Angelo Marchese
dizionario di retorica e di ·stilistica
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arte e artificio nell'uso delle parole
www.scribd.com/Baruhk Oscar S tudio Mondadori
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Retorica e stilistica. Le parole evocano alcuni «'mostri >> a stefLto rimossi (specie nella nostra cultura idealistica e storicistica): il bizantinismo formale, il primato della vacua oratoria, le regole stantie di un'« arte dello scrivere» sepolta ormai da tempo con un certo gusto bellettristico. Eppure non v'è epoca più della nostra intimamente pervasa da nuove e più sottili retoriche, da astute tecniche della persuasione: basterebbe pensa1·e alle regole codificate, ma non per questo meno efficaci, della pubblicità. Il dizionario ripropone, dunque, discipline antiche che vantano un prestigio non trascurabile. Nuova è però l'ottica con cui è affrontato il terreno piuttosto accidentato della tradizione, dove spesso si rischia di smarrirsi nella pluralità eterogenea dei dati e delle definizioni. Tale prospettiva è di tipo linguistico-semiologico, nel tentativo di offrire al leetore un panorama aggiornato e unitario dei più recenti studi nel campo dei sistemi di segni, in cui si collocano sia iJ discorso retorico sia quello letterario. Il libro vuoi essere uno strumento chiaro e pratico di consultazione per tutti coloro che desiderano approfondire forme e modi del linguaggio conve nzionale e letterari!>·
Angelo Marchese è nato a Genova nel 1937. Saggista e critico letterario, si è occupato in particolare delle più avanzate ricerche strutturali e semiologiche. Fra le sue opere: « Il serno il seru:o » (1970); «Guida alla Divina Commedia» 3 voli. (1973-75); «Metodi e prove strutturali » (1974); «G. Leopardi» (1976); « L'analisi letteraria >> (1976); « Visiting angel. Interpretazione semioJogica della poesia di Monl'stle » (1977).
ln copertina: Francesco D ' Antonio da Vi terbo (detto il Balletta) - XV sec. « Le arti liberali » (partic.) www.scribd.com/Baruhk Palacio de La Verrcina, Barcellona
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Nella stessa collana:
ANTOLOGIA DELLA POESIA TEDESCA a cura di Roberto Fertonani e Elena Giobbio Crea traduzioni di Roberto Fertonani, Marcella Bagnasco, Anselmo Turazza, Moshe Unkelbach-Kahn, Diego Valeri pagine 360
Le grandi stagioni della poesia lirica tedesca, il Minnesang, il barocco, il classicismo, il romanticismo e il Novecento, con le sue tendenze contrastanti, vengono organicamente presentate, in questo volume, attraverso i documenti di maggior valore estetico o comunque più significativi dal punto di vista storico. La materia è distribuita nell'arco di otto secoli, in ordine sistematico, per esempi che non esauriscono la gamma delle possibilità ma portano sempre i segni distintivi di un'epoca e di una personalità letteraria che ha lasciato tracce profonde. Ma non si tratta di un semplice quaderno di traduzioni: ogni autore è presentato in una voce introduttiva, dove si troverà un suo profilo e almeno un cenno sulle sue raccolte di versi più importanti. Le opere in prosa sono coinvolte in quanto servono a sottolineare particolari caratteristiche compositive e tematiche; nei dati bibliografici essenziali si è data la preferenza alle edizioni e agli studi più recenti e quindi più accessibili. Questa antologia si propone un duplice scopo: da un lato offrire uno strumento utile agli studenti di tedesco, dall'altro dilatare il suo raggio di interesse anche ai lettori che non hanno familiarità con questa lingua, ma non ignorano il fascino della sua poesia, a cui Nietzsche, così critico verso i suoi connazionali, riconosceva un indiscubile primato, accanto alla musica e alla filosofia. l due curatori, Roberto Fertonani e Elena Giobbio Crea, insegnano nell'Istituto di lingue e letterature germaniche della facoltà di Lettere dell'Università di Milano.
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Angelo Marchese
Dizionario di retorica e di stilistica
Arnoldo Mondadori Editore
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© 1978, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Oscar Studio Mondadori febbraio 1978
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Sommario
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l ntroduzione
DIZIONARIO
Appendici 293
Bibliografia
307
Indice sistematico delle voci
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a Gianni e Renzo
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Introduzione
Un dizionario moderno che intenda abbracciare, pur nella necessaria concisione informativa, il vasto e accidentato terreno della « poetica » l'analisi cioè delle forme e delle strutture letterarie - non può non tener conto del radicale rinnovamento apportato nei tradizionali studi di retorica, di stilistica e di metrica dalle moderne metodologie linguistiche e semiologiche. A queste discipline ci siamo rifatti per dare una nuova sistemazione, per quanto possibile unitaria e soddisfacente dal punto di vista teorico, alla congerie di dati, definizioni e classificazioni che costituiscono il ben noto c non certo univoco patrimonio del passato. Verso il quale, giova subito precisare, non abbiamo affatto assunto un atteggiamento di rifiuto aprioristico, quasi che, nella smania della novità, occorresse scioccamente liberarsi di una prcstigiosa elaborazione dottrinale, gettando via, come si dice, il bambino con l'acqua sporca. Anzi, il nostro primo intento è stato quello di ripresentare, in un quadro ovviamente sintetico, i risultati più attendibili della retorica e della stilistica tradizionali, per confrontarli con i principi epistemologici della linguistica e della semiologia, e con le ricerche in progress di una « teoria della letteratura » che, pur eccedendo i limiti di questo dizionario, ne sottende le singole voci, nelle quali si rende conto dci più significativi contributi scientifici degli ultimi anni. Il dizionario non ha pretese esaustive. Si è preferito dare un taglio spiccatamente metodologico alle voci, che sono nello stesso tempo autonome quanto alla definizione degli argomenti c correlate fra loro in un discorso unitario riscontrabile anche in modo sistematico. Per questi motivi si è lasciato maggiore spazio a una cinquantina di lemmi, che chiameremo voci portanti nel senso che ad esse viene affidato il compito di presentare con una certa sistematicità i problemi assiali che circolano in tutte le altre voci del dizionario, costituendo in tal modo la base imprescindibile di un'ampia serie di riferimenti e di rimandi. Fra queste vo-
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lmroduzione
ci ricordiamo: accento, assi del linguaggio, canzone, codice, comunicazione, destinatario, endecasillabo, figura, forma, formalismo, generi letterari, linguaggio, linguistica, metafora, metrica, narrativa, punto di vista, retorica, rima, segno, semiologia, stile, stilistica, strutturalismo, testo, transcodifìcazione. Retorica, stilistica e metrica, dunque, nell'articolazione essenziale dei loro specifici problemi, e nella finalizzazione interdisciplinare a una prospettiva linguistica e semiotica. Senza che il dizionario abbia la pretesa di sostituirsi esaustivamente a queste due scienze pilota; e senza la pretesa, anche, di invadere gli ambiti della teoria della letteratura, offrendo ad esempio una dettagliata informazione sui singoli generi letterari, qui studiati soprattutto nella loro struttura codificata, nelle loro caratteristiche formali e funzionali, con brevi cenni di tipo contenutistico e diacronico. Non ci nascondiamo la difficoltà di un progetto che tocca diverse sfere di competenza, nel tentativo di offrire un quadro sufficientemente completo delle ricerche tuttora in corso. Pensiamo, comunque, che il lettore saprà cogliere il discorso metodologico che si intreccia di voce in voce e vorrà eventualmente completarlo e verificarlo attraverso i richiami che rimandano alla bibliografia finale, dove abbiamo ·ricordato un considerevole numero di testi fondamentali.
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ACCENTO. L'accento, come la melodia, l'intensità, la durata, la quan-
tità, la pausa (elementi detti prosodemi), appartiene ai fenomeni prasodici o soprasegmentali del linguaggio. L'intonazione di un enunciato, ad esempio Luigi è venuto?, è indicata dalla curva melodica cioè dalle diverse altezze dei fonemi grazie a cui la frase assume il carattere d'interrogazione voluto (e segnalato da una marca grafica specifica, il punto interrogativo). Si confronti la diversa intonazione della dichiarativa Luigi è venuto, in cui la curva melodica è discendente, soprattutto se si vuoi sottolineare il verbo: l'accento tonico cade sulla u (si pensi anche a Luigi è venuto!). Nell'interrogativa si ha un arco che s'innalza con la pronuncia di Luigi e si abbassa successivamente, sicché fra il nome c il verbo c'è una breve pausa. Come elemento dell'intonazione, l'accento ha una importante funzione espressiva. Mettendo in valore un'unità linguistica superiore al fonema (sillaba, morfema, parola, sintagma, frase) per distinguerla dalle altre unità linguistiche dello stesso livello, l'accento ha una funzione distintiva e conJrastiva. In italiano, come nelle lingue ad accento mobile (l'inglese, il russo, le lingue neolatine tranne il francese), l'accento cosiddetto tonico può cadere sull'ultima, penultima, terzultima ecc. sillaba di una parola: dirò, mano, tavola, telefonaglie/o. Si noti che il segno diacritico con cui si marcano certi accenti (ad esempio, nelle parole ossitone come dirò) non va confuso con l'accento tonico-dinamico proprio ad ogni termine. Oltre all'accento tonico o primario si possono avere, in certi casi, uno o più accenti secondari: ràpidaménte, càrrogrù, ànticomunìsta, càcciatòrpediniére, precìpitèvolìssimèvolménte. Si tenga anche conto che nel contesto della frase alcune parole possono sfumare l'accento primario; ad esempio, mentre isolatamente cantò ha l'accento tonico sulla o, nella frase egli cantò male questo accento è così scolorito da non distinguersi molto rispetto a io canto male (cfr. Di Girolamo, 1976, pp. 31-32).
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Accento
In poesia, l'accento che marca alcune sillabe nella struttura del verso si chiama ictus: l'ictus sottolinea il rapporto fra sillabe forti o se.miforti e sillabe deboli, sicché anche per la lettura metrica o scansiane si avranno ictus primari e secondari. Col Di Girolamo indicheremo l'ictus primario col segno " e l'ictus secondario con ". La sequenza ritmica degli ictus del verso comporta dunque uno scarto rispetto alla normale accentazione e un rapporto assai vario e mobile fra le modulazioni tonali. Ad esempio, nel verso di Dante quel che fé poi ch'elfi uscì di Ravenna la scansione metrica incentrata sugli ictus primari in l a. 4a. 7a e 1oa sottolinea la seguente deviazione prosodica: . quel che fe poi l ch'èlli usci In un contesto non versificato la lettura sarebbe invece quél che fé poi ch'élli usci Si noterà, fra l'altro, la funzione della cesura (v.) fra poi e ch': oltre a rimarcare l'accento su poi, spezza il sintagma poi/ch' e sfuma l'accento secondario su el/i. L'esempio è ripreso da Di Gerolamo, 1976, p. 20. Il ritmo del verso è pertanto costituito dal susseguirsi di arsi (v.) e tesi (v.), di posizioni toniche e atone, di ictus primari e secondari, di indugi, modulazioni e pause (cfr. Pazzaglia, 1974, p. 19). Ricorderemo infine che per indicare alcune strutture ritmiche i metricisti si servono di termini relativi alla prosodia classica, reinterpretando gli schemi quantitativi (sillaba lunga e sillaba breve) secondo valori tonali (sillaba tonica e sillaba atona). Si parlerà pertanto di ritmo giambico (~ -): tesi-arsi: x' ritmo trocaico (- ~): arsi-tesi: 'x ritmo dattilico (- ~ ~): arsi-tesi-tesi: 'xx ritmo anapestico (~ ~ -): tesi-tesi-arsi: xx' Quanto alla lettura o esecuzione dei versi, una volta accertata la competenza metrica (cioè la struttura ritmica di un dato metro) che non coincide con la normale intonazione prosastica, occorre però evitare una scansione rigida e innaturale. Giustamente l'Elwert, 1973, p. 46 sgg. osserva a proposito dei tre seguenti versi del Tasso: Oste[ di Cristo i vincitor conduce Né pur deposto il sanguinoso manto E in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano « Nella sesta sillaba si trova sempre un accento grammaticale secondario: ciò nonostante essa sta in arsi ... Queste sillabe portano un accento grammaticale più debole a confronto dell'ottava dello stesso verso; le arsi sono relativamente meno marcate; perciò sarebbe in contrasto con l'accento normale delle parole leggere la sesta sillaba e l'ottava con l'accento grammaticale identico, con la stessa energia enunciativa, solo per ottenere una scansione uniforme. Ciò non solo sarebbe contrario alle norme di lettura dei versi italiani, ma distruggerebbe addirittura la bellezza del verso, la quale sta proprio nel valore
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disuguale e variabile delle arsi ». In altri termini, l'ictus può essere sfumato, attenuato, indebolito a vantaggio di altri ictus e così pure la cesura, se lo richiedono più complesse esigenze ritmiche ~el verso. Nell'endecasillabo del Petrarca: Onde questa gentil donna si parte, si ha una cesura fra gentil e donna e un ictus teoricamente principale su tìl; ma due arsi consecutive (gentìl dònna) sono escluse, per cui gentil avrà due ictus secondari, il primo leggermente più forte ma subordinato all'accento principale su donna: si ricompone il normale accento tonico di gèntildònna. Per altre considerazioni si rimanda alle voci: METRICA, RITMO, VERSO. ACCUMULAZIONE. f.: una figura retorica di tipo sintattico che consiste nell'allineamtnto di termini linguistici, sia sotto forma di enumerazione ordinata e progressiva sia come accostamento di oggetti, sentimenti, immagini (anche di tipo inconscio) in modo disordinato o destrutturato. ln questo senso si parla di accumulazione caotica, procedimento stilistico tipico della lirica contemporanea che vuole esprimere la condizione sconvolta della psicologia e del mondo attuali. L'accumulazione può comportare anche una mescolanza o rottura dei generi tradizionali (lirico, narrativo, ironico, tragico ecc.) con effetti inediti di tono e di costruzione metrico-ritmica. ADÈSPOT A. Opera (generalmente un manoscritto o un codice) di autore ignoto. Etim.: dal gr. adéspotos = senza padrone. AFÈRESI. È la caduta di una vocale o di una sillaba all'inizio di una parola. Es.: verno per inverno. «Quando due vocali si incontrano nell'interno del verso, invece di fondersi insieme (sinalefe) o di conservarle distinte l'una dall'altra come due sillabe metriche (dialefe), si può eliminarne una lasciando cadere o la vocale finale di parola (elisione) o la vocale iniziale di parola (aferesi)» (Elwert, 1973, p. 30). Es.: S'i' 'l dissi mai, ch'i' vegna in odio a quella (Petrarca). Etim.: dal gr. apluiirein = togliere via. AGNIZIONE. v. RICONOSCIMENTO. ALESSANDRINISMO. In senso generale il termine allude a un tipo d'arte raffinata e dotta, quale fu l'arte ellenistica (o alessandrina) fra il III e il II sec. a.C. ALLEGORIA. f.: una figura retorica mediante la quale un termine (denotazione) si riferisce a un significato più profondo e nascosto (connotazione). Ad esempio, il Veltro dantesco: a livello denotativo, « veltro » significa « cane da caccia »; è ben noto che questo termine al-
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Allegoria
lude a un « riformatore spirituale », donde la connotazione allegorica. Secondo gli autori della Rhétorique générale (AA. VV ., 1970, p. 137, tr. it., p. 21 l) l'allegoria è un« m~talggism9 »,ossia un'operazione linguistica che agisce sul contenuto logico mediante la soppressione totale del significato di base, che deve essere riportato a un diverso livello di senso o isotopia (v.) comprensibile in riferimento a un codice segreto. Morier, (1975, p. 65 sgg.), considera l'allegoria un racconto di carattere simbolico o allusivo e l'avvicina alla favola o all'apologo di tradizione esopica. La favola-allegoria della rana e del bue metterebbe in rapporto due mondi: mondo degli animali
mondo degli uomini
uomo di poca rana - - - - - - - - - - - - - - importanza gonfiarsi _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ darsi importanza
bue ___ _
_ uomo importante
Tra le allegorie tradizionali, ben note quelle della nave che attraversa un mare in tempesta, fra venti e scogli ecc.: rappresenta il destino umano, i pericoli, le discordie ,politiche, mentre il porto è la salvezza. Non si tratta di una « metafora continuata » come pensa Lausberg (1969, p. 234) sulla scia di Quintiliano (VIII, 6, 44), ma piuttosto di un insieme di simboli astratti. Il problema della comprensione delle allegorie dipende dalla loro maggiore o minore codificazione (ad esempio, una donna bendata con una spada o una bilancia è ormai un'immagine codificata della Giustizia; v. SIMBOLO); in molti casi, specie in poesia, la connotazione allegorica dipende da particolari sottocodici dell'autore. Occorre distinguere chiaramente l'allegorismo dall'interpretazione figurale di origine biblica, attiva soprattutto nel Medioevo e presente in Dante. Se il Veltro è un'allegoria perché un elemento sta per un altro (cane-riformatore), Beatrice è una figura perché non è soppressa la sua realtà storica, anche se nell'aldilà essa ha assunto un nuovo significato: è la guida spirituale di Dante. Dunque dietro alla figura agisce il meccanismo logico « questo e quello »: ad esempio, l'Esodo degli Ebrei dall'Egitto ha una sua verità effettiva o « istoriale », ma allude anche a un significato permanente, la liberazione del cristiano dalla schiavitù del
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Ambiguità
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peccato. Sull'argomento rimandiamo a Marchese, Guida alla Divina Commedia, Inferno, Torino, 1973, p. 22 sgg. Morier distingue vari tipi di allegoria: l'allegoria metafisica (ad esempio, il mito della caverna in Platone, dove si rapporta il mondo sensibile a quello delle idee); l'allegoria teologica (dalle composizioni mitologiche ai racconti cristiani, che hanno bisogno di una interpretazione: cfr. i quattro sensi della scrittura nel Medioevo); l'allegoria filosofica ecc. Etim.: dal gr. allegoria = parlare diversamente.
ALLITTERAZIONE. È una figura retorica di tipo morfologico che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi sia all'inizio di due o più parole sia ali 'interno di esse. L'effetto di parallelismo fonico che deriva dali 'allitterazione si riflette sui significati, ad esempio sottolineando i rapporti fra le parole. Es.: Il tuo trillo sembra la brina / che sgrigiola, il vetro che incrina ... (Pascoli). ALLOCUTORE. Nello schema della comunicazione (v.) l'allocutore è colui al quale è rivolto l'enunciato: è il ricevente o destinatario del messaggio. Etim.: dal lat. alloqui = parlare. ALLÒTRIO. Termine che nell'estetica crociana indica un elemento di altro ordine, cioè non artistico. Etim.: dal gr. all6trios = estraneo. ALLUSIONE. È una figura retorica di carattere logico che consiste nel dire una cosa con l'intenzione di farne intendere un'altra. Le allusioni possono essere storiche (vittoria di Pirro = inutile, costosa), mitologiche (è un dedalo = un labirinto, un intrico), letterarie (è un don Abbondio= un vile) ecc. Secondo il Morier (1975, p. 86), l'allusione « è un tipo di metafora enigmatica, in cui il comparante deve fare indovinare il comparato per uno o più elementi comuni ». L'autore ricorda il rapporto fra allusione (faresti impallidire d 'invidia Wl Creso) e l'antonomasia (sei un Creso): entrambe le figure sono sottese dal seguente schema: Creso (ricchezza) tu. A nostro avviso, è possibile considerare simboli, allusioni, allegorie e antonomasie sull'asse metonimico (v.), considerando il rapporto interno che lega l'elemento esplicito a quello sottinteso. Ad esempio, Dedalo ha costruito il labirinto, Creso rappresenta la ricchezza ei:c.
AMBIGUIT A. In senso linguistico si ha ambiguità quando una frase può assumere diversi sensi. Se dico, ad esempio, quel cane del commissario, l'enunciato si può decodificare in due modi: « il commissario ha un cane
+ quello
è il cane del commissario
»; «
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il commissario è
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Amplificazione
un cane ». La differenza di senso dipende dalla struttura profonda della frase (V. LINGUISTICA, 5: GRAMMATICA GENERATIVO-TRASFORMAZIONALE). È evidente che nel secondo caso si ha un processo semantico di tipo metaforico, in quanto si vuoi dire che il commissario è « cattivo come un cane » o è « una bestia » ecc. Possiamo definire semantica o lessicale questo tipo di ambiguità. Nella frase: ho visto mangiare un coniglio l'ambiguità è di tipo sintattico, perché essa può essere risolta sia in « ho visto delle persone mangiare un coniglio » sia in «ho visto un coniglio che mangiava» (Dubois, 1973, p. 29; Mounin, 1974, p. 23; Berruto, 1975, p. 122). L'ambiguità può dipendere anche dall'omonimia dei termini: il cane può essere una parte di un'arma, donde l'ambiguità di una frase del tipo: è scattato il cane. In ambito letterario, soprattutto ad opera di W. Empson, Sette tipi di ambiguità, Torino, 1965, si intende per ambiguità la particolare dilatazione semantica del linguaggio poetico, che non coincide mai col semplice significato letterale. In questo caso l'ambiguità viene a coincidere con la connotazione (v.) o con la polisemia (v.), cioè con la complessità e l'ipersemantizzazione propri dei segni letterari. Così il linguaggio figurato (v. FIGURA) è essenzialmente polisemico, dislocando il senso oltre l'immediata referenza. La densità espressiva dell'ungarettiano M'illumino / d'immenso dipende dalla polisemia (o se si vuole dall'ambiguità) dell'enunciato, dallo scarto fra la traduzione prosastico-riflessiva dell'immagine e l'alone semantico, estremamente contratto, che si addensa su due sole parole. Per un approfondimento si veda: Delas-Filliolet, 1973. AMPLIFICAZIONE. Procedimento espressivo teso ad accentuare alcuni nuclei semantici mediante l'enumerazione ripetitiva o intensiva (L'Italia, la nostra patria, la nostra terra, il sacro suolo in cui siamo nati...). Quando non intende proporsi come abusato schema retoricooratorio (v. ENFASI), l'amplificazione può riprendere armoniosamente alcuni termini, approfondendone il valore in una sorta di gradazione descrittiva o narrativa. Si pensi al mirabile esordio dei Promessi Sposi: Quel ramo del lago di Como, che }Jolge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia-costiera dall'altra parte ... La descrizione prosegue riprendendo e precisando la forma della « costiera », aggiungendo nuovi particolari, per ritornare infine al lago. Non si confonda l'amplificazione con l'accumulazione (v.), che ha un più rapido e lineare modulo espressivo, scevro da ogni ridondanza. ANACOLÙTO. È la rottura della regolarità sintattica di una frase.
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Analisi
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Ad esempio: Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto (Manzoni). Come procedimento stilistico, l'anacoluto ha effetti di mim?si della lingua parlata ed è spesso usato per caratterizzare i modi espressivi di personaggi umili. Etim.: dal gr. anak6/outhos = che non segue (espressione non conseguente). ANACRÙSI. Nella prosodia è una sillaba fuori tempo da unirsi alla seguente. t:. tipica del novenario con cesura dopo la quarta e anacrusi prima della sesta sillaba. Es.: A duro stra/ di ria ventura (Chiabrera). Si veda Elwert, 1973, p. 71. Etim.: dal gr. anakrousis = arretramento. ANADIPLÒSI. È una figura retorica che consiste nella ripresa - all'inizio di un verso o di una frase- di una parola conclusiva del verso o della frase precedente. È in sostanza una forma di iterazione: Que-
sta voce sentiva l gemere in una capra solitaria. viso semita ... (Saba). Etim.: dal gr. anadiplosis = raddoppio.
ll
In una capra dal
ANAFORA. t:. una figura che consiste nella ripetizione di una o più parole all'inizio di versi o enunciati successivi, con una rimarcatura enfatica dell'elemento iterato. Es.: Per me si va nella città dolente, l per me si va nell'eterno dolore, l per me si va tra la perduta gente (Dante). Etim.: dal gr. anaphérein = ripetere. ANAGOGIA. v. ALLEGORIA. ANALISI. In ambito letterario, l'analisi è il procedimento di descrizione e di caratterizzazione di un testo allo scopo di darne una valutazione critica. A seconda della prospettiva metodologica l'oggetto può essere osservato da diversi punti di vista. Tenendo conto dello schema proposto da Jakobson per la comunicazione (v.), si potranno considerare i seguenti approcci: l) opera-autore: studio della vita dell'autore, indagini sulla paternità di opere incerte ecc.; 2) opera-destinatario: analisi della ricezione del messaggio da parte del pubblico (sociologia della letteratura), della fortuna dell'opera, della storia della critica; 3) opera-contesto: studio della situazione storico-sociale in cui è nata l'opera e si è formato l'autore; le diverse metodologie storicistiche, e soprattutto il marxismo, si preoccupano di ricercare i rapporti e le omologie fra il testo e la realtà storica, fra l'ideologia e le strutture economico-politiche, inserendo la visione della vita dell'autore nel crogiolo delle tendenze, dei movimenti, delle correnti culturali, dei gruppi intellettuali che caratterizzano un determinato momento stori-
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Anapèsto
co; 4) opera-codice: l'analisi verte sul rapporto fra l'opera e la complessità dei codici e sottocodici che la sottendono, cioè delle istituzioni letterarie (ad esempio, i generi); 5) opera-canale: ricerca filologica della trasmissione testuale, particolarmente importante per le opere antiche; ricostruzione del testo critico, interpretazione delle varianti, proposte integrative ecc.; 6) opera come messaggio: analisi interna del testo in quanto macrosegno letterario, secondo diverse metodologie (stilistica, strutturalismo, semiologia, psicanalisi). L'analisi procede a uno « smontaggio » del testo e alla identificazione di un modello euristico immanente; il senso è decifrato, a vari livelli, attraverso le griglie del codice letterario. Per un approfondimento dei problemi accennati si rimanda alle diverse voci-chiave del dizionario (CODICE, COMUNICAZIONE, CONNOTAZIONE, FIGURA, FORMALISMO, ISTITUTI LETTERARI, LETTERATURA, LINGUAGGIO, RETORICA, STILE, STRUTTURALISMO ecc.); e
inoltre a Marchese, 1974 e 1977; Orlando, 1973; Terracini, 1966; Binni, 1963; Fubini, 1956. ANAPÈSTO. L'anapesto è un piede metrico della poesia classica for-
mato da due sillabe brevi e da una lunga. Nella metrica italiana questo tipo di ritmo si ripropone, ad esempio, in un emistichio ( = metà verso) dell'endecasillabo. Es.: Hai di stelle immortali / aurea corona (Tasso). Come sottolinea l'Elwert, 1973, p. 61, la prima parte del verso ha un ritmo anapestico (l'accento cade sulla terza e sesta sillaba), la seconda un ritmo dattilico. Etim.: dal gr. anapalein = battere a rovescio. ANÀSTROFE. È una figura sintattica che consiste nell'inversione dell'ordine normale di due parole. Si nota talora anche nel linguaggio comune: cammin facendo, eccezion fatta. È identificata comunemente con l'iperbato (v.). Etim.: dal gr. anastréphein = rovesciare. ANFIBOLOGIA. È un enunciato ambiguo interpretabile in due modi diversi. L'equivocità può dipendere dall'aspetto semantico di una parola (ad esempio, un omonimo, un termine ambivalente) o dalla costruzione sin tattica. La grammatica generativo-trasformazionale (v. LINGUISTICA, 5) è in grado di spiegare frasi ambigue come l'odio dei nemici, ho visto mangiare una lepre, quel cane del tenore ha ululato per un'ora ecc. In ambito letterario l'anfibologia può dipendere dalle complesse isotopie (v.) che attraversano il testo poetico, dalla iperconnotazione dei segni, dalla voluta ambiguità del senso, talora emergente dal] 'inconscio attraverso la trasposizione simbolica del linguaggio. Etim.: dal gr. amphibolia e 16gos discorso collocato intorno.
=
ANNOMINAZIONE. B una figura di tipo grammaticale e semantico
che consiste nella ripresa di un lessema variato nella forma. Es.: Amor,
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Antifrasi
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ch'a nullo amato amar perdona (Dante); qui la serie amor-amatoamar è anche legata per allitterazione. L'adnominatio si ha pure in forme come selva selvaggia (Dante), invitto-invincibile ecc. Accoppiata all'antitesi è alla base della famosa terzina dantesca, in cui Pier della Vigna spiega i motivi del suo suicidio: L'animo mio, per disdegnoso gusto, l credendo col morir fuggir disdegno, l ingiusto fece me contra me giusto. Etim.: dal lat. adnominatio = denominazione.
ANTAGONISTA. Nella struttura attanziale (v. ATTANTE) è il ruolo antitetico a quello dell'eroe, cioè l'oppositore. La trama del racconto si muove sulla spinta degli ostacoli che il protagonista deve affrontare, ostacoli frapposti da una volontà antitetica. Per un discorso più ampio si vedano le voci: ATTANTE, PERSONAGGIO, NARRATIVA. Etim.: dal gr. antagonistés = colui che lotta contro. ANT ANACLASI (o ANACLASI) . È una figura di carattere semantico costituita dalla ripetizione di una parola con senso diverso. Es.: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce (Pasca!). La retorica classica distingue la diàfora, in cui la parola ripetuta assume una nuova sfumatura di senso, dali 'antanaclasi vera e propria, detta in latino reflexio e ottenuta in una situazione di dialogo. Es. in Quintiliano (IX, 3, 68): cum Proculeius quereretur de filio, quod is mortem suam exspectaret, et ille dixisset se vero non exspectare: « immo », inquit, << rogo exspectes >> (Proculeio si lamentava perché il figlio aspettava con ansia la sua morte, ma il figlio diceva che non l'aspettava di certo; allora Proculeio disse: « Ti prego almeno di aspettare », cioè di non uccidermi prima). Si veda Lausberg, 1969, pp. 154-158. Etim.: dal gr. antanaclasis = ripercussione, rifrazione. ANTICIPAZIONE. v.
PROLESSI.
ANTICLIMAX. Gradazione discendente rispetto alla climax (v.), che è una successione di parole disposte in ordine intensivo. Particolarmente efficace per gli effetti ritmici nella poesia. Si osservi la conclusione dell'Infinito leopardiano: Così tra questa l immensità s'annega il pensier mio: l e il naufragar m'è dolce in questo mare. Alla progressione ritmica (climax) culminante con immensità segue, nell'ultimo verso, la gradazione ritmica discendente che accompagna il valore semantico delle parole, cioè l'abbandono della mente a un'esperienza totalizzante. ANTIEROE. v.
ANTAGONISTA, PERSONAGGIO.
ANTlFRASI. Figura di tipo logico con cui si vuoi affermare esatta-
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Antimetàtesi
mente l'opposto di ciò che si dice. Esempi comuni: Hai ragione tu! sei sporco). Evidente il valore ironico o polemico delle espressioni antifrastiche, in cui la rimarcatura del positivo serve a evidenziare il valore negativo sottinteso. Più sottile è l'antifrasi ideologica (o magari psicanalitica): l'affermazione di un nuovo valore mediante la demolizione degli attributi caratteristici di quello vecchio. In Sbarbaro si assiste alla « fondazione del mito (antifrastico) del padre da parte dell'eroe» che « si esplica come lenizione (e sostanziale demolizione) degli attributi tradizionali di autorità, forza, sicurezza, in luogo dei quali è compiuta la celebrazione delle virtù "umane", della "bontà", degli atti minimi di un 'esistenza umiliata» (G. Barberi Squarotti, C. Sbarbaro, Milano, 1971, p. 70). Etim.: dal gr. antìphrasis espressione contraria.
(= hai torto), come sei pulito ... ( =
=
ANTIMET À TESI. 1:: una figura logica che si basa sulla disposizione a chiasmo (v.) di due o più parole, come nel famoso adagio salernitano: ede ut vi vas, nec vive ut edas ( = mangia per vivere e non vivere per mangiare). Si veda questa frase di Pasca!: Non potendo fortificare la giustizia si è giustificata la forza. Etim.: dal gr. antimetàthesis = inversione. La figura è detta anche antimetàbole. ANTiSTROFE. Nella metrica greca, ad esempio nell'ode di Pindaro, l'antistrofe segue la strofe e precede l'epodo. Questo schema tripartito fu ripreso nel sec. XVI dal Trissino e dall' Alamanni che si servirono per imitarlo di tre stanze petrarchesche, mentre il Chiabrera rinunciò a tale struttura rigida preferendo forme più libere (v. CANZONE, CANZONETTA).
Etim.: dal gr. antistrophé
=
volgere contro.
ANTiTESI. Figura di carattere logico che consiste nell'accostamento di due parole o frasi di senso opposto (processo di antonimìa: bianco-nero, caldo-freddo, buono-cattivo ecc.). La contrapposizione può sorgere anche mediante forme negative: Pace non trovo, e non ho da far guerra (Petrarca). Famosa la terzina dantesca in cui la figura è piegata ad esprimere con suggestiva potenza il contrasto fra vita e morte: Non fronda verde, ma di color fosco; l non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; l non pomi v'eran, ma stecchi con losco. Si osserverà come l'antitesi sia sorretta dalla costruzione anaforica, dalla ripetizione simmetrica di non e ma. Etim.: dal gr. antìthesis = contrapposizione. ANTÒNIMO. Unità Jessicale di senso contrario rispetto ad un'altra: grande - piccolo. Il Lyons, 1971, p. 588 sgg., precisa le relazioni di senso sull'asse dell'opposizione, distinguendo la complementarietà (ce-
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Apofonia
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libe: sposato, maschio: femmina). in cui l'asserzione di un termine implica la negazione dell'altro e viceversa; l'antonimia (grande '"""' piccolo), dove è possibile una sola forma di implicazione (Luigi non è grande non asserisce che Luigi è piccolo); l'inversione (comprare: vendere, marito: moglie). Quest'ultima è detta anche relazione di reciprocità (Dubois, 1973, p. 37); come osserva l'autore non è sempre facile distinguere gli antonimi dai reciproci e dai complementari. Etim.: dal gr. antì opposto, 6nyma variante di 6norna nome.
=
=
ANTONOMÀSIA. Figura semantica consistente nel sostituire un nome comune, per esempio ipocrita, con un nome proprio: Tartufo; o viceversa un nome proprio con una caratterizzazione, universalmente conosciuta, del possessore: il segretario fiorentino per Machiavelli (Mounin, 1974, p. 31). ll Morier, 1975, p. 116, sostiene che l'antonomasia è un caso particolare della metonimia (v.), più esattamente della sineddoche secondo il «gruppo ~L» (AA.VV., 1970 c; v. FIGURA). La perifrasi può essere utilizzata per indicare un'antonomasia: il Padre che è nei cieli (Dio), il flagello di Dio (Attila). Etim.: dal gr. antonomasia = parola al posto di. APAX LEGOMENON (o HAPAX). Si tratta di un nome o di un'espressione di cui si ha un solo esempio nel sistema linguistico o in un dato corpus (opera letteraria, lingua di un autore ecc.). Etim.: dal gr. hlipax = una sola volta e leg6menon detto.
=
APòCOPE. Caduta di uno o più fonemi alla fine di una parola. Es.: van per vanno, dan per danno, pensier per pensiero. Non si confonda l'apocope con l'elisione (v.). Nella lingua poetica l'apocope compare già, anche se limitatamente, nei rimatori della Scuola siciliana e si afferma col Petrarca. Fra le forme più frequenti: se' (sei), i' (io), e' (ei, egli), mi' (mio); passar (passaro, are. per passarono). avrem (avremo), vo' (voglio), ver (verso). Etim.: dal gr. apokopé = taglio. APòDOSI. E la proposizione principale in un periodo ipotetico, costituito da una subordinata condizionale, detta protasi, e da una reggente che indica la conseguenza o conclusione. Es.: Se piove (protasi). non esco (apodosi). Etim.: dal gr. ap6dosis = ciò che è dato dopo, conseguenza. APOFONìA. L'apofonia o alternanza vocalica è la variazione di un fonema o di un gruppo di fonemi nell'ambito di un sistema morfologico. Es.: facio-jeci, facio-effìcio. II Morier, 1975, p. 120, prende in considerazione l'apofonia come strumento stilistko, particolarmente attivo nella lingua poetica in cui
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Aporia
la modificazione vocalica può creare quas1-nme o paronomasie. Es.: tra gli scogli parlotta la maretta (Montale). Etim.: dal gr. apò cambiamento, phoné voce.
=
=
APORiA. Dubbio o incertezza di fronte a ragionamenti contrari di eguale validità. Nell'ambito dell'analisi letteraria l'interpretazione di un testo anfibologico (v. ANFIBOLOGIA) può comportare una serie più o meno complessa di aporie. Come mezzo espressivo l'aporia può emergere dal monologo interiore di un personaggio, da un dialogo serrato e problematico, dal soliloquio. Ricordiamo due casi emblematici: gli inquietanti interrogativi di don Abbondio in viaggio verso il castello dell 'Innominato; i personaggi pirandelliani con il loro lacerante relativismo gnoseologico. Etim.: dal gr. aporia = dubbio. mancanza di uscita. APOSIOPÈSI. v.
RETICENZA.
APÒSTROFE. Figura retorica che consiste nel rivolgere la p~rola in a p~rt;ona o cosa personificata. Es.: Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove T s1 s·uana ... (Dante), Italia mia, benché il parlar sia indarno ... (Petrarca), O patria mia, vedo le mura e gli archi ... (Leopardi). Etim.: dal gr. apostréphein = rivolgersi.
tQQo_çpQç!t~to
ARBITRARIETÀ. Nella teoria saussuriana (v. LINGUISTICA, 1) l'arbitrarietà è il carattere del rapporto fra significante e significato (v. SEGNO). Le lingue sono arbitrarie in quanto sono convenzioni codificate dai membri di una società che le utilizzano a fini comunicativi. Non esiste un rapporto motivato tra l'oggetto (referente), il suono linguistico (significante) o la trascrizione grafica; la prova è data dalla diversa nominazione delle cose nelle lingue anche affini (cane, chien, perro, dog ecc.). Arbitrario vuoi dire dunque convenzionale e immotivato. Naturalmente, fissata nel codice della lingua la convenzione oggettosegno, il rapporto significante-significato non può essere soggetto alle modificazioni dei singoli locutori. Più complesso il problema del segno letterario, che è sempre un segno « secondo » rispetto a quello linguistico: la motivazione dipende dallo speciale rapporto fra la forma dell'espressione e la forma del contenuto, dalla connotazione relativa a determinati codici, dalla contestualità funzionale del segno rispetto ad altri nell'ambito della letteratura ecc. Per un approfondimento si rimanda a Marchese, 1974, p. 33 sgg. ARCAISMO. L'arcaismo è una forma lessicale o una costruzione sintattica appartenente a un sistema linguistico scomparso o in via di sparizione (Dubois, 197 3, p. 46, Mounin, 1974, p. 39). Nella dinamica
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Armonia imitatil'a
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linguistica dei gruppi sociali alcune forme possono essere sentite come arcaiche, in quanto caratteristiche delle persone più anziane oppure perché usate solo in una determinata regione. Un caso significativo dell'italiano contemporaneo è, ad esempio, il cotesto, esclusivamente toscano o di uso letterario. Forme e costruzioni arcaiche permangono nella lingua viva senza essere avvertite come tali (senza colpo ferire, a furia e misura, albergo dei poveri). In ambito letterario, l'arcaismo è connesso alla lingua letteraria e ai suoi usi settoriali e codificati: fellone, per esempio, appartiene al genere epico-cavalleresco d'ascendenza medievale (fellonia = tradimento) ed è perciò conservato come epiteto o appellativo di disprezzo; o Numi! è esclamazione codificata della lingua aulica, che trova nel Petrarca il suo punto di riferimento. Si può comprendere il colore arcaicizzante del linguaggio leopardiano, in cui gli stilemi assumono un valore espressivo straniante rispetto alla lingua d'uso (cfr. A. Marchese, G. Leopardi, Firenze, 1976). Si vedano in proposito le utili osservazioni di M. Corti, 1976, p. 89 sgg.
ARCHÈTIPO. In ambito filologico l'archetipo è la redazione non conservata di un testo, ricostruibile in via indiretta attraverso citazioni o testimonianze di codici o stampe derivati dall'originale perduto. Ci interessa sottolineare un diverso e importante significato del termine, di derivazione filosofico-psicanalitica, secondo cui l'archetipo è una rappresentazione inconscia di un'esperienza comune ad ogni uomo. Alcuni critici della letteratura, riprendendo suggestioni junghiane e problematiche antropologiche (Dumézil, Bachelard, Lévi-Strauss), hanno postulato un universo immaginario, luogo dei grandi temi, simboli, figure e miti ricorrenti (cfr. Durand, 1972). Il più suggestivo interprete di questa tendenza ermeneutica è Northrop Frye che nei suoi due libri fondamentali, Anatomia della critica e Favole d'identità, riassume i meccanismi archetipici operanti nella letteratura. Per una chiara presentazione della critica simbolica (o archetipica) rimandiamo a E. Raimondi, in AA.VV., 1970 a, p. 71 sgg. ARCHI LETTORE. Secondo Riffaterre, 1971, p. 46 sgg., l 'archilettore è l 'informazione costituita da tutte le risposte o reazioni suscitate da un testo letterario. Si può considerare, ad esempio, come archilettore la storia della critica, l'insieme di letture e di osservazioni pertinenti agli aspetti stilistici di un'opera. Il critico considererà l'archilettore una sorta di codice di riferimento nell'impostare il suo lavoro interpretativo.
ARMONIA IMITATIVA. È una figura retorica, detta anche onomatopèa, con cui si imita un rumore, un grido, il richiamo di un animale. Tipiche le onomatopee del Pascoli, vero e proprio « linguaggio pregrammaticale » (Contini) mediante il quale il poeta cerca di dare un correlativo fonosimbolico dell'evento. Es.: Viene il freddo. Giri per
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Arsi
dirlo l tu, sgricciolo, intorno le siepi; l e sentire fai nel tuo zirlo l lo strido di gelo che crepi. l Il tuo trillo sembra la brina l che sgrigiola, il vetro che incrina ... / trr trr trr terit, tirit ... Qui all'onomatopea del verso finale si accompagna l'armonia imitativa ottenuta con la ripetizione di alcuni suoni ricorrenti, le r che al1udono al verso dell'« uccellino del freddo ». Un altro significativo esempio pascoliano si ha ne La mia sera: Don ... Don ... E mi dicono, Dormi! l mi cantano, Dormi! sussurrano, l Dormi! bisbigliano, Dormi! l là, voci di tenebra azzurra ... Si noterà il peculiare uso delle funzioni del linguaggio (v. LINGUAGGIO, 1): l'imperativo, che è l'espressione grammaticale della funzione conativa, nasce da una suggestione fonica emergente dalla realtà: il suono delle campane (l'onomatopea Don ... Don ... ). Suono che viene umanizzato in una voce misteriosa, attraverso l'uso della funzione emotiva, centrata sulla prima persona. Inoltre la costruzione ritmica dà luogo a una anticlimax (v.). ARSI. È la sillaba che nel verso porta l'accento principale o secondario di una parola (sillaba accentata, dove cade !'ictus), mentre la tesi è la sillaba non accentata. Generalmente l'arsi è rappresentata con l'accento acuto ', la tesi con il segno di breve ...... Es.: Di quei sospiri ond'io nudriva 'l core (Petrarca) , ..... ,
Etim.: dal gr. arsis = elevamento. ARTICOLAZIONE. Si chiama doppia articolazione del linguaggio, nella teoria di Martinet (v. LINGUISTICA, 2), la possibilità specifica delle lingue di organizzarsi su due piani. Al primo piano o prima articolazione, l'enunciato si articola linearmente in unità dotate di senso, dalla frase, ai sintagmi, alle parole, ai monemi, che sono le più piccole unità provviste di senso (es.: dorm-ir-ò: tre monemi, di cui uno lessicale, dorm- e due grammaticali o morfemi. ir- -ò). Al secondo piano o seconda articolazione ogni monema si articola in unità sprovviste di significato, le unità minime distintive o fonemi. Canto è formato da cinque fonemi. La doppia articolazione del linguaggio permette una notevole economia nella produzione dei messaggi, in quanto sono sufficienti poche decine di fonemi per formare migliaia di monemi con cui costruire un'infinità di messaggi. Si veda Dubois, 1973, p. 49 sgg. ASìNDETO. È una figura di tipo sintattico che consiste nell'eliminare legami formali fra due termini o fra due proposizioni. Particolarmente importante, per la forte carica espressiva, è l'asindeto nell'enumerazione o nell'accumulo oggettuale (v. ACCUMULAZIONE). Es.: Fronti calve di vecchi, inconsapevoli l occhi di bimbi, facce consuete l di nati a faticare e a riprodursi, / facce volpine stupide beate (Sbarbaro). Si può notare, nell'ultimo verso citato, una sequenza nominale asindetica
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Assi del linguaggio
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con eliminazione della punteggiatura. Il fenomeno è frequente nel primo Ungaretti, in cui la mancanza della punteggiatura trova un equivalente ritmico negli spazi bianchi (v.). Es.: Di che reggimento siete l fratelli? l l Parola tremante l nella notte l l Foglia appena nata l l Nell'aria spasimante l involontaria rivolta l dell'uomo presente alla sua fragilità l l Fratelli (Ungaretti). L'asindeto fra proposizioni può essere rimarcato da un uso impressivo, non sintattico, della punteggiatura: Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto. Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria (Rigoni Stern).
ASSI DEL LINGUAGGIO. «II linguaggio» scrive Jakobson, 1966, p. 19 « implica due assi: la sintassi si occupa della concatenazione, la semantica dell'asse della sostituzione. Se io dico, per esempio, "il padre ha un figlio", le relazioni fra "il", "padre", "ha", "un" e "figlio" sono relazioni entro la successione, sono relazioni sintattiche. Se io confronto i contesti: "il padre ha un figlio", "la madre ha un figlio", "il padre ha una figlia", "il padre ha due figli", sostituisco certi segni ad altri segni e le relazioni semantiche con cui operiamo non sono meno linguistiche delle relazioni sintattiche. La concatenazione implica la sostituzione ». L'asse della concatenazione è l'asse sintagmatico, l'asse della sostituzione è l'asse paradigmatico. L'asse paradigmatico è costituito dai rapporti virtuali fra le unità linguistiche appartenenti a una stessa classe morfosintattica o semantica: in questo senso per Saussure è l'asse delle scelte o dei rapporti in absentia, mentre il sintagmatico è l'asse delle combinazioni o dei rapporti in praesentia. Un segno è in relazione paradigmatica e sintagmatica con altri segni della lingua. Ad esempio, insegnante è in relazione paradigmatica con docente, maestro, professoressa ecc.; ed anche con insegnare, istruire, educazione, apprendimento ecc.; oppure con cantante, amante, votante ecc. (per analogia di costruzione). È in relazione sintagmatica con un, di, lettere, violino, liceo ecc. Il paradigma è pertanto l'insieme di unità che intrattengono fra loro rapporti virtuali di sostituibilità (Dubois, 1973, p. 354). Le unità a, b, c ... 11 appartengono allo stesso paradigma se possono sostituirsi vicendevolmente nello stesso quadro tipico (sintagma, frase). Anche la scelta stilistica non può non adeguarsi alla natura dell'atto linguistico, cioè alla selezione c combinazione delle parole. L'analisi stilistica dovrà ripercorrere questo processo, mettendo in luce le peculiarità sia del piano sintagmatico, ossia della costruzione definitiva della frase, sia del piano paradigmatico, ossia della scelta preliminare delle parole in se stesse e in rapporto al loro campo semantico (v.), nel cui ambito l'autore le ha selezionate. Si prendano come esempio due versi del Pascoli:
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Assonanza
Le tremule foglie dei pioppi / trascorre una gioia leggiera. Il poeta voleva rappresentare il lieve fruscio del vento fra gli alberi. L'idea, ovviamente, poteva essere espressa in numerose maniere. Ma come mai il Pascoli ha scelto questa fra le svariate possibilità offerte dal codice della lingua? Innanzi tutto, occorreva determinare più concretamente le entità dell'idea generale: il vento, gli alberi, il fruscio. Sappiamo che il Pascoli rifugge dalle rappresentazioni generiche della natura, in cui ama cogliere le singole voci, i distinti c individuati aspetti. Non dirà, come il Leopardi, odo augelli far festa, perché l'entità « uccelli » è troppo generica e indistinta; per cui preferirà un'espansione denotativa più marcata, ad esempio: che voli di rondini intorno! Nel caso che ci interessa il campo semantico « albero » costituisce il piano paradigmatico da cui il poeta trae l'unità prefercnziata, ossia pioppi. La visione si determinerà con l'ulteriore scelta di foglie (e non, ad esempio, di « rami » ), e le foglie appariranno connotate dal delicato aggettivo tremule (e non « tremanti » ). Quanto al vento, il Pascoli, per esprimerne il fresco alitare fra le foglie, si è servito di una metafora (v.). Perché ha preferito dire gioia e non « vento »? Si tratta di un esempio di sensazione soggettivata tipica dello stato d'animo pascoliano, alieno dalla rappresentazione oggettiva e distaccata della natura. La tenuità del vento è, anche in questo caso, ulteriormente specificata dall'attributo leggiera. Fra i due poli della frase (foglie-gioia) si è così articolata la scelta espressiva finale: foglie~ foglie dei pioppi~ tremule foglie dei pioppi; gioia~ gioia leggiera. Il verbo che collega i due poli è stato scelto in un campo semantico altrettanto vasto, fra elementi simili come « passare», « sfiorare », « agitare » ecc. Ma trascorre gioca volutamente c sapientementc sulle componenti semantiche della parola, sul prefisso e sul verbo di base, su quel « correre attraverso » che bene si adatta ad esprimere la gioia vitale del vento e nello stesso tempo la delicatezza del fruscio. Al livello della combinazione delle parole nell'unità della frase interviene la libertà stilistica del poeta, che può realizzare in forme diverse l'idea globale. Nel nostro caso il Pascoli si è servito dell'inversione degli elementi rispetto alla disposizione normale (soggetto-predicato-complemento) per rimarcare le connotazioni emotive del verbo e del soggetto, posti in rilievo grazie alla costruzione inversa. L'esemplificazione è tratta da Marchese, in Marchese-Sartori. Il segno il senso, Milano, t 970; cfr. anche Marchese, 1977. Etim.: dal gr. paradeigma = modello, esempio; syntagma = costruzione. ASSONANZA. Figura di carattere morfologico costituita dalla somiglianza di suono fra le ultime sillabe di due parole, quando sono eguali le vocali ma diverse le consonanti (es.: viso-mattino, amore-morte). In senso stretto l'assonanza, sostituendo la rima, si produce fra parole
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Atlante
2'!
poste aJia fine di un verso. Ad esempio, nei versi di Cardarclli: Diste-
sa estate, l stagione dei densi climi l dei grandi mattini l dell'albe senza rumore ... , si ha assonanza propria fra climi e mattini; tuttavia l'assonanza si può avere anche all'interno del verso o fra parole di versi successivi. Nell'esempio riportato l'iterazione vocaliw e-a lega le due prime parole: distesa estate (si osservi anche l 'omofonia steest, che produce una sorta di paronomasia, v.); altre assonanze fra estate e senza e fra stagione e rumore.
ATMOSFERA. Termine abbastanza ambiguo con cui, specie neJia critica impressionistica, si definisce una certa tonalità dominante di un testo, la caratterizzazione sentimentale dei suoi motivi di fondo, l'emozione che esso suscita nel lettore (talora oltre i contenuti espliciti). Così, ad esempio, è indubbio che leggendo Il gelsomino notturno del Pascoli si avverte l'atmosfera di mistero e di trepidazione che circonda la smarrita contemplazione del poeta, in una notte ricca di eventi in apparenza minimi o impercettibili. In realtà, solo una ricognizione più approfondita del testo, di tipo psicanalitico, può esplicitare l'indeterminatezza dell'atmosfera e riconoscere dietro l'occultamento delle immagini l'attrazione fascinosa e repulsiva del sesso. Per un'analisi puntuale rimandiamo a Marchese, 1974, p. 160 sgg.
ATTANTE. Nell'analisi del racconto teorizzata da Greimas, 1969, pp. 211-212, i diversi ruoli ricoperti nei miti c neiie favole da una pressoché infinita serie di personaggi possono essere ridotti a sei categorie sintattiche (attanti), riassunte nel seguente modello: Destinatore Aiutante
.------Il
Oggetto
!1----~~~
-----i~~ SoJetto ,...,____
Destinatario Oppositore
Lo schema è disponibile ai più vari investimenti semant1ci. L'aitJtantc soccorre il soggetto nelle prove che deve superare per conseguire l 'oggetto agognato e ne Ile quali è ostacolato da II 'oppositore; il destinatore pone l'oggetto come termine di desiderio e di comunicazione, mentre il destinatario è colui che ne beneficia. Così, ad esempio, la Divina Commedia, nella sua forma più generale, appare strutturata nelle seguenti funzioni narrative: Dante Soggetto Visione mistica (Salvezza) Oggetto. Dio Destinatore Umanità Destinatario Beatrice, Virgilio Aiutante Oppositore . Forze del male
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Attenuazione
Nella fiaba l'Eroe (Soggetto) è incaricato dal Re o da qualche altro personaggio (Destinatore) di superare determinate prove per poter sposare la Principessa (Oggetto) oppure per impadronirsi dell'Oggetto magico ecc. L'Antieroe (Oppositore) viene vinto grazie all'intervento di un Protettore o amico (Aiutante) e in conclusione il protagonista consegue il suo fine. Si è discusso se uno schema così generale, valido tutt'al più per i racconti stereotipati o codificati, possa essere applicato anche alla narrativa di invenzione. È in ogni modo necessario adattare lo schema di Greimas ai singoli testi, introdurvi delle varianti di tipo processuale, come ha fatto Genot per l'analisi di Pinocchio (v. NARRATIVA, 1).
Per un approfondimento del problema rimandiamo a Marchese, 1974, p. 186 sgg.; Segre, 1974, p. 60 sgg.
ATTENUAZIONE. v.
LITOTE.
ATTORE. Nell'ipotesi attanziale di Greimas l 'attore o personaggio è una concreta e definita realizzazione della funzione sintattica, cioè dell'aitante. Semplificando, si potrebbe dire che mentre l'attante è un ruolo astratto, l'attore ne è una incarnazione particolare in un determinato racconto. Secondo T. De Lauretis, La sintassi del desiderio, Ravenna, 1976. i romanzi di Svevo sono strutturati in sei relazioni fra quattro attanti: l'Eroe, la Donna, l'Antagonista, la Vittima, mentre gli attori o personaggi sono ben più numerosi (ad esempio, l'Antagonista si concreta nelle figure di Macario e Maller, di Balli, di Guido, del padre c dci suoi sostituti). Per ulteriori informazioni si vedano le voci: NARRATIVA. PERSONAGGIO, RACCONTO, ROMANZO.
AULICO. L'aggettivo definisce una scelta stilistica che si rifà a una tradizione illustre, ad esempio al petrarchismo. L'adeguamento a forme auliche può comportare soluzioni manieristiche, retoriche o accademiche; ma può anche costituire una precisa indicazione formale di carattere straniante, come nel linguaggio leopardiano. Certi arcaismi possono denotare un'aulicità ricercata, come il laudata sii della Sera fìesolana di D'Annunzio, che rimanda intenzionalmente al Cantico delle creature di san Francesco in una situazione sentimentale e ideologica affatto diversa. Il linguaggio del Leopardi comporta una sorta di grandiosa strumentalizzazione del materiale arcadico-classicistico ai fini di una moderna poesia filosofica e « metafisica » che esige uno straniamento dalla realtà e la sua immersione in uno spazio vago e indefinito, e perciò stesso universalmente esemplare. L 'aulicità ha, nella poesia leopardiana, una funzione non esornativa ma connotativa. Cfr. Marchese, G. Leopardi, Firenze, 1976. Etim.: dal lat. aula = corte, reggia (linguaggio aulico-cortese, cioè
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Autore
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di poeti che vivono nella corte o si ispirano a ideali di eleganza, raffinatezza, nobiltà ecc.). AURA. Secondo W. Benjamin l'aura è il carattere specifico e ongtnale dell'opera d'arte. Nella cultura di massa l'opera perde la sua aura, l'individualità irripetibile connessa alla civiltà e ai modi di fruizione tipici del tempo in cui è sorta; viene di conseguenza omologata ad altri testi o messaggi, quasi fosse un genere. Cfr. Benjamin, 1966. Etim.: dal lat. aura = aria, atmosfera. AUTORE. In una concezione semiologica della letteratura l'opera viene definita come messaggio inserito in uno specifico processo comunicativo (v. COMUNICAZIONE, 2), che ha come momenti fondanti l'autore e il pubblico, cioè il mittente e il destinatario. Il sistema letterario, con i suoi istituti e i suoi codici, è il luogo della comunicazione del messaggio e della sua decifrazione (v. ANALISI), nella dialettica permanente che attraversa il sistema e il suo rapporto con le serie extraletterarie. In questa prospettiva l 'autore dovrà essere considerato innanzi tutto come mittente a cui riferire le modalità di uno o più messaggi, cioè l'unità e la varietà dei testi. La critica moderna non è tanto interessata alle vicende biografiche dell'individuo storico-autore, quanto piuttosto al costruttore dell'opera o autore implicito, immanente al testo. Per un approfondimento del discorso si veda Corti, 1976, p. 37 sgg.
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BALLATA. La ballata è un componimento poetico, d'origine provenzale, che in Italia compare attorno alla metà del XIII secolo. La sua prima struttura metrica non è fissa (salvo un ritornello di due o più versi), i versi sono vari (dal settenario all'endecasillabo), l'intonazione è spesso popolare, dato che poteva essere anche cantata durante il ballo. Con gli stilnovisti la ballata assume una forma più definita, preferibilmente con soli endecasillabi o settenari oppure con endecasillabi e settenari. La ballata è introdotta da una strofetta di tre versi (ballata mezzana), di quattro versi (ballata grande) o di due versi (ballata minore); più rari altri casi. La strofa introduttiva è detta ritornello o ripresa. Alla ripresa seguiva generalmente una sola stanza (oppure due o tre: ballata replicata), divisa in due piedi e una volta. Esempio:
ripresa
l
Per una ghirlandetta ch'io vidi mi farà sospirare ogni fiore.
I' vidi a voi, donna, portare 1° piede J ghirlandetta di fior gentile,
1
stanza
2° piede
volta
{
l
a b c d e
e sovr'a lei vidi volare un angiolel d'amore umile;
d e
e 'n suo cantar sottile dicea: "Chi mi vedrà lauderà 'l mio signore"
e b c
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(Dante)
Bisticcio
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Dopo gli stilnovisti, la ballata fu ripresa dal Petrarca e dai poeti del Quattrocento, più raramente dai petrarchisti del Cinquecento. Venne talora anche usata da Carducci, Pascoli e D'Annunzio (quest'ultimo se ne servì pure come strofa nell'lsotteo). Diversa è la ballata romantica, introdotta da noi nell'Ottocento dal Berchet e diffusa specie in Germania (Bi.irger, Goethe, Schiller ecc.) e in Inghilterra (Wordsworth, Coleridge, Byron, Shelley, Keats). I nostri romantici preferirono chiamarla romanza. La struttura metrica e strofica è assai varia. Si veda Elwert, 1973, p. 138 sg.
BARBARISMO. È una forma agrammaticale, non consentita dal codice di una lingua in un dato momento storico. Si può considerare barbarismo anche la deformazione di una parola, nella pronuncia o nel lessico, operata da uno straniero. Interessa rilevare, in sede di analisi stilistica, il valore espressivo e talora espressionistico di certe forme, che potrebbero essere considerate dei barbarismi, introdotte a scopi mimetici-colloquiali, come i termini itala-americani usati dal Pascoli in « Italy » (Primi poemetti): « joe, bona cianza!. .. ». « Ghita, state bene!. .. » l « Good bye ». « L'avete presa la ticchetta? ». Sono da sottolineare, oltre gli inserti inglesi, le mescolanze del tipo « cianza » ( = fortuna, chance), « ticchetta » ( = biglietto, ticket), che caratterizzano alcuni aspetti interessanti dello sperimentalismo linguistico pascoliano. BEST-SELLER. Libro di successo, che raggiunge un'alta (e talvolta insperata) diffusione nazionale e internazionale. Entrano in gioco, nella promozione dei best-seller, gli interessi e i meccanismi dell'industria culturale (sondaggio del mercato, « orizzonte d'attesa » del pubblico, condizioni storiche particolari, efficacia dell'informazione ecc.). Al riguardo sono interessanti le analisi sociologiche di Escarpit, 1970 e in AA.VV., 1972 a. BISILLABO. Verso di due sole sillabe, per Io più intercalato fra versi più lunghi, raramente usato da solo. Es.: Dietro l qualche l vetro, l qualche l viso l bianco, l qualche l viso l stanco, l qualche l gesto l lesto ... (Cesareo). II poeta vuole ottenere, attraverso una sorta di climax ternaria - cioè con sintagmi di tre parole -, un effetto di armonia imitativa. Diversa la spezzatura del primo Ungaretti, che ha alle spalle le esperienze futuriste: Lasciatemi così l come una l cosa l posata l in un l angolo l e dimenticata. BISTICCIO. Gioco di parole ottenuto attraverso l'accostamento di termini fonicamente affini ma di diverso significato. L'artificio è soprattutto usato in posizione di rima: aurora: l'aura ora, l'ora: allora (Petrarca). Il bisticcio non deve essere confuso con la consonanza o paro-
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Brachilogìa
nomasia (v.), come ad esempio: sedendo e mirando (Leopardi), d'uso più ampio e vario. BRACHILOGìA. La brachilogia è una forma di ellissi (v.) consisten-
te nell'eliminazione di elementi comuni in due o pitt proposizioni. Es.: Il cielo comincia a rannuvolarsi, il vento a soffiare, il mare ad ingrossarsi. Etim.: dal gr. brachys = breve, logos = discorso. BUCOLICA. Componimento d'ambientazione pastorale, ascendenza classica. (V. EGLOGA, GENERI LETTERARI). Etim.: dal gr. boukolik6s = pastorale.
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d'antica
CACOFONIA. Ripetizione di suoni d'effetto sgradevole, come ad esempio: tra tre treni, col collo, ma m'ama? Talora la cacofonia è una forte rimarcatura allitterante, con effetti ironici, parodistici o espressionistici: Le cade a pennecchi di capo il capecchio (Palazzeschi). Etim.: dal gr. kak6s = brutto, phoné = suono. CALEMBOUR. È un gioco di parole fondato sull'equivoco fonico o semantico o sul doppio senso di un termine. Particolarmente attivo nel linguaggio pubblicitario. Es.: Le mogli che amano i mariti li cambiano spesso (cambiare i mariti-cambiare loro gli abiti). Nel discorso letterario V. BISTICCIO, PARONOMASIA, METALINGUAGGIO. CAMPO. Il campo è un insieme strutturato di elementi. In linguistica è particolarmente importante il campo semantico, costituito dalle unità lessicali che denotano un insieme di concetti inclusi in un concettoetichetta: ad esempio il campo concettuale della bellezza (Mounin, 1974, p. 65). Per individuare la struttura di un campo semantico occorre scomporre ogni lessema in tratti semantici generali (o semi, v.). Ad esempio, l'insieme dei lessemi inclusi in bovino domestico, cioè toro, vitello, bue, manzo, mucca, giovenca, è strutturabile secondo i seguenti tratti semantici: « maschile-femminile », « adulto-giovane », « atto alla procreazione-non atto alla procreazione » (Berruto, 1974, p. 76). Il Guiraud, 1969, p. 85 sgg ha introdotto il concetto di campo stilistico, formato dalle strutture semantiche di un'opera (o di più opere) evidenziate dal rapporto contestuale che determina il senso di alcune parole-chiave. Si pensi al termine cortesia nella lirica stilnovistica: il campo stilistico sarà costituito da tutti quei termini che contestualmente lo connotano (ad esempio, gentile, soave ecc.). (v. anche ONOMASIOLOGIA).
Per un approfondimento sistematico si veda Berruto, 1975, p. 69 sgg.
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Canale
CANALE. Mezzo attraverso il quale sono trasmessi i messaggi nel processo comunicativo. v. COMUNICAZIONE. CANZONE. È la forma più illustre di componimento lirico. I poeti siciliani ripresero il modello della cansò provcnzale, che venne successivamente trasformato dagli stilnovisti per assumere una struttura definitiva ed esemplare col Petrarca. l. La canzone classica. La canzone classica consta di cinque o più strofe o stanze. La stanza è composta da due elementi, la fronte e la sìrima (o sirma). La fronte si divide in due piedi; la sìrima può essere unica o divisa in due parti eguali, dette vqlte. Piedi e volte, normalmente di tre o quattro versi, devono ripetersi con la stessa struttura; i metri usati sono l'endecasillabo e il settenario; le stanze hanno rime diverse. La sìrima è legata alla fronte con un verso che ripete la rima dell'ultimo verso della fronte. Questo verso, detto chiave, può restare isolato (è la forma preferita dal Petrarca) o rimare una o due volte nella sìrima. Diamo un esempio di stanza petrarchesca: 1° piede fronte 2° piede chiave l a volta sì rima 2a volta
l l l
Di pensier in pensier, di monte in monte mi guida Amor; ch'ogni segnato calle provo contrario alla tranquilla vita.
A
Se 'n solitaria piaggia rivo o fonte, se fra due poggi siede ombrosa valle, ivi s'acqueta l'alma sbigottita;
A
e, come Amor l 'invita,
B
c
c
or ride or piange, or teme or s'assecura, e 'l volto che lei segue ov'ella il mena, si turba e rasserena,
D E e
et in un esser picciol tempo dura;
D
J onde a la vista uom di tal vita esperto
l
B
c
dirìa: « Questo arde, e di suo stato [incerto ».
F F
L'Elwert preferisce chiamare la chiave concatenazione. Normalmente la sìrima è più lunga della fronte; la struttura metrica, come nell'esempio riportato, predilige quattro versi a rima incrociata (DEeD) e due a rima baciata (FF). La canzone può essere chiusa da una stanza più breve detta commiato o congedo. II commiato della citata canzone del Petrarca è il seguente: Canzon, altra quell'alpe, là dove il ciel è più sereno e lieto, mi rivedrai sovr'un ruscel corrente, ave l'aura si sente
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a B C c
Canzonetta
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d'un fresco et odorifero laureto; B ivi è 'l mio cor, e quella che 'l m'invola: D qui veder puoi l 'imagine mia sola. D Il commiato può avere una struttura assai varia: può corrispondere all'ultima stanza della canzone, alla sìrima, a parte della sìrima, alla sìrima con alcuni versi della fronte. Nel caso citato, il commiato corrisponde alla sìrima compresa la chiave. Per altre considerazioni si rimanda a Elwert, 1973, p. 121 sgg. 2. L'evolversi della canzone. Mentre la tradizione petrarchesca continua il modello classico della canzone, dai rimatori del Cinquecento sino ai romantici, altre tendenze sperimentali introducono varie innovazioni per articolare in modo più libero sia le strofe sia i rapporti fra le strofe. Notevoli le variazioni del Baiardo, che preferisce terzine e quartine attenuando lo stacco fra fronte e sìrima. Esempio: Ancor dentro dal cor: ABbC l BCcA- ADE l EDE l DFG l FgG. In Annibai Caro viene a cadere la separazione fra piedi e volte. Es.: Manca il fior: AbCCBDEDBEeDCAA. Questa innovazione è ripresa dal Chiabrera, dal Testi e dal Filicaia. Il Guidi variò anche la lunghezza delle strofe. Fra le forme nuove della canzone è da ricordare la canzone o ode pindarica, usata a partire dal XVI secolo dal Trissino, dall'Alamanni e da altri. Si imita l'ode di Pindaro riprendendo la tripartizione in strofe, antistrofe ed epodo. L'Aiamanni impiega tre stanze petrarchesche, con rime eguali per la strofe e l'antistrofe e una prevalenza dei settenari sugli endecasillabi. Il Chiabrera segue in parte lo schema tripartito, alleggerendolo con strofe brevi e con metri vari (prevalentemente settenari); ma la sua innovazione più importante è la canzonetta (v.). 3. La canzone libera. La forma più moderna della canzone è quella leopardiana, che pur riprendendo alcune indicazioni del Guidi si sviluppa autonomamente. In un primo tempo il Leopardi conserva la struttura tradizionale, cioè le strofe di eguale lunghezza anche se le rime e i versi (endecasillabi e settenari) non corrispondono in modo identico di stanza in stanza (es.: All'Italia). Successivamente nasce il « canto » vero e proprio, cioè una canzone dalla metrica liberissima e in versi praticamente sciolti, dove le rime non hanno collocazione rigida. Così, mentre Alla sua donna è composta di cinque strofe a rima libera (vi sono sempre tre versi non rimati e la rima baciata negli endecasillabi finali di ogni strofa), Il passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio ecc. hanno strofe di varia lunghezza, con versi liberamente alternati e rimati. CANZONETTA. Il Chiabrera, riprendendo l'imitazione di Anacreonte operata da Ronsard e dai poeti della Pléiade, introdusse un tipo particolare di ode, detto canzonetta perché destinata al canto e perch~ si ricollegava alla ballata popolare del Quattrocento, anch'essa cantabile.
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Capitolo
La canzonetta del Chiabrera (canzonetta melica o anacreontica) è formata da versi molto vari, preferibilmente corti, da strofe anch'esse brevi, ed ha un andamento ritmico mosso, favorito da versi tronchi e sdruccioli. Esempi: Belle rose porporine, l che tra spine l sull'aurora non aprite, l ma ministre degli Amori l bei tesori l di bei denti custodite: La strofa è composta di sei versi ottonari e quaternari: A-aB-C-c-B. La violetta, l che in sull'erbetta l s'apre al mattin novella l di', non è cosa l tutta odorosa, l tutta leggiadra e bella? La strofa di sei versi quinari e settenari ha il seguente schema: a-a-B-c-c-B. La canzonetta ebbe largo seguito nella lirica del Seicento e del Settecento sino al Parini, che si servì di tale composizione (con varianti già in parte del Frugoni, come le coppie simmetriche di strofe) per le sue odi di argomento elevato. Dalla forma della canzonetta e dall'ode pariniana derivano le odi e gli inni dell'Ottocento, dal Monti al Foscolo al Manzo n i e al Carducci.
CAPITOLO. In origine il capitolo era un componimento formato da una serie di terzine, chiuse da un verso che rimava con quello intermedio dell'ultima terzina (schema: ABA-B). I Trionfi del Petrarca constano di sei quadri e di diversi capitoli. D'argomento in prevalenza eticopolitico (anche perché la terzina era il metro del serventese, v.), il capitolo fu usato dal Tebaldeo e dal Cariteo, alla fine del Cinquecento, per temi amorosi e dal Berni per la poesia burlesca (capitolo bernesco). ~ un topos retorico, che di solito compare nell'esordio di una composizione (dall'orazione al poema epico, dalla poesia didascalica alle varie forme d'arte di intrattenimento ecc.), con cui l'autore cerca di suscitare un atteggiamento benevolo da parte del lettore. È facile incontrare la captatio benevolentiae nella letteratura encomiastica, spesso nelle dediche. Si ricordi la ter- · za ottava dell'Orlando Furioso, in cui l'Ariosto si rivolge al cardinale lppolito d'Este, figlio di Ercole I: Piacciavi, generosa Erculea prole, l ornamento e splendor del secol nostro, l lppolito, aggradir questo che vuole l e darvi sol può l'umil servo vostro ... Una sorta di captatio benevolentiae è alla fine di molte commedie goldoniane e dei Promessi sposi: La quale ( = storia), se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta. e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta. Etim.: dal lat. captatio benevolentiae = richiesta di benevola comprensione.
CAPTATIO BENEVOLENTIAE.
CARATTERIZZAZIONE. La caratterizzazione è, in senso generale, il procedimento critico con cui si definisce la fisionomia distintiva di un testo o di un tema o di un personaggio. Nel romanzo, specie otto-
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Cesura
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centesco, ha una particolare importanza la caratterizzazione dei personaggi e dell'ambiente (V. PERSONAGGIO). La descriptio (v. DESCRIZIONE) può essere diretta, mediata da altri personaggi o filtrata attraverso il racconto (si pensi alla differenza tra I promessi sposi e I Malavoglia). Nella critica crociana la caratterizzazione è una fase del giudizio estetico: la determinazione del carattere di un'opera non riguarda l 'espressione ma il contenuto o motivo fondamentale, che viene riferito a una data classe o tipo psicologico, mediante una formula.
CATACRÈSI. Metafora d'uso corrente, non più avvertita in quanto tale. Il traslato, cioè l'estensione di senso, colma infatti una lacuna semantica, la mancanza di una parola specifica. Ad esempio, sono catacresi i sintagmi collo della bottiglia, piede del tavolino, lingua di fuoco, denti della sega. I termini « collo », « piede », « lingua », « denti » hanno una estensione metaforica ormai riassorbita nello s~andard della lingua di comunicazione. Etim.: dal gr. katdchresis = abuso.
CATALÈTTICO. Verso che, per il fenomeno della catalessi, manca di una o due sillabe nell'ultimo metro o piede. Il fenomeno è tipico della poesia greco-latina; si ripropone nella cosiddetta « metrica barbara » (v.), che cerca di riprodurre col ritmo italiano i versi classici quantitativi. L'Elwert (1973, p. 203) riporta come catalettici i seguenti versi dannunziani: o falce d'argento, qual messe di sogni l ondeggia al tuo mite chiarore qua giù. Lo schema imitato è il tetrametro dattilico (cioè quattro piedi dattilici _...., ....,, v. ACCENTO), ma sogni presenta catalessi di una sillaba, giù di due. Etim.: dal gr. katdlexis = cessazione, mancanza.
CATARSI. Secondo Aristotele è la purificazione delle passioni prodotta nel destinatario dalla poesia e specialmente dalla tragedia. Etim.: dal gr. kathairein = purificare.
CESURA. Accanto alla pausa primaria, a fine verso, si dà una pausa metrica secG)ndaria ali 'interno del verso che è detta cesura. Particolarmente importa_nte è la cesura neiÌa scansione dell'endecasillabo (ossia nell'individuazione della struttura metrico-ritmica del verso) per i fenomeni di accentazione metrica che possono deviare dalla comune accentazione tonica (v. ACCENTO). Sull'argòmento si veda Di Girolamo, 1976, p. 20 sgg. che riporta i seguenti esempi danteschi: In forma dunque l di candida rosa In questo endecasillabo si hanno quattro accenti ben marcati sulla 2a, 4a, 7a, 10a e la cesura dopo la quinta sillaba. che diedi al re giovane i ma' conforti
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Chiasmo
Qui l'accento metrico su re e la cesura (anche minima) successiva spezzano il sintagma re l giovane. Quel che jé poi ch'e/li uscì di Ravenna Anche qui la cesura spezza il sintagma poi l ch' (l'accento batte su poi, mentre jé viene sfumato). Etim.: dal lat. caesura = taglio. CHIASMO. È una figura di tipo sintattico che consiste nella disposizione incrociata degli elementi costitutivi di due sintagmi o di due proposizioni fra loro collegati. Es.: Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori (Ariosto); il rapporto fra i primi due termini (Le donne: A; i cavalier: B) è ripreso e rovesciato negli altri due (l'arme: B'; gli amori: A'). Un altro esempio analogo è nell'endecasillabo dantesco Ovidio è il terzo e l'ultimo è Lucano. Com'è evidente, il chiasmo rompe il comune parallelismo semantico-sintattico. Più complesso è il cosiddetto chiasmo grande (Lausberg, 1969, p. 214 sgg.), basato sull'incrocio di proposizioni, secondo il famoso modello latino: edere oportet ut vi vas, non vivere ut edas ( = bisogna mangiare per vivere, non vivere per mangiare). (v. ANTIMETATESI). Si veda la sottile rete di rapporti evidenziata dal chiasmo nei versi di Montale: Trema un ricordo nel ricolmo secchia, l nel puro cerchio un'immagine ride, dove, tra l'altro, le parole-chiave secchia-cerchio sono legate da una quasi-rima. Etim.: dalla lettera greca chi (X), a forma di croce. CHIAVE. Verso che unisce la siri ma alla fronte della canzone (v.). CIRCONLOCUZIONE. È una figura che consiste nell'indicare una persona o una cosa indirettamente, attraverso un giro di parole. Es.: Colui che governa ogni cosa ( = Dio); La gloria di colui che tutto muove (Dante); il bel paese là dove 'l sì suona ( = l'Italia; Dante). La circonlocuzione è detta anche perìfrasi. Sembra poco plausibile la distinzione del Morier, 1975, p. 196 fra i due termini: la circonlocuzione intenderebbe evitare {( un punto delicato », aggirando una difficoltà; la perifrasi si userebbe per evitare un'espressione volgare o come ornamento stilistico. Si potrebbe invece considerare come una variante circonlocutoria, particolarmente efficace, il discorso ambiguo, sospeso, allusivo (v. RE· TICENZA), a larghi giri con cui si lascia intendere all'interlocutore un fatto, un personaggio, un giudizio. È il caso del conte zio nel colloquio col provinciale dei cappuccini nei Promessi Sposi: Mi dica un poco vo-
stra paternità, schiettamente, da buon amico ... questo soggetto ... questo padre ... Di persona io non lo conosco; e sì che di padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d'oro, zelanti, prudenti, umili; sono stato amico dell'ordine fin da ragazzo ... Ma in tutte le famiglie un po' numerose... c'è sempre qualche individuo, qualche testa ... E questo
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Classe
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padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo ... un po' amico dei contrasti ... che non ha tutta quella prudenza, tutti quei riguardi ... L'abilità del Manzoni consiste nella caratterizzazione del personaggio attraverso il linguaggio, untuoso e circospetto, insinuante e velatamente minaccioso: le frasi sospese, le riprese correttive (« questo soggetto ... questo padre » ), le pause rientrano nei modi tipici del « politico», latamente circonlocutori. Etim.: dal lat. circumlocutio = discorso attorno; dal gr. periphrasis, con lo stesso significato. CIRCOSTANZIALE. Si dicono circostanziali i complementi o espansioni che indicano le circostanze in cui si realizza un'azione (tempo, luogo, modo, causa, fine ecc.). Es.: nella frase Luigi è tornato da Roma, il sintagma preposizionale da Roma è un circostanziale di luogo. Tali elementi si dicono anche circostanti (vi rientrano pure certi avverbi: ad esempio, nella frase Luigi verrà domani, domani è un circostante di tempo). Si veda Dubois, 1973, p. 86. CITAZIONE. È la ripresa, esplicita o dissimulata, di una parola o di una frase di un testo in un altro testo di un diverso autore. Se si considera la letteratura come un sistema in cui le opere assumono un valore individuato dal loro reciproco rapporto, la citazione risulta un caso palese di intertestualità (v.), rivelando il nesso fra l'autore citante e quello citato. Tale rapporto può avere varie connotazioni: può indicare la volontà di adeguarsi a una tradizione ideologico-culturale o letteraria oppure può connotare intenti parodistici, ironici e satirici, come nel caso del famoso verso di T. Mamiani inserito nella Ginestra del Leopardi: le magnifiche sorti e progressive. Nel Mercoledì delle ceneri di Eliot le citazioni da Dante e dalla poesia stilnovistica alludono a una temperie culturale e religiosa particolarmente cara all'autore: Perch'i' non spero più di ritornare l perch'i' non spero ... (con un aperto richiamo alla ballata dell'esilio di Cavalcanti). Normalmente la citazione ha come effetto stilistico la transcodificazione (v.), perché l'elemento recepito nel testo assume una funzione e un valore nuovi e diversi rispetto al testo immissario. Si rientra, per questo aspetto, nel problema della intertestualità letteraria (v.). Ad esempio, nei versi di Sbarbaro: La vicenda di gioia e di dolore l non ci tocca. Perduto ha la voce l la sirena del mondo, e il mondo è un grande l deserto; la citazione dannunziana la sirena del mondo viene ideologicamente ribaltata e assunta come emblema di un mito vitalistico mistificlmte e senza senso. Per un'analisi dei rapporti fra D'Annunzio e Montale (nell'ambito del discorso qui accennato sull'intertestualità) si rimanda a Marchese, 1977. CLASSE. Insieme di elementi linguistici con una o più proprietà in
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Clàusola
comune. Il concetto ha diverse applicazioni teoriche: sostituisce, come classe di parole, le parti del discorso quando le unità sono distribuite in modo analogo nella struttura della frase (es.: la classe dei determinanti rispetto a quella dei nomi); si rapporta, in semantica, alla categoria di campo (v.) per individuare le tassinomie di determinati elementi. Ad es.: nel campo semantico della parentela, genitore appartiene a una classe più ampia di quella del termine padre: il primo è iperonimo rispetto al secondo, che è iponimo (v. IPONIMÌA). CLÀUSOLA. Nella metrica classica la clausola era una particolare chiusura ritmica di una frase o di un membro di frase. Le clausulae sono composte dai piedi tradizionali: lo spondeo (- -), il trocheo (-....,),il doppio trocheo o dicoreo (_....,_._,),il dattilo(_....,....,), il eretico(_._,_), il pèone primo(_....,....,....,). Il Lausberg, 1969, p. 257, espone dettagliatamente i più frequenti tipi di clausola che si originano dall'incontro dei piedi (es.: spondeo + dicoreo; eretico + corea (trocheo); peone + trocheo: esse videatur). Nella tarda latinità, perduto il senso quantitativo delle sillabe, dalla clausola si passò al cursus, cioè alla collocazione ritmica delle due ultime parole di una frase. Si distinguono quattro tipi di cursus medievale: a) il cursus planus: esempi di Dante: cogitati6ne metiri; siamo suggétti ( ... 'x/x' x); b) il cursus velox: esempi di Dante: consilia respondémus; desideran{o) di sapére ( ... 'xx/xx' x); c) il cursus tardus: esempi di Dante: prodésse tentabimus; parte dell'anima ( ... 'x/x' xx); d) il cursus trispondiacus: es.: ésse videatur (peone + trocheo). Oggi per clausola si intende semplicemente l'elemento finale di un verso o di un enunciato. Etim.: dal lat. claudere = chiudere. CLICHÉ. Il cliché è un sintagma o un fatto espressivo divenuto banale e codificato per la frequenza del suo impiego. Esempi: l'aurora dalle dita di rosa, l'astro della notte (cfr. Dubois, 1973, p. 91). Il cliché è all'origine uno stereotipo (v.), un'espressione che, per usura di impiego, perde ogni rilevanza e si automatizza. Il fenomeno è tipico, ad esempio, dell'epica classica (cuore di ferro, dalle bianche braccia ecc.). Sono dei clichés le parole-tandem di tipo giornalistico o pubblicitario: un dramma della miseria, il fascino irresistibile ecc. CLIMAX. Progressione ritmica ascendente. v. ANTICLIMAX. Etim.: dal gr. klimax = scala (il termine è femminile, per quanto sia usato di solito al maschile). CODA. Prolungamento di una composizione, in particolare del sonetto cosiddetto caudato, che comprende una o più terzine dopo il quattordicesimo verso. La coda è formata da un settenario e da due
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Codice
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endecasillabi. Il sonetto a più code, usato soprattutto nella poesia burlesca dal Berni in poi, fu detto sonettessa. CODICE. Abbiamo definito il codice (v. COMUNICAZIONE, l) un insieme di segnali e di regole inerenti al sistema di questi segnali. Nello schema di Jakobson (v. LINGUAGGIO, 1) il codice è un fattore della comunicazione necessario alla produzione e all'interpretazione del messaggio. In questo senso, l'opposizione saussuriana langue-parole è riespressa, nei termini della teoria della comunicazione, nella coppia codice-messaggio. I codici possono essere diversi, a seconda del tipo di segnali (o segni o simboli) che si organizzano in un sistema retto da certe costrizioni. Il codice linguistico e quello grafico, ad esempio, sono formati da segni sonori e scritti; i segnali marittimi e quelli stradaIi sono correlati a specifici codici gestuali o visivi (si pensi ai movimenti delle braccia di chi agita delle bandiere navali per comunicare a distanza un certo messaggio, ai gesti di un vigile, ai colori del semaforo). Naturalmente, questi aspetti generali e comuni dei codici non eliminano le differenze e le specificità che esistono fra i codici in rapporto al tipo dei segnali usati. II codice verbale si differenzia dal codice degli scacchi o da quello stradale per il valore specifico dei segni (l'intenzionali tà dell'uso dei segni e le qualità secondarie del messaggio verbale). A questo riguardo, rimandiamo il lettore alle voci SEGNO e SEMIOLOGIA, per i problemi abbastanza complessi proposti da una tipologia dei segni. Insieme con codice e messaggio, hanno acquisito diritto di cittadinanza in linguistica termini cop1e codificare, decodificare, codifica, decodifica, emittente, ricevente, fonte, destinazione ecc. Emittente e ricevente (o fonte e destinazione) sono rispettivamente gli equivalenti di parlante e uditore; codifica (codificare) e deco.difica (decodificare) corrispondono rispettivamente ai processi di produzione e di interpretazione degli enunciati; in questo senso codificare un messaggio non è altro che una maniera più o meno dotta di dire « produrre o costruire un enunciato» {Martinet, 1972, p. 173). Secondo Dubois ( 1973, p. 92), la codificazione sarebbe il processo attraverso cui la sostanza di un messaggio assume una nuova forma, passando, ad esempio, attraverso il codice della scrittura, da messaggio grafìco a messaggio acustico. La forma codificata, che non subisce alcuna trasformazione di senso, è trasmessa attraverso il canale al destinatario (o ricevente o decodificatore), il quale opera la decodificazione del messag_gio, ossia assegna un senso alla forma codificata (v. COMUNICAZIONE). E ovvio che il codice deve essere un sistema convenzionale esplicito, per poter permettere il processo di codificazione e decodificazione. Talora il messaggio codificato (ad esempio, le pesche sono mature) rimanda a un secondo codice metalinguistico, eventualmente segreto,
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Codice
che permetterà l'esatta decodificazione del testo: nel nostro caso, « fate saltare il ponte » (Martinet, ibid.). Potremmo parlare, in questo caso, di decifrazione o di transcodifìcazione, perché i segni rinviano a due o più codici compresenti, il primo linguistico-referenziale (le pesche), l'altro connotativo (le pesche al posto dei ponti). l. I codici e la letteratura. La comunicazione letteraria (v. COMUNICAZIONE, 2) implica una diversa valenza dei segni, più complessi rispetto a quelli linguistici (ambiguità, connotazione), e dunque on diverso funzionamento del codice. Se si ammette che il testo o messaggio letterario è soprattutto scrittura, ossia una complessa elaborazione stilistica che assume il suo valore distintivo in relazione-opposizione ad altre opere nell'ambito del generale sistema letterario, sarà possibile individuare quegli istituti letterari (ad esempio i generi) rispetto ai quali l'opera si rapporta come a un codice (o sottocodice) sia tematico sia formale. Si può dire, con M. Corti, che « la letteratura, vista in prospettiva semiologica, si presenta come un sistema in cui coesistono e interagiscono molteplici istituti e generi letterari, in ciascuno dei quali lentamente si attua una codifìcazione al punto di incontro dei vari livelli a cui il genere si costituisce, ideologico-tematici e formali » (Corti, Aspetti nuovi della prosa letteraria in prospettiva semiologica, in AA. VV. Storia linguistica dell'Italia del Novecento, Roma, 1973, pp. 9394). Un genere letterario come codice è individuato da una tematica (codice simbolico) e da un linguaggio connotativo (scrittura o codice stilistico); la codificazione avviene, nell'ambito di un genere, a vari livelli, sia sul piano dei contenuti sia su quello formale. Studiando l'evoluzione del codice bucolico in rapporto all'Arcadia del Sannazaro, la Corti ha mostrato che nel Quattrocento il genere subisce un'evoluzione, perché pur permanendo alcuni elementi tipologici del codice simbolico (l'Eden arcadico con i vari personaggi canonici) mutano il significato e la simbologia di tali presenze, ormai strettamente legate a un mondo cortigiano e umanistico (cfr. Corti, 1969). La scrittura letteraria, in quanto operazione culturale, rinvia a una pluralità di codici che hanno una loro omogeneità e coerenza sistematica. Ogni scrittore, e soprattutto il grande scrittore, ha una sua Weltanschauung che trasvaluta criticamente, fantasticamente, utopicamente il mondo storico-culturale in cui pur si radica il suo messaggio. Il sistema letterario ha una sua diacronia, sia perché ogni messaggio umano è storico sia perché le connotazioni letterarie richiedono una comprensione sottile e complessa, veicolando una trama di allusioni e di rimandi decifrabili nel contesto di particolari codici. Le visioni della vita, le tipologie culturali, i modelli assiologici e pragmatici costituiscono un primo grande codice di riferimento, specificabile eventualmente in determinati sottocodici: è la « serie» storico-culturale che forma
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Commedia
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la filigrana del messaggio letterario, lo situa esistenzialmente, per così dire, in quell'oceano di segni che attraversa il corso della civiltà. La scrittura letteraria riverbera anche altri codici più interni alle sue operazioni propriamente formali. Si pensi alle sistemazioni normative della metrica e della prosodia, agli espedienti espressi vi della retorica. agli istituti tematico-stilistici dei generi. Lo stile di un'opera può, in questa prospettiva, essere concepito come una trasvalutazione di elementi codificati: quanto più densa e significativa sarà questa trasvalutazione, tanto più originale apparirà la forma dell'espressione dell'opera. Per un approfondimento rimandiamo a Marchese, 1974 e 1976; Corti 1976 (in particolare il cap. V); AA.VV., 1976a (voci formalismo, generi letterari); Todorov, 1971. CODIFICA. Sinonimo di codificazione o di codificare: produzione di un messaggio attraverso un codice. v. CODICE. COMBINAZIONE. È il processo di formazione dell'enunciato sull'asse sintagmatico del linguaggio attraverso la correlazione delle unità utilizzate (v. ASSI DEL LINGUAGGIO). La funzione combinatoria è la possibilità degli elementi linguistici di associarsi per formare dei gruppi di livello superiore: la combinatoria dei fonemi porta ai monemi, quella dei monemi ai sintagmi e così via sino alle frasi e al discorso. Per un approfondimento della combinatoria semantica si veda Ducrot-Todorov, 1972, p. 291 sgg. COMMEDIA. Secondo Aristotele « la commedia è imitazione di persone più volgari dell'ordinario; non però volgari di qualsivoglia specie di bruttezza o fisica o morale, bensì di quella sola specie che è il ridicolo, perché il ridicolo è una partizione speCiale del brutto » (Poetica, 1449a, 30-34, tr. Valgimigli). Mentre Platone condanna il comico come rappresentazione dell'uomo ridicolmente presuntuoso, Aristotele ne recupera l'aspetto ironico mediante il quale anche il brutto viene ricondotto a una sorta di catarsi. Nell'antichità era delegata alla commedia e allo stile comico la descrizione, intellettualisticamente deformata, degli aspetti concreti e risibili della vita quotidiana, come ha dimostrato I'Auerbach .. Per la legge della separazione degli stili, << tutta la bassa realtà, tutto quello che è quotidiano, dev'esser rappresentato solo comicamente, senza approfondimento problematico. In tal modo si pongono al realismo dei limiti molto ristretti, e, prendendo la parola realismo in un senso più preciso, si deve dire che allora non furon considerati seriamente nella letteratura le professioni e le condizioni ordinarie - mercanti, artigiani, contadini, schiavi -, la scena d'ogni giorno - casa, officina bottega, campo -, la vita solita - famiglia, lavoro, pranzo e cena -: in breve, il popolo e la sua vita ... Per la lette-
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Commedia
ratura realistica antica, la società non esiste come problema storico, ma tutt'al più come problema moralistico, e inoltre il moralismo si rivolge più all'individuo che alla società. La critica dei vizi e delle aberrazioni, anche mostrando abiette e ridicole un gran numero di persone, pone sempre il problema come problema d'individui, cosicché la critica della società non porta mai alla scoperta delle forze che la muovono» (Mimesis, 1956, I, p. 38 sgg.). Si spiega come alla corrente aristotelica, a partire da Teofrasto, si rifacciano le descrizioni dei « caratteri » individuali, spunti imprescindibili per la raffigurazione del comico. Secondo l'Auerbach, solo gli scrittori cristiani, prendendo come modello la Bibbia, ruppero la rigida tripartizione degli stili (v. STILE), elevando il quotidiano ad una dignità sconosciuta agli antichi e recuperandone l'autentico valore realistico. In Dante si ha una potente mescolanza di comico-realistico, di elegiaco e di tragico-sublime, a seconda delle esigenze espressive e morali del tema (per cui non stupisce il violento « porco sant'Antonio » in bocca a Beatrice nel Paradiso). Non va dimenticata l'importanza del carnevale nell'individuazione delle fonti antiche del comico, come ha mostrato il Bachtin. Nel carnevale la realtà viene sottoposta a una dissacrazione eversiva, il mondo è rappresentato alla rovescia. le gerarchie ribaltate; il comico si unisce alla satira e alla parodia, convogliando nella farsa popolare una più autentica attenzione alla vita dei ceti umili. Alla luce di questi presupposti, si può comprendere come la commedia sia particolarmente connessa alla realtà sociale e politica, così da subirne forti condizionamenti nella sua evoluzione letteraria. La società di corte, che si afferma nel Rinascimento, considera la commedia come un divertente intrattenimento (si pensi alla riesumazione del teatro latino fatta dall'Ariosto con la Cassaria c le altre commedie), anche quando, come nel caso delle rappresentazioni rusticane della congrega senese dei Rozzi o delle commedie ben più valide del Ruzzante, il protagonista contadino non è più (esclusivamente) oggetto di riso da parte di un pubblico colto, ma diventa un emblema significativo di una condizione storica degradata dalla miseria, dalle continue guerre, dali 'ignoranza. Parallelamente alla commedia letteraria (e tale è anche la Mandragola del Machiavelli, dietro il cui riso v'è un acre risentimento politico e morale), si va affermando la farsa rustica dialettale (ricordiamo gli anonimi mariazi veneti) e la cosiddetta commedia dell'arte, con le sue maschere fisse - Arlecchino, Brighella, PantaIone, Pulcinella ecc. - e la grande varietà e inventività delle trame, affidate all'estro degli attori. La commedia dell'arte riprendeva in termini parodistici problemi e personaggi delia vita del tempo, spesso con una più o meno celata carica polemica: ad esempio, il « dottore» bolognese, il « mercante » veneziano, i « servi », cioè gli zamzi (in origine contadini, e come tali oggetto della tradizionale satira cittadina: bergamaschi sono gli zanni Brighella e Arlecchino, acerrano è Pulci-
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Commedia
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nella). Col Goldoni le vecchie maschere vengono adattate alla nuova situazione economico-politica e assumono una fisionomia sociale più determinata. Ciò comporta la scomparsa dì alcuni tipi (ad esempio il « capitano ») e la trasformazione di altri, come il Dottore e Pantalone, in personaggi più « morali » anche se, per certi aspetti, ridicoli. Pantalone non è più il vecchio lascivo e avido, ma un mercante rispettabile, buon padre di famiglia, degno rappresentante della più sana borghesia veneta. Così lo zanna, tanghero astuto, truffatore e manigoldo, diventa il vivace e spiritoso Arlecchino, la cui comicità è prevalentemente mimica e verbale. Dalla maschera il Goldoni passa al carattere, inventando la commedia moderna, con una mirabile fusione di trama, di ambiente e di personaggi. All'evoluzione del genere comico contribuiscono svariati fattori sia interni, cioè inerenti al sistema letterario - come il linguaggio, i meccanismi convenzionali (lo scambio di persone, il ritrovamento ecc.), i tipi fissi, la divisione in scene e atti -, sia esterni, soprattutto storico-culturali. L'idea stessa di comicità cambia c si complica: l'ironia romantica, il senso del ludico, il riso bergsoniano convergono in un atteggiamento più complesso dello scrittore, che richiede allo spettatore una comprensione più profonda e umana degli avvenimenti. Così l'ironia sottolinea il senso del limite, l'inevitabilità dei contrasti, il riso è il riconoscimento di un'imperfezione che va superata, l'umorismo piega il comico all'elegiaco, al patetico-crepuscolare o, in Pirandello, all'emergere del « sentimento del contrario ». La commedia diventa dramma borghese, superando le tradizionali intenzionalità del « lieto fine » o de Il 'in trattenimento piacevole ed evasivo. Nella pièce contemporanea (si pensi al teatro dell'assurdo di un Beckett) i generi istituzionali, la commedia e la tragedia con le relative codificazioni tematico-stilistiche, si fondono e si mescolano con esiti inediti e talora sconvolgenti. Né va dimenticata, anche in un veloce profilo, la fecondità geniale della teoria brechtiana dello « straniamento », che ha potentemente contribuito al rinnovamento dell'azione teatrale (v. STRANIAMENTO, TEATRO, TRAGEDIA). Il frye ha giustamente sottolineato l'importanza del masque ( = rappresentazione incentrata sulla musica· e sullo spettacolo) per la centralità che vi assume il pubblico, non tanto in un coinvolgimento catartico ma soprattutto per una più intensa partecipazione individuale e problematica all'evento messo in scena (cfr. Frye, 1969, p. 379 sgg.). Il teatro d'avanguardia, sin dall'Ubu Roi di Jarry (1896), riprende tutte le caratteristiche del masque: il favoloso, il surreale, l 'antinaturalistico, il personaggio-marionetta, il recupero di elementi popolari grotteschi, la musica. Dal café chantant derivano sia il teatro di varietà sia il più sperimentale e intellettualistico cabaret; ]a. comicità macchiettistica di un Petrolini anticipa il non-senso di attualissime esperienze più sofisticate, mentre con Viviani e Eduardo De Filippo
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Commiato
tutto un patrimonio di cultura regionale (dalle farse al teatro dei pupi, dall'avanspettacolo al cabaret) assume una dimensione «comica » anticonvenzionale e realistica. Anche esperienze recenti (il Living Theatre, Dario Fa, l'happening) riprendono antiche esigenze della festa carnevalesca, del libero contatto col pubblico, della « giullarata » satirico-parodistica, intenzionando il genere e lo stile comico a una provocatoria inchiesta politica. Riferimenti bibliografici: S. D'Amico, Storia del teatro drammatico, Milano, 1970; F. Ghilardi, Storia del teatro, Milano, 1961; A. Fontana, La scena, in Storia d'Italia, I, Torino, 1972. Per la commedia è ancora ricca di utili informazioni l'opera di l. Sanesi, La commedia, Milano, 19502 ; e inoltre: La commedia dell'arte. Storia e testi, a cura di V. Pandolfi, Firenze, t 957.-61; Enciclopedia dello spettacolo, 9 voll., Roma, 1952-62.
