedrete che quanto ho appena detto non è per nulla astratto e irreale. A questo punto devo riferirmi a una tradizione sociologica diffusa soprattutto tra alcuni sociologi della politica negli Stati Uniti, i quali parlano spesso di un certo conservatorismo e autoritarismo delle classi popolari. Queste tesi si fondano
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sul confronto internazionale dei risultati di sondaggi o di elezioni, che tendono a dimostrare che in qualsiasi paese le classi popolari danno sempre risposte più autoritarie di quelle delle altre classi sociali quando le s’interroga su problemi riguardanti i rapporti d’autorità, la libertà individuale, la libertà di stampa ecc.; e se ne conclude che esiste un conflitto tra i valori democratici (per Lipset, si tratta di valori democratici americani) e quelli che le classi popolari hanno interiorizzato, ossia valori di tipo autoritario e repressivo. Da tutto ciò risulta una sorta di visione escatologica: poiché la propensione alla repressione, all’autoritarismo ecc. è legata agli introiti bassi e ai bassi livelli di istruzione, elevando il tenore di vita e il livello dell’istruzione potremo formare i buoni cittadini della democrazia americana, e non avremo più quei partiti comunisti come ce ne sono in Italia e in Francia. A mio avviso il problema sta proprio nel significato delle risposte a un certo tipo di domande. Immaginiamo un insieme di domande di questo genere: “Siete favorevoli all’eguaglianza fra i sessi? Siete favorevoli a un’educazione non repressiva? Siete favorevoli alla nuova società?” ecc. Supponiamo anche domande del tipo: “i professori devono scioperare quando il loro posto di lavoro è minacciato? Gli insegnanti devono essere solidali con gli altri funzionari nei periodi di conflitti sociali?” ecc. Questi due gruppi di domande producono risposte di struttura strettamente inversa rispetto alla classe sociale: il primo gruppo, che riguarda un certo tipo di innovazioni nei rapporti sociali, per così dire nella forma simbolica delle relazioni sociali, suscita risposte tanto più favorevoli quanto più ci si eleva nella gerarchia sociale e in quella del livello d’istruzione; al contrario, invece, le domande che vertono sulle reali trasformazioni dei rapporti di forza tra le classi generano risposte sempre più sfavorevoli man mano che si sale nella gerarchia sociale. In breve, la definizione: “Le classi popolari sono repressive” non è né vera né falsa. Essa è vera nella misura in cui le classi popolari tendono ad assumere verso un insieme di problemi come quelli riguardanti l’etica dei rapporti tra genitori
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e figli, o dei rapporti tra i sessi, un atteggiamento molto più rigido e autoritario rispetto alle altre classi sociali. Per quanto riguarda invece i problemi che investono la struttura politica, problemi che mettono in gioco la conservazione o la trasformazione dell’ordine sociale, e non soltanto la conservazione o la trasformazione dei modi di relazione tra individui, le classi popolari sono molto più favorevoli a un rinnovamento, vale a dire a una trasformazione delle strutture sociali. Si può osservare come certi problemi proposti nel maggio 1968 (e spesso malamente espressi), durante il conflitto tra il partito comunista e l’estrema sinistra, si riallaccino direttamente al problema centrale che ho tentato di esporre, e cioè al problema della natura delle risposte che la gente fornisce alle domande proposte, vale a dire il problema del principio in base al quale la gente produce delle risposte. Infatti, l’opposizione che ho creato tra questi due gruppi di domande si ricollega all’opposizione esistente tra i due principi di produzione delle opinioni: un principio fondamentalmente politico e uno etico, poiché il problema del conservatorismo delle classi popolari è il prodotto dell’ignoranza di queste distinzioni. Pertanto ciò che ho definito come l’effetto dell’imposizione di una problematica, effetto che viene esercitato da ogni sondaggio d’opinione e da ogni consultazione politica (incominciando da quella elettorale), risulta dal fatto che le domande che vengono proposte in un sondaggio d’opinione non vengono poste in realtà a tutte le persone interrogate e le risposte non vengono interpretate in funzione della problematica rispetto alla quale le diverse categorie degli intervistati hanno effettivamente risposto. Così avviene che la problematica dominante di cui fornisce un’immagine l’elenco delle domande proposte nel giro di due anni dagli istituti di sondaggio – vale a dire la problematica che interessa in modo particolare coloro che detengono il potere e che vogliono essere informati sui mezzi di cui possono avvalersi per organizzare la loro azione politica – è controllata in modo diseguale dalle diverse classi sociali e, fatto importante, queste diverse classi sociali sono più o meno capaci di produrre una contro-problematica. A proposito del dibattito televisivo tra Servan-Schreiber e Giscard
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d’Estaing un istituto di sondaggi d’opinione aveva proposto domande del genere: “Il successo è dovuto ai doni di natura, all’intelligenza, al lavoro, al merito?”. Le risposte raccolte non rivelavano nulla sulla verità oggettiva ma rispondevano invece alla domanda: “In che grado le differenti classi sociali hanno coscienza che esistono leggi obiettive per mezzo delle quali viene trasmesso il capitale culturale?”. Grosso modo si può affermare che la non-coscienza di queste leggi cresce man mano che si scende nella gerarchia sociale e che, allo stato attuale delle cose, sono le classi popolari a essere particolarmente mistificate dal sistema scolastico. Si comprende così per quali motivi nelle classi popolari è molto forte l’adesione al mito della virtù innata, a quello dell’ascesa per mezzo della scuola, al mito della giustizia scolastica, a quello dell’equità della distribuzione degli impieghi in base ai titoli di studio ecc. Non c’è una contro-problematica: questa può esistere per pochi intellettuali ma non possiede una vera forza sociale nonostante sia stata sostenuta da un certo numero di partiti e gruppi politici. Le classi popolari non hanno, dunque, coscienza della realtà dei meccanismi e non sono in grado di produrre questa contro-problematica; l’insieme stesso delle condizioni sociali ne vieta addirittura la diffusione. Ciò significa che non basta che un partito inserisca nel suo programma la lotta contro la trasmissione ereditaria del capitale culturale: “la verità scientifica” è sottoposta alle medesime regole di diffusione dell’ideologia. Una definizione scientifica del tipo: “Il capitale culturale viene trasmesso attraverso la scuola e la famiglia” è simile a una bolla papale sulla regolamentazione delle nascite: non predica che ai convertiti. Il capitale culturale si diffonde seguendo certe leggi; la probabilità che ciò venga recepito da alcuni e rifiutato da altri può essere determinato sociologicamente.
L’opinione mobilitata In un sondaggio d’opinione si è portati ad associare l’idea d’obiettività con il fatto di porre una domanda nei
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termini più neutri possibile in modo da dare a tutte le risposte tutte le probabilità. In realtà possiamo chiederci se un sondaggio d’opinione veramente rigoroso non sarebbe quello che trasgredisce totalmente gli imperativi della neutralità e dell’obiettività scientifica, una ricerca che, invece di dire, per esempio: “Ci sono persone favorevoli alla regolamentazione delle nascite, altre sono sfavorevoli; e voi?…”, enunciasse una serie esplicita di prese di posizione dei gruppi deputati a costruire le opinioni e a diffonderle, in modo che si potessero situare gli individui non secondo una domanda – davanti alla quale essi devono inventare non soltanto la risposta ma la stessa problematica – ma secondo delle problematiche e delle risposte già precostituite. In altre parole, il sondaggio d’opinione sarebbe più vicino alla realtà se si trasgredissero completamente le regole dell’obiettività e si desse alla gente i mezzi per potersi collocare come avviene nella realtà pratica, vale a dire in base a delle opinioni già formulate. Faccio l’ipotesi che a un dato momento su di un problema come quello dell’insegnamento tutti gli aspetti siano previsti. Vale a dire che un’analisi di contenuti della stampa d’informazione, della stampa sindacale, della stampa politica ecc., permette di disegnare una specie di mappa delle posizioni previste. Colui che propone una posizione non prevista sulla mappa è considerato un eclettico o un incoerente. Ogni opinione è situata obiettivamente in rapporto a una serie di posizioni già segnate. Comunemente si dice “una presa di posizione” ma la parola va intesa nel senso lato; esistono posizioni già previste e uno le prende. Ma non le prende a caso. Si prendono le posizioni che si è predisposti a prendere a seconda della posizione che si occupa in un certo campo. Per esempio, nel campo intellettuale, si può affermare che ogni individuo porta in sé una certa probabilità di prendere una posizione piuttosto che un’altra. Evidentemente esiste un piccolo margine di libertà ma vi sono posizioni che si propongono con maggiore o minore urgenza e un’analisi rigorosa delle ideologie mira a spiegare le relazioni tra la struttura delle prese
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di posizione e la struttura del campo delle posizioni occupate oggettivamente. Giungo così al problema se i sondaggi d’opinione valgano come predizione. Sappiamo che i sondaggi, salvo qualche caso accidentale come quello della campagna elettorale inglese, hanno una grande capacità di previsione quando si tratti di consultazioni elettorali, ma sappiamo anche che i sondaggi di opinione sembrano naufragare quando si confronta ciò che essi affermavano con ciò che è accaduto quando, nel frattempo, sia sopravvenuta una crisi. In altri termini, i sondaggi interpretano abbastanza bene la struttura delle opinioni in un determinato momento, in una situazione d’equilibrio, ma interpretano con difficoltà le condizioni virtuali dell’opinione e, più precisamente, i mutamenti d’opinione; questo accade perché i sondaggi interpretano le opinioni in una situazione che non è quella realmente esistente al momento in cui le opinioni si costituiscono, e perché essi temono le opinioni stesse e non le situazioni durevoli che le producono. Si nota, infatti, uno scadimento considerevole tra l’opinione che la gente esprime in una situazione artificialmente prodotta com’è quella del sondaggio, e l’opinione che la gente esprime in una situazione che rispecchi più da vicino la vita quotidiana in cui le opinioni si confrontano e si confermano come avviene per i pettegolezzi che si scambiano le persone dello stesso ambiente. In una situazione psicologica di questo tipo si sollecita un certo numero di persone a esprimere la propria opinione sul confronto della lunghezza di due pezzi di ferro. Si scelgono nove persone su dieci e si chiede loro di affermare che i pezzi di ferro non sono del tutto uguali. Le si reinterroga e la decima incomincia col dire che da principio li riteneva uguali ma che in effetti i pezzi non sono proprio uguali ecc. La situazione nella quale si forma l’opinione, e particolarmente nei momenti di crisi, è la stessa; vale a dire che la gente si trova davanti a opinioni precostituite, opinioni sostenute da gruppi, opinioni tra le quali si deve scegliere perché si deve scegliere tra i gruppi. Questo è il
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principio dell’effetto di politicizzazione che provoca la crisi: si deve scegliere tra gruppi che si definiscono politicamente, ed esprimere, sempre di più, delle prese di posizione rispetto a principi esplicitamente politici. In realtà, ciò che mi sembra importante è che il sondaggio d’opinione considera l’opinione pubblica come fosse una semplice somma di opinioni individuali che sarebbero state raccolte in una situazione che è, in fondo, quella della cabina elettorale dove l’individuo esprime furtivamente un’opinione isolata. Nelle situazioni reali, le opinioni sono delle forze e i rapporti d’opinione sono conflitti di forza. Prendere posizione su questo o quel problema significa scegliere tra gruppi realmente esistenti e perciò il terzo postulato, che afferma che tutte le opinioni si equivalgono, è del tutto privo di fondamento. Da questa analisi emerge un’altra legge: si hanno tante più opinioni su di un problema quanto più si è interessati al problema stesso, vale a dire quanto più il problema ci interessa. Per esempio, per quanto riguarda il problema della scuola, il tenore delle risposte è strettamente connesso al grado di vicinanza della persona con il sistema d’insegnamento, sia come professore, sia come genitore di uno scolaro, o come ex allievo o impiegato scolastico, e la probabilità di avere un’opinione varia in funzione della probabilità di avere un certo potere nell’ambito di ciò su cui si ha un’opinione. L’opinione mobilitata è quella della gente la cui opinione, come si dice, ha un peso. Se un ministro dell’Istruzione agisse in funzione dei risultati di un sondaggio d’opinione (o almeno partendo da una lettura superficiale del sondaggio) non agirebbe come agisce nella realtà in quanto uomo politico, vale a dire in base alle telefonate che riceve, alla visita del direttore della Scuola normale superiore, o alla visita del docente tal dei tali ecc. Nella realtà, il ministro agisce assai di più in funzione delle forze d’opinione effettivamente costituite che affiorano alla sua percezione nella misura in cui esse hanno una forza d’influenza e nella misura in cui esse sono forti perché sono mobilitate.
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Disposizioni e opinioni Poiché si tratta di prevedere, per esempio, come sarà l’università nei prossimi dieci anni, penso che l’opinione mobilitata è essenziale; ma, nello stesso tempo, un certo tipo di lettura dei sondaggi d’opinione permette di scoprire qualcosa che non esiste ancora allo stato d’opinione ma che, invece, può emergere brutalmente in una situazione di crisi. Qualcosa che non esiste come opinione se per tale s’intende un insieme di proposizioni che vengono formulate in un discorso che si pretende coerente. La gente che non risponde, o che dice di non avere un’opinione, è priva realmente di un’opinione? Penso che prendere sul serio le non-risposte sia prendere sul serio il fatto che le disposizioni di certe categorie non possono accedere allo statuto di opinioni, vale a dire a un discorso precostituito che ha la pretesa di essere coerente, di essere compreso, di imporsi ecc. Quando, nelle situazioni di crisi, si manifesteranno le opinioni costituite, le persone che non avevano alcuna opinione non sceglieranno a caso: se per loro il problema è costituito politicamente (problema di salario, di ritmi di lavoro per gli operai), sceglieranno in termini di competenza politica; se, invece, il problema non è costituito in termini politici, o se è in via di costituzione come tale (per esempio, la repressione all’interno dell’azienda), faranno la loro scelta in nome di un principio che si chiama istinto di classe, ma che con l’istinto non ha nulla a che fare: si tratta, invece, di un sistema di disposizioni profondamente inconscio che sta alla base di una gran quantità di scelte in campi estremamente diversi che vanno dall’estetica fino alle scelte economiche quotidiane. Il sondaggio d’opinione tradizionale produce questo strano effetto che consiste nel distruggere allo stesso tempo da un lato gli studi dei gruppi di pressione in materia d’opinione, dall’altra lo studio delle disponibilità virtuali che possono non esprimersi sotto forma di un discorso esplicito. Per questo motivo il sondaggio d’opinione, così com’è utilizzato attualmente, non può produrre nessuna ragionevole previsione su quanto potrebbe accadere in situazione di crisi.
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Il sondaggio e l’elezione Supponiamo un problema come quello del sistema d’insegnamento. Si può domandare: “Che cosa ne pensate della politica di Edgar Faure?”. Questa è una domanda molto vicina a un sondaggio elettorale, nel senso che si tratta della notte in cui tutte le vacche sono nere: tutti sono grosso modo d’accordo senza sapere su che; sappiamo tutti che cosa ha significato il voto unanime sulla legge Faure all’Assemblea Nazionale. Domandiamo poi: “Siete favorevoli all’introduzione della politica nei licei?”. A questo punto si nota una spaccatura molto netta; ma, malgrado tutto, all’interno delle classi superiori le cose sono più complicate; le frazioni intellettuali di queste classi sono favorevoli con riserve mentali. Successivamente si può fare una domanda di questo genere: “I professori possono scioperare?”; a questo punto tra le risposte c’è un divario nettissimo. Per quanto riguarda le classi popolari interviene una specie di transfert della competenza politica specifica e non si sa che cosa rispondere. Un’altra domanda: “Bisogna modificare i programmi? Siete favorevoli al controllo permanente? Siete favorevoli all’inserimento dei genitori nel consiglio degli insegnanti? Siete favorevoli alla soppressione dell’aggregazione? ecc.”. Nella domanda “siete favorevoli a Edgar Faure?” tutte queste domande erano già implicite e la gente ha preso posizione in un colpo solo su qualcosa che un buon questionario non avrebbe potuto prendere in considerazione se non impiegando almeno sessanta domande e proposito delle quali si sarebbero potute notare delle varianti in tutti i sensi. In un caso le opinioni sarebbero positivamente collegate alla posizione occupata all’interno della gerarchia sociale, in un altro, invece, negativamente, in altri casi poco, o fino a un certo limite, oppure affatto. Dunque, quando si pone una domanda come “siete favorevoli a Edgar Faure?”, si accumulano dei fenomeni che dipendono in modo molto diverso dalla classe sociale. Il fatto interessante è che gli specialisti di sociologia politica notano come la correlazione che si può osservare abitualmente in quasi tutti i campi della realtà sociale fra la classe sociale e le opinioni, sia
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molto debole quando si tratta di fenomeni elettorali, a tal punto che alcuni non esitano a concludere che non esiste nessuna correlazione tra la classe sociale e il fatto di votare per la destra o la sinistra. In realtà, se avete in mente quello che ho appena detto, capirete che una consultazione elettorale pone in un’unica domanda sincretica ciò che non si potrebbe ragionevolmente comprendere se non con duecento domande; se per voi è chiaro che gli uni misurano in centimetri, gli altri in chilometri, e tante altre difficoltà, potrete concludere che l’atto del voto è aleatorio e che, probabilmente, bisogna rovesciare la domanda tradizionale del rapporto tra il voto e la classe sociale: com’è possibile che, nonostante tutto, ci sia una sia pur debole relazione? Com’è possibile che non risulti semplicemente una curva a campana? Tra le opinioni elettorali esiste un’elasticità molto ampia: l’opinione che si esprime con un voto è essenzialmente definita in maniera negativa; esistono dei paraurti, cioè dei punti oltre i quali non si può andare, ma anche nei limiti così definiti i voti circolano. Ciò si vede ancora di più quando la strategia delle campagne elettorali consiste nel porre male le domande e nel puntare al massimo sulla dissimulazione delle fratture per guadagnare i voti incerti. Tutto ciò porta a domandarsi qual è la funzione del sondaggio d’opinione che ha esattamente le stesse caratteristiche del sistema elettorale. Per dire le cose in modo molto grossolano, io penso che il sistema elettorale sia uno strumento che, per la sua stessa logica, tende ad attenuare i conflitti e le fratture e che, per questo, tende naturalmente a servire la conservazione. Ci si può chiedere che cosa si fa quando si accetta di servirsi di questo strumento. Si può, per esempio, arrivare alla conclusione che non si sapeva in che cosa consistesse, che bisogna continuare a servirsene ecc. Un partito rivoluzionario che voglia accrescere la propria forza nel quadro dei rapporti di forza, può, partendo da questa analisi, assumere come strategia principale quella di fornire delle controproblematiche, di utilizzare sistematicamente il procedimento che viene usato istintivamente da generazioni (vale a
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dire la contro-strategia del “berretto bianco-bianco berretto” come rifiuto della problematica). Per un partito che ha definito i propri obiettivi, il problema non è quello di fornire delle risposte ma di dare alla gente i mezzi di essere i produttori, non delle proprie risposte, ma delle proprie domande e di essere, nello stesso tempo, i produttori di strumenti di difesa contro le domande che vengono imposte per il semplice fatto che essi non ne hanno altre. Sotto un altro punto di vista, si potrà concludere che, come per mandare la gente a visitare un museo occorre insegnargli un certo numero di cose a scuola, così, se si vuole che il gioco elettorale sia meno assurdo, bisogna che la differenza tra i postulati impliciti nel sistema elettorale e la realtà sia la più piccola possibile: in altre parole occorrerà, per esempio, che la gente sia in possesso dei mezzi di produzione delle opinioni; si dovrà, dunque, dargli il modo di appropriarsene. Ciò significa che già nelle classi elementari si dovrà impartire una vera educazione politica. Si può anche affermare: io non desidero partecipare al gioco elettorale perché, allo stato attuale della struttura della società, della distribuzione del capitale culturale, del quale ho appena detto che è uno dei fattori che formano l’attitudine a produrre delle opinioni ecc., è assolutamente illusorio che si possa arrivare all’uguaglianza davanti alle urne. Si può, quindi, concludere che soltanto le minoranze attive sono capaci di mobilitare l’opinione. Si può trarne tutte queste conclusioni, molto diverse, senza essere tuttavia esclusive. Ciò che è certo è che, studiando il funzionamento di un sondaggio d’opinione, ci si può formare un’idea del modo in cui funziona quel tipo particolare di sondaggio che è il sondaggio elettorale e quale effetto produce. In breve, ho proprio voluto dimostrare che l’opinione pubblica non esiste, almeno nella forma che le attribuiscono coloro che hanno interesse ad affermare che essa esiste. Ho detto che ci sono, da un lato, opinioni mobilitate, opinioni costituite, gruppi di pressione mobilitati attorno a un sistema di interessi; e, dall’altro lato, delle disposizioni,
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cioè l’opinione allo stato implicito che, per definizione, non è l’opinione se per essa s’intende qualcosa che si può formulare con una certa pretesa di coerenza. La definizione dell’opinione che ho preso in considerazione è la definizione che è usata allo stato implicito nei sondaggi d’opinione. Non è questa la mia opinione sull’opinione. È semplicemente l’esplicitazione della definizione dell’opinione che praticano coloro che producono sondaggi d’opinione domandando agli intervistati di formulare opinioni o di prendere posizione su opinioni già formulate. Io dico semplicemente che l’opinione nel senso della definizione sociale implicitamente ammessa da coloro che fanno sondaggi d’opinione, o da coloro che utilizzano i risultati di questi sondaggi, non esiste.
