James Hilton
Orizzonte perduto
Titolo originale: Lost Horizon
Traduzione di Simona Modica
Copyright 1935 by James Hilton Copyright 1962 by Alice Hilton Copyright 1995 Sellerio editore Palermo
Da questo libro, nel 1937 Frank Capra trasse un film celebre, che giunse in Italia col titolo ShangriLa. Il film spinse molti a ritornare al libro (inseguendo una "sinergia" oggi banale, allora nuova). Ma il libro conserva un autonomo messaggio, e un'ambizione, nell'avventuroso intreccio, non solo spettacolare. ShangriLa è il monastero tibetano che ospita una antichissima e segreta città di saggi, raccolti da ogni parte del mondo, di sesso cultura religione e temperamento diversi, che meditano studiano vivono estremamente longevi e passabilmente felici senza inseguire un preordinato disegno di felicità - e soprattutto senza preoccuparsi di imporlo per le vie della religione o della condotta o dell'utopia. Nessuno vi cerca
l'Uomo Nuovo; ognuno vivendo coopera a conservare i differenti valori dell'umana civiltà. Orizzonte perduto racconta l'avventura di quattro persone che vi giunsero, quello che videro e il destino che li inseguì da quella esperienza. Un'avventura etica, esoterica, sapienziale; ma soprattutto, dovrebbe dirsi, un'avventura rooseveltiana escogitata in anni in cui i totalitarismi architettando l'Uomo Nuovo ingigantivano tutte le antiche archeologie di morte. "Se dovessi dirvelo in breve potrei definire la nostra principale credenza così: moderazione. Inculchiamo la virtù di evitare eccessi di qualunque specie; persino, perdonatemi il paradosso, eccessi di virtù. Questo principio è la fonte di uno speciale grado di felicità. Noi governiamo con moderata severità, e siamo soddisfatti di un'obbedienza pure moderata. La nostra gente è moderatamente sobria, moderatamente casta, e moderatamente onesta".
James Hilton (1900-1954) scrisse in Inghilterra, prima di trapiantarsi a Hollywood come sceneggiatore, due romanzi di vasto successo, questo Orizzonte perduto del 1933, e Addio, Mr' Chips (1934).
Prologo I sigari erano quasi alla fine; e cominciava a manifestarsi in noi quella lieve delusione che i vecchi compagni di scuola provano quando si ritrovano uomini e si accorgono di non essere affatto, nei gusti e nel temperamento, così simili tra loro come credevano una volta. Rutherford adesso scriveva romanzi; Wyland era segretario d'Ambasciata, e ci aveva appunto invitati a pranzo a Templehof, non direi con eccessiva cordialità, ma con quel giusto equilibrio che
ogni diplomatico deve saper mantenere in tali occasioni. Più che una riunione di exstudenti, sembrava l'incontro casuale di tr e inglesi celibi in un paese straniero; e io m'ero subito accorto che il leggero formalismo giovanile dell'amico Wyland non era diminuito con gli anni; perciò preferivo Rutherford, il cui aspetto virile non ricordava più in nulla il magro fanciullo precoce che allora mi divertivo a proteggere e tormentare nello stesso tempo. L'unica emozione in comune tra Wyland e me era forse una segreta punta d'invidia, sorta dal dubbio che Rutherford stesse ora guadagnando più di noi e che la sua vita fosse più interessante della nostra. La serata, del resto, non era affatto noiosa. Dal nostro posto vedevamo benissimo atterrare all'aeroporto i grandi aerei Lufthansa provenienti da ogni parte dell'Europa Centrale, e quando poi, verso l'imbrunire, le lampade ad arco si accesero la scena assunse un aspetto fantastico, una luminosità quasi teatrale. Tra gli aerei giunti uno era inglese, e il pilota che ne smontò, passando poco dopo - ancora in completa tenuta di volo - davanti alla nostra tavola, salutò Wyland. in un primo momento questi non lo riconobbe, ma subito dopo ce lo presentò, e lo invitammo a sedersi con noi. Era un allegro e simpatico giovinotto; si chiamava Sanders. Wyland scherzò alquanto sulla difficoltà di riconoscere le persone in casco e tuta. Sanders rise e confermò: "Oh, ne so qualcosa, io! Non dimentichi che ero a Baskul". Anche Wyland rise, ma meno spontaneamente, e si parlò d'altro. Con S anders il nostro piccolo gruppo fece un piacevole acquisto, e bevemmo insieme molta birra. Verso le dieci Wyland ci lasciò un momento per parlare con qualcuno a un tavolo vicino, e Rutherford, approfittando di quella pausa, chiese a Sanders:
"Ha nominato Baskul. E' una località che conosco. E' accaduto qualcosa laggiù?... a che fatto alludeva?...". Sanders sorrise con un certo imbarazzo. "Oh, un piccolo episodio; quando ero là in servizio militare; piccolo... ma sconcertante... Ebbene" continuò il giovane, che non sapeva tacere a lungo, "un afgano, o un indiano, o qualcun altro insomma, se ne volò via con uno dei nostri apparecchi, e può immaginare il chiasso che ne nacque. Si figuri che quel tale aveva colto di sorpresa il pilota mentre si dirigeva verso il campo, lo aveva intontito con un pugno, lo aveva spogliato della divisa e, raggiunto l'apparecchio in completa tenuta di volo, era saltato nella carlinga senza che nessuno si accorgesse dell'accaduto. Dati ai meccanici i giusti segnali, s'era alzato in volo splendidamente... Il guaio è che poi non fece più ritorno". Rutherford parve interessarsi. "E quando accadde il fatto?". "Oh... forse un anno fa. Nel maggio del '31. Stavamo sgombrando la popolazione civile da Baskul a Peshawar: c'era la rivoluzione, se ne ricorda? Un grande trambusto. Senza quella confusione, certo la cosa non sarebbe potuta succedere. Invece accadde; e poi si dice che l'abito non fa il monaco!...". Rutherford s'interessava sempre più. "Credevo che in occasioni simili l a responsabilità di un apparecchio non fosse esclusivamente di un solo uomo". "Non è di uno solo sui soliti trasportotruppe, ma quello era un velivolo speciale, costruito in origine per un maharaja; una macchina di lusso. Gli addetti alla Sorveglianza Indiana l'avevano usato per voli a grande altezza nel Kashmir".
"E dice che non giunse mai a Peshawar?". "Non solo non vi giunse mai, ma la cosa più strana è che - almeno per quanto riuscimmo a saperne noi - non atterrò mai in nessun altro luogo. Certo, se quel tale era membro di qualche tribù indigena, avrà potuto dirigersi verso le montagne dell'interno con l'idea di farsi pagare poi il riscatto dai suoi passeggeri. Io però credo che siano morti tutti. Ci sono verso la frontiera tante lande sperdute dove se accadesse un disastro aereo non se ne saprebbe nulla". "Sì, conosco il paese. E quanti erano i passeggeri?". "Credo quattro. Tre uomini e una suora missionaria". "Uno di essi non si chiamava per caso Conway?". Sanders lo guardò stupito: "Ma sì, infatti. Il "glorioso" Conway; l o conosceva?". "Siamo stati a scuola insieme" rispose Rutherford; ma lo disse con un certo imbarazzo, perché quella frase, benché rispondesse alla verità, gli parve banale e inopportuna. "A Baskul lo dicevano un simpatico camerata" continuò Sanders. Rutherford confermò: "Certo; ma che cosa straordinaria... straordinaria... I giornali non devono averne parlato" continuò tosto, c ome riprendendosi dopo una divagazione mentale, "io leggo tutto, non mi sarebbe sfuggito. Come mai questo silenzio?...". Sanders parve confondersi, fin quasi ad arrossire. "Veramente credo di aver chiacchierato più del dovuto" rispose. "O forse oramai non importa. Se ne parlava mesi fa a ogni mensaufficiali, e persino nei bazar. ma tutto fu messo a tacere... sì... voglio dire... circa il modo come la cosa si svolse. Non avrebbe fatto buona impressione. Le autorità si limitarono a
dichiarare che mancava un apparecchio e a dare i nomi delle persone scomparse. Fuori dal nostro ambiente nessuno se ne interessò gran che". In quel momento Wyland tornò e Sanders sentì il bisogno quasi di scusarsi con lui: "Sa, Wyland, questi amici hanno parlato di Conway "il glorioso" e io temo di aver spifferato la storia di Baskul. ho fatto male?...". Wyland tacque un momento, contrariato. Ma tentò di conciliare la cortesia cameratesca con la correttezza ufficiale. "Non posso fare a meno di pensare" disse, "che non sia conveniente farne un aneddoto. Credevo che voi aviatori aveste l'obbligo, sul vostro onore, di non far chiacchiere inutili fuori di scuola". Mortificato così il giovane, Wyland si rivolse, con particolare gentilezza, a Rutherford: "Nel tuo caso non importa, ma capirai che, se accadono fatti speciali verso la frontiera, è necessario evitare che se ne sappia troppo". "D'altra parte" replicò asciutto Rutherford, "è naturale che si sia curiosi di conoscere la verità". "Non l'abbiamo mai nascosta a chi avesse un motivo serio di esserne messo a parte; te lo posso assicurare, perché a quell'epoca io ero a Peshawar. lo conoscevi bene Conway? Lo hai frequentato anche dopo gli anni di scuola?". "A Oxford ogni tanto ci si vedeva. Più tardi i nostri incontri furono pochi e casuali. Tu, invece, l'hai incontrato spesso?". "Ad Ankara, nel periodo in cui ero là di servizio ci vedemmo due o tre volte". "Che impressione ti fece?".
"Mi pareva molto intelligente, ma un po' apatico". Rutherford sorrise: "Certo era intelligentissimo. Fece i corsi universitari in modo magnifico; fino allo scoppio della guerra. Rematore abilissimo, veniva sempre mandato a tutte le gare; era molto stimato e molto influente nell'"Union"; aveva vinto numerosi premi in campi diversissimi; ed era poi, secondo me, il miglior pianista dilettante che io abbia mai sentito. Uomo di infinite risorse, insomma; il tipo ideale che Jowett avrebbe sognato come futuro primo mi nistro. E invece non si sentì mai parlare molto di lui, dopo gli anni di Oxford. fu certo la guerra a troncargli la carriera. Era giovanissimo, e rimase al fronte quasi tutto il tempo". "Se non erro" soggiunse Wyland, "fu ferito da una scheggia di granata; o in qualche altro modo; ma non gravemente. Si fece onore, ed ebbe in Francia una decorazione. Credo che sia ritornato poi, per un certo tempo, a Oxford con uno speciale incarico: tutor, o qualcosa di simile. So che nel '21 andò in Oriente. La sua conoscenza delle lingue orientali gli valse l'impiego senza troppe difficoltà; e occupò in seguito vari posti". Rutherford sorrise in modo più aperto. "Tutto questo si spiega. La storia non rivelerà mai quanta intelligenza sprechino i dipendenti del Foreign Office offrendo tè e pasticcini nei frequenti ricevimenti di Legazione". "Conway apparteneva al servizio consolare, non alla carriera diplomatica" disse Wyland con sussiego. Non g li piaceva esser canzonato, e perciò non protestò affatto quando Rutherford, dopo altre due o tre frasi del genere, si alzò per andarsene. Si faceva tardi e anch'io dovevo lasciare la compagnia. Mentre ci
salutavamo, i modi di Wyland furono ancora di ufficiosa correttezza e di silenziosa sopportazione; invece Sanders si mostrò molto cordiale e disse che sperava di rivederci. Dovevo partire l'indomani mattina a un'ora impossibile; mentre aspettavamo un taxi Rutherford mi propose, per ingannare l'attesa del treno, di accompagnarlo al suo albergo; avremmo potuto discorrere nel suo salottino. Visto che accettavo c on piacere, Rutherford disse: "Potremo parlare ancora di Conway, se non sei stanco di quest'argomento". Feci capire a Rutherford che non mi dispiaceva affatto. "Conway lasciò la scuola quando io finivo il mio primo anno" dissi; "poi non lo rividi più. Ma era stato molto buono con me, nuovo dell'ambiente, tanto più giovane di lui, senza nessuna qualità per poterlo interessare; e quelle sue attenzioni, forse di nessuna importanza per altri, io non le ho mai dimenticate". Rutherford approvava; disse che anche lui gli voleva molto bene, quantunque l'avesse visto assai poco. Seguì uno strano silenzio, durante il quale apparve evidente che stavamo entrambi pensando a qualcuno di cui ci importava molto più di quanto non potessero lasciar immaginare i brevi incontri avuti con lui. In seguito mi sono accorto spesso che chi aveva incontrato Conway, sia pur fugacemente, lo ricordava poi a lungo con grande vivezza. Da giovane non poteva certo passare inosservato e in quanto a me, che lo conobbi nell'età in cui è facile crearsi con la fantasia un eroe, ho di lui un ricordo quasi romantico. Era alto e di aspetto distinto, e non solo eccelleva in tutti gli sport, ma vinceva facilmente premi scolastici di ogni sorta. Un professore sentimentale chiamò un giorno "gloriosi" i suoi successi,
e perciò gli rimase quel soprannome. Soltanto lui, forse, era degno di portarlo da vivo. Aveva tenuto un'orazione pubblica in greco, ed era un ottimo attore dilettante. Aveva qualcosa di elisabettiano; la facile versatilità, il bell'aspetto, quell'unione fervida di att ività fisiche e intellettuali. Una specie di Philip Sidney. La nostra civiltà non produce spesso esemplari simili, oggi. Lo dissi a Rutherford ed egli mi rispose: "E' vero, e li chiamano con disprezzo dilettanti. Credo che anche Conway sia stato giudicato così da qualcuno. Da qualcuno come Wyland. non mi piace molto Wyland. il vero tipo del puritano; così pieno di sé... Non lo posso soffrire. E quella perfetta mentalità burocratica... l'hai osservata? Quelle espressioni: "obbligo sul vostro onore...", "chiacchiere inutili fuori di scuola...", come se la V Classe a S' Domenico fosse l'Impero! Non ho mai avuto una grande stima di questi diplomatici padreterni!". Dopo un breve silenzio continuò: "Tuttavia sono molto contento di non aver perduto questa serata. Mi ha interessato moltissimo sentire Sanders raccontare l'incidente di Baskul. me l'avevano già riferito, ed ero rimasto perplesso. Siccome però l'incidente faceva parte di una storia molto più vasta e più fantastica, una piccola ragione per credervi mi pareva di averla. Ora le ragioni, anche se piccolissime, sono due. Non credere ch'io sia tanto credulone; ho viaggiato quasi tutta la vita e so che al mondo accadono fatti strani, ma finché non li vediamo noi stessi... finché li sentiamo raccontare... Eppure questa volta...". Parve a un tratto convincersi ch'io non potevo interessarmi molto a quanto stava dicendo, e s'interruppe con una risata. "Però una cosa è certa: che non mi confiderei mai con Wyland.
sarebbe come andar a offrire un poema epico a un giornale umoristico... Se mai, preferirei provare con te". "Forse ora vuoi farmi un complimento" soggiunsi. "No, è stato il tuo libro a farmi pensare così". Durante tutta la sera non avevo mai accennato a una certa pubblicazione piuttosto tecnica, di cui ero l'autore (un neurologo non può pretendere di interessare il primo venuto); fui quindi piacevolmente sorpreso nel sentire che Rutherford conosceva il mio libro. Glielo dissi, e mi rispose: "Me ne sono interessato in un periodo in cui appunto Conway era stato colpito da amnesia". Eravamo intanto giunti all'albergo e dovette interrompersi per farsi dare, al bureau, la sua chiave. Mentre salivamo al quinto piano disse: "Con tante parole, finora abbiamo soltanto girato intorno all'argomento. La verità è che Conway non è morto; almeno non lo era pochi mesi fa". Non c'era possibilità di maggiori spiegazioni nel breve limite di spazio e di tempo di una salita in ascensore. Pochi secondi dopo, nel corridoio, gli domandai: "Ne sei certo? Come lo hai saputo?". Rutherford stava aprendo la porta: "Ho viaggiato con lui da Sciangai a Honolulu in un piroscafo giapponese lo scorso novembre". Non continuò finché non fummo seduti in poltrona, provvisti di sigari e di bibite. "Io viaggio molto; e l'autunno scorso, per le mie vacanze, mi ero recato in Cina.
"Da anni non avevo più visto Conway; non ci eravamo mai scritti, e benché il suo viso fosse uno dei pochi rimasti nella mia memoria non avevo davvero pensato spesso a lui. Ora mi accadde di incontrare sull'espresso di Pechino, al ritorno da Hankow dove ero stato a trovare un amico, la madre superiora di certe suore francesi di carità, una donna molto simpatica. Andava a ChungKiang, dov'era il suo convento, e siccome io me la cavo abbastanza col francese, mi parlò volentieri del suo lavoro. In generale non ho molta simpatia per le congregazioni missionarie, ma devo ammettere, e oggi non sono il solo a riconoscerlo, che i cattolici romani formano una classe a sé, perché lavorano molto e non si considerano pezzi grossi in un mondo di gente inferiore. Ma ciò non importa. Questa suora parlandomi del suo ospedale missionario accennò a un caso di febbre grave: un uomo che le avevano portato poche settimane prima e che essa credeva europeo, benché fosse senza documenti e incapace di dar notizie di sé. Vestiva poveramente da indigeno, e quando le suore lo avevano accolto era in condizioni molto gravi. Parlava correntemente il cinese e abbastanza bene il francese, e la suora mi assicurò che dapprincipio, finché il ricoverato non seppe di trovarsi in un ospedale francese, si era espresso in un inglese purissimo, da persona istruita. "Le feci osservare che la cosa mi pareva piuttosto sensazionale, e la canzonai un poco sulle sue capacità di distinguere l'accento raffinato in una lingua che non conosceva. Scherzammo su questo e su altri argomenti e tutto finì con un invito a visitare la missione se fossi capitato da quelle parti. Il che naturalmente mi parve probabile quanto un'ascensione sull'Everest, e così quando il treno giunse a ChungKiang mi separai dalla superiora con sincero
rammarico. Invece il caso volle ch'io fossi di ritorno a ChungKiang entro poche ore. Dopo alcuni chilometri la locomotiva ebbe un guasto e ci rimorchiò faticosamente alla stazione di partenza, dove apprendemmo che un treno di soccorso non avrebbe potuto giungere prima di dodici ore. Queste cose capitano frequentemente sulle ferrovie cinesi. Avevo perciò una mezza giornata da perdere a ChungKiang e pensai di fare una visita alla buona suora. "Fui ricevuto con piacevole sorpresa. E' piuttosto difficile per i non cattolici riuscir a capire come mai i cattolici possano tanto facilmente far andare d'accordo la rigidezza ufficiale con una non ufficiale larghezza di vedute. Le sembra troppo complicato? Comunque l'accoglienza che ebbi alla missione fu da parte di tutti simpaticissima. In meno di un'ora fu preparato un buon pranzo e un giovane medico cinese cristiano sedette a tavola con me esprimendosi in un misto di francese e di inglese divertentissimo. Poi fui condotto, dal medico e dalla madre superiora, a visitare l'ospedale, di cui erano molto fieri. Avevo detto loro che ero uno scrittore e nella loro semplicità erano molto emozionati al pensiero che potessi metterli in un libro. Passando da un letto all'altro, il dottore spiegava i vari casi. C'era la massima pulizia e un ordine perfetto. Mi ero completamente dimenticato del misterioso paziente dall'accento inglese purissimo quando la madre superiora me lo rammentò avvertendomi che eravamo appunto giunti presso di lui. Sembrava che il paziente dormisse. Non ne vedevo che il capo dalla parte della nuca. Mi esortarono a rivolgergli la parola in inglese; gli dissi "Buon giorno", la prima espressione (non molto originale!) che mi venne alle labbra. Improvvisamente l'uomo si voltò a guardarmi, e rispose "Buon giorno" non con l'accento di una persona del volgo. Ma
non ebbi il tempo di stupirmene che già avevo riconosciuto Conway, quantunque non lo avessi più visto da un pezzo e malgrado il suo aspetto mutato e la barba cresciuta. Era lui, ne ero certo; e tuttavia, riflettendoci meglio, avrei dovuto concludere che non era possibile. Per fortuna agii secondo l'i mpulso del momento. Lo chiamai per nome e gli dissi chi ero; anche se mi fissava senza mostrare di riconoscermi, eppure ero sicuro di non essermi sbagliato. I suoi muscoli facciali avevano un leggero tremito che già in passato avevo notato in lui e i suoi occhi erano proprio quelli che a Balliol definivamo più del colore blu di Cambridge che di quello di Oxford. "Ma anche all'infuori di queste caratteristiche, non avrei potuto sbagliarmi. Era un uomo che visto una volta non si poteva dimenticare mai più. "Naturalmente il dottore e la madre superiora furono molto stupiti. Spiegai loro che si trattava di un mio amico inglese, e che se non mi riconosceva doveva aver perduto completamente la memoria. Si persuasero, pur rinnovando la meraviglia, e ci consultammo a lungo circa il da farsi. Non sapevano assolutamente dirmi per qual motivo Conway fosse arrivato a ChungKiang in tale stato. "Per farla breve, rimasi là una quindicina di giorni, sempre sperando di riuscire in un modo o nell'altro a risvegliare i suoi ricordi. Non ebbi fortuna, ma egli si ristabilì fisicamente e parlammo a lungo. Quando mi decisi a dirgli chi era, e chi ero io, non protestò affatto. Continuò ad essere abbastanza di buonumore, e parve gradire la mia compagnia. Quando poi gli proposi di ricondurlo a casa sua rispose semplicemente che non aveva nulla in contrario. Quella sua apparente mancanza di desideri personali era sconcertante. "Appena potei fissare il giorno della partenza mi confidai con un
amico del Consolato di Hankow, e così ebbi il necessario passaporto senza tutte le chiacchiere che si potevano temere. Per la pace di Conway mi pareva molto meglio che di tutta questa faccenda si parlasse il meno possibile: niente pubblicità, niente articoli sensazionali (che occasione perduta, per i giornalisti!). Fortunatamente riuscii nel mio intento. "Potemmo così lasciare la Cina in modo perfettamente regolare. Navigammo lo Yangtse fino a Nanchino e raggiungemmo Sciangai per ferrovia. La sera stessa partiva per San Francisco un piroscafo giapponese e riuscimmo a imbarcarci". "Quanto hai fatto per lui!" dissi a Rutherford. "Non credo che avrei fatto altrettanto per nessun altro" mi rispose. "Ma Conway emanava dalla sua persona un che di inspiegabile - simpatia? fascino? - così che diventava un piacere prodigarsi per lui". "E' vero. Una specie di attrazione inconsapevole alla quale ripenso volentieri anche adesso, benché nella mia mente lo riveda sempre scolaretto, in calzoncini di flanella pronto per giocare a cricket". "Peccato che tu non l'abbia conosciuto a Oxford. era brillantissimo: non v'è altra parola. Dopo la guerra dissero che era cambiato; pensai così anch'io, perché mi pareva che con tutti i suoi talenti avrebbe dovuto far più strada: ma forse, fra tanta maestosa burocrazia britannica un grand'uomo non può far carriera. E Conway era grande, o almeno era destinato ad esserlo. L'abbiamo conosciuto entrambi e non credo di esagerare se affermo che non potremo dimenticarlo. Anche quando lo ritrovai in Cina con la mente svanita, e con un passato misterioso, conservava ancora quella sua strana attrattiva".