COMMIATO. È la strofa conclusiva della canzone (v.) o della sestina (v.).
COMMUTATORI. v.
SHIFTERS.
COMPARAZIONE. La comparazione (o, più comunemente, il paragone) è una figura retorica che istituisce un confronto fra due termini, di solito preceduti dalle forme correlative come ... così, quale... tale. Sono frequenti nella lirica manzoniana: Qual masso che dal vertice ... tal si giaceva (Il Natale); Come a mezzo del cammino ... tale il marmo inoperoso (La Risurrezione): Come la luce rapida l piove di cosa in cosa, l e i color vari suscita, l dovunque si riposa; l tal risonò molteplice l la voce dello Spiro (La Pentecoste). La comparazione non va confusa con la similitudine (v.), in cui il confronto è diretto e mediato dal come: è bello come il sole. COMPETENZA. Secondo la grammatica generativo-trasformazionale (v. LINGUISTICA, 5) la competenza è il sistema delle regole linguistiche, interiorizzato dallocutore, mediante il quale si possono formare e comprendere un numero infinito di enunciati. La grammatica ha come compito di descrivere e definire la competenza linguistica, evidenziando i meccanismi che generano le frasi corrette e che permettono di comprendere quelle ambigue (ad esempio: ho visto mangiare una lepre, Luigi fischiava e il cavallo nitriva e non * Luigi nitriva e il cavallo fischiava). Il binomio chomskyano competence-perjormance è stato spesso accostato a quello saussuriano di langue-parole o anche alla coppia codice-messaggio. La performance è l'esecuzione, la realizzazione (più o meno parziale) della competenza negli atti di parola, tenuto conto dei condizionamenti individuali e sociali (dalla memoria all'emotività all'ambiente culturale) che incidono sulla realizzazione
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Comunicazione
4'l
degli enunciati. Secondo Chomsky si deve distinguere una competenza universale, costituita dalle regole innate sottese alle grammatiche di ogni lingua, e una competenza particolare, propria a un determinato sistema (il francese, l'inglese ecc.). Per una introduzione alla grammatica generativo-trasformazionale si rimanda a Berruto, 1974, p. 137 sgg. e Nivette, 1974. COMUNICAZIONE. La teoria della comunicazione studia in modo rigoroso i fenomeni di trasmissione dei segnali, sia a livello di macchine (negli apparati omeostati, ad esempio), sia a livello umano o misto (macchina-uomo, come nel caso delle spie elettriche). Uno schema generale del processo comunicativo è il seguente: IRulorel
B+-B..-~IRiccuore~IMessaggio~ Destinatario ~--------~lcodicej~------------------------~ Da una fonte o sorgente dell'informazione (che può essere, per esempio, tanto un serbatoio quanto un'idea), attraverso un apparato trasmittente (galleggiante, voce), parte un segnale (impulso elettrico, emissioni sonore); il segnale viaggia attraverso un canale (fili, onde acustiche) e può essere disturbato da un rumore (alterazione, attenuazione, interferenza). Uscito dal canale, 11 segnale è raccolto da un ricettore (amplificatore, orecchio) che Io converte in un messaggio . (spia rossa, parole), comprensibile al destinatario sulla base di un codice, cioè un sistema di regole e di indicazioni, comune al trasmittente e al destinatario (istruzioni di una macchina, lingua). Questa. operazione si chiama decodificazione o decodifica; grazie ad essa il destinatario riceve dal messaggio una determinata (e determinabile, quantitativamente) informazione. 11 processo di comunicazione è innanzi tutto un passaggio meccanico di informazione, che può prescindere da un destinatario umano. Quando l'acqua di un invaso giunge a un certo livello di pericolo, scatta un sistema elettrico che produce, ad esempio, l'apertura di una discarica; ma se contemporaneamente suona una sirena d'allarme, la comunicazione diventa significazione perché implica un codice interpretativo, cioè un destinatario umano in grado di decodificare l'informazione (il suono) in un messaggio (stato di allarme). Per questi problemi si veda l'introduzione di Eco a AA. VV., Estetica e teoria dell'informazione, Milano 1972 e Eco, 1975. l. La comunicazione linguistica .. Si può considerare la comunicazione linguistica uno scambio verbale tra un soggetto parlante o locutore,
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Comunicazio11e
che produce un enunciato destinato a un altro soggetto parlante, e un interlocutore di cui si sollecita l'ascolto c/o la risposta (Dubois, 1973, p. 96). La comunicazione linguistica è presentata da Saussure come un circuito della parola che si stabilisce fra due o più persone. Chiamiamo A il mittente (o emittente) di un determinato messaggio o atto di parola; B il destinatario (o ricevente) di tale messaggio. La comunicazione avviene in questo modo: A trasforma dei concetti in suoni mediante degli impulsi trasmessi dal cervello agli organi fonatori; i suoni, attraverso le onde sonore, passano dalla bocc:a di A all'orecchio di B e quindi al suo cervello; B decodifica i suoni in significati grazie al codice della lingua, che si suppone comune ad A e B. A questo punto B può rispondere con un processo analogo a quello esaminato (J. Martinet, 1976, p. 17). Lo schema della comunicazione linguistica presuppone i seguenti fattori: a) il mittente, che è anche la fonte del messaggio: egli seleziona nell'ambito di un codice certi segnali che combina per produrre l'informazione; in questo senso il mittente è detto anche codificatore; b) il destinatario (o ricevente-decodificatore) a cui è rivolto il messaggio per essere interpretato o decodificato in base al codice comune (almeno in parte) col mittente; c) il codice, che comprende un insieme di segnali e le regole di combinazione inerenti al sistema di questi segnali; per Saussure è la langue come istituto sociale che permette la comunicazione fra i membri di una data società; d) il messaggio, cioè un enunciato o una serie di enunciati che il mittente forma selezionando e combinando i segni del codice linguistico; è la parole di Saussure, l'atto o esecuzione individuale; e) il canale, supporto fisico della trasmissione del messaggio, mezzo attraverso cui vengono inviati i segnali: le onde sonore, ma anche altre forme nel caso di trasmissioni speciali (per radio, con sistemi elettronici ecc.); f) il contesto, cioè la realtà verbale o suscettibile di essere verbalizzata e COmpresa dal destinatario (V. LINGUAGGIO, FUNZIONI DEL LINGUAGGIO secondo Jakobson). Lo specifico medium della comunicazione linguistica è la parola, mentre il canale è costituito dalle onde sonore. Le informazioni ci possono venire attraverso tutti i canali sensoriali: al cinema, ad esempio, vediamo le immagini e sentiamo parole, musiche, rumori ecc. Un profumo può diventare il segnale della presenza di una persona, il gusto di un gelato ci può ricordare una città o un incontro ecc. La comunicazione verbale può infine essere disturbata da ciò che i tecnici della comunicazione chiamano rumore (ad esempio, le interferenze nelle trasmissioni-radio). Il rumore può essere un fatto estraneo alla comunicazione (frastuono, distrazione ecc.) che impedisce la rice-
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Comrmica=ione
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zione del messaggio. Vi possono essere dei fattori di disturbo da parte del destinatario che annullano, almeno parzialmente, la comunicazione: ad esempio la cattiva ricezione di un suono che dà luogo a un diverso segno ( « cane » invece di « pane ») o l'arbitraria decodificazione di un messaggio dovuta alla sovrapposizione (ad esempio ideo· logica) del codice del destinatario o di suoi particolari sottocodici. Ad esempio, se il mittente dice: « È arrivato il compagno » e il destinatario interpreta « compagno = comunista », si può avere un fallimento della comunicazione: il disturbo deriva dall'equivocità dei codici. 2. La comunicazione letteraria. Nel caso di un messaggio estetico (letterario), la comunicazione si complica, almeno per i seguenti motivi: l'identità di codice fra mittente e destinatario non è sempre data: si pensi al caso della nostra poesia delle origini; il messaggio ha un'informazione non sempre facilmente decodificabile perché è complesso, ambiguo, connotato (v. CONNOTAZIONE); il codice linguistico è il semplice sostrato del segno letterario, della forma dell'espressione (v. FORMA), perché la stilizzazione artistica manipola profondamente il valore denotativo (v. DENOTAZIONE) delle parole grazie a molteplici procedure scritturali (ad esempio retoriche); la maggiore difficoltà della decodificazione consiste nel fatto che dietro al messaggio letterario non c'è soltanto il sistema linguistico dell'autore, ma un complesso di sottocodici (v.) storico-culturali evidentemente diversi dall'apparato di riferimento del lettore. Entra qui in gioco non solo la differenza nell'ambito della langue (v.), ma la specificità connotativa dei segni artistici. Immaginiamo di semplificare il processo comunicativo nei termini seguenti:
~~~Destinatario! Il mittente assomma sia la fonte sia il trasmittente: nel nostro caso è l'artista, mentre il lettore è il destinatàrio. Nell'eventualità in cui i codici siano diversi, occorrerà che il destinatario riferisca i singoli segni-parola del messaggio al codice storicamente determinato dell'artista, attraverso adeguati ricorsi filologici, cioè mediante lo studio storico della lingua (filologia e linguistica). Chiamiamo questa operazione esegesi (o decodificazione): essa consiste nella parafrasi del messaggio nel codice del lettore, dopo eventuali ricorsi filologico-linguistici. In tal modo il messaggio viene compreso nel suo primo livello, cioè sul piano denotativo, per i contenuti che trasmette:
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l
Comwzica=ione
Mittente
,-----ricorsi filologici
_jl _!_n!.:_r~e~zi~n:J
1
l
l l
l
l
l
~dg~~~ 1-L---t-----lJo~l. _Piano denotativoj-.J . . l Codice ____ _ _ _ _____, decod!ficazwne .._____ _ _ ___. ...--'----'P.l. . . mgmstlca
L'esegesi è il presupposto di ogni interpretazione, specie per i testi linguisticamente complessi e oscuri. Tuttavia l'interpretazione critica non si può ridurre, ovviamente, alla semplice parafrasi dei contenuti. Se chiamiamo ideologia (v.) la visione della vita di un autore, visione che è sempre rapportata a un ambiente storico-culturale; e se chiamiamo sottocodice la tradizione letteraria e retorica a cui l'artista in qualche modo si collega nel « formare » stilisticamente la sua opera, lo schema precedente diventa più complesso: Mittente
t----__,-ll Messaggio
'-----.-----1
1
1Destinatario
ricorsi filologici
r - - --- - - - - - - linguistica ._.,J l .___--•...----1 l l
l
1
e retonca
l
1
l l
l
_J l
Piano ~_ J .-----=----. 1 Codice denotativo -...-(contenuto) decodificazione ..____-.....,.----' ;
~ stilistic.a
h
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r--_j
1
Codice (lingua)
Sottocodice (trad. letteraria e retorica)
1
. interferenza 1 P 1ano ~-1 Ideologia connotativo ~ - J (stile) decifrazione
l
Ideologia 1 {visione della vita ....... 1 e mondo culturale) .._, storia della cultura
Come si vede, il messaggio estetico è ades~o individuato non solo sul piano denotativo, come semplice contenuto parafrasato nel codice del destinatario; ma anche sul piano connotativo, come significato globale, come espressione stilistica. L'interpretazione critica va quindi intesa come decifrazione, in quanto è la caratterizzazione della sintesi estetica di contenuto e forma nel! 'unità indivisi bile dello stile. Il messaggio poetico (o letterario) esprime una sostanza informativa attraverso il codice (la lingua) c il sottocodice (la tradizione letteraria,
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Concatenazione
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con i suoi istituti, le scritture, la retorica) propri ali 'autore e in riferimento al suo mondo culturale (l'ideologia). La decifrazione del messaggio, ossia la sua lettura critica, deve tener conto del fatto che anche il destinatario ha per lo meno un suo codice e una sua ideologia, diversi ovviamente da quelli dello scrittore. Una interpretazione esatta richiede perciò, da parte del lettore, un processo di adeguamento al codice e all'ideologia dell'autore, ciò che è possibile ottenere solo con una minuziosa ricostruzione storicistica del mondo culturale dello scrittore mediante diversi ricorsi filologici (linguistica, stilistica e retorica, storia della cultura). Ne consegue che il critico deve evitare di adattare il testo al suo codice e alla sua ideologia o di proiettarvi idee e contenuti che appartengono al suo mondo culturale ( = interferenza), pena la deformazione dell'autentico messaggio dell'autore. Si vedano, ad esempio, alcuni versi di Giacomino Pugliese: Ov'è madonna e lo suo insegnamento, l la sua bellezza e la gran canoscianza, l lo dolze riso e lo bel parlamento, l gli occhi e la bocca e la bella sembianza, l e lo suo adornamento e cortesia? Molte parole usate dall'autore hanno oggi, nel nostro codice linguistico, un significato completamente diverso. Ad esempio, « madonna » non vuol più significare « la mia signora (domina) », la donna amata dal poeta, ma è un appellativo sacro. Così « insegnamento », « canoscianza », « parlamento », « cortesia »; tutti questi termini vanno compresi in riferimento al sottocodice letterario dell'autore, ossia nell'ambito del linguaggio letterario della scuola poetica siciliana, che esprimeva una ben precisa ideologia, di derivazione francese, l'ideologia cortese-cavalleresca. In tal senso, le parole non vanno intese a livello denotativo, ma più esattamente a livello connotativo. Esse sono cioè dei connotatori (v.), delle parole-chiave (v. MOTS-CLÉ) in grado di rivelarci una specifica componente storico-letteraria. « Jnsegnamento » è la trasposizione del termine provenzale ensenhamen, che indica un ideale di perfezione interiore. Francesismi analoghi sono « canoscianza » (saggezza) e « parlamento » (discorso). Infine, « cortesia » è la parola tematica della poesia amorosa dei primi secoli, e sta a significare un ideale di nobiltà e di perfezionamento individuale. Per un approfondimento dei problemi trattati in questa voce rimandiamo a Marchese, 1974; Eco, 1968, p. 100 sgg. e soprattutto 1975; Corti, 1976. CONATIVO. La funzione conativa, secondo Jakobson, è orientata sul destinatario c trova la sua espressione più pura nell'imperativo e nel vocativo. Es.: votate socialista; i\Ja, cipressetti miei, lasciatem'ire (Carducci). (v. LINGUAGGIO, 1). Etim.: dal lat. conari = tentare, provare. CONCATENAZIONE. Nella terminologia sintattica la concatenazione è il legame fra i gruppi o i sintagmi di una frase (es.: F = GN +
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Concessione
GV; oppure GN = det +N; la concatenazione è indicata dal segno + ). Secondo il Morier, 1975, p. 201, la concatenazione in retorica sarebbe un'anadiplosi ripetuta o a catena (v. ANADIPLOSI). Non si vede la necessità di questa specificazione: semmai si potrebbe parlare di iterazione. CONCESSIONE. Figura tipicamente oratoria con cui si concede, cioè si ammette che l'avversario abbia ragione. L'ammissione può essere ipotetica (es.: concediamo, ammettiamo pure che ... tuttavia, non si potrà non riconoscere che ... ) o riguardare elementi secondari del problema trattato. « Restringendo le pretese, abbandonando certe tesi, rinunciando a certi argomenti, l'oratore può rendere la sua posizione più forte, più facile a difendersi, e dar prova nel corso del dibattito contemporaneamente di fair play e di obiettività » (Perelman-Oibrechts Tyteca, 1966, p. 510 sgg., a cui si rimanda per altre considerazioni). Un esempio gustoso si può trovare nel dibattito fra il conte Attilio e il podestà nel V cap. dei Promessi sposi: Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi ... ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio: ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! CONGEDO. Nel senso tecnico di commiato è la strofa conclusiva di una canzone o di una sestina (v. CANZONE); in un'orazione o in un trattato è l'epilogo o parte di esso, in cui l'autore, eventualmente riassumendo c perorando la sua causa, pone termine al discorso. CONNOT ATORE. Elemento connotato, segno stilisticamente pertinente (V. CONNOTAZIONE). CONNOTAZIONE. Il termine si oppone a denotazione ( = valore referenziale di un termine, informazione regolata dal codice), in quanto indica un valore supplemen!.~!~. ally_s_i_vQ. e.Y.g_ç_1!tivq, aflettiyq _del sewo: in una parola, ~n sovrappiù di senso. Così coniglio ha un significato denotativo, in relazione al referente (è un animale mammifero della famiglia dei leporidi ecc.: definizione del vocabolario); ma ha anche un valore connotativo quando, per esempio, è riferito per metafora ad una persona vile o timida (sei un coniglio!). Una più esatta definizione del concetto si trova in Hjelmslev (v. LINGUISTICA, 3), a partire dalla formula ERC che individua un segno come relazione (R) fra il piano dell'espressione (E) e il pia~o del contenuto (C). Quando un primo sistema ERC diventa il piano d'espressione o significante di un secondo sistema, si dice che il primo sistema costituisce il piano di denotazione e il secondo il piano di
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Contenuto
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connotazione. La connotazione è rappresentabile con la formula (ERC) RC. Nell'esempio riferito, la transcodificazione (v.), ossia il passaggio da un determinato livello di senso a un altro, implica la relazione: coniglio ( = animale)~ coniglio ( = uomo vile). In termini saussuriani, si può proporre uno schema equivalente:
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dove. evidentemente, Sn sta per sigmficante e St per significato. Un segno, globalmente assunto (Il Sn + St), diventa il significante (connotato) di un altro significato più complesso (2. Sn [ = Sn + St] + St). Si veda Barthes, 1966, p. 79 sgg.; per i problemi della connotazione letteraria si rimanda a Marchese, 1974. Per altre informazioni V. COMUNICAZIONE, CODICE, FIGURA, STILE, TESTO.
CONSONANZA. v.
PARONOMASIA.
CONTENUTO. 11 concetto di contenuto è strettamente legato a quello di forma fin dall'epoca classica, per quanto solo l'estetica moderna abbia considerato la creazione artistica come una totalità inscindibile di forma e contenuto. La tendenza a valutare la forma come un ornamento espressivo sovrapposto al messaggio comporta una concezione retorica dello stile e un approccio formalistico nel senso deteriore del termine; d'altro lato, l'isolamento del contenuto, « spogliato » della forma, riduce il testo artistico a una sostanza che non può non essere vista in termini contenutistici (sociologici, psicologici ecc.). La bipolarità forma-contenuto (di cui parla anche Dante: come forma non s'accorda l molte fiale all'intenzion dell'arte l perch'a risponder la materia è sorda, Par., I, 127-129) può assumere diversi significati in particolari contesti estetici e metodo logici: a) il contenuto è il soggetto o l'argomento dell'opera (ad esempio, la fabula, la storia raccontata), di cui si può dare una parafrasi; la forma è l'ornamento aggiunto; b) il contenuto è il tema, il motivo ispiratore, il sentimento fondamentale di un'opera; la forma è la dispositio e l'e/ocutio, l'ordinamento del contenuto e la sua espressione artistica. Anche la concezione della forma come perfetta adeguazione al contenuto ( « tal contenuto tal forma», De Sanctis) privilegia il contenuto, su cui s'incentra l'attenzione del critico, ad esempio evidenziandone i caratteri in una descrittiva psicologica e in una formula adeguata (Croce): c) il contenuto è la visione della vita, l'ideologia, la Weltanschauung del! 'artista già « formata », cioè strutturata in determinate « forme del contenuto », a partire dalla materialità dell'espressione (parole, suo-
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Colllesto
ni, colori ccc.), dalla disposizione morfosintattica, dall'intcrazione fra i diversi livelli (semantici e fonoprosodici, ritmici ecc.) dell'opera (V. TESTO).
La critica dei formalisti russi (v. FORMALISMO) all'idea della forma come recipiente del contenuto appare decisiva per la rivalutazione del carattere significativo della forma: l'opera come sistema strutturato di segni, dove a vari livelli si realizza sempre una complessa semantizzazionc di ogni elemento al fine di « formare » il senso globale del messaggio. Pertanto, in una prospettiva semiologica, il contenuto di un testo è studiato sempre come « forma del contenuto », cioè come struttura di campi semantici che attraversano il testo (o più testi dell'autore), nella peculiarità delle iso topi e (v.) messe in luce dalla connotazione formale (cioè dal modo in cui il testo « è fatto » ). La teoria del segno elaborata da Hjelmslev (v. LINGUISTICA, 3) ha portato un contributo fondamentale in questa direzione: i piani dell'espressione (significante) e del contenuto (significato) sono ulteriormente distinti in due livelli, la forma e la sostanza, che permettono - nell'ipotesi che qui ci interessa del testo letterario - di considerare la signifìcità o senso globale come risultante dell'interazione fra forma del contenuto e forma dell'espressione. Il discorso accennato implica una concezione della specificità del « letterario », sicché il contenuto non viene privilegiato rispetto a una realtà esterna, ad esempio sociale. di cui dovrebbe essere o il riflesso (sociologismo volgare) o la trasposizione ideologica (critica ideologico-politica); oppure con la quale entrerebbe in rapporto sociale (mediazione dei gruppi intellettuali), culturale e letterario (storicismo). Anche la critica psicanalitica si occupa del contenuto, studiando nel testo le operazioni dell'inconscio (talora con una trasposizione illecita alla biografia dell'autore). TI contributo ermeneutico della psicanalisi è, a nostro avviso, da integrare in una prospettiva semiologica, in quanto è indubbio che nella creazione artistica rientrino anche (ma non esclusivamente) i simboli inconsci. Sull'argomento rimandiamo a Marchese, 1974 e 1976. CONTESTO. Il contesto è l'insieme o contorno linguistico che precede e segue una determinata forma o unità. Il contesto condiziona la funzione dell'elemento: ad esempio, una parola-chiave, uno stilema, un connotatore vengono evidenziati in relazione al contesto, diventano cioè pertinenti per l'interpretazione del testo. Ad esempio. nell'Infinito del Leopardi, i deittici questo e quello assumono un importante valore connotativo nella struttura dialettica della lirica, cioè in connessione con l'indicazione di vicinanza dell'io al reale (finitezza) o al surreale (infinito); oppure di lontananza dell'io dal reale o dal surreale (cfr. Marchese, 1974, p. 287 sgg.). Si può considerare il con-
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Corpus
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testo come un codice di riferimento sul quale proiettare l'elemento da decifrare; in questo senso, il contesto non è dato solo dalle unità intratestuali (o cotestuali) ma anche da quelle di altri testi dello stesso scrittore: l'elemento evidenziato entra così in una trama assai vasta che costituisce l'intertestualità letteraria (v.) che coinvolge anche opere di diversi autori, se non il sistema della letteratura nel suo insieme. Si considerino i versi iniziali del canto VIII del Paradiso: Solea creder lo mondo in suo periclo l che la bella Ciprigna il folle amore l raggiasse, volta nel terzo epiciclo. Per comprendere esattamente il senso del microtesto occorre contestualizzarlo nel grande sistema semantice della Commedia. Così, mondo ha una precisa connotazione ascetica c indica l'umanità perduta nel peccato e intricata nell'ignoranza: motivo ribadito da folle amore, che ci riporta al « folle volo » di Ulisse, ossia a una misura tutta umana e naturale, e dunque temeraria, greve di pericoli. Qui folle vuoi dire più esattamente irrazionale, ed è semanticamente identico alla più distesa definizione che, nell'Inferno, qualifica il peccato dei lussuriosi: che la ragion sommettono al talento (V, 39). Una ben distinta definizione di contesto riguarda l'insieme di dati ed avvenimenti sociali che condizionano il comportamento linguistico o anche stilistico. Il rapporto fra contesto situazionale (o situazione sociostorica) e creazione artistica è studiato particolarmente dalla critica sociologica. Né va dimenticata la definizione di contesto come fattore linguistico nella teoria della comunicazione (v. COMUNICAZIONE, t; LINGUAGGIO, t). Per altre considerazioni si veda: extratestualità, intertestualità, intratestualità, testo. CONTRADDITTORIETÀ e CONTRARIETÀ. v.
IMPLICAZIONE.
CONTRASTO. Variante della tenzone, disputa poetica composta da più sonetti di autori diversi (ad esempio, le tenzoni dei poeti siciliani sulla natura dell'amore), il contrasto è una discussione fra l'innamorato e la sua donna, spesso di carattere scherzoso e non scevro da annotazioni realistiche. Il contrasto ha una struttura ampia, con dialoghi e repliche dei contendenti di strofa in strofa: fra i più famosi il contrasto di Cielo d'Alcamo Rosa fresca aulentissima. CONTRORIGETTO. Il termine è usato particolarmente dai francesi (contrerejet) a indicare la parola che, nell'enjambement (v.), resta isolata a inizio di frase: Nei campi l c'è un breve gre gre di ranelle (Pascoli). Si veda anche rigetto. Etim.: dal fr. contrerejet, dove rejet = termine respinto. COORDINAZIONE. v.
PARATASSI.
CORPUS. In senso lato il corpus è una raccolta di testimonianze (ad.
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Correlativo oggettivo
esempio, le epigrafi latine), di opere giuridiche, filosofiche, letterarie ecc. Nella linguistica moderna (v.) il corpus è un insieme di enunciati emessi dagli utenti di una lingua in un determinato momento storico, enunciati di cui ci si serve per la descrizione e l'analisi scientifica. Il metodo distribuzionale (v. LINGUISTICA, 4) individua nel corpus un ordine sistematico degli elementi, ad esempio i contesti in cui un'unità si può incontrare. Per altre informazioni: Ducrot-Todorov, 1972, p. 40 sgg. Etim.: dal lat. corpus = corpo. CORRELATIVO OGGETTIVO. Termine di Eliot che esprime la sua peculiare poetica: « La sola maniera di esprimere l'emozione nella forma dell'arte sta nel trovare una "obiettività correlativa" [ = "correlativo oggettivo"]: in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena d'eventi, che sarà la formula di quella emozione particolare; cosicché, quando sian dati i fatti esterni, che devon concludersi in una esperienza sensibile, l'emozione sia immediatamente richiamata» (in Il bosco sacro, Milano, 1971, p. 135). Lo stato d'animo è dunque espresso non direttamente ma mediante oggetti, eventi, situazioni che rappresentano l'equivalente dell'emozione. Nella poesia italiana, la cosiddetta linea della « poetica dell'oggetto » (Pascoli, Gozzano, Sbarbaro, Montale) può presentare, per certi aspetti, un equivalente del correlativo oggettivo, soprattutto in Montale (il quale afferma di non conoscere la teoria eliotiana quando nel 1928 una sua poesia, Arsenio, viene pubblicata sulla rivista del poeta inglese, « Criterion »; comunque la citazione precedente risale a un saggio del 1920). Le premesse del personalissimo correlativo oggettivo montaliano delle Occasioni e della Bufera si possono trovare negli Ossi; ad esempio, in un testo famoso: Spesso il male di vivere ho incontrato: l era il rivo strozzato che gorgoglia, l era l'incartocciarsi della foglia l riarsa, era il cavallo stramazzato. CORRELAZIONE. La correlazione (in francese couplage, in inglese coupling) può essere considerata una delle manifestazioni più impor-
tanti del linguaggio poetico, conforme alla tesi di jakobson (v. LINper cui la funzione poetica promuove il principio di equivalenza a fattore costruttivo della frase lirica. Il testo poetico, in altri termini, sarebbe costituito da un insieme assai vario di parallelismi fonico-semantici. Il Levin, 1962, ha insistito particolarmente sulle iterazioni foniche; non diversamente l'Agosti, 1972, studia l'autoriflessività, l'iconicità del significante poetico come « messaggio formale». Nota, ad esempio, che nell'incipit di A Silvia si ha una singolare frequenza di strutture allitterati ve, precisamente del fonema l t l: quel Tempo della Tua viTa morTale; gli occhi Tuoi ridenTi e fuggiTivi; e Tu, lieTa e pensosa. il/imiTare l di giovenTù salivi ecc. Il fonema orGUAGGIO)
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Cursus
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ganizza delle correlazioni fra i gruppi l ta l ti l tu che, secondo Agosti, evidenziano il pronome di seconda persona, richiamando inconsciamente il soggetto della poesia, Silvia. La correlazione si presenta nella poesia come una struttura in cui elementi linguistici di natura simile (a livello fonetico, morfosintattico o semantico) sono posti in rapporto di equivalenza o vengono comunque avvicinati e confrontati in un'unica isotopia (v.), cioè secondo un determinato livello di senso. La correlazione può agire anche in modi più complessi, rapportando per così dire verticalmente i livelli del testo e creando isotopie fra elementi fonico-timbrici, ritmici, semantici, morfosintattici diversi. Per un discorso più ampio si rimanda a Marchese, 1974 (particolarmente alle pp. 141 sgg.); Delas-Filliolet, 1973; AA.VV., 1970 c; Greimas, 1972 e 1974. CORREZIONE. v.
EPANORTOSI.
CURSUS. Sviluppo della clausola dopo che, nella tarda latinità, andò perduto il valore quantitativo delle sillabe. Il cursus medievale è determinato « non più dalla quantità sillabica ma, rispetto alle due ultime parole della frase, dalla situazione dei limiti delle parole e dalla collocazione dell'accento della parola » (Lausberg, 1969, p. 258). Per i vari tipi di cursus v. CLAUSOLA. Etim.: dal lat. cursus = corso, andamento.
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DATTILO. Piede metrico della poesia greco-latina formato da una sillaba lunga e da due brevi (_ .......... ). Per il ritmo dattilico di certi versi italiani V. ACCENTO, ENDECASILLABO. Etim.: dal gr. daktylos = dito (lo schema del piede ricorda le tre falangi del dito, una più lunga e due più corte). DECASILLABO. Il decasillabo è un verso di dieci sillabe. Presenta tre varianti diverse: a/ il decasillabo a ritmo anapesti co (v. ANAPESTO), detto anche « manzoniano », con ictus sulla 3a, 6a e ga sillaba e senza cesura. Es.: S'ode a destra uno squillo di tromba (Manzoni); b/ il decasillabo a ritmo trocaico (v. TROCHEO), con ictus sulla la, 3a, sa, 7a e ga, senza cesura: l! rosaio qui non fa più rose (Pascoli); cf il decasillabo formato da due quinari, con cesura fissa e varietà di ritmi giambici (v. GIAMBO) e dattilici (v. DATTILO) nei due emistichi; fra i due quinari non si hanno figure metriche (dialefe o sinalefe). Es.: Al miO cantuccio, l donde non sento (Pascoli); suono che uguale, / che blando cade (Pascoli). Altre forme di decasillabo sono proprie della cosiddetta metrica barbara (v.); ad esempio il decasillabo con cui il Carducci imita la strofa alcaica: effliivi e murmuri l ne la sera (quinario sdrucciolo + quaternario piano); o quello pascoliano a ritmo giambico + dattilico: Per mé non c'era l bacio né lagrima. Etim.: dal gr. déka = dieci. DECIFRAZIONE. Nel normale processo della comunicazione il risultato dell'interpretazione dei segni da parte del destinatario si dice decifrazione o, più comunemente, decodifica (o decodificazione). A nostro parere, nella lettura critica di un testo letterario è utile distin-
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Deprecazione
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guere una più elementare decodificazione a livello denotativo-contenutistico dalla decifrazione globale del senso a livello stilistico-connotativo. Per ulteriori spiegazioni si v. COMUNICAZIONE, 2; CODICE; e anche Marchese, 1974; Corti, 1976, p. 54 sgg.
DECODIFICA.
V.
COMUNICAZIONE, CODICE, DECIFRAZIONE.
DEISSI. « Ogni enunciato si realizza in una situazione definita da coordinate spaziotemporali: il soggetto riferisce l 'enunciato al momento dell'enunciazione, ai partecipanti alla comunicazione e al luogo in cui si produce l 'enunciato. 1 riferimenti a questa situazione formano la deissi e gli elementi linguistici che concorrono il "situare" l'enunciato sono detti deittici » (Dubois, 1973, p. 137). Secondo Weinreich sono fattori della deissi verbale i pronomi di prima e seconda persona, gli elementi spaziotemporali (qui, là, adesso ecc.), i dimostrativi; le forme che Jakobson chiama shijters, senza denotazione concreta e identificabili solo nella relazione con la situazione (es.: vieni qui! per capire il valore di qui bisogna tener conto del locutore e della situazione). Etim.: dal gr. deiknumi = mostro, indico. DEÌTTICO. Fattore della deissi, elemento che indica, indicatore. (v. DEISSI).
DENOTAZIONE. La denotazione è il valore informativo-referenziale di un segno, in_9icato_E2~- .. PI~~~io~e· dal coéìrcè~-Tn- questo senso la denotazione è connessa alla Lf_u_nziQ_~ reTerenziale del linguaggio (v.). In ambito letterario, la denotazione è il primo e più elementare livello semantico del segno, vincolato al codice linguistico proprio di una data età (ad esempio, veltro ha come significato denotativo « cane da caccia » ). Siccome il segno letterario è polisemico, il valore denotativo può essere caricato di altri sensi anche in rapporto alla complessa operazione semantica messa in atto dalla formalizzazione artistica (V. COMUNICAZIONE LETTERARIA, LINGUAGGIO, STILE, TESTO, TRANSCODIFICAZIONE). Così il Veltro dantesco, inserito nel sistema della Commedia, assume una connotazione (in questo caso allegorica) che arricchisce il senso letterale e di base del termine. I concetti di denotazione e di denotativo vanno perciò collegati alla semiotica della connotazione, secondo i criteri precisati da Hjelmslev (v. LINGUISTICA, 3). Per ulteriori infotmazioni si vedano anche le voci: AMBIGUITÀ, coNNOTAZIONE, CORRELAZIONE, ESPRESSIONE, POESIA, SCRITTURA, STILE. DEPRECAZIONE. Il Morier, 1975, p. 355, considera la deprecazione una « figura della passione (dello stesso genere dell'esclamazione, dell'interrogazione retorica, dell'imprecazione, de Il 'ironia) con
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Descrizione
cui si supplica un essere umano, invocando i motivi adatti a commuoverlo ». La definizione ci sembra troppo estensiva e comunque si allontana dali 'uso specifico del termine nell'oratoria giuridica antica. Come ricorda il Lausberg, 1969, p. 26, la deprecatio è una forma di difesa del reo, che confessa il delitto ma adduce i suoi meriti, invocando un giudizio mite. E., in sostanza, un'implorazione (con cui si può invocare Dio o una persona cara, per commuovere il destinatario) atta a scongiurare un pericolo. E. tipica dei « discorsi » dell'epica antica, della tragedia, del poema cavalleresco. Si ricordi la preghiera di Priamo ad Achille (Achille, rispetta i numi, abbi pietà di me, l pensando al padre tuo: ma io son più misero, l ho patito quanto nessun altro mortale, l portare alla bocca La mano dell'uomo che ha ucciso i miei figli!) o quella di Desiderio a Carlo Magno, nell'Adelchi del Manzoni: Ah! m'ascolta: un dì tu ancor potresti l assaggiar la sventura, e d'un amico l pensier che ti conforti, aver bisogno; e allor gioconda ti verrebbe in mente l di questo giorno la pietà. Rammenta l che innanzi al trono dell'Eterno un giorno l aspetterai tremante una risposta, l di mercede o di rigar, com'io l dal tuo labbro or l'aspetto. Etim.: dal lat. deprecari = implorare, scongiurare un pericolo. DESCRIZIONE. Nella retorica antica la descriptio o ékphrasis è per dirla con Barthes, 1972, p. 96, «una sequenza fluttuante di stasi », inserita nel momento in cui la narratio viene sospesa e l'autore descrive un luogo o un personaggio. La descrizione di un luogo era detta topografia, quella di un personaggio prosopografia o ritratto. Secondo Tomasevskij (in Todorov, 1968, p. 305 sgg.) l'intreccio di un racconto è formato da motivi legati (necessari) e liberi (eliminabili senza danno per la fabula), fra i quali le digressioni e anche le descrizioni. Lo stesso critico considera le descrizioni naturali, ambientali o di paesaggio come dei motivi statici, che non comportano mutamento di situazioni. Secondo Barthes, in AA.VV., 1969 b, p. 7 sgg., le funzioni del racconto sono i nuclei (che aprono, mantengono o chiudono una sequenza), le catalisi (che hanno un carattere completiva; quindi anche le descrizioni rientrano fra le catalisi), gli indizi (funzioni ideologiche) e gli informanti (dati immediatamente significativi, come l'età di un personaggio; la descrizione può, dunque, essere un informante). Che significato ha la descrizione in un racconto? « Può servire a creare un ritmo», affermano Bourneuf-Ouellet, (1976, p. 111); ad e~empi<:> offre una certa distensione psicologica dopo un momento ncco dt suspense, rappresenta un'ouverture che annuncia il tono dell'op~ra (si pensi all'incipit manzoniano); stabilisce una pausa emblematica .ecc. Oppure la descrizione ha una funzione pittorica, fa vedere; P~~ tut determ!na un passaggio di informazione da un personaggio a . a tro, pon~ .11 problema del rapporto visivo fra un personaggio e gh oggetti, SI mcentra sulla rappresentazione del personaggio stesso
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Destinatario
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(in Balzac, ad esempio, attraverso le informazioni sul suo stato civile, sulla sua psicologia, sulla sua fisionomia e sul suo ambiente). DESTINATARIO. f: il ricevente nel processo di comunicazione (v.). Nella comunicazione letteraria il destinatario è il lettore o, in senso più lato, il pubblico. Nell'analisi di un testo occorre tener conto sia del rapporto fra il mittente e il destinatario (ad esempio, il legame fra Io scrittore e l'orizzonte di attesa del suo pubblico), sia dei modi storicamente determinati con cui i destinatari leggono un determinato messaggio. A livello di decodificazione o, se si vuole, di tipologie di lettura dei testi si può affermare che l'opera letteraria è « aperta », cioè accumula nel tempo una stratificazione assai varia di risposte alle sue potenzialità segnico-informative; d'altro canto, il testo, come realtà artistica autonoma, è un'opera chiusa, ha cioè una struttura semiotica ben definita anche se non esauribile in una lettura-decifrazione univoca. Si ha un fenomeno di interferenza, e cioè di distorsione del messaggio, quando il destinatario sovrappone la sua ideologia (i suoi codici e sottocodici socialmente determinati) alla connotazione del testo oppure quando la lettura è vista come riscrittura dell'opera e il destinatario come nuovo produttore: ci si riferisce a certe posizioni della critica francese, ad esempio al Barthes di S/Z o de Il piacere del testo o anche alle posizioni del gruppo di « Tel quel » e soprattutto della Kristeva. A nostro avviso, occorre salvaguardare la realtà del testo come sistema semantico chiuso (e quindi storicamente determinato); né ci pare pertinente, per quanto suggestiva, l'idea di un destinatario come «collaboratore alla vita polisemica del testo» (Corti, 1976, p. 64 sgg.). La fruizione artistica (a parte ogni discorso sulla « sensibilità » e sul «gusto» del lettore) è un'operazione semiotica tesa all'appropriazione, al limite integrale, dei codici e sottocodici sottesi al testo. Presuppone pertanto una ricostruzione storica delle diverse serie che s'intersecano nell'opera, connotandone i segni, e via via un graduale processo di riconversione dei segni testuali nel senso globale dell'opera-messaggio, secondo le intenzionalità dello scrittore. La polisemia del testo deve essere, in altri termini, relazionata (storicizzata) alla complessità dei codici-sottocodici e alla ipersegnicità del messaggio (v. anche il problema dell'ambiguità) calato nel processo della comunicazione letteraria (v. TESTO, INTERTESTUALITÀ).
Indubbiamente una lettura così esaustiva costituisce piuttosto un modello che una comune pratica. Come è stato osservato, il destinatario è spesso interessato a una parte del messaggio artistico (al suo contenuto come fabula o come documento, alle tipologie dei personaggi, alla fruizione identificativa, agli aspetti del linguaggio ecc.) e per Io più decodifica il testo a partire dal proprio sistema culturale. Se il fatto può sembrare inevitabile, specie per le opere « classiche »,
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Desti natore
occorrerà in sede critica tener conto dell'archilettore (v.), magari epocale, cioè dei diversi modi con cui intere epoche hanno fruito determinati testi, per quanto si possa sostenere solo sociologicamente che la sfera dei significati di un testo risulti dall'insieme delle letture (fatte o fattibili). Necessariamente la comprensione di un testo è un fenomeno di transcodificazione (di passaggio da un codice a un altro: esempio vistoso, le traduzioni di opere straniere): come ogni trasmissione di informazione questo percorso è ambiguo, perché può costare una diluizione del messaggio, una entropia qualitativa o può comportare una « polisemia » ideologica, un arricchimento di senso condizionato alle tipologie culturali del pubblico, in buona sostanza una strumentalizzazione del testo. (Su questo versante di letture « moderne » è oggi in voga la rivisitazione « politica » degli scrittori del passato, con la conseguenza assai pericolosa di estrapolazioni ideologiche che diminuiscono, se non deformano, la ricchezza delle scritture). Per il significato attanziale di destinatario si veda ATTANTE. DESTINATORE. Il termine è talvolta usato come sinonimo di emittente o mittente di un messaggio o di locutore nella comunicazione verbale. Per Greimas il destinatore è un attante (v.), esattamente colui che pone l'oggetto come termine di desiderio e di comunicazione. DETERMINANTE. In senso lato, il determinante è l'elemento che attualizza un nome, cioè lo determina, nella struttura del sintagma nominale (articoli, aggettivi, complementi del nome). Ad esempio, nel gruppo il fratello di Carlo sia il sia il complemento di Carlo determinano il nucleo fratello. Per Martinet (v. LINGUISTICA, 2) il determinante è un monema dipendente. DEUTERAGONISTA. Nella tragedia antica il deuteragonista è il personaggio secondario rispetto al protagonista o personaggio principale. Etim.: dal gr. déuteros = secondo, agonistés = lottatore. DEVERBALE. Nome formato da una radice verbale (sosta, accertamento, audizione ecc.). DIACRÌTICO. È un segno grafico che modifica un altro segno, ad esempio l'accento: canto, cantò. Etim.: dal gr. diakrinein = separare uno dall'altro. DIACRONìA. Deriva da Ferdinand de Saussure (v. LINGUISTICA) l'opposizione fra diacronia e sincronia, cioè la considerazione della lingua da un punto di vista storico-evolutivo rispetto alla descrizione di un determinato « stato » della lingua. La diacronia studia i fatti linguistici nella loro successione e nei loro cambiamenti lungo
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Dialogo
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l'asse temporale (per Saussure è una successione di stati sincronici). La rigida opposizione fra sincronia e diacronia è respinta dai funzionalisti (v. LINGUISTICA, 2), perché ogni sistema linguistico posteriore ad un altro non può essere analizzato che in termini di trasformazione della struttura sincronica precedente in quella successiva. Per un'ampia analisi critica del problema si veda Martinet, 1972, p. 58 sgg. DIÀFORA. È una figura semantica con cui si ripete una parola già usata in precedenza ma con un nuovo significato o con una diversa sfumatura. Ad esempio, nella réclame di un amaro (Servire il popolo: servirgli Ebo Lebo), il verbo servire ha prima un significato politico ( = mettersi al servizio, aiutare), poi un valore utilitaristico ( = offrirgli, dare un prodotto a un cliente, cioè vendere). La diafora implica una duplice isotopia (v.) mediante cui si realizza una transcodificazione: nel nostro caso il passaggio dal codice politico a quello consumistico. Si veda ANTANACLASI. Etim.: dal gr. dià = attraverso, phérein = portare. DIALÈFE. Figura metrica (v.), opposta alla sinalefe, che consiste nel tenere distinte due vocali contigue nel computo delle sillabe di un verso. L'Elwert, 1973, p. 24 sgg. ricorda i casi più frequenti di dialefe: a) dopo vocale finale tonica: Levò"'a Dite•del cerchio superno (Dante); b) dopo dittongo discendente: ché la diritta via"' era smarrita (Dante); c) dinanzi e dopo monosillabi: O"' anima cortese mantovana (Dante); di te,"' ed io"' a te lo raccomando (Dante). La dialefe può corrispondere alla cesura: lo non Enea,"' io non Paolo sono (Dante). Ma tutti gli esempi ricordati non costituiscono una regola, perché se ne possono trovare molti altri con soluzioni opposte; il seguente verso del Petrarca ha più di una sinalefe: Tutto"a sé"il trasser due, che a"' mano"a mano. Mentre la dialefe è molto frequente nella lirica del Duecento e in Dante, nel Petrarca è pitt rara (si veda anche l'uso di et e ed per annullare l'iato). Con la coditìcazione del Bembo e dei trattatisti del Cinquecento la dialefe è proibita e spesso viene sostituita dalla dieresi: I suo' Etiopi a visitar s'invia (Tasso). Etim.: dal gr. dialéipein = lasciare un intervallo. DIALOGO. t. una forma stilistica in cui un mittente si rivolge a un destinatario. Ducrot-Todorov, 1972, p. 333, fissano alcuni tratti generali della coppia antitetica monologo-dialogo: « Si può descrivere il monologo con i tratti seguenti: l'accento messo sul parlante; la scarsa referenza alla situazione locutoria; il quadro unico di referenza; l'assenza di elementi metalinguistici; la frequenza di esclamazioni. Al contrario, si descriverà il dialogo come un discorso che: mette l'accento sul parlante come interlocutore; si riferisce abbondantemente alla situazione locutoria; gioca su più quadri di referenza simulta-
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Diàstole
neamente; si caratterizza per la presenza di elementi metalinguistici e per la frequenza delle forme interrogative». Un esempio: il dialogo fra Dante e Cavalcante Cavalcanti nell'Inferno: «Se per questo cieco l carcere vai per altezza d'ingegno, l mio figlio ov'è? perché non è ei teco? ». l E io a lui: « Da me stesso non vegno; l colui ch'attende là, per qui mi mena l forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». l Le sue parole e 'l modo della pena l m'avean di costui già letto il nome; l però fu la risposta così piena. l Di subito drizzato gridò: « Come l dicesti? e/li ebbe? non viv'e/li ancora? l non fiere li occhi suoi il dolce lume? » (X, 58-69). Si noti l'incalzare delle interrogative, il rapporto interlocutorio (tu-voi), la simultaneità dei riferimenti (il viaggio, Guido, Virgilio, il disdegno ecc.), l'equivoco drammatico fondato sul metalinguaggio: come l dicesti? elli ebbe? Il dialogo come forma letteraria (si pensi ai dialoghi di Platone) è legato al problema dialettico della ricerca della verità. L'interlocutore è convinto ad aderire alla verità dietro l'incalzare delle argomentazioni dell'oratore. Si presuppone che l'interlocutore sia l'incarnazione dell'uditorio universale (Perelman-Olbrechts Tyteca, 1958, p. 38 sgg.). Nel dialogo i vari interlocutori entrano in discussione, portando diversi argomenti suscettibili di una conclusione (dialogo euristico). Quando il protagonista si propone di dominare l'avversario si ha il cosiddetto dialogo eristico (dal gr. erizein = amare la contesa), mentre la forma pragmatica più comune è quella in cui i diversi partecipanti cercano di persuadersi vicendevolmente. Etim.: dal gr. dialégein = discorrere (tra più persone).
DIÀSTOLE. ~ un fenomeno di accentazione irregolare ttptco della poesia, indipendente dal ritmo. La diastole è Io spostamento indietro dell'accento di una o più sillabe: es.: Cleopatràs, Aràbi (Dante). Etim.: dal gr. diastéllein = porre in mezzo. DIÈRESI. L'incontro di due vocali all'interno di una parola può dar luogo alla figura metrica della dieresi quando esse vengono tenute distinte e computate come due sillabe. Es.: Triv'ia ride tra le ninfe etteme (Dante). Non si ha dieresi: 1. quando i dittonghi ie, uo derivano dalle vocali latine é, (piede ( pedem; buono ( bonum); 2. quando la i semiconsonantica deriva dai gruppi latini fl, cl, pl, gl, bi (fiore ( florem, chiaro ( clarum ecc.); 3. quando la semiconsonante u deriva da u semiconsonantica latina o da u vocale (eguale ( aequalem; piacqui ( placui); 4. quando la i è un puro grafema per indicare palatale (cacio, giovane, figlio ecc.). Riguardo a questa norma si hanno eccezioni: ma voi torcete a la religione (Dante). Per un 'analisi dettagliata della dieresi si rimanda a Elwert, 1973, p. 12 sgg. e Di Girolamo, 1976, p. 17 sgg. Etim.: dal gr. diairein = togliere separando.
o
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Discorso
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DIGRESSIONE. La digressione o excursus è quella parte di un racconto o in genere di un discorso in cui lo scrittore, allontanandosi dall'argomento che sta trattando, divaga, per così dire, su aspetti secondari o complementari, soffermandosi a descrivere un paesaggio o inserendo nella fabula (v.) un altro racconto, un aneddoto, un ricordo ecc. La digressione è un aspetto particolare dell'intreccio narrativo ed ha pertanto diverse finalità artistiche: serve a complicare l'azione, anticipando ad esempio elementi che saranno ripresi successivamente; crea una pausa nell'azione principale, sospendendo il tempo della storia (v. TEMPO, NARRATIVA), per suscitare una certa suspense nel lettore; può essere il luogo della voce dello scrittore, il suo « cantuccio » (si pensi ai cori delle tragedie manzoniane) per riflettere sulla vicenda che sta narrando; può coincidere con una retrospettiva, con un flash-back, quando (sospendendo l'azione) si descrive la vita di un personaggio entrato nel racconto in medias res (si pensi ancora ai famosi ritratti psicologici dei Promessi sposi). La digressione, infine, può avere un valore documentario, può cioè servire come elemento di appoggio, con valore referenziale (rimandando alla storia, al costume ecc.), per dare verisimiglianza a fatti e personaggi della narrazione; come tale, la si trova frequentemente nelle opere dell'Ottocento naturalista e in genere di carattere realistico-sociale. Etim.: dal lat. digressio e da excurrere = allontanarsi da, correre fuori. DISCORSO. In senso linguistico il discorso è l'ambito dei processi comunicatiVI superiori all'enunciato (o frase) su cui si era soffermata l'attenzione di De Saussure. Per Benveniste la frase è l'unità del discorso; nell'ipotesi generativo-trasformazionale (v. LINGUISTICA, 5) la grammatica descrive le regole di competenza per produrre, a partire da enunciati profondi semplici, frasi superficiali strutturalmente complesse. Fra gli sviluppi della linguistica recente· giova accennare alla cosiddetta linguistica testuale, che può essere considerata un approfondimento autonomo del generativismo. Se per testo si intende una forma comunicativa superiore alla frase, una teoria del discorso rientra direttamente nell'ambito testuale, con l'avvertenza, però, che esiste un salto qualitativo fra il testo-discorso e la frase: il testo non consiste semplicemente in una somma di frasi (ha un sovrappiù di senso rispetto alla linearità delle frasi costituenti). Ad esempio, è solo il testo-discorso che può disambiguare certi enunciati: quel cane del tenore ulula da un'ora assume due significati diversi a seconda dell'ampliamento testuale: l. meriterebbe di essere fischiato dal pubblico; 2. chissà quando torna il padrone. Inoltre, un testo-discorso ha una coerenza complessiva diversa dalle singole frasi isolate: chiarisce le presupposizioni di certi enunciati, ne permette una integrazione in
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Disgiunzione
unità semantiche gerarchizzate ecc. (cfr. Ravazzoli, 1975, p. 163 sgg.). Per il discorso oratorio V. ESORDIO, DISPOSITIO. Ci interessa in questa sede ricordare una diversa definizione di discorso, particolarmente pertinente nell'analisi letteraria di un testo. Il discorso, in questa accezione più specifica (che si rifà a Benveniste), è l'atto di enunciazione: a) l'emergenza del soggetto nell'enunciato (v.); b) la relazione fra locutore e interlocutore; c) l'atteggiamento del soggetto nei riguardi del suo enunciato, la « distanza » che egli pone tra sé e il mondo per mezzo dell'enunciato. In altri termini, mentre l'enunciato è la trasmissione esclusivamente verbale di un messaggio, l'enunciazione è un processo che mette in atto elementi non verbali (il mittente, il destinatario, il contesto). n piano dell'enunciazione può anche essere detto piano del discorso, nel senso che si manifesta, ad esempio, nelle forme del cosiddetto discorso diretto e indiretto (o riferito-rapportato). Seguiamo qui Todorov, in AA. VV., 1971, p. 122 sgg. nell'individuare diversi tipi di discorso (o stile) a livello di struttura enunciativa: il discorso valutativo, emotivo, modalizzante (per un'esposizione dettagliata v. STILE, l). È infine possibile parlare di discorso letterario, se si ammette col Lotman che la letteratura si avvale di una sua lingua non coincidente con quella standard (anche se costruita su di essa}; questa lingua è formata da segni e da regole comunicative particolari, a partire dalla iconicità, dalla motivazione del segno letterario. Caratteristica peculiare del discorso della letteratura è la sua totale semantizzazione: ogni elemento fonologico e morfosintattico interagisce col piano del contenuto, assumendo una valenza significativa e attivando il senso globale del testo. Si V. a) proposito LINGUAGGIO, 2; CONNOTAZIONE, CONTENUTO, CORRELAZIONE, FORMA, TESTO.
DISGIUNZIONE. Il termine è talora usato per indicare alcuni fenomeni stilistici di natura sintattica, come l'inversione (v.), l'interposizione, l'iperbato (v.). Non si confonda la disgiunzione con la tmesi, procedimento che consiste nella separazione in due parti di una parola (es.: scuotendo l'ali di bitume semi- l mazze dalla fatica; Montale). Ancora diverso è il valore della disiunctio per la retorica antica, che corrisponde (cfr. Lausberg, 1969, p. 191) alla sinonimia di parole o di concetti in una struttura sintatticamente parallela. Si avrebbe disiunctio nei seguenti versi di Montale: l'orgoglio l non era fuga, l'umiltà non era l vile, il tenue bagliore strofinato l laggiù non era quello di un fiammifero. In una prospettiva moderna, questo stilema rientra nelle strutture di iterazione semantico-sintattica, di parallelismo o correlazione (v.). DISPOSITIO. Come è noto, la disposi/io è la seconda delle cinque parti in cui si divide tradizionalmente la retorica (v.). Essa tratta del-
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Dispositio
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l'ordine e della disposizione delle idee: ordine che può essere naturalis, cioè normale secondo uno svolgimento logico del discorso, oppure artificialis o figurato, cioè strutturato in modo da suscitare un effetto di straniamento (v.) nel destinatario mediante l 'uso di figure o una disposizione in medias res o grazie ad altri artifici. La dispositio regola la divisione di un'opera in diverse parti e il rapporto fra siffatte parti. La bipartizione è spesso sottesa da un 'antitesi; la tripartizione comprende un inizio, una parte centrale e una fine, con ulteriori suddivisioni interne. Ad esempio, in un discorso si ha l'esordio, che apre il contatto col pubblico (destinatario), una parte informativa centrale o narrazione (seguita eventualmente da una dimostrativa, l'argomentazione, di carattere più dialettico), un epilogo, con cui si riassume l'argomento e si conclude, rivolgendosi ancora al destinatario. Nell'antica retorica si chiama disposizione esterna l'insieme dei mezzi (oggi diremmo pragmatici) tesi alla persuasione del destinatario. Esiste tutta una casistica di strategie rivolte a conseguire lo scopo, cioè la persuasione: l'uso di mezzi intellettuali, come l'informazione e la discussione; l'uso di mezzi emotivi e psicologici sia moderati (ethos) sia spinti (pathos); col primo si tende a creare una situazione emozionale di tono moderato, persino piacevole; col secondo si vuoi provocare commozione, compassione, coinvolgimento ecc. f!. evidente che, in ogni caso, la dispositio richiede una adeguata forma stilistica, cioè una elocutio ora semplice, ora sottile, ora figurata in grado di sorreggere efficacemente la strategia del discorso. Per tutta questa parte si rimanda a Lausberg, 1969, p. 37 sgg. e Perelman-Olbrechts Tyteca, 1966, p. 513 sgg. Un lucido panorama della struttura della dispositio si trova in Barthes. 1972, che espone in questo paradigma le parti dell'orazione: dimostrativo
l2
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narratio
confirmatio
l
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esordio
epilogo passionale
« La dispositio » afferma Barthes « parte da una dicotomia che era già, in altri termini, quella dell'inventio: animos impellere (commuovere) / rem docere (informare, convincere). Il primo termine (l'appello ai sentimenti) copre l'esordio e l'epilogo, vale a dire le due parti estreme del discorso. Il secondo termine (l'appello al fatto, alla ragione) copre la narratio (relazione dei fatti) e la confirmatio (accertamento delle prove o vie di persuasione) vale a dire le due parti me·
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Dissonanza
diane del discorso. L'ordine sintagmatico non segue quindi l'ordine paradigmatico e abbiamo a che fare con una struttura a chiasmo: due sezioni di "passionale" inquadrano un blocco dimostrativo». DISSONANZA. v.
CACOFONIA.
DISTICO. Strofa di due versi; in particolare il distico elegiaco, nella metrica classica, è formato da un esametro e da un pentametro. L'esametro latino (Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris), letto «all'italiana», si divide in due parti, distinte dalla cesura, con un numero variabile di sillabe (da tredici a diciassette), con un metro vario, salvo la seconda parte in cui si ha lo schema '.., . ./ .... In questo modo il Carducci poté trasporlo nella metrica (barbara) italiana. Es.: e molli d'auree ginéstre l si paravano i colli (Carducci). Per ottenere tale metro si potevano combinare un quinario o un senario o un settenario nel primo emistichio con un ottonario o un novenario o un decasillabo nel secondo. Il Carducci preferisce la forma: settenario piano + novenario piano: Tra le battaglie, Omero, l nel carme tuo sempre sonanti. Quanto al pentametro (f6rtiter il/e jacit l qui miser ésse potést), il Carducci o lo ricalca « alla latina » ( spiriti réduci son, guardano e chiamano a te) o, più comunemente, « all'italiana » (lettura: f6rtiter flle jacit l qui miser ésse p6test) con le seguenti soluzioni: settenario piano + settenario piano (dietro un pensiér di noia l l'aride dirle bianche); quinario piano + settenario piano (su 'l mare! Alcmane l guida i virginei cori). Per ulteriori precisazioni si rimanda a Elwert, 1973, p. 193 sgg. Etim.: dal gr. distichos = a doppia fila. DITIRAMBO. Il ditirambo fu introdotto nella poesia italiana dal Chiabrera, sulla scia di Ronsard e del gusto classicheggiante del Seicento. Come il dithyrambos greco, privo di un sistema strofìco, è una successione libera di versi, senza costrizioni di rime. Capolavoro di questo genere è il famosissimo Bacco in Toscana di F. Redi. canto in onore di Dioniso (etim. incerta). Etim.: dithyrambos
=
DITTOLOGIA. Coppia di due elementi di norma collegati dalla congiunzione e, assai frequente specie nella poesia del Petrarca: Solo e pensoso i più deserti campi l vo mesurando a passi tardi e lenti (qui la doppia dittologia solo e pensoso ... passi tardi e lenti è disposta a chiasmo); del vario stile in ch'io piango e ragiono l fra le vane speranze e 'l van dolore; per alti monti e per selve aspre trovo l qualche riposo. La dittologia ha un particolare valore ritmico, oltre che seman· tico: nell'uso costante che i poeti d'ogni tempo ne hanno fatto è possibile notare l 'una e l'altra caratterizzazione, a seconda dei contesti. Ad esempio, nei famosi versi leopardi ani: quando beltà splendea l
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Dominante
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negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, l e tu, lieta e pensosa, il limitare 1 di gioventù salivi?, la primaria connotazione semantica è rafforzata dagli esiti ritmici che le dittologie propongono nelle due diverse soluzioni melodiche degli endecasillabi. Etim.: dal gr. ditt6s = doppio, ripetizione, logia (l6gos) = parola. DOMINANTE. Termine usato dai formalisti russi (v. FORMALISMO) e soprattutto da Jurij Tynjanov. In un testo artistico esistono diversi fattori fra loro correlati: si chiama dominante quel fattore che subordina a sé tutti gli altri. Nella poesia la dominante è il ritmo.
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EGLOGA. L'egloga è un componimento poetico di genere bucolico (v.), cioè riguardante un argomento pastorale. Questo tipo di poesia assume già una particolare strutturazione tematica ed espressiva nella poesia ellenistica (I Il sec. a. C.) per opera soprattutto di Teocrito, che costitùisce il modello paradigmatico del genere idillico-pastorale. Le Bucoliche di Virgilio si difTerenziano per diversi aspetti dalla tipologia teocritea: il paesaggio è idealizzato, privo di spunti descrittivi e realistici e immerso in una atmosfera fantastica, quell'Arcadia mitica, dove i pastori trascorrono la vita cantando, che diventerà un topos imprescindibile del genere bucolico (si pensi all'Arcadia di Sannazaro e alla vastissima produzione pastorale del Settecento). Anche i personaggi, delineati da Teocrito con accenni realistici, talora non privi di ironia, diventano in Virgilio più astratti (in certi casi persino allegorici) ma non per questo stereotipati, soprattutto grazie al pathos malinconico con cui il poeta rivive e trasfigura nel mondo pastorale una precisa realtà storica. La Corti, 1969, p. 280 sgg., ha analizzato la storia del genere bucolico in rapporto all'Arcadia del Sannazaro, rilevando che nel Quattrocento tale codice subisce un'evoluzione, perché pur permanendo alcuni elementi tematici (l'Eden arcadico, i personaggi canonici ecc.) mutano il significato e la simbologia di tali presenze, ormai strettamente legate a un mondo cortigiano e umanistico. Dalla funzione allusiva assunta dai simboli pastorali derivano i testi a chiave, con nuove forme narrative e drammatiche. Nel Settecento, l'affermarsi della poetica e del gusto del Crescimbeni sul neoclassicismo più severo del Gravina fa sì che « nell'attività letteraria dell'Arcadia sempre più prevalgano sonetti e canzoni idillico-pastorali, espressione dell'animo più sincero di un'epoca negata a veri sentimenti eroici, tragici, appassionati» (W. Binni, Il Settecento letterario, in Cecchi-Sapegno, Storia della letteratura italiana, Milano, 1968, p. 384; si rimanda a queste pagine per un panorama aggiornato e criticamente assai stimolante).
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Elisione
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Etim.: dal gr. eklogé = scelta (nel senso di componimento a sé stante). ELEGIA. Secondo l'Arte poetica di Orazio, che riprende il pensiero comune dell'antichità, l'elegia derivava sia dalle cerimonie funebri (lamenti e iscrizioni in onore di un defunto), sia dai ringraziamenti votivi dei fedeli che accompagnavano le offerte. Di qui i due caratteri ben distinti dell'elegia: la tristezza per la morte o il dolore, la letizia dovuta all'amore. Nella letteratura alessandrina l'elegia ha normalmente un carattere dotto e impegnato, ma spesso esperienze d'amore infelice vengono associate a miti e a storie esemplari, ricche di pathos drammatico. L'effusione di sentimenti più personali e leggeri è normalmente affidata all'epigramma, che per molti aspetti ha una genesi parallela all'elegia. l ne6teroi latini, cioè i seguaci della poetica alessandrina, fra cui Catullo, coltivano entrambe le forme, senza una rigida distinzione tematica. L'elegia non è più esclusivamente mitologica ed erudita, ma esprime un sentimento d'amore personale e travagliato. L'elegia del periodo augusteo, con Tibullo, Properzio e Ovidio, riunisce in una sintesi equilibrata aspetti tematici e tonali che derivano da diversi generi: l'epillio, l'epigramma, l'elegia preziosa secondo la tradizione ellenistica, la poesia catulliana, traboccante di passionalità. Si delinea, più che un genere, un'atmosfera elegiaca caratterizzata da un sentimento di contenuto dolore, di tristezza e di malinconia, che costituirà un modulo ricorrente (anche se assai vario) nella storia della letteratura. Il metro caratteristico dell'elegia classica è il distico (v.), formato da un esametro e da un pentametro. A partire dal XV secolo - come ricorda l'Elwert, 1973, p. 144 - la terzina viene usata come equivalente del distico elegiaco, ad esempio nella traduzione delle Bucoliche e delle Georgiche di Virgilio; la stessa strofa ricorre nelle egloghe, ad esempio nel Corinto di Lorenzo il Magnifico e nell'Arcadia del Sannazaro. ELENCAZIONE. v.
ENUMERAZIONE.
ELISIONE. L'elisione è la caduta della vocale finale di una parola davanti a un'altra parola iniziante con vocale. Si tratta di un fenomeno fonetico comune nella lingua parlata, che si ritrova anche nella poesia, per quanto non costituisca una figura metrica. Il segno diacritico dell'elisione è l'apostrofo. Es.: tal mi fec'io di mia virtude stanca (Dante). L'elisione (da non confondersi con la sinalefe, v. METRICA) è molto frequente nella poesia dei primi secoli; forme consuete sono, ad esempio, ov', contr', tant', s' ecc. Si può avere elisione anche nell'ambito di una parola, lasciando cadere la vocale finale: si tratta più precisamente di apocope (v.): quand'io parti' dal sommo piacer vivo
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(Petrarca); il caso più frequente di questo tipo d'elisione è la forma i' (io): ch'i' son tornato nel primo proposto (Dante). Nella lirica moderna l'uso dell'elisione è molto più contenuto.
ELLISSI. Eliminazione di alcuni elementi di una frase. L'ellissi può essere situazionale, quando i termini soppressi sono integrati dalla situazione (es.: l'ho scritto: il compito, l'articolo ecc. a seconda del contesto) o grammaticale (es.: completamente rovinato! sott. io sono). f: celebre un verso dell'Alfieri che rappresenta un dialogo serrato, fortemente ellittico: «Scegliesti? » « Ho scelto». « Emon? » « Morte». « L'avrai ». L'ellissi è una figura sintattica che nella retorica antica è compresa nella detractio ( = omissione di elementi) e nella brevitas (=concisione espressiva). Si veda Lausberg, 1969, p. 170. Etim.: dal gr. elléipsis = mancanza. ELOCUTIO. Terza parte della tecnica retorica detta in greco lexis e in latino elocutio, ossia l'espressione delle idee soprattutto attraverso le figure del linguaggio. L'operazione fondamentale dell'elocutio, secondo Barthes, 1972, p. 99, è la scelta delle parole (electio) e la loro combinazione (compositio). Il primo atto ci introduce nel vasto campo dei tropi, cioè delle figure di sostituzione linguistica; le figure sono necessarie allo scrittore perché la comunicazione normale è neutra, opaca e deve quindi essere « ornata », « fiorita », « colorita ». Lo scarto ietorico-stilistico introduce i colores, i lumina, i flores, le « bellezze » che ricoprono la nudità del linguaggio prosaico. Ciò spiega perché proprio l'elocutio sia diventata la parte più importante della retorica, dando luogo alla proliferazione dei cataloghi delle figure (v.). II concetto basilare che sta dietro alla teoria classica dello stile ornato è lo straniamento linguistico: il poeta deve dire le cose, allontanandosi dalle locuzioni comuni - come raccomanda Aristotele -, per provocare nel destinatario uno choc, un effetto imprevisto (cfr. Lausberg, 1969, p. 60 sgg.). L'ornatus mira propriamente alla bellezza dell'espressione e può essere « vigoroso » (come variante del genere sublime, v. STILE), « soave», « elegante » ecc. Si distinguono alcune proprietà tipicamente oratorie, quali la grazia, la purezza, la concinnitas ( = armonia), la chiarezza brillante, l'urbanità, la sottigliezza ecc. « L' ornatus deve la sua definizione alle preparazioni che servono ad ornare la tavola di un banchetto: il discorso stesso viene concepito come pietanza da consumare. A questa sfera di immagini appartiene anche la definizione dell'ornatus come condimentum (condita oratio, conditus sermo) » (Lausberg, 1969, p. 99). Etim.: elocutio da loqui = parlare. EMBLf:MA. f: un aspetto della caratterizzazione del personaggio. Un oggetto, un luogo, un nome sono strettamente associati al personaggio,
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Enàl/age
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sicché il loro apparire nella sfera del racconto allude, anche in absentia, al personaggio stesso, di cui sono l'emblema. Secondo DucrotTodorov, l'emblema « è un esempio di utilizzazione metaforica delle metonimie: ciascuno di questi particolari acquista un valore simbolico » (1972, p. 251). Così, nei Promessi sposi, il «pane del perdono» è l'emblema di padre Cristoforo, è associato alla sua stessa vocazione religiosa; gli immensi poderi, ne La roba del Verga, sono quasi un prolungamento fisico di Mazzarò (Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia). In senso più ristretto, la descrizione fisica di un individuo, i particolari del suo abbigliamento, qualche gesto caratteristico possono essere considerati emblematici, cioè significativi della condizione (ad esempio sociale) o del carattere morale o della psicologia del personaggio: ad esempio, la puntuale raffigurazione dei bravi nei Promessi sposi. Etim.: dal gr. émbléma = inserzione, annotazione.
EMISTìCHIO. Un verso è diviso dalla cesura in due parti detti emistichi. Ad esempio, l'endecasillabo (v.) può essere formato da un quinario e da un senario piani: e questa siepe, l che da tanta parte (Leopardi); da un quaternario tronco e da un settenario: odo stormir l tra queste piante, io quello (Leopardi); da un settenario e da un quinario piani (con sinalefe fra la sillaba finale del primo emistichio e la prima sillaba del secondo): dell'ultimo orizzonte / il guardo esclude (Leopardi); per citare solo alcuni casi notevoli. Etim.: dal gr. hemistichion = hemi (mezzo), stichos (verso). EMITTENTE. v.
COMUNICAZIONE, LINGUAGGIO.
EMOTIVA (funzione). Secondo Jakobson (v. LINGUAGGIO, l) la funzione emotiva è incentrata sul mittente e pone in risalto l'atteggiamento del soggetto riguardo a ciò di cui si parla. In senso lato, la funzione emotiva abbraccia le connotazioni psicologiche e sentimentali dell'io, ad esempio nella lirica, nel monologo interiore, nel flusso di coscienza ecc. ENÀLLAGE. L'enallage è, innanzi tutto, una figura grammaticale impostata sullo scambio funzionale di una parte del discorso con un'altra; ad esempio, i modi e i tempi del verbo, l'aggettivo al posto del verbo ecc. Il cosiddetto infinito storico o anche il presente narrativo, che sostituiscono normalmente l'imperfetto o il passato remoto, sono forme di enallage; ma anche domani parto, corre veloce (invece di domani partirò, corre velocemente) rientrano in questo tipo di sostituzione grammaticale. Per alcuni l'enallage si identifica con l'ipallage (v.), quando lo spostamento riguarda un aggettivo: « l'aggettivo
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Endecasillabo
viene riferito grammaticalmente invece che al sostantivo cui dovrebbe semanticamente essere legato, a un altro sostantivo del contesto » (Lausberg, 1969, p. 169-170). Esempi classici: altae moenia Romae (Virgilio), cioè « le mura dell'alta Roma » invece di « le alte mura di Roma »; ibant obscuri sola sub nocte (Virgilio) invece di « ibant soli obscura sub nocte » = andavano solitari nella notte oscura). Un esempio celebre di enallage-ipallage: il divino del pian silenzio verde (Carducci). Etim.: dal gr. enal/assein cambiare in senso inverso.
=
ENDECASILLABO. Verso di undici sillabe metriche (v. METRICA), con ictus costante sulla decima e accenti principali mobili, per lo più sulla quarta o sesta sillaba (nel senso di posizione: cfr. Di Girolamo, 1976, p. 22). L'endecasillabo è formato da due membri o emistichi, separati dalla cesura (v.), corrispondenti a un settenario e a un quinario. Si chiama endecasillabo a minore quello in cui il primo membro è un quinario, a maiore l'endecasillabo il cui primo emistichio è un settenario. Sia il quinario sia il settenario possono essere tronchi, piani e sdruccioli, sicché le varianti possono essere numerose. Comunque, nell'a minore, il secondo membro sarà: un settenario, se il quinario è tronco: onde poniam l che di neces· sitate (Dante) un settenario, se il primo emistichio è piano e presenta sinalefe: parer la fiamma, l e pur a tanto indizio (Dante) un senario, se il primo membro è piano ma non presenta sinalefe col secondo: in forma dunque l di candida rosa (Dante) un senario, se il primo emistichio è sdrucciolo e in sinalefe col secondo: onde si muovono l a diversi porti (Dante). Nell'endecasillabo a maiore, il secondo membro sarà: un quinario, se il primo settenario è tronco: nel mezzo del cammin l di nostra vita (Dante) un quinario, se il primo emistichio è piano e presenta sinalefe col secondo: quanto disobediendo l intese ir susa (Dante) un quadrisillabo, se il primo membro è piano e non ha sinalefe col secondo: lo lume era di sotto l da la luna (Dante) un quadrisillabo, se l'endecasillabo è sdrucciolo con sinalefe: io dico d'Aristati/e l e di Plato (Dante) un trisillabo, se il primo membro è sdrucciolo e non ha sinalefe col secondo: avrei quelle ineffabili l delizie (Dante). Queste nove strutture sillabiche, articolandosi in ritmi diversi (v. ACCENTO), danno luogo ad almeno 22 tipi di endecasillabi, secondo lo schema di Di Girolamo, 1976, p. 37. Rimangono tuttavia costanti alcuni elementi, riguardanti l'ictus, e cioè: sia l'a minore sia l'a maiore hanno un accento metrico sulla decima; l'a minore sulla quarta
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Endecasillabo
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sillaba (posizione), l'a malore sulla sesta. Restano posizioni «libere» cioè disponibili o meno all'accento, la la, la 2 8 , la 3a, la 4 8 , la 7a, e l'8a nell'a maiore; la la, la 2a, la 58 , la 6 8 , la 7 8 , 1'8 8 nell'a minore. l. Il ritmo dell'endecasillabo. Il ritmo dell'endecasillabo è dato dalla varia successione dj accenti primari e secondari (v. ACCENTO), tenendo conto che gli ictus primari sono tre o quattro o cinque: Onorate l'altissimo poéta (Dante) quanto per mente e per lOco si gira (Dante) Cosi rispuose allora il duca mio (Dante). Si veda per gli esempi Di Girolamo, 1976, p. 43. Presentiamo in sintesi alcune forme ritmiche fondamentali dell'endecasillabo, con riferimento alla tipologia classica del giambo, trocheo, dattilo e anapesto riproponibile nella metrica accentativa (v. ACCENTO). Secondo l'Elwert, 1973, p. 60 (da cui si riportano gli esempi), loschema ritmico fondamentale è quello giambico ascendente: Il griin sepolcro adora, l e scioglie il voto (Tasso) 2
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Il ritmo trocaico-dattilico dà luogo a una struttura discendente: Quanto piu desiose l l'ali spiindo (Petrarca) 1
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Una forma mista si ha col primo emistichio ascendente (ritmo giambico-anapestico) e col secondo discendente (ritmo trocaico-dattilico): Le donne i càvalier l l'iirme gli amori (Ariosto) 2
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Hài di stelle immortali 3
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aurea corona (Tasso)
giambico + dattilico
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anapestico +dattilico Una variante del ritmo giambico presenta l'ictus in l a: Molto soffri l nel glòrioso acquisto (Tasso) 1
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Questi ritmi fondamentali danno luogo a dodici tipi diversi di endecasillabi, secondo un'analisi del Sesini (L'endecasillabo, struttura e peculiarità, in « Convivium », 1939, p. 549 sg.): a) Di quei sospiri ond'io nudriva '/ core
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b) Lassar il velo o per sole o per ombra ._,
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......
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c) E 'l giorno andrà pien di minute stelle
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d) Se non che 'l veder voi stesse v'è tolto
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e) E punire in un dì ben mille offese
,
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,
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Eìndìadi
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f) A Giudea sì tanto sovr' ogni stato g) E col mondo e con mia cieca fortuna
,
,
h) Spezza a tristi nocchier governi e sarte
,
~
i)
Nudo se non quanto vergogna il vela
l)
Onde questa gentil donna si parte
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''-''
,
m) Movesi il vecchierel canuto e bianco
-
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......
,
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,
n) Se la mia v1ta da l'aspro tormento
, ....., ,.._,'""" , -.......,; ,. """ Questi endecasillabi (tutti del Petrarca) vengono distinti in quattro gruppi sulla base della struttura ritmica del primo emistichio: a-d/ incipit giambico; e-g/ anapestico; h-1/ trocaico; m-n/ dattilico. Si potrà rilevare che la tipologia del Sesini non affronta il problema degli ictus secondari; e inoltre, qualche esempio potrebbe essere interpretato diversamente. Così E 'l giorno andrà pien di minute stelle potrebbe avere un ictus principale su andra e uno secondario su dì. L'endecasillabo con ictus sulla settima è presente nella Commedia, ma dal Petrarca in poi è più raro; lo schema ritmico può essere di tipo dattilico, con accenti sulla l a, 4 8 , 7 8 , 10 8 , come nel dantesco si che il pié fermo sempre era il più basso. L'endecasillabo dattilico venne usato dal Pascoli, specie in unione col decasillabo: O Valentino vestito di nuovo / come le brocche dei biancospini! t costituito da un quinario e da un senario piani, con cesura dopo la quarta posizione. 2. Gerarchie ritmiche. Un problema complesso è costituito dalla di stinzione fra ictus principali e secondari nell'endecasillabo. Come osserva il Di Girolamo, 1976, p. 39 sgg., la lettura prosodica (cioè « normale ») può differenziarsi da quella ritmica. Mentre nel verso La gloria di colui che tutto move (Dante) i due livelli coincidono perfettamente, in de li angeli che non furon ribelli il ritmo prosastico accenta angeli, e/tè, furon, ma la scansione indica una cesura fra non e furon, sicché un ictus secondario dovrà mettere in risalto la sesta sillaba metrica: de li angen che non l j{iron ribelli. Nell'endecasillabo gli ictus primari devono essere almeno tre (due soli ictus presuppongono parole molto lunghe); in ogni emistichio si avrà almeno un ictus principale (generalmente sulla 4 8 e 10 8 nell'a minore, sulla 6 8 e 10 8 nell'a maiore). Resta comunque talora problematico stabilire con esattezza l'intensità degli ictus, mentre è fondamentale individuare la distinzione fra arsi (ictus primari e secondari) e tesi (posizioni atone). ENDiADI. L'endiadi è una figura sintattica di origine classica con-
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Enjambement
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sistente nell'esprimere un concetto mediante due termini coordinati. Così nel virgiliano pateris libamus et auro la coppia di sostantivi (endiadi) sta al posto del sintagma pateris aureis ( = con coppe d'oro). Costruzione analoga può essere considerato l'accumulo del tipo: sento mancarmi la gioia e la vita ( = la gioia della vita) e, in certi casi. la dittologia in cui i due termini siano semanticamente affini o si completino a vicenda: O del/i altri poeti onore e lume (Dante), dove onore e lume vuoi dire sapienza prestigiosa, onorifica (con un denso sintagma metaforico); e ha natura sì malvagia e ria (Dante): i due aggettivi sono varianti semantiche correlative e complementari. Etim.: dal gr. hén dia dy6in = una cosa per mezzo di due.
ÈNFASI. L'enfasi è una figura retorica che consiste nel porre in particolare rilievo un termine o una frase. Es.: Lui, lui sa quello che voglio dire!; Luigi è la persona a cui rivolgersi; quello è un uomo. L'ultimo esempio caratterizza la figura secondo il significato della retorica classica, che considera l'enfasi come una sorta di allusione sottintesa nelle parole pronunciate; per cui uomo vorrà dire, in diversi contesti, persona decisa, coraggiosa, leale ecc. oppure debole, fragile, soggetta a sbagliare (è un uomo anche lui). Cfr. Quint. IX, 2, 64. «Per l'oratore e per l'attore» precisa Lausberg, 1969, p. 120 « l'enfasi semantica si identifica con un "aumento di intensità della voce e dei gesti". Nelle lingue moderne, la parola enfasi assume questo significato che ha la sua origine nel linguaggio tecnico degli attori ». Sicché il termine coincide oggi con una particolare forma di elocutio emotiva, esclamativa, iperbolica, esagerata, affettata, sentenziosa ecc. in relazione alle circostanze del discorso, al tono e alle sottolineature espressive con cui si vuole « marcare » una parola o un concetto. Una sottile, abilissima enfasi, ricca di allusioni, di sussiego e di coperta ipocrisia, percorre tutto il dialogo fra il Conte Zio e il padre provinciale dei cappuccini, nei Promessi sposi. A esempio: Ognuno ha il suo decoro da conservare; e poi, come superiore (indegno), ho 'un dovere espresso ... L'onor dell'abito ... non è cosa mia ... è un deposito de[ qua/e... Si veda anche: ANTIFRASI, APOSTROFE, CIRCONLOCUZIONE, DEPRECAZIONE, RIZIONE, RETICENZA.
INTERROGAZIONE,
IPERROLE,
PATHOS,
PRETE-
Etim.: dal gr. emphainein = esibire, dimostrare.
ENJAMBEMENT. Quando la fine del verso non coincide con la fine di una frase o di una parte di essa, semanticamente autonoma, l'enunciato continua nel verso seguente, provocando l'enjambement: Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge (Foscolo).