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Da Bourdieu 1973, pp. 71-88 della trad. it.
Chiave lessicale per una teoria dell’opinione pubblica* Elisabeth Noelle-Neumann
Come si definisce il concetto sociopsicologico di opinione pubblica? L’opinione pubblica viene intesa come un processo che si svolge continuativamente nella sfera pubblica, che si fonda sulla natura sociale dell’uomo e assicura la costruzione e il mantenimento del consenso in settori di importanza vitale. Il concetto sociopsicologico offre una definizione operativa d’opinione pubblica, ossia traducibile in strumenti di ricerca empirica: l’opinione pubblica è un’opinione in settori cui viene attribuita una certa importanza che può essere esternata pubblicamente senza timore d’incorrere in sanzioni e sulla quale può basarsi l’agire pubblico. La versione dettagliata di questa definizione è invece: per opinione pubblica s’intendono opinioni e modelli di comportamento importanti, in particolare di peso morale, che – laddove si tratti di accordi assodati, come per esempio usanze e dogmi – si devono mostrare pubblicamente se non ci si vuole isolare; o che si possono mostrare a uno stato “fluido” (Tönnies) in fase di mutamento senza isolarsi. L’opinione è qui intesa anche come atteggiamento e modello di comportamento in settori di valore morale. L’opinione pubblica è fondata sull’inconsapevole sforzo dell’uomo che vive in una formazione sociale di giungere a un giudizio collettivo, a un accordo, cosa indispensabile per poter agire e, dove necessario, decidere. La conformità viene ricompensata, l’infrazione ai
CHIAVE LESSICALE PER UNA TEORIA DELL’OPINIONE PUBBLICA
danni del giudizio concorde viene punita. Il sistema delle sanzioni è più sviluppato del sistema delle ricompense. Fondamentalmente si tratta, per le pene, di revoca della simpatia, della popolarità o del rispetto; per questo John Locke parla alternativamente anche di “legge della reputazione”.
L’opinione pubblica è ristretta a determinate culture, epoche storiche o gruppi di persone? Il fenomeno che viene qui trattato sotto il nome d’opinione pubblica è, per quanto se ne sa finora, panculturale: s’incontra l’opinione pubblica in tutte le popolazioni e in tutte le epoche. In vari generi letterari pensatori e scrittori molto diversi si occupano fin dall’antichità d’opinione pubblica. Dalla ricerca della storia del concetto al singolare “opinione pubblica” attraverso sistematici studi della letteratura in base a una guida standardizzata all’analisi del testo risultò che il concetto ha una genealogia risalente a quasi 2.000 anni fa. Cicerone parla in una lettera ad Attico del 50 a.C. d’opinione pubblica. Si scusa per un errore alludendo al fatto di aver solo seguito l’opinione pubblica, “publicam opinionem”. Ulteriori esempi nell’antichità romana si trovano nell’opera giuridica di Giustiniano1 e nell’opera del vescovo eretico Priscilliano, entrambe del IV sec. d.C. Segni scritti accoppiati che stavano per “opinione” e “pubblica” sono stati trovati anche in testi cinesi del IV secolo. Ed Erasmo da Rotterdam parla di “opiniones publicae”, anche se al plurale. Nell’epoca moderna l’utilizzo dell’espressione “opinione pubblica” si moltiplica, a partire da Montaigne nel 1588, nelle opere di poeti, politici e pensatori europei ed extraeuropei. Jean-Jacques Rousseau non è il creatore della formula “opinione pubblica”, ma assume comunque un posto di rilievo nella storia del concetto. Grazie a lui l’opinione pubblica è diventata nel XVIII secolo un’espressione utilizzata da tutte le persone colte.
ELISABETH NOELLE-NEUMANN
In tedesco “opinione pubblica” compare secondo le ricerche più attuali la prima volta nel 1702 nella traduzione di uno scritto in latino di Christian Tomasius del 1701 sui processi per stregoneria. A prescindere dal singolare collettivo, il fenomeno opinione pubblica si nasconde anche dietro una moltitudine di altri concetti – che in parte sono sinonimi – che vennero spesso elaborati in letteratura o in filosofia: leggi non scritte (Tucidide, Aristotele), reputazione (Machiavelli, il cardinale Richelieu, Locke), “vox populi” (Vecchio Testamento)/“publica voce” (Machiavelli), “voix du peuple” (Bodin 1968, pp. 155 sgg.), “voix publique” (Montaigne, Richelieu), pettegolezzi, tabù, Zeitgeist, usi e costumi, consenso, controllo sociale, dicerie ecc. Tutti sono coinvolti dalla sua pressione, tutti sono sottoposti al controllo, anche chi non vota, anche chi non è interessato. Tutti i membri di una società a un certo tempo e in certo luogo sono portatori d’opinione pubblica. Platone include espressamente anche i bambini. Nel suo Mito di Protagora, Platone risponde a questa domanda: non deve esserci qualcosa a cui tutti i cittadini di uno Stato devono necessariamente prendere parte perché lo Stato sia possibile? Secondo questo mito, le capacità sono state distribuite fra gli uomini in base alle disposizioni di Zeus; così uno ha ricevuto una certa abilità, uno un’altra, capacità artigiane o musicalità o talento nel guarire gli altri. Alla fine Hermes doveva ancora assegnare le abilità politiche, il senso della legge ( dike ) e il senso della vergogna ( aidôs ). Hermes chiese allora “devo assegnare anche queste come le diverse abilità, che sono state assegnate a persone diverse, o devo assegnarle a tutti?”. “A tutti”, disse Zeus “tutti devono partecipare; perché le città non potrebbero sorgere se solo pochi vi partecipassero, come per le altre abilità” (Platone 1987, p. 39). Per ciò che riguarda il senso della vergogna, aidôs, che viene distribuito a tutti, un commento inglese (Hubbard, Karnofsky 1982, p. 96) spiega:
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Aidôs è un concetto complesso. Non ha senso istituire un codice di comportamento se i membri della società non lo seguono. L’opinione pubblica rappresenta una possibilità d’affermazione di quest’accordo. L’individuo è preoccupato molto seriamente di quali sentimenti gli altri membri della società mostrano per lui. Con aidôs s’intende questa paura della disapprovazione pubblica che fa sì che noi diamo generalmente seguito alle convinzioni della società.
L’opinione pubblica esiste in tutte le culture ed epoche storiche come fenomeno basilare della convivenza umana, che riguarda ogni individuo. L’opinione pubblica non si limita, contenutisticamente, alla politica, ma può riguardare tematicamente tutte le questioni morali e valoriali (vedi sotto) – sia questioni d’importanza internazionale (“sfera pubblica mondiale”, “opinione del mondo”) come anche d’importanza nazionale, talvolta anche regionale. Limiti dell’opinione pubblica sono solo spazio e tempo. L’opinione pubblica è un fenomeno legato a spazio e tempo. Dopo, non si vede più la pressione che essa può esercitare, come nuvole temporalesche che si sono dissolte; ma nei confronti del politico che agisce sotto queste nuvole – si può pensare ad Adenauer e alla sua politica di riarmo nel 1956 –, l’opinione pubblica sta eretta come un muro. L’individuo non può sfuggire alla propria epoca, al clima d’opinione e allo Zeitgeist del periodo storico in cui vive. Uno spostamento è possibile, certo, ma spesso anche doloroso (esilio, eremitaggio).
Quale senso di sfera pubblica è alla base del concetto sociopsicologico d’opinione pubblica? L’elemento “pubblico”, la “sfera pubblica” ha un’importanza chiave, probabilmente per questo anche l’espressione “opinione pubblica” alla fine si è affermata. La componente “pubblica” va intesa in senso sociopsicologi-
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co, non come concetto giuridico (“Ognuno ha accesso a qualcosa”) o politico: qualcosa che tematicamente, contenutisticamente riguarda la comunità. Vista sociopsicologicamente, la sfera pubblica è quello stato in cui l’individuo è visto e giudicato da tutti, in cui la sua fama e la sua popolarità sono in gioco, la sfera pubblica come tribunale anonimo. Nella sfera pubblica l’individuo non si vuole isolare, non vuole perdere la faccia. Questo rende la gogna – che si ritrova a quanto pare in tutte le culture – una pena così amara, anche se non si torce un capello a nessuno. Linguisticamente possiamo identificare il significato sociopsicologico di “pubblico”: dire che qualcosa è successo “davanti a tutti” ci svela subito di cosa si tratta. Nessuno dirà che un concerto si è svolto “davanti a tutti”. Già in latino esisteva l’espressione, dallo stesso significato di sottofondo, “coram publico”. “Pubblico” viene inteso come “public eye” o “public ear” (Burke 1791); chiunque può vedere o sentire. La sfera pubblica viene intesa come tribunale giudicante, temuto allo stesso modo dai governi come dai singoli membri della società. La sfera pubblica come tribunale giudicante può accrescersi a tal punto da costituire un pericolo concreto per l’individuo e da divenire così una minaccia. A ogni modo l’individuo vive la sfera pubblica come consapevolezza, come situazione in cui si può essere visti da chiunque. Erving Goffman ha fatto di questa consapevolezza quotidiana dell’anonima sfera pubblica un tema scientifico, spezzando così per la prima volta nelle scienze sociali la presente e ancora duratura negligenza della dimensione sociopsicologica della sfera pubblica. In senso sociopsicologico la sfera pubblica va intesa come un’ampia autorità sociale che penetra anche nei gruppi primari, nei gruppi di riferimento (reference groups) o nei piccoli gruppi. Non si deve però fraintendere la sfera pubblica, interpretandola come insieme di individui isolati, atomizzati. Gli individui sono invece diretti con grande attenzione all’ambiente circostante, soprattutto alle opinioni e al com-
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portamento del loro prossimo e svolgono continuamente osservazioni del mondo circostante.
Quanto è potente l’opinione pubblica? Su chi o su cosa si estende il suo potere? L’opinione pubblica è una forza enorme di tipo sociale e politico. Da essa emana un’efficace spinta rivolta in due direzioni: sia a ogni singolo individuo in una società, sia al governo. Il potere dell’opinione pubblica sull’individuo consiste nella spinta conformista che incalza l’individuo, perché la natura sociale di ognuno è sensibile ed estremamente fragile, e perché l’uomo teme l’esilio, l’isolamento. Il fatto che il sovrano non sia più un sovrano se i suoi sudditi non vogliono – e questo non solo in democrazia, ma a lungo termine e in ultima conseguenza anche negli Stati dispotici e totalitari – è un tema affrontato da pensatori politici fin dall’antichità (Aristotele, Erasmo da Rotterdam, Machiavelli, sir William Temple [1672, pp. 45-95], David Hume). Nessun sovrano può a lungo andare e restare al potere se si rifiuta di riconoscere che il fondamento più importante del suo potere è, prima ancora di tutti i possibili metodi coercitivi, la sua reputazione personale e la benevolenza, la fiducia del popolo (Richelieu, Konfuzius [Schwarz 1987, p. 87]).
Che ruolo svolgono la minaccia e la paura dell’isolamento nel concetto sociopsicologico di opinione pubblica? Il processo di opinione pubblica viene messo in moto dalla paura dell’isolamento degli individui nei confronti della sfera pubblica anonima e dalla minaccia d’isolamento che da questa emana. La società fa uso nei confronti degli individui devianti di molteplici segnali, segnali verbali e anche sottili segnali
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non verbali, che hanno l’effetto di una minaccia d’isolamento: insultare, deridere, prendere in giro, interrompere totalmente i contatti sociali, togliere il saluto, alzare le sopracciglia, scuotere il capo ecc. Gli individui reagiscono alle minacce d’isolamento esistenti o anticipate della sfera pubblica con la paura dell’isolamento. La paura dell’isolamento si fonda sulla natura sociale di ognuno ed è evidentemente radicata come un istinto. L’uomo avverte il timore d’isolamento quando ha paura di essere pubblicamente deriso, di essere messo in ridicolo. Se qualcuno infrange leggi non scritte o esprime un parere che apparentemente è sostenuto tutt’al più da una minoranza, si vergogna e sente il disprezzo “degli altri”. Timore dell’isolamento significa avere paura delle situazioni imbarazzanti, paura delle dicerie e dei pettegolezzi, paura di essere espulsi, banditi dalla società (boicottaggio sociale, ostracismo). I processi d’opinione pubblica traggono la loro dinamica soprattutto dalla paura dell’isolamento, e non dal motivo del “voler far parte”, e nemmeno dal bisogno di elogi, onore e fama personale o dalla semplice imitazione degli altri. Perché il silenzio che si decide nel processo d’opinione pubblica si spiega più con la necessità di evitare provvedimenti negativi, sanzioni o l’esilio dalla società che non col bisogno di riconoscimento, di provvedimenti sociali positivi. Nella ricerca elettorale il cosiddetto “last-minute swing” a favore del vincitore annunciato si spiega di conseguenza in primo luogo con la paura dell’isolamento e solo in minor misura con il bisogno di stare dalla parte del vincitore (“bandwagon-effect”).
Qual è la funzione dell’opinione pubblica? L’opinione pubblica è irrinunciabile per una società? Secondo il modo tradizionale di concepire l’opinione pubblica nel XX secolo, il cosiddetto “concetto elitario”, è centrale il pensiero della partecipazione. I cittadini capaci
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di giudizio, responsabili, prendono parte alla discussione dei problemi pubblici, incrementando la qualità della decisione. Nel concetto della spirale del silenzio la funzione dell’opinione pubblica è l’integrazione della società. L’opinione pubblica costringe a sua volta sia il governo che i singoli membri della società a rispettarla. Il governo è minacciato di revoca del suo potere, l’individuo è minacciato d’isolamento, d’espulsione dalla società. Il risultato è in entrambi i casi l’integrazione, il rafforzamento della coesione e con esso la capacità di agire e decidere. Alla base delle manchevolezze dell’indagine empirica e teorica dell’opinione pubblica c’è una scarsa attenzione per i problemi dell’integrazione. Non è attuale pensare che possano essere necessarie delle misure, consapevoli e inconsapevoli, per assicurare la coesione di una formazione sociale, non tramite accordi codificati ma tramite “leggi non scritte”, come Rousseau aveva definito l’opinione pubblica. Non è un’argomentazione. La coesione della formazione sociale è apparentemente data, è dato un sufficiente grado di accordo su cosa vada apprezzato e cosa disprezzato; è fuori discussione che questa coesione possa forse essere il risultato di un incessante sforzo sociale. Da lungo tempo non è più stato sviscerato a fondo il conflitto così amaro per l’individuo tra i suoi bisogni e quelli della sua formazione sociale, così come invece aveva fatto Rousseau descrivendo il compito del contratto sociale: Trovare una forma d’associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi con tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga così libero come prima. Questa è la questione principale.
Per quanto vivace sia l’interesse per questo conflitto nel nostro secolo, esso – la continua ardua prova tra l’individuo e la società, che insiste per la coesione – non viene esaminato a fondo. Se si considera questa coesione come aproblematicamente data, quasi un fenomeno naturale, al-
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lora non si riterrà necessario alcuno sforzo e meno che mai nessuna vittima. Da questo punto di vista viene elogiato prima di tutto l’individuo che non ha paura di opporsi all’opinione pubblica, che non cede alla pressione conformista, che non si converte. La cultura politica tedesca del XIX e XX secolo è attraversata dall’avversione per l’opinione pubblica intesa come spinta conformista. La ripugnanza che molti provano per l’opinione pubblica nella sua forma sociopsicologica s’indirizza contro la spinta integrativa. L’avversione proviene dall’odio contro il compromesso obbligato cui l’individuo è costretto dalla società. Solo se i membri di una comunità scendono a compromessi con l’opinione pubblica, con l’opinione predominante, si può assicurare l’integrazione che è premessa per la possibilità di agire e decidere. Gli individui soffrono, vivono il compromesso come insensato, indegno, screditante, soffrono della minaccia d’impopolarità, di ridicolizzazione, disprezzo, isolamento. Ma l’integrazione non si può avere altrimenti. Nell’esporre la funzione dell’opinione pubblica fondata sulla paura dell’isolamento, non la si deve intendere come lode all’opportunismo. Si deve rendere giustizia a entrambe le parti, alla natura individuale e sociale dell’uomo, come aveva tentato di fare Rousseau. È comprensibile che in Germania, dopo un passato di due dittature, siamo particolarmente allergici al conformismo e alla conversione. Ma è proprio questo passato che non riusciremo a comprendere se rimaniamo medievalmente così indietro nella comprensione della natura sociale dell’uomo, così ciechi come siamo stati finora. Della raggiunta maturità dell’uomo fa parte il fatto di divenire consapevole della propria natura sociale, di non nutrire falsi sensi di dipendenza. Suona bene dire che “si deve passare attraverso la scuola dell’opinione pubblica e cercare di rimanerle del tutto indifferenti”, e si deve anche sapere quanto sia importante mostrarsi, esprimersi in casi d’emergenza coraggiosamente contro l’opinione pubblica. Ma si deve anche sapere perché ciò non possa
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costituire la norma. Montaigne l’ha visto in modo chiaro alla fine del XVI secolo: che il saggio deve guidare interiormente la sua anima al di fuori della calca e deve mantenerla libera e capace di libero giudizio sulle cose, e che però egli per ciò che riguarda l’esteriorità deve totalmente acconsentire alle forme e alle maniere in uso.