Rutherford tacque a lungo, immerso nei ricordi; poi continuò: "Naturalmente, a bordo, riallacciammo la nostra vecchia amicizia. Gli raccontai tutto quel che sapevo di lui e mi ascoltò con un'attenzione che poteva sembrare un po' strana. "Dal suo arrivo a ChungKiang in poi ricordava chiaramente ogni cosa, e, particolare interessante, non aveva dimenticato le lingue. Mi disse, a questo proposito, che doveva aver trascorso un periodo in India, perché sapeva parlare indostano. "A Yokohama il piroscafo si riempì, e fra i nuovi passeggeri c'era anche il pianista Sieveking, che si recava negli Stati Uniti per una tournée di concerti. Cenò alla nostra tavola e qualche volta Conway gli parlò in tedesco. Ciò dimostra quanto il mio amico fosse in apparenza normale. A parte la perdita della memoria, che non poteva venir notata da chi lo incontrasse casualmente, non pareva diverso dagli altri. "Alcune sere dopo la nostra partenza dal Giappone Sieveking acconsentì a dare un concerto a bordo, e andammo entrambi - io e Conway - nel salone a sentirlo. Suonò Brahms, Scarlatti, e molto Chopin, benissimo. Guardai due o tre volt e Conway e mi parve felice; il che era naturalissimo, dato il suo passato musicale. Conclusosi il programma, il concerto si prolungò perché Sieveking fu così cortese da concedere molti bis ad alcuni entusiasti raccolti intorno al pianoforte. Suonò soprattutto Chopin: la sua specialità. Infine lasciò il pianoforte e, attorniato dagli ammiratori, si avviò lentamente verso l'uscita. Allora accadde un fatto abbastanza strano. Conway, sedutosi al pianoforte, cominciò a suonare una melodia rapida e vivace che non riconobbi, ma che fece voltare Sieveking, e lo fece tornare indietro eccitatissimo a domandare di che pezzo si trattasse.
Conway, dopo un lungo inspiegabile silenzio, rispose semplicemente che non lo sapeva. Sieveking trovò la cosa incredibile e si eccitò più di prima. Allora Conway, con uno sforzo mentale grandissimo, cercò di ricordarsi e disse che era uno studio di Chopin. sieveking negò decisamente, e io non me ne stupii perché ero incredulo come lui. Allora con mia grande meraviglia Conway che fino allora s'era mostrato indifferente a tutto, d'improvviso s'irritò. "Mio c aro" osservò Sieveking, "conosco tutta quanta l'opera di Chopin e posso assicurarle che non ha mai scritto quel che ora ha suonato. Potrebbe averlo fatto, perché è proprio nel suo stile, ma non l'ha fatto. La sfido a mostrarmi quelle pagine in qualunque edizione". Ma Conway gli rispose: "E' vero, ora ricordo, questo studio non fu mai stampato. E io lo conosco unicamente per aver incontrato un pianista che fu allievo di Chopin... Ecco un'altra pagina inedita che ho imparato da lui"". Rutherford, che mi vedeva attentissimo, continuò: "Non so se tu sia appassionato di musica, ma anche se non lo sei puoi figurarti l'esaltata meraviglia di Sieveking, e la mia, mentre Conway continuava a suonare. Io vedevo i n quell'episodio soltanto un improvviso e strano sguardo di Conway sul suo passato: il primo balenìo di un ritorno. Sieveking invece era tutto preso dal problema musicale, abbastanza sconcertante se si pensa che Chopin è morto nel 1849. "Questa coincidenza sembra talmente impossibile che faccio appello, per la mia tranquillità, ai numerosi testimoni - una dozzina circa -, fra cui un professore d'università della California, molto conosciuto e stimato. Naturalmente, si fece presto a trovar cronologicamente sbagliata, o quasi, la spiegazione di Conway, ma restava da spiegare
la musica. E se non era come aveva detto Conway, di chi poteva essere?... Sieveking assicurava che se quei due pezzi fossero stati pubblicati, li avremmo trovati entro sei mesi nel repertorio di ogni pianista. Quest'affermazione, per esagerata che fosse, dava un'idea del giudizio artistico di Sieveking. seguì una lunga discussione, ma senza risultato perché Conway insisteva nel suo racconto iniziale; siccome mi pareva affaticato, cercai di allontanarlo dalla folla e mandarlo a letto. Ci fu ancora un ultimo episodio riguardante l'incisione di alcuni dischi. Sieveking si offrì di fare tutti i passi necessari appena giunto in America, e Conway promise che avrebbe suonato davanti al microfono. E' proprio un gran peccato che non abbia potuto mantenere la sua parola!". Rutherford guardò l'orologio e mi assicurò che avevo tutto il tempo per prendere il treno: la storia era quasi terminata. "Perché... subito dopo il concerto, quella stessa notte... la memoria gli tornò. Ci eravamo coricati tutti e due, ma io ero ancora sveglio quand'egli entrò nella mia cabina e mi diede la notizia. Il suo viso esprimeva ora una tristezza invincibile, una specie di tristezza universale, non so se mi spiego, qualcosa di remoto e di impersonale. "Raccontò che ormai rammentava tutto; aveva cominciato mentre Sieveking suonava; in principio, però, solo a tratti. Venne a sedersi sul mio letto e vi rimase a lungo senza parlare; non gli chiesi nulla, aspettai che facesse il suo racconto quando e come voleva. Gli dissi soltanto la mia soddisfazione per il ritorno della memoria, ma subito aggiunsi che me ne rammaricavo anch'io, visto che lui avrebbe preferito lo stato di prima. "Alzò gli occhi e proferì una frase che ricorderò sempre con intimo
compiacimento: "Ringrazio il Cielo che ti ha concesso di comprendere, Rutherford". "Dopo un poco pensai di vestirmi e lo persuasi a tornare nella sua cabina e fare altrettanto; passeggiammo poi a lungo, su e giù, sul ponte. "Era una calma notte stellata, molto calda; il mare, chiaro e pallido, come latte denso. Se non ci fosse stata la vibrazione delle macchine avremmo potuto illuderci di passeggiare su e giù per un viale. "Preferii lasciare che Conway seguisse liberamente i suoi pensieri, senza fargli domande. "Cominciò a parlare verso l'alba, v elocemente, e quando terminò era giorno alto, con un sole caldo. Quando dico "terminò" non intendo che non ci fosse altro da raccontare, dopo questa prima confessione. Durante le ventiquattr'ore successive riempì molte lacune importanti. Pareva molto triste, e non aveva nessuna voglia di dormire, perciò parlammo quasi ininterrottamente. "Verso sera avevo fatto portare delle bibite nella mia cabina, perché il piroscafo doveva giungere a Honolulu intorno alla mezzanotte. Mi lasciò ch'erano circa le dieci, e non lo rividi mai più...". "Non vorrai dire che...". Mi era balenata alla mente l'idea di un suicidio. Rutherford rise. "Per carità, no. Non era il tipo. Mi piantò, semplicemente. Scendere a terra era abbastanza facile; i l difficile sarà stato, per lui, evitare quelli che sguinzagliai immediatamente sulle sue tracce. Seppi più tardi che era riuscito a unirsi alla ciurma di una nave bananiera in partenza per le Figi".
"Come sei riuscito a saperlo?". "Per la via più diretta. Mi scrisse lui stesso, tre mesi dopo, da Bangkok, accludendo un assegno per rimborsarmi delle spese sostenute per lui. Mi ringraziava, diceva di sentirsi benissimo e ch'era in procinto di ripartire per un lungo viaggio, verso il nordovest. ecco tutto". "Verso il nordovest?...". "Già; è un po' vago, vero? Ce ne sono parecchie di località a nordovest di Bangkok. anche Berlino, per esempio". Rutherford si interruppe, e riempì i nostri bicchieri. Che strana storia!... Era stato Rutherford a farmela sembrar tale? Non riuscivo a raccapezzarmi: la parte musicale, per complicata che fosse, non mi interessava tanto quanto il misterioso arrivo di Conway all'ospedale della missione cinese, e non potei fare a meno di farlo osservare a Rutherford. questi rispose tranquillamente che erano due aspetti dello stesso problema. "In che modo sarà potuto arrivare a ChungKiang?" domandai. "Non te lo disse quella notte, a bordo del piroscafo?". "Sì... qualcosa mi disse; e poiché ormai ti ho raccontato tanto, sarebbe assurdo che ti tacessi il resto. Ma... prima di tutto, è un racconto abbastanza lungo e non farei in tempo nemmeno a dartene un cenno sommario prima della partenza del tuo treno. E poi... ci sarebbe un mezzo molto più comodo. Per carità, non pensare ora ch'io abbia il cattivo gusto di adoperare certi trucchi degli scrittori di romanzi... ma ti dirò sinceramente che la storia di Conway, quando la ripensai a mente fredda, mi affascinò. Avevo già preso in fretta qualche appunto dopo le nostre conversazioni di bordo, per non dimenticare alcuni particolari; più tardi certi dettagli mi avvinsero
talmente che fui spinto a fare di più, a riunire e ordinare quel che avevo scritto e quel che ricordavo a memoria in un'unica narrazione. Posso però assicurarti di non aver inventato né alterato nulla: il materiale era più che sufficiente di per se stesso, e Conway aveva il dono naturale di esprimersi bene e di saper creare un'atmosfera. Da parte mia, poi, sentivo di cominciare a capirne l'anima". Aprì una valigia e ne estrasse un dattiloscritto. "Eccolo qui; giudicalo come vuoi". "Temi forse ch'io non presterò fede a quel che hai scritto?". "Oh, non intendo questo. Ma, se veramente ci crederai, sarà per la famosa ragione di Tertulliano - ricordi? - quia impossibile est. forse il soggetto non è disprezzabile. In ogni caso fammi sapere cosa ne pensi". Presi il dattiloscritto e lo lessi quasi tutto sull'espresso di Ostenda. Era mia intenzione, appena giunto in Inghilterra, di restituirlo con una lunga lettera, ma poi fui costretto a ritardare, e prima di spedirlo ricevetti un biglietto da Rutherford che mi annunziava d'essere nuovamente in partenza per le sue peregrinazioni e di non potermi dare per qualche mese nessun indirizzo fisso. Sarebbe andato nel Kashmir, e poi verso oriente. La qual cosa non mi sorprese affatto.
I Durante la terza settimana di maggio la situazione politica a Baskul era molto peggiorata, e il 20 giunsero da Peshawar vari apparecchi dell'Aeronautica per mettere in salvo gli europei. Questi formavano un gruppo di circa ottanta persone la maggior parte delle quali furono trasportate al sicuro attraverso i monti in aerei da
trasportotruppe. Data l'urgenza furono anche adoperati alc uni apparecchi di diversa forma e portata, tra i quali uno con cabina appartenente al maharaja di Chandapore. Verso le dieci del mattino vi presero posto quattro passeggeri: Miss Roberta Brinklow, della Missione Orientale, Henry D' Barnard, cittadino degli Sta ti Uniti, Hugh Conway, console di S'M' Britannica, e il capitano Charles Mallinson, viceconsole di S'M' Britannica. Questi sono i nomi che apparvero più tardi nei giornali indiani e inglesi.
Conway aveva trentasette anni. Era a Baskul da due anni in un impiego che ora, alla luce degli eventi, poteva esser paragonato a "un continuo puntare sul cavallo perdente". Un periodo della sua vita stava per finire; entro poche settimane, o forse dopo alcuni mesi di licenza in Inghilterra, lo avrebbero mandato in qualche altro posto. Tokio o Teheran, Manila o Muscat, nella sua professione non si sapeva mai cosa sarebbe accaduto. Da dieci anni era nel servizio consolare, un tempo sufficiente dunque per assicurarsi l'avvenire con la stessa intelligenza che soleva usare per i casi altrui. Sapeva che la parte migliore della torta sarebbe toccata ad altri, ma se ne consolava facilmente non con la scusa dell'uva acerba, ma riflettendo che il dolce, in fin dei conti, non gli piaceva. Preferiva quelle occupazioni che fossero meno formali e più pittoresche, e che soprattutto non lo vincolassero; ma siccome questi incarichi erano quasi sempre i meno importanti, così agli occhi di qualche critico superficiale poteva apparire maldestro nel giocare le sue carte. E invece egli sentiva che, dati i suoi gusti, le aveva giocate piuttosto bene, e aveva trascorso un decennio vario e
abbastanza piacevole. Alto, molto abbronzato, con capelli castani e occhi d'un azzurro tendente al grigio, appariva serio e magari anche imbronciato; ma se poi rideva (il che non gli accadeva spesso) allora sembrava un ragazzo. Qualche volta, se lavorava o beveva troppo, gli si manifestava un leggero tic nervoso vicino all'occhio sinistro; e appunto quando salì sull'aereo, siccome era stato occupatissimo tutto il giorno e tutta la notte a far bauli e a distruggere documenti, il tic era molto visibile. Sentendosi sfinito era molto soddisfatto di partire col lussuoso aereo del maharaja, invece che con uno degli affollatissimi trasportotruppe. Si adagiò mollemente in un sedile di vimini mentre il velivolo si alzava da terra. Era uno di quegli uomini che abituati alle più dure fatiche, ricercano in compenso tutti gli agi minori. Era capace di sopportare con disinvoltura i rigori della strada che va a Samarcanda ma avrebbe speso i suoi ultimi scellini per prendere la "Freccia d'Oro" da Londra a Parigi. Il volo durava ormai da più di un'ora, quando Mallinson, che sedeva in uno dei posti anteriori, osservò che la rotta seguita dal pilota non gli sembrava quella giusta. Mallinson era un giovane di circa venticinque anni, dal colorito roseo, intelligente se non intellettuale, e con tutte le limitazioni delle scuole private ma anche con la loro superiorità. Causa principale del suo invio a Baskul era stata la bocciatura a un esame; Conway l'aveva avuto come collega per sei mesi, e aveva stretto con lui una buona amicizia. Ma adesso, in aereo, Conway non se la sentiva di far lo sforzo di una conversazione. Aprì gli occhi sonnolenti e rispose che, qualunque fosse la rotta, il pilota certo la conosceva bene.
Mezz'ora dopo, quando la stanchezza e il rumore delle eliche l'avevano quasi addormentato, ecco Mallinson disturbarlo di nuovo. "Ma dica un po', Conway, il nostro pilota non era Fenner?". "Ebbene, non lo è forse?". "Ha voltato la testa e giurerei che non è lui". "Averne la certezza attraverso i vetri non è facile". "Riconoscerei il viso di Fenner in qualunque momento". "Ebbene, allora sarà qualcun altro; che importa?". "Perché Fenner mi assicurò che avrebbe preso questo apparecchio". "Avranno cambiato idea, e gliene avranno dato un altro". "E allora, chi è costui?". "Come posso saperlo, mio caro? Bisognerebbe che ricordassi a memoria la faccia di tutti i tenenti dell'Aviazione, vi pare?...". "Io ne conosco tanti, ma questo non so chi sia". "E allora appartiene a quella minoranza che lei non conosce". Conway sorrise e aggiunse: "Quando fra poco saremo giunti a Peshawar potrete fare la sua conoscenza, e sapere di lui quanto v'interessa". "Continuando così non arriveremo affatto a Peshawar. le assicuro che il pilota è fuori rotta. E non c'è da stupirsene: vola così alto che non può certo orientarsi". Conway non si preoccupò. Era abituato ai viaggi aerei e a prender le cose con filosofia. E poi non aveva niente di speciale da fare, né persone da vedere a Peshawar, perciò gli era assolutamente indifferente che il viaggio durasse sei o re piuttosto che quattro. Non aveva moglie, quindi niente saluti teneri all'arrivo. Sì, probabilmente qualche amico lo avrebbe invitato al club per brindare insieme: prospettiva piacevole, ma non al punto da sospirarla. E neppure retrospettivamente sospirava, passando in rivista gli
avvenimenti del passato decennio; spettacolo piacevole anch'esso, sebbene non del tutto soddisfacente. Di quel periodo della sua vita questo era l'indice barometrico: "mutevole, tendente al bello, piuttosto temporalesco": su per giù come il barometro mondiale. Aveva girato molto: rifacendo il cammino a ritroso vedeva Baskul, Pechino, Macao, parecchie altre destinazioni, e più lontana di tutte Oxford, dove aveva insegnato per un paio d'anni dopo la guerra, tenendo conferenze sulla storia orientale, respirando la polvere di quelle biblioteche assolate e facendo innumerevoli corse in bicicletta su e giù per la High Street. Ricordi interessanti, che però non lo commuovevano: sentiva di avere raggiunto finora soltanto una tappa del lungo cammino che avrebbe potuto compiere. Un ben noto disturbo allo stomaco lo avvertì che l'aereo cominciava la discesa. Ebbe la tentazione di canzonare Mallinson per i suoi presentimenti, e forse l'avrebbe fatto se il g iovane non si fosse bruscamente alzato, picchiando la testa nel soffitto e svegliando Barnard, l'americano, che sonnecchiava nel suo sedile dall'altro lato dello stretto corridoio. "Dio mio" esclamò Mallinson, guardando dal finestrino. "Guardi laggiù!". Conway guardò. Se si aspettava qualcosa, non era certo ciò che vide. Invece degli accantonamenti, regolari e geometrici, invece delle grandi rimesse, non si vedeva altro che una nebbia opaca, su una terra desolata, squallida, arsa dal sole. Benché l'apparecchio stesse scendendo rapidamente, era ancora ad un'altezza insolita per un comune viaggio aereo. Si potevano distinguere lunghe creste di monti, che distavano forse un miglio dal nebbioso orlo delle vallate.
Conway non aveva mai osservato da una tale altezza un così tipico scenario di frontiera. Ma quel che più lo colpì fu di non ritrovarsi nelle vicinanze di Peshawar. "Non riconosco questa parte del globo" commentò. Poi, senza farsi sentire dagli altri per non spaventarli disse all'orecchio di Mallinson: "E' certo come dice lei: ha sbagliato strada". L'aereo scendeva adesso ad una velocità spaventosa e l'ar ia intanto si faceva sempre più calda: di sotto, la terra arsa era come un forno che fosse stato improvvisamente aperto. Una dopo l'altra le vette dei monti si alzavano in strane silhouettes: si volava adesso lungo una vallata ricurva il cui fondo era disseminato di rocce e di detriti di torrenti in secca; sembrava il pavimento di una stanza coperto di gusci di noce. L'aereo saltava e ballava dentro incomode sacche d'aria, come una barca fra onde agitate. I quattro passeggeri si tenevano ben aggrappati ai loro sedili. "Sembra che voglia atterrare!" urlò rauco l'americano. "Non può!" rispose Mallinson. "Tentarlo sarebbe una pazzia! Urterebbe in pieno, e allora...". Ma il pilota atterrò. Apparve un breve spiazzo a lato di un burrone, e l'apparecchio, abilmente guidato, rullò e si fermò pesantemente. Ciò che accadde subito dopo fu ancor più strano e meno rassicurante. Una torma di uomini barbuti e in turbante, certo di una tribù indigena, accorsero da ogni parte, circondando l'apparecchio per impedire che ne uscisse qualcuno oltre il pilota. Questi balzò a terra e ebbe con loro un colloquio molto agitato, durante il quale fu più che evidente che non solo non era Fenner, ma che non era inglese
e probabilmente neppure europeo. Intanto da un vicino deposito furono trasportati alcuni recipienti di carburante e se ne riempirono i capaci serbatoi dell'aereo. Alle grida dei quattro prigionieri risposero con beffe e un silenzio sprezzante; il solo accenno a un timido tentativo di scendere a terra provocò un minaccioso movimento da parte di una ventina di uomini armati di fucili. Conway che conosceva un poco la lingua putshu, arringò come poté gli indigeni, ma senza alcun risultato - e il pilota, alle osservazioni e alle richieste rivoltegli in varie lingue, rispose unicamente puntando la rivoltella. Senz'armi - perché era stata questa una delle condizioni per la partenza degli stranieri da Baskul - i quattro passeggeri dovettero rassegnarsi, tanto più che si sentivano moralmente e fisicamente esausti per l'inutilità delle loro proteste e per il caldo della cabina dardeggiata dal sole di mezzogiorno. Quando finalmente i serbatoi furono richiusi, venne loro offerto, attraverso uno dei finestrini, un recipiente da petrolio pieno d'acqua tutt'altro che fresca. Pur non mostrandosi ostile, quella gente non rispose mai a nessuna domanda. Il pilota, dopo un ultimo breve parlottare, raggiunse di nuovo il suo posto nella carlinga, un indigeno girò alla meglio l'elica, e il volo riprese. In quel ristretto spazio e con l'esagerato carico di carburante, la partenza rivelò un'abilità ancora maggiore che nell'atterraggio. L'aereo si alzò rapidamente nella nebbia, svoltò verso est come a cercare la sua rotta. Era pomeriggio avanzato.