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Enunciato
Ogni endecasillabo si piega sul seguente, creando una musica lenta e maestosa, che sembra quasi ritmare la grave meditazione del poeta. L'enjambement, rompendo il parallelismo fra sintassi e metro, è chiamato « spezza tura » dal Di Girolamo, 1976, p. 55; il Fu bini ha ripreso la vecchia denominazione cinquecentesca di « inarcatura », ma sembra preferibile conservare il termine francese ormai generalizzato. Le forme più comuni di enjambement riguardano la frattura metrica di due parole costituenti un sintagma (interminati l spazi ... , sovrumani l silenzi; Leopardi) o di gruppi nominali-preposizionali costituenti una frase. Si vedano alcuni esempi tratti dall'Infinito:
e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude (vv. 2-3). L'espansione relativa include un ampio gruppo preposizionale (da l dell'ultimo orizzonte), sicché l'enjambement prolunga il secondo emistichio del v. 2 sull'arco totale del successivo, dove la cesura in 7 8 è meno intensa della precedente in 5 8 .
tanta parte
E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando (vv. 8-11). Tra il v. 8 e 9 l'enjambement collega il gruppo del soggetto al gruppo verbale, mentre quello è un determinante del gruppo sintagmatico incentrato su silenzio; tuttavia sintatticamente quello l infinito silenzio è il complemento oggetto prolettico di vo comparando, donde l'altro enjambement fra i vv. 10-J l. Si chiama rigetto la parte della frase, successiva all'enjambement, che conclude l'enunciato (ad esempio, vo comparando). V. anche CONTRORIGETTO. Un tipo notevole di enjambement è quello che riguarda il legame fra strofa e strofa (le due quartine di un sonetto, le terzine, le quartine e le terzine ecc.). Etim.: dal fr. enjamber = oltrepassare in campo altrui (forma figurata da jambe = gamba).
ENUNCIATO. L'enunciato è ogni sequenza conclusa di parole emessa da uno e più locutori; può essere formato da una o più frasi c caratterizzarsi secondo il tipo di discorso (enunciato letterario, satirico, politico ccc.). di comunicazione (enunciato verbale o scritto), di lingua (enunciato italiano, latino, inglese ccc.). L'enunciato è analizzato in frasi (e talora è identificato nella frase stessa) secondo le diverse tipologie della linguistica strutturale (v.). ENUNCIAZIONE. L'enunciazione è l'atto individuale_della locuzione nel quale emerge il parlante sia attraverso i pronomi personali (io, tu ecc.) sia mediante l'uso di altri deittici (v.) che evidenziano i fattori di spazio e di tempo (qui, ora, là, ieri ecc.). Caratterizzano l'enuncia-
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Enumerazione
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zione, in rapporto con l'enunciato, anche altri mezzi del discorso (v.): i verbi performativi (prometto, giuro), le espressioni valutative ed emotive (che implicano un giudizio o un sentimento del soggetto dell'enunciazione), gli elementi modalizzanti (certamente, forse, senza dubbio ecc.). Lo studio dell'enunciazione è della massima importanza per individuare le connotazioni stilistiche (v. STILE, l) e le funzioni della narrazione (v. vocE). ENTIMÈMA. È una forma di ragionamento sillogistico-retorico (v. INVENTIO, RETORICA) in cui è sottaciuta una delle due rationes o premesse. Si veda Lausberg, 1969, p. 200 sgg. e Perelman-Oibrechts-Tyteca, 1966, p. 246 sgg. Etim.: dal gr. enthymeisthai = tenere in mente, considerare. ENTROPiA. Nella teoria dell'informazione l'entropia (il termine indica nella termodinamica lo stato di disordine degli clementi gassosi) rappresenta l'equiprobabilità degli eventi possibili alla fonte (ad esempio, quanti messaggi possono derivare dai tasti di una macchina per scrivere). Il codice, introducendo un sistema di regole, seleziona i messaggi possibili, riducendo l'entropia e permettendo un certo grado di informazione. L'entropia è sempre un fattore di incertezza per il destinatario. Etim.: dal gr. en = in, tropé = rivolgimento. ENUMERAZIONE. È una figura retorica affine all'accumulazione (v.): consiste in un particolare raggruppamento di parole per coordinazione, sia mediante l'asindeto sia mediante il polisindeto. Molto frequente e comune, specie nella prosa, è l'enumerazione ricapitolante, che riprende enunciati o idee precedentemente svolti. L'enumerazione può anche anticipare, con una certa enfasi (v.), il concetto fondamentale su cui si vuole insistere (ad esempio: furti, rapine, estorsioni, violenze d'ogni genere: ecco alcuni aspetti della gra11e crisi sociale e morale della nostra società). Particolarmente efficace è l'enumerazione per asindeto (v.). che talora sconfina nell'accumulazione caotica (v.). In poesia va sottolineata l'enumerazione o accumulo nominale che ha in D'Annunzio un rilevante valore stilistico. Ad esempio, in M aia: O Vita, o Vita, l dono terribile del dio, l come una spada fedele, l come una ruggente face, l come la Gorg0110, l come la centaurea veste; l o Vita, o Vita, l dono d'oblio, l offerta agreste, l come un'acqua chiara, l come una corona, l come un fiale, come il miele ... L'enumerazione procede a grappoli di sintagmi nominali, sia mediante apposizioni, sia per mezzo di similitudini, sia con iterazioni e anafore ecc. Anche la prosa dannunziana si avvale molto spesso di questa figura: Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari, ma la Roma dei Papi; non la Roma degli archi, delle Terme, dei Fori, ma fa Roma
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Epanadiplòsi
delle Ville, delle Fontane, delle Chiese (da Il Piacere). Oppure con un più insistito uso dell'ellissi verbale: La testa fasciata. La bocca serrata. L'occhio destro offeso, livido. La mascella destra spezzata: comincia il gonfiore. Il viso olivastro: una serenità insolita nell'espressione. Il labbro superiore lll1 poco sporgente, un po' gonfio. Batuffoli di cotone nelle narici. L'aspetto di un principe indiano col turbante bianco. Le mani conserte sul petto, giallastre. I due piedi fasciati di garza bianca (da Il notturno). Un caso particolare di enumerazione è l'« elencazione ellittica», frequente in Montale (cfr. A. Jacomuzzi, Sulla poesia di Montale, Bologna, 1968). Esempi: La bufera che sgronda sulle foglie ... l il lampo che candisce l alberi e muri... l - e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere l dei tamburelli sulla fossa fuia, l lo scalpicciare del fandango, sopra l qualche gesto che annaspa ... (da La bufera); I bimbi sotto il cedro, funghi o muffe l vivi dopo l'acquata, l il puledrino in gabbia l con la scritta « mordace », l nafta a nubi, sospese l sui canali murati, l fumate di gabbiani, odor di sego l e di datteri, il mugghio del barcone, l catene che s'allentano l- ma le tue le ignoravo- l sulla scia l salti di tonni, sonno, lunghe strida l di sarei, oscene risa, anzi che tu l apparissi al tuo schiavo ... (ibid.). L'elencazione ellittica tende in Montale a focalizzare l'attenzione sugli oggetti, caricati di un valore simbolico, soprattutto correlati a un ricordo. Un precedente, nell'ambito delle poetiche novecentesche, è l'enumerazione ironico-sentimentale dei crepuscolari: Loreto impagliato ed il busto d'Alfieri, di Napoleone, l i fiori in cornice (le buone ~cose di pessimo gusto), l l il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti, l i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, l l un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, l gli oggetti col monito, salve ricordo, le noci di cocco ... (Gozzano). Nel monologo interiore e soprattutto nel flusso di coscienza, l'enumerazione può dar luogo all'accumulo caotico, come in Joyce: Cos'è che vola? Rondine? Pipistrello probabilmente. Mi piglia per un albero, è così cieco. Gli uccelli non hanno odorato? Metempsicosi. Si credeva che uno si potesse trasformare in albero per il dolore. Salice piangente. Pip. Eccolo là. Bestiolina buffa. Chissà dove vive. Lassù sul campanile. (dall' Ulisse). EPANADIPLÒSI. B una figura che consiste nel ripetere una parola all'inizio e alla fine di una frase o di un verso (o di più versi). Es.: Un giorno finisce e nasce un altro giorno. Si veda anche ANADIPLOSI. Sinonimo di epanadiplcsi è epanàstrofe. · Etim.: dal gr. epanadiplosis = raddoppiamento. EPANALESSI. Come figura sin tattica l 'epanalessi è la ripresa, dopo un certo intervallo, di una o più parole per rafforzare l'idea che si vuole esprimere. Es.: Nelle condizioni attuali della nostra economia,
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Epica
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e si badi sottolineiamo «nelle condizioni attuali», non si può dire quali sbocchi potrà avere la crisi. Nella retorica antica l'epanalessi è un aspetto della iteratio, c10e dell'iterazione o ripetizione di un elemento della frase in qualsiasi parte dell'enunciato (inizio, centro, fine). Si v. Lausberg, 1969, p. 133. Il Morier dà dell'epanalessi la definizione sopra riportata per l'epanadiplosi; giustamente sottolinea gli effetti di senso che l'iterazione può comportare (v. ANTANACLASI}, come nella frase pascaliana: Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Si veda Morier, 1975, p. 417. Etim.: dal gr. epanalepsis = riprendere, prendere di nuovo. EPANORTÒSI. Figura logica che consiste nel ritornare su ciò che si è detto sia per sfumare l'affermazione sia per attenuarla o per ritrattarla (in tal caso si parla anche di correzione). E spesso preceduta dalla forma: « che cosa dico? ». P. un delinquente, che cosa dico?, è un pazzo. Etim.: dal gr. epan6rthosis = correzione. EPÈNTESI. È un fenomeno morfologico che consiste nell'inserzione di un fonema all'interno di una parola. Così nel lessema inverno la n non è giustificata etimologicamente rispetto al latino hibernum. Come fatto stilistico l'epentesi può dar luogo a forme nuove, strane, a storpiature ironiche di parole, a metalinguaggi (ad esempio, liucidare invece di lucidare, col richiamo metalinguistico di una determinata cera). In Gadda è assai usata la deformazione popolaresca di termini tecnici o colti: setticimicia per setticemica. Etim.: dal gr. epénthesis = inserzione. EPICA. L'epos, come « parola » affidata alla misura del metro, trasmessa oralmente di generazione in generazione attraverso il canto degli aedi, è la poesia più antica e tradizionale della Grecia. L'Iliade e l'Odissea, i grandi poemi epici che vanno sotto il nome venerando di Omero, vennero composti fra il IX e il VII sec. a. C. da aedi che ripresero la leggenda della guerra di Troia e del ritorno di Ulisse in patria, dopo la caduta della città (il tema del n6stos, del ritorno era certamente il fulcro di altri racconti epici perduti). La visione della vita che emerge dall'epos omerico mostra la centralità del mito, come norma etica oltre che come elaborazione letteraria, nella trasmissione di un racconto esemplare, in cui l 'evento storico sfuma in un passato indefinito, favoloso e mirabile: dei ed eroi sono, per così dire, mescolati, divisi e uniti da passioni comuni, senza che, al limite, si avverta un divario, se non di potenza, fra gli uni e gli altri. L'epica è comunque celebrazione del guerriero, della sua individualità incoercibile (si ricordi il motivo dell'ira di Achille) che emerge nella lotta contro i nemici, dei quali solo i più degni vengono ricordati, men-
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Epica
tre la massa resta anonima, del tutto insignificante. L'Odissea ha una struttura narrativa più varia, perché la trama comporta una serie di topoi (v.), quali le peripezie dell'eroe, il racconto della sua vita, gli ostacoli per il conseguimento della meta, le prove decisive, il riconoscimento, la vendetta e la vittoria finale. Verso la fine del V sec. a. C. l'epica tradizionale è ormai tramontata, sia perché le condizioni socio-politiche sono molto diverse, sia perché l'esemplarità assiologica del mito è entrata in crisi di fronte alla ricerca storica e filosofica. La nuova epica riguarda, semmai, eventi gloriosi del popolo greco, come la guerra contro i Persiani, di cui si occupano Erodoto, Frinico ed Eschilo. Il mito, distanziato in un passato leggendario, acronico, è rivissuto nella poesia per il suo preminente valore estetico. In età ellenistica, l'epica è definitivamente abbandonata, anche se il mito è il nucleo vitale degli epilli e delle raffinate composizioni eziologiche, che nelle vicende mitiche ricercano l'origine di città, di culti e di costumi con un gusto abbastanza intellettualistico. L'epica latina subisce l'influsso della cultura ellenistica, anche se con Nevio ed Ennio pone le basi all'epopea nazionale (l'esaltazione del destino glorioso di Roma) che trova nell'Eneide il vertice poetico e il suo compimento. L'opera di Virgilio segna una singolare ripresa dell'elemento mitico nella compagine epico-storica e innova i topoi tradizionali del genere omerico puntando sia sullo scavo psicologico dei caratteri (si pensi all'amore di Didone) sia sugli effetti drammatici delle peripezie dell'eroe. Grandissimo fu l'influsso che il poema esercitò sulla cultura latina e sulla tradizione occidentale, ad esempio durante il Medioevo. Anche la Pharsalia di Lucano, che volle essere una radicale alternativa ali 'epica virgiliana, in quanto racconto pienamente storico e « demitizzato », non poté evitare il confronto col modello, seguito talora in forme strutturalmente speculari. Troppo complesso sarebbe tracciare anche un sommario profilo dell'evoluzione del genere epico. Basterà accennare alla ripresa, nelle letterature romanze, degli elementi costitutivi del poema, in un contesto culturale cristiano e in rapporto a eventi storici in qualche modo già leggendari, come le imprese dei paladini di Carlo Magno che costituiscono l'oggetto delle chansons de geste o quelle, più avventurose e raffinate, dei cavalieri di re Artù. Ed è noto come i due cicli, il carolingio e il bretone, si andassero via via fondendo per offrire non più che una materia di situazioni e di personaggi leggendari al gusto c all'ideologia pienamente umanistici di un Baiardo (l'Orlando Innamorato) o di un Ariosto (l'Orlando Furioso). Rispetto a questo epos, che diverge, specie nell'Ariosto, dalla storia per seguire le più sbrigliate vie della fantasia, la Gerusalemme liberata del Tasso rappresenta un tentativo di riforma, nel senso che il poema « eroico » deve conciliare la verità della storia (e per di più un'impresa « santa » come la crociata) con la « licenza del fingere », con l'invenzione poe-
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Epìfrasi
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tica. Equilibrio difficile che oscilla fra il pathos lirico o drammatico di alcuni momenti assiali e la vistosa scenografia manieristica delle imprese guerresche, delle parate, della macchina soprannaturale, che rappresenta il surrogato cristiano del mito, del magico e del cavalleresco tradizionali. Se !'epos è caratterizzato dalla presenza di un autore-narratore che racconta (canta) un determinato mythos (argomento favoloso) a un pubblico preferibilmente ristretto (ad esempio, la corte rinascimentale), sembra opportuno delimitarne i contorni topici, le forme istituzionali, le codificazioni stilistiche e metriche entro un'area non eccessivamente dilatabile; a meno che non si voglia ricadere nelle vecchie cataloga· zioni delle ·diverse << specie » di poesia epica: il poema storico, l'eroicomico, il mitologico (ad esempio, !'Adone del Marino), il poema sacro, per non parlare delle sottospecie, quali i poemetti, anch'essi storici, mitologici, pastorali ecc. (v. POEMA). Per un approfondimento del problema rimandiamo a: Frye, 1967 e 1973; Scholes-Kellog, 1970.
EPIFONÈMA. L'epifonema è una figura logica consistente in una frase sentenziosa con cui viene concluso, con una certa enfasi, il discorso. Es.: e 'l conoscer chiaramente l che quanto piace al mondo è breve sogno (Petrarca). Etim.: dal gr. epiph6néma = voce aggiunta.
EPìFORA. Ripetizione di una parola o di un gruppo di parole alla fine di un verso, di una strofa o, nella prosa, di un periodo. Si tratta di una figura sintattica d'iterazione da confrontare con l'anafora, l'anadiplosi e l'epanadiplosi, l'epanalessi, il refrain ecc. Sinonimo di epifora è epìstrofe. In una nota poesia di Rebora, Dall'immagine tesa, si ha prima l'epifora, poi l'anafora: Dall'immagine tesa l vigilo l'istante l con imminenza d'attesa - l e non aspetto nessuno; l nell'ombra accesa l spio il campanello l che impercettibile spande l un polline di suono- l e non aspetto nessuno: l fra quattro mura l stupefatte di spazio l più che un deserto l non aspetto nessuno: l ma deve venire, l verrà, se resisto l a sbocciare non visto, l verrà d'improvviso, l quando meno l'avverto, l verrà quasi perdono l di quanto fa morire, l verrà a farmi certo, l del suo e mio tesoro, l verrà come ristoro l delle mie e sue pene, l verrà, forse già viene l il suo bisbiglio. Etim.: dal gr. epiphérein = portare in aggiunta; etim. di epìstrofe: dal gr. epistrophé = volgersi indietro, ritorno.
EPÌFRASI. L'epifrasi è una figura logica che nella retorica antica è compresa nei fenomeni di amplificatio del discorso (cfr. Lausberg, 1969, p. 203); consiste nell'aggiungere a un enunciato conchiuso un'espansione, eventualmente di carattere esclamativo, sia come com-
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Epigrafe
mento di carattere morale sia come amplificazione quantitativa o qualitativa dell'idea precedentemente espressa. L'epifrasi è molto spesso un epifonema (v.). Es.: In tutte parti impera e quivi regge; l quivi è la sua città e l'alto seggio: l oh felice colui eu' ivi elegge! (Dante). Etim.: dal gr. eplphrasis = discorso attorno (completamento).
EPIGRAFE. Iscrizione di carattere commemorativo (ad esempio funebre: celebri le epigrafi del Giordani, nel secolo scorso). Interessa la letteratura una particolare accezione dell'epigrafe, cioè la citazione di un autore (di un verso, di una frase ecc.) all'inizio di un libro o di un capitolo o di una poesia, come ricordo o testimonianza pertinente al tema trattato. Ad esempio, i versi di Agrippa d'Aubigné (15521630) citati da Montale come epigrafe alla Bufera. Etim.: dal gr. epigraphé = iscrizione. EPIGRAMMA. L'epigramma ha un'origine analoga a quella dell'elegia (v.), in quanto iscrizione in distici di carattere votivo o funebre. Nella poesia greca l'epigramma ha spesso un carattere riflessivo, gnomico, parenetico ed anche amoroso. In particolare la letteratura ellenistica lo coltiva per i temi più leggeri, spesso sentimentali e in questa forma si diffonde a Roma alla fine del II sec. a. C. nel circolo di Lutazio Catulo e presso i ne6teroi, i « poeti nuovi », formatisi alla scuola di Valeria Catone, fra i quali il più grande fu Catullo. L'epigramma ha spesso anche carattere politico, ironico, scherzoso: le nugae sono appunto poesie brevi, disimpegnate, ricche di humour, risolte in battute scherzose. Il vertice dell'epigramma « leggero » è toccato da Marziale (l sec. d. C.). Come forma metrica l'epigramma si avvale per lo più del distico, reso in italiano, a partire dal Cinquecento, con una coppia di endecasillabi. Etim.: dal gr. epigramma = iscrizione. EPìLOGO. ~ la conclusione del discorso, secondo la dispositio retorica (v.). La tecnica oratoria prevede due aspetti dell'epilogo: la ripresa degli argomenti e l'appello ai sentimenti. Soprattutto questo secondo livello offriva all'avvocato numerose chances per esibire un vasto repertorio di trovate, non esclusi i gesti plateali (i figli ·dell'accusato, la vecchia madre, l'arma del delitto ecc.). In senso generale, l'epilogo è la sequenza conclusiva di una trama (v.), ad esempio di una novella, di un romanzo, di un poema. Citiamo l'epilogo della Gerusalemme liberata: Così vince Goffredo ed a lui tanto l avanza ancor de la diurna luce, l ch'a la città già liberata, al santo l oste! di Cristo i vincitor conduce. l Né pur deposto il sanguinoso manto, l viene al tempio con gli altri il sommo duce, l e qui l'arme sospende, e qui devoto l il gran sepolcro adora, e scioglie il voto. Etim.: dal gr. epilogos = discorso aggiunto, conclusivo.
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Epizèusi
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EPiNICIO. Canto in onore di uri vincitore nei giochi ginnici, tipico
della poesia greca (es.: gli epinici di Pindaro). Interessa ricordare l'ode pindarica per l'influsso che ha esercitato, a partire dal Rinascimento, sulle soluzioni metriche della canzone (v.). Etim.: dal gr. epinikion = canto per la vittoria. EPISODIO. Dal significato tecnico che l'episodio aveva nella trage-
dia greca, cioè la scena (anche complessa) compresa fra due canti corali, è derivato il valore di azione secondaria inserita in un intreccio narrativo, una sorta di deviazione o di diversivo dal tema fondamentale. In questo senso, l'episodio può essere o una descrizione molto ampia (lo scudo di Achille nell'Iliade) o un racconto nel racconto (l'episodio di fra Galdino nei Promessi sposi). Nella moderna narratologia l'episodio è invece considerato come una unità strutturale della trama, che nasce dalla successione di più episodi o macrosequenze. Per un'informazione più dettagliata si vedano le voci: FABULA, TRAMA, INTRECCIO, NARRATIVA.
Etim.: dal gr. epeis6dion = entrata. EPÌTASI. Nella tradizionale divisione del dramma, l'epitasi segue alla
protasi (l'informazione preparatoria) e comprende gli episodi fondamentali, il nucleo dell'azione. All'epitasi segue la catàstasi o momento ritardante, che rappresenta il risultato dell'azione, cui pone fine la catastrofe. Cfr. Lausberg, 1969, p. 43. EPÌTESI. v.
EPENTESI, PARAGOGE.
EPITETO. Nella linguistica francese l'epiteto è l'aggettivo qualifica-
tivo o il determinante del nome. Es.: la pargoletta mano (Carducci). Il termine è usato dalla retorica antica soprattutto in rapporto all'ornatus stilistico, quando la qualificazione non è semanticamente necessaria per comprendere un enunciato ma vale soprattutto per una caratterizzazione espressiva. Etim.: dal gr. epitheton = posto in aggiunta. EPITROCASMO. È una enumerazione di elementi nominali e ver-
bali, sui quali, con voluta concisione, lo scrittore non si sofferma. Etim.: dal gr. epitrochasm6s = flusso di parole. EPIZÈUSI. L'epizeusi è una figura di iterazione: consiste nel ripe-
tere una parola o un gruppo di parole ali 'inizio, al centro o alla fine di un enunciato, senza intervalli, come nel caso dell'anafora o dell'epistrofe (v.). Es.: Amore, l amor, di nostra vita l'ultimo inganno l t'abbandonava (Leopardi). Si noti la differenza fra l 'epizeusi e l'anadiplosi (v.). Etim.: dal gr. epizeuxis = unione.
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Epòdo
EPòDO. B la terza parte dello schema dell'ode pindarica, dopo la strofe e l'antistrofe (v.). Per la ripresa di questa struttura strofica classica nella poesia italiana si veda: CANZONE, CANZONETTA. Etim.: dal gr. epodòs = canto aggiunto.
EQUIVALENZA. v.
IMPLICAZIONE.
EQUIVOCO. « Caratterizza l'ambiguità semantica d'una parola o d'una espressione. Perciò è sfruttato dall'allusione, dall'anfibologia, dall'antanaclasi, dalla sillessi ecc.; si fonda sulla polisemia, sull'omonimia o sull'omografia delle parole» (Mounin, 1974, p. 128). L'equivocità in senso Iudica-ironico è alla base del calembour e dei più sottili giochi di parole consentiti dall'incontro-scontro di aree semantiche affini. B pertanto una modalità della pluri-isotopia del linguaggio (v.). Per l'esemplificazione si rimanda alle voci citate. ERLEBNIS. Il termine, che vuol dire
« esperienza vissuta », è usato nella metodologia letteraria per indicare il complesso di fatti rivissuti nella coscienza dello scrittore, che sono trasvalutati nell'espressione artistica. L'Erlebnis non è solo l'autobiografia per così dire immediata, ma anche la vicenda interiore, speculativa, onirica, culturale ecc. Si potrebbe confrontare I'Erlebnis con la sostanza dei contenuti che, nell'ideazione estetica, diventano la forma dei contenuti del messaggio
(V. LINGUISTICA, 3).
Etim.: dal ted. er/eben = vivere.
ERMENEUTICA. v.
INTERPRETAZIONE.
EROE. L'eroe è il personaggio principale o protagonista di una vicenda, l'attore di una rappresentazione assai varia (v. NARRATIVA) dietro alla quale si possono intravedere schemi generali o funzioni codificate, così come la varietà dei personaggi può essere ricondotta a un modello attanziale abbastanza semplificato (v. ATl"ANTE). Da questo punto di vista non esiste una plausibile tipologia dell'eroe, che è sem· plicemente un personaggio (v.). Il Frye, 1969, p. 45 sgg., ampliando un accenno di Aristotele net secondo paragrafo della Poetica, ritiene che le opere d'invenzione possano essere classificate « secondo le capacità d'azione dell'eroe che possono essere maggiori, uguali o minori delle nostre». Ne deriverebbe il seguente paradigma: l. L'eroe è superiore come tipo agli uomini: è un essere divino e la sua storia è un mito. 2. L'eroe è superiore in grado agli altri uomini e al suo ambiente: è il protagonista del racconto fantastico (romance), delle leggende e dei racconti popolari dove ritroviamo come funzioni tipiche i prodigi,
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Esametro
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gli incantesimi, le fate e le streghe, gli animali parlanti, i talismani miracolosi ecc. 3. L'eroe è superiore agli altri uomini ma non al suo ambiente naturale: è il capo, il personaggio principale dell'epica e della tragedia, cioè delle opere letterarie alto-mimetiche, secondo Aristotele. 4. L'eroe non è né superiore agli altri uomini né al suo ambiente: è uno come noi (non è, insomma, un « eroe » ); è il tipico personaggio della commedia, dei romanzi e delle novelle realistiche o basso-mimetiche. 5. Nelle trame di « impedimento, frustrazione o assurdità » l'eroe appartiene al modo ironico (è inferiore a noi per forza e intelligenza). Il Frye osserva che la letteratura mitica ha dominato sino all'avvento del cristianesimo; nel Medioevo il romance ci presenta come eroi i cavalieri erranti e i santi; nel Rinascimento emerge il modo alto-mimetico nell'ambiente aristocratico delle corti; la cultura borghese introduce invece il modo basso-mimetico e ironico (nel Novecento). Anche se è inaccettabile la successione temporale dei diversi tipi schematizzati (ad esempio, la letteratura « realistica » è coeva a quella altomimetica), le indicazioni di Frye risultano pertinenti soprattutto per una delineazione delle trame (v.). EROICOMICO. Il cosiddetto poema eroicomico è una parodia del-
l'epos tradizionale, di cui conserva alcuni topoi emblematici (l'eroe, l'avventura, i valori cavallereschi ecc.) degradati secondo modalità basso-mimetiche (v. EROE), mediante situazioni paradossali o grottesche e un uso linguistico antiaulico, conforme peraltro al tipico rovesciamento comico-realistico dei generi «sublimi » (v. STILE). Si potrebbe considerare, nella nostra letteratura, come prototipo del poema eroicomico La secchia rapita di Alessandro Tassoni (1565-1635). Le ascendenze del genere sono molto antiche, se già la pseudomerica Batracomiomachia (Battaglia dei topi e delle rane), risalente al VI-lV sec. a. C., è considerata un poema eroicomico. La fortuna seccntesca del genere è attestata da numerose opere fra cui, ad esempio, l'Eneide travestita di G.B. Lalli. Sono del Settecento il Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di G.C. Croce e A. Banchieri, la Marfìsa bizzarra di C. Gozzi. ESAMETRO. Verso greco-latino formato da sei piedi. Es.: Arma virumque can6, Troiae qui primus ad 6ris. Fin dal Quattrocento si cercò di imitare la struttura quantitativa dell'esametro con soluzioni metriche varie e insoddisfacenti (si veda, ad esempio, questo verso dell'Alberti: Quésta per éstrenui miserabile pistola mando), per adottare come soluzione di ripiego l'endecasillabo (L'armi canto, e 'l valor del grande eroe; A. Caro) o altri versi più lunghi. Spetta al Card~cci i~ merito di aver ripreso e portato a felice compimento il tentattvo dt
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Escamotage
sperimentare, nella cosiddetta « metrica barbara » (v.), forme ritmicamente affini ai versi classici (v. DISTICO). Etim.: dal gr. hexametron = di sei misure.
ESCAMOTAGE. Propriamente l'escamotage è una gherminella, un trucco, un gioco di prestigio. In ambito stilistico l'espressione può connotare modalità del linguaggio affini al calembour (v.), al gioco di parole vertente sull'equivoco (v.) e sull'allusione (v.). Basandosi sul significato di « fare sparire », il Morier chiama escamotage la tecnica narrativa con cui lo scrittore omette di raccontare una parte dell'azione, mediante un salto temporale (cfr. Morier, 1975, p. 431 ). Questo uso metaforico del termine ci sembra poco convincente (v. NARRATIVA, TEMPO). ESCLAMAZIONE. Forma tipicamente emotiva del linguaggio con cui si esprimono i più diversi sentimenti dell'animo, con una certa enfasi sottolineata dall'intonazione e dal segno diacritico dell'esclamazione(!). Es.: Ho saputo, eccome ho saputo! (Pasolini). ESEGESI. v.
COMUNICAZIONE,
2;
INTERPRETAZIONE.
ESORDIO. Nell'oratoria antica l'esordio è la 'parte iniziale del discorso in cui si cerca,.soprattutto, di predisporre l'uditorio (il giudice, in una causa) ad una benevola attenzione. Dopo l'esordio si ha il nucleo del discorso, costituito normalmente dalla propositio (premessa in cui si riassume la tesi da dimostrare), dalla narratio (il racconto dei fatti e degli avvenimenti), dalla argumentatio (l'esposizione delle prove). La parte finale o perorazione è la conclusio del discorso, eventualmente sosten1,1ta da una breve ricapitolazione delle prove. Si v. anche dispositio. In senso generale l'esordio è l'inizio di una trama (da ex e ordiri = ordire), il principio di una narrazione: corrisponde, ad esempio, al proemio del poema epico, dove il poeta, nella proposizione, riassume l'argomento del racconto, per poi passare all'invocazione delle Muse e, in certi casi, alla dedica. L'esordio è anche l'apertura, molto varia, di un'opera narrativa in cui lo scrittore può anticipare alcuni temi o problemi o situazioni dell'intreccio (si pensi ai primi due capitoli del Fu Mattia Pascal, che inizia « a cose fatte » per predisporre il lettore a una narrazione « all'indietro » ). In alcuni esordi l'autore cerca un contatto col destinatario, motiva l'attenzione, si adegua o rompe le attese connesse a certi modelli stereotipati di racconto. ESPANSIONE. In linguistica l'espansione è ogni termine o gruppo di termini che può essere soppresso in una frase senza che essa cessi di essere tale e che mutino i rapporti sintattici tra gli elementi preesi-
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Espressione
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stenti (Mounin, 1974, p. 132; Dubois, 1973, p. 201). Es. Luigi corre. Espansioni: Luigi corre per la strada; Luigi, quel birbante, corre a rotta di collo per la strada principale del paese. Nell'analisi stilistica di un testo si può individuare come espansione ogni forma di iterazione semantico-sintattica che dipende da un termine-fulcro, ad esempio le enumerazioni, gli accumuli nominali, le reduplicazioni ecc. In Pianto antico del Carducci i primi quattro versi sono strutturati in forma di espansione della parola iniziale: L'albero a cui tendevi l la pargoletta mano, l il verde melagrana l da' bei vermigli fior ... Si noti come l'espansione relativa sia collegata in funzione di determinante al nucleo l'albero, successivamente ripreso dal gruppo nominale il verde melagrana, che, con la espansione da' bei vermigli fior, determina nel suo insieme l'albero in modo più preciso. Si veda Marchese, 1976, p. 371 sgg. ESPRESSIONE. Secondo Hjelmslev (v. LINGUISTICA, 3) la comunicazione linguistica è una struttura di suoni specifici o significanti che veicolano determinate strutture di significati. Il messaggio è analizzabile sia dal punto di vista dell'espressione sia da quello del contenuto. L'espressione e il contenuto sono ulteriormente analizzabili a due livelli, come sostanza e come forma. La sostanza dell'espressione, sonora o visiva a seconda dei codici orali o scritti, è la massa fonica o grafica in cui si manifesta la forma dell'espressione, cioè gli elementi morfofonologici di una data lingua. La sostanza del contenuto è la semantica come studio delle entità concettuali o culturali, mentre la forma del contenuto è l'organizzazione strutturata dei significati. Per quanto attiene alla letteratura, è possibile approfondire il concetto di segno, proposto da Hjelmslev, e la correlativa distinzione fra valore denotativo e connotativo (v.), in una teoria semiologica che indaga il senso di un testo come sistema formale sia sul piano dei contenuti sia su quello dell'espressione (v. STILE). Il senso non dipende esclusivamente dai significati, ma dal rapporto attivo fra significati e significanti, cioè dalla correlazione fra forme dei contenuti e forme dell'espressione (v. TESTO). L'analisi della forma dell'espressione è da collegarsi, nel discorso poetico, al livello prosodico, ossia alle manifestazioni soprasegmentali del testo e alle matrici convenzionali (metro, ritmo, strofe, rime ecc.) che organizzano o modellano il livello semantico-sintattico. Nell'ambito della narrativa la forma dell'espressione concerne non solo le manifestazioni sintagmatiche e transfrastiche, ma le sottili manipolazioni espressive emergenti dal punto di vista del narratore (v. DISCORSO, STILE).
Per un approfondimento di questi cenni si rimanda a Marchese, 1974, p. 142 sgg.; Corti, 1976, p. 138 sgg.; AA.VV., 1976 a, p. 465 sgg.
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Espressionismo
ESPRESSIONISMO. Non interessa in questa sede ricordare il significato storico del movimento espressionistico, cioè dell'avanguardia sorta in Germania agli inizi del Novecento, ma il significato traslato che il termine assume nell'analisi stilistica in relazione a certi aspetti straniati, antinaturalistici, della rappresentazione degli oggetti. Così, ad esempio si parla di caratteri espressionistici di certe poesie di Pascoli (per citarne una conosciutissima, Il lampo), di Rebora, di Sbarbaro. Una assunzione ancora più lata del concetto, quasi categoriale, porta a considerare espressionistiche tutte le manifestazioni di stile e di linguaggio anticonformistiche, plurilinguistiche, parodiche, miscidiate (pastiche ecc.). EUFEMISMO. L'eufemismo è una figura di pensiero con cui si attenua o addolcisce un'espressione troppo cruda o realistica. È comune nella lingua standard; ad esempio: non è più con noi, è passato a miglior vita, ha finito di tribolare, se n'è andato in cielo ecc. sono formulazioni eufemistiche del referenziale « morire ». L'eufemismo si colloca fra le figure sottese dall'equivalenza semantica, come la litote (il famoso giudizio manzoniano Don Abbondio non era nato con un cuor di leone), la perifrasi o circonlocuzione (il dantesco Il bel paese là dove il sì suona, cioè l'Italia), l'allusione, l'iperbole e, al limite, l'antifrasi (v.): il cosiddetto oceano Pacifico. Spesso l'eufemismo, come ricorda il Lausberg, 1969, p. 104, è una sostituzione linguistica dovuta alle convenienze sociali che bandiscono l'uso di certi verba propria, impronunciabili o «tabù». Così la domanda «dove posso lavarmi le mani? » sta per il più realistico « dov'è il gabinetto? ». L'eufemismo è pertanto legato a precisi codici di comportamento sociale, storicamente determinati (si pensi al galateo e all'esorcizzazione di « certe parole » riguardanti il sesso). La violazione sistematica di tali codici comporta una sorta di retorica dell'antieufemismo, ad esempio nella pratica del linguaggio volgare, tipico delle nuove generazioni, recepito a livello letterario anche in opere ideologicamente conformistiche come Lave story di Segai. Etim.: dal gr. eu = bene, phemi = parlo. EXCURSUS. v.
DIGRESSIONE.
EXTRATESTUALITÀ. L'extratesto, in una prima approssimazione, può essere considerato tutto ciò che è materialmente esterno all'opera: riferimenti storico-culturali, istanze biografiche, proposte e intenzioni di poetica e così via. Genot, 1970, p. 28, parla esplicitamente di ideologia o cultura di un 'epoca. In questo senso il concetto di extra testo (o extratestualità) viene a coincedere con quello di serie extraletteraria (v. FORMALISMO, SERIE) - nella pluralità correlata di sistemi di valori (storico-sociali, culturali, religiosi, ecc.) che caratterizzano una ben
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Extratestualità
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individuata personalità artistica. L'opera non esiste fuori del discorso letterario attraverso il quale è comunicata. « Tutto l'insieme di codici artistici storicamente formatisi, che rende il testo significativo, si riferisce alla sfera dei legami extratestuali » (Lotman, 1972, p. 65). L'opera, dunque, si caratterizza come un sistema di scelte operate in un insieme di elementi extratestuali che costituiscono il sistema della letteratura o il discorso letterario. Si danno vari livelli extratestuali: dalla serie storico-culturale ai codici artistici sino all'extratesto più diretto che è la produzione specifica di un autore, rapportata all'opera in esame; ad esempio, lo Zibaldone rispetto alle Operette morali e ai Canti. Il rapporto fra strutture testuali ed extratestuali è studiato, in modi diversi, dalla critica sociologica e semiologica. Per Goldmann la mediazione sarebbe data dal gruppo intellettuale a cui appartiene l'autore, cosicché l'opera rappresenta in forma coerente l'ideologia sociale di una classe o di una parte omogenea di essa. L'omologia non è però sempre diretta: occorre tener presente la funzione mediatrice degli istituti letterari, ad esempio dei generi, nell'ideazione di un'opera e nella sua fruizione; né vanno dimenticati altri ostacoli che rendono problematica una estrapolazione sociologica ne Il 'ambito specifico della letteratura: l'istanza dell'immaginario, le sfasature fra opera e autore, opera e reale, i caratteri utopici (progressivi o regressivi) connessi alla visione della vita di uno scrittore. Per tutti questi problemi si veda Corti, 1976, p. 23 sgg. In una prospettiva semiologica si pone il problema dell'interserialità, cioè del rapporto fra serie letteraria e serie extraletterarie, su cui si è soffermato soprattutto Mukafovsky. In quanto segno comunicativo, il testo si pone nel sistema della letteratura come individualità (o valore) interrelata, cioè in rapporto ad altri testi: l'intertestualità (v.) è un fattore primario della genesi, della manifestazione e della fruizione dell'opera. Il rifarsi dello scrittore a una tradizione, a delle fonti, a certi topoi, a generi o modelli ecc., implica una transcodificazione che, è sempre storicamente determinata (si pensi al problema dell'idillio leopardiano rispetto al genere bucolico arcadico); sicché l'extratesto storico-culturale agisce come spinta innovativa o comunque qualificante nell'operazione letteraria, per quanto debba essere considerato in funzione della specificità del testo e non viceversa. Per altre considerazioni si rimanda a Zumthor, 1972, p. 19 sgg.; Marchese, 1974, p. 101 sgg.
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FABULA. Il termine fabula fu introdotto dai formalisti russi (v.
FOR-
per indicare, nell'analisi di un testo narrativo, una particolare modalità del contenuto o trama, il materiale, cioè, di cui si serve lo scrittore per elaborare l'intreccio della narrazione. Secondo Tomasevskij, la fabula è l'insieme di avvenimenti, nei loro mutui rapporti interni, che rappresenta il tema dell'opera: a livello di fabula gli avvenimenti sono disposti in successione logico-temporale, mentre a livello di intreccio (sjuzet), ossia nella rappresentazione narrativa voluta dall'autore, gli stessi avvenimenti possono subire diverse manipolazioni (spostamenti temporali, anticipazioni ecc.). Il Segre, 1974, p. 14 sgg., distingue quattro livelli del testo narrativo: (l) Discorso (Il) Intreccio (III) Fabula (IV) Modello. Il discorso è il testo narrativo significante (potremmo chiamarlo anche la narrazione o la forma dell'espressione); l'intreccio è la costruzione, scelta dall'autore, per rappresentare gli avvenimenti; la fabula è un'astrazione del critico, che confronta l'ordine « naturale » dei fatti con quello « artificiale » della scrittura letteraria, evidenziando i procedimenti usati dallo scrittore per distribuire in costruzione estetica (intreccio) gli eventi; il modello, infine, è « la forma più generale in cui un racconto può essere esposto mantenendo l'ordine e la natura delle sue connessioni » (Segre). L'esposizione della fabula è necessariamente una parafrasi o riassunto che privilegia gli avvenimenti o azioni della storia, ricostruiti in successione logico-temporale. La situazione iniziale dei Promessi sposi ci presenta l'incontro fra don Abbondio e i bravi, durante il quale il sacerdote viene informato che il matrimonio fra Renzo e Lucia non s'ha da fare per ordine di don Rodrigo. Nell'evolversi del racconto apprendiamo, di passaggio, che un giorno Lucia aveva incontrato il signorotto col cugino Attilio e ne aveva evitato i complimenti. Come si vede, l'intreccio segue una costruzione diversa dalla fabula, in cui il capriccio di don Rodrigo precede ovviamente il suo propoMALISMO)
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Figura
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sito di impedire il matrimonio di Lucia. Il lettore ricostruisce mentalmente le connessioni temporali e causali, restaurando l'ordine cronologico della fabula manomesso dalla presentazione « arbitraria » dello scrittore. Etim.: in latino fabula vuoi dire storia, racconto, mito ed anche lavoro drammatico (commedia, tragedia).
FATICA. La funzione fàtica (v. LINGUAGGIO, l) riguarda la verifica del canale o contatto fra mittente e destinatario. Ad esempio, frasi come Pronto? Mi senti? Capisci? servono esclusivamente per controllare se esiste la possibilità della comunicazione, cioè il canale fisico o psicologico. La funzione fàtica riguarda anche altre forme stereotipate di discorso, come i convenevoli, i saluti, gli auguri ecc. che servono ad aprire o a chiudere un contatto fra due o più interlocutori. A livello artistico si potrebbero considerare certe opere di lonesco, in cui l'autore vuole mettere in evidenza la banalizzazione dei discorsi, l'alienazione linguistica come sintomo dell'alienazione umana, per gli aspetti dominanti della funzione fàtica, utilizzata in senso espressivo. Etim.: dal lat. fari = parlare. FENOTESTO. Il termine è usato dal gruppo della rivista francese T el Quel e in particolare da J. Kristeva in rapporto a genotesto: il primo è la significanza testuale fenomenalizzata, cioè manifestata nelle strutture linguistiche; il secondo è l'operazione con cui si genera il fenotesto, la complessità indifferenziata dei significati e dei significanti. Il genotesto è il « luogo di strutturazione del fenotesto ma anche luogo surdeterminato dell'inconscio, è lo spazio cardine nel quale può cogliersi la signifìcazione come pratica, perché è qui che si articola il soggetto dell'enunciazione. Come tale il genotesto è un territorio eterogeneo: da un lato campo verbale (segni ed articolazioni di segni), dall'altro campo della pratica del soggetto di fronte all'altr0 e all'oggetto» (Kristeva, in «Nuova Corrente», 59, 1972, p. 250). Nella teoria della nouvelle critique queste idee sono strettamente, anche se dialetticamente, collegate col pensiero psicanalitico di J. Lacan; donde l'importanza del genotesto o testo profondo come luogo della surdeterminazione inconscia dei segni che si manifestano (e si celano) nelle strutture linguistiche del fenotesto. Si veda Ducrot-Todorov, 1972, p. 581; AA.VV., 1975 b. Etim.: dal gr. falnomai = apparire, mostrarsi. FIGURA. Al centro della retorica classica vi è la teoria delle figure, cioè delle peculiari forme espressive usate soprattutto dai poeti e considerate, quindi, in rapporto di deviazione o di scarto dal linguaggio normale. Ma il paradosso della retorica, per dirla con Genette (19~9, p. 190 sgg.), consiste nel fatto che le figure abbondano anche nella lm-
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Figura
gua usuale, ossia la deviazione è del tutto comune. Si può anche osservare con Todorov (in Ducrot-Todorov, 1972, p. 300) che non ogni figura è uno scarto, ad esempio l'asindeto o il polisindeto: è difficile individuare una norma rispetto alla quale si opererebbe la deviazione. Così non sembra molto produttivo contrapporre, come fa il Cohen, lo statuto della figura a quello di un altro discorso, ad esempio la prosa scientifica: non si vede perché un tipo di discorso debba essere considerato non in se stesso ma come norma di fronte a un altro recepito come scarto. Problemi analoghi si incontrano nella definizione dello stile (v.). Sembra più vantaggioso, in una prospettiva neoretorica, individuare la figura « come distanza tra segno e senso, come spazio interno del linguaggio » (Genette, ibid., p. 191 ). Perché vela sia avvertito come termine figurato è necessaria la consapevolezza del suo rapporto in absentia con nave: dalla correlazione fra i due segni nasce la sineddoche, in quanto vela sostituisce nave come parte di un tutto. La figura è un processo di connotazione e come tale implica la coscienza dell'ambiguità del linguaggio e in particolare del discorso letterario: vela è polisemico perché si rivolge letteralmente a se stesso (denotazione) e figuratamente alla nave tramite una motivazione (qui la parte per il tutto) che è l'anima della figura. La retorica è un codice istituzionale della letteratura che ha il compito non solo di inventariare le figure ma di attribuire loro uno specifico valore di connotazione. « Ogni volta che lo scrittore usa una figura riconosciuta dal codice, chiama il suo linguaggio non solo a "esprimere il suo pensiero", ma anche a notificare una qualità epica, lirica, didattica, oratoria ecc., a designare se stesso come linguaggio letterario e a significare la letteratura. Perciò la retorica si cura poco dell'originalità o della novità delle figure, che sono qualità di parola singola e a questo titolo non la concernono ... Al limite, il suo ideale sarebbe di organizzare il linguaggio letterario come una seconda lingua all'interno della prima, in cui l'evidenza dei segni si imponesse con la medesima incisività che ha nel sistema dialettale della poesia greca, in cui l'uso del dorico significa in assoluto lirismo, quello dell'attico dramma, e quello dello ionicoeolico epopea. Per noi oggi l'opera della retorica non ha più, nel suo contenuto, che un interesse storico (d'altra parte sottovalutato). L'idea di risuscitare il suo codice per applicarlo alla nostra letteratura sarebbe uno sterile anacronismo... La funzione autosignificante della Letteratura non passa più attraverso il codice delle figure e la letteratura moderna ha la propria retorica che è appunto, almeno per il momento, il rifiuto della retorica» (Genette, ibid., pp. 201-202). l. La classificazione tradizionale delle figure. Il problema fondamentale della retorica, dall'antichità sino al Settecento, concerne l'identificazione e il catalogo delle figure. È impossibile trovare uno schema unitario, data la proliferazione di tipi e specie individuati nei numero-
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figura
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sissimi manuali (basti pensare all'età barocca). Un panorama sintetico presenta almeno le seguenti categorie (cfr. anche Quint., VIII, 6 e IX): a) figure di pensiero: riguardano un intero enunciato, nella sua conformazione ideativa e immaginativa; sono la prosopopea, l'apostrofe, l'interrogazione, l'esclamazione, l'imprecazione, l'epifonema, la reticenza, la preterizione, l'ironia, la perifrasi, l'ipotiposi, l'antitesi; b) figure di significazione o tropi: riguardano il cambiamento di senso delle parole; sono la metafora, la metonimia, la sineddoche, l'antonomasia, l'iperbole, la litote; c) figure di dizione: consistono nella modificazione della forma delle wrole, come l'apocope, l'aferesi, la metatesi, la crasi ecc. d) figure di elocuzione: riguardano la scelta e l'assortimento delle parole più convenienti: l'epiteto, la ripetizione, la sinonimia, l'asindeto e il polisindeto ecc. e) figure di costruzione: interessano l'ordine delle parole nella frase; sono il chiasmo, l'anafora, l'iperbato, l 'ellissi, lo zeugma ecc. f) figure di ritmo: vertono particolarmente sugli effetti fonici come l'onomatopea, l'armonia imitativa, l'allitterazione. Oggi tali classificazioni, e altre consimili, ci appaiono poco soddisfacenti ed anzi arbitrarie. La distinzione logica delle figure implica numerose specificazioni interne. Così il Fontanier annovera le metonimie della causa (Bacco per vino), dello strumento (mente per scrittore), del contenente (bicchiere per vino), del luogo d'origine (il Portico per lo stoicismo), del segno (il trono per la monarchia), del corpo (il cuore per l'amore), del patrono (i Lari per la casa), della cosa (codino per l'uomo che lo porta). Sempre Genette ricorda il tentativo del cartesiano Lamy di dare una spiegazione psicologica delle figure, cercando in ognuna il « carattere » di una passione (l'iperbato rappresenterebbe l'emozione che sovverte l'ordine delle cose e quindi delle parole). 2. Tipologie moderne. Una considerazione della struttura finguistica in cui si realizzano le figure comporta un tentativo di classificazione più coerente. Così G. Bonsiepe (Retorica visivo/verbale, in «Marcatré », 19-22) divide le figure in sintattiche e semantiche: le prime si distinguono in traspositive (ad esempio, l'inversione), privative (l'omissione), ripetitive (l'allitterazione); le altre in contrarie (come l'antitesi), in comparative (l'ossimoro) e in sostitutive (la sineddoche). Metafora e metonimia sarebbero figure semantiche costitutive. Il tentativo più ambizioso di una classificazione integrale delle figure sulla base degli aspetti linguistici è dovuto al cosiddetto « gruppo !l», formato da Dubois, Edeline, Klinkenberg, Minguet, Pire e Trinon (cfr. Rhétorique générale, Paris, 1970, tr. ital., 1976). Considerate le figure un effetto di trasformazione del linguaggio, gli autori distinguono:
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Figura
a) i metaplasmi, modificazioni di parole e di elementi inferiori alla parola dal punto di vista dell'espressione; b) le metatassi, cioè le trasformazioni formali della struttura della frase; c) i metasememi, le modificazioni delle parole al livello del contenuto; d) i metalogismi, le modificazioni del valore logico della frase. Le figure si distribuiscono in questi quattro ambiti attraverso quattro operazioni logiche: l'addizione, la soppressione, la soppressioneaddizione (cioè una sostituzione), la permutazione. Si avranno così le figure di tipo A: metaplasmi (operazioni morfologiche): l'aferesi, l'apocope, la sincope e la sineresi quando la soppressione è parziale; lo spazio bianco quando la soppressione è totale; la protesi, la dieresi, l'affissazione, l'epentesi quando l'addizione è semplice; il raddoppiamento, l'insistenza, la rima, l'allitterazione, l'assonanza, la paronomasia quando l'addizione è ripetitiva; i calembours quando la soppressione-addizione è parziale; gli arcaismi, i neologismi quando è completa; l'anagramma, la metatesi sono risultati di permutazioni. Le figure di tipo B: metatassi (operazioni sintattiche): la crasi quando la soppressione è parziale; l'ellissi, lo zeugma, l'asindeto e la para tassi quando è completa; la parentesi, la concatenazione, l'enumerazione quando l'addizione è semplice; la ripresa, il polisindeto, la simmetria quando è ripetitiva; la sillessi, l'anacoluto quando la soppressione-addizione è parziale; il chiasmo quando è completa; la tmesi, l'iperbato e l'inversione quando si ha permutazione. Le figure di tipo C. metasememi (operazioni semantiche): la sineddoche e l'antonomasia generalizzanti, il paragone, la metafora in praesentia quando la soppressione è parziale; la sineddoche e l 'antonomasia particolarizzanti quando l 'addizione è semplice; la metafora in absentia quando la soppressione-addizione è parziale; la metonimia quando è completa; l'ossimoro quando è negativa. Le figure di tipo D: metalogismi (operazioni logiche): la litote per la soppressione parziale; la reticenza, la sospensione, il silenzio per la soppressione completa; l'iperbole quando l'addizione è semplice; la ripetizione, il pleonasmo, l'antitesi quando è ripetitiva; l'eufemismo quando la soppressione-addizione è parziale; l'allegoria, la parabola e la favola quando è completa; l'ironia, il paradosso, l'antifrasi quando è negativa; l'inversione logica e cronologica quando si ha permutazione. Facciamo qualche esempio. Per i metaplasmi: verno per inverno è
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Flusso di coscienza
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un'aferesi ottenuta per soppressione parziale; tamburrrrrro (Marinetti) è una forma di addizione ripetitiva (insistenza); speme per speranza è una forma arcaica che si ottiene per sostituzione completa. Per le metatassi: lo zeugma: parlare e lagrimar vedraimi insieme (Dante), dove si ha la soppressione completa del termine sentirai; nell'anacoluto (ad esempio nel manzoniano noi monache ci piace sentire) la soppressione-addizione è parziale; nell'iperbato si ha un procedimento di permutazione nell'ordine sintattico: tu dell'inutil vita / estremo unico fior (Carducci). Per i metasememi: la sineddoche generalizzante (mortale per uomo) e particolarizzante (una notte zulù per nera) derivano da operazioni di scomposizione degli elementi semici (come meglio ved'fmo parlando della metafora e della metonimia). Quanto ai metalogismi ricordiamo la litote, ad esempio non è un'aquila, in cui si ha una diminuzione o attenuazione di un concetto (non è molto intelligente), mediante un'operazione semica di soppressione; anche l'eufemismo (non è male per dire è penoso) comporta operazioni di sostituzione logico-semantica. La teoria del gruppo di Liegi è estremamente interessante, anche se può apparire nel complesso un po' macchinosa e in qualche punto discutibile (cfr. l'introduzione di Bertinetto a Henry, 1.975). Nel nostro lavoro seguiremo solo in parte lo schema proposto, tenendo saprattutto in considerazione il concetto di modificazione a livello morfologico e sintattico (operazioni relative all'espressione) e a livello semantico e logico (operazioni relative al contenuto). Bibliografia: AA.VV. 1976 a, vol. Il; P. Fontanier, Les figures du discours, Paris, 1968; Lausberg, 1960 e 1969; Richards, 1967; H. Weinrich, 1976. · · FLASH BACK. Il termine si usa nella critica cinematografica per indicare una o più sequenze di carattere retrospettivo. Corrisponde pertanto, nell'analisi della narrativa, all 'analessi o retrospezione, che si ha quando viene evocato un evento anteriore al punto della storia in cui ci si trova. Ad esempio, nei Promessi sposi, padre Cristoforo, Gertrude, l'Innominato vengono descritti e caratterizzati in lunghi flash-back, che interrompono il tempo della storia e dilatano quello della scrittura. In effetti, si ha qui più che altrove una presenza assidua del narratore onnisciente (v. PUNTO DI VISTA) che è il solo, si potrebbe dire, a conoscere totalmente e intimamente i personaggi apparsi all'orizzonte del racconto. Etim.: dall'ingl. flash back = immagine indietro, retrospezione. FLUSSO DI COSCIENZA. f: la traduzione dell'inglese stream oj consciousness che, secondo molti critici, corrisponde al moderno « monologo interiore», caratterizzato dall'emergere dell'inconscio, come nella narrativa di Joyce. Secondo il Dujardin. a cui lo stesso Joyce
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Flusso di coscienza
si riferiva, il monologo interiore tende alla « diretta introduzione del lettore nella vita interiore del personaggio senza alcun intervento di spiegazione o di chiosa da parte dell'autore » ed è « espressione dei pensieri più intimi, quelli che sono più vicini all'inconscio ». G. Debenedetti, in Il romanzo del Novecento, Milano, 1971, p. 594 sgg., fa un preciso consuntivo delle diverse proposte critiche sul monologo interiore, citando anche la definizione di Wilcock (Saggi italiani, Milano, 1959) per il quale il monologo interiore si distingue dal soliloquio che presuppone un « uditorio immediato » cui comunicare uno stato d'animo, «senza l'intervento dell'autore ». A nostro avviso, occorre distinguere il flusso di coscienza, il monologo interiore e il soliloquio, a seconda che prevalga l'inconscio, l'autoanalisi e la confessione a un destinatario. Saremmo perciò propensi a estendere l'area del monologo interiore nella narrativa novecentesca, oltre i limiti fissati da Debenedetti (in Svevo, ad esempio); più raro è, in effetti, l'uso del flusso di coscienza. Come esempio di monologo-stream of consciousness riportiamo un brano che esprime il magma confuso di pensieri, immagini, sensazioni, desideri di Mrs. Bloom nell'Ulisse di Joyce: Un bel sollievo dovunque si sia non tenersi l'aria in corpo chissà se quella braciola di maiale che ho preso col tè" dopo era proprio fresca con questo caldo non ho sentito nessun odore sono sicura che quell'uomo curioso dal norcino è un gran furfante spero che quel lume non fumi mi riempirebbe il naso di sudiciume meglio che rischiare che mi lasci aperto il gas tutta la notte non potevo riposar tranquilla nel mio Ietto a Gibilterra mi alzavo anche per vedere ma perché diavolo mi preoccupo tanto di questo per quanto la cosa mi piace d'inverno fa più compagnia ... Nel Padrone di Parise il monologo interiore intreccia talora realtà e fantasia in un flusso di immagini ondeggianti fra la memoria e i} sogno: Mi pare di vedere la mia città e i miei genitori, la pùi::;za oscurata da un improvviso volo di piccioni, il lento e melmoso fiume, un tempo navigabile e ora ridotto a un rigagnolo giallastro su cui galleggiano le barbe verdeggianti dei lari, dei decani, dei notabili, dei nonni, bisnonni e avi della nostra progenie i cui corpi e ossa l'acqua inquinata dagli acidi ha corroso. Ecco i vecchi e le vecchie che abitano la mia città, sorgenti dalle ombre addensate nelle molte chiese dove sottili candele si spengono ormai per sempre. Tra questi vecchi e vecchie, i miei genitori, eccoli là, mia madre avanti e mio padre mezzo passo indietro, che scostano la pesante tenda dai bordi di cuoio del tempio e escono infilandosi tra gli alberi. Parlano, ma cosa dicono non lo so ... Anche linguisticamente la struttura del monologo sarà molto diversa: più disarticolata semanticamente e sintatticamente se prevale il flusso ondeggiante del pensiero, fra coscienza e inconscio; maggiormente controllata nella costruzione dei periodi, nonostante i « salti »
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logici da un' immagine all'altra, da un tempo all'altro, se il personaggio monologante conserva un certo dominio del proprio io, sino all'autoanalisi vera e propria, che consiste nel mettere a nudo, talvolta con spietata lucidità, le contraddizioni interiori (si pensi a Pirandello). Per ulteriori approfondimenti: Wellek-Warren, 1965, p. 331 sgg.; M. Forni Mizzau, Tecnic~e narrative e romanzo contemporaneo, Milano, 1965, p. 52 sgg. FONÈMA. Il fonema è la più piccola unità sprovvista di senso che si possa delimitare nella catena parlata (Dubois, 1973, p. 372). 11 numero dei fonemi usati in ogni lingua è piuttosto ristretto (da venti a cinquanta circa). Com'è noto (v. LINGUISTICA, 2), il Martinet considera i fonemi unità distintive della seconda articolazione del linguaggio: combinandosi, essi formano _i monemi, cioè le unità provviste di senso lessicale e grammaticale. Il fonema è costituito da tratti distintivi propri a ogni lingua, che l'oppongono agli altri fonemi. Ad esempio, /p/ ha i seguenti tratti: «bilabiale» in opposizione a /f/ che è «labiodentale »; « sorda » in opposizione a /b / che è « sonora »; « orale» in opposizione a /m/ che è « nasale» (Mounin, 1974, p. 259). Per la fonologia italiana si veda: Z. Muljacic, Fonologia generale e fonologia della lingua italiana, Bologna, 1969. Etim.: dal gr. phoné = suono. FONETICA. La fonetica studia i suoni dal punto di vista della loro produzione fisica (fisiologica e acustica). Si distingue dalla fonologia, ramo della linguistica che studia i suoni del linguaggio dal punto di vista funzionale. A sua volta la fonologia si divide in fonematica, che si occupa dei fonemi, e in prosodia, che studia i fenomeni soprasegmentali, come l'intonazione, l'accento, i toni. FONOLOGIA. v.
FONETICA.
FONOSIMBOLISMO. Il significante poetico è talora irrelato a uno specifico valore semantico e può assumere una significazione autonoma, affidata al puro gioco dei suoni. Si parla in tal caso di fonosimbolismo o di linguaggio fonosimbolico. Le onomatopee, così frequenti nel Pascoli, sono un esempio vistoso di fonosimbolismo; ma nella vasta area del linguaggio pregrammaticale rientrano anche esperienze avanguardistiche come il futurismo, il dadaismo e il primo surrealismo. Un esempio di fonosimbolismo in Marinetti: treno t-reno treno treno tre n tron / tron tron (ponte di ferro: tatatluuun-/ t/in) sssssssiii ssiissii ssiisssssiiii / treno treno febbre del mio / treno express-expressexpressssssss press-press ... I cosiddetti « messaggi formali » (Agosti}, cioè quei messaggi non fondati sull'espressività dei significati ma sull'autoriflessività dei si-
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Fonte
gnificanti, sono prodotti dalla manipolazione dei tratti soprasegmentali o fonoprosodici della parola. Ad esempio, nei versi pascoliani: il tuo tintinno squilla, l voce argentina - Adoro, l adoro - Dilla, dilla, l la nota d'oro - L'onda l pende dal ciel, tranquilla, l'istanza dominante « non è altro che la sapiente variazione timbrica di alcuni accordi fondamentali che, nella fattispecie, si riconducono al primitivo dindon-clan delle campane » (Agosti, 1972, p. 27). Per uno studio dettagliato del fonosimbolismo poetico si veda: G.L. Beccaria, 1975 a (in particolare il primo saggio: Significante ritmico e significato, p. 23 sgg.).
FONTE. Lo studio delle fonti di un'opera letteraria si caratterizzò, nella metodologia positivistica della « scuola storica » (D'Ovidio, Comparetti, Rajna ecc., per citare alcuni critici italiani), come accurata ricerca di tutte le influenze storico-letterarie che erano a monte di un determinato testo. Gli antecedenti sono considerati soprattutto dal punto di vista tematico, donde l'analisi dello sviluppo quasi organico dei generi attraverso le varie opere (in particolare l'epica cavalleresca dalle origini medievali agli svolgimenti rinascimentali). Nella critica attuale l'analisi delle fonti rientra nel più generale studio della letteratura come sistema, nel quale ogni testo si colloca in una particolare relazione con gli altri testi (specialmente quelli affini), proponendo una intertestualità (v.) non meccanica ma dialettica. La lingua del Leopardi, ad esempio, riprende una tradizione aulica che risale al Petrarca e arriva all'Arcadia; situazioni arcadiche, influssi montiani sono pure evidenti nelle poesie del recanatese. Tutto ciò va visto non tanto come ricerca materiale delle fonti, quanto piuttosto come punto di incontro-scontro fra esperienze letterarie diverse e quindi come momento privilegiato della transcodifìcazione (v.), cioè dello scarto innovativo rispetto ai modelli e della trasvalutazione originale che è propria della grande opera. FORMA. In linguistica il concetto di forma si specifica sia sul piano del contenuto sia sul piano dell'espressione. Secondo Hjelmslev, la sostanza del contenuto (il pensiero amorfo di De Saussure) riceve una forma, cioè le unità cognitive-culturali proprie di una data lingua; così la sostanza dell'espressione (la massa fonica) viene stnttturata come forma nei significanti della lingua (v. LINGUISTICA, 3). Più complessa la definizione di forma nell'opera d'arte, anche a voler considerare soltanto le esperienze novccentesche che si rifanno al formalismo russo (v.), al New Criticism angloamericano, alla stilistica (v.), allo strutturalismo e alla semiologia (v.). Si potrà dire, con Pagnini, che « la critica formalistica rivolge particolare attenzione al modo in cui un'opera è fatta, cioè composta e costruita, e due assunti presiedono ai suoi esercizi: che ali 'universo letterario si perviene solo
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Forma
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mediante il suo complesso di segni, di sue forme sensibili particolari; che la distribuzione della materia fonica, sintattica e organizzativa delle frasi, costituisce un disegno provvisoriamente apprezzabile in sé, come (potremmo dire) un'architettura che si guardi con spirito geometrico, di là dalla sua funzione pratica, o un dipinto che si contempli a distanza con occhi socchiusi perché ne risalti la costruzione e il dialogo delle macchie. Consegue a queste due premesse che il critico osserva minuziosamente il contesto timbrico, articolatorio, ritmico, e sin tattico transfrastico dell'enunciato letterario » (in AA.VV., 1970 a, p. 277). Il concetto di forma è tradizionalmente legato a quello correlativo di contenuto; ed è noto che in diverse prospettive estetiche il contenuto ha una priorità di fatto e di valore sulla forma che scaturisce necessariamente dal contenuto. Accuse di contenutismo psicologico sono state rivolte non a torto a Croce, per il quale la forma artistica è una e identica in ogni opera, sicché l'analisi deve vertere sulla caratterizzazione dei contenuti o motivi dominanti. Anche in Lukacs la forma ha un puro valore evocatorio, per cui l'attenzione è inevitabilmente spostata sugli aspetti sociologici e ideologici del contenuto (v.). Tuttavia, un tentativo di elaborare una teoria dell'arte come forma è presente, in ambito marxista, non tanto nei pochi accenni gramsciani quanto nelle posizioni che si rifanno alla linguistica strutturale. f. il caso di G. della Volpe, per il quale la forma è concetto, ossia razionalità, mentre il contenuto è la materia molteplice del sensibile immaginativo, e dunque del disorganico e del discontinuo. Se l'arte è unità, coerenza, ordine, armonia, ciò .vuoi dire che l'artista ha elaborato razionalmente e dato forma organica alle sollecitazioni caotiche della fantasia. L'arte in quanto forma non si distingue dalla conoscenza scientifica: lo specifico è di natura semantico-espressiva. Per il della Volpe il linguaggio comune è equivoco-onnitestuale, il discorso filosofico-scientifico è univoco-onnicontestuale, il discorso poetico è polisenso o contestuale organico (cfr. Critica del gusto, 1966 3 e per ulteriori chiarimenti Marchese, t 974, p. 78 sg.). Il formalismo russo ha respinto con forza la vecchia idea della forma come recipiente del contenuto, un recipiente retoricamente abbellito per rendere più gradevole la sostanza. Sklovskij accentua polemicamente il primato del priiùn, del procedimento e degli effetti di straniamento sui « materiali », ridotti a semplici motivazioni dell'artificio formale. Con Tynjanov si supera l'idea di forma come somma di procedimenti (identici nel tempo e separati dai materiali) per individuare il testo poetico come una « integrità dinamica » di elementi fra loro correlati. Comincia a delinearsi una concezione del testo come sistema segnico strutturabile a diversi livelli coimplicati dialetticamente e funzionalmente (livelli che potremo chiamare iso topi e, v.). Il segno le t-
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terario non è meramente linguistico, ma connotato, « secondario » (Lotman), riferito cioè sia alla lingua standard sia soprattutto alla lingua letteraria, ai suoi codici e alle sue scritture. Questo concetto è fondamentale per comprendere il significato semiologico della forma (V. CODICE, l; LlNGUAGGIO, 2; STILE; TESTO). Nella strutturazione dell'opera a diversi livelli si realizza una complessa semantizzazione (Lotman) degli elementi al fine di « formare » il senso globale del messaggio. In altri termini, l'emergenza del senso non può essere affidata a operazioni di pertinenza linguistica, perché il segno poetico è autoriflesso e motivato: ogni elemento è semantizzato e interagisce con le strutture di senso primarie, cioè quelle consegnate ai significati testuali. Sia le componenti fonologiche (e più generalmente prosodiche), sia quelle morfosintattiche assumono nel testo poetico un valore semantico che contribuisce efficacemente alla creazione del senso globale, iperconnotato, del messaggio. Si consideri, ad esempio, la seguente strofa del Pascoli: Don ... Don ... E mi dicono, Dormi! l Mi cantano, Dormi! susurrano, l Dormi! bisbigliano, Dormi! l Là, voci di tenebra azzurra ... l Mi sembrano canti di culla, l che fanno ch'io torni com'era ... / Sentivo mia madre ... poi nulla... l sul far della sera. Se si analizza il testo a livello fonoprosodico, diventano pertinenti alcuni fonemi che creano numerose isotopie sia in senso orizzontale che verticale. Ci limitiamo a indicare le allitterazioni della l d/, le paronomasie (Don ... Don ... Dormi!), gli omoteleuti (cantano-susurrano), le iterazioni, le climax ecc. (cfr. per un'analisi completa Marchese, 1974, p. 152 sgg.). Il sistema di relazioni evidenziato trova conferma a livello morfosintattico, sicché emergono le strutture semantico-connotative del testo, orientate dal sistema fonoprosodico, in cui il suono è umanizzato in una voce amorevole e protettiva che dall'esterno porta verso l'intimità della casa: nel Don ... Don ... Dormi! delle campane c'è la voce della madre, quasi un magico viatico all'annullamento dell'io nella pace del sonno. L'esempio conferma come nell'arte si attui una sottile dialettica: i valori tematici vengono formalizzati e i valori formali (meglio fonoprosodici) sono semantizzati. Dall'interazione fra le due serie di valori nasce il senso globale del messaggio, cioè la sua forma dell'espressione o stile che dir si voglia, essendo la forma artistica una specifica comprensione o intelligenza del reale.
FORMALISMO. Si può definire il formalismo, in una prima accezione generale, come la tendenza critica rivolta a considerare l'opera d'arte soprattutto per i modi e le forme con cui è composta, per le sue peculiarità di linguaggio e di stile. In Francia, fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, Mallarmé e Valéry affermarono il primato della costruzione formale sulla mera oggettività dei contenuti: i valori fonici, melodici e ritmici della parola poetica non sono un
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mero ornamento estrinseco che accompagna le idee, ma le forme concrete in cui si incarnano i sentimenti. Sia Eliot sia il cosiddetto New Criticism angloamericano (Richards, Empsom, Ramsom, Brooks per indicare i nomi di maggior rilievo), pur nella diversità degli approcci e delle scelte metodologiche, sono propensi a considerare l'opera d'arte come una forma organica, come una struttura messa in atto da operazioni funzionali: l'ironia o il paradosso metaforico per Brooks, l'ambiguità del linguaggio poetico in Empsom, la complessità contestuale autonoma per Richards. Una teoria della letteratura come scienza specifica e autonoma nei suoi strumenti di ricerca fu l'obiettivo a cui tesero le ricerche dei formalisti russi. N el 1915 nacque il Circolo linguistico di Mosca, attorno alle forti personalità di }akobson, Tomasevskij e Brik e a stretto contatto con le esperienze del gruppo cubofuturista capeggiato da Majakovskij; l'anno seguente Sklovskij, Ejchenbaum ed altri diedero vita a Pietroburgo alla « Società per lo studio del linguaggio poetico » (Opojaz). I due gruppi agirono in stretta collaborazione, per quanto gli interessi del Circolo di Mosca fossero prevalentemente linguistici e quelli della « Società >> più propriamente letterari. I primi studi dei formalisti erano dedicati alla ricerca della peculiarità del linguaggio poetico, soprattutto come realtà fonica, in opposizione al linguaggio comune o « pratico ». In polemica con i simbolisti, per i quali la poesia consisteva in un discorso per immagini, i formalisti consideravano prioritaria la particolare utilizzazione dei diversi « materiali » nella elaborazione estetica, elaborazione che permetteva di percepire la « forma » del linguaggio poetico. Di qui l'interesse per i procedimenti artistici, a partire dal famoso saggio di Sklovskij, « L 'arte come procedimento », del 1917. Il linguaggio poetico veniva distinto da quello prosastico per la percettibilità della sua costruzione, promossa in primo luogo dagli effetti verbali stranianti. Gli altri elementi dell'opera d'arte, soprattutto i tradizionali « contenuti », erano considerati dal formalismo come secondari o subordinati rispetto ai procedimenti e, anzi, semplici motivazioni tecnico-espressive. L'autonomia del discorso letterario, che in Sklovskij giungeva sino alla negazione polemica del valore sociale dell'arte («L'arte è sempre stata libera dalla vita, e sul suo colore non si è mai riflesso il colore della bandiera che svettava sulla fortezza della città » ), divenne, dopo la Rivoluzione d'ottobre, il centro di un'accesa polemica con la critica marxista che, gradualmente, finì col soffocare i fecondi fermenti del formalismo: nel 1930 Sklovskij è costretto a un'umiliante ritrattazione del suo metodo, considerato erroneo e reazionario; nel 1936 vi fu un'altra campagna antiformalista che coinvolse anche Sostakovic; dieci anni dopo il famigerato Zdanov promuoverà un'altra epurazione contro gli avversari del « realismo socialista », accusati di degenerazioni formalistiche.
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Ben diversa era stata la polemica di Lev Trockij in un importante saggio su « La scuola formale di poesia e il marxismo » (Trockij, 1973, p. 145 sgg.). Per quanto· convinto della superiorità scientifica del marxismo, Trockij è disposto ad ammettere che « i procedimenti metodologici dei formalisti possono aiutare a chiarire le peculiarità artistico-psicologiche della forma », dato che « la forma artistica entro certi limiti, che sono assai vasti, è indipendente». E ancora: « La creazione artistica ... è una rifrazione, modificazione, trasformazione delle realtà secondo le leggi particolari della poesia ». « E verissimo che in base ai soli principi del marxismo non si può mai giudicare, respingere o accettare un'opera d'arte. I prodotti della creazione artistica devono, in primo luogo, essere giudicati in base alle proprie leggi, cioè in base alle leggi dell'arte. Ma soltanto il marxismo è capace di spiegare perché e come in una data epoca è nata una certa tendenza nell'arte, cioè chi e perché ha espresso la richiesta di quelle e non di altre forme artistiche ... L'arte può e deve essere giudicata dal punto di vista dei suoi risultati formali, poiché al di fuori di questi non ci può essere arte ». Queste posizioni risultarono troppo avanzate nel clima arroventato degli anni Trenta e furono ben presto sopraffatte dalla miope ortodossia staliniana, fautrice del piatto « rispecchiamento » delle sovrastrutture ideologiche rispetto a quelle socioeconomiche, sino alla canonizzazione del realismo con la conseguente ripulsa di ogni teoria d'avanguardia. Oggi le idee di Trockij appaiono singolarmente attuali nel dibattito sul significato e sui limiti dei metodi strutturali e semiologici in genere, dal momento che precisano con esattezza il rapporto fra il marxismo come prospettiva di analisi « esterna » dci fatti culturali e la teoria della letteratura come prospettiva di analisi « interna » della serie artistica, certamente non avulsa dal più vasto contesto dei referenti extraestetici. l. Sklovskij: le procedure di straniamento. Iskusstvo kak priem (L'arte come procedimento) può essere considerato il manifesto del primo formalismo e l'esposizione più chiara delle tesi originali di Viktor Sklovskij. « Per risuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste ciò che noi chiamiamo arte. Il fine de !l 'arte è di darci una sensazione della cosa, una sensazione che deve essere visione e non solo sensazione. Per ottenere questo risultato, l'arte si serve di due artifici [ = procedimenti]: lo straniamento delle cose e la complicazione della forma, con la quale tende a rendere più difficile la percezione e a prolungarne la durata. Nell'arte il processo di percezione è infatti fine a se stesso e deve essere protratto» (Sklovskij, 1966, p. 16 sgg.). Il problema estetico è dunque quello della percettibilità della costruzione verbale; grazie al priem ostranenja, cioè al procedimento-effetto di straniamento, il linguaggio poetico rende l'immagine artistica nuova,
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imprevedibile, diversa dalla comune percezione, liberandola insomma dall'« automatismo ». L'ostranenje è il più importante procedimento artistico: esso si può attuare con uno « slittamento (o spostamento) semantico » che determfna la nuova visione dell'oggetto: le immagini e i tropi sono casi particolari di spostamento espressivo. La rivolta contro l'idea di forma come semplice recipiente di un contenuto privilegiato ideologicamente e psicologicamente si concreta nella distinzione fra « materiali » e « procedimenti ». Il contenuto è un aspetto della forma, o addirittura la « somma dei procedimenti stilistici » impiegati nell'opera letteraria. Il contenuto-materiale è tutto ciò che può essere manipolato dal procedimento: suoni, parole, immagini, temi, che costituiscono - come fatti esterni all'opera - semplici « motivazioni » del priem. La percettibilità del materiale può essere effetto della sua « deformazione » (deformacija), un altro procedimento molto caro a Sklovskij e ai formalisti, che ritorna anche nella metodologia di Jakobson (v. LINGUAGGIO, 2). Alla coppia materiali-artificio corrisponde, nella prosa, la coppia jabula-sjuzét (intreccio): la fabula è il materiale dell'elaborazione dell'intreccio, la « storia » come successione cronologica degli avvenimenti; mentre il sjuzét è la composizione stilistica del racconto, l'insieme di procedimenti con cui l'autore ci presenta motivi e personaggi. Si osservi che anche il personaggio è il risultato di una particolare deformazione o formalizzazione del materiale, servendo, ad esempio, a « infilzare » i motivi nella costruzione a « schidionata ». Gran parte del lavoro dei formalisti è dedicato all'analisi delle procedure di costruzione dell'intreccio (ritardo, costruzione a scala, parallelismo, incorniciatura, infilzamento ecc.). In questa linea vanno ricordati il saggio di Ejchenbaum Come è fatto «Il cappotto » di Gogol, quelli di Sklovskij sul Don Chisciotte e sul Tristram Shandy di Sterne, le analisi confluite in Una teoria della prosa (1925) e la sistemazione generale di Boris Tomasevskij, Teoria della letteratura, apparsa nello stesso anno. 2. Il formalismo maturo di Tynjanov. Se con Sklovskij l'indagine letteraria dei formalisti si era polarizzata attorno alla ricerca dei procedimenti, con un sostanziale disinteresse per i materiali, gli studi di Jurij Tynjanov contribuirono a un notevole ampliamento della prospettiva teorica e metodologica verso una considerazione più equilibrata dell'opera letteraria, vista come una interazione di fattori di cui occorre definire il carattere. « L'opera è un sistema di fattori tra loro correlati. La correlazione di ciascun fattore con gli altri è la sua funzione in rapporto a tutto il sistema. È evidente che ogni sistema letterario è .formato non dalla pacifica interazione di tutti i fattori, ma dalla preponderanza, dall'emergere di uno (o di un gruppo) di essi, che subordina funzionalmente e colora tutti gli altri. Questo fattore è indicato col termine,
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già affermatosi nelle opere scientifiche russe (Christiansen, Ejchenbaum) di dominante. Ciò non vuoi dire, tuttavia, che i fattori subordinati non siano importanti e che si possano trascurare. Al contrario, in questa subordinazione, in questo condizionamento di tutti i fattori da parte di quello principale si manifesta l'azione del fattore principale, la dominante. È evidente anche che non esistono in letteratura opere a se stanti, che ogni opera fa parte del sistema della letteratura, entra con esso in correlazione in base al genere e allo stile (differenziazione all'interno del sistema); che esiste una funzione dell'opera nel sistema letterario di una data epoca » (Tynjanov, 1973, p. 153 sgg.). Tynjanov respinge, dunque, il concetto di forma come somma di priemy, che restano identici nel tempo e separati dai materiali, e considera l'opera come una «integrità dinamica» di elementi fra loro correlati. Nell'importante saggio teorico 11 problema del linguaggio poetico il critico considera il ritmo come fattore costruttivo della poesia, capace di organizzare (dinamizzandoli e deformandoli) sia gli elementi fonologici sia quelli morfolessicali del verso. Notevole appare il recupero degli aspetti semantici del discorso poetico, trascurati dal primo formalismo. Secondo Tynjanov i significati verbali si distinguono in « indizi fondamentali » e in « indizi secondari » (Tynjanov, 1968, p. 71 sgg.). Nella contestualità ritmicoformale « la fluttuazione dei due piani semantici può portare a un parziale offuscamento dell'indizio fondamentale - ed evidenziare gli indizi di significato fluttuanti ». Questi « indizi fluttuanti » si manifestano anche grazie al «ruolo semantico » dell'enjambement (v.), della rima e della strumentazione, cioè della « correlazione tra gli elementi oggettivi e formali della parola ». La ricerca di Tynjanov è estremamente interessante e attuale, non solo perché propone una semantica poetica che oggi diremmo connotativa, con i suoi caratteri specifici rispetto alla semantica comunicativa, ma anche perché la sottolineatura degli indizi fluttuanti, che emergono dalla complessa semantizzazione degli elementi in virtù del ritmo, anticipa le odierne ricerche sulla polisemia e pluri-isotopia (v. 1SOTOPIA) del discorso poetico. Secondo il critico formalista, l'opera risulta incomprensibile se non viene collocata in rapporto col più vasto sistema della letteratura e, quindi, delle diverse serie storico-culturali .. « L'opera letteraria costituisce un sistema e la letteratura a sua volta è un sistema. Solo sulla base di questo accordo è possibile la costruzione di una serie letteraria, che senza considerare il caos dei fenomeni e delle serie eterogenee, li studia invece in modo sistematico ». Un'analisi correttamente funzionale non si limiterà a estrapolare i procedimenti letterari, ma metterà in relazione ogni elemento evidenziato « da una parte con la serie degli elementi simili appartenenti ad altre opere-sistemi ed anche ad altre serie, dall'altra parte con gli altri elementi dello stesso
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Formalismo
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sistema (autofunzione e sinfunzione). Così il lessico di una data opera entra simultaneamente in correlazione, da una parte, con il lessico letterario e con il lessico in generale, dall'altra, con gli altri elementi dell'opera». L'evoluzione letteraria consiste nella redistribuzione delle forme (procedimenti) e delle funzioni. La forma cambia la funzione, la funzione cambia la forma. 3. Il postformalismo: l'approccio semiologico di Mukarovsky. Il formalismo, pur con le interne differenziazioni e nonostante il suo carattere largamente sperimentale, costituisce, nella cultura del primo Novecento, il tentativo più organico di elaborazione di una teoria della letteratura consapevole dell'autonomia del suo oggetto e dei suoi metodi d'indagine. Esportato in Cecoslovacchia, grazie a Jakobson, il formalismo subì una profonda revisione attestata dalle « Tesi » del '29 (v. LINGUAGGIO, 2). Non si parlò più di formalismo, ma di « strutturalismo » e di « concezione semiologica dell'arte», soprattutto per merito di Jan Mukarovsky, uno dei membri più eminenti del Circolo di Praga: « Facendo uso del termine "strutturalismo" non dimentichiamo che esistono movimenti analoghi (anche se non sempre identici) anche in altre scienze. Il legame più stretto è quello con la linguistica, come è concepita nel Circolo linguistico di Praga: coi suoi studi di fonologia la linguistica ha aperto alla teoria della letteratura la via all'analisi dell'aspetto fonico dell'opera d'arte letteraria; con quello delle funzioni linguistiche ha fornito nuove possibilità allo studio della stilistica della lingua poetica e infme ponendo l'accento sulla natura semiotica della lingua ha reso possibile la comprensione dell'opera d'arte come segno » (Mukarovsky, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, Torino, 1971, p. 167). Per Mukarovsky l'opera letteraria è segno autonomo e segno comunicativo: l'autoriflessività del segno artistico deriva dal fatto che il messaggio è dominato dalla funzione estetica, la quale subordina a sé le altre funzioni comunicative. Lo studioso cecoslovacco assume dal formalismo il criterio dello studio immanente del sistema letterario, accentuando il carattere eminentemente (ma non esclusivamente) linguistico del segno poetico, in una linea di ricerca poi continuata da Jakobson. Ma, diversamente dai formalisti, colloca il fatto letterario in un più ampio e mobile contesto sociale, in cui gioca un ruolo importante il fruitore, spesso portato a recepire o ad accentuare gli aspetti comunicativi ed extraestetici del messaggio, a cambiare in sostanza la funzione specifica dell'arte in risposta alle sollecitazioni storiche e ideologiche in. cui avviene la comunicazione letteraria. Mukarovsky allarga così la visuale al problema del pubblico (v.) e del contesto sociale, oltre che dell'opera e dell'autore su cui si erano soffermati i formalisti. Riprendendo le osservazioni dell'ultimo Tynjanov,
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Frequenza
il critico cecoslovacco analizza il discorso letterario nell'interazione delle sue componenti: l'opera come sistema di segni, il soggetto, la lingua come materiale, il rapporto con la tradizione e i generi, la posizione nella storia della letteratura, il nesso autore-società, il contenuto ideologico dell'opera, il pubblico dei lettori. Allontanandosi ancora dall'orientamento empiristico dei formalisti, Mukarovsky costruisce un rigoroso sistema estetico, che salvaguarda l'autonomia del valore artistico (e dell'indagine critica) dal pressante tentativo di infeudazione del marxismo, al quale riconosce una priorità metodologica nell'ambito storico-sociale che non intacca, tuttavia, la specificità dell'arte. Ci siamo rifatti per queste pagine a Marchese, 1974, p. 103 sgg. (a cui si rimanda per la bibliografia). Opere fondamentali: AA.VV., 1970 a; Todorov, 1968; Erlich, Il formalismo russo, Milano, 1966; Ambrogio, 1968 e 1971; AA.VV., 1974 b; AA.VV., 1976 a (vol. l, p. 163 sgg.). FREQUENZA. Nell'analisi linguistica la frequenza è l'indice statistico calcolato a partire dal numero di occorrenze d'un elemento in uno o più testi (Mounin, 1974, p. 147). L'analisi statistica mette in evidenza, ad esempio, che un certo numero di parole ritornano con una notevole frequenza sì da costituire delle liste di termini fondamentali. L'analisi statistica ha trovato delle applicazioni anche in letteratura, se si considera lo stile come scarto o imprevedibilità rispetto alla lingua standard (v. STILE). Ci si chiede se il criterio della frequenza sia in grado di individuare i fattori stilistici pertinenti di un dato testo letterario (o connotatori). La ripetibilità non è infatti sempre significativa (come i deittici questo-quello n eli' I n finito leopardiano) e spesso anche un solo elemento può risultare pertinente, quando acquista un valore funzionale-connotativo nel testo. Si veda Marchese, 1974, p. 75 sgg. FROTTOLA. ~ un componimento di origine popolare, frequente nella poesia trecentesca, nel quale si susseguono in struttura cantilenante proverbi, motti, sentenze e talora frasi senza senso per accentuare il tono didattico-satirico delle argomentazioni. La frottola non ha uno schema metrico regolare: consta per lo più di versi lunghi e brevi, talora con coppie monorime (cioè aa, bb ecc.). Frottole formate da una serie di distici (settenari e quinari) fra loro legati in rima (abbe-cd ecc.) costituiscono i gliòmmeri ( = gomitoli), in voga a Napoli nel Quattrocento. Nel XV sec. venne chiamata frottola o barzelletta la ballata di ottunari, coltivata dal Poliziano, dal Magnifico, dal Galeata e da vari poeti cortigiani. La ripresa è di quattro versi, la stanza di otto; dopo ogni stanza si ripete la ripresa (o gli ultimi due versi). Le ballate carnascialesche hanno la struttura di frottole-barzellette:
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Fruizione
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la più famosa è il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico (schema: xyyx-ab.ab.byyx). Si veda Elwert, 1973, p. 140 sgg. e 165 sgg. Etim.: dal mediolatino frocta = frotta, affastellamento di parole.
FRUIZIONE. La fruizione è il modo di decodificare e di « usare » l'opera letteraria da parte del lettore-destinatario. Sottolineiamo il concetto di uso del testo, perché sia in certe impostazioni sociologiche sia nell'ottica dell'« opera aperta » è la fruizione a completare il significato artistico: « l'opera letteraria è il risultato dell'azione dell'autore e del lettore, è il coronamento di uno sforzo, per non dire di· un lavoro comune ... Il contenuto della comunicazione muta con il recettore. L'opera letteraria, il libro, lo stampato sono ciò che ne fa il lettore. Leggere è costruire» (Robine, in AA.VV., 1972 a, p. 190). Siffatta concezione del testo letterario è, a nostro parere, da res?ingersi (cfr. Hirsch, 1973), anche se è indubbio che la decodificazione sia sempre condizionata dallo status sociale del lettore, dalla sua cultura, dai suoi gusti, dai sottili processi di interferenza e di sovrapposizione al testo scritto. I sostenitori della fruizione creativa, cioè della lettura come riscrittura del testo (si richiamano per inciso le tesi dell'ultimo Barthes, 1975), citano il Sartre di Qu'est-ce que la Litterature? (1948), in cui il filosofo afferma che l'opera letteraria è un'invocazione, un richiamo (appel) al lettore, il quale deve darle vita nell'atto della lettura ·o, meglio, collaborare alla produzione del senso. Occorre tuttavia distinguere il senso del testo come sistema chiuso di segni e le significanze o interpretazioni che il testo assume nella fruizione storicamente condizionata, in cui entrano in gioco anche i modelli letterari propri ai destinatari. Si può anche dire che « ogni epoca applica i suoi codici di lettura, il suo mutato punto di osservazione, sicché il testo continua ad accumulare possibilità segniche, comunicative proprio in quanto è all'interno di un sistema in movimento» (Corti, 1976, p. 18); con l'avvertenza, però, che una corretta lettura consiste nella proiezione del testo sui codici e sottocodici che lo sottendono nella sua genesi. Va anche aggiunto che la fruizione dell'opera letteraria è oggi assai diversa dal passato, quando la lettura presupponeva la dizione, la recitazione, l'ascolto - e quindi la messa in atto delle virtualità fonicomateriali della parola, specie nella poesia (rima, equivalenze melodiche e ritmiche, metrica ecc.). L'attuale lettura individualizzata ripropone altri elementi dell'organizzazione testuale come scrittura: fattori visivi, mnemonici, grafici, che incidono sia sul sistema letterario sia sulla fruizione dell'opera. Sull'argomento si vedano: Marchese, 1976, p. 233; Corti, 1976, p. 53 sgg.
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Funzione
FUNZIONE. La funzione è il ruolo giocato da un termine (fonema, morfema, parola, sintagma ecc.) nella struttura grammaticale dell'enunciato. Nella sintassi si distinguono le funzioni del soggetto, del predicato e dei complementi. Nella linguistica funzionale (v.) di Martinet è la duplice articolazione a rendere possibile la formazione degli enunciati. In Jakobson la funzione è un uso specifico del linguaggio (v.) in rapporto ai diversi fattori comunicativi. Per il concetto di funzione come unità narrativa si v. SEQUENZA, NARRATIVA.