In rapporto all’integrazione della società è significativa la parola chiave “consenso”. I processi d’opinione pubblica si fondano sul consenso o meglio creano consenso. Provvedono a un sufficiente grado di accordo prima di tutto sui valori e gli obiettivi centrali comuni di una società. La società non cerca però consenso e compromessi solo negli affari fondamentali e nelle quotidiane vicende politiche, ma anche su molti altri argomenti, anche su modelli di comportamento apparentemente superficiali, e questo per mettere alla prova e mantenere la capacità di consenso. Il mutamento mette a repentaglio la coesione e ci si deve perciò abituare a esso. Un settore in cui si può studiare la capacità di compromesso è l’abbigliamento, la capigliatura, l’intero aspetto esteriore. Esso viene espresso tramite quell’esagerato accordo, strettamente legato a un periodo, chiamato “moda”, una manifestazione di opinione pubblica che fa riferimento al cambiamento. John Locke parla anche, invece di “legge dell’opinione o della reputazione”, di “legge della moda”. La moda ha temi giocosi, ma non è un gioco. Essa pretende dall’individuo un’enorme capacità d’osservazione del mondo circostante e non gli lascia in nessun modo la libertà di decidere se vuole rispettare la moda, ossia stare a un compromesso, o non rispettarla. Non rispettarla significa essere escluso dall’ambiente circostante, essere uno spaventapasseri. L’individuo ha bisogno dell’osservazione dell’ambiente circostante in situazioni di rapporti mutevoli, abilità tenuta in allenamento grazie alla moda per sapere come evitare l’isolamento, per esempio in epoche di mutamento dei
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valori morali. Quanto forte sia la tendenza a negare la natura sociale dell’uomo è evidente nelle locuzioni linguistiche legate alla moda, che il più delle volte hanno un’accezione negativa: “è solo una moda”. L’opinione pubblica è così strettamente connessa con la parola chiave “consenso” come lo è con il “controllo sociale”. L’opinione pubblica esercita controllo sociale esteso, vasto, su tutti i settori della vita. In ciò essa completa la funzione di altre istituzioni, come il diritto, la religione ecc., le contraddice o le appoggia. La teoria sociopsicologica viene anche qualificata come concetto d’integrazione per via della funzione dell’opinione pubblica, cioè dell’integrazione, del rafforzamento della coesione interna di una società attraverso il controllo sociale. Come il concetto elitario e la teoria sistemica, anche il concetto integrativo fa dichiarazioni sulla funzione dell’opinione pubblica nella società. Tuttavia il concetto sociopsicologico di opinione pubblica va un passo oltre con dichiarazioni empiricamente verificabili sul modo di funzionamento, sulla formazione dell’opinione pubblica (vedi sotto).
Che ruolo svolge l’élite sociale nel processo d’opinione pubblica? Dalla prospettiva delle scienze politiche e della giurisprudenza l’opinione pubblica ha in sé una carica normativa e si riferisce solo alla sfera politica. Solo una ristretta cerchia di persone contribuisce secondo questa rappresentazione alla costituzione dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica sarebbe dunque esclusivamente l’opinione di cittadini politicamente informati che si formano in modo razionale e indipendente le loro opinioni e che si sentono obbligati nei confronti del bene comune, cittadini che, come “complemento al dominio” (Herrschaft), esercitano su di esso un’azione critica (Hennis, Habermas). Qui l’opinione pubblica si presenta come fonte di preziosi giudizi intellettuali.
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A differenza dal concetto elitario, la teoria sociopsicologica dell’opinione pubblica non emette giudizi sulla qualità dei contenuti dell’opinione pubblica o sulle qualifiche dei suoi portatori. Il concetto elitario e quello integrativo tuttavia non si differenziano tanto nella loro descrizione della relazione fra opinione pubblica e governo, una relazione necessaria viene supposta in entrambe le concezioni. Ignorare un’opinione pubblica ostile per un lungo periodo di tempo porta al crollo del governo. La differenza effettiva sta nella relazione fra opinione pubblica e individuo. Secondo il concetto elitario d’opinione pubblica (l’opinione di persone capaci di giudizio, informate, responsabili…) dipende dall’individuo se parteciparvi o tenersene fuori. L’individuo può defilarsi, non ha bisogno di prendere parte al dibattito, anche se si riscontra la tendenza a obbligarlo sottovoce, in quanto cittadino dello Stato. Nel concetto dell’integrazione l’individuo, che lo voglia o no, è coinvolto nel processo: il processo riguarda tutti, e tutti sono minacciati da sanzioni in caso d’inosservanza. Con una teoria dell’opinione pubblica non si faranno progressi se non si è in grado di definire anche l’efficacia dell’élite nel processo d’opinione pubblica. Nessuno prenderà sul serio l’idea che l’élite non determini in modo decisivo il processo d’opinione pubblica, che non preceda gli altri nella formazione dell’opinione pubblica. Ma dobbiamo separarci da idee di élite come quelle che si sono sempre più affermate nel XIX e nel XX secolo per i portatori d’opinione pubblica. In base a tutto ciò che abbiamo imparato allo stato attuale della teoria dell’opinione pubblica, avranno effetti sull’opinione pubblica solo quei membri dell’élite che hanno accesso alla sfera pubblica e che lo sfruttano anche per le questioni decisive nel processo d’opinione pubblica, il che fa pensare innanzitutto ai giornalisti. Non è necessaria una decisione di principio fra il concetto elitario e integrativo perché entrambi i concetti vengono in questo modo conciliati.
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Come si affermano le innovazioni contro l’opinione pubblica stabilita, dominante? Gli outsiders della società, come avanguardisti, eretici, lo zoccolo duro (“hard-core”), missionari, riformatori ecc., ma anche studiosi e artisti, possono cambiare la società. Tali sfidanti dell’opinione pubblica o non conoscono la paura dell’isolamento o – pur soffrendo del rifiuto da parte della sfera pubblica – riesce loro di vincere il proprio timore dell’isolamento. Alcuni scelgono addirittura il cammino della consapevole autostigmatizzazione. Gli innovatori entrano in scena allo stadio precoce dei processi d’opinione pubblica. Persone appartenenti a una minoranza repressa possono d’altra parte costituire un cosiddetto “zoccolo duro”. Questa minoranza, dopo un lungo processo d’opinione pubblica, resta ancora fedele alle proprie convinzioni, pur dovendosi per questo mettere sulla difensiva nella sfera pubblica. Il comportamento di questa minoranza non è più influenzabile da minacce d’isolamento né è determinato dalla paura dell’isolamento. Perciò la costituzione di uno zoccolo duro va classificata come stadio tardo dei processi d’opinione pubblica. Spesso la disponibilità dello zoccolo duro a parlare è particolarmente consistente. Dipende di volta in volta dal tema se la minoranza come una setta “viene eliminata dal corpo sociale” o se grazie all’affluenza di molti giovani diviene un gruppo d’avanguardia che riesamina il processo d’opinione pubblica e decide in senso contrario. Il fenomeno dello zoccolo duro è stato elaborato in letteratura per esempio con la personificazione nell’eroe del romanzo Don Chisciotte. I gruppi che vogliono sollecitare un cambiamento devono puntare al fatto che la loro posizione pubblicamente possa essere mostrata senza incorrere nel pericolo d’isolamento e che la posizione ritenuta precedentemente valida non possa più venire mostrata pubblicamente senza pericolo d’isolamento.
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Come emerge, a partire dalla moltitudine di opinioni possibili, un’opinione come opinione pubblica dominante (modo di funzionamento dell’opinione pubblica)? L’opinione pubblica va interpretata come processo dinamico nel corso del tempo. La trasformazione di una somma di opinioni individuali in opinione pubblica avviene secondo l’attuale stato delle conoscenze nell’interazione che ha costantemente luogo tra gli uomini e la loro natura sociale e alla quale prendono parte tutti gli individui in una società. Quando esistono diverse concezioni su settori di valore morale si cerca affannosamente di raggiungere il consenso con le armi sociopsicologiche della minaccia d’isolamento e sfruttando la paura dell’isolamento dell’individuo, finché una concezione si afferma o s’impone come dominante. La paura dell’isolamento spinge gli uomini ad assicurarsi costantemente su quali opinioni e modelli di comportamento vengono approvati e disapprovati nell’ambiente circostante, e su quali opinioni guadagnano e quali perdono terreno. La teoria parla di un senso quasi-statistico con cui gli individui eseguono questa valutazione. Il risultato di questa stima influenza la loro eloquenza e il loro comportamento. Se credono di essere in accordo con il consenso dell’opinione pubblica prendono parte al discorso sicuri di sé, privatamente e pubblicamente, e mostrano le proprie convinzioni per esempio con distintivi e autoadesivi, ma anche con l’abbigliamento e altri simboli pubblicamente visibili. Quando credono di essere in minoranza diventano prudenti e taciturni, e rafforzano così ulteriormente nella sfera pubblica l’impressione di debolezza di questo schieramento, finché esso non tramonta del tutto. Per questo movimento nel processo d’opinione pubblica è stata introdotta nel 1973 la denominazione di “Spirale del Silenzio”2. La più bella descrizione letteraria di una spirale del silenzio si deve a Tocqueville con l’esempio della situazione delle minoranze dei cristiani credenti all’epoca della rivoluzione francese.
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La spirale del silenzio va vista, in relazione al concetto sociopsicologico, come una piccola tessera dell’intero mosaico. Spesso viene tuttavia trattata come se questa piccola tessera rappresentasse il tutto. Il mosaico intero è il controllo sociale, la furia chiamata opinione pubblica. Il processo della spirale del silenzio si basa su una catena di quattro assunti singolari e su un quinto che riguarda la connessione di questi quattro. I quattro assunti sono: 1. La società fa uso nei confronti degli individui devianti della minaccia d’isolamento. 2. Gli individui avvertono costantemente la paura dell’isolamento. 3. Per paura dell’isolamento essi tentano incessantemente di valutare il clima d’opinione. 4. Il risultato della loro valutazione influenza il loro comportamento soprattutto nella sfera pubblica e in particolare attraverso il mettere in mostra o il nascondere le proprie opinioni, per esempio quindi attraverso l’eloquio o il silenzio.
Il quinto assunto connette i quattro precedenti spiegando la costituzione, la difesa e il mutamento dell’opinione pubblica. Per verificare empiricamente gli assunti, si deve tradurli in indicatori osservabili, in situazioni sulle quali sia possibile porre domande nel corso di un’intervista (vedi sotto). In un passo successivo è possibile procedere in casi di studio in cui indagare il nesso nel senso indicato dal quinto assunto attraverso il processo d’opinione pubblica. La spirale del silenzio non ha luogo solo nei processi d’opinione pubblica allo stato “fluido” (Tönnies), ossia in settori in cui cambiano le valutazioni o come reazione alla trasgressione delle norme sociali. Nella verifica empirica della teoria sulla base di casi esemplari si vede spesso la spirale del silenzio ridotta al semplice modello di maggioranza e minoranza con l’assunto che quanti appartengono alla maggioranza sono disposti a parlare e gli appartenenti alla minoranza tendono al silenzio.
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Un concetto del genere può essere falsificato in qualunque momento, qualora per semplificare si escluda inizialmente il fattore effetto dei media, mentre esso è probabilmente proprio il fattore più influente. Non si sviluppano praticamente mai spirali del silenzio di direzione inversa al tono dei media formatori d’opinione; anche se solo una piccola minoranza condivide il tono dei media, essa è disposta a parlare e lo schieramento opposto costituisce una “maggioranza silente”. Il dibattito sull’energia nucleare nella Repubblica federale tedesca dal 1965 al 1986 è un caso ampiamente studiato empiricamente, esemplare di un processo d’opinione pubblica di durata relativamente lunga in stretta connessione con il tono dei media. Questo caso esemplare mostra come ci si deve immaginare il ruolo dei diversi elementi nel processo d’opinione pubblica nel corso del tempo. Il tono dei media, o meglio, il cambiamento nel tono dei media precorre il cambiamento nelle valutazioni del clima d’opinione da parte della popolazione. Il cambiamento delle valutazioni del clima d’opinione precorre la variazione dei propri atteggiamenti. Il comportamento – disponibilità a parlare – fa seguito alla stima del clima d’opinione, ma influenza viceversa anche le valutazioni del clima d’opinione in un’interazione che produce il processo a spirale. Nel caso della discussione sull’energia nucleare si poté documentare empiricamente l’esistenza di un doppio clima d’opinione: il clima d’opinione viene valutato diversamente a seconda di quali media – per esempio di destra o di sinistra – vengono consumati di preferenza o se il consumo di un certo medium, per esempio della televisione, è elevato o ridotto. Si poté anche mostrare come si costituì uno zoccolo duro di sostenitori dell’energia nucleare estremamente disposto a parlare. Ci sono processi d’opinione pubblica a breve termine, ma anche altri molto lenti, che si protraggono per secoli per l’affermazione di una concezione e l’annientamento dell’opinione contraria.
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I processi d’opinione pubblica mirano nel loro stadio finale al radicamento sociale sicuro della meta raggiunta e così al radicamento giuridico del consenso in forma di legge o al consolidamento di una legge non scritta (norma coercitiva con o senza vincolo giuridico) o alla proclamazione di un tabù. Tutti questi processi, accompagnati da tanti sforzi, d’opinione pubblica, di decisione sui temi della discussione pubblica, di difesa dell’opinione pubblica, cambiamento dell’opinione pubblica, crollo del sistema valoriale fino alle varianti giocose della moda assicurano l’integrazione e la capacità di agire della società.
Quali asserzioni fa la teoria sociopsicologica sul nesso mass media-opinione pubblica? Senza una teoria dell’opinione pubblica non si possono comprendere gli effetti dei media e viceversa: senza una teoria degli effetti dei media non si capiscono i processi d’opinione pubblica. Probabilmente sarà difficile trovare un processo d’opinione pubblica che non venga introdotto da un’azione ben documentata dei media, dalla funzione di “agendasetting” dei media. Solo quando a un tema viene assegnata una forte urgenza dai media si sviluppa una situazione di tensione nella quale si sviluppano la minaccia e la paura dell’isolamento. I mass media divengono particolarmente rilevanti nel processo d’opinione pubblica, ma soprattutto in rapporto con l’osservazione del mondo circostante da parte dell’individuo. Nell’osservare l’ambiente circostante l’individuo sfrutta due fonti per afferrare il clima d’opinione: in primo luogo la sua diretta osservazione del mondo, e in secondo luogo l’osservazione dei contenuti massmediali (percezione indiretta). I mass media danno forma in gran parte all’impressione che l’individuo si fa del clima d’opinione, cioè delle opinio-
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ni che dominano nella maggioranza e della loro tendenza. Dal tono dei media emana la minaccia d’isolamento. In molti casi l’individuo è istruito unicamente dai resoconti dei mass media. Una forte consonanza unita all’effetto cumulativo dei contenuti mediali impedisce ulteriormente che i riceventi possano davvero scegliere nell’offerta complessiva. I mass media assumono anche una funzione di articolazione, mettendo in primo piano determinate opinioni e determinati aspetti di un tema piuttosto che altri. Le possibilità linguistiche d’articolazione di oppositori e sostenitori di un punto di vista o di un modello di comportamento si ripartiscono così in maniera diseguale. In una questione controversa si affermerà più facilmente il punto di vista che risulta dominante nei media perché grazie alle argomentazioni, agli slogan e alle formulazioni fornite dai mass media ai sostenitori riesce sostanzialmente più facile l’articolazione, riesce più facile parlare pubblicamente che non agli avversari, il cui punto di vista viene formulato nei media molto meno o affatto. Una spirale del silenzio in direzione contraria al tono dei media non è stata finora mai empiricamente rilevata. Della disponibilità a parlare infatti fa parte anche il fatto di sentire alle proprie spalle l’autorità del sostegno mediale. La posizione professionale dei giornalisti ha in sé dunque, consapevolmente o inconsapevolmente, grandi possibilità d’azione sull’opinione pubblica. Nella maggior parte dei casi la popolazione percepisce correttamente le linee di tendenza dello sviluppo del clima d’opinione. Di particolare interesse sono i casi in cui la distribuzione rilevata dai sondaggi delle frequenze delle opinioni e delle valutazioni della popolazione su cosa la maggioranza pensa divergono inequivocabilmente. Questa è una situazione d’illusione ottica sociale (pluralistic ignorance). Valutazioni errate (non della direzione di sviluppo, ma della variazione assoluta di dimensione) hanno luogo innanzitutto perché ogni schieramento valuta la propria convinzione più forte di quanto in realtà non sia (looking-glass perspective), e ciò tanto più quanto più sicuro di sé è lo schieramento in questione. In
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secondo luogo il clima d’opinione viene percepito in maniera distorta per via della diversa visibilità pubblica (disponibilità a parlare, tendenza a tacere) degli schieramenti, e infine il clima d’opinione viene sovrastimato nella direzione del tono dei media. Questi tre fattori concorrono, non sono alternativi. Singolarmente presa, l’influenza dei mass media non è in nessun caso determinante nel processo d’opinione pubblica. In caso di spaccatura fra il tono dei media e il parere della maggioranza della popolazione, il risultato è spesso un consenso solo superficiale, instabile, circondato da contraddizioni, capace di variare molto velocemente sull’onda di avvenimenti reali.
Il processo di formazione di un’opinione come opinione pubblica dominante si svolge in modo razionale? Contro la teoria sociopsicologica dell’opinione pubblica è stata spesso sollevata l’obiezione che essa manchi di razionalità. Effettivamente in un processo d’opinione pubblica così inteso non è assicurato che si affermi di volta in volta il giudizio migliore. Ma non si dovrebbe chiamare irrazionale un processo d’opinione pubblica fondato sulla minaccia e sulla paura d’isolamento, perché il vantaggio per la società, per la sua coesione, la sua integrazione è palese. La paura dell’isolamento è difficilmente leggibile come motivo razionale d’azione – nel senso di un calcolo costibenefici intrapreso interiormente dall’individuo. La paura dell’isolamento è invece ampiamente inconsapevole. Il giudizio concorde, come l’opinione pubblica venne intesa anche nelle fonti storiche, non è inoltre un buon giudizio in senso intellettuale, nel senso di “giusto” contrapposto a “sbagliato”. Questo sosteneva il giurista Rudolph von Ihering – uno dei pochi autori tedeschi che concepirono l’opinione pubblica nel suo significato originario – quando descrisse nel 1883 la disapprovazione con cui l’individuo deviante viene punito da parte del mondo circostante: essa non sarebbe di carattere razionale, come la disapprovazione “per una con-
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clusione sbagliata, un calcolo errato, un’opera d’arte malriuscita”, ma in essa si esprimerebbe “la reazione pratica, consapevole o inconsapevole, dell’interesse contro la sua violazione, una resistenza allo scopo della propria protezione”. Che interesse è, chi deve essere protetto? È l’interesse della società a proteggere la coesione necessaria per agire e decidere, per mantenere una minima capacità di sopravvivenza.
