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cultura Giulio Nascimbeni, storica penna del Corsera e grande amico dello scrittore, racconta il suo Parise
“Che lazzarone il mio Goffredo” Lunedì 1 settembre 1986, il Corriere della Sera esce in prima pagina con la corrispondenza di Valerio Riva da Treviso: “Parise è morto”. A fianco, un corsivo di Alberto Moravia. E’ una breve, fredda, lucida analisi delle qualità letterarie del grande vicentino. Nessun accenno all’antica amicizia che aveva fatto confessare al più giovane dei due: “Ho imparato l’arte da Comisso e la vita da Moravia”. Il ricordo, il dolore per la scomparsa dello scrittore (collaboratore del Corsera per oltre trent’anni), viene affidato in terza pagina alle penne di Ettore Mo e Giulio Nascimbeni, giornalista, critico letterario, ma soprattutto, veronese di Sanguinetto e grande amico di Goffredo Parise. In occasione dell’apertura al pubblico della casa museo di Ponte di Piave, a lui abbiamo chiesto di raccontare il rapporto con lo scrittore. “Eravamo molto amici. Conservo ancora, gelosamente, dei suoi inediti. Questo dà la misura dell’intimità del nostro rapporto. Che vuole, anche se sono a Milano da quasi mezzo secolo, con Goffredo avevamo in comune l’origine veneta: quella luminosa solitudine che splende nei sogni della provincia. Credo che questo tratto ci avvicinasse naturalmente. Tra noi, per altro, si parlava quasi sempre in dialetto. A parte le occasioni particolari, come un’intervista. Allora, mi era indispensabile la distanza fisica e professionale dell’italiano. Sono entrato al Corriere il 15 dicembre 1960. Lui collaborava già dal ‘55, ma con l’edizione pomeridiana, che allora si chiamava ‘Corriere dell’Informazione’ ed era guidato da Gaetano Afeltra. Al Corrierone vero e proprio, Goffredo approdò più tardi, nel ’63, ma io lo conobbi solo due anni dopo. Curavo una trasmissione della Rai che si chiamava Tuttilibri. Parise aveva appena pubblicato da Feltrinelli “Il Padrone” che, quell’anno, era risultato vincitore al Premio Viareggio. Ma c’era anche stata la temporanea rottura con Livio Garzanti che si era rifiutato di darlo alle stampe (il padrone cui si riferiva nel libro era lui), e la polemica
Ci univa il nostro bel dialetto veneto: per placare la sua scontrosità bastarono un paio di battute
Mi chiese “Tu credi che esista l’aldilà?” Risposi di no. Si adombrò “Forse diventerò una foglia”
forse diventi una foglia’. Fu un brutto colpo per lui, già malconcio dopo l’intervento alle coronarie del giugno di quello stesso anno. Successivamente, venne sempre meno a Milano. Io, quando tornavo in Veneto, andavo per lo più a Verona dove abita mio figlio. Però ci sentivamo molto spesso al telefono. O attraverso i bigliettini con cui accompagnava i pezzi che ci arrivavano in redazione spediti da Ponte di Piave.
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Son vecio, diceva e fumava, fumava
proprio col Corriere. Goffredo c’era rimasto parecchio male per come Carlo Laurenzi, inviato a Viareggio come cronista, aveva raccontato l’evento. ‘Trovo il resoconto’, scrisse in una lettera al direttore di quel periodo, Alfio Russo, ‘velenoso’. Insomma, era abbastanza maldisposto. Di più: quando arrivò negli studi per registrare la trasmissione, era davvero scorbutico, scontroso, decisamente rude. Poi ci furono un paio di battute in dialetto e lui si sciolse. Nacque così la nostra amicizia. Che non si è mai interrotta fino alla sua morte.
Osvaldo vide per la prima volta la firma di Goffredo sul Corriere, rimase per alcune ore con lo sguardo fisso sulla pagina. Chissà se è vero. Comunque Nico la racconta così. Come quell’altra, sempre di Naldini, secondo cui Goffredo era solito, negli anni milanesi alla Garzanti, dormire in piedi addossato ad un muro durante la pausa di mezzogiorno, con un mendicante lì dappresso incaricato di svegliarlo dopo un’ora circa. Io però, lo giuro – ride Nascimbeni – non l’ho mai visto farlo. Né ho mai visto quel mendicante.
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Perchè Spadolini lo amava tanto
Credo che certa sua ombrosità derivasse ovviamente dall’infanzia. La prima giovinezza solitaria e segnata dall’esser figlio di una ragazza madre. Poi, certo, ci fu il padre adottivo Osvaldo (da cui Goffredo, anni dopo, acquisì il cognome), giornalista del Giornale di Vicenza, che pian piano guadagnò il suo affetto. Tra i due si instaurò un ottimo rapporto. Al proposito, ricordo un aneddoto di Nico Naldini: quando
Straordinario fu il suo rapporto con il povero Giovanni Spadolini, direttore del Corriere dal ’68 al’72. I due si conoscevano, forse erano già amici, dal ‘55, quando il grande intellettuale fiorentino aveva voluto Goffredo al Resto del Carlino, da lui diretto in quegli anni. E’ incredibile come potessero andare d’accordo due uomini così radicalmente diversi tra loro: agli antipodi, direi. Spadolini era un uomo d’ordine, solenne, un monumento vivente. Goffredo?