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GENERI LETTERARI. « Il testo, salvo casi eccezionali, non vive isolato nella letteratura, ma proprio per la sua funzione segnica appartiene con altri segni a un insieme, cioè a un genere letterario, il quale perciò si configura come il luogo dove un'opera entra in una complessa rete di relazioni con altre opere» (Corti, 1976, p. 151). Dalla stretta correlazione fra determinati temi (ad esempio, la vita campestre, il focus amoenus ecc.) e specifiche scelte formali (a esempio, uso di una forma metrica come l'egloga e di un certo registro linguistico medio) nasce e si codifica il genere, il quale può avere una normatività interna forte se è meno soggetto a cambiamenti strutturali o debole se è suscettibile di violazioni e di modifiche. Resta il fatto che i generi letterari sono per natura conservatori, in quanto tendono a mantenere e perpetuare una situazione tematico-linguistica per così dire esemplare e astorica, talora topica (si pensi alla poesia bucolica). Quando si attuano dei cambiamenti più o meno profondi nell'assetto della letteratura (in corrispondenza con trasformazioni della struttura sociale e culturale), i generi letterari sopravvivono se sono capaci di cambiare funzione nell'ambito della nuova realtà artistica: si pensi alla transcodificazione (v.) del motivo della nobiltà nella poesia delle origini, dalla lirica cortese provenzale ai siciliani e agli stilnovisti. La codificazione del genere implica una certa programmazione comune alle opere appartenenti al genere stesso. Ciò significa che un lettore di un romanzo giallo si predispone alla fruizione del testo con un certo modello di funzionamento dell'opera, con certi schemi generali (il cadavere, il poliziotto, la ricerca dell'assassino, il mascheramento degli indizi ecc.), in una parola con una competenza letteraria che gli deriva dall'assimilazione delle « regole del gioco», cioè del genere-programma. E evidente che l'opera creativa, pur inserendosi in un certo genere, determinerà scarti e transcodificazioni rilevanti, acquisendo perciò informatività estetica o, se si vuole, polisemia, connotatività, valore.
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Generi letterari
Se il genere viene considerato una categoria retorica, !~spetto più vistoso della sua « individualità » sarà soprattutto la marca linguistica della sua forma: ad esempio, certi stilemi o stereotipi o luoghi coc muni espressivi, che di per sé agiscono come spie informative della scrittura codificata. In ogni modo, il genere si codifica e trasforma all'interno del più ampio sistema della letteratura, entrando in contatto con altri generi e dando vita a particolari interazioni (ad esempio, il poema eroico e quello eroicomico, il genere pastorale e il rusticale ecc.), scomparendo per un certo periodo e riapparendo trasformato in un altro momento (V. TEATRO, COMMEDIA, TRAGEDIA). l. Breve storia dei generi letterari. La prima indagine sistematica sui generi letterari risale alla Poetica di Aristotele, per il quale la tragedia rappresenta il modo più alto della realizzazione poetica nell'ambito dell'azione drammatica, contrapposta all'azione narrativa. Com'è noto, dalla descrizione dei caratteri della tragedia greca (l'azione, l'eroe che passa da uno stato di felicità a uno stato di infelicità, la catarsi ecc.) i classicisti del Cinquecento trassero le cosiddette « regole aristoteliche» dell'unità d'azione, di tempo e di luogo, che condiziona~ rono a lungo il genere tragico. Dall'opera di Aristotele, dall'Ars poetica di Orazio, dalle lnstitutiones oratoriae di Quintiliano, riprese e codificate nei numerosissimi trattati del Medioevo, derivano i presupposti della complessa storia dei generi sino al classicismo rinascimentale, che individua tre grandi categorie letterarie: la poesia drammatica, fondata sull'imitazione senza intervento dell'autore, la poesia lirica, narrazione con intervento dell'autore, e la poesia epica, derivata da entrambe. Forme drammatiche sono la tragedia, la commedia, il dramma, la sacra rappresentazione, la farsa, il dramma pastorale, il m~lodramma. Forme narrative: la poesia epica (cavalleresca, romanzesca eroica, storica, eroicomica ecc.) e la narrazione (favola, fiaba, novella, racconto, romanzo). Forme soggettive sono: la lirica, l'elegia, l'idillio, l'epigramma, la satira ecc. t evidente l'approssimazione di questo catalogo, che va estendendosi e modificandosi nel tempo, pur conservando una certa fisionomia abbastanza definita. La codificazione dei generi comportò anche un fondamentale elemento di normatività estetica, nel senso che gli scrittori erano obbligati ad adeguarsi ai modelli e venivano giudicati sulla base della maggiore o minore conformità ad essi. Un caso esemplare ci è offerto dal Tasso, la cui Gerusalemme liberata incontrò l 'ostilità dei critici più pedissequi perché non perfettamente allineata alle regole del poema eroico, sicché l'autore venne convinto a riscriverla in modo conformistico (la Conquistata). Dal Bruno, al Guidi, al Gravina la teoria dei generi letterari venne sottoposta a una continua critica, che si concluse con la revisione e il rifiuto delle norme e delle ricette nei critici del Settecento (Baretti) e del Romanticismo (si pensi solo a Hegel,
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Glossematica
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Schiller, gli Schlegel e, in Italia, Manzoni). Il De Sanctis respinge i generi perché considera che l'opera artistica abbia un valore individuale, pur servendosi di essi come mere caratterizzazioni storiche. Nell'estetica crociana il genere è rifiutato in quanto contraddittorio con l'essenza lirico-fantastica e universale dell'arte, anche se viene riconosciuta l'utilità puramente classificatoria del genere come pseudoconcetto. Più sottile la metodologia del Fubini, che recupera i generi come strumenti dinamici per formulare un giudizio più concreto dell'individualità di un'opera. Anche per il Binni il genere, considerato nell'ambito della poetica di uno scrittore, concorre a una più storica caratterizzazione dei testi letterari. Nelle moderne metodologie strutturalistiche e semiotiche il discorso sui generi è ripreso in una prospettiva diversa, volta a considerare il messaggio artistico come una comunicazione possibile e comprensibile all'interno del generale sistema letterario e dei codici e sottocodici che lo attraversano. Indicazioni bibliografiche: Binni, 1963; Fubini, 1956; Wellek, 1972; Corti, 1976. GENOTESTO. Il termine è usato in relazione a fenotesto (v.). Luogo
della elaborazione profonda dell'opera, il genotesto rimanda non solo alla produzione segnica come transcodificazione letteraria, cioè come ripresa e trasformazione di elementi del sistema della letteratura, ma anche e soprattutto alla sovradeterminazione o superconnotazione inconscia dei segni, che si manifestano (e nello stesso tempo si celano ambiguamente) nelle strutture del linguaggio, cioè nel fenotesto. Etim.: dalla forma greca -genes nel senso di generare, produrre. GIAMBO. Il giambo è un piede della metrica greco-latina formato da
una sillaba breve e da una lunga: ...., -· Nella metrica italiana si parla di ritmo giàmbico per indicare l'alternarsi di una sillaba atona e di una tonica, come ad esempio in questo endecasillabo (v.) del Petrarca: Di quei sospiri ond'io nudriva 'l core.
,
'"""',._,
,
._,
,._,
,._,
GLOSSA. Breve annotazione che si trova, in certi manoscnttt, sopra
una parola o al margine della riga, dovuta all'amanuense o al lettore del codice o anche all'autore stesso. Normalmente la glossa è una spiegazione o un'interpretazione di un termine dotto, ambiguo o desueto; può anche proporre brevi osservazioni, varianti, rimandi ecc. Etim.: dal gr. glossa = lingua. GLOSSEMATICA. Teoria linguistica del danese L. Hjelmslev (v. GUISTICA, 3).
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LIN-
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Gnome
GNOME. La gnome è una frase sentenziosa, una massima, un proverbio. La poesia gnomica è fra le più antiche espressioni letterarie ed è presente in ogni cultura, sia come documento della saggezza popolare sia come testimonianza di un determinato mondo ideale. Nella struttura del discorso letterario la gnome o comunque le forme sen· tenziose sono indici dello stile valutativo (v. STILE, 1), dell'emergenza di un personaggio o della voce del narratore. Es.: Don Abbondio ... non era nato con un cuor di leone (Manzoni). Una sentenza che conclude un pensiero, generalizzando un'esperienza particolare, si dice epifonema (v.). Etim.: dal gr. gnome = sentenza. GRADAZIONE. Nella retorica antica la gradazione o climax consisteva nella continuazione progressiva della anadiplosi (cfr. Lausberg, 1969, p. 138 sgg.), cioè nella concatenazione di elementi fra loro legati per qualche aspetto (ad esempio, cronologico o causale). Nell'uso moderno del termine (v. ANTICLIMAX), la gradazione è una successione di parole o di gruppi di parole in forma di amplificazione o di sinonimia o di accumulazione accrescitiva. Secondo l'intensitiva semantica o ritmica della successione si ha la climax ascendente (struttura normale) o la climax discendente (anticlimax), quando lo scrittore vuole progressivamente attenuare e concludere la curva dell'intonazione. Come esempio del doppio uso della gradazione si veda l'Infinito del Leopardi (v. ANTICLIMAX). GRADO ZERO. Prescindendo dal particolare discorso di Barthes, 1960, relativo al problema della scrittura letteraria (v.), intendiamo per grado zero l'assenza in un dato termine di peculiari connotazioni retoriche o stilistiche, ossia il suo riferimento alla codificazione linguistica. Si veda AA.VV., 1970 c, p. 35. GRAFEMA. 1?. un elemento di un sistema di scrittura corrispondente alle lettere dell'alfabeto. La visualizzazione dei fonemi nelle scritture assume importanza, in ambito letterario, nelle sperimentazioni delle avanguardie novecentesche (futurismo, dadaismo ecc.) o nelle più recenti riprese della cosiddetta poesia visiva. Etim.: dal gr. graphein = scrivere. GROTTESCO. Particolare espressione teatrale inaugurata da Luigi Chiarelli nel 1916 con La maschera e il volto; fra gli autori più significativi, L. Antonelli, Rosso di San Secondo, E. Cavacchioli e il primo Pirandello (del 1916 sono il Berretto a sonagli e Pensaci Giacomino). I caratteri del grottesco sono la paradossalità delle situazioni, analizzate in termini intellettualistici, dilemmatici, allegorici; l'ironia
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Grottesco
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e talora il sarcasmo con cui si evidenziano le contraddizioni del mondo borghese (l'esteriorità contro le ragioni intime, i sentimenti); l'intenzionalità metafisico-esistenziale che contrappone al personaggio « teatrale » un essere astratto, innominato (la marionetta di Rosso di San Secondo).
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HYSTERON PROTERON. ~ una figura di pensiero che consiste nell'inversione temporale degli avvenimenti in una successione continua, sicché viene anticipato il termine finale su cui si focalizza l'attenzione dello scrittore. Così nell'Eneide (II, 353), la frase «moriamo e cadiamo tra le armi! » è costruita enfaticamente sull'hysteron proteron. Etim.: dal gr. hysteron pr6teron = l'ultimo come primo.
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IATO. L'iato è l'incontro di due vocali contigue che si pronunciano separatamente. Nella metrica (v.) si ha iato nelle figure della dialefe e della dieresi (v.). Etim.: dal lat. hiari = aprirsi, avere aperture (lasciare spazi). ICASTICO. Nella terminologia stilistica l'aggettivo qualifica il carattere efficace con cui è rappresentata un'immagine. Etim.: dal gr. eikazein = rappresentare. ICONA. Secondo Ch. S. Peirce, l'icona è uno dei tre tipi di segni fondamentali (con l'indice e il simbolo). Un segno è un'icona quando esiste una somiglianza fra il rappresentante e il rappresentato, ad esempio la pianta di una casa o, ancor meglio, un ritratto. In senso generale, l'icona è un'immagine sicché si parla di linguaggio iconico a proposito dei sistemi di comunicazione come il cinema, la pubblicità ecc. che si avvalgono delle immagini per trasmettere un messaggio. Si veda in p'roposito: Eco, 1968; 1973 (soprattutto p. 51 sgg.) e 1975, p. 256 sgg. (per una critica dell'iconismo). Etim.: dal gr. eik6n = immagine. ICTUS. È l'accento poetico (primario e secondario) che marca, nella struttura del verso, il rapporto fra sillabe forti e deboli (v. ACCENTO). Etim.: dal lat. icere = colpire, battere. IDEOLOGIA. II termine è spesso usato come sinonimo di Weltanschauung, cioè di visione del mondo e della vita. Ogni artista ha una sua concezione ideale, non necessariamente articolata in un sistema filosofico ma per più aspetti in rapporto a valori, convinzioni, attitudini mentali o spirituali legati alle visioni della vita dominanti in una data epoca. Ad esempio, non si potrebbe capire la sostanza del mes-
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Idioletto
saggio poetico del Foscolo e del Leopardi senza fare riferimento alle ideologie sensiste e materialiste di matrice illuministica. In una accezione più specifica, l'ideologia è marxianamente ogni forma di razionalizzazione culturale o « falsa coscienza » messa in opera dalle classi dominanti come giustificazione del loro potere. L'ideologia permea tutte le sovrastrutture e quindi anche l'arte, sicché in certe impostazioni metodologiche marxiste compito del critico è l'individuazione della Weltanschauung di uno scrittore in quanto ideologia o espressione particolare (coerentemente organizzata) dell'ideologia generale di una classe o di un gruppo intellettuale, portavoce di specifici interessi sociali. Sull'argomento si veda Marchese, 1976, p. 159 sgg. e 230 sgg. IDIOLETTO. L'idioletto è l'uso della lingua proprio di ogni individuo, il suo linguaggio o « stile » personale, prescindendo dal gruppo o dalla comunità in cui l'individuo è inserito; in questo senso molti studiosi contestano la liceità e l'utilità del termine. Più recentemente la parola è stata assunta, in sede di critica letteraria, come sinonimo di linguaggio particolare di uno scrittore, se non addirittura dello stile (e anche in questo caso non se ne vede la necessità). Etim.: dal gr. idios = proprio, personale, légein = parlare. ILLOCUTORIO. Si dice illocutorio ogni enunciato che ha come scopo primo e immediato di modificare la situazione degli interlocutori. Ad esempio, si compie l'atto di promettere dicendo « io prometto ... », l 'atto di interrogare con « perché ... ? », I'atto di ordinare o di consigliare mediante forme del tipo: « ti ordino ... », « secondo me dovresti... ». Di fronte all'atto illocutorio il destinatario si trova in una situazione di alternativa: obbedienza o meno, rispondere o non rispondere ecc. Cfr. Ducrot-Todorov, 1972, p. 368 sg. IMMAGINE. Secondo Wellek-Warren, 1956, p. 253, «l'immagine è un argomento che rientra tanto nella psicologia quanto nello studio letterario. Nell'ambito della psicologia la parola "immagine" significa riproduzione mentale, memoria di una passata esperienza relativa alla sensazione o alla percezione, non necessariamente visiva ... Non solo esistono immagini di calore e immagini di pressione ( « cinestetiche », « tattili », « di immedesimazione » ); e c'è poi l'importante distinzione tra immagine statica e immagine cinetica (o « dinamica » ). L'uso dell'immagine cromatica può o non può esser tradizionalmente o personalmente simbolico. L'immagine sinestetica opera un trasferimento da un senso all'altro, per esempio il suono nel colore (v. SINESTESIA) ». Nell'estetica di Croce l'immagine è la rappresentazione di un sentimento ad opera della fantasia; ciò che per I .A. Richards sarebbe un
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Implicazione
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evento mentale ». Un significativo esempio di immagini relative a un ampio campo sensoriale ci è dato da questi versi di D'Annunzio: Ora lunghesso il litoral cammina l la greggia. Senza mutamento è l'aria. l Il sole imbionda sì la viva lana l che quasi dalla sabbia non divaria. l /sciacquio, calpestio, dolci romori. Si osservino le immagini statiche e visive (il lido, il cielo, la lana ecc.). le immagini dinamiche (il gregge che cammina sul lido, il calpestio), le immagini visive e cromatiche (la luce dorata del sole e la similitudine lana-sabbia), le immagini uditive del verso finale (con l'enunciazione emotiva dolci romori). Molto interessanti sono gli studi antropologico-letterari riguardanti il cosiddetto « immaginario », ossia - per esprimerci con semplicità l'immenso repertorio di immagini simboliche che compaiono nel folclore e nelle letterature di tutti i tempi. È possibile strutturare l'immaginario? È evidente che ogni tipologia deve rifarsi al presupposto che le immagini siano raggruppate in grandi archetipi (di qui l'importanza di Jung negli studi letterari di N. Frye, ad esempio). L'universalità degli archetipi permetterebbe di comprendere le complesse simbologie (diurne, notturne; temporali e spaziali; ctonie e celesti; discensive e ascensive ecc.) che sono alla base di immagini ricorrenti. Sull'argomento si veda Durand. 1972. «
IMPLICAZIONE. L'implicazione è una relazione logica fra due proposizioni in modo tale che la prima coinvolga l'altra come conseguenza necessaria. In linguistica l'implicazione è utilizzata per porre in rilievo i rapporti semantici nella struttura di un enunciato: « Si dice che una frase, S1, ne implica un'altra, S2, - simbolicamente St ::) s~ - se i parlanti della lingua concordano nel dire che non è possibile asserire esplicitamente S1 e negare esplicitamente S2. Ed St nega esplicitamente s~. cioè St implica non S2 - St ::) - S2 -, se si concorda nel dire che l'asserzione esplicita di S1 rende impossibile, senza contraddizione, l'asserzione esplicita di Sz » (Lyons, 1971, p. 588). Esempio di implicazione: tutti gli uomini sono mortali ::) Socrate è mortale. La relazione di equivalenza o di implicazione bilaterale definisce la sinonimia: « Se una frase, S 1, implica un'altra frase, Sz, e viceversa, allora sl e s2 sono equivalenti; cioè se SI ::> s2 e se s2 ::) SI. allora SI= s2 (dove= sta per "è equivalente"))) (Lyons, 1971, p. 595). Esempio: Renzo ama Gianni :== Gianni è amato da Renzo. Si ha contraddittorietà quando un termine (o una frase) nega esplicitamente o implicitamente un altro termine o frase. Esempio: bianco e non bianco sono contraddittori; oppure se dico: Luigi ha una cravatta gialla nego implicitamente che Luigi ha una cravatta verde. La relazione di contrarietà o opposizione si ha quando St e Sz sono antonimi (v.), ad esempio grande,._, piccolo (o anche grande vs pie-
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Imprecazione
colo). Grcimas, 1974, p. 145 sgg., ha riformulato queste relazioni di senso in uno schema (il quadrato di Greimas) assai utile: SI
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s2 l.._ - - - - - - - ___.,.1 s;. Se, ad esempio, S1 = « avaro », S2 sarà « prodigo», S1 (cioè -S1) varrà « non avaro, liberale » e S2 « non prodigo, economo ». S2 implica S1, come S1 implica S2. Per gli usi di tale schema nelle ricerche letterarie si veda Marchese, 1974, p. 158 sgg. IMPRECAZIONE. Figura logica, per quanto rappresenti una forte emozione dell'animo, mediante la quale si esprime sdegno, indignazione, furore per un'azione negativa, augurando male a chi ne è responsabile. Es.: Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese là dove 'l sì suona, / poi che i vicini a te punir san lenti, / muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch'elli anneghi in te ogni persona! (Dante). Etim.: dal lat. imprecari = inveire, malaugurare. IMPRESSIVO. Si parla, specialmente nella fonostilistica, di impressività o di caratteri impressivi a proposito delle qualità acustico-sonore di determinati fonemi capaci di evocare dei rumori. Così l'armonia imitativa o l'onomatopea si basano sui caratteri impressivi dei suoni. Es.: Aita, aita! parea dicesse (Parini). Qui i gruppi /ai/ ripetuti imitano il guaito della « vergine cuccia ». INARCATURA. v.
ENJAMBEMENT.
INCLUSIONE. Si ha inclusione di un sottoinsieme A' in un insieme A, quando tutti gli elementi di A' appartengono egualmente ad A. Ad esempio, i nomi propri sono inclusi nella classe dei nomi. Nella trascrizione simbolica si avrà: A' c A. L'inclusione è importante per determinare le relazioni semantiche fra diverse parole. L'iponimia è definibile come relazione d'inclusione: infatti fiore è più ampio di rosa, cioè lo include (anche se si può osservare che rosa è marcato ri-
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Indizio
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spetto a fiore e non viceversa). I diagrammi di Venn evidenziano i concetti di inclusione e appartenenza:
L'insieme M comprende il sottoinsieme U (quest'ultimo incluso in M), mentre l'elemento Socrate (S) appartiene a U. Formalizzando: U c M = U è incluso in M S E U = S appartiene a U U c M ~ ( = equivale a) S E U ~ ( = implica) S E M Quest'ultima espressione significa che dall'antecedente (ossia ciò che è scritto a sinistra del segno di coimplicazione ~ ), si deduce il conseguente (ciò che è scritto a destra di ~).Si veda Avalle, 1972 b, p. 33 sgg. INDICATORI. In linguistica si distinguono gli indicatori di funzione, che Martinet chiama monemi funzionali (v. LINGUISTICA, 2), cioè le preposizioni, le congiunzioni, il pronome relativo ecc.: in una parola, tutti quei segni che servono per indicare un rapporto sintattico fra gli elementi di un enunciato. Per Benveniste gli indicatori sono i deittici (v.) di tempo e di spazio; ad esempio: qui, ora, questo, adesso, eccolo. N'eil'analisi linguistica di un testo letterario gli indicatori spazio-temporali manifestano l'atto di enunciazione (v.), in quanto alludono al rapporto mittente-destinatario Ci designano il contesto. Sulla funzione stilistica dei deittici si vedano le voci: DISCORSO, STILE, SHIFTERS. Per l'analisi dell'Infinito, in cui giocano una funzione essenziale gli indicatori « questo-quello », si veda Marchese, 1974, p. 287 sgg. INDICE. Secondo Peirce l'indice è un segno; più esattamente è ùn fatto che implica o annuncia un altro fatto, come le nubi nere o il fumo che sono indici rispettivamente della pioggia o del fuoco. Per un approfondimento del problema si vedano le voci: SEMIOLOGIA, SEGNO. INDIZIO. Interessa il nostro discorso la definizione di indizio data da Barthes nell'analisi del racconto (AA.VV., 1969 b, p. 7 sgg.). Considerate le funzioni come le unità di contenuto più piccole nell'ambito
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I 11jorm.azione
di un testo narrativo, Barthes distingue nuclei e catalisi (funzioni vere e proprie), indizi e informanti (unità narrative riguardanti il livello del discorso e dei personaggi). Gli indizi « rinviano ad un carattere, ad un sentimento, ad un'atmosfera, ad una filosofia », mentre gli informanti sono dei « dati puri » (ad esempio l'età di un personaggio). (v. anche NARRATIVA). INFORMAZIONE. « Malgrado un ventaglio di accezioni assai diverse, la nozione di informazione, in linguistica come nello studio delle telecomunicazioni, può essere ricondotta a quella di riduzione delle -incertezze: c'è informazione ogni volta che, in un modo o nell'altro. un'incertezza iniziale si trova ridotta o annullata. Quando si dà un 'indirizzo in una strada dove c'è una sola casa, il numero di questa casa non apporta alcuna informazione; fornirà invece un 'informazione se la strada ha due case, e l'informazione sarà tanto più ricca quanto maggiore sarà il numero delle case >> (Mounin, 1974, p. 177). Il concetto di informazione non corrisponde, dunque, a quello di messaggio o di contenuto del messaggio, sia esso più o meno importante: l'informazione riguarda la trasmissione del messaggio e la riduzione dell'incertezza nella decodificazione. In ambito letterario si è definito lo stile (v.) come una scelta e una combinazione originale di elementi linguistici tali da elevare il contenuto di informazione del messaggio. B evidente che l'informazione inerente a un'unità linguistica è inversamente proporzionale alla probabilità di occorrimento di tale unità nella langue. L'imprevedibilità aumenterebbe l'informazione: mentre se dico mare blu non c'è né imprevedibilità né informazione (in senso statistico), lo scarto di tipo simbolista mare ceruleo sarebbe più informativo, e ancor più la scelta di Valéry mare sempre ricominciato. Per la critica a tale concetto di stile si veda Mounin, 1971, p. 135 sgg. e Marchese, 1974, p. 72 sgg. INNO. Fra le prime forme poetiche, l'inno era in origine un componimento dedicato a una divinità di cui si ricordavano nomi e fatti prodigiosi, spesso a fini propiziatori. Non raro era l'innesto, nella struttura narrativa di episodi mitologici, che si conservò anche nella successiva evoluzione letteraria della poesia lirica corale greca (da Alceo a Pindaro e Bacchilide) e nella più raffinata innografia ellenistica. Meno diffuso nel mondo latino, l'inno fu ripreso dai poeti cristiani e inserito nelle cerimonie liturgiche, con accompagnamento musicale (sant'Ambrogio). Non minore importanza ebbe nel Medioevo e nel Rinascimento, mentre nell'Ottocento, oltre a conservare i suoi antichi caratteri religiosi (gli l nn i sacri del Manzoni), servì per esprimere nuovi sentimenti, particola1mente solenni, civili, filosofici e patriottici (basterà qui ricordare la tradizione del Monti, del Foscolo, del Carducci e magari l'inno di Mameli).
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Interpretazione
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Per il rapporto fra la canzone (v.), l'ode e l'inno si veda Elwert, 1973. p. 155 sgg. e 160.
INTENZIONALIT À. L'intenzionalità artistica, intesa non tanto nel significato desanctisiano di « mondo intenzionale » (i propositi non realizzati nella concreta poesia) quanto piuttosto nel moderno concetto di poetica (v.), rientra nella sfera della letterarietà studiata dai critici formalisti e strutturalisti. L'opera d'arte, oltre a proporsi di comunicare un certo messaggio, mette in atto anche alcuni criteri interni di decifrazione (ad esempio, richiamandosi o violando una certa tradizione): è ciò che definiamo l'intenzionalità immanente del testo. Sull'intenzionalità dei segni si rimanda alle voci, LINGUISTICA, SEGNO, SEMIOLOGIA.
INTERFERENZA. Nella teoria della comunicazione (v.) l'interferenza è la sovrapposizione del codice del destinatario al codice o ai codici di riferimento del mittente, sicché il messaggio ne risulta deformato. In senso linguistico, si ha interferenza nei casi in cui l'incontro fra una lingua e un'altra (bilinguismo) o fra la lingua e il dialetto provoca dei fenomeni di deviazione dal codice lessicale o morfosintattico. Un meridionale potrà dire: « Senti allo zio », un italiano usare in francese machine invece di voiture. INTERLOCUTORE. È la persona a cui si rivolge il mittente o locutore nella situazione comunicativa (v.
COMUNICAZIONE).
INTERPRETAZIONE. L'arte dell'interpretazione o ermeneutica risale alla filosofia greca, nel particolare significato tecnico di esegesi di un testo. In età ellenistica si discusse a lungo, circa i poemi omerici, se fosse più pertinente una interpretazione letterale del messaggio o una allegorica, discussione ripresa anche a proposito della Bibbia nella prima tradizione patristica (Agostino, Origene). In termini moderni, si potrebbe dire che l'interpretazione letterale guarda all'aspetto filologico e denotativo dei segni, l'interpretazione allegorica esalta (e persino esaspera) la polisemia, la pluralità di significati implicita nelle parole. L'interpretazione di un testo letterario, nella prospettiva da noi privilegiata della critica scmiologica (v. SEMIOLOGIA), si fonda sui criteri basilari della comunicazione (v.): il testo è un messaggio inviato da un mittente (lo scrittore) a un destinatario (lettore, pubblico). L'attuazione del messaggio implica il riferimento a un sistema, la letteratura con i suoi specifici istituti, e a particolari codici culturali, retorici, stilistici ecc. L'interpretazione è una complessa ricognizione del testo che parte dal livello denotativo del messaggio per ricoslruirne le varie isotopie a livelli sempre più complessi, sino alla connotazione
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Interrogazione
globale del senso. La decifrazione del senso, soprattutto in un testo poetico, non si esaurisce nello sviscerare le strutture dei significati, ma nella piena comprensione dei segni e cioè nell'interazione tra significanti e significati, tenendo conto del feed-back semantico proprio dei valori fonoprosodici, metrici e ritmici dei segni poetici. Se è vero che non si può dare un'interpretazione di un testo senza il rinvio (o la proiezione) del messaggio a uno o più codici di riferimento, la semiologia sfugge alle critiche delle metodologie storicistiche in quanto recepisce la diacronia dell'opera in rapporto ai codici, ovviamente calati nel tempo. L'approfondimento del problema dell'interpretazione emerge dalla complessità delle voci di questo dizionario (e della relativa bibliografia). Per un primo approccio alle diverse metodiche della critica letteraria si veda Marchese, 1976. INTERROGAZIONE. L'enunciato interrogativo è una particolare modalità del discorso, sottolineata dall'intonazione ed eventualmente dal coinvolgimento di uno o più interlocutori. Nella frase: E venuto Renzo? si presuppone un enunciato implicito del tipo: « ti chiedo», « pongo la domanda ». Nella frase interrogativa indiretta la reggente implicita viene esplicitata: ti chiedo se Renzo è venuto, si informò se Renzo fosse venuto. Secondo la grammatica generativo-trasformazionale, la frase interrogativa è la trasformazione di una frase profonda di tipo enunciativo. Si dicono interrogative retoriche le frasi che non presuppongono una reale mancanza di informazione, ma che richiedono enfaticamente all'interlocutore un assenso o un diniego già implicito nella domanda. Non è forse vero che Dante fu un grandissimo poeta? (Il destinatario è inchiodato all'assenso perché l'asserzione è indiscutibile). Dobbiamo forse dimenticare gli eroi caduti per la patria? (Il diniego è dovuto a un comune credo ideologico.) INTERTESTUALIT À. L'intertestualità è « l'insieme delle relazioni che si manifestano all'interno di un dato testo » (M. Arrivé, Problèmes de sémiotique littéraire, Urbino, 1972, p. 20); tali relazioni rapportano il testo sia ad altri testi dello stesso autore sia ai modelli letterari impliciti o espliciti ai quali può fare riferimento. L'intertesto come « insieme di testi che entrano in relazione in un dato testo », mette in luce la scrittura (v.) nella sua valenza di sistema tematico-formale (si pensi ai generi letterari), cui si rapporta il testo nella sua originalità strutturale. Per esemplificare l'intertestualità ricorderemo alcuni casi più fequenti: 1. un testo può avere per contenuto un altro testo (con i problemi di metalinguaggio che ne derivano: si pensi al rapporto fra il Manzoni e l'Anonimo autore del manoscritto ricordato agli inizi dei Promessi sposi); 2. un testo può trasformare elementi di contenuto
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lrllratestualità
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o di forma di altri testi: ci troviamo di fronte al fenomeno estetico della transcodificazione (v.), per cui la specificità di un'opera può essere riconosciuta solo mediante il confronto con i testi-codice a cui si riferisce. Nell'Infinito il Leopardi riprende numerosi stilemi della tradizione aulico-petrarchesca (a partire da ermo colle del cinquecentista Galeazzo di Tarsia), ma la profonda transcodificazione di senso che essi assumono nella lirica determina nuove connotazioni « stranianti » (si veda l'incontro-scontro fra il familiare caro e il raffinato ermo). L'l n finito implica anche una intertestualità interna all'esperienza degli idilli e in particolare il confronto con La vita solitaria e La sera del dì di festa (cfr. Marchese, 1974, p. 301 sgg.; per un'analisi dell'intertestualità montaliana rimandiamo a Marchese, 1977). Si potrà pertanto distinguere una intertestualità interna, incentrata sulle correlazioni fra un testo e altri testi dello stesso autore, e una intertestualità esterna, che coinvolge la letteratura nel suo complesso, la tradizione, i modelli di riferimento: in una parola, la scrittura e la letterarietà (v.). Per comprendere esattamente il concetto si vedano anche le altre VOCi affini: CITAZIONE, CONTESTO, EXTRATESTUALITÀ, INTRATESTUALITÀ, TESTO, TRANSCODIFICAZIONE.
INTONAZIONE. Fra i fattori che svolgono una funzione distintiva dei significanti sono da annoverare anche i tratti prosodici o soprasegmentali. Essi riguardano non il singolo segmento o parola ma la catena dell'enunciato o almeno una combinazione di elementi minimi. L'accento, il tono, l'intonazione, la durata e la pausa sono i più importanti tratti prosodici (Berruto, 1974, p. 127). L'intonazione è costituita dalle variazioni del tono che formano la curva melodica della frase e che veicolano informazioni supplementari; ad esempio, la gioia, la rabbia, l'implorazione ecc. nella frase esclamativa, la domanda nella frase interrogativa. h evidente il valore connotativo d eli 'intonazione nel linguaggio letterario e in particolare nella poesia (v. ACCENTO). INTRATESTUALIT À. Se il testo è un sistema di strutture fra loro correlate a diversi livelli, ogni elemento interno al testo (o intratestuale) assume valore dal rapporto con gli altri (contestuali), formando .con alcuni delle isotopie o livelli di senso che attraversano in modo più o meno complesso il testo. L'analisi interna di un'opera evidenzia « come è fatta >~, il funzionamento e il significato degli elementi, la loro globale intratestualità. Ad esempio, riconosciuta la pertinenza del rapporto fra questo e quello nell'Infinito del Leopardi, si potrà scomporre la lirica in quattro momenti: I/ presenza dell'io alla realtà: paesaggio: «questo colle», «questa siepe»; II/ presenza dell'io al surreale e allontanamento dalla realtà «di là da quella» ( = siepe): III/ presenza dell'io alla realtà: paesaggio: « queste piante >>, « que-
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Intreccio
sta voce», e allontanamento dal surreale: « quell'infinito silenzio»; IV/ presenza dell'io al surreale: paesaggio metaforico: « quest'immensità», «questo mare» (Marchese, 1974, p. 295 sgg.). L'analisi intratestuale è peraltro sempre sorretta o completata sia dell'intertestualità (v.) sia dal riferimento degli elementi testuali a adeguati codici storico-letterari, sicché solo una complessa ricognizione del testo è in grado di decifrarlo, di farne emergere il senso globale. INTRECCIO. Secondo i formalisti russi (v. FORMALISMO) in un racconto si può distinguere la fabula (v.), cioè la ricostruzione delle sequenze in ordine cronologico, e l'intreccio, che è il racconto vero c proprio così come Io scrittore ce lo presenta (la « distribuzione in costruzione estetica degli avvenimenti dell'opera», chiarisce Tomasevskij). L'intreccio differisce dalla fabula soprattutto per le distorsioni temporali con cui l'autore dispone i fatti: alcuni episodi, ad esempio, possono essere anticipati (prolessi narrativa), altri posticipati o raccontati « tornando indietro » (analessi o flash-back). L'intreccio deforma artisticamente il puro rispecchiamento dell'ordine naturale dei fatti, mescolando, per così dire, in modi più o meno arditi, sia le sequenze della storia (avvenimenti, personaggi ecc.) sia le istanze del narratore (punto di vista, voce ecc.). Per un discorso più completo rimandiamo alle voci: FABULA, NARRATIVA, RACCONTO, ROMANZO. INVENTIO. Com'è noto l'invenire quid dicas, il trovare cosa dire è la prima delle cinque parti della retorica (\e altre sono: la dispositio (v.), la elocutio (v.), l'actio, cioè la dizione e la recitazione, la memoria). L'inventio concerne le ricerche delle res che devono essere esposte in verba, grazie all'elocutio: res sono i contenuti, i materiali da scoprire o da trovare, perché, come osserva giustamente Barthes, 1972, p. 59, n eli 'ottica retorica « tutto esiste già, bisogna solo ritrovarlo »; donde la necessità di una topica, di un repertorio canonico di argomenti comuni, e di una precisa metodica adeguata ai fini che si vogliono raggiungere. Ad esempio, bisogna scegliere fra la convinzione (attraverso il ragionamento, per mezzo di prove: probatio) e la commozione (mediante i sentimenti e l'azione psicologica sul destinatario). La convinzione si ottiene producendo delle prove (pisteis) di due tipi: oggettive o « estrinseche » (come sentenze. voce pubblica. confessioni, atti, giuramenti, testimonianze o citazioni), soggettive o « intrinseche », dovute cioè alla forza logica dell'oratore, che trasforma il materiale in elementi persuasivi. Le prove intrinseche sono due: l'exemplum (induzione) e l'entimema (deduzione). L'esempio parte dal particolare per arrivare al generale: può essere una similitudine. un aneddoto, un fatto reale o fittizio (parabola e favola). Come ri-
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l pàl/age
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corda Barthes, dal I secolo a.C. appare una nuova forma di exemplum: l'imago, cioè l'incarnazione di una virtù in un personaggio: mettiamo, Catone. Normalmente questi personaggi esemplari ci hanno lasciato dei detti memorabili, che vengono accuratamente catalogati e inseriti nei discorsi. La fortuna dell'exemplum nel Medioevo è nota, ma ancora oggi certi personaggi archetipici (Giovanni XXIII, Che Guevara ecc.) hanno una precisa funzione persuasiva per le masse. Fra gli argomenti o ragionamenti probatori spicca l'entimema che in origine è considerato un sillogismo retorico, un ragionamento pubblico e per il pubblico, probabile, non astratto. A partire dal Medioevo l'entimema è un sillogismo incompleto, monco d'una proposizione: ad esempio, Socrate è mortale perché gli uomini sono mortali. L'accumulo di sillogismi tronchi o di premesse è detto s6rites, mentre l'epicherema è costituito da un sillogismo sviluppato, cioè sostenuto da prove. La massima (sententia, gnome) può essere considerata un frammento di entimema; molto spesso diventa un elemento dell'elocutio, un ornamento stilistico. L'entimema si fonda su premesse non assolute ma umane, su una «certezza» che dipende da indizi sicuri (in greco, tekmérion: il parto è l'indizio sicuro che una donna ha avuto rapporti sessuali, QuintiIiano), dalle consuetudini, dai patti, dal senso comune (è il verisimile di Aristotele, l'eik6s), dai segni (seméia), cioè da indizi meno sicuri (tracce di sangue possono essere segni di un delitto). Si è detto che l'oratore può servirsi anche della commozione per persuadere l'uditorio: Aristotele classifica il verisimile passionale in due gruppi: i caratteri che l'oratore deve esibire al pubblico per fare presa (in greco, éthe), cioè buon senso, stima, simpatia; le passioni che bisogna presupporre nel pubblico (pdthe), quali la collera o la calma, l'amore o l'odio, la fiducia o il timore ecc. L'oratore non può non tener conto di queste grandi categorie psicologiche, se vuole suscitare una mozione dei sentimenti. Sulle tecniche argomentative si veda: Perelmann-Olbrechts Tyteca. 1966, p. 392 sgg. Etim.: dal lat. invenire = trovare.
INVERSIONE. Come fenomeno linguistico l'inversione consiste in una struttura sintattica contraria a quella normale (soggetto-predicatocomplemento), per cui viene anteposto un elemento con una evidente rimarcatura enfatica o connotativa. Es.: Sempre caro mi fu quest'ermo colle (Leopardi; si confronti la costruzione normale: « quest'ermo colle mi fu sempre caro » ); Dolce e chiara è la notte e senza vento (Leopardi). Si vedano anche le VOci: ANASTROFE, IPERBATO.
IPALLAGE. Figura sintattica e semantica che consiste nell'attribuire a un oggetto l'atto o l'idea confacentesi all'oggetto vicino (Morier,
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/pèrbato
1975, p. 493). Nel famoso verso del Carducci, il divino del pian silenzio verde, il determinante cromatico si riferisce sintatticamente a silenzio ma idealmente (semanticamente) a pian. Nella retorica antica si identifica con l'enallage (v.). Etim.: dal gr. hypa/ldssein = scambiare, porre sotto a un altro.
IP'tRBATO. Figura sintattica consistente nell'inversione di alcuni elementi rispetto all'ordine normale della frase (ad esempio, nella costruzione che imita il genitivo latino: questa l bella d'erbe famiglia e d'animali; Foscolo; tu dell'inuti/ vita l estremo unico fior; Carducci). Più in generale l'iperbato consiste nel separare elementi che costituiscono un sintagma, interponendone altri che determinano una struttura irregolare della frase (irregolare. è ovvio, rispetto a un ordine standard): mille di fiori al ciel mandano incensi (Foscolo). In qu<:sto verso i termini mille e incensi, che strutturalmente costituiscono un sintagma, risultano separati; inoltre di fiori si riferisce a incensi e risulta anticipato secondo il gusto dell'inversione latineggiante caro al Foscolo; la frase dovrebbe avere questo ordine logico: « (le convalli) mandano mille incet'lsi di fiori al cielo ». Si avvertirà il significato ritmico dell'iperbato nell'unità metrica dell'endecasillabo. sopra, bdinein passare (trasposizione). Etim.: dal gr. hypér
=
=
IPÈRBOLE. Figura logica che consiste nell'usare parole esagerate per esprimere un concetto oltre i limiti della verosimiglianza. E abbastanza comune nell'uso quotidiano (es.: è un secolo che non ti vedo, sei lento come una lumaca). L'esagerazione può essere per eccesso (l'duxesis degli antichi: corre più veloce del vento) o per difetto (tapéinosis: è più lento di una tartaruga). In genere l'iperbole ha un significato enfatico, quando vuole sottolineare vistosamente uno stato d'animo; donde l'uso e l'abuso che ne ha fatto il barocco. Si veda l'elogio della rosa nell'Adone del Marino: fra le tante metafore iperboliche si notino le seguenti: Quasi in bel trono imperatrice altera; porterai sempre un picciol sole in seno. Spesso l'iperbole ha invece un carattere comico, che evidenzia la sproporzione fra parole e realtà (le avventure fantasiose di personaggi millantatori, come il Mi/es gloriosus di Plauto) o il distacco ironico con cui lo scrittore descrive imprese inverosimili. Si pensi alla pazzia di Orlando: Quivi fe' ben de le sue prove eccelse; l ch'un alto pino al primo crollo svelse: l e svelse dopo il primo altri parecchi, l come fosser finocchi, ebuli o aneti (Ariosto). Nel Cinque Maggio la descrizione delle imprese di Napoleone si apre con alcune metafore iperboliche, volte a mettere in risalto il dinamismo fulmineo dell'uomo d'azione: Dall'Alpi alle Piramidi, l dal Manzanarre al Reno, l di quel securo il fulmine l tenea dietro al baleno; l scoppiò da Scilla al Tanai, l dall'uno all'altro mar. Etim.: dal gr. hypér = sopra, bdllein = gettare.
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!potassi
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IPÈRMETRO. Si dice verso ipermetro quel verso in cui la sillaba finale si fonde, per sinafia, con la sillaba iniziale del verso seguente. Si veda il seguente esempio del Pascoli: Sorridi/e, guardala, appressati l a mamma, ch'ormai non ha più, l per vivere un poco ancor essa, l che il poco di fiato ch'hai tu. « La rima con essa del terzo verso è formata da essa all'interno della parola appressati; la sillaba -ti appartiene metricamente al verso seguente, dove va a fondersi con la vocale iniziale: in tal modo il numero delle sillabe del verso seguente rimane Io stesso, mentre la sillaba eccedente del verso precedente viene eliminata» (Elwert, 1973, p. 43). Altrove, pur producendosi una rima interna, non si ha verso ipermetro: È, quella infinita tempesta, l finita in un rivo canoro. l Dei fu/mirti fragili re~tano l cirri di porpora e d'oro (Pascoli). La rima -esta (tempesta"restano) fa sì che la sillaba -no venga contata nel verso seguente, che in effetti è un ottonario. Nella lirica novecentesca (in Montale, ad esempio) questo computo metrico non è seguito. IPERONIMÌA. Relazione di inclusione (v.) orientata dal generale al particolare. Ad esempio, animale è iperonomo rispetto a cane, gatto, cavallo ecc., i quali sono iponimi. Etim.: dal gr. hypér = sopra, 6nyma (6noma) = nome. IPONIMìA. Relazione di inclusione orientata dal particolare al generale. Ad esempio, cane è incluso nella classe animale, è iponimo rispetto al più generale e inclusivo animale (detto anche termine superordinato). Il nome iponimo è tuttavia marcato rispetto all'iperonomo: rosa ha delle componenti semiche specifiche mancanti in fiore. Etim.: dal gr. hyp6 = sotto, 6nyma (6noma) = nome.
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lpotiposi
dinativa o paratattica è prevalente, con il tipico abuso popolare delle congiunzioni copulative. Si confronti invece un brano del discorso del cardinale Federigo a don Abbondio: Ebbene, figliuolo e fratello, poiché gli errori di quelli che presiedono sono spesso più noti agli altri che a loro, se voi sapete ch'io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere, affinché, dov'è mancato l'esempio, supplisca almeno la confessione. Si noterà che la struttura sintattica è molto più complessa, con una prevalenza di subordinate di vario tipo che precedono le principali coordinate di valore esortativo, alle quali segue l'elegante intreccio di altre due secondarie. Etim.: dal gr. hyp6 = sotto, tdxis = ordinamento. IPOTIPOSI. Descrizione vivace di un avvenimento, con particolare forza rappresentativa, ricchezza di particolari, icasticità di immagini. Es.: Come lion di tori entro una mandra l o salta a quello in tergo e sì gli scava l con le zanne la schiena, l or questo fianco addenta or quella coscia ... (Leopardi). Etim.: dal gr. hypotupoun = plasmare, abbozzare. IRONIA. L'ironia, come figura logica, consiste nell'affermare una cosa intendendo dire l'opposto: il lettore, cioè, deve operare una manipolazione semantica per decifrare correttamente il messaggio, aiutato in ciò dal contesto e dalla particolare intonazione del discorso. È facile, ad esempio, capire l'ironia celata in questi versi del Giusti: Ah, intendo: il suo cerve[, Dio lo riposi, l in tutt'altre faccende affaccendato, l a questa roba è morto e sotterrato. Più sottile è invece l'ironia della battuta di Dante in risposta all'affermazione di Farinata (« sì che per que fiate li dispersi ») concernente il destino dei Bianchi: « S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte » l rispuosi lui « l'una e l'altra fiata; l ma i vostri non appreser ben quell'arte». L'amaro della risposta verte sull'ambiguità ironica di arte. L'ironia presuppone sempre la capacità, nel destinatario, di afferrare lo scarto fra il livello superficiale e il livello profondo di un enunciato. Particolarmente importante è l'uso dell'ironia nel racconto, quando la superiorità conoscitiva dell'autore e del lettore rispetto ai personaggi e agli avvenimenti in cui sono coinvolti permette di godere le sottolineature ironiche nascoste fra le pieghe del discorso, i doppi sensi, gli equivoci o malintesi. Un capolavoro di narrazione ironica è l'avventura di Renzo all'osteria della Luna piena, dopo la gran giornata della sedizione popolare. Il lettore comprende che gli si è messo alle costole un poliziotto, sicché già la prima uscita di costui suona ironicamente: Conosco appunto un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo. Si tratta evidentemente della prigione, dove il falso spadaio intendeva condur-
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lso/opia
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re lo sprovveduto contadino come alla locanda più sicura della città (è il commento del Manzoni). L'ironia può nascere anche dall'interazione fra il livello narrativo e l'intervento dell'autore, inteso a sottolineare certi aspetti contraddittori dell'agire umano. Così il capitano dei soldati, che cerca di sedare il tumulto davanti al forno delle grucce, usa un linguaggio moderato e indulgente sinché non è colpito da una pietra: Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh! ... eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò! oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que' ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite sentite: siete sempre stati buoni fi ... Ah canaglia! A questo punto interviene l'autore con un commento ironico: Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d'uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. Quest'ultima strana indicazione della fronte attesta un ulteriore grado di ironia, che potremmo definire intellettuale: il Manzoni allude alle teorie del medico tedesco F .G. Gall, che intendeva localizzare nel cervello le disposizioni etiche e conoscitive degli individui.
ISOMORFISMO. Si dice che due strutture sono isomorfe quando presentano lo stesso tipo di relazioni combinatorie. Si discute, ad esempio, se esista un isomorfismo fra società, cultura e lingua, se ad esempio la lingua condizioni e organizzi la visione della vita di un dato popolo (tesi di Sapir e Whorf). In ambito letterario, alcuni critici postulano un isomorfismo (o omologia) fra le strutture sociali e quelle ideologiche, razionalizzate dai gruppi intellettuali ed espresse coerentemente dall'opera di un artista. Etim.: dal gr. isos identico, morphé forma.
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ISOTOPIA. Secondo Greimas due o più elementi formano un'isotopia quando sono semanticamente omogenei, cioè quando si strutturano allo stesso livello di senso. Così, ad esempio, nell'ambito fonologico l'assonanza, l'allitterazione, la rima formano delle isotopie; sul piano semantico l'iterazione di certe parole può costituire un'indicazione isotopica. Anche una parola può avere una duplice (o triplice ecc.) isotopia a seconda del contesto in cui è inserita; così baraccone può alludere a un circo, a uno spettacolo popolare oppure a una situazione disordinata, a una gran confusione. Un testo letterario è pluri-isotopo allorché è sotteso da diversi livelli di codificazione che, incrociandosi, determinano dei lessemi polisemici e delle « distorsioni testuali » (Greimas). È evidente che i fenomeni di connotazione (v.) dipendono dalla pluri-isotopia del discorso letterario, che si serve di un sistema
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l stituti letterari
denotativo come isotopia di baie, sulla quale si elabora il diverso sistema delle connotazioni. Una lettura corretta dovrà pertanto costruire i modelli delle varie isotopie che caratterizzano un testo sia sul piano del contenuto (isotopie semantiche) sia sul piano dell'espressione (isotopie fonoprosodiche). Lotman, 1972, p. 85, parla a questo proposito di una « semantica a molti gradini » nel caso di un testo in cui « gli stessi segni servono, a diversi livelli strutturali e di senso, all'espressione di un diverso contenuto ». (Per un'applicazione a un testo letterario si veda: M. Corti, Il genere « disputatio » e la transcodificazione indolore di Bonvesin de la Riva, in « Strumenti critici », ottobre 1973). Nel sonetto proemiale del Canzoniere del Petrarca i connotatoti (o lessemi tematici) si strutturano in due serie: A) sospiri, piango, dolore; B) errore, ragione, vane, van, ben veggio, mi vergogno, vaneggiar, pentersi, breve sogno. Le due serie istituiscono una duplice isotopia (modello semico profondo: A/passionalità-B/saggezza) grazie alla quale il messaggio assume la sua specifica articolazione dialettica. Per altre considerazioni si veda: Marchese, 1974, p. 142 sgg.; Corti, 1976, p. 125 sgg. Etim.: dal gr. isos = eguale, t6pos = luogo, posto. ISTITUTI LETTERARI. La scrittura letteraria manifesta, nella fenomenicità dei testi, ossia nel loro individuale strutturarsi come opere, l'intersecazione più o meno latente di codici che costituiscono la trama su cui lavora l'artista per il suo specifico discorso stilistico. Questi codici generali sono delle vere e proprie istituzioni (o istituti) nell'ambito delle quali lo scrittore si esprime, ora adeguandosi ai modelli e ai moduli proposti, ora rifiutandoli per inventarne degli altri, ora modificandoli e riformandoli dali 'interno con le procedure più svariate, ad esempio mescolando elementi di codici differenti. Gli istituti più importanti sono i generi letterari (v.), perché ci permettono di trovare una solidarietà fra le opere, una interconnessione reciproca, una intertestualità (v.) significativa per rilevare non tanto l'influsso o l'egemonia di uno scrittore all'interno di un dato genere, quanto piuttosto il grado di letterarietà (v.) o di consapevolezza formale insito in ogni opera. Anche la lingua letteraria può essere considerata un istituto del sistema. Naturalmente si tratta di una lingua « secondaria » (Lotman), non coincidente con quella naturale ma costruita su di essa in modo tale che i segni letterari siano totalmente espressivi, connotati in quanto appartenenti a determinati codici culturali. Fra lo stile individuale e la lingua standard o comunicativa ci sono vari filtri formali, la lingua letteraria e le scritture (v.) con tipici stilemi e marche retoriche, moduli convenzionali, persino formulistici. Una lettura critica, ricostruendo l'intertestualità fra un'opera e altre affini in quanto connesse allo stesso genere, metterà anche in ri-
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Istituti letterari
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lievo lo scarto espressivo fra la realizzazione formale dell'opera e le istanze virtuali implicite nella scrittura e nel genere di riferimento. Per fare un esempio, gli idilli leopardiani si inseriscono in una tradizione simbolico-espressiva di chiara ascendenza arcadico-petrarchesca. E tuttavia la tesi di un Leopardi « ultimo pastorello dell'Arcadia » è semplicemente assurda, perché l'arte del poeta - diciamo pure la sua sintesi stilistica - violenta i codici culturali di riferimento, il genere idillico-pastorale sannazariano e gli stilemi petrarcheschi, introducendo nuove forme del contenuto, di derivazione sensistico-illuministica e in attrito con la sensibilità romantica, che hanno un effetto deflagrante rispetto agli stereotipi del sistema. Ne consegue che la stessa adesione linguistica del Leopardi ai modelli tradizionali risulta non una semplice costrizione, ma la modulazione creativa di una tastiera semanticostilistica apparentemente ristretta, che produce - pèr continuare la metafm·a - una musica totalmente originale. Le forme dell'espressione tradiscono cioè dei connotatori lontani dal clima arcadico, una tensione spirituale drammatica che è propria della W eltanschauung dello scrittore. Oltre ai generi e alla lingua letteraria occorre tener conto dei fattori istituzionali costituiti dalla metrica (v.). Come osserva giustamente M. Pazzaglia (AA.VV., 1972 c, p. 14), «il ritmo poetico o metro commisura in quantità sentite come omogenee le durate e i tempi intermedi d'una sequenza verbale, insieme coi caratteri soprasegmentali di tono, elevazione, accento, disponendoli in figure iterative o protese all'iterazione ». ~ il verso a organizzare gli accenti tonici o ictus (valorizzandone, ad esempio, alcuni), le sillabe, la rima, la sequenza verbale, scandendo ritmicamente i vari elementi in una unità strutturale. Pur avendo una loro autonomia significante, i tratti fonoprosodici animati dal verso si rapportano ai valori semantici, accentuandone le connotazioni. Così il metro istituisce un rqpporto con la sintassi, eviden· ziando stilisticamente la sfasatura, molto comune, fra la linearità del discorso logico-sintagmatico e quello poetico. L'enjambement (v.) e le cesure (v.) sono due aspetti frequentissimi di tale sfasatura espressiva fra metro e sintassi. La retorica (v.), infine, costituisce una delle istituzioni più tipiche e stabili della letteratura, in quanto depositaria - secondo una secolare tradizione - delle norme particolari della scrittura. Ci interessa qui prendere in considerazione la nuova ottica con cui oggi è studiata la retorica, e in particolare l'elocutio (v.), come sistema della comunicazione traslata o figurata, propria del discorso letterario (v. FIGURA). Anche gli stili e le scritture rimandano, a diversi livelli, alla codificazione retorica, che andrà analizzata storicamente in rapporto alle poetiche elaborate da movimenti o gruppi intellettuali o da singoli artisti. Generi, lingua letteraria, scritture, stili e convenzioni retoriche, metrica e prosodia si presentano come istituti sistematici, di cui è pos-
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I unctura
sibile cogliere le norme di autoregolazione e di trasformazione interna. La diacronia di questi cardini del sistema letterario va analizzata come evoluzione di strutture globali. Quali sono i fattori che determinano il cambiamento? Si tratta innanzi tutto di fattori interni, come l'esaurimento di un determinato genere o la sua intersezione con un altro, l'innovazione linguistica come allargamento della lingua letteraria a contatto con la lingua comune, la ripresa parodistica o comica o arcaicizzante di certi stilemi, la mescolanza di forme metriche, la sperimentazione di nuove soluzioni (ad esempio, il verso libero, il poema in prosa ecc.). Ma vi possono essere anche fattori esterni, connessi alle altre serie che si rapportano dialetticamente con la letteratura: la serie culturale, quella storico-sociale. Abbiamo citato il caso del Leopardi: indubbiamente le sollecitazioni filosofiche di tipo sensistico-materialistico, di derivazione illuministica e in attrito con le problematiche del Romanticismo hanno determinato una spinta esterna nel sistema letterario arcadico-montiano a cui, per molti versi, il Leopardi si riferisce. Mentre per il petrarchismo del Quattrocento e del Cinquecento l'evoluzione sarà prevalentemente interna, anche se sarebbe assurdo negare l'importanza concomitante di fattori culturali e sociali quali il neoplatonismo e l'ambiente cortigiano. Gli istituti, dunque, sono norme implicite-esplicite immanenti al concreto operare letterario; in quanto tali - come dice giustamente Anceschi (1968) - offrono « una delle vie, una delle mediazioni attraverso le quali si può cogliere la vita della storicità celata nella vita dell'arte». Su questi temi si potranno consultare, fra i numerosi testi in bibliografia, almeno i seguenti: Marchese, 1976; AA.VV., 1975 a; Corti, 1976; Genette, 1969; Pagnini, 1967; Wellek-Warren, 1965. IUNCTURA. Nell'uso retorico antico la iunctura è un collegamento di due o più parole. Si parla, ad esempio, di callida iunctura per sottolineare il rapporto abile, sottile, istituito fra due termini (un nome e un aggettivo, un nome e un verbo ecc.). In poesia spesso la iunctura lega due elementi grazie all'enjambement (v.).
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KITSCH. II termine tedesco è sinonimo di « cattivo gusto » e indica un'opera grossolanamente mimetica (che riproduce aspetti artistici convenzionali e banalizzati), tale da non turbare le aspettative più ovvie del lettore o meglio del fruitore. Ad esempio, il romanzo Lave story di Segai, nonostante il e/o grazie al suo enorme successo è un'opera Kitsch (pron. Kic).
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LANGUE. La langue è un sistema di segni vocali propri ai membri di una stessa comunità e usati come strumento di comunicazione (v. LINGUAGGIO, LINGUISTICA). Nell'ambito di una stessa lingua vi sono notevoli differenze, in quanto vi si riscontrano svariati sottocodici come quello tecnico-scientifico, quello sportivo, quello politico ecc., ossia delle varietà specifiche caratterizzate da lessici di uso particolare. Inoltre la langue ha delle « modalità d'uso » o registri che dipendono dalla situazione comunicativa dei locutori: così il registro familiare potrà servirsi d'una frase del tipo: m'ha fatto incavolare e l'ho mandato al diavolo (per tralasciare registri ancora più liberi...); mentre un registro più formale esigerebbe un'espressione come: mi ha innervosito e me ne sono lamentato o altre analoghe. Occorre inoltre distinguere la /angue, come sistema o codice di segni, dalla norma, cioè dalla realizzazione statisticamente prevalente dello stesso sistema; mentre l'uso concerne i concreti atti linguistici dei locutori, le paro/es, che possono influire sulla norma e sul sistema. Per quanto si è detto si veda Berruto, 1974, p. 24 sgg. LASSA. La lassa è un tipo di strofa, di derivazione francese (laisse), formata da un numero variabile di versi eguali, legati fra loro dalla rima e non dall'assonanza, come nei modelli dell'epica francese. La lassa fu ripresa dalla poesia storicizzante dell'Ottocento (Carducci, D'Annunzio). Cfr. Elwert, 1973, p. 114. LAUDA. La lauda, sorta nel XIII sec., è un canto religioso di strut-
tura varia, in origine formata di !asse monorime o di strofe di sei versi (ababcc). In seguito i disciplinati adottarono lo schema della ballata, normale in Jacopone da Todi (con una ripresa di due versi e strofe di quattro versi). La lauda più antica usa preferibilmente l'ottonatio; Jacopone si serve anche dell'endecasillabo e del settenario. Fu
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Letterarietà
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ripresa nel XV sec. da Lorenzo il Magnifico e dal Savonarola. Cfr. Elwert, 1973, p. 140 sgg.
LEITMOTIV. Motivo ricorrente e fondamentale di un'opera. Etim.: dal tedesco leiten = guidare, dirigere, Motiv = motivo. LEMMA. Voce di un vocabolario e di un'enciclopedia. Etim.: dal lat. lemma = argomento, tema. LESSEMA. «Si chiama lessico l'insieme aperto delle unità di prima articolazione (o voci o "parole") di un sistema linguistico considerate dal punto di vista del loro significato. Le unità facenti parte del lessico, cioè di prima articolazione (v.), considerate in quanto portatrici di un valore semantico ed in relazione con le altre unità portatrici di valore semantico, sono i lessemi » (Berruto, 1974, p. 67). Secondo Martinet il lessema è un monema lessicale (v. MONEMA, LINGUISTICA, 2). Per l'analisi semica o componenziale i lessemi sono dei « pacchetti di semi », cioè di unità semantiche minimali o tratti che compongono le parole. Per un approfondimento si veda Berruto, 1975, p. 57 sgg. e 84 sgg. LESSìA. Nell'analisi interna di un testo letterario, e dunque a livello di scrittura, occorre definire l'unità minima significante su cui si fonda l'organizzazione del testo stesso. Roland Barthes, considerando il testo nella sua letteralità discorsiva, ritiene che tale unità debba essere considerata la lessia o unità di lettura, che può comprendere un segmento vario, da poche parole a qualche frase. Etim.: dal gr.léxis = parola. LETTERARIET À. Secondo i formalisti russi (v.) la letteratura non deve essere confusa· con la congerie di materiali che la critica tradizionale assume nelle sue analisi estrinseche; perciò Jakobson ebbe a precisare che « oggetto della scienza della letteratura non è la letteratura, ma la letterarietà (literaturnost), cioè ciò che di una data opera fa un'opera letteraria. Invece finora gli storici della letteratura hanno soprattutto scimmiottato la polizia che, quando deve arrestare .una determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e qualsiasi cosa si trovi nell'appartamento e anche chi per caso si trovi a passare nella strada accanto. Così anche per gli storici della letteratura tutto faceva brodo: costume, psicologia, politica, filosofia. Invece della scienza della letteratura si ebbe un conglomerato di discipline rudimentali. Pareva che ci si dimenticasse che queste categorie rientrano, ognuna, nella scienza corrispondente, storia della filosofia, storia della cultura, psicologia ecc., e che queste ultime possono naturalmente utilizzare anche i monumenti letterari come documenti difettosi, di se-
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Letteratura
conda scelta » (cfr. Todorov, 1968, p. 37). La citazione mostra come per i formalisti il prius di ogni analisi sia il sistema letterario nella sua specificità intrinseca, nei suoi elementi costitutivi, nel suo funzionamento. Per altre informazioni si veda Marchese, 1974, p. 103 sgg.
LETTERATURA. È difficile dare una definizione esaustiva di letteratura. Escarpit (in AA.VV., 1972 a, p. 221 sgg.) ha studiato la storia del termine e le sue diverse accezioni nel tempo. La parola deriva dal latino litteratura (Quintiliano), la cui radice è littera, la lettera dell'alfabeto. All'origine, dunque, dell'idea di letteratura vi è la scrittura, la capacità di manipolazione della parola nei codici culturali sottesi all'ars dello scrivere: la grammatica, la retorica e la stilistica, l'erudizione, la competenza che deriva dal possesso delle regole tradizionali della scrittura. L'antichità ha il culto della letterarietà come specifica tecnica dell'elaborazione formale, sicché sarebbe inconcepibile un'idea di letteratura estranea, ad esempio, alla retorica e alle codificazioni dei generi (v.). Fra Ld.iY.wL:tigniftc..a..tL9eJlaJ~tl~111J\IJ1!. Escarpit ricorda: la scienza e la cultura in generale, il mondo delle lettere e degli scrittori, l'arte dell'espressione intellettuale, l'arte specifica dello scrivere, la retorica in senso negativo, l'insieme delle opere letterarie e degli scritti di un'epoca, le opere non scritte e altre accezioni. In senso sociologico e antropologico si parla anche di una letteratura orale, legata per lo più alle tradizioni popolari; ma a noi pare che tutto ciò che attiene al folklore e non è mediato dalla scrittUra non implichi una consapevolezza letteraria. ~i po~e, in sostanza, i.l pxqblema de!l~ ·spècificità tdell? Jeget:
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Letteratura
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semplicemente nel suo contenuto astrattamente ideologico, nella sua tipicità, nella maggiore o minore adeguatezza a una realtà storica determinata, nella verità o moralità delle tesi di cui si fa portatore: ogni elemento, realistico o meno, dell'opera letteraria si trasvaluta nell'operazione estetico-espressiva in linguaggio connotativo, in inventività fantastica cifrata nella scrittura. A questo livello si realizza il senso della letteratura: un'esperienza profonda del mondo (nient'affatto emotiva o irrazionale, beninteso) totalmente espressa nei segni, «formata». Se la letteratura ha una sua specificità assiologica ed espressiva, ciò non significa ch'essa sia totalmente autonoma dalla realtà più propriamente storico-sociale, ideologica, economica, politica, culturale, che permea ogni tipo di comunicazione ed evidentemente anche quella estetico-letteraria. Per quanto non si possa accettare la pura e semplice riduzione de II 'estetico o del letterario al livello sociale (come pretende la sociologia della letteratura), è tuttavia ovvio che non si dà creazione artistica in una sorta di vuoto pneumatico, di stratosfera poetica. La serie (v.) letteraria - con i suoi codici e sottocodici, la lingua e le scritture, i generi e le poetiche - è correlata alle serie storico-culturali, che ne situano le problematiche, anche se il valore dell'opera va oltre la fatticità referenziale dei « dati » cognitivi sociali o culturali. La letteratura assume i modelli ideologici e storici di una data età (Dante, ad esempio, interpreta la realtà secondo i criteri figurali propri al Medioevo, si rifà ai valori cristiani in una connotazione pauperistica, propone una renovatio temporis singolarmente « reazionaria» rispetto alle strutture politiche del comune), ma la Weltanschauung di un'opera non è mai riducibile a ideologia politica, ha un'oltranza profetica che scaturisce dalla ricchezza complessa e inesauribile del senso (v.) e dei segni. Se si considera la letteratura in chiave semiologica, come un sistema di istituzioni che regolano e permettono la comunicazione dei testi e quindi come luogo di una sottile interazione fra i testi stessi, sarà necessario studiare le modalità di emissione, trasmissione e ricezione dei messaggi letterari che regolano il sistema; i fenonemi di semiotica artistica, come la transcodificazione (v.), l'intertestualità (v.) o la polisemia del discorso poetico; le caratteristiche interne del linguaggio traslato (v. FIGURA}, la funzione espressiva delle marche retoriche, il valore codificato delle istituzioni tradizionali della letteratura (i generi. la metrica, il linguaggio). Questi e altri problemi, spesso richiamati nelle voci del nostro dizionario, trovano oggi una nuova impostazione (se non una soluzione definitiva, impossibile anche perché le ricerche in questo ambito sono ancora in fieri) nel quadro di una teoria della letteratura che ha fatto proprie le acquisizioni della linguistica postsaussuriana e si muove sulle piste già esplorate dalla
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Linguaggio
semiologia generale. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Marchese, 1974; AA.VV., 1968 c; AA.VV., 1969 c; AA.VV., 1975 a; AA.VV., 1976 a; Avalle, 1972 b; Delas-Filliolet, 1973; Ducrot-Todorov, 1972; Eco, 1975; Escarpit, 1970; Garroni, 1973; Genette, 1969, 1972, 1976; Lotman, 1972; Lotman-Uspenskij, 1975; Mukafovsky, 1973; Pagnini, 1967; Segre, 1969, 1974; Vinogradov, 1972; WellekWarren, 1965; Zumthor, 1973. · LINGUAGGIO. Il linguaggio è la capacità, tipica dell'uomo, di comunicare mediante dei sistemi di segni, le lingue, utilizzati da gruppi o comunità sociali. Tra i problemi posti dal linguaggio il Dubois ricorda: « la relazione tra il soggetto e il linguaggio, che è il campo della psicolinguistica; tra il linguaggio e la società, studiato dalla sociolinguistica; tra la funzione simbolica e il sistema che costituisce la lingua; tra la lingua come un tutto e le parti che la costituiscono; tra la lingua come sistema universale e le lingue particolari; tra una lingua particolare come forma comune a un gruppo sociale e le diverse realizzazioni di questa lingua da parte dei locutori: tutti questi aspetti sono studiati dalla linguistica» (Dubois, 1973, p. 274). La definizione del linguaggio come sistema di segni non è sufficiente. Osserva il Martinet, 1972, p. 190: «Se il linguaggio è un sistema di segni, ogni sistema di segni usato dagli esseri viventi per comunicare deve chiamarsi linguaggio: si può parlare di linguaggio animale. Ma allora non si riesce più a giustificare quell'opinione generale secondo cui le lingue umane si distinguono da tutti gli altri sistemi di comunicazione umana oppure no, e sono dei sistemi di segni così profondamente diversi da tutti gli altri che arrivano fino a costituire la specificità stessa dell'uomo nella catena biologica». Occorre dunque considerare in senso traslato le espressioni del tipo: « il linguaggio delle api », « il linguaggio delle cerimonie » ecc. Il problema riguarda la distinzione fra linguaggio e sistemi di segni studiati dalla semiologia (v.), oltre che la stessa definizione di segno (v.). t. Le funzioni del linguaggio. Secondo )akobson (1966, p. 185 sgg.) il linguaggio è un insieme di funzioni riferite ai vari fattori costitutivi della comunicazione. « Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto, contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione ». Lo schema della comunicazione linguistica, secondo Jakobson, è il seguente:
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Linguaggio
Mittente
Contesto Messaggio
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Destinatario
Contatto Codice A questi fattori corrispondono diverse funzioni del linguaggio, riportate in questo secondo schema: Emotiva
Referenziale Poetica Fàtica Metalinguistica
Conati va
La struttura di un messaggio dipende daJia funzione predominante, che ovviamente si combina con le altre, in tal caso accessorie e sussidiarie. L'orientamento verso il contesto, cioè la funzione referenziale (denotati va o cognitiva) è prevalente nei ·messaggi comuni; la funzione emotiva si concentra sul mittente, mettendo in risalto l'atteggiamento del soggetto riguardo a quello di cui si parla; l'orientamento verso ·il destinatario, ossia la funzione conativa, trova la sua espressione grammaticale più pura nel vocativo e nell'imperativo; l'accentuazione del contatto dà luogo alla funzione fàtica, come in certe forme stereotipate del linguaggio (« Pronto, mi senti? » ); mentre l'orientamento sul codice svolge la funzione metalinguistica (Hai detto « Pina » o « Rina » ?). Infine, la messa a punto rispetto al messaggio in quanto tale, per se stesso, costituisce la funzione poetica del linguaggio. 2. Il problema del linguaggio poetico. Si parla, normalmente, di linguaggio poetico sia in senso generale sia in riferimento a un determinato autore ( « il linguaggio del Leopardi » o anche « la lingua del Leopardi » ). Ci si chiede quali siano le caratteristiche del linguaggio poetico. I formalisti russi (v. FORMALISMO) furono i primi ad occuparsi, in modo sistematico, della questione: in particolare Sklovskij ritiene che il linguaggio poetico si distingua da quello pratico per la percettibilità della sua costruzione, promossa dai procedimenti operati sul linguaggio. L'effetto di « straniamento », cioè lo slittamento semantico che lo scrittore ottiene con i procedimenti espressivi, rende l'immagine nuova, liberandola dall'automatismo del linguaggio quotidiano. Secondo Tynjanov è il ritmo il fattore fondamentale· (costruttivo) del linguaggio poetico: come sottolinea Greimas ( 1972, p. Il sgg.), il livello prosodico, cioè quello che abbraccia i diversi fattori del significante verbale, si presenta nella poesia in forme caratteristiche: il metro, il ritmo. le strutture dei versi, le figure, gli effetti fo-
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Linguistica
nico-melodici ecc. L'aspetto semantico, che era stato trascurato dai primi formalisti, assume una specifica connotazione poetica nell'interazione di senso che si istituisce fra significanti e significati, sicché si può dire con Lotman ( 1972) che ogni elemento del testo viene « semantizzato ». La tradizione formalista è ripresa, in parte, nelle « Tesi del '29 » del Circolo linguistico di Praga, tramite la mediazione di jakobson: il linguaggio poetico si distingue da quello standard per « l'elemento di conflitto e di deformazione » che Io contraddistingue; in tal modo è messo in risalto il valore autonomo del segno, il suo carattere autori flessivo, I'intenzionalità diretta sull'espressione verbale. Successivamente Jakobson preciserà che questo è il compito della funzione poetica (v. sopra), che «proietta il principio di equivalenza dall'asse della selezione all'asse della combinazione» (Jakobson, 1966, p. 192): l'equivalenza è soprattutto fonico-ritmica (rima, assonanza, paronomasia ecc.) ma è possibile estenderla anche all'ambito semantico delle figure del linguaggio poetico. Le posizioni degli studiosi sono comunque molto differenziate: secondo alcuni si dovrebbe parlare di funzione estetica, per altri di funzione retorica, per altri ancora lo specifico del linguaggio poetico sarebbero le figure (v.). Per lo più il problema si sposta sul significato dello stile (v.) che, secondo vari autori, si caratterizzerebbe come una violazione sistematica del linguaggio comune: tipica la posizione di Cohen, 1974. A nostro parere è forse più proficua un'analisi sulla specificità del testo poetico (Marchese, 1974, p. 142 sgg.).
LINGUISTICA. La linguistica è la scienza che studia il linguaggio come strumento di comunicazione specificato nelle diverse lingue, cioè in codici che organizzano sistemi di segni (Berruto, 1973, pp. 15 e 19). Lo studio scientifico del linguaggio, in questo senso, ossia la moderna linguistica strutturale ha come punto di riferimento il Cours di Ferdinand de Saussure, pubblicato nel 1916. Tuttavia l'analisi del linguaggio è antichissima, sia perché la lingua è al centro della speculazione dei filosofi (si pensi a Platone), sia perché alcuni aspetti del funzionamento linguistico cominciano ad essere definiti e sistemati in schemi e tipologie normative. Proprio dall'antichità greco-latina ci vengono le definizioni di frase, parti del discorso, soggetto, complementi ecc. ancora oggi essenziali nella ricerca linguistica, nonostante la radicale revisione della prospettiva grammaticale classica operata dalle varie correnti postsaussuriane. Anche l'Ottocento, così ricco di interessi per il linguaggio, forse perché dominato dalla scoperta del sanscrito è quasi esclusivamente rivolto all'indagine comparativa delle lingue indoeuropee (Martinet, 1972, p. 206). Dal comparativismo deriva la linguistica storica, che si propone di descrivere l'evoluzione delle forme di una o più lingue imparentate. Il metodo storico (la diacronia del sistema linguistico) è rovesciato dalla rivoluzione copernicana di
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Linguistica
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Saussure e di altri studiosi (Baudouin de Courtenay, Boas, Sapir ecc.), per i quali la lingua è innanzi tutto un sistema di comunicazione sociale il cui funzionamento deve essere analizzato sincronicamente. Da un'attitudine empirica, rivolta ad osservare tutti i fatti e i comportamenti della lingua parlata, si sviluppano rigorose costruzioni di modelli teorici, se si vuole, vere e proprie scuole (il funzionalismo praghese c di Martinet, la glossematica, il distribuzionalismo, il generativismo ecc.): la linguistica teorica contemporanea raccoglie ed elabora questi contributi in una prospettiva necessariamente interdisciplinare, all'incrocio con la psicologia e la sociologia, mentre le ricerche applicate tendono a individuare dei modelli linguistici sempre più adeguati a descrivere e comprendere la competenza dei locutori. t. Cenni di linguistica strutturale: De Saussure. Come si è detto, il « Corso di linguistica generale » di F. De Saussure è il punto di partenza del moderno strutturalismo (anche se la parola « struttura » non vi compare). Per lo studioso ginevrino la lingua è un sistema simbolico che rientra in una più complessa scienza dei segni o semiologia. La teoria di Saussure si fonda sulla ben nota dicotomia fra langue e parole: la prima è la lingua come istituto sociale, un insieme di convenzioni necessarie alla comunicazione fra i membri di una data società o comunità linguistica. La lingua è una realtà astratta, il reper· torio o il codice a cui il parlante attinge e che adopera nel momento dell'esecuzione individuale o parole. La langue è la condizione necessaria per l'esistenza della parole e tuttavia non si darebbe lingua senza una concreta manifestazione negli atti individuali, mediante i quali il locutore esteriorizza i propri messaggi combinando i segni prescelti nel sistema paradigmatico. Per quanto Saussure riconosca che la parole possa rinnovare il codice, arricchendolo e sviluppandolo nel tempo. il suo interesse scientifico è per la langue, per il sistema. La linguistica strutturale è, fin dagli inizi, linguistica della langue e non della parole. Un altro merito dello studioso ginevrino è la definizione geniale del segno linguistico come associazione di un significante e di un significato, di un'« immagine acustica» e di un« concetto». Sebbene questa definizione sia suscettibile di diverse critiche, essa resta ancora il fondamento della linguistica strutturale. In effetti, nel segno linguistico si esplicita attraverso la forma sonora la sostanza della comunicazione. La distinzione analitica non esclude l'interdipendenza dei due aspetti, perché significante e significato (S/s) sono come le due superfici di uno stesso foglio. Tradizionalmente le parole erano sempre state considerate delle etichette apposte sopra la rea! tà concreta degli oggetti. Saussure chiarisce definitivamente l'arbitrarietà del linguaggio, dei segni: tra le parole e le cose il rapporto è del tutto convenzionale, arbitrario. Il referente ( = la realtà oggettiva) è estraneo alla considerazione linguistica. Nel ben noto triangolo, che è al centro di numerose discussioni,
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Linguistica
significato
segno~------significante
referente
ciò che interessa allo studioso della lingua è il lato sinistro. La lingua è pertanto forma e non sostanza: ogni segno assume un significato nel sistema per la sua posizione rispetto agli altri segni; il suo valore, cioè, si definisce in termini oppositivi e differenziali e non in termini sostanziali o extralinguistici. Il principio dell'opposizione distintiva, di fondamentale importanza nella metodologia linguistica, servirà, per esempio, a caratterizzare la struttura fonematica della lingua. Più in generale, dopo Saussure la lingua può essere definita un sistema di segni strutturato in rapporti e differenze. Le relazioni sono di due specie: per la linearità del linguaggio, ogni elemento entra in contatto con gli altri nella catena parlata e più esattamente nel sintagma, in cui ogni segno ha valore in contrasto con i termini che lo precedono e lo seguono. B questo il piano (o rapporto o asse) sintagmatico. L'altro piano, detto da Saussure associativo e poi chiamato dai linguisti paradigmatico, stabilisce le relazioni fra i segni e il codice della [angue (V. ASSE PARADIGMATICO E SINTAGMATICO). Si tratta di rapporti in absentia, istituiti nella memoria del parlante in virtù dell'associazione di un elemento con gli altri estranei al sintagma (del tipo: insegnamento/insegnare, educazione/apprendimento). Un altro punto fondamentale della teoria saussuriana è la distinzione fra sincronia e diacronia (v.). Mentre la linguistica ottocentesca, come si è detto, era stata prevalentemente storico-comparativa (cioè diacronica), per Saussure lo studio scientifico deve essere rigorosamente sincronico, riferito cioè alla struttura sistematica della lingua in un dato momento del suo sviluppo. Solo così è possibile cogliere l'autonomia del sistema, in cui tutti gli elementi « si tengono » coerentemente sull'asse della simultaneità. Questa dicotomia è oggi in parte corretta dalla linguistica diacronica, ma occorre riaffermare il carattere decisamente rinnovatore dell'impostazione sincronico-sistematica del grande studioso ginevrino, che è alla base dei più fecondi sviluppi della linguistica moderna. 2. I funzionalisti. Nel 1926 venne fondato il Circolo linguistico di Praga, i cui principali animatori furono J. Mukafovsky, S. Karcevskij, R. Jakobson, N.S. Trubeckoj, A. Martinet. Tre anni dopo apparvero, come opera collettiva programmatica. del Circolo, le famose « Nove tesi » che costituiscono le premesse metodologiche di una ricerca durata oltre un decennio. Rivestono particolare interesse per l'argomento
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Linguistica
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di questo libro le prime tre tesi, in cui si trovano le seguenti affermazioni principali: a. La lingua deve essere concepita come un « sistema funzionale » di mezzi finalizzati alla comunicazione e all'espressione. L'analisi sincronica deve essere accompagnata dalla considerazione diacronica ( « la descrizione sincronica non può escludere assolutamente la nozione di evoluzione, poiché, persino in un settore considerato sincronicamente, è presente la coscienza dello stadio che sta per scomparire, dello stadio presente e di quello in formazione » ). Una coerente concezione funzionalistica della lingua sarà poi elaborata da Martinet, che fu successivamente tra i promotori del Circolo linguistico di New York. b. La fonologia si distingue dalla fonetica perché non considera i suoni dal punto di vista materiale-acustico (ambito della parole), ma da quello sistematico della langue. Il suono si definisce nel suo rapporto oppositivo con gli altri suoni della langue e per i suoi « tratti distintivi» e «pertinenti ». Si sviluppa la teoria del fonema (v.), particolarmente approfondita da Trubeckoj e da Jakobson. c. La lingua ha diverse funzioni corrispondenti alle esigenze del locutore. Le principali funzioni sono quella comunicativa e quella poetica. Nella prima il linguaggio è diretto verso il significato, nella seconda è invece diretto verso il segno. Il linguaggio poetico, come atto creatore individuale, si rapporta sia alla lingua di comunicazione sia a quella letteraria. Queste idee saranno sviluppate da Jakobson (V. LINGUAGGIO,
1).
A Martinet si deve la distinzione fra una prima articolazione del linguaggio in unità significative o monemi c una seconda articolazione in unità distintive o fonemi: il monema è un segno (in senso saussuriano) non analizzabile in ulteriori successioni di segni, ma solo in unità fonematiche. La concezione funzionalistica della lingua abbraccia sia la fonologia sia la sintassi: nella struttura linguistica ogni elemento si rapporta con tutti gli altri in base alle funzioni che esercita. Così, ad esempio, attorno al sintagma predicativo (es.: L'allievo ha studiato), che è l 'elemento basilare della frase, si possono articolare monemi e sintagmi autonomi, monemi dipendenti e determinanti, e, grazie ai monemi funzionali, le più svariate espansioni. Es.: L'allievo diligente: l'aggettivo ha qui la funzione di monema determinante; L'allievo diligente ha studiato la lezione: il complemento è un'espansione attraverso un sintagma dipendente, che può essere ulteriormente espanso: la lezione di storia romana («di» è un monema funzionale); L'allievo ha studiato la lezione per ottenere un bel voto: il funzionale « per » introduce una espansione dipendente costituita da una nuova frase. 3. La glossematica. Louis Hjelmslev è il più importante esponente della « Scuola di Copenaghen » (che annovera studiosi come Brondal, Udall e altri) e il fondatore di una teoria formale del linguaggio, cui
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Linguistica
ha voluto dare il nome, anch'esso originale, di glossematica. Secohdo Hjelmslev una teoria linguistica adeguata dovrebbe servire a descrivere qualsiasi testo possibile composto in una qualsiasi lingua L'analista parte dal testo, ossia da un atto linguistico parlato o scritto, considerato come una classe; il testo viene diviso in segmenti, ognuno dei quali viene a costituire una classe; ogni segmento è scomposto in altri, fino all'esaurimento dell'operazione. Fulcro dell'analisi, secondo il linguista danese, è la descrizione delle dipendenze reciproche o funzioni intercorrenti fra le parti del testo. Le due funzioni più importanti sono la funzione ET (congiunzione, coesistenza) e la funzione AUT (disgiunzione, alternanza). La prima è alla base del processo, la seconda del sistema. I terminali di una funzione sono detti funtivi; ogni funtivo entra sia in un processo sia in un sistema. Hjelmslev chiama correlazione o equivalenza la funzione AUT, relazione o connessione la funzione ET. Date, ad esempio, le due parole vane e riso, se scambiamo (commutazione) i fonemi (o meglio le figure) r e v avremo rane e viso: in queste catene r et a et n et e, v et i et s et o producono congiunzione, coesistenza, mentre fra r aut v, a aut i, n aut s, e aut o c'è disgiunzione, alternanza. Con estremo rigore terminologico Hjelmslev costruisce uno schema binario qui semplificato: Processo- testo- sintagmatica - relazione - funz. et- catena Sistema -lingua- paradigmatica- correlazione- funz. aut- paradigma Un punto importante della teoria hjelmsleviana riguarda l'approfondimento del concetto di segno, esprimibile in questi termini: contenuto
sostanza forma
espressione
forma sostanza
« In ogni processo segni co » spiega U. Eco « abbiamo un elemento di espressione (chiamiamolo pure il significante) che veicola un elemento di contenuto (il significato). Quando parliamo noi disponiamo di una grande quantità di emissioni vocali. Ma il sistema sintattico dell'espressione ha reso pertinenti solo alcune di queste emissioni (val· gono solo alcuni tratti distintivi, e ogni lingua usa come elementi pertinenti non più di una quarantina - e spesso molto meno - di fonemi). In italiano posso pronunciare la /i/ di /pino/ sia in modo breve e contratto sia in modo lungo e tutti capiscono cosa stia dicendo. Posso cioè pronunciarla usando indifferentemente il fonema /i/ o il fonema /i:/. In inglese invece questa scelta pone la differenza tra / Jip/ e / Ji:p / (e cioè tra le parole inglesi che si scrivono / ship /, nave, e /sheep/, pecora). Dunque in italiano l'opposizione tra /i/ e /i:/ non
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fa parte della forma dell'espressione, anche se indubbiamente è un aspetto della sostanza sonora » (Eco, t 973, p. 74 ). Il processo di produzione di segni o semiosi (signifìcazione) è da Hjelmslev rappresentato graficamente con la formula: ERC Ossia c'è relazione (R) fra il piano dell'espressione (E) e quello del contenuto (C). Quando un primo sistema ERC diventa il piano d'espressione o significante di un secondo sistema, si dice che il primo sistema costituisce il piano di denotazione e il secondo il piano di connotazione. Se dico « coniglio », il codice mi indicherà il significato denotato dal significante. Ma la parola « coniglio », inserita in un dato contesto, può voler dire qualcosa di più, può indicare un significato aggiunto, che è appunto la connotazione: ad esempio, può voler dire « vigliacco », « pauroso ». Il secondo sistema (o sistema connotato) è rappresentabile così: (ERC)RC dove, evidentemente, fra parentesi c'è la coppia significante-significato denotativo ( « coniglio ») e fuori parentesi il rapporto di connotazione ( « pauroso » ). l significanti di connotazione - che Barthes chiama connotatori (v.) - sono evidentemente dei segni (significanti + significati) del sistema denotato. È importante osservare che la connotazione è fondamentale nell'espressione artistica. Anche i simboli (v.) poetici rientrano nei sistemi di connotazione: il Veltro, ad esempio, è un connotatore, un significante di connotazione di un sistema sematico più complesso di quello denotato dal codice. Siamo cioè rimandati a un sottocodice culturale sotteso alle idee politico-religiose di Dante e a una specifica forma del contenuto strutturata in emblemi connotativi (v. ALLEGORIA). 4. La linguistica americana. Sino agli anni Sessanta la linguistica americana era stata dominata dall'influenza di Leonard Bloomfield, il cui classico manuale Language risale al t 933. La sua concezione è stata definita « comportamentistica » (o « behaviorista ») perché anche il linguaggio, nell'ottica del positivismo meccanicistico di B. Watson e P. Weiss, rientra nell'attività fisiologica dell'individuo, e più esattamente del suo sistema nervoso, il quale reagisce « a grilletto » alle diverse sollecitazioni esterne. La visione di Bloomfield « si riassume in termini di stimolo e risposta, nel noto schema: S-r-s-R. Ove uno stimolo esterno (S) induce qualcuno a parlare (r), questa risposta linguistica del parlante costituisce per l'uditore uno stimolo linguistico (s) che provoca una risposta pratica (R). S e R sono dunque eventi pratici che appartengono al mondo extralinguistico; r e s costituiscono invece l'atto linguistico» (Lepschy, 1966, p. 106). Il rigido antimentalismo di Bloomfield accentuò nella linguistica americana la tendenza a considerare la lingua in termini puramente formali, secondo il metodo dell'analisi in costituenti immediati. L'enunciato è diviso in
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due parti, ognuna delle quali è suddivisa a sua volta in due parti, e così via sino agli elementi minimi indivisibili. La frase: TI frarello maggiore di Carlo studia la lezione di storia, è analizzabile per tagli successi vi: - Il fratello maggiore di Carlo l studia la lezione di storia - Il fratello maggiore l di Carlo l studia l la lezione di storia - II l fratello maggiore l di l Carlo l studia l la l lezione di storia Il l fratello l maggiore l di l Carlo l studia l la l lezione l di storia - II l fratello l maggiore /di l Carlo l studia l la l lezione l di l storia. Il processo di scomposizione può essere evidenziato con uno stemma:
li
fratello
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di
Carlo
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la
lezione
di
storia
La linguistica bloomfieldiana è tassonomica o distribuzionalista, perché alla segmentazione dell'enunciato in costituenti immediati segue il raggruppamento secondo la loro « distribuzione » in classi strettamente formali, che escludono il ricorso al significato della frase. 5. La grammatica generativo-trasformazionale. A questa impostazione reagisce l'« innatismo » di Noam Avram Chomsky, che per certi aspetti riprende il mentalismo di Edward Sapir, nell'accentuazione, ad esempio, del carattere creativo del linguaggio e nel recupero delle sue diverse dimensioni, da quella fonologica a quella sin tattica e semantica. Non è qui possibile soffermarsi sugli aspetti specifici della teoria chomskyana, sulla differenza, ad esempio, fra il primo e il secondo modello della sua grammatica (peraltro ancora in fìeri). Semplificando diremo che Chomsky identifica la lingua con la competenza dei parlanti, la quale permette di esplicitare in infinite esecuzioni o atti produttivi la complessità dei messaggi. Ciò significa, secondo lo studioso americano, che il locutore è in possesso di una grammatica o sistema di regole a tre componenti (sintattico, semantico, fonologico), capace di generare (grazie ad opportune « regole sintagmatiche » o di « struttura di frase » o di « riscrittura », del tipo X~ Y) una struttura profonda, che mediante altri meccanismi (o regole) trasformazionali si espliciterà in una struttura superficiale. La novità del metodo chomskyano, nei suoi elementi essenziali e generali, consiste nell'integrazione di una grammatica di tipo sintagmatico, formalizzabile negli alberi etichettati, del tipo seguente:
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con un modello in grado di giustificare a livello profondo le differenze semantico-sintattiche annullate o non percepite a livello superficiale. L'intuizione non è nuova, perché la vecchia grammatica aveva già avvertito l'ambiguità di frasi come: (l) l'amore dei genitori (2) l'odio dei nemici risolvendola in termini di genitivo soggettivo o oggettivo. Secondo Chomsky l'ambiguità deriva da una diversa struttura profonda, sottesa alle due frasi; e cioè: (l a) i genitori amano [i figli] (l b) [i figli] amano i genitori L'analisi in costituenti immediati non è in grado di diversificare la struttura delle due frasi seguenti: Il denaro è consumato da tempo Il denaro è consumato da Carlo Quest'ultima (almeno nella prima versione della grammatica generativo-trasformazionale) è il prodotto di una trasformazione passiva, come del resto è avvertito intuitivamente dal parlante. Il processo trasformazionale è così formalizzabile: SN1 + Aus + V + SN2 ~ SN2 + Aus + essere + part. pass. V + da+ SNt dove i simboli vanno così ritrascritti: SN 1 ~ Carlo V ~ consumare SN:! ~ il denaro Grandissimo è stato l'influsso di Chomsky sulla linguistica americana, che ha soprattutto approfondito l'aspetto semantico del modello generativo-trasformazionale giungendo a diverse proposte teoriche; in particolare, i cosiddetti « semanticisti » (Mc Cawley, Bach, Ross e Lakoff) criticano il concetto di struttura profonda, preferendo postu-
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Lirica
lare una corrispondenza fra forma logica e forma grammaticale della lingua (Lakoff). Nella grammatica dei casi di J. Ch. Fillmore i due enunciati La casa brucia Giovanni brucia la casa hanno la stessa struttura, essendo in entrambi « la casa » oggetto, mentre per l'analisi trasformazionale essa è soggetto nella prima e oggetto nella seconda. Fillmore considera l'enunciato come una se· quenza formata da un verbo e da una serie di casi, cioè di relazioni semantiche che collegano il verbo ai sintagmi nominali. Si avrà un Agente, un Esperimentatore, un Oggetto, uno Strumento. Date le seguenti frasi: Franco apre la porta con la chiave Franco apre la porta La chiave apre la porta La porta si apre la struttura semantico-sintattica sarà rispettivamente: A +V+ O+ S (Agente +Verbo + Oggetto+ Strumento) A+V+O S+V+O -O+V Per un approfondimento dei problemi delineati in queste pagine rimandiamo innanzi tutto al chiaro manuale di F. Ravazzoli, 1975, particolarmente aggiornato sui più recenti indirizzi della linguistica mondiale. Opere essenziali: Benveniste, 1971; Berruto, 1974 ab, 1975; Chomsky, 1969-70; Coseriu, 1971; Ducrot-Todorov, 1972; Hjelmslev, 1968; Jakobson, 1966; Lepschy, 1966; Martinet, 1965, 1971, 1972; Mounin, 1971 b, 1974; Parisi-Antinucci, Elementi di grammatica, Torino, 1973; Robins, 1969; Saussure, 1972.