Con quali strumenti sociologici possono essere verificate empiricamente le ipotesi della teoria sociopsicologica dell’opinione pubblica? – Strumenti per la dimostrazione empirica della minaccia d’isolamento: In generale: “test delle grida di disapprovazione”, che misura la forza della minaccia di isolamento. (Tra due oratori che sostengono punti di vista opposti in pubblico su una questione controversa, chi viene fischiato? Per i paesi asiatici fu sviluppata la variante del test sulla riunione nel vicinato, che sfrutta il fatto che le dicerie sono uno strumento della minaccia d’isolamento. Nella ricerca elettorale: test degli pneumatici, del parcheggio, dei cartelloni con pubblicità elettorale. Questi strumenti emersero dalla realizzazione di ricerche sistematiche sulla minaccia d’isolamento (Holicki 1984) e sul ruolo dei segnali non verbali, come la minaccia d’isolamento effettuata per mezzo della derisione (Albrecht 1983). – Strumenti per la dimostrazione empirica della paura dell’isolamento: Test di completamento delle frasi con minaccia; serie di domande sull’indicatore di sensibilità all’imbarazzo e punteggio sull’imbarazzo (Hallemann 1986, 1989), autoesperimenti. La dimostrazione empirica della paura dell’isolamento non può che fallire con domande dirette, è possibile solo in maniera indiretta sulla base di indicatori, poiché la paura del-
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l’isolamento è annoverata fra le reazioni e i comportamenti umani socialmente indesiderati e rimossi dalla coscienza. Anche gli esperimenti di laboratorio di Asch (1952) e di Milgram (1961) sul comportamento conformista permettono di trarre determinate conclusioni, anche se limitate, interessanti soprattutto sotto un aspetto: i meccanismi di conformismo che operano nei piccoli gruppi sono estremamente simili ai processi che hanno luogo nella sfera pubblica anonima. – Strumenti per la dimostrazione empirica della percezione quasi-statistica: La gente cerca continuamente di valutare quali opinioni e modelli di comportamento vengono approvati o disapprovati nell’ambiente sociale circostante. Spesso non riesce a valutare i reali rapporti di forza (pluralistic ignorance), ma riesce a fornire dati su quali opinioni guadagnano e quali perdono terreno presso i suoi simili. A dimostrazione di questa capacità basti dire che nelle interviste di sondaggio vengono sempre fornite volentieri delle stime alla domanda “Cosa pensa la maggioranza (…)?”. Quest’elevata percentuale di valutazioni sui rapporti di forza va del resto nettamente contro l’assunto per cui prenderebbero parte al processo d’opinione pubblica solo gli attention publics caratterizzati da interesse e conoscenze (fra gli altri, Lang, Lang 1983). – Strumenti per la dimostrazione empirica della disponibilità a parlare e della tendenza a tacere: Test del treno o della corriera (a seconda delle circostanze nazionali); test del reporter televisivo – adeguato solo qualora si voglia verificare la disponibilità a parlare consapevolmente davanti a una sfera pubblica anonima evidentemente enorme; rilevamento della disponibilità a far uso di (auto)adesivi, distintivi o altri simboli pubblicamente visibili. Un’ulteriore domanda indiretta: “Di recente qualcuno Le ha parlato a proposito del tema XY?”. Se sì, “Qual è la Sua Opinione”, nella ricerca elettorale rispettivamente usato come test per misurare l’attività della base del partito nella campagna elet-
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torale (“Qualcuno Le ha parlato di come dovrebbe votare?”. Se sì, “Per quale partito?”). È importante, nel rilevamento della disponibilità a parlare, controllare contestualmente le variabili sesso, fascia sociale ed età, poiché queste caratteristiche personali influenzano sostanzialmente la disponibilità dell’individuo a parlare. – Strumenti per il rilevamento empirico del clima d’opinione: Il clima d’opinione su un determinato tema dalle implicazioni morali o su una certa persona viene determinato empiricamente con la seguente domanda: “Cosa pensa la maggioranza?” – “La maggior parte delle persone è a favore o contro?” – “La maggioranza ha una buona o cattiva opinione di…?”. Queste domande vengono variate inoltre per la situazione attuale, futura e passata; le migliori prestazioni in termini predittivi sullo sviluppo futuro delle distribuzioni delle opinioni è in questo caso soprattutto l’aspettativa per il futuro. Inoltre: “Cosa è in, cosa è out?” o “Cosa guadagna terreno, cosa ne perde?” (presentazione di una lista di item). Le perdite e le rimonte di uno schieramento vengono percepite correttamente a livello collettivo, indipendentemente dalla propria posizione personale. Come esempio si può citare lo sviluppo delle opinioni sull’aborto in Germania dal 1972 al 1988 e le valutazioni del clima d’opinione sui sostenitori e gli oppositori di una semplificazione dell’interruzione di gravidanza. Anche sul tema della pena di morte fu mostrato, poco dopo l’introduzione del concetto di spirale del silenzio, che la variazione del clima d’opinione viene percepita indipendentemente dalla propria posizione al riguardo.
Quali condizioni al margine devono essere rispettate prima di poter dare inizio a un caso di studio empirico sul processo sociopsicologico di opinione pubblica? Il tema prescelto deve possedere innanzitutto due caratteristiche: deve essere attuale e venire discusso pubbli-
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camente in modo controverso; in secondo luogo deve presentare una carica morale, deve essere di fondamentale importanza. Come terza condizione si richiede che il punto di vista dei mass media su questo tema venga quantitativamente rilevato, per poter prendere in considerazione questo fattore di influenza nell’analisi. Prima condizione: attualità. L’attualità di un tema nella ricerca elettorale viene rilevata con la seguente domanda: “Nella campagna elettorale si parla sempre di tutto e di più. Però il più delle volte ci sono dei temi in particolare che stanno in primo piano. Guardando questa lista potrebbe dirmi di quali punti attualmente si parla molto?”. Più spesso un tema viene citato dagli intervistati come tema frequentemente trattato, più esso è attuale – in questo caso la campagna elettorale. Si raccomanda di scegliere sempre per i casi di studio un tema il più possibile “fresco”, che ha preso piede di recente nella discussione pubblica, in modo da poter rilevare tutti gli stadi del processo di opinione pubblica (in particolare lo stadio precoce e quello tardo) e determinare l’opinione della popolazione già prima del momento in cui l’effetto dei media investe l’intera popolazione attraverso la comunicazione interpersonale e non esistono più differenze di opinione fra intervistati dall’elevato o dal ridotto consumo mediale. Seconda condizione: carica morale o estetica È importante tener conto del fatto che l’opinione pubblica ha sempre una componente irrazionale, moralmente carica, ha sempre un valore morale o anche estetico. Chi la pensa diversamente non è stupido, è malvagio. Dall’elemento morale l’opinione pubblica trae la sua forza, la sua minaccia d’isolamento. Non si può mettere in moto l’opinione pubblica senza una motivazione morale, o, altrimenti detto, senza una motivazione morale non si può o si può solo con grandi difficoltà affermare la politica, dunque non senza l’aiuto dell’opinione pubblica.
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Su questioni razionali c’è poco pericolo d’isolarsi, perciò si parla solo di temi in cui i valori sono discussi, controversi. La carica morale di un tema viene rilevata empiricamente con la seguente domanda: Ci sono cose su cui, fra amici, si può dissentire. Alle volte si può arrivare al punto di litigare impetuosamente fino a rompere delle amicizie. Su questi cartoncini abbiamo riportato diverse situazioni. In quali di queste direbbe che si tratta davvero di questioni controverse su cui persino degli amici possono litigare pesantemente?
Qui può essere impiegato anche il test delle grida di disapprovazione citato sopra, che dà informazioni sulla forza della minaccia d’isolamento. Terza condizione: identificazione del punto di vista dei mass media Il punto di vista dei mass media su una questione viene stabilito con il metodo dell’analisi empirica quantitativa del contenuto. Il tono dei media risulta in questo caso dall’analisi dello spettro destra-sinistra su cui i singoli media esaminati si collocano a seconda della loro posizione politica. È particolarmente rilevante la posizione dei media predominanti, dei media leader d’opinione che vengono spesso citati dagli altri media e di cui i politici tengono conto. Solo quando si danno tutte e tre le condizioni è garantito che si sta studiando un caso al quale sono applicabili le ipotesi sul funzionamento dell’opinione pubblica secondo il concetto sociopsicologico.
Come deve essere un programma minimale che permetta l’analisi di casi di studio sulla formazione dell’opinione pubblica? Per analizzare un processo d’opinione pubblica e poter fare pronostici sul suo svolgimento, si devono raccogliere
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le seguenti sei informazioni tramite i sondaggi e l’analisi dei contenuti mediali: 1. I rapporti di maggioranza nella mentalità della popolazione. 2. La valutazione del cima d’opinione: “Come la pensa la maggioranza?”. 3. Aspettative future di successo: quale schieramento vincerà? Quale perderà? 4. Disponibilità a dichiararsi (disponibilità a parlare) in situazioni pubbliche. 5. Grado di emozionalizzazione del tema, carica valoriale (carica morale). 6. Intensità e direzione della trattazione del tema nei media predominanti. Quando si riesce a raccogliere tutte queste informazioni su un tema, è possibile fare delle buoni previsioni sullo sviluppo dell’opinione pubblica. Queste previsioni vanno ampiamente al di là delle tradizionali analisi condotte su dati di sondaggio, che si basano solo sulle distribuzioni delle opinioni individualmente rilevate nella popolazione. Nei sondaggi si rileveranno inoltre il consumo mediale degli intervistati (utilizzo quotidiano e grado d’intensità del contatto coi media: per esempio consumo televisivo elevato: più di due ore al giorno; consumo televisivo ridotto: meno di due ore al giorno), l’interesse personale per la politica, la posizione politica (sinistra-destra) e il grado di coinvolgimento personale sul tema analizzato, in modo da poter controllare queste variabili di disturbo nell’istituire dei nessi fra il tono dei media e l’opinione pubblica.
Quali conclusioni e prospettive emergono dalla concezione sociopsicologica dell’opinione pubblica per il successivo lavoro scientifico? Dalla teoria sociopsicologica dell’opinione pubblica emergono dapprima delle conclusioni per la ricerca di son-
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daggio stessa, che ha dato spunto a questa teoria e ne ha permesso la verifica empirica. Al repertorio di domande di allora, che si riferivano alla situazione individuale – fatti, modelli di comportamento, opinioni, motivazioni – si aggiunge un nuovo tipo di domande riguardanti la natura sociale dell’individuo: le osservazioni dell’individuo sulla minaccia d’isolamento e sul timore dell’isolamento, le valutazioni quasi-statistiche del passato, del presente e del futuro, la tematizzazione e il clima d’opinione, modelli di comportamento dell’individuo nella sfera pubblica, davanti al “public eye”. Le conclusioni per il lavoro scientifico in senso più ampio consistono nell’applicazione e nella verifica della teoria: nelle scienze politiche, per esempio, nella teoria democratica. Da essa potrebbe emergere una nuova valutazione della pressione dell’opinione pubblica operata dalla classe dirigente. La teoria promette di essere particolarmente feconda nell’applicazione alla ricerca elettorale. Un settore ancora mai toccato, l’analisi del ruolo dell’opinione pubblica nei sistemi totalitari, potrebbe con questa teoria aprirsi all’elaborazione; nella psicologia sociale, per esempio in ricerche sulla tolleranza e l’aggressione nei confronti delle minoranze e degli stranieri; teoria dei leader d’opinione; ricerca sugli stereotipi; in sociologia, per esempio nell’analisi delle società a seconda del grado d’integrazione e in situazioni di pericolo per l’integrazione, come stati di crisi (guerra); in storiografia, per esempio nell’indagine del rapporto di grandi sovrani con l’opinione pubblica o nell’analisi delle rivoluzioni; nella ricerca sulle comunicazioni per la ricerca sugli effetti dei mass media e della propaganda; in giurisprudenza nell’analisi della relazione fra opinione pubblica e diritto; in linguistica, in particolare nella retorica e in scienza della letteratura;
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in teologia e filosofia, per esempio nella dottrina morale, nella quale le azioni che scaturiscono dalla natura sociale dell’uomo vengono valutate diversamente da come fatto finora. Oltre a ciò si delinea il compito di collegare diverse teorie sociologiche sviluppatesi in questo secolo alla teoria dell’opinione pubblica. Si pensi soprattutto alla teoria dei gruppi di riferimento, alla “Theory of Rational Choice or Collective Action”, alla dinamica dei gruppi e alle teorie del conformismo, o alla teoria dell’interazionismo simbolico. Molto tempo prima della ricerca, la prassi politica ha colto le possibilità di applicazione della teoria della spirale del silenzio. Così Conradt descrisse nel suo resoconto sulle elezioni parlamentari del 1976 come già tre anni dopo la prima pubblicazione della teoria, gli strateghi della campagna elettorale ne impiegassero la conoscenza praticamente per combattere una spirale del silenzio. La conseguenza più persistente della teoria però consiste forse nell’aver risvegliato la comprensione della doppia natura dell’uomo che vive nella costante tensione fra l’essere individuale e la natura sociale.
* Da Noelle-Neumann 1984. Sulla base di testi di Elisabeth Noelle-Neumann raccolti da Anne Jäckel Niedermann. 1 Krüger 1877, p. 415/XXXIII (XXXII), 2. 2 Il concetto di “spirale del silenzio” compare per la prima volta – accanto alle denominazioni “modello a spirale”, “processo a spirale” e “ipotesi del silenzio” – in una pubblicazione del 1973: Noelle-Neumann 1973a, pp. 26-55.
L’opinione pubblica e i suoi portavoce* Eric Landowski
Un oggetto semiotico Al giorno d’oggi ci si imbatte in due tipi di specialisti dell’opinione pubblica. Gli uni si interrogano sulle condizioni della sua esistenza e della sua manifestazione; gli altri rispondono della sua esistenza e si incaricano, per professione, di manifestarla. L’atteggiamento interrogativo, connesso al senso di rigore nell’uso delle nozioni, è beninteso proprio dei sociologi. Come essi stessi riconoscono, “l’incertezza concerne la consistenza stessa del fatto”: “L’opinione fa parte dei fenomeni sociali apparentemente evidenti ma che si sottraggono all’analisi non appena questa miri alla esattezza scientifica”1. Senza dubbio, restrizioni di tal sorta non impediscono di svilupparsi né agli studi sperimentali e neppure a una teoria delle opinioni, come testimonia allo stesso tempo la proliferazione delle inchieste attraverso sondaggi e lo sviluppo della psicologia sociale (cfr. Stoetzel 1943a; 1943b). Ma da qui a una qualunque certezza epistemologica relativamente allo statuto dell’opinione pubblica in quanto fenomeno che sussume la pluralità delle opinioni singolari, resta da compiere un passo del quale nessun “uomo di scienza” misconosce l’importanza. Meglio stanno, da questo punto di vista, gli “uomini di stampa” e, all’occorrenza, gli uomini politici: dotati di un misterioso “senso innato dell’opinione pubblica” (Coquet 1978), essi sfuggono per parte loro ad ogni incertezza: l’Opinione parla per bocca loro. Volendo schematizzare, abbiamo a che fare da una parte con un insieme di pratiche oggettivanti, pervase dalla preoccupazione della scientificità e fon-
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date su strumenti altamente sofisticati (tecniche di campionamento, analisi fattoriali o multivariate, segmentazione, tipologia, ecc.), e, dall’altra parte, trattandosi di esegeti “innati”, abbiamo a che fare con un atteggiamento generale di divinazione che presuppone al contrario un contatto diretto tra l’Opinione – concepita stavolta (secondo lo storico della lingua francese Ferdinand Brunot) come una “sorta di persona” – e i suoi oracoli o i suoi portavoce. A dispetto della loro eterogeneità, queste due “scuole” intrattengono relazioni strette: mentre la scelta dei temi di studio e delle problematiche proprie degli istituti di sondaggio dipende da parte sua dalla “domanda sociale” emessa dagli organi di stampa e dai partiti politici, di contro il discorso divinatorio dei portavoce – giornalisti e uomini politici – è esso stesso posto alle dipendenze del discorso “scientifico” degli istituti di sondaggio, visto che gli “indovini” cercano naturalmente di assicurarsi, nella misura del possibile, la garanzia della scienza sociale. Anche se ne risultano dei rapporti di complicità, questo non esclude per nulla le rivalità e la polemica, come testimoniano le amenità scambiate da una parte e dall’altra. Per i giornalisti, che si attribuiscono il privilegio di essere costantemente “volti all’ascolto dell’opinione”, i sondaggi hanno in ogni caso “valore approssimativo” (Marchetti 1978) e possono tutt’al più fornire la “fotografia” di un “momento dell’opinione” (Brauche 1978): il sospetto verte allo stesso tempo sulla validità dei metodi e sul loro grado di adeguatezza rispetto all’oggetto. A titolo di reciprocità, l’esperto in indagini fondate su sondaggi denuncia la “pretesa inammissibile” (Stœtzel 1977a) di coloro che si pongono quali “portavoce del comune sentire”, e sarebbe ben interessato a conoscere ciò che il politico o il giornalista “intende designare quando impiega questa parola, l’opinione, e in base a quale metodo egli ne determina le preoccupazioni” (Stœtzel 1977b). Posta in questi termini, la questione può essere interpretata in due modi differenti, secondo che si consideri: 1) che solleva un problema relativo alla realtà empirica di ciò che designa – e in tal caso è probabile che l’espres-
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sione “opinione pubblica”, nel suo impiego corrente, non designi niente, poiché, effettivamente, essa non ha alcun riferimento strettamente assegnabile2, ovvero 2) che essa si riferisce alle condizioni d’impiego della parola e alla scelta del suo significato, nel qual caso bisogna ammettere l’evidenza del fatto che, in quanto realtà semio-linguistica, “l’opinione pubblica esiste”: anche spogliata di riferimento, l’espressione non è sprovvista di senso. Al contrario, è la molteplicità delle accezioni a costituire problema, molteplicità che i sociologi sono stati i primi a ravvisare: Già nel 1888 – nota Jean Stœtzel – James Bryce denunciava una certa trascuratezza nell’uso della parola. Mezzo secolo più tardi, F. H. Allport analizzava otto errori nella concezione dell’opinione pubblica. Nel 1952, Curtiss M. Mac Dougall enumerava sei sensi nei quali l’espressione era impiegata, e W. Philips Davison (1958) ne rilevava tre usi popolari3.
Il nostro proposito non è né quello di riprendere la classificazione di questi “sensi volgari” né quello di denunciare la loro infondatezza rispetto ai criteri di scientificità. In compenso, vorremmo capire da cosa dipenda la loro persistenza nei discorsi socio-politici “di massa”. In breve, come analizzare il modo di esistenza semiotica della “opinione”? Si prendano i due esempi seguenti: Cedendo alle pressioni dei gruppi ecologici sostenuti da larghi settori dell’opinione pubblica, le autorità hanno rinunciato a (...) (Henri Pierre, Un succès des écologistes, «Le Monde», 3 novembre 1978). Questa conferenza stampa è indirizzata a due livelli. Il primo, signore e signori giornalisti, è il vostro (...). E l’altro livello, è quello dell’opinione pubblica, direttamente attraverso i grandi mezzi di informazione, indirettamente attraverso la carta stampata (...) (Valéry Giscard d’Estaing, conferenza stampa del 14 giugno 1978, «Le Figaro», 15 giugno 1978).