Dormiva in piedi addossato a un muro
Un gran lazzarone! Forse per questo Spadolini lo amava tanto. I Sillabari furono una sua intuizione! Aspetti che cerco tra le mie carte un vecchio articolo. Ah, eccolo. Parise pubblicò la prima voce della raccolta, ‘Amore’, sul Corriere del 10 gennaio 1971. Insoddisfatto come sempre, Goffredo espresse qualche dubbio sulla soluzione grafica giocata sull’accostamento di sole due parole, Sillabari e, appunto, il titolo, Amore. Il Direttore gli rispose, cito testualmente: ‘Manterrei lo schema iniziale. Ormai il pubblico si è abituato al sillabario come occhiello: non lo turberei’. Ecco, questo era Giovanni Spadolini. Altra grandissima amicizia fu quella con Montale. Quando aveva lasciato Milano già da molti anni, ogni volta che veniva da noi in Via Solferino, Parise non mancava mai di passare in Via Bigli a trovare l’amico poeta. Quando Montale morì, il 12 settembre 1981, chiesi a Goffredo di mandarmi un pezzo di commemorazione. Allora io ero a capo della redazione cultura. Lui mi mandò cinque righe e nulla più, queste: ‘Una volta mi domandò a bruciapelo: tu credi che esista l’aldilà? Risposi di no. Egli sembrò riflettere profondamente e disse come tra sé:
Ricordo che le cartelle erano al limite della leggibilità, piene di cancellature. Inutile spiegargli le vecchie regole alle quali, per altro, era sempre stato riottoso (ogni cartella non deve superare le trenta righe di sessanta battute): ascoltava e poi brontolava qualcosa per me incomprensibile. Poi, parlava spesso della malattia. E della morte. Ma non ne aveva paura. Più che altro, a preoccuparlo era la possibilità di diventare cieco come sua madre. E in effetti perse quasi del tutto la vista. L’ultima volta che l’ho incontrato in Via Solferino è stato nel corridoio al pianterreno. Mi parlò della sua angoscia di non poter più vedere con i suoi occhi avidi le cose che più amava. Poi concluse mestamente, come spesso ripeteva anche nel corso delle nostre telefonate, ‘son vecio’. Cosa ricordo in particolare di quegli ultimi anni? Che fumava anche quando non avrebbe dovuto. Ecco. Questo. Quella maledetta domenica in cui Goffredo morì, il 31 agosto, mi trovavo a Cortina. Dovetti scrivere un pezzo in sua memoria. Fu pubblicato il giorno dopo. Non ricordo in questo momento come si intitolava (‘Una dolce voglia di rovesciare la provincia’ N.d.r.). Mi scusi, ma alla mia età non ricordo più tutto. Che vuole, ho quasi ottant’anni: son vecchio”. Davide Lombardi
Parise in Sillabari Semplicità Scrivere con parole molto semplici ed elementari; essere sinceri; scrivere solo quando si ama molto non soltanto le cose che si scrivono ma soprattutto coloro che le leggeranno. Il lettore sente subito che chi scrive vuol fare il furbo, vuol fare il professore, sente che l’autore non lo ama e non ci casca, non si commuove, non si emoziona. (da un’intervista del settembre 1972 a Claudio Altarocca)
Vicenza Perchè non ero tornato o non tornavo nella mia città? Non avevo parenti in quella città e per di più l’avevo per così dire “sfruttata” in quattro miei libri. Ora la ricordavo esattamente come si ricorda un sogno. Le grigie colonne palladiane in lunghe e alte fila come d’alberi della foresta malese, la piazza, il passato. (da G. Parise: “Veneto barbaro di muschi e di nebbie” sul Corsera del 1 gennaio 1984)
Ci sono voluti diciott’anni per trasformare in realtà le volontà di Goffredo Parise: trasformare l’ultima dimora, la casetta di Ponte di Piave, in un centro di cultura e studio del suo lavoro. Erano in più di duecento appassionati, sabato 27 marzo, a salutare l’apertura ufficiale del percorso museale ricavato all’interno. Acquistata nel 1984 da un Parise costretto dalla malattia ad abbandonare il rifugio di Salgarèda troppo esposto agli umori del Piave, la casa di Ponte, una barchessa restaurata circondata da un ampio giardino, è specchio fedele di chi l’ha abitata e amata. Visitando le sue stanze, è impossibile non rimanere affascinati dalla semplicità essenziale del luogo così come dai molteplici richiami ai tanti viaggi in giro per il mondo. Lo studio con l’Olivetti e gli occhiali ancora posati sulla scrivania, il salone reso luminosissimo dalle due pareti a vista sul giardino, la camera da letto incentrata sul lettino – un po’ triste – da una piazza e mezza, ma anche le lampade cinesi, le sedie in vimini così leggere, un’imponente zanna di elefante in entrata. Tutto è intatto, come Parise lo aveva lasciato. E’ vero, vi è qualche cosa di struggente o, più ancora, di tragico, nella celebrazione postuma di un uomo, nella logica museale che, per conservare, cristallizza. Forse è il contrasto inevitabilmente stridente tra la vivezza dell’opera e l’imperturbabilità un po’ polverosa di un luogo da cui si vorrebbero svelati i segreti del processo creativo. Eppure, al visitatore innamorato dell’autore dei Sillabari e di tanti altri capolavori, la congiunzione simbolica tra l’uomo e l’artista riesce perfettamente. Perché Parise
