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Han H ans s Urs von Balthasar Balth asar Cordula ovverosia il caso serio
UNIVERSITÀ' DI CAGLIARI
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FILOLOGIA CLASSICA
Dib D ibat attit tito o sul su l cristianesimo i
Hans Urs von Balthasar
Cordula ovverosia il caso serio
terza edizione
Editrice Queriniana
Titolo originale
Cordula oder der Ernstfall Johannes Verlag, Einsiedeln
Traduzione dalla terza edizione in lingua tedesca di Giovanni Viola e Giovanni Moretto Edizione italiana a cura di ENZO Gl AMM AN CHERI
Prima edizione aprile 1968 Seconda edizione luglio 1968 Terza edizione marzo 1969
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Johannes Verlag, Einsiedeln 1966
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Editrice Queriniana, Brescia 1968
Tipografica Queriniana - Brescia
Presentazione
Nella storia dello svolgimento del concilio Vaticano li il nome di Hans Urs von Balthasar non sarà scritto. Nonostante un teologo come Henri de Lu bac, che lo ebbe discepolo, l ’abbia giudicato l ’uomo «il più colto del sup tempo» e l’abbia riconosciuto autore «di un’opera le cui immense e profonde pro porzioni sono tali che la Chiesa non ne conosce altre al nostro tempo» (cfr. «Paradosso e mistero della Chiesa», Queriniana Brescia, 1968, p. 128), Balthasar non fu chiamato a prendere parte né ai lavori preparatori né ad una delle tante commissioni di studio che assistettero i Padri durante il concilio. Sempre de Lubac ha definito, con severità, la mancata convocazione una «cosa sconcertante e umiliante», anche se poi ne ha cercato una certa spiegazione quando ha affermato che «Balthasar non è l’uomo delle commissioni, delle discussioni circa le parole, delle formule di compromesso e delle redazioni collettive». Non è qui il caso di interrogarsi oltre sulle possibili motivazioni dell’assenza e, ancor meno, di prenderne pretesto per ima contestazione. Certo, quella di Balthasar non è per nulla un’opera di scuola, accademica, facilmente riassumibile e utilizzabile, di cui con facilità si possa cogliere il centro unitario,
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il particolare logos; non è per nulla, come ha detto Karl Rahner, una «teologia di corte», pur dopo aver purificato l’espressione da ogni equivoco e sottinteso, e dopo aver riconosciuto quanto apprezzabile e utile alla Chiesa sia un corretto rapporto fra il magistero da una parte e la ricerca e le formulazioni dei teologi dall’altra; non è ancora nemmeno adeguata mente recepita dalla stessa teologia. Forse, al di là della sorpresa perché una voce tanto forte non abbia potuto essere udita in un’occasione come il concilio, bisogna soltanto credere con umiltà che Dio ha le proprie stagioni e segue una propria logica, e che le astuzie della Provvidenza, per dirla con il Vico, hanno sempre dalla loro parte un futuro che noi talvolta appena un poco siamo in grado di intra vedere. Nella storia del concilio, invece, nella misura in cui esso fu non un’improvvisazione, ma il luogo di maturazione di ricerche e di riflessioni che da lungo tempo, e spesso nel silenzio e nell’incomprensione, impegnavano l’intelligenza e la passione di molti cristiani, teologi o pastori d’anime, il nome di Balthasar sarà più volte scritto. Perché non v ’è documento del Vaticano n che non sia stato da lui in qualche misura anticipato o nei temi o nel linguaggio e nella sensibilità o nelle soluzioni. Ricordiamo per tutti l’interpretazione ecclesiale, e perciò cristologica, dei dogmi mariani. Evitando le deviazioni tanto di una specie di geometria mariologica, che deduce le prerogative e i carismi della Vergine quasi fossero dei teoremi e all’insegna di un poco sicuro «de Maria numquam satis», quanto di un atteggiamento di timore e quasi di vergogna che alcuni catto-
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lici provano nell’affrontare il problema di Maria, Balthasar da molti anni prima del concilio viene insegnando che la verità mariana è annodata al centro del mistero della Chiesa e di Cristo, tanto che Maria, più di Pietro e degli apostoli, «incarna il tutto della Chiesa» (in «Abbattere i bastioni», 1958, p. 51). Il nome di Balthasar sarà infine ricordato come fondamentale nella storia del postconcilio e della prima generazione conciliare per almeno due motivi. Primo: se, come dice de Lubac, il tesoro contenuto nei testi del concilio non può rivelarsi subito, essendo la loro ricchezza e profondità maggiori, perché opera dello Spirito santo, di quanto intesero gli uomini che li hanno scritti, quando «si vorrà sfruttare questo nuovo tesoro, ci si accorgerà che per un compito tale nessuna opera offre forse tante risorse quante quella di Hans Urs von Balthasar». Secondo: per il contributo da lui finora dato ad una comprensione del concilio che stranamente non comprometta o anche soltanto diminuisca il valore assoluto della verità cristiana, per il richiamo, accorato e talora forte fino ad essere tagliente, a non lasciarsi fuorviare da unilateralità, da cedimenti a quella che Paolo chiama la sophia logou (1 Cor. 1,1 7 ), dagli incantesimi, variamente camuffati, di nuovi miti, compreso il mito della demitizzazione, da dialoghi che sono nient’altro che abbassamenti di bandiera, in una parola a non svuotare il cristianesimo fino a farne una sovrastruttura ideologica della nostra esperienza come singoli e come soci, magari con l ’intento di richiamare un mondo sempre più disattento e incredulo. In questo secondo ordine di preoccupazioni trovano posto e rilievo i libri «Solo l’amore è cre-
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dibile» (1963), «Chi è il cristiano?» (1963), ed ora anche «Cordula», libri diffusi e discussi, e che hanno con sicurezza colpito nel segno di reali problemi della teologia e della vita della Chiesa oggi. La situazione che Balthasar evoca in «Cordula» è quella di una Chiesa postconciliare profondamente turbata, di una comunità di cristiani che sembra smarrita sia nei concetti sia nella pratica, e vittima di qualche tragica illusione che impedisce d’esserne chiaramente coscienti. Esiste allora un criterio per stabilire con certezza che la strada sulla quale i cristiani si sono messi è quella giusta? C ’è una misura per regolare il valore cristiano delle formulazioni dottrinali e delle scelte esistenziali? È appunto questo il problema di «Cordula». Se i Padri del concilio non furono apprendisti stregoni che finirono col liberare forze più grandi di loro e che ora sono impotenti a dominare; se il magistero ora non è ridotto alla figura di un profeta disarmato che si chiude nell’impotenza del lamento e della mozione degli affetti; se i cristiani non sono «atei anonimi», coinvolti per motivi di sopravvivenza nell’attuale processo, d’umanizzazione del mondo e della società, e di affermazione dell’assolutezza dell’uomo, per i quali le motivazioni rivelate e teologiche sono alla fine irrilevanti o mantengono un valore «privato» di carica ideologica ed emotiva; se, rovesciando la prospettiva, si crede veramente che lo Spirito di Dio anima ancora oggi la Chiesa, dopo che Cristo, nel punto radicale della storia, esaltando il suo spirito sulla croce, l’ha infuso in essa, nata dal suo cuore trafitto, in attesa che a Pentecoste erompesse nella forza della fede e dell’amore, ci
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deve pur essere un simile criterio, come ci deve pur essere un vizio di fondo quando si pensa di caricare sul concilio, e prima ancora su papa Giovanni, le responsabilità dell’attuale situazione traumatizzante nella Chiesa. Qui il salto logico di un «post hoc, ergo propter hoc» è chiaro per un credente. Balthasar ci ricorda che il criterio c’è, inequivocabile, e che il vizio di fondo è d’averlo dimenticato, o anche soltanto messo tra parentesi, innanzitutto quando si leggono i testi del concilio o si interpreta 10 spirito di esso. Cos’è il «caso serio»? È appunto il criterio. Il termine ‘Ernstfall’ è semanticamente assai ricco di sfumature. Potremmo anche intenderlo come 1’ ‘elemento essenziale’, il ‘criterio di fondo’, od anche 1’ ‘impegno assoluto’. Il «caso serio» si trova in ogni filosofia, che sia non un’esercitazione mentale, ma la problematizzazione della vita, in ogni ideologia e visione generale della vita stessa. Il «caso serio» è il cuore di una verità, il nucleo che la pone in essere come tale, tanto che se il «caso serio» viene compromesso o, peggio ancora, svuotato, è la verità stessa di un pensiero che viene meno. Il «caso serio» del cristianesimo è uno solo: la croce di Cristo. Sulla croce si manifesta la ‘gloria’ di Dio, il quale, nella morte di Cristo, si rivela come amore che per gli uomini ha sacrificato il Figlio suo. La fede cristiana è credere a questo amore, che è il solo credibile, ed è accettare la croce, la morte quindi, nel battesimo come, se richiesti, nel martirio, perché solo un amore fino alla morte è adeguato all’amore di Dio e ci immette in esso, rivelandoci 11 senso ultimo della vita. «Il concilio ha scritto
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Balthasar in un articolo del 1966 ha ben chiara la consapevolezza che secondo la visione neotestamentaria, e soprattutto giovannea, non esiste altra gloria di Cristo fuor di quella della sua croce e che la risurrezione non è se non l’attestazione di vina di questo: l ’amore eterno ha proclamato la sua gloria suprema attraverso la dedizione e l’abbandono estremi di sé nella notte della croce e nella discesa agli Inferi» (cfr. «Humanitas», 1966, p. 693). Il «caso serio» è dunque Yessenza del simo. Ogni interpretazione teologica che cristologia ad antropologia, l’amore di Dio degli uomini, la carità alla moralità, che croce bolo, dello Il Ogni
cristianeriduca la all’amore svuoti la
considerandola un mito, un’analogia, un simche il binomio amoremorte riduca ad un moletterario, è una negazione del cristianesimo. «caso serio» è la forma della vita cristiana. scelta che umanizzi la 'Parola della croce’, lo
scandalo della croce, 1’ 'impotenza di D io’, per sostituirvi una vita più 'razionale, e più ‘sociale’, non è una scelta cristiana, non è più il paradosso della debolezza fatta forza (2 Cor. 12,910), non è più la sfida cristiana dell’amore, non è più la morale cristiana della Pasqua. Il «caso serio» è il criterio per la vita della Chiesa. Non si può certo contestare al magistero il diritto di usare parole come 'aggiornamento’ e 'dialogo’. Ma si può e si deve interpretare quelle parole sempre dal punto della croce, se si vuole evitare la confusione delle lingue e abbattere i bastioni di nuo vi trionfalismi legati all’equivoco concetto della modernità del cristianesimo. L ’oggi senza tramonto del cristianesimo è soltanto la croce, e la modernità del \
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cristiano è assicurata quando fiorisce sul sepolcro di Cristo. Dal «caso serio» derivano almeno tre conseguenze per la Chiesa e il cristiano. Innanzi tutto l’iner mità. Solo nello scacco della morte Cristo s’è rivelato la gloria del Padre; altrettanto per il cristiano, se vuole vivere veramente la forma di Cristo. In secondo luogo, l’esperienza della solitudine e dell’ab bandono. Mai come oggi, e ancor più in futuro, per quanto si può prevedere, il cristiano ‘serio’ si sente solo in un mondo che non lo capisce più e lo martirizza col disinteresse totale. Infine, il primato della preghiera, della contemplazione, del profondo silenzio in cui s’affonda lo spirito nel colloquio con Dio, sopra l’organizzazione e l’apparato. Il primato cioè di quel dono intimo di sé, che costituisce da sempre nella Chiesa la santità, e che s’effonde intorno come il profumo dei frutti dello spirito, soprattutto la carità, la gioia, la pace che viene dalla docilità a Dio. Balthasar non è il solo ad aver fatto un simile discorso. Viene subito in mente il Maritain de «Le paysan de la Garonne». Il richiamo è fondato, se si considerano il fine, l’intenzione, le realtà denunciate, la passione di tante parole. Ma fra i due vi è una grande diversità nel linguaggio e nella prospettiva. Il discorso di Balthasar è soltanto biblicoteologico, anche se non manca un breve forse troppo profilo dello sviluppo del cosiddetto ‘sistema’ moderno, cioè di quel pensiero filosofico che a partire dalla contraddizione kantiana tra la ragione pura e la ragione pratica è, secondo l’autore, la vera matrice dell’ateismo umanistico d’oggi. Diverso, quindi, il linguaggio e diverse le categorie. E forse ancora più
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convincente, perché il «caso serio» non si presta tanto alle denuncie di collusioni politiche tra comunisti e cattolici, non si confonde con una nostalgica evocazione del passato, non è nemmeno un tema per una disputa fra teologi, ora soprattutto che la postilla alla terza edizione ha smussato le punte di una polemica con Karl Rahner che certo aveva qualche asprezza. È semplicemente un radicale esame di coscienza per tutti quanti portano il nome di cristiano. È chiedersi: chi è il cristiano? siamo ancora cristiani? Domande che s’impongono anche ai cattolici della Chiesa italiana, forse meno turbati finora dalla demitizzazione, ma sempre esposti più che in altri luoghi, per motivi storici e sociali, al pericolo dell’abitudine e del conformismo; alla tentazione di ridurre il cristianesimo nell’ambito delle questioni sociali e politiche; alle lusinghe di mai sopiti trionfalismi, quali il numero, le strutture, il possesso di mezzi sempre più moderni; alla non esatta coscienza di quanto la società italiana si stia religiosamente trasformando. Una fuga dal mondo, dunque? Sì, se la fuga è il rifiuto di due logiche opposte ed oggi operanti: quella di coloro che credono che la Chiesa sia orinai una nave in disarmo e quella di coloro che pensano la Chiesa con mentalità aziendalistica e da capitani d’industria. No, se la presenza del cristiano nel mondo viene realizzata nella solitudine del Cristo, nell’amoroso colloquio con la sua Parola, nel cercare d’amare il prossimo come lui ci ha amato. E
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Prefazione
Viene qui avanzata una proposta, e la si sottopone alVesame dei cristiani. Si offre un criterio, e precisamente quello migliore. La pubblicità conosce questo comparativo senza termine ài paragone. «OMO lava più bianco». Più bicmco di che cosa? Secondo il di ritto commerciale non è permesso dirlo. Sarebbe inol tre un errore di tecnica reclamistica, perché la man canza di paragone ha una forza evocativa maggiore. E questa volta ciò che importa è appunto una certa evocazione. Il criterio, già se a semplice titolo di prova viene usato con la fantasia, produce un effetto curioso. Se tu dicessi a Ber nanos: «Vieni con me, è il caso se rio!», il vecchio brontolone senza battere ciglio si al zerebbe dalla sedia e ti seguirebbe come un agnello. Va' da Reinhold Schneider, il poeta di Winter in Wien
(Inverno a Vienna), e digli la stessa cosa : sia
mo curiosi di vedere ciò che accadrà. Se infine col tuo appello ti rivolgi in genere ai nostri demitizzati', ai convertiti al mondo, non so; essi, infatti, hanno già risolto tutto, hanno ormai soltanto una fede analogi ca in una Parola intesa in senso analogico, per le qua li certamente vale la pena di morire soltanto in modo
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analogico, così come il loro cristianesimo merita di essere vissuto solo in modo analogico. Prendi tuttavia questa lanterna di Diogene e vedi a che risultato si può giungere. Con essa potresti distinguere persone che, giudicate dall’esterno, ap paiono molto simili: l ’una arde di carità e ritiene giusto ogni mezzo che Vaiuti a parlare in modo nuovo della carità di Cristo al fratello duro d’orecchio; l’altra, invece, ne ha abbastanza in cuor suo del Vangelo, della croce, di tutto il lavorio dogmatico e sacramentale, fiuta l’aria del mattino e prende due piccioni con una fava: si libera di ciò che le torna profondamente uggioso, e tuttavia, così facendo, cammina, come cristiano aperto alla riforma, tenendo il passo con la scienza verso un futuro migliore. Vuna demitizza per credere in modo più profondo e puro, l’altra lo fa per non dover più credere Quanta ambiguità è nascosta nella cristianità moderna? Come non mai! Prendi dunque la lanterna, e forse tra tanti professori troverai almeno un paio di veri confessori. Chissà che, all’inizio dello spettacolo, qualcuno non salga ancora sulla scena e voglia recitarvi di buon grado la parte di Genesio e di .
Cordula.
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I. Il caso serio
Avendo Gesù, figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la sua vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la sua vita per lui e per i suoi fratelli (ofr. i Gv. 3,16; Gv. 15,13). Già fin dai primi tempi quindi alcuni cristiani sono stati chiamati, e lo ¡saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente da vanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e a lui si conforma nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa dono insigne e suprema prova di carità. Ghe se a pochi è concesso, devono però tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa. Concilio Vaticano n, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, n. 42.
i. fondamento biblico
Perché Gesù Cristo non ha predetto ai suoi discepoli altra sorte che la sua, e cioè persecuzione, insuccesso e passione? È vero che il grande discorso missionario alla fine di Matteo, magnificamente ab bellito dallo Spirito, santo, conferisce un mandato universale che abbraccia tutti i tempi e i luoghi, tutte le civiltà del presente e del futuro; ma un mandato, per sé, non comporta la garanzia della sua esecuzione fino alla fine. Sovente, tra le opere umane, le maggiori sono quelle che lasciano prevedere cose enormi, ma poi si interrompono anzi tempo. Inoltre, un mandato del genere richiede un impegno così grande delle forze umane che s’avvicina di molto al pensiero della sofferenza. Tanto più se si considera che i cristiani sono mandati come agnelli tra i lupi un’immagine terribile, se anche per un solo momento si riflette su ciò che essa enuncia: non soltanto l’impotenza e l’inermità dell’agnello che è mandato, ma la naturale, e perciò sicura e insopprimibile, brama omicida del lupo. Il discorso missionario di Matteo io, che nei confronti dell’idealistico Matteo 28,19 20 contiene alcuni dettagliati e realistici particolari dell’esecuzione, pone il detto pecoralupo come il criterio per due serie di enunciati intrecciate tra loro:
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una serie viene dopo l ’ammonizione: «Guardatevi!», e contiene le predizioni più tetre: 10 ,17 .18 .21.2 2. 34.35.36; l ’altra dipende dal comando: «Non temete dunque», e contiene le più belle promesse: 10,1920. 26.28.31.4042. Le due serie sembrano contraddirsi apertamente. Nelle diffide, infatti, si ha ogni volta di mira, apertamente od implicitamente, una situazione di morte. Essa è già presentata con chiarezza nel detto pecora lupo. Per coloro che non la trovassero abbastanza evidente nella ‘consegna’ (paradosis) ai tribunali, nelle flagellazioni e nelle traduzioni dinanzi a governatori e re, Giovanni chiarisce: «Chiunque vi ucciderà, crederà di rendere culto a Dio» (16,2). Tuttavia, nel versetto 21 la ‘paradosis’ viene precisata come ‘paradosis’ alla morte: il fratello consegna alla morte il fratello, il padre il figlio, i figli i genitori. Nel versetto 28 si parla della «uccisione del corpo», in opposizione dell’uccisione dell’anima, che spetta a Dio solo (con la dannazione). La spada, che nel versetto 34 e seguenti separa gli uomini, non limita la situazione di morte, ma ne mostra i presupposti e le proporzioni intrinseche: l ’odio (vers. 22; Gp. 15,18), l’intolleranza della confessione (‘martyrion’, Mt. i o , 18; cfr. 3233). Mentre la serie delle diffide parla senza dubbio della situazione di morte, la serie delle promesse sembra escluderla sempre: «Ma chi avrà sopportato fino alla fine, questi sarà salvato» (vers. 22); i passeri sono nelle mani del Padre, tanto più i confessori del Figlio (vers. 2931).
Sembra quasi che, al Signore che parla, non im porti vedere qui la contraddizione, e tanto meno risolverla. Il punto dal quale egli parla, che è all’ori
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gine in modo unitario delle due serie intrecciate di affermazioni e che rende quindi comprensibile il tutto, è il punto in cui si pone lui stesso. Anzi, di più: il punto è lui stesso, ed esiste soltanto perché lui vi è. «Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi», chiarisce Giovanni rimandando esplicitamente al discorso missionario di Matteo. «Ricordatevi della parola che vi dissi: non c’è servo più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» ( G v . 15,18.20). La parola qui richiamata ha un’ampiezza magnifica in Matteo: «Il discepolo non è da più del suo maestro, né il servo da più del suo padrone. Il discepolo si contenti di essere come il maestro, e il servo di essere come il padrone. Se hanno chiamato Beelzebub il padrone di casa, quanto più chiameranno così i suoi familiari!» (vers. 2425). L ’accrescitivo «quanto più» può sorprendere, perché in base all’enunciato discepolomaestro si potrebbe pensare che la posizione di Gesù non possa essere raggiunta, o lo sia difficilmente, da chi lo segue. Purtroppo, in questo caso, essa viene più che raggiunta: se «mi hanno odiato senza ragione» ( G v . 15,25), sarà per voi somma grazia ed onore essere «odiati da tutti a causa del mio nome» (Mt. 10,22), anche se possono esserci tanti altri diversi motivi per odiarvi e per chiamarvi Beelzebub. Non è questo, tuttavia, il pensiero che qui si trova in primo piano, bensì quell’enunciato finale che è un po’ la chiave di tutto: «Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; chi ama suo figlio o sua figlia più di me, non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno
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di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la tro verà» ( M t . 10,3739). 1° queste parole è chiaro che la messa in guardia dai ‘lupi’ («Guardatevi dagli uomini!» Mt. 10,17) non riguarda una mera eventualità, ma una condizione inevitabile, perché con la decisione assoluta per Cristo dev’essere presa anche la controdecisione, «l’odio del mondo». Perché? Si potrebbe pensare che le cose tra «figlio e padre, figlia e madre, nuora e suocera» (vers. 35) non vadano necessariamente a finire in un modo tanto ostile; anzi, che in un mondo tollerante, pluralistico, tutto possa essere risolto amichevolmente, nel sentimento di un reciproco «vivere e lasciar vivere»; chi sa, forse anche questo è imo dei numerosi punti in cui la cristianità evoluta di oggi è andata più in là del suo stesso fondatore. Ma disgraziatamente questi tronca il sogno sia dell’«andar oltre» (vers. 25) sia della «coesistenza pacifica», dichiarando che la sua ‘croce’ storica (vers. 38) è supertemporale ed è la forma permanente di vita per coloro che intendono seguirlo. Chi lo vuole seguire, preferisce Gesù (che «vale più» di «padre e madre, figlio e figlia», vers. 37); ma chi preferisce Gesù, sceglie la croce come il luogo dove il morire è non una eventualità, ma una certezza assoluta. L ’affermazione finale illumina allora il paradosso di tutto il discorso: «Chi cerca di acquistare la sua vita, la perderà». Chi accanto a Cristo, come conditio sine qua non, vuol far posto a se stesso, alla famiglia, agli amici, alla professione, alla preoccupazione per il popolo, lo Stato, la cultura, il mondo, il presente ed il futuro (‘méllonta’, Rom. 8,38), col pre-
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testo che tutte queste cose sono buone, create da Dio, che l’ordine della salvezza non può contraddire l’ordine della redenzione, che Dio stesso mira ad una sintesi di entrambi e che l’uomo ha perciò il diritto di fare altrettanto, anzi, più ancora, che proprio l’ordine della redenzione insegna di preoccuparsi di queste realtà e specialmente del proprio prossimo, costui perderà la sua vita, in qualsiasi modo questa vita venga intesa: o l ’esistenza in mezzo a tutti questi pregevoli beni terreni (con l’eliminazione di Gesù) oppure (il risultato però è identico) la vita tra questi beni in una sintesi (assieme a Gesù) arbitraria, posta come conditio sine qua non. Nel primo caso l’uomo perderà la propria vita terrena al più tardi nella morte, mentre nel secondo caso la perderà in modo molto più radicale e doloroso, perché quella sintesi arbitraria, in senso cattivo ed infecondo, è morta, ed in base ad essa non si può condurre né una buona vita mondana, né una buona vita cristiana. «Chi invece avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (cfr. Mt. 16,25; Me. 8, 34,35; Le. 17,33). Il «per causa mia» è ciò che di vide (la ‘spada’, Mt. 10,34) e produce da sé l’insperata unificazione e sintesi: chi punta sull’uno guadagna tutto, sapendo però di perdere tutto ciò che non è l’uno. Il punto dal quale si parla ed al quale si invita esplicitamente, è quindi la croce. Qui è indifferente che si parli della perdita di ogni cosa terrena, inclusa la vita, oppure della insperata protezione, della sal vezza definitiva, della sicurezza nelle mani del Padre, poiché le due cose sono divenute una sola ed identica, a tal punto che non importa più il modo di
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esprimerla. È il punto in Gesù Cristo, e per opera sua in noi stessi, nel quale dalla morte esce la vita. Il punto in cui, dalla restituzione dello spirito al Padre, procede lo Spirito santo: «Quando poi vi avranno tradotti dinanzi a loro, non vi preoccupate del come e di ciò che dovrete dire, poiché vi sarà dato in quell'ora ciò che dovrete dire. Non siete voi infatti che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» ( M t . iOjic^o).1
1 Josef Schmid compendia il contenuto del discorso con bella semplicità: « Il pensiero principale e dominante è che la sofferenza nelle sue varie forme, il distacco dalle persone più amate, la per secuzione ed infine il martirio rientrano nel destino del discepolo. Ciò ha la sua ragione nella persona di Gesù, che costringe gli uomini a prendere decisione pro o contro. Con la sua persona e con la sua parola egli è la rivelazione di Dio, che perciò nessuno può ignorare. Perciò coloro che aderiscono a lui sono necessaria -
mente oggetto dell’odio di tutti gli altri. A causa dei su o nome essi sono odiati da tutti (vers. 22). Ciò significa che a creare i martiri non è un malinteso umano, bensì una necessità divina. Il martirio, in cui l’odio del ‘mondo’ contro i discepoli da una parte ed il discepolato dall’altra raggiungono la loro pienezza, ha la sua ragione nello scandalo che la persona di Gesù ed il Vangelo rappresentano per il mondo. Ma poiché nessuno può diventare discepolo di Gesù, se non vi è chiamato da lui stesso, a fare i martiri non sono le convinzioni umane, anzi neppure un fervore umano di fede, ma è Gesù stesso a chiamare al martirio ed a farne quindi una grazia particolare. E per questo motivo le parole, che il martire dice dinanzi agli organi dei pubblici poteri statali, non sono parole umane, una semplice confessione di convinzione umana, bensì parole che lo Spirito santo dice per bocca dei con fessori di Gesù Cristo (vers. 20)». ( Das Evangeliu m nach Mat -
thäus übersetzt und erklärt von J. Schmid, [Il Vangelo secondo Matteo tradotto e commentato da J. Schmid], Regensburg 1956 (trad. it., Morcelliana, Brescia).