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Dal punto di vista semantico, è il medesimo soggetto collettivo, chiamato in entrambi i casi “opinione pubblica”, che si trova qui “interpellato”, da un discorso presidenziale, e là “raccontato”, in un resoconto giornalistico: se si trattasse di illustrare la polisemia dell’espressione, i nostri esempi sarebbero pertanto scelti male. In compenso, la loro giustapposizione consente di cogliere un altro tipo di oscillazione, reperibile su un piano indipendente da quello in cui possono apparire opposizioni o identità di contenuto. Nel primo enunciato citato, la parola “opinione” designa un protagonista al quale compete un certo ruolo in un racconto di aspetto oggettivo, quasi si trattasse di un personaggio da romanzo; nell’altro caso, essa serve a identificare uno degli interlocutori (il destinatario) del discorso che si annuncia. Il termine considerato interviene pertanto a due livelli di funzionamento semiotico. Sul piano del discorso enunciato, esso si colloca entro schemi narrativi che si tratterà in primo luogo di inventariare; ma esso interviene pure nella messa in scena dell’atto stesso della enunciazione: donde la necessità di prendere in considerazione anche le strategie discorsive che esso consente di porre in opera. Per chiarire questa doppia funzione, narrativa e discorsiva, e per coglierne le basi – poiché la messa in scena dell’opinione pubblica si inscrive nel quadro di una drammaturgia politica più generale –, procederemo a esaminare un numero ristretto di occorrenze rilevate, fra mille altre, seguendo le rubriche politiche di due grandi quotidiani, «Le Monde» e «Le Figaro», nel corso dell’anno 1978.
Una drammaturgia “Opinione pubblica” e “classe politica” Quando i moralisti dell’età classica hanno fatto dell’opinione la “regina del mondo”, la vocazione (controversa) di questa sovrana era soprattutto quella di pesare sul “mondo interiore” delle coscienze individuali e di influenzare le condotte private:
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L’opinione pubblica è una giurisdizione che l’uomo onesto non deve mai riconoscere perfettamente e mai declinare (Chamfort).
Dal momento che questa funzione di controllo investe l’intimità dei soggetti, sembra che l’opinione si sia trovata progressivamente alleggerita, in gran parte, a vantaggio di altre istanze: è qui per esempio che il “cosa se ne dirà?” trova la propria funzione. Come controparte, la sovranità dell’opinione si è trasferita verso un altro dominio, quello dei comportamenti collettivi e degli affari pubblici. Se si presta fede ai filologi, questa mutazione può addirittura datarsi con esattezza: Sotto la seconda Restaurazione ha inizio l’autentico dominio dell’opinione pubblica. È una nuova potenza che si innalza (...) essa interroga i vecchi poteri, ingiunge loro di produrre i loro titoli e si arroga il diritto di controllarli (P. Larousse, “Opinion publique”, Grand Dictionnaire universel du XIXe siècle, 1874).
Ora, che si mantenga o no la data proposta, il teatro politico si trova così ridistribuito attorno a un elemento nuovo, il cui ruolo non sarà privo di analogie con quello del coro nella drammaturgia antica. Le somiglianze si situano su due piani. Innanzi tutto, la funzione considerata impegna la competenza interpretativa di un soggetto collettivo situato in posizione di osservatore. Al modo stesso in cui ad Atene l’organizzazione spaziale del teatro riposava sulla distinzione tra la scena propriamente detta – il logheion – e l’orchestra, da cui il coro osservava le peripezie dell’azione, commentandole per gli spettatori, stipati sui gradini del koilon, così l’organizzazione ideologica che sottende oggi la spettacolarizzazione della vita politica da parte dei “media” ha per principio lo stabilimento di una netta disgiunzione (in termini figurativi, di un “fossato”) tra una classe di soggetti agenti – gli “eroi”, la “classe politica”, ove si fiancheggiano governanti e stati maggiori dei partiti, dirigenti sindacali e rappresentanti del grande padronato o
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dell’alta amministrazione, ecc. – e “l’Opinione”, istanza testimone che assiste allo “spettacolo” e ne interpreta il significato, sia per conto proprio, sia, più generalmente, all’indirizzo di un pubblico situato su un piano terzo (vi ritorneremo). Nella misura in cui questa attività interpretativa – attraverso la quale si esprimono le reazioni e, perché no?, le opinioni dell’Opinione – prende specificamente per oggetto gli atti e le situazioni che costituiscono la trama della “vita politica”, si può dire che l’Opinione si rivela qui a suo modo politologa. Ma essa è anche, a suo modo, politica: se il suo statuto le impedisce di oltrepassare il limite del logheion e, dunque, di spostarvisi per agire nelle stesse condizioni degli “attori” titolari (membri della “classe politica”), in compenso la sua vocazione consiste per eccellenza nel far agire questi ultimi, utilizzando tutti gli espedienti della sua competenza persuasiva. Per poco che disponga effettivamente di mezzi – foss’anche indiretti – capaci di far prevalere, sulla scena politica, una determinata linea, l’Opinione si trasforma in una “potenza” e, da osservatrice che era, diventa a sua volta degna di osservazione nei suoi comportamenti, auscultata nei suoi stati d’animo, sondata in quanto riserva di energie canalizzabili: posta in principio come un soggetto conoscente, l’Opinione si trasforma in oggetto di conoscenza.
Il pubblico, terza istanza Oltre al fatto che l’analogia così abbozzata riposa su una visione assai semplificata del sistema drammaturgico greco, si obietterà forse che essa rimane zoppa nella misura in cui al sistema ternario di riferimento: logheion versus orchestra versus koilon, non si sovrappongono, a prima vista, tre classi di attanti realmente distinte, ma due soltanto: di fronte alla “classe politica”, non c’è, si dirà, l’equivalente di un coro da una parte (che sarebbe l’“opinione” in quanto istanza autonoma), e di
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spettatori dall’altra (concepiti come un “pubblico” distinto rispetto all’istanza “opinante”), ma un solo attore: la società civile, i governati, un “pubblico che opina”, che esprime esso stesso i suoi propri sentimenti. E, da questo punto di vista, si potrà considerare equivalente il fatto di dire che “un fossato separa la classe politica dall’opinione”4, ovvero di dire che “il fossato che separa questa stessa classe politica dalla massa dei francesi (...) diventa un baratro [sic] di cui non si intravede più il fondo (...)” (Viasson-Ponté 1978): ciò che si deve intendere per “opinione”, non è proprio la “massa dei francesi”, il “grande pubblico” considerato come comunità che esercita talune attività di ordine cognitivo (cfr. il Littré: “opinion, ce que pense le public”)? Parimenti, fra l’apostrofe di de Gaulle “Francesi, Francese!” e la formula sopra citata, in cui un dato presidente si rivolge all’“opinione pubblica”5, si dirà probabilmente che non v’è che una minuscola differenza di “stile”, l’essenziale rimanendo che, sotto etichette differenti, è in definitiva lo stesso destinatario a esser preso di mira nei due casi. Ma se le cose stanno così, se “opinione pubblica” ha semplicemente il valore di un sinonimo per qualsiasi altra espressione che designi la collettività dei governati (“la massa dei francesi”, dei “cittadini”, degli “elettori”, del “pubblico”, ecc.), allora, come rendere conto di un enunciato come il seguente: Durante i tre anni, il Capo di Stato non dovrà trattare con gli elettori, ma con l’opinione, rilevata da sondaggi degli istituti ed espressa dai giornalisti. È a questa che egli si rivolge (...) (Patrick Jarreau, La conferenza stampa del presidente della Repubblica, «Le Monde», 16 giugno 1978).
Basta infatti sfogliare la stampa per vedere in tal modo riaffacciarsi la distinzione non già fra due, ma fra tre istanze distinte. In quanto oggetto semiotico, ciascuna istanza gode di una esistenza autonoma: da qui il fatto, a prima vista paradossale, che la “classe politica” possa sia venire a contatto con il pubblico (“i francesi”, “gli elettori”, “la po-
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polazione”, ecc.) senza per questo imbattersi nell’“opinione pubblica”, e sia avere a che fare, al contrario, con l’opinione senza che, per questo, il pubblico (il “popolo” stesso) sia direttamente interessato. Ed è proprio al fatto di illustrare esemplarmente la prima di queste due possibilità che l’incolpevole agglomerato del Raincy deve gli onori della stampa. Coi suoi “quindicimila abitanti”, riferisce un corrispondente di «Le Monde»6, questo “suburbio paradossale” resta infatti “una città senza opinione pubblica”, e – a quanto spiega il nostro giornalista – il modo di gestione adottato dalla municipalità (la “classe politica”) non può essere compreso se non si tiene conto del fatto che l’autorità locale, in mancanza di “corpi intermedi” di qualunque genere, si trova direttamente a confronto con il pubblico, “una popolazione che vive al ritmo tranquillo e individualista delle lottizzazioni”. Due conclusioni derivano da questa piccola monografia urbana. Innanzi tutto, essa conferma l’ipotesi della non-equivalenza fra le nozioni di “pubblico” e di “opinione”, poiché, nel caso specifico, un pubblico di quindicimila abitanti non basta a fare l’opinione di una città. Ma, soprattutto, questo esempio mostra che il criterio che consente di differenziare la nozione di opinione dai suoi sinonimi apparenti si colloca sul piano logico: in contrapposizione al pubblico, disperso in una moltitudine di padiglioni di borgata, e che, semplice collezione di individui, giustappone una serie di unità sotto forma di una totalità partitiva, l’Opinione (nella fattispecie, assente) può essere concepita solo come una unità molare, un attante collettivo propriamente detto; in una parola, come una totalità integrale7. A questo primo criterio di distinzione se ne sovrappongono molti altri, specificamente di ordine “aspettuale” e “modale”. Così, da un lato, il pubblico, in quanto include la classe degli elettori, esercita incontestabilmente, sia pure in modo puntuale (per ciò che attiene alla aspettualizzazione temporale), un minimum di competenze modali, poiché, a tempo debito, è lui che, foss’anche indirettamente, determina attraverso il suo voto la composizione di una
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compagine governativa, che la fa essere ciò che essa è. Dall’altro lato, per tutta la durata degli intervalli compresi fra due scrutini, il “pubblico” sembra privo di competenza, e soltanto “l’opinione” (quando c’è) può eventualmente esercitare pressione sui dirigenti, può far fare loro ciò che essi fanno; onde, a contrario, la squallida situazione descritta dal corrispondente di «Le Monde»: in assenza di un’opinione pubblica, e di fronte a un pubblico la cui frammentazione esclude che esso abbia presa sull’azione dei suoi dirigenti, i rappresentanti della classe politica vivono giorni “tranquilli”, e la vita politica stessa langue.
Spartizione di competenze Perché questa rinasca, occorre che i responsabili politici trovino dinanzi a sé qualcosa di diverso da una moltitudine disorganizzata; occorre che essi dispongano di interlocutori “competenti”, vale a dire – se è possibile trasporre l’espressione che il Larousse8 applica, per parte sua, al coro – capaci contemporaneamente di “impersonare il popolo” (al cospetto dei suoi reggenti) e di “sorreggere l’interesse scenico” (agli occhi del pubblico medesimo). Si giunge allora alla seconda possibilità evocata prima, dal momento che la classe politica non tratta ormai più direttamente o solamente col pubblico, bensì con i mediatori incaricati di “impersonarlo”: il plurale non è qui di mera forma, poiché tale funzione di mediazione si trova a sua volta spartita tra due figure principali – ultima dicotomia conforme, anch’essa, al dispositivo teatrale di riferimento. Si sa infatti che, accanto al coro propriamente detto, la drammaturgia ateniese riservava un posto particolare, e sovente in una forma prosodica specifica, al “capo del coro” – il corifeo – introducendo al contempo una mediazione supplementare tra la scena e i gradini del teatro. In modo analogo, il sistema scenografico implicito che soggiace oggi alla trasformazione della vita politica in uno “spettacolo” impegna la collocazione, fra i “governanti” e i “governati”, di due figure distinte: “l’opinione”, da una parte, e i suoi “portavoce”, dall’altra:
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Koilon spettatori “pubblico” “governati”
Orchestra
Logheion
coro
corifeo
hypokritai
“opinione”
“portavoce”
“classe politica” “governanti”
La caratteristica comune alle due figure centrali, e che consente di contrapporle al “pubblico”, è la loro competenza discorsiva: mentre l’opinione e, a maggior ragione, i suoi portavoce sono dei “soggetti parlanti”, il pubblico, semplice istanza ricevente, si trova squalificato come emittente, visto che la diversità delle voci individuali da cui è costituito non è in grado di produrre che una sorta di brusio inarticolato. Senza dubbio si potrebbe obiettare che nulla in realtà impedisce ai cittadini di esercitare, per esempio sotto forma di petizioni, di manifestazioni, di atti di rivendicazione differenti, una competenza discorsiva propria e che, di conseguenza, il “pubblico” non è necessariamente confinato in un ruolo di spettatore passivo. Comunque, è soltanto all’interno del sistema di rappresentazione “mediatica” che sono prodotte le differenziazioni strutturali di cui noi cerchiamo di rendere conto: non si dà un “silenzio del pubblico” che in funzione dell’emergenza del “discorso dell’opinione”, vale a dire nel quadro della teatralizzazione della comunicazione sociale. Monopolizzando la competenza emissiva, le due istanze mediatrici situate nello spazio immaginario che corrisponde a quello greco dell’“orchestra” devono allora svolgere una doppia funzione di staffetta, sia volgendosi verso la “scena”, allo scopo di interpellare la “classe politica” (per conto del pubblico che rappresentano), sia rivolgendosi verso i “gradini” per indirizzarsi, in caso di bisogno, al “pubblico” medesimo. Quanto ai criteri di differenziazione che portano a riconoscere non una sola, ma due figure di mediazione distinte, essi dipendono dalla specializzazione funzionale degli attanti: mentre l’“opinione” prende piuttosto in carico la funzione persuasiva (in nome del “popolo” che “imperso-
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na”), i “portavoce dell’opinione”, più specificamente incaricati di “sostenere l’interesse” del dramma che si rappresenta, assumono essenzialmente una funzione interpretativa. Il discorso dell’opinione (del coro) si analizza infatti come un discorso di persuasione destinato tanto a far agire la classe politica quanto a far assumere al pubblico una certa visione della sua propria identità: “I sondaggi rivelano al pubblico l’immagine, in una sorta di specchio dalle molte facce, dei sentimenti di tutti” (Stœtzel 1977a). Simmetricamente, i discorsi di interpretazione emessi dai portavoce (il corifeo) sono destinati, al tempo stesso, sia a far conoscere ai governanti le reazioni del “popolo” (i “giornalisti” sono qui, indubbiamente, proprio i portavoce designati, “i migliori interpreti della aspettativa del pubblico”)9, sia di rimando a far comprendere al pubblico il significato e le poste dei comportamenti adottati sulla scena politica. Da questo insieme di relazioni risultano infine due tipi essenziali di interventi dell’opinione, gli uni riguardanti l’agire degli “eroi” sulla scena, gli altri relativi alle convinzioni dell’uditorio. Da questo punto di vista, l’opinione non è, come spesso viene detto, “manipolata” – è lei, al contrario, la grande manipolatrice.
A cosa serve l’opinione Un operatore polivalente Precisando la collocazione dell’“opinione pubblica” in rapporto ad alcune delle nozioni connesse, non abbiamo cercato evidentemente di produrre, su un piano ontologico, alcuna “prova dell’esistenza dell’opinione”, ma soltanto di circoscrivere l’infrastruttura drammaturgica, immaginaria, al cui interno una tale nozione può diventare strumento operativo. Per analizzare le operazioni stesse che sono in tal modo rese possibili, occorrerà passare dalla descrizione del sistema attanziale soggiacente allo studio della sua messa in gioco sotto forma di processi semio-linguistici particolari. Iscritti nel discorso dei giornalisti e dei politici, que-
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sti processi possono essere colti a due livelli, tenuto conto della elementare distinzione tra il piano dell’enunciato e quello dell’enunciazione. Sul primo piano, il discorso socio-politico si riconduce alla produzione di racconti, o almeno di schemi narrativi suscettibili di espansione, che tendono a costruire una “storia del presente” (funzione interpretativa) per mezzo di operatori narrativi: si vedrà che “l’opinione” – invocata come figura che si presume motivi l’agire dei “governanti” – rappresenta uno di tali operatori. Sull’altro piano, quello enunciativo, il discorso giornalistico e, a fortiori, politico, si fa esso stesso azione – per esempio, sotto forma di appelli, ordini, avvertimenti10: trasformandosi allora in un operatore discorsivo al servizio di talune strategie di persuasione, “l’opinione” interverrà in questo caso come un simulacro dei “governati”, costruito per fare assumere loro certe convinzioni e, attraverso queste ultime, modellarne i comportamenti. Benché, in pratica, i due tipi di operazioni siano il più spesso concomitanti, noi li esamineremo distintamente. Analizzeremo prima (§ Variazioni ideologiche) le posizioni dell’opinione come protagonista che opera all’interno di quei racconti di manipolazione che si presume esplicitino, a uso del “pubblico”, ciò che fa agire la “classe politica”, e poi (§ Uno spettacolo funzionale) le disavventure dell’opinione come supporto di discorsi manipolatori (tendenti a manovrare direttamente il “pubblico” stesso). In primo luogo, però, potranno servirci due ultime considerazioni di ordine generale.
Questioni di punti di vista 1. È interessante rilevare subito fino a quale livello i giornalisti e i politici, nel loro mestiere di storici del presente, si mostrino adepti fedeli di una formula narrativa per altro ben nota entro il dominio letterario: quella detta della visione “dall’interno” (T. Todorov). Questa formula tradizionalmente basata sul postulato della trasparenza dei “personaggi” rispetto al narratore che li mette in scena, una volta trasposta nel contesto dei discorsi politici, si annette di fatto un campo di applicazione che va ben al di là della semplice psicolo-
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gia dei caratteri individuali: essa consente allora di fondare un tipo di psicologia sociale concernente l’“anima” stessa degli attanti collettivi. L’onniscienza del romanziere al cospetto delle proprie creature “di carta” viene così a trovarsi uguagliata, o anche superata, dalla capacità di visione in profondità che ogni grande commentatore della vita politica moderna deve possedere; pertanto noi non possiamo più permetterci oggi di ignorare alcunché degli “stati d’animo dell’opinione pubblica”, del suo modo di reagire agli avvenimenti del momento, dei suoi desideri più intimi: nulla di tutto questo, per definizione, saprebbe sfuggire alla chiaroveggenza di coloro che fan professione di “tenerci informati”: [La situazione politica] genera una angoscia manifesta nell’opinione pubblica (Jacques Chirac, allocuzione pronunciata ad Amboise, «Le Monde», 17 ottobre 1978). [L’] opinione (...) sente confusamente che questo non può durare oltre (Pierre Viansson-Ponté, La stagione degli scioperi, «Le Monde», 19 novembre 1978). È così che l’avvenimento è stato percepito dall’insieme dell’opinione (Alfred Fabre-Luce, Una bomba rischiarante, «Le Figaro», 11 aprile 1978). L’opinione pubblica avverte profondamente, voi lo sapete bene, il desiderio di (...) (Valéry Giscard d’Estaing, lettera al Primo ministro, 28 febbraio 1977).