LIRICA. Sin dall'antichità la lirica è la forma poetica in cui si esprime il sentimento personale dell'autore, che è al centro del discorso psicologico, introspettivo, memoriale, rievocativo o fantastico in cui si determina l'esperienza dell'io. Dalla lirica greca, accompagnata dalla musica (il nome deriva dalla « lira », lo strumento a corde di cui ci si serviva per sottolineare ritmicamente le parole), derivano sia le tipologie dei diversi componimenti lirici, suddivisi secondo i soggetti (inni, epinici, epitalami, encomi, peani, ditirambi ecc.), sia le strutture metriche e stilistiche recepite dalla poesia latina, verso la fine del II sec. a. C. Non ci interessa seguire in questa sede l'evoluzione del genere letterario, estremamente complessa. Importa piuttosto sottolineare il significato moderno della lirica, che risale al Romanticismo; ad esempio, Hegel ritiene che la lirica sia propria delle età evolute durante le quali l'uomo riflette su se stesso « e si conchiude nel suo interno in una totalità autonoma di sentimenti e rappresentazio-
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Livello
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ni ». Ed è anche noto come il Leopardi riconoscesse solo alla lirica l'autenticità poetica, in quanto « espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dall'uomo ». Nelle estetiche del Novecento, e in particolare in Croce, l'espressione lirica è tout court identificata con la poesia, con la sintesi di sentimento e forma. Nella grande lirica dell'Ottocento e del Novecento il tema di fondo è il rapporto fra l'io e il mondo, la problematicità dell'esistenza (si pensi al Canto notturno del Leopardi), la dilacerazione avvertita e sofferta dal poeta nel distacco fra le sue aspirazioni e la realtà negativa del mondo borghese. La tendenza all'evasione dalla realtà storico-sociale e al suo rifiuto si accompagna, da Baudelaire in poi, alla ricerca di un mondo autre, di una alterità estraniata rispetto all'orrore delle metropoli e delle folle anonime. All'alienazione dell'uomo nella società moderna il poeta lirico contrappone un universo separato, onirico, inconscio, fantastico o simbolico. La disgregazione della persona romantica, !a sfiducia nella credibilità del reale, il rifiuto di una poesia ottimistica delegata a magnificare la buona coscienza borghese: tutti questi aspetti della condizione poetica decadente giustificano la rottura col linguaggio tradizionale (oggettivo, illustrativo, aulico ecc.) e l'insorgere di un nuovo discorso antinaturalistico, fortemente impregnato di intenzionalità allusive, metaforiche e simboliche; un linguaggio in cui assumono la massima importanza i valori musicali dei significanti verbali. L'indicazione dell'Anceschi (evidentemente generale) relativa a una duplice poetica novecentesca, quella orientata sull'analogia (si pensi a D'Annunzio) e l'altra sull'oggetto simbolico (dal Pascoli al crepuscolarismo sinÒ a Montale), ci pare adeguata a caratterizzare i processi essenziali del linguaggio lirico post-simbolista. Sull'argomento si potranno consultare: Anceschi, 1962 e 1968; Friedrich, La struttura della lirica moderna, Milano, 1971; Raymond, 1948; Bandini, in AA.VV., 1976 a, p. 264 sgg.
LITOTE. Figura di pensiero che consiste nell'affermare un concetto negando l'opposto. Es.: Don Abbondio non era nato con un cuor di leone (Manzoni). La litote è considerata come un'attenuazione del pensiero per far intendere più di quanto non si dica; ad esempio, non ti odio, non mi sei indifferente sono litoti perché sostituiscono il sottaciuto ti amo. Nella litote si ha una diminuzione-attenuazione semantica che richiede al lettore un'operazione inversa di corretta integrazione di senso. Etim.: dal gr. litos = semplice.
LIVELLO. « In una lingua determinata» osserva il Dubois, 1973. p. 337 « si constata che certi usi appaiono unicamente in dati ambienti e altri in altri ambienti o in riferimento ad essi ... La nozione di livelli della lingua è legata alla differenziazione sociale in classi o
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Lh•ello
gruppi di diversi tipi. l locutori possono impiegare più livelli differenti secondo l 'ambiente in cui si trovano (ad esempio, uno studente usa in famiglia la lingua colta e nella sua classe delle parole gergali ... ). Le differenze possono essere soltanto d'ordine lessicale (gergo e lingua comune, vocabolario tecnico e lingua standard) o di ordine fonetico, morfologico, sintattico e lessicale (lingua colta e lingua popolare, lingua e dialetti). t: da notare che i dialetti vicini alla lingua ufficiale possono giocare il ruolo di lingua popolare ». Normalmente si distingue un livello non formale in opposizione a un livello formale dell'uso linguistico. Ad esempio, la lingua familiare o personale, il linguaggio scherzoso, umoristico o parodistico, e soprattutto i diversi gerghi (lingua della malavita, dei mestieri, degli studenti ecc.) sono usi linguistici che corrispondono a registri non formalizzati; mentre il discorso convenzionale, le lingue speciali, i cosiddetti tecnoletti (o linguaggi tecnici) sono livelli diversi e opposti rispetto al discorso familiare, ossia usano registri più formalizzati. Sull'argomento si veda: G. Francescato, in AA.VV., Italiano d'oggi, Trieste, 1974, p. 220. l. l livelli nell'analisi linguistica e letteraria. Un diverso problema riguarda la distinzione di diversi livelli nell'ambito del funzionamento della lingua. Seguendo Berruto,1974, p. 6j, distingueremo: il livello lessicale-semantico (v.): analisi del piano del significato; il livello grammaticale o morfosintattico: analisi della prima articolazione del piano del significante; il livello fonologico (v.): analisi della seconda articolazione del piano del significante. Il primo livello concerne lo studio del significato ed è di competenza della semantica; il secondo e il terzo riguardano il significante e sono di competenza rispettivamente della morfosintassi e della fonologia: la morfosintassi « studia i segmenti di significante aventi un significato, la fonologia studia i segmenti di significante privi di significato». Nell'ambito letterario, e più esattamente della descrizione e dell'analisi di un testo, è opportuno distinguere due livelli del discorso poetico: il livello prosodico che organizza le articolazioni del significante e il livello sintattico che presiede al significato (cfr. Greimas, 1972, p. 11 sgg.). Il livello prosodico abbraccia numerosi fattori specifici del significante verbale, ossia le diverse « manifestazioni soprasegmentali » del piano dell'espressione, dall'accento della parola alle modulazioni sintagmatiche alle curve melodiche transfrastiche. Nel discorso poetico il livello prosodico si presenta sia nelle matrici convenzionali (metro, ritmo, versi, strofe, rime, assonanze ecc.) sia, in assenza di tali matrici, in forme libere che valorizzano i moduli soprasegmentali. Il livello sintattico (o morfosintattico) interferisce attivamente sul significato assumendo una specifica funzione semantica costruttiva. La
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Luogo comune
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semantizzazione degli elementi grammaticali è un aspetto della deautomatizzazione del codice, che permette di indurre sulle categorie formali una particolare connotazione di senso, motivando iconicamente anche quei segni poetici che, nel sistema linguistico, risulterebbero « vuoti » come gli elementi funzionali, le marche del nome e del verbo ecc. Il livello sintattico del testo poetico, grazie alla semantizzazione delle categorie formali, riveste il compito di strutturare funzionalmente i rapporti fra i segni stilistici, e in particolare fra i connotatori, gli elementi semanticamente pertinenti, e caricarli di senso. Per un approfondimento rimandiamo a: Marchese, 1974, p. 145 sgg.; Pagnini, 1967 e soprattutto, per una esemplificazione, 1974 b; Corti, 1976. LOCUTORE. Il locutore è il soggetto (mittente o emittente) che parla e produce degli enunciati. V. COM UNlCAZIONE, CODICE, LINGUAGGIO. Etim.: dal lat. loqui = parlare. LUOGO COMUNE. v. TOPOS.
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MADRIGALE. E un componimento non popolare ma artistico, d'indole musicale - come ricorda lo Spongano - di tipo idillico-amoroso come la pastourel/e provenzale (Eiwert, 1973, p. 135). E formato da due o tre brevi strofe tristiche, cioè di tre versi endecasillabi, cui seguono una o due coppie di versi a rima baciata. In questa forma entra nel Canzoniere del Petrarca. Il madrigale del Cinquecento è molto diverso: consta di endecasillabi e settenari alternati variamente, con rime libere non più legate alle terzine e alle coppie a rima baciata. Rimane sempre più breve del sonetto e non tratta esclusivamente temi amorosi; nel Seicento può essere di tipo morale, religioso, filosofico; nel Settecento prevale il gusto galante ed epigrammatico. Venne ripreso anche dal Carducci e dal D'Annunzio. Etim.: è molto discussa (v. Elwert, 1973, p. 136); forse da matricalis = semplice, ingenuo o da matrix = chiesa madre, cattedrale (dove si pratica la musica polifonica). MELODIA. La musicalità del verso non è da intendersi come equivalenza tonale-armonica dei timbri e dei ritmi verbali, come se si potesse ricercare una esatta trasposizione della musica nella poesia. E indubbio, tuttavia, che esiste un valore melodico o musicale della poesia, risultante dalla strutturazione metrica e ritmica dei suoni (significanti) che veicolano la connotazione dei significati e complessivamente creano il senso del messaggio (per non parlare dei « messaggi formali » che, secondo l'Agosti, sono prodotti dai soli significanti poetici). Storicamente, la mediazione fra poesia e musica è costituita dal canto, in cui la parola, ritmicamente collocata in sequenze reiterate (cantilene, filastrocche ecc.), assume già una tonalità musicale. A livello d'arte, la melica greca nasce dall'accordo fra poesia cantata e accompagnamento musical~ con la cetra o la lira (v. LIRICA). sia in forme monodiche sia in quelle corali. Anche nella chiesa primitiva
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Messaggio
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il canto, ad esempio l'inno ambrosiano, è in funzione del valore primario del messaggio, cioè della preghiera. Svincolandosi dall'egemonia religiosa, la poesia profana d'arte dei secoli XI e XII si arricchisce di commenti musicali grazie all'arpa, al liuto e ad altri strumenti. La lirica trobadorica diffuse alcune forme tipiche (fra cui la ballade, la chanson, la romance, il /ai, il planh, il rondeau ecc.) che costituirono i modelli di riferimento della prima lirica d'arte italiana. E si aggiunga ancora il mottetto, il madrigale, la caccia, cui si affiancarono in età rinascimentale la frottola, la villanella, la canzonetta. Il melodramma (v.) del Seicento intende restaurare la dignità del testo (almeno nelle intenzioni del Rinuccini e del Monteverdi), per quanto la successiva evoluzione del gusto porti a una preminenza della musica sul recitativo. In senso linguistico, la melodia indica le variazioni musicali della parola ne il 'ambito della frase, la variazione di altezza dei toni (ascendente o discendente), come ad esempio nella coppia piove -piove? Ma sull'argomento si rimanda alle voci: ACCENTO e PROSODIA. Per un approfondimento si vedano: G. Muresu, in AA.VV., 1976 a, p. 298 sgg.; Pagnini, 1974 a.
MELODRAMMA. Composizione scenica cantata e musicata. Nacque nell'ambito della Camerata de' Bardi verso il 1580 come sviluppo del dramma pastorale. Fra i teorici del nuovo genere il Caccini sostenne il primato del testo poetico e del canto monodico; Ottavio Rinuccini scrisse i primi melodrammi di alta fattura artistica, la Dafne, l'Euridice e l'Arianna, mentre il Monteverdi fu il musicista che meglio espresse l'esigenza di un intimo equilibrio fra le diverse componenti dell'opera. Nel corso del Seicento prevalgono il virtuosismo dei cantanti e gli effetti scenici grandiosi, sicché il testo scade a libretto piuttosto convenzionale e letterariamente mediocre. Nel Settecento Apostolo Zeno e il Metastasio operano la riforma del melodramma nello spirito sentimentale e idillico dell'Arcadia e sulla strada della rivalutazione del testo procedettero Gluck e Calzabigi. L'Ottocento vede il trionfo della musica sulle parole e sulle trame (per lo più modeste) dei librettisti, al servizio dell'ispirazione di grandi compositori: Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi e Puccini. Il melodramma diventa l'opera lirica. MESSAGGIO. Il messaggio è una sequenza di segni (o segnali), costruita in base a precise regole combinatorie, che un emittente invia a un destinatario allraverso un canale. La forma del messaggio dipende dalla natura dei mezzi adoperati per comunicare e dal codice: vibrazioni sonore, luci, gesti o movimenti, impulsi meccanici o elettrici ecc. Si può trasmettere un messaggio con la parola, con la scrittura, con le bandiere navali, col telegrafo e così via. La forma viene
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Metafora
codificata dall'emittente e decodificata dal ricevente. La trasmissione di un messaggio è un atto di significazione, perché comporta l'utilizzazione di un codice; questo atto stabilisce anche un rapporto sociale tra l'emittente e il destinatario. La linguistica ha recuperato gli elementi essenziali della teoria della comunicazione (v.), sulla quale si fonda anche la semiologia della letteratura (v. COMUNICAZIONE, 2). Per altre informazioni si vedano le voci: CODICE, LINGUAGGIO, INFORMAZIONE. Cfr. Dubois, 1973, p. 314. METAFORA. Tradizionalmente la metafora è considerata una similitudine accorciata, similitudo brevior (Quint. VIII, 6, 8). Ad esempio, Achille è un leone deriva da Achille combatte come un leone; Tizio è una volpe è la condensazione di Tizio è furbo come una volpe. La metafora designa un oggetto attraverso un altro che ha col primo un rapporto di similitudine. Quando diciamo « capelli d'oro », vogliamo intendere « capelli biondi come l'oro ». I moderni studi di retorica hanno abbandonato la definizione della metafora come similitudine abbreviata e si sono proposti di approfondire la genesi linguistica del traslato. In effetti, « si dice che una metafora è una parola usata al posto di un'altra per rendere un referente con un significato diverso » (Berruto, 1975, p. 117). In capelli d'oro la metafora d'oro non indica com'è ovvio un referente, ma un significato traslato cioè diverso da quello letterale. La metafora, come la metonimia e la sineddoche, opera uno spostamento di significato: ma secondo quali regole? « La spiegazione del meccanismo di trasferimento di significato, cioè delle regole secondo cui una parola sostituisce quella "propria" in un certo significato, è fondata su una parentela di somiglianza in base alla "catena": la parola X, usata propriamente per designare il referente x, viene usata per designare il referente y (al quale può o non corrispondere una parola "propria"); che rapporto c'è fra parole, significati e referenti? La risposta è che si ha metonimia quando tra i significati c'è una relazione di contiguità logica e/o materiale: per es., causa ed effetto (lavoro per "opera compiuta" in il quadro che hai terminato è proprio un bel lavoro); materia ed oggetto (ferro per "spada" o "arma"); contenente e contenuto (bicchiere per "un po' di vino" in ho bevuto un bicchiere di Chianti); astratto e concreto (inseguimento per "inseguitori" in è sfuggito all'inseguimento) ecc. Si ha sineddoche quando tra i significati c'è una relazione di maggiore o minore estensione (in termini tecnici, diremmo di iponimia), o di parte e tutto: macchina per "automobile", bocche per "persone" in tante bocche da sfamare, ecc» (Berruto, 1975, p. 116 sgg.). Nella metafora il meccanismo di spostamento semantico può avvenire tramite un termine intermedio che accomuna proprietà inerenti ai due termini che sono il punto di partenza e il punto di arrivo della metafora (X e Y). Ad esempio, la metafora il dente della montagna
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Jl,Jeta/ora
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verte sulla traslazione « cima » ~ « dente » (rispettivamente X e Y), resa possibile dal termine intermedio « aguzzo, appuntito » che accomuna il cosiddetto « veicolo » della metafora (X) al « tenore » (Y). Schematizzando:
l. Metafora e metonimia secondo Jakobson. Jakobson afferma che lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità. La denominazione più appropriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per il secondo direttrice metanimica, poiché essi trovano la loro espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nella metonimia » (Jakobson, 1966, p. 40). Si tenga presente che per Jakobson la metonimia comprende anche la sineddoche; nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l'espressione capelli biondi può essere associata all'idea dell'oro, per cui si ha la metafora capelli d'oro (i due elementi sono esterni l'uno all'altro); nella metonimia il rapporto fra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in il discorso della corona) c'è un rapporto interno, perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell'altra, una sua causa o reificazione ecc. Aristotele (Poetica, 1457 b, Retorica, 1407 a) dice che tra la vecchiaia e la vita c'è lo stesso rapporto che tra la sera e il giorno: « il poeta dirà dunque della sera, con Empedocle, che è la vecchiaia del· giorno, della vecchiaia che è la sera della vita o il tramonto della vita ». Qui la scelta paradigmatica vecchiaia-sera è sottesa da un rapporto analogico strutturabile in uno schema che spiega il « meccanismo sublinguistico » (Henry) operante a livello profondo: vecchiaia sera «
vita
giorno
Dagli enunciati: 1. la vecchiaia è la fine della vita 2. la sera è la fine del giorno deriva l'analogia distesa
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Metafora
3. la vecchiaia è la fine della vita come la sera è la fine del giorno e la metafora 4. la vecchiaia è la sera della vita L'equiparazione vita-giorno comporta l'equiparazione vecchiaia-sera e la possibilità del transfert semantico con 1'eliminazione del termine comune ai due enunciati profondi. 2. Morfologia della metafora secondo Henry. « Nella metafora» - sostiene Henry - « l'intelletto sovrappone i campi semici di due termini appartenenti a campi associativi diversi (e talvolta anche assai lontani l'uno dall'altro), finge di ignorare che vi è un solo tratto comune (raramente ve ne sono di più), e opera la sostituzione dei termini » (Henry, 1975, p. 88). Così in capelli d'oro si hanno due campi semici - quelli relativi a capelli e oro - con tratti o componenti o semi assai diversi, salvo uno, il colore, che può permettere lo spostamento semantico: oro: colore« giallo» (e non« bi'anco ») capelli: colore« biondo» (e non« nero»,« rosso» ecc.). Il tratto comune giallo-biondo permette la formazione della m\!tafora:
La metafora può essere espressa in varie forme grammaticali (nomi, verbi, aggettivi prevalentemente). La metafora nominale ha diverse strutture: a) la sostituzione d'un solo nome: è nata una stella ( = diva del cinema) b) la copula: il mare in certi giorni l è un giardino fiorito (Cardarelli) c) l'apposizione: e l'eco che non tace, amica dei deserti (Quasimodo) d) la costruzione col genitivo: non c'erano trombe di mitraglia (De Libero) e) la catena di due o più nomi: voci di tenebra azzurra (Pascoli). La metafora verbale può riguardare il solo verbo (Osservare tra jrondi il palpitare l lontano di scaglie di mare; Montale) o il nesso sostantivo-verbo (Trema un ricordo nel ricolmo secchia, l nel puro cerchio un'immagine ride; Montale). Gli aggettivi metaforici sono co-
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Metafora
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munissimi anche nel linguaggio standard: barba d'argento ( = argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo. Secondo Henry occorre distinguere le metafore non sulla base della loro forma grammaticale, ma in rapporto al numero dei termini espressi, cioè quattro, tre, due e uno. La metafora a quattro termini è costituita dal rapporto di equivalenza
a
h
=
a'
h'
(si ricordi l'esempio di
Aristotele). Una metafora a tre termini è rappresentata dal verso di Hugo: La vita è lo spaventoso viale delle sfingi, in cui si ha l'analogia: viale vita sfinge problemi con i termini espressi a, b, a' (b' è contestuale). Molto comune la metafora a due termini (a, a' oppure a, b'). Ad esempio, il sintagma il fuoco dell'amore ha come schema sublinguistico l'equivalenza fuoco amore ardore passione Così Le nevi della testa si analizza nello schema nevi capelli bianchi montagna testa (con termini espressi a e b'). La metafora a un termine richiede l'aiuto esplicatore del contesto, come quando diciamo: Arriva la mummia! per riferirei a una persona piuttosto silenziosa e appartata. Per capire il valore di forbice = «tempo » nel montaliano Non recidere, forbice, quel volto ... , è necessario ricorrere al contesto della poesia (e al sistema tempo-memoria che percorre tutta la produzione di Montale). 3. Altre interpretazioni della metafora. Gli autori della Retorica generale (1970 c, tr. ital., 1977, p. 161 sgg.) ritengono che la metafora risulti da due operazioni di base: addizione e soppressione di semi (v.) e come tale sia il prodotto di due sineddochi (una particolarizzante secondo il modulo fl e una generalizzante secondo il modulo ~; v. SINEDDOCHE). Ad esempio, la metafora La betulla è la fanciulla dei boschi si realizzerebbe secondo lo schema X-P-Y già visto, riformulato con le etichette P-I-A (termine di partenza, termine intermedio, termine di arrivo):
dove P sarebbe fanciulla, A betulla e l
<<
flessibile»: il percorso
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Metafora
P ---? I è una sineddoche generalizzante L e il percorso I ---? A è una sineddoche particolarizzante II (il primo modulo è esemplificato da mortale per uomo, il secondo da vela per nave). Anche Eco, 1971, p. 95 sgg. ritiene che la metafora sia una catena di metonimie. Così, nella metafora barocca di Artale: il crin s'è un Tago e son due Soli i lumi la connessione fra fiumi e capelli sarebbe metonimica, perché il sema « fluenza » unifica i due sememi. Nella sua più recente opera, Eco sembra aver rettificato questa interpretazione. Accettando l'impostazione di Jakobson, secondo cui la metafora è una sostituzione per similarità e la metonimia una sostituzione per contiguità, afferma giustamente che la « similarità non riguarda una relazione tra significante e cosa significata, ma si presenta come identità semica » (Eco, 1975, p. 348; l'esempio citato è domini canes = i domenicani, « cani del Signore » ). La metonimia (in cui è inglobata anche la sineddoche) rappresenta un caso di interdipendenza semica (e non d'identità), che può essere di due tipi: a) una marca (cioè un sema) sta per il semema cui appartiene (vela per nave); b) un semema sta per una delle sue marche (uomo per mano; Eco cita l'esempio: Giovanni è proprio un pesce per « nuota molto bene», ma sbaglia perché pesce è metafora). In conclusione, « la connessione tra due semi uguali sussistenti all'interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del sema per il semema e del semema per il sema costituiscono metonimia » (Eco, 1975, p. 352 sgg.). L'assunto che la metafora sia il prodotto di due sineddochi (o di due metonimie) è criticato da Bertinetto (in Henry, 1975, p. VII sgg.), che lo ritiene inadeguato a spiegare una locuzione metaforica del tipo Cassius Clay è una roccia, sottesa da una duplice predicazione: Cassius Clay è forte, la roccia è dura. Lo schema sublinguistico di Henry mostra invece che la metafora è resa possibile dali 'analogia fra i due termini « forte » e « dura ». La metafora è, sostanzialmente, un caso di anomalia semantica che, secondo la linguistica generativa, deriverebbe dalla violazione di determinate regole di selezione, e più esattamente le restrizioni di selezione che comandano la combinazione dei lessemi. Nella frase Il sole ride la metafora nasce dalla violazione del sema/ umano/ che è una delle restrizioni di selezione del verbo « ridere». Ancora meglio si potrà dire che lo straniamento metaforico deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali. Ad esempio, in Finalmente la mummia ride (per indicare una ragazza chiusa, silenziosa) la normale presupposizione di «mummia» = /cadavere imbalsamato/ è violata dal riferimento a un tratto / umano vivente/. ~ ciò che Weinrich (1976, p. 89) chiama « controdeterminazione ». Se il significato di una parola consiste essenzialmente in una certa aspettativa di determinazione (ad es., paesaggio), la metafora, trasferendo il senso del refe-
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rente a un altro (la vostra anima è un paesaggio eletto), delude l'aspettativa e crea una sorpresa; il senso è provocato dal contesto. « Chiameremo questo processo controdeterminazione, perché la determinazione effettiva del contesto avviene in direzione contraria all'attesa di determinazione della parola. Con questo concetto possiamo definire la metafora come una parola in un contesto "controdeterminante" » (p. 89). Etim.: dal gr. metaphérein = portare oltre. METALINGUAGGIO. Secondo Hjelmslev (v. LINGUISTICA, 3) il metalinguaggio (o metalingua) è una lingua il cui piano del contenuto è già una lingua. Così, ogni discorso su una lingua è metalinguaggio, dalle definizioni dei dizionari alle grammatiche, alla critica letteraria ecc. Per Jakobson la funzione metalinguistica utilizza il codice come oggetto del messaggio. Ad esempio, nella frase: Hai detto Rina o Pina? i due nomi sono metalinguistici (v. LINGUAGGIO, 1). METONìMIA. La metonimia è una figura di trasferimento semantico (v. METAFORA) fondata sulla relazione di contiguità logica e/o materiale fra il termine « letterale » e il termine traslato. Con Jakob!'.Qll. possiamo dire che la metonimia è la __sp_~_tiJuzione.. dJ_ J1n. term_iru; C
Jto ..9LçQJlHgl!ità; ad esempio, se diciamo:- Si guadagna il pane col sudore della fronte, vogliamo in realtà intendere « col lavoro che causa sudore » (scambio dell'effetto per la causa). Così l'espressione il discorso della corona sta per il discorso del re (scambio della cosa per la persona). Mentre nella metafora il rapporto fra i due termini confrontati è paradigmatico, esterno (ossia i due termini appartengono a campi semantici diversi, come capelli e oro), nella metonimia il rapporto è sintagmatico, intrinseco. Più esattamente il tipo di contiguità esprime: a) la causa per l'effetto: Ma negli orecchi mi percosse un duolo (Dante). Il poeta sente dei lamenti causati dal dolore b) l'effetto per la causa: talor lasciando le sudate carte (Leopardi), cioè tralasciando gli studi impegnativi che fanno sudare sui libri c) la materia per l'oggetto: marmo per statua, ferro per spada d) il contenente per il contenuto: cittadino Mastai, bevi un bicchier (Carducci), ossia il vino contenuto nel bicchiere e) l'astratto per il concreto: è sfuggito all'inseguimento per è sfuggito agli inseguitori f) il concreto per l'astratto: quell'uomo ha del fegato, cioè ha del coraggio; la determinazione fisica rappresenta delle attribuzioni morali: una cattiva lingua ( = un diffamatore), un uomo di polso ( = energico) g) il mezzo al posto della persona: Lingua morta[ non dice (Leopardi), ossia: nessuno potrebbe dire h) l'autore al posto dell'opera: ho comperato un Raffaello ( = un
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Metonlmia
quadro di Raffaello), portate il vostro Cesare ( = il De bello Gallico) i) l'astratto al posto del concreto: l'umanità ( = gli uomini) l. I meccanismi linguistici della metonimia. Se l'inventario delle realizzazioni metonimiche non crea problemi, ben diversa è la situazione allorché si passa alla ricerca dei meccanismi linguistici della figura. t: abbastanza chiaro che la metonimia attua una interdipendenza semica fra il termine traslato (termine in pmesentia) e quello profondo (in absentia). Ad esempio: Portate il vostro Cesare - uomo politico romano - dittatore episodi emblematici (Rubicone, le Idi di marzo ecc.) - avversario di Pompeo - conquistatore della Gallia - autore del De Bello Gallico
Si noterà che diverse selezioni semiche, sottese dall'arcilessema Cesare, realizzano figure sostanzialmente metonimiche. Ad esempio: Vuoi fare il Cesare per «vuoi fare il dittatore»: abbiamo qui una antonomasia (v.), che per gli autori della Retorica generale è semplicemente una sineddoche generalizzante (v.), rappresentando il più per il meno; ancora meglio, l'antonomasia è una metonimia connotativa, perché implica alcune cancellazioni semiche (ad esempio, non vuoi dire: vuoi fare il condottiero, il conquistatore, lo scrittore ecc.) e la sottolineatura emblematica di un aspetto della personalità di Cesare. Arriveranno anche per te le l di per « arriverà la tua fine » in un sottinteso confronto X ( = persona allusa): Cesare; in questo caso si ha una sostituzione allusiva (v. ALLUSIONE); oppure: dovrai prima o poi trarre i dadi ( = decidere), dove l'allusione è ancora più specifica, le restrizioni semiche sempre più « culturali ». Si è trovato davanti Ull Pompeo per « un avversario », magari con la tradizionale connotazione « difensore della repubblica e della libertà », cioè con particolari transcodificazioni del rapporto Cesare: Pompeo. Come si può-osservare, il rapporto di contiguità fra i termini è sempre interno al campo semantico di Cesare, ma le sostituzioni non sono, per così dire, immediate o puramente linguistiche: implicano delle selezioni di carattere culturale, il riferimento a particolari sottocodici o comunque esprimono delle connotazioni più o meno sottintese. Per spiegare con maggiore adeguatezza il meccanismo della melonimia, occorre aver presente un modello semantico della funzione se-
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Metonimia
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gnica come quello proposto da Eco, 1975, p. 152 sgg.: un semema è rappresentabile come un complesso organizzato di marche denotative e connotative e di selezioni contestuali e circostanziali (che registrano i sememi associati a quello rappresentato). Ad esempio, si consideri il segno teschio: /
[eire bottiglia]-- d veleno
./---[eire bandiera]-- d pirata . « teschto » - - - d morte ~ " \ _ [ c.irccabina ]--dallo voltaggio--Cpericolo [ CITC camicia
J- - d
ardito
f: dunque la struttura componenziale di un termine (v.
SEMEMA,
a entrare in discussione, allorehé si cerca di spiegare l 'operazione inerente alla metonimia. Nel caso di Cesare, l'insieme di marche denotative e connotative che registrano il semema deve essere completato con quelle marche contestuali e circostanziali che vengono selezionate quando si forma la metonimia (Cesare-De bello Gallico, Cesare-Idi, Cesare-Pompeo ecc.). Non pare soddisfacente l'interpretazione che della metonimia danno gli autori della Retorica generale. Considerato con P (punto di partenza) Cesare, con A (punto di arrivo) il De bello Gallico e con I (punto intermedio) la totalità della vita di Cesare (dai suoi amori, alle guerre, alle opere ecc.), nella metonimia il termine interm~:dio ingloberà gli altri due: SEMA)
Resta in effetti troppo generico il termine intermedio e vaga la definizione dei s~:mi connotativi che agirebbero nel processo metonimico. In Eco, 1975, p. 350 si ha un esempio di spiegazione più convincente della metonimia a proposito dell'espressione virgiliana vulnera dirigere, alla lettera « lanciare ferite » invece di « lanciare dardi » (effetto per la causa). Vulnera dirigere sta per dirigere tela o ictus o vulnerare. Telunz, cioè « dardo» ha la seguente rappresentazione sememica: (cont 0 : +uomo) dR: ferita, colpo
(com A'+ uomo)< «
dardo
»'
dstrum~nLc, d arma_.,<
. (cont 0 . -uomo) ...
(contA'- uomo) dA~
s ...
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Metrica
dove d è la marca denotativa, cont contestuale, A agente, S strumento, O oggetto, R risultato. Quindi la metonimia « dirigere ferite » deriva dalla sostituzione della causa strumentale per l'effetto: « ferita » è il risultato di « dardo », quando si hanno le restrizioni contestuali di un agente e di un oggetto umani. 2. Metafora, metonimia e altre figure poetiche. Vari autori considerano la metafora e la metonimia (comprendente anche la sineddoche) come le figure fondamentali del discorso poetico, nel senso che il loro funzionamento spiegherebbe quello di altri tropi, cioè delle figure di sostituzione semantica. Si è già detto dell'antonomasia e dell'allusione, collocabili sull'asse metonimico connotativo. Anche gli emblemi (v.), certe allegorie e certi simboli codificati (azzurro: cielo, infìnitezza; cenere: morte, rovina; catena: tirannia; corona: regalità; olivo: pace ecc.) hanno una radice metonimica: .la cenere è la parte di una totalità distrutta, l'olivo si riferisce alla circostanza dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme e così via. La perifrasi, dice Eco, 1975, p. 352, « è la sostituzione di un lessema con la totalità (o la massima parte) delle marche del corrispondente semema ». Ad esempio, il lessema Dio è sostituito nella perifrasi con una serie di marche che rappresentano il semema « Dio »: Colui che vede tutto, l'onnipotente, il creatore del cielo e della terra ecc. Talora l'enfasi, quando è allusiva (quello è un uomo! dove uomo può indicare varie attribuzioni morali: coraggio, onestà, lealtà ecc.), ha una struttura metonimica; mentre la litote e l'ironia, citate da Eco, sono piuttosto delle figure di pensiero. L'ipallage, secondo Henry, 1975, p. 34, sarebbe « un transfert metonimico dell'epiteto»: il vento blu del cielo. L'iperbole, infine, ha spesso una struttura metaforica: Luigi è 1m fulmine. Etim.: dal gr. metà= cambiamento, 6ttyma = nome.
METRICA. Per tradizione la metrica è lo studio dei fenomeni concernenti la versificazione: le misure dei versi, le figure metriche, la cesura, gli accenti, la rima, le strofe e le varie forme di componimento poetico. Restano tuttavia fluttuanti i concetti fondamentali della metrica: la definizione del verso, la distinzione fra verso, metro e ritmo, il significato dell'accento (v.) o ictus. Si può sostenere, col Cremante, che « il termine metro, nel suo significato più ampio e generale, sta ad indicare, quale che sia, la "ratio", la regola, vale a dire l'unità o il sistema di misura, in rapporto al quale il verso singolo assume la propria fisionomia ritmica con· venzionale. Il metro rappresenta dunque la forma e la norma del ritmo poetico» (in AA.VV., 1976 a, p. 273). La spiegazione non sembra tuttavia esauriente o comunque incontrovertibile. Per il Pazzaglia, 1974, p. 17, « il metro, convenzione e istituzione storico-letteraria, è la figura ritmica specifica della poesia ». Si tende, in tal modo, a iden-
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Metrica
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tifìcare metro e ritmo poetico, che « commisura in quantità sentite come omogenee le durate e i tempi intermedi d'una sequenza verbale conclusa, insieme coi caratteri soprasegmentali di tono, elevazione, accento, disponendoli in figure iterative o protese all'iterazione » (ibid.). Stabilita la distinzione fra accento tonico e ictus prosodico-metrico (v. ACCENTO), il Pazzaglia afferma che la «struttura versale impone un indugio, un'intensione ritmico-tonale su alcuni punti privilegiati ... Dentro la sua [ = del verso] costruzione (e costrizione) gli accenti tonici diventano, o non diventano ictus, le sillabe allungano o abbreviano la loro durata, la rima cessa di essere mero omoioteleuto, la sequenza verbale assume un rilievo eufonico con impeti e pausazioni, slanci e riposi: si compone in un progetto mensurale unitario» (ibid., pp. 19-20). Anche queste considerazioni lasciano per molti aspetti perplessi. Forse risulta più proficuo rifarsi, almeno in una prima fase del discorso, alla definizione tradizionale dell'Elwert: « Il verso italiano è caratterizzato e dal numero delle sillabe e dal ritmo. La sillaba, come nelle altre letterature romanr-e. costituisce l'unità metrica» (1973, p. 1). Il ritmo è individuato dall'accento, dalla collocazione delle sillabe toniche e atone, sicché « versi di egual numero di sillabe possono offrire varietà ritmiche diverse » (ibid., p. 2). Qui la distinzione fra metro. come misura sillabica, e ritmo, come successione di ictus, appare piuttosto netta; il verso risulta dall'incontro di uno schema metrico e di una sequenza ritmica variabile. Anche il Di Girolamo è propenso a distinguere modello metrico e modello ritmico: « con il primo, si intende il numero di posizioni, invariante, di ogni verso; il modello ritmico regola invece la distribuzione degli ictus all'interno della struttura metrica » (1976, p. 23, n. 20). L'autore precisa che solo per astrazione si possono scindere i due modelli; tuttavia la distinzione è utile per individuare versi con modello ritmico fisso (l'anapestico, ad esempio; v. ANAPESTO, ACCENTO) o variabile entro uno schema (l'endecasillabo) o del tutto libero (il settenario). Per approfondire l'argomento bisogna rifarsi alla specificità del linguaggio poetico, che si differenzia dalla lingua standard anche e soprattutto perché a livello prosodico presenta delle caratteristiche manifestazioni: « Le matrici convenzionali sembrano delle deformazioni intenzionali delle articolazioni soprasegmentali del significante: il metro, il ritmo, l'istituzione dei versi e delle strutture strofiche (rafforzati dalla rima e dall'assonanza) costituiscono una organizzazione autonoma del livello prosodico, che "iconizza" con insistenza, attraverso un gioco sapiente di parallelismi e di simmetrie alternate, il progetto paradigmc.tico del discorso poetico» (Greimas, 1972, p. 11 ). La lingua poetica, grazie alla struttura metrica, è certamente connotata rispetto alla lingua standard: la deviazione, lo scarto (evidente a livello
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Metrica
di accento e di scansione) o addirittura la « violenza organizzata » (Di Girolamo, 1976, p. 88) che il metro attualizza costituiscono senza dubbio dei fenomeni specifici della poesia, anche se non la esauriscono. Riprendendo alcune suggestioni di Jakobson, il Di Girolamo pone il verso in una situazione mediana tra due opposte sfere di attrazione: il discorso verbale piano, secondo le norme prosodiche della lingua standard e il metrema o modello metrico astratto. Il verso nasce dalla tensione fra queste sfere: discorso verbale piano ~ verso ~ metrema. Si può pertanto accettare la definizione di poesia e di verso propoposta dal Di Girolamo in questi termini (ibid., p. 104 sgg.): « Chiameremo poesia ogni testo che si componga di unità (versi), chiaramente individuate: a) da un artificio fonico (rima, assonanza, allitterazione), o ritmico; e/o b) dal modello ritmico (ricorrenza di un certo numero di ictus, a intervalli fissi o variabili); e/o c) dal modello metrico (numero delle posizioni, o, nei sistemi quantitativi, dei piedi); e/o d) dalla disposizione grafica». Ovviamente si tratta di una definizione formale, che non implica alcun criterio valutativo. Infatti risponde alle prime tre richieste anche una « poesia » del tipo: Trenta giorni ha novembre / con apri!,
giugno e settembre. / Di ventotto ce n'è uno, / tutti gli altri ne han trentuno. La filastrocca ha tanto di rima, di metro e di ritmo; ha insomma i caratteri paradigmatici del discorso poetico (è investita, direbbe Jakobson, dalla funzione poetica del linguaggio; v. LINGUAGGIO): con tutto ciò nessuno potrebbe ammettere che sia un vero messaggio artistico (v. POESIA). Si è detto che il verso è una sequenza di sillabe secondo un dato ritmo. La definizione è approssimativa, perché non tiene conto delle cosiddette figure metriche (sinalefe, dialefe, dieresi e sineresi: v. le singole voci) che modificano il computo delle sillabe: . Questa isoletta intorno ad imo ad imo (Dante): sinalefe (le vocali in corsivo vengono fuse come se costituissero a due a due un'unica sillaba). Come bevesti di Leté ancoi (Dante): dialefe (le due vocali non si fondono). Dolce color d'orientai zaffiro (Dante): dieresi (le due vocali i-e non formano dittongo e vengono computate in due sillabe). Disse: - Beatrice, loda di Dio vera (Dante): sineresi (le vocali in corsivo sono contratte in una sola sillaba). Giustamente, pertanto, il Di Girolamo afferma che la (normale) sillaba non è l'unità di misura del verso, perché il computo metrico deve tener conto delle suddette eccezioni (o figure); così come il consueto
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Metrica barbara
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accento tonico può discostarsi nel verso dall'accento metrico-ritmico o ictus. Invece di sillaba l'autore introduce il concetto di posizione come «unità minima del verso»; l'ictus « è un fenomeno prosodico che sottolinea alcune posizioni (forti e semiforti), a danno di altre (deboli)» (Di Girolamo, 1976, p. 33). Sicché il verso è caratterizzato da una struttura metrica composta da un numero preciso di posizioni; da una pausa principale alla fine della sequenza o frase ritmica e da una o più pause interne, dette cesure (v.); da una gerarchia di ictus primari e secondari (v. ACCENTO), grazie ai quali si modula il ritmo poetico. La competenza metrica permette dunque di decodificare il tipo di verso, la sua struttura metrico-ritmica (così sarà avvertito come endecasillabo il petrarchesco Fior', frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi, di ben 16 sillabe) e di collegarlo agli altri versi che formano il testo poetico, eventualmente rapportati fra loro dagli schemi strofici, dalle rime, dalle assonanze, dalle paronomasie, dagli spazi bianchi. Indicazioni bibliografiche (oltre ·gli autori citati): Beccaria, 1975; Bertinetto, Ritmo e modelli ritmici, Torino, .1973; Brik, in Todorov, 1968, p. 151 sgg.; Chatman, A théory of Meter, The Hague, 1965; Cohen, 1974; Cremante-Pazzaglia, 1973; Fubini, 1970; Galdi, 1971; Jakobson, 1973; Pighi, Studi di ritmica e metrica, Torino, 1970; Spongano, 1966; Tomasevskij, in Todorov, 1968; Wellek-Warren, 1965; Zumthor, 1973. arte del metro; métron misura. Etim.: dal gr. metriké (téchne)
=
=
METRICA BARBARA. La metrica o poesia barbara tenta di riprodurre nel sistema sillabico-accentuativo italiano la poesia classica grecoromana fondata sulla quantità (v. PIEDE), in modo che al rapporto fra lunghe e brevi corrisponda quello fra toniche ed atone. Barbare chiamò il Carducci le sue Odi perché tali sarebbero suonate agli orecchi degli antichi. « La difficoltà dell'imitazione » precisa Elwcrt, (1973, p. 172 sgg.) « stava nel fatto che la prosodia antica si basava sulla quantità delle sillabe, distinguendo fra sillabe lunghe e sillabe brevi, non solo, ma in certi versi la sillaba lunga può essere sostituita da due sillabe brevi e viceversa (_ = .... ._.), con la conseguenza che lo stesso verso, o un verso che per l'orecchio antico sonava analogo, poteva avere entro certi limiti un numero diverso di sillabe, come l'esametro, che poteva contare da tredici a diciassette sillabe ». Gli umanisti tentarono di imitare la metrica classica basandosi sul presupposto che anche in italiano era possibile definire sillabe lunghe e brevi. Ad esempio, L.B. Alberti compose questo distico: Quésta per éstrema miserabile pistola mando A te ché sprezzi / miseraménte nof. Si potrà osservare sia l'arbitrarietà del computo quantitativo sia l'in-
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Metrica barbara
naturalezza della sovrapposizione del sistema classico su quello accentuativo. Perciò nel Cinquecento si cercarono delle soluzioni di ripiego, che rispettassero la natura sillabica del verso italiano, la ~>ua struttura fissa. Si adottò in sostanza un metro equivalente: ad esempio, l'esametro fu reso con un endecasillabo sciolto piano, il senario giambico con un endecasillabo sdrucciolo (Ariosto). Ma il vero iniziatore della metrica barbara deve essere considerato il Chiabrera, il quale, prendendo come modello la poesia lirica di Orazio, ne imitò innanzi tuttole strofe e i ritmi trasponendoli in italiano mediante la combinazione di vari versi. Il Rolli, il Fantoni, il Carducci c il Pascoli non fecero che riprendere e perfezionare le soluzioni del Chiabrera. Diamo ancora la parola all'Elwert: « Quando nel 1877 il Carducci attirò l'attenzione con le sue prime Odi barbare, che suscitarono una vivace polemica, in fondo non presentava nulla di nuovo a confronto di ciò che, a partire dal Settecento, in particolare dal Chiabrera in poi, aveva costituito il fondamento dell'imitazione dei metri classici: impiego esclusivo dei versi italiani, imitazione dei versi latini con numero di sillabe realmente fisso o che si fmgeva fisso, sostituzione della quantità con l'intensità, sillaba lunga uguale ad arsi, inoltre scelta fra due possibilità: imitazione dei metri antichi, letti all'italiana (soluzione larga), ovvero (soluzione ristretta) imitazione dello schema metrico antico con adeguamento più stretto dello schema accentuativo a quello quantitativo, ma senza contraddire alla struttura della lingua italiana » (1973, p. 193 sgg.). La novità del Carducci fu il tentativo di rendere l'esametro e il distico e anche una più libera sperimentazione di metri non esclusivamente oraziani. L'esametro fu imitato con la combinazione di un settenario e di un novenario (Fra le battaglie, Omero, l l nel carme tuo sempre sonanti) o di un senario sdrucciolo e di un novenario piano (Andavano, andavano l l cullandosi lente nel sole) o :li un quinario pitt un novenario o un decasillabo (e un'aura dolce l l movendo quei fiori e gli odori) o di un ottonario e di un settenario piani (e molli d'aure ginestre l l si paravano i colli) o ancora con altre soluzioni. Il pentametro (/6rtiter il/e jacit l l qui miser ésse potést) venne reso rarissimamente con un'identica scansione metrica (spiriti réduci s6n, l l guardano e chiamano a té); di norma il Carducci, leggendo il verso all'italiana, lo traspose con un doppio settenario piano (dietro un pensier di noia l l l'aride carte bianche) o con un quinario e un settenario piani (su'! mare! Alcmane l l guida i virginei cori) o con altre soluzioni. l. Alcune strofe classiche. Ricordiamo brevemente alcune soluzioni carducciane di strofe classiche. a) il distico elegiaco: formato da un esametro e da un pentametro, il distico ebbe forme diverse, a seconda delle varie scelte metriche operate per riprodurre i due versi costitutivi (v. sopra). Diamo un esempio: La/age, io so qual sogno ti sorge dal cuore profondo, so quai perduti beni l'occhio tuo vago segue.
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b) la strofa saffica: composta di tre saffici minori e di un adonio, venne resa dal Carducci con tre endecasillabi a minore (v.) e un quinario: Mescete in vetta a/luminoso colle, mescete, amici, il biondo vino, e il sole vi si rifranga: sorridete, o belle: diman morremo. c) la strofa alcaica: composta di due endecasillabi, di un novenario e di un decasillabo alcaici, venne riprodotta dal Carducci con due doppi quinari (il primo piano, l'altro sdrucciolo), un novenario e un decasillabo: Oh quei fanali come s'inseguono accidiosi là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia sbadigliando la luce su'/ fango! d) la strofa asclepiadea: è format.a da tre asclepiadei minori (endecasillabi sdruccioli) e da un gliconeo (settenario sdrucciolo): Tu parli; e, de la voce a la molle aura lenta cedendo, si abbandona l'anima, del tuo parlar su l'onde carezzevoli, e a strane piaghe naviga. La strofa asclepiadea può essere riprodotta anche con due doppi quinari sdruccioli e un settenario sdrucciolo; oppure con una coppia di due quinari sdruccioli, un settenario piano e uno sdrucciolo. e) la strofa archilochea: è un distico composto di un trimetro giambico e di un elegiambo; il Carducci lo rese con un endecasillabo sdrucciolo e due settenari (l'uno piano e l'altro sdrucciolo): Ma voi volate dal mio cuor, com'aquile giovinette dal nido alpestre a i primi zeffiri. f) la strofa giambica: è resa in vari modi, con strofe di quattro o cinque versi: quattro endecasillabi sdruccioli; oppure un endecasillabo sdrucciolo più un settenario sdrucciolo più un endecasillabo sdrucciolo più un settenario sdrucciolo: O des'iata verde solitudine fungi al rumor de gli uomini! qui due con noi divini amici vengono, vino ed amore, o Lidia. La strofa giambica può essere riprodotta anche con una strofa di cinque endecasillabi sdruccioli.
METRICA NOVECENTESCA. Un momento significativo dell'evoluzione del sistema metrico italiano è costituito dall'apparizione delle Odi barbare del Carducci (1877, 1880, 1881; V. METRICA BARBARA), nelle quali la soppressione della rima e l'ampliamento delle misure tradizionali, specie con l'esametro e il pentametro, determinano la messa
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in risalto degli effetti ritmici del verso, svariante fra le dodici e le diciassette sillabe (v. ESAMETRO). Le soluzioni prosodiche derivanti dalla combinazione degli addendi (cfr. Contini, 1970, p. 594 sgg.) possono aver sollecitato il Pascoli a sperimentare nuovi moduli accentuativi, partendo dalle misure tradizionali sentite però come strutture di piedi (v.) ritmici. Così il novenario è anapestico ad attacco giambico, anapestico, trocaico; e miscelazioni di tali piedi si hanno in altri versi, con la creazione di inediti schemi metrici sovrapposti, per così dire, alle forme consuete (terzine, quartine ecc.). Come osserva giustamente il Beccaria (1975 a, p. 211) (al quale rimandiamo per un'analisi minuziosa del verso pascoliano; si vedano anche: E. Bigi, La metrica delle poesie italiane del Pascoli,· in AA.VV., Studi per il centenario della nascita di G.P., Bologna, 1962, p. 9 sgg; G. Barberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del P., Messina-Firenze, 1966, p. 472 sgg.): << La negazione del passato e l'innovazione in genere non esorbita vistosamente dai moduli che la tradizione letteraria aveva reso per secoli stabile, ed alla quale il Pascoli non sa o non vuole ribellarsi ». Di qui il rifiuto del verso libero nella nota risposta all'inchiesta di Marinetti. In D'Annunzio le innovazioni riguardano soprattutto la varietà delle rime e delle misure sia versali sia strofiche; nella Laus vitae, ad esempio, si hanno ventun parti diseguali composte ognuna da strofe di ventun versi prevalentemente novenari. « Da avvertire espressamente che il novenario, diversamente che nel Pascoli, designa una mera unità sillabica, con varietà di accentazione e perfino numero di accenti non costante: il D'Annunzio si riserva una grande libertà di modulazione melodica, costringendosi a regole rigide solo nella struttura macroscopica » (Contini, ibid., p. 598). Nell'Alcyone si hanno strofe eguali per singoli testi e di lunghezza variabile (32 versi nella Pioggia nel Pineto, 39 nell'lppocampo, «strofe lunga» di 100 versi nell'Onda). La misura dei versi è anch'essa varia, dal ternario al senario al novenario di preferenza. Le innovazioni fondamentali nella tradizione metrica fra Ottocento e Novecento sono il verso libero (poi continuato dalle parole in libertà) e il poema in prosa. In entrambi i casi si può parlare di importazioni francesi, nate in terreno simbolista a partire dalle Illuminations di Rimbaud, anche se nella lirica del nostro Novecento il verso libero, in Marinetti, Lucini, Soffici, Campana, Bacchelli, Jahier - per citare alcuni casi significativi - nasce dall'unione di due versi normali con libere variazioni e «liberissimo regime accentuale» (Pazzaglia, 1974, p. 240 sgg.). Ad esempio, Viaggio a Montevideo di Campana offre un campionario di struttura versoliberista assai significativa: lo vidi dal ponte della nave l i colli di Spagna l svanire, nel verde l dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando l come una melodia: l d'ignota scena fanciulla sola l come una melodia l blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola ... « Il riconoscere, in una linea di quattordici
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sillabe, un raggruppamento di sei c uno di otto, non deve indurre a parlare scnz'altro di senari e ottonari, dato che quantità simili in un impianto strutturale diverso assumono una differenza qualitativa. Il modello del nuovo verso non andrà quindi ricondotto alla tradizione sulla base di misure aritmetiche, ma andrà interpretato nella sua relazione dialettica con essa e sulla base dei nuovi principi mensurali; essi sono fondati. a loro volta, su una nuova interpretazione del ritmo, del gesto, del canto; su una nuova idea della "natura", della presenza umana quale si esprime nella modulazione e articolazione del discorso» (Pazzaglia, ibid., p. 231 ). I Poemi lirici 1914 di Bacchelli sono riconducibili, secondo il Contini e il Pazzaglia, al verso lungo di Whitman, che influì anche su Jahier e Pavese. (Ma per quest'ultimo si veda la riserva di Di Girolamo, 1976, p. 186 n. 7, per il quale il verso pavesiano di Lavorare stanca è di ritmo anapestico, più vicino semmai all'esametro del Pascoli). Il verso libero di Bacchelli (ad esempio: Improvvisa la fantasia m'ha condotto per le strade l rettilinee del Bolognese, bordate di rami l freddolosi, toccati dall'ottobre, con prospettive l di persiane verdi allineate sulle facciate) ha quantità sillabiche omogenee (fra le 15 e le 17) e quattro tempi accentuali, che creano un ritmo costante. Potremo dire con Fortini (Saggi italiani, Bari, 1974, p. 319 sgg.) che vi sono tre tipi fondamentali di verso libero, rispettivamente a tre, quattro e cinque accenti maggiori. Il primo modulo deriva da D'Annunzio (Maia) «e si ritrova in Cardarelli, nel Quasimodo degli Anni Trenta, in De Libero e in altri, oggi in Volponi e in Zanzotto ». Il secondo tipo è il verso fondato su quattro accenti principali: Tornerebbero intorno alla donna i villani (Pavese); è il verso molto usato da Montale « c che spesso si confonde con l'endecasillabo ipermetro ». Il terzo tipo ha cinque accenti principali: Ho visto alzarsi il fagiano. Gridar « ghereghé! » (Bartolini). Con le « parole in libertà » di Marinetti e del futurismo il verso libero è nello stesso tempo continuato e distrutto (sterco-di-cavallo orina bidet ammoniaca odore-tipografico): l'eversione sintattico-nominale, la riproduzione fonico-onomatopcica, l'ambizione sinestetica ecc. danno luogo a un verso prevalentemente visivo, con risultati b-!n più modesti di quelli conseguiti da altri artisti sollecitati dal futurismo (basti pensare ai Calligrames di Apollinaire, al dadaismo e al cubofuturismo russo). Al limite, questa esperienza fondamentalmente atonale si ritrova nella metrica della neoavanguardia: ah il mio sonno: e ah? e involuzione? e ah e oh? devoluzione? (e uh?) l e volizione! e nel tuo aspetto e infinito e generantur! l ex putrefactione; complesse terre; ex superflui/ate (Sanguineti); nella serialità dei gruppi frastici si nota solo una costante ritmica. Un altro aspetto innovativo fra Ottocentq e Novecento è il mutato rapporto che si instaura fra prosa e poesia (perfettamente identificate nei Canti orfici di Campana, secondo il modello rimbaudiano): mentre
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il gusto simbolista e la poetica del frammentismo accentuano i valori poetici della prosa, sul versante crepuscolare si assiste a una parallela diminuzione del registro poetico verso quello prosastico (ed è innegabile l'azione rinnovatrice esercitata dal modello del poème en prose dopo D'Annunzio). Quanto a Gozzano, occorre precisare con Contini (Letteratura dell'Italia unita, Firenze, 1968, p. 636) che « non procede affatto, come il Corazzini meno scolastico o il Govoni o il giovane Palazzeschi, sulla strada della liberazione dal verso tradizionale, predicata per esempio nella sua città da E. Thovez. 11 suo verso, e in particolare l'endecasillabo in cui fa le sue prove migliori, applica una sonorità dannunziana e una dilatazione pascoliana a una materia prosaica che esse sollevano e nobilitano quasi epicamente ... ». Anche le forme poetiche privilegiate da Gozzano sono assai tradizionali e non escludono sonetti, terzine dantesche e soprattutto sestine (con due rime invece che tre); Paolo e Virginia è addirittura una originalissima canzone. La sua principale innovazione è il doppio novenario con rime al mezzo (es. L 'amica di Nonna Speranza). La linea del raffrenamento discorsivo degli empiti lirici dannunziani trova alcuni momenti salienti nel « crepuscolarismo grottesco » di Palazzeschi (si pensi a una lirica come La passeggiata: - Andiamo? l -Andiamo pure. l All'arte del ricamo, l fabbrica di passamanerie. l ordinazioni, forniture. l Sorelle Purtaré. l Alla città di Parigi. l Modes, noul'eauté ... ) e particolarmente nello Sbarbaro di Pianissimo, che recupera l'endecasillabo e il settenario con una precisa volontà di controcanto: E gli alberi sono alberi, le case l sono case, le donne l che passano son donne, e tutto è quello l che è, soltanto quel che è. Si potrebbe dire che tale linea costituisca una costante della « tradizione del nuovo » novecentesca, se è vero che essa è ripresa con singolare originalità da Il 'ultimo, sorprendente Montale (da Satura ai Diari). Bisogr1erà allora concludere col Contini (ibid., p. 795) che « Ungaretti è stato con L'allegria, da alcuni lettori ancora considerata il suo vertice, e comunque il caso-limite delle sue operazioni prosodiche, il primo poeta vero (prescindendosi dunque dai tentativi futuristi) che abbia introdotto nel verso italiano autentiche innovazioni formali ». Nella sua esperienza culturale convivono i precedenti del vers fibre, le esperienze esemplari delle llluminations di Rimbaud e del poema di Mallarmé, Un coup de dés ( 1897), in cui è abolita la punteggiatura come poi nelle prove futuriste; e anche, inevitabilmente, il D'Annunzio ritmico di Laus 11itae c di Alcyone. La fulmineità degli enunciati ungarettiani, sillabati nei « versicoli » (che qualcuno confrontò con gli haikai giapponesi), rompe anche gli schemi metrici tradizionali, sicché i raggruppamenti di versi sono scanditi da intensi spazi bianchi. Anche nel ritorno alle misure lunghe (endecasillabi, novenari, settenari), a partire da Sentimento del tempo, è da vedere una sapiente ricerca interna di arsi fortemente accentate, e dunque di piedi (Contini). Nell'ambito della tradizione è da porre Saba,
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il cui uso semantico della rima non sarà senza un significato per poeti come Caproni e Penna (e in Caproni la ripresa delle forme tradizionali - dalla quartina al sonetto alle canzonette - allude a un 'intenzionale rottura con il dominante gusto ermetico e sottende una volontà « popolare » di canto aperto). Con Montale, secondo un'acuta interpretazione di Barberi Squarotti (Gli Inferi e il Labirinto, Bologna, 1974, p. 196 sgg.), la tradizione sarebbe sottoposta a una sottile « ironia metrica »: « Montale conserva quasi tutte le parti delle antiche strutture: la rima, la strofa, l'endecasillabo e il settenat:io regolari; ma immediatamente ne varia la regolarità, ne corrode gli schemi dall'interno ». L'uso dell'assonanza, della paronomasia, della quasi-rima o della rima imperfetta o ipermetra (v.), l'occultamento in posizioni decentrate di mots-clé (si pensi al valore delle rime al mezzo e ai movimenti ritmici che eccedono le misure tradizionali; e n'è prova la scomposizione di A Liuba che parte fatta da Avalle (in Tre saggi montaliani, Torino, 1970, p. 91 sgg.): tutti questi «artifici» compongono uno sperimentalismo cauto, volto a creare un verso narrativo, talora di grande latitudine (dal picco nascosto rispondono vampate di magnesio). Nella metrica del Novecento convivono, in conclusione, una tendenza che innova dall'interno strutture e forme tradizionali (l 'endecasillabo, la rima, la strofa) coniugandole al verso libero in una varia articolazione ritmica e mensurale; e una tendenza più eversiva, che si contrappone al sistema stabilito in diversi modi, ora puntando sulla disgregazione atomistica delle parole liberate da ogni costrutto rimico, ora su moduli atonali, ora su soluzioni linguistiche che volutamente non distinguono prosa e poesia. Per i riferimenti bibliografici rimandiamo a Di Girolamo, 1976 c a AA.VV., 1972 c. Si vedano inoltre: A. Pichera, in «Quaderni urbinati », 1, 1966 e 7, 1969; G.B. Pighi, Studi di ritmica e metrica, Torino. 1970; A. Giuliani, l novissimi, Torino, 1972; e naturalmente le ben note opere sul Novecento di De Robertis, Gargiulo, Bigongiari. Macrì e Contini. MITO. Secondo Frye il mito è una narrazione in cui alcuni personaggi sono esseri sovrumani che fanno cose che « accadono solo nelle favole »; perciò narrazione convenzionale o stilizzata che non si può completamente inserire nell'ambito della plausibilità o del realismo (cfr. Frye, 1969, p. 209 sgg.). Secondo Scholes e Kellog, 1970, il mito è alla base dell'epica tradizionale in quanto storia conservata e ricreata dal narratore. Di qui il significato di mito (mythos) come trama o fabula, ossia come struttura narrativa di ogni opera letteraria mimetica (Arist., Poetica, 1450, 20 sgg.). Etim.: dal gr. mythos favola, ma anche narrazione. parola, discorso.
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Modello
MODELLO. Il modello è la rappresentazione formale di un processo o di una serie di fenomeni. Ad esempio, si può costruire un modello che spieghi i rapporti di parentela, la struttura del mito o delle favole di magia, gli enunciati di una determinata lingua. Nell'ipotesi serniologica anche un'opera letteraria è sottcsa da un modello, che evidenzia le complesse (e nascoste) isotopie del testo (v.) e permette di comprendere e decifrare il senso del messaggio nel suo funzionamento specificamente letterario. Si veda anche STRUTTURALISMO. MONEMA. Secondo Martinet (v. LINGUISTICA, 2) il monema è l'unità minima di prima articolazione, cioè dotata di significato. Nella parola ritornate si hanno tre monemi: ri-, torn-, -ate. I monemi possono essere parole, radicali, affissi, suffissi, desinenze. Martinet distingue manemi autonomi, monemi funzionali, monemi dipendenti. l! morfema è un monema grammaticale (desinenze verbali, affissi ecc.); in ritornate sia ri- sia -ate sono morfemi, mentre tom- è più esattamente un lessema (ma la definizione non è univoca: v. LESSEMA). MONOLINGUISMO. L'opposizione monolinguismo/plurilinguismo, su cui ha insistito soprattutto il Contini, concerne il tipo di selezione linguistica e stilistica che è alla base di una determinata scrittura letteraria. Quando si dice che il Canzoniere del Petrarca è il modello del monolinguismo della scrittura aulica tradizionale, rispetto al plurilinguismo della Divina Commedia, si istituisce una sorta di paradigma assiale del sistema letterario italiano che distingue abbastanza nettamente la tradizione culta, legata a un forte « ritegno » della lingua letteraria, dalle varie forme sperimentali, già vive nei filoni non toscani della letteratura delle origini, in cui si attua una mescolanza di più lingue, di lingua c dialetto, di vari strati c registri della lingua d'uso, talora recuperati in senso sperimentale (si pensi alla scapigliatura o a Gadda). MONOLOGO. Il monologo è una modalità narrativa e teatrale consistente nel lasciare la parola a un personaggio, il quale rivela i suoi pensieri, anche quelli più reconditi, o si abbandona alla rievocazione memoriale, all'introspezione, ai « sogni ad occhi aperti » ecc. Una forma antica di monologo è il soliloquio, che è una sorta di confessione abbastanza controllata perché presuppone un interlocutore, anche se fisicamente non presente, cioè una persona a cui rivolgersi e che ascolti il discorso dell'io monologantc: si pensi al famoso soliloquio di don Abbondio quando si avvia al castello dell'lnnominato. Una forma moderna di monologo è il cosiddetto monologo interiore, che viene spesso identificato col « flusso di coscienza » joyciano (cfr. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, 1971, p. 594 sgg.). A nostro avviso il monologo interiore è una forma di autoanalisi del personaggio, nella cui vita interiore siamo direttamente introdotti senza alcun intervento
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lvlotivazione
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di spiegazione o di commento da parte dell'autore. L'emergenza dell'inconscio, il giustapporsi di pensieri intimi irrelati - secondo la tecnica deli'Ulisse di Joyce - rappresenta, per così dire, la forma estrema del monologo interiore, ciò che si chiama stream of consciousness (v. FLUSSO DI COSCIENZA).
MORFEMA. Nella linguistica americana il morfema ha lo stesso significato del monema per i funzionalisti (v. LINGUISTICA, 2; MONEMA), ossia è la forma verbale minima individuata in un enunciato (in opposizione al fonema). Nella parola incapaci sia in- sia la desinenza -i sono dei morfemi; l'insieme della parola è un morfema composto. Per Martinet il morfema è un monema grammaticale in opposizione al lessema (unità lessicale); sono morfemi le desinenze verb::di, gli affissi ecc. MORFOLOGIA. Mentre nella grammatica tradizionale la morfologia è lo studio delle forme o parti del discorso, nella linguistica moderna essa concerne la descrizione delle regole combinatori.:! delle parole (formazione e flessione). Si chiama morfosintassi lo studio globale del comportamento delle parole nella formazione degli enunciati. Etim.: dal gr. morphé = forma, l6gos = discorso, scienza. MOT-CLÉ. In senso statistico si chiama mot-clé ( = parola chiave) il termine che ricorre con particolare frequenza (superiore alla media) in un determinato testo o insieme di testi. Nell'analisi stilistica di un testo letterario occorre preliminarmente stabilire se un mot-clé sia davvero pertinente per la comprensione del senso, se cioè la parola sia un connotatore (v.). Il criterio della frequenza statistica non è valido in assoluto, anche se può costituire un utile strumento propedeutico. Sull'argomento si veda Marchese, 1974, p. 74 sgg., dove si rileva che nella poesia La madre di Ungaretti i mots-clé « come » e « quando » sono effettivamente i connotatori essenziali del testo.
MOTIVAZIONE. Com'è noto, per Saussure il rapporto fra significante e significato è immotivato (v. LINGUISTICA, 1), ossia non v'è nessuna ragione per cui far corrispondere a una serie di fo'lemi un significato (cane, chien, dog, perro ecc.): solo l'onomatopea presenterebbe un rapporto motivato fra suoni e senso. Secondo Benveniste sarebbe immotivata solo la relazione fra il segno e il referente (la cosa, la realtà non linguistica). Diverso è il discorso per il segno letterario. I nnanzi tutto, la lingua poetica (o, più latamente, letteraria) è una lingua «seconda», è più esattamente una scrittura che si fonda sulla lingua naturale filtrandola attraverso molteplici mediazioni culturali (codici stilistici e retorici, generi ecc.; v. ISTITUTI LETTERARI). In quanto« sistema di simulazione secondario » (Lotman) la letteratura si serve della
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Mottetto
lingua come materiale, ma il suo funzionamento non è isomorfo a quello linguistico. E caratteristico del segno letterario la correlazione fra il piano dell'espressione e il piano del contenuto, e in particolare fra la forma dell'espressione o connotazione e la forma del contenuto, in cui il messaggio assume una precisa strutturazione. Pertanto il segno letterario è sempre motivato; esiste un rapporto iconico che motiva il significante al significato e fa si che il discorso letterario si moduli secondo una struttura translinguistica e, in certo modo, metalinguistica. Caratteristica peculiare del discorso letterario è la sua totale semantizzazione: ogni elemento fonologico e morfosintattico, proprio del piano dell'espressione, assume una valenza significativa; o meglio, interagisce col piano del contenuto, attivando il senso specifico del testo (v. ARBITRARIETÀ, CORRELAZIONE, DISCORSO, FORMA).
MOTTETTO. Componimento poetico di antica ascendenza francese,
formato da una quartina e da una terzina, di solito con nme incatenate. Non ha una tradizione nella letteratura italiana, salvo i modernissimi mottetti di Montale (Le occasioni), poesie brevi e metricamente assai varie, anche se spesso strutturate in due strofe (ad esempio, due quartine). Etim.: dal fr. mot = parola, dal lat. volgare muttum.
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NARRATIVA. t difficile dare una definizione univoca della narrativa, che solitamente è circoscritta al romanzo e al racconto. Oggi le metodologie strutturalistiche considerano narrative tutte le opere in cui sia rappresentato un fatto, dalla favola al mito al poema epico alla novella. In modo molto elementare, un racconto (un testo narrativo) deve comprendere una o più sequenze (v.), al cui centro vi sia almeno un personaggio con determinate qualità. Perché si abbia un racconto è necessario che vi sia un processo di trasformazione (v.) riguardante le qualità o la situazione del personaggio nella sequenza iniziale. Da Propp a Frye a Mircea Eliade a Lévi-Strauss i legami fra l'arte del racconto e le antiche tradizioni culturali, mitiche e leggendarie dei popoli sono state sviscerate alla ricerca, forse utopica, di un grande modello originario, capace di spiegare, se non tutti i racconti, almeno quelli archetipici, che mascherano questa sostanziale unità di fondo variando le forme dei contenuti, mutando i connotati degli attori, le circostanze di luogo e di tempo. Dietro il romance, sec;:mdo Frye, c'è « la ricerca portata a termine con successo, che si ha di solito passando per tre stadi: lo stadio del viaggio pieno di pericoli e delle avventure preliminari; la lotta cruciale che è di solito una battaglia in cui l'eroe o il suo nemico o tutti e due devono morire; infine l'esaltazione dell'eroe. Possiamo chiamare questi tre stadi, usando termini greci, rispettivamente l'agon o conflitto, il pathos o lotta mortale, e la anagnorisis o scoperta o agnizione dell'eroe, che si è rivelato come eroe anche se non sopravvive al conflitto » (Frye, 1969, p. 248). Naturalmente si tratta di un tipo particolare di narrativa, che esalta l'avventura, come il romanzo cavalleresco medievale o certe forme epiche, dove si assiste a un conflitto fra un eroe protagonista e un avvl!rsario antagonista. Quanto più questo racconto si avvicina al mito, tanto più i per-
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Narrati1•a
sonaggi rivestono attribuzioni antitetiche divine e infernali. Lo stesso Frye caratterizza il racconto tragico come un passaggio da una situazione iniziale di « disordine » o « squilibrio » (hamartia), all'interno di un ordine morale o sociale, a una situazione finale di ordine ristabilito (nemesis) mediante il sacrificio dell'eroe, che sceglie di morire (mornento dell'hybris). Il racconto comico è impostato normalmente sul desiderio realizzato da parte del protagonista mediante il superamento di diversi ostacoli, connessi a un ambiente sociale e a personaggi negativi. Per una rapida informazione sugli aspetti storici della narrativa si vedano Je VOCi: PROSA, ROMANZO, POEMA, COMMEDIA, DRAMMA. Un momento assiale dei moderni studi della narrativa è costituito dall'analisi « morfologica » di Propp. In una serie di fiabe incentrate sul tema della « persecuzione della figliastra », Io studioso russo rilevava che il personaggio incontra nel bosco, in diversi racconti, prima Gelo. poi il genio dei boschi e infine l'orso. Si trattava, in sostanza, dell'identica favola, perché « Gelo, il genio del bosco e l'orso compiono in forma diversa un'identica azione». Di qui la scoperta del concetto di funzione, ossia « l'azione del personaggio dal punto di vista del suo significato per l'andamento della narrazione» (Propp, 1966, p. 215). Nella sua analisi delle fiabe di magia, Propp poteva stabilire che le funzioni sono gli elementi stabili e costanti, indipendentemente dall'identità dell'esecutore e dal modo dell'esecuzione; che gli altri elementi sono variabili (fra cui personaggi e stile); che le funzioni sono 31 e la loro sequenza cronologica è sempre identica. Fra le funzioni ricordiamo, ad esempio: situazione iniziale, allontanamento, divieto, infrazione, investigazione, delazione, tranello, danneggiamento, partenza, conseguimento del mezzo magico, lotta, marchiatura, vittoria, ritorno, persecuzione, salvataggio, arrivo in incognito, compito difficile, adempimento, smascheramento, punizione, nozze (cfr. per un'applicazione alla letteratura, Marchese, 1974, p. 185, sgg.). In un altro libro (Edipo alla luce del folclore, Torino, 1975), Propp analizza la tragedia di Edipo in un ampio contesto etnografico al cui centro c'è sempre un regicidio, la caduta del vecchio re ad opera dell'eroe che ne sposa la figlia, conforme ad uno schema iniziatico tipico dei grandi personaggi, da Ciro a Mosé a Romolo. Naturalmente nessun folclorista ha mai pensato di appiattire le opere inventive al livello dell'immaginario collettivo e anonimo che sta alle loro spalle dagli albori della storia. Lo scrittore manipola più o meno consciamente motivi, trame, topoi, ruoli e funzioni e ne cava fabulae sempre diverse, intrecci personali, personaggi caricati di un ethos storico e psicologico inevitabilmente immerso in una certa società. Probabilmente il racconto nasce dal radicale bisogno di affabulazione insito nell'inconscio dell'uomo: ognuno di noi deve inventare delle storie, in cui proiettarsi come protagonista, e ascoltarne altre dove ri-
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Narrativu
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viva il suo alter ego, sublimato ed eroicizzato. A questo livello il sogno si prolunga nel film, la pubblicità nel fumetto, la mitopoiesi individuale e di massa nel romanzo. Non è stato forse ancora studiato a fondo il rapporto che lega il narratore al lettore, quel canale complesso attraverso cui scorrono il flusso e il riflusso dell'immaginazione, i fantasmi di una creazione bipolare e inconclusa. Perché inseguiamo queste figure fittizie come se fossero vere, viviamo il loro destino come una catarsi, le investiamo di tanta responsabilità ed esemplarità nel bene e nel male? Bourneuf e Ouellet (1976 ), alludono per inciso al bisogno di meraviglioso e di angoscia che attrae contraddittoriamente l'uomo. Forse il racconto è il luogo di una più ampia sublimazione dell'Eros e del Thanatos freudiani, il terreno di incontro e di scontro di progetti esistenziali in bilico fra la realtà e l'utopia, l'idealità e il rimosso, il dovere e il censurato, la bontà e il sadomasochismo, il positivo e l'evasione. Madame Bovary è in questo senso il paradigma del romanzo, la mitizzazione e la demistificazione del romantico. l. Elementi di narratologia. La narratologia si occupa dello studio della narrativa (o narratività, come alcuni preferiscono dire per evidenziare l'aspetto teorico dell'analisi), in senso sincronico e paradigmatico, prescindendo cioè da una verifica diacronica dell'origine e dell'evoluzione della narrativa. Claude Bremond fonda la sua tipologia narrativa sui differenti mezzi con cui si realizza il processo di trasformazione o mediazione. « Si metteranno anzitutto in opposizione un processo di miglioramento e di degradazione, a seconda che si passi da uno stato insoddisfacente a uno stato soddisfacente (per il p~rso naggio) o viceversa. I processi di miglioramento, a loro volta, si suddividono in: compimento di un dovere da parte dell'eroe c aiuto da parte di un alleato. Per distinguere, in un momento successivo, tra i diversi compimenti del dovere, si tien conto dei fattori che seguono: a) il momento, nella cronologia narrativa, in cui l'eroe si procura i mezzi che gli permettono di raggiungere il suo scopo; b) la struttura interna dell'atto di acquisizione; c) le relazioni tra l'eroe e il precedente possessore di questi mezzi. Procedendo ancora con la specificazione (che non diventa mai pertanto un'enumerazione pura e semplice, ma resta sempre la messa in evidenza di possibilità strutturali dell'intreccio), si arriva a caratterizzare molto da vicino l'organizzazione di qualunque racconto particolare » (Ducrot-Todorov, 1972, p. 325). Il racconto implica sempre degli interessi umani, un progetto, nei cui confronti gli eventi si strutturano in sequenze che impongono scelte binarie:
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Narrativa
Miglioramento da ottenere -
Peggioramento prevedibile -
processo di miglioramento
~
{
miglioramento ottenuto miglioramento non ottenuto
nessun processo di miglioramento processo di peggioramento
~
{
peggioramento prodotto peggioramento evitato
nessun processo di peggioramento
Alla base di ogni racconto ci sono dunque un processo di miglioramento e un processo di peggioramento. Mettiamoci nell'ottica del beneficiario del miglioramento: il suo stato iniziale di mancanza è dovuto ad un ostacolo, che viene eliminato nel corso del processo di miglioramento, grazie a certi mezzi che intervengono come fattori positivi: Miglioramento da ottenere
l
t l
Ostacolo da eliminare
t
Mezzi possibili Processo di miglioramento
Processo di eliminazione
Utilizzazione dei mezzi
Miglioramento ottenuto
Ostacolo eliminato
Successo dei mezzi
Se il miglioramento non è casuale ma dovuto all'iniziativa di un agente, si ha un compito da eseguire: l'agente è allora l'alleato del beneficiario passivo e l'ostacolo può concretarsi in un antagonista. Il narratore potrà precisare la natura dell'ostacolo e la struttura dei mezzi usati per eliminarlo. Se i mezzi difettano all'agente (intellettualmente o materialmente), la carenza caratterizzerà una fase di peggioramento con un problema da risolvere. Anche a questo punto la scelta sarà binaria: o le cose si mettono a posto da sole o interverrà un agente a sistemarle, un nuovo alleato. L'intervento dell'alleato può non essere motivato dal narratore (aiuto involontario o casuale) oppure può esse-
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Narrativa
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re motivato: l'aiuto si inserisce allora in uno scambio di servizi come contropartita ad una precedente prestazione (alleato socio), come riconoscimento di un servigio passato (alleato debitore), come pretesa di un compenso (alleato creditore). Per ogni caso si hanno diverse strutture del racconto. L'ostacolo all'esecuzione di un compito può incarnar:;i in un avversario che deve essere eliminato. L'iniziativa dell'agente può assumere due forme: pacifica, se l'agente trasforma l'avversario in alleato tramite la negoziazione; ostile, se l'agente danneggia l'avversario tramite l'aggressione. Quest'ultima sequenza comporta, nella prospettiva dell'aggredito, un pericolo e un conseguente comportamento protettivo: Prospettiva dell'aggredito
Prospettiva dell'aggressore Avversario da eliminare
l
t
Danno da infliggere
t
vs.
Pericolo da evitare
t
Processo di eliminazione
Processo aggressivo
vs.
Processo protettivo
Avversario eliminato
Danno inflitto
vs.
Fallimento della persecuzione
t
t
Uno degli aspetti dell'aggressione è la trappola: « tendere la trappola significa agire in modo che l'aggredito anziché proteggersi come potrebbe, cooperi a sua insaputa con l'aggressore ... La trappola si realizza in tre tempi: dapprima un inganno; poi, se questo rièsce, un errore dell'ingannato; infine, se il processo fraudolento è portato a termine, lo sfruttamento ad opera dell'ingannatore del vantaggio acquisito che pone alla sua mercé un avversario disarmato» (Bremond, in AA.VV., 1969 b, p. 111 ). Fra i meccanismi di peggioramento il Bremond ricorda l'errore («un compito eseguito all'inverso»), il sacrificio («un comportamento volontario senza obbligo e ricompensa » ), l'aggressione subita, il castigo ecc. Il metodo di Bremond, teso a disegnare un reticolo integrale delle scelte, delle sequenze e dei ruoli, ci presenta un paradigma puramente logico, e quindi astratto, delle situazioni narrative. In un libro più recente (Logique du récit, Paris, 1973, tr. it. Milano, 1977), Bremond considera il racconto come una concatenazione di ruoli e non più come una sequenza di azioni. La funzione narrativa è il rap-
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Narrativa
porto fra un personaggio-soggetto e un processo-predicato. Dovendo definire i ruoli possbiili, Bremond distingue innanzi tutto due grandi categorie: paziente e agente; il paziente può subire un processo di miglioramento o di degradazione: essere informato o privato di informazioni, soddisfatto o insoddisfatto ecc.; protetto o frustrato e così via. L'agente sarà influenzatore, miglioratore o degradatore, protettore e frustratore, con una nutrita serie eli specificazioni che portano l'autore a costruire un complesso paradigma in cui si tiene conto delle persone (agente e paziente), della volontarietà o meno del processo, delle fasi, dei tipi di processo, delle relazioni tra le varie fasi. Per un 'analisi approfondita di questi problemi si rimanda a Segre (1974, p. 3 sgg.). Dagli schemi funzionali di Propp deriva il modello attanziale (v. ATTANTE) di Greimas, mentre Genot, t 970, integra lo statuto dei ruoli con uno schema proccssuale che indica le azioni prodotte nel racconto (cfr. Marchese, 1974, p. t 88 sgg.). Si deve a Roland Barthes, probabilmente, la più chiara esposizione di una metodica volta ad analizzare il testo narrativo a tre livelli: il livello delle funzioni, delle azioni e del discorso (o narrazione in senso proprio). Considerato il racconto come una grande frase, i cui elementi intrattengono due tipi di relazioni; distribuzionali (sullo stesso livello) e integrative (da un livello all'altro), Barthcs afferma che l'analisi non potrà mai cogliere il senso del testo sull'unico livello orizzontale, ma solo grazie a una progressiva integrazione « verticale » dei diversi significati. Occorre innanzi tutto definire le funzioni come le più piccole unità narrative, unità di contenuto che sono anche termini di una correlazione. Esse si distinguono qualitativamente secondo il seguente schema: f Nuclei (o funzioni cardinali)
FUNZIONI
l
INDIZI
{ Indizi Informanti
Catalisi
Le funzioni sono unità distribuzionali, gli indizi unità integrative, che trovano il loro senso al livello superiore d eli 'azioni! dei personaggi. Una serie logica di nuclei uniti tra loro da una relazione di solidarietà costituisce la sequenza (v.), sempre nominabile (saluto, incontro, ricerca ecc.). Per un'analisi strutturale della l a giornata del Decameron si veda Marchese, 1974, p. 237 sgg. Tzvetan Todorov propone un tipo di analisi del racconto che potrebbe essere definita sintattica e trasformazionale. Studiando, ad esempio, il Decameron, egli considera i personaggi come soggetti o oggetti delle azioni (agenti, in senso lato); essi hanno determinate qualità o si trovano in determinate situazioni (sono astuti, sciocchi, crudeli, ge-
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N.arrativa
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nerosi, felici ecc.); anche il loro stato sociale rientra in queste attribuzioni. Le azioni fondamentali del Decameron sono tre: modificare la situazione, compiere un misfatto, punire. Qualità e azioni possono risultare negate ed opposte (generosità/avarizia, ad esempio). Le azioni, infine, possono indicare (attraverso il modo verbale, specialmente) un fatto, un comando, un obbligo oppure un desiderio (cfr. Todorov, 1969). Todorov si serve di alcuni simboli per riassumere questi dati:
X, Y... A,B,C ... a, b, c ... -A, non A ...
+
personaggi qualità e stati a) modificare la situazione azioni b) compiere un misfatto c) punire negazione e opposizione di qualità e stati segno della consecuzione (rapporto di successione delle sequenze) segno d'implicazione causale (consequenzialità o risultato dell'azione)
Notevole nel Decameron l'azione di travestimento e di smascheramento, connessa al verbo a (il travestimento, la mistific:1zione sono infatti una forma di modificazione della realtà), come pure la modificazione ottenuta con un abile gioco di parole (si ricordi Chichibio), con lo scambio ecc. Le azioni b e c sono strettamente collegate: normalmente il misfatto è la violazione di uno stato sociale (frequenti, ad esempio, gli inganni matrimoniali e i peccati contro la castità), cui fa seguito, generalmente, il tentativo di evitare la punizione. L'antitesi « verità-menzogna », « essenza-apparenza » è uno dei predicati più comuni del libro. Un modello elementare di racconto è il seguente: XA + Y-A~Xa~ YA X è innamorato (A), mentre Y non lo è; allora X con uno stratagemma modifica la situazione (a) in modo che alla fine Y si innamori (è un motivo molto comune nel Decameron). 2. Semiologia del testo narrativo. Una diversa prospettiva di analisi ci è offerta dagli studiosi che, rinunciando ad uno schema astratto e aprioristico (modello) come codice di riferimento onnicomprensivo di ogni racconto, tentano di definire la qualità di un testo determinato mettendo in luce la sua struttura, l'intreccio narrativo, le relazioni temporali, le modalità della rappresentazione ecc. Una metodologia di questo tipo offre il vantaggio di ancorare il discorso teorico (necessariamente definitorio e paradigmatico) alla verifica concreta dei testi narrativi. Ci riferiamo, in particolare, a Todorov, 1971, e soprattutto a Genette, 1976 (per una panoramica generale si rimanda a BourneufOuellet, 1976). Elemento costante della narrativa è il suo essere racconto, discorso
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Narrativa
narrativo: il romanziere, interponendosi fra il lettore e la realtà, narra una determinata storia, una successione di avvenimenti concatenati (aspetto causale) nel tempo (aspetto temporale) da un inizio ad una fine. Si badi che la storia può anche essere una successione di situazioni psicologiche o problematiche, di stati d'animo, di meditazioni, di flussi di coscienza e così via, come nel racconto introspettivo. Si intende qui per storia (o diegèsi) sia il contenuto narrativo in senso lato sia la strutturazione causale-temporale delle azioni, cioè la fabula dei formalisti russi. Il racconto è dunque la forma specifica, cioè testuale, che la storia assume per volere del narratore, a partire dalla sua enunciazione o istanza narrativa. Il racconto testuale può anche essere chiamato intreccio, se si vuoi sottolineare lo scarto dalla fabula, che si evidenzia studiando soprattutto il tempo (v.) narrativo. La narratività è pertanto fondata su tre elementi costitutivi: l. la storia o fabula: è l'invenzione o fiction che simula l'imitazione della realtà, il contenuto narrativo che, in quanto « reale», ha una struttura, un ordine causale-cronologico preciso raramente rispettato nel racconto; 2. la narrazione o intreccio o racconto o testo: è l'enunciato narrativo, il racconto testuale nella strutturazione stilistica datagli dal narratore, che rimanipola la fabula secondo una determinata ottica; 3. il discorso o enunciazione: è l'istanza narrativa come voce del narratore, l'atto di colui che produce il racconto ( come tale può essere anche un personaggio: ad esempio, Ulisse all'isola dei Feaci). Genette chiama, invece, narrazione questo elemento e racconto ciò che per noi è l'intreccio-narrazione. L'analisi dovrà tener conto di tre classi di determinazioni: a) il tempo, cioè le relazioni temporali fra narrazione e storia; b) i modi, cioè le modalità della rappresentazione narrativa; c) la voce, cioè la situazione o istanza narrativa, il rapporto fra il soggetto dell'enunciazione e la storia o il racconto. L'analisi del tempo si specifica, a sua volta, nei problemi dell'ordine, della durata e della frequenza. (v. TEMPO). Il confronto fra l'ordine degli avvenimenti nella narrazione (ciò che Todorov chiama il tempo della scrittura, in quanto manipolato dal narratore) e l'ordine di successione che gli stessi avvenimenti hanno nella storia-fabula mette in evidenza le anacronie, cioè le distorsioni temporali che caratterizzano l'opera narrativa. Se nel racconto si dice, ad esempio, tre mesi fa, la scena a cui ci si riferisce viene « dopo >> a livello di intreccio-narrazione, mentre si suppone che sia avvenuta « prima » a livello di diegesi-fabula. Un caso classico di distorsione è il racconto che inizia in medias res (l'Eneide), con supporto di flash back (v.). Le distorsioni temporali più comuni sono: la prolessi, cioè l'anticipazione di un evento futuro (il termine greco vorrebbe dire « prendere in anticipo » ), l'analessi, cioè l 'evocazione di un evento anteriore al punto della storia in cui ci si trova (il termine greco
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Neo/ogismo
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vuoi dire « prendere a fatti compiuti » e quindi retrospezione), l'elissi, cioè l'omissione, la non menzione di una parte della storia (elusione per Todorov). I problemi della modalità del racconto coinvolgono soprattutto l'analisi del punto di vista (v.) o focalizzazione o prospettiva. Le alterazioni danno luogo alla dissimulazione di un fatto (parallissi) o ali 'eccesso di informazione (parallessi: ad esempio, informazione implicita sulla base di indizi). Quanto alla voce (v.) del narratore, si dovranno analizzare i problemi concernenti i livelli narrativi e lo statuto del narratore, le funzioni, il rapporto col destinatario e così via. L'analisi del testo narrativo non potrà evidentemente trascurare lo spazio, cioè la descrizione (v.) della realtà o dei personaggi, e soprattutto gli agenti, i personaggi, le modalità di presentazione, le metamorfosi, le relazioni (V. EROE, ATTORE, PERSONAGGIO). Per una precisazione di questi e altri aspetti della narrativa si rimanda alle voci: antagonista, attante, attore, dialogo, digressione, dispositio, episodio, eroe, fabula, indizio, intreccio, leitmotiv, monologo, narrazione, personaggio, prosa, romanzo, punto di vista, riconoscimento, sequenza, storia, tempo, trama, trasformazione, voce.