Benvenuti a
con le gambe fresche come la gazosa per le punture del vento”. Dunque Salgarèda, e poi Ponte di Piave, come esiti naturali di quell’essere “profondamente veneto” (la definizione è di Alberto Moravia) che fu proprio di Goffredo Parise. Un’appartenenza di cui il piccolo comune del trevigiano ha raccolto l’eredità: motivo d’orgoglio, ma anche di grande responsabilità, come ci ha spiegato Francesco Tiveron, bibliotecario e membro del comitato scientifico. “Ponte di Piave è un comune di soli settemila abitanti, Parise un monumento della letteratura italiana. Troppa la sproporzione. Noi abbiamo fatto e facciamo il possibile, ma forse servirebbe dare ai luoghi che furono dello scrittore un respiro più ampio. Ad esempio, realizzando un parco letterario tra qui, Vicenza e Oderzo dove Parise era un habitué alla libreria Il Becco Giallo. L’apporto della Regione? Hanno dato qualche soldo per questo convegno e per il sito Internet. Non si può dire che vi sia indifferenza, ma certo, per valorizzare un gigante della cultura veneta come Goffredo Parise, si potrebbe fare qualcosa in più”.
Casa Parise
Aperta al pubblico in questi giorni l’ultima dimora dello scrittore: ospita un ricco archivio vive nei molti ritratti di amici artisti (Carlo Guarienti, Mario Ceroli, Giosetta Fioroni, accanto a tante altre opere di Schifano, De Pisis, Vacchi, Festa) sparsi ovunque, cucina compresa. Perché Parise riposa in quello stesso luogo, a pochi metri dal cancelletto d’ingresso, nella tomba appena accennata nel verde del prato e vegliata dal marmo bianco - Mademoiselle Pogany - di Brancusi (purtroppo, soltanto una copia, l’originale fu rubato nel 1996). In quel punto esatto, si riaccende il dialogo muto con l’artista che aveva deciso di ritornare nel suo “Veneto barbaro di muschi e di nebbie” (dal titolo di un imperdibile articolo di Parise pubblicato sul Corsera il 1° gennaio 1984) acquistando, già nel 1969, la casetta di Salgarèda, per poi trasferirsi a Ponte di Piave due anni prima di morire. Non un caso la data del rientro di Parise in Veneto dopo una vita randagia, ha
ricordato il critico Silvio Perrella (autore della recente monografia “Fino a Salgarèda”, Rizzoli. Euro 13,50) presente alla conferenza d’apertura dell’evento insieme a vecchi amici dello scrittore come Nico Naldini, il vicentino Fernando Bandini (presidente del Comitato scientifico Casa di Cultura Goffredo Parise) e Tommaso Tommaseo Panzetta. Piuttosto, una sorta di passaggio di consegne con l’amico e maestro Giovanni Comisso morto a Treviso proprio in quello stesso anno. Anche quando lontano, Parise non aveva mai rinunciato, men che meno rinnegato, il legame profondo, ancestrale, con la sua terra d’origine. Scriveva a Comisso in una lettera da Capri datata 22 agosto 1959: “Vorrei passare questo inverno sepolto nella nostra campagna, girando con una bicicletta e dormendo nei fienili e la sera ritirarmi a ‘filò’ con quelle belle campagnole
Casa museo di Goffredo Parise Via Verdi 1 (31047) Ponte Di Piave (TV) Telefono: 0422759995 Internet: www.goffredoparise.it Orario: dal lunedì al venerdì, dalle 14,30 alle 19,00. Su prenotazione il sabato mattina e la domenica mattina. Ingresso libero.
Maternità Se il Mediterraneo nasconde nelle sue profondità arte e cultura come i bronzi di Riace, in questa zona di terra veneta vivevano però con i loro elfi e coboldi le culture nordiche e barbariche, non più mediterranee ma boschive, fungacee, muschiose, gelate e nebbiose della fantasia di Andersen e dei Grimm, della steppa e delle sinagoghe russe. (da G. Parise: “Veneto barbaro di muschi e di nebbie” sul Corsera del 1 gennaio 1984)
Viaggiare Ma ci fu un ultimo viaggio, in Giappone, dove lo spirito di Salgari trionfò: l’unico paese al mondo dove l’America è messa sotto i tacchi, ogni cosa avendo l’aspetto e l’uso americano. Ecco, l’essenza, lo spirito ineffabile dell’esotismo in Giappone resisteva intatto: l’acqua non era stata inquinata. (da G. Parise: “Salgari: i miei viaggi” sul Corsera del 24 ottobre 1982)