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2.
Il caso serio in quanto forma
Secondo l’insegnamento di Cristo lo stato di persecuzione è lo stato normale per la Chiesa nel mondo, ed il martirio del cristiano è la sua situazione normale. Non nel senso che la Chiesa debba essere continuamente e dovunque perseguitata; ma se lo è per qualche tempo ed in determinate regioni, essa do vrebbe subito ricordare che è partecipe di una grazia che le è stata promessa: «Vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, vi ricordiate che 10 ve l’ho detto» (G v . 16,4). Tali parole non possono essere superate da nessuna evoluzione del mondo. E non nel senso che ogni singolo cristiano debba subire il martirio cruento, ma nel senso che egli do vrebbe considerare il caso che si presenta come la manifestazione esterna di una realtà interna, della quale egli pure vive. Il martirio è l’orizzonte della vita cristiana in un senso diverso da come lo era nella fede giudaica. In questa, infatti, era un’estrema possibilità umana, per il singolo fedele, di attestare la propria fede in Jahvé; ciò che in essa fa spicco è 11 valore per amore della fede: sono eroi che vengono presentati come esempi a tutto il popolo, specialmente alla gioventù (così le due donne che contro il divieto di Antioco Epifane circoncisero i loro figli,
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Eleazaro ed i sette fratelli: 2 Macc. 67, Daniele ed i suoi amici: Dan. 3; 6; 14,31 s.).2 Un tale carattere eroico manca nel Nuovo Testamento, perché non è l’uomo che si dirige per primo verso il punto estremo, ma proviene di là dove è già stato definitivamente Gesù Cristo. Questi ha realizzato i canti del servo di Jahvé, che per lui erano una promessa. Non c’è dunque una continuazione della situazione veterotestamentaria, ma solo un ingresso nella condizione di Cristo. Mentre il martirio veterotestamentario chiarisce quanto avrebbe dovuto essere forte la fede di ogni giudeo, il martirio neotestamentario manifesta la sua attualità sempre reale, fondata sulla croce di Cristo e comunicata per grazia ai suoi discepoli. Così insegna Paolo, da prima senza fornire una spiegazione: «Se uno solo morì per tutti, allora tutti sono morti». Soltanto la proposizione seguente contiene la spiegazione: «Ed egli è morto per tutti, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che per essi è morto ed è risuscitato» (2 Cor. 5,1415). La morte di Cristo per noi è presentata come un ‘a priori’ del comportamento cristiano, che pertanto ne è totalmente èaratteriz zato. Nella lettera ai Romani, questo a priori oggettivo si estende dall’azione di Cristo al battesimo cristiano, che oggettivamente pone la forma della morte e sepoltura con Cristo come anteriore ad ogni fede
2 Si noti però che i grandi profeti sono chiamati esplicita mente all’insuccesso: «Ricopri di grasso il cuore di questo popolo, rendi ottuse le sue orecchie» (Ir. 6,io; c£r. Ger. 1,17-19; Ez. 2,7-9), ad una testimonianza quindi che ha già intrinsecamente per essi «forma di croce».
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soggettiva, e poi subito presenta ed esige il comportamento esistenziale del cristiano come determinato e caratterizzato dallo stesso a priori ( Rom. 6,311). Le parole misteriose di Paolo nella lettera ai Galati: «Per opera della legge io sono morto alla legge, affinché io viva per Dio: sono stato crocifisso con Cristo», stanno sullo stesso piano dell’a priori, di ciò che è presupposto e forma oggettiva della fede da attuare successivamente: uno solo, morendo per tutti, ha preso con sé sulla sua croce tutti (ed anche me), e quindi tutti (ed anch’io) sono morti alla legge ed a tutto il mondo in cui vige la legge. E se ora continua: «Ormai non vivo più io, ma Cristo vive in me», questo enunciato sta nel mezzo tra il presupposto oggettivo e l’atto soggettivo di fede, nel punto in cui il cristiano dice di sì al fatto che uno solo è stato crocifisso per lui. Un tale sì altro non è che la fede: «La vita poi che vivo ora nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» {Gal. 2,1920). Nella giovanile freschezza della fónte zampillante possiamo comprendere ciò che significa fede e vita di fede. Significa ringraziare con tutta la vita di essere debitori di tutta la propria esistenza al Gesù storico. Poiché gli sono debitore della mia esistenza, avendo dato la sua esistenza per la mia, il ringraziamento non può essere espresso altrimenti che con tutta l’esistenza. Qui sta la logica del cristianesimo: che non si può dir grazie in modo adeguato se non con tutta la propria esistenza. Perché mai? Non si potrebbe pensare di ricevere da Dio una grazia (per la quale Dio ha offerto la vita del suo eterno Figlio, ma che in fondo non era stata da noi personalmente
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impetrata) e di ringraziarlo senza doversi impegnare a propria volta così seriamente? In verità, Dio potrebbe accontentarsi di un sincero sentimento di gratitudine da parte dei redenti, i quali, dopo aver gradito il dono ricevuto, sono pronti a ricordare continuamente con gioia il beneficio che a loro è stato accordato. E tanto più potrebbe accontentarsi dal momento che, essendo l’atto di Dio ormai compiuto, il gravissimo impegno della vita umana non gli può aggiungere nulla di decisivo e di originariamente efficace. Come potrebbe mancare qualcosa alle sofferenze di Cristo? Non potrebbe essere un’espressione traslata quella di Paolo, quando pensa di poter supplire con la propria sofferenza ad una supposta mancanza {Col. 1,24)? Dio non si accontenta di un grazie cordiale. Vuole riconoscere nei cristiani il Figlio. Per quanto nei loro sentimenti rimangano al di sotto di Cristo, essi tuttavia devono, per principio, consentire a quell’amore, mediante il quale sono redenti. Ma consentire significa trovare che la cosa è giusta, anzi l’unica giusta; ma che è pure la rivelazione più alta dell’amore divino, e quindi poiché Dio è la verità che è la norma di ogni verità. Perciò (ed fi cristiani lo comprendono) anche per loro nessun’altra norma di verità può aver valore. Nel ringraziamento non possono accontentare Dio con un amore e una verità diversi da quelli che ha loro assegnato. Se si guarda più a fondo, non sono neppure in grado di riflettere con quale moneta esistenziale intendono ripagare Dio. Poiché «se uno solo (ma quale uno!) è morto per tutti, allora tutti sono morti» (2 Cor. 5,14), Dio ha disposto in anticipo della morte di tutti, nella
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supposizione che la suprema manifestazione della carità e verità divine, la morte di Gesù Cristo, forse meriti di essere considerata anche dagli uomini come la loro migliore possibilità, anzi la loro suprema manifestazione per Dio, e quindi come ciò che deve essere scelto con assoluta libertà. Il credente altro non sarebbe se non colui che ha compreso una tale possibilità, e la sceglie. Non sarebbe, cioè, un uomo che misura con due metri diversi: uno per Dio e Cristo ed uno per sé. La verità, che costituisce la misura della fede, è la morte di Dio per amore del mondo per l ’uma nità e per ciascun membro di essa nella notte di croce di Gesù Cristo. Tutte le fonti della grazia sgorgano da quella notte: fede, carità e speranza. Tutto ciò che io sono, in quanto sono qualcosa di più che un essere caduco e senza speranza, le cui illusioni sono tutte distrutte dalla morte, lo sono a causa di quella morte che mi apre l’accesso al Dio che appaga. Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò, l’amore che ne traggo nella fede, non può essere di natura diversa da quello del se polto. La fede cristiana è, con ogni possibile urgenza, l’anticipazione dell’offerta della mia vita a Cristo. Come il Dio trinità, mistero d’amore, giustificabile soltanto nell’amore (poiché non aveva bisogno di noi), si è quasi proiettato fuori di sé, in modo che dalla vita eterna è caduto nel mondo ed è morto abbandonato da Dio, così la fede può essere soltanto una proiezione che l’uomo, rispondendo con la gra-
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zia, fa di se stesso in Dio, dimostrandosi riconoscente a Dio col dimostrare che ha compreso. Fermandosi alla superficie, si potrebbe vedere in queste considerazioni una ripresa del pensiero filosofico secondo cui l’uomo, faccia a faccia con la morte, all’interno del proprio orizzonte fa filosofia, perché, nella cosciente anticipazione della morte, egli è spirito che trascende il mondo . Nella concezione cristiana la situazione è completamente diversa: la morte di Cristo è per noi lo spuntare della gloria divina dell’amore, e concepire se stessi, in base a questa morte, come esistenza di fede, significa dare di sé un’interpretazione che si fonda non sopra un fenomeno terminale e marginale, ma nel centro assoluto della realtà. Ciò esige che l’uomo possa coincidere con questo centro soltanto toccandolo con il suo termine, la propria morte, cercando di comprendere la serietà dell’amore di Dio mediante il proprio caso serio. L ’anticipazione della propria morte come risposta alla morte di Cristo è il modo per assicurarci seriamente della nostra fede. Se fede significa riconoscere alla verità di Dio il primato su ogni nostra verità (con la nostra conoscenza, i nostri dubbi* la nostra ignoranza, le nostre incertezze e riserve), l’inizio dell’esistenza al di là del possesso di ogni verità umana e problematica è la prova, a noi possibile, che diamo la prevalenza alla verità di Dio sulla nostra. Che questo già sia amore, non c’è bisogno di dimostralo. Le parole di Gesù: «Nessuno ha maggiore amore di colui che dà la sua vita per i suoi amici» ( G v . 15,13) sono fondamentalmente parole di umanità universale, comprensibili a tutti; diventano supreme ed un mi-
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stero sia perché egli le rivendica per sé, Figlio di Dio, sia perché permette a noi, suoi fedeli e seguaci, di farne la chiave della nostra concezione cristiana. Esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un’anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di una esistenza cristiana. «Ecco da che cosa abbiamo conosciuto l ’amore: dal fatto che egli offrì per noi la sua vita. Anche noi quindi dobbiamo per i fratelli offrire le nostre vite» ( i Gv. 3,16 ): in questo assioma del discepolo prediletto ‘l’amore’ è l’amore assoluto, quale è apparso in Cristo nel mister«?, ma assumendo in sé e superando tutti i drammi ed i racconti di morti per amore che si trovano nella letteratura mondiale, così che noi, credendo il mistero, nello stesso tempo lo possiamo comprendere, e dalla fedechecomprende possiamo trarre per noi la conclusione. L ’offerta della vita per i fratelli non è un’offerta dosata, umanistica; essa ritorna sempre dall’orizzonte della morte (di Cristo, perciò anche del fedele) alla situazione concreta «di vita. Comprendendo con la fede che Gesù ha subito la morte per me, acquisto mediante la fede (non altrimenti!) il diritto di concepire la mia vita come una risposta ad essa. Se è diritto, ha per suo rovescio il dovere di prendere sul serio il caso serio, in base al quale do un’interpretazione di me stesso.
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3· So litudine della morte e missione
Moriamo soli. Mentre la vita, fin dal seno materno, è sempre comunione, tanto che un io umano isolato non può né nascere, né sussistere, e nemmeno essere immaginato, la morte sospende per un momento senza tempo proprio la legge della comunione. Gli uomini possono accompagnare fino alla estrema soglia il morente, che può anche sentirsi accompagnato, soprattutto se è la comunità dei santi ad accompagnarlo nella fede in Cristo; tuttavia valicherà la stretta porta solo ed isolato. La solitudine spiega ciò che la morte è attualmente; la conseguenza del peccato ( Rom . 3,12); cercare ciò che essa altrimenti potrebbe essere, è ozioso. Cristo ha preso su di sé per i peccatori la morte ad essi dovuta con radicalità estrema, con intensità drammatica, tanto che non solo fu abbandonato ostentatamente da tutti gli uomini, non solo fu respinto dai pochi che parteggiavano per lui, ma rimise esplicitamente nelle mani del Padre divino l’eterno vincolo d ’unione che a lui lo collegava, lo Spirito santo, per sperimentare fino all’ultimo l’abbandono completo anche da parte del Padre. Tutta la ricchezza dell’amore dev’essere raccolta e semplificata
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in questo punto d’unione, affinché, fluendo da esso, si possa avere una fonte e una riserva eterna. Non esiste, perciò, sulla terra comunione nella fede che non derivi dall’estrema solitudine della morte di croce. Il battesimo, che immerge il cristiano nell’acqua, lo separa, nella forte immagine della minaccia di morte, da ogni comunicazione, per portarlo alla vera fonte, dalla quale tale comunicazione ha inizio. La fede stessa, nella sua origine, sta necessariamente faccia a faccia con l’abbandono che il mondo e Dio hanno fatto del crocifisso. Necessariamente, qualunque sia la forza o la debolezza con la quale colui che incomincia a credere sente la solitudine. È solitudine aldi là di tutti i legami mondani, animali e spirituali; solitudine che riprende ad un nuovo livello il «monos pros monon», solo verso il più solo, di Plotino; il più solo non è Dio (che è trinità), ma il Figlio, abbandonato dal Padre, nel momento in cui sulla croce rende lo spirito. Esiste realmente, nonostante i motteggi dei moderni teologi umanistici, l’individuo cristiano. Non è affatto necessario presentarlo nel senso di Lutero o in quello di Kierkegaard, secondo i quali l’individuo difficilmente può essere pensato come membro della comunione dei santi; è sufficiente che venga presentato biblicamente. Abramo è chiamato alla fede come uomo completamente solo. È solo nei confronti di Sara, torna ad esserlo nei confronti di Isacco. Mosè deve presentarsi solo dinanzi all’Invisibile nel roveto ardente, e per quaranta giorni è solo dinanzi all’Invisibile nella nube della gloria sul monte. Elia lo incontra dopo aver desiderato di morire e dopo aver camminato quaranta giorni fino all’Horeb per dire a
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D io: io : «Sono rimasto rimasto soltanto io; eppure essi essi cercano Re e 19,4.10.14). di togliere toglier e anche anche la mia vita» v ita» ( i R Nella visione che interrompe ogni rapporto con il mondo, i grandi profeti vengono incaricati della loro missione soli dinanzi a Dio. La madre del Signore vien vi enee elet el etta ta in una solitu sol itudi dine ne che incu in cute te paura, pau ra, e soltanto dopo che ha conosciuto la sorte che la isola in modo assoluto, con l’accenno ad Elisabetta viene nuovamente collegata con gli uomini. Anche Paolo vien vi enee chiam chi amato ato n e ll’iso ll ’isolam lamen ento, to, poich po ichéé i l fuoc fu oco o d el Signore lo colpisce con la cecità per ogni altra cosa. E nella Chiesa nulla mai è divenuto fecondo, che non sia giunto alla luce della comunità dall’oscurità di una lunga solitudine. Non si obietti che in questi casi si tratta non della fede, ma di missioni straordinarie. Le grandi missioni hanno necessariamente un valore esemplare, poiché le «colonne della Chiesa» determinano lo stile di tutto l’edificio e danno la norma (canone) per tutti: tut ti: sono una mediazione chiarificatrice chiarificatrice tra la solitudine di Gesù Cristo ed il fondamento della fede di ciascuno cristiano. Le missioni, sia le grandi sia le più piccole (ed ogni cristiano ne ha una), derivano tutte dallo stesso punto. Anzi, missioni e carismi non vengono ripartiti entro la comunità, ma «a ciascuno sono assegnati da Dio secondo la misura della fede», dal faccia a faccia con Dio entro il corpo ecclesiale dalle molte membra ( R Rom om . 12,34). 12,3 4). Soltanto nella solitudine il cristiano può essere chiamato per la Chiesa e, nella Chiesa, per il mondo; come un isolato, che nel momento della chiamata non può essere protetto visibilmente da nessuno; nessuno gli toglie la responsabilità del suo consenso; nessuno si può
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caricare della metà del carico che Dio gli addossa. Per quanto Dio possa anche riunire le missioni, ogni inviato deve prima essere stato solo dinanzi a Dio. Nessuno può essere inviato se prima non ha rimesso tutto completamente in Dio, in piena libertà, cosi come un morente, che peraltro lo deve fare per forza. Solo se per principio tutto è offerto e sacrificato, se Dio è libero di scegliere ciò che vuole nel credente, senza riserve da parte sua, può aver luogo una missione cristiana. Solo da questo punto dell’incontro con il Dio che muore, può infatti maturare un frutto cristiano da una esistenza di fede. Questo è sempre un frutto dell’amore, ma fondato sull’offerta che l’uomo fa di se stesso. È quindi impossibile, nell’incontro con la croce, portare con sé come condizione l’amore del prossimo quale viene concepito sul piano naturale. In quell’incontro non sono possibili condizioni di nessun genere, che un uomo possa porre relativamente agli altri uomini. L ’amore cristiano cristiano del prossimo è piuttosto il risultato del suo sacrificio, così come Dio Padre fa servire alla redenzione dell’umanità il sacrificio del Figlio abbandonato. «Se il chicco di frumento non cade in terra e non vi muore, resta solo; se invece muore (solo), porta molto frutto» ( G v . 12,24). E poiché il «molto frutto» non è affatto in relazione con leggi biologiche o psicologicopropagandi stiche, ma viene dato da Dio all’uomo morto una vo v o lta lt a per pe r sempre semp re nel ne l ba batte ttesi sim m o e nella ne lla fed fe d e e risuris uscitato dalla forza di Dio, esso è frutto della vita eterna nel tempo. La Chiesa dei primi tempi lo sapeva molto bene quando attribuiva ai martiri una fecondità soprannaturale per il mondo e la cristia
33 3 - Corchila ovverosia il caso serio
nità. Non conta quindi il fatto che soltanto alcuni cristiani che hanno sentimenti particolarmente radicali fondino la loro fede nella morte di Cristo, mentre gli altri (probabilmente la maggioranza) possono accontentarsi di dare alla vita umana naturale una certa trasfigurazione soprannaturale un dualismo d ’altra parte che si vorrebbe chiarire distinguendo tra «distaccato dal mondo» (in senso escatologico) e «rivolto al mondo», oppure con «stato dei consigli» e «stato dei precetti». Di questo non si parla, perché tutti sono «battezzati nella somiglianza della sua morte» e «congiunti con lui in modo vivo»; per tutti è vero che «l’uomo vecchio è stato crocifisso in noi» e che «se siamo morti» ( Rom. 6,34.8) e «sepolti» (Col. 2,12) con Cristo, con lui siamo anche risorti e saliti al cielo (Ef. 2,6; Col. 2,1 2); perciò «la nostra patria è il cielo» (FU. 3,20; Eh. 12,22) e conseguentemente la terra è il nostro esilio ed il nostro luogo di pellegrinaggio (1 Pt. 2,11; Eb. 1 1 , 9,13). Marco rileva che Gesù «convocò la folla con i suoi discepoli» per dire loro la necessità assoluta di portare la croce e di perdere la propria vita (Me. 8,34 s.). Luca lo ripete (14 ,2 35 ), aggiungendo il monito della rinuncia completa ai beni: «Così, dunque, chiunque di voi non rinunzia a tutte le sue sostanze non può essere mio discepolo» (vers. 33). Tutto ciò è cristianesimo comune. Possibili differenze dipendenti dalla missione vengono soltanto in seguito. Tutto ciò rientra nel tentativo di imitazione di colui che come Cristo per amore del mondo vuole darle la sua vita per tutti, in obbedienza a quel Dio che ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unigenito. Vista dall’interno (e qui la si vede
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già dall'esterno) questa è la forma più alta, cioè introdotta da Dio, di affermazione del mondo. Per l’egoismo si può abusare di tutto, anche di quell’in vito al momento di morte dell’amore, dove sgorga la fede, che può essere concepito come un asilo tranquillo contro gli assalti del destino, anzi come anticipata assicurazione della vita eterna. Ma come può il momento della morte nell’abbadono di Dio, quando il cielo si oscura, la terra trema ed i sepolcri si aprono, essere un rifugio, e non piuttosto l’esposizione più nuda a tutte le potenze del mondo? «Nascondimi nelle tue ferite», si diceva nell’antica preghiera: ma in quale altro luogo si sarebbe invece più esposti? In quale altro luogo si è maggiormente sicuri di ricevere più colpi? E tuttavia là si è di nuovo al sicuro, perché è il posto ultimo, senza posto, la completa apertura nella mortecomeamore. Non c’è per il mondo alcun altro prototipo dell’amore se non questo, che gli è stato posto da Dio. Ora non è più possibile cavarsela con un concetto intramondano, umanistico, dell’amore per adattarsi in ultimo, quando esso fallisce, a quello coniato da Cristo. Se il primo non si può inserire nel secondo, se non ne è apertamente o segretamente caratterizzato in anticipo, nel momento del fallimento non ci si potrà illudere di essere vissuti fino allora nell’amore. Ciò vale tanto per il cristiano quanto per il non cristiano. Dal battesimo, dalla fede il cristiano è posto nell’unica forma di amore che sia gradita a Dio. La forma che apertamente o segretamente deriva dal caso serio. La libertà del cristiano viene acquistata, come giustamente ha compreso Lutero, nella morte. Nella
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morte di Cristo per me, alla quale posso rispondere soltanto con la mia disposizione a morire per lui, o meglio, con il mio essere morto in lui. Il Figlio è libero poiché nell’obbedienza al Padre è giunto al punto estremo ( eis telos, Gv. 13,1) in cui nulla più lo può assalire, semplicemente perché tutto lo ha già assalito. Egli è al di là, è libero. «Ama sicut Christus et fac quod vis», nel caso che tu possa ancor agire. Ma egli stesso nella sua vita terrena ha sempre agito di là, ha pagato l’arditezza, si direbbe la temerarietà delle sue azioni con l’aggravamento delle sofferenze. Le sue azioni sono coperte dal caso serio della croce. Nello Spirito santo egli è certo della sua obbedienza fino all’ultimo, e ne può disporre in anticipo. Ciò lo rende infinitamente superiore. Egli non ha bisogno di legarsi ad una legge che non sia la sua: l ’identità della sua obbedienza con la sua libertà nel punto estremo verso il quale corre, che egli realizzerà infallibilmente, perché la ragione della sua esistenza è soltanto questa corsa: «D evo ricevere un battesimo, e come sono angustiato finché non sia compiuto!» (Le. 12,50).