NARRAZIONE. Nelle moderne analisi della narrativa il concetto di narrazione perde il significato generico di « racconto » o di « storia narrata » per as~umere una dimensione più specifica e tecnica. Secondo Genette, 1976, p. 67 sgg. la narrazione è l'atto del narrare in se stesso, cioè l'atto o enunciazione narrativa che produce il racconto. Nel caso dell'Odìssea, si. h~ una duplice narrazione: Omero che racconta la storia di Ulisse e Ulisse stesso che racconta ai Feaci le sue avventure. A nostro avviso, sarebbe più opportuno definire questo aspetto della narrazione « discorso» o « enunciazione », emergente appunto nella « voce » del narratore, nell'istanza enunciativa (v. ENUNCIAZIONE, DISCORSO, STILE). Proprio all'inizio dell'Iliade: Canta, o dea, l'ira d'Achille Pelide ... , sia il verbo sia il riferimento conativo (o dea) sono due modalità che denunciano la narrazione in quanto discorso/enunciazione, l'emergenza del narratore in posizione extradiegetica, cioè fuori della « storia » che sta per rac~ontare. NEOLOGISMO. Il neologismo è una parola di recente creazione, mutuata da un'altra lingua o formata ex novo soprattutto per esigenze tecniche o espressive. A noi interessa il neologismo in ambito letterario, che per lo più ha un effetto fra realistico ed espressionistico in quanto rompe le attese del destinatario, legato a forme convenzionali di linguaggio (sia standard sia letterario). Oppure il neologismo ha effetti ironici, parodistici, dissacranti nei confronti di una tradizione più o meno illustre, da cui si vuole evadere contestandola a livello di trasgressione linguistica. Neologismi talora foggiati dalla ripresa di ter-
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Norma
mtm arcaicizzanti, piegati magari a un nuovo senso, oppure costruiti su diversi registri della lingua d'uso (tecnica, filosofica, gergale ecc.) o ripescati dai dialetti e « italianizzati » (come il be/inane usato da Gadda, assunto dal genovese): in tutti questi casi l'esito espressivo è il pastiche, il plurilinguismo sperimentale praticato dalle avanguardie c ncoavanguardie del Novecento. Riportiamo alcune righe della Cognizione del dolore di Gadda: Gli attavolati si sentivano sadali nella eletta situazione delle poppe, nella usucapzione d'un molleggio adeguato all'importanza del loro deretano, nella dignità del comando ... Erano degli stramaledisa buccinati via come sputi di vipera ... mescolati dì mìasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici. mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l'ossobuco... E della loro faccia di manichini ossibuchivori. Il piacere del racconto nasce dalla parodistica mescolanza dei più disparati livelli linguistici, con la riproposizione di termini culti (usucapzione per usucapione: parodia d'un termine giuridico; giulebbe, ameboide, peptonizzare, da peptone, cioè il prodotto della digestione), a cui si affiancano i neologismi veri e propri: attavolati, stramaledisa (recupero dialettale), mantrugiare (che è voce rara, in quanto popolare, per «strappare con le mani»; qui diversamente transcodificata e quasi neologistica), ossibuchivorì (uno dei numerosissimi termini composti che compaiono in Gadda). Etim.: dal gr. néos = nuovo, l6gos = parola NORMA. La norma è un codice di obblighi e di divieti proposti all'uso della lingua in conformità a un certo ideale estetico (l'esempio dei « buoni scrittori ») o socioculturale (il « buon gusto », la tradizione ecc.). La norma presiede alle istruzioni delle cosiddette grammatiche normative. Col Berruto, 1974, p. 40, definiremo la norma come «la realizzazione normale, vale a dire statisticamente prevalente, di un certo sistema linguistico in una certa comunità parlante », mentre l'uso è l 'insieme dei concreti atti linguistici Si è cercato, in stilistica (v. STILE), di utilizzare il concetto di norma per evidenziare il linguaggio letterario come scarto o deviazione dalla lingua d'uso, senza tener conto che anche lo scarto fa parte delle normali procedure linguistiche (ad esempio, le figure non sono di esclusiva pertinenza letteraria). Sull'argomento si veda Marchese, 1974, p. 71 sgg. NOVELLA. Nell'accezione ç;omune la novella è un componimento narrativo di carattere avventuroso o fantastico, anche se legato a istanze terrene (cioè non mitiche). Nella critica inglese (cfr. Scholes-Kellog, 1970) è definito romance la favola o il racconto eroico, idealizzato, sublime, mentre il nove! è una rappresentazione realistica della vita e dei costumi quotidiani. L'opposizione non è rigida perché nel romanzo in-
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Nua11ce
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teso in senso moderno (e di cui la novella è un'anticipazione) elementi mimetici c storici si combinano con spunti fantastici, favolosi o leggendari. Anche secondo Lukacs, 1962, la novella italiana (dal Novellino al Decameron) anticipa il romanzo perché, cominciando a descrivere il mondo, la società, i caratteri, si allontana sempre più dalle tipologie astratte e simboliche del Medioevo. L'eroe della novella è direttamente o indirettamente il mercante borghese, con i suoi valori di intelligenza e spregiudicatezza. Né è da dimenticare l'influsso dell'elemento carnevalesco e dialogico (cfr. Bachtin, Dostoevskij, Torino, 1968) che è alla base non solo della satira menippea ma anche delle novelle e dei racconti di attualità (antiepici e dissacratori, come il Satyricon o le Metamorfosi di Apuleio, in cui sono inserite narrazioni che attingono il fiabesco, il magico e l'erotico-picaresco). Una breve storia del genere non potrebbe non citare le antiche raccolte indiane di novelle, fra cui la più famosa fu il Pancatantra, di carattere prevalentemente mitico-favoloso; mentre nella letteratura greca furono famose per la loro licenziosità le Favole milesie (Il sec. a.C.), che entrarono come ingrediente quasi d'obbligo nella narrativa avventurosa e picaresca. La novella medievale si afferma soprattutto, col modello insuperato del Boccaccio, come narrazione vivace con un saldo intreccio, una dinamica inventiva attraente e uno scavo psicologico dei personaggi, pur sempre in funzione dell'avventura. Da Chaucer a Margherita di Navarra ai novellieri italiani del Cinquecento il modello boccaccesco incontra un enorme successo. L'avventuroso, nella variante tipicamente spagnola del picaresco, è alla base della novella del Sei: cento (Cervantes); il Settecento riscopre la novella erotica: l'Ottocento si apre a una vasta sperimentazione che abbraccia i versanti del sentimentale, del fantastico, del surreale, dello storico-sociale (ma ormai la novella è diventata racconto). NOVENARIO. Il novenario è un verso di nove sillabe, con accenti fissi e con ritmi anapestico-dattilico (il più comune), giambico e trocaico (v.). Il primo tipo ha gli ictus sulla 2a, sa e 8a: Saletto su l'orlo di un lago (Pascoli) o anche sulla la, 3a, sa e 8a: Or che il cucco forse è vicino (Pascoli); il secondo tipo ha come modello fondamentale quello con gli ictus sulla 2a, 4a, 6a e sa: A duro stra! di ria ventura (Chiabrera); il terzo tipo ha gli accenti sulla t a, 3a, 6a e sa: Santa Barbara e San Simon (proverbio) oppure sulla la, 3a, sa e sa: C'è una voce nella mia vita (Pascoli). Le citazioni sono attinte dall'Eiwert, 1973, p. 71 sgg., al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti. NUANCE. Il termine è usato talora nella critica per indicare una particolare « sfumatura » semantica, cioè il valore connotativo di un termine. Etim.: dal fr. nuance = sfumatura.
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ODE. Nel Cinquecento alla canzone petrarchesca si affiancano altri modelli di componimento poetico, in particolare l'ode imitata da Pindaro, Orazio e Anacreonte (v. CANZONE, CANZONETTA). Negli Asolani del Bembo compaiono due quartine di tipo oraziano; l'esempio ebbe fortuna con le sperimentazioni di Bernardo Tasso, che scrisse delle odi con strofe di cinque o sei versi, endecasillabi o settenari talora alternati secondo lo schema: aBbAcC. Si noterà come la stanza petrarchesca sia stata sostituita da una strofa più breve con versi, però, di struttura tradizionale, che non vogliono imitare la metrica classica (v. METRICA RARBARA). Nel Seicento l'ode adotta per lo più la quartina, con tre endecasillabi e un settenario, oppure strofe di cinque o sei versi. Sempre nel Seicento è di moda la canzone o ode pindarica (v. CANZONE, 2). Etim.: dal gr. oidé = canto.
OMOFONlA. L'omofonia è l'identità fonica fra due o più parole di significato diverso. Es.: raso (nome e part. passato). Gli omografi sono invece parole di forma eguale ma di senso e pronuncia diversa. Es.: ròsa e r6sa. Il fenomeno può interessare, in ambito retorico, allorché l'iterazione dei termini crea una sorta di antanaclasi (v.). Etim.: dal gr. hom6s = eguale, phoné = suono. OMONIMìA. L'omonimia è un fenomeno di anisomorfismo fra significato e significante, per cui ad un solo significante possono corrispondere significati diversi. Ad esempio, cane può essere un at,imale o una parte del fucile. Quando usiamo cane come insulto rivolto a una persona (o coniglio nel senso di « vile », « pauroso ») si ha un fenomeno connotativo di spostamento semanlico che interessa particolarmente la sfera poetica (v. CONNOTAZIONE). In senso più lato l'omonimia è la me-
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Opposi::.ione
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ra identità fonica o grafica di due morfemi di senso diverso (ad esempio, bara come verbo o come sostantivo). Etim.: dal gr. hom6s = eguale, 6nyma (6noma) = nome. OMOTELEUTO. L'omoteleuto (o anche omoioteleuto, omeoteleuto) consiste nell'eguaglianza fonica delle terminazioni di due o più parole, poste soprattutto in posizione simmetrica. Lausberg, 1969, p. 193 riporta l'esempio antico audaciter territas, humiliter placas. Nella poesia moderna si ha il corrispettivo della rima. Etim.: dal gr. h6moios = simile, teleté = fine. ONOMASIOLOGìA. L'onomasiologia, partendo dai concettj (o dalle sostanze dei contenuti, secondo Hjelmslev), studia le denominazioni, i segni linguistici (le forme dei contenuti) corrispondenti. Se ad esempio, si vuole costruire il campo onomasiologico dell'amore, si individueranno tutti i termini afferenti a tale concetto: passione, capriccio, invaghimento, innamoramento ecc. In questa accezione, si preferisce parlare oggi di campi semantici, cioè di settori concettuali organizzati in sistemi Iessematici (cfr. Berruto, 1974, p. 72). Così il campo semantico dei colori sarà formato dai Iessemi: bianc;o, rosso, verde,,giallo ecc. Etim.: dal gr. onomazein = nominare. ONOMATOPÈA. Si chiama onomatopea un segno creato su imitazione di un rumore naturale: tic-tac, riproduce l'orologio; din-don (o don-don) le campane, chiù l'assiuolo (secondo il Pascoli). Il Dubois, 1973, p. 346, distingue giustamente l'imitazione non linguistica (ad esempio la riproduzione del verso di un animale fatta da un imitatore) dall'onomatopea che è un insieme di fonemi che fanno parte di un dato sistema fonologico, trascritti eventualmente in grafemi. L'onomatopea può diventare un elemento funzionale dell'enunciato; ad esempio: si sente un din-don di campane, dove l'onomatopca è un'espan· sione soggettiva. Per altre considerazioni di carattere stilistico v. ARMONIA IMITATIVA.
Etim.: dal gr. 6noma
= nome,
poiein
=
fare.
OPPOSIZIONE. In linguistica è il rapporto che esiste fra due termini di un paradigma. Sul piano dei significati il valore delle parole è dato dall'opposizione in cui si situano fra loro; o meglio il rapporto diffe· renziale le fa entrare in una serie di opposizioni. Ad esempio, gridare, urlare, parlare, sussurrare, bisbigliare acquistano valore per opposizione. Anche il significante linguistico è costituito da differenze avvertite come opposizioni. Per l'aspetto logico di opposizione v. IMPLICAZIONE. Nella teoria attanziale di Greimas l'oppositore è l'antagonista dell'eroe (v. ATTANTE).
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Opera aperta
OPERA APERTA. Secondo Umberto Eco, 1962 (ma si veda l'introduzione del 1967 nell'edizione del 1971) l'opera d'arte è un messaggio fondamentalmente ambiguo (v. AMBIGUITÀ) per la polisemia dei segni che lo costituiscono. Se questo è un carattere generale dell'arte, nelle poetiche contemporanee - sostiene il critico - tale ambiguità è ricercata (voluta) dagli autori come « una delle finalità esplicite dell 'opera». Il concetto di opera aperta ha per Eco un valore di «modello ipotetico » (non assiologico), legato soprattutto alle esperienze artistiche novecentesche. Ma la tesi centrale riguarda la parte del lettore (o fruitore) nell'approccio estetico, in quanto « ogni fruitore porta una concreta situazione esistenziale, una sensibilità particolarmente condizionata, una determinata cultura, gusti, propensioni, pregiudizi personali, in modo che la comprensione della forma originaria avviene secondo una determinata prospettiva individuale ». Donde la conclusione particolarmente delicata: « Un'opera d'arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l'opera rivive in una prospettiva originale » (p. 26). Su questa linea della « non finitezza » dell'opera, che deve essere completata e significata dal fruitore, la nouvelle critique e in particolare Barthes giungono a postulare addirittura una priorità, un'emergenza del lettore sulla scrittura, una «irresponsabilità del testo» (Barthes, 1973, p. 16) di fronte alla quale il destinatario non è un passivo consumatore ma un produttore (con licenza di « malmenare il testo », di « troncargli la parola » ). In questa prospettiva l'opera è aperta già alla fonte e non solo nella evidente varietà delle interpretazioni, perché non si crede che il messaggio sia storicamente dato e consegnato alla scrittura del testo. A nostro avviso, la critica semiologica deve invece ricercare, per quanto è possibile, di proiettare il messaggio sulla complessità dei codici dell'autore (ricostruiti con l'ausilio della filologia, della stilistica, della retorica, della storia culturale ecc.), in modo tale che sia possibile cogliere, se non la totalità del senso, almeno una signifìcanza storicamente attendibile. Non tutte le interpretazioni sono accettabili: il progresso della storia della critica consiste anche nel superamento delle interpretazioni parziali (senza pretendere di esaurire la ricchezza del testo). Per altre osservazioni v. DESTINATARIO ORIZZONTE D'ATTESA. In un'ipotesi di sociologia della letteratura occorre tener conto del fatto che l'opera d'arte si inserisce in un complesso sistema di bisogni, aspettative, gusti, letture, modelli di comportamento ecc. che costituiscono, nel loro insieme, l'orizzonte d'attesa del pubblico, cioè dei fruitori. Inoltre, per una serie di precondizionamenti assai vari (il « genere » in cui collocare un certo te-
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Ottava
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sto, le pressioni del! 'industria culturale, per citarne due abbastanza diversi) il fruitore si « forma un'idea » sul libro, Io decodifica secondo alcuni stereotipi, esige magari la soluzione di certi suoi problemi personali; donde la << soddisfazione » dei lettori più ingenui nei confronti di prodotti Kitsch (v.) o di largo consumo. Secondo il Weinrich (cfr. AA.VV., 1973 b, p. 233) sarebbe opportuno scrivere una storia della letteratura dalla parte dd lettore. Egli cita opportunamente l'attenzione di Aristotele per le reazit:mi del pubblico (ad esempio di fronte all'innaturale contrasto fra padre e figlio. fra amici o fratelli); anche la retorica è incentrata sul pubblico e sui mezzi per persuaderlo. Osserva Weinrich: « Un'ulteriore elaborazione di questo abbozzo per un panorama più ampio della letteratura, nelle sue numerose manifestazioni storiche potrà darsi, in futuro, dall'interpretazione dei testi. Non però da interpretazioni "immanenti", che non tengano conto di ciò che è al di fuori del testo, ma da interpretazioni che analizzino anche tutti i suoi presupposti in quanto costitutivi dell'orizzonte delle aspettative del lettore. Il concetto d eli 'orizzonte delle aspettative, espresso da Karl Mannheim, è stato inserito nella scienza della letteratura da Hans Robert Jauss che se ne serve soprattutto in senso generale. Dal momento che un'opera letteraria si presenta come parte di una determinata categoria letteraria, essa è già proiettata in un orizzonte di aspettative che per il lettore, il lettore esperto naturalmente, è il risultato della sua familiarità con questa categoria». v. anche PUBBLICO.
OSSIMORO (o anche OSSfMORO). L'ossimoro è una sorta di antitesi in cui si accostano parole di senso opposto e che sembrano escludersi l'un l'altra (es.: giovane vecchio, oscura chiarezza, urlo silenzioso). Un bell'esempio di questa figura logica si ha nelle Notizie dall'Amiata di Montale: il vento che tarda, la morte, la morte che vive! Anche nella famosa terzina dantesca di Pier della Vigna: L'animo mio, per disdegnoso gusto, l credendo col morir fuggir disdegno, l ingiusto fece me contra me giusto, costruita su sapienti antitesi, il sintagma disdegnoso gusto è un ossimoro, in quanto significa « amaro piacere », mentre la ripresa disdegno, dà luogo a una sottile antanaclasi (v.), perché il termine vuoi dire «disprezzo». Altro esempio: tacito tumulto (Pascoli). Etim.: dal gr. oxymoros = acuto sotto un'apparenza di stupidità. OSTRAN~NIE. v. STRANIAMENTO, FORMALISMO RUSSO.
OTTAVA. L'ottava è una strofa composta da otto endecasillabi, di cui i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. L'ottava (detta spesso stanza) è il metro della poesia narrativa fin dalle origini (sec. XII 1), e in particolare dei poemi
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01/onario
cavallereschi. Fu usata anche nelle sacre rappresentazioni, nel dramma profano c nella poes\a lirica (le Stanze del Poliziano).
OTTONARIO. L'ottonario è un verso di otto sillabe metriche; può avere una forma trocaica (la più comune) o una forma dattilica. È il verso delle canzoni a ballo (v.) quattrocentesche e della canzonetta (v.): Belle rose porporine l che tra spine l sull'aurora non aprite; l ma, ministre degli Amori, l bei tesori l di bei denti custodite (Chiabrera). Nell 'ottonario di ritmo trocaico gli ictus cadono sulla l a, 3a, sa e 7a. Ad esempio: Giovanetti e donne amanti, l viva Bacco e viva Amore; l ciascun suoni, balli e canti (Lorenzo il Magnifico). Il Pascoli riprende una variante molto rara dell 'ottonario dattilico con accenti sulla l a e sulla 4a: Questo è dall'ombre un ritorno l Dante Alighieri ha sorriso ... Cfr. Elwert. ·t973, p. 75 sg.
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PARABOLA. La parabola è una forma narrativa che ha una duplice isotopia semantica: la prima, superficiale, è un racconto; la seconda, profonda, è la transcodificazione allegorica del racconto (con significato morale, religioso, filosofico ecc.). Si pensi alle parabole del Vangelo. t. stato osservato da Adorno che i romanzi di Kafka hanno una struttura a parabola, di cui però manca la chiave interpretativa. Il rapporto fra la parabola e l'allegoria (v.) è mollo stretto: Scholes e Kellog, 1970, p. 94 sg. notano che l'Asino d'oro di Apuleio, in quanto racconto di catarsi del personaggio, ha una struttura allegorica sia nell'assunto generale (Lucio diventa devoto di Iside) sia nel significato recondito di alcune fiabe (ad esempio, quella famosissima di Amore e Psiche). Etim.: dal gr. parabdllein = mettere vicino, confrontare. PARADIGMA. Nella linguistica moderna il paradigma è l'insieme di unità che intrattengono fra loro un rapporto virtuale di sostituibilità (cfr. Dubois, 1973, p. 354). Questi rapporti sono in absentia, cioè potenziali, mentre quelli sintagmatici sono in praese11tia. Jakobson ha studiato i rapporti sui due assi (v.)' del linguaggio nell'ambito della poetica, indicando i processi metaforici (paradigma'tici) e metonimici (sintagmatici) ad essi collegati. Etim.: dal gr. paradeigma = modello.
PARADOSSO. Il paradosso è una figura logica consistente in un'affermazione in apparenza assurda e contraria al buon senso, soprattutto perché « costruita » in forma di ossimoro. Ad esempio: È bello perché è brutto; i paesi più poveri sono ricchissimi; G.P. è stato suicidato. Si può considerare un amaro paradosso l'epifonema di Adelchi morente: Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto ... (Manzoni). Etim.: dal gr. parti = contrario, opposto, d6xa = opinione.
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Paràfrasi
PARAFRASI. La parafrasi è la ritrascrizione, in termini più espliciti, di un testo in modo tale che non cambino i contenuti e l'informazione. Utilizzando i sinonimi, semplificando i valori connotativi di certi termini (specie per i testi poetici), la parafrasi propone un equivalente denotativo del discorso complesso. Così, il verso dantesco: Nel mezzo del cammin di nostra vita può essere parafrasato nell'enunciato « a 35 anni, cioè nel 1300 », per quanto, a livello connotativo, il verso sia ben più ricco di questa prima informazione, rimandando almeno a un codice scritturale (Isaia, XXXVIII, 10: in dimidio dierum meorum). Etim.: dal gr. paraphrasis = frase posta accanto. PARAGòGE. La paragoge o epìtesi è un fenomeno consistente nell'aggiungere un fonema non etimologico alla fine di una parola. Oltre ad essere presente nella lingua arcaica (ad esempio: die, per dì o di', saline per salì), la paragoge si ritrova in certe forme popolari o dialettali, come nella pronunzia toscana di parole tronche (filobusse per filobus) o, nell'area centro-meridionale, in sine, none ecc. Nella lirica delle origini spesso la rima tronca è evitata con una -e o un -ne paragogici: voe, morroe, joe (Cino da Pistoia). Si v. anche EPENTESI. Etim.: dal gr. para = vicino, agogé = spingere. PARAGONE. v.
COMPARAZIONE.
PARAGRAMMA. Accostamento di due parole distinte da un solo grafema: presa-prosa, viso-riso, monte-molte. Secondo Saussure il paragramma è una figura retorica nascosta, che consiste nel disseminare gli elementi fonico-grafici di una parola o di un enunciato all'interno di un'altra parola o di un altro enunciato. Ad esempio, la parola spleen si ritroverebbe in questo verso di Baudelaire: Sur mon criìne incliné PLantE son drapeau Noir. Cfr. Mounin, 1974, p. 246. Etim.: dal gr. para = vicino, gramma da graphein = scrivere. PARALLELISMO. Secondo Greimas, 1972, p. 14 sgg. il segno linguistico è scomponibile sui due piani del contenuto e dell'espressione in elementi che hanno fra loro rapporti astrattamente isomorfi, in quanto figure di articolazione, come indica lo schema alla pagina seguente. Evidentemente l'isomorfismo viene a mancare sul piano della manifestazione concreta e al livello di organizzazione sintagmatica, dove la combinazione dei fonemi produce le sillabe, mentre l'unione dei sememi conduce alla costruzione di enunciati semantici. Nel discorso poetico l'isomorfismo dei due piani dà luogo a una « co-occorrenza di due discorsi paralleli, l'uno fonemico e l'altro semantico, che si svolgono simultaneamente, ognuno sul proprio piano autonomo, e che producono delle regolarità formali confrontabili ed eventualmente omologabi-
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Para/assi
l
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livello profondo:
Piano dell'espressione
livello di superficie:
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Piano della manifestazione
1
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seLmi ----.-enunciati
livello profondo:
semi
f
li, regolarità discorsive che obbediranno a una duplice grammatica poetica situata al livello delle strutture profonde ». La poesia recupererebbe l'alto tasso di ridondanza fonemica che caratterizza il discorso normale, riconvertendolo in informazione semanti..:a parallela a quella emergente dal piano dei contenuti. La ricerca della motivazione poetica, intesa come « realizzazione delle strutture parallele e confrontabili che istituiscono correlazioni significative tra i due piani del linguaggio », può essere considerata la proposta metodologicamente più sicura dell'attuale critica semiologica. In tale prospettiva il testo, in quanto struttura chiusa di segni poetici, è una potenzialità fenomenica di messaggi attuati nella co-occorrenza dei piani del contenuto e dell'espressione. Per essere decifrata in tutta la sua ricchezza, questa pluralità di messaggi deve essere ricondotta alle matrici profonde, cioè ai diversi modelli o codici che intersecano i segni e li caricano di una specifica informatività. E evidente che un messaggio altamente strutturato può essere decifrato a vari livelli (dal più basso, come mero contenuto denotativo, al più alto, come iperconnotazione) a seconda della maggiore o minore attivazione, di codici di riferimento di cui il lettore dispone. li concetto di parallelismo è presente già nel formalismo russo (v.) e si ritrova nelle « Tesi » del '29 del Circolo di Praga, per essere definitivamente formulato da Jakobson (v. LJNGUAGGIO, l) come principio di equivalenza, il fattore costruttivo della poesia. Le applicazioni di Levin e di altri critici linguistici accentuano, in modi a nostro avviso unilaterali, le iterazioni o correlazionl (v.) foniche che costituiscono la struttura significante del testo, isolandole pericolosamente dai significati. PARATASSI. La paratassi è il rapporto di coordinazione fra due frasi nell'ambito di un enunciato o di un discorso. Ad esempio: fi un gran furbo, si farà strada nella vita. L'opposto della parata,;;si è l'ipotassi,
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Parodia
c1oe la subordinazione esplicitata eventualmente da segni funzionali: è un gran furbo, per cui si farà strada nella vita; si farà strada nella vita perché è un gran furbo. Sull'uso stilistico della paratassi e dell'i potassi v. quest'ultima voce. Etim.: dal gr. para = vicino (accostainento), taxis = disposizione. PARODÌA. Secondo Bachtin, la parodia implica la creazione di un sosia che « scorona » l'eroe principale, l'affermazione di un «mondo alla rovescia»; come la satira (v.) sembra risalire al comico carnevalesco (v. COMMEDIA), in cui ogni valore gerarchico tradizionale è dissacrato, deriso e ribaltato. In senso più ampio, si ha parodia quando l'imitazione intenzionale di un testo, di un personaggio, di un motivo ecc. viene condotta in termini ironici, per mettere in risalto il distacco dal modello e il suo rovesciamento critico. In termini linguistici la parodia comporta sempre una transcodificazione. Ad esempio, quando Gadda nella Cognizione del dolore scrive: Era, dalla nuca ai calcagni, come una sta/filata di dolcez::a, « la pura gioia ascosa >> dell'inno, citando esplicitamente un verso della Pentecoste manzoniana, opera un'evidente parodizzazione del riferimento culto, giustapposto al realismo desublimante della scena. Etim.: dal gr. para = vicino, oidé = canto PAROLE. Senza confondersi col concetto generico di linguaggio, la parole in Saussure (v. LINGUISTICA) è la parte individuale della lingua, distinta appunto dalla langue che è sociale nella sua essenza e indipendente dall'individuo. La parole è l'aspetto esecutivo del linguaggio, di pertinenza del singolo locutore in quanto suo atto di volontà e di intelligenza. La langue è invece un prodotto sociale della facoltà del linguaggio c un insieme di convenzioni adottate dal corpo sociale per permettere l'esercizio di tale facoltà negli individui. La parole è un fenomeno fonetico: attraverso gli organi della fonazione l'individuo produce una catena di suoni, trasmessi grazie a un'onda sonora, che è recepita dall'orecchio, percepita come catena di suoni interpretati nel loro valore di elementi distintivi (i fonemi di una data lingua). Secondo Chomsky, la grammatica deve rendere conto della capacità dell'individuo di produrre e comprendere fra>i mai udite in precedenza (competence). La lingua, che per Saussure è un sistema di segni, diventa per Chomsky un sistema di regole che collegano i segni alla loro interpretazione semantica. La ·creatività riguarda sia la competenza, in quanto possibilità per l'individuo di costruire delle frasi, sia la performance come concreta utilizzazione delle regole e, in certi casi, come deviazione intenzionale da esse. Cfr. Dubois, 1973, p. 358 sgg. PARONIMÌA. Accostamento di due o più parole simili nel suono ma
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l'astorell<1
l 99
di significato diverso, dette appunto paromm1: collisione, collusione; collazione, colazione; traditore, traduttore (v. anche 1'.\RONOMAS IA). Etim.: dal gr. parci = vicino, 6nyma-6nomG = nome. PARONOMASIA. La paronomasia è una figura morfologica che si produce mediante l'accostamento di due parole con un'analoga sonorità. È celebre l'analisi, fatta da fakobson, dello slogan politico I like I ke efficace e memorizza bile grazie agli effetti paronomastici dei suoni i e ik. La paronomasia si può avere con un semplice mutamento vocalico: sedendo e mirando (Leopardi); tra gli scogli parlotta la maretta (Montale). Analogamente in Ungarctti: Stamani mi sono disteso l in un'urna d'acqua l e come una reliquia l ho riposato. Altre forme di paronomasia si ottengono mediante più liberi accostamenti fonologici. Ad esempio, nel mottetto montaliano Non recidere, forbice, quel volto si possono considerare paronomasie gli accostamenti l'acacia-cicala, recidere-forbice (gruppi l r.e.c.i.l lr.i.c.e./), freddo-duro (gruppi l r.d.o./ ld.r.o./). Più evidente il rapporto paronomastico nel verso Trema un ricordo nel ricolmo secchia di un celebre « osso breve ». Rientrano nelle paronomasie anche gli anagrammi, consci o inconsci che siano, come il Silvia-salivi leopardiano, acutamente analizzato dall'Agosti, 1972, p. 40. Etim.: dal gr. paronomazein: para = vicino, accanto, 6noma = nome. PASTICHE. Il pastiche è un accostamento straniante di parole di diverso livello o registro o anche codice, con effetti espressionistici, parodistici, satirici. Gran maestro del pastiche è Gadda, non a caso erede di una tradizione lombarda che risale almeno agli scapigliati e al Porta. In Gadda lo straniamento deriva dalla mescolanza caleidoscopica del materiale della lingua, attinto daj più diversi e magari reconditi settori (termini rari, inusitati, dialettali, tecnici), sottoposto agli acidi corrosivi della rimanipolazione (neologismi, nuovi usi, transcodificazioni}, equiparato a lacerti aulici, letterari (v. PARODIA) o addirittura a forme straniere o pseudostraniere. Es.: Margherita Celli vedova del commendator Antonini [ ... ] erano già diversi anni eh 'era mancato puro lui, poveretto: un infisémo pormonare con sopporazione setticimicia: era lui, se po dì, er sostegno de tutta la famija. Ella annullava l'eternità del corridoio a piastrelle e relativo olezzo (pipì di gatta e petrolio) con traslazioni si/enti, alate d'improbabilità e di miracolo, che parevano celebrarsi in un campo gravidico smesso e oramai addirittura inoperante, quasi d'uno scalamitato magnete. Etim.: dal fr. pastiche = pasticcio. PASTORELLA. f: un componimento poetico, normalmente in forma di dialogo fra un cavaliere galante e una pastorella che ne respinge le of-
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Pausa
ferte. L'origine del genere è medievale e francese (pastourel/e); scrissero pastorelle il Cavalcanti e il Sacchetti, in strutture metriche assai varie.
PAUSA. Nei moderni studi di metrica si considera come pausa primaria quella di fine-verso e come pausa secondaria la cesura (v.), la quale può infrangere l'unità sintattica o in qualche caso Jessicale del verso. Il Di Girolamo, 1976, p. 52 sgg. chiama questo fenomeno spezzatura (comprendendo in esso anche l'enjambement). Esempi di pause con spezzature: Con tre gole canina l mente latra (Dante); e dentro a la presente l margarita (Dante); lo cui meridlan l cerchio coverchia (Dante). Nel primo caso la spezzatura divide la parola caninamente in due parti (il membro -mente si dice rigetto, v.); nell'ultimo la cesura è rafforzata dall'incontro di due accenti ritmici consecutivi. Per altre considerazioni V. METRICA, ENDECASILLABO.
PENT AMETRO. Verso greco-latino formato da due commi ognuna delle quali è costituita da due dattili e una sillaba lunga. Es.: fortiter il/e facit qui miser esse potest. Per la trasposizione del pentametro nella metrica italiana V. DISTICO, METRICA BARBARA. Etim.: dal gr. pénte = cinque, métron = misura.
PERFORMANCE. Secondo Chomsky è l'esecuzione o atto linguistico, distinto dalla competence cioè la lingua in quanto sistema di regole generativo-trasformazionali. V. LINGUISTICA, 5; COMPETENZA, PAROLE.
PERIFRASI. v.
CIRCONLOCUZIONE.
PERLOCUTORIO. Nel pronunciare una frase si compiono tre atti contemporaneamente: un atto locutorio, uno illocutorio (v.) c uno perlocutorio « nella misura in cui l'enunciazione mira a fini più lontani, che l'interlocutorc può benissimo non comprendere, pur possedendo perfettamente la lingua. Per esempio, interrogando quulcuno, si può avere lo scopo di rendergli un servizio, di metterlo in imbarazzo, di fargli credere che si stimi la sua opinione ecc.» (Ducrot-Todorov, 1972, p. 368). PERSONAGGIO. Il personaggio - eroe, protagonista o attore che sia - è l'elemento trainante dell'azione narrativa. Confuso ingenuamente con la persona, di cui è soltanto una rappresentazione inventiva, o ridotto a una serie di caratterizzazioni psicologiche e di attributi, il personaggio non è isolabile né dall'universo che lo circonda né dagli altri personaggi con cui entra in relazione. Il personaggio può manifestarsi in modi diversi. Innanzi tutto col nome, che talora anticipa certe qualità evidenziate nel corso del rac-
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Personaggio
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conto; poi con la caratterizzazione diretta o indiretta. La caratterizzazione è diretta quando il narratore ci dice quali sono le qualità del personaggio (buono, generoso, avido, ingenuo ecc.), eventualmente attraverso il «.ritratto»; è indiretta quando è il lettore a dover evincere il carattere del personaggio, partendo dalle azioni in cui è coinvolto, dal giudizio che di lui danno altri personaggi o dal suo stesso modo di vedere la vita e i rapporti umani. Spesso la caratterizzazione è ottenuta per sineddoche, cioè tramite un particolare (dell'1bbigliamento, del viso, del comportamento ecc.). L'emblema (v.) - un oggetto del personaggio, un suo gesto, un luogo a lui caro e così via - ricordato nel racconto assume un valore significativo e caratterizzante (cfr. Ducrot-Todorov, 1972, p. 246 sgg.) l. Tipologie dei personaggi. Si possono dare diverse tipologie dei personaggi, sia in senso formale che sostanziale. Ad esempio, si distinguono personaggi statici, che non variano nel corso del racconto (come i tipi: l'avaro, il vigliacco ecc.) e personaggi dinamici, soggetti a mutamento; o anche personaggi principali (protagonisti, eroi) e secondari. Forster distingue personaggi piatti e spessi: questi ultimi sono più complessi e imprevedibili (round character e flat character, « costruito attorno a una sola idea » ). La più antica tipologia sostanziale si rifà alle maschere, ad esempio nella commedia dell'arte, dove i ruoli sono fissati come pure i nomi (Arlecchino, Pantalone, Pulcinella ecc.). Si possono considerare ruoli stereotipati anche quelli di antica ascendenza latina: il vecchio babbeo, il servo astuto, il cornuto, l'avaro e via dicendo. Nella tipologia attanziale di Greimas (v. ATTANTE) si hanno dei ruoli che possono essere ricoperti da più attori o personaggi: il soggetto o protagonista, la cui azione è provocata da un desiderio, da un bisogno o da un timore; l'oppositore o ,antagonista, che determina il conflitto e sus~ita gli ostacoli, le molle dell'azione narrativa; l'oggetto, in quanto forza di attrazione, desiderata o temuta; il destinatore, cioè l'agente che influenza la destinazione dell'oggetto, una specie di arbitro (talora invisibile) che orienta il senso del racconto, fa pendere la bilancia verso un certo personaggio; il destinatario o beneficiario dell'azione, colui che può ottenere l'oggetto (senza identificarsi necessariamente col protagonista); l'aiutante, al servizio del soggetto ma anche di altri personaggi (ad esempio, aiutanti negativi). Nei racconti prevalentemente psicologici queste funzioni possono essere ricoperte da situazioni, avvenimenti, sentimenti: l'opposizione può venire dall'ambiente, dalla vita, dal destino (che può essere arbitro della sorte di un personaggio). 2. Funzioni dei personaggi. Nell'ambito del racconto, il personaggio può svolgere diverse funzioni: può essere un elemento decorativo, un agente dell'azione, un portavoce dell'autore (cfr. Bourneuf-Ouellet, 1976, p. 151 sgg.).
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Personuggio
Il personaggio decorativo è praticamente inutile all'azione ma serve all'autore per caratterizzare un ambiente: è come un sintomo o un indizio attraverso il quale è possibile capire il giudizio dell'autore su una data realtà o situazione. Se è vero che l'azione narrativa consiste nello sviluppo di situazioni conflittuali in cui sono coinvolti i personaggi, si potrà comprendere come le qualità di questi emergano soprattutto attraverso l'azione. Il Bremond, 197 3, distingue i personaggi in agenti (promotori di processi di modificazione o di conservazione) e in pazienti (investiti in tali processi). L'analisi è spinta avanti sino a individuare una fitta rete funzionale: così gli agenti possono essere, influenzatori, modificatori e conservatori; per i modificatori si hanno le coppie miglioratori-degradatori; per i conservatori protettori-frustra tori; per gli influenza tori delatori-simulatori, costrittori-i nterdi t tori, seduttori-intimidatori, consiglieri-dissuasori (v. NARRATIVA, 1). Il personaggio può essere infine portavoce dell'autore, anche se non sembra corretto utilizzare le figure narrative per proporre una psicanalisi in senso autobiografico. Altrettanto discutibile appare una considerazione esclusivamente sociologica, secondo la quale il personaggio sarebbe una proiezione dell'autore nei suoi rapporti storico-sociali. Per Lukacs il significato del romanzo consiste nel cammino dell'eroe problematico verso se stesso, cioè il progresso del personaggio da una situazione di asservimento nei confronti di una realtà esterna, priva di significato, all'autocoscienza. 3. Modi di presentazione. Secondo Bourneuf-Ouellet il personaggio romanzesco può essere presentato in quattro modi: l) dal personaggio stesso; 2) da un altro personaggio; 3) dal narratore extradiegetico; 4) l dal personaggio stesso, da altri personaggi e dal narratore (presentazione mista). L'autopresentazione pone il problema della conoscenza di sé da parte del personaggio, tipica del racconto in prima persona, del diario, del romanzo epistolare a voce unica e, infìnc, del monologo interiore (v.), il quale -secondo Dujardin- «è il discorso senza ascoltatore c mai pronunciato con il quale un personaggio esprime il suo più intimo pensiero, il più vicino all'inconscio; anteriormente a ogni organizzazione logica, vale dire allo stato nascente, per mezzo di frasi dirette ridotte al minimo sintattico, in modo da dare l'impressione della "materia greggia" » (definizione che, a nostro parere, meglio si adatta allo stream of consciousness, v.). · La presentazione del personaggio da parte di altri offl'e al narratore la possibilità di occultarsi (almeno apparentemente) c di dare ai personaggi la responsabilità della conoscenza reciproca (e in particolare del protagonista) attraverso la decifrazione dei comportamenti, il dialogo, le lettere e altre forme di manifestazione. della coscienza. Il modo più comune e antico di presentazione del personaggio è
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Piede
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quello del narratore extradiegetico (cioè fuori dell'azione o fabula): la presentazione « dal di fuori » permette a scrittori come Balzac o Zola di drammatizzare il conflitto fra eroe e società (cfr. personaggio epico), anche se il cosiddetto punto di vista onnisciente, tipico di quasi tutta la narrativa sino al naturalismo, fa sì che l'autore conosca a fondo il suo personaggio, lo giudichi, ne dia una caratterizzazione psicologica oltre che sociale (v. STILE, 1). La presentazione mista (modello: Madame Bovary) scruta il personaggio dall'esterno e dall'interno, vedendolo ora attraverso la focalizzazione di altri personaggi ora direttamente (con formule del tipo: « egli pensava che ... » ), sicché talvolta è difficile dire se il racconto sia autoriflessivo (corrisponda cioè al pensiero di un penonaggio) o st: emani dal narratore. Ma con la presentazione del personaggio e il punto di vista del narratore entriamo nel cuore della narrativa e dei problemi di scrittura impliciti, per i quali rimandiamo ad altre voci: NARRATIVA, STILE, SCRITTURA, DISCORSO, ENUNCIAZIONE.
Per un approfondimento del tema si vedano soprattutto: ScholesKellog, 1970; Zerafa, Romanzo e società, Bologna, 1976; Genette, 1976.
PERSONIFICAZIONE. v.
ANTONOMASIA, PROSOPOPEA.
PERTINENZA. La pertinenza è la proprietà che permette a un elemento linguistico (fonema, morfema, parola ecc.) di assumere una funzione distintiva, opponendosi ad altri elementi dello stesso livello (cfr. 1 Dubois, 1973, p. 370). Nell'analisi stilistica (v. STILE, CONNOTAZIONE, SCRITTURA) un elemento è pertinente quando è tale da connotare un messaggio, sicché è possibile comprendere la forma specifica del testo grazie a quel fattore caratteristiço (o a un insieme di fattori fra loro correlati). Non sempre l'iterazione di un elemento costituisce una garanzia della sua pertincn· za. Nella poesia La madre di Ungaretti l'insistenza sulle parole· come e quando è una spia della loro pertinenza nella struttura del testo. Così nell'incipit di A Silvia del Leopardi la frequenza del fonema t è indice di una connotazione fonoprosodica (v. CORRELAZIONE). PIANO. Il concetto di piano individua in linguistica il rapporto fra il significante o piano dell'espressione e il significato o piano del contenuto. Per questi concetti V. LINGUISTICA, 3; ESPRESSIONE; FORMA. PIEDE. Il piede è l'unità di misura di un verso greco-latino. I piìt importanti piedi (notando con il segno _ la sillaba lunga e con ...., la sillaba breve) sono i seguenti: giambo: . . . -; trocheo: - . . . ; anapesto: ............ -; dattilo: _ .......... ; spondeo: _ -; anfibraco: .... - . . . ; tribraco:
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Pleonasmo
PLEONASMO. Espressione non necessaria e ridondante; ad esempio: mi fa male il mio braccio sinistro (dove mio è pleonastico). Etim.: dal gr. pleonazein = sovrabbondare.
PLURILINGUISMO. v.
MONOLINGUISMO, NEOLOGISMO.
POEMA. Sintesi di poesia e di racconto, il poema sviluppa in versi una tematica essenzialmente narrativa. Il poema epico attinge ad un antichissimo patrimonio di miti e di leggende, fondendo spesso l'immaginario religioso con racconti di eroi legati ai destini di un popolo. Dall'epopea di Gilgamesh in Babilonia (2000 ~.c. circa) ai grandi racconti indiani del Ramayana e dei Purana, dalle leggende egiziane a quelle persiane riprese da Firdusi nel Libro dei re ( 1000 d.C. circa), dai poemi omerici ai vari cicli riguardanti personaggi emblematici del mito (Ercole) o della tradizione (gli eroi, Edipo; o, nel Medioevo inglese e tedesco, Beowulf, i Nibelunghi): un enorme, splendido caleidoscopio di vicende, di trame, di attori diversi. dietro al quale è forse possibile intravedere una struttura permanente di azioni e di attanti (v.): l'eroe è investito di un compito; la partenza, la ricerca, le prove e le peripezie; l'eroe affronta l'oppositore o antagonista, con o senza la mediazione di un aiutante ecc. Affine al poema epico è quello cavalleresco, che nasce in Francia a celebrare le gesta dei paladini di Carlo Magno o le avventure dei cavalieri della tavola rotonda (ciclo carolingio e arturiano, rispettivamente); anche motivi e personaggi del mondo antico sono ripresi e adattati ai valori cortesi-cavallereschi che ispirano poemi e romanzi dell'autunno feudale. Poemi affini si ritrovano in Spagna (il Romancero de mio Cid), in Germania (Tristan, Parsi/al), in Inghilterra e in Italia, dove si realizza la fusione del ciclo carolingio e di quello bretone nell'Orlando i11namorato del Boiardo, continuato dal grande capolavoro rinascimentale, l'Orlando Furioso dell'Ariosto. Un esempio di incontro-scontro fra poema cavalleresco e poema epico-eroico è la Gerusalemme liberata del Tasso, che presuppone il verisimile deiJa storia (e per di più la storia di « vera religione ») e J'inventività fantastica (la « licenza di fingere»), quest'ultima consonante con la sbrigliata tradizione del poema rinascimentale. Se il poema epico e quello cavalleresco implicano un pubblico di ascoltatori più che di lettori, in conformità con la struttura narrativa del genere, il poema didascalico è finalizzato all'insegnamento, alla formazione culturale, morale, civile o religiosa dei destinatari. Dalle Opere e i giorni di Esiodo, al De rerum 11atura di Lucrezio, al medievale Roman de la rose e alla Divi11a Commedia (che pur eccede ogni catalogazione per generi), v'è sempre nella letteratura d'ogni tempo una precisa tendenza didascalica che si dirama nei diversi campi delle attività umane, sia pratiche sia intellettuali. Gran fortuna ha questo tipo di poema (o poemetto) nel Settecento illuminista, secolo razionale e
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Poesia
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informativo per eccellenza. Ricordiamo infine il poema eroicomico, sottilmente letterario in quanto è spesso una parodia o di temi o di forme dell'epica tradizionale. Anche qui il modello è assai antico e risale alla Batracomiomachia pseudo-omerica, ch'ebbe una significativa ripresa satirico-politica nei Paralipomeni del Leopardi. Capolavoro nell'ambito di questo genere è la Secchia rapita di Tassoni (XVII sec.): ma elementi di parodia del genere cavalleresco si possono ritrovare anche nel Morgante del Pulci e nel Baldus di Teofilo Folengo. Etim.: dal gr. poieln = fare, creare. POESIA. È una consuetudine dell'estetica moderna designare col termine di poesia una realtà fantastica compiuta, l'arte in genere, a prescindere dalle sue caratterizzazioni tecnico-formali: si parla allora della poesia di Dante e di Manzoni, in riferimento alla Divina Commedia e ai Promessi sposi, anche se il poema dantesco è scritto in versi e il romanzo in prosa. Potremmo dire che, in sense; estetico, la poesia coincide con lo stile, con l'individuata fisionomia artistica di uno scrittore, sia esso lo stile peculiare conchiuso nel ritmo delle strofe, dei versi. delle rime (ciò che tradizionalmente si defini~ce « poesia ») o lo stile narrativo della cosiddetta « prosa ». Ciò premesso, occorrerà precisare ulteriormente le caratteristiche tecniche dei due linguaggi, considerando la scrittura artistica non solo come originale e irripetibile sintesi del genio creatore, ma anche come risultato di precise scelte espressive condizionate dalla lingua e dali 'uso tecnico di certi moduli stilistici (soprattutto il verso). Secondo Jakobson, la poesia nasce da una complessa disposizione ritmica, dalla selezione e combinazione delle parole in una sequenza dominata dal principio di equivalenza, ossia dallo stretto rapporto semantico e fonetico dei segni: « In poesia ogni sillaba è messa in rapporto di equivalenza con tutte le altre sillabe della stessa sequenza; un accento tonico è eguale ad ogni altro accento tonico; atona eguaglia atona... pausa sintattica corrisponde a pausa sintattica; assenza di pausa corrisponde ad assenza di pausa. Le sillabe si trasformano in unità di misura, ed accade lo stesso delle more e degli accenti » ( 1966, p. 192). La rima (v.) è il più evidente rapporto di equivalenza fonetica fra le parole della poesia; ma accanto alla rima si collocano altri fattori importanti. quali l'assonanza (v.), la paronomasia (v.), l 'allitterazione (v.), l'armonia imitativa e l'onomatopea (v.). Tuttavia le equivalenze fonetiche non esauriscono la specificità della poesia (la quale spesso è priva di rime). Altrettanto importanti sono le equivalenze semantiche costituite dal cosiddetto linguaggio traslato, cioè dalle figure (v.) quali la metafora (v.), la metonimia (v.), l'antitesi (v.) ecc. Si può affermare (secondo alcuni studiosi, ad esempio gli autori della Retorica generale. 1970 c) che non v'è poesia senza figure, anche se non tt,tte le figure
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sono poesia, essendo il linguaggio figurato anche un aspetto del comune uso linguistico. Non si potrà prescindere, per meglio caratterizzare il discorso poetico, da quanto si è detto in numerose altre voci di questo dizionario: l'ambiguità, la polisemia, l'iperconnotazione dei segni; l'autoriflessività, la motivazione, l'isomorfismo fra piano del contenuto e piano dell'espressione. la correlazione e il parallelismo; la forma, il linguaggio « secondo», la semantizzazione testuale, la transcodificazione, le isotopie. l. I generi della poesia. Non più di un veloce cenno si farà delle tradizionali ripartizioni della poesia secondo i diversi generi letterari (v.), classificazioni discutibili ma empiricamente utili e significative per comprendere l'evoluzione storica del gusto artistico. Normalmente si considerano come generi poetici fondamentali la lirica (v.), il poema (v.) e la poesia narrativa, la poesia drammatica e quella didascalica. Si rimanda alle singole voci per una caratterizzazione strutturale dei vari generi. nell'ambito dei quali si specificano ulteriori distinzioni o eventualmente incontl'i e incroci o travasi dall'uno all'altro. Così la lirica ha una gamma assai vasta di contenuti, e può essere amorosa, elegiaca, filosofica, gnomica, civile, patriottica, religiosa, giocosa, idillica o bucolica ecc. Secondo l'isomorfismo tradizionale fra contenuto e forma. a questi diversi tipi di lirica corrispondono diverse forme metriche (canzone, ode, idillio, inno ecc.). Il genere poetico narrativo comprende svariati tipi di poemi, l'epico o eroico, il cavalleresco, lo storico, il poema sacro e quello mitologico, l'eroicomico; e, fra le altre forme narrative. il poemetto, la novella in versi, la cantica. la romanza. 11 genere drammatico, fondato sulla rappresentazione scenica, ebbe grande sviluppo nell'antichità. Nell'ambito della letteratura italiana ci limitiamo ad accennare alla ripresa della poesia drammatica con le laude e le sacre rappresentazioni (sec. XIII e XIV), mentre il Poliziano con la Favola di Orfeo inaugura il ritorno al genere drammatico di argomento profano. Durante il Rinascimento fiorisce la commedia sia di imitazione classica sia di gusto moderno e boccaccesco; più legata ai modelli tradizionali la tragedia. Ricordiamo anche la commedia dell'arte, a partire dal tardo Rinascimento, e il dramma pastorale; un genere a parte è il melodramma, da cui si sviluppa l'opera lirica. Di antica tradizione greca (si pensi a Esiodo) è la poesia didascalica, volta ad insegnare soprattutto verità morali e filosofiche: tra i modelli ricorderemo il De rerum natura di Lucrezio, le Georgiche di Virgilio, assai imitati nella nostra letteratura rinascimentale. Il genere didascalico è coltivato anche nel Settecento: una variante ironico-satirica è il Giorno del Parini. Oltre al poema e al poemetto didascalico rientrano in questo genere i sermoni, i capitoli e le favole (famose quelle di G. Gozzi e, nel Novecento, di Trilussa). Etim.: dal gr. poiéin = fare, creare.
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Poetica
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« Il termine poetica, come ci è stato trasmesso dalla tradizione, indica in primo luogo ogni teoria interna della letteratura. Esso si applica, inoltre, alla scelta fatta da un autore tra tutte le possibili soluzioni letterarie. (nell'ordine della tematica, della composizione, dello stile, ecc.): "la poetica di Hugo". In terzo luogo esso si riferisce ai codici normativi elaborati da una corrente letteraria, come complesso di regole pratiche il cui impiego diventa allora obbligatorio » (Ducrot-Todorov, 1972, p. 90). La poetica come teoria dell'opera letteraria risale all'::>monimo libro di Aristotele, a cui si possono affiancare il trattato (di autore ignoto) Del sublime, l'Ars poetica di Orazio e le numerose « poetriae » del Medioevo, in cui è prevalente la riflessione sull'aspetto retorico dell'operare artistico. Nel Cinquecento, la riscoperta della Poetica di Aristotele inaugura una nuova imponente meditazione sui problemi dell'imitazione, dei contenuti e dei modelli (generi) delle opere letterarie, delle « regole » dell'elocutio ecc. La storia delle poetiche, fortemente legata a quella del gusto, non può non ricordare almeno due altri libri di rilevante importanza culturale: il Cannocchiale aristotelico del Tesauro (1654) e l'Art poétique del Boileau ( 1674). Successivamente l'indagine « tecnica » e precettistica è gradualmente affiancata e sostituita dalla rillessione estetica. Una ripresa del concetto di poetica come teoria della letteratura si ha nel Novecento soprattutto grazie alla ricerca dei formalisti russi (v.), della scuola morfologica tedesca (Jolles, Walzel, G. Miiller), del New Criticism angloamericano (Richards, Empsom, Brooks, Wimsatt; si veda il noto manuale di Wellek e Warren, Teoria della letteratura) e, infine, degli strutturalisti (v.) e semiologi (v.). Jakobson accentua l'aspetto verbale del discorso poetico (v. LINGUAGGIO, 1); Vinogradov, 1972, ritiene che il compito della poetica sia « la ricerca delle leggi e delle regole di formazione e di costruzione di diversi tipi di strutture letterario-artistiche nelle diverse epoche, in connessione con l'evoluzione dei generi letterari e dei loro stili »; secondo T odoro v una poetica strutturale deve mettere al centro dei suoi interessi le proprietà di quello specifico discorso linguistico che è il discorso letterario (la letterarietà dei formalisti russi); in Italia potremmo ricordare fra le opere precorritrici la Critica del gusto di G. della Volpe (v. FORMA). Una diversa accezione del concetto di poetica si può far risalire agli studi del Russo, del Binni e dell'Anceschi, secondo prospettive che si rifanno all'idealismo crociano (nel tentativo di superarne il monografismo) e alla fenomenologia (importante il contributo di A. Banfi). Secondo questi orientamenti la poetica rappresenta, innanzi tutto, l'elaborazione riflessiva degli artisti sul significato concreto del loro operare, sia in senso tecnico sia in senso ideologico: enunciazione del gusto, dei rapporti con la tradizione, delle finalità di ogni singolo messaggio artistico. ecc. Per il Binni. 1963, p. 13 la poetica è «l'attiva co-
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scienza che il poeta ha, e conquista, della sua forza poetica (essa stessa in continuo fieri) e del suo impiego costruttivo nella prefigurazione e nell'attuazione delle opere cui tende, come atto di coscienza attiva e operativa dell'agire poetico, della sua peculiarità e delle sue generali implicazioni ... ». Ci sembra, peraltro, che nella linea storici&tica del Binni e dei suoi allievi l'ambito della poetica tenda a diventare onnicomprensivo, a riassorbire non solo le intenzionalità artistiche e tecniche ma anche il mondo ideologico del poeta nel suo farsi stilistico: donde la difficoltà talora a distinguere i confini fra l 'indagine sulla poetica e quella sulla poesia. Ci pare più produttivo limitare il campo della poetica agli intendimenti letterari dell'artista (espliciti o impliciti), cioè alle finalità della sua opera, al suo rapporto con la tradizione e con la contemporaneità, alle inclinazioni tecnico-espressive ecc. Sull'argomento rimandiamo a Marchese, 1976; R. Pajano, La nozione di poetica, Bologna, 1970; BariUi, 1969; Anceschl, 1936, 1962, 1968, 1976 (introduzione). POLìMETRO. Secondo I'Elwert, 1973, p. 163, 'il polimetro è una successione di strofe diverse, per quanto alcuni trattatisti intendano designare con questo termine anche la mescolanza senza ordine di ver· si metricamente assai differenti. La successione strofica variata si incontra nelle sacre rappresentazioni quattrocentesche, nei libretti del melodramma (dal Rinuccini al Metastasio sino all'Ottocento), nella poesia bucolica quattrocentesca (ad esempio nelle egloghe dell'Arcadia di Sannazzaro), nella cantata secentesca e arcadica, nella villetta, nella ballata romantica. Etim.: dal gr. polys = molto, métron = misura, verso. POLIPTùTO. Il polyptoton è una figura sintattica per la quale una stessa parola è usata a breve distanza in funzioni diverso;:. t affine alla annominazione (v.). Es.: Senza amare e senza essere amato; Cred'io ch'ei credette ch'io credesse (Dante). Etim.: dal gr. pol)•ptotos = dai molti casi. POLISEMiA. La polisemia è la proprietà di un segno linguistico che ha più sensi (è appunto polisemico), rispetto ad un segno che ha un solo senso (monosemico). Un solo significante può dunque sottendere diversi significati: cane è un animale, una parte del fucile o una persona vile, malvagia. fn quest'ultimo caso la polisemia è direttamente connessa al processo di metaforizzazione del linguaggio (v. METAFORA).
Si è osservato che le parole più frequenti sono polisemiche, mentre quelle meno frequenti sono monosemiche. La formula di Zipf, M = F l /2 (dove M è il numero dei significati del termine ed F la sua frequenza), tenta di precisare questo rapporto statistico.
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Non si confonda la polisemia con l'omonimia, intesa quest'ultima come mera identità fonica o grafica di due morfemi di senso diverso (bara come verbo o come sostantivo). Sull'argomento v. Dubois, 1973. Etim.: dal gr. polys = molto, semeion = segno. POLISÌNDETO. Uso marcato delle congiunzioni fra due o più termini o fra due o più frasi, con valore espressivo; e sempre corsi, e mai non giunsi il fine; l e d imani cadrò ... (Carducci). Tramite il polisindeto, il Petrarca accentua nei versi seguenti il ritmo incalzante del tempo che passa: La vita fugge e non s'arresta un'ora, l e la morte vien dietro a gran giornate, l e le cose presenti, e le passate l mi danno guerra, e le future ancora; l e il rimembrar e l'aspettar m 'accora ... Etim.: dal gr. polys = molto, syndein = legare insieme. PRAGMATICA. « L'aspetto .gn~atico del linguaggio concerne le caratteristiche del suo uso (motivazioni psicologiche dei locutori, reazione degli interlocutori, tipi sociali di discorsi, oggetto del discorso ccc.) in opposizione all'aspetto sintattico (proprietà formali delle costruzioni linguistiche) e semantico (relazioni fra le entità linguistiche e il mondo) » (Dubois, 1973, p. 388). Etim.: dal gr. pragma = fatto, azione. PRETERIZIONE. La preterizione è una figura logica mediante la quale si finge di voler tacere ciò che in realtà si dice. E:>empi: Lasciamo pure da parte i difetti di quella persona, la sua avarizia, la sua boria ... Non ti dico che noia fu quella conferenza. Etim.: dal lat. praeterire = passare oltre, scivolare su un argomento. PROLESSI. Anticipazione di un elemento sintatticamente ripreso d3 un altro (epanalessi) che di solito introduce una frase secondaria. Il modello è la costruzione latina del tipo: Hoc unum te oro, ut ... ( = di questo solo ti prego, che ... ). Hoc unum è un sintagma prolettico, ut è l'epanalessi che introduce la subordinata. In italiano possono darsi forme sintattiche analoghe, quando si vuole mettere in evidenza il rapporto fra due enunciati. Es.: Una sola cosa vorrei dirvi: siate prudenti. Si osservi la forza del nesso prolessi-epanalessi in questi due versi di Montale: Codesto solo oggi possiamo dirti, l ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Etim.: dal gr. prolambcinein = prendere prima, anticipare. PROSA. Considereremo la prosa nel suo valore tecnico, prescindendo dal significato, invalso in alcune estetiche moderne, opposto a quello di poesia (cfr. Croce), per cui sarebbe prosa ogni forma di espressione non lirica, ogni manifestazione linguistica non finalizzata a uno scopo artistico, qualunque sia la sua forma peculiare (il verso o il discorso
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sciolto). La prosa, come ricorda il Lausberg, 1969, p. 256, è il «discorso diretto in avanti » (provorsa), che al contrario del verso ( « svolta, ritorno ») non conosce alcun ritorno regolare, a danza, di uguali cadenze ritmiche. La teoria antica della prosa studia il p~rticolare numerus o costruzione ritmica che regola il periodo, con le relative clausole (v.) che ne caratterizzano l'andamento formale. Di norma viene distinta nel periodo una duplice partitura: la prima è tesa a creare una tensione (protasi), la seconda a risolverla (apodosi); le due frasi possono essere coordinate o subordinate. In questo senso viene superata la rigida definizione sintattica del rapporto protasi-apodosi nel periodo ipotetico. Entrambi gli elementi possono essere divisi in strutture linguistiche minori, dette coli (e il colo o colon a sua volta può constare di una o più sequenze non autonome dette commi). Si possono avere periodi bimembri (protasi-apodosi), formati da due coli, periodi trimembri (con due coli in funzione di protasi e il terzo come apodosi); periodi quadrimembri (con due coli in funzione di protasi e due in funzione di apodosi). Nelle moderne teorie della prosa, l'interesse è spostato verso le tipologie del discorso (ad esempio, narrativo, teatrale) e l'articolazione strutturale degli elementi del racconto (sequenze cardinali, catalisi, indizi, personaggi ecc.); ma per questi problemi rimandiamo alla voce NARRATIVA. t!: tuttavia possibile un'analisi tecnica della prosa volta a evidenziare le procedure stilistiche ritmico-sintattiche che differenziano il discorso artistico in prosa dalla comune prosa referenziale. Si consideri un brano dei Promessi sposi: Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che sia l'aspetto de' suoi familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è triste il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! ... Addio, casa natia, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove un sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Osserviamo che anche nella prosa ritornano le fondamentali figure del linguaggio che più spesso s'incontrano nella poesia. Nel brano manzoniano vi è innanzi tutto una triplice anafora basilare (addio), collegata alle tre parole-chiave del mondo spirituale di Lucia: i monti (cioè il paese), la casa (sdoppiata nella casa natia e in quella coniuga-
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Je). la chiesa. L 'anafora è ribadita dall'epanadiplosi (addio!), che chiude periodi emotivamente incalzanti. La struttura prevalente è di tipo nominale ed elencativo: i termini nucleari sono cioè espansi da catene sintagmatiche in funzione determinativa; nella seconda parte del brano l'espansione è introdotta dal locativo dove (o nella quale) che focalizza l'oggetto, vedendolo per così dire dall'interno. Né sfuggirà il particolare ritmo connesso alla strutturazione sintattica delle frasi, la quale può essere evidenziata mediante un artificio abbastanza comune: la « messa in versi » del brano prosastico. Ad esempio: « Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, ed impresse nella sua mente, non meno che sia l'aspetto de' suoi familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! » Trascurando le suggestive similitudini, si osservi in tutto il passo la sottile tramatura di rime (sorgenti: torrenti: pascenti; pendio: addio; rumore: timore: rossore: Signore: cuore: amore), ac~ompagnate da paronomasie (monti: sorgenti; torrenti: biancheggianti: pascenti; ancora: straniera; casa-sposa; casa-chiesa; rito: segreto) e da numerose assonanze (elevati: ineguali; impresse: mente; meno: aspetto; casa: sogguardata; rito: sospiro); frequenti, infine, sono le allitterazioni (pe· core pascenti, promesso preparato, sospiro segreto). Come già notate dal Petrini, il ritmo musicale, nei momenti di maggiore intensità, si condensa nella misura dei versi, in specie ottonari, novenari, decasillabi(« monti sorgenti dall'acque», «de' quali distingue lo scroscio», « ville sparse e biancheggianti », « dal rumore dc' passi comuni », « il rumore d 'un passo aspettato », « con un misterioso timore », « passando, e non senza rossore », « un soggiorno tranquillo e perpetuo » ). t. La prosa e i generi' letterari. Sin dali 'antichità vennero distinti tre generi basilari di prosa: la prosa narrativa, quella storica e quella oratoria. Non è nostro intendimento scendere ad una minuta catalogazione delle diverse forme espressive che rientrano in questi tre grandi filoni. Ci limiteremo a ricordare che il genere narrativo (v.) abbraccia vari tipi di componimenti, quali la novella, la leggenda, i! racconto, la fìaba, l'apologo e soprattutto il romanzo. Vastissima è l'area del genere storico, che comprende ogni tipo di narrazione concernente fatti politici, economici, sociali ecc. relativi ad un popolo, ad un paese, a un continente, ali 'intera umanità; oppure avvenimenti circoscritti in un preciso lasso di tempo o riferiti a un determinato episodio (monogra-
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fie, biografie, saggi critici). Fra le forme del racconto storico ricordiamo appena le memorie, i diari, i ricordi, le relazioni, le cronache, i commentari, le lettere (ma l'epistolografia può anche essere considerata un genere a parte, come del resto il diario: qui interessa il contenuto). Anche la trattatistica, sorta con intenti didascalici, ha assunto in tempi moderni un immenso sviluppo, diversificandosi secondo i vari rami della scienza e delia cultura. Il trattato filosofico, magari in forma di dialogo (ad es., i dialoghi di Platone) assume sempre una notevole dignità artistica: citiamo il Convivio dantesco, gli Asolani del Bembo, il Principe del Machiavelli, le Osservazioni sulla morale cattolica del Manzoni. Il genere oratorio è soprattutto legato all'eloquenza forense e politica; grande importanza ha pure l'oratoria sacra, connessa alla predicazione. Questo genere è il più vicino alle esigenze retoriche della persuasione e alle relative codificazioni tecnico-formali (quali l'esordio, la perorazione, la mozione dei sentimenti ecc.; v. RETORICA). Col Romanticsimo vengono a cadere le rigide distinzioni fra un genere e l'altro: soprattutto si assiste a una graduale destrutturazione delle forme metriche tradizionali e a una parallela ricerca ritmica nella prosa, che porterà con Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e altri decadenti al poema in prosa, alla prosa musicale, al frammento lirico o, in una sperimentazione non divergente, al verso libero simbolista e postsimbolista. Molto importanti, per un'indagine stilistica della prosa artistica del nostro Novecento, sono i contributi di G.L. Beccaria, 1975 a, che ha giustamente individuato in D'Annunzio il punto d'incrocio di numerose esperienze e soluzioni tecniche che si riflettono dalla prosa alla poesia e viceversa (il periodo cumulativo, l'enumerazione, la paratassi, le riprese oratorie ecc.). Il carattere « poetico » della prosa dannunziana è evidenziabile dal computo delle « unità melodiche » (Beccaria) sapientemente disposte nella frase in serie progressiva, cioè in una successione di membri sempre più estesi, o in serie regressiva, quando la lunghezza dei sintagmi è decrescente. Queste scelte calcolate dell'ultimo D'Annunzio si ritrovano già in nuce nei romanzi, come nota il Beccaria citando un passo del Trionfo della morte: Le giovinette, / con in capo canestre di grano, / conducevano per le vie un'asina / che portava sulla groppa una maggiore canestra, / e andavano all'altare, / per l'offerta, / cantando./ A individuare l'estensione delle unità melodiche serve l'uso pm c meno spaziato della punteggiatura, che assume una precisa funzione ritmica, come si può osservare nel brano riportato, dove il gerundio finale sigla musicalmente la regressione dopo una serie progressiva. Per un approfondimento si vedano: G.L.- Beccaria, Ritmo e melodia
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Prosopopèa
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nella prosa italiana. Studi e ricerche sulla prosa d'arte, Firenze, 1964; G. Falena, in "Lettere italiane", 1958, p. 21 sgg.; AA.VV., 1973 c; Mengaldo, 1975. PROSODiA. Nella linguistica moderna si distinguono elementi fonematici ed elementi prosodici, i primi detti anche segmcntali, gli altri soprasegmentali. l fenomeni prosodici sono il timbro dei suoni, l'altezza, l'intensità, la durata e, soprattutto, l'intonazione (variazione d'altezza dei suoni relativa a gruppi sintattici o frasi) e l'accento. L'intonazione, ascendente o discendente, può assumere un significato pertinente o espressivo, quando serve, ad esempio, a opporre frasi semanticamente diverse o sfumate: i bambini che hanno lavorato saranno premiati (il sintagma espanso specifica, nella classe generale dei bambini, quelli che hanno lavorato); i bambini, che hanno lavorato, saranno premiati (l'inciso ha valore causale). La punteggiatura, in questo caso, marca la funzione dell'intonazione. L'accento manifesta l'intensità, l'altezza e/ o la durata di una sillaba in rapporto alle sillabe contigue (v. ACCENTO). Cfr. Ducrot-Todorov, 1972, p. 197, sgg. Nel significato tradizionale, la prosodia è Io studio delle regole metriche, specialmente greco-latine. Nelle prospettive attuali della linguistica e della semiotica i fenomeni prosodici costituiscono la base « naturale » su cui si inseriscono le manipolazioni stilistico-strutturali del metro e del ritmo poetici e in generale le articolazioni melodiche della scrittura letteraria. Etim.: dal gr. pr6s = verso, oidé = canto. PROSOPOPÈA. La prosopopea è una figura mediante la quale lo scrittore fa parlare un personaggio assente o lontano o defunto o anche un essere personificato come l'Italia, la Gloria, la Patria (si ricordi la prima Catilinaria di Cicerone). Nel carme In morte di Carlo Imbonati il Manzoni immagina che lo spirito del defunto gli appaia in sogno e gli parli, dandogli alti consigli morali: Sorrise alquanto, e ri-
spondea: « Qualunque / di chiaro esempio, o di veraci carte / giovasse altrui, fu da me sempre avlfto / in onor sommo ... >> La prosopopea può anche riguardare cose inanimate: Intesi allora che i cipressi al sole / una gentil pietade avean di me, / e presto il mormorio si fe' parole: l - Ben lo sappiamo: un pover uom tu se' (Carducci). lo questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m'affaccio, l e l'antica natura onnipossente, / che mi fece all'affanno. « A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d'altro l non brillin gli occhi tuoi se non di pianto >> (Leopardi). La prosopopea si colloca nell'ambito delle figure logiche come l'allegoria, la personificazione, l'antonomasia e può essere accostata alla favola degli animali. Etim.: dal gr. pr6sopon = volto, poiein = fare.
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Pròtasi
PRÒT ASI. La protasi è la frase subordinata condizionale collegata all'apodosi (v.) nel periodo ipotetico. Nella teoria classica del periodo la protasi rappresenta il momento della tensione e l'apodosi quello dello scioglimento (v. PROSA). Secondo alcuni &tudiosi si può chiamare protasi la parte ascendente della curva melodica di una frase, culminante nell'acme; ma a nostro parere tale accezione dd termine rischia di confondere il piano sintattico (nel quale normalmente si colloca la protasi) e quello fonoprosodico. avanti. teinein tendere. Etim.: dal gr. pr6
=
=
PROTESI. Si chiama protesi l'aggiunta, a inizio di parola, di un elemento non etimologico; ad esempio: istrada, l svizzera, isbaglio; oppure ignudo, disfavilla. Etim.: dal gr. pro = davanti, thésis = collocazione. PUNTO DI VISTA. Il punto di vista o fuoco della narrazione (donde anche l'uso frequente del termine « focalizzazione ») è « l'angolo di ripresa, il centro narrazionale, il punto ottico in cui si pone un narratore per raccontare la sua storia » (Bourneuf-Ouellet, 1976, p. 77). Seguendo una nota distinzione di J. Pouillon si può distinguere una triplice focalizzazione: l. Il narratore « ne sa di più » del personaggio (o dei personaggi). Come l'occhio di Dio, esso legge nel cuore e nella mente delle sue figure, ci mette a conoscenza dei loro più intimi segreti, addirittura sa e interpreta ciò che i personaggi stessi non riescono a capire di loro stessi e degli altri. t l'atteggiamento di gran lunga prevalente nel racconto classico, sino all'Ottocento. Si pensi, ad esempio, al Manzoni nei Promessi sposi: la sua superiorità nei confronti dei personaggi si nota particolarmente nelle sottili analisi psicologiche (la monaca di Monza, l'Innominato), nei caratteristici soliloqui (don Abbondio durante l'avventuroso viaggio verso il castello dell'Tnnominato), nelle diverse occasioni in cui l'autore sottolinea o commenta il comportamento delle persone messe in scena. In tutti questi casi, si può parlare di un autore onnisciente e di una visione « dal di dentro » (o « alle spalle » ). 2. Il narratore « ne sa quanto » i personaggi, non conosce cioè in anticipo la spiegazione degli avvenimenti. Il caso più comune di questo tipo di racconto è la narrazione in prima persona, dove l'« io narratore» è un personaggio come gli altri. Anche nella narrazione in terza persona si può dare l'eventualità che il narratore conosca la vicenda dal punto di vista di un personaggio (il caso classico è Il Castello di Kafka). ~ questa la visione « con », caratterizzata dalla scelta di un personaggio come centro del racconto: « è con lui che vediamo gli altri personaggi, è con lui che viviamo gli avvenimenti raccontati » (Pouillon). 3. Il narratore « ne sa meno » dei personaggi, perché si limita solo
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Pubblico
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a descrivere ciò che vede esteriormente, a testimoniare dei fatti. t: la posizione del narratore naturalista o verista dell'Ottocento, ripresa in forma ancora più rigorosa da alcune scuole recenti (l'école du regard. ad esempio) nell'intento di darci un'obiettività assoluta, un realismo integrale. La visione è «dal di fuori». Secondo Genette, 1976, i problemi della « visione » o del «punto di vista » rientrano nel « modo » della narrazione. Egli propone di chiamare il primo tipo (a narratore onnisciente) racconto non-focaliz· zato o a focalizzazione zero; il secondo racconto sarà a focalizzazione interna, fissa o variabile o multipla (quando cioè il punto di vista è di un solo personaggio o varia dall'uno all'altro o, come nei romanzi epistolari, la variazione del punto di vista comporta la molteplicità dei giudizi su uno stesso fatto, evocato varie volte in modo diverso); il terzo tipo di racconto è a focalizzazione esterna. Talvolta lo scrittore inizia la narrazione presentandoci un personaggio mediante focalizzazione esterna, in modo enigmatico, per passare poi a una visione onnisciente. Si hanno alterazioni del punto di vista quando vengono date più informazioni (o meno) di quanto non sia necessario. Genette chiama parallissi (dal gr. /eipein = lasciare) il caso in cui vengono tralasciate alcune informazioni, e parallessi (dal gr. lambtinein = prendere) il caso in cui ne vengono fornite più del dovuto. Caso classico di parallissi, nella focalizzazione interna, è l'omissione di un'azione o di un pensiero importante del protagonista focalizzato, che il narratore decide di nascondere al lettore. L'eccesso di informazione o parallessi « può consistere in un'incursione nella coscienza di un personaggio durante un racconto generalmente condotto in focalizzazione esterna >> (op. ci t., p. 244 ). Si potrebbe considerare l'« addio monti >> manzoniano un caso di parallessi, dal momento che è il narratore a interpretare i sentimenti dei suoi personaggi, di Lucia in particolare (si incrociano focalizzazione zero e focalizzazione interna). Il punto di vista narrativo richiede una collocazione del narratore, che sarà presente nel suo racconto quando narra, ad esempio, le sue memorie o pubblica un suo diario: il soggetto è l'oggetto della narrazione (narratore omodiegetico). Accanto a un primo narratore si possono dare altri personaggi narratori, sino al caso limite del romanzo epistolare, in cui è il lettore che deve ricostruire la trama e il senso del racconto. Nella narrazione eterodiegetica (in terza persona e preferibilmente al passato remoto) il racconto sembra farsi da solo: l'intervento del romanziere (la « voce » secondo Genette) introduce il livello del discorso (modalizzante, valutativo ecc.: v. STILE, DISCORSO).
PUBBLICO. È stata soprattutto la sociologia della letteratura a mettere in risalto l'importanza del pubblico .non solo nel momento della ricezione del messaggio ma anche nella fase della sua progettazione.
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Esiste un « orizzonte delle aspettative » (Mannheim) o « orizzonte di attesa » che condizionerebbe l'artista nella produzione della sua opera? Secondo Jauss (Perché la letteratura?, Napoli, 1969) e Weinrich sì, perché l'aspettativa dei lettori sarebbe una componente fondamentale del testo artistico: « Dal momento che un'opera letteraria si presenta come parte di una determinata categoria letteraria, essa è già proiettata in un orizzonte di aspettative che per il lettore, il lettore esperto naturalmente, è il risultato della sua familiarità con questa categoria» (H. Weinrich, in AA.VV., 1973 b, p. 240). Ma, venebbe da obiettare, l'opera non è piuttosto condizionata dal suo rapporto (adesione-evasione, accettazione-rinnovamento-rifiuto) con il genere letterario o il codice culturale o gli istituti linguistici e retorici, come sostiene la critica semiologica? In tal caso, il contributo della sociologia sarebbe quello di comporre una mappa tipologica del rapporto opera-sistema da confrontare eventualmente col diagramma della « serie delle interpretazioni » (Eco), cioè delle diverse e storicamente condizionate decodificazioni dei lettori. La scuola di Bordeaux, promossa da Escarpit, vede la letteratura essenzialmente come un fatto comunicativo, mediato dal libro, che si inserisce in uno specifico mercato per soddisfare un bisogno-consumo. Nell'ambito di questa ipotesi metodologica, « l'opera letteraria è il risultato dell'azione dell'autore e del lettore, è il coronamento di uno sforzo, per non dire di un lavoro comune ... Il contenuto della comunicazione muta con il recettore. L'opera letteraria, il libro, lo stampato sono ciò che ne fa il lettore. Leggere è costruire» (N. Robine, in AA. VV., 1972 a, p. 190). Questo discorso è abbastanza comune anche fuori delle prospettive sociologiche e ha più di un nesso con la teoria dell'« opera aperta» (Eco) o con quella dell'« irresponsabilità del testo» (Barthes), tipiche della nouvelle critique. Riassume bene questa ottica il seguente passo di G. Guglielmi: « L'idea che tutte le opere appartengano alla stessa temporalità, sia pure dinamica, che esse siano riconoscibili là, nel nostro orizzonte, con i loro connotati di "oggettività", appare oggi una petizione di principio, perché è sempre la presenza e il percorso della conoscenza di chi si volge al passato a determinare il suo senso, a stabilire quanto può essere ricordato e quanto invece debba restare nascosto. Il meccanismo oblio/memoria funziona ogni volta diversamente: ciò che in un determinato tempo viene ricordato è proprio quello che si vuole ricordare; il resto viene obliato. E la soglia oblio/memoria si sposta secondo la situazione storica dell'interprete e secondo una pluralità di serie temporali. E questa l'indicazione che .;i può ricavare dalle tesi di Hans Robert Jauss. Qui l'interprete è un provvisorio punto di fuga che non tanto riproduce il passato, nella sua "obiettività", quanto Io produce e lo provoca. Egli non assomma in sé il senso della storia (non la comprende come totalità), ma sta dentro la temporalità
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e ne lascia aperte le possibilità. Un più insistito rilievo, magari, esigerebbe il fatto che le dis(!Ozioni tra autore e destinatario (interprete) sono puramente funzion 1P. È: evidente, del resto, che non solo ogni autore è in primo luogo un destina t 1rio, ma che ogni testo nuovo sta nello spazio della ricezione e risponde ad altri testi, mentre la sua durata è a sua volta in relazione con la sua capacità, storicamente mutevole, di suscitare risposte » (Da De Sanctis a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna, 1976, p. 11 sg.). t. indubbio che ogni scrittore mira a un rapporto con un destinatario più o meno ideale, più o meno esteso, oltre il rapporto con se stesso o con un interlocutore privilegiato (il « tu » di tante poesie). In epoche particolari (potremmo dire « organiche »), com.:: il Medioevo, l'autore ha una precisa consapevolezza del suo pubblico, del mondo di valori a cui i destinatari si riferiscono, del loro orizzonte di attese ecc. Si potrebbe dire con Sartre che l'opera ha in sé l'immagine idealizzata del lettore. Questa consapevolezza comincia a venir meno dall'Ottocento in poi: oggi la frantumazione sociale e ideologica del pubblico, connessa alla diffusione di massa dei « prodotti culturali », comporta una serie di problemi nuovi nella decodificazione dei testi, cioè nei processi di lettura. Il pubblico recepisce l'opera a diversi livelli, da quello più grossolanamente contenutistico agli aspetti parziali (di carattere storico, sociale, documentario, psicologico ecc.) e talora ne distorce il senso, sovrapponendo al testo dei codici di interpretazione totalmente estranei alle intenzioni dell'autore. Da queste considerazioni risulta l'importanza di conoscere oggettivamente il pubblico, nelle sue stratificazioni sociali, nei suoi gusti, nei modi di fruizione, nei meccanismi di accettazione e di rifiuto delle opere. L'optimum della lettura è, non la comunanza o l'identità fra valori dello scrittore e valori del lettore, ma un corretto processo di ricostruzione dei codici e dei sottocodici attivati dall'opera: ciò che si potrebbe chiamare una partecipazione critica al senso del testo e alla Weltanschauung dell'autore. Ma questo approccio è piuttosto un obiettivo ideale che una modalità consueta, in quanto presuppone una complessa preparazione culturale da parte del pubblico-lettore-ricettore (v. TESTO). Il successo dei lavori Kitsch e il rifiuto di opere particolarmente in anticipo sui tempi ( « profetiche ») dimostra come le procedure di fruizione e di decifrazione, la vita stessa dei messaggi estetici siano profondamente condizionate dal pubblico, anche se non sembra accettabile una visione relativistica del significato globale delle opere coincidente con i tipi, estremamente vari, di lettura o di ricezione. Su questi problemi si vedano soprattutto: AA.VV., 1972 a; AA. VV., 1973 b; AA.VV., 1974 a; AA.VV., 1976 a; Benjamin, 1966; Corsini, 1974; Corti, 1976; Della Volpe, 1971; Duvignaud, 1969; Eco, 1962; Escarpit, 1970; Golino, 1976; Hauser, 1969; Hirsch, 1973; Marchese, 1976; Mukafovsky, 1973; Starobinski. 1970.
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QUADRISILLABO. Il quadrisillabo o quaternario è un verso di quattro sillabe metriche o posizioni (v. METRICA). Fu molto usato nelle canzonette meliche del Chiabrera, insieme con I'ottonario. Ha ritmo trocaico (v.). Es.: In più modi l vostre lodi l già commisi alla mia lira. QUARTINA. Strofa o gruppo di quattro versi, fra loro variamente rimanti, che costituisce un'unità di uno schema metrico più complesso, ad esempio il sonetto (formato da due quartine e due terzine). S'incontrano quartine nel serventese (v.), nella laude e in forme liriche popolari, come la villotta e la romanella. QUINARIO. Il quinario è un verso di cinque sillabe metriche, con arsi interne mobili. II suo ritmo è normalmente giambico ma, per inversione di battuta, può diventare dattilico (cfr. Elwert, 1973, p. 70). Es.: Città gagliarda, l città cortese, l perla del Garda, l figlia dell'itala l nostro paese... (G. Prati).
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RACCONTO. Legati alle letterature orali, ai miti e alle leggende, sia il racconto sia la novella (v.) hanno radici antichissime, per lo più folcloriche e religiose. Mircea Eliade ritiene che numerosi racconti non siano che miti degradati di eroi divini, che devono sottostare a prove iniziatiche, quali la lotta col drago, la discesa agli inferi, la morte seguita dalla resurrezione miracolosa. In senso tecnico il racconto è una narrazione: trasmissione di informazioni mediante enunciati che rappresentano delle azioni e degli agenti (in francese récit). Si è discusso sulle differenze fra racconto e romanzo (v.), ma nella prospettiva che a noi interessa, essenzialmente metodologica, entrambi rientrano nella categoria della narrativa (v.). Un'accezione tecnica del termine distingue il racconto come narrazione o intrecciò, dalla storia o fabula (v.): si parlerà pertanto di racconto per ogni opera narrativa, dal poema epico alla canzone di gesta al romanzo.
RAPPRESENTA TIVIT À. Nell'analisi stilisti ca del piano d eli 'enunciato (v.), per quanto riguarda l'aspetto semantico si può intendere per rappresentatività il contenuto di quelle frasi che descrivono fatti e avvenimenti, col massimo di capacità denotative, oppure delle frasi che enunciano idee astratte (sentenze, riflessioni, verità ecc.). Cfr. DucrotTodorov, 1972, p. 331. La prima terzina dell'Inferno può essere considetata in rapporto alla sua rappresentatività: Nel mezzo del cammin di nostra vita l mi ritrovai per una selva oscura, l ché la diritta via era smarrita. Ma ad una analisi più profonda si individuano dietro le immagini precisi codici religiosi e scritturali, che rinviano non solo alla figuratività del linguaggio poetico {la vita come cammino, la selva come allegoria ecc.) ma soprattutto alla polisemia, all'iperconnotazione dei testi particolarmente « densi ». Diverso è il concetto di rappresentatività nella teoria letteraria. Esso
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Récit
allude al valore di un'opera in rapporto alla sua capacità di esprimere le tendenze ideali o estetiche di un'età, di un ambiente, di un movimento artistico. La rappresentatività può essere un semplice aspetto del costume o del gusto, nelle personalità di minor rilievo, mentre nei maggiori è sempre l'emblema di uria profonda partecipazione etico-intellettuale ai problemi e ai valori di un'epoca o di una civiltà. Ad esempio, l'Ariosto e l'Aretino sono diversamente rappresentativi del Rinascimento.
RÉCIT. v.
RACCONTO, NARRATIVA.
REFERENTE. Il referente è ciò a cui rinvia un segno linguistico nella realtà extralinguistica come è esperita dalle diverse comunità umane. Non si deve pensare che il referente indichi sempre una « cosa » esistente; ad esempio, l'ippogrifo non esiste ma il segno linguistico ha un suo referente. Nei fattori della comunicazione, secondo Jakobson (v. LINGUAGGIO), il referente è la situazione o contesto a cui il messaggio rimanda. Si veda Dubois, 1973, p. 415.
REFERENZA. Ogni segno linguistico è costituito dal nesso tra un concetto e una immagine acustica (definizione saussuriana), ma rinvia parimenti a una realtà extralinguistica (v. REFERENTE). Occorre precisare che la funzione referenziale mette il segno in rapporto non direttamente col mondo degli oggetti reali, ma col mondo percepito nell'ambito delle forme culturali-ideologiche di una data società (cfr. Dubois, 1973, p. 414). Nel triangolo di Ogden-Richards (Il significato del significato, Milano, 1966) la referenza sta al posto del significato o concetto di Saussure. Sull'argomento si veda Eco, 1973, p. 26 sgg. REFRAIN. Nella ballata provenzale il ritornello (refranh) di due, tre o quattro versi è un elemento essenziale che lega le diverse strofe: l'ultima rima del ritornello si ripete nell'ultimo verso della strofa. Questo schema è ripreso in alcune ballate italiane del XI I sec. (cfr. Elwert, 1973, p. 137). In senso lato si può considerare un refrain la ripresa periodica di uno o più versi, ma anche di una o più parole, come in certe poesie del Pascoli (ad esempio il ChiLI... dell'« Assiuolo », che conclude ogni strofa rimando col sesto verso). Etim.: dal fr. refaindre = rifrangere.
REGISTRO. «All'interno di un codice, ad esempio il codice lingua italiana standard, si situano, o possono situarsi, più sottocodici specializzati e più registri che sulla base del codice comune individuano e
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Reticenza
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organizzano settori particolari o per l'uso del codice o !Jer la sua funzione nell'interazione sociale. Così, leggendo un giornale sportivo italiano, per interpretare correttamente quanto leggo io dovrò conoscere, e tenerne conto, oltre al codice lingua italiana anche il sottocodice specifico della lingua sportiva; e quando parlassi in una assemblea studentesca, ovvero scherzassi con un amico, utilizzerei i sottocodici rispettivamente della lingua politica e studentesca, e il registro della lingua familiare. Va notato che i sottocodici che abbiamo chiamato sportivo, politico, studentesco si collocano su un piano diverso da quello che abbiamo chiamato registro familiare, poiché costituiscono delle vere e proprie varietà speciali del codice-lingua, con caratteristiche tipiche e schemi d'uso particolari, evidenti soprattutto al livello del lessico, mentre l'ultimo è invece piuttosto una "modalità d'uso" del codice ... Quello che abbiamo chiamato registro familiare consisterà nello scegliere certi elementi forniti dal codice lingua italiana piuttosto che altri, per esempio si useranno termini affettivi, si accentuerà la presenza di termini emotivi e confidenziali, si useranno parole semplici e poco ricercate ... » (Berruto, 1974, p. 25 sgg.). Nell'ambito letterario il registro corrisponde a una varietà della lingua letteraria conformata sul modello dei diversi generi. È pertanto identificabile con la scrittura (v.). L'uso di determinate forme, ad esempio foco, loco, tipiche della poesia liric1 sino a tutto l'Ottocento, offrono una « informazione supplementare di registro» (Wandruszka). Si veda in proposito Corti, 1976, p. 85. REGRESSIONE. La regressione è una figura sintattica che consiste
nel riprendere, alla fine di una frase, alcune parole tematiche sia spiegandone il significato sia enumerandole in ordine inverso. Si veda, per la retorica antica, l'esemplificazione di Lausberg, 1969, p. 213. RELAZIONE. La relazione è il rapporto che esiste fra due termini
(parole, frasi o anche fonemi, morfemi) sul piano sintagmatico, quando si succedono nella catena parlata, o sul piano paradigmatico, dove possono essere sostituiti scambievolmente in una posizione identica. Il concetto di relazione è particolarmente importante per descrivere la struttura semantica di un testo (v. IMPLICAZIONE, INCLUSIONE). RETICENZA. È una figura logica che consiste neli 'interrompere ptu o meno bruscamente una frase a scopo impressivo, lasciando all'ascoltatore il compito di completarne il senso. Si considerino i seguenti versi del Pascoli: La parte, sì piccola, i nidi l nel giorno non l'ebbero intera. l Né io ... Qui l'ellissi del pensiero ( « nemmeno io ho avuto la mia parte nella vita ») attenua, per pudore, la pena. I n altri casi la reticenza serve a insinuare dubbi, a sottintendere allusioni o minacce: un caso classico è il discorso del Conte Zio nei Promessi sposi (v. cm-
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Retorica
Più raramente è detta, con termine greco, aposiopèsi. Etim.: dal lat. reticére = tacere.