Che strana e sconcertante avventura! Appena ebbero un po' di sollievo dall'aria fresca, i quattro passeggeri uscirono dallo
stordimento e cominciarono a rendersi conto dell'accaduto. Un sopruso simile non s'era mai sentito né visto fra i turbolenti fatti di frontiera. E se non ne fossero stati essi stessi le vittime, l'avrebbero detta un'invenzione fantastica. Era quindi naturale c he, passata l'incredulità, subentrasse l'indignazione, e sbollita l'indignazione cominciassero ansiosi tentativi di spiegare in qualche modo il fatto. Fu Mallinson a prospettare l'idea accettata più facilmente in mancanza di meglio. Erano stati rapiti nella speranza di un riscatto. Niente di nuovo, dunque, all'infuori del mezzo originale e della speciale tecnica. Il constatare che, dopo tutto, non erano i protagonisti di un dramma senza precedenti li confortò alquanto; rapimenti ce n'erano stati anche prima, e molti di essi con lieto fine. Gli indigeni li avrebbero tenuti nascosti nelle montagne trattandoli bene, finché il Governo non avesse pagato il riscatto; poi sarebbero stati rilasciati. E non essendo loro il denaro pagato, tutto si sarebbe concluso col finire della prigionia. Poi, naturalmente, l'Aviazione avrebbe mandato una squadriglia da bombardamento, e loro avrebbero potuto raccontare una bellissima storia per tutta la vita. Mallinson aveva manifestato il suo pensiero con una nervosità briosa, ma Barnard, l'americano, volle superarlo giungendo pesantemente fino alla facezia. "Ammiriamo pure questo rapimento come una brillante trovata di qualcuno, ma non posso dire che la vostra Aviazione vi si sia coperta di gloria. Voialtri inglesi fate dello spirito a proposito dei rapimenti di Chicago, ma io cerco inutilmente tra i miei ricordi un cannoniere fuggito con un aereo dello zio Sam. e, tra parentesi, vorrei sapere che cos'ha fatto del vero pilota
quest'individuo. L'avrà intontito, certo" sbadigliò. Era un tipo alto e grosso, con un volto fortemente segnato in cui alcune rughe bonarie sparivano tosto entro gonfiori tetri. A Baskul nessuno lo conosceva a fondo; si sapeva che era arrivato dalla Persia e che si occupava di petrolio. Intanto Conway si era dato a un compito pratico. Aveva chiesto tutti i fogli di carta disponibili e scriveva in vari idiomi indigeni numerosi messaggi da gettare a terra ad intervalli. Era una probabilità molto scarsa in un territorio così poco popolato, ma ne valeva la pena. Il quarto passeggero, Miss Brinklow, dalle labbra serrate e dal busto eretto, era sempre rimasta seduta facendo pochi commenti e non lagnandosi mai. Era una donnetta coriacea, e aveva il contegno di chi sia intervenuto suo malgrado a una riunione dove accadono cose che non possono essere del tutto approvate. Conway aveva parlato meno degli altri due uomini, perché tradurre messaggi di S'O'S' in differenti dialetti indigeni era un esercizio che richiedeva una certa concentrazione. Aveva però risposto alle domande rivoltegli, e s'era trovato d'accordo con Mallinson circa la sua teoria sul rapimento, e anche, fino a un certo punto, con le critiche mosse da Barnard all'Aviazione. "Ci sono però delle attenuanti" disse. "E' comprensibilissimo che, con tutta la città in fermento, un uomo in tenuta di volo sia stato scambiato per un altro. Come dubitare della buona fede di un pilota in divisa regolare e sicuro del fatto suo? E che fosse sicuro costui lo ha dimostrato: quanto ai segnali e quanto al resto. Abbiamo constatato che sa volare, no? Tuttavia sono d'accordo con lei che in faccende simili qualcuno deve pagare. E qualcuno pagherà, certo; ma
probabilmente chi ne ha meno colpa". "Davvero, signore" rispose Barnard, "ammiro il modo in cui riesce a vedere i due aspetti della questione. E' bello saper ragionare così... nel momento stesso che vi portano via... a fare una passeggiata chissà dove!...". Conway pensò all'abilità con cui gli americani sanno dire le cose senza offendere. Sorrise e tacque. La sua stanchezza era tale che nessun pericolo l'avrebbe vinta. Sul tardo pomeriggio, quando Barnard e Mallinson discutendo si rivolsero a lui, videro che s'era addormentato. "E' stanchissimo" commentò Mallinson, "e non me ne meraviglio, do po la fatica di queste ultime settimane". "E' amico suo?" chiese Barnard. "Ho lavorato con lui al Consolato, e so che da quattro notti non è andato a letto. Siamo davvero fortunati ad averlo con noi in una faccenda come questa. Oltre a conoscere molti dialetti del paese ha uno speciale modo di trattare con la gente. Se c'è uno che possa portarci fuori da quest'impiccio è lui. Conserva quasi sempre il suo sangue freddo, anche nei casi più difficili". "Allora lasciamolo dormire" consentì Barnard. E Miss Brinklow fece una delle sue sobrie o sservazioni: "Pare davvero un uomo molto coraggioso" disse.
Veramente, nel suo intimo, Conway non si sentiva così sicuro di essere "un uomo molto coraggioso". Oppresso dalla stanchezza fisica, aveva chiuso gli occhi, ma non dormiva. Avvertiva ogni movimento dell'aereo e aveva pure sentito l'elogio che di lui aveva fatto Mallinson. appunto allora aveva
cominciato a dubitare, accorgendosi di un curioso stiramento allo stomaco, abituale indice di reazione alle affannose preoccupazioni. Egli non era affatto, e lo sapeva benissimo, una di quelle persone che amano il pericolo per il pericolo in se stesso. Ne apprezzava qualche volta una certa caratteristica: la sua qualità di eccitante, di controtorpore; ma non gli piaceva affatto rischiare la vita. Dodici anni prima era giunto a odiare i pericoli della guerra nelle trincee francesi, ed era riuscito parecchie vol te a evitare la morte rinunciando ad eroiche gesta impossibili. Anche la decorazione l'aveva conquistata non tanto col suo coraggio fisico quanto con una speciale tecnica di resistenza. E quando dopo la guerra si era nuovamente trovato in pericolo, l'aveva affrontato con c rescente disappunto, fuorché nei casi in cui ne sperasse insolite e forti emozioni. Eccolo ancora lì ad occhi chiusi. Le parole di Mallinson lo avevano commosso, e anche un po' turbato. Pareva proprio destino che si scambiasse la sua calma per coraggio!... mentre era, in realtà, qualcosa di più indifferente di meno virile. Vedendo sé e i compagni in una situazione terribilmente imbrogliata, anziché sentirsi pieno d'ardimento, provava un'invincibile ripugnanza contro quell'ignoto pericolo d'ora in ora più vicino. Pensava soprattutto a Miss Brinklow. se a un dato momento avesse dovuto agire, non avrebbe dovuto dimenticare che una donna, in certe circostanze, conta più di tre uomini messi insieme; e il suo spirito all'idea di doversi comportare eventualmente in modo così differenziato, si ribellava. Tuttavia, quando finse di svegliarsi, fu a Miss Brinklow che rivolse la parola. Poveretta! non era né giovane né graziosa; ma per fortuna queste virtù negative sarebbero state di grande aiuto nel
genere di difficoltà in cui la comitiva si sarebbe presto venuta a trovare. Gli faceva anche pena perché probabilmente né Mallinson né l'americano amavano i missionari, tanto meno quelli di genere femminile. Conway non aveva certo simili pregiudizi, m a appunto per questo temeva di poter sembrare a Miss Brinklow, per la sua larghezza di vedute, ancora più urtante e lontano degli altri. "Ci troviamo, pare, in una curiosa posizione" disse chinandosi a parlarle all'orecchio, "ma vedo con piacere che lei prende le cose con calma. Non credo però che ci accadrà nulla di terribile. Piuttosto ci dica se possiamo fare qualcosa perché si trovi più a suo agio". Barnard raccolse la frase. "A nostro agio?!" disse rauco. "Ma naturalmente siamo tutti a nostro agio. Ci godiamo la gita. Peccato che non abbiamo un mazzo di carte - si potrebbe fare un bridge in quattro". Pur non piacendogli il bridge, Conway fu contento di quest'uscita spiritosa. "Non credo che Miss Brinklow giochi" rispose sorridendo. Ma la missionaria si volse svelta a rispondere: "Gioco, invece, e non credo che si commetta un peccato giocando alle carte. Certo nella Bibbia non se ne parla". Risero tutti, riconoscenti per quel minuto di distrazione. "Grazie al Cielo" pensò Conway, "non ha tendenze isteriche".
L'aereo aveva volato tutto il giorno, tra le sottili nebbie dell'atmosfera, troppo in alto per permettere una chi ara visibilità delle terre sottostanti. Talvolta, a lunghi intervalli, il velo si squarciava per qualche istante, e mostrava la linea dentata di una vetta, o il luccichio di qualche fiume sconosciuto. Dal corso del
sole si poteva determinare all'incirca la direzione dell'apparecchio. Si andava verso oriente, con virate occasionali a nord, ma per arguire dove precisamente si fosse mancava a Conway il modo di giudicare con esattezza la velocità di volo. Pareva anche probabile che molto del carburante fosse ormai c onsumato. Quel che Conway era in grado di affermare con sicurezza, anche se privo di nozioni tecniche aviatorie, era l'indiscutibile abilità del pilota, chiunque egli fosse. Ne aveva dato prova con l'atterraggio nella vallata seminata di sassi, e poi in altri momenti difficili. Perciò Conway sentiva risorgere in se stesso un sentimento già provato altre volte nella sua vita di fronte a casi di abilità perfetta e indiscutibile. Il solo pensiero di poter essere lasciato in pace - lui avvezzo a continue richieste d'aiuto - lo tranquillizzava, malgrado le preoccupazioni per il futuro. Ma non poteva pretendere che i suoi compagni la pensassero come lui; le loro ragioni di preoccupazione erano probabilmente maggiori. Mallinson, poi, aveva in Inghilterra una fidanzata; forse Barnard era ammogliato; e Miss Brinklow aveva il suo lavoro, o vocazione, o ideale, che dir si voglia. Mallinson era il meno calmo dei tre: mentre le ore passavano la sua agitazione aumentava, con tendenza a prorompere davanti a Conway a causa di quella stessa calma che aveva prima lodato alle sue spalle. E ad un tratto sorse una discussione così burrascosa da superare il rombo del motore. "Ma insomma!" urlò Mallinson rabbiosamente, "dobbiamo star qui a rigirarci i pollici mentre questo pazzo fa tutto quello che gli passa per la testa? Che cosa ci impedisce di rompere quel vetro e di finirla con lui?". "Proprio niente", replicò Conway, "a parte che lui è armato e noi
no, e che, ad ogni modo, nessuno di noi sarebbe poi capace di atterrare". "Non dev'essere molto difficile. Sono convinto che lei ci riuscirebbe". "Ma li aspetta sempre da me, caro Mallinson, questi miracoli?...". "Le confesso che i miei nervi non reggono più. Perché non obblighiamo costui ad atterrare?". "In che modo?... Me lo dica lei". L'agitazione di Mallinson aumentò ancora. "Ebbene, è lì distante da noi meno di due metri, sì o no? e siamo tre uomini contro uno! Dobbiamo continuare a guardar la sua schiena tutto il tempo? Potremmo almeno obbligarlo a dirci cosa diavolo intende fare, no?". "Bene, proviamo". Avanzando di pochi passi, Conway raggiunse la parete divisoria tra cabina e carlinga. Essendo questa un po' rialzata, il pilota, girando il capo e curvandosi un poco aveva modo di comunicare coi passeggeri attraverso una lastra di vetro scorrevole. Conway vi picchiò su con le nocche. La risposta fu comicamente simile a quanto si aspettava; il vetro si aprì e comparve la canna di una rivoltella. Solo questo; neppure una parola. Conway si ritirò senza discutere e lo sportello fu richiuso. Mallinson, osservatore attento, non rimase molto soddisfatto. "Non credo che avrebbe avuto il coraggio di sparare" commentò. "Probabilmente ha voluto fare una spacconata". "Sarà" disse Conway, "ma preferirei che ad accertarsene ci andasse, se mai, lei stesso". "Ebbene, io penso che, prima di arrenderci così indecorosamente, in
un modo o nell'altro dovremmo lottare". A Conway questa frase piacque. Gli risvegliò nella memoria il buon vecchio convenzionalismo con tutte le sue o leografiche associazioni di idee: i soldati dalle divise rosse, i libri di storia scolastica, gli inglesi che non temono nulla, non si arrendono mai e non sono mai battuti. Ma disse: "Iniziare una battaglia senza la minima probabilità di vincerla è un gioco inutile, e io non sono eroe fino a questo punto". "Le do ragione, signore" interruppe cordialmente Barnard. "Quando qualcuno vi ha afferrato per i capelli e vi tiene ben stretto, tanto vale prender la cosa con filosofia e darsi per vinto. Per conto mio, finché la vita dura, intendo godermela e fumare il mio sigaro. Pericolo più pericolo meno, c'è proprio da prendersela tanto?". "Per quel che riguarda me, no; ma potrebbe dar fastidio a Miss Brinklow". Barnard volle subito fare ammenda: "Scusi, signora, forse il fumo le dà noia?". "Affatto" rispose lei cortesemente; "io non fumo, ma l'odore del sigaro mi piace". Conway si persuase che fra tutte le donne capaci di dare una risposta simile, Miss Brinklow era la più tipica. Per fortuna la sovreccitazione di Mallinson si era un po' calmata, e allora Conway, benché lontanissimo dal pensiero di fumare, gli offrì amichevolmente una sigaretta. "So quel che prova" disse con accondiscendenza; "è una brutta faccenda, e il peggio è che non ci si può fare nulla". E aggiunse fra sé: "Per quanto mi riguarda, tanto meglio così...". Si sentiva stanchissimo. V'era un lato della sua natura che si sarebbe potuto definire pigrizia, benché non lo fosse.
All'occorrenza, nessuno più di lui era capace e pochi si sarebbero addossate le responsabilità meglio di lui; ma che proprio l'attività e la responsabilità costituissero la sua gioia... Facevano parte del suo lavoro, ecco, e doveva accettarle; sempre pronto però a cedere il passo a chi potesse fare quanto lui o meglio. A questo si doveva in parte il fatto che la sua riuscita nel servizio governativo non fosse stata così brillante quanto avrebbe potuto: non era abbastanza ambizioso per farsi largo tra gli altri, o per mettersi in mostra artificiosamente quando non v'era gran che da fare. I suoi resoconti erano laconici fino all'inverosimile, e quella sua calma in ogni circostanza, benché ammirata pareva sospetta. Alle autorità piace sapere che un loro subalterno impone a se stesso sforzi e sacrifici; e che la sua apparente noncuranza nasconde un corredo di ben controllate emozioni. Talvolta nasceva sì, in qualcuno, il dubbio ch'egli non fosse proprio imperturbabile al punto da non scomporsi mai per nulla. Ma anche tale interpretazione, come quella riguardante la pigrizia, era errata. Ciò che la maggior parte degli osservatori non riusciva a scorgere in lui era una cosa semplicissima: l'amore della quiete, della contemplazione, della solitudine. E or a, poiché ne sentiva il bisogno e non c'era altro da fare, si abbandonò nella poltrona di vimini e si addormentò. Più tardi svegliandosi constatò che anche gli altri, malgrado le loro varie preoccupazioni, avevano ceduto al sonno. Con gli occhi chiusi, seduta e ben diritta, Miss Brinklow somigliava a un idolo in cattivo stato e fuori moda; Mallinson pencolava in avanti e si reggeva il mento col palmo della mano. E l'americano russava, persino. "Sono stati molto giudiziosi" pensò Conway; "era inutile consumare le forze discutendo". Ma tosto avvertì strane sensazioni fisiche - un leggero capogiro, il cuore che
gli batteva forte, una tendenza a respirare con sforzo e più profondamente. Ricordò d'aver provato sintomi simili una volta in Svizzera. Si girò dal lato del finestrino e guardò fuori. Tutt'intorno il cielo s'era completamente schiarito e, nella luce del tardo pomeriggio, apparve un tale spettacolo che per un attimo Conway restò senza fiato. Lontanissime, all'orizzonte, si vedevano catene e catene di vette nevose, contornate da ghiacciai, quasi isole vaganti su un mare di nubi. Occupavano per intero l'arco di visibilità, emergendo a occidente in uno sfondo di colore sgargiante, come una tela impressionista dipinta da un genio folle. E intanto su quella meravigliosa ribalta l'aereo filava, alto sull'abisso, avendo di fronte una ripidissima montagna bianca che sembrava confondersi col cielo stesso; finché la luce del tramonto non la investì, e allora fiammeggiò superba, accecante, incandescente, come una Jungfrau dieci volte più alta. Conway non era facile a impressionarsi, e non era mai andato in cerca di panorami - tanto meno, poi, di quelli famosi per ammirare i quali i municipi più previdenti predispongono dei sedili. Condotto una volta a TigerHill, presso Darjeeling, a vedere il levar del sole sull'Everest, era rimasto veramente deluso dall'aspetto della più alta montagna del mondo. Ma quest'incredibile spettacolo visto dal finestrino di un aereo, era di ben diversa portata; non aveva l'aria di essersi messo in posa per farsi ammirare. C'era qualcosa di crudo e di mostruoso intorno a quei maestosi scoscendimenti di ghiaccio, ed era sublime temerarietà avvicinarsi tanto ad essi. Si immerse in una profonda meditazione, e ogni tanto ripassava mentalmente carte topografiche, calcolava distanze, stimava tempi e velocità. Poi, accortosi che anche Mallinson si era svegliato, lo chiamò toccandogli
il braccio.
Ii Fedele al proprio temperamento, Conway aspettò che i compagni si svegliassero da sé e rispose con poche parole alle loro esclamazioni di meraviglia; ma quando, più tardi, Barnard gli rivolse una domanda precisa, allora si espresse con la pronta scioltezza di un professore universitario che chiarisca un problema. Secondo il suo parere erano ancora in India; avevano volato parecchie ore verso oriente, troppo in alto per veder qualcosa; ma probabilmente la rotta aveva seguito la valle di qualche fiume, in direzione approssimativa da est a ovest. "Preferirei non dovermi affidare alla sola memoria ma ho l'impressione che possa trattarsi dell'alta valle dell'Indo, il che significherebbe esser giunti in una delle più spettacolose regioni del mondo, come può constatare". "Allora riconosce dove siamo?" interruppe Barnard. "Ma no, non sono mai stato in questi paraggi: però non mi stupirebbe che quella montagna fosse il Nanga Parbat, dove morì Mummery. Struttura e posizione collimerebbero con ciò che ne ho inteso dire". "E' alpinista lei?". "In gioventù mi piaceva molto. Naturalmente, le solite arrampicate in Svizzera, niente di più". Mallinson intervenne di malumore: "Invece di perderci in altri discorsi, non sarebbe meglio cercar di indovinare dove andiamo? Ah, se qualcuno me lo dicesse!...". "Bene, a me sembra che filiamo dritti v erso quella catena laggiù"
disse Barnard. "Non le pare, Conway? Mi scusi se la chiamo così, ma dovendo correre tutti insieme questa piccola avventura non mi sembra il caso di far cerimonie". A Conway pareva naturale esser chiamato col proprio nome, e trovò quindi un po' fuori luogo le scuse di Barnard. "Ma certo" rispose e aggiunse: "Credo che quella sia la catena del Karakorum. ci sono parecchi valichi, se il nostro uomo intende attraversarla". "Il nostro uomo?" esclamò Mallinson. "Vuol dire il nostro pazzo! Credo che ormai la teoria del rapimento non regga più. A quest'ora le terre di frontiera sono lontane, e tribù indigene non ce ne possono essere da queste parti. La sola spiegazione plausibile è che costui sia un pazzo furioso. Chi, se non un pazzo, continuerebbe a volare in un paese simile?". "Solo un aviatore che sia stato a scuola dal demonio può esserne capace" osservò Barnard. "La geografia non è mai stata il mio forte ma capisca che queste montagne sono le più alte del mondo e che l'attraversarle sarà un bell'avvenimento". "Sarà anche la volontà di Dio" disse inaspettatamente Miss Brinklow. Conway non manifestò il suo parere. Volontà di Dio o pazzia d'uomo, ciascuno poteva scegliere a piacimento, come del resto è sempre consigliabile quando bisogna trovare una spiegazione alle cose di quaggiù. Oppure (e il capovolgimento glielo suggerirono quella piccola cabina bene ordinata, e quello sfondo tra il reale e l'irreale dei monti lontani), volontà d'uomo o pazzia di Dio. Poterne esser certi, qualunque fosse il punto di vista, doveva essere una soddisfazione. Ma ecco che, mentre osservava e meditava, a poco a
poco si produsse uno strano mutamento. S ulle vette la luce diventò azzurrognola e le più basse pendici presero una tinta viola. Quel senso di tranquilla superiorità che Conway s'era abituato a sentir riaffiorare in sé prontamente in qualunque evenienza, fu scosso o ra da qualcosa di più profondo: non si trattava di agitazione, e tanto meno di paura; era uno stato di acuta sospensione e di attesa. Disse: "Ha proprio ragione, Barnard, questa faccenda si fa d'ora in ora più interessante". "Interessante o no" replicò Mallinson, "non mi par proprio il caso di tesserne un elogio. Abbiamo chiesto noi di esser condotti qui?... e Dio sa quel che ci aspetta quando ci fermeremo! Per me, poi, il fatto che costui sia un aviatore abilissimo non diminuisce la sua colpa verso di noi. E' tanto abile, quanto pazzo. Ci fu un pilota m'hanno detto - che impazzì a mezz'aria. Questo era certamente pazzo prima di partire. Ecco la mia convinzione, Conway". Conway taceva. Urlare di continuo sopra il rombo del motore era una fatica; e dopo tutto, a che pro arzigogolare sulle probabilità?... Ma quando Mallinson insistette, fu costretto a dire la sua opinione. "Una pazzia ben architettata, se mai. Basta pensare che questo era l'unico apparecchio capace di salire a un'altezza simile". "Ciò non prova che non sia pazzo. Può esserlo stato in grado sufficiente per organizzare ogni cosa". "Sì, può darsi". "E allora dobbiamo stabilire un piano d'azione. Che cosa faremo quando atterrerà? Beninteso se non ci avrà sfracellati e uccisi in blocco. Che cosa faremo?... Corrergli incontro, forse, e congratularci con lui per il suo magistrale volo?". "Le prometto che la lascerò andare avanti per primo" rispose
Barnard; "ma se le è cara la vita non lo faccia". Conway si sentì riprendere dalla solita indolenza e rinunciò a continuare la discussione, tanto più che l'americano con le sue chiacchiere sensate dimostrava di poter benissimo proseguire da solo. In fondo Conway pensava che la compagnia avrebbe potuto anche essere peggiore. Soltanto uno, Mallinson, aveva tendenza a brontolare; ma si poteva, in parte, attribuirlo all'altezza. L'aria rarefatta produce sulle persone effetti diversi: per esempio, a Conway dava contemporaneamente una sensazione di lucidità mentale e di apatia fisica, nient'affatto sgradevole. Respirava quell'aria purissima con vera gioia. La situazione, vista nel suo complesso, era indubbiamente spaventosa, ma intanto perché crucciarsi minuto per minuto di cose che si svolgevano con tanta regolarità e in modo così interessante? E mentre fissava la meravigliosa montagna, fu invaso da un intimo sublime compiacimento, al pensiero che vi fossero ancora sulla terra visioni simili, lontane, inaccessibili, quasi vergini di impronta umana. Le pareti ghiacciate del Karakorum erano ora più impressionanti che mai contro il cielo diventato a nord di un grigio sinistro; i picchi mandavano un riflesso gelido: maestosi e remoti, pur senza nome, avevano una dignità partic olare. Inferiori in altezza ai più noti colossi, forse appunto per quelle poche centinaia di metri in meno si salvavano per sempre da esplorazioni alpinistiche, perché offrivano un minore allettamento agli ostinati superatori di record; rispetto ai quali Conway era proprio l'antitesi: la passione occidentale per i superlativi gli pareva di cattivo gusto; "tendere verso l'alto" era per lui una frase più ragionevole e più nobile che non l'altra: "il massimo sforzo per la massima altezza". Non aveva nessuna simpatia per gli eccessi.