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4·
A ll’origine della Chiesa
La Chiesa nasce sulla croce; l’angoscia mortale di fronte al peccato del mondo e all’abbandono del Padre apre lo spazio in cui essa può stabilirsi. Avreb be potuto formarsi senza l ’assistenza della seconda Èva, il cui assenso a Dio aprì un giorno al Figlio la via dell’incarnazione, il cui consenso viene ora accolto esplicitamente nell’ambito della sua angoscia mortale? La fede dice di no. Non possiamo scrutare a fondo questa duplice fecondità, che nell’estrema separazione («Donna, ecco il tuo figlio») celebra la suprema unificazione: il sì del Figlio nella morte sta nell’ambito del no del Padre; il sì della madre alla morte del figlio sta nell’ambito del suo no: essa viene abbandonata, respinta, per essere più unita a colui che è abbandonato e respinto dal Padre. Il sì di Cristo è da uomo: è dato per portare ogni colpa ed ogni abbandono al posto di tutti. Il sì di Maria è da donna: è accordo con i suoi carnefici, con il suo sprofondare nella notte. Essa non può dare altro aiuto se non lasciando che ciò avvenga, e sapendo bene chi è suo figlio. Le spade che la trafiggono — poiché essa deve trovare l’amore appunto nell’essere d’accordo, senza protestare, senza reagire, ma di tutto cuore, con le cose peggiori che purtroppo
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non devono toccare a lei, ma a lui da un punto di vista umano ci sembrano più crudeli di quelle che dilianiano lui. Oggettivamente, sembra quasi che faccia ciò che una madre e una sposa vorrebbero con la massima cura evitare: immergere se stessa come spada nel corpo e nello spirito del figlio. Sì, soffri! sì, muori! sì, ti riesca duro comunque vada! Come se la madre, per amore estremo, dovesse maneggiare le armi che i peccatori usano contro di lui per odio. Come se il figlio lasciasse di buon grado che ciò av venga, affinché la madre sia iniziata all’estremo della sua morte come all’estremo del mondo che uccide. Il terribile dovere dell’amore di essere d’accordo con la morte, il «martirio incruento» di Maria, è il caso serio da cui nasce la Chiesa. È la fecondità della «mater dolorosa», della donna partoriente dell’Apocalisse. Il grido del parto coincide con il muto grido di morte della madre alla morte del figlio. Ma il grido di morte non è che la radicale conseguenza dell’assenso di Nazareth, che ha dato mano libera a Dio per tutte le realtà divinamente incalcolabili, che trascendono di molto le possibilità umane. Quell’assenso era già mortale, sia che Maria lo sospettasse o no. Era, infatti, un assenso senza limiti (chi vuole opporre limiti a Dio?), che pertanto includeva l’estremo, il morire e l’uccidere: e precisamente come evento accettato, se è «secondo la tua parola». Questo sì è la fonte e l’origine di ogni preghiera. La preghiera ha la sua misura in questo sì. Poiché il sì è rivolto a Dio, è una parola di preghiera. Precede l’iniziale parola di invito dell’angelo, che crea l’occasione e lo spazio per l’assenso, e questa parola realizza tutte le sue promesse in croce, dove il Verbo
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diventa carne offerta e consumata, in modo che in questo spazio approntato può risuonare anche l ’as senso completo. Ogni preghiera di Maria al figlio e del Figlio al Padre viene compiuta nel rispettivo essere d'accordo con la volontà del Padre. Ogni ringraziamento di adorazione è un’irradiazione del consenso senza limiti a tutte le vie della grazia disposte dal Padre. Nessuna preghiera può porre condizioni; essa inizia sul serio quando sia pure tìmidamente si decide ad essere senza condizioni. Se nell’Antico Testamento, prima di Maria, il contendere e il contrattare con Dio, la disputa e la resistenza, erano ancora marginalmente permesse, perché il Verbo non era ancora disceso fino alla croce e l’uomo per la sua sofferenza sembrava essere in un certo senso superiore nei confronti di Dio, dopo la croce ciò non è più possibile, perché l’accordo senza limiti di Maria con l’obbedienza senza limiti del Figlio al Padre è divenuto il cuore della Chiesa. In base a questo è caratterizzata la sua essenza e la sua parola di preghiera; essa è la «legge per la quale tu inizi, e nessun tempo e nessuna potenza frantuma una forma archetipa, che vivendo si sviluppa». Affinché la legge della prima ora non sia soltanto un ricordo, che sempre più si allontana lungo i secoli, ma rimanga l’inizio di un presente sempre vivo, nella Chiesa è presente il mistero della eucaristia. In esso è reso presente il momento della nascita della Chiesa, che coincide con il momento della morte del Signore; la Chiesa celebra la sua nascita non tanto come avvenuta nel passato, ma come in atto, che si
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realizza sempre nel sacrificio, nella consacrazione e nella cena, e questo nell’evento della morte del Signore: «Ogni volta che mangiate questo pane e be vete questo calice, voi annunciate (‘katangellein’ ) la morte del Signore» (i Cor. 11,2 6). Nasce di qui l ’idea che della Chiesa ebbe Caterina da Siena: il continuo ‘scorrere’ del sangue della croce, che produce nella Chiesa una continua espiazione e santificazione, una continua assistenza della sposa alla morte dello sposo. Caterina non è che un esponente sommo e caratteristico di quella pietà eucaristica che si esprime nei libri e nelle raffigurazioni della messa «come torchio mistico», come «vite», nella devozione alle ostie che sanguinano, alle apparizioni del cuore sanguinante del Signore, nel culto e nella raffigurazione della Chiesa che esce dalla ferita del costato di Cristo», che nello stesso tempo è la Chiesa con il calice accanto alla croce, che raccoglie il sangue dalla ferita, ecc. Tali materializzazioni del mistero, che in parte sono popolari, oppure deviano in un esagerato simbolismo, si possono anche rifiutare come non più consone al nostro tempo: ciò però obbliga tanto più profondamente e riflette con serietà sul mistero originario, sulla «forma arehetipa», alla «quale tutte queste manifestazioni hanno cercato di dare espressione. È la forma in base alla quale la Chiesa è, in modo che ogni fede ecclesiale in Cristo non può essere che ordinata ad essa. D i fatto: se la fede di Maria in quanto «Ecclesia mater et sponsa» è fondata su questo evento, la fede di Pietro, della Chiesa visibile, maschilegerarchica, è essenzialmente ordinata ad esso. La Chiesa pettina viene istituita entro la confessione di fede di Pietro,
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in una fede che trascende «carne e sangue» ed è fondata dal Padre celeste. Da un tale oggettivo contenuto di fede, che trascende la soggettività di Pietro confitente ( M t . 16,212 3), Gesù prende occasione per costruirvi sopra la Chiesa e per obbligare Pietro, che soggettivamente si impegna e che viene meno, a giungere in futuro a quel punto che la grazia gli darà come suo estremo (éscaton): «Quando sarai vecchio stenderai le braccia e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai. Disse questo per indicare con qual genere di morte doveva glorificare Dio» ( G v . 21,1819). Anche Pietro, senza volerlo, ma lasciando che si compia la volontà di un altro, mentre in disparte ^rinnegava e piangeva, giungerà infine là dove stava Maria. Tra il punto di partenza di Maria ed il punto di arrivo di Pietro si sviluppa in modo vivo la forma coniata della Chiesa, che non sfugge a questo cerchio. Il singolo presente di essa è occupato nel realizzare il suo futuro, che non raggiunge la sua origine mai realizzata; infatti, chi nella Chiesa può dire di essere al punto di Maria? Il futuro della Chiesa è l’arrivo per essa del «segno del figlio dell’uomo nelle nubi» e la visione di Lui esistenziale svelata. «Videbunt in quem transfixerunt: vedranno colui che hanno trafitto»: Z c . 12,10; G v . 19,37; Ap. 1,7. La Chiesa nella sua verità è caratterizzata dalla forma della sua origine e della sua fine; ciò che si attua frammezzo in tanto è Chiesa come ‘corpo’ e come ‘sposa’ in quanto si adatta a tale forma. «Figlioli miei, di nuovo io soffro per voi i dolori del parto, finché Cristo non acquisti forma in voi» {Gal. 4,19), naturalmente la «forma di schiavo in cui egli
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si esinanì, affinché abbiate così gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (FU. 2,56). Ciò vale perché la Chiesa non è un collettivo astratto od un «soggetto morale», ma è la realtà misteriosa di una seconda Èva fatta a somiglianza del secondo Adamo, concreta e personale al pari di lui, e che perciò non esiste se non come prolungamento dell’originario atteggiamento personale e normativo in una quantità di persone che vi partecipano mediante la grazia cristologica. La Chiesa è un edificio che poggia essenzialmente su colonne (Ap. 3,12; Gal. 2,9), è edificata sul «fondamento degli apostoli e dei profeti, con lo stesso Cristo Gesù quale pietra angolare. In lui tutta la costruzione, ben compaginata, cresce come tempio santo nel Signore» ( E f. 2,2021). Tale struttura ontologica viene fissata palesemente per tutta l’eternità nella forma perfetta della Gerusalemme celeste, in cui la forma della Chiesa dei dodici apostoli si fonda sulla forma delle dodici tribù di Israele. Il Dio di Israele era solo il Dio di Abramo, quando lo stampo della promessa veniva fondato nella fede assolutamente aperta; egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, triplice accentuazione lineare del fondamento personale del popolo, corrispondente alla misteriosa forma trina dell’apparizione di Dio a Mambre. Soltanto allora i dodici figli e da essi le dodici tribù. La forma di realizzazione del Nuovo Testamento non è più temporalelineare, bensì nuziale nel sì della croce: sposo e sposa, fidanzamento per le nozze escatologiche (Ap. 19,79). Da questo cerchio perfetto sono inviati i dodici, ma a ciascuno di essi appartengono ancora dodici il carattere di fondatori viene trasmesso dagli apostoli
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nella Chiesa prima che dietro i centoquaranta quattro si associno le migliaia «da tutte le tribù e lingue, popoli e nazioni». I dodici, che stanno dietro i dodici fondamentali ed ancora come ‘singoli’ servono da mediatori alla «Chiesa come popolo» e lo rendono possibile, sono senza dubbio quei fedeli che hanno ricevuto ed assunto direttamente come loro forma di vita la forma di Cristo (che è nello stesso tempo la forma di Maria) e la cui esistenza è orientata verso il sì esclusivo alla volontà del Padre (obbedienza), nella disposizione attiva che non è impedita da nessun possesso proprio (povertà), non è limitato da nessun legame umano indissolubile «(verginità). La forma di vita cristologicomariologica ha la forma più marcata nella morte per amore in croce e sotto la croce. Ma nella morte ogni uomo ha semplicemente rinunziato a disporre di sé (obbediente), è completamente povero e casto; tuttavia, i singoli gruppi di dodici che sono fondati, nella conformazione ai fondatori e colonne della Chiesa, assumono in anticipo volontariamente questa forma di vita, che per l’azione e la grazia di Cristo nasconde in sé la forza redentrice del mondo. Infatti, poiché egli si è fatto obbediente fino alla morte in croce, Dio gli ha dato il nome glorioso di redentore del mondo (Fil. 2,811); poiché si è fatto povero, può arricchire tutti gli altri (2 Cor. 8 ,11 ; 6,10); poiché è vergine, può unire a sé come sposa tutta la Chiesa (2 Cor. 11,2) e realizzare eucaristicamente i misteri carnali del paradiso (Ef. 5,27) e del Cantico dei Cantici: «Il corpo per il Signore ed il Signore per il corpo» (1 Cor. 6,13). Nel-
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la Chiesa del Signore la partecipazione alla vita di Cristo e di Maria non può essere riservata ad un gruppo di originali isolati, che svolgono il loro culto particolare in una specie di cappella laterale del santuario in cui celebra il popolo della Chiesa; piuttosto questa partecipazione avviene in quel luogo dove la Chiesa, dalle persone che sono all’origine, si apre al fiume ed al mare del popolo ecclesiale, oppure dove la Chiesa dalle fondamenta incomincia ad innalzarsi in un edificio, che però in nessun momento può prescindere dal triplice fondamento mediatore e rendersi indipendente nella sua struttura propria. La costruzione è piuttosto un «edificio di Dio» (i Cor. 3,9) che cresce sempre dalla pietra fondamentale (‘auxei’, Ef. 2,21), eretto dai «collaboratori di Dio», e le cui singole pietre devono di buon grado «lasciarsi edificare, simili a pietre viventi, come edificio spirituale» (1 Et. 2,5). Un tale permesso fa sì che le pietre conteste assumano qualcosa della forma di vita delle persone che stanno all’origine e diventino anch’esse un «sacerdozio santo» per offrire «vittime spirituali» (ibid ..), cioè «per offrire il loro corpo come ostia vi vente, santa» ( Rom. 12,1) ed aver così parte nello spirito e nei sentimenti alla vita dei consigli di Cristo (1 Cor. 7,2931). Lo stato matrimoniale (e lo stato, ad esso congiunto, in cui si possiede e si dispone di cose mondane) in sé è uno stato della creazione e quindi uno stato nel tempo che scorre; diventa uno stato di testimonianza per Cristo nella misura in cui, entro la forma di vita che gli è propria (e senza ridurla, 1 Cor. 7, 25), realizza lo spirito dello stato di Cristo e di
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Maria: mediante il sacramento e mediante i sentimenti personali. Anche il sacramento del matrimonio conferisce benedizioni in base alla croce e comunica grazie in base al confine della morte: grazie dell’amorecherinuncia per tutti i giorni della vita temporale. Gli sposi sono privati del potere di disporre del loro corpo a vantaggio del coniuge (i Cor. 7,4), la moglie è ‘carne propria’ del marito, il cui amore di sé viene però trasferito nella moglie ( E f . 5,28); regola e norma per entrambi è il rapporto verginale tra Cristo e la Chiesa. Questo doveva essere qui ricordato, affinché si comprenda che la Chiesa può essere descritta morfologicamente solo se· nello stesso tempo viene descritta geneticamente. Soltanto la formazione dalla ‘morphé’ di Cristo ne spiega l’essere. Anzi, la Chiesa non ha un essere che possa essere staccato la Cristo, è un continuo formarsi da lui, ed il luogo della formazione a sua volta è sempre il luogo dove avviene lo ‘scambio meraviglioso’ tra il peccato e la grazia, tra la morte e la vita: la croce. Soltanto sulla croce si fa chiaro lo scopo dell’incarnazione di Dio; non si può perciò parlare di una «tendenza all’incarnazione» di Dio nella storia passata e futura del mondo, senza premettere lo scopo di questo movimento di Dio. La Chiesa non può neppure essere compresa nello stato immanente di sviluppo (come «popolo santo»), se non si ricorda continuamente chi è l’autore dello sviluppo e della legge essenziale alla quale essa obbedisce. Se la Chiesa è l’albero cresciuto dal piccolo granello di senapa della croce, quest’albero è destinato a produrre a sua volta granelli di senapa,
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e quindi frutti che ripetono la forma della croce, perché proprio alla croce devono la loro esistenza. Producendo frutti, la Chiesa ritorna alla propria origine.
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5 · M Mist ister ero o di gloria gloria
La croce è l’autoglorificazione dell’amore di Dio nel mondo. Lo si può comprendere soltanto se si riflette con fede sulPavvenimento sulPavvenimento nascosto nascosto della della croce: portando tando tutti tu tti i peccati peccati e ciò ciò lo precipita nella più oscura oscura di tutte tu tte le notti l ’amore ’amore eterno eterno si pone pone nelle nelle tenebre estreme dell’abbandono di Dio, per dimostrare, nella estrema debolezza, d’essere più forte di tutta la colpa del mondo. Non soltanto la morte corporale, ma anche l’esperienza di ciò a cui porta il peccato viene subita come ima manifestazione dell’amore eterno e quindi della vita eterna; l’estrema involontarietà nell’esperienza della sofferenza (all’inchiodamento fisico corrisponde l’ineatenamento spirituale, molto più terribile) rimane funzione di ima estrema estrema volontarietà: «Per «P er questo il Padre mi ama, ama, perché io dò la mia vita, per riprenderla di nuovo. Nessuno me me la la toglie: la dò da me. H o il potere po tere di darla e il potere di riprenderla» (Gv. (Gv. 10,1718). Il potere di dare implica il potere di riprendere. Non c’è alcuna incertezza che il Figlio risorgerà; morte e risurrezione non sono che due facce di uno stesso avvenimento d’amore; la gloria, che diviene visibile a Pasqua, è già presente nella gloria velata del venerdì santo, così come la colonna di Dio nel deserto
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poteva apparire ora oscura ed ora luminosa, poiché la gloria è appunto l’amore di Dio che si glorifica dinanzi a tutto il mondo. L ’amore ’amore ha ha in se se stesso stesso la propria ricompensa. Ciò non significa che alla sofferenza più profonda possa essere riservata la somma beat be atitu itudi dine ne ad essa adeguata: adeguat a: notte no tte e luce luc e sono tra loro correlativi nella epifania d’amore di Gesù Cristo. Significa invece che l’amore, che dal risorto fluisce nella Chiesa e nel mondo, è dischiuso, fatto fluire, liberato dal colpo di lancia. Col cuore aperto è libero anche anche lo Spirito santo: essenzialment essenzialmentee come Spirito del Padre, che ha fatto soffrire il Figlio perché ha tanto amato il mondo, ma anche come Spirito del Figlio che, prima di morire, lo ha rimesso nelle mani del Padre, per morire nelle tenebre estreme, «abbandonate dallo spirito». Le ferite sono trasfigurate, lo spirito è pentecostale, la Chiesa sta nella luce pasquale, che il Signore le ha meritata. Ma ogni trasfigurazione ed illuminazione di un’esistenza cristiana non può dimenticare di sgorgare dall’oscurità della morte. Già in croce e durante la sua discesa agli inferi il tempo è eliminato per il paziente. Perciò, questo avvenimento non dev’essere collocato dietro di noi quasi fosse un passato" temporale temporale (la ripresentazione della morte nell’eucaristia deve metterci in guardia dal farlo), e di passato si può parlare nella misura in cui tra la croce e la Pasqua viene collocato l’elemento irreversibile dell 'evento 'evento della redenzione. Entro questo evento è fondata la Chiesa. Facciamo però attenzione:
il corso della soffe-
renza nell’ultima notte è il corso della vita presente fino al limite estremo che le è proprio. Qui l’amore umano (divino) del Signore raggiunge le proprie di
mensioni estreme. È, questo, l’ideale, la misura piena, la norma suprema di un amore umano. «Nessuno ha un amore più grande...». La trasfigurazione pasquale è l’al di là che, al confine, apre le porte della vita eterna a colui che muore di qua: a tutto il Cristo, spirito, anima e corpo. Il Signore celeste, eucaristico, non può più in alcun modo trovare posto nel vecchio cosmo. La dimensione che si apre per accogliere nella trasfigurazione il cosmo nella «primizia Cristo» ( i Cor. 15,23 ) non è disponi bile in alcun modo per il cosmo (neppure come proprio futuro). La storia del mondo non è in nessun caso una progressiva cristificazione del cosmo, sia mediante l’eucaristia e lo sfruttamento di essa per scopi mondani, sia mediante devoluzione delle «virtù teologali» alla comune opera mondana dell’umanità. Una simile visione dimenticherebbe due cose: primo, che l’al di qua delle «ultime cose» (éschaton) è la morte di croce; secondo, che la Chiesa ed il singolo cristiano sono sempre collocati nel duplice mistero unitario di croce e risurrezione: «V oglio divenire conforme a lui per la morte, perché m’awenga d’arrivare alla risurrezione di tra i morti» (FU. 3,11). «Sepolti con lui per il battesimo, in lui pure siete risorti per la fede nella forza di Dio, che ha risuscitato lui di tra i morti» (Col. 2,12). L’evento di questa svolta è dato ai cristiani come il centro della loro esistenza. Verso dove sono quindi orientati? Verso un punto che, in base al mondo antico, non è affatto possibile determinare. In mancanza di meglio, ma molto ambiguamente, lo si può chiamare ‘escatologico’, ed i
4 - Cordula ovverosia il caso serio
escatologiche». Ma questo che cosa significa? Che essi si trovano là, dove il mondo antico per grazia di Dio si trasforma nel nuovo. E ciò nella morte di Cristo che viene loro risparmiata come «maledizione», perché «Cristo per noi è divenuto maledizione» {Gal. 3,13) alla quale devono essere «conformati» per grazia (FU. 3,10) — e precisamente già nel punto di partenza della vita cristiana, nel battesimo per aver sempre anticipatamente, in ogni azione terrena, il loro cuore (Mi. 6,21). il loro diritto di cittadinanza in cielo (FU. 3,20). Dove hanno i cristiani in definitiva la loro dimora? Essenzialmente nell’evento stesso. Nel tendere ad esso tralasciando tutto il resto (FU. 3,1214), «nella seria aspirazione di entrare nel riposo» (Eb. 4,11), come persone «che cercano una patria» (Eb. 11,14), «correndo con perseveranza nella gara che viene a noi proposta» (Eb. 12,1). E questa gara, così esorta ancora la lettera agli Ebrei, la dobbiamo compiere guardando a Gesù: «Riflettete infatti a colui che ha sostenuto una così grande ostilità contro di sé da parte dei peccatori, per non stancarvi perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue lottando contro il peccato» (12,34). È quindi una corsa che sempre viene misurata sulla lotta estrema di Gesù contro il peccato, si svolge entro i suoi confini. Il cristiano vive nell’ambito dell’evento dell’amore assoluto, cioè nell’ambito di quell’infinito al di là del quale non si può immaginare nulla di più grande («id quo majus cogitari non potest»). Chi cerca di immaginare questo più grande, di far vela «verso nuovi lidi», cade nel vuoto e distrugge l’uomo che è stato creato per amore del più grande e del sempre più grande. Esso
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non è soltanto un’«idea» (che trascende ogni concetto), o soltanto un «essere» (assoluto), ma è in modo esplicito l’attuazione nel mondo di quell’«essere» che è l’amore assoluto, che si verifica in modo trinitario tra Padre e Figlio nello Spirito, in un evento sia genuinamente storico dal punto di vista umano, sia (perché è evento divino) onnistorico e superstorico, che tocca direttamente ognuno di noi. Per il cristiano tale evento è il centro dell’esistenza, e tutti i valori del mondo gravitano per lui intorno a questo centro. Non si può dire che l’evento di morte e risurrezione stia alla fine estrema del mondo, e che sia pertanto un fenomeno marginale, che senza punizione e legittimamente possa essere evitato fino a quando il cristiano abbia soddisfatto i suoi doveri in «un mondo mondano». Piuttosto si deve dire che tutte le cose mondane si dispongono in modo concentrico attorno al centro del più grande, la cui caratteristica di mistero irradia su tutto ciò che esiste. Per il cristiano non c’è un essere «neutrale» che dal mistero dell’amore assoluto non venga toccato, illuminato, giustificato e spiegato in tutta la sua casualità e problematicità. Tutto nel mondo deve essere così, affinché possa verificarsi l’estrema pienezza dell’amore che Dio ha voluto comunicarci. Il mondo, per quanto assuma atteggiamenti profani, è bagnato dalla luce sacrale dell’amore assoluto, non ne è illuminato soltanto esternamente, ma infiammato nel suo più intimo. Perché? Perché Dio si è fatto carne. Perché l’accento cade sul corpo, nel quale solo l’anima si attua. Perché il cristianesimo non è una religione di «spirito ed acqua», ma di spirito, acqua e sangue
che, inseparabilmente uniti, rendono assieme testimonianza (i G v. 5,68). Dove il cristianesimo è soltanto interiore e spirituale, non può vivere a lungo. Paradossalmente, già nell’Antico Testamento la gloria di Dio nonostante nonostante la proibizione proibizione delle delle immaimmagini è visibile. visibile. V isibile per i patriar patriarchi chi,, per Mosè, per il popolo al Sinai, per Davide e Salomone, per i profeti. E chi conosce questa visibilità, può allora guardare anche in tutto il cosmo ( Sai. r<); 97 ecc.). La paradossale visibilità non solo viene ripresa nel Ro m. 1,20), ma Nuovo Testamento (‘kathoràtai’, Rom. portata a compimento nella ‘gloria’ di Gesù Cristo: questa «noi abbiamo vista» (‘etheasametha’, G v . 1 , 14), là dove sangue ed acqua fluiscono dal costato de l trafitto: trafitto: «Chi «Ch i ha veduto vedu to (heorakos), (heorakos), ne dà testitestimonianza» (Gv. 19,35). ‘Visibile’ significa: che entra nel campo visivo dell’uomo considerato nell’unità d i spirito e di corpo; più ancora: che si impadronisce del campo visivo per verificarsi in esso. La visibilità, che alla fine supererà in evidenza tutto il resto A p . 1,7; Mt. M t. 24,30), se(«Ogni occhio lo vedrà», Ap condo la testimonianza dei discepoli, ha già avuto inizio nell’esistenza di Gesù. Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento è la visi vi sibi bili lità tà d i colu co luii che è essenzia esse nzialmen lmente te invi in visi sibi bile le (Gv. 1,18; 1 Tim. 6,16); l’inaccessibile come tale si crea un’epifania di gloria (Tit. 2,13), non per essere dominato dagli uomini, ma per introdurli nel suo campo. L ’esistenza in in tale campo aperto si chiama fede accettazi accettazione one di esser esseree assunti assunti da D io in Cristo ed appunto per questo racchiude racchiude in sé sé la la speransperanza della partecipazione alla vita eterna dell’amore, che già si offre nell’apertura stessa del campo. Re-
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golare la propria esistenza su queste tre realtà significa vivere secondo il caso serio. Soltanto una simile esistenza è testimonianza (martyrion) per la verità, della quale vive. Che è divenuta oggi questa testimonianza? Per comprendere le vie che vengono tentate dai cristiani nel corso della loro testimonianza, si deve partire da ciò che il mondo moderno contrappone quale concezione generale al pensiero cristiano.
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IL
II sistema e l ’alternativa
f; i:
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I
II
i.