CONLOCUZIONE).
RETORICA. La retorica nasce, secondo la tradizione, _l:). Sira_ç~~-~ verso la metà del V sec. a.C. quando, dopo la caduta del tiranno Trasibulo e col ritorno della democrazia, hanno luogo numerosi processi riguardanti la rivendicazione di proprietà private finite nelle mani dei tiranni; questi processi, davanti a giurie popolari, richiedono un particolare tipo di eloquenza deliberativa di cui furono maestri Corace e Tisia. --ri retorica passa poi in Attica e vi si sviluppa nella seconda metà del V secolo, con Gorgia e -con--gli altri sofisti. Nel dialogo platonico che porta il suo nome, Gorgia afferma che l'arte retorica è « l'arte della parola » e giustamente Socrate sottolinea come tale arte sia « creatrice di persuasione », una persuasione che « produce un credere, non una persuasione che insegni sul giusto e sull'ingiusto ». B qui caratterizzato il ruolo fondamentale della retorica: la capacità di servirsi della lingua - con il suo potere suggestivo ed emotivo - per persuadere un uditorio (i giudici, ad esempio) e attenerne il consenso. A questo livello la retorica si collega, soprattutto con Aristotele, a una teoria dell'argomentazione che si fonda su un particolare ragionamento, l'entimema (v. INVENTIO), cioè una sorta di sillogismo approssimativo, fatto per il pubblico a partire dal probabile e da premesse verisimili (eik6s), plausibili (éndoxon). L'ornamento, la seduzione formale, la captatio benevolentiae (v.), in una parola l'« arte» retorica vale a sostenere la forza suasiva ma probabilistica dell'entimema e a invogliare l'interlocutore all'assenso: l'inventio, la ricerca delle argomentazioni, è strettamente legata all'elocutio (léxis), i modi espressivi della persuasione. Man mano che la retorica sviluppa questo secondo aspetto, convogliando nella teoria dell'elocuzione il discorso propriamente poetico, il discorso figurato (v. FIGURA), la ricerca della bella parola e del bello stile, si accentua il « processo di letteraturizzazione » (Florescu, 1971, p. 43) che culmina nel Medioevo, « quando la retorica servirà di guida alla prosa artistica (come la poetica alla versificazione) » (Florescu). l. Le parti della retorica. Secondo la tradizione greco-latina la retorica consta di cinque parti: l. Inventio o éuresis: trovare cosa dire, 2. Dispositio o taxis: mettere in ordine ciò che che si è trovato, 3. Elocutio o léxis: esporre con ornamento il discorso, 4. Actio o ip6crisis: recitare il discorso con gesti e dizione appropriati, S. Memoria o mneme: mandare a memoria il discorso. L'inventio (v.) ha come capitolo fondamentale la ricerca delle prove (pisteis), delle vie di persuasione: soprattutto l'exemplum o l'entimema (con le sue premesse: l'indizio sicuro, il verisimile, il segno). Gran-
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Ricettore
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de supporto dell'inventio è la topica, cioè l'insieme dei luoghi comuni o t6poi (v. TOPOS).
La disposi/io (v.) tratta delle quattro parti del discorso retorico: l'esordio, con la captatio benevolentiae (v.) mediante la quale si cerca di allettare l'uditorio; la narratio (diégesis), cioè il racconto dei fatti, che può seguire l'ordine normale in cui si sono svolti (ordo naturalis) o partire non dall'inizio ma in medias res (ordo artifìcialis); la confìrmatio o resoconto degli argomenti; l'epilogo o perorazione, ossia la conclusione del discorso, con l'appello ai sentimenti del giudice e dell'uditorio. L'elocutio (v.) riguarda l'espressione, il linguaggio, la scelta delle figure con cui ornare il discorso! Nello sviluppo della retorica ha assunto sempre più una posizione indipendente e privilegiata, in particolare nella codificazione dei traslati o tropi, costituendo il punto di incontro con la poetica e la letteratura. La memoria e l'actio, meno importanti, hanno attinenza soprattutto con l'esecuzione, in qualche modo teatrale, del discorso; sicché potrebbero interessare la recitazione, l'arte declamatoria, la tecnica della gestualità e della mimica ecc. 2. La retorica oggi. Fra i cultori moderni della retorica un posto distinto spetta a Perelman, che ha ripreso il concetto aristotelico dell'argomentazione come necessario complemento della dimostrazione basata sul ragionamento formale: « Il ragionamento more geometrico che si propone come modello unico non può essere applicato al piano delle opinioni più o meno verisimili. Questo porterebbe a riconoscere, afferma Perelman, che oltre i limiti al di là dei quali cessa l'efficacia del calcolo, dell'esperienza e della deduzione logica resta solo una terra di nessuno abbandonata all'irrazionale, agli istinti, alla violenza o alla suggestione. Ma sappiamo che, anche entro i limiti del proprio campo d'azione, la dimostrazione fondata sul ragionamento formale presenta dei gravi difetti. t impersonale, atemporale, ignora, oltre alle determinazioni psicologiche e storiche della conoscenza, le determinanti sociologiche» (Florescu, 1971, p. 127). Accanto al recupero della retorica argomentativa bisogna porre le ricerche più spiccatamente linguistiche e stilistiche dei formalisti russi (v.), del New Criticism (cfr. Richards, 1967), dei semiologi francesi (Barthes, 1972; Genette, 1969, 1972, 1976; AA.VV., 1970 c) e di alcuni studiosi italiani (Eco, 1968, 1971, 1975 ). Né vanno dimenticate le proposte di Jakobson sulla metafora e sulla metonim!a, che tentano di collegare retorica e linguistica, o le indicazioni di Lacan sul linguaggio onirico (condensazione-metafora, spostamento-metonimia) che coniugano Freud e Jakobson. RICETTORE. Il ricettore è colui che riceve e decodifica un messag-
gio.
V. COMUNICAZIONE.
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Ricezione
RICEZIONE. ~ l'azione con cui si riceve un messaggio. v.
COMUNI-
CAZIONE.
RICONOSCIMENTO. Sin dalla Poetica di Aristotele il riconoscimento o agnizione è individuato come uno dei cardini della trama narrativa, in particolare nel teatro. Il caso classico è quello del personaggio che, al termine di una serie più o meno complessa di vicende, viene riconosciuto da altri o si autoriconosce nella sua vera identità. Nella commedia latina, ad esempio, l'agnitio è un topos assai sfruttato per dirimere situazioni difficili o scabrose. Il riconoscimento può riguardare anche i modi e i tempi con cui il lettore scopre la verità, abilmente celata dallo scrittore. Il procedimento è tipico del romanzo giallo o avventuroso (cfr. il « colpo di scena », la « scena madre >> ecc.); ma anche in racconti psicologici lo scrittore può adottare un punto di vista (v.) che strutturalmente mette in ombra o tralascia alcuni fatti relativi a un personaggio e la cui conoscenza è ritardata ad arte. La vicenda di Edipo può costituire l'emblema del riconoscimento nel senso più profondo del termine: l'eroe prende coscienza del suo vero essere al termine di una inquietante inchiesta, che si conclude con la catastrofe. L'identificazione dell'eroe è peraltro una delle funzioni della fiaba di magia studiate da Propp, a riprova del carattere topico e assai generalizzato di questo procedimento narrativo. RIDONDANZA. Nella teoria della comunicazione, un messaggio è tanto più ridondante (in una prima approssimazione: rip~titivo, ricco di elementi accessori) quanto più è scarsa la quantità di informazione trasmessa in rapporto ad una ipotetica quantità massima. Siccome il rumore o interferenza può impedire la trasmissione del messaggio, la ridondanza serve a correggere tale inconveniente. In senso generale si può dire che un messaggio è ridondante quando contiene elementi non necessari alla corretta decodificazione, ma utili se non indispensabili perché avvenga la comunicazione. (Si pensi a termini come attenzione. pronto più volte ripetuti nelle trasmissioni radio, in certe situazioni). Nella retorica tradizionale la ridondanza è sinonimo di ripetizione, iterazione, reduplicazione (v.). Secondo le moderne teorie linguistiche e semiotiche, si può istituire un confronto fra il normale discorso comunicativo, per più aspetti ridondante (ripetizioni di parole, sottolineature di tono, pause ecc.), c il discorso poetico, nel quale le strutture metrico-ritmiche eliminano la ridondanza a vantaggio della pluriisotopia (v. ISOTOPJA, AMBIGUITÀ, STILE): la correlazione dei diversi elementi del testo (fonoprosodici, semantici, sintattici) e la natura stessa parallelistica e iterativa del discorso poetico creano una nuova e diversa ridondanza, da intendersi però come ricchezza connotativa del messaggio.
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Rima
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RIGETTO. « t la parte dell'unità sintattica che, iniziata in un verso (o in un membro), si continua nel seguente» (Di Girolamo, 1976, p. 53). In particolare, il rigetto è la seconda parte dell'unità sintattica legata dall'enjambement: interminati l spazi (Leopardi); a questa voce l vo comparando (Leopardi). Qui spazi e vo comparando costituiscono il rigetto. V. anche CONTRORIGETTO. Etim.: dal fr. réjet = termine respinto (nel verso seguente). RIMA. Definita tradizionalmente come « perfetta identità di suono dell'uscita del verso a partire dall'ultima vocale tonica » (Elwert, 1973, p. 83), la rima è il procedimento più caratteristico della poesia, anche se non necessario né sufficiente a realizzarne il valore estetico. La rima, infatti, è un aspetto di quella generica funzione poetica del linguaggio che si ritrova anche in messaggi esteticamente non motivati, come le fllastrocche, i proverbi, le sentenze ecc. Es.: Trenta giomi ha
novembre l con aprii, giugno e settembre; l di ventotto ce n'è uno, l tutti gli altri ne han trentuno. Qui i versi e le rime sono finalizzati ad una funzione mnemonica, cioè pratica. Oltre ad essere un segnale della funzione poetica, la rima ha soprattutto il compito di collegare il suono al significato, l'aspetto melodico a quello semantico. In particolare, l'iterazione fonica, ossia l'isotopia stabilita dalla rima a livello di suono, crea immediatamente un rapporto di senso fra i termini rimanti, le parole « compagne di rima » (J akobson). La ridondanza (v.) dei fattori allitterativi, assonantici, paronomastici o di vere e proprie rime nel comune linguaggio standard è neutralizzata nella poesia dal valore funzionale che la rima (come gli altri elementi fonoprosodici) viene ad assumere. Per dirla con Lotman, la rima accentua la semantizzazione delle parole in forme assai diver· se, sia avvicinando i termini, mostrandone i rapporti allusivi, localizzando dei campi semantici; sia all'opposto divaricandoli, creando fra le parole scarto e tensione espressiva. V'è da aggiungere, però, che queste indicazioni non hanno un carattere assoluto, perché ogni poeta si serve della rima per specifiche operazioni formali: se in Dante essa sottolinea il valore semantico dei termini, in Petrarca vale piuttosto ad attenuarlo, a creare un continuum melodico. In recenti proposte metodologiche (cfr. Beccaria, 1975 a; Agosti, 1972), si è sottolineato il valore autonomo (o più o meno autonomo) del significante poetico rispetto al signifìcato, quasi che il significante scaturisse se non contro gli enunciati almeno indipendentemente, tanto da rivelare l'Altro Discorso, il messaggio inconscio. Nonostante le no-. stre riserve su tali indicazioni, specie se assolutizzate (cfr. Marchese, 1974, p. 146 sgg.; v. CORRELAZIONE), è indubbio che in molti casi il significante, sia esso veicolo di rima oppure in funzione autonoma, attinge e rivela elementi inconsci. In ogni modo, la rima anche come puro significante può costituire un fattore di semantizzazione.
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l. Vari tipi di rima. Si possono distinguere diversi tipi di rima: la rima piana o parossitona: può essere considerata la rima normale, la rima tronca o ossitona: Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso l per te soltanto; come, non so: l in questa tela, sotto il cipresso, l accanto alfine ti dormirò (Pascoli). ~ questo un esempio di rima alternata, secondo lo schema ABAB. Nella lirica d'arte (dagli stilnovisti a Dante al Petrarca e alla successiva tradizione aulica) la rima tronca è di solito evitata, ad esempio con l'aggiunta di una -e o di un -ne paragogici (morròe, vàne, salìne ecc.) oppure con l'impiego di forme lessicali non apocopate (virtute, pietate, mercede ecc.). La rima sdrucciola (detta anche dattilica o proparossitona): Vadan pur, vadano a svellere l la cicoria e i raperonzoli l certi magri mediconzoli. che coll'acqua ogni mal pensan di espellere (Redi). Analoga alla rima sdrucciola è l'uso di parole proparossitone con affinità di suoni, uso introdotto dal Chiabrera: Fiorir sul caro viso l veggo la rosa, tornano l i grandi occhi al sorriso l insidiano; e vegliano ... (Foscolo). La rima bisdrucciola (o iperdattilica) è rarissima e si ha solo nella poesia burlesca. La rima franta o spezzata: Percoteansi 'ncontro; e poscia pur lì l si rivolgea ciascun, voltando a retro, l gridando: «Perché tieni?» e <> (Dante). Si noti l'arretramento dell'ictus: piir li burli. La quasi rima: smorfia-soffia, acqua-vacua, fonde-fondo, gufo-buffo ef]igie-grigia, onde-fondo, disagio-randage. Queste quasi-rime o rime imperfette sono tratte dagli Ossi di seppia di Montale; il fenomeno è però antichissimo: Petrarca fa rimare: aurora: oro: discoloro: l'aura ora. In alcuni casi la variazione vocalica comporta più che la rima la paronomasia (v.). Come esempio dei ricchi effetti melodici dovuti alla rima, all'assonanza, alla quasi rima e alla paronomasia si può vedere la seguente strofa di « Maestrale »: S'è rifatta la calma nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta. Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma a pena svelta. (Montale) Si notino le rime: maretta-svetta e la rimalmezzo imperfetta quietata; le quasi rime interne scogli-broli; le paronomasie rifatta-parlottamaretta (con quietata); le numerosissime assonanze (rifatta-calma-aria; pena-svetta). La rima equivoca: si ha quando rimano due parole fonicamente identiche ma di diverso significato. Es.: Tutti insieme pregando ch'i' sempre ami [ ... ] Preghi ch'i' sprezzi il mondo e i suoi dolci ami (Petrarca). La rima grammaticale è rara e compare solo nella poesia delle origi-
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Rima
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ni: è formata dalla variazione di una parola: clami-c/ama; c'ami-c'ama (G. da Lentini). La rima derivata è costituita da voci che hanno la stessa radice: guardi-sguardi; senta-consenta; attendi-intendi (Petrarca). La rima spezzata per tmesi: Così quelle carole differente- l mente danzando, della sua ricchezza, l mi facieno stimar, veloci e lente (Dante). Anche questo artificio è raro. La rima ipermetra: molto usata dal Pascoli, consiste nel far rimare una parola piana con una sdrucciola; la sillaba eccedente viene annullata per sinafia (v.) con la prima del verso successivo (Sorridi/e, guardala; appressati l a mamma, ch'ormai non ha più, l per vivere un poco ancor essa, l che il poco di fiato che hai tu!); oppure tale sillaba viene computata nel verso seguente (f., quella infinita tempesta, l finita in un rivo canoro. l Dei fulmini fragili restano l cirri di porpora e d'oro). Montale usa molto spesso la rima jpermetra, ma non calcola la sillaba eccedente: canneto-sgretola; limpida-corimbi (rima imperfetta); miracolo-ubriaco; àsoli-caso; strepi-to•siepi. La rimalmezzo (o rima al mezzo) è interna al verso, normalmente in chiusura del primo emistichio: Passata è la tempesta: l odo auge/li far festa, e la gallina, l tornata in su la via ... (Leopardi). 2. La disposizione delle rime. Nella struttura strofica le rime assumono posizioni diverse. Le forme più comuni sono le seguenti: rima baciata, secondo lo schema AA-BB-CC ecc. Es.: Nella Torre il silenzio era già alto. l Sussurravano i pioppi del Rio Salto (Pascoli). Rima incrociata, secondo lo schema ABBA, oppure CDCCDC. Es.: Il suo stridor sospeso ha la cicala: l la rondine/la con obliquo volo l terra terra sen va: sul fumaiolo l bianca colomba si pulisce l'ala (Zanella). Rima alternata, secondo lo schema ABABAB ... Es.: Dolce paese, onde portai conforme l L'abito fiero e lo sdegnoso canto l e il petto ov'odio e amor mai non s'addorme, l pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. l l Ben riconosco in te le usate forme l con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto ... (Carducci). Rima incatenata o terza rima dantesca, secondo lo schema ABA BCB CDC EDE ... Es.: Nel mezzo nel cammin di nostra vita l mi ritrovai per una selva oscura l che la diritta via era smarrita. l l Ah quanto a dir qual era è cosa dura l esta selva selvaggia e aspra e forte l che nel pensier rinova la paura! (Dante). Si hanno inoltre numerosi schemi che variano i precedenti quattro fondamentali; ad esempio, le rime ripetute si susseguono nello stesso ordine (ABC ABC ABC ... ); le rime invertite si succedono in senso inverso (CDE EDC); le rime caudate si ripetono più volte (AAAB CCCB ... ). Per un'analisi dettagliata si rimanda a Elwert, 1973, p. 83 sgg. e Spongano. 1966.
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Ripetizione
RIPETIZIONE. La ripetizione è uno dei più antichi procedimenti retorici, attuando il meccanismo dell'adiectio, dell'aggiunta di un termine a un altro (cfr. Lausberg, 1969, p. 130). È evidente il valore enfatico della figura, affine all'amplificazione (v.). all'anadiplosi (v.), all'anafora (v.), all'annominazione (v.), all'antanaclasi (v.), all'antimetatesi (v.), alla diafora (v.), all'epanadiplosi (v.), all'epanalessi (v.), all'epifora (v.), all'epizeusi (v.), alla regressione (v.) ecc. L'iterazione è dunque ben più che una figura, in quanto sottende diverse modalità stilistiche e, per la poesia, può essere avvicinata alla correlazione (v.) e al principio jakobsoniano dell'equivalenza (v. LINGUAGGIO, 2).
RIPRESA. È il nome che viene dato al ritornello nella ballata (v.). RISPETTO. II rispetto è la variante toscana dello strambotto, antica forma popolare di poesia amorosa. È composta da un'ottava secondo Io schema ABABCCDD. Si sviluppò a partire dal sec. XIV e assunse tale nome perché recitato in onore di una donna amata. Una fine caratterizzazione del rispetto è la seguente del Carducci: Siete più bianca che non è lo giglio l e chiara quanto l'acqua di fon.lana; l la rosa v'ha donato il suo vermiglio, l vi lodano da Roma a tramontana; l e tutto il mondo ne fa un gran bisbiglio, l che voi ne siete la più bella dama; l vostra bellezza rammentata sia l da Roma per infino alla Turchia. RITMO. In senso generale il ritmo è una cadenza uniforme (si pensi al passo di marcia), l'iterazione di particolari accenti che nella struttura del verso si dicono ictus (v. ACCENTO, METRICA). Etim.: dal gr. rythmòs = successione. RITORNELLO. v.
BALLATA.
ROMANZA. I romantici italiani, e in particolare il Berchet, preferirono chiamare romanza la ballata d'imitazione tedesca o inglese (v. BALLATA). per distinguerla da quella antica. La struttura metrica è assai varia, ma prevalgono versi lunghi e ritmati come il decasillabo o il dodecasillabo, in strofe di sei-otto versi, spesso con rime tronche. Es.: Direm lo sbaraglio del campo battuto, l e il sir di tant'oste tre giorni perduto, l tre notti fra dumi tentando un sentier. l La regia consorte tre notti l'aspetta, l tre giorni lo chiama dall'alta ,veletta: l al quarto misviene fra i muti scudier (Berchet).
ROMANZO. Non ci soffermeremo a tracciare una storia minuziosa di questo importante genere letterario, ma ci limiteremo a considerarne solo alcuni aspetti strutturali. Non si può tuttavia fare a meno di ricordare la lontana matrice del romanzo nella ricchissima letteratura
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Romanzo
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orientale e in quella tardo-ellenistica. « I principali romances greci che sono sopravvissuti, datanti per Io più dal secolo II d.C., sono Le avventure di Cherea e Calliroe, di Caritone, Abrocome e Anzia di Senofonte di Efeso, Teagene e Cariclea di Eliodoro (intitolato anche Aethiopica, il più lungo e il meglio costruito tra tutti}, Dafne e Cloe di Longa (un miscuglio tra pastorale teocritea e formule tipiche del romance) e Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio. Gli elementi che compongono la trama di questi romances sono altamente stilizzati. Un giovane e una fanciulla s'innamorano, il loro amore è ostacolato da varie sventure e i due innamorati cadono in tremendi pericoli che devono affrontare ciascuno per conto proprio, lontani l'uno dall'altra; ne emergono, però, casti ed incolumi per sposarsi finalmente al termine della narrazione» (Scholes-Kellog, 1970, p. 85). Nel romanzo antico sono già presenti le strutture essenziali del genere: i personaggi, la trama più o meno avventurosa (che implica i momenti topici della separazione e delle peripezie prima della felice riunione), l'ambiente (non sempre caratterizzato in termini storico-oggettivi). I mportante è il Satyricon di Petronio per il gusto picaresco dell'avventura, del viaggio, per il realismo della presentazione ambientale: elementi che si rifanno, in qualche modo, alla tradizione milesia, a quei racconti licenziosi (andati perduti) a cui attinsero numerosi scrittori. fra i quali Apuleio. Le sue Metamorfosi (o L'asino d'oro), dietro la descrizione realistica, sono una storia allegorica di catarsi morale, dato che la storia di Lucio è una sorta di confessione che si conclude con il ravvedimento. Scholes e Kellog ricordano come i temi del sesso e della morte, così frequenti nella narrativa antica, comportino l'accentuazione del macabro-grottesco, nel filone latino, e del terrore-suspense in quello greco. La struttura del racconto procede spesso con la schidionata di episodi laterali (favole, narrazioni interpolate, aneddoti). È noto come la storia di Lucio o l'asino sia anche al centro di un'opera di Luciano di S~J. mosata ( 120c d.C.), a cui si deve l'invenzione del romanzo utopico con la Storia vera, che narra le avventure di alcuni naufraghi approdati prima in un'isola fantastica e poi trasportati sulla luna da una tempesta; infine, dopo varie peripezie, essi arrivano all'isola dei Beati, dove possono parlare con eroi, poeti e filosofi. Nel Medioevo il romanzo è scritto anche in versi, oltre che in prosa. I temi sono quelli tipici della civiltà cortese-cavalleresca, le avventure e gli amori del ciclo arturiano (ad esempio, Lancelot di Chrétien de Troyes). La letteratura italiana del Duecento e del Trecento si appropria del patrimonio francese, traducendo o rifacendo numerose opere romanzesche il cui signicativo influsso si avverte persino nella grandissima sintesi « borghese » del Boccaccio. Jl filone avventuroso, satirico e parodistico o semplicemente utopico, che ha in Luciano il suo iniziatore, è ripreso nel Cinquecento da
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Rabelais (Gargantua e Pantagruel) e dagli scrittori spagnoli picareschi, come l'anonimo autore di Lazarillo de Tormes o M. Aleman, a cui si deve il Guznuin de Alfarache; nel Settecento da Swift (l viaggi di Gulliver) e Voltaire (Candido, Micromegas). Il Don Chisciotte di Cervantes è un'opera assai complessa e non a torto è stato da più critici definito il primo romanzo moderno: al di là della trama avventurosa, è il tema dell'esplorazione in zone inedite della realtà che attrae lo scrittore: le zone dell'ignoto, della fantasia, del sogno, della follia percorse dall'incredibile coppia dei protagonisti. Molto vario è il romanzo del Settecento, in cui si può individuare come filone portante l'analisi della società, dei suoi problemi, dei suoi costumi, delle sue ipocrisie ecc. Nasce il romanzo borghese in Inghilterra e in Francia, con una ricca articolazione di motivi etici e psicologici: il Robinson Crusoe di Defoe, il Tom fones di Fielding, i già citati Viaggi di Gulliver; le opere di Prévost, Diderot, Marivaux, Rousseau. Un discorso a parte meritano i romanzi di Sade (Justine, fuliette ecc.), profondamente eversivi dei valori tradizionali a partire dal comportamento sessuale dell'individuo e dall'inesausta tensione al piacere, sempre frustrata dalla società e dalle sue norme: una lezione che permeerà a fondo le tematiche degli scrittori « non ortodossi » dell'Ottocento e del Novecento, da Nietzsche a Bataille a Sartre. Precorso dall'esotismo fin de siècle (Bernardin de Saint-Pierre), dall'acceso sentimentalismo drammatico (l dolori del giovane Werther di Goethe, l'Ortis del Foscolo), il romanzo dell'Ottocento si apre su un ventaglio assai ampio e complesso di tematiche, incentrate prevalentemente sull'analisi storico-sociale, connessa al destino dell'individuo (dal romanzo storico di W. Scotte del Manzoni, al romanzo sociale di Stendhal, Balzac, Flaubert, Zola, Dickens, Tolstoj, Verga, con una diversificazione ideologica, linguistica e stilistica assai accentuata) Dall'autoritratto romantico al sottile scandaglio psicologico di H. Tames, dal gusto avventuroso di un Melville a quello macabro-onirico di Hoffmann e Poe, dalla problematica cristiana del Manzoni alla lacerante tensione etica di Dostoevskij, il romanzo ottocentesco anticipa, per molti aspetti, quello novecentesco, che ha in Proust, Joyce, Kafka, Mann, Musi!, Svevo e Pirandello le sue attestazioni più alte. La rivoluzione tecnico-espressiva del nuovo romanzo è tuttavia notevole: l'affermarsi del monologo interiore, del flusso di coscienza, del via-vai memoriale; la distruzione della trama, nelle sue forme piti ovvie, e la complicazione del discorso narrativo, con una conseguente dilatazione dello spazio della coscienza e dell'inconscio; il vario sperimentalismo linguistico, il pastiche o l'espressionismo verbale (Gadda), la mescolanza degli stili e dei livelli: tutto ciò comporta un sensibile approfondimento del discorso narrativo, per il quale si rimanda ad altre voci più specifiche (v. NARRATIVA). t. Interpretazioni del romanzo. Da Hegel a Lukacs il romanzo è ap-
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parso come la moderna epopea della borghesia. Come nell'epos, l'individuo è collocato in un ampio sfondo sociale, ma il reale che lo circonda (per l'avvento di un mondo meccanizzato, prosaico, sotteso all'utile) è una totalità degradata, in cui si avventura quello che Lukacs defìnirà l'individuo problematico, cioè il protagonista moderno non più sicuro delle mete e dei valori che intende raggiungere ma abbandonato a una realtà negativa, dalla quale emerge in virttl di un doloroso processo di autocoscienza. Il rapporto fra interiorità dell'eroe e avventura mondana si attua in due tipi esemplari: il primo è Don Chisciatte, che avverte la negatività del mondo come un incantamento demoniaco·, sicché gli antichi valori devono essere riconquistati nella lotta contro le poten::e dell'incantesimo; lo scacco cui va incontro l'eroe attesta la radicale scomparsa del mondo epico-cavalleresco e l'impossibilità di trovare un senso oggettivo, religioso. Nel romanzo d'avventura, secondo Lukacs, si ha un 'ulteriore degradazione del personaggio, adeguato all'ideale comune del mondo borghese. Il secondo tipo vuole esprimere la superiorità dell'anima rispetto al mondo e al destino ed è rappresentato dall'Educazione sentimentale di Flaubert: il tempo ha qui un ruolo essenziale nello scandire la degradazione del reale, nel mostrare la vanità della ricerca, donde la chiusura dell'io in se stesso, nella memoria del suo passato. In posizione intermedia fra il Don Chisciatte e l'Educazione sentimentale è il Guglielmo Meister di Goethe, dove è possibile trovare una concili-azione fra l'io e il mondo in senso problematico e « pedagogico » ( « Bildungsroman » ), poiché attraverso l'esperienza esistenziale e il rapporto con gli altri il prot<~gonista matura, si educa, comprende l'inessenzialità del reale e la fragilità del proprio mondo interiore. Quarant'anni dopo il geniale saggio di Lukacs ( 1920), L. Gol d ma nn ne riprende alcuni spunti in una prospettiva sociologica secondo cui la struttura del romanzo sarebbe omologa a quella dell'economia borghese. La realtà degradata del mondo moderno è dovuta al fatto che i valori dominanti sono quelli di scambio: i valori autentici non sono recuperabili che attraverso quelli mercificati. Nel romanzo l'individuo problematico aspira ai valori ma si scontra con il concetto borghese di mediazione, cioè di scambio; l'individualismo dell'età eroica del capitalismo è superato nelle fasi successive monopolistico-imperialiste: ciò spiegherebbe la distruzione dell'eroe in quanto personaggio nei romanzi di Kafka e l'oggettivismo assoluto del nouveau roman. Molto importante è il libro di Lukacs Il romanzo storico ( 1938), in cui si delinea la prima interpretazione marxista del genere romanzesco. Secondo l'autore solo a partire da Scott si rivela la consapevolezza del rapporto fra personaggio e realtà storico-sociale e soprattutto delle grandi trasformazioni avvenute per opera del popolo; donde il livello medio dei personaggi che sostituiscono i grandi eroi, secondo una prospettiva autenticamente borgh~se che vede sempre il dinami-
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Rumore
smo implicito nella realtà. Con Balzac si passa dal rom<~nzo storico a quello realistico, che rappresenta il mondo borghese nella sua logica interna, realizzando in modo esemplare la problematica del realismo. Resta carente in Lukacs la comprensione delle forme novecentesche (ad esempio avanguardistiche) del romanzo, a suo parere prive di quella capacità di analisi del presente che si trova nei classici dell'Ottocento, già ammirati da Marx. Prospettive nuove sull'evoluzione del genere narrativo sono avanzate dal formalista russo M. Bachtin, al quale va il merito di aver sottolineato l'importanza dell'origine carnevalesca di molte forme artistiche, che si propongono di rappresentare la realtà in modo satirico, comico, anticonvenzionale, come la satira menippea, il romanzo miscidiato di Apuleio e di Petronio, il groltesco-utopico di Rabelais e Swift ecc. Queste esperienze, e le relative traduzioni formali plurilinguistiche, comico-realistiche, antiaccademiche si rifanno al folclore carnevalesco che si sviluppa fra Medioevo e Rinascimento e dà vita alle feste sulle piazze, alle rappresentazioni desacralizzate e parodistiche dell'autorità, secondo l'ottica del « mondo all'incontrario » rintracciabile nei misteri buffi, nelle giullarate, nella commedia dell'arte (v. COMMEDIA). A Bachtin interessa sottolineare la libertà di temi e di soluzioni linguistiche del romanzo d'avventura, ripreso in qualche modo- per l'estrema disponibilità dell'eroe ad affrontare qualsiasi situazione - dal romanzo dialogico di Dostoevskij, il romanzo problematico per eccellenza. Ai formalisti russi (v. FORMALISMO), alle geniali intuizioni dei francofortesi (da Marcuse a Adorno e Benjamin), alla fondamentale opera di Auerbach (Mimesis), ai classici studi di Forster, James, Jolles, Thibaudet. si rifanno oggi gli interpreti del romanzo nell'intento di elaborare, secondo principi semiologici, una vera e propria scienza della narrativa o narratologia (v. NARRATIVA). Per le informazioni bibliografiche rimandiamo a Bourneuf-Ouellet, 1976.
RUMORE. Secondo la teoria della comunicazione (v.) il rumore è un elemento di disturbo, che ostacola il passaggio del segnale attraverso il canale, provocando interferenze, attenuazioni o alterazioni del messaggio ecc. Si potrebbe considerare un'azione di disturb•), nel processo di decifrazione di un messaggio letterario, la sovrapposizione o l'interferenza del codice del destinatario sul codice del mittente, sotteso dal testo.
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SATIRA. La satira è un genere letterario in versi o m prosa e versi (satira menippea) di carattere polemico, parodistico, critico-moralistico o ironico, che ha come oggetto la rappresentazione della realtà quotidiana in uno dei suoi infiniti aspetti serio-comici: i difetti degli uomini, le manie dei parvenus, i vizi dei ricchi, i fatti più o meno memorabili della vita e così via. L'origine della parola satura, che probabilmente vuoi dire « piatto ricolmo » di vari cibi, fa pensare ad un'occasione religiosa durante la quale veniva ofierto alla divinità, DemetraCerere, un piatto di primizie, con un accompagnamento di canti, di danze e di scene non prive di sapide battute. La satira, non diversamente dai fescennini, avrebbe una genesi folclorico-culturale come molte altre azioni drammatiche sorte nel clima gioioso delle feste. A ragione M. Bachtin vede nei tratti caratteristici della satira lo spirito del « sentimento carnevalesco del mondo »: la gaia vitalità dei contadini nel tempo del raccolto, l'atteggiamento libero, realistico, osceno, desacralizzante del linguaggio, la volontà c quasi la voluttà denigratoria e sarcastica con cui si smaschera il presente. Passata dalla rappresentazione drammatica alla forma letteraria, la satira conserva molti aspetti della· sua antica origine, e soprattutto il plurilinguismo che rompe con le convenzioni dei diversi generi alti (l'epica, la tragedia ecc.) e mescola prepotentemente parole auliche ironizzate ed espressioni plebee, toni, stilemi, metri di varia natura. In questa dilatazione, la satira non è tota nostra, cioè romana, come pensava Quintiliano: non si può infatti dimenticare una tradiziol'le letteraria che in vari modi attinge al comico soprattutto in Grecia: la favolistica esopea, la commedia aristofanesca (v. COMMEDIA), la diatriba serio-comica o filosofica in periodo ellenistico (Menippo di Gadara, Luciano). A Varrone spetta il merito di aver introdotto a Roma la cosiddetta satira menippea, mista di prosa e di versi, anche se la radicale contestazione del filosofo cinico era annacquata in un più blando
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Scrittura
moralismo. Nel passaggio dalla sua ongme popolare alla trascrizione e rimanipolazione letteraria la satira perde il carattere « rivoluzionario » (utopistico-alternativo), insito anche se implicitamente nella festa cultuale, per mantenere l'elemento critico-parodistico del linguaggio, che permette agli intellettuali non conformisti una certa libertà di espressione nell'ambito del sistema. Fra i cultori romani della satira ricordiamo Ennio e Lucilio, a cui si rifanno gli autori di sermones (la satira discorsiva, parlata) più famosi: Orazio, Persio, Giovenale. Alla satira di tipo menippeo sono da ricondurre I'Apokolokyntosis di Serreca (che rappresenta in modo grottesco l'apoteosi dell'imperatore « zuccone » Claudio) e il Satyricon di Petronio, che per noi è piuttosto un romanzo di gusto picaresco (v. ROMANzo). Alla satira si rifanno nel Medioevo i misteri buffi, le giullarate e le composizioni carnevalesche anticlericali e popolari che occultano spesso la critica dei potenti servendosi dell'allegoria e della rappresentazione favolistica (la favola degli animali). Nel Rinascimento è ripreso il genere latino (ad esempio, le satire dell'Ariosto), ma largo spazio ha la satira di costume, che si intreccia con altri generi, quali il dialogo e la commedia (Aretino, Teofilo Folengo, Ruzzante); né vanno dimenticate le intenzioni satiriche della grande opera di Rabelais. Nel Settecento la satira è piuttosto moraleggiante e si scioglie in composizioni di ampio respiro, come il poema del Parini (Il giorno). Nell'Ottocento la satira più radicale e profonda è rappresentata dai Para/ipomeni della Batracomiomachia del Leopardi; lo spirito ironico-parodistico proprio di questo genere permea la letteratura dialettale, e in particolare la poesia milanese del Porta. Nel Novecento è soprattutto il teatro (v. COMMEDIA) a esprimere tensioni satiriche, ad esempio nella mescolanza di rappresentazione scenica e di canto tipica di Brecht, che recupera, tra l 'altro, molti aspetti della tradizione popolare. '• Informazioni bibliografiche: B. Gentili-E. Pasoli-M. Simonetti, Storia della letteratura latina, Bari, 1976; M. Bachtin, L'oeuvre de F. Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et sous la Renaissance, Paris, 1970
SCRITTURA. La scrittura è propriamente un codice di secondo grado, in quanto rappresentazione della lingua, cioè del codice comunicativo primario, per mezzo di segni grafici. A noi interessa il concetto letterario di scrittura. È noto come l'aspetto specifico degli studi semiologici e strutturali applicati ali 'arte e alla letteratura consista nell'aver individuato il linguaggio poetico (o letterario tout court) nella sua significazione iconica e autori11essiva, nella sua plurisemia o connotatività (o ambiguità, v.), nel suo funzionamento testuale, per citare alcuni aspetti più importanti. In una parola, il discorso letterario è un sistema di simulazione « secondario » (Lotman), che si articola sul sistema primario della lingua. Potremmo definire scrittura l'operazione consa-
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Segno
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pevole (e quindi riflessa, anche se attinente per certi aspetti all'inconscio) che l'autore attua nell'oggettivare il suo messaggio, nel formarlo in quanto messaggio letterario, inserito quindi nel grande sistema della comunicazione letteraria. La scrittura implica sempre delle mediazioni culturali connesse sia alla W eltanschauung storica dello scrittore sia ai codici e sottocodici della tradizione letteraria, agli istituti (generi, lingua, retorica, poetiche ecc.) che non possono non proporsi come moduli o tipologie di riferimento nell'atto stesso dell'operazione artistica (v. TRANSCODIFICAZIONE). Ogni genere si trasmette nella letteratura con un suo codice ~mbo lico-tematico e con una sua lingua stilizzata o scrittura: si può parlare di scrittura epica, lirica, drammatica, bucolica ecc. relativa ai diversi generi storicamente individuati (ad esempio, la scrittura bucolica nel Quattrocento). Secondo Barthes, 1960, p. 27 sgg., la scrittura è una realtà formale posta tra lingua e stile: « la scrittura è una funzione: è il rapporto tra la creazione poetica e la società, è il linguaggio letterario trasformato dal suo destino sociale ... Per esempio Mérimé e Fénelon sono divisi da fenomeni di lingua e da caratteristiche accidentali di stile, e tuttavia adottano un linguaggio carico di una stessa intenzionalità, fanno appello a una stessa idea della forma e della sostanza, accettano uno stesso ordine di convenzioni, sono sollecitati dai medesimi riflessi tecnici, impiegano insomma con gli stessi gesti, a un secolo e mezzo di distanza, uno strumento identico, senza dubbio un po' modificato nel suo aspetto ma non nella sua situazione né nel suo uso: in breve essi hanno una stessa scrittura ». La scrittura nasce dalla « riflessione dello scrittore sulla funzione sociale della propria forma », è « la morale della forma, è la scelta dell'area sociale nel cui ambito lo scrittore decide di situare la natura del proprio linguaggio », è « un modò di pensare la letteratura ». Il concetto barthesiano di scrittura implica varie connotazioni: modalità di gusto, di poetica, di linguaggio, di collocazione ideale. Secondo un uso più generale, la scrittura è lo stile di un autore ( « la scrittura manzoniana » ). Preferibile conservare l'accezione di sottosistema formale consolidato o registro, come indica M. Corti, 1976, p. 84 sgg. Le scritture offrono « qualcosa di simile a un modello formale » e presentano un alone connotativo che si può chiamare (( informazione supplementare di registro ». SEGNALE. v. SEGNO. SEGNO. Perché si attui un processo di comunicazione (v.) è necessario che fra emittente e destinatario vi sia un codice in comune, in base al quale il messaggio, cioè un segno o un insieme di segni, assuma un significato. La comunicazione, in questo caso, essendovi un codice di riferimento, è anche significazione: in mancanza di codice il processo comunicativo si riduce a un processo di stimolo-risposta. Lo
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Segno
~Hro.9l9
non è un segno, non è qualcosa che sta al posto di qualcos'altro, ma provoca direttamentè qualcos'altro (la luce abbagliante mi costringe a chiudere gli occhi, un rumore improvviso mi fa sussultare ecc.). Se invece una luce o un rumore stanno a indicare, per esempio, un comando o un avviso, si avrà un processo di significazione (con relativo codice). Abbiamo riassunto quanto Eco scrive con chiarezza in 1973, p. 22 sgg.; con Saussure, come si sa (v. LINGUISTICA), il segno può essere definito un'entità a due facce, costituita da un significante e da un significato. Precisando il discorso su comunicazione e significazione, Eco, 1975, p. 19 sgg. definisce il processo comunicativo come il pas'>aggio di un segnale (non necessariamente un segno) da un emittente a un destinatario (o punto di destinazione). Ad esempio, in un processo fra macchina e macchina si può avere passaggio di informazione, ma il segnale non ha alcun potere significante e può determinare il destinatario sub specie stimuli. Non si ha, insomma, significazione perché il destinatario non è un essere umano, il segnale-stimolo non sollecita una interpretazione. II processo di significazione si verifica quando qualcosa che sta per qualcos'altro viene interpretato come segno sulla base di un codice. La comunicazione tra esseri umani presuppone un sistema · di significazione. Il segnale può essere definito come un'energia trasmessa da un sistema fisico a un altro nel processo di informazione; o come un fatto (stimolo) che provoca una risposta (reazione) ma non una significazione. Pensiamo che la distinzione segno-segnale sia opportuna, anche se nella semiotica più recente si ascrivono alla categoria del segno tutti i segnali comunicativi che l'uomo riceve sia dall'ambiente (e dalla materia) sia da altri esseri. Così la zoosemiotica studia i sistemi di comunicazione animale ( « sarebbe azzardato » osserva Eco, 1975, p. 21 « affermare che a livello animale accadano semplici scambi di segnali senza che esistano sistemi di significazione, perché gli studi più recenti tenderebbero a mettere in forse questa fiducia esageratamente imtropocentrica » ); la semeiotica medica si occupa prevalentemente dei sintomi ma anche dei rapporti comunicativi fra medico e paziente; la cinesica e la prossemica studiano i movimenti, i gesti, le posizioni del corpo, le distanze fra gli esseri umani come elementi di sistemi di significazione istituzionalizzati. dalle diverse società; varie discipline studiano i linguaggi formalizzati, le lingue naturali, i sistemi musicali, le comunicazioni visuali, le tipologie delle culture ecc.: un campo, come si può notare, davvero esteso e complesso che abbraccia sia i comportamenti comunicativi non umani e non culturali sia i più svariati sistemi di significazione, le civiltà e le ideologie. Se vogliamo seguire Eco, 1973, p. 32 sgg. in un tentativo di classificazione dei segni, potremmo così riassumere i termini delle diverse e contrastanti ricerche.
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Segno
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I seg!li __~. J~_l.C?..!!1e: già per gli antichi era chiara la distinzione fra segni artificiali (prodotti consciamente dall'uomo sulla base di codici convenzionali, quali le parole, i simboli grafici, le note musicali ecc.) e segni naturali, cioè provenienti da una fonte naturale e quindi non intenzionali, come i sintomi e gli indizi (il medico deduce da certe macchie sulla pelle l'insorgere di una malattia; la nuvola nera indica che la pioggia è vicina ecc.). L'opposizione è troppo rigida: i segni naturali possono essere intesi come segni purché qualcuno li interpreti come tali sulla base di un sistema di convenzioni (Morris). I segni e la specificità segnica: ci si potrebbe chiedere, al limite, se tutta la realtà non sia segno, compresi gli oggetti (l'impermeabile, a esempio, è legato alla pioggia; una sedia serve per sedersi, ma può anche essere segno di distinzione, signorilità, lusso ecc.). In quest'ultimo caso è più corretto parlare di una funzione seconda degli oggetti o se si vuole di un effetto connotativo. I segni e l'intenzionalità-consapevolezza del mittente: la distinzione fra segni comunicativi (intenzionali) ed espressivi (non intenzionali ma rivelatori di uno stato d'animo) non implica che i secondi non siano codificabili; ad esempio, un attore può imitare i gesti, il linguaggio di un determinato tipo sociale come elementi distintivi e dunque comunicativi (il pubblico (( interpreta » e riconosce questi segnali). Ciò che si ostenta, si tradisce (un'emozione ... ), si lascia trasparire, viene decodificato come segno di un certo stato d'animo (cfr. analogamente i sintomi medici). I segni e i canali: anche !imitandoci ai canali sensoriali, si possono individuare diversi segnali trasformabili in messaggi: a) odorato: sintomo e indizi (l'odore del cibo), segni artificiali e intenzionali (profumi); b) tatto: i segni Braille, i gesti delle dita dei sordomuti ecc.; c) gusto: la cucina come mezzo di comunicazione (si ricordino gli studi di Lévi-Strauss), il sapore di un cibo come indizio della nazionalità ecc.; d) la vista: segni iconici (immagini), grafemi, simboli, diagrammi ecc.; e) udito: segnali acustici e segni del linguaggio verbale. I segni e il loro significato: si possono distinguere segni con valore semantico e senza significato oltre se stessi e la loro combinazione (cioè con valore sintattico, come i segni matematici e quelli musicali); i primi si possono dividere in univoci, equivoci (con diversi significati), plurivoci (V. CONNOTAZIONE, AMBIGUITÀ), vaghi (V. SIMBOLO). I segni c il referente: discutendo minuziosamente la tripartizione di Peirce in indici, icone e simboli, Eco, 1973, p. 57 propone una tavola riassuntiva dei segni che qui riprendiamo sinteticamente:
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Segno segni
artificiali
~
sostitutivi
''"""' ~ tracce
indizi
rLh
omosostanziali
l
l
.
intrinsecl Lraslativi ostensiv1
eterosostanziali .
. .
pro1ettiVt
simboli .
indici venori .
segni vish·i
emblemi
altri
astraui
carattenzzanu
I_ segni naturali si distinguono in sintomi e indici: a) i _sln_tqfl2i hanno contiguità e rapporto causale col referente, ad esempio i sintomi di una malattia, il fumo per il fuoco ecc.; b)gt! i_!l
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Semiologia
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SELEZIONE. Si chiama selezione l'operazione mediante la quale il locutore sceglie un'unità linguistica sull'asse paradigmatico, nell'ambito di particolari campi semantici. I termini scelti vengono successivamente combinati nella catena parlata, su li 'asse sintagmatico. Nella grammatica generativa, le regole di selezione impongono la scelta di certi termini secondo determinate costrizioni semantiche, per cui, ad esempio, si avrà l'enunciato il cavallo nitrisce e non il cavallo pigola (O discute). V. LINGUISTICA.
SELVA. E un componimento poetico formato da versi sciolti (endecasillabi e settenari), senza strofe e rime. Il termine fu ideato dal poeta latino Stazio, che chiamò Silvae le sue liriche di vario contenuto. Etim.: dal lat. silva = foresta.
SEMA. Il sema è un'unità minima di significato che non ha una realizzazione indipendente ma che si realizza nell'ambito di una configurazione semantica o semema (cfr. Dubois, 1973, p. 433). Il sema è un atomo o tratto o componente semantico. Ogni parola, o meglio ogni unità di significato o lessema, può essere scomposta in unità o tratti semantici fondamentali detti semi; la differenziazione fr:~ i lessemi è dovuta alla loro diversa composizione semica. Il scma principale o nucleare è invariato in tutti i lcssemi nei quali si realizza; tali lessemi varieranno di senso per la presenza di semi contestuali. Ad esempio, il sema nucleare « sfericità » proprio a testa si accompagna a diversi semi contestuali: a « vegetale » in testa d'aglio, a « inanimato » in testa come vaso, nel senso etimologico. Cfr. Berruto, 1974, p. 75 sgg. e 1975, p. 84 sgg.
SEMEMA. Fascio di tratti semantici che si realizza in un lessema. SEMIOLOGIA. La semiologia (o semiotica, termine prevalente in area angloamericana e russa) è, secondo De Saussure, la scienza dei segni nel cui ambito rientra anche la linguistica: « La lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee e, pertanto, è confrontabile con la scrittura, l'alfabeto dei sordomuti, i riti simholici, le forme di cortesia, i segnali militari ecc. Essa è semplicemente il più importante di tali sistemi. Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiameremo semiologia (dal greco semèion, "segno"). Essa potrebbe dirci in che consistono i segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora, non possiamo dire che cosa sarà; essa ha tuttavia diritto ad esistere e il suo posto è deciso in partenza. La linguistica è solo una parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla Sèmiologia saranno applicabili alla linguistica, e questa si troverà collegata ad un
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Semiologia
dominio ben definito nell'insieme dei fatti umani» (De Saussure, 1967, p. 25 sgg.). Gli auspici di Saussure sembrano in gran parte realizzati: la semiologia è in effetti in pieno sviluppo in tutto il mondo e dal 1969 esiste una « International Association far Semiotic Studies » il cui primo congresso si è tenuto a Milano nel 1974, con la partecipazione di ricercatori d'ogni paese. Ben più che una moda la semiologia è una delle più importanti scienze umane del Novecento. Dopo Saussure, Hjelmslev riprende l'analisi del segno (v. LINGUISTICA, 3) e introduce la distinzione fra semioticht: denotative e connotative (v.); altri studiosi (Buyssens, Barthes, Prieto) approfondiscono l'indagine saussuriana in ambito linguistico sino a postulare una semiologia della comunicazione intenzionale o significazione, ristretta dunque ai sistemi codificati. Per Barthes (cfr. 1966, h) la semiologia è parte della linguistica e non viceversa, sicché « ogni sistema semiologico ha a che fare col linguaggio ». Diversa la posizione logico-filosofica di Ch. S. Peirce, per il quale la semiotica è la dottrina che studia la natura della semiosi, dell'attività semica che prescinde dall'intenzionalità di chi la compie. Essa è un'operazione che riguarda un segno, il suo oggetto e il suo interpretante (il senso del segno, come effetto prodotto dal rapporto segnico). Ch. Morris si richiama al comportamentismo di Bloomfield (v. LINGUISTICA, 4) e pertanto rifiuta ogni restrizione dei segni di tipo intenzionale e culturale: il segno sarebbe una sorta di stimolo funzionante in assenza di uno stimolo vero e proprio e comunque tale da determinare una risposta. I segni si distinguono in identificatori, designatori, apprezzatori, prescrittori, formatori e a!'crittori (cfr. anche Eco, 1973, p. 58 sgg.). In Italia hanno dato contributi importanti alla semiologia generale Rossi-Landi, Garroni e Eco; quest'ultimo ritiene che la semiologia sia una scienza che « studia tutti i fenomeni culturali come se fossero sistemi di segni - partendo dall'ipotesi che in verità tutti i fenomeni di cultura siano sistemi di segni e cioè fenomeni di comunicazione. E nel fare ciò interpreta un'esigenza diffusa nelle varie discipline scientifiche contemporanee, le quali cercano ap· punto, ai livelli più vari, di ridurre i fenomeni che studiano a fatti comunicativi» (Eco, 1968, p. 15; cfr. anche, 1971 e 1973). Nel Trattato di semiotica generale, 1975, l'autore defmisce la comunicazione come un processo di passaggio di un segnale da una fonte a un destinatario, - punto di destinazione, - mentre il processo di significazione implica un destinatario umano, un'interpretazione del messaggio sulla base di un codice (v. SEGNO). 1. Elementi di semiologia. Una teoria lata della comunicazione (v.) studia il passaggio di informazione da un emittente (o mittente) a un destinatario, intesi in prima istanza come due macchine. Il messaggfo è elaborato in forma di segnali trasmessi attraverso un canale e rego-
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Iati da un codice (ad esempio, a 20° interrompere il processo di riscaldame.nto; a un determinato livello dell'acqua far aprire una valvola ecc.). Nella comunicazione linguistica mittente e destinatario sono esseri umani che si scambiano dei messaggi formati da segni: si ha cioè un processo di significazione, in quanto la risposta del destinatario non è meccanica ma si basa su una interpretazione o decodificazione dci segni. Si noti che anche una trasmissione di informazione (l'accendersi di una lampadina rossa nel cruscotto di una macchina) diventa un messaggio, un fatto di significazione nel momento in cui il guidatore interpreta il significante « rosso » come « mancanza di benzina » (e quindi: « necessità di fermarsi », « spesa » ecc.). La funzione segnica mette in correlazione un elemento del piano del contenuto con un elemento del piano dell'espressione, secondo un determinato codice convenzionale. Nel caso della lampadina rossa, il segnale fisico è percepito attraverso l'espressione (rosso in opposizione ad altro colore, ad esempio il blu) che mi comunica il contenuto (« attenzione, la benzina è finita »). Il segno, dunque, non è un'entità fisica ma la correlazione fra i due funtivi E-C (cfr. Eco, 1975, p. 73 sgg.). Strettamente connessa alla definizione di segno è la distinzione fra denotazione e connotazione (v.), particolarmente importante per comprendere la semiosi o attività di significazione. « Quando attraverso un incrocio col semaforo so che /rosso/ significa "non passaggio" e /verde/ significa "passaggio". Ma so anche che l'ordine di /non passaggio/ significa "obbligo" mentre il permesso /passaggio/ significa "libera scelta" (posso anche non passare). In più so che !'/obbligo/ significa "pena pecunaria", .mentre la /libera scelta/ significa, poniamo, "sbrigarsi a decidere". Questa mecc:mica semiotica fa sì che esistano dei significanti luminosi il cui piano del significato è costituito da opposizioni di carattere viario. L'insieme del segno (segnale luminoso più disposizione viaria) diventa però significante di una disposizione giuridica, e il complesso dei precedenti diventa il significante di una sollecitazione emotiva (''sarai multato" o "devi sbrigarti a decidere" ... ), secondo questo schema» (Eco, 1973, p. 85):
l
punizione
significante di-+
<-significante di obbligo
<-significante di
significante di-+
decisione
libera scelta
non passaggio! rosso verdeJ passaggio
s ....
s
s -+
s
n primo livello di segni costituisce una semiotica denotativa, il secondo una semiotica connotativa e il terzo un'altra semiotica connotativa di secondo grado. n meccanismo è interessante in ambito letterario, perché agisce in certi testi complessi con isotopie semantiche « a www.scribd.com/Baruhk
l
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Semiologia
molti scalini » (Lotman), nei quali cioè sono compresenti diversi livelli di senso a partire da denotazioni di base. Altri aspetti importanti del processo semiotico, che qui vengono soltanto citati, riguardano la struttura del campo semantico (v. IMPLICAZIONE), la costituzione del significato (v. SEMA, SEMEMA), il rapporto fra codici e sottocodici (v.), l'operazione di decodificazione-decifrazione, l'ipercodifica (cfr. Eco, 1975, p. 188: si tratta, semplificando, di un senso aggiunto a quello espresso dal codice derivante da sottocodici particolari, ad esempio retorici e stilistici), l'ipocodifica (Eco, 1975, p. 190: comprensione parziale, generica del senso), la commutaziqne di codice o transcodificazione (v.), gli spostamenti di significato nel linguaggio retorico (v. RETORICA, FIGURA), le tipologie culturali. 2. Semiologia e letteratura. Anche la letteratura, come sistema di testi connotati a fini estetici (V. LETTERATURA, TE&TO, CONNOTAZIONE, LINGUAGGIO, STILE), rientra nella competenza della semiologia. Una teoria semiologica della letteratura cercherà innanzi tutto di analizzare il discorso poetico nella sua specificità formale, nel suo funzionamento, nella sua correlazione con altri discorsi ecc.; e inoltre proporrà un modo di lettura del testo che sia immanente al testo stesso, proiettato sui codici e sottocodici di riferimento particolarmente adeguati a comprenderlo. Quanto al discorso poetico-letterario, aggiungeremo a quanto si è detto in numerose voci del dizionario che il segno artistico ha una sua specificità rispetto al segno verbale-naturale, il quale costituisce l'elemento primario (denotativo) su cui si costruisce la connotatività letteraria. Il piano dell'espressione, nel sistema della letteratura, si articola mediante una lingua particolare che, col Lotman, potremo chiamare «secondaria»: «Dire che la letteratura ha una sua lingua, che non coincide con la lingua naturale, ma è costruita su di essa, significa dire che la letteratura ha un suo sistema di segni e di regole per il collegamento di tali segni, sistema a lei proprio, che le serve per trasmettere delle comunicazioni particolari, non trasmissibili con altri mezzi » (Lotman, 1972, p. 28). La non convenzionalità del segno artistico, cioè la motivazione iconica che lega il significante al significato, fa sì che il discorso letterario si moduli secondo una struttura translinguistica e, in certo modo, metalinguistica. Caratteristica peculiare del funzionamento del discorso letterario è la sua totale semantizzazione: ogni elemento fonologico e morfosintattico, proprio de] piano ddl'espressione, assume una valenza significativa; o meglio, interagisce col piano del contenuto, attivando il senso specifico del testo. Il discorso letterario è inoltre articolato su segni secondari che appartengono a particolari codici culturali. La dinamica del funzionamento della lingua della letteratura non impedisce evidentemente, di considerare i sistemi codificati e gli eventuali sottocodici nel loro spessore storico. Il discorso artistico è pertanto una complessa operazione
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transcodifìcativa, che va analizzata testualmente, ossia nelle peculiari referenze che rientrano nel geno-testo (v.) dello scrittore. Stabilite le caratteristiche del testo letterario, un procedimento critico semiologico indagherà sulle strutture e sui livelli del testo, sulla sua iperconnotazione e polisemia, sulle sue isotopie, sui procedimenti di transcodificazione; e ancora distinguerà lo specifico dd testo poetico da quello del testo narrativo. Per un'analisi dettagliata si rimanda (oltre che alle voci relative) a Marchese, 1974, p. 101 sgg. SEMIOSI. Si intende per semiosi l'atto di produzione segnica. SENARIO. Il senario è un verso di sei sillabe metriche, con arsi sulla seconda e quinta sillaba e ritmo dattilico: Fratelli d'italia, l l'italia s'è desta, l dell'elmo di Scipio l s'è cinta la testa (Mameli). SENSO. Spesso senso, significato e significazione sono considerati sinonimi in linguistica, essendo assai varie le defmizioni dei singoli termini. Secondo Lyons il senso, in opposizione alla referenza, è l'insieme delle relazioni semantiche esistenti tra un segno e altri segni della lingua. Secondo Prieto, la significazione è l'insieme di significati astratti, mentre il senso si riferisce a un particolare enunciato ~oncreto, esplicitato dal contesto e dalle circostanze. Ad esempio, dammelo ha sempre la stessa signifìcazione, ma cambia senso a seconda dei diversi enunciati in cui è usato (cfr. Mounin, 1974, p. 297). In una teoria semiologica della letteratura il senso è l'insieme delle connotazioni di un messaggio. Non si dimentichi che il segno letterario è, diversamente dal segno linguistico, un segno motivato, iconico, autoriflessivo, connotato. Il senso non è pertanto riducibile alla parte semantica del segno, cioè al significato; anche il significante ha un suo senso, talora autonomo rispetto al significato (si pensi ai cosiddetti «messaggi formali» creati a livello fonoprosodico nella poesia; v. CORRELAZIONE). Nella poesia ogni elemento è semantizzato: il senso globale del testo nasce dall'interazione fra forma del contenuto e forma dell'espressione. Sia le componenti fonologiche (e più generalmente prosodiche), sia quelle morfosintattiche assumono nel testo poetico un valore semantico che contribuisce efficacemente alla connotazione generale del messaggio. Per un approfondimento teorico si veda Marchese, 1974, p. 142 sgg. SEQUENZA. I n linguistica una sequenza è una serie ordinata di elementi appartenenti a un sistema. Nell'analisi strutturale del racconto (cfr. AA.VV., 1969 b), la sequenza è un'unità narrativa funzionale evidenziabile a livello di contenuto. Secondo Barthes, sul piano della fabula, cioè della storia, si possono individuare due sequenze-funzioni
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principali: i nuclei (che inaugurano, mantengono o chiudono un momento del racconto) e le catalisi (che hanno valore completivo, circostanziale). Sul piano dei personaggi e del discorso narrativo, Barthes individua due altre funzioni: gli indizi, «che rinviano ad un carattere, ad un sentimento, ad un'atmosfera, ad una filosofia », e gli informanti, «dati puri, immediatamente significativi» (come l'età di un personaggio). Più esattamente, dunque, la sequenza è un'unità narrativa composta da un certo numero di funzioni; una sequenza può essere formata da alcune microsequenze; un gruppo di sequenze forma una macrosequenza o episodio; due o più episodi possono costituire un racconto. Riportiamo l'analisi di una sequenza di Goldfinger fatta da Barthes: « Tendere la mano, stringer/a, lasciar/a; questo saluto diventa una semplice funzione: da una parte essa riveste il ruolo d'un indizio (mollezza di Du Pont e ripugnanza di Bond) e d'altra parte, global· mente, essa forma il termine d'una sequenza più larga, definita Incontro di cui gli altri termini (avvicinamento, arresto, richiamo, saluto, sistemazione) possono essere anch'essi delle microsequenze ... Il primo episodio di Goldfinger prende in tal modo un andamento "a stemma"»: Ricerca
Incontro
l Accostamento
Sollecitazione
[ Richiesta
l Dare la mano
Contratto
l
Saluto
l
Sistemazione
l
Stringerla
l
Lasciarla
Per un approfondimento si rimanda a Marchese, 1974, p. 174 sgg.
SERIE. L'opera letteraria, nella sua specifica fisionomia stilistica, è al centro di una successione di insiemi strutturati e coimplicati, così rappresentabile:
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IV. Serie storica: determinismi socioeconomici, sostanza dei contenuti o materiali III. Serie culturale: Weltanschauung e forme dei contenuti Il. Serie letteraria: generi, codici e scritture I. Opera:
testo letterario come struttura-sistema
Al livello più esterno (IV) si dovrà considerare la serie storica. cioè il mondo storico che sottende la personalità dell'artista e individua i « materiali », per dirla con i formalisti russi, del testo letterario. L 'ind.ividuazione deve intendersi come impronta caratterizzante dell'opera, in quanto lo scrittore non può non rapportarsi, almeno dialetticamente, al suo tempo e quindi non esprimerne, se non altro attraverso la mediazione indiretta dei miti e dei simboli, le aspirazioni, le ansie e i contrasti. Si pensi, per fare un esempio, alla dimensione storica del mondo dantesco, per altri versi il più fantastico che mente di poeta abbia mai creato. Senza questa componente strutturale, la poesia di Dante perderebbe la sua pregnanza e la singolare « personalità » dei temi e delle forme. A un livello pilt interno (I Il) si situa la serie culturale, in cui rientra la Weltanschauung dell'artista, la sua visione della vita e l 'ideologia filosofico-politica che sostanziano il suo mondo spirituale e i suoi ideali etici. La serie culturale implica quella storica,
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Serventese
in quanto qualifica il rapporto fra l'autore e la problematica del suo tempo. La poesia del Foscolo e del Leopardi, per fare un esempio, sarebbe incomprensibile se avulsa dalla matrice strutturale del loro mondo culturale, formatosi nella crisi dell'ideologia illuministica e del materialismo meccanicistico settecentesco. La serie letteraria (Il) convoglia i particolari sottocodici che individuano il rapporto dello scrittore con la tradizione linguistica, stilistica, retorica, letteraria in senso estensivo. Si pensi, ad esempio, al concetto di poetica (v.): la consapevolezza che ogni artista ha della propria opera per la funzione che vuole esercitare nella società e nella cultura; la scelta estetica con cui uno scrittore si colloca in un certo modo nei confronti della tradizione, con particolare riferimento all'elaborazione tecnica degli aspetti espressivi. La serie letteraria è evidentemente assai complessa, perché comprende un insieme di sottosistemi strutturati o istituti (v.) come i generi letterari, le scritture, i linguaggi codificati, le poetiche e i movimenti ecc. La « coscienza» letteraria di un autore, come è individuata in un'opera, deve pertanto essere collocata in rapporto dialettico con· tale contesto storico-culturale. Un'indagine strutturalistica può misurare lo « scarto » tematico-espressivo fra un determinato testo e il sistema letterario che lo sottende, in quanto, ad esempio, genere, convenzione stilematica o simbolica, gusto ecc. Che il Passero solitario del Leopardi riprenda moduli sannazzariani e si inserisca, per certi aspetti, nel codice arcadico, può essere lo spunto oggettivo per verificare l'innovazione stilistica della lirica, cioè la particolare manipolazione dei materiali tematici e linguistici operata dal Leopardi in vista di una sua personale costruzione sistematica (forma del contenuto-forma dell'espressione). I connotatori (v.) arcadici sono stati, per così dire, violentati e deformati nelle trasposizione psicologicamente « antiarcadica » del Passero (cfr. Corti, 1969, p. 195 sgg.). All'interno di questi diversificati rapporti letterari si situa l'opera (1), il testo come struttura-sistema: la strutturazione formale (stilistica) dei « materiali » simbolico-letterari sarà colta attraverso l'esame interno dell'opera che ne evidenzierà il modello; ma nell'opera-struttura è immanente una sistematicità paradigmatica, in absentia, che rimanda alla correlazione fra le diverse serie individuate. L'analisi semiologica è, al limite, protesa alla costruzione di un supermodello o macrostruttura capace di giustificare i rapporti formalizzati tra le varie serie non come determinazioni causali ma come correlazioni culturali autonome, coimplicate reciprocamente. Per questa voce abbiamo ripreso Marchese, 1974, p. 91 sg. SERVENTESE. « Il serventese non è un prodotto della poesia d'arte,
la quale non se ne curò affatto. Con il sirventes provenzale non ha quasi altro in comune che il nome. II sirventes provenzale era un com-
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Settenurio
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ponimento religioso, politico o didattico in forma di canzone, la cui struttura strofica non era stata inventata espressamente, ma attinta da una canzone (cansò) già esistente, genere riservato all'espressione del~ l'amore cortese. Il serventese italiano (detto anche sermontese o sermintese, per contaminazione etimologica popolare con sermone, a causa del contenuto in prevalenza didattico-morale) è una poesia d'argomento morale, religioso o politico in tono narrativo, didascalico o satirico, di forma metrica diversa dalla canzone. Il fatto che esso conservi la denominazione provenzale si spiega soltanto con l'affinità di contenuto » (Elwert, 1973, p. 141 sgg.). Il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei (1280 circa) ha il seguente schema: AAAb - BBBc - CCCd ecc; tre versi monorimi, in genere settenari o endecasillabi, sono seguiti da un verso più breve, detto coda (quinario o settenario), che rima con i primi tre della strofa seguente. Si ebbero anche serventesi con strofe di tre versi a rime incatenate o in terza rima. Etim.: la parola francese sirventes (cfr. anche sirventese) deriva da sirven = servente, cioè trovatore servente, al servizio di un signore. SESTINA. La sestina è una strofa di sei versi, composta da due distici a rima alternata e da due versi finali a rima baciata, secondo lo schema ABABCC. Va distinta dalla sestina lirica, che è una forma antica di canzone costituita da sei stanze di endecasillabi. La strofa di sei versi, detta anche sesta rima, compare nel Lamento di Odo delle Colonne, fu usata dal Casti negli Animali parlanti (1802), è spesso lo schema degli strambotti. Un esempio moderno ci è dato dalla Signorina Felicita di Gozzano: Signorina Felicita, a quest'ora l scende la sera nel giardino antico l della tua casa. Nel mio cuore amico l scende il ricordo. E ti rivedo ancora, l e Ivrea rivedo e la cerulea Dora l e quel dolce paese che non dico. Lo schema metrico è però più vario rispetto a quello normale. SETTENARIO. Verso di sette sillabe metriche, con arsi fissa sulla 6a e uno o due ictus principali nell'ambito delle prime quattro sillabe. I ritmi più notevoli sono i seguenti: a) ritmo giambico: Rettor del ciélo, io cheggio (Petrarca); b) ritmo anapestico: A le piaghe mortaLi (Petrarca); c) ritmo trocaico-giambico: L'anima mia offesa (Petrarca); d) ritmo trocaico-dattilico: Spera 'l Tevero e l'Arno (Petrarca). Il settenario di norma si alterna all'endecasillabo, al quale corrisponde per varietà di ritmo. Una serie di settenari può risultare monotona, a meno che il poeta non ne vari il ritmo alternando forme piane con tronche e sdrucciole, come fa il Manzoni nel coro di Ermengarda: Sparsa le trecce morbide l sùll'affannoso petto, l lenta le palme, e rorida l di morte il bianco aspetto. l giace la pia. col tremulo l sguardo cercando il ciel.
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Shi/ler
SHIFTER. Si chiamano shifters o commutatori quelle parole il cui referente non può essere determinato se non in rapporto agli interlocutori; il loro senso dunque varia con la situazione comunicativa. Sono shifters i deittici (v.), come ad esempio i termini qui, là, ora, ieri, in questo momento, tu, quello ecc. Secondo Jakobson, che ha introdotto la parola, tutto ciò che appartiene al codice e rinvia al messaggio ha la funzione di shifter; ad esempio il modo, il tempo, la persona. SIGNIFICANTE. Come sappiamo (v. LINGUISTICA) il significante è secondo De Saussure l'immagine acustica che, associata a un significato, forma un segno. SIGNIFICATO. In Saussure significato è sinonimo di concetto. SIGNIFICAZIONE. La significazione è il rapporto fra significante e significato. SILLABA. La sillaba (linguisticamente la m1mma combinazione sintagmatica di fonemi) è tradizionalmente considerata l'unità metrica del verso; ma, come nota giustamente il Di Girolamo, 1976, p. 22 sgg., il computo metrico è modificato dalle « figure » della sinalefe, della dialefe, della dieresi e della sineresi (v. METRICA), sicché sarebbe più esatto affermare che « la posizione è l'unità minima del verso. Ciascuna posizione è occupata da una sillaba o, a certe condizioni regolate dalle figure metriche pertinenti, da più di una o da ne~suna sillaba ». Quest'ultimo caso si hai nei versi acefali o che presentino una forma di catalessi. SILLESSI. Figura sintattica, detta anche costruzione a senso, mediante la quale un termine della frase è accordato logicamente e non secondo le regole grammaticali. Aù esempio, molto comune, specie in Toscana, la sillessi del tipo: Quanti fessi c'è a questo mondo! Oppure: La gente / che in Semwar cun lui superbi foro (Dante), invece di « superba fu ». Etim.: dal gr. syn insieme, lambdnein prendere.
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SIMBOLO. Il concetto di simbolo è abbastanza affine a quello di allegoria (v.) e, per certi aspetti, alla metafora. Infatti, fiamma è un tropo convenzionale della poesia che simboleggia l'amore. Per Morier, 1975, p. l 034, il simbolo è « un oggetto concreto scelto per significare l'una o l'altra delle sue qualità dominanti»; si citano la sfera come simbolo della perfezione e l 'acqua come simbolo della purificazione, del battesimo. Il simbolo è plurivalente: ad esempio, il leone può alludere alla forza, alla superbia, al coraggio ecc.; ma nell'ambito letterario e, più in generale, nella tradizione culturale molti simboli posso-
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Simbolo
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no essere considerati convenzionali o streotipati. Alleghiamo una scelta tratta dal Morier: Ape: lavoro, zelo, industriosità. Agnello: dolcezza, innocenza, ingenuità, Gesù. Aquila: potenza, dominio, impero, genio. Albatros (convenzionale dopo le Fleurs du mal): genio malinconico. Asino: bestialità, semplicità, mediocrità. Angelo: bontà, protezione divina, annuncio del cielo. Azzurro: infinito, perfezione, ideale, mondo spirituale. Bilancia: giustizia, equità. Cedro: salute, longevità. Cenere: morte, rovina, vecchiaia. Cerchio: continuità, perfezione, infinito, chiusura, alleanza. Cervo: fierezza virile, annuncio, messaggio divino. Catena: legame, servitù, tirannia, unione, discendenza. Catena spezzata: libertà, liberazione. Gatto: mistero notturno, sensualità, pigrizia, crudeltà, cattivo presagio (gatto nero). Cavallo: vittoria, parola di Dio, fedeltà, morte (cavallo nero). Cane: fedeltà, vigilanza, intelligenza. Chimera: fantasia, immaginazione. Cicala: imprevidenza (dell'artista in particolare). Chiave: mezzo per conoscere il mistero, la verità. Campana: preghiera, religione, allarme. Clown: condizione umana. Cuore: bontà, intuizione, amore, vita, coraggio. Colomba: amore (simbolo di Venere), pace, perdono, Spirito Santo. Colonna: aiuto, collaborazione. Corona: regalità, gloria, nobiltà, martirio, vita eterna. Cigno: elevazione morale, resurrezione, fecondità, spirito di sacrificio. Acqua: incostanza, trasparenza, leggerezza. Scala: elevazione, accesso a Dio. Spada: onore, coraggio, fedeltà, patriottismo. Stella: orientamento, guida, ideale, felicità, purezza. Ferro: durezza, inflessibilità. Fuoco: passione, potenza creatrice o distruttiva. Focolare: amore, vita domestica. Ghiaccio: indifferenza, insensibilità, morte. Lampada: intimità, studio. Lupo: presentimento della morte, crudeltà, stoicismo. Luna: rèverie, romanticismo, malinconia. Specchio: vanità, narcisismo, introspezione, autocritica. Neve: purezza, innocenza. Occhio: chiaroveggenza, vigilanza, onniscienza divina. Olivo: pace, perdono.
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Similitudine
Oro: bellezza, calore, regalità, bontà, nobiltà, potenza, ricchezza. Farfalla: leggerezza, incostanza, immortalità. Fenice: sacrificio, resurrezione, immortalità. Pietra: durezza di cuore. Piuma: leggerezza. Pesce: vita, speranza di una nuova vita. Porta: ingresso, apertura a un mondo nuovo, santificazione (porta stretta). Rosa: giovinezza, bellezza femminile, delicatezza. Strada: destino umano. Sangue: vita, amore, eredità, delitto. Scarabeo: immortalità. Serpente: simbolo benefico e malefico. Sole: conoscenza, gioia, Dio. Sfinge: mistero, enigma. Torrente: impeto, disordine, ispirazione geniale. Triangolo: equilibrio, armonia, perfezione. Valle: vita terrena, agonia, resurrezione. Vampiro: crudeltà. Verde: primavera, speranza. Evidentemente, questo elenco ha un valore puramente esemplificativo, perché anche i simboli hanno una radice culturale e la loro corretta interpretazione richiede sempre il riferimento a tavole assiologiche e a codici storicamente condizionati. B. pur vero che nella cosiddetta critica simbolica, ispirata a N. Frye, si attribuisce al simbolo una valenza generale o universale; ma questa universalità è piuttosto una costante antropologica, come ha mostrato l'ampio e complesso lavoro di G. Durand, 1972. Un aspetto interessante nella critica letteraria è la decifrazione dei simboli inconsci, per i quali il discorso si sposta dalla convenzionalità dei codici all'individualità dello scrittore. Qui la psicanalisi può utilmente correlarsi alla semiologia nell'individuazione, a partire da certe connotazioni linguistiche (metafore, metanimie), delle isotopie profonde del messaggio. Sull'argomento si rimanda l a Marchese, 1974, p. 160 sgg. SIMILITUDINE. La similitudine è, nell'antica retorica, un tropo fondamentale dal quale deriva, per abbreviazione, la metafora (v.). Si tratta di una figura semantica (un metasemema, nella terminologia degli autori della Retorica generale, 1970 c) che di norma è un confronto o un paragone fra immagini introdotto da come, simile a ecc. Es.: L'lsonzo scorrendo l mi levigava l come un suo sasso (Ungaretti). Il « come» può essere sostituito da altre forme analoghe: tale, sembra, pare, simile a ecc. Es.: Strana e vaga malattia l simile a una domenica calma (Govoni); Lucevan gli occhi suoi più che la stella (Dante).
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Sincroniu
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Possiamo concordare con la distinzione proposta nella Retorica generale fra similitudini di tipo metalogico (ad esempio, è ricco come un Creso) e similitudini di tipo metaforico (ad esempio, le sue guance sono fresche come rose). In effetti, la trasformazione per ellissi dei due enunciati porta alle seguenti figure: egli è un Creso (una antonomasia, da rapportarsi alla sineddoche); le sue guance sono rose o le rose delle sue guance (metafora). SINAFiA. La sinafia è un fenomeno metrico per il quale si ha la fusione di un verso col seguente; con maggiore esattezza, nel verso ipermetro la sillaba finale si fonde con la sillaba iniziale del verso successivo. Es.: Sorridi/e, guardala; appressati/a mamma ... (Pascoli). (v. IPERMETRO.)
Etim.: dal gr. syn = insieme, haptein = unire. SINALÈFE. La sinalefe è la fusione in una sola sillaba metrica della vocale finale di una parola e della vocale iniziale della parola successiva. Es.: Voi ch'ascoltate~in rime sparse~il suono (Petrarca). Etim.: dal gr. syn = insieme, aleiphein = unire. SiNCOPE. La sincope è la soppressione di uno o più fonemi nel corpo di una parola. Es.: medesmo (per «medesimo»), vienmi (per « vienimi »), tòrre (per« togliere»); Ma fu' io solo, là dove sofferto/ fu per ciascun di tòrre via Fiorenza ... (Dante). Etim.: dal gr. syn = insieme, k6ptein = tagliare. SINCRONIA. Si chiama sincronia uno stato della lingua considerato nel suo funzionamento in un determinato momento del sistema. In Saussure la sincronia si oppone alla diacronia, cioè alla visione evolutiva della lingua. Una descrizione sincronica opera un taglio trasversale per esaminare i rapporti che si istituiscono fra gli elementi del sistema in un dato momento del suo sviluppo, appunto sincronicamente. Nella linguistica attuale (v.) l'opposizione saussuriana, importante da un punto di vista metodologico, è superata in una concezione funzionalistica della lingua, che si preoccupa di cogliere anche la diacronia dei diversi sistemi sincronici. Nella critica letteraria, l'analisi sincronica di un testo o di un corpus (insiemi di testi), tendente a cogliere un modello delle funzioni poetiche o narrative o comunque a verificare le relazioni delle parti in un insieme sistematico, deve essere completata mediante la verifica dell'evoluzione del modello (ampliamento, risistemazione interna ecc.) al fine di delineare un quadro globale, sincronico e diacronico, dell'opera. Per un esame semiologico del sistema montaliano si rimanda a Marchese, 1977. Etim.: dal gr. syn insieme, kr6nos tempo.
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Sinèddoche
SINÈDDOCHE. La sineddoche, come la metonimia, è una figura semantica che verte sul trasferimento di significato da una paola a un'altra (v. METAFORA), in base a una relazione di contiguità. Mentre nella metonimia la contiguità è di tipo spaziale, temporale o causale, nella sineddoche la relazione è di maggiore o minore estensione. La sineddoche rappresenta quindi: a) la parte per il tutto: vela per nave, tetto per casa, bocche per persone (in ho sette bocche da sfamare) b) il tutto per la parte: l'uomo prese una sigaretta e l'accese (in realtà è la «mano » che prende e accende la sigaretta) c) la parola di significato più ampio per quella più ristretta (v. lPONlMlA) : macchina per automobile, lavoratore per operaio, casa per abitazione d) la specie per il genere (cfr. anche c): mortali per uomini, felino per gatto e) il singolare per il plurale: l'inglese è compassato, lo spagnolo è romantico f) il plurale per il singolare: penso ai figli ( = a mio figlio); è arrivato con la servitù (con una cameriera). Riprendiamo il discorso degli autori della Retorica generale (AA. VV., 1970, tr. it., p. 150 sgg.) secondo i quali la sineddoche si esprime in due moduli diversi: il modulo n (o scomposizione esocentrica) consiste nel distribuire le proprietà di un elemento alle parti costituenti o nel distribuire i semi dell'insieme nelle parti. Ad esempio: albero = rami e foglie e tronco e radici ... Vi è equivalenza tra la proposizione: x è un albero e il prodotto di proposizioni: x ha le foglie e x ha tronco ecc. Il modulo ~ (o scomposizoine endocentrica) consiste nell'attribuire le stesse proprietà di un elemento a sottoclassi di elementi omogenei. Ad esempio: albero = pioppo o quercia o betulla o platano ... Le sottoclassi stanno alla classe in un rapporto di specie a genere di tipo disgiuntivo, nel senso che un albero sarà un pioppo o una quercia ecc. « La scomposizione questa volta non è distributiva ma attributiva, riferendosi ogni parte a un albero al quale sono attribuiti tutti i semi dell'albero, più dei determinanti specifici ». La sineddoche può inoltre essere particolarizzante o generalizzante. Quando diciamo mortali invece di uomini, formiamo una sineddoche generalizzante in quanto la soppressione parziale di semi (mortali sono anche gli animali) estende il termine. È generalizzante anche la sostituzione di uomo per mano nella frase: l'uomo prese una sigaretta e l'accese. La sineddoche particolarizzante è del tipo vela per" battello, ma anche zulù per nero. Per lo più la sineddoche particolarizzante prequella generalizzante il modulo ~. dilige il modulo
n.
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Sinestesìa
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Si ha pertanto il seguente paradigma delle sineddochi: scomposizione secondo il modo sineddoche
~
n
generalizzante
n;zortale per « uomo »
uomo per « mano »
particolarizzante
zulù per « nero »
vela per « battello »
La sineddoche, dice Eco, 1975, p. 349, è un caso di « interdipen· denza semica » come la metonimia, dalla quale non si differenzierebbe, in quanto per entrambe le figure l'interdipendenza consiste nella selezione di un sema (o marca) per il semema cui appartiene (vela per nave) o viceversa di un semema per uno dei suoi semi (mortale per uomo). Nella frase Ho sette bocche da sfamare
il lessema bocca ha una costituzione semantica del tipo uomo, persona, corpo, testa, faccia bocca denti, lingua, palato ... È evidente che bocca è uno dei semi che formano il semema /persona/, che è sovraordinato rispetto a corpo, testa, faccia, bocca ecc.; se invece bocca sostituisce, ad esempio, denti, come nella frase: hai la bocca per rosicchiare, allora si avrà un processo generalizzante perché il termine traslato è un semema che sta al posto di un sema sottoposto. Quest'ultima sineddoche (generalizzante secondo il modulo Il) è però poco sentita, come del resto la sineddoche particolarizzante secondo il modulo ~. del tipo: fuori una notte zulù.
SINÈRESI. La sineresi o sinizèsi è la contrazione di due sillabe in una nell'ampito di una parola. Nel verso costituisce una figura metrica opposta alla dieresi, che scioglie invece un dittongo. Es.: Disse: Beatrice, loda di Dio vera (Dante); ed erra l'armonia per questa valle (Leopardi). Le vocali in corsivo sono contratte in una sola sillaba. Di norma la sineresi non è possibile in fin di verso. Etim.: dal gr. syn = insieme, airein = prendere. SINESTESÌA. E una particolare forma di metafora in cui si associano insieme termini appartenenti a sfere sensoriali diverse. Le metafore sinestetiche furono molto usate dai poeti simbolisti e in gi::nere sono fre-
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Sinizèsi
quenti nella lirica decadente, sebbene non siano ignote all'arte antica, come dimostra questa immagine di Virgilio: clamore incendunt coelum ( = cielo incendiato dalle grida). Una bella sinestesia si ha nel verso pascoliano: Là, voci di tenebra azzurra ... , dove è evidente l'associazione udito (voci) · vista (tenebra azzurra), per indicare il suono delle campane nella notte. Ma l'immagine è anche ricca di altre significazioni traslate: voci è già di per sé una metafora, tenebra azzurra è quasi un ossimoro. Un altro esempio pascoliano di sinestesia: pigolio di stelle. Esempi tratti da Montale: l'oscura voce, fredde luci, trillo d'aria, lampi d'afa, un barbaglio che invischia, punge il suono d'una/ giga crudele (dove giga crudele è un ossimoro), fredde luci / parlano (sinestesia complessa, ottenuta con l'equiparazione di tre campi sensodali). Etim.: dal gr. syn = insieme, aisthanesthai = percepire. SINIZÈSI. Contrazione vocalica, v. SINERESI. Etim.: dal gr. synizainein = cadere, tornare indietro. SINONIMiA. La sinonimia è la totale o parziale (in certi contesti) identità di senso fra due o più termini. Ad esempio, mucca e vacca, gatto e micio, albero e pianta (in certi contesti), uccidere e ammazzare. « La prova per stabilire che due parole x e y sono sinonimi sta nell'intercambiabilità nello stesso contesto: c'è sinonimia se sostituendo x a y (o viceversa) in uno stesso contesto, lasciando immutato il resto del contesto, il significato dell'espressione non muta. Per es., ti ho tirato un sasso e ti ho tirato una pietra vogliono dire « la stessa cosa », quindi sasso e pietra sono sinonimi, hanno lo stesso significato >~ (Berruto, 1975, p. 61 ). Etim.: dal gr. syn insieme, 6nyma nome.
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SINT AGMA. Per Saussure il sintagma è una _combinazi_one_ di elementi nella catena parlata; ad es., contro tutti, la vita umana, rilegge:re, Dio è buono. Il sintagma è sia un fatto infralessicale (ri-leggere) sia un'intera frase. Nella linguistica postsaussuriana si definisce per sintagma un gruppo di elementi che formano un'unità in una struttura gerarchizzata (sintagma nominale, verbale, preposizionale ecc.). Il sintagma è costituito da due o più elementi ed è esso stesso un elemento di ,un'unità di rango superiore. Ad esempio, l'allievo va a scuola si scompone in un sintagma nominale e in un sintagma verbale (SN + SV); il sintagma verbale è costituito da un verbo e da un sintagma preposizionale (V + SP). Per i problemi dell'analisi linguistica si v. LIN· GUISTICA, per alcuni aspetti stilistici si V. ASSI DEL LINGUAGGIO. Etim.: dal gr. syn insieme, tcissein ordinare.
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Soggetto
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SINTOMO. Si potrebbe definire il sintomo come un segno naturale emesso inconsciamente da un agente umano; ad esempio, i sintomi medici o psicologici (cfr. Eco, 1973, p. 38). I brividi sono sintomi della febbre. Per un approfondimento V. SEGNO, SEMIOLOGIA. SIRMA. La sirma o sirima o coda è la seconda parte di una stanza della canzone (v.); può essere divisa in due volte. Normalmente la sirma è più lunga della fronte (ad esempio in Guittone). « Da Dante in poi è consuetudine inserire nella sirma quattro versi a rima incrociata, del tipo ZYyZ e di chiudere la sirma con una coppia di endecasillabi a rima baciata (ZZ) ovvero col gruppo ZyZ » (Elwert, 1973, pp. 119-120). Etim.: dal gr. syrma = veste a strascico. SIRVENTESE. v.
SERVENTESE.
SISTEMA. In linguistica (v.) la lingua è considerata un sistema, in quanto esistono, ai diversi livelli (fonologico, morfologico, sintattico, semantico) relazioni che legano i termini fra loro in modo tale che, se viene modificato un termine, l'equilibrio complessivo del sistema è intaccato (cfr. Dubois, 1973, p. 481). Anche la letteratura (v.) può essere considerata un sistema, sia perché in essa agiscono, a livello sincronico e diacronico, delle peculiari istituzioni, come i generi; sia perché ogni testo letterario assume valore e specificità nella correlazione con gli altri testi, specialmente con quelli affini nell'ambito di un dato genere o di una poetica o di una scrittura (v. INTERTESTUALITÀ); sia infine perché « la funzione ipersegnica del testo letterario si produce appieno nel generale processo comunicativo consentito dall'esistenza di convenzioni e codificazioni letterarie (dietro cui stanno le socio-ideologiche), di tecniche riconosciute, che veicolano in qualche modo il dialogo fra autore e destinatario » (Corti, 1976, p. 17). S)STOLE. Si chiama sistole lo spostamento dell'accento metrico in avanti, cioè verso l'inizio della parola. Es.: Non odi tu la pièta del suo pianto (Dante). L'opposto della sistole è la diàstole (v.). Etim.: dal gr. systé/lein = contrarre. SITUAZIONE. Si può intendere per situazione la base storico-sociale che condiziona l'emissione di un determinato enunciato; più chiaro è il concetto di contesto (v.) o di contesto situazionale. SOGGETTO. In linguistica il soggetto è una funzione sintattica del sintagma nominale nella frase tipo: F = SN + SV (ad esempio, il cane mangia un osso). Prendendo spunto dallo stemma di Tesnière, che
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Sonetto
distingue nella frase tre attanti, il soggetto, l 'oggetto e il beneficiario (es.: oggi Piero compra a suo figlio un frenino elettrico, ha come stemma: compra oggi
Piero
un
elettrico
dove l'attante l è il soggetto, l'attante 2 è l'oggetto, l'attante 3 il beneficiario (a suo figlio), mentre oggi è un circostanziale), Greimas ha elaborato il modello attanziale del racconto, che sintetizza anche le funzioni ritrovate da Propp nella fiaba e da Souriau nel teatro (v. ATTANTE). Come categoria letteraria il soggetto può essere il personaggio protagonista (v.), l'eroe (v.), l'io narrativo o l'io lirico: il cardine, insomma, di una vicenda d'invenzione. Nella prospettiva della costruzione linguistica di un testo, occorre aver chiara la distinzione fra enunciato ed enunciazione (v.): nel processo di enunciazione il soggetto o allocutore emerge come colui che sta pronunciando un discorso (eventualmente a un allocutore), cioè una serie di enunciati caratterizzati da connotatori emotivi, valutativi, modalizzanti (v. STILE, 1). Il soggetto, infine, rientra nell'ambito dei problemi della narrazione (punto di vista, voce del narratore, ecc.): si pensi, ad esempio, alla distinzione costante nella Commedia fra Dante come auctor (narratore onnisciente che racconta a posteriori la sua visione) e Dante come agens (soggetto o personaggio protagonista di un viaggio misterioso). Si considerino i versi iniziali dell'Inferno: Nel mezzo del cammin di nostra vita l mi ritrovai per una selva oscura ... ma per trattar del ben ch'i' vi trovai l dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. l Io non so ben ridir com'i' v'entrai ... Si osserverà l'opposizione temporale presente, futuro vs passato, che è la spia del processo di enunciazione: il soggetto come auctor del rac.::onto riferisce di sé come soggetto narrativo o protagonista della vicenda vissuta.