Era tuttora assorto in quello spettacolo, quando cadde il crepuscolo e immerse le valli in un'oscurità vellutata, che poi si diffuse lentamente verso l'alto. L'intera catena, ora molto più vicina, impallidì in uno splendore nuovo; sorse la luna piena toccando uno dopo l'altro tutti i picchi come un accenditore celeste, finché il vasto orizzonte rifulse candido contro il cielo neroazzurro. L'aria si faceva fredda e il vento sbalzava qua e là l'aereo in modo poco piacevole. Questi nuovi inconvenienti demoralizzarono i passeggeri; una continuazione del volo dopo il tramonto non era stata prevista, e adesso, l'ultima loro speranza era nel consumo totale del carburante; eventualità che non poteva tardare a verificarsi. Mallinson cominciò a discuterci su e Conway, un po' riluttante, perché davvero non poteva saperlo, stimò che l'autonomia massima dell'apparecchio dovesse aggirarsi intorno alle mi lle miglia, la maggior parte delle quali era già stata percorsa. "E allora dove dovrebbe portarci questa autonomia?..." domandò il giovane scoraggiato. "Non è facile giudicarlo, ma probabilmente in qualche punto del Tibet. se questi monti sono il Karakorum, dietro c'è il Tibet. intanto una di queste vette dev'essere il K2, considerata la seconda montagna del mondo". "In ordine di altezza viene subito dopo l'Everest" commentò Barnard. "Accidenti! questo sì che è un panorama". "Dal punto di vista alpinistico, è una montagna ancor più difficile dell'Everest. il Duca degli Abruzzi vi rinunciò stimandolo un picco assolutamente inscalabile". "Averne voglia!" brontolò Mallinson a denti stretti. Invece Barnard rise:
"Ma lei, Conway, è proprio la guida ufficiale di questo viaggio di piacere!... E allora le dirò che se avessi una fiaschetta di caffè e cognac non m'importerebbe affatto che questo fosse il Tibet piuttosto che il Tennessee". "Ma che cosa faremo, domando io!" ri batté Mallinson. "Perché siamo qui? Io non capisco come lei abbia voglia di scherzare! Costui dev'esser matto; non c'è altra spiegazione. Non è vero, Conway?". Conway scosse il capo. Miss Brinklow si girò indietro come se fosse nell'intervallo di uno spettacolo. "Siccome non avete chiesto il mio parere, forse non dovrei parlare" cominciò modestamente, "ma vorrei dirvi che son d'accordo con Mr' Mallinson. credo che il pover'uomo non abbia la testa interamente a posto. Il pilota, si capisce. Perché se non fosse pazzo, non avrebbe proprio nessuna scusa". E aggiunse confidenzialmente, urlando sul fragore: "Figuratevi che questo è il mio primo viaggio aereo! Proprio il primo! Una mia amica aveva fatto di tutto per indurmi a volare con lei da Londra a Parigi; ma non mi ero mai lasciata persuadere". "E invece ora sta volando dall'India al Tibet" disse Barnard. "Cose che capitano ai mortali". Lei continuò: "Ho conosciuto una volta un missionario che era stato nel Tibet. diceva che i tibetani sono gente stranissima. Credono che noi discendiamo dalle scimmie". "Così progrediti sono?!...". "Oh no, non intendevo secondo le teorie moderne. Hanno questa credenza da centinaia di anni; è una delle loro tante superstizioni. Naturalmente io sono contrarissima, e considero Darwin assai peggiore
dei tibetani. Io mi baso sulla Bibbia". "Siete fondamentalista, suppongo?". Non parve che Miss Brinklow capisse quella parola. "Ho fatto parte dell'L'M'S'" urlò, "ma non ci trovavamo d'accordo quanto al battesimo degli infanti". Anche dopo essersi ricordato che le iniziali erano quelle della London Missionary Society, Conway continuò a pensare che l'osservazione era abbastanza comica. E mentre immaginava già tutti gli inconvenienti ad intavolare una discussione teologica alla stazione di Euston, cominciò a trovar e Miss Brinklow piuttosto interessante. Si chiese se fosse il caso di offrirle qualcuno dei suoi indumenti contro il freddo notturno; ma poi si persuase che probabilmente era più robusta di lui. E allora si rincantucciò, chiuse gli occhi, e si addormentò subito pacificamente. E il volo continuò. Furono svegliati all'improvviso da uno scossone dell'apparecchio. Conway batté il capo contro il finestrino rimanendo per un attimo intontito; un altro scossone in senso inverso lo scaraventò fra le due file dei sedili. Il freddo era adesso più intenso. La prima cosa che Conway fece, automaticamente, fu di guardare il suo orologio da polso: era l'una e mezzo, aveva dunque dormito un poco. Sentiva ora negli orecchi uno strano frusciar d'ali; sulle prime lo credette un ronzio immaginario, ma poi s'accorse che il motore era spento e che l'aereo si trovava in mezzo alla burrasca. Guardò dal finestrino e vide la terra, lì sotto, vicinissima, che fuggiva via indistinta e grigiastra. "Sta per atterrare!" urlò Mallinson; e Barnard, sbalzato anche lui dal suo sedile, aggiunse freddamente:
"Se avrà fortuna". Miss Brinklow, che fra tutti sembrava la meno turbata dall'incidente, si aggiustava il cappello con la stessa calma come se l'avessero avvertita che si era in v ista del porto di Dover. Poco dopo l'aereo atterrò. Ma questa volta malamente. "Che cosa succede, Dio mio!" gemette Mallinson tenendosi stretto al suo sedile durante i dieci secondi di rullio e di urtoni. Si sentiva qualcosa tendersi e schioccare: uno dei pneumatici scoppiò. "Questa è la fine" aggiunse con pessimismo angoscioso. "Abbiamo la coda spezzata; dovremo starcene dove siamo, ormai". Conway, che nei momenti difficili non parlava mai, allungò le gambe intorpidite e si toccò la testa là dove aveva preso la botta contro il finestrino. Roba da poco: una contusione. Era suo dovere far qualcosa per aiutare i compagni. Ma quando l'aereo fu fermo, l'ultimo dei quattro ad alzarsi fu proprio lui. "Attenti" disse mentre Mallinson spalancava la porta della cabina e si preparava a saltare a terra. "Non occorre più stare attenti" r isuonò stranamente nel gran silenzio la voce del giovane, "sembra la fine del mondo, non c'è anima viva intorno". Un minuto dopo, intirizziti e tremanti, constatarono che era proprio così. Nessun suono all'infuori dell'urlo del vento e dei loro passi incerti; la terra e l'aria parevano impregnate di qualcosa di selvaggio. La luna si era nascosta dietro le nuvole e le rare stelle illuminavano un immenso vuoto battuto dal vento. Si poteva credere d'esser scesi su un altipiano altissimo le cui montagne avessero già per sostegno altre ed altre montagne. Se ne vedeva una catena luccicare all'orizzonte come una fila di
denti canini. Febbrilmente Mallinson si avviò verso la carlinga. "Certo a terra non mi fa paura costui, chiunque sia" gridò; "adesso regoleremo i conti io e lui...". Gli altri guardavano, ipnotizzati da tanta energia, ma anche un po' in apprensione. Conway gli saltò dietro; troppo tardi per impedirgli di investigare. Senonché, dopo alcuni secondi, il giovane tornò sui suoi passi, afferrò il braccio di Conway e gli mormorò rauco: "Sa, Conway... è strano... Credo che stia male... o sia morto. Non risponde. Venga su a vedere. In ogni modo gli ho tolto la rivoltella". "La dia a me; è meglio" disse Conway, e benché ancora intontito per il colpo ricevuto alla testa si preparò ad agire. Fra tutte le situazioni difficili, di tempo e di luogo in cui s'era trovato, nessuna gli era mai apparsa così complicata e problematica come questa. Si drizzò sulla punta dei piedi fino a poter vedere, più o meno, nella carlinga chiusa. C'era un forte odore di benzina, non si arrischiò quindi ad accendere uno zolfanello. Poté appena distinguere il pilota, rannicchiato in avanti, con la testa abbandonata sui comandi. Lo scosse, gli slacciò il casco, gli allentò il colletto. Dopo un momento si volse a dire: "Sì, gli è capitato qualcosa. Bisogna tirarlo fuori". Ma un osservatore attento avrebbe potuto dire che anche a Conway era accaduto qualcosa. La sua voce era più forte, più decisa: non pareva più ondeggiare sull'orlo di qualche dubbio profondo. Il luogo, il tempo, il freddo, la sua stessa stanchezza ora contavano meno: c'era un lavoro che doveva esser fatto; e allora quella parte del suo "io" meno dominante e perciò docilmente pronta al l'azione necessaria,
aveva il sopravvento. Con l'aiuto di Barnard e di Mallinson il pilota fu estratto dalla carlinga e adagiato a terra. Era svenuto, non morto. Conway, pur non avendo mai studiato medicina, aveva la pratica di chi ha vissuto a lungo in luoghi isolati; i sintomi di alcune malattie gli erano familiari. "Si tratta forse di un attacco di cuore cagionato dall'altezza" diagnosticò chinandosi sullo sconosciuto. "Qui fuori, e con questo vento infernale, è impossibile far qualcosa per lui. Sarebbe meglio portarlo nella cabina; meglio anche per noi che, non sapendo dove ci troviamo, non potremo muoverci prima di giorno". Gli altri furono pienamente d'accordo e Mallinson diede il suo valido aiuto. Portarono l'uomo in cabina e lo adagiarono nel vano di passaggio tra le due file dei sedili. Lì non faceva davvero meno freddo che fuori, ma si era almeno al riparo dalle raffiche del vento. Il vento diventò presto la loro preoccupazione principale, il motivo dominante, per così dire, del notturno spettacolo. Non era uno dei soliti venti che fanno esclamare "che vento forte!", "che vento freddo!". Era un vero uragano, che li circondava come un padrone mostruoso scorrazzante sui propri domini. Sc uoteva furiosamente l'aereo, fin quasi a sollevarlo; e quando Conway guardava dalle finestre provava l'impressione che la sua violenza strappasse persino turbinanti frammenti di luce alle stelle. Lo sconosciuto giaceva inerte, e Conway lo esaminò come poteva, in tanta scarsezza di luce e ristrettezza di spazio. Ma l'esame rivelò ben poco. "E' il cuore che è debole" disse infine; e allora Miss Brinklow, che aveva intanto frugato nella borsetta, ebbe un tratto proprio
commovente. "Forse questo potrebbe giovare a quel poveretto!" disse con slancio. "Io non ne assaggio mai neppure una goccia, ma lo porto sempre con me in caso di incidenti. E qui si tratta proprio di un incidente, vero?". "Direi" rispose asciutto Conway. Svitò il turacciolo, annusò, e versò un po' di cognac nella bocca del ferito. "Proprio quel che ci vuole per lui. Grazie". Dopo una breve attesa poté osservare alla luce di un fiammifero un lievissimo moto delle palpebre. Mallinson fu assalito da un improvviso nervosismo. Rise convulsamente. "Perdonatemi" gridò, "non posso dominarmi. Abbiamo l'aria di tanti pazzi che accendano dei fiammiferi sopra un cadavere... Non vi pare una scena edificante?... Cinese, ecco; e ho detto tutto". "Può darsi". La voce di Conway era calma, e un po' severa. "Ma non è ancora un cadavere. Se la fortuna ci assiste riusciremo forse a rianimarlo". "Fortuna? La fortuna sarà sua, e non nostra". "Non ne sia troppo sicuro. E per ora zitto, è già abbastanza". Benché Mallinson non fosse in grado di controllarsi troppo, la consolidata abitudine alla disciplina scolastica lo rese subito obbediente al comando secco di un "senior". La preoccupazione maggiore di Conway era, suo malgrado, il pilota. Non era più tempo di parole; l'eccitante avventura, seguita con una specie di curiosità durante il volo, minacciava di diventare ora una difficilissima prova di resistenza con probabile fine catastrofica. Per tutta la notte non gli riuscì di prender sonno; e nel frastuono della burrasca meditò in silenzio ponendosi con risolutezza davanti
al fatto compiuto. Era convinto che avessero superato di molto la catena occidentale dell'Himalaya, verso le meno note altitudini del KuenLun. stando così le cose, si trovavano nella parte più alta e meno ospitale della superficie terrestre, l'altipiano del Tibet, una regione vasta, disabitata e in gran parte inesplorata, sempre battuta dal vento. L'isola più sperduta e più deserta sarebbe stata preferibile a quelle terre abbandonate. A un tratto, come se la natura, vedendo Conway perplesso, volesse rispondergli e turbarlo maggiormente, avvenne tutt'intorno un mutamento impressionante. La luna che egli aveva creduto nascosta dalle nuvole sfiorò l'orlo di un'ombra montagnosa e, pur non mostrandosi direttamente, rivelò l'oscurità che aveva di fronte. Conway riuscì a scorgere i margini di una lunga vallata, fiancheggiata da cupi colli tondeggianti, non molto alti, di un nero inchiostro contro gli squarci azzurri del cielo e le frequenti scariche elettriche. Ma i suoi occhi furono attratti irresistibilmente dallo sfondo della valle, perché lì, sorgendo dal vuoto, magnifica nel pieno lume di luna, appariva la più meravigliosa montagna del mondo. Semplice di linea, come se l'avesse disegnata un bimbo, era per forma un cono di neve quasi perfetto, non però classificabile quanto a dimensioni, altezza e distanza. Appariva così radiosa, così serenamente imperante, da non sembrar vera. Mentre Conway l'osservava, un lieve spruzzo nevoso ne snebbiò il fianco e un successivo rombo, attenuato dalla distanza, confermò l'ipotesi di una valanga. Fu tentato di svegliare gli altri per farli partecipi dello spettacolo, ma rifletté che quella vista non sarebbe stata sufficiente per dar tranquillità a persone di buon senso; anzi, quell'immenso splendore inviolato avrebbe forse accresciuto il senso
di isolamento e di pericolo. Il nucleo umano più prossimo era forse distante centinaia di miglia. Essi non avevano viveri; potevano contare su un'unica rivoltella, e se anche uno di loro avesse saputo guidare, l'aereo era danneggiato e quasi al termine del carburante. Non avevano abiti adatti contro quel freddo e quel vento tremendo; il soprabito di Conway e il cappotto automobilistico di Mallinson erano assolutamente insufficienti, e anche Miss Brinklow ricoperta e imbottita come per una spedizione polare ( che impressione ridicola gli aveva fatto a prima vista!) doveva sentirsi a disagio. Inoltre, eccetto lui, erano tutti più o meno disturbati dall'altitudine. Barnard stesso era diventato malinconico. Mallinson brontolava fra sé, e si capiva già che cosa sarebbe accaduto al perdurare di quelle condizioni. Di fronte a questa prospettiva così poco incoraggiante Conway non poté trattenersi dal rivolgere a Miss Brinklow uno sguardo d'ammirazione. Rifletté che, probabilmente, non era una persona normale: infatti non si poteva considerare tale una donna che insegnava a cantare inni sacri agli afgani. Ma le era molto grato per il fatto che ad ogni nuova calamità ella riuscisse comunque a mantenersi normalmente anormale. "Spero che non si senta troppo male" le disse con simpatia, appena incontrò il suo sguardo. "Durante la guerra mondiale i soldati soffrirono ben più di così" rispose. Il paragone non convinse troppo Conway. Per altri era giustissimo ma, in realtà, lui non aveva mai passato in trincea una notte così spiacevole. Concentrò allora la sua attenzione sul pilota, che ora respirava
irregolarmente e tentava qualche movimento. Mallinson aveva forse ragione di crederlo c inese. Per quanto fosse riuscito a farsi passare per autentico tenente dell'Aviazione inglese, i suoi zigomi e il naso erano tipicamente mongolici. Mallinson l'aveva trovato brutto, ma a Conway che aveva vissuto in Cina parve passabile, benché ora, sotto la luce dei fiammiferi accesi, la sua pelle giallastra e la bocca spalancata fossero tutt'altro che da ammirare. La notte proseguì come se ogni minuto fosse qualcosa di materiale e pesante da spinger via a forza per far posto ai successivi. Il chiarore lunare impallidì, e con esso la lontananza spettrale della montagna; da allora, fino all'alba, si aggravarono i tre problemi del buio, del freddo e del vento. Ma ai primi albori, quasi per un segnale convenuto il vento cadde, e lasciò la natura in una quiete pietosa. Incorniciata nel pallido triangolo di fronte, la montagna riapparve, prima grigia, poi argentea, e finalmente rosea ai primi raggi di sole sulla vetta. Nella luce crescente la valle ritrovava la sua forma rivelando un fondo roccioso e ghiaioso che prendeva rilievo a poco a poco. Non era una natura amica; Conway, osservandola, ne ric eveva un'impressione di bellezza, non però di fascino romantico, ma di pura intellettualità, netta come l'acciaio. La bianca piramide erta e distante costringeva la mente a un consenso matematico e spassionato come dinanzi a un teorema d'Euclide - e l'incanto fu rotto poco dopo quando il sole sorse nel cielo azzurro e Conway si sentì nuovamente un po' meno a suo agio. Gli altri si svegliarono quando già la temperatura era diventata più tiepida ed egli suggerì di portare all'aperto il pilota nella
speranza che l'aria e il sole lo aiutassero a rinvenire. Così fu fatto, e venne iniziata un'altra veglia, però più piacevole della prima. A un tratto l'uomo aprì gli o cchi e cominciò a parlare convulsamente; i quattro si chinarono su di lui attentamente, ma soltanto Conway parve comprendere quei suoni strani, perché di quando in quando rispondeva. Dopo qualche momento le fo rze del pilota si affievolirono; pronunciava le parole con c rescente difficoltà e infine spirò. Potevano essere le dieci del mattino. Conway si voltò verso i compagni. "Mi spiace dovervi dire che ha parlato ben poco; s'intende, rispetto a quanto avremmo desiderato sapere. "Siamo nel Tibet, il che era già ovvio. Non mi ha spiegato bene perché ci ha portato qui, ma certamente conosceva la località. Parlava un cinese che ho capito poco, ma credo che nominasse un convento di Lama qui vicino, lungo la valle mi pare, dove potremmo trovare cibo e rifugio. Lo ha chiamato ShangriLa. In tibetano La significa passo di montagna. Insisteva perché vi andassimo". "Non mi pare una buona ragione per farlo" disse Mallinson. "Probabilmente non era più in sé. Non crede?". "Ne so quanto lei, caro Mallinson. ma se non andiamo là, dove mai andremo?". "Dove vuole, per me è lo stesso. Sono sicuro però che se ShangriLa si trova da quella parte dev'essere ben lontano da ogni consorzio civile. Diavolo, non le viene proprio in mente nulla, amico, da tentare per farci tornare indietro?...". Conway, paziente, replicò: "Credo che lei non co mprenda bene la nostra posizione, Mallinson. ci troviamo in una parte del mondo di cui si sa ben poco, all'infuori che è difficile e pericolosa, anche
per una spedizione bene equipaggiata. Considerando che un paesaggio simile a questo si estende probabilmente intorno a noi per centinaia di miglia, l'idea di tornare a piedi a Peshawar non mi sembra molto incoraggiante". "Temo che, forse, io non ci riuscirei" disse seria Miss Brinklow. barnard assentì con un cenno del capo. "Se questo monastero è qui alla prossima svolta, potremo dirci fortunati". "In fondo sì" rispose Conway. "Dopo tutto non abbiamo viveri e, come vedete anche voi, questo paese non potrebbe facilmente fornircene. Fra poche ore saremo tutti affamati. E se la notte prossima ci trovasse ancora qui, dovremmo riaffrontare il freddo e il vento. Non è una prospettiva allettante. L'unica nostra possibilità, mi sembra, è di trovare altri esseri umani; dove dovremmo cercarli se non là dove ci fu detto che ne esistono?". "E se fosse una trappola?" chiese Mallinson. Ma Barnard aggiunse: "Una bella trappola ben calda, con un pezzo di formaggio: sarebbe l'ideale in terra, per me". Tutti risero, meno Mallinson, che pareva assente e nervoso. Alla fine Conway continuò: "Dunque, mi pare che, più o meno, siamo d'accordo... Guardate, lungo la valle si distingue abbastanza bene una strada; non sembra molto ripida, ma ci obbligherà a salire lentamente. Tanto, qui non si può far nulla! non si potrebbe neppure seppellire questo disgraziato senza dinamite! Inoltre i monaci potranno forse darci dei portatori per il ritorno; ne avremo bisogno. Propongo di partire subito, così se durante il pomeriggio non avremo individuato il luogo preciso, ci
resterà il tempo per tornar giù a passare nella cabina un'altra notte". "E se riusciremo a individuarlo?" brontolò Mallinson, sempre intransigente. "Che garanzia abbiamo di non essere assassinati?". "Nessuna. Ma penso che il rischio sia minore, e fors'anche preferibile a quello di morire di fame e di freddo". E pensando che una logica così gelida non fosse adatta al caso, aggiunse subito: "Del resto c'è ancora meno probabilità d'esser assassinati in un monastero buddista, che in una cattedrale inglese". "Come il Vescovo di Canterbury" approvò in pieno e con enfasi Miss Brinklow, capovolgendo però il suo punto di vista. Mallinson alzò le spalle e rispose di malumore: "Bene, bene, incamminiamoci verso ShangriLa. Sia quel che sia, proviamo ugualmente. Auguriamoci almeno di non dover salire mezza montagna". Quest'osservazione fece volgere i loro sguardi sulla scintillante piramide a cui conduceva la valle. Nella piena luce del giorno essa apparve snella e magnifica; ma subito la loro ammirazione si mutò in fissità, perché lontano lontano, giù per la discesa, scorsero un gruppo di persone che si avvicinava. "La Provvidenza!" disse sottovoce Miss Brinklow.