Le tesi del sistema
I due blocchi, orientale ed occidentale, fino ad ora politicamente divisi, convergono tuttavia verso una media visione generale del mondo che, ormai quasi raggiunta, si può perciò descrivere in anticipo senza alcun particolare dono profetico. Come oggi così domani, essa, nella sua 'forma ben maturata, avrà innumerevoli sfumature e sette, congiunte però fra loro con diversi rapporti. L ’elemento comune sarà nello stesso tempo la nascosta forma radicale del sistema, che, in quanto tale, ne è il caso serio, e come tale non mancherà di manifestarsi. Prima di Hegel ed anche dopo, è stato Kant a formulare, con il duplice enunciato dell’autocritica che la ragione fa della propria finitezza e del carattere assoluto (infinito) della libertà, un punto di partenza decisivo, che riassume gli elementi precedenti. Nel medioevo, i due enunciati sarebbero stati in modo assoluto una contraddizione, perché o l’essere, che può misurare la propria ragione come finita, partecipa in qualche modo della ragione e della verità infinite, e perciò può avere nella propria libertà un principio di infinità, oppure l’essere, che dichiara seriamente che la ragione è finita, dovrebbe anche ammettere (la ragione e la volontà essendo due aspetti
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correlativi dello stesso spirito) la finitezza della li bertà. Non così Kant, per il quale Tatto delTautodelimitazione critica della ragione diviene un’assunzione di potere entro la sfera limitata, a partire dalla quale, come dalla superficie sferica della piccola terra, di cui Tumanità ha assunto la direzione, diviene possibile l’indagine del circostante universo delle idee. Sorprendentemente l’immagine risale allo stesso Kant. L ’uomo ingenuo, che costruisce sui suoi sensi, deve ritenere che la terra sia un piatto; in base alla esperienza, dovunque egli vada, vede sempre attorno a sé dello spazio, in cui può avanzare, e quindi riconosce i limiti della sua attuale geografia, «ma non i confini di ogni possibile descrizione della terra. Ma se sono giunto al punto di sapere che la terra è una sfera e la sua superficie è una superficie sferica, anche da una sua piccola parte, ad es. dall’ampiezza di un grado, posso conoscere, in modo determinato ed in base a princìpi a priori, il diametro e mediante questo l’intera circonferenza della terra, cioè della sua superficie... La nostra ragione non è un piano ampiamente esteso in modo indeterminabile, i cui limiti si conoscono solo in modo generico, ma deve essere paragonata piuttosto ad una sfera, *il cui raggio si può trovare dalla curvatura del terreno alla sua superficie (dalla natura di proposizioni sintetiche a priori), ma di cui si può anche indicare con certezza il contenuto e la circonferenza» (Critica della ragion pura B 787, 790). Questa strana applicazione di un’immagine scientifica alla realtà spirituale, comunque venga spiegata da Kant e da chi lo segue, dà la chiave per il fatto principale: Tinfinità (libertà) è la misura della propria finitezza; l’uomo misura il
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suo diametro. Se questo (sul piano naturale) gli preesiste, egli, prendendolo in mano (sul piano spirituale), può prendere possesso di sé e guidarsi; l’autonomia dell’uomo si dimostra precisamente nell’autopos sesso del proprio diametro. Schelling metterà ancor più chiaramente in rilievo l’imprevedibilità della li bertà umana (e quindi la coeternità di essa con Dio), e Sartre la finitezza come suo presupposto. Ciò che in tal modo viene stabilito sul piano speculativo nel campo filosofico dell’idealismo tedesco, in seguito viene confermato sul piano empirico, mediante l ’autoregolazione sperimentale dell’essere umano: l ’essenza, dal punto di vista cibernetico, ecc., diventa la funzione dell’esistenza che si progetta liberamente. A questa prima te'si dev’essere associata in modo ugualmente essenziale la seconda: speculativamente, come dimostra Fichte, la libertà esiste soltanto come intersoggettività, come libera comunione. Si attua in modo dialogico, nell’essere interpellato dal tu e nell’interpellare il tu. Nel campo dialogico Feuerbach vede l ’attuazione de «il divino» tra gli uomini, e Marx ne trae le conseguenze pratiche: la creazione ad ogni costo e con tutti i mezzi di quello spazio in cui può svilupparsi in modo umano totale la intersoggettività. Ogni essere, che partecipa dell’essenza dell’autonomia, l’unica che sia preziosa, che dalla natura emerga nel campo della libertà, come membro del regno dialogico dello spirito appartiene all’assoluto, ha diritto alla tutela dei diritti umani. È l’etica dell’umanesimo. La terza tesi è quella decisiva. Per ciò che si è detto, il cosmo speculativamente non può più essere immaginato se non come l’autocomunicazione della
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libertà (Fichte, Schelling, Hegel): se questa è l ’assoluto, ma in forma finita, deve conquistarsi mediante il nonio, la natura, mediante il superamento dell’oggettività limitatrice; da idea deve diventare realtà. Ciò che nell’idealismo è immaginato in modo speculativo viene confermato nel modo più sorprendente nella teoria empirica dell’evoluzione. La natura è evoluzione creatrice, le forme si sviluppano l’una dall’altra in serie ascendente per via di una dynamis che spinge verso l’alto. Ma dynamis di chi? Indubbiamente dello spirito, che vuole tornare a se stesso; che, come idea che fonda tutto il regno della natura, si muove verso se stesso come libertà realizzata. Il regno della natura diventa, in Fichte speculativamente, con Marx praticamente ed in modo sempre più tecnico, il materiale e la miniera della umanizzazione. Poiché l’uomo, in quanto mèta di essa, le è superiore, la natura perde l’aureola della mediazione al divino e diventa il ‘mondo monda nizzato’. La quarta tesi è un corollario. Nel circolo tra idea e realtà è racchiuso tutto l’essere; perciò un Dio fuori di questo circolo diventa superfluo, a meno che si chiami divino l’attuarsi della libertà ufnana. Lo spirito, per definizione, è assoluto e padrone di sé. Tutte le forme della religione perciò si possono, con Hegel, includere nel circolo quali stadi preliminari della conoscenza assoluta; sono realmente stadi dai quali lo spirito, ancora legato alla natura ed ai sim boli, ancora isolato, guarda con devozione alla propria pienezza come all’ideale. Ma l’assoluto non si può sdoppiare. Può venire il momento in cui le de nominazioni del sistema, quali teismo (panteismo)
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ed ateismo, sono percepite come equivalenti. Fichte, con profondissima convinzione, può difendersi dal sospetto di ateismo, ed anche Hegel proibirebbe che gli sia dato un simile epiteto, mentre i suoi seguaci di sinistra trovano la conclusione ateistica del tutto naturale e nemmeno meritevole di discussione. Per ora, anche per noi ha importanza non la designazione, ma la forza sconvolgente con cui le prime tre tesi generano la quarta. Infatti, se il cosmo è il processo di umanizzazione, se d'altra parte la mèta, la libertà umana, per definizione è un assoluto (cioè una realtà che non dev'essere posta dall'esterno, ma che pone se stessa), ne consegue necessariamente che la causa finalis dell'eyoluzione ne è anche la causa efficiens, il primum tnovens. L ’esistenza del cosmo si spiega con la sua mèta, l'uomo; ma la libertà dell'uomo (in senso dialogico come amore) giustifica se stessa, non ha bisogno di giustificazione dall'esterno, e con ciò sono distrutte sia le prove cosmologiche di Dio sia quelle dalla ‘contingenza’. Il trionfo del sistema sta nell'essere stato abbozzato prima speculativamente, e in seguito confermato empiricamente. Ora può essere manipolato sperimentalmente senza pericolo.
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2. Implicazioni del sistema
Il sistema ha le radici nel terreno della speculazione, ma innalza tronco e rami nelParia della scienza esatta. Non ha più bisogno della speculazione, se non come un’utile premessa ipotetica per l’esperimento. Ma il paragone kantiano mette in luce che anche la speculazione era guidata da fondamentali idee scientifiche. Kant elabora una filosofia teoretica che deve rendere possibile il rigoroso carattere scientifico della scienza, la compone secondo lo schema materia (Anschauung) forma (Begriff): il materiale ‘mondo’ si lascia ‘dominare’ dal pensiero. A partire da Descartes, Bacone, Hobbes, il pensiero è pensiero dominatore: i ‘fatti’ devono essere sottomessi a ‘leggi’. I fatti esistono, ricercarne l’origine è cosa oziosa; la speculazione successiva li dedurrà dallo spirito; l’eventuale pro blematicità della loro esistenza e la conseguente inquietudine si placa nell’assolutezza dello spirito, che li ha in sé e non è accessibile con una ricerca del genere. Frattanto Leibniz aveva già postulato resistenza di essenze perfettissime in base alla loro propria struttura, estendendo in tal modo l’argomento ontologico per l’esistenza di Dio al mondo (migliore). Logicamente, per il mondo migliore (che in definitiva è l’unico possibile) la differenza tra essenza ed
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esistenza scompare, e non può neppure essere riacquistata nel sistema idealistico e nei suoi epigoni, perché la differenza alPorigine del mondo suppone un libero creatore (e non un’idea che postula se stessa come esistente). Neppure nella forma di Heidegger la differenza potrà essere reintrodotta nel sistema, perché non la si può sfruttare in alcun modo né scientificamente né tecnicamente. Mentre la metafisica antica nella forma medievale era costruita su una duplice tensione: esse
forma
materia
essentia la metafisica del sistema è ridotta all’asse longitudinale. Quello trasversale si fonda sul primitivo stu pone filosofico dinanzi all’aspetto incomprensibile, indeducibile, irraggiungibile della realtà ( energeia, actualitas), sia nella natura sia nell’uomo, e dinanzi alla differenza, che in essa si determina, tra il più dell’essere che non viene mai raggiunto ed esaurito dalla somma di tutti gli enti. In che modo il nulla viene all’essere?, domanda Platone nel Teeteto. O ppure, come è possibile una partecipazione? una partecipazione finitanulla ad una pienezza presupposta a tale fine? Lo stupore, che scientificamente non può essere sfruttato e che perciò rimane sterile, viene meno per il pensiero dominatore, per il quale la filosofia si riduce a dottrina dello spirito (spirito nella
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materia che diviene se stesso), e quindi ad antropologia. L ’uomo, infatti, è ciò che abbraccia; pensare che sia abbracciato, addirittura misurato dall’essere, è ozioso, tranne che si riferisca quest’essere al Dio creatore e spirituale, che nel sistema rimane un corpo estraneo. L ’uomo ha il suo posto all’interno del sistema, di cui è il completamento, nel senso che lo conosce, ma non nel senso che non debba continuamente (in modo asimptotico, dice Fichte) conquistarlo ed av vicinarsi ad esso. Hegel, che è un uomo di pensiero, si colloca più vicino al completamento ed alla contemplazione del circolo; Marx, che è un uomo pratico e un profeta, si colloca al centro del processo, che sta attorno al regno della libertà nelle doglie del parto. Ciò che allora in ogni caso diventa l’uomo, considerato come meta del divenire, è paradossale: in Hegel, infatti, l’uomo, in quanto individuo, è stato sacrificato all’idea realizzata, ed in Marx, in quanto individuo, è sacrificato continuamente alla idea da realizzare. Il sistema deve accettare questa contraddizione; in esso non si può parlare di immortalità o di risurrezione. L ’individuo, per mantenere la propria autonomia, deve rinunciare ad ogni altra realizzazione delPesistenza che non sia l’idea della totalità. L ’incontro dialogico, il reciproco ordinamento di uomo e donna ecc., possono evocare questa idea, ma è impossibile che la realizzino. L ’antropologia totale porta, in quanto tale, al sacrificio totale dell’uomo a favore dell’umanità, che consta pur sempre di singoli uomini. La sua etica è un altruismo, che è amore assoluto sia verso il tutto (verso l’idea
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realizzata ‘Dio’) sia verso ciascun prossimo, e che nel caso serio è disposto a dileguarsi e scomparire dinanzi al tutto, rappresentato dal singolo prossimo.
65 5 - O n d u la ovverosia il caso serio
3- Alternativa
Paragonato al pensiero della tarda antichità dalle molteplici aperture, entro il quale i primi cristiani annunziarono il loro messaggio, quello del sistema è un pensiero chiuso e che si chiude sempre di più. La questione del mondo in cui il cristiano moderno deve incontrare un mondo che professa il sistema, è una questione di estrema gravità. La risposta ovvia sembra essere la seguente: far proprio il sistema, criticandolo nello stesso tempo. «Esaminare tutto e conservare ciò che è buono». Si dovrebbe quindi rifare cristianamente lo sviluppo del pensiero che inizia con l’età moderna; si dovrebbe iniziare proprio dai suoi vertici Kant, Fichte, Hegel per guidare le correnti. Si può tentare di farlo, e quasi tutta la neoscolastica è occupata in questo. Dopo uno Schelling cristiano (che fu condannato in Giinther, e poi risorse diverse volte, in modo particolarmente grande e convincente in Solowjew), viene un Hegel cristiano, soprattutto presso i francesi, ed un Fichte cristiano, che incomincia a diventare il vero padre della Chiesa della scolastica moderna (a partire da Maréchal). Si può tentare di farlo, ma sarà opera di epigoni. Il destino epocale, quale fu Hegel con il suo epilogo Marx, si è com
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piuto da tempo, ed è irreversibile. Staccato dagli inizi speculativi, esso ha maturato un tipo umano che, formato sulla base di quelle origini, vive con la naturalezza di una seconda natura nel pensiero e nell ’azione del dominio, e si adatta silenziosamente alla descritta etica paradossale. Per il cristiano la situazione è ancora predeterminata, poiché dal mondo del sistema egli è considerato come puro passato, e precisamente come quel passato che fu premessa non ultima del sistema, e rimane murato in qualche punto delle fondamenta di esso. Infatti, considerando le grandi tesi del sistema, non è forse stato il cristianesimo a renderne possibili le tre fondamentali? Il pensiero della li bertà, ignoto nel mondo antico, non è forse un frutto della religione biblica, in cui l’uomo viene invitato dal Dio vivente a prendere posizione prò o contro di lui (Antico Testamento), ed infine, per mezzo della perfetta e libera decisione di Dio per il mondo in Gesù Cristo, diviene anch’egli partecipe di una li bertà soprannaturale, data da Dio, spirituale, dei figli di Dio? Inoltre, questo pensiero cristiano della li bertà non ha influenzato l ’espressione dottrinale, ispirata senza dubbio dal cristianesimo, della dignità della persona e dei diritti dell’umanità? E l’innalzamento dell’uomo al di sopra del cosmo, che ha dato la possibilità di concepirlo come un divenire orientato all’uomo, non ha in fondo il primo fondamento nel racconto biblico della creazione, al cui vertice l’uomo viene collocato come sovrano su tutti i regni della natura? E questi tre pensieri cristiani fonda mentali non sono stati strappati di mano alla Chiesa, che evidentemente con essi non aveva saputo com-
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binare nulla di buono, per essere affidati per un giusto sviluppo da una parte alla filosofia speculativa, dall’altra parte alla rivoluzione francese e poi al marxismo? Perché dunque opporsi ad uno sviluppo tanto logico, rifiutando di dedurre dalle prime tre tesi la quarta, e di pagare così il tributo allo spirito ascendente del mondo? Sarebbe un perdere con onore. Sarebbe un toglimento di tipo hegeliano, in quanto uno stadio preliminare verrebbe salvato in quello immediatamente superiore, ma col sacrificio della propria indipendenza. Diventa un «momento in...». Questa è, secondo il sistema, l’unica possi bilità di salvarsi. Decisione grave per il cristiano. Posto che egli resista a questa tacita annessione e voglia conservare la fede cristiana, in quale forma lo farà? Rimane la questione (ancora esterna) del modo in cui deve rivolgersi ed interessare col suo messaggio il fratello che vive nel sistema. Rimane la questione più profonda della misura in cui la solidarietà con il fratello esige che egli entri nelle prospettive del suo sistema. Rimane la profondissima questione di coscienza del modo in cui, quale uomo moderno, può essere cristiano. Oppure, per amore di Cristo, deve èssere non moderno, non all’altezza dei tempi? Ma allora si condanna a non essere più ascoltato da nessuno, anzi a cadere in una specie di schizofrenia tra le epoche. Cristo non esige forse esplicitamente che dobbiamo saper cogliere i «segni dei tempi»? Il cristiano deve quindi incamminarsi alla ricerca del fratello. Anzi, in un senso, egli è sempre vicino al fratello, perché anch’egli è figlio del suo tempo. In un altro senso però egli è inviato da Cristo, non
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è libero, deve annunziare il messaggio in modo die possa essere compreso. Deve possedere l’ardimento di farsi solidale con gli altri anche nella visione del mondo. Deve superare la distanza di tempo tra Cristo e l’oggi. Perciò, non può tralasciare di leggere il Vangelo e di considerare la storia della Chiesa con l’occhio dell’uomo moderno che pensa storicamente. Ciò non avverrà senza esperimenti di pensiero, senza ipotesi, cui egli deve almeno in parte affidarsi. E questo lo costringerà in apparenza a sospendere in qualche modo la questione del caso serio descritto nella prima parte. Fino a quando le grandi, rischiose trasposizioni, che si rivelano indispensabili, siano sufficientemente attuate. A l cristiano si deve concedere una simile pausa, se deve eseguire il mandato cristiano di esprimersi e comportarsi in modo oggi comprensibile. Dove avviene la decisione per il caso serio sta appeso un cartello: «Chiuso provvisoriamente per restauri». Nelle pagine seguenti vogliamo seguire il cristiano nelle sue vie; vie che oggi sono stradoni ampiamente battuti. Vorremmo sapere dove si va a finire lungo di essi. Se però ci venisse detto die la via non porta tanto presto al caso serio cristiano, se il locale chiuso rimanesse inaccessibile fino a nuovo ordine, nella nostra breve vita non avremmo semplicemente il tempo di attendere così a lungo. Preferiremmo perseverare nella nostra fede «so a chi ho creduto» (2 Tim. 1,12 ) per misurare su di essa il sistema ed in certi casi lasciarlo anche naufragare. Forse la discrezione degli spiriti, che d è imposta, si potrà fare più fadlmente in base alla decisione di fede, perché in tal caso tutto viene misurato sull’evidenza
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di colui che è sempre più grande (id quo majus cogi tari non potest). In tutta l’alternativa non si tratta quindi di conservatorismo o di progressismo, ma semplicemente di vedere se il cristiano, per amore dell’aggiornamento, possa sospendere il caso serio. In altre parole, se con la ragione possa fare esperimenti riguardanti la fede, senza che sia messa in discussione anche la carità. L ’oggetto della fede, infatti, così abbiamo visto, non è altro che la rivelazione dell’amore sempre più grande di Dio per tutti e per me, in croce.3*il
3 In queste poche pagine non si è trattato naturalmente di '‘confutare’ il ‘sistema’. La posizione del nostro tema è diversa. Tu ttav ia non è tanto difficile comprendere che una libertà, la quale deve acquistarsi soltanto mediante un non-io, non può essere chiamata libertà assoluta (cioè che non ha bisogno di nulla); inoltre, che nessuna idea può trasporsi da sola nell’ordine della realtà (salvo che in un pensiero completamente dimentico dell’es sere), ma ha bisogno di essere accompagnata ad ogni passo della realizzazione da un Dio eterno, libero, che non diviene; che tutto il divenire del mondo rimanda quindi ad un creatore, cui sta a cuore procurarsi un collaboratore libero che costruisce dal basso con forze creatura!! e che nella sua indipendenza gli può muo vere incontro per l’ultima unione nuziale.
III. La sospensione del caso serio
Che rapporto c’è, o padre, tra questa dottrina e quella del vangelo? Pascal, Le provinciali.
i. I l dimezzamento del mistero
Kant rispetta la base empirica della scienza (naturale): la nostra conoscenza non va oltre ciò che può essere accertato coi sensi. Ogni conoscenza si costruisce nel rapporto chiuso del lato sensibile e del lato spirituale dell’essere umano; è, nella sua struttura più intima, antropologica ed antropocentrica. In questo si differenzia dalla conoscenza antica e medievale, che si verifica nella tensione tra uomo e physis (soltanto inadeguatamente tradotto con ‘natura’), tra intellectus ed esse. Physis ed esse sono l’orizzonte entro il quale la cosa singola può essere conosciuta, la luce non vista dalla quale l’ente è illuminato e rischiarato per lo spirito. Non sono l’essenza, ma la presenza di Dio nel mondo. Si possono citare in proposito le parole del Salmo (36 ,10): «Nella tua luce (che non sei tu stesso, ma il tuo brillare per noi) vediamo la luce». L ’essere quale pura mediazione tra D io e le cose che esistono è il punto in cui le realtà ignote del principio divino si illuminano per l’uomo a tal punto che «si intuiscono i suoi attributi invisi bili» (Rom. 1,20), certamente (in quanto sono intuiti) come qualcosa che diviene visibile ( phaneron, 1, 19), non però come compresi in sé, bensì «nelle creature». Il mistero di un Dio che si rivela nel mondo
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e nondimeno rimane invisible, al quale tutto rimanda senza che appaia il punto di rimando, è l'elemento fondamentale della filosofia (antica). Si disconosce questo spunto quando si afferma che ciò esprime soltanto una «divinizzazione della natura» primitiva, ancora semianimistica, da cui l'antropocentrismo biblico e tecnicomoderno ci avrebbe, finalmente, liberati. Infatti, si tratta innanzi tutto non della natura in quanto somma del mondo (specialmente sottoumano), ma dell'essere dal quale si sviluppano gli enti (phyo, physis). È il mistero di un principio che si dona e che proprio nel mistero del suo donarsi (negli enti) è superiore, incomprensibile; un mistero che si riflette naturalmente nella struttura dello spirito per mezzo del quale avviene la rivelazione di Dio nell'essere del mondo, ma che lo spirito non può rivendicare come propria struttura. Anzi, è il mistero dell'immanenza nel mondo del Dio trascendente il mondo, mistero che può essere inteso con la formula della «analogia entis» (a patto di capire ciò che si dice). Il pensiero dominatore non può fare nulla con misteri filosofici. «Divide et impera» è il suo motto. Divide il mistero della realtà in due parti:* qui le «cose note di Dio» ( gnostón tou Theou, Rom. 1,19), che possono essere comprese e fatte proprie; là le «cose ignote» ( aórata, 1,20), per conoscere le quali non abbiamo alcun mezzo e che per conseguenza non ci riguardano per nulla. Il movimento del pensiero moderno è perciò duplice: prima avvicinare Dio all'uomo, perché ciò che porta possa essere assimilato; poi allontanare Dio, in modo che le sue realtà ignote non riguardino più l'uomo. Entrambi i movimenti
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possono avvenire in chiave tanto cristiana quanto atea. Avvicinando Dio all’uomo si prende sul serio l’incarnazione; allontanando Dio, si dimostra il vero rispetto che non scambia Dio con gli idoli della ragione. Così in senso cristiano. Ed in senso ateo: si deve avvicinare Dio finché coincida con l’uomo, ed allontanarlo finché si dissolva in fumo. «Dio è diverso» sembra essere una scoperta della odierna pietà cristiana. Questa ha in verità una memoria corta, perché la parola d’ordine del «Dio completamente diverso» fu presentata negli anni venti da Karl Barth, il quale del resto non fece che rinnovare la millenaria tradizione cristiana della teologia negativa, secondo la quale gli enunciati negativi sono superiori a quelli positivi (Dionigi Areopagita, Tommaso d’Aquino) e tra Dio e la creatura non si può stabilire una somiglianza così grande (nella natura e nella soprannatura) che la dissomiglianza non sia ancora più grande (Cone. Lateranense iv, Denz. 432). Ma la teologia antica parlava sempre nella struttura generale del mistero, mentre l’odierna teologia del «Dio è diverso», sotto il segno del rispetto (come un tempo Giansenio), difende il diritto dell’uomo di pensare o di sentire Dio lontano da sé. Perché? Si possono citare tre motivi. 1. Perché l ’uomo viene determinato dalla sua li bertà, che lo pone, come nessun’altra creatura, di fronte & Dio. Egli è lasciato da Dio a se stesso per realizzarsi da sé, e tal fine ha bisogno di uno spazio libero, dal quale Dio in certo modo si tiene fuori. Dio, si dice, lascia che il mondo sia. Ciò è vero in un senso fondamentale; non ne consegue però un senso derivato. Con semplici giochi di parole non
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si può filosofare. Inoltre è un pensiero molto limitato, che non è in grado di sostenere il pensiero fondamentale della «analogia entis», poiché questa è naturalmente anche una «analogia libertatis». Una creatura tanto più è libera quanto più profondamente partecipa alla libertà di Dio (ciò vale per ogni tipo di partecipazione); soltanto entro la libertà di vina l ’uomo può realizzare la propria capacità di li bertà. Diventa allora chiaro che Dio e l’uomo non possono star di fronte come due interlocutori, perché «Dio è tutto» ( Eccl . 43,27) e non ha quindi un vero interlocutore. L ’Antico Testamento, con il tirocinio nell’oggettività, era necessario per superare il panteismo; ma viene a sua volta perfezionato nel Nuovo Testamento cristologico (cfr. Gal. 3,20 s.). La concezione, da cui parte questo primo motivo, è non soltanto antropocentrica, ma pericolosamente antropomorfica. 2.