SONETTO. Forma poetica antichissima, il sonetto compare contemporaneamente alla canzone come una sua stanza isolata. Iacopo da Lentini fu forse il primo a comporre sonetti con 16 versi endecasillabi, distinti in due quartine (corrispondenti ai piedi della fronte) e in due terzine (corrispondenti alle volte della sirma). Lo schema di Jacopo è il seguente: ABAB ABAB CDE CDE oppure CDC DCD. Fra gli stilnovisti si diffuse pure la forma ABBA ABBA e nelle terzine le forme
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Sottoc:odic:e
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CDC CDC oppure CDE EDC, CDE DCE, CDE DEC (cfr. Elwert, 1973, p. 125 sgg.). Forme metriche derivate dal sonetto sono: il sonetto minore: ha versi più brevi dell'endecasillabo; il sonetto doppio (o rinterzato): si ottiene introducendo un settenario dopo i versi dispari delle quartine e dopo il secondo verso delle terzine (nel rinterzato c'è un settenario anche dopo il primo verso delle terzine). Fu probabilmente inventato da Guittone d'Arezzo. Il sonetto ritornellato: ha una coda di un endecasillabo in rima col quattordicesimo verso oppure di due versi rimati fra loro. Fu inventato da Guittone. Il sonetto caudato: sostituì il ritornellato a partire dal XIV sec.; all'ultimo verso del sonetto segue un settenario in rima e una coppia di endecasillabi a rima baciata (eFF). Nel Cinquecento se ne servì il Berni per la sua poesia burlesca. Se la coda era ripetuta più volte si aveva la cosiddetta sonettessa. Il sonetto raddoppiato: è fatto con quattro quartine e quattro terzine. Il sonetto misto: alterna endecasillabi e settenari. Il sonetto sontinuo: una rima o entrambe le rime delle quartine si prolungano nelle terzine (schema: ABBA ABBA ABA BAB, oppure ACC ACC). Una serie di sonetti sullo stesso tema venne chiamata corona (ad esempio, Il Fiore attribuito a Dante, i sonetti dei mesi e della settimana di Folgore, i sonetti del ça ira di Carducci). Etim.: dal provenzale sonet = melodia, motivo. SOPRASEGMENTALE. Si dice tratto soprasegmentale o prosodico
la caratteristica fonica che riguarda un segmento più lungo di un fonema: l'accento, l'intonazione, la durata sono tratti soprasegmentali (cfr. bubois, 1973, p. 470). (v. anche PROSODIA). SOTTOCODICE. In Eco, 1968, p. 38 sgg. si intende per sottocodice
un lessico specifico in grado di decifrare i significati connotativi, mentre il codice della lingua stabilirebbe solo i significati denotativi. Un sottocodice è un codice più ristretto o particolare, che implica un uso specifico della lingua, un livello più o meno formalizzato, una caratterizzazione settoriale ecc. Ad esempio, si possono considerare dei sottocodici i gerghi degli studenti, dei soldati, della malavita, rispetto all'uso standard; e così il linguaggio sportivo, politico, tecnico-scientifico ha precise codificazioni che si diramano in sotto-specificazioni (il linguaggio medico e i settori della medicina, quello scientifico nelle diverse branche ecc.). Nello studio della letteratura si possono considerare ~ottocodici i registri, le scritture o gli stili « prodotti » dai codici stilistici dei vari generi, in determinate epoche (cfr. Corti, 1976, p. 84; v. SCRITTURA).
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Sovrastruttura
SOVRASTRUTTURA. In Marx appartengono alla sovrastruttura tutte le espressioni ideologiche di una data età, in relazione al tipo di rapporti economici e di relativi rapport1 di proprietà che caratterizzano il modo di produzione di una società. Sovrastrutturali sono il diritto, la morale, la cultura e l'arte, dal momento che le idee dominanti sono quelle della classe dominante. Il rapporto fra struttura e sovrastruttura non è tuttavia deterministico ma dialettico: la seconda non è un semplice riflesso della prima ma reagisce su di essa, ad esempio a livello di coscienza individuale. Le sovrastrutture tendono a permanere più a lungo del tipo di struttura che le ha storicamente determinate; talora certi valori propri a una classe in declino sono assunti, con opportune trasformazioni, dalla nuova classe egemone desiderosa di nobilitarsi. Si pensi agli ideali cortesi-cavallereschi di origine feudale e alla loro appropriazione da parte della nascente borghesia dopo il Mille, come testimonia il Decameron, in cui per altro si prospetta un significativo recupero di tali valori in prospettiva già prerinascimentale. SPAZIO BIANCO. Nella lirica moderna assume un particolare valore il tempo della lettura, con determinate pause fra parola e parola, sintagma e sintagma, verso e verso, che il poeta intende sottolineare e comunicare al destinatario. Il tempo della lettura è indicato non solo dalla frantumazione del verso tradizionale (ad esempio l'endecasillabo), ma anche da alcune pause intenzionali rappresentate mediante gli spazi bianchi, ossia degli intervalli grafici fra un verso e l'altro. Si osservi la seguente poesia di Ungaretti (dall'Allegria): Chiuso fra cose mortali (Anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio? Gli spazi bianchi sostituiscono qui la normale punteggiatura e ritmano i tre momenti della meditazione lirica, ne scandiscono la dilatazione cosmica contraddetta dalla condizione limitata dell'uomo. II Morier, 1975, p. 143 annota sotto il nome di blanchissement il procedimento (usato da Claudel) con cui si sottolinea l'assenz~ di una parola lasciando lo spazio bianco. STANZA. La stanza è la strofa di una canzone (v.). STEREÙTIPO. Lo stereotipo è una formula fatta, un cliché, che ha perduto ogni connotazione espressiva. Gli stilemi possono essere considerati stereotipi, ma essi alludono per lo più a particolari codici e sottocodici letterari (ad esempio, dalle bianche braccia è uno stilema
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Stile
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convenzionale della poesia epica di derivazione america). Lo stereotipo è piuttosto il convenzionale linguistico e ideologico (v. KITSCH); espressioni come notte livida, attesa angosciosa, cuore straziato, sposa e madre esemplare, vittima del dovere sono degli stereotipi. Può essere interessante l'uso ironico-parodistico di stereotipi (della pubblicità o anche della letteratura) con effetti di pastiche o espressionistici, tentato dalla neoavanguardia. Es.: Piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero l Bosch in miniatura, w1 salvadanaio di terra cotta, un quaderno l con tredici righe, un'azione della Montecatini: l piangi piangi che ti compero l una piccola maschera antigas, un fiaccane di sciroppo ricostituente . l un robot ... (Sanguineti). STiCHICO. Si chiama poesia stichica la poesia non strutturata in strofe ma formata nei modi più liberi, con una intenzionale infrazione delle norme metriche. Talora un componimento irregolare, con versi cioè di varia misura e senza una suddivisione in strofe è detto polìmetro (ad esempio il Bacco in Toscana del Redi). La poesia stichica nasce col verso sciolto durante il Rinascimento, a imitazione della poesia classica (cfr. Elwert, 1973, p. 114 sgg.).
STILE. Fra le infinite definizioni generali di stile si può considerare come la più pacifica quella che lo caratterizza come l'espressione personale, e dunque fortemente autonoma e creativa, di uno scrittore. In una prospettiva linguistica e semiologica si danno diverse accezioni e spiegazioni dello stile che, pur essendo parole, atto linguistico individuale, non è creazione ex nihilo, come ritiene l'idealismo e si fonda sempre e inevitabilmente sul patrimonio della langue. Ma qual è il rapporto fra stile e langue? Se si ammette, col Riffaterre, che esiste una funzione stilistica, il suo compito sarà quello di sottolineare i tratti significativi del messaggio, in opposizione alla normalità del contesto. Ci troviamo di fronte a una prima definizione di stile come « deviazione » o « scarto » rispetto alla norma. B. possibile, secondo Guiraud, Henry, Rosiello e altri, misurare obiettivamente tali variazioni con un metodo statistico. In particolare il Rosi ello (1966· b) cerca di operare una sintesi fra linguistica, metodo statistico e teoria dell'informazione: « Il concetto di stile può venire a coincidere con quello di informazione: un messaggio sarà più o meno informativo a seconda che il sistema di combinazioni tra unità sarà più o meno prevedibile ». Rispetto al discorso standardizzato della normale comunicazione il messaggio poetico mette in rilievo l'arbitrarietà dei segni. Ci si chiede, però, se sia possibile misurare gli elementi pertinenti (che caratterizzano lo stile) in base alla loro ripetibilità, cioè con criteri statistico-matematici, quando anche, un solo elemento può essere pertinente perché assume una funzione connotativa nel modello del testo. Un'altra obiezione che
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Stile
si può avanzare a questa definizione dello stile è che il messaggio poetico (o letterario in genere) non è solo un fatto linguistico ma anche e soprattutto un fatto di scrittura (v.). Sembra più produttivo considerare lo stile come linguaggio connotato, come interazione fra le forme del contenuto e le forme dell'espressione. Il sistema formale (sia sul piano tematico che espressivo) è sotteso da codici e sottocodici storicamente determinati, da scritture che s'incrociano nella stilizzazione dell'opera: un'ottica semiologica è dunque interessata a ricostruire e a strutturare il macrosistema del testo nelle sue componenti ed eventualmente a segnalare lo scarto specifico fra una data realizzazione e le istanze virtuali implicite nella scrittura o nel genere cui l'opera si riferisce. Come si vede, il concetto di scarto è qui recuperato nell'ambito del sistema letterario (lingua, istituti, scritture ecc.), che è sempre un sistema « secondo » rispetto a quello della langue (in altri termini . è culturalmente connotato). l. La descrizione dello stile. La stilistica (v.) e in generale la critica letteraria formale e strutturalistico-semiologica si propongono di descrivere i caratteri specifici dello stile di un determinato testo o autore. Il Todorov (in Ducrot-Todorov, 1972, p. 330 sgg.) distingue il piano dell'enunciato (v.) e il piano dell'enunciazione (v.) cioè la trasmissione puramente verbale del messaggio e il processo che mette in atto elementi non verbali (il mittente, il destinatario, il contesto). Nel periodo manzoniano: « Don Abbondio (il lettore se n'è già avv:!duto) non era nato con un cuor di leone», l'inciso il lettore se n'è già avveduto è un'enunciazione, implicando un richiamo al destinatario, come giudice delle qualità di un personaggio del racconto. L'analisi dell'enunciato riguarderà il livello del significante, quello morfosintattico (si potranno considerare i tipi di relazione fra le frasi: logiche, temporali, spaziali) e l'aspetto semantico. Ad esempio, l'enunciato « Don Abbondio non era nato con un cuor di leone » ha un minimo di rappresentatività rispetto a quest'altro enunciato: « Per una di queste stradicciole, tornava ben bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra». Nel primo non c'è una diretta referenzialità narrativa, in quanto l'autore dà un giudizio sul personaggio: si potrà osservare, sul piano semantico, una figura retorica, la litote (v.) « non era nato con un cuor di leone». Lo stesso Todorov (in AA. VV. 1971, p. 122 sgg.) distingue, a livello di enunciazione, lo stile (o discorso) valutativo, nel quale il narratore indica le proprie disposizioni, giudizi, opinioni di carattere estetico, ideologico, morale ecc.; lo stile (o discorso) emotivo, che mette l'accento sul parlante (cfr. la funzione emotiva di Jakobson); lo stile (o discorso) modalizzante, in cui il soggetto dell'enunciazione è posto in evidenza attraverso certe categorie linguistiche: i verbi e gli avverbi moda li ( « potere », « dovere», « forse », « certamente », «mi sembra », « senza dubbio»
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Stile
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ecc.). Per un approfondimento si veda Marchese, 1974, p. 111 sgg. Di grande importanza. specie nell'analisi della narrativa, è la distinzione fra stile (o discorso) diretto, indiretto e indiretto libero. Lo stilediscorso diretto è il modo d'enunciazione implicante direttamente il mittente e il destinatario: in un racconto, ad esempio, i personaggi che parlano fra loro o anche con una sorta di interlocutore as::ente (soliloquio). Diverso è il caso del monologo interiore (v.). Lo stile-discorso indiretto è il modo d 'enunciazione dei discorsi rapportati. Lo stile-discorso indiretto libero (in tedesco erlebte Rede, in inglese represented speech, narrated monologue) è caratteristico del romanzo moderno: il narratore dà la parola indirettamente ai personaggi, « inserendo nel racconto, come parte integrante di esso (e non semplicemente come monologhi "a parte") frammenti del discorso» (Terracini, 1966, p. 360). Si consideri questo brano di Pirandello: « Una sera le Ninì, spaventate, si videro comparir dinanzi, stravolto e convulso, il loro strano inquilino. Che voleva? La cameretta, la cameretta, se era ancora sfitta! No, non per sé, non per starei! per venirci un'ora sola, un momento solo almeno, ogni sera, di nascosto! ... Avrebbe colto ogni sera il momento che nessuno fosse per le scale; egli avrebbe pagato il doppio, il triplo la pigione, per quel momento solo ». Dopo la prima frase, pur mantenendo il discorso sul piano della terza persona (indiretto, oggettivo), il narratore dà praticamente la parola ai personaggi, senza ricorrere al dialogato e senza servirsi del normale discorso indiretto, introdotto da un verbo dichiarativo e da congiunzioni subordinanti. L'intervento dell'autore, in forme per così dire mascherate, si nota talora nella variazione dei modi e dei tempi verbali, ad esempio nell'opposizione indicativo-condizionale, passato remoto-imperfetto. Si os- · servi questo periodo di Svevo: « Aiutata dal!a camerier3, Annetta servì il té. Con Macario ella insistette che prendesse anche qualche cosa d'altro; incaricò la cameriera di porgere una tazza ad Alfonso, gli occhi del quale brillarono d'ira. Cominciava a sentire il dovere di reagire; quello che più di tutto lo preoccupava era il timore che Macario lo disprezzasse vedendolo subire tanto umilmente tali impertinenze. Avrebbe dato del suo sangue per trovare una parola acconcia, pungente ». Da un punto di vista linguistico solo la prima frase appartiene al piano dell'enunciato, in quanto si riferisce a un fatto: servire il té. Già la seconda frase ha un contenuto metalinguistico (v. LINGUAGGIO, 1), perché allude alle parole di Annetta rivolte a Macario (discorso indiretto). La terza frase comprende un fatto extralinguistico (la cameriera porge una tazza ad Alfonso), ma mediato da quell'« incaricò» che riporta dunque all'enunciazione; l'aggiunta: « gli occhi del quale brillarono d'ira » è evidentemente un intervento dell'autore (un discorso valutativo-psicologico), perché qualcuno dice la causa di un fatto. Tutte le altre frasi sono metalinguistiche, espressioni di pensieri, di valutazioni, di propositi. Si notino elementi del discorso-stile modaliz-
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Stile
zante (cominciava, più di tutto), emotivo (avrebbe dato del suo sangue ... ) e soprattutto valutativo. 2. Stile e scrittura. Abbiamo definito lo stile come l'espressione personale di un autore o come la fisionomia formale di un'opera. Si può parlare dello stile del Petrarca ma anche dello stile della Divina Commedia. È comune anche un'accezione più lata del termine, in dferimento a un dato movimento letterario, a una scuola o addirittura a un intero periodo artistico: si parla allora dello stile del « dolce stil nova » o dei petrarchisti del Quattrocento, dello stile simbolista o crepuscolare, dello stile barocco, neoclassico, romantico. Così nell'ambito più generale delle arti figurative, della musica e persino dell'arredamento e della moda la denominazione dei diversi stili serve a indicare un complesso di caratteri specifici e costanti, chiaramente identificabili per il riferimento ad alcuni ideali estetici o a precise tendenze del gusto, della cultura, delle convenzioni sociali di una data età. Recentemente è stato introdotto il termine «scrittura» (v.) come sinonimo o sostituto di stile individuale, con una marcata sottolineatura dell'aspetto linguistico, cioè delle scelte nell'ambito del codice operate dallo scrittore. A nostro avviso occorre precisare il carattere semiotico del concetto di scrittura come insieme di aspetti letterari, e quindi pertinenti al sistema della letteratura e ai suoi codici e sottocodici, che si riflettono nello stile di un autore. È evidente che quanto più personale è la realizzazione stilistica di un testo, tanto maggiore è stata l'elaborazione e la trasformazione del modello di scrittura nel cui ambito si collocano sia l'opera sia la poetica dello scrittore. Gli « Idilli » del Leopardi si riferiscono a una scrittura codificata almeno a partire dal Sannazaro e attiva nel gusto arcadico. Tuttavia lo stile del poeta emerge grazie alla transcodificazione letteraria (v.) che evidenzia, nella continuità di una scrittura o se si vuole di una tradizione codificata, la novità dell'opera emergente. 3. La ripartizione degli stili. La retorica antica considera lo stile distaccato dall'oggetto specifico o contenuto, come una virtualità di strumenti espressivi adattabili ad ogni argomento secondo un complesso di norme rigidamente codificate. Lo stile non è tanto espressione personale quanto potenzialità formale astratta e caratterizzata dali 'osservanza di determinati precetti. In questa prospettiva, è della massima importanza il rapporto fra lo scrittore (la sua opera) e i modelli fissati dalla tradizione, sicché il valore di un testo dipende dalla sua adeguatezza alla norma. Come codificazione degli strumenti e degli ideali espressivi la retorica tende a farsi precettistica, repertorio chiuso di schemi ripartiti secondo i diversi generi poetici e prosastici (v. GENERE LETTERARIO).
Uno degli aspetti più caratteristici della retorica antica è la distinzione dei tre generi dello stile: sublime (o gravis), medio (o mediocris), tenue (o humilis), distinzione accettata dal Medioevo e che ci si
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Sti/ema
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ripresenta in Dante nella tripartizione di stile tragico, elegiaco e conuco (cfr. Auerbach, 1956 e 1963). Secondo la teoria antica i tre stili dovevano restare rigorosamente distinti: argomenti elevati, di carattere filosofico, amoroso e soprattutto eroico, dovevano essere espressi in forma sublime, secondo i precetti dell'eloquio retorico; argomenti banali e realistici comportavano uno stile comico-plebeo, mentre per i temi pastorali si ricorreva a una forma intermedia. L'Eneide era considerata un modello di stile sublime, il Satyricon di Petronio un esempio di stile comico. Il realismo antico, come ha osservato Auerbach, ha una deformazione comica, senza approfondimento problematico, perché l'intellettuale di estrazione aristocratica non prende in considerazione le forze sociali che stanno alla base della rappresentazione (il popolo, i contadini, gli schiavi, il lavoro ecc.). L'Iliade ci presenta come protagonisti re, principi, divinità, eroi che si affrontano e si scontrano in memorabili battaglie durante le quali cadono innumerevoli soldati, senza che il poeta si soffermi ad esaminarne il dramma. Il caso di Tersite è sintomatico: la sua pericolosa protesta è repressa da Ulisse e Omero sottolinea l'abisso che intercorre fra i due descrivendo in modo comico l'aspetto deforme del fantaccino e il suo stridulo, vanitoso parlare. La tripartizione degli stili fu raffigurata nella bassa latinità con la cosiddetta « ruota di Virgilio », dove l'Eneide rappresenta lo stile grave, le Georgiche lo stile medio e le Bucoliche quello umile. Nel Medioevo la distinzione degli stili è evidente, ad esempio, nella netta contrapposizione fra poesia amorosa, di origine cortese (scuola siciliana, stilnovismo) e poesia comico-realistica. L'Auerbach nota che il realismo giudaico-cristiano ha scosso la canonica tripartizione degli stili, mescolando tragico e umile, perché con l'incarnazione e la passione del Ct;sto il dramma quotidiano dell'uomo assume un significato più profondo, la vita non è più chiusa nel breve giro dell'esistenza mondana, ma l'eterno vi è presente come messaggio di giudizio e di salvezza. Ciò vuoi dire che, per gli scrittori cristiani (i quali guardano al modello della Bibbia), tutta la realtà ha valore ed è degna di essere rappresentata artisticamente. Emblema di questo rivoluzionario mutamento di prospettiva è la Divina Commedia, capoiavoro del realismo cristiano medievale, la cui novità stilistica è data appunto dalla grandiosa mescolanza degli stili tradizionali. Alla straordinaria varietà dei temi e dei personaggi corrisponde una eccezionale inventività fantastica e stilistica, che permette a Dante, per citare un solo esempio, di rompere la sublime tensione paradisiaca con versi del tipo: « e lascia pur grattar dov'è la rogna », inimmaginabili in un autore classico, come nel suo maestro Virgilio.
STILEMA. Lo stilema è una particolare costruzione formale ricorrente in un autore e comunque emblematica del suo linguaggio, della sua scrittura letteraria. Alcuni stilemi sono moduli caratteristici e
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Stilistica
convenzionali di certi generi, movimenti, poetiche, gusti tipici di una data età; in tal caso si dovrebbe parlare con maggiore esattezza di stereotipi (v.). Uno stilema petrarchesco è, ad esempio, la dittologia (v.): solo e pensoso, passi tardi e lenti. STILISTICA. Il concetto di stilistica non è univoco. Innanzi tutto esso può designare un complesso di norme concernenti la formazione esteriore e ornata della scrittura. Ma questo significato è oggi del tutto superato dallo studio storico del linguaggio, che rifiuta ogni astratta ed esemplare normatività al di fuori della libertà creativa degli scrittori. D'altra parte è innegabile che esista in campo letterario una tradizione delle forme espressive (v. GENERI, ISTITUTI LETTERARI) in cui si inserisce, pur innovandole dall'interno e a volte rivoluzionandole, lo scrittore con le sue opere individuate. In tal senso la stilistica può essere una descrizione e un'analisi storica di questa vicenda globale della lingua, in cui non si mancherà di sottolineare le influenze di gusto,. di costume letterario, di poetiche che innervano la tradizione di una civiltà. In ogni caso, la stilistica modernamente intesa rinvia allo studio del linguaggio letterario, sia come fatto oggettivo, istituzione storica e tradizionale, sia come innovazione personale, come stile propriamente detto (v. STILE, SCRITTURA). Sotto questo aspetto la stilistica si è differenziata anche dalla sua lontana origine linguistica, che risale alla distinzione di De Saussure fra langue, come sistema del linguaggio sociale, e parole, come espressione personale (v. LINGUISTICA), poi ribadita dal suo allievo Bally che, analizzando la langue, cioè « i fatti d'espressione del linguaggio organizzati dal punto di vista del loro contenuto affettivo », riprese il vecchio nome di stilistica, pur interessandosi dei « tipi espressivi » della lingua parlata e non del linguaggio letterario nel suo aspetto individuale e creativo. L'interesse per il linguaggio si accrebbe agli inizi del Novecento in concomitanza con la generale crisi del positivismo, e dunque della sua concezione naturalistica ed evolutiva dell'« organismo » costituito dalla lingua. Crisi a cui contribuì potentemente la reazione idealistica, che propose una visione del tutto nuova della lingua, come risulta dalla prima Estetica del Croce ( 1902). Per Jli idealisti linguaggio e poesia si identificano, e cioè la lingua è una perenne e sempre nuova creazione della fantasia dello scrittore. La teoria crociana fornì la base filosofica alla« rivoluzione copernicana» di Karl Vossler, il vero iniziatore dell'indagine stilistica, nel senso che, negando la causalità estrinseca della lingua come insieme di suoni tipica dei positivisti, il filologo tedesco riportava allo spirito umano e più propriamente all'individualità dello scrittore la fonte creatrice del linguaggio. La stilistica per il Vossler non significò tuttavia l'abbandono dello studio degli istituti storici del linguaggio, se egli poteva scrivere una storia
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Stilistica
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della lingua francese in cui si rispecchia la Kultur, la civiltà tutta della nazione. La stilistica interpretativa è stata sviluppata con singolare acume psicologico da un altro studioso tedesco: Leo Spitzer. Egli fonda il suo metodo sul seguente presupposto: « A qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall'uso linguisticQ_" normale; e, viceversa, un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto. Una particolare espressione linguistica è, insomma, il riflesso e lo specchio di una particolare condizione dello spirito » (Spitzer, t 966, p. 46 ). Questa indagine richiede un'estrema attenzione alle indicazioni più latenti e minuziose del testo, che si possono cogliere soltanto con uno strenuo esercizio di lettura, il solo capace di rivelare l'animo del poeta, i « centri emotivi », l'ispirazione fantastica. « Il mio modo di affrontare i testi letterari potrebbe essere sintetizzato nel motto W ort und W erk, "parola e opera". Le osservazioni fatte sulla parola si possono estendere a tutta l'opera: se ne deduce che fra l'espressione verbale e il complesso dell'opera deve esistere, nell'autore, un'armonia prestabilita, una misteriosa coordinazione fra volontà creativa e forma verbale » (ibid., p. 52). Questa tecnica induttiva-deduttiva consiste nel non perdere mai di vista l'insieme nell'analisi delle parti, nell'andare dalle parti al tutto e viceversa in un to-and-fro-movement, che Spitzer chiama Zirkel im Verstehen o circolo della comprensione, dai particolari esterni al centro interno per poi ritornare ad altre serie di particolari. Il metodo di Spitzer si avvale dell'auscultazione del testo per cogliere in un elemento espressivo straniante (il critico dice « sorprendente »: Oberraschung) la spia di un determinato stato d'animo. Lo stile si caratterizza come scarto dalla norma, non diversamente da quanto, in quel giro di anni (1915- t 930), stanno sostenendo i formalisti russi (v.) sebbene in una diversa concezione estetica e metodologica. Ma lo scarto, la deviazione, l'elemento straniante sono sempre pertinenti per caratterizzare lo stile (v.) di un autore? È questo il punto debole della Stilkritik, spesso accusata di soggettivismo, se non di intuizionismo arazionale. Nonostante le riserve del Croce, proprio all'interno della sua scuola si attuano le più felici sintesi dei metodi stilistici spitzeriani e di quelli più propriamente critico-estetici. Si pensi alle esemplari ricerche del Fubini, del Terracini, del Bigi, del Getto o del Branca; né va dimenticata la simpatia dci filologi per l'opera del maestro tedesco, e in particolare di G. Contini e di G. Devoto, il primo considerato addirittura uno dei precursori della critica strutturalistica-formale in Italia, l'altro più interessato a cogliere il rapporto fra gli atteggiamenti stilistici di uno scrittore e gli istituti della lingua. Ad una stilistica più matura si rifà Erich Auerbach, noto in Italia soprattutto per un suo libro, Mimesis, che raccoglie numerosi saggi de-
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Storia
dicati al «realismo nella letteratura occidentale», dall'Odissea alla Woolf. Partendo da una serie di campioni delle opere, sottoposti a una finissima analisi delle diverse componenti linguistiche, storiche, filosofiche ecc., il critico approda a una caratterizzazione globale deli 'arte e della personalità degli scrittori, con un più spiccato senso diacronico e sociale dei fenomeni stilistici rispetto a Spitzer. Per un'analisi dettagliata dei problemi rimandiamo a Marchese, 1976; Guiraud, 1970; AA.VV., 1970 a; Avalle, 1970; Alonso, 1965; Barberi Squarotti, 1972 a; Devoto, 1950 e 1962; Levin, 1962; Riffaterre, 1971; Sebeok, 1960; Terracini, 1966 e 1968.
STORIA. Nella teoria del racconto la storia è, a partire dai formalisti russi, la fabula ossia l'insieme degli avvenimenti narrati. In Segre, 1974, p. 3 sgg. si precisa che la fabula (v.) è la ricostruzione astratta degli elementi concreti dell'intreccio secondo l'ordine temporale e causale, mentre la narrazione presenta questi stessi elementi variamente dislocati secondo l'ottica dello scrittore. Si ricordi, inoltre, l'opposizione postulata da Benveniste fra storia e discorso (v.), cioè fra l'esposizione oggettiva degli avvenimenti e le diverse forme di enunciazione (emergenza del Iocutore o dell'allocutore).
t un breve componimento di due o tre versi, normalmente endecasillabi rimati secondo Io schema AA oppure ABA; comune anche la variante con un quinario o un settenario in apertura, come nel notissimo congedo del Carducci: Fior tricolore, l tramontano le stelle in mezzo al mare l e si spengono i canti entro il mio core. Lo stornello nasce nel Seicento dallo strambotto. Etim.: secondo Elwert, 1973, p. 150, la parola stornello «è forse da riconnettersi alla voce provenzale estorn "lotta, tenzone" ».
STORNELLO.
STRAMBOTTO. Lo strambotto è un breve componimento popolare di contenuto amoroso o anche satirico, sviluppatosi in varie regioni italiane fra il Trecento e il Quattrocento. La forma metrica pii1 comune, sempre in endecasillabi, è la seguente: ABABAB (oppure ABABCC, AABBCC); frequente anche l'ottava: ABABABAB (oppure ABABABCC e altre varianti). In Toscana lo strambotto venne chiamato rispetto e si codificò nella forma ABABCCDD. Es.: O sol che te ne vai, che te ne vai, l o sol che te ne vai su per quei poggi, l fammelo un bel piacer, se tu potrai: l salutami il mio amor, non l'ho vist'oggi. l O sol che te ne vai su per quei peri, l salutameli un po' quegli occhi neri; l o sol che te ne vai su per gli ornelli, l salutameli un po' quegli occhi belli (anonimo toscano). Scrissero strambotti il Giustinian, il Poliziano, il Galeata nel Quattrocento; nel secolo scorso il metro fu ri. preso dal Carducci e dal Pascoli. Etim.: dal fr. estribot = componimento satirico (estribar = staffilare).
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Struttura
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STRANIAMENTO. Lo straniamento è, secondo i formalisti (v.), la procedura formale attraverso la quale l'artista ci dà un'inedita percezione della realtà, deautomatizzando il linguaggio, deformando i materiali compositivi, dislocando semanticamente l'espressione. Per Sklovskij la forma artistica non è altro che una somma di procedimenti: il prem ostranenja, l'effetto di straniamento rende l'immagine nuova, imprevedibile, diversa dalla percezione comune o banalizzata. Per altre informazioni si rimanda a Marchese, 1974, p. 106 sgg. STROFA. La strofa è un modulo istituzionale o unità metrica della poesia, in quanto raggruppamento di versi secondo uno schema prestabilito nato nell'ambito delle convenzioni metrico-letterarie (variabili storicamente). Il modello strofico comprende di solito il tipo e la quantità dei versi impiegati, l'uso e la collocazione delle rime. Le strofe a schema fisso della nostra tradizione sono il distico, la terzina, la quartina, la sestina, la settima rima, l'ottava, la nona rima. Una strofa libera, non vincolata a un preciso numero di versi, fu inventata dal Leopardi per i suoi «canti ». La stanza (v.) è la strofa della canzone (i due termini non devono essere identificati, come talora avviene). Etim.: dal gr. stréphein = volgersi (la strofa o strofe era la prima parte cantata dal coro, volgendosi a sinistra; ad essa seguiva l'antistrofe, cantata volgendosi a destra e infine, fermando la danza, l'epodo o conclusione del canto). STRUTTURA. La struttura è un modello caratterizzato dagli aspetti di totalità, autoregolazione e trasformazione in conformità con le regole che ordinano il funzionamento degli elementi e il loro reciproco rapporto. Per questi probemi v. STRUTTURALISMO, l. La lingua può essere considerata come un sistema strutturato a vari livelli; a partire dall'analisi sincronica di Saussure si individua la moderna linguistica strutturale (v.), nelle sue diverse scuole e tendenze. In particolare, con Chomsky la grammatica generativo-trasformazionale (v. l.INGUISTICA, 5) postula una differenza fra la struttura superficiale della frase, cioè l'esecuzione semantica e morfosintattica, e la sua struttura profonda ossia l'organizzazione astratta dell'enunciato precedente l'intervento di certe trasformazioni, che regolano il passaggio dalla struttura profonda a quella superficiale. Nella metodologia della critica letteraria di ispirazio'1e semiologica il testo può essere considerato come produttività segnica, come operazione scritturale a diversi livelli, anche inconsci. La struttura profonda del testo attinge eventualmente i simboli inconsci che filtrano nella struttura superficiale (ad esempio, nella fabula) grazie alla deformazione del linguaggio poetico (metafore e metonimie, secondo Lacan). Su questi problemi si vedano le VOci: CONNOTAZIONE, FENOTESTO, GENO-
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Strutturalismo
TESTO, INTERPRETAZIONE, ISOTOPIA, LIVELLO, PARALLELISMO, SENSO, SERIE, TESTO.
STRUTTURALISMO. Denigrato da molti come ideologia tecnocratica, esaltato da altri come la più importante scoperta epistemologica del Novecento, lo strutturalismo si è imposto all'attenzione della cultura contemporanea per la molteplicità e la fecondità delle sue applicazioni in varie branche della ricerca scientifica, dalla linguistica (v.) all'antropologia, dalla psicologia all'arte. Come prima definizione generale si potrebbe dire con lo Starobinski (AA.VV., 1965 b, p. XIX) che << lo strutturalismo non è altro che una vigile disposizione a tener conto dell'interdipendenza e dell'interazione delle parti in seno al tutto. Donde la sua validità universale, che lo rende applicabile alla linguistica, all'economia, all'estetica ecc.; ma donde anche la necessità di precisare il programma dell'analisi strutturale, attraverso la definizione, per ogni disciplina, se non per ogni oggetto particolare, di un metodo specifico ». l. Strutturalismo e struttura. Occorre dunque precisare il concetto di struttura, non certo nuovo se Cicerone e Quintiliano usano verborum structura e Ovidio carminis structura. Si tratta di accezioni molto generiche, che rimandano a un'idea di ordinamento, di disposizione razionale degli elementi in un tutto unico, di una organicità che ha le caratteristiche della coerenza e dell 'unitarietà: basti pensare ad una struttura architettonica. « La struttura » dice il vocabolario del Lalande « è un tutto formato di fenomeni solidali, tale che ciascuno dipenda dagli altri e non possa essere quello che è se non in virtù della sua relazione, e nella sua relazione, con essi ». L'unica definizione organica di struttura, antecedente allo strutturalismo linguistico (v. LINGUISTI· CA), è quella marxiana, ossia la base economico-sociale su cui si inseriscono i rapporti di classe e sopra la quale si erige il complesso mondo sovrastrutturale (dal diritto alla cultura, dalla morale all'arte), condizionato storicamente dalla base e in rapporto dialettico con essa. Il Piaget ha affrontato l'esame comparato di diverse discipline scientifiche dall'angolo visuale delle strutture, i cui caratteri fondamentali sarebbero la totalità, le trasformazioni e l'autoregolazione. L'aspetto della totalità è il più evidente, perché una struttura non è un aggregato di elementi indipendenti, ma un insieme vincolato, dove il cambiamento di un elemento comporta il cambiamento di tutti gli altri; la totalità è la risultante delle relazioni intercorrenti fra gli elementi. La sincronia (v.) di un sistema strutturale non esclude l'esigenza di uno sviluppo diacronico (v. DIACRONIA), come mostra la grammatica generativo-trasformazionale di Noam Chomsky (v. LINGUISTICA). Le trasformazioni generano elementi che appartengono sempre alla struttura e ne conservano le leggi. Di qui l'autoregolazione della struttura, che non le impedisce tuttavia di entrare come sottostruttura in
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Strulluralismo
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una struttura più ampia. Facendo una veloce carrellata delle esemplificazioni addotte dal Piaget, si potrà ricordare per le strutture matematiche l'importanza del « gruppo » di Galois, le « strutture madri » del metodo di Bourbaki, le varie strutture della logica simbolica; nell'ambito della fisica l'applicazione di strutture operative matematiche, per la fisiologia, ad esempio, la nozione di omeostasi o quella di autoregolazione; in campo psicologico la teoria della Gesta/t, imperniata sull'idea della totalità percettiva, e le strutture cognitive dello stesso Piaget; in campo sociologico il rapporto struttura-funzione in Parson e per la fìlosofia i lavori dei marxisti-strutturalisti Althusser e Godelier. Secondo Piaget e altri studiosi (fra cui Boudon, Eco, Wahl) lo strutturalismo è una concezione epistemologica fondata sul concetto di modello (o forma) evidenziabile per astrazione e verificabile operativamente. « Lo strutturalismo non generico » dice U. Eco ( 1968, p. 262 sg.) « tende a scoprire forme invarianti all'interno di contenuti differenti », per cui « si può parlare legittimamente di struttura solo quando sono in gioco più elementi da cui astrarre un modello costante ». Le strutture, insomma, esistono solo grazie all'operazione strutturante del ricercatore che risolve l'oggetto in un modello. Il concetto di struttura in linguistica è definito lucidamente dal Benveniste: « Il principio fondamentale è che la lingua costituisce un sistema in cui tutte le parti sono legate da un rapporto di solidarietà e di dipendenza. Questo sistema organizza certe unità, i segni articolati, che si differenziano e si delimitano reciprocamente. La dottrina strutturalista insegna la predominanza del sistema sugli elementi, mira a cogliere la struttura del sistema attraverso i rapporti degli elementi e mostra il carattere organico dei cambiamenti cui la lingua è soggetta » (in AA.VV., 1965 a, p. 35). 2. Strutturalismo e letteratura. Ci soffermeremo brevemente sulle proposte dello strutturalismo nell'ambito della critica letteraria. Se un'opera può essere considerata un sistema di strutture, una struttura letteraria sarà innanzi tutto una produzione linguistica rapport::~ta sia alla lingua (in un dato momento del suo sviluppo), sia alla lingua letteraria, che è un sistema particolare di segni, caratterizzato da determinati processi di scrittura (v.). Il testo come sistema di strutture non andrà riferito a un solo codice (v. COMUNICAZIONE) linguistico (la langue: v. LINGUISTICA, LINGUA), che dà il valore denotativo-referenziale del segno (v. DENOTAZIONE), ma a una varietà di codici e sottocodici culturali ai quali l'autore fa riferimento: gli istituti tradizionali della letteratura, come i generi, i procedimenti retorici e stilistici, le scritture ecc. Il testo assume, di conseguenza, un carattere fortemente connotato (v. CONNOTAZIONE), essendo il suo messaggio in rapporto dialettico con la lingua comune e con il sistema letterario generale. Le metodologie strutturalistiche-semiologiche (v. s EM IOLOGIA) si propongono di decifrare l'opera nel suo senso globale, individuando il
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Strutturalismo
modello interno delle complesse relazioni che intercorrono fra i segni sia a livello di forme dei contenuti sia a livello di forme dell'espressione (v. FORMA). L'indagine critica può seguire diversi itinerari, a seconda che si consideri l'opera in sé, l'opera in rapporto all'intera produzione dell'autore, l'opera in rapporto al sistema letterario c ai suoi sottosistemi (generi, istituti). Il primo tipo di approccio, privilegiato dai formalisti (v. FORMALISMO), scompone l'opera nei suoi vari livelli strutturali, per evidenziare i rapporti reciproci, intratestuali. e approdare al modello implicito. Il secondo tipo di analisi è rivolto a individuare il rapporto fra il « microcosmo » (il testo) e il « macrocosmo » (l'intera produzione di un autore). L'opera è una struttura rispetto al sistema dello scrittore, donde la possibilità di esaminare il sistema in funzione della struttura o viceversa. In opere fortemente strutturate, come la Divina Commedia, è talora necessario per comprendere il senso di una struttura (un canto, un episodio, un personaggio, al limite una parola) partire da un'analisi sincronica del sistema (la Commedia, una cantica, un insieme di canti ecc.). Il terzo tipo di analisi verte sul rapporto messaggio-codice (v. COMUNICAZIONE): tende cioè a verificare il rapporto (e lo « scarto ») fra l'opera, come comple$SO tema ti co, e gli istituti del sistema letterario considerati come peculiari codificazioni culturali (ad esempio i generi). Per tutti questi problemi rimandiamo a Marchese, 1974. 3. Critiche allo strutturalismo. Le critiche più rilevanti mosse allo strutturalismo (ci riferiamo in particolare all'ambito letterario) sono di provenienza storicistica e marxista. Il Petronio, ad esempio, esprime le seguenti riserve: lo strutturalismo si fonda su idee platoniche, ·su archetipi eterni, su strutture immutabili; lo strutturalismo esorcizza la storia, il mutamento, le trasformazioni, antepone la sincronia alla diacronia, nega il divenire; lo strutturalismo mira a costruire modelli eterni e archetipici, di cui gli oggetti non sarebbero che manifestazioni: così, in campo letterario, gli archetipi preesisterebbero alle opere, ridotte a semplici epifenomeni; lo strutturalismo non sarebbe che l'estrema manifestazione idealistica dello scientismo tipico dell'ideologia tecnocratica e capitalista. Per quanto alcune di queste osservazioni siano pertinenti, occorre precisare che lo strutturalismo è una metodologia finalizzata a una scienza, la semiologia o semiotica (v.), che studia i sistemi di segni - fra i quali la cultura e l'arte -, senza trascurare com'è ovvio i rapporti che tali segni istituiscono con la base sociale e storica in cui si sviluppano. Sono significative in proposito le analisi dei semiologi russi (Lotman, Uspenskij ecc.) e le indicazioni teoriche di Mukafovsky, recepite nel recente libro di M. Corti, 1976. Per un approfondimento del discorso si rimanda alla bibliografia: AA.VV., 1974 b; Ambrogio, 1971; Eco, 1968; Godelicr-Sève, 1970; Luperini, 1972; Petronio, 1968.
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Sc1spense
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SUPERSIGNIFICAZIONE. Una delle caratteristiche del testo (o messaggio) estetico è la sua polisemia o densità connotativa; questo fatto viene indicato dai critici con espressioni diverse: Eco, 1975, p. 339 parla di « superfunzione segni ca » in rapporto all'« ipercodifica estetica»; Corti, 1976, p. 121 sgg. di « ipersegno » come pot~nziamento dei segni che costituiscono l'opera e producono «un grado altissimo di informazione». In genere, il messaggio connotato (ad esempio, grazie al processo figurale; v. FIGURA, METAFORA) è sempre supersignificante in quanto sotteso da una complessa isotopia semantica.
SUSPENSE. Un meccanismo molto praticato nel romanzo avventuroso è l'intreccio che prevede una forte tensione a livello di racconto, con un accumulo di elementi ambigui, misteriosi, indiziari, tali da suscitare nel lettore curiosità, interesse, attesa. È ciò che si dice, con termine inglese, suspense (pron.: saspèns).
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TABù. Il tabù linguistico è la proibizione, per censura sociale, di pronunciare certe parole « sconvenienti », ad esempio relative a talune parti del corpo, alla sfera sessuale ecc. Gli antichi dicevano che l'aptum sociale bandisce l'uso di certi verba propria: di qui la necessità delle sostituzioni eufemistiche (v. EUFEMISMO). Lausberg ricorda il pudico dove posso lavarmi le mani? (cfr, 1969, p. 104). Sembra che l'imperversante copropornolalia (anche in sede « letteraria »: Porci con le ali) sia un aspetto importante della « liberazione » dell'individuo dalle strutture repressive, a partire da quelle linguistiche. (Come dire, la parolaccia è rivoluzionaria: si veda il cagoia dannunziano). TEATRO. Il teatro nasce dalla rappresentazione sacrale e rituale, in un particolare spazio circoscritto (la forma circolare, tra l'altro, è attestata da reperti antichissimi) adibito al culto. In un primo momento la rappresentazione, itinerante, non si svolge in un luogo fisso; ma già a Creta si nota l'istituzione di uno spazio specifico per lo spettacolo, con l'implicita divisione fra attori e pubblico. In Grecia il teatro è «visione», «spettacolo» e luogo adibito alle rappresentazioni sceniche, in occasione di p~ticolari feste religiose (il culto di Dionisio). A Roma ha successo la commedia, che vuol essere soprattutto un divertimento collettivo. Con il crollo del mondo antico, finisce per lungo tempo l'uso di uno spazio specifico per la r&ppresentazione teatrale, continuata in forme diverse, laiche e religiose, durante il Medioevo (giullari, sacre rappresentazioni); per questi spettacoli è sufficiente la piazza, un semplice palco. Con l'avvento della società signorile ritorna il teatro come spettacolo ma rigorosamente elitario, classicheggiante o comunque colto. Architettonicamente si va elaborando la sala che accoglierà il pubblico (platea, palchi ecc.) e il palcoscenico destinato alla recitazione; e questa resterà la forma istituzionale del teatro, nonostante i progetti avanguardistici di superare la divisione fra attori e pubblico, la « quarta parete » della scatola.
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Tema
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La rappresentazione teatrale è, da un punto di vista semiotico, assai complessa. Il messaggio, infatti, viene trasmesso a più livelli e secondo diversi codici: come testo, il messaggio rimanda al sistema della scrittura letteraria, che ha bisogno di essere realizzata tramite mediazioni verbali e non verbali. La recitazione non è solo la traduzione orale delle battute ma è intonazione, mimica, gesto, movimento. E parimenti concorrono agli effetti di senso tutti gli altri aspetti della realizzazione teatrale, dallo scenario ai vestiti al trucco alle luci e ai rumori. Si potrebbe dire che il teatro è un macrosistema semiotico, in quanto la comunicazione del messaggio non è affidata esclusivamente alla lettura, come nel caso del romanzo, ma a una serie di codici diversi: linguistici, mimetico-gestuali, iconici ecc. Inoltre il romanziere agisce sul duplice piano del racconto e della descrizione in modo tale che ne risulti un intreccio narrativo armonioso e funzionale. A seconda del punto di vista (v.) prevalente, il narratore sarà esterno o interno ai personaggi o coinciderà con uno di essi. Il teatro ha, ovviamente, modalità espressive diverse. Il fatto più significativo è costituito dall'emergenza dominante del discorso diretto nell'azione teatrale: tutto « è detto » dai personaggi, la fabula stessa si evince dal procedere, di scena in scena, del dialogo fra i personaggi. Nel teatro non esiste un punto di vista extradiegetico (esterno alla storia), a meno che non venga sospesa, in qualche modo, l'azione e si dia spazio e voce a un'istanza capace di giudicare l'azione stessa: ad e<;empio, il coro manzoniano, concepito come « cantuccio » dal quale l'autore può commentare i fatti; oppure certe strutture « epiche » del teatro brechtiano, in cui agisce lo straniamento (vedi anche l'introduzione di parti cantate), che può essere anche una dislocazione dall'intreccio. Per un'analisi semiotica del teatro si vedano i seguenti studi: M. Pagnini, Per una semiologia del teatro classico, in « Strumenti critici », 1970, 12; l. Miller, Teatro e attori, in AA.VV .. La comunicazione non verbale, Bari, 1974; F. Ruffini, Semiotica del teatro: la stabilizzazione del senso, in «Biblioteca teatrale», 1974, n. 10-11.
TEMA. Secondo alcune metodologie, prevalentemente contenutistiche, l'opera d'arte ha un suo centro d'organizzazione che è il tema (e compito della critica tematica è scoprire e delineare tale nucleo genetico fondamentale). Secondo Croce, « caratterizzare una poe'Sia importa determinarne .il contenuto o motivo fondamentale, riferendolo a una classe o tipo psicologico, al tipo e alla classe più vicina; e in questo il critico spende il suo acume e dimostra la sua finezza e delicatezza, e in questa fatica egli è soddisfatto quando, leggendo e ril2ggendo c ben considerando, riesce finalmente, colto quel tratto fondamentale, a definirlo con una formula, la quale annunzia l'eseguita inclusione del sentimento della singola poesia nella classe più vicina che egli conosca o che ha, per l'occasione, escogitata» (1936, p. 113 sgg.). II tema è ap-
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Tempo
punto il motivo fondamentale di un'opera, che può essere definito con una descrittiva contenutistica o psicologica e riassunto, per Croce, in una formula (ad esempio, « Ariosto poeta dell'Armonia » ). Nell'analisi di un testo (in particolare di carattere narrativo) il tema si specifica in diversi motivi; il motivo ricorrente è detto leitmotiv.
TEMPO. Il tempo verbale è la forma più importante (ma non l'unica) per designare la temporalità. Com'è noto, vi è una fondamentale distinzione fra due gruppi di tempi: il presente, passato prossimo e futuro da una parte; l'imperfetto, il passato remoto e il condizionale dall'altra. Benveniste chiama i primi tempi del discorso (v.) e i secondi tempi delia storia (v.); secondo altri studiosi si dovrebbe parlare di tempi primari e di tempi retrospettivi o di tempi discorsivi e narrativi (Weinrich). Il tempo caratteristico del racconto è il passato, a indicare lo stacco fra il momento della narrazione e i fatti ricordati. Nell'ambito di un racconto si devono distinguere: il tempo della storia (cioè della fiction o invenzione) come temporalità dei fatti rievocati; il tempo della scrittura (cioè della narrazione) come temporalità del processo di enunciazione; il tempo della lettura come temporalità necessaria alla lettura del testo. Questi tempi sono interni al racconto, mentre si possono considerare esterni il tempo dello scrittore (in quanto collocato in una data realtà storica) e il tempo storico propriamente detto (cfr. per queste definizioni Ducrot-Todorov, 1972, p. 343 sgg.). Interessante può risultare la caratterizzazione del rapporto fra tempo della storia e tempo della scrittura. Todorov distingue il punto di vista della direzione, della distanza e della quantità. A. La direzione della temporalità: i due tempi possono seguire la stessa direzione, quando gli avvenimenti si succedono in modo analogo alla successione delle frasi; questo parallelismo è assai raro e di solito viene rotto in due modi: da inversioni: « certi avvenimenti sono riportati prima di altri che tuttavia sono loro anteriori. Caso classico: il cadavere all'inizio del romanzo poliziesco, dove si saprà solo più tardi ciò che ha preceduto il crimine. I formalisti russi si sono mostrati particolarmente interessati a questo tipo di "deformazione" della realtà rappresentata; vi scorgono la differenza essenziale tra soggetto ( = intreccio) e favola » (Ducrot-Todorov, 1972, p. 345). Da storie a incastro: una storia è interrotta per incominciarne una seconda ed eventualmente una terza (ad esempio, Le mille e una notte); di norma la storia incastrata è rivolta all'indietro (nel passato), ma può anche essere una .proiezione nel futuro. Le rotture del parallelismo creano un effetto di suspense (v.) nel lettore. B. La distanza tra i due tempi: il punto più lontano presuppone la mancanza di rapporto tra le due temporalità (è il caso dei miti. delle
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Ternario
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leggende ecc.); il punto più vicino implica la coincidenza, come se il racconto non fosse altro che un monologo « stenografato ». In mezzo vi sono varie possibilità, quando il narratore precisa a che distanza di tempo (un giorno, vari anni) sono successi i fatti che descrive. C. La quantità di tempo della storia in un'unità di tempo della scrittura: si avrà elusione quando interi anni di vita di un personaggio sono « saltati », passati sotto silenzio ( = non corrispondono a unità di scrittura); si avrà riassunto quando a un'unità del tempo della storia corrisponde un'unità inferiore del tempo della scrittura: un lungo periodo può essere condensato in poche righe; nello stile diretto, nel dialogo a un'unità del tempo della storia corrisponde un'unità identica del tempo della scrittura (caso esemplare: una scena teatrale, col dialogo fra due o piì1 per!ìonaggi); si avrà analisi quando il tempo della storia è inferiore al tempo della scrittura, cioè lo scrittore rallenta, per così dire, il passo narrativo (è il caso di Proust); si avrà infine digressione quando nessuna unità del tempo storico corrisponde a un'unità del tempo scritturate: la digressione può essere una descrizione (luogo, persona ecc.) o una riflessione. Si ricordi che il tempo della scrittura è strettamente legato al punto di vista (v.) o visione o focalizzazione, cioè alla presenza di un narratore. I rapporti fra i tempi interni e i tempi esterni sono stati studiati prevalentemente in un'ottica culturale e sociologica. Qualsiasi testo ha un rapporto col momento storico in cui è scritto; e così lo scrittore partecipa ai problemi, agli ideali, agli schemi mentali della sua età. Quanto al tempo del lettore, si può ricordare il cosiddetto orizzonte di attesa, le aspettative, i gusti, le esigenze del pubblico, che inevitabilmente si riflettono sulle interpretazioni e reinterpretazioni che, diacronicamente, subisce un testo. Su questi problemi si vedano: Bourneuf-Ouellet, 1976 (specialmente p. 122 sgg.); Genette, 1976, p. 69 sgg. TENZONE. La tenzone è una disputa poetica in son~tti, dei quali il primo contiene la proposta, gli altri le risposte dei corrispondenti (o del corrispondente). Di norma si «risponde per le rime», cioè ripetendo lo schema metrico del proponente. Famosa è la tenzone sulla natura dell'amore intercorsa fra alcuni poeti siciliani. Quando la disputa ha carattere di discussione (magari scherzosa) e i sonetti hanno rime diverse, si parla di contrasto. Sono detti contrasti anche i componimenti, con dialogo replicato di strofa in strofa, che contrappongono l'amante e l'amata, come il celebre Rosa fresca aulentissima di Cielo d'Alcamo. Il termine tenzone traduce il provenzale tens6. TERNARIO. v.
TRISILLABO.
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Terza rinw
TERZA RIMA. v.
RIMA,
2.
TERZINA. Strofa di tre versi (v.
STROFA), costituisce uno degli schemi metrici fondamentali della poesia italiana (v. SONETTO). Nel serventese (v.) la terzina ha un intreccio di rime continue, come nei lamenti di tipo storico-politico. La terzina o terza rima usata da Dante nella Commedia diventa il_!!l~ della___P.oe_s_l~!__didasca._lica ~aJI_egç>rica, dai Trionfi del Petrarca al Dittamondo di Fazio degli Uberti.
TÈSI. La tesi è la sillaba debole (non accentata) di un verso, mentre l'arsi è la sillaba su cui cade un ictus (v. ACCENTO). Etim.: dal gr. thésis = atto di porre (nella metrica greca è il tempo forte di un piede; sulla terminologia cfr. Elwert, 1973, p. 46).
TESTO. La cosiddetta linguistica testuale è nata dalla convinzione che un messaggio non consista nella semplice giustapposizione di frasi (a cui si ferma la linguistica non testuale), se è vero che la significazione globale, cioè strutturale, di un messaggio-testo è più ricca e complessa della somma dei significati delle singole frasi costituenti. In un testo, infatti, le frasi assumono la loro esatta connotazione e sono disambiguale oppure il testo contiene presupposizioni diverse da quelle delle frasi costituenti. Ad esempio, ho smesso di fumare presuppone di norma che avevo tale vizio; ma differente è la presupposizione se si testualizza la frase: ho smesso di fumare perché davo fastidio a una signora (cfr. Ravazzoli, 1975, p. 168). Secondo Petofi (cfr. Ravazzoli, 1975, p. 172) un testo avrebbe la seguente struttura linguistica: struttura verbale del testo
1Componente fono-testuale
componente eufonetica
componente ritmica.
Componente grammaticale
componente fonologico-font:tica (grafemi ca nei testi scritti)
componente sintatticosemantica
La struttura eufonetica e quella ritmica rientrerebbero in una pm vasta componente retorica, tipica dei testi letterari, per i processi figurali (v. FIGURA) messi in atto.
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Tipo
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Questo schema va confrontato con quello di Greimas relativo all'isomorfismo del testo poetico (v. PARALLELISMO): il discorso letterario realizza la co-occorrenza di due discorsi paralleli, l'uno fonetico e l'altro semantico, proponendo una serie di equivalenze e di regolarità che arricchiscono il senso globale del testo. L'intrecciarsi delle diverse isotopie (v.), da quelle semantiche alle sintattiche alle isotopie fonoprosodiche, comporta un alto grado di connotatività, specie nel testo poetico, perché ogni elemento viene semantizzato (Lotman). Il testo letterario è pluri-isotopo in quanto è sotteso da vari livelli di codificazione che intrecciandosi determinano fenomeni di polisemia o di ambiguità (v.). L'analisi del testo dovrà pertanto cercare di ricostruire i livelli anche profondi (relativi a una semantica inconscia) a partire da quello semantico-sintattico e da quello prosodico. Quest'ultimo nel discorso poetico può presentarsi nelle matrici convenzionali (metro, verso, strofa, rima, assonanza ecc.). Ne consegue che il testo deve essere considerato come un sistema di strutture coimplicate a diversi livelli, in modo tale che ogni elemento assuma un valore in rapporto agli altri: è questa l'intratestualità (v.), la strutturazione chiusa dei segni testuali da collegare all'intertestualità (v.) cioè alla specificità scritturale di un testo nell'ambito del sistema della letteratura, in quanto correlato per più versi ad altri testi, ad esempio tramite gli istituti letterari (v.), i generi ecc. Un meccanismo della semiosi letteraria è la transcodificazione (v.), che permette un. continuo rinnovamento di senso nella ripresa e nell'uso di temi, motivi, moduli linguistici e stilistici ricorrenti nella letteratura. La transcodificazione permette di comprendere meglio anche i complessi e delicati problemi inerenti al rapporto fra il testo e l'extratesto (v. EXTRATESTUALITÀ), ad esempio i nessi fra le diverse serie (v.), i codici di riferimento (storici, culturali, estetici ecc.). Lo scrittore infatti si riferisce a una tradizione, a certe fonti o topoi o modelli, sempre storicamente determinati; ma nell'atto stesso in cui «forma» il testo opera una globale transcodificazione di questi materiali, che costituiscono l'extratesto storico-culturale agente come spinta innovativa nell'operazione letteraria. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Marchese, 1974, p. 114 sgg. TIPO. Il tipo è un personaggio nel quale le caratteristiche individuali sono sacrificate a vantaggio dell'accentuazione di un attributo, qualità o difetto che sia (l'avaro, il geloso, lo spaccone ecc.). Il tipo è per lo più una sorta di archetipo o di stereotipo, ma può essere anche l'emblema (v.) di una determinata classe, società o ambientè. Jn Lukacs il tipo è un personaggio individuato singolarmente e socialmente, in modo tale da rappresentare le contraddizioni fondamentali di una società.
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Tmèsi
L'arte realistica crea dei tipi, nei quali si coglie l'essenza dci problemi storici. Per una tipologia dei personaggi, v. PERSONAGGIO. TMÈSI. Il fenomeno della tmesi, nella retorica antica, indicava la separazione di una parola composta per interposizione di altri elementi. Ad esempio, in un verso di Virgilio (Georg., 3, 381): Hyperboreo septem subiecta trioni (dove septem è separato per tmesi da trioni). Nella metrica italiana si ha tmesi quando una parola è divisa ìn due parti poste rispettivamente alla fine di un verso c ali 'inizio di quello successivo: Così quelle carole differente-/ mente danzando ... (Dante). Più raro il caso in cui i due elementi sono distanziati da diverse parole interposte: Né men ti raccomando la mia Fiordi... / Ma dir non poté ligi, e qui finio (Ariosto). Etim.: dal gr. témnein = dividere, spezzare. TOPOS. Il topos è un motivo o la configurazione stabile di più motivi che sono ripresi con una certa frequenza dagli scrittori e soprattutto dagli oratori bisognosi di « materiali » generici, di facile presa. Il topos è un « luogo comune »: « In primo luogo, perché luogo? Perché, dice Aristotele, per ricordarsi delle cose basta ricordarsi i luoghi in cui esse si trovano (il luogo quindi è un elemento d'una associazione d'idee, d'un condizionamento, d'un addestramento, d'un~ mnemonica); i luoghi non sono dunque gli argomenti in sé, ma g1i scomparti nei quali vengono disposti ... I luoghi, dice Dumarsais, sono le cellette in cui tutti possono andare a prendere, per così dire, la materia d'un discorso e gli argomenti su ogni tipo di soggetto » (Barthes, 1972, p. 75). La topica è il codice di queste forme vuote, stereotipi, temi consacrati, enunciazioni convenzionali. Barthes (dietro Curtius) ne ricorda alcuni: 1. l'affettazione della modestia (excusatio propter in[ìrmitatem = scusarsi per non essere all'altezza del compito, perché ci si sente schiacciati dal tema ecc.); 2. il puer senex (ossimorù!): il ragazzo saggio come un vecchio; 3. il focus amoenus: il paesaggio ideale, l'Eden, l'Arcadia e l'infinità di descrizioni di luoghi idillico-bucolici; 4. il mondo alla rovescia o « ribaltato »: il lupo che fugge davanti alle pecore, le cose incredibili(« se ne vedono di tutti i colori» ... ), i colmi. Altri topoi potrebbero essere i lamenti (ad esempio, per la partenza di una persona amata), le invettive, le enumerazioni geografiche, i cataloghi dei vizi o delle noie ecc. Sull'argomento si veda: Curtius, 1956; f.ausberg, 1969, p. 59 sgg.; Zumthor, 1973, p. 85 sgg. TRAGEDIA. La tragedia è, fra tutti i generi letterari, il più strettamente legato al mondo greco. L'origine religiosa - il culto di Dioniso sembra ormai indiscutibile, riconosciuta l'autorevolezza dell'interpre-
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Trama
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tazione di Aristotele che vede nella tragedia anche un elemento satiresco, connesso ai riti della fecondità. La rappresentazione teatrale fonde insieme queste diverse esperienze e recupera come motivo drammatico una vicenda esemplare tratta dalle leggende degli eroi. Né è trascurabile, fra i caratteri tipici della tragedia, l'istanza corale, forse la più antica, in rapporto dialogico con quella scenico-narrativa, espressa dagli attori. In Eschilo si può già osservare il modello definitivo della tragedia greca: il monologo illustrativo iniziale, detto prologo; il parodos o ingresso del coro; gli episodi intervallati da canti corali o stasimi; l'ultima scena del dramma o ésodo (anticamente l'uscita del coro). Dall'attore iniziale, che dialogava col corifeo, si passa al secondo attore e, con Sofocle, al terzo. Di norma la vicenda è articolata in tre tragedie, che formano una trilogia, conclusa dal relax comico di un dramma satiresco. Non molto originale l 'apporto dei latini alla tragedia, salvo l'interesse per il tema storico che caratterizza le cosiddette praetextae; ma tutto questo teatro ha fatto naufragio, ad eccezion
TRAMA. A nostro parere, sarebbe opportuno eliminare l'uso ambiguo della parola trama, che ora sta a indicare la narrazione nella sua concreta e varia molteplicità di avvenimenti strutturati in sequenze, ora è l'ordito di un'opera considerato nella successione cronologica 0 causale dei fatti. Nel primo senso sarà preferibile parlare di intreccio
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Tranche de vie
(v.), nel secondo di fabula o storia (o anche di trama). In senso piuttosto generico la trama è il nucleo essenziale di un racconto; astrattamente è possibile progettare una serie di trame attorno ad alcune situazioni topiche o a certi caratteri dei personaggi. Ad esempio, si parlerà di trama di rivelazione se il centro della vicenda si impernia sull'agnizione (v.) o riconoscimento; la trama di maturazione implica un cambiamento in positivo dell'eroe, nell'esperienza dura della vita; all'opposto la trama di degenerazione comporta una serie ~uccessiva di scacchi e di delusioni sino alla rinuncia agli ideali da parte del protagonista; la trama d'azione si organizza attorno alla soluzione di un problema, ad esempio scoprire un assassino; la trama di castigo si conclude con la punizione di un eroe negativo, mentre nella trama cinica costui trionfa; la trama sentimentale vede il successo del protagonista dopo una serie di sventure, mentre in quella melodrammatica le cose finiscono male per lui (con gran pena del lettore ... ); la trama tragica implica la catastrofe, il ribaltamento radicale della situazione d'inizio. Si veda in proposito: Ducrot-Todorov, 1972, p. 326 sgg. TRANCHE DE VIE. L'espressione francese significa alla lettera « pezzo o fetta di vita » e fu usata dai teorici del naturalism:J per indicare la necessità che come oggetto della rappresentazione artistica vi fosse un documento d'ambiente, il destino di un personaggio, colto senza veli e infingimenti della realtà e impersonalmente riportato sulla pagina. La franche de vie caratterizza in particolare il romanzo positivistico di E. Zola e dei suoi seguaci. TRANSCODIFICAZIONE. Il termine significa trasformazione di senso dovuta a cambiamento di codice. Ad esempio, il carattere imperativo della frase pubblicitaria Non avrai altro jeans fuori di me si comprende meglio facendo riferimento al primario codice religioso che la sottende (con la sostituzione Dio: jeans). Particolarmente importante risulta il fenomeno in ambito estetico, se si considera con Lotman la transcodificazione come il meccanismo portante della produzione del senso. Nel testo si attua un vario intrecciarsi di isotopie, un incontroscontro fra codici diversi, da quelli ideologici a quelli letterari e formali. Si diranno transcodificazioni esterne quelle relative a rapporti extra o intertestuali; mentre le transcodificazioni interne si riferiscono ai livelli « verticali » del testo. Si pensi alla semantizzazione integrale di un testo poetico: ogni manifestazione di ridondanza (ad esempio, fonologica) è recuperata a formare il senso connotativo, interagendo con i significati primari del messaggio: il livello fonoprosodico si transcodifica in quello semantico-sintattico. Ancora più varie e complesse le operazioni transcodificative soggiacenti alla strutturazione letteraria di un testo in senso diacronico. Si consideri il caso della ripresa, da un diverso punto di vista, di certi temi o valori oppure la loro ironizzazio-
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Trasformazione
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ne parodistica: si tratta in ogni modo di fenomeni di transcodificazione esterna messa in atto dall'autore. La Divina Commedia si presta ad un esame significativo dei fenomeni di transcodificazione per il suo impianto teologico-figurale, che confronta la storia - nell'immensa fenomenologia del contingente - al suo giudizio metafisico. Dante assume tutto il passato, anche quello classico-pagano, all'interno del suo codice religioso, che gli permette di giudicarlo e di demistificarlo. Si pensi all'apertura del canto VIII del Paradiso: Solea creder lo mondo in suo periclo l che la bella Ciprigna il folle amore l raggiasse, volta nel terzo epiciclo; l per che non pur a lei faceano onore l di sacrificio e di votivo grido l le genti antiche nell'antico errore; l ma Diane onoravano e Cupido, l questa per madre sua, questo per figlio; l e dicean ch'el sedette in grembo a Dido; l e da costei ond'io principio piglio l pigliavano il vocabol della stella l che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. L'imperfetto introduce un 'opposizione tema ti ca fra passato e presente che si rivelerà come un'antitesi fra errore e verità, fra superstizione e vera fede. Mondo ha una precisa connotazione ascetica e indica l'umanità perduta nel peccato e intricata nell'ignoranza: motivo ribadito da folle amore, che ci riporta al « folle volo » di Ulisse, ossia a una misura tutta umana e naturale, e dunque temeraria, greve di pericoli. L'onore delle genti antiche a Venere, a Dione e a Cupido non è retto culto e verace preghiera, ma sacrificio e votivo grido, esplicitamente antico errore. La transcodificazione ideologica esterna - il contrasto fra Venere pagana e Venere cristianizzata - rimanda a una transcodificazione interna al sistema della Divina Commedia, all'esempio dei lussuriosi (si veda la citazione di Dido e il riferimento implicito al canto V dell'inferno), per non dire del confronto in absentia con Ulisse. Per alcuni aspetti della « mutazione retorica di codice » si veda Eco, 1975, p. 352 sgg., che riporta il gustoso esempio della varia fortuna dei ciclamati, prima accolti positivamente come sostituti dello zucchero, poi respinti come cancerogeni. Lo schema della transcodificazione è il seguente: zucchero grasso + infarto morte = (-) VS
VS
ciclamati = magro zucchero VS
VS
VS
infarto cancro vita VS
VS
VS
vita = ( +) = (-) VS
ciclamati + cancro morte = ( +) Lo zucchero resta ingrassante (-) ma il ciclamato, pur marcato come dimagrante ( + ), è cancerogeno; di qui il cambiamento di senso. Per la transcodificazione estetica si rimanda a Lotman, 1972, p. 47 sgg.
TRASFORMAZIONE. Nella grammatica generativa (v. LINGUISTICA, 5) le trasformazioni convertono le strutture profonde generate dalla
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Traslato
base in strutture superficiali. Fra le trasformazioni ricordiamo le operazioni di inversione, addizione o sostituzione, che servono a costruire una frase con adeguate manipolazioni morfosintattiche. Ad esempio, date le strutture di base Io vedo Luigi, lo saluto Luigi si avrà la frase superficiale Io vedo Luigi e lo saluto, ottenuta con la sostituzione di un pronome e con l'addizione di un funzionale coordinatore. Altre trasformazioni sono le passive, le relative, le negative, le completive ecc. Todorov, 1971, p. 225 sgg. e in Ducrot-Todorov, 1972, p. 317 sgg., considera due tipi di trasformazione che riguardano il racconto: le trasformazioni semplici (specificazioni del predicato) e quelle complesse (comparsa di un secondo predicato). Esempi di trasformazioni semplici: a) trasformazioni di modo: X può (o deve) commettere un crimine deriva dalla base X commette un crimine (potere, dovere sono modalità); b) trasformazione di intenzione: X progetta (medita, tenta ecc.) di commettere un crimine; c) trasformazioni d'aspetto: X comincia (o finisce) a (di) commettere un crimine; d) trasformazioni di statuto: X non commette un crimine. Esempi di trasform3zioni complesse: a) trasformazioni di apparenza: X (o Y) finge che X commetta un crimine; b) trasformazioni di conoscenza: X (o Y) apprende che Y ha commesso un crimine; c) trasformazioni di descrizione: X (o Y) racconta che X ha commesso un crimine; d) trasformazioni di supposizione: X (o Y) prevede che X commetterà un crimine; e) trasformazioni di soggettivazione: X (o Y) pensa che X abbia commesso un crimine; f) trasformazioni di atteggiamento: A Y ripugna che X commetta un crimine.
TRASLATO.
FIGURA (v.) DEL LINGUAGGIO POETICO, TROPO.
TRATTO. Il tratto semantico è l 'unità semantica minima non suscettibile di realizzazione indipendente. Ad esempio, [ + umano] è il tratto semantico di lessemi come studente, bottegaio, papa ecc. Il termine è sinonimo di sema (v.) o componente semantico. Nella grammatica generativa si parla di tratti distintivi per indicare proprietà sintattiche o semantiche delle parole. Ad esempio, animato/ non animato in riferimento ai nomi [ ± animato]; numerabile/non numerabile; comune/non comune. I tratti contestuali indicano con che tipo di termini una parola è compatibile in una frase. Ad esempio, il verbo parlare implica il tratto contestuale [ umano], perché il soggetto di parlare è normalmente una persona (o un animale per traslato). I tratti prosodici (v. PROSODIA) o soprasegmentali (v.) sono l'accento, l'intonazione, il tono, la durata, la pausa; riguardano non un'unità sin· gola ma una combinazione di fonemi nella catena parlata.
+
TRISILLABO. Verso di tre sillabe, di ritmo giambico. Solitamente è
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Tropo
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combinato con altri versi più lunghi; da solo e in serie è usato piuttosto raramente. Es.: Siam nimbi l volanti l dai limbi, l nei santi l splendori l vaganti (Boito); Si tace, l non getta l più nulla, l si tace, l non s'ode l rumore l di sorta (Palazzeschi). TROCHÈO. Piede della metrica greco-latina formato da una sillaba lunga e da una breve: - ....... Nella metrica italiana si parla di ritmo trocaico, ad esempio nell'endecasillabo (v.), per indicare la successione di una sillaba accentata e di una atona. Etim.: dal gr. trochalos = tipico della corsa. TROPO. Figura del linguaggio poetico di carattere semantico (come lo metafora, la metonimia ecc.), traslato nel senso proprio del termine. Etim.: dal gr. trépein = volgere, trasferire.
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UNITÀ. Un 'unità linguistica è un elemento identificabile a un certo livello o rango. Sono unità i fonemi, i morfemi (o monemi nella terminologia di Martinet, v. LINGUISTICA, 2) e le frasi; ogni unità è definita per il posto che occupa nel sistema, cioè in rapporto alle altre unità (cfr. Dubois, 1973, p. 502). UNIVERSALI LINGUISTICI. Gli universali linguistici sono, secondo alcuni studiosi, delle proprietà comuni alle diverse lingue, come la doppia articolazione, l'uso di un numero ristretto di fonemi, le categorie sintattiche ecc. L'esistenza degli universali, sostenuta dalla grammatica generativa, sarebbe connessa alle strutture profonde (innate) del linguaggio e alle capacità cognitive proprie della specie umana.
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VALO RE. In linguistica il valore di un elemento è dato dalla posizione che occupa nel sistema. De Saussure si serve del gioco degli scacchi per far capire il valore linguistico: un pezzo, ad esempio il cavallo, è definito dalla sua posizione nelle regole del gioco, e dunque in rapporto agli altri pezzi (alfiere, regina, pedoni ecc.). Anche nella teoria della letteratura il valore di un 'opera non è mai separabile dal posto che essa assume nel sistema, ossia dal rapporto che instaura sincronicamente con altre opere letterarie, ad esempio attraverso la mediazione dei generi o della lingua. Altro problema è quello del valore dell'opera d'arte, a cui cercano di rispondere le diverse estetiche; mentre per l'analisi critica s'impone la necessità di un giudizio di valore del testo, un'indicazione della sua maggiore o minore validità. La difficoltà consiste nell'esigenza di sganciare la metodologia critica dall'imperialismo delle estetiche e nello stesso tempo di non rinunciare a un giudizio di merito, interno a ciò che si potrebbe chiamare con i formalisti russi la Ietterarietà. VARIANTE. In filologia, la ricostruzione di un testo critico (cioè il più sicuro possibile per le opere antiche) può richiedere l'identificazione delle cosiddette varianti d'autore, cioè delle diverse scelte o soluzioni espressive tramandate dai codici. Sono varianti d'autore anche le correzioni, i ripensamenti, le proposte alternative che uno scrittore ci ha lasciato a proposito di una sua opera (si pensi alle correzioni del Canzoniere petrarchesco, alla ricca messe di varianti per le poesie del Leopardi). Così pure le diverse redazioni di un testo (ad esempio, i Promessi sposi) comportano di solito v~rianti assai indicative e pertinenti dal punto di vista critico (si ricordi l'analisi filologico-linguistica di un Contini, propedeutica a una più profonda intelligenza del testo). VARIAZIONE. v.
POLIPTÒTO.
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Verso
VERSO. Il verso è l'incontro di uno schema metrico e di una sequenza ritmica variabile (v. METRICA). Lo schema è costituito dall'invariante delle posizioni o sillabe metriche (per cui si avranno versi composti da un certo numero di sillabe, ad esempio da due a sedici: bisillabo e doppio ottonario). Il modello ritmico regola la distribuzione degli accenti all'interno del metro. Nella tradizione metrica l'endecasillabo è il verso più lungo. I versi doppi, con cesura che distingue i due membri identici, sono il dodecasillabo o doppio senario (Dagli atri muscosi, l l dai fori cadenti; Manzoni); l'alessandrino o martelliano o doppio settenario (Su i campi di Marengo l l batte la luna; fosco l tra la Bormida e il Tanaro l l s'agita e mugge un bosco; Carducci); l'ottonario doppio (Quando cadono le foglie, /l quando emigrano gli auge/li ... ; Carducci). Innovazioni tipicamente novecentesche sono i versi di tredici sillabe, a ritmo ternario, di Pavese (ho trovato compagni trovando me stesso); o di sedici (Bacchelli) o addirittura di diciannove (ancora Pavese: e berrà del suo vino, torchiato le sere d'autunno in cantina). Indicazioni bibliografiche: Cremante, in AA.VV., 1976 a, p. 273 sgg.; Di Girolamo, 1976 (con ricca bibliografia); Pazzaglia, 1974. VERSO LIBERO. Il vers fibre fu teorizzato e usato dai simbolisti francesi (Rimbaud, Verlain, Kahn, Laforgue e altri) come il più adeguato ad esprimere, fuori d'ogni schema, la proteiforme tensione ritmica della parola. Secondo Elwert, 1973, p. 169 «fu riprodotto in ritmi liberi, per la prima volta da Domenico Gnoli (sotto lo pseudonimo di Giulio Orsini) in Fra terra e astri (1903) e quasi contemporaneamente dal D'Annunzio nelle sue Laudi (Laus Vitae, 1903). Lo porterà poi alle estreme conseguenze il poeta futurista Marinetti nonché la poesia espressionistica e surrealistica, che da lui prendeva le mosse. Patrono del liberismo e dei [iberisti fu tra gli altri anche E. Thovez (Poesie, 190 l) ». Si dimentica l 'importante battaglia intrapresa da G. P. Lucini per il verso libero; ecco qualche esempio da Revolverate: Fui in commercio fortunato e facile; l e ho dimenticato il nonno girovago e merciaio, l ed il padre usuraio, e lo zio biscazziere, l la zietta bellissima, ex modella e cocotte ... VERSO SCIOLTO. Si dicono sciolti i versi non legati dalla rima. Raro prima del Cinquecento, il verso sciolto fu usato nel Rinascimento a imitazione della poesia classica, ad esempio nelle traduzioni (l'Eneide di Annibal Caro). Il verso sciolto più comune fu l'endecasillabo, ch'ebbe una lunga fortuna sino all'Ottocento: si pensi aii'Urania del Manzoni o alle Grazie del Foscolo. Gli sciolti furono usati, oltre che nella poesia epica, in quella didascalica, elegiaca, satirica e tragica; nel Settecento vennero detti versi liberi e furono coltivati soprattutto da C.l. Frugoni.
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Voce
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VERSUS. Nella linguistica e nella semiologia il termine indica opposizione ed è rappresentato dai segni -, vs. Ad esempio: Bianco Nero," oppure Bianco vs Nero. VILLANELLA. Forma lirica pseudo-popolare senza uno schema metrico fisso e di argomento agreste. Molto comune era la villanella alla napoletana, di tipo madrigalesco e musicata. VILLOTTA. Canto popolare veneto, originato dallo strambotto (v.). Ha come schema metrico: ABAB (endecasillabi o ottonari). Una varietà della villetta è la romanella, caratteristica della Romagna (schema: AABB o ABBA). VISIONE. v
o
PUNTO DI VISTA.
VOCE. Genette, 1976, p. 259 chiama voce l'istanza narrativa, ossia il processo di enunciazione (v.) o di narrazione in cui emerge il narratore. Il narratore può essere assente dalla storia raccontata (Omero o Flaubert) o presente come personaggio della storia (il cosiddetto « io narratore »); nel primo caso può intervenire (ad esempi0, con formule del tipo: vediamo che cosa sta facendo il nostro eroe; avevamo lasciato i nostri personaggi nel momento in cui ... ); nel secondo caso si avrà una narrazione omodiegetica (l'io può essere protagonista, come Dante nella Commedia o testimone). Lo statuto del narratore è definito mediante il livello narrativo (extradiegetico: narratore fuori della storia; intradiegetico: narratore dentro la storia) e mediante il suo rapporto con la storia (eterodiegetico e omodiegetico). Genette presenta il seguente paradigma del narratore: o ~
Extradiegetico
Intradiegetico
Eterodiegetico
O mero
Sherazade
Omodiegetico
Gil Blas
Ulisse
Omero, narratore di primo grado, racconta una storia da cui è assente; Gil Blas, narratore di primo grado, narra la sua storia; Sherazade, narratrice di secondo grado. racconta storie da cui è in genere assente; Ulisse nei canti IX-XI dell'Odissea è narratore di se:-condo grado che racconta la sua storia . .In analogia con le funzioni del linguaggio di Jakobson, Genette postula alcune funzioni del narratore: la funzione narrativa propriamente detta, incentrata sulla storia; la funzione di regia, quando il narratore fa riferimento al testo, alla sua organizza-
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Volta
zione interna; la funzione di comunicazione, quando emerge l'orientamento verso il lettore (i miei venticinque lettori del Manzoni...); la funzione di attestazione, se il narratore orienta il racconto su se stesso, sulla parte che egli ha avuto nella storia; la funzione ideologica quando l'intervento del narratore nella storia assume la forma di un commento autorizzato dall'azione (v. STILE, 1; il discorso valutativo). La funzione ideologica può realizzarsi anche attraverso una sorta di transfert, quando lo scrittore si stnve di un personaggio portavoce per esprimere i propri convincimenti. VOLTA. Parte della sirma (v.
CANZONE).
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WELTANSCHAUUNG. Termine tedesco che significa «VISione del mondo ». Si usa nella terminologia critica per indicare la concezione dell'uomo e della vita emergente da un autore o da un testo o anche da una civiltà (si parlerà, ad esempio, di W eltanschauung manzoniana o romantica o decadente). Il termine viene spesso confuso con « ideologia », nel senso di sistema di idee, problematica ecc.; ma non si dimentichi che l'ideologia, in Marx, è particolarmente l'ideologia politica intesa come falsa coscienza, come razionalizzazione di una realtà alienata. WIT. Il termine inglese significa « arguzia, sorpresa » e sta a indicare
una forma di straniamento linguistico grazie al quale lo scrittore potarizza l'attenzione del lettore, sorprendendolo piacevolmente, con finezza, ironia, comicità. Sull'argomento si veda A.M. Mutterle, L'immagine arguta. Lingua, stile, retorica di Pavese, Torino, 1977.
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ZEUGMA. Lo zeugma è una figura grammaticale che consiste nel far dipendere da un solo verbo più termini che richiederebbero ciascuno un verbo specifico. Es.: Parlare e lacrimar vedrai insieme (Dante). Lausberg, 1969, p. 172 sgg. considera lo zeugma una figura di estromissione (ad esempio, nel verso di Dante viene omesso il verbo udire). Gli autori della Retorica Generale, 1970, p. 73 sgg. (tr. it., p. 109 sgg.) considerano lo zeugma una metatassi (con soppressione totale di elementi) e lo identificano con una forma di ellissi; si citano, infatti, delle frasi nominali, senza verbi. Non vediamo l'utilità di questa estensione dello zeugma all'ellissi pura e semplice; nello zeugma l'eliminazione di un verbo fa sì che un altro regga termini semanticamente non omogenei (ad esempio, « parole » e « lacrime » rispetto a « vedere » ). Etim.: dal gr. zeugnynai = porre al giogo.
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Indice sistematico delle voci
Linguistica e semiologia allocutore, ambiguità, anfibologia, antitesi, antonimo, apodosi, apofonia, arbitrarietà, articolazione, assi del linguaggio, campo, canale, circostanziale, classe, codice, codifica, combinazione, competenza, comunicazione, conativo, concatenazione, contenuto, contesto, corpus, decifrazione, decodifica, denotazione, deissi, deittico, destinatario, destinatore, determinante, deverbale, diacritico, diacronia, discorso, emittente, emotiva {funzione), enunciato, enunciazione, entropia, epentesi, epitesi, equivalenza, espansione, espressione, fàtica {funzione), fonema, fonetica, fonologia, fonte, frequenza, fruizione, funzione, glossa, glossematica, grafema, idioletto, illocutorio, implicazione, inclusione, indicatori, indice, indizio, informazione, intenzionalità, interferenza, interlocutore, intonazione, iperonimia, iponimia, isomorfismo, isotopia, langue . lemma, lessema, lessia, norma, omofonia, omonimia, onomasiologia, opposizione, paradigma, paragoge, parallelismo, paragramma, parole, paronimia, performance, perlocutorio, pertinenza, piano, polisemia, pragmatica, prosodia, protesi, referente, referenza, registro, relazione, ridondanza, rumore, segnale, segno, selezione, sema, semema. semiologia, senso, sequenza, shifter, significante, significato, significazione, sincronia, sinonimia, sintagma, sintomo, sistema, soggetto, soprasegmentale, sottocodice, struttura, strutturalismo, supersignificazione, tabu, testo, transcodificazione, trasformazione, tratto, unità, universali linguistici, valore, versus.
Retorica allegoria, allitterazione, allusione, amplificazione, anacoluto, anadiplosi, anafora, anastrofe, annominazione, antanaclasi, anticlimax, antifrasi, antimetatesi, anta· nomasia, aposiopesi, apostrofe, armonia imitativa, asindeto, assonanza, bisticcio, brachilogia, cacofonia, calembour, captatio benevolentiae, catacresi, chiasmo, circonlocuzione, climax, comparazione, concessione, correlazione, deprecazione, descrizione, diafora, dispositio, dissonanza, ellissi, elocutio, enallage, endiadi, enfasi, enjambement, entimcma, enumerazione, epanadiplosi, epanalessi, epanartosi, epifonema, epifora, epifrasi, epilogo, epitrocasmo, epizeusi, equivoco, escamotage, esclamazione, eufemismo, exeursus, figura, gnome, gradazione,
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308
Indice delle voci
hysteron proteron, imprecazione, interrogazione, inventio, inversione, ipallage. iperbato, iperbole, ipotiposi, ironia, iunctura, litote, metafora, metonimia, omoteleuto, onomatopea, ossimoro, paradosso, paragone, paragramma, paronomasia, perifrasi, personificazione, poliptoto, polisindeto, preterizione, prolessi, prosopopea, protasi, reticenza, retorica, ripetizione, sillessi, similitudine, sineddoche, sinestesia, traslato, tropo, variazione, zeugrna.
Stilistica e generi letterari allotrio, ambiguità, analisi, apax legomenon, aporia, arcaismo, archetipo, archilettorc, atmosfera, aulico, aura, autore, barbarismo, best seller, bucolica, caratterizzazione, catarsi, cit::-.zione, cliché, commedia, connotatore, connotazione, contenuto, contesto, correlazione, correlativo oggettivo, denotazione, deissi, deittico, descrizione, dialogo, discorso, dittologia, dominante, egloga, elegia, elencazione, emblema, epica, epigrafe, epigramma, epinicio, epiteto, Erlebnis, ermeneutica, eroicomico. esegesi, espressione, espressionismo, flusso di coscienza, fonosimbolismo, forma, formalismo, frequenza, generi letterari, grado zero, grottesco, icastico, ideologia, immagine, impressivo, interpretazione, interrogazione, i potassi, ironia, isotopia, istituti letterari, kitsch, leitmotiv, letterarietà, letteratura, linguaggio, lirica, livello, melodtamma, mito, monolinguismo, monologo, mot-clé, narrativa, neologismo, novella, nuance, opera aperta, orizzonte d'attesa, parafrasi, paratassi, parodia, pastiche, plurilinguismo, poema, poesia, poetica, prosa, pubblico, rappresentatività, registro, romanzo, satira, scrittura, se· rie, simbolo, situazione, sovrastruttura, spazio bianco, stereotipo, stile, stilistica, stilema, straniamento, suspense, teatro, tema, testo, topos, tragedia, tranche de vie, transcodificazione, variante, Weltanschauung, wit.
Metrica accento, anacrusi, anapesto, antistrofe, apocope, arsi, ballata, bisillabo, ~anzo ne, canzonetta, capitolo, catalettico, cesura, chiave, clausola, coda, commiato, congedo, contrasto, controrigctto, cursus, dattilo, decasillabo, dialefe, diastole, dieresi, disgiunzione, distico, ditirambo, elisione, emistichio, endecasillabo, epodo, esametro, frottola, giambo, iato, ictus, inno, ipermetro, lassa, lauda, madrigale, melodia, metrica, metrica barbara, metrica noveccntesca, mottetto, novenario, ode, ottava, ottonario, pastorella, pausa, pentametro, piede, polimetro, quadrisillabo, quartina, quinario, refrain, rigetto, rima, ripresa, rispetto, ritmo, ritornello, romanza, selva, Fenario, serventese, sestina, settenario, sillaba, sinafia, sinalefe, sincope, sineresi, sinizesi, sirma, sistole, sonetto, stanza, stichico, stornello, strambotto, strofa, tenzone, temario, terza rima, terzina, tesi, !mesi, trisillabo, trocheo, verso, verso libero, verso sciolto, villanella, villetta, volta.
Teoria del testo poetico ambiguità, connotazione, contenuto, contesto, correlazione, denotazione, destinatario, discorso, espressione, extratestualità, fenotesto, fonosimbolismo, forma, formalismo, fruizione, genere, genotesto, interpretazione, intertestualità, intona-
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Indice delle voci
309
zione, intratestualità, isotopia, lessia, letterarietà, linguaggio, livello, melodia, mot-clé, opera aperta, orizzonte d'attesa, poesia, rima, scrittura, stile, straniamento, testo.
Teoria del testo narrativo atlante, attore, descrizione, destinatario, digressione, discorso, emblema, episodio, eroe, esordio, fabula, fenotesto, flash back, forma, fruizione, funzione, genere, genotesto, indizio, interpretazione, intratestualità, intreccio, isotopia, lessia, letterarietà, letteratura, linguaggio, mito, monologo, narrativa, narrazione, novella, orizzonte d'attesa, personaggio, prosa, punto di vista, pubblico, racconto, riconoscimento, romanzo, scrittura, soggetto, stile, storia, suspense, tempo, testo, trama, voce.
Voci portanti accento, assi del linguaggio, canzone, codice, commedia, comunicazione, descrizione, destinatario, endecasillabo, epica, figura, forma, formalismo, generi letterari, istituti letterari, letteratura, linguaggio, linguistica, metafora, metonimia, metrica, metrica barbara, metrica novecentesca, narrativa, personaggio, poema, poesia, poetica, prosa, punto di vista, pubblico, retorica, rima, romanzo, scrittura, segno, semiologia, serie, sinedc!oche, stile, stilistica, strutturalismo, tempo, testo, transcodificazione.
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