Iii In Conway c'era sempre una parte che rimaneva spettatrice, per quanto attivo potesse essere tutto il resto. Ora, per esempio, mentre aspettava che i nuovi venuti fossero più vicini, non si affrettò affatto a considerare tutte le possibili contingenze e a decidere
quel che avrebbe potuto fare. Coraggio? F reddezza? Orgogliosa sicurezza di poter prendere una decisione sul momento? Niente di tutto questo. Era, se vogliamo giudicare senza indulgenza, una forma di pigrizia, una riluttanza istintiva ad abbandonare il suo posto di osservatore dell'avvenimento imminente. Intanto il gruppo lontano, procedendo giù per la valle, si rivelò composto di una dozzina di persone o poco più, alcune delle quali reggevano una portantina su cui si poteva distinguere una persona vestita d'azzurro. Conway non era in grado di immaginare dove fossero diretti, ma parve anche a lui, come già a Miss Brinklow, provvidenziale che si trovassero a passare di lì. Appena furono abbastanza vicini, Conway lasciò i suoi e s'incamminò; lo fece però lentamente, ricordandosi che gli orientali amano il rituale degli incontri e desiderano impiegarvi tutto il tempo necessario. Fermatosi a distanza di pochi metri, s'inchinò con la dovuta cortesia. Con sua grande sorpresa il personaggio dalla lunga veste scese dalla portantina, avanzò con tutta dignità, e gli stese la mano. Conway gliela strinse, e intanto fissò curiosamente quel cinese, alquanto decorativo nella sua veste di seta ricamata, vecchio o almeno già maturo, dai capelli grigi e dal volto rasato. A sua volta il cinese parve scrutare nello stesso modo Conway; dopo di che gli parlò in un inglese chiaro e un po' ricercato: "Io appartengo al monastero di ShangriLa". Conway si inchinò di nuovo, e dopo una necessaria pausa cominciò a spiegargli brevemente per quali circostanze si trovasse coi suoi compagni in quella remota parte del mondo. Alla fine del racconto il cinese fece un gesto di assenso. "E' veramente un fatto notevole" disse, e guardò con attenzione
l'aereo danneggiato. Poi aggiunse: "Mi chiamo Chang; vuole essere così gentile da presentarmi ai suoi compagni?". Conway riuscì a sorridere con garbo. Gli faceva un certo effetto incontrare questo fenomeno: un cinese che parlava l'inglese perfettamente e usava nel Tibet selvaggio tutte le cor tesie formali di Bond Street. si volse agli altri, che ormai lo avevano raggiunto e stavano guardando quella scena ciascuno con un diverso grado di stupore. "Miss Brinklow... Mr' Barnard, americano... Mr' Mallinson... ed io che mi chiamo Conway. Siamo lieti di vederla, anche se il nostro incontro è quasi altrettanto strano per noi quanto il fatto di trovarci quassù. Stavamo proprio per dirigerci al suo monastero, perciò siamo doppiamente fortunati. Vuole darci qualche indicazione circa la strada?...". "Non occorre. Sarò felice di guidarvi io stesso". "E' molto gentile, ma non posso permettere che si disturbi tanto. Se non è troppo lontano...". "Lontano no, ma la strada non è facile. Sarà per me un onore accompagnarla coi suoi compagni". "Ma davvero...". "Insisto". Conway sentiva che, considerati il luogo e le circostanze, la discussione minacciava di diventare ridicola. "Benissimo" rispose. "Gliene siamo molto grati". Senonché Mallinson, che aveva tollerato con faccia scura queste gentilezze, si frappose con sgarberia da caserma. "Non vi resteremo a lungo" annunciò secco. "Pagheremo quanto vi sarà dovuto, e poi combineremo con alcuni dei vostri uomini perché ci
aiutino nel viaggio di ritorno. Vogliamo tornare alla civiltà il più presto possibile". "E' proprio sicuro di esserne tanto lontano?". La domanda, proferita con soavità, punse il giovane, rendendolo ancor più sgarbato. "Sono sicurissimo di trovarmi ben lontano da dove vorrei; e così i miei compagni. Le saremo grati per un rifugio momentaneo, ma più ancora se ci procurerà i mezzi per tornare. Quanto tempo ci vorrà per un viaggio fino in India?". "Non glielo saprei proprio dire". "Ebbene, spero che non incontreremo in proposito nessuna difficoltà. Sono pratico di contratti con portatori indigeni e siamo certi che lei userà la sua influenza perché ci trattino onestamente". Conway trovò inopportuna questa insolenza e stava già per intervenire, quando giunse la risposta, calma e dignitosa: "Posso soltanto assicurarle, Mr' Mallinson, che sarà trat tato onorevolmente, e che alla fine non avrà alcun rimpianto". "Alla fine?" esclamò Mallinson, alzando il tono della voce; ma si poté facilmente evitare una scenata perché i portatori tibetani, vestiti di pelli di pecora, con un cappello di pelo e scarpe di yak, offrivano a tutti vino e frutta, presi in quel momento dalle c este. Il vino aveva un piacevole profumo che ricordava certi squisiti vini del Reno, e tra la frutta v'erano dei manghi perfettamente maturi, d'una delizia quasi commovente a trangugiarsi dopo tante ore di digiuno. Mallinson mangiò e bevve con ghiotta avidità, ma Conway, sollevato dalle preoccupazioni più immediate e riluttante a crearsene altre, si stupiva che i manghi potessero esser coltivati a tale altezza.
Inoltre lo interessava molto la montagna di fronte: un picco sensazionale, unico; si stupiva di non averne mai trovato notizia in nessuno di quei libri che i viaggiatori scrivono quasi sempre dopo esser stati nel Tibet. fissandolo lo scalava mentalmente, scegliendo le due sole strade possibili: il valico di un alto colle oppure la scorciatoia di uno stretto corridoio roccioso... finché un'esclamazione di Mallinson lo richiamò sulla terra: voltò il capo e s'accorse che il cinese lo osservava attentamente. "Contempla la montagna, Mr' Conway?" si sentì chiedere. "Sì. E' un bello spettacolo. Avrà un nome, immagino". "Si chiama Karakal". "Non credo di averne mai sentito parlare. E' molto alta?". "Più di 28'000 piedi". "Davvero? Credevo che soltanto l'Himalaya raggiungesse tale altezza. E' sicuro che l'abbiano studiata bene? Chi l'ha misurata?". "Che cosa pensa, caro signore? Che vi sia forse qualcosa di incompatibile fra vita monastica e t rigonometria?". Conway gustò la frase, e rispose: "No, no, niente affatto" e rise amabilmente. La battuta non gli era sembrata un gran che, ma aveva voluto gratificarlo. Poco dopo incominciarono il viaggio verso ShangriLa.
La salita continuò per tutta la mattina, lentamente e a gradi; data l'altezza, era necessario un notevole sforzo fisico e a nessuno rimaneva più energia per parlare. Il cinese viaggiava da gran signore nella sua portantina, cosa che sarebbe parsa poco cavalleresca verso Miss Brinklow, se il solo figurarsela in quella cornice regale non fosse stato invece ridicolo. Conway, disturbato meno degli altri
dall'altezza, si sforzava di afferrare il senso delle parole dei portatori colte qua e là. Di tibetano ne sapeva ben poco, però abbastanza per capire che gli uomini erano contenti di tornare al monastero. Anche se avesse desiderato continuare la conversazione con il loro capo non avrebbe potuto, giacché questi, chiusi gli occhi e il viso nascosto in parte dietro le tendine di seta, sembrava possedere il segreto di un sonno opportuno. Intanto il sole andava diffondendo un benefico tepore; la fame e la sete erano quietate, se non soddisfatte; e l'ar ia, già tersa al punto da sembrare di un altro pianeta, diventava sempre più fine a ogni nuovo passo della salita. Si era costretti a respirare coscientemente e volutamente, e se sulle prime dava un po' noia, a poco a poco si risolveva poi in un beneficio di estatica tranquillità per la mente. Tutto il corpo si muoveva in un unico ritmo di respiro, moto e pensiero; l'azione dei polmoni non era quasi più automatica, ma disciplinata in armonia con l'intelletto e con le membra; Conway, nel cui spirito qualcosa di mistico contrastava stranamente col suo preponderante scetticismo, si trovò ad arzigogolare su tale sensazione. Una o due volte disse qualche paro la incoraggiante a Mallinson, ma il giovane era tutto preso dalla tensione della salita. Anche Barnard soffiava asmaticamente, mentre Miss Brinklow, impegnata in una dura lotta coi suoi polmoni, tentava, chissà perché, di nasconderla. "Siamo quasi in cima" disse Conway per incoraggiarla. "Una volta dovetti correre dietro a un treno, e provai una sensazione identica" rispose lei. "Così come c'è della gente che trova il sidro uguale allo champagne" rifletté Conway tra sé e sé; "questione di palato".
E subito si stupì constatando che, eccettuata questa considerazione di carattere generale, non aveva dentro di sé proprio nessun'altra preoccupazione, soprattutto per quel che riguardava la sua persona. Vi sono momenti nella vita in cui si apre la propria anima, proprio come si spalanca il portafogli quando il passatempo di una sera sia riuscito magari più costoso del previsto ma anche più inatteso. Così, in quella calma mattinata, in vista del Karakal, Conway, che per aver trascorso dieci anni in varie località asiatiche sapeva valutare molto bene paesi e avvenimenti, diede adesso, di fronte a quella nuova esperienza che gli si offriva, una pronta confortante e tranquilla risposta: "Davvero questo paese è promettente come nessun altro". Dopo un paio di chilometri la salita si fece più ripida, ma in quel momento il sole si velò e una nebbia argentea nascose la vista. Tuono e valanghe rimbombarono in alto dai campi di neve; l'aria cominciò a raffreddarsi, finché per i rapidi mutamenti delle regioni montane divenne gelida. Si levò un forte vento, e un'improvvisa pioggia inzuppò tutti aumentando il tormento; a un certo punto anche Conway ebbe l'impressione che sarebbe stato impossibile proseguire. Ma poco dopo sembrò che il più alto punto del tragitto fosse raggiunto perché i portatori si fermarono per assestare meglio il loro carico. Nuova pausa per le condizioni di Barnard e di Mallinson, che soffrivano molto per il dislivello, ma i tibetani si mostrarono ansiosi di continuare, e spiegarono a cenni che il resto del viaggio sarebbe stato meno faticoso. Dopo tali assicurazioni fu una delusione vedere che svolgevano delle corde. "Pensano forse di impiccarci?" si sforzò di esclamare Barnard, con
disperata allegria; ma presto apparve chiaro che l'intenzione delle guide non era così macabra, e che si trattava soltanto di legare insieme tutti i componenti della comitiva, alla maniera delle cordate alpinistiche. Quando si accorsero che Conway era pratico di ascensioni divennero più rispettosi e gli permisero di disporre i suoi compagni come meglio credesse. Egli si mise accanto a Mallinson, con due tibetani davanti; dietro collocò Barnard e Miss Brinklow, seguiti da altri tibetani. Capì subito che durante il sonno del capo gli uomini erano disposti a lasciarlo fare. Riaffiorò pronta in lui l'abitudine al comando; se si fossero trovati in difficoltà avrebbe dato loro ciò che era in suo potere: ordini e fiducia. Un tempo era stato alpinista di prim'ordine, e lo era ancora, probabilmente. "Abbia cura di Barnard" disse a Miss Brinklow, un po' per scherzo, e un po' seriamente, e lei gli rispose, con la civetteria di un'aquila: "Farò del mio meglio, ma, sa, è la prima volta che mi trovo in una cordata". Ciò che seguì, benché in certi momenti impressionante, fu meno faticoso di quanto si aspettasse, e alleviò un poco la penosa tensione della salita. Il sentiero da percorrere era tagliato in una roccia a picco la cui cima era nascosta dalla nebbia. Per fortuna questa nascondeva pure l'abisso sottostante; però Conway, capace di calcolare ad occhio le altitudini, avrebbe preferito sapere dove si trovava. In certi punti il sentiero non era più largo di due piedi e l'abile manovra dei portatori suscitava la sua ammirazione almeno quanto la calma del cinese in portantina, sempre tranquillamente assopito. Questi tibetani erano così esperti e sicuri che non c'era da temere; tuttavia, appena il sentiero si allargò dando inizio a una
lieve discesa, essi stessi mostrarono sul volto un senso di sollievo, e cominciarono a cantare: ondeggianti motivi barbarici che Conway pensò subito adattissimi ad essere musicati da Massenet per qualche balletto tibetano. La pioggia cessò e l'aria divenne tiepida. "Possiamo ritenerci sicuri che non saremmo mai stati capaci di giunger quassù da soli" disse Conway con l'intenzione di essere incoraggiante; ma su Mallinson la frase non ebbe l'effetto sperato. Era tutt'altro che tranquillo, e lo dimostrava di più adesso che il pericolo era passato. "Sarebbe stata una grave perdita?" rispose amaramente. Il sentiero discendeva ora più ripido e Conway trovò alcuni edelweiss, il primo fausto segno di un'altezza più ospitale. Ma quando li mostrò a Mallinson questi non ne fu affatto consolato. "Dio mio, Conway, crede forse di fare una gita sulle Alpi? In che razza d'inferno andiamo? E quando ci saremo dentro, come ne usciremo? Che cosa dobbiamo fare?". Conway disse tranquillamente: "Se conoscesse la vita come la conosco io, saprebbe che vi sono dei momenti in cui la cosa migliore è non far nulla. Ci accadono cose strane? Accettiamole. Così fu per la guerra. E' una fortuna se qualche volta una spruzzatina di novità dà sapore a ciò che sembra spiacevole". "Al diavolo la sua filosofia! Non era così a Baskul, durante quei disordini". "Naturalmente; poiché allora avevo qualche probabilità di poter modificare con la mia volontà gli avvenimenti. Ma qui, almeno per il momento, tale probabilità non esiste. E se vuo le una spiegazione le dico che siamo qui perché siamo qui. Per me, questa, è sempre stata
una ragione consolante". "Ma almeno si rende conto della difficoltà di ritornare per questa stessa via. Durante l'ultima ora del nostro viaggio abbiamo strisciato sul fianco di una vertiginosa parete a picco. Me ne sono accorto benissimo". "Io pure". "Davvero?". Mallinson tossì, eccitato. "Sarò seccante, ma bisogna che dica il mio pensiero. Tutto ciò mi è sospetto. Mi pare che stiamo seguendo un po' troppo la volontà di costoro. Vogliono prenderci in trappola, caro mio!". "E se anche fosse? Quale altra scelta avevamo? O accettare il loro aiuto, o restar là a morire". "Lei è razionale, ma non serve a nulla. Io non mi sento di accettare questa situazione con la sua serenità. Non posso dimenticare che due giorni fa eravamo al Consolato di Baskul. tutto ciò che è accaduto da allora è troppo. Mi secca. Non ne posso più. Ora mi rendo conto che fortuna mi è toccata schivando la guerra; certi disagi non li avrei sopportati. Mi pare che intorno a me il mondo intero sia impazzito. E devo essere un po' pazzo pure io per parlarle così". Conway scosse il capo. "Ma niente affatto, mio caro. Ha ventiquattro anni e si trova sopra i cinquemila metri... ce n'è abbastanza per spiegare qualunque stato d'animo. Trovo piuttosto che ha superato molto bene una prova difficile; meglio di quanto avrei potuto fare io alla sua età". "Ma non le sembra assurdo tutto quel che è accaduto?!... La corsa al disopra delle montagne, e quella tremenda notte fra la tempesta di vento, e il pilota morente, e l'incontro con costoro... non le pare
un incubo, una cosa incredibile a ripensarci?". "Sì, lo ammetto". "E allora come fa a mantenersi così calmo?". "Lo vuole proprio sapere? Glielo dirò, anche se mi crederà un cinico. E' perché ricordo tante cose che mi sembrano anch'esse incubi. Questa non è l'unica parte pazza del mondo. Per esempio, lei che prova il bisogno di pensare a Baskul, non ricorda, prima della partenza le torture inflitte dai rivoluzionari ai loro prigionieri per avere informazioni? Una delle solite macchine da stiro, dal funzionamento perfetto, è vero, ma io non ho mai visto nulla di più comicamente orribile. E non ricorda l'ultimo telegramma ricevuto, poco prima che fossero tagliate tutte le comunicazioni? Era la circolare di una ditta di Manchester che ci domandava se si sarebbero potuti far buoni affari a Baskul vendendo busti! Non è una pazzia anche questa? Mi creda, il peggio che può esserci capitato arrivando qui è d'aver cambiato una forma di pazzia con un'altra. E in quanto alla guerra, se lei ci si fosse trovato avrebbe fatto come me avrebbe imparato a scherzarci su anc he quando non ne avesse avuto voglia". Stavano ancora discorrendo quando una breve ma ripida salita tolse loro il fiato, riconducendo in quei pochi passi tutta la faticosa tensione di prima. Ma poi il terreno si appianò e uscirono fuori dalla nebbia in un'aria limpida e soleggiata. Davanti a loro, a breve distanza, sorgeva il monastero di ShangriLa. A Conway, che lo vedeva per la prima volta, apparve come una visione fluttuante al di là del ritmo insolito in cui la rarefazione dell'aria aveva ristretto tutte le sue facoltà. E veramente era uno spettacolo strano e quasi incredibile. Un gruppo di edifici
variamente colorati stava saldamente sul fianco del monte non con la severa tenacia di certi castelli sul Reno, ma piuttosto con la grazia di petali sparsi su una rupe rocciosa. Scenario superbo e affascinante. Si provava un'emozione così austera, che lo sguardo era irresistibilmente attratto in alto, e non si stancava di posarsi ora sui tetti di un azzurro lattiginoso ora sul grigio bastione di roccia, spaventoso quanto il Wetterhorn sopra il Grindelwald. e dietro a questo, in smagliante piramide, si ergevano i pendii nevosi del Karakal. un paesaggio montano più orrido, pensava Conway, non poteva esistere sulla terra; e immaginava quale immensa mole di neve e di ghiaccio la roccia dovesse arginare. Si mise a fantasticare sulle probabilità che un giorno l'intera montagna si spezzasse in due e metà dello splendore gelido del Karakal rovinasse nella valle; e si domandò se le scarse probabilità di quella rovina sommate col terrore della possibile tragedia potessero costituire per qualcuno qualc osa di piacevolmente eccitante. Di non minore interesse era la vista verso il basso, perché la parete del monte continuava a cadere a picco entro una voragine, originata forse da un remotissimo cataclisma. E, nel fondo, una valle pianeggiante, velata e lontana, tutta verde, riparata dai venti, dominata o, meglio, vigilata dal monastero, parve a Conway un sito privilegiato, anche se dal lato opposto alte e inaccessibili catene obbligavano al più completo isolamento gli abitanti, ammesso che la valle ne avesse. Soltanto verso il mo nastero v'era l'apparenza di qualche possibile uscita. Guardando giù, Conway provò una certa apprensione - i presentimenti di Mallinson non erano del tutto trascurabili. Ma fu una sensazione momentanea, subito superata da un'altra più profonda, metà spirituale e metà reale: quella di avere
finalmente raggiunto la meta. Più tardi non ricordò mai con esattezza in che modo lui e i suoi compagni fossero giunti al monastero, né chi li avesse accolti, slegati, introdotti. L'aria sottile, di una trasparenza irreale in armonia con l'azzurro porcellana del cielo, e ogni respiro, ogni sguardo, gli avevano dato un'impronta così profonda da renderlo insensibile tanto all'insofferenza di Mallinson quanto all'arguzia di Barnard e allo spettacolo di Miss Brinklow, modesta signora ormai pronta a tutto. Ricordava appena di aver provato una grande sorpresa nel trovarsi in locali ampi, ben riscaldati e puliti, ma che il tempo di osservare era stato brevissimo perché il cinese, non più in portantina e parlando in modo molto affabile, faceva da guida attraverso le anticamere. "Debbo scusarmi" disse, "per avervi lasciati a voi stessi durante il tragitto, ma vi confesso che viaggi di questo genere non sono per me e che devo aver cura della mia salute. Spero che non vi sentiate troppo stanchi". "Ce la siamo cavata" rispose Conway con un sorriso sbadato. "Benissimo. E ora se venite con me, vi mostrerò le vostre stanze. Credo che un bagno vi farà piacere. Qui tutto è semplice, ma spero che non mancherà nulla. A questo punto Barnard, che soffriva ancora per la mancanza di fiato, si abbandonò a un asmatico gorgoglio. "Ebbene" soffiò, "non posso ancora dire che il clima mi piaccia; mi pare che l'aria mi schiacci il petto; ma avete davvero una vista meravigliosa dalle finestre della facciata. Dobbiamo far la fila per il bagno, o questo è un albergo americano?". "Credo che tutto sarà di vostro gradimento, Mr' Barnard".