G li stessi filosofi possono argomentare anche
partendo da un punto opposto. Per noi Dio è concettualmente un Dio lontano, perché «non è oggettivo». Qui supponiamo l ’idealismo tedesco: c’è una conoscenza categoriale, oggettivante (dove una forma categoriale domina una materia), ed una conoscenza trascendentale, poiché la trascendenza dello spirito sul categoriale gli diviene indirettamente cosciente, senza divenire oggettiva. Da ultimo, lo spirito diviene anche indirettamente cosciente della propria dinamica nell’assoluto, del suo rapporto con Dio, ed in ciò Dio gli è presente in modo non oggettivo. Pur affermando l’incomprensibilità e l’invi sibilità di Dio, contro un simile argomento si deve dire che esso lega la teologia ad ima filosofia unilate-
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rale. Se la filosofia trascendentale consuma il concetto del reale, dell’oggettivo, per il pensiero categoriale del dominio, e non lo ha più a disposizione per il rapporto con Dio, la colpa è sua; ma essa fallisce la verità contraria al «Dio è tutto», cioè: Dio non è il mondo, perciò tra i due regni vi è un fenomeno originario di oggettività analogo a quello esistente tra l’io e il tu, ed analogo al mistero intra divino dell’oggettività tra le tre persone, mistero che è la radice ultima di ogni altra oggettività. 3. L ’argomento decisivo per l’allontanamento di Dio non è però la filosofia trascendentale, ma la sua attuazione pratica nel «mondo umanizzato». L ’uomo, che considera e tratta il mondo minerali, piante, animali, astri come una cava di pietra per la propria casa, difficilmente scorgerà ancora in esso una trasparenza verso Dio. È divenuto nuovamente P«homo faber», ha superato l’era greca e medievale della contemplazione (che non frutta nulla). Paolo, che sapeva vedere «l’eterna potenza e divinità di Dio... dalla costituzione del mondo nelle creature», è appunto un testimone di quell’antico mondo ormai passato. Noi non possiamo più esserlo, non ne ab biamo più né la capacità né il tempo. Dobbiamo fare di necessità virtù, e trasformare l’incapacità dell’uomo moderno «di cercare Dio, tentando di sentirlo e di afferrarlo, egli che davvero non è lontano da ciascuno di noi» (Atti. 17,27), in un timore di fronte ad un Dio lontano, che non può essere né sentito né trovato. Potremmo, è vero, invidiare agli antichi la loro capacità; ma sarà meglio considerare quella vicinanza di Dio come propria di una «immagine mitologica del mondo», che dobbiamo sdivinizzare
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a nostro vantaggio. D ’altra parte, è anche onorifico voler incontrare maggiori difficoltà. Poiché l’uomo moderno incontra evidentemente maggiori difficoltà, si pensa che il cristiano dev’essergli vicino e preferisca essere con lui un cercatore di Dio piuttosto che un troppo facile e poco credibile scopritore di Dio. Ma c’è l’altro lato. Dio si è rivelato all’umanità in Gesù Cristo, il quale non soltanto ha portato Dio vicino a noi, ma ha anche rivelato chi è veramente l’uomo. Ha richiamato l’uomo dalla lontananza da Dio, e proprio per questo anche dalla lontananza da se stesso. Si tratta quindi di appropriarsi fino all’ultimo di ciò che, in Cristo, Dio ha donato di sé al mondo, ciò che ha assunto forma umana. Cristo è colui che rivela l ’uomo a se stesso: la grandezza del l’illuminismo, continuato dagli idealisti tedeschi, sta nell’aver sfruttato pienamente la cristologia per costruire l’antropologia. Kant lo ha fatto con molta serietà nella Religione entro i lim iti della semplice ragione, e Fichte lo ha seguito con altrettanta serietà. Nella storia dell’umanità Cristo è il passaggio da un regno di lontananza da Dio (‘peccato’) ad un regno di perfetta libertà, quale va sempre più affermandosi nel corso della storia. Giustamente, dice Fichte, il tempo storico si conta prima e dopo Cristo. Dovremo parlare ancor più ampiamente della am tropologizzazione della cristologia, perché merita attenzione quale punto culminante di tutta l’impresa. Essa getta il ponte tra l’autentico cristianesimo neotestamentario e l’ateismo che, attraverso questo ponte, senza saperlo, diviene partecipe della verità centrale del cristianesimo. Anzi, proprio qui esiste
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da sempre il punto mobile di contatto tra la cosiddetta ortodossia cristiana e tutte le varianti liberali del cristianesimo: sarà per noi un motivo di più per meditare con attenzione. A questo punto si può ancora aggiungere una questione, che è strettamente connessa con il «dimezzamento del mistero». In principio Dio creò cielo e terra. Che cos’è il ‘cielo’ nel primo enunciato della Scrittura? Esso ritorna senza posa, anzi in misura crescente lungo tutta la Scrittura: dal cielo Dio discende ed osserva gli uomini; in cielo rapisce i suoi veggenti; Gesù prega il «Padre che è nei cieli» che la sua volontà sia fatta «come in cielo, così in terra». Gesù sale al cielo; dal cielo manda il suo Spirito; in cielo, secondo Paolo e Pietro, è la nostra patria; dal cielo discenderà alla fine la sposa dell’agnello, «la città santa Gerusalemme», «la nostra libera madre di lassù» {Gal. 4,26). Che realtà è mai questa? Certamente, ad una prima considerazione sembra essere una realtà cosmologica, perché quel ‘firmamento’, che separa le acque inferiori dalle superiori e nel quale in seguito vengono collocati i grandi luminari, «Dio chiama cielo» (Gen. 1,8). Eppure, si tratta di un punto di partenza figurato, la cui importanza decresce nella misura in cui il cielo di Dio viene ‘popolato’ di esseri viventi. Esso non è Dio, perché Dio stesso lo ha creato; ma non appartiene neppure al mondo in formazione del cosmo materiale. È il luogo (ed il ‘mondo’ di Dio appartenente a questo luogo) che sta in tensione con il luogo dell’uomo e con il mondo dell’uomo appartenente a questo luogo. «I cieli sono cieli del Signore, ma la terra egli l’ha
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data ai figli degli uomini» {Sai. 115,16). Tra i due ‘luoghi’ o ‘mondi’ si svolgono tutti gli avvenimenti che la Bibbia descrive come rivelazione. Non tra un Dio privo di luogo e di mondo, ed un mondo di cui l’uomo sarebbe l’unico centro. Ma sempre tra cielo e terra. Il mondo antropocentrico è in un rapporto viv o con il mondo teocentrico. Il campo di tensione tra i due è il teatro dell’incarnazione di Dio, della storia della Chiesa (che appunto si svolge tra Chiesa terrena e Chiesa celeste), della storia del mondo, le cui vere dimensioni sono descritte dal veggente del l’Apocalisse. La prospettiva finale indica da una parte «un nuovo cielo ed una nuova terra», dall’altra parte la «discesa dal cielo di Dio» della Chiesa celeste, e quindi l’esaudimento della preghiera «come in cielo, così in terra», una unità duale, che è realizzazione ultima. Un uomo moderno che cosa può pensare di un simile enunciato, per giunta così fondamentale? Il massimo che sembra possibile pretendere da lui sarebbe una dimensione ‘spirituale’ accessoria del cosmo materiale umano, quale sembra indispensabile a motivo della risurrezione di Cristo e della promessa risurrezione universale dei morti, lina trascendenza del mondo, che sboccia al sole della grazia divina, in un nuovo modo definitivo di esistere. Eppure ciò non sembra bastare agli enunciati biblici. Fin dall’inizio della rivelazione ed in misura sempre crescente, c’è un’apertura del delo che non soltanto si forma dalla terra, ma già esiste al di sopra della terra, un continuo accompagnamento degli eventi terrestri da parte del cielo, e, viceversa, una crescente accessibilità del cielo per la terra. Non una persona
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divina solitaria è in dialogo con gli uomini, ma il «mondo di Dio» si intrattiene con il «mondo degli uomini». Tutte le reminiscenze cosmologiche che ancora si avvertono, in immagini concrete, ad esempio nei Salmi, sono scomparse in bocca a Gesù ed agli apostoli. Il loro enunciato ha un valore teologico in se stesso. Il cielo è il grande mediatore biblico tra il Dio «che abita in una luce inaccessibile, che nessuno degli uomini vide né può vedere» (i Tim. 6,16) ed il mondo degli uomini. Nel cielo si vede la faccia di Dio ( A p . 22,4), egli viene visto com’è (1 Gv. 3,2), l’uomo conosce come è conosciuto (1 Cor. 13,12). Ed è un grande mondo di amore e di gioia: «Vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vi vente, la Gerusalemme celeste, alle miriadi di angeli, cèto festoso, all’assemblea dei primogeniti, iscritti nei cieli..., agli spiriti dei giusti resi perfetti e al mediatore della nuova alleanza, Gesù...» ( E b. 12,22 24). Il dimezzamento del mistero amputa questa realtà; anzi, la lascia semplicemente cadere. È, questo, l’impoverimento maggiore che, nella ricerca dell’uomo moderno, l’odierna teologia, senza avvertirlo adeguatamente, subisce. Secondo la Bibbia l’esistenza cristiana si attua dinanzi al delo aperto, nel vivace accompagnamento di quella che Ignazio di Loyola chiamava la «curia coelestis», la corte di Dio, in una manifestazione dinanzi a tutto il mondo dell’amore, che non ha nulla in comune con la povera concezione di una coscienza segreta, accessibile unicamente allo sguardo di Dio. Lo svelamento dell’uomo dinanzi al cielo giustifica per Paolo la fiducia di appartenere anch’egli un giorno a coloro che sono completamente svelati. 81 6 - O n d u la ovverosia il caso serio
2. I l rinvio
Nel programma di ‘demitizzazione’ della sacra Scrittura e della teologia, di cui abbiamo ricordato un esempio e che naturalmente non possiamo trattare qui in tutta l’ampiezza, ciò che innanzi tutto colpisce è il fatto che non è in grado di limitare se stesso, perché il concetto di ‘mito’ applicato alla Bibbia non può acquistare contorni sicuri. Infatti, così come viene usato, si fonda su un duplice criterio, che, in relazione a questo documento, non può essere ridotto ad un criterio unitario: si considera mitico ciò che è connesso con un’immagine antiquata del mondo e ciò che l’uomo moderno non può più accogliere e sente come estraneo nella cosiddetta immagine scientifica del mondo. Il primo è, in apparenza, un giudizio storicoscientifico, il secondo un giudizio esistenziale; i due non sono la stessa cosa. Quanto al primo, si dovrebbe poter dimostrare che tutto ciò che è connesso con l’«immagine antiquata del mondo», ha nella Scrittura un influsso determinante sugli enunciati teologici; si dovrebbe inoltre dimostrare che le cose, che nella Scrittura sem brano presentare determinate analogie con circostanti culture mitiche, nell’ambito della rivelazione biblica non hanno un significato proprio e partico-
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lare. Al contrario, non è possibile dimostrare che gli enunciati legati all’immagine tolemaica del mondo perdono di valore se vi si sostituisce quella copernicana. È già molto discutibile, ad esempio, se i disce poli abbiano interpretato in senso veramente cosmologico gli atteggiamenti simbolici con cui il Signore nell’ascensione scompare verso l’alto (il cielo è ‘in alto’, e quindi il risorto sale verso l’alto), e non piuttosto con la stessa ingenua naturalezza che anche l’uomo moderno conserva quando interpreta in senso antropocentrico (e con ragione!) il cosmo come ap pare ai sensi: la testa, la luce e l’ampiezza sono in alto, i piedi, l’oscurità e le tenebre sono in basso. Sarebbe forse per noi la stessa cosa se Cristo, per indicare agli uomini forniti di sensi che egli torna al Padre, fosse scomparso sotto terra? Suvvia, non agiamo da sciocchi più di quanto già siamo, e non esageriamo simili banalità, quasi che con il mutamento dell’immagine del mondo crolli anche metà della rivelazione biblica! E le analogie con le culture mitiche? L’Antico Testamento ha combattuto contro simili analogie quando, da Mosè ai profeti, ha proibito ogni materializzazione mitica. E l’uso di certe immagini e concezioni mitiche di Ugarit? Esse saranno state sentite dai profeti e dai salmisti non molto diversamente da Goethe, quando rivolgeva una poesia alla luna. E gli esseri alati che, nella sua visione, Ezechiele deve aver visto sulle mura e sulle porte del tempio di Babilonia? Questo ‘deve’ è sem plicemente un’affermazione, e l’insieme è del tutto· irrilevante. Oppure dovrebbe essere sufficiente per mettere in discussione, dal punto di vista della psicologia del profondo, l’oggettività delle estasi e delle
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visioni dei profeti? Ed il parto verginale? Esistono molti miti, nei quali le figlie degli uomini sono rese gravide dagli dei! Controdomanda: siamo nell’am biente egiziano ed ellenico o non piuttosto nell’am biente rigidamente giudaico? Ci si vuol riportare ai tempi, in cui le religioni misteriche grece dovevano fornire il modello per le strutture della Chiesa primitiva, tempi che in verità sono passati? I teologi cattolici diventano così ciechi da non più vedere che la verginità di Maria è annodata al centro della dogmatica? Oppure si vuole incominciare a distinguere una verità ‘teologica’ ed una verità ‘storica’ in una religione in cui si tratta addirittura delPincama zione, e quindi della verità storica del contenuto centrale di fede? Se per principio si procede oltre, si cade allora nel campo d’influenza del secondo criterio: non più consono, si dice, al sentimento moderno del mondo. Nel passaggio dal primo al secondo si dirà: l’antica immagine del mondo, per la quasi totale ignoranza dei nessi .casuali scientifici, dotava il mondo di ogni specie di spiriti, potenze, angeli buoni e cattivi, sem pre pronti a produrre effetti secondo il piacere o il capriccio. Ad essi era rivolta la maggior parte delle preghiere. I miracoli erano molto più ow ii, e quindi anche la constatazione che qualcosa era miracolo e (quasi senza transizione dal punto di vista psicologico) l’attribuzione di miracoli ad una personalità il cui possente agire autoritario faceva impressione. Si noti però che le storie di Gesù non conoscono miracoli puerili (che abbondano negli apocrifi): sono tu tti concretizzazioni di verità essenziali su Dio e sulla azione di Dio. Ma il fatto che Gesù scacci gli spiriti
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impuri dagli ammalati in Marco subito dopo l ’annunzio che il regno di Dio sta per venire e dopo la prima predica a Cafarnao ‘con potenza’ è la significativa concretizzazione dell’urto dei regni dello Spirito santo (Me. 1,12) e dello spirito impuro (1,23) nel mondo materiale. È lo stesso avvenimento evangelico, e non ha nulla a che fare con il mito. E ancora, nella Bibbia, la preghiera non è mai rivolta agli spiriti, ma esclusivamente a Dio. Ma sembra che su questa strada non ci siano soste: una cosa tira l’altra, e ciascuna è più grave e più radicale della precedente. Quando si sveglia nel cuore del cristiano, del teologo, l’inquietudine? (In punti del tutto diversi). Fin dove può giungere per motivi pastorali, o forse anche per onestà ‘scientifica’? Anticipiamo un punto notevole: l ’immagine antica del mondo è misera non soltanto nello spazio, ma anche nel tempo, se paragonata con quella odierna, che già alla sola umanità assegna una storia primitiva di ben cinquecento mila anni. Nell’immagine di allora l’annunzio del ritorno di Cristo per il prossimo futuro era qualcosa che si adattava benissimo alla cornice, soprattutto se teniamo conto dell’atmosfera apocalittica del tempo. L ’elemento dell’attesa prossima sembra incidere molto a fondo in tutta l ’etica del cristianesimo primitivo e nella sua posizione nei confronti del mondo. Qui non si deve realmente «fare opera di demitizzazione» con un profondo taglio chirurgico? Risposta: se da certe formulazioni degli evangelisti (che senza dubbio speravano in un ritorno vicino nel tempo) estraessimo l’atteggiamento e l’insegnamento autentici di Gesù
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(«nessuno conosce l’ora, neppure il Figlio»), tutto 1’atteggiamento del cristiano non verrebbe che legato ancor più strettamente nell’obbedienza all’ora di Dio, e precisamente né in un’astrazione liberale dal tempo, né in una ristrettezza temporaleescatologica.4 Una simile interpretazione potrebbe lasciar aperto al futuro del mondo qualsiasi spazio, non attenuerebbe l’enunciato che il cristiano e la Chiesa sono pellegrini e stranieri sulla terra, e molto meno ancora velerebbe il pensiero che tutta la storia del mondo corre verso il Cristo sovrano escatologico che, quale suprema idea cosmica di Dio, non può essere superato od anche solo avvicinato da alcuna evoluzione di forze umane e mondane. In quanto egli è in anticipo la realtà che è sempre più grande (id quo majus cogitari nequit), tutta la storia acquista in lui un giudice in quanto consolatore che separa, ma salva ed un ’idea alla quale si può tendere senza fine. E però, l’antica immagine biblica del mondo, soprattutto neotestamentaria, nella sua staticità da una parte, nel suo dualismo di cielo e terra dall’altra, non è sotto sotto influenzata da idee in parte platonicognostiche, in parte tardogiudaicheapocalittiche, che non sono più conciliabili con l’odierna immagine dinamicoevolutiva del mondo? Allora si bramava ardentemente di essere in un altro regno, senza potervi anche soltanto aspirare da soli — di qui il molto pregare e forse il sentimento del peccato («il nostro cuore è inquieto»); oggi si lavora per un futuro che, 4
Cfr. il mio articolo «G laub e und Naherwartung» (Fede ed
attesa prossima), in Zuer st G ottes Ket ch , 1966 (trad. it. in preparazione presso l’Editrice Queriniana, Brescia).
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avendo alle spalle il grande sviluppo della natura, si sente autorizzato a guidare arditamente il divenire, ad acquistarsi da solo pienezza e salute interne, sotto la dura legge del lavoro comune, che certamente non è ‘castigo’, ma distinzione, e probabilmente un onore reso al creatore più profondo che non la molta preghiera oziosa. Di qui logicamente, l’ultimo passo: l ’idea di un ‘salvatore’ , che dal chiaro cielo discende sulla terra oscura, vi lascia un po’ di luce e poi risale nella sua sfera un noto modello che ritorna spesso non è totalmente legata all’antica immagine dualistica del mondo? La designazione di Gesù quale «figlio di Dio», e infine quale «Dio», non è la semplice applicazione di quello schema ad una personalità storica certamente fornita di doti spirituali? Dalla combinazione della dottrina dell’amore di Dio e del prossimo con la terribile morte in croce non deriva quasi spontaneamente l’idea che la sua sofferenza sia stata una sofferenza vicaria di amore e di espiazione? E, una volta giunti a questo punto, non deriva anche, con logica quasi inevita bile, lo spunto della dottrina della Trinità, dal momento che il figlio in terra è Dio, che prega il Padre celeste ed attesta la sua unità con lui, ed entrambi hanno un unico spirito? Dobbiamo confutare tutte queste affermazioni, oppure il benevolo lettore si accontenterà dell’assicurazione che semmai potremmo farlo? Infatti, noi non abbiamo intenzione di fare qui dell’apologetica, ma di descrivere le vie più battute e di risvegliare l ’impressione che è difficile, se si vuole essere intellettualmente onesti, non rimanere attaccati in qualche punto a questa lunga e spinosa siepe di difficoltà.
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Avviene allora ciò che, nel nostro contesto, è decisivo e per cui abbiamo costeggiato questa siepe: il rinvio della decisione di fede. La sospensione almeno temporanea, finché i risultati dell’esegesi scientifica siano stati sufficientemente chiariti... Forse, nell’insieme, si potrebbe trovare una specie di soluzione interinale, dichiarando ad esempio che in tutti gli enunciati della Bibbia (che esigono la fede) si trova una proporzione tra contenuto e modo di esprimersi di allora, e che la stessa proporzione, mediante una trasposizione totale, dovrebbe risorgere oggi tra contenuto e modo moderno (demitizzato) di esprimersi. Forse tutto dovrebbe essere inteso «in modo analogico».5 Ciò potrebbe forse significare che l’azione di Dio e del Verbo divino, che allora fu espressa come spargimento vicario del sangue sulla croce, oggi (certamente anche per la riflessione sul contenuto espresso dall’immagine di allora) dovrebbe essere chiarita in un modo analogico, che interessi direttamente noi, ecc. Il caso serio (provvisorio) sarebbe allora che io — analogamente al modo in cui il cristiano che pensava in forma mitologica si lasciava toccare dal Cristo crocifisso — con la stessa serietà, che quell’immagine mitica rendeva ovvia, mi lasci toccare dall’azione del Verbo di Dio in me (che mi promette la salvezza). Ma allora, in tale costruzione, risulterebbe non più chiaro il motivo per cui, nel caso serio, io dovrei essere disposto a morire. Comunque, sarebbe molto difficile spiegarlo a coloro che mi mettono al muro di esecuzione. Sarebbe anche molto difficile spie5
G . H a s e n h u t t l , Che cosa vuole Bultmann con il suo pro
gramma pp. 66-67
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di
demitizzazione?,
in
Concilium, ed.
it.,
2
(1966),
garlo ai bambini negri nelle missioni. Probabilmente, invece della analogia, a cui uno personalmente si attiene, si proporrebbe loro il chiaro motivo antico, per cui una persona può anche chiaramente morire. Con l’analogia del contenuto della fede, diventa analogico anche l’atto di fede, e nessuno potrà più affermare, in base all’eguaglianza di proporzionalità, che è il risultato di una trasposizione totale, di avere ancora chiaramente quella fede cristiana, quale l’ha intesa la Chiesa per quasi duemila anni. Il caso serio è anche qui il criterio migliore, perché mette per forza dinanzi alla verità cristiana: la mia disposizione a morire per Cristo con la grazia di Dio è l’unica risposta adeguata (che implica tutta la condotta di vita) al fatto che egli si è degnato di morire per amor mio. Se questo fatto diventa discutibile, diventa discutibile naturalmente anche la mia risposta. Ma questa, in tanto è per me un criterio, in quanto, mettendo a repentaglio totale la mia vita, io attesto di aver compreso la verità cristiana come la rivelazione più alta possi bile dell’amore eterno, nei cui confronti tu tti i risultati della demitizzazione rivelano una mancanza decisiva, chiaramente visibile e descrivibile, di grandiosità divina. Non è qui il caso di ripetere ciò che è stato am piamente esposto in Schau der G estd t [Visione della figura],* e cioè: che dipende da un daltonismo spirituale il non poter percepire l’unicità, l’ine* E il volume i dell’opera H e r d k h k e it , progettata in quattro vasti volumi, di cui i primi tre sono già apparsi nell’edizione svizzera in lingua tedesca; trad. fr. La gioire et la croix, voi. i:
Apparition (Aubier,
Parigi).
NetU’edizione
francese
la
parola
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splicabilità e l’indissolubilità della figura della ri velazione quale ci è presentata nell’Antico e nel Nuovo Testamento, e l’esaminare invece al microscopio da tutte le parti il reperto biblico con occhio professorale e indagatore, che ha perso la capacità di percepire la qualità e le proporzioni della forma intera. In quel libro è anche detto che la contemplazione della gloria di Dio nella sua rivelazione è l’unica via per non dover sospendere l’assenso di fede mentre si fa una seria indagine biblica. Infine, è anche detto quanto dobbiamo essere grati alla rigorosa scienza biblica, che ha arricchito in modo inaudito la nostra immagine della rivelazione e l’ha vivificata in una plastica scultura tridimensionale. Ma per vedere personalmente tale figura plastica e per poterla mostrare ad altri, lo scienziato biblico ha bisogno di un occhio che percepisca ciò che la figura ha di particolare e di inconfondibile, un occhio che lo preservi dalla maggior parte delle tentazioni della demitizzazione. Se il fondatore di questo metodo e scuola (spiccatamente protestanti) ha intrapreso tutta la sua opera per estrarre il nucleo permanente della rivelazione dal gusciq, caduco ed imbarazzante, si dovrebbe, ad un livello superiore, riconoscere la legittimità della frase di Goethe: «la natura non ha né nucleo né guscio». L ’amore di Cristo non è nucleo, e il sangue di Cristo non è guscio; sull’unità di entrambi si fonda la fede. Perciò — questo è il risultato — non è possibile alcun rinvio della decisione di fede. G e s t d t (che è una parola-chiave di tutto il volume) è tradotta con figura (con un significato leggermente diverso da Form , che si contraddistingue da materia) e significa ima certa forma o struttura concreta, dotata d’unità (N.d.E.).