Ben inteso, il riferimento ai sondaggi d’opinione consente, non di rado, di attenuare la gratuità apparente delle certezze ostentate, poiché, accanto al discorso intuitivo e divinatorio dei portavoce, vi è posto anche per il discorso “scientifico” degli indagatori e dei “sondatori”, dediti alla misura. Tuttavia, nel corpus giornalistico che usiamo come riferimento, la funzione di questo discorso secondo è strettamente circoscritta. Da un principio di gerarchizzazione, innanzitutto: secondo che confermino o, al contrario, infirmino le certezze derivanti dal “senso innato dell’opinione”,
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i sondaggi saranno qualificati tanto come “veri” o “buoni”, quanto come “falsi” o “cattivi” 11. Altrimenti detto, qui, non sono gli strumenti di misurazione “oggettiva” a consentire di convalidare o di invalidare le intuizioni prime, esiti di un fiuto politico, ma, al contrario, è la precisione dello strumento di misurazione, “la sensibilità del barometro” (Rebois 1978) a essere dimostrata, o al contrario rimessa in questione, in funzione della concordanza o della non-concordanza dei suoi risultati in rapporto alle certezze a priori dei “visionari” dell’opinione12. 2. A questo principio di carattere gerarchico – preminenza, in termini di credibilità, del discorso d’autorità sul discorso sperimentale – viene ad aggiungersi un secondo principio che contribuisce ugualmente a regolare la coesistenza dei due tipi di sapere (intuitivo versus statistico) sull’opinione. Il sapere dei portavoce e il sapere degli indagatori dipendono di fatto da due punti di vista nettamente distinti in rapporto allo “stesso” oggetto: in opposizione al discorso dell’indagine statistica, che rinvia palesemente al trattamento dei dati quantitativi, il discorso dei portavoce si colloca, di per sé, sul piano della descrizione e della valutazione qualitativa. Ora è facile osservare che “l’opinione” non avrà il medesimo statuto semiotico nell’uno e nell’altro caso. Da un lato, definita a partire dall’osservazione statistica di classi di distribuzione, l’“opinione” è implicitamente concepita come una forza, e, se risulta conveniente misurarla, è allo scopo di poter “contare” con essa per la definizione delle strategie politiche. Al contrario, invocata, come totalità non quantificabile, per la qualità delle sue determinazioni interne, essa appare piuttosto come una sorta di arbitro con vocazione a intervenire sul piano, più profondo, delle scelte assiologiche: far sapere “ciò che vuole” questo arbitro è esattamente la missione rivendicata da coloro – giornalisti o politici – che si proclamano suoi “portavoce”. Ognuna delle due prospettive presuppone in tal modo un tipo peculiare di investimento modale: se l’indagine quantitativa ha come sua ragion d’essere l’idea che l’opinione rappresenti un quantum di potere oggettivamente misurabile,
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ciò che le procedure intuitive dei portavoce possono, sole, rivelare è il segreto – insondabile – del volere che guida questa potenza. A partire da ciò si disegnano le due principali posizioni assegnabili alla nostra “eroina” quando si tratterà di raccontare in che modo essa “governi il mondo”. Il narratore potrà anzitutto farne una istanza di decisione: dire che “l’opinione governa” equivarrà allora ad affermare che l’azione politica delle autorità è sospesa alla espressione delle volontà di una opinione-arbitro, statutariamente abilitata a imporre alla classe politica le cose che questa deve fare: a) Il ministro della Giustizia dichiara che personalmente egli è contro la pena di morte, ma che è necessario mantenerla in vigore perché l’opinione è favorevole a essa (Michel Tournier, Colloquio, «Le Monde», 8-9 ottobre 1978).
Ma il racconto potrà ugualmente – se si colloca allo stadio della esecuzione di programmi politici – subordinare ciò che il “Potere” può fare ai comportamenti strategici dell’attante collettivo, considerato, questa volta, come una potenza suscettibile di prestare il suo favore ai governanti, come di rifiutarglielo: b) La battaglia per i diritti dell’uomo non può che essere combattuta attraverso una campagna di informazione, indispensabile per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica (H. Cartan, L. Pettiti, Il dopo-Belgrado, «Le Monde», 26 ottobre 1978).
Questi due esempi illustrano la doppia vocazione attanziale dell’attore “opinione”, che vediamo nel primo caso far le veci di un “destinante” che stabilisce certi doveri e, nel secondo, di un “adiuvante” (potenziale) che – se ci è consentito un gioco di parole – conferisce un certo potere ai Poteri in campo. Tuttavia, questi esempi non rappresentano, dal punto di vista di una sintassi narrativa generale, che due possibilità fra le altre; o se si vuole non
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rappresentano che due varianti in un sistema di “ideologie dell’opinione”.
Variazioni ideologiche Una volta costituito in attante semiotico, vale a dire dotato quanto meno di un volere (che i suoi portavoce si incaricano, quali narratori, di far conoscere), l’attore “opinione” è disponibile a entrare in relazione, sul piano narrativo, con la “classe politica”. Qualunque sia la diversità dei racconti che mettono in scena questi due protagonisti – diversità evidentemente legata alla divergenza delle opzioni politiche proprie ai differenti narratori –, vedremo che essi si suddividono in un piccolo numero di tipi fondamentali. Tali tipi, poi, si interdefiniscono sulla base di un principio narrativo costante: ogni volta che la figura detta “opinione pubblica” appare sotto la penna dei giornalisti o dei politici, si constata che essa sovradetermina con la sua sola presenza, benché in maniera inegualmente esplicita e diretta, le modalità di azione, la competenza semiotica dell’insieme di agenti che si presume appartengano alla “sfera dirigente”, quale è delimitata dal discorso. Così si esprime, su un piano assai generale, lo statuto categorico “proto-attanziale”, dell’“opinione”: si tratta essenzialmente, vale a dire astrazion fatta dalle variazioni osservabili ad altri livelli di lettura dei testi, di un Destinante sintattico incaricato, per definizione, di far agire altri soggetti. Detto questo, la diversità degli schemi di relazione che può essere registrata quando si passi a dei piani di minore astrazione (così sul piano “etico”, l’opinione rappresenterà in un caso il “genio buono” e in un altro il “demone cattivo” dei governanti) dipende dalla possibilità di ottenere, per proiezione della suddetta categoria sintattica su quadrato semiotico (Greimas 1976b), differenti modi di attualizzazione puntuale. Altrimenti detto, lo stesso proto-attante di base, una volta convertito in un attante sintagmatico chiamato a svolgere il suo ruolo nella
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storia effettivamente raccontata, potrà occupare non solo ciò che va da sé, la posizione del “destinante” propriamente detto, come nell’esempio a) qui sopra riportato, ma anche una qualunque altra delle tre posizioni logicamente complementari: non-destinante, anti-destinante, non-anti-destinante. A ognuna di tali manifestazioni attanziali particolari farà eco, da parte della “classe politica”, un tipo specifico di funzione: “Opinione” = destinante “La classe politica segue l’opinione” “Opinione” = non-anti-destinante “La classe politica sfida l’opinione”
“Opinione” = anti-destinante “La classe politica inganna l’opinione” “Opinione” = non-destinante “La classe politica affronta l’opinione”
Seguire l’opinione pubblica Benché non sia possibile intraprendere in questa sede quello studio filologico che sarebbe necessario a provarlo, si intravede che l’avvento dell’“opinione pubblica” come destinante privilegiato, abilitato ad assegnare taluni compiti alla classe dei responsabili politici, si inscrive molto probabilmente in un lungo processo storico di figurativizzazione delle categorie dell’immaginario politico. Se questa ipotesi fosse verificata, permetterebbe di trattare come i due termini di un percorso cronologico, appartenente alla storia del lessico e delle idee politiche, quella che dal punto di vista sincronico appare come un’opposizione fra due distinte “epistemologie politiche”. Da una parte, con la teoria giuridico-politica della rappresentazione nella sua forma classica, è un puro essere di ragione, la “nazione”, entità astratta sprovvista di ogni ancoraggio referenziale particolare, a servire da fondamento concettuale per la elaborazione della legge. Dall’altra parte, quando al contrario si esamina il “regno dell’opinione” quale viene oggi esercitato in riferimento alle testimonianze dei “media”, ciò che si vede dominare la scena politica non è più il richiamo a una “volontà nazionale” astratta,
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postulata in nome di una filosofia, ma è la preoccupazione di conformità alle “aspirazioni” concrete di un attante collettivo, per così dire presente in carne e ossa: “l’opinione”, soggetto figurativo che, come sappiamo, “fa parte dei fenomeni sociali apparentemente evidenti”13 . Parallelamente a questa mutazione relativa alle manifestazioni attoriali del destinante, si passa da un discorso di pura legalità giuridica a un discorso sociale mirante, soprattutto, a giustificare l’opportunità delle decisioni politiche prese di giorno in giorno. La sistematizzazione dei rapporti fra questi due tipi di destinante (non figurativo: la “nazione”, supporto teorico della legge, versus figurativo: l’“opinione”, arbitro sociale della decisione) può prendere forme diverse. Tradizionalmente, la loro coesistenza è regolata secondo il modo della complementarità: L’opinione è una legge che delibera in merito alle azioni di cui la legge civile non prende conoscenza (Condillac).
Oggi le rispettive sfere d’azione si sovrappongono, e al medesimo tempo la funzione destinatrice propria all’“opinione” si specifica: Secondo il progetto di legge-quadro sulle collettività locali, il sindaco sarà responsabile dinanzi ai tribunali amministrativi della legalità delle proprie decisioni, e dinanzi all’opinione pubblica locale, della loro opportunità (Michèle Champenois, Le concessioni edilizie sotto la responsabilità dei sindaci?, «Le Monde», 29 novembre 1978).
In alternativa, la supremazia del destinante-opinione porta alla cancellazione totale dell’istanza rappresentativa della “ragione giuridica” (o della teoria politica), e la ricerca del “consenso sociale” si sostituisce a ogni altra procedura di motivazione delle scelte. Si deve, per esempio, esaminare una legge per l’abolizione della pena di morte? Si tratta di un problema di società (...). Bisognerebbe che si sviluppasse un consenso (...). Non sono certo che il momento
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sia favorevole (...). Si dovrebbero effettuare dei sondaggi (Daniel Tacet, Abolizione della pena di morte, «Le Figaro», 17-18 giugno 1978).
Allo stesso modo, trattandosi della questione schiettamente politica di sapere “quale sia il miglior candidato socialista”, è a uno “studio dell’opinione pubblica” che si dichiara – come si è visto14 – di affidare l’incarico di fornire una risposta. In questo contesto generale, la riaffermazione di una qualsiasi trascendenza del destinante in rapporto allo spazio sociale, (detto altrimenti: il ritorno di una figura destinatrice che non fosse considerata direttamente catturabile sul piano dei “dati” empirici) rivestirà l’importanza di una provocazione intellettuale. Come in questo riferimento allo “Spirito Santo”: [È lui] che governa la Chiesa: lo si è visto bene con Giovanni XXIII: questi ha deciso di convocare il concilio dopo una improvvisa ispirazione interiore, non dopo un sondaggio d’opinione (Robert Solé, Il pre-conclave è iniziato, «Le Monde», 11 agosto 1978)15.
In realtà, a partire dal momento in cui la funzione del destinante si trova investita in modo così massiccio nella figura “temporale” detta “opinione pubblica”, è lo spettacolo della vita politica intera a trovarsi virtualmente tematizzato sul registro insulso del conformismo sociale: da una parte, la classe politica, per quanto essa agisca, deve prima “consultare l’opinione”, organo tangibile della selezione dei valori e, di conseguenza, della definizione dei programmi politici; dall’altra parte, essa ha bisogno in ogni momento di sottoporsi ai giudizi dell’opinione pubblica, tribunale permanente dei gestori dello Stato. Anzi, dato che l’opinione riceve tutte le proprietà di un soggetto antropomorfo, dotato in particolare di passioni e di affetti, occorre prevedere le sue reazioni il più possibile. La prima precauzione da prendere, da questo punto di vista, consisterà nel prevedere ciò che potrebbe “metter paura all’opinione” – tenuto conto, naturalmente,
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dei limiti della competenza interpretativa attribuita a questa osservatrice onnipresente, ma non onnisciente. Oggi, gli eredi del Generale si trovano divisi (...). [Alcuni] vorrebbero che il RPR presentasse la sua lista, ma si oppongono al fatto che sia guidata da M. Debré. Essi temono che il vecchio Primo ministro faccia figura di spaventapasseri agli occhi di una opinione che (...). (André Fontaine, L’Europa nell’ora dell’Esagono, «Le Monde», 14 novembre 1978).
In base a questo tipo di anticipazioni, attraverso cui si misura il “senso politico”, si può indovinare come l’azione politica propriamente detta rischi di cedere ben presto dinanzi alle considerazioni di pura tattica: Io non avevo affatto annunciato che la liberalizzazione dei prezzi industriali si sarebbe fatta in poche settimane per non inquietare l’opinione pubblica, ha dichiarato M. Monroy, ministro dell’Economia (art. non firmato, Prezzi, «Le Monde», 11 agosto 1978).
Sfidare l’opinione È in relazione a questa prima categoria di elaborazioni, tutte impregnate di rispetto verso l’“opinione”, che può affermarsi, in modo differenziale, una seconda forma di deontologia politica, più emancipata: Il dovere di coloro che la nazione ha scelto per governare non è quello di seguire ciecamente l’opinione pubblica, ma di orientarla, di precederla, quando non (...) di usarle violenza (Claude Mauriac, Ma voi sapete che io sono innocente, «Le Monde», 15-16 ottobre 1978).
1. Se la “nazione” appare qui, di nuovo, come protagonista a pieno titolo, è perché non entra più stavolta in un rapporto di complementarità funzionale con l’“opinione” (rapporto al cui interno quest’ultima non lasciava a quell’altra che un ruolo di secondo piano), bensì in un rapporto di tipo gerarchico, nel quale la posizione dominante verrà indiscuti-
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bilmente attribuito alla prima. Così assegnati i ruoli, la “classe politica”, anziché dover obbedire all’una o all’altra di queste due istanze destinatrici possibili (secondo il dominio di intervento preso in considerazione), si avvia a sottomettersi all’una e all’altra: al meta-destinante da una parte – la “nazione”, figura di mandante (è lei a “scegliere” quelli che la “governano” e lei che, al contempo, decide per grandi linee gli orientamenti dell’azione che si vuole condurre) – e dall’altra parte al destinante sociale, subordinato, che rappresenta l’“opinione”, istanza chiamata sia ad appoggiare le decisioni prese, sia a sanzionare le performances compiute dagli eroi incaricati di governare. Doppia obbedienza che, tenuto conto delle divergenze sempre possibili tra i due destinatori, determina allo stesso tempo le subordinazioni e la grandezza della funzione politica. In effetti, se, da un lato, il servizio degli interessi supremi della “nazione” esige talvolta di “usare violenza all’opinione”, questa esigenza non dispensa, d’altro canto, dal dovere di mietere, infine, il consenso: La politica non consiste nel seguire l’opinione pubblica, ma nel precederla. A volte consiste nello sfidare l’impopolarità e nel forzare il destino – a condizione, beninteso, di raccogliere, dopo, l’adesione popolare (Jean d’Ormesson, Cronache del tempo che passa, «Le Figaro», 27-28 maggio 1978).
2. Ora, la “condizione” così posta implica essa stessa, per essere soddisfatta, un insieme di procedure – un far-sapere senza il quale non potrebbe esercitarsi convenientemente alcuna sanzione politica (sia adesione che condanna). Si sa in realtà, a partire da Aristofane, quanto l’attante collettivo – coro o opinione – sia suscettibile di smarrimenti. Se esso si sbaglia nel suo modo di giudicare la condotta degli eroi, spetta poi al corifeo di ricondurlo a una più giusta valutazione delle cose, facendogli conoscere il punto di vista degli dei. Allo stesso modo, c’è bisogno oggi di politici eloquenti – e, più ancora, di giornalisti ben informati16 – per “rischiarare l’opinione” e rettificare gli errori di valutazione che essa è portata a commettere su ogni cosa, e in
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primo luogo sulla condotta dei dirigenti. Poiché questa “regina del mondo” non gode di fatto, sul piano cognitivo, che di uno statuto assai instabile. È quel che traspare, almeno in francese, attraverso questa curiosa anfibologia lessicale che vuole che la parola “opinione” designi a un tempo una modalità del giudizio, vicina all’incertezza – “avere un’opinione” su un soggetto equivale a pensarne qualcosa “ammettendo una possibilità di errore” (Le Petit Robert) – e un attante collettivo che interviene come istanza del giudizio: l’“Opinione”, “insieme di coloro che condividono [taluni] atteggiamenti mentali dominanti in una società” (ib.). Tutta la questione è allora quella di sapere quali tipi di giudizi, definiti dal punto di vista del loro valore epistemico, possano risultarne: può “l’Opinione” emettere qualcosa di diverso dalle semplici “opinioni”, per definizione poco attendibili? Può condividere qualcosa di diverso dai “preconcetti”? La risposta che è data dalla lettura del discorso dei “media” non manca, come si vedrà, di richiamare la distinzione platonica tra una forma superiore e una forma volgare di conoscenza:
episteme versus doxa. Tuttavia, anziché interdefinire le modalità del giudizio su un piano astratto, la nostra letteratura le narrativizza, investendole in una gerarchia di ruoli; il “sapere incerto”, dossologico, del destinante sociale (“l’Opinione”) richiede infatti la sanzione di un meta-destinante, detentore del “vero sapere”. Il luogo dialettico in cui si compie la messa in relazione delle “opinioni dell’Opinione” con il piano della “Verità” non può che essere occupato da una classe di soggetti cognitivi doppiamente competenti: contemporaneamente informati degli “atteggiamenti mentali dominanti nella società” (vale a dire, “in ascolto dell’opinione pubblica”) e capaci di misurarne il valore di verità (in rapporto ai criteri del metadestinante): e a chi, se non ai giornalisti e ai politici, potreb-
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be toccare questo ruolo? A motivo della loro funzione di portavoce, essi sono in contatto diretto e permanente con l’attante collettivo e pertanto non possono ignorare nulla di ciò che esso “pensa” o di ciò che “sente”. Simultaneamente, a motivo dell’estensione e della diversità dei campi di sapere cui fanno riferimento, essi appaiono non solo come i delegati del meta-destinante politico – la “Nazione” –, ma anche come i delegati di un meta-destinante di carattere ancor più generale, la “Ragione” – ragione teorica o pratica, quale è enunciata attraverso il discorso della Scienza (scienza economica, scienza politica, scienze della previsione in generale, ecc.). In una parola, soltanto con tutte le risorse dell’episteme, e in suo nome, si fa fronte alla doxa: [M. Rocard] è uno dei pochi, nel suo partito, a sfidare l’impopolarità, ripetendo incessantemente che le leggi dell’economia hanno la loro logica (Patrick Wajsman, Esiste Michel Rocard?, «Le Figaro», 13 ottobre 1978). [M. de Guiringuaud, ministro degli Affari esteri] ha voluto, a rischio di sollevare una riprovazione generale, rettificare un preconcetto. Nell’opinione francese e occidentale, solo le tesi cristiane sono state fino a questo momento prese in considerazione. Ora, dice il ministro, questo punto di vista (...) non è conforme alla verità, e, al di fuori della verità, non vi è soluzione (art. non firmato, Il fondo e la forma, «Le Monde», 19 ottobre 1978).