Miss Brinklow assentì con aria affettata: "Lo spero anch'io". "E dopo" continuò il cinese, "sarò molto onorato se vorrete tutti pranzare con me". Conway accettò cortesemente. Solo Mallinson, di fronte a un cerimoniale così ameno, non aveva dato segni del suo parere; soffriva ancora, come Barnard, per l'altezza; ma con uno sforzo trovò fiato per esclamare: "E dopo, se non le dispiace, ci accingeremo a fare anche i nostri preparativi per andarcene. Per parte mia, più presto sara, meglio sarà".
Iv "Vedete dunque" diceva Chang, "che siamo meno barbari di quanto vi aspettavate...". Riflettendo a sera inoltrata su queste parole, Conway non trovò niente da obiettare. Si sentiva in tale stato di benessere fisico e, insieme, di lucidità mentale, che mai aveva avuto la sensazione di un equilibrio così perfetto. Fino a quel momento l'organizzazione di ShangriLa era quanto di meglio si potesse desiderare; superiore certo alle sue aspettative. Che un monastero tibetano possedesse un impianto di riscaldamento centrale non costituiva poi un fatto così straordinario in un'epoca in cui anche Lhasa era fornita di telefoni, ma la cosa più singolare era che vi si trovasse ancora con la tecnologia per l'igiene occidentale molto tradizionalismo d'Oriente. Per esempio il bagno in cui s'era immerso poco prima era di una fine ceramica verde di Akron, Ohio, come diceva la scritta. Ma il servitore l'aveva lavato alla maniera cinese, pulendogli le narici e le orecchie, e passandogli sotto le palpebre un fine lembo di seta.
Si era chiesto se i suoi compagni avessero ricevuto le stesse attenzioni e in che modo le avessero accolte. Conway aveva vissuto in Cina per dieci anni, e sempre nelle maggiori città, eppure quel tempo era stato per lui forse il più lieto della sua vita. I cinesi gli piacevano, e gli piacevano le loro abitudini, specialmente la cucina cinese, co n tante sottili sfumature di gusti; perciò il suo primo pasto a ShangriLa lo aveva ricondotto in un'atmosfera già familiare e bene accetta. Non si stupì dunque troppo quando gli venne il sospetto che i cibi potessero contenere qualche erba o droga per regolare il respiro, perché notava non solo qualcosa di diverso in se stesso, ma anche nei compagni un maggiore sollievo. Osservò che Chang non mangiava che poca insalata verde, e non beveva vino. "Mi scuserete", aveva spiegato in principio, "ma il mio regime è assai rigoroso: debbo aver cura della mia salute". Era la stessa ragione da lui addotta prima, e Conway cercò di immaginare di quale malattia soffrisse. Guardandolo più da vicino trovò difficile indovinare la sua età: i tratti del volto minuti e imprecisi, la pelle quasi di umida argilla gli davano un'apparenza che poteva esser quella di un giovane prematuramente invecchiato, o di un vecchio molto ben conservato. Dato il tipo, era simpatico; una certa cortesia formale gli aleggiava intorno, paragonabile a un profumo troppo fine che si avverta sol tanto dopo che è già svanito: la sua veste di seta azzurra tutta ricami e aperta ai lati, coi calzoni stretti alla caviglia, anch'essi di un color cielo all'acquarello, aveva una fresca grazia metallica che Conway trovava piacevole; come trovava di suo gusto quell'atmosfera più cinese che tibetana, perché gli dava una gradevole sensazione di trovarsi a casa sua. Ma sapeva benissimo che i tre compagni non erano dello stesso
parere. Anche la camera gli andava a genio; era di perfette proporzioni, sobriamente tappezzata e adorna di qualche r affinato oggetto di lacca. La luce veniva da lanterne di carta, immobili nell'aria calma. Conway provava un senso di riposo della mente e del corpo, e ripensando alla possibilità di qualche droga calmante ammannita nei cibi non sentiva nessuna apprensione. Di qualunque cosa si trattasse, ne era derivato un sollievo al corto respiro di Barnard e all'impertinenza di Mallinson: avevano entrambi pranzato bene, pensando più a mangiare che a parlare. Anche Conway si era seduto a tavola con una gran fame, ma non gli era spiaciuto che l'etichetta cinese imponesse in materia così importante approcci graduali. Non avendo mai avuto il desiderio di affrettare le situazioni che recano godimento per se stesse, questo sistema gli andava bene. E fu soltanto dopo aver acceso una sigaretta che cedendo un po' alla curiosità, disse a Chang: "Sembrate una comunità molto fortunata; e ospitale verso gli stranieri. Però immagino che non ne vedrete spesso". "Raramente, è vero" rispose il cinese con un certo sussiego. "Questa è una parte del mondo poco frequentata". Conway sorrise. "Arrivando, ho avuto l'impressione d'aver raggiunto il luogo più isolato che si possa immaginare. Qui una cultura a basi proprie potrebbe fiorire senza esser contaminata dal m ondo esterno". "Contaminata, dice?". "Uso questa espressione per indicare le musiche da ballo, il cinema, le réclame luminose, e così via. Il vostro impianto per l'acqua calda è veramente dei più moderni: l'unica cosa effettivamente apprezzabile, secondo me, che l'Oriente possa portar via all'Occidente. Penso spesso che i romani erano fortunati: la loro
civiltà arrivò fino ai bagni caldi senza dover fare la conoscenza delle macchine". Conway tacque. Aveva parlato con una facilità improvvisa che, pur essendo spontanea, aveva soprattutto lo scopo di avviare il discorso su un dato argomento e dirigerne gli sviluppi. In questo riusciva benissimo. E se non fosse stato il timore di mancar di rispetto verso ospiti tanto cortesi, sarebbe diventato senz'altro più sfacciatamente curioso. Miss Brinklow, invece, non aveva tali scrupoli. "Prego" disse, - e il tono nient'affatto gentile corrispondeva ben poco alla parola - "vuole parlarci del monastero?". Chang sollevò adagio le sopracciglia come se volesse con bel garbo deprecare tanta fretta. "Lo farò col più gran piacere, signora, per quanto mi sarà possibile. Che cos'è che desidera sapere?". "Prima di tutto in quanti siete qui, e a quali nazionalità appartenete?". Era chiaro che la sua mente ordinata funzionava con lo stesso rigore come alla missione di Baskul. Chang rispose: "Circa cinquanta di noi sono già Lama interamente iniziati; e ve ne sono altri che, come me, non hanno ancora raggiunto la completa iniziazione. Speriamo che ciò accada entro il tempo necessario. Fino a quell'epoca saremo come coloro che voi chiamate postulanti. Riguardo alle diverse razze, abbiamo rappresentanti di moltissime nazioni, benché la maggioranza logicamente consti di cinesi e di tibetani". Miss Brinklow, che in tutte le cose aveva sempre bisogno di giungere a una conclusione, anche se errata, disse: "Capisco. Si tratta realmente di un monastero indigeno. E il vostro Gran Lama è
tibetano o cinese?". "Le spiegherò più tardi". "Vi sono degli inglesi?". "Parecchi". "Questo è strano". Miss Brinklow sostò un attimo a prender fiato e proseguì: "E ora mi dica quali sono le vostre credenze". Conway si appoggiò alla spalliera sicuro di divertirsi. Osservare l'urto di mentalità opposte gli era sempre piaciuto; e ora quell'ingenuità di ragazza esploratrice applicata alla filosofia del lamaismo gli prometteva un bello spasso. Siccome però non desiderava che il suo ospite se ne impressionasse: "Questa è una questione un po' complessa" disse per temporeggiare. Ma Miss Brinklow non l'intendeva così. Il vino, che aveva reso più calmi gli altri, pareva averle dato una nuova vitalità. "Naturalmente io credo nella vera religione" disse con gesto magnanimo, "ma ho la mente abbastanza aperta per ammettere che altri - forestieri, beninteso - possano essere assolutamente sinceri nelle loro credenze. In particolare non penso che in un monastero si possa trovare che ho ragione io". Questa concessione provocò un inchino da parte di Chang. "E perché no, signora?" replicò nel suo inglese fiorito e preciso. "Dobbiamo forse ritenere che perché una religione è vera, tutte le altre siano false?". "Ma mi sembra ovvio, no?". Conway s'interpose nuovamente. "Credo che il meglio sarebbe non discutere. Ma Miss Brinklow ha la mia stessa curiosità intorno a questa vostra comunità veramente unica". Chang rispose con lentezza, quasi sussurrando le parole: "Se
dovessi dirvelo in breve potrei definire la nostra principale credenza così: moderazione. Noi inculchiamo la virtù di evitare eccessi di qualunque specie; persino, perdonatemi il paradosso, eccessi di virtù. Nella vallata che avete visto e dove parecchie migliaia di abitanti vivono sotto il controllo del nostro ordine monastico abbiamo sperimentato che questo principio è la fonte di uno speciale grado di felicità. Noi governiamo con moderata severità, e siamo soddisfatti di un'obbedienza altrettanto moderata. E posso assicurarvi che la nostra gente è moderatamente sobria, moderatamente casta, e moderatamente onesta". Conway sorrise. Tutto ciò era stato espresso bene, e queste affermazioni coincidevano col suo temperamento. "Credo di capire. Gli uomini che ci hanno accompagnato questa mattina appartengono alla vostra vallata, vero?". "Sì. Spero che non avrete avuto da lagnarvene durante il viaggio". "Affatto. Ora però mi rallegro con me stesso che la loro abilità e sicurezza fossero un po' più che moderate. Ma questa regola della moderazione che si applica a loro si riferirà pure alla vostra comunità, immagino". Chang scosse il capo. "Mi dispiace, signore, che abbia toccato un argomento su cui non posso intrattenerla. Sappia soltanto che la nostra comunità ammette fedi e abitudini varie, ma la maggior parte di noi è eretica soltanto moderatamente. Mi rincresce di non poterle dire di più". "Non si scusi, per carità. Sono felice di potermene restare con la più interessante delle congetture". Ma il suono della sua voce e quel che provava dentro, rinnovarono in Conway l'impressione di esser stato leggermente ingannato. Sembrò dello stesso parere anche
Mallinson, benché cogliesse la palla al balzo per osservare: "Tutto questo è stato molto interessante, ma mi sembra tempo di cominciare a far progetti per il nostro ritorno. Quanti portatori potete fornirci?". Questa domanda, così pratica e chiara, rivolta al cinese, incontrò la solita superficie di soavità e non trovò appoggio. Dopo un intervallo abbastanza lungo venne la risposta di Chang: "Sfortunatamente, Mr' Mallinson, io non sono la persona adatta per dirglielo. Ma in ogni caso non credo che la faccenda possa venir sistemata subito". "Ma si deve fare qualcosa! Abbiamo tutti occupazioni e impegni... chissà i nostri parenti e amici come staranno in pena per noi! Dobbiamo assolutamente tornare. Le siamo obbligati per l'ottima ospitalità, ma non possiamo più restare qui a far niente. Se può farci partire domani al più tardi, ne saremo felici. Quelli, fra i suoi uomini, che saranno disposti a scortarci non avranno a pentirsene". Mallinson terminò nervosamente, come se fosse rimasto deluso di non esser stato interrotto, ma non poté ottenere da Chang che un tranquillo rimprovero: "Gliel'ho detto, tutto ciò non dipende da me". "No? Ad ogni modo potrà, credo, far qualcosa. Prestarci una buona carta del paese, per esempio, sarebbe già un aiuto. Dovendo fare un lungo viaggio, è consigliabile partire al più presto. Avrete delle carte, immagino". "Sì, moltissime". "Allora ce ne presti qualcuna, la prego. Gliela restituiremo alla prima occasione; delle relazioni col mondo esterno ne avrete, di quando in quando, io credo. E sarebbe pure una buona idea spedire
subito qualche messaggio per rassicurare i nostri amici. Quanto è distante la più vicina linea telegrafica?".
La faccia rugosa di Chang pareva aver acquistato una espressione intensa di pazienza, ma non venne nessuna risposta. Mallinson aspettò un momento, poi continuò: "Insomma, dove vi rivolgete quando vi occorr e qualcosa? Qualcosa che provenga da paesi civili". Nella sua voce e nei suoi occhi comparve uno spavento nuovo. Spinse indietro la sedia e si alzò. Era pallido, e si passava con fatica la mano sulla fronte. "Sono così stanco" balbettò guardandosi intorno. "Mi pare che nessuno di voi voglia aiutarmi. Risponda almeno a una domanda, la più semplice che possa farle. Come sono arrivate qui quelle moderne vasche da bagno?". Seguì un altro silenzio. "Allora non mi si vuol rispondere. Sarà uno dei tanti misteri. Ma è possibile che lei, Conway, sia così apatico? Perché non cerca di capire la verità?... Adesso ho esaurito tutte le mie forze, ma domani, badi, domani dobbiamo andarcene, è necessario...". Sarebbe caduto a terra se Conway non l'avesse sostenuto e aiutato a sedere. Si riprese un poco, ma non parlava. "Si sentirà meglio domani" disse Chang dolcemente. "Quest'aria da principio fa un po' soffrire chi non c'è abituato, ma è questione di giorni". A Conway stesso pareva di aver sognato. "Sono state prove dure per lui" disse c almo con tono di compassione. "Del resto, ce ne siamo accorti un po' tutti; sarebbe meglio rinviare la discussione e andarcene a letto. Barnard, vuole
occuparsi di Mallinson? Sono sicuro che anche lei, Miss Brinklow, ha bisogno di riposo". Qualcuno doveva aver dato un segnale perché comparve un servo: "Sì, tutto andrà bene, buona notte, buona notte. Vi raggiungerò presto". Li spinse quasi fuori della stanza; poi, con poca cortesia, in marcato contrasto coi suoi modi di prima, si volse all'ospite. Era spronato dal rimprovero di Mallinson: "Non voglio trattenerla a lungo, signore, perciò vengo subito al punto. Il mio amico è vivace, ma non lo biasimo; ha ragione di voler le cose chiare. Noi dobbiamo organizzare il viaggio di ritorno; e non possiamo farlo senza l'aiuto suo o di qualcun altro del monastero. Capisco benissimo che non è possibile partire domani, e per parte mia un breve soggiorno qui può essere interessantissimo; non altrettanto per i miei compagni, a quel che sembra. Perciò, se come dice, lei non può far nulla, la prego di metterci in contatto con qualcun altro che sia in grado di aiutarci". Il cinese rispose: "Lei è più saggio dei suoi amici, caro signore, e perciò meno impaziente. Mi fa piacere". "Questa non è una risposta". Chang si mise a ridere, di un riso così stridente, così acuto, così forzato che Conway vi riconobbe quella educata pretesa di scherzo immaginario con cui i cinesi se la cavano nei momenti difficili. "Le assicuro che non avete motivo di preoccuparvi" rispose finalmente Chang con molto ritardo. "Al momento giusto vi daremo tutto l'aiuto di cui avete bisogno. Vi saranno delle difficoltà, si capisce, ma se affronterete il problema sensatamente, e senza un'inutile fretta...". "Io non pretendo di fare in fretta. Chiedo soltanto informazioni
circa i portatori". "Ebbene, caro signore, questa è una questione a parte. Io dubito assai che possiate trovare facilmente degli uomini pronti a intraprendere un tale viaggio. Hanno le loro case nella valle, e non desiderano lasciarle per gite lunghe e faticose lontano di qui". "Si può però indurli a farlo; in caso contrario, dovrò chiederle per qual motivo e verso quale meta la accompagnavano questa mattina". "Questa mattina? Ah, si trattava di una cosa ben diversa". "Diversa in che? Non stava per iniziare un viaggio quando io e i miei compagni la abbiamo incontrata?". Chang non rispose, e Conway continuò con voce più calma: "Capisco. Non è stato un incontro casuale. Me l'ero già quasi immaginato, sa. E' dunque venuto ad incontrarci deliberatamente. Se è così doveva sapere in anticipo che stavamo per giungere. E allora ecco il punto interessante della questione: in che modo lo sapeva?". Le sue parole portarono una nota di forza nella quiete paradisiaca dell'ambiente. La faccia del cinese, illuminata dalla lanterna, continuò ad apparire calma e statuaria. All'improvviso, con un piccolo gesto della mano, Chang ruppe la tensione; facendo scorrere una tenda di seta svelò una porta a vetri che metteva su un balcone. Poi prese sottobraccio Conway e lo guidò nella fredda aria cristallina. "Lei è perspicace" disse come in sogno, "ma non ha del tutto ragione. Perciò le consiglio di non preoccupare i suoi amici con queste discussioni astratte. Mi creda, non c'è nessun pericolo né per lei né per loro a ShangriLa". "Ma non è del pericolo che ci preoccupiamo. E' del ritardo". "Giustissimo. Ma un certo ritardo è i nevitabile".