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3- L'identificazione
Non so, dice il cristiano moderno, se devo impegnarmi in tutta questa costruzione con il caso serio. Anzitu tto passerà ancora un bel po’ di tempo prima che vengano i cinesi, e poi il cristianesimo è una religione di vita e non di morte. A decidere è il mio impegno reale nella vita quotidiana, e non quel lp sognato nella morte. Non è forse vero il detto antico: le grandi decisioni vengono da sole, se sono prese bene quelle piccole? Se cerco di vivere onestamente e decorosamente come posso, nella morte si troverà Patteggiamento giusto. Se la «parola d’ordine» del periodo della riforma è stata «fede» (sappiamo a che cosa essa ha portato: i cristiani per un secolo si sono martirizzati a vicenda), «l’amore del prossimo potrebbe essere oggi la parola originaria e la parola chiave che realmente muove»,6 Se ciò fosse vero, il problema del caso serio si sposterebbe completamente. La decisione per me non dovrebbe affatto essere presa di fronte alla croce di Cristo, quando si esige da me una «fede nuda», una «sola fides», ma dovrebbe essere presa quando la deve prendere K. Rahner, Sch riften zu r Theo logie (Scritti di teologia) vi, 297 (trad. it., ed. Paoline, Roma). 6
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ogni uomo: nel rapporto con il prossimo, nell’aut aut tra egoismo ed amore. Karl Rahner ci libera da un incubo con la teoria del «cristiano anonimo», il quale, in ogni caso, è dispensato dal criterio del martirio e, ciò nonostante, ha pieno diritto alla designazione di cristiano, qualora, consapevolmente o non, renda l’onore a Dio.7 Infatti, «dovunque l’uomo, nel totale impegno della sua libera autodisposizione, pone un atto morale positivo, questo, nel reale ordinamento salvifico, è un positivo atto salvifico soprannaturale, anche quando il suo oggetto a posteriori ed il motivo esistente esplicitamente a posteriori non derivano in modo percettibile dalla positiva rivelazione mediante le parole, ma sono in questo senso ‘naturali’». Perciò, dove «nell’attuale ordinamento salvifico c’è un impegno morale assoluto di natura positiva nel mondo, c’è anche evento salvifico... si attua quindi la cari tas».8Certamente ciò non dispensa il cristiano anonimo dal dovere di rintracciare, possibilmente anche nel campo storico quell’«esistenziale decisivo dell’esistenza umana, Cristo»,9 che egli ha già in se stesso in modo inconscio, trascendentale, non oggettivo, e quindi di passare ad una «fase superiore di sviluppo di questo cristianesimo».10 Allora questo non sarebbe che «l’enunciato oggettivoconcettuale di ciò che un uomo ha già attuato nel profondo della sua esistenza spirituale»,11 e sarebbe soltanto «richiesto i) dalla 7 vi, 250. 8 VI, 285286;
V,
221.
9 «D io e la grazia di Cristo sono in tutto come una essenza segreta di ogni realtà mutabile» vi, 15*.
10 v, 155. 11
92
I bid.
struttura incarnatoria e sociale della grazia e del cristianesimo e 2) perché la più chiara e pura comprensione riflessa offre a sua volta in sé anche la maggiore possibilità salvifica per l ’uomo singolo».12 Per quanto ciò sia desiderabile, tuttavia è a sua volta superfluo. Lo si può dimostrare teologicamente mettendo in luce la «radicale identità»1314 dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, intesa come il messaggio centrale di Gesù. Infatti, secondo la sua dichiarazione, i due comandamenti sono ‘uguali’ (Me. 12,31 par.), costituiscono assieme il compendio dell’Antico Testamento, nel giudizio l’amore del prossimo è l’unico criterio per l’ammissione al regno di Dio (Mt. 25,34 s·)· Paolo sottolinea più volte tali enunciati, e secondo Giovanni noi siamo amati da Dio (Gv. 14,21) e da Cristo affinché ci amiamo gli uni gli altri (Gv. 13,34), il quale amore è il nuovo co mandamento di Cristo (Gv. 13,34), che è specifico per lui (Gv. 15,12) ed è il mandato per noi (Gv. 15,17). Per Giovanni ne deriva la conseguenza che Dio, il quale è amore (1 Gv. 4,16), ci ha amati non tanto perché lo riamiamo™ quanto perché ci amiamo gli uni gli altri (1 Gv. 4,7.11). Noi infatti non vediamo Dio. Dio non può essere veramente raggiunto con una sola interiorità gnosticomistica in modo da essere così raggiunto realmente dall’amore (1 Gv. 4,12), e perciò il «Dio in noi», nel reciproco amore, è il solo Dio che noi possiamo amare
15
(1 Gv. 4,12)
12 V, 1 56.
13 VI, 282. 14 II corsivo è mio. 15 II corsivo è mio.
93
tanto che è realmente vero ed un... argomento radicalmente apodittico per Giovanni che «chi non ama il suo fratello che vede, non può amare Dio che non vede» ( i Gv. 4,2o).16 Nel presupposto della presenza dell’ordinamento soprannaturale della grazia per tutti gli uomini è quindi vero che ogni genuino amore del prossimo è, in modo formale e ‘tematico’, amore di Dio; più ancora: poiché Dio risplende solo in modo non oggettivo,17 trascendentale, come «esperienza del limite» nel decisivo rimando al tu umano, «Vamore del prossimo categorialeesplicito è Vatto primario delVamore di Dio »,18 in modo che, corrispondentemente, deve essere vero che «l’atto tematicamente religioso come tale, in confronto, è e rimane secondario», sebbene quanto all’oggetto abbia una dignità superiore.19 Una tale costruzione è fatta soltanto con l’aiuto dei due elementi: «ordinamento morale» ed «elevazione soprannaturale», senza esplicita menzione della cristologia. Alla fine «si richiama l’attenzione sul fatto che ora per principio si dovrebbe considerare esplicitamente anche il lato... cristologico della situazione», ma tuttavia questa situazione di storia sal vifica ebbe validità per il tempo precedente da comparsa di Cristo, dal quale non viene che ‘radicalizza ta’ e portata «al suo vertice».20 Con questa osservazione viene chiarita la posizione di Cristo nel disegno cosmico generale. Se c’è materia e la sua graduale e 16 VI, 280-281. 17 «Non come oggetto» ibid., 293. «Non oggettività di Dio»
iv, 59· 18 vi, 295, il corsivo è mio. 19 Ib id ., 294. 20 Ibid ., 296.
94
votazione per amore dell’uomo, in cui la creazione, acquistando coscienza di sé, si trascende in ordine a Dio, di fatto l’illimitata apertura a Dio, che è lo spirito umano, esiste per permettere a Dio la sua ultima «spoliazione e manifestazione» in ciò che è diverso da lui.21 L ’incarnazione del Logos in una persona umana è ora un «elemento intrinseco e necessario del dono che Dio fa di sé a tutto il mondo»,22 perché una simile divinizzazione del mondo «non può essere affatto pensata senza l’unione ipostatica».23 Cristo è «il primo passo e l’inizio permanente e la garanzia assoluta della riuscita dell’ultima autotrascendenza che è per principio insuperabile»;24 egli è una sola volta ciò che sempre deve divenire realtà per tutta l’umanità, lo si può dedurre (naturalmente solo nel pensiero postcristiano) come la «conditio sine qua non» necessaria della divinizzazione del mondo e della mondanizzazione di Dio.25 Egli è «l’unico caso sommo dell’attuazione essenziale della realtà umana, che consiste nel fatto che l’uomo è, in quanto si dona».26 Cristo è, per natura, realmente mediatore, più mezzo che fine, possibilità ontica, idea direttiva per tutti coloro che in futuro, nella loro autorealizzazione, realizzano anche il fine perfetto dell’essere: «Chi accetta totalmente il suo essere uomo... ha accettato il figlio dell’uomo, per21 V, 205. 22 V, 209. 23 208.
24
V,
25 v , 26 i v ,
186^187. 20 1-2 06 .21 6;
I, 206 s.
142 . N e l voi.
1, 1 8 3
s i p a r l a v a a n c o ra d e l « v e r t i c e i n
c o m m e n s u r a bi le , c h e p e r ò è i l v e r t i c e u n i c o d i u n r a p p o r t o c re a t or e -c r ea t u ra » . I n v e c e i n v i , 3 4 8 « L ’u n i c o c a so s u p r e m o d e l l a r e a lizzazione essenziale dell’uomo in genere».
95
che in lui Dio ha assunto l ’uomo», ogni uomo.27 In quanto «Cristo stava in tutta la storia come entelechia prospettica»,28 «la cristologia è fine ed inizio de ll’antropologia»,29 e «perciò tutta la teologia è in eterno antropologia».30 Questa è esattamente la cristologia evoluzionistica che Solowjew, fondandosi su Schelling, Hegel e su Darwin, ha presentato nell’ultimo secolo come il cristianesimo più moderno. Per lui «l’incarnazione personale del Logos in un uomo individuo non è che l’ultimo membro di ima lunga serie di altre incarnazioni fisiche e storiche; l’apparizione di Dio in un uomo fisico non è che una teofania più completa, più perfetta, in una serie di teofanie preparatorie incomplete».31 Cristo non è «qualcosa di estraneo nei confronti delle leggi generali», ma la legge dell’evoluzione divenuta cosciente. Scrive Rahner: «Se Dio vuole essere nondio, sorge l’uomo, proprio questo e null’altro».32 «In definitiva, la natura umana si spiega in base all’automanifestazione con cui il Logos stesso si esinanì».33 Ciò determina in anticipo la posizione della croce, di tutta la soteriologia, in questo sistema, che si pre 4
27 IV, 154. 28 I,
18 8
29 1 , 2 0 5 ; c f r . 1, 1 8 4:
«C ristolo gia come an tropo logia che tra-
s c e n d e s e s t e ss a e q u e s t a c o m e c r is t o l o g ia d e f ic i e n te » .
30 iv, 150. 31 S o ni
l o w j e w ,
s u l la u m a n i t à
Werke tipo
in ,
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Vorlesungen iiber das Gottmenschentum (Leziodivina),
207. Tr a così
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t r a t ta t o q u e s t o
Herrlkhkett
(Gloria),
v o i. 11, 1 9 6 2 . T u t t o c iò c h e T e ilh a r d h a d i e ss e n z ia le è a n tic ip a to in Solowjew. 32 iv ,
150 .
33 i v ,
12 1.
96
senta come spiccatamente scotistico: l’incarnazione di Dio come scopo del mondo, anche senza il peccato originale, e non l’incarnazione in funzione della redenzione.34 Perciò: «I misteri della soteriologia si possono ridurre senza dubbio al mistero dell’incarnazione».35 Precisamente così: «Poiché il mondo... diventa la storia di Dio stesso, il peccato, se ed in quanto è nel mondo, è abbracciato in partenza dalla volontà del perdono, l ’offerta della autocomunicazione divina diventa necessariamente... un’offerta del perdono e della vittoria sulla colpa... La possibilità di perdono non esiste in base all’uomo, ad ‘Adamo’ in quanto tale, bensì a motivo di quella forza del l’autocomunicazione di Dio che da una parte produce a priori lo sviluppo di tutta la storia del cosmo, ma dall’altra, in quanto essa stessa è storicamente percettibile e scopre la propria meta, diviene manifesta nell’esistenza e nella realizzazione dell’esistenza di Cristo. Il senso della proposizione è questo, che noi siamo liberati dai nostri peccati ad opera di Gesù Cristo. Ciò appare chiaro già per il fatto che la deci-
sione di Dio per Cristo e per la sua opera salvifica produce quest’ultima e non ne è prodotta, per il fatto che non propriamente l’atto di Cristo causa in Dio la volontà di perdonare, ma ne è causato».* È strano che Rahner, il quale altre volte contro Agostino difende con viva energia una dottrina dell’economia trinitaria, qui, nel punto decisivo, parli soltanto di ‘Dio’, quasi che in croce la volontà salvifica divina non si verificasse tra il Padre ‘che permette’ ed il Figlio abbandonato dal Padre in un solo Spirito IV, 160.170 ; V, 213 . 35 IV, 89 . 36 v, 215 , il corsivo è mio. 34
97 7 - C o r d u l a o v v e r o s i a i l c a s o s e r io
santo, che unisce i due in quanto li separa! È pertanto del tutto antiquato separare una «volontà sal vifica di Dio per Cristo» dall’«atto di Cristo che causa la volontà di Dio». Non rientra neppure nell’argomento quando Rahner, trattando della croce, polemizza continuamente contro una dottrina giuridica della soddisfazione37 (disconoscendo con ciò le intenzioni ultime di Anseimo), poiché si tratta dell’interpretazione dell’enunciato neotestamentario secondo cui Cristo in croce ha portato i nostri peccati. Che cosa significa questo? Si esige con diritto una risposta,38che tuttavia contribuirà alla soluzione poco più dell’avvenimento che non si deve badare tanto all’«amara sofferenza» quanto alla morte, che in Cristo significherebbe l’accettazione definitiva da parte di D io :39 il che è certamente vero, ma non fa vedere la ragione per cui doveva avvenire una morte nell’abbandono di Dio (che soltanto l’eterno Figlio di Dio può conoscere nella sua profondità) come somma dell’«amara sofferenza». Qui manca chiaramente una theologia crucis, che Rahner finora non ci ha dato. La valorizzazione della dottrina del cristianesimo anonimo40(con lo sfondo evolutivo, che è stato prima delineato), richiesta così insistentemente per la situazione odierna, ha come conseguenza una svalutazione proporzionale della teologia della croce e corrispondentemente della teologia della vita cristiana sulla base del caso serio. Infatti, in base a quel che abbiamo sentito, l’uomo redento non è propria37 i , 2 1 3 - 2 1 6 ; 38 1,
98
213
39 iv ,
16 3-16 6.
40 v i,
52 2.
i v , 1 6 0 . 1 6 4 s. e p a s s im .
mente debitore a Cristo, ma alla eterna volontà sal vifica di Dio, che gli diviene percettibile «nella realizzazione dell’esistenza di Cristo». Perciò il «caso serio» è superfluo, e difatti non se ne parla più. Gli accenti in verità non furono sempre posti così. Una volta Karl Rahner era un grande sostenitore della «Ecclesia ex latere Christi», e quindi del culto al cuore di Gesù; egli riteneva che qui fosse il vero centro. «La fonte originaria dell’amore è il cuore del Signore».41 Precisamente come il «cuore più angosciato, messo a nudo, morto». In questo era posto ciò che è «proprio del tempo» e «della missione».42 È stato anche detto che tale culto è una interna compensazione alla pietà ignaziana che, per il suo fondamento nella indifferenza, correva il rischio di avere una «sensibilità quasi eccessiva per la relati vità di tutto ciò che non è Dio stesso». «Ignazio è l’uomo della pietà trascendentale, non tanto di quella categoriale».43 Ora dobbiamo fermarci un momento e porre una domanda: il culto al cuore di Gesù dev’essere inteso come un completamento categoriale di una pietà trascendentale? Oppure, in questa «fonte originaria dell’amore» diviene chiara la fine di tutta la filosofia kantiana? Nel cuore trafitto del crocifisso vedo l ’amore di Dio trinitario, oppure no? Giovanni dice che lo vedo, quantunque nessuno abbia mai veduto Dio. Lo vedo, ma non allo stesso modo in cui si fa una sintesi categoriale di O ed S. Non dovrem41 Send un g und Gna de ( M i s s i o n e e g r a zi a ) 1 9 5 9 , 3 3 3 i t.
ed.
(trad.
Paa line, Rom a).
42 Ibid ., 4 5 6 . 43 Ibid ., 3 2 0 . 3 2 2 .
99
mo piuttosto riesaminare ancora una volta, assieme alla notevole prova scritturistica, tutto il discorso della «non oggettività» di Dio, che solo nel prossimo diventa oggetto di risposta umana primaria? Naturalmente Gesù compendia in uno solo i due comandamenti dell’Antico Testamento, e rende il secondo uguale al primo. Ed altrettanto natural mento lo fa in virtù della propria incarnazione, come è supposto in forma esplicita nella parabola del giudizio quando si dice: «Tutto ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me». È quindi una parola collegata definitivamente alla sintesi rappresentata da Gesù Cristo,44 e perciò non può essere costruita mediante una congiunzione a stratta di ‘natura’ e ‘soprannatura’ (moralità e carità). Inoltre, il senso veterotestamentario delle due parti viene citato molto consapevolmente e non scompare semplicemente nella sintesi, in modo che in senso neotestamentario si possa dire altrettanto bene: amerai il tuo prossimo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutto il tuo spirito. In Cristo fatto uomo si realizza il traboccare della totalità, di cui siamo debitori a Dio, sul prossimo, essenzialmente perché egli stesso è il prossimo, *o (nella parabola del samaritano) si è fatto tale con tutto il suo amore per noi, che giacevamo mezzo morti sulla strada. Certamente: il samaritano non è un ortodosso, tanto meno un sacerdote e un levita, è il tipico ‘eretico’ (tuttavia non un ‘pagano’) che, nono 44
Q u an tun qu e
l a s i n te s i a b b i a
rabbinato contemporaneo
(Le.
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d e lT a m o r
del
comandamento
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avviata
già nel
10,27), ma naturalmente con il pridi D io.
U no
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q u e s t o p r im a t o s u l l ’a m o r e d e l p r o s s im o e q u i v a r r e b b e in o g n i c a s o ad un
IOO
a b b a n d o n o d i t u t t a T e t i c a t e o l o g i c a v e t e r o t es t a m e n t a r i a .
stante abbia una fede offuscata, fa il bene. Ma è soprattutto l’invenzione di Cristo, un simbolo di lui stesso che fuori «del campo del patto» della ortodossia ( E b . 13,1113) ha attuato l’adempimento. Interpretare Giovanni escludendo Cristo dovreb be essere inammissibile già da un punto di vista esegetico. È noto che Giovanni argomenta in forma circolare, e che si devono sempre tener d’occhio contemporaneamente i due movimenti circolari. Sempre i discorsi d’addio e la prima lettera presuppongono l’amore diretto dei discepoli per Gesù, e precisa mente un amore che trascende la sua umanità, cioè la fede che egli è Figlio di Dio: «Lo stesso Padre, infatti, vi ama, perché voi mi avete amato e avete creduto che io sono uscito da Dio» (Gv. 16,27). Il «rimanete in me», ripetuto sei volte nell’allegoria della vite, esige naturalmente l’amorosa perseveranza nella fonte dell’amore cristiano, affinché il cristiano, per il reciproco amore tra il discepolo ed il Signore, osservi il nuovo comandamento. Ciò è detto nuovamente in forma circolare: «Se uno mi ama osserverà la mia parola» (14,23) e «chi ha i miei comanda menti e li osserva: ecco chi mi ama» (14,21). Prova del loro amore per il Signore è il fatto che i discepoli lo lasciano andare al Padre (14,28). Anche nella lettera non si può escludere neppure per un momento l’implicazione cristologica, perché il modello dell’amore, enunciato in forma positiva e negativa, è sempre l’amore di Cristo: «In questo sta l ’amore: non noi amammo Iddio, ma egli amò noi e inviò il Figlio suo a espiare per i nostri peccati» ( 1 Gv. 4,10). «Ecco ora da che cosa abbiamo conosciuto l’amore: dal fatto che egli offrì la sua vita per noi» (3,16).
101
C ’è quindi identità, ma soltanto in senso cristologico, e con l’assoluta priorità dell’amore di Dio (genitivo in senso tanto soggettivo quanto oggettivo), che poi da Dio ed assieme a Dio si riversa sul prossimo. Il Cristo, che vive in me, mi è così intimo (è più vicino di quanto io lo sia a me stesso) perché è morto per me, perché mi ha preso con sé sulla croce e mi prende continuamente con sé nell’eucaristia. Come potrebbe il rapporto con un mio simile essere paragonabile a quello, e perciò esigere da me come risposta lo stesso amore? Il ponte per l’amore ai fratelli nel senso di Cristo è costituito dal fatto che egli ha compiuto per ognuno ciò che ha compiuto per me.45 Cos’è un’esistenza carmelitana? Offerta di tutto il proprio essere al Dio di Gesù Cristo, affinché egli usi e consumi quest’essere secondo il suo amoroso beneplacito per l ’opera della redenzione. Si deve riconoscere in essa la vera identità dell’amore del prossimo con l’amore di Dio, ma non come la dedescrive K. Rahner: l ’«atto religioso in quanto tale» è addirittura primario. Inoltre, il sorvolare sulla croce e su tutto «il con testo di essa priva il peccato della sua gravità; una esistenza per l’espiazione della colpa del mondo appare molto poco ‘operativa’ per quel che riguarda l ’amore del prossimo. Ed infine, chi può ‘accettare pienamente l’essere uomo’ con la decantata ‘onestà’
45
N atura lm en te con
ciò non
è nega to il legittimo
p e n s i e ro d i
K a r l R a l m e r c h e u n a f i d es i m p l i c it a e d u n a c o r r i sp o n d e n t e c a r i tà s o p r a n n a t u r a l e e s i s ta n o f u o r i d e l c a m p o c r i s t ia n o (c f r . L e . 2 1 , 1 - 4 )
Mi . 1 5 , 2 1 - 2 8 (Rom. 2 , 1 4 - 1 6 ) .
e biblico (cfr. teoretici
102
e c c . ), e p o s s a n o e s i s t e r e a n c h e i n a t e i
e nel 'coraggio per il dovere quotidiano’, senza incontrarvi il suo proprio peccato? Che fa allora? Lo dimentica? Lo perdona a se stesso? O lascia che esso scompaia nella divina volontà universale di riconciliazione? In che modo però, se la sua coscienza fosse quella di un Lutero?
103
4 · Il futurismo
Con l’ultima parola d’ordine teologica, ‘fuga in avanti’, ci portiamo sul fronte più avanzato: là dove la grande apertura dinamicoevolutiva nella moderna immagine del mondo verso il futuro s’incontra con il pensiero biblico dell’Esodo, interprete della permanente estraneità del cristiano in questo mondo in senso non soltanto statico, ma anche dinamico, verso il futuro messianicoescatologico del mondo, verso l ’avvento del regno di Dio. Fuga dal mondo perché la patria è altrove — non si può negare che sia un motivo cristiano, ma dev’essere «fuga dal mondo illuminata dalla speranza», e precisamente assieme al mondo (di cui pure la Chiesa è una parte) ‘in avanti’, verso il completamento. La speranza non è una semplice attesa, appoggiata su un ieri ed un oggi, la cui incongruenza del mondo viene sentita dolorosamente dai cristiani, ma dev’essere piuttosto ‘produttiva e battagliera’, i suoi dolori devono essere dolori del mondo in doglie in attesa della nascita definitiva. Non possiamo avere due fini ultimi, uno naturale ed uno soprannaturale; il mondo, che l’uomo deve costruire con le forze naturali, è anche il regno di Dio, al cui avvento egli deve cooperare con le doglie del parto (G v. 16,2122; Rom. 8,22
104
23). La speranza quindi, in quanto è aperta, non dispone di nessuna immagine ('scientifica’) del futuro, anzi neppure del riconoscimento di un progresso, e tuttavia, nel servizio ai fratelli, collabora alla formazione del regno, sperando contro ogni speranza a dispetto della morte, è una vita tra croce e risurrezione, impegnata nello stesso tempo sul piano escatologico e mondano, nello stesso tempo spirituale e politico. Simili accenti non sono nuovi nella storia della pietà e della teologia. La radice ultima di essi è certamente il messianismo del tardo giudaismo, che sta esattamente nella problematica tra attesa ed av vento della fine (cf. ad es. Gog e Magog di Martin Buber); la tensione è ancora avvertibile all’inizio (della teologia ecclesiastica in Ireneo;46 in seguito viene nascosta da un certo platonismo. Ricompare al seguito degli idealisti, grande nella teologia politica di Solowjew, con indirizzo diverso nel socialismo religioso di Kutter e Ragaz e nel primo commento di Karl Barth alla lettera ai Romani (1919). È la teologia dello Spirito santo; infatti, il grande passo sul sospiro della creatura, soprattutto dei figli di Dio, verso la redenzione del mondo materiale si trova nel capitolo della lettera ai Romani che tratta dello Spirito. «Poiché non sappiamo né che cosa si ha da chiedere nella preghiera, né come convenga chiederlo» (non disponendo di nessuna immagine del futuro), lo Spirito viene in aiuto alla nostra de bolezza «con gemiti inesprimibili, e colui che scruta i cuori sa qual è il desiderio dello Spirito: sa che 46 C fr .
Herrlkhkeit,
li, 92-93.
105
egli intercede a favore dei santi secondo gli intendimenti di Dio» ( Rom . 8,2627). Ma in questo passo è legittimo anche il discernimento degli spiriti. Non v’è dubbio che il posto che il pensiero cristiano deve concedere allo Spirito santo non è mai abbastanza ampio. Gesù Cristo, Dio in terra nella forma di servo, fu un momento breve, appena percettibile, nella storia del mondo. Un paio di parole, un paio di atti, e tutto è già passato. «Vi conviene che io vada... Quando però verrà lui, lo Spirito di verità, vi introdurrà a tutta intera la verità» ( G v . 16,7.13). La limitata rivelazione a parole ed in opere si apre in dimensioni che sono familiari soltanto allo Spirito di Dio. Egli è spirito, non più parola; è libertà, non legata a nessuna filologia ed esegesi umane; le sue interpretazioni non sono per principio passibili di conclusione, sono sempre nuo ve, sempre sorprendenti, sempre più grandi di quanto hanno pensato i teologi; sempre più scomode di quanto ha sperato una cristianità imborghesita. Chi è ‘nello Spirito’ viene ‘rapito’, perde il terreno sotto i piedi; non potrebbe essere ‘nello Spirito’, se si tenesse fermo a qualche cosa. Lo Spirito è anche quello che rende testimonianza (Rom. 8,16; 1 Gv. 5, 910), ed assieme a lui testimoniano i discepoli (Gv. 15,2627). Se con la loro vita danno una testimonianza di sangue, sembra che la diano nel campo dello Spirito che, pieno di conoscenza, con la testimonianza e col proprio gemito sostiene la loro preghiera gemebonda che anela, senza conoscerlo, al venturo regno di Dio e del mondo. È testimonianza profetica e martirio, non più obbligati a quel lontano passato storico della croce e morte di Gesù,
106
non attaccati con un piede al piuolo d’una effettività storica, ma nella libera accettazione autoresponsabile delle doglie del mondo «verso la futura gloria che dovrà manifestarsi in noi» ( Rom . 8,18). Se un simile uomo dello Spirito diventa martire, diventa martire del regno venturo di cui custodisce in se stesso una attesa più grande, più aperta che non coloro che l’uccidono. Ma non è un martire di Cristo. Il suo martirio non è una risposta al martirio di Cristo che è morto per lui. Tuttavia, dello Spirito, che introdurrà alla verità totale, è detto: «Egli non parlerà per conto suo, ma dirà quanto ascolta, e vi annunzierà le cose da venire. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio per comunicarvelo» (Gv. 16,1314). La concatenazione di tali parole è paradossale, perché se lo Spirito non parla per conto suo, ma deve ascoltare per annunziare, sembra che, se ascolta le cose di Cristo, le ascolti come passate, ed allora non possa annunziare ciò che è futuro. Eppure, proprio questo viene detto. La glorificazione, che lo Spirito intraprende con le sue interpretazioni, è quella di Cristo. Non si tratta di glorificazioni indipendenti, in cui lo Spirito renda pubbliche le proprie esplorazioni delle profondità della divinità (1 Cor. 2,10); se porta il mondo alla «gloria futura» (Rom. 8,18) ed alla «libertà magnifica dei figli di Dio» (8,21), anche questo sarà ancora una volta la glorificazione di Cristo. Cristo è dunque il futuro, in quanto è il passato interpretato. xerunt».” 47 N o n
per
nu lla
«Videbunt in quem transfi-
que ste
parole
sono
citate
nelPApo calisse.