Tuttavia, muovere in battaglia contro i “preconcetti”, assegnandosi cavallerescamente il compito di “rischiarare l’opinione”, non significa soltanto testimoniare della preoccupazione disinteressata di portare l’opinione allo stadio di conoscenza veridica, ma equivale di certo, allo stesso tempo, a cercare di convincerla della razionalità delle decisioni particolari che vengono prese in nome del meta-destinante; dunque, vuol dire mirare a conciliarsela in vista della esecuzione di queste. L’opinione pubblica non appare più, in tal caso, come l’arbitro supremo la cui volontà guida la scelta dei valori da perseguire, ma come un
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interlocutore – o un avversario – da cui dipenderà la trasformazione dei programmi politici virtuali in programmi effettivamente realizzabili. Il modo di esistenza narrativa dell’opinione è qui pertanto quello di un adiuvante potenziale, o di un opponente eventuale, suscettibile, con la sola sua partecipazione o con la sua resistenza, di investire o privare il soggetto politico del poter fare indispensabile per passare all’atto. Da questo punto di vista, il far sapere, col suo carattere polemico, mediante cui la classe politica “informa l’opinione” disilludendola, rivela la sua precisa portata narrativa: si tratta del confronto, in questo caso posto sulla dimensione cognitiva, necessario alla attualizzazione del soggetto; vale a dire, se ci si riferisce agli schemi classici della analisi del racconto popolare, che si tratta dell’equivalente di una “prova qualificante”. 3. Spostandoci dall’una all’altra delle due configurazioni che abbiamo finora isolato – “seguire” l’opinione, o, al contrario, “sfidarla” –, siamo passati da un’ottica idealmente consensuale (la “classe politica” che non vuole e non deve fare altro che “quel che vuole l’opinione pubblica”) a uno schema di confronto che, pur se oppone due sole istanze di sapere, ottiene come effetto di introdurre una componente polemica radicalmente assente nel primo caso: “sfidare l’opinione”, è già affrontarla e, in un certo senso, combatterla. Beninteso, secondo l’etica politica che accompagna il secondo tipo di varianti, non solo la battaglia ingaggiata viene combattuta “per la buona causa” (si tratta, lo si è visto, di ricondurre l’opinione pubblica alla ragione), ma è anzi doveroso per dei veri “responsabili” intraprenderla: il “coraggio politico” ha questo prezzo: Il paese si è assopito in un sogno. Bisogna farvelo uscire, prima che il sogno diventi un incubo (...). Il governo non ha il coraggio di dire apertamente che il tempo delle cose facili è compiuto (...). Il dovere pressante [dei pubblici poteri] è ormai di rendere ciò chiaro all’opinione (Philippe Lamour, Le quattro verità, «Le Monde», 27 ottobre 1978).
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Si vede così come vi siano, al fondo, due modi ideologicamente possibili di concepire il “rispetto dell’opinione”. Il primo corrisponde, si potrebbe dire, a una mistica sociale: considerato come l’elemento selezionatore dei valori, l’attante collettivo (destinante) suggerisce alla classe politica la condotta da adottare. Il secondo modo implica, al contrario, una pedagogia politica: dal momento in cui, da una parte, il soggetto politico si pone alle dipendenze di una terza forza (quella del meta-destinante secondo il “vero sapere”) e, dall’altra, “l’opinione”, lasciata a se stessa, per natura versa nell’errore e nell’illusione (cioè, dalla parte dell’anti-destinante), il soggetto politico non può cercare di guadagnarne i favori senza smentirsi; né può, in ogni modo, ottenerne l’appoggio senza averla preliminarmente “messa in guardia” contro le seduzioni ingannevoli, “avvertita” delle reali poste in gioco politiche, “sensibilizzata” ai veri problemi e, infine, “mobilitata” nell’ottica della “buona scelta” – vale a dire ricondotta, grazie a una pedagogia abbastanza persuasiva, alla posizione di un “non-anti-destinante”. (…)
L’enunciatario normalizzato Potremmo, senza dubbio, fermarci qui: oggetto semiotico costruito, l’opinione pubblica garantisce la competenza modale dei protagonisti che occupano la scena politica in posizione di enunciatori. Ma vi è di più. Infatti, questo partner obbligato della “classe politica” è, allo stesso tempo, ritenuto rappresentante del pubblico, al cui cospetto il gioco politico così strutturato viene condotto. La funzione spettacolare assicurata dall’attante “opinione”, destinante che motiva l’azione e legittima la parola dei Poteri, si reduplica quindi in una funzione speculare: “vedendo” che l’opinione manipola i governanti (o viene da essi manipolata), gli spettatori – i governati – divengono in certo qual modo i testimoni del loro stesso ruolo nello svolgimento della “storia” che sta per compiersi. Da questo punto di vista, tutto accade in fondo come se “opinione pubblica” non fosse che il nome che vien dato all’enunciatario del discorso politico – al
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“pubblico” – una volta che questo si sia installato, con lo statuto narrativo di Destinante sintattico, nel racconto politico. Anche senza tornare sui criteri di ordine logico, modale e aspettuale che ci hanno consentito di differenziare inizialmente le due nozioni, si vede che l’opposizione “opinione pubblica” versus “pubblico” appartiene in definitiva a una distinzione soprattutto fra livelli discorsivi. Questi rilievi ci portano, in guisa di conclusione, a riconsiderare due tipi di critiche che si sono sviluppate man mano che veniva affermandosi l’importanza dell’“opinione pubblica” come istanza di riferimento nel discorso giornalistico-politico. Allertati dalla proliferazione delle interpretazioni di cui l’opinione pubblica è ormai oggetto, alcuni insorgono contro il presunto “regno dell’opinione”: al limite, le operazioni di sondaggio potrebbero tendere a sostituirsi ai processi democratici del voto e della elezione. Taluni altri, al contrario, si indignano a causa delle “manipolazioni dell’opinione”. A prima vista, i due punti di vista si contraddicono, dal momento che ciò che viene chiamato “opinione” interviene in un caso come un soggetto dominante, al quale i poteri pubblici sarebbero subordinati in modo fin troppo compiacente, mentre nell’altro, inversamente, appare come un’istanza teleguidata e resa impotente – visto che i governati si fabbricano una opinione pubblica per costruzione consenziente. Ora, le due attitudini pertengono, ci pare, a un medesimo sistema di postulati. Sia che si stigmatizzi l’eccesso di considerazione tributato all’“opinione”, o, al contrario, la scarsa considerazione, ci si pone entro una prospettiva reificante che accorda di primo acchito lo statuto di attore sociale fornito di esistenza empirica a ciò che, tutt’al più, non è che un “essere di carta”, un oggetto costruito nel quadro di un insieme di convenzioni narrative e discorsive. Lungi dal demistificarla, la critica rimane subordinata in questo modo alla problematica che rende possibile “lo stato di cose” incriminato, senza toccare i principi medesimi dei fenomeni che denuncia. Non si tratta in definitiva di sapere se l’opinione sia regina o serva – se manipola o viene manipolata – poiché, così for-
L’OPINIONE PUBBLICA E I SUOI PORTAVOCE
mulato, il problema rimane di necessità insolubile: i differenti racconti dell’opinione possono senza alcun dubbio venir giudicati dal punto di vista della rispettiva verisimiglianza, ma non si prestano più di altre forme di costruzione mitica alla verifica sperimentale. Si ritrova in compenso un terreno più solido se, quale che sia la diversità dei ruoli attanziali (sovrano o asservito, positivo o negativo ecc.) che assegnano all’attore “opinione”, si prende il partito di considerare tutti questi schemi narrativi come appartenenti gli uni e gli altri a una stessa strategia di persuasione sociale, il cui principio – a semplificarlo una volta di più – potrebbe essere riassunto da questa formula: una manipolazione può occultarne un’altra. La prima, manifesta, è quella che articola la messa in scena della vita politica; attraverso un certo numero di varianti, abbiamo visto come l’opinione sia ritenuta far agire le sfere dirigenziali: la struttura di manipolazione è allora esplicita e definisce anche una norma di rappresentazione del “corso della storia”. Ma questa messa in scena ricopre essa stessa una struttura di manipolazione seconda, al tempo stesso meno evidente e più reale, proponendo a coloro che ne sono testimoni una rappresentazione normativa del loro modo di esistenza politica. Da questo punto di vista, non ha un gran senso condannare l’influenza occulta che i discorsi di massa eserciterebbero “sull’opinione pubblica”, che non è tutto sommato altro che un artefatto del linguaggio; in compenso, la costruzione stessa e l’impiego di tale artefatto si inscrivono entro strategie che, queste sì, appartengono bene – a un secondo grado – alla “manipolazione delle folle”.
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Da Landowski 1989, pp. 22-57 della trad. it. G. Burdeau, Opinion publique, Encyclopaedia universalis. 2 Cfr. Bourdieu 1973. Si veda ugualmente sul problema limitrofo concernente lo statuto epistemologico e semiotico del concetto di “popolo”, Jaume 1985. 3 J. Stœtzel, “Opinion (sondage d’)”, in Encyclopaedia universalis. 4 Centre d’information civique, 1978, p. 3. 5 V. Giscard d’Estaing, 14 giugno 1978, cfr. supra, p. 226. 1
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6 Articolo firmato M. C. R., Sans opinion publique. Vie tranquille au Raincy, «Le Monde», 15 dicembre 1978. 7 Sui differenti modi di apprensione logica delle categorie di unità e totalità cfr. Greimas 1986; Greimas, Landowski 1971. 8 P. Larousse, 1978, “Chœur”, in Grand Dictionnaire universel du XIXe siecle. 9 Comunicato dell’Eliseo prima della sesta conferenza stampa del presidente della Repubblica, citato da «Le Figaro», 21 novembre 1978. 10 Per queste distinzioni cfr. Landowski 1979b. 11 Cfr. M. Mitterrand et les sondages, «Le Monde», 7 dicembre 1978: “Il primo segretario del partito socialista ha precisato che considerava un ‘vero’ sondaggio quello della IFOP apparso martedì su «Le Provençal» (dove Mitterrand e Rocard raccolgono la stessa percentuale di opinioni positive: 48%) e un ‘falso’ sondaggio quello della SOFRES” (apparso il venerdì precedente, 1° dicembre, su «Le Monde» e che alla domanda quale fosse “il migliore candidato socialista nel 1981” darà soltanto il 27% di risposte positive a favore del primo segretario contro il 40% a favore dell’eventuale altro candidato). 12 È probabilmente in questa ottica che occorre comprendere l’atteggiamento di quel direttore d’istituto di sondaggi il quale, davanti a una serie di risposte “che non gli parevano plausibili”, si fonda sulla “impressione che gli interpellati avessero risposto come gli capitava” per “correggere i risultati” statistici raccolti dagli intervistatori. La rettifica così apportata raggiunge contemporaneamente due obiettivi: ristabilisce la verosimiglianza e consente al tempo stesso al “cliente” di “trovare ciò che cercava”. (L’IFOP avrebbe modificato i risultati di un sondaggio sui lavoratori stranieri, «Le Monde», 4 gennaio 1979). 13 G. Burdeau, Encyclopaedia universalis, art. cit., cfr. nota 1. 14 Art. cit., cfr. supra, nota 11. 15 Accade per così dire costituzionalmente che il governo della Chiesa dipenda della comunicazione coll’universo della trascendenza. Tuttavia, lo schema della “ispirazione” come teoria della decisione travalica spesso il dominio strettamente religioso: si sa p.es. come “una certa idea della Francia” abbia potuto da sola – o quasi – fondare tutta una politica. (Sulla tipologia delle forme del destinante politico cfr. Landowski 1975). 16 I giornalisti, infatti, sono “indispensabili alla comprensione del corso della storia” (Pierre Salinger, Les témoins de l’histoire, «Le Monde», 12 aprile 1979).
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Alla ricerca di un’alternativa alle violenze rivoluzionarie e al conservatorismo inetto delle monarchie europee, un giovane aristocratico francese, Alexis de Tocqueville (1805-1859) compie un viaggio straordinario nei paesaggi della fresca democrazia americana. È uno dei più celebri viaggi della storia del pensiero sociale, politico e giuridico: Tocqueville “vede” una quantità di cose totalmente nuove, le registra, ha l’abilità di stabilire connessioni e confronti e la spregiudicatezza di lanciarsi senza timori verso forme di controllato vaticinio. Ciò che potrebbe accadere in futuro dell’America è ciò che Tocqueville non solo non tace, ma ciò che fa della sua opera (La democrazia in America, opera ponderosa pubblicata in due tomi, uno nel 1835 e uno nel 1840) una dimostrazione di come l’osservazione diretta “sul campo” possa dare vita ad analisi sociali di grandissimo respiro anche sul piano previsionale. Basti pensare che l’idea di fondo dell’opera di Tocqueville è che la democrazia, secondo l’esperienza che gli Stati Uniti stavano costruendo, avrebbe costituito l’avvenire delle società moderne. Trarre questa “previsione” da un viaggio in un paese per ben più di metà del proprio territorio allo stato selvaggio presuppone una capacità connettiva e una modernità di indagine straordinarie, tanto più se si pensa che l’impianto su cui Tocqueville si era costruito come ricercatore era ancora quello degli studi classici e del culto della grecità e della latinità nelle discipline giuridiche, su cui il giovane francese si era formato. In un periodo che non si può non considerare “preistoria” delle scienze sociali Tocqueville riesce però a interrogarsi con profondità e amore per il dettaglio su un numero enorme di comportamenti sociali e di fatti concreti, esaminando uno a uno tutti i fenomeni che gli sembrano indicativi nelle tendenze culturali e sociali e che costituiranno la “dorsale” dei mutamenti futuri e mettendoli in relazione con quanto riscontrato nel Vecchio Continente, sforzandosi ogni volta di fornire risposte plausibili a una diversità di approcci e di soluzioni ai problemi sociali, politici e giuridici che rende l’America assai più di un “caso nazionale”. Una delle parole-chiave del lessico di Tocqueville è proprio “opinione pubblica”, laddove l’America è da lui indicata come una sor-
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ta di regno dell’opinione pubblica, con tutte le sue derive simboliche e pratiche, tra cui quella “tirannide della maggioranza” cui dedicherà spazio nella sua trattazione e che abbiamo ritenuto corretto inserire nell’antologia (a fianco di un celebre capitolo sulla libertà di stampa negli Stati Uniti) per il suo stupefacente condensato di anticipazioni sociologiche. Walter Lippmann (1889-1974) appartiene alla casta dei ricercatori sociali sui generis, quelli senza titoli accademici, che pure hanno contribuito largamente alla diffusione della sociologia negli Stati Uniti, in particolare nei primi decenni del Novecento. Questo tipo di investigatori sociali è stato in grado di osservare i mutamenti rapidi della comunicazione e di interrogarsi sul senso stesso del comunicare a partire dalla privilegiata postazione di giornalista. L’aura di “eroismo professionale” tipica di varie intelligenze passate dal giornalismo d’indagine e, come nel caso di Lippmann, “militante” (prima tra i socialisti, poi tra i liberali di sinistra, infine tra i repubblicani), ha certamente giocato un ruolo di primo piano per la promozione delle scienze sociali negli Stati Uniti. Nel caso di Park, ad esempio, chiamato dal vecchio e geniale Albion Small a lanciare il dipartimento di Sociologia a Chicago negli anni bollenti delle ricerche sulle nuove urbanizzazioni o sulla devianza giovanile, il passaggio “giornalismo-ricerca sul campo” è particolarmente felice. Lippmann, pur non intervenendo direttamente nella discussione accademica, trasformò le sue capacità di comunicatore in strumenti di analisi dei mass-media e del rapporto produzione-diffusione e consumo di notizie e informazione. Tesaurizzò anche la sua esperienza di sottosegretario aggiunto alla guerra nel primo grande conflitto mondiale, incarico che gli fu particolarmente utile quando si accinse a scrivere il suo libro più noto, L’opinione pubblica, apparso nel 1922, in cui analizzò, a partire dalla popolarità raggiunta dall’espressione “public opinion”, l’importanza dei fenomeni sociali ad essa connessi, potendo contare su materiali di prima mano in grado di spiegare, con grande efficacia, le dinamiche della censura, della segretezza, della propaganda, delle campagne elettorali, dell’affermazione degli stereotipi e così via. Testo di carattere non “teorico” in senso stretto, L’opinione pubblica rappresenta a tutt’oggi uno sguardo di assoluto interesse per cogliere il fenomeno comunicativo a partire dai suoi effetti. I brani scelti vogliono restituire al lettore lo strato di maggior “attualità” ancora presente nell’opera di questo grande giornalista e analista politico dotato di “immaginazione sociologica”. Ferdinand Tönnies (1855-1936) è stato intellettuale singolare per il suo tempo, centrale per la disciplina sociologica allora ai suoi primi tentativi di darsi statuto e metodologie condivise, ma anche capace di
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frequenti sconfinamenti disciplinari, soprattutto in direzione filosofica. Tönnies conobbe il successo saggistico in giovinezza con il best seller sociologico Comunità e società (nel 1887, a trentadue anni), da allora uno dei classici più citati nelle scienze sociali. Fu però anche elemento di raccordo tra Friedrich Nietzsche, Paul Ree, Lou Andreas-Salomé e altri spiriti inquieti della Germania del suo tempo. Allo storico della sociologia può incuriosire il fatto che la categoria di Offentliche Meinung (opinione pubblica) rappresenti in Tönnies l’evoluzione del carattere “societario” già indagato nel suo capolavoro del 1887 contrapponendolo al carattere “comunitario”. Nell’editorialmente fatidico 1922 (è l’anno della pubblicazione di Economia e società di Max Weber e di Public Opinion di Walter Lippmann) Tönnies dà alle stampe una Critica dell’opinione pubblica, proponendo fin dal titolo un’affinità con l’Illuminismo apollineo di Kant, dichiarando un intento descrittivo del fenomeno opinione pubblica e una sua spiegazione epistemologica. Osservare, descrivere e individuare elementi critici in una categoria complessa come l’opinione pubblica significa per Tönnies scegliere – con pericolosa e straordinaria preveggenza – il terreno scivoloso dove s’incontrano potere e comunicazione. Alla ricerca dell’agire sociale sotteso all’espressione dell’opinione, Tönnies ci avvisa precocemente della convivenza impossibile di soggetto (colui che può esprimere opinioni e che di fatto le esprime) e oggetto (l’oscura moltitudine che dovrebbe sottoporsi al “governo dei dotti”, cioè alla comunità scientifico-filosofica). Negli spigolosi paragrafi del libro, quasi degli aforismi inanellati coerentemente (seducente riduzione di complessità di un crocevia dove sono collocati Weber, Simmel e Marx), Tönnies recupera funambolicamente la volontà schopenaueriana, liberando energie investigative verso il grado di sacralità assunto dalle proteiformi espressioni dell’opinione contemporanea. Non a caso il grado raggiunto dall’opinione pubblica nella costruzione sociale della modernità è assimilato a quello della religione nella costruzione comunitaria (nella costruzione dell’antichità e della classicità). L’urgenza di governo razionale delle dinamiche d’opinione, ancora labile nell’individuazione delle comunicazioni di massa che attraversano e trasformano le transazioni doxologiche, si fonde con lo sguardo tassonomico dei comportamenti del singolo potenziato, cioè della massa. L’opinione può essere solida, fluida o gassosa. Può presentarsi come un dato di fatto incontrovertibile o come un’illusione momentanea, può dar vita a una quantità inesorabile di concatenazioni di avvenimenti. Nessuno dei quali, però, matematicamente prevedibile. Giacché molto continua a pesare sulle spalle dell’individuo di inizio Novecento, sballottato tra la nefasta bellicosità della grande guerra e le sirene di un individualismo eversivo, vitale e irrequieto. Tra Bismarck e il superuomo nietzschiano.