"Se si tratta di poco, e non se ne può proprio fare a meno, cercheremo di adattarci". "Ecco un'idea molto sensata; perché noi desideriamo soprattutto che il vostro soggiorno qui sia per lei e per i suoi compagni una gioia continua, minuto per minuto". "La ringrazio; e le ripeto che io, personalmente, mi ci trovo benissimo: sarà una nuova e interessante esperienza; e del resto, poi, un po' di riposo ogni tanto fa bene". Guardava in alto verso la lucente piramide del Karakal. in quel momento, illuminata dalla luce della luna, dava l'illusione di poterla toccare con mano, tanto era chiara contro l'azzurra immensità. "Domani" disse Chang, "vi sembrerà forse ancor più interessante. E in quanto a riposarsi, se è stanco, non troverà molti luoghi al mondo migliori di questo". Mentre Conway continuava ad ammirare lo spettacolo, si sentiva immerso in una calma sempre più pr ofonda, come se quello scenario parlasse alla mente oltreché allo sguardo. A contrasto con la furiosa burrasca della notte precedente, adesso non c'era quasi alito di vento; e la valle gli si rivelava come un rifugio ben coltivato che il Karakal dominava a guisa di faro. Il paragone gli parve ancor più appropriato quando s'accorse che in vetta c'era davvero una luce, un raggio biancoazzurro di ghiaccio non meno intenso dello splendore che rifletteva. Istintivamente volle conoscere il vero significato di quel nome, e la risposta di Chang gli giunse come una lontana eco del suo fantasticare. "Karakal, nel dialetto della valle, vuol dire Luna Azzurra". Conway non palesò affatto ai compagni la sua convinzione che il
loro arrivo a ShangriLa fosse stato in qualche modo atteso dagli abitanti del monastero. Capiva la gravità della cosa e sentiva di dover parlare, ma al mattino dopo la preoccupazione era diventata soltanto teorica, e non volle esser la causa di altri assilli per i suoi compagni. Ma dentro qualcosa tornava a ripetergli con insistenza che il luogo aveva qualcosa di strano e di misterioso, che il modo di fare di Chang, la sera prima, non era stato rassicurante, che essi si trovavano virtualmente prigionieri e lo sarebbero stati finché le autorità non avessero fatto qualcosa per loro. Era dunque suo dovere indurle all'azione. Dopo tutto egli era un rappresentante del Governo Britannico, e gli abitanti di un monastero tibetano respingendo una sua giusta richiesta commettevano una vera e propria iniquità... Questa sarebbe stata certo la normale veduta ufficiale, e un lato della personalità di Conway si conservava appunto normale e ufficiale. Nessuno sapeva fare meglio di lui l'autoritario; durante i difficili giorni precedenti l'ordine di sgombero si era condotto in modo (lo riconosceva con rigorosa imparzialità) da meritare non meno di un cavalierato e di un libro Henty, premio scolastico, intitolato Con Conway a Baskul. aver assunto la responsabilità di guidare alcune decine di borghesi tra cui donne e bambini; averli fatti rifugiare in un piccolo Consolato durante una sanguinosa rivoluzione diretta da agitatori xenofobi, e aver minacciato e lusingato i rivoluzionari affinché permettessero una generale evacuazione aerea, non era certo una cosa da poco. Forse manovrando abilmente i fili e scrivendo rapporti interminabili avrebbe potuto far saltare fuori da tutto ciò qualcosa di buono nella lista "ricompense" di Capodanno. In ogni modo si era conquistato la fervida ammirazione di Mallinson. sfortunatamente il giovane doveva provare adesso una grave
disillusione. Peccato; ma ormai Conway ci s'era abituato, a suscitare ammirazione proprio perché la gente lo credeva diverso. La sua natura non era affatto quella dell'uomo risoluto, dalle forti mascelle, pronto con martello e tenaglie a costruire un impero; anziché eroe da poema epico era piuttosto l'autore di una commediola in un atto, ripetuta di quando in quando col consenso del fato e del Foreign Office, e per uno stipendio che chiunque poteva conoscere sfogliando le pagine dell'Annuario di Whitaker. La verità era che l'enigma di ShangriLa e dell'arrivo al monastero cominciava ad esercitare su di lui un fascino singolare. Nessuna preoccupazione personale, intanto; come funzionario del Ministero degli Esteri poteva in qualunque momento esser mandato nelle più diverse e strane parti del mondo, e, in generale, più erano strane e meno ci si annoiava: perché, dunque, brontolare se un incidente aveva mandato lui in questo stranissimo luogo, invece di mandarci un novellino? Ma a brontolare non ci pensava nemmeno. Quando al mattino si alzò e vide dalla finestra quel cielo di lapislazzuli, non avrebbe preferito trovarsi in nessun altro luogo della terra, né a Peshawar, né a Piccadilly. E fu contento di constatare che una notte di riposo aveva avuto un benefico effetto anche sugli altri. Barnard criticava amenamente i bagni, i letti, e altre piacevolezze di quel luogo ospitale. Miss Brinklow confessò che malgrado avesse frugato dappertutto, il suo appartamento non presentava nessuna delle manchevolezze a cui aveva pensato di dover adattarsi. Anche il tono di Mallinson rivelava un'imbronciata soddisfazione. "Immagino che per oggi non si partirà" brontolò, "se non ci sarà qualcuno un po' sveglio che se ne occupi. Questa gente è tipicamente
orientale; impossibile ottenere da loro qualcosa di sbrigativo e di ben fatto!". Conway lasciò correre. Quel giudizio categorico Mallinson lo dava dopo un solo anno passato all'estero, come lo avrebbe probabilmente ripetuto dopo venti; e fino a un certo punto aveva ragione. Ma non era possibile invece che non loro, le razze orientali, fossero particolarmente lente, ma piuttosto - pensava Conway - fossero gli inglesi e gli americani a galoppare per il mondo in un continuo e assurdo stato febbrile?... Certo non gli sarebbe riuscito di far accettare questo punto di vista a un collega d'Occidente, ma per conto suo, col passare degli anni e con l'esperienza, se ne convinceva sempre più. D'altra parte doveva anche ammettere che Chang era un arzigogolatore sottile, e che quindi l'insofferenza di Mallinson non era del tutto ingiustificata. Per far piacere al suo giovane compagno, avrebbe desiderato di potersi mostrare impaziente in ugual misura; invece si limitò a dire: "Credo che sia meglio star a vedere cosa accadrà. Sperare che facessero qualche cosa fin da ieri sera sarebbe stato un eccesso di ottimismo". Mallinson lo guardò: "Forse ieri sera sono stato uno sciocco a sollecitare così?... Non ho potuto farne a meno, quel cinese mi pareva così subdolo... e mi pare ancora. E' riuscito a tirargli fuori un po' di buon senso, dopo che noi siamo andati a letto?". "Non abbiamo parlato a lungo. Era così vago nei suoi discorsi... non voleva compromettersi". "Ma oggi lo faremo cantare". "Certamente" approvò Conway, senza entusiasmo. "Intanto questa è una colazione eccellente". C'era pompelmo, tè, e po i tartine,
preparate e servite alla perfezione. Verso la fine del pasto entrò Chang, e fatto un piccolo inchino cominciò a scambiare i soliti convenzionali saluti, che in lingua inglese suonavano come roba d'altri tempi. Conway avrebbe parlato volentieri cinese, ma preferì non rivelare ancora la sua conoscenza di lingue orientali: più tardi sarebbe stata una buona carta in mano. Ascoltò gravemente le cortesie di Chang e lo assicurò che avevano dormito bene e che si sentivano molto meglio. Chang espresse soddisfazione per queste buone notizie e aggiunse: "Dice bene il vostro poeta nazionale; il sonno rimette in ordine il confuso groviglio delle preoccupazioni". Questa ostentata erudizione non fu accolta con troppo entusiasmo. Mallinson rispose col tono un po' sprezzante che ogni giovane inglese di mente sana trova subito appena sente parlare di poesia. "Credo che lei alluda a Shakespeare, benché non riconosca la citazione. Ma ne so un'altra che dice: Al comando di andare non indugiate; andate subito. Ecco, a costo di sembrarle maleducato, quello che io e i miei compagni vorremmo fare. E io desidero cercar subito questi benedetti portatori; questa mattina stessa, se non ha niente in contrario". Il cinese ricevette impassibile quest'ultimatum, e poi rispose: "Mi rincresce doverle dire che non servirebbe a nulla. Qui, uomini disposti ad accompagnarvi tanto lontano, temo che non ne troverete". "Ma, signore, non crederà che ci contenteremo di questa risposta?...". "Me ne dispiace sinceramente, ma non posso dargliene altra". "Si direbbe che l'abbia messa insieme stanotte" intervenne Barnard. "Non era così esplicito ieri sera". "Per non darvi un dispiacere mentre eravate già così abbattuti dal
viaggio. Ora, dopo una notte di riposo, spero che vedrete le cose sotto un aspetto più ragionevole". "Senta" interruppe con vivacità Conway, "questa incertezza e questa prevaricazione non vanno. Sa benissimo che no n possiamo restar qui indefinitamente. Ed è pure chiaro che non possiamo andarcene con mezzi nostri. E allora, che cosa propone?". Chang ebbe un luminoso sorriso, palesemente diretto al so lo Conway. "Caro signore, è per me un piacere poterle esporre un'idea che m'è venuta in mente. Non c'era nessuna risposta all'atteggiamento del suo amico, ma ce n'è sempre una alla domanda di un uomo saggio. Se ricorda, si parlò ieri sera della necessità che abbiamo di comunicare qualche volta col mondo esterno. E' verissimo. Di tanto in tanto ci occorrono varie cose da depositi lontani, e ce le facciamo mandare al momento giusto, non è necessario che io le dica con quali mezzi e sistemi. Uno di questi invii di merci è atteso fra poco, e siccome gli uomini che le porteranno dovranno poi ritornare, mi sembra che potreste cercare di accodarvi a loro. Non saprei, veramente, proporle niente di meglio, e spero, quando arriveranno...". "Ma quando arriveranno?" interruppe secco Mallinson. "La data esatta, naturalmente, non si può prevedere. Le difficoltà di muoversi in questa parte del mondo le avete sperimentate voi stessi. Possono capitare cento imprevisti... Il cattivo tempo...". Conway intervenne di nuovo. "Spieghiamoci una volta per tutte. Lei ci propone, come portatori, degli uomini che dovranno arrivare qui fra poco con le vostre mercanzie. Buona idea; ma non basta. Prima di tutto, e gliel'abbiamo già chiesto, per quando aspettate questa gente? E poi, vorranno riaccompagnarci?". "Questa domanda dovrete farla a loro".
"E ci condurrebbero proprio in India?". "E' materialmente impossibile che io possa dirvelo". "Ebbene, risponda allora alle altre domande. Quand'è c he saranno qui? Non le chiedo una data, voglio solo rendermi conto se sarà la settimana prossima o l'anno prossimo". "Potrebbe essere fra un mese circa. Probabilmente non più t ardi di due mesi". "O tre, o quattro, o cinque mesi" interruppe con ardore Mallinson. "E crede forse che noi aspetteremo qui questa carovana, o cosa diavolo sarà, che ci porti Dio sa dove, in un'epoca di là da venire?". "Penso, signore, che la frase "di là da venire" non sia del tutto appropriata. A meno che non accada qualche imprevisto, il vostro periodo d'attesa dovrebbe durare press'a poco quanto vi ho detto". "Ma due mesi! Due mesi in questo paese! E' assurdo! Conway, non vorrà mica... Due settimane sarebbero già troppe!". Chang raccolse le pieghe dell'ampia veste con un piccolo gesto deciso. "Mi rincresce. Non intendevo offendervi. Il monastero continuerà ad offrire a tutti voi la sua migliore ospitalità per tutto il tempo che avrete la sventura di rimanervi. Non so cosa dirvi di più". "Non occorre" ribatté Mallinson furioso. "E se c rede di aver la frusta per il manico contro di noi, vedrà presto che si è solennemente sbagliato. Troveremo tutti i portatori che vogliamo, no n dubiti. Si inchini pure, strisci, dica quel che vuole...". Conway lo agguantò per il braccio per farlo tacere. Quando Mallinson andava in collera, sembrava un bambino; qualunque cosa gli venisse in mente la diceva senza pensare all'effetto che avrebbe
prodotto. Era fatto così; e Conway lo avrebbe compatito anche questa volta, se non ci fosse stato il pericolo di offendere la delicatissima suscettibilità di un cinese. Ma fortunatamente Chang, con tatto ammirevole, se l'era svignata in tempo per non sentire il peggio.
V Trascorsero il resto della mattinata discutendo. Era c ertamente un colpo inaspettato dover passare due mesi in un monastero del Tibet, mentre avrebbero potuto fin da allora godersi gli agi dei club e delle missioni di Peshawar. ma dopo l'emozione iniziale dell'arrivo, le forze per indignarsi o stupirsi erano molto diminuite; Mallinson stesso dopo la prima sfuriata, s'era adagiato in una specie di fatalismo stupefatto. "Non ho più la forza di discutere" disse fumando nervosamente una sigaretta. "Lei sa quel che provo, Conway. Fin da principio mi sono accorto che questa faccenda era molto strana. Ora è meno chiara che mai, e vorrei già esserne fuori". "Non le do torto" rispose Conway. "Purtroppo nessuno di noi può esserne soddisfatto, ma dobbiamo adattarci agli avvenimenti. Se questa gente non vuole o non può fornirci portatori indigeni, bisognerà attendere gli altri, quelli che devono arrivare. Mi costa dover ammettere che non siamo liberi di agire, ma temo che sia la verità". "Intende dire che dovremo stare qui due mesi?". "Non so cos'altro potremmo fare". Mallinson scosse la cenere della sigaretta con un gesto di calma forzata.
"E va bene. Diciamo due mesi, e gridiamo tutti insieme: Hurrà!". Conway seguitò: "Non vedo perché dovrebbe esser peggio qui che in qualunque altra regione solitaria. Nel nostro mestiere si può esser sbalzati da un momento all'altro nelle residenze più insolite; credo che ci sia abituato anche lei come me, no? Certo non è simpatico per chi ha parenti e amici. Io, personalmente, sono fortunato, perché non saprei proprio chi dovrebbe preoccuparsi del mio destino; e quanto al lavoro potranno subito sostituirmi". Si voltò verso i compagni come per invitarli a dire il loro caso. Mallinson non parlò, ma Conway conosceva già press'a poco la sua condizione. Aveva in Inghilterra i genitori e la fidanzata: difficile dunque, per lui, rassegnarsi. Invece Barnard accettò la situazione col solito buon umore. "Ma sì, non è poi una gran disgrazia, per me. Due mesi di penitenziario non mi porteranno mica alla tomba! E in quanto ai miei concittadini chi se ne accorgerà?... non sono mai stato famoso per scriver lettere". "Oh, ci penseranno i giornali a dare la notizia! Pubblicheranno nome e cognome di tutti e quattro" gli fece osservare Conway. "Ma ci daranno per dispersi, e la gente come al solito penserà al peggio". Barnard sul momento parve colpito; poi rispose con un sogghigno: "Sì, sì, è vero; ma per me è indifferente, gliel'assicuro". Benché la cosa gli sembrasse un po' strana, Conway ne fu soddisfatto. Si volse allora a Miss Brinklow, che essendo rimasta silenziosa persino durante il colloquio co n Chang, poteva avere qualche preoccupazione personale. Ma rispose subito e vivacemente: "Per due soli mesi, come ha detto Mr' Barnard, non bisogna prendersela troppo a cuore. Quando si è al servizio di Dio, in
qualunque luogo ci si trovi fa lo stesso. Questa io la considero una chiamata divina. E' la Provvidenza che mi ha mandato qui". Conway trovò questo modo di pensare molto opportuno, date le circostanze. "Sono sicuro che al suo ritorno" disse incoraggiante, "la società missionaria da cui dipende sarà molto contenta di lei. Potrà fornire informazioni utilissime. Tutti quanti, del resto, stiamo imparando qualcosa. Il che dovrebbe esserci di conforto". La conversazione si ravvivò ora da parte di tutti. Conway, vedendo non senza stupore Barnard e Miss Brinklow facilmente adattati a lla nuova prospettiva, si sentì molto sollevato: sarebbe rimasta così una sola persona di malumore con cui trattare. Ma anche Mallinson, pur essendo ancora turbato, appariva più disposto a vedere il lato migliore delle cose. "In che modo riusciremo a far passare il tempo lo sa il Cielo" esclamò, ma bastava questa osservazione a dimostrare che stava riconciliandosi con se stesso. "Prima di tutto dobbiamo evitare di urtarci i nervi a vicenda" consigliò pronto Conway. "Per fortuna qui c'è molto spazio e poca gente. Se togliamo i servi, abbiamo visto finora uno solo degli abitanti di ShangriLa". Barnard aveva un altro motivo per essere ottimista. "In ogni caso, se i pasti consumati finora sono un saggio della cucina, non moriremo di fame. Sa, Conway? questa bottega non marcerebbe così se non ci fossero molti quattrini. Quei bagni, per esempio, chissà quanto costano. E non vedo nessuno qui che guadagni; a meno che lavorino molto altri individui giù nella valle... ma ad ogni modo non potrebbero mai produrre tanto per un commercio di
esportazione. Mi piacerebbe sapere se estraggono qualche minerale". "Tutto è mistero profondo, qui" rispose Mallinson. "Scommetto che hanno denaro nascosto a sacchi, come i Gesuiti. E i bagni saranno un regalo di qualche patrono milionario. Sia quel che sia, appena partito non me ne preoccuperò più. Però, in effetti, devo dire che la vista nel suo genere è piuttosto bella. Che magnifici sport invernali, se fossimo in un centro attrezzato. Chissà se è possibile sciare su quei pendii lassù?!". Conway gli diede un'occhiata eloquente e un po' scherzosa. "Ieri, quando trovai quegli edelweiss, mi ha ricordato che non eravamo sulle Alpi. Credo che ora tocchi a me dirle la stessa cosa. Non le consiglierei di provare i suoi bei salti e acrobazie in questa parte del mondo". "Qui nessuno deve aver mai visto un bel salto con gli sci". "E neppure una gara di hockey su ghiaccio" rispose gaio Conway. "Si potrebbe tentare di formare qualche squadra. "Gentlemen" contro "Lama"... che ne direste?". "Faremmo vedere loro come si gioca!" interruppe Miss Brinklow con una serietà folgorante. Commentare adeguatamente questa frase sarebbe stato difficile; ma per fortuna non ce ne fu bisogno perché furono distratti dalla colazione, servita con rapidità e modi estremamente interessanti. E quando più tardi entrò Chang, nessuno ebbe più voglia di rimettersi a litigare. Il cinese, con molto tatto, si comportò come se fosse in ottimi rapporti con tutti, e i quattro esiliati lo assecondarono. Ancora di più: quand'egli accennò che forse una visita al monastero non sarebbe loro dispiaciuta e che in tal caso era pronto a far da guida, l'offerta fu subito accettata.
"Sicuro" disse Barnard, "già che siamo sul posto è meglio farcene un'idea subito. Tanto più che dopo dovrà passarne del tempo, prima che ci decidiamo a venirvi a trovare una seconda volta!". Miss Brinklow cercò di mitigare un poco l'uscita di Barnard: "Quando siamo partiti in aereo da Baskul non avrei certo mai immaginato che saremmo giunti in un luogo come questo" mormorò mentre tutti s'incamminavano guidati da Chang. "E ancora non ne sappiamo il perché" aggiunse Mallinson, che non dimenticava.
Conway non aveva pregiudizi di razza, né di colore; perciò, quando a volte in uno scompartimento di prima classe oppure al club sosteneva di avere una speciale predilezione per la "bianchezza" di una bella faccia rossoaragosta sotto il ciuffo, non era sincero. A comparire così si risparmiava qualche seccatura, in India specialmente: e a risparmiarsi le seccature Conway c i teneva. Ma in Cina non era tanto necessario; aveva molti amici cinesi, e non gli era mai passato per la mente di trattarli da inferiori. Perciò, vedeva in Chang semplicemente e senza prevenzioni un vecchio signore dai bei modi, del quale forse non ci si poteva del tutto fidare, ma certo di una bella intelligenza. Mallinson, invece, aveva la tendenza a immaginarselo attraverso le sbarre di una gabbia; Miss Brinklow stava sempre attenta e all'erta con lui come col cieco pagano cinese; e Barnard gli usava una bonarietà tra saggia e ironica come avrebbe fatto con un maggiordomo. Senonché la lunga visita a ShangriLa si fece subito così interessante da far passare in seconda linea tutte le prevenzioni. Non era quella la prima istituzione monastica che Conway visitava, ma
era di gran lunga la più vasta e certo la più notevole, anche a voler prescindere dalla posizione. Soltanto per attraversare le stanze e i cortili (e Conway si accorse di molti appartamenti, anzi di interi fabbricati che Chang tralasciava deliberatamente) occorse l'intero pomeriggio. Tuttavia ne videro abbastanza per confermare l'o pinione che ciascuno se n'era già fatta. Barnard era ormai convinto che i Lama fossero ricchi; Miss Brinklow notò abbondanti testimonianze della loro immoralità; Mallinson, passato il primo interesse per la novità, si sentì non meno stanco che dopo una delle sue molte gite turistiche ad altezze ben minori: i Lama, diceva, non sarebbero mai diventati i suoi eroi prediletti. Il solo Conway cedeva a un incanto, che d'ora in ora diventava maggiore. Non era tanto attirato da questa o quella cosa quanto dalla graduale rivelazione di eleganza, di gusto sobrio e impeccabile, di armonia perfetta che appagavano l'occhio senza imprigionarlo. Fu soltanto con uno sforzo che seppe strapparsi dall'obliosa estasi dell'artista per riacquistare la coscienza del conoscitore, e riconobbe allora tesori che milionari e direttori di musei si sarebbero contesi a suon di dollari, meravigliose ceramiche azzurroperla Sung, pitture a inchiostri colorati conservate da più di mille anni, lacche in cui i freddi e bellissimi particolari fiabeschi erano, più che disegnati, orchestrati. Un mondo di incomparabile raffinatezza indugiava tremulo su porcellane e vernici, commovendo un istante prima di sciogliersi in puro pensiero. In quelle delicate perfezioni, non ombra di vanteria, né ricerca di effetto, né fredda volontà di conquista su c hi osasse guardarle: esse avevano l'aria d'esser venute alla luce così come petali d'un fiore. Avrebbero fatto impazzire un collezionista, ma Conway non era mai
stato raccoglitore di nulla; gli mancavano i denari e anche l'istinto del compratore. L'attrazione per l'arte cinese era tutta intellettuale: in un vasto mondo di progresso assordante e di cose enormi, cercava per la sua gioia intima piccoli oggetti carini, dai contorni precisi, miniature. E ora mentre passava di stanza in stanza si sentì pervaso da un lontano brivido al pensiero della mole del Karakal incombente su quelle fragili grazie. Ma il monastero, lungi dall'esaurirsi in un'esposizione di oggetti cinesi, era in grado di offrire ben altro. C'era, per esempio, una splendida biblioteca, alta e spaziosa, contenente un'infinità di libri così armonicamente radunati presso alcove e finestre che l'atmosfera del luogo era di saggezza piuttosto che di sapere, di bei modi piuttosto che di serietà. Conway, data una rapida occhiata agli scaffali, si stupì: c'era il meglio della letteratura universale, mista a una gran quantità di astruserie e di stranezze che non avrebbe saputo valutare. Abbondavano i libri in inglese, francese, italiano, tedesco e russo, e ce n'erano pure moltissimi in cinese e in altre lingue orientali. Una sezione che lo interessò particolarmente era tutta dedicata al Tibet: osservò varie rarità, fra cui il Novo descubrimento de Grao Catayo ou dos Regos de Tibet di Antonio da Andrada (Lisbona 1626), China di Atanasio Kircher (A nversa 1667), Voyage à la Chine des Pères Grueber et d'Orville di Thévenot, e Relazione inedita di un viaggio al Tibet di Beligatti. Stava osservando quest'ultimo quando s'accorse che gli occhi di Chang lo fissavano con soave curiosità. "E' forse uno studioso?" gli domandò il cinese. Conway trovò difficile rispondere. Il suo periodo di insegnamento a Oxford gli dava qualche diritto a rispondere affermativamente, ma
sapeva che quella parola complimentosa, in bocca a un cinese, aveva tuttavia un suono un po' saputello per le orecchie inglesi; per cui si trattenne, specialmente per un riguardo ai compagni, e disse: "Naturalmente leggere mi piace, ma in questi ultimi anni il mio lavoro non mi ha lasciato molte opportunità per una vita di studio". "Eppure la desidera?". "Oh, non direi proprio così, ma so che può essere molto attraente". Mallinson, che aveva preso in mano un libro, li interruppe: "Qui c'è qualcosa per la sua vita di studio, Conway: una carta del paese". "Ne abbiamo una raccolta di parecchie centinaia" disse Chang. "Sono tutte a vostra disposizione, ma posso risparmiarle la fatica. In nessuna troverete segnato ShangriLa". "Strano" commentò Conway. "Chissà perché". "C'è un'ottima ragione, ma non posso dirvi di più". Conway sorrise, ma Mallinson parve di nuovo ir ritato. "Avanti coi misteri!" disse. "Finora però non abbiamo visto nulla che si debba nascondere". All'improvviso Miss Brinklow uscì da un lungo e muto stupore. "Ci farà vedere i Lama al lavoro?" disse con un tono acuto, certamente già adoperato per mettere in soggezione più d'uno degli uomini di Cook. si capiva che la sua mente era tutta occupata da confuse visioni di manufatti indigeni, tappeti da preghiera, o altre cose pittoresche e primitive, di cui avrebbe potuto parlare a lungo appena tornata a casa. Aveva uno strano modo, quando qualcosa eccitava la sua meraviglia, di non sembrare mai molto sorpresa, ma sempre un po' indignata; combinazione di espressioni che la risposta di Chang non disturbò minimamente.