Il libro del futuro della Bibbia e della cristianità mette in strettis-
107
Qui si decide se la ‘fuga in avanti’ è alla fine una fuga dalla croce o verso la croce. Se i dolori della formazione del mondo nello Spirito santo sono rinterpretazione della croce ad opera dello Spirito nel senso di sopportare le sofferenze di Cristo {Col. 1,24) e le doglie del parto finché Cristo abbia assunto forma nel mondo {Gal. 4,19 ) , oppure se si tratta di un processo cosmologico o pneumatologico, in cui lo spirito dell’umanità lotta per giungere dalla estraniazione al proprio essere. Anche se si pensasse il secondo aspetto integrato nel primo, il criterio della cristianità nel complesso sarebbe, sia prima che dopo, il caso serio. Ogni abbozzo cristiano del futuro cadrà, e dovrà cadere, nel vuoto, se non rimarrà orientato cristianamente, cioè verso Cristo. Cristo non è tuttavia un programma che si possa abbracciare con lo sguardo, travasare in bottiglie e quindi assumere semplice mente nella ‘operazione futuro’. Soltanto nell’apertura della contemplazione e della preghiera che sta in ascolto, si disvela, in modo sempre nuovo, che cosa Cristo, nostra fonte, dice e vuole. Ogni azione che non ha radici nella contemplazione, è condannata in partenza alla sterilità.
s i m o r a p p o r t o l a p r o f e z i a d e l l o s p i r it o e d i l m a r t ir io ( a d e s . 1 8 , 2 4 ) . Ma
m a r tir io è
(6,9; 7,1 4 ;
108
dovun que
12 ,17 ;
18,24;
t es tim o n i a n za p e r C r i s to c o n k 19 ,10;
20 ,4 ).
m o r te
5-
Noi, atei anonimi, ed il nostro dialogo
Abbiamo ripreso il corso delle idee a tutti i livelli che abbiamo descritto e lo abbiamo posto di fronte alla decisione sul caso serio. Ma non sempre ciò è possibile. Nei princìpi (soprattutto quando vengono enunciati in forma di_ slogan) è implicito che, una volta enunciati, se ne possono trarre automatica mente le conclusioni. Chi enuncia in tal modo parole d’ordine, si assume la responsabilità del fatto che esse si impongono nella nuda forma di manifesto, senza i dotti commenti che egli aggiunge per chiarirle e limitarle. Alla gente basta il titolo, che ha un significato a sé e non ha affatto bisogno di una successiva trattazione per produrre il proprio effetto. Non si può dire che non sia stato inteso in quel modo. Chi dice ‘demitizzazione della Bibbia’ viene inteso in ogni caso come se ‘la Bibbia’ fosse mitica. In quale misura, per il pubblico è un’altra questione, molto meno rilevante. Chi afferma di fare ‘teologia in quanto antropologia’, dice per lo meno che ogni proposizione, che in questa scienza viene detta su Dio, è detta anche in qualche modo sull’uomo; ma lascia però tacitamente in ombra il presupposto di una teologia, e cioè che essa è logos del Dio che parla e che riguarda anzitutto l’uomo che ascolta e
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non anche l ’uomo che parla; la ‘ ...logia’ nell’apparente univocità è una confusione. Chi parla di ‘cristiani anonimi’ non può (e nemmeno vuole) respingere una fondamentale univocità tra cristiani col nome e cristiani senza il nome, e per conseguenza può essere irrilevante, nonostante tutte le proteste successive, che si confessi il nome oppure no. Chi proclama l’identità dell’amore di Dio e del prossimo e pone l’amore del prossimo come l’atto primario dell’amore di Dio, non deve stupirsi (e neppure si stupisce) se diviene indifferente che l’uomo confessi un Dio oppure no. La cosa principale è che uno ab bia l ’amore. Ammesso che sappia che cos’è l ’amore. Ma con quale metro l’uomo, che è essenzialmente peccatore, misura l’amore? Certamente in base a ciò che forse, con un certo sforzo, è ancora in grado di fare. Ma un tale metro è sufficiente e può essere interpretato (con la grazia di Dio) come caritas? «In questo sta l ’amore: non noi amammo Dio...» ( i Gv. 4,10) «...ma Dio dimostra il suo amore verso di noi per il fatto che Cristo è morto per noi quando si era ancora peccatori» ( Rom . 5,8). Viene così meno la misura dell’amore con cui rendiamo a Dio l’onore, e veniamo posti sotto la sua misura, la quafe esige che anche noi dovremmo dare la vita per i fratelli. Solo Dio sa con certezza chi lo fa. La teologia che si sviluppa da princìpi enunciati in forma di slogan, è sempre una teologia che livella, impoverisce e riduce, in definitiva è una teologia di liquidazione e di svendita; lo voglia o no, si avvicina in modo asimptotico all’ateismo. Un avvicinamento del genere, infatti, era la prima decisione possibile nell’alternativa posta all’inizio. Questo movi
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mento ha due cause: una è il tedio per la forma tradizionale della fede ed il bisogno di trovare finalmente qualcosa di più semplice, di più comprensibile, di più adeguato all’uomo moderno. Lasciamo stare per il momento questo primo motivo, che del resto è dovunque avvertibile. La seconda causa è il bisogno umano e cristiano del dialogo, che al livello più alto è appunto un dialogo con l’ateismo. Se si riuscisse
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a ridurre tutto il cristianesimo ad umanesimo e, ciò nonostante, a conservare ancora la convinzione di aver raccolto il massimo quasi per compressione nel punto minimo (cioè l’amore di Dio nell’amore del prossimo), in modo che il dialogo con l’ateismo potesse svolgersi partendo dal centro della verità cristiana, l’offerta dialogica da parte nostra sarebbe perfetta. Ma mentre noi possiamo considerare con molta onestà i nostri interlocutori come cristiani anonimi, nel caso che pratichino sempre la fedeltà e l’onestà, ed il buon Dio valuti ed interpreti sempre le loro virtù in modo soprannaturale come fede, speranza e carità, essi ci opporranno certamente il loro diritto di considerare noi come atei anonimi, perché tutta la nostra cosiddetta dogmatica altro non sarebbe che la sovrastruttura ideologica di un umanesimo idilliaco e della sua antropologia. Hanno torto? Questo è l’importante. Che cosa in pratica? Il caso serio. Ma il semplice morire per quanto talora possa fare impressione interrompe umanamente il dialogo? Ed un simile dialogo è richiesto! Dobbiamo quindi porci la domanda: quale forma il dialogo dovrebbe assumere da parte cristiana? Nell’umanesimo, che il cristianesimo deve presentare, dovrebbero divenire visibili tutte le pre
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messe che sono state poste da Dio nella rivelazione al mondo.48 Se riuscissimo a fare dell’esistenza cristiana una funzione della rivelazione al mondo, per mezzo nostro sarebbe possibile far sentire qualcosa della parola di Dio al mondo. Si dovrebbe partire non dalla intersoggettività umana, ma da quella di vina, nella quale l’uomo viene introdotto per mezzo dell’apertura della Trinità nell’incarnazione. Ciò av viene nelle parole di Gesù Cristo che ci invita a chiamare assieme a lui ‘abba’ il Padre trinitario, in quanto è lui che porta i nostri peccati (che ci impediscono di dire ‘padre’) e che ci attrae nella sua forma di vita di perfetta povertà ed obbedienza in un sentimento di verginità (nel caso sommo, addirittura corporale). Egli infatti rende al Padre l’onore, lasciandogli libero in se stesso ogni spazio per il suo regno e per la sua volontà. E questo, sia che svolga l’attività di falegname per trent’anni, sia che predichi in pubblico per un paio di mesi. La disponibilità illimitata verso il Padre, che può essere chiamato 1’ ‘atteggiamento confitente’ di Gesù, gli 'permette di portare in sé il prossimo al Padre, e cammin facendo di condurlo mediante la sofferenza in un solitario posto nascosto, del quale il peccatóre non sa nulla e che non è ‘dialogico’. Del rapporto del cristiano col prossimo sarà quindi dedicato al dialogo solo un certo livello, e neppure il più importante; la cosa più essenziale si attua nella preghiera, le cui dimensioni si estendono fino all’abbandono sulla croce. Dalla Trinità, che diviene accessibile nel cuore aper Glaubhaft ist nur Liebe, 1 9 6 3 , 73 s. (trad . it. Solo l'amore è credibile, B o r i a , T o r i n o 1 9 6 5 ) ; Dos Ganze im Frangment ( I l t u t t o n e l f r am m e n t o ) 1 9 6 3 . 48 P er ciò ch e segue cfr. an che
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to perché trafitto in croce, sgorga il mistero originario dell’inimmaginabile amore eterno, e di là, da esso avvinto, il cristiano apre il proprio cuore (senza limiti fino alla morte) al fratello. Ad un livello superficiale dialoga con esso, alternativamente lo interpella e ne è interpellato, seriamente e con l’impegno del suo cuore aperto; ma nel profondo, nei confronti del fratello egli è già a quel punto dove in croce ogni dialogo tra Cristo e l’uomo è interrotto, perché ora Cristo ha gli uomini in se stesso, ed essi lo mettono a morte. Morire è ora l’azione, nel silenzio. In superficie il cristiano può scuotere la polvere dai piedi e passare oltre (Mi. 10,14), ma nel profondo egli porta in se stesso l’amico o l’avversario in modo che «mi augurerei d’essere io stesso maledetto, separato da Cristo per i miei fratelli e parenti» (Rom. 9,3). Questo elemento portante di ogni dialogo non è colloquiale, non è neppur necessario che sia reso noto all’interlocutore. L ’elemento teoretico, che differenzia l’umanesimo del cristiano da ogni altro umanesimo, in pratica comparirà nella sfera del dialogo solo come fenomeno terminale: come disposizione al caso serio. Avvie ne ora una cosa strana: proprio la disposizione transdialogica di andare col prossimo molto più in là di quanto si possa andare nel dialogo in genere, apre il cuore cristiano al miglior dialogo possibile e al più lungo. Il cristiano si lascia toccare più a fondo di chiunque altro, perché il suo interlocutore, forse avversario, è portato nel cuore crocifisso esattamente come lui. Per motivi di prudenza ecc., egli può aggiornare un dialogo; non lo può interrompere definitivamente. Infatti, sulla croce il muro divisorio, che provvisoriamente separa gli
11 3 8 - C o r d u l a o v v e r o s i a i l c a s o s e r io
interlocutori, è per sempre abbattuto ( E f. 2,14). Non però mediante discorsi, ma mediante la sofferenza più solitaria. Tutto il mondo della Chiesa dovrebbe forse lasciarsi integrare anche in questo presupposto? Certamente, e qui acquistiamo criteri preziosi per il vero significato e la vera portata dell’ultimo concilio. Ma proprio tali criteri sottostanno ancora una volta al nostro criterio:
è questo in definitiva che può
distinguere in quale misura quelli indicano vie di rinnovamento oppure vie di livellamento. La Chiesa de ve in ogni circostanza «essere splendore della gloria di Cristo per tutti gli uomini» ( Const . De Eccl. 1 , 1 ) , e gloria in senso biblico significa l’amore eterno che risplende nell’unità di croce e di risurrezione. Nel campo sacramentale come in quello istituzionale ed esistenzialecomunitario la Chiesa dev’essere una vera, credibile trasmissione del mistero trinitariocristo logico in tutto il mondo, ogni suo ‘per sé’ dev’essere evidentemente un ‘per tutti’, tutte le sue strade dovrebbero essere, come quelle della Gerusalemme celeste, ‘vetro trasparente,’ sulle quali scorre «un fiume d’acqua di vita splendente come cristallo» {Ap. 2 1,2 1; 22,12). C iò è molto più difficile della erezione di un edificio egoisticamente chiuso; il concilio ha chiaramente reso più difficile la vita della Chiesa; coloro che in tutto ricercano alleggerimenti e ad ogni barriera che cade lanciano grida di giubilo per il ‘progresso’ e per la crescente ‘maturità’, non comprendono ciò che stava a cuore ai Padri. Cioè di far giungere, completo ed intatto per opera della Chiesa, che è un mistero divino, il raggio misterioso dell’amore trinitario e crocifisso al mondo mondano.
Aggiungiamo che soltanto una tale immagine della Chiesa comunicazione di tutto l’amore di Dio a tutto il mondo — rende possibile il vero amore del prossimo; devono cadere le barriere che Agostino, ostacolato dalla sua idea di una duplice predestinazione al cielo ed all’inferno, ha posto, e cioè che ognuno in fondo può sperare soltanto per se stesso. No: al contrario io devo poter sperare per ogni fratello a tal punto che, in un eventuale caso serio, quando si trattasse di entrare o lui od io nel regno di Dio, io con Paolo (Rom. 9,3) sia disposto a lasciare a lui la precedenza. Per sapere quello che ciò significa, si dovrebbe avere al centro del proprio spirito una teologia del venerdì santo della discesa di Cristo agli inferi od almeno una teologia della notte oscura, di cui Giovanni della Croce ci ha dato una descrizione sperimentale. Ma oggi, chi ha tempo per simili preoccupazioni? Questo dovrebbe essere il modo per un cristiano di presentarsi al dialogo con il non cristiano, se non vuole dimostrarsi del tutto indegno del nome di cristiano. Il cristiano non sorvola sul contenuto della fede, non lo riduce ad un superficiale mormorio umanistico, ma ne risponde pienamente e, con la grazia di Dio, lo presenta nella situazione della sua missione. È del tutto sicuro che ciò è possibile, poiché: «non vi preoccupate del come e di ciò che dovrete dire... è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» ( M t . 10,1920). Ciò significa con ogni possibile esattezza: smettetela con le vostre squallide trasposizioni dei misteri di Dio in moderne Nursery Rhymes (poesie per bambini); la parola del Padre mio non è adatta per Play Bach (sonate di Bach), non fatemi
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una Basic Theology (teologia di base), secondo la quale non più Dio ma il presunto interlocutore del dialogo dà la misura, e che nasce unicamente dalla vostra ansietà (e che rivela benissimo l ’ambizione cosciente del vostro ruolo) di essere all’altezza dei tempi, ma credete piuttosto a ciò che io vi ho promesso: che lo Spirito del Padre vostro sarà abbastanza spirito ed avrà abbastanza spirito per dominare le vostre ‘situazioni’.
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6 . Se il sale diventa scipito
Casa in distruzione è la sapienza per il fatuo, e parole disordinate la scienza per Vinsensato. Eccl. 21,18.
Il commissario (ben intenzionato): Compagno cristiano, mi puoi dire una buona volta chiaramente che cosa siete voi cristiani? Che cosa propriamente volete ancora nel nostro mondo? In che cosa vedete il vostro diritto airesistenza? Qual è il vostro mandato? I l cristiano·. An zitutto noi siamo uomini come tutti gli altri, che collaborano adopera di edificazione del futuro. I l commissario: La prima cosa la credo, la seconda la voglio sperare. Il cristiano·. Da qualche tempo noi siamo infatti /aperti al mondo’, ed alcuni di noi sono persino seriamente ‘convertiti al mondo’. Il commissario: Questo mi pare un sospetto linguaggio da prete. Sarebbe, infatti, ancor più bello se voi, ‘uomini come gli altri’, vi foste convertiti già prima ad un’esistenza degna di uomini. Ma veniamo al fatto. Perché siete ancora cristiani? I l cristiano: O gg i noi siamo cristiani maturi, pensiamo ed agiamo con responsabilità morale. Il commissario: Lo voglio sperare, dal momento che vi presentate come uomini. Ma credete qualcosa di particolare?
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Questo non è tanto importante; ciò che importa è la parola epocale; l’accento oggi cade sull’amore del prossimo. Chi ama il prossimo, ama Dio.
I l cristiano·.
N ell’ipotesi che esista. Ma poiché non esiste, non l’amate.
I l commissario·.
Lo amiamo implicitamente, in modo non oggettivo.
I l cristiano:
A h, la vostra fede quindi non ha un oggetto. Andiamo avanti. La cosa diventa chiara.
I l commissario:
I l cristiano :
N on è del tutto così semplice. Noi crediamo in Cristo.
I l commissario:
Ne ho già sentito parlare. Ma sem-
bra che storicamente se ne sappia maledettamente poco. Concesso. Praticamente nulla. Perciò noi non crediamo tanto al Gesù storico quanto
I l cristiano:
al Cristo del kerygma. I l commissario:
Che razza di parola è questa? Ci-
nese? I l
cristiano :
Greco. Significa la predicazione del messaggio. Noi ci sentiamo toccati dall’evento linguistico del messaggio della fede.
I l commissario:
E che mai c’è in questo messaggio?
L ’importante è il modo in cui se n’è toccati. Ad uno può promettere il perdono dei peccati. Questa, in ogni caso, era l’esperienza della comunità primitiva. A ciò dev’essere stata indotta dagli eventi relativi al Gesù storico, del quale ve-
I l cristiano:
ramente non sappiamo abbastanza per essere certi che lui...
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Il commissario·. E questo chiamate la vostra conver-
sione al mondo? Siete gli oscurantisti di sempre. È con simili chiacchiere prolisse che volete colla borare all’edificazione del mondo! Il cristiano {gioca la sua ultima carta): Abbiamo Teilhard de Chardin, che in Polonia fa una grande impressione! I l commissario: La facciamo già noi. Non abbiamo
bisogno, per questo, di dipendere da voi. Ma è bello che anche voi siate giunti infine a tal punto; soltanto, liquidate definitivamente le carabattole mistiche, che non hanno nulla a che vedere con la scienza, e allora potremo discorrere tra noi dell’evoluzione. Nelle altre storie non entro. Se voi stessi ne sapete così poco, non siete più pericolosi. Con ciò ci risparmiate una pallottola. Abbiamo in Siberia dei campi molto utili, dove potrete dimostrare il vostro amore per gli uomini e collaborare validamente all’evoluzione. Là si ricaverà di più che sulle vostre cattedre tedesche. Il cristiano {un po’ deluso): Voi sottovalutate la di-
namica escatologica del cristianesimo. Noi prepariamo il futuro regno di Dio. Noi siamo la vera rivoluzione mondiale. Egalité, liberté, fraternité: questo è il nostro compito originario. I l commissario: Peccato che altri abbiano dovuto
lottare per voi. Dopo, non è difficile essere presenti. Il vostro cristianesimo non vale un fico secco. I l cristiano: Voi siete con noil Io so chi voi siete.
Tu pensi onestamente, sei un cristiano anonimo.
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commissario:
Non diventare insolente, giovanotto. Anch ’io ora ne so abbastanza. V i siete liquidati da soli, e con ciò ci risparmiate la persecuzione. Via.
IV. Cordula
Quando gli Unni videro le ragazze, si lanciarono su di esse con grandi grida e infierirono come lupi tra le pecore e le uccisero tutte quante. Ci fu una vergine, di nome Cordula, che per la gran paura si nascose durante la notte nella neve; ma il mattino dopo si offrì volontariamente alla morte e rice vette così la corona del martirio. Ma poiché la sua festa non veniva celebrata, perché non aveva sofferto assieme alle altre, molto tempo dopo apparve ad una eremita e le manifestò che la sua festa doveva essere celebrata il giorno dopo la festa delle unidicimila ragazze. Leggenda delle undicimila vergini.
Chi è il cristiano? Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili; il suo dono ciò che è stato dato a lui stesso affonda nelle cose invisibili di Dio. «Voi siete morti infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» {Col. 3,3). Se pensasse di poter rendere visibile e dare tutto ciò che egli è, il cristiano sarebbe un superficiale e non avrebbe più nulla di profondo da donare. Ci sono cose che egli può dare e mostrare; ma esse non si trovano nel campo in cui si è soliti delineare la Chiesa visibile: culto, feste, sacramenti, uffici sacri. Sono piuttosto semi di vita divina che, convogliati da questi canali, dovrebbero fiorire nei cristiani. È difficile esprimerli in concetti, perché più che una realtà esprimibile sono un profumo che spira da Dio. «Siamo il buon odore di Cristo...» (2 Cor. 2,13). Paolo descrive il giardino dell’amore, che sulla terra incomincia a fiorire, con molti nomi: «Tenera compassione, bontà, umiltà, mitezza, pazienza, reciproca sopportazione... pace di Cristo... soprattutto la carità» {Col. 3,1215). Ed ancora: «Carità, gioia, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, mitezza, temperanza...» {Gal.
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5,22), dov’è importante notare che, subito dopo la carità, viene la gioia, e che da essa devono derivare tutti i modi della carità, del perdono, come riflesso di ciò che è stato dato ai cristiani da Gesù {Col. 3,13) e quindi da Dio ( E f. 4,325,2), «quale offerta e sacrificio di buon odore a Dio» {ibid. 5,2). «Gioite! La vostra clemenza divenga manifesta a tutti gli uomini... Non vi date pena per cosa alcuna» ( Fil. 4, 46). Gioia nella inermità, un’inermità senza preoccupazione, nella quale diviene visibile una misteriosa superiorità. Dietro le beatitudini del discorso della montagna per i miti, i misericordiosi, i pacifici, i po veri, dietro le istruzioni di non contraccambiare le offese e di non resistere, dopo la risurrezione del Signore quale fonte che tutto alimenta, fluisce la gioia. Stefano muore nella gioia, vede i cieli aperti. Paolo vuole morire nella gioia ed invita tutti a gioire con lui {Fil. 2,1718). Consapevole del cielo aperto, del centro manifesto di tutte le cose, il cristiano, anche nella vita ordinaria, vive di una fonte che non si esaurisce mai, che sgorga dal profondo stesso di Dio e in lui zampilla nella vita eterna {Gv. 4,14). Nell’amore che fluisce, Dio ha detto un sì definitivo a tutto, e noi dobbiamo e possiamo rispondergli con il nostro amen definitivo (2 Cor. 1,1820), in una affermazione serena, assoluta dell’esistenza, che non ha bisogno di giocare con Nietzsche la carta decisiva, e neanche, essendo il presente il nonancora, deve con Bloch precipitarsi in modo utopistico nel futuro. Non c’è nulla di negativo all’infuori del peccato, che però è portato nel cuore del Signore. Ogni sofferenza, anche la più oscura notte di croce, è sempre avvolta da una gioia, forse non sentita, ma affermata,
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conosciuta nella fede. È questa in definitiva la gioia che costringe Cordula ad uscire dal ventre della nave. Essa deve affrettarsi per raggiungere le altre. Nella notte, laggiù nella nave, ha compreso qualcosa, la stessa che Giona comprese nel ventre della balena: che la morte dà forma alla vita. Prima non lo si sapeva; ma dopo il buon ladrone lo si saprà fino alla fine del mondo. Il cristiano ha dunque l’inaudita possibilità di dare forma alla vita in base alla forma finale di essa? In modo che si possa già sapere chi egli è? Cordula deve affrettarsi per non perdere tale possibilità. Non è importante essere celebrati un giorno; bisogna però essere presenti. Infatti è una festa, e le feste sono giorni di gioia. Né chi celebra, né chi muore portano armi, sono inermi. Ciò che importa è rinermità. Se si domanda qual è il risultato ultimo dell’ultimo concilio (ed il risultato dipende anche da noi), esso dovrebbe essere il seguente. Lo abbiamo già detto: esposizione inerme della Chiesa al mondo. Demolizione dei bastioni; i baluardi spianati in viali. E ciò senza alcun nascosto pensiero di un nuovo trionfalismo, dopo che l’antico è divenuto impraticabile. Non pensare che, quando i cavalli di battaglia della Santa Inquisizione, del Santo Ufficio, sono stati eliminati, si possa entrare nella celeste Gerusalemme cavalcando il mite asino dell’evoluzione tra lo sventolare delle palme. Inermità nei confronti del mondo è soprattutto rinuncia ad un sistema assicurativo, che tra natura e soprannatura domini con uno sguardo metafisico generale dall’atomo fino al giorno omega, poiché è assolutamente certo che in un simile sistema la soprannatura diventerà una funzione della
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natura. La natura, infatti, è sempre nel progetto per prima, con le sue leggi, strutture, postulati. Per tutto ciò si ha una comprensione, e di qui una ‘prenozione’ per le cose della grazia. Esse sono necessarie per portare a termine od almeno per rettificare la corsa iniziata, e si inseriscono più o meno come mezzi al fine (senza l’incarnazione, l’evoluzione non giunge al giorno omega, oppure l’uomo non giunge alla visione divinizzante di Dio). L ’uomo dosa ciò che la parola di Dio può e deve dire. Ma questi non sono altro che bastioni nuovi, più pericolosi, perché più sottili. Il cristiano deve continuamente cercare di determinare il proprio posto, per poter rettamente pregare ed agire. Egli viene ai fratelli partendo da Dio, e con i fratelli guarda a Dio. Quindi sulla via di Cristo. Non soltanto sulla via del mondo verso Dio. Ma la curva che Gesù percorre non è calcolabile, per il fatto che nel mezzo vi è piantato l’abisso di croce, inferno, risurrezione. Anche la curva del cristiano non è calcolabile. Perciò, può abbandonare ogni preoccupazione e lasciarsi mettere da Dio nell’iner mità. Che egli, in quanto uomo tra gli uomini, collabori in modo solidale e per dovere con tutti nella comune opera presente e futura, è naturale e non ha bisogno di essere ricordato o addirittura elogiato. «Se qualcuno non vuole lavorare, non mangi neppure» (2 T e ss. 3,10). Esaltare espressamente 1’ ‘apertura al mondo’ dei cristiani è superfluo, perché essi stessi sono una parte del mondo e devono tarsi semplicemente come chiunque altro. che i cristiani sono anche qualcos’altro che essere inserito nel ‘mondo’. Portano infatti
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comporSoltanto non può la testi
monianza dell·amore sempre più grande di Dio e, se vogliono, irradiano tale amore nel mondo. Il loro mandato è di testimoniare, se necessario con la morte, che ramore è superiore alla morte, è vita eterna. Essi non ricercano la morte, pur conoscendo il martirio. Vivono in un posto qualsiasi tra il primo (martire) ed il secondo (di Loyola) Ignazio (ed il secondo assunse questo nome per venerazione del primo). Il primo va con gioia verso la morte, e tutto ciò che conosciamo di lui parla di una involontaria e tuttavia amatissima corsa alla morte. Quale monumento sepolcrale: aere perennius! «Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo delle quali mi è dato di raggiungere Dio... Carezzate piuttosto le fiere, perché diventino mio sepolcro e nulla lascino delle mie membra, affinché, anche morto, non sia di peso a nessuno. Quando il mondo non vedrà più il mio corpo, allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo... Ora, in catene, imparo a spogliarmi di ogni desiderio... Quanto è per me più glorioso morire per Cristo Gesù, che regnare su tutta la terra, fino agli estremi confini. Io cerco colui che è morto per noi; io voglio colui che per noi è risorto. Ecco è vicino il momento in cui io sarò partorito... Lasciate che io raggiunga la pura luce! Giunto là, io sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio. Chi ha Dio nel cuore, comprende quello che io bramo... Tenete invece le parti mie, cioè quelle di Dio. Non abbiate Gesù Cristo sulla bocca e il mondo nel cuore!... Ora, nel pieno possesso della mia vita, vi scrivo che bramo morire. Le mie brame terrene sono crocifisse... Pregate per me,
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affinché possa raggiungere il mio intento!» (Lettera ai Romani 48 passim).