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Floyd H. Allport (1890-1970) è considerato uno dei padri fondatori della psicologia sociale, fin dall’apparire della sua prima grande opera (Social Psychology, 1924). Per l’alto contributo metodologico prestato alla sua disciplina, e di conseguenza all’insieme delle scienze sociali contemporanee, Allport merita una speciale menzione. Basti pensare che, entrando in stretta collaborazione con ricercatori quali Thurstone, Katz e Hartman, inventò e approfondì tecniche come gli esperimenti di gruppo e le misurazioni attitudinali nell’osservazione del comportamento, da allora divenute acquisizioni imprescindibili sul piano tecnico e metodologico. Sul piano del pensiero sociale Allport spostò l’attenzione su istituzioni come la Chiesa, lo Stato, la Legge e l’Industria attraverso un passaggio-chiave basato sulle teorie comportamentistiche, che egli delineò dall’interno della “Event-System Theory”. Si trattava, in sostanza, di sezionare i grandi fenomeni sociali attraverso i parametri della motivazione, dell’attitudine e dell’abitudine, cogliendo nel comportamento concreto degli individui il margine di perpetuazione di stili di vita e di istituzioni che agivano su quote esistenziali e di “immaginario” più vaste di quanto il linguaggio comune e pre-scientifico volesse ammettere. In questo senso anche Allport si avvicina all’opinione pubblica, ricostruendo puntigliosamente le credenze cristallizzate rispetto alle azioni sociali nascoste dall’espressione stessa, e distinguendo le impostazioni individualistiche dal fenomeno “opinione pubblica” nel suo insieme. Da questo punto di vista Allport arriva a delineare una serie di errori di concettualizzazione in un celebre saggio pubblicato sul primo numero di «Public Opinion Quarterly» che, una volta risolti, avrebbero dovuto a suo avviso portare a una rapida escalation di una nuova scienza dei comportamenti sociali che, per la prima volta, viene chiamata – ed è il titolo del suo saggio – Scienza dell’Opinione Pubblica. Paul Felix Lazarsfeld (1925-1977) ha un suo spazio del tutto particolare nella storia dell’investigazione sociale. Nato a Vienna e lì laureatosi in matematica, si spostò negli Stati Uniti già dalla seconda metà degli anni Trenta, cominciando a occuparsi di media radiofonici con analisi molto acute sul piano sociologico quanto raffinate sul piano metodologico (Radio and the printed page, 1939; Radio Research, 1941 e poi 1941-42). Vero e proprio innovatore nei metodi della ricerca empirica, Lazarsfeld colse con grande puntualità i passaggi strategici dell’influenza dei media pre-televisivi sulla partecipazione civile e sociale dei cittadini nordamericani, determinando nuovi strumenti di scavo analitico, come le “focused interviews” (The People’s Choice, 1943 e 1948) e l’“analisi del contenuto” (The Analysis of communications content, 1948).
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Il posto di primo piano occupato da Lazarsfeld nella storia delle scienze sociali esce altresì confermato dalla sua capacità di stabilire collaborazioni con i maggiori ricercatori della sua epoca, da cui scaturirono sempre lavori di grande spessore innovativo. Nel famosissimo Personal Influence (1955), scritto in collaborazione con E. Katz, si espresse compiutamente l’esigenza di stabilire una rete connettiva di “opinion-leaders” per stabilire la formazione, la circolazione e la diffusione delle opinioni politiche e sociali dei cittadini, anticipando così la maggior complessità delle ricerche sociologiche sull’opinione pubblica e sui media che, a partire da allora, valuteranno l’impatto “individuo-media” come la risultanza sofisticata di un principio interattivo valido solo in presenza di un’accurata analisi del territorio comunicativo globale di una società, perciò fuori dalle demonizzazioni selvagge dei media e dalle allegre semplificazioni neo-positivistiche. Sulla scia del proprio grande background di ricercatore sul campo, Lazarsfeld collaborò con saggi d’importanza strategica al decollo e all’affermazione della rivista «Public Opinion Quarterly», giungendo a definire, nel saggio che qui presentiamo, la summa del suo apparato metodologico e della sua grande intelligenza anticipatrice anche sul piano teorico, laddove egli avverte la necessità di arricchire la mole di lavori di ricerca sull’opinione pubblica nordamericana con un nuovo confronto con i prodotti teorici della sociologia europea (la cosiddetta “classical tradition”). Jürgen Habermas (1929) detesta le interviste e diffida di coloro che riportano il suo pensiero. Evidentemente è conscio della complessità della sua produzione scientifica che, pur partendo dall’impostazione della Scuola di Francoforte, si è via via creata uno spazio singolare e significativo nella filosofia e nella sociologia degli ultimi quarant’anni. Le sue ponderose e dettagliate analisi hanno preso in esame l’orizzonte del sapere e della conoscenza (Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, 1967; Conoscenza e interesse, 1968; Cultura e critica, 1972) e il dirompente affermarsi dei problemi sociali e culturali che accompagnano lo sviluppo della tecnologia nelle società moderne (Teoria e prassi nella società tecnologica , 1963; La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, 1973; Teoria dell’agire comunicativo, 1981). Nell’autunno del 1962 Habermas presentò una tesi di docenza alla Facoltà di filosofia di Marburgo dal titolo Strukturwandel der Oeffentlichkeit (trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica). Il testo costituì il primo grande tentativo di sistematizzare l’insieme delle conoscenze sociologiche e di filosofia del diritto sulla galassia “opinione pubblica”, secondo Habermas funzione della sfera pubblica borghese venuta a maturazione in Europa durante il Settecento. Come Horkheimer e Adorno avevano indagato i media del loro tempo, determinando connessioni e intrecci fino alla formulazione del-
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la teoria dell’industria culturale di massa, così Habermas, storicizzando il concetto di opinione pubblica, coglie i fenomeni comunicativi della sfera sociale affiancandoli alla crescita delle tecnologie informative e dei grandi rivolgimenti socio-politici dei secoli scorsi. Fin dal suo apparire Storia e critica dell’opinione pubblica divenne un fondamentale testo di riferimento per l’analisi sociologica della comunicazione, summa analitica che, pur attraversata dall’allarmismo culturale dello sguardo francofortese, si colloca come una costruzione storica e sociologica di salda architettura. I brani scelti appartengono alla prima parte di quest’opera di Habermas, laddove l’autore tratteggia con precisione gli elementi fondativi della sfera pubblica borghese, madre – da allora – di tutte le opinioni pubbliche. Niklas Luhmann (1927-1998), docente di sociologia all’Università di Bielefeld, è stato uno dei principali protagonisti del dibattito sociologico contemporaneo. Ha avuto e ha una sua particolare fortuna editoriale in Italia (molte le traduzioni delle sue opere: Potere e complessità sociale nel 1975, Illuminismo sociologico nel 1983, Come è possibile l’ordine sociale nel 1985, Comunicazione ecologica nel 1990 ecc.). Sistema sociale, senso, riduzione di complessità: sono alcune delle parole-chiave del lessico luhmanniano, la cui teoria si colloca – come ricorda Franco Crespi – nel quadro di un “radicale relativismo scientifico”, partendo da una critica radicale del funzionalismo di Parsons e proponendo un nuovo modello di tipo neo-funzionalista. Nel 1970 Luhmann intitola un saggio Oeffentliche Meinung, che apparirà in Italia nel 1978 con il titolo tradotto letteralmente (Opinione pubblica) all’interno della raccolta Stato di diritto e sistema sociale. Partendo dalla constatazione che il concetto d’opinione pubblica presenta un oggetto “divenuto dubbio, forse addirittura inesistente”, lo studioso tenta un percorso che valorizzi nuove funzioni del concetto d’opinione pubblica all’interno delle strutture del sistema di comunicazione, mettendo in rilievo la centralità del rapporto opinione pubblica-sistema politico, laddove la prima sia in grado di prestrutturare i temi, ordinando operazioni selettive. La complessità del pensiero di Luhmann si riverbera nella sua costruzione linguistica: alcuni passaggi dei ragionamenti dello studioso risultano talvolta difficili e oscuri, come se lavorasse in un territorio di simulazione sociologica dove lo spazio dell’attore è ristretto a un agire non intenzionale, quasi privo di una soggettività propria. Le entità che Luhmann muove sul palcoscenico delle teorizzazioni non appaiono in grado di influire sulla macchina del sistema sociale, sempre più vicino a una logica cibernetica. Tuttavia, nel caso del saggio sull’opinione pubblica qui presentato, è interessante notare come la polemica con l’antagonista teorico Haber-
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mas (“si devono trovare interpretazioni più astratte”, scrive Luhmann) riesca a fornire materiale per un primo oltrepassamento della crisi del concetto stesso di Oeffentliche Meinung. Scelta di un tema e articolazione delle opinioni relative a quel tema: ecco le prime funzioni dell’opinine pubblica. C’è un sensibile avvicinamento alle posizioni che ritroveremo (potenziate) in Noelle-Neumann, allorché il sociologo parla di una funzione generale dell’opinione pubblica rispetto alla diminuzione dell’insicurezza e alla creazione di strutture comunicative interpersonali. Inoltre è centrale, coerentemente con il particolare neo-funzionalismo dell’autore, l’indispensabile collegamento tra zone diverse del sistema sociale, alla ricerca di una morale collettiva razionalizzante capace di ordinare operazioni di selezione dei temi e quindi di spingere alla deliberazione (principalmente, anche se non esclusivamente, politicoistituzionale). “La società – scriveva Luhmann nei tardi anni Settanta – è il sistema sociale più esteso, che ordina tutte le possibili comunicazioni tra gli uomini. La società non consiste di uomini: consiste di comunicazioni tra uomini”. P ie rr e B ourdieu (1930-2003) è stato professore di sociologia al College de France, directeur d’études a l’École des Hautes Études en sciences sociales e direttore del Centre de Sociologie Européenne. Nel corso del suo ricchissimo itinerario sociologico si è occupato di questioni educative e di condizioni studentesche (celebre la sua opera che risale al 1964 Les heritiers: les étudiants et la culture, scritta in collaborazione con J. C. Passeron), di sociologia della cultura, di “sociologia della sociologia”, di linguistica, di arte moderna, di mercato dei beni letterari, di movimenti dei migranti e di politica antagonista. Interessi tanto vasti non hanno impedito allo studioso francese la costruzione di una serissima trama empirica, che ha dato fondamento alle sue ipotesi scientifiche, spesso originali e controcorrente. Nel 1976 la rivista «Problemi dell’informazione» inaugurava il suo primo numero con uno scritto di Bourdieu dedicato al problema dell’impatto comunicativo dei sondaggi d’opinione (questione all’epoca assai più attuale in Francia che in Italia, ma il nostro paese in materia ha nel frattempo compiuto passi da gigante) e intitolato polemicamente L’opinione pubblica non esiste. Si tratta di un lavoro perfettamente utilizzabile ancor oggi, e denso di riflessioni che, dall’“arte di porre domande”, arrivano in modo ficcante alla tecnica di prefigurare risposte e quindi, in ultima analisi, a prefigurare l’opinione pubblica. Centrale, nel ragionamento di Bourdieu, è la verifica del relativismo delle interrogazioni sondaggistiche. I tre postulati impliciti nelle ricerche d’opinione, richiamati da Bourdieu sin dalle prime pagine del
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saggio, rendono impervio operare una verifica circostanziata sull’efficacia e sull’efficienza dei sondaggi. Al vaglio epistemologico, il sondaggio crolla non per via del campionamento o della tecnica di ricerca utilizzata, quanto per la melliflua adesione dei quesiti a una logica di riconferma dei rapporti sociali esistenti (“L’effetto fondamentale del sondaggio è questo: si costruisce l’idea che esiste un’opinione pubblica unanime per legittimare una politica e rafforzare i rapporti di forza che ne stanno alla base o la rendono possibile”). Oltre a un’ipocrisia di fondo che non arriva a calcolare il diverso peso di un’opinione espressa da un individuo dotato di prestigio rispetto all’anonimato di tanti altri intervistati, cellule quasi inerti del dispositivo sociale. L’approdo di Bourdieu è verso la considerazione dell’opinione pubblica come un campo di forze, attraversato da una continua tensione conflittuale. Il suo interesse per l’opinione mobilitata, cioè per le minoranze attive e i gruppi di pressione, non impedisce comunque di valutare le “disposizioni” delle collettività sondate, possibilmente avendo la capacità e il coraggio politico di leggere dietro le non-risposte e le titubanze comunicative in genere l’esistenza di uno stato permanente di fragilità e instabilità di massa. Un indiscutibile successo professionale e un passato difficile da assolvere: è tra questi due estremi che si muove Elisabeth Noelle-Neumann, studiosa che ha cavalcato la scena pubblica tedesca dagli anni dal Terzo Reich a oggi, brillando per le puntualissime e acute analisi dell’opinione pubblica tedesca nel corso dei decenni, iscrivendo il proprio nome nella storia degli studi su opinione pubblica e mass-media con una teoria dal nome a effetto, la spirale del silenzio, e facendo discutere dei propri trascorsi giornalistici sotto il regime nazionalsocialista. Nata a Berlino il 19 dicembre del 1916 (e tuttora lucidamente ultranovantenne), Elisabeth Noelle fece studi di newspaper science, storia e filosofia a Berlino, Königsberg e Monaco. Trascorse poi un anno accademico, il 1937-38, all’Università del Missouri grazie a una borsa di studio, specializzandosi in giornalismo e muovendo i primi passi nel campo che non avrebbe più abbandonato: la public opinion research. Viaggiò attraverso gli Stati Uniti, quindi in Messico, Giappone, Corea, Manciuria ed Egitto, prima di rientrare a Berlino per la laurea, con una tesi discussa nel 1939 sulla public opinion research americana. Redattrice del settimanale «Das Reich» dal 1940 al ’42, fu licenziata senza preavviso per ordine di Goebbels: ne sarebbero stati la causa tre mesi di malattia della sociologa. Dopo la fine della guerra, nel ’46, il matrimonio con Erich Peter Neumann, futuro deputato parlamentare della CDU nella Repubblica federale tedesca. Insieme al marito fondò nel maggio 1947 l’Institut fur Demoskopie di Allensbach, sul lago di Costanza, il primo istituto tede-
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sco per l’analisi dell’opinione pubblica. Accanto alla ricerca sul campo, dagli anni Sessanta Noelle-Neumann si dedicò anche all’insegnamento universitario a Berlino, Monaco e Chicago. Tra i passaggi più controversi della carriera della ricercatrice, le accuse del professore americano Christopher Simpson, che – fondando le sue critiche sulla professione di Noelle-Neumann, iniziata negli anni del nazismo – ha sostenuto di poter rinvenire anche nella sua attività di ricerca più recente un approccio totalitario. Secondo Simpson, Elisabeth Noelle-Neumann avrebbe volontariamente aspirato a una carriera nazionalsocialista e non si sarebbe fatta in seguito scrupolo di sfruttare il proprio prestigio per divulgare teorie di dubbia scientificità. Simpson argomenta le sue accuse a Elisabeth Noelle-Neumann molto dettagliatamente in un articolo sul «Journal of Communications». Nonostante sia apparsa sulla stessa rivista un’accurata revisione dell’articolo di Simpson a opera di H. M. Kepplinger, nella quale viene data risposta a tutti i quesiti e i dubbi sollevati dall’americano, le accuse di Simpson hanno lasciato una macchia che nonostante tutto continua ad accompagnare il nome della ricercatrice a distanza di anni. L’opera principale di Elisabeth Noelle-Neumann, rielaborata, limata e arricchita nel corso di venti anni di studi ininterrotti, è la Spirale del silenzio (1984). Un’altra opera di rilievo è il manuale interamente dedicato al sondaggio d’opinione Alle, nicht jeder (Tutti, non ciascuno) (Springer Verlag, 2000) non ancora tradotto in italiano. L’elaborazione teorica più famosa e di maggior rilievo scientifico è senz’altro la sua teoria della spirale del silenzio. Il brano qui presentato, pubblicato a conclusione dell’edizione tedesca della Spirale del silenzio del 1996, compare oggi in italiano per la prima volta. Questo testo è stato studiato appositamente per rispondere alle esigenze di sistematicità e sintesi presentate dagli studenti di Noelle-Neumann: strutturata in una serie concatenata di domande e risposte, essa assolve con chiarezza e semplicità al compito di chiarire il complesso meccanismo della spirale del silenzio. Eric Landowski rappresenta un riferimento tra i più autorevoli nel campo della ricerca semiotica; oltre a dirigere il Centro di Ricerche sociosemiotiche di San Paolo del Brasile è redattore capo della «Revue internationale de sémiotique juridique» e direttore di ricerca al CNRS. Il suo lavoro è teso a dimostrare come non esista alcuna comunicazione che rifletta esattamente e semplicemente la realtà sociale; questa viene continuamente riformulata e rielaborata attraverso i codici della comunicazione: parlando e scrivendo di realtà sociale, la si costruisce. Tutte le forme di comunicazione passano attraverso “mediatori” incaricati d’interpretare il pensiero collettivo e d’impersonare il pubblico, formando quella che viene generalmente definita l’opi-
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nione pubblica e che in realtà è il risultato di un passaggio intermedio creato dai mass media nella loro funzione di manipolatori più che nel ruolo di manipolati. L’originalità e l’interesse del lavoro dedicato all’opinione pubblica risiede in particolare nella “potenza” che l’autore associa a questa categoria: la sua vocazione consiste per eccellenza nel fare agire la “classe politica”; da osservatrice che era l’opinione pubblica diventa a sua volta “degna d’osservazione nei suoi comportamenti, auscultata nei suoi stati d’animo, sondata in quanto riserva di energie canalizzabili”. Il processo, però, non s’innesca fino a quando dinanzi ai responsabili politici si trovi una moltitudine disorganizzata e frammentata; occorrono interlocutori competenti, “mediatori” in grado d’impersonare il pubblico. Per argomentare la sua tesi Landowski fa ricorso al dispositivo teatrale: accanto al coro della drammaturgia ateniese che in questo caso è rappresentato dall’opinione, esiste il corifeo, il “capo del coro”, introducendo così la figura del “portavoce” dell’opinione pubblica. Giornalisti e politici si avvalgono del ruolo di portavoce operando strategie multiple, come l’esercizio di pressioni sui rivali o alleati o allocutori per spingerli a determinati comportamenti in nome dell’opinione pubblica, dei suoi umori e posizioni, facendo così assumere a questa ultima le vesti di garante. L’analisi del semiologo francese si fonda pertanto su un attento studio delle relazioni e reciprocità esistenti tra potere, politica, diritto e pubblicità, interfacciati con pubblico, opinione pubblica e mass media; la tesi centrale del suo lavoro è che la comunicazione sia prima di tutto azione: è il codice che pretende di farci agire e che, al tempo stesso, vorrebbe regolare le nostre azioni. Questa tesi è applicata ai differenti registri della comunicazione, al discorso politico, a quello giornalistico, del diritto o della pubblicità. È valido in ogni momento comunicativo in cui possa entrare in gioco, si possa citare o far parlare l’opinione pubblica. L’originalità dell’autore risiede in particolare nell’aver analizzato i processi identitari e i legami sociali all’interno di una semiotica del quotidiano, in cui i gusti, gli oggetti, i discorsi comunicativi diventano spazi d’interazione tra “soggetti” e “oggetti” individuali e collettivi.
* Le schede su Elisabeth Noelle-Neumann e su Eric Landowski sono rispettivamente di Sabra Befani e Rossella Rega. Tutte le altre sono del curatore.
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.
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Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di aprile 2004 presso Arti Grafiche La Moderna, Roma Impaginazione Studio Agostini