Il secondo Ignazio ascolta tutto ciò e si pone sotto questo nome. «Gesù, il mio amore, è crocifisso», scrive nelle massime. Ma egli non è prigioniero, e non è in suo potere cercare la morte là dove Dio ha bisogno di lui vivo ed attivo. Il senso letterale, con cui il primo ha inteso la chiamata alla morte, è di venuto per il secondo l ’esigenza di riempire ogni momento dell’esistenza con il pieno impegno della vita. Ciò che soprattutto importa non è la morte fisica, ma il dono quotidiano della propria vita per il Signore ed i fratelli. E nel farlo accettare di scomparire nella vita ordinaria, in modo così totale che le parole abbiano già un suono troppo forte. Possono essere trascurate. Dimenticate. La cosa è irrilevante. Nel «sume et suscipe», il secondo verbo implora il fuoco divino di aggredirlo, di rapinarlo, di disperderlo continuamente. Tutto ciò che io sono ed ho: libertà, memoria, intelletto, volontà, corpo e beni, appartiene a te; da te viene, a te lo restituisco, amministralo al di là di me stesso in te, e in compenso fa vivere in me soltanto il tuo amore e la tua grazia, questo basta. Martirio significa testimonianza. Sia che av venga una sola volta ed in modo definitivo con la perdita della vita corporale, sia che avvenga una sola volta ed in modo definitivo con l’offerta di tutta l’esistenza nel voto di vivere secondo i consigli di Gesù, sia infine che avvenga una sola volta ed in modo definitivo nella morte assieme a Gesù nel battesimo, ma in modo che questa morte e questa risurrezione per un’altra vita indefettibile siano veramente vissute {Rom. 6,12 s.): tutto ciò non ha molta im-
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portanza. La divisione dei doni di vita, quando l’uo mo è docile, è fatta da Dio. Ma in qualsiasi condizione cristiana viva, il fedele vive sempre in base alla morte ed alla risurrezione, perché tutta resistenza del cristiano è il tentativo di una risposta di ringraziamento «nella fede al Figlio di Dio, che mi amò e diede se stesso per me» {Gal. 2,20).
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Postilla alla terza edizione tedesca
9 - Corchila ovverosia il caso serio
La nuova edizione ci offre l’opportunità di prendere posizione nei confronti di alcune riserve e di certi malintesi. i. Si può addurre il martirio come prova della verità della fede cristiana? Eppure quanti hanno immolato, volontariamente o per forza, la propria vita per ideali totalmente diversi! Certo, e tributiamo la nostra ammirazione a tutti coloro che spontaneamente e senza fanatismi hanno osato rendere la propria esistenza fiaccola ardente per un imperativo urgente dell’umanità. Le motivazioni per le quali gli uomini vivono e muoiono possono essere anche di verse e contrarie tra loro. Ma per noi era in questione non la serietà morale di una testimonianza e di una dedizione, ma (vedi l’introduzione) un criterio intimo per il quale il singolo individuo, interrompendo per un momento i suoi studi esegetici o i suoi piani di miglioramento del mondo, avrebbe potuto giudicare se si trovava al di qua o al di là del fosso. Si può morire per diversi motivi. Morire però per amore di colui che per me è morto nella tenebra di Dio è una decisione di tipo unico, che caratterizza (e questa è la tesi del volumetto) l’unicità della ve-
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rità e dell’esistenza cristiana. Tommaso d’Aquino lo afferma al suo modo nella risposta che dà alla questione se il martirio sia l’«actus maximae perfectionis»: non lo è certo in quanto atto di morire come tale; se però se ne considera il movente che lo anima, vale a dire l ’amor caritatis, allora «la testimonianza del sangue dimostra la perfezione dell’amore meglio di tutti i comportamenti retti» ( S. Th. i m i , 124,30). Ed ancor meglio ciò è stato espresso da Kierkegaard che, nei diari dei suoi ultimi anni di vita, ha formulato in modo molto stimolante tutto quello ch’io ho tentato di dire. 2. Ho quasi motivo di temere che il problema di Cordula arrivi troppo tardi. Giovani cristiani e teologi seri, per i quali il problema voleva essere occasione di riflessione, sembrano in gran parte essere già al di là di esso. «Io personalmente mi scrive un giovane teologo assai dotato non ho alcuna opinione sicura su questo problema. Semplicemente non so come debba essere ‘storicamente’ il Gesù storico perché io sia o possa essere ancora un cristiano. Mi mantengo molto aperto...». Atteggiamento nobile, ma che sarà di quest’apertura se uno hic et nunc dovrà professare la sua fede? Certo, l’imposizione esterna non risolverà in profondità i pro blemi esegetici. Però forse porrà in una straordinaria consonanza esistenziale con Paolo e gli altri che, nel momento in cui tutto era in discussione, avevano la coscienza di pagare infinitamente meno di quanto Dio ha pagato per essi nel Figlio suo. Se Cristo non avesse sofferto per gli uomini così argomenta Ireneo contro i gnostici (e che cos’è se non una forma di
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gnosi il dissolvere la croce insanguinata in un «avvenimento della Parola») — «come avrebbe potuto esortare i suoi discepoli a prendere su di sé la croce e seguirlo? Che egli non dicesse ciò della ‘sublime scienza della croce’, come alcuni non si vergognano di spiegare, ma proprio di questa passione ch’egli doveva sopportare e che incombeva anche sui suoi discepoli, lo dimostra con le parole: chi mette al sicuro la sua anima la perderà...» (C. Haer. in 18,5). Abbiam o il diritto e il dovere di ricercare continua mente e con metodi sempre più raffinati la relazione che esiste tra il kerygma apostolico e il suo substrato storico. Non si devono però trascurare due cose: 1. che i metodi de;lla critica storica di fronte a Gesù sono una spada a doppio taglio, che si può usare sempre nei due versi, a seconda che uno si decide per o contro la fede in Cristo; 2. che ci sono incondizionatamente — nella scala di valori delle figure storiche, fra le quali va annoverato anche Gesù come fondatore del cristianesimo — certe ‘evidenze’ della qualità (come dice Wolfhart Pan neberg1 a proposito della «prova sufficiente che Dio dà di se stesso» in Cristo), alla stessa maniera che le grandi opere d’arte non si spiegano come una confluenza di ‘influssi’ e i numeri primi sono indivisibili. 3. A d ogni lettore intelligente però doveva essere chiaro ch’io non volevo né intendevo introdurmi esplicitamente in alcuna questione esegetica.2 La ra1 Dog matische Thes en zur Lehre von der Ojfen barung (Tesi dogmatiche sulla dottrina della rivelazione), in: Offmbarung als Gesehichte (19632) 114. 2 Così purtroppo non posso dare il titolo di «lettore intelligente» al recensore di ‘Orientierung, (15/31 dicembre 1966), che
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pida elencazione di tali problemi (fatta a volo d’uccello) aveva come unico scopo il riunire da questo punto di vista i motivi ritenuti cogenti per dilazionare l’opzione di fede. Forse potrò, Deo volente, affrontare obbiettivamente tali problemi col metodo che mi sono proposto, ed approntare presto una «teologia dell’antica e nuova Alleanza». Intanto vorrei pregare almeno che si consideri come sfondo di ‘Cordula’ il volume (non esegetico ma teologico) programmatico «Solo l’amore è credibile». 4.
Alcuni mi hanno chiesto con rammarico se fos-
se veramente necessario attaccare un uomo tanto celebre come Karl Rahner. Non ho mai fatto mistero della mia ammirazione per il vigore speculativo e il coraggio di Rahner,3 e in momenti diffìcili l ’ho anche difeso con tutte le forze;4 assai presto però ho manifestato anche certe riserve,5 dato che il suo accostamento all’idealismo tedesco non mi pareva esente da pericoli. Queste riserve però hanno dato origine ad una discussione (si ricordi tutta la polemica sulla legittimità dell’interpretazione di Tommaso data dal Maréchal la trasposizione compiuta qua e là tra Tommaso e un Kant interpretato da Fichte) il cui interesse oggi è scemato di fronte al fatto che siamo stimolati a confrontare quel che c’è di valido in Tommaso con l’Hegel presentato al mondo contem ricerca solo delle soluzioni di problemi esegetici. 3 Christi. Kultur (Cultura cristiana, Allega to al Neue Zürcher Nachrichten) 1964, n. 9
4 «Wort un Wahrheit» (1955) 531533.
5 Cfr.
la mia recensione del volume di Rahner Geist in Welt
(Spirito nel mondo) in Zeitsch rift fü r kath. Theo logie (Innsbruck) 1939
136
. 371-379·
poraneo da Feuerbach e da Marx. Su questo punto anche l’eccellente discepolo di Rahner (a lui Rahner ha affidato la revisione del suo antico capolavoro) J. B. Metz ha risolutamente superato il maestro. Tra gli altri, in particolare Gustav Siewerth, nella sua grande e appassionata opera «Das Schicksal der Me taphysik von Thomas zu Heidegger» (Il destino della metafisica da Tommaso ad Heidegger),6 ha definito erronea tutta l’interpretazione di Tommaso della scuola di Maréchal. Non entriamo in questo groviglio di problemi; basti dire al riguardo che Pinterpretazione di MaréchalRahner delP«excessus» di Tommaso come dinamismo dell’« affirmation ontolo gique» difficilmente rende ragione dei testi e soprattutto compromette seriamente l’intelligenza che del l ’«esse» ha Tommaso. A ll’opposto, godono oggi un ruolo decisivo nella «precomprensione» della rivelazione
cristiana
l’intersoggettività,
riscoperta
da
Feuerbach (alla scuola di Hegel) e valorizzata dal Metz, l’incontro dell’Io con il Tu e l’amore personale. Ne deriva che Karl Rahner, nei suoi saggi acuti ma spesso unilaterali e non sempre coordinati tra loro (esistono diversi Karl Rahner), ha dovuto sostenere assai spesso la parte dell’esorcista che non è riuscito a scacciare dai suoi discepoli gli spiriti che scongiurava. Alcune sue recenti linee di pensiero sono ispirate da motivi apostolici e, in lui, giustificate anche teologicamente (così tutta la teoria del cristianesimo anonimo che sta alla base dell’esistenziale soprannaturale universale); ma però favoriscono direttamente interpretazioni arbitrarie che vengono 6 Johannes Verlag, Einsiedeln 1959.
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senz’altro recepite da discepoli che vogliono essere radicali.7 E chi è che non si richiami oggi, in questa o in altra maniera, al Rahner nel tentativo di allargare liberalisticamente il dogma, di modificarne il contenuto in qualcosa di «inoggettivabile», in una enunciazione soltanto indiretta e in ogni caso altamente passibile di cambiamento? Se cito di preferenza le riflessioni e i pensieri di Rahner lo faccio a motivo della loro risonanza mondiale. La frase pascaliana (p. 71) però aveva lo scopo di ricordare che per il cristiano è sempre necessario un ritorno alle origini; nella tredicesima lettera Pascal rimandava i gesuiti del suo tempo alle origini di Ignazio (non demitizzato!), secondo il quale il fondamento globale si trova in una teologia della croce tradotta nella vita. Colgo quest’occasione anche per far notare che tutto ciò che la Chiesa ha canonizzato in duemila anni come santità evangelica (elevata a norma) corrisponde al criterio proposto in «Cordula»: tutti i santi hanno cercato di conformare la propria esistenza ad una risposta dell’amore all’amore trinitario e crocifisso di Dio, e si sono messi a disposizione dell’opera di Gesù per l’avvento del Regno d’amore di Dio tra gli uomini. Il tentativo ¿indurre la religione ad un’etica, l’amore di Dio e l’amore personale per Cristo ad un amore del prossimo, contraddice in pieno al criterio generale di santità della Chiesa, e pertanto bisognerebbe chiaramente distin-
7
Un esempio
fra gli altri si ha nel libro di H. R. Sch l et t e ,
D ie Relig io nen d s The m a der Theolo gie. ¡Ueberlegungen zu einer ‘Theologie der Religionen* (Le religioni come tema teologico. Riflessioni per una ‘Teologia delle religioni’) (Quaestiones disputatae), voi. 22, Herder 1964.
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guerlo dalla tradizione e definirlo ad es. come un «neocattolicesimo ». 5. Nella sua saggezza sempre serena e cristiana Henri de Lubac, nell’articolo «Le religioni umane secondo i Padri»,8 si è posto come mediatore tra le opinioni opposte ed ha presentato ima proposta di conciliazione che, mi sembra, rende soddisfazione ad entrambe le parti, e ciò non solo estrinsecamente e a parole, ma anche nella profondità del pensiero. Egli distingue nei Padri della Chiesa un giudizio rigido sulle singole religioni mitologiche allora note ed un altro molto più mite sul fenomeno religioso dell’umanità nel suo complesso, che dalla Provvidenza è destinato a completarsi nel cristianesimo. «... la Chiesa del Cristo deve, nella sua fede nel Cristo, integrare convertendolo tutto lo sforzo religioso dell’umanità. Questo equivale a dire che l’integrazione di cui si tratta comporta due aspetti complementari: l’uno di purificazione, di combattimento pure e di eliminazione, poiché tutto è anzitutto inizialmente più o meno mescolato di errore o di male; l’altro di assunzione, di assimilazione, di trasfigurazione», (ed. it., 9394). «Il giudizio definitivo dei padri sul fatto religioso, per quanto è possibile estrarlo da una massa di testi e di comportamenti, è un giudizio di ordine, se così si può dire, dinamico. Si inserisce in una teologia della storia. È formulato in funzione della sola Chiesa del Cristo... A maggior ragione, altre religioni, quali die possano essere i loro meriti, non potrebbero essere 8 In: Parad osso e mistero della Chiesa , ed. it., Theologia publica 2, Queriniana, Brescia 1968, 87-118.
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considerate come ‘salvifiche’, cioè entrare o restare in ‘concorrenza’ con la fede nel Cristo» (95); «cioè, noi non dobbiamo giudicare delle diverse situazioni religiose staticamente, né paragonare tra loro i di versi sistemi religiosi... come se si trattasse o di condannarli o di ammettere che alcuni fra loro possano costituire in se stessi delle vere ‘economie di sal vezza’ provenienti da Dio, sia che si voglia chiamarle ‘straordinarie’ oppure ‘ordinarie’... Mettere l’uno accanto all’altro dei sistemi religiosi diversi è supporre possibile che essi vengano egualmente da Dio tali quali sono, mentre invece propongono delle vie non solamente diverse, ma divergenti...» (96). Con Teilhard de Chardin dobbiamo conservare la fede nell’«unicità dell’asse», in «questa forza propulsiva ed unificatrice» che incentra tutta la storia religiosa e profana dell’unità in Cristo e nella sua Chiesa. Si deve anche evitare, ci dice Henri de Lubac, di dividere «le due parti che si possono distinguere nell ’opera di Gesù: quella del maestro e quella del salvatore». «In Gesù, lo stesso uomo è colui che insegna e che muore, ... l’essere che si sacrifica per tutti è anche colui che reclama un’adesione incondizionata alla propira dottrina e alla propria persona» (108). La sua rivelazione è meno qualcosa di motivante la novità che l’azione del suo morire redentivo. Però questa novità non impedisce die la grazia di Cristo si estenda anche al di fuori della Chiesa visibile. «Che esistano certi ‘cristiani anonimi’ nei diversi ambienti, che, per una via o per un’altra, hanno ricevuto le illuminazioni che provengono dal vangelo, nessun cristiano potrebbe negarlo... ma sarebbe un paralogismo concludere da que-
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sto fatto che esiste un ‘cristianesimo anonimo’ sparso dappertutto nell’umanità, o, come si dice, anche, un ‘cristianesimo implicito’ e che il solo compito della predicazione apostolica sarebbe quello di farlo passare, immutato in se stesso, allo stato esplicito, come se la rivelazione dovuta a Gesù Cristo non fosse altro che la messa a fuoco di ciò che già si trovava esistente da sempre» (109110); «la rivelazione cristiana si ridurrebbe press’a poco all’insegnamento di alcune formule, senza penetrarle intimamente, senza la potenza di rinnovarle. Sarebbe come il dono di una specie di etichetta, che noi dovremmo incollare su un vaso dal contenuto rimasto immutato, posseduto da sempre, quantunque in maniera ‘anonima’» (111112). La distinzione illuminatrice di De Lubac tra un ‘cristiano anonimo’ {fino a quando quest’espressione non venga manipolata!) e un ‘cristianesimo anonimo’ mi sembra dia sufficiente giustificazione alle esigenze dell’ora: la certezza da una parte che il predicatore del messaggio cristiano non ha a che fare con un ambiente assolutamente privo della grazia Cristo infatti è morto per tutti e dall’altra l’acutissima esigenza di testimoniare con tutta l’esistenza l’unica grazia che Dio ci ha dato nel Figlio suo.9 Ma rivolgiamoci ormai all’ultima obiezione. 6. Si è rimproverato al volumetto una certa ironia. Ammetto ch’essa domina in alcune parti, ma non in quei punti in cui vengono trattati problemi 9
Spero che anche P. Malevez, che vorrebbe conservare l ’espres-
sione ‘cristianesimo anonimo' (cfr. recensione di «Cordula» in: NRTh, Lovanio, dicembre 1967, 1107), possa aderire alla conciliante proposta di Henri de Lubac.
sacri ed elevati. Sono del parere che siano i profeti e Paolo ad insegnarci ad usare in certi casi, come il più efficace, questo mezzo stilistico. 7. «Cordula», rinviando alla testimonianza del sangue, non voleva essere altro che un segnale d’allarme: la situazione della Chiesa è oggi sanguinosamente seria. Stiamo vivendo attualmente uno di quei momenti in cui, con la «mano libera» di progettare tutti i possibili cristianesimi, siamo sul punto di perdere ogni continuità con ciò che finora è stato definito come cristianesimo, e forse faremmo meglio a cambiare il marchio di fabbrica. La situazione è tale che difficilmente può essere controllata con semplici decreti ufficiali che richiamano all’obbedienza (in molti luoghi, a decreti del genere si riderebbe tranquillamente in faccia, invece di ritirarsi, come già i giansenisti, in un «dignitoso silenzio»). D ’altra parte, bisogna fare di tutto per impedire una fuga dei progressisti, quasi che i credenti non ne tollerino nemmeno la presenza nella Chiesa. Come deve comportarsi il cristiano che ascolta una predica nella quale gli si dice che incarnazione, croce, risurrezione, ascensione e Pentecoste sono semplici rivestimenti mitico simbolici, permessi da Dio per tempi ormai passati, ma che oggi devono essere sostituiti da modi di dire del tutto diversi? (cfr. ad es. H. R. Schiette, Einheit im Osterglauben? [Unità nella fede pasq uale?], in: «Kirche unterwegs» 1966, 118). Io chiedo ai vescovi: chi ascolta simili prediche è dispensato dall’impegno religioso? Può, 0 forse deve, abbandonare l’impegno religioso? D ’altra parte, la Chiesa cattolica non può certo
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abbandonarsi a simili invenzioni come non può permettere una secessione dei neocattolici, che finirebbe col respingere in integralismi reazionari, privi di spirito e di consolazione, i conservatori. 8. La soluzione, che apertamente e senza vergogne ci viene presentata in queste difficoltà, è quella di un ‘pluralismo’ di opinioni nella sostanza del dogma. Con il termine ‘pluralismo’ si indica già la situazione della Chiesa nel mondo; perché allora si dovrebbe eccettuare la vita interna della Chiesa? «Cristo è risorto?». «Non arrabbiatevi: l’importante è come lo si intende. In modo analogico, simbolico, ciò è certo». E se l’espressione ‘pluralismo’ sembra troppo audace nel campo delle verità di fede, si può sempre distinguere tra contenuto della fede e forma verbale di espressione. Certamente, nessuna formulazione può pretendere di esaurire il mistero. Ho quindi il diritto di rappresentarmi qualcosa di completamente diverso sotto le medesime formule: che significano ‘persona’ o ‘natura’? Così la Chiesa cattolica sarebbe simile in tutto a quella protestante; lo stesso nome, lo stesso locale ecclesiastico e lo stesso servizio religioso uniscono i cosiddetti ortodossi e i liberali, ammesso che queste distinzioni conservino ancora un senso nell’epoca postbultmanniana. Se ciò caratterizza effettivamente la situazione odierna della Chiesa cattolica, essa dovrà e ciò costerà molte difficoltà sopportare tale situazione senza però accettarla. Allora, per sostenere un compito tanto sovrumano, avrà bisogno non solo di teologi (anche di essi), ma so prattutto di santi. Non soltanto di decreti e ancor meno di nuove commissioni di studio, ma di figure
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a cui guardare come a fari. Proprio questo era il senso ultimo dell’allarme di «Cordula». Non è vero che non ci resti nulla da fare per avere dei santi. Do vremmo ad esempio tentare una buona volta, anche se un po’ in ritardo, di diventare come Cordula. Meglio tardi che mai.
Indice
Indice
P r e s e n t a z io n e ..................................................... 5 P r e f a z i o n e I
.........................................................
*3
II caso s e r io .................................................I 3
1. 2. 3. 4. 5.
Fondamento b i b l i c o J7 Il caso serio in quanto forma . . . · 2 3 Solitudine della morte e missione . · 3° A ll’origine della C h i e s a .....................37 Mistero di g l o r i a ................................47
..........................
I I II sistema e l ’a lte rn a tiv a ...........................35
1. Le tesi del sistem a ................................57 2. Implicazioni del s i s t e m a 62 3. A l te r n a t i v a . . 66
.................... .......................................
I I I La sospensione del caso serio
1. 2. 3. 4. 5. 6.
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71
Il dimezzamento del mistero . . . . 73 Il r i n v i o .................................................82 L ’identificazione ................................... 9 1 Il f u tu r is m o ..........................................104 Noi, atei anonimi, ed ilnostro dialogo 109 Se il sale diventa scipito 117
TV Cordula
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Postilla alla terza edizione tedesca .
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