"Mi dispiace doverle dire che le persone estranee al monastero non possono vedere mai i Lama, se non in casi davvero eccezionali". "Vuol dire che dovremo privarcene" concluse Barnard. "Peccato! Non ha idea di quanto mi sarebbe piaciuto dare una stretta di mano al vostro capoccia". Chang ricevette con molta serietà e indulgenza questa risposta. Ma Miss Brinklow non era donna da ripiegarsi su se stessa. "Che cosa fanno i Lama?" continuò. "Si dedicano alla contemplazione, signora, e alla ricerca della saggezza". "Ma questo non significa fare qualcosa". "E allora non fanno niente, signora". "Lo penso anch'io". Era riuscita anche questa volta a tirare le somme. "Ebbene, Mr' Chang, tutto ciò è molto interessante, ma non potrà convincermi che un'istituzione come questa faccia realmente del bene. Preferisco qualcosa di più pratico". "Vorrebbe forse prendere un po' di tè?". In un primo momento Conway non capì se queste parole fossero dette ironicamente, ma presto si accorse che non era così: il pomeriggio era passato in fretta e Chang, benché molto frugale nel mangiare, aveva la tipica passione cinese di bere il tè a frequenti intervalli. Anche Miss Brinklow confessò che vedere gallerie e musei le dava sempre un po' di mal di testa, perciò i quattro accettarono l'offerta e seguirono Chang attraverso vari cortili finché si trovarono a un tratto di fronte a una scena di incomparabile bellezza. Un colonnato comunicava per mezzo di alcuni scalini con un giardino in cui c'era uno stagno ottenuto con uno speciale sistema di irrigazione, e sull'acqua numerose foglie di loto vicinissime le une alle altre
davano l'impressione di un pavimento di umide piastrelle verdi. Orlava la vasca un vero serraglio di leoni di bronzo, draghi, liocorni, ognuno stilizzato ferocemente quasi a far meglio risaltare la pace circostante, piuttosto che a turbarla. L'intero quadro era di proporzioni tanto perfette che l'occhio non sentiva nessuna fretta di passare da un punto all'altro: e fra i vari punti era talmente assente ogni sentimento di gara o di vanità che anche la vetta del Karakal, meravigliosa sopra i tetti azzurri, pareva essersi docilmente arresa dentro quella squisita cornice arti stica. "Grazioso posticino" commentò Barnard entrando con Chang in un padiglione arioso dove Conway, a sua maggiore gioia, trovò insieme un clavicembalo e un moderno pianoforte a coda: incredibile coronamento di un pomeriggio di meraviglie. Chang rispose a tutte le sue domande con piena sincerità: spiegò che i Lama apprezzavano infinitamente la musica occidentale, specialmente quella di Mozart; possedevano una notevole raccolta di musica europea, e alcuni di essi suonavano strumenti vari in modo perfetto. Ma Barnard si interessò specialmente al problema dei trasporti. "Vorrebbe dire che questo pianoforte è stato po rtato qui per la strada che abbiamo fatto ieri?". "Non ve n'è altra". "Ah, bene, questa è grossa!... Cosicché, se aveste un grammofono e una radio, non vi mancherebbe più nulla! Ma forse la musica modernissima non la conoscete ancora". "No, no, ce ne hanno parlato; ma ci hanno pure avvertiti che queste montagne renderebbero impossibile una ricezione radio, e quanto al grammofono il progetto di averne uno è già stato portato davanti alle nostre autorità, che però non sentono il bisogno di affrettarsi a
decidere". "Anche se non me l'avesse detto, l'avrei pensato da me" replicò Barnard. "Dev'essere il motto della vostra società. Niente premura". Rise forte, poi continuò: "Ebbene, per venire alla parte pratica, supponiamo che i vostri principali decidano di voler davvero acquistare un grammofono; in che modo procederanno? I fabbricanti non ve lo consegneranno certo a domicilio. Forse avete un agente a Pechino, o a Sciangai, o in qualche altro posto, ma allora prima che riceviate qualcosa, deve costarvi un bel mucchio di dollari". Come già in altre occasioni, Chang tergiversò: "Le sue supposizioni sono giuste, Mr' Barnard, ma temo di non poterle discutere". Conway capì che erano giunti un'altra volta sull'orlo dell'invisibile linea di confine fra il rivelabile e il non rivelabile. E stava già pensando che ormai su quella linea, con un po' d'immaginazione, avrebbe presto cominciato a o rientarsi, quando ebbe una nuova sorpresa. Insieme agli svelti servi tibetani che portavano in basse scodelle il tè profumato entrò, quasi inosservata, una ragazza vestita alla cinese. Andò direttamente al clavicembalo e cominciò a suonare una gavotta di Rameau. Il primo toccante accordo diede a Conway un piacere non soltanto di semplice stupore: quei temi argentini della Francia settecentesca rivaleggiavano in eleganza coi vasi Sung, con le lacche squisite, con la vasca dai fiori di loto là fuori; un'identica sfida alla morte emanava da loro, dando, da un'epoca spiritualmente tanto lontana, il senso dell'immortalità. Osservò allora la suonatrice. Aveva il lungo naso fine, gli alti zigomi, e il pallore della razza manciù; i capelli neri erano pettinati all'indietro ben tirati e strettamente intrecciati; la bocca sembrava un piccolo convolvolo roseo. Si poteva credere di
esser dinanzi a una miniatura eseguita con la più grande diligenza. Eccetto il movimento delle mani e delle dita affusolate, tutto il resto della persona si manteneva in un'immobilità perfetta. Appena terminata la gavotta fece un piccolo inchino e uscì. Chang la guardò sorridendo, poi, con una cert'aria di trionfo chiese a Conway: "Le piace?". "Chi è?" domandò Mallinson, prima che Conway potesse rispondere. "Si chiama LoTsen. suona molto bene le musiche dell'Occidente. Come me non ha ancora raggiunto l'iniziazione completa". "Lo credo bene!" esclamò Miss Brinklow. "Pare poco più di una bimba. Cosicché voi avete anche delle donne Lama?". "Non vi sono distinzioni di sesso, fra noi". Dopo un breve silenzio, Mallinson commentò con una certa superiorità: "E' straordinario questo vostro lamaismo". Continuarono a bere il tè senza più parlare: gli echi del clavicembalo parevano tuttora nell'aria, col loro fascino strano. Poco dopo, uscendo dal padiglione, Chang espresse ai quattro ospiti la sua speranza che quella visita fosse stata di loro gusto. Conway rispose anche per gli altri con la solita altalena di complimenti. Chang li assicurò allora del piacere che aveva avuto nell'accompagnarli e aggiunse che dovevano considerare biblioteca e sala da musica a loro completa disposizione durante l'intero soggiorno. Conway lo ringraziò cordialmente. "Ma i Lama" aggiunse, "non desiderano mai servirsene?". "Cedono con molto piacere il posto ai loro onorevoli ospiti". "Bene, questa la chiamerei proprio una cosa simpatica" disse Barnard. "E ciò che è più importante, dimostra che i Lama sanno
veramente che noi esistiamo. Ecco un passo avanti: mi sento più a casa mia. Ha fatto le cose bene qui, Chang, e quella sua ragazzetta suona il piano benone. Chissà che età ha". "Temo di non poterglielo dire". Barnard rise. "Non vuole svelare il segreto dell'età di una signora, vero?". "Precisamente" rispose Chang con un impercettibile sorriso. Quella sera, dopo pranzo, Conway trovò il modo di lasciare gli altri e aggirarsi per i quieti cortili illuminati dalla luna. ShangriLa, avvolto dal mistero che è alla radice di ogni bellezza, era affascinante. In quell'aria fredda e calma l'immensa guglia del Karakal pareva vicina, molto più che di giorno. Conway si sentiva fisicamente felice, tranquillo nei sensi e nei pensieri; ma nella sua intelligenza, che non è proprio lo stesso che la mente, c'era una vaga incertezza. Non riusciva a decifrare l'enigma. La segreta linea che aveva cominciato a scoprire diventava, sì, più netta, ma soltanto per rivelare uno sfondo inscrutabile. La serie di straordinari eventi capitati a lui e ai suoi tre compagni occasionali gli passava dinanzi nitida come davanti al fuoco d'un obiettivo: finora non ne penetrava il significato, ma sperava che una volta o l'altra ci sarebbe riuscito. Passando attraverso un chiostro raggiunse la terrazza che dava sulla valle. Il profumo delle tuberose gli riportò alla memoria ricordi deliziosi. In Cina lo chiamano l'odore del chiaro di luna. Fantasticò capricciosamente che se la luna avesse avuto un suono, questo avrebbe potuto essere la gavotta di Rameau ascoltata di recente, e ciò lo fece ripensare alla piccola manciù. Non aveva immaginato che vi potessero essere delle donne a ShangriLa:
associare alle pratiche monastiche la loro presenza era un po' difficile. Tuttavia rifletté che poteva essere un'innovazione piacevole; una clavicembalista, poi, in una comunità che si permetteva di essere (erano parole di Chang) moderatamente eretica, poteva riuscir preziosa. Guardò dal muretto nel vuoto neroazzurro. Un salto di oltre mille metri! Chissà se gli avrebbero permesso di scendere nella valle a visitare quella civiltà di cui Chang gli aveva parlato?! Questo strano vivaio culturale, nascosto fra catene di montagne sconosciute, e dominato da una specie di teocrazia, lo interessava come studioso di storia, anche indipendentemente dagli strani misteri del monastero. A un tratto, portati dal vento, gli giunsero dal basso dei suoni. Ascoltando attentamente poté sentire note di gong e di trombe ed anche (ma forse era la sua immaginazione) lamenti corali di voci umane; i suoni si affievolirono nel vento, poi tornarono per svanire di nuovo. Ma quel segno di vita e di attività in quella profondità nebbiosa, rendeva ancora più grande la serena austerità di ShangriLa. Pareva che nei cortili deserti, nei pallidi fabbricati, tutti i crucci dell'esistenza fossero svaniti lasciandovi un silenzio, una calma dove i minuti stessi non osassero passare. A un tratto, da una finestra in alto sulla terrazza si diffuse la luce d'oro e rosa di una lanterna: era forse lì che i Lama si dedicavano alla contemplazione e alla ricerca della saggezza? Ed era questo il momento del loro raccoglimento? Gli parve di poter risolvere il problema entrando semplicemente dalla prima porta, ed esplorando la galleria e il corridoio fino a scoprire la verità; ma sapeva che questa sua libertà era un'illusione, e che ogni suo movimento era
strettamente sorvegliato. Due tibetani avevano attraversato la terrazza, e ora oziavano presso il parapetto. Parevano due buoni compagni, e lasciavano scendere negligentemente i loro ma ntelli colorati su di una spalla nuda. L'eco di gong e di trombe si fece nuovamente sentire, e Conway si accorse che uno dei due chiedeva qualcosa al compagno. La risposta fu: "Hanno sepolto Talu". Conway che da una sola frase non poteva capir molto, sperava che continuassero a parlare, anche se conosceva pochissimo il tibetano. Dopo una pausa, colui che già prima aveva interrogato il compagno riprese la conversazione, ma Conway dal suo posto non poteva udirlo. Afferrò invece le risposte dell'altro, e le interpretò all'incirca così: "Morì fuori". "Obbedì agli ordini dei grandi di ShangriLa". "Venne attraverso l'aria sopra le grandi montagne trasportato da un uccello". "Portò anche dei forestieri". "Talu non aveva paura del vento di fuori, né del freddo". "Benché fosse andato fuori da molto tempo quelli della vallata della Luna Azzurra lo ricordano ancora". Conway non riuscì ad afferrare altro, e dopo un breve indugio tornò nelle sue stanze. Aveva sentito abbastanza per poter squarciare un altro velo del mistero; e tutto si andava facendo così chiaro che si meravigliò di non averne scoperto prima il significato. Se anche per un attimo ci aveva pensato, gli era parso così irragionevole!... Ora si persuadeva, invece, che le cose irragionevoli e fantastiche sono possibilissime. Il volo da Baskul non era stato l'impresa senza scopo di un pazzo. L'idea, la preparazione, l'attuazione erano partite da
ShangriLa. Qui gli abitanti conoscevano il pilota morto, almeno di nome; era stato, in qualche modo, uno dei loro; la sua morte era compianta. Ogni cosa ubbidiva dunque a un'altra intelligenza direttiva intenta ai suoi scopi; c'era stata una sola volontà a misurare tutte quelle inspiegabili ore e miglia. Ma quali erano questi scopi? Quale il motivo plausibile per cui quattro occasionali passeggeri di un aereo del Governo Britannico erano stati rapiti e portati nelle solitudini dell'Himalaya? Davanti a questo interrogativo Conway era stupito, ma nient'affatto contrariato. Lo affrontava nel solo modo che avesse a disposizione per accettare prontamente una sfida; facendo funzionare una certa sua chiarezza di idee che per essere messa in moto aveva solo bisogno di un compito adeguato. Ma per cominciare decise intanto questo: che non avrebbe parlato con nessuno della scoperta, né coi suoi compagni, incapaci di dargli aiuto, né coi suoi ospiti, che potendo aiutarlo, certamente non l'avrebbero fatto.
Vi "In fin dei conti, c'è della gente che deve adattarsi a luoghi peggiori" osservò Barnard verso la fine della sua prima settimana a ShangriLa; saggia conclusione che lasciava già presagire altri futuri insegnamenti. In quel breve tempo i quattro compagni erano riusciti a organizzarsi in una specie di routine giornaliera; e con l'aiuto di Chang si annoiavano molto meno che non certe comitive in vacanze organizzate perfettamente. Si erano tutti abituati all'altezza e anzi trovavano quell'aria corroborante, beninteso, pur di non dover sostenere grosse fatiche. Sapevano ormai che le giornate erano calde e le notti fredde, che
il monastero era quasi completamente riparato dai venti, che le valanghe sul Karakal erano frequenti verso mezzogiorno, c he nella vallata cresceva una buona qualità di tabacco, che alcuni cibi e bevande erano più piacevoli di certi altri e che ciascuno di loro aveva gusti personali e speciali particolarità. Vicendevoli scoperte interessanti, come avrebbero potuto farle quattro allievi nuovi in una scuola in cui fossero misteriosamente assenti tutti gli altri studenti. Chang era instancabile nei suoi sforzi per facilitare e rendere gradevole ogni cosa. Dirigeva escursioni, suggeriva occupazioni, raccomandava libri; durante i pasti colmava con la sua lenta fluente parola certi silenzi imbarazzanti, e in ogni occasione si mostrava bonario, cortese, pieno di risorse. Era talmente netta la linea di demarcazione tra le informazioni offerte volentieri e quelle negate cortesemente, che non si offese più nessuno, se non Malli nson sporadicamente. Conway fu lieto di constatarlo e di poter arricchire d'un'altra nota i suoi appunti, di giorno in giorno pi ù numerosi. Barnard era persino gioviale con il cinese, alla maniera un po' bislacca voluta da una convenzione rotariana del West americano. "Sa, Chang, che questo vostro albergo è proprio pessimo? Come mai non ricevete i giornali? Darei tutti i libri della biblioteca per l'"HeraldTribune" di questa mattina". Le risposte di Chang erano sempre ponderate, anche quando non prendeva la domanda sul serio. "Abbiamo tutte le annate del "Times" fino a pochi anni fa, signor Barnard. mi spiace per lei che si tratti del "Times" inglese". Conway sentì con piacere che la vallata non era "fuori confine" benché le difficoltà della discesa non permettessero gite senza scorta. Una mattina Chang li condusse a visitare il piano
verdeggiante, già tante volte ammirato da Conway quando dalla terrazza contemplava il pauroso abisso. La gita fu oltremodo interessante, almeno per Conway. Viaggiavano in portantine di bambù, oscillanti pericolosamente sull'orlo del precipizio. Non era una strada per paurosi; ma i portatori, gli antistanti come i retrostanti, cercavano con calma la via per la ripida discesa. Quando alla fine raggiunsero il più basso livello delle colline e della foresta, allora apparve chiara la fortuna del monastero. La vallata era un custodito paradiso di una fertilità prodigiosa, che dava la sensazione di essere scesi da una zona temperata a una zona tropicale. Vi crescevano a profusione, e contigui, raccolti diversissimi, non un pollice di terreno che fosse infruttuoso. L'intera area coltivata si estendeva in lunghezza per circa dodici miglia, variando da uno a cinque miglia in larghezza; e aveva la fortuna, pur essendo stretta, di ricevere il sole nel miglior momento della giornata. L'aria era piacevolmente calda anche all'ombra, benché i ruscelli che irrigavano il suolo provenissero dai ghiacciai. Conway, alzando gli occhi alla meravigliosa parete montana, sentì nuovamente quel che c'era di stupendo e di terribile in quella scena; senza una provvidenziale barriera, al posto della valle ci sarebbe stato un lago, nutrito di continuo dai ghiacciai circostanti. Invece alcuni fiumicelli scorrevano benefici a riempire serbatoi, a irrigare campi e piantagioni, con una disciplinata coscienza, degna di un ingegnere. Disegno miracolosamente felice, la cui fortuna era strettamente legata a quella della cornice e alla sua resistenza contro eventuali terremoti o frane. Ma anche simili timori, vaghi e futuri, finivano col mettere in maggior valore la meravigliosa bellezza del presente. Conway ne fu
conquistato un'altra volta, in virtù di quelle stesse qualità di grazia e semplicità che gli avevano reso il soggiorno in Cina più felice di ogni altro. Il circostante massiccio montagnoso era in perfetto contrasto con le piccole praterie e coi giardinetti ben tenuti, con le case da tè a vivaci colori presso il fiume e le frivole casette simili a giocattoli. Gli abitanti gli parevano un felice risultato di cinese e di tibetano; erano puliti e belli e parevano aver sofferto poco degli inevitabili connubi tra elementi di una comunità così piccola. Al passaggio dei forestieri in portantina so rridevano o ridevano, e avevano una buona parola per Chang; erano di buon carattere e moderatamente curiosi, cortesi e spensierati, occupati in innumerevoli lavori, ma senza mai alcuna fretta. Conway li trovò una delle più piacevoli comunità che avesse mai visto, e anche Miss Brinklow, che stava osservandoli per scoprire segni di pagana degradazione, dovette ammettere che all'apparenza tutto pareva in regola. Fu assai sollevata nel vedere che gli indigeni erano completamente vestiti; pur disapprovando le donne in calzoni cinesi stretti alla caviglia; e per quanto scrutasse dappertutto, le sue critiche dovettero limitarsi a pochi particolari. Chang spiegò che il tempio aveva i suoi propri Lama, controllati blandamente da quelli di ShangriLa, benché non fossero dello stesso ordine. V i erano pure, più innanzi nella valle, un tempio Tavist e un tempio confuciano. "Il gioiello è sfaccettato" disse il cinese; "possono coesistere molte religioni, ed essere tutte moderatamente vere". "Sono d'accordo con lei" disse Barnard cordialmente. "Non ho mai capito le gelosie settarie. Lei è un filosofo, Chang. molte religioni sono moderatamente vere. Voglio tenerla a mente questa sua
osservazione. Voialtri lassù sulla montagna siete un bel gruppo di innocui spaventapasseri, se la pensate così. E avete ragione. Ne sono arcisicuro". "Ma noi ne siamo solo moderatamente sicuri" rispose Chang, col suo fare sognante. Miss Brinklow, a cui tutte queste chiacchiere davano noia perché le parevano un segno di rilassatezza, s'era infervorata in un'idea. "Quando tornerò" disse a denti stretti, "domanderò alla mia società di mandar qui un missionario. E se brontoleranno per la spesa li tormenterò tanto finché si decideranno". Questo era un modo di pensare sano; e persino Mallinson, che simpatizzava pochissimo con le missioni all'estero, fu preso d'ammirazione. "Dovrebbero mandare lei" disse. "Purché, s'intende, un posto come questo sia di suo gusto". "Di mio gusto o no..." rispose Miss Brinklow. "Naturalmente, non mi piacerebbe. Ma quel che importa è fare ciò che si deve". "Penso" disse Conway, "che se fossi un missionario, preferirei scegliere questo posto piuttosto di molti altri". "In tal caso" replicò Miss Brinklow, "non vi sarebbe alcun merito". "Ma io non pensavo al merito". "Peggio, allora. Fare una cosa perché le piace farla, non ha nessun valore. Guardi questa gente!". "Sembrano tutti felicissimi". "Esatto" rispose accentando con forza. Poi aggiunse: "A buon conto, la prima cosa da fare è ch'io cominci fin d'ora a studiare la lingua. Potrebbe prestarmi un libro adatto, Mr' Chang?".
Chang era, in quel momento, molto mellifluo. "Certamente, signora; col più grande piacere. E, se mi permette di dirlo, trovo che l'idea è ottima". Se ne occupò con la massima cura quella sera stessa, appena furono tornati a ShangriLa. Miss Brinklow rimase un po' intimidita da quel massiccio volume, compilazione ingegnosa di un t edesco del diciannovesimo secolo (si era aspettata qualche lavoro più leggero, qualcosa come il tibetano in quindici lezioni), ma con l'aiuto di Chang e incoraggiata da Conway, cominciò di buona lena; dopo poco tempo un occhio perspicace avrebbe notato c h'essa traeva dal lavoro una soddisfazione un po' torva. Anche Conway, oltre al problema a cui s'era interamente dedicato, trovò molti interessi di cui occuparsi. Durante le chiare e tiepide giornate si serviva liberamente della biblioteca e della sala da musica persuadendosi sempre più che i Lama fossero di una eccezionale cultura. Nei libri dimostravano un gusto eclettico: Platone nella lingua originale era vicino a Omar in inglese; Nietzsche aveva compagno Newton; vi era Thomas More, e anche Anna More, Thomas Moore, George Moore, e anche Moore il v ecchio. Il numero dei volumi poteva essere tra venti e trentamila e Conway t rovò interessante indagare sui metodi di scelta e di acquisto. Tentò anche di scoprire se la biblioteca fosse stata aggiornata di recente, ma il volume più moderno che gli capitò fra le mani fu un'edizione economica di Im Westen Nichts Neues. però in una visita successiva, Chang gli disse che altri libri, pubblicati fin verso la metà del 1930, sarebbero stati presto aggiunti negli scaffali; erano già arrivati al monastero. "Può constatare che ci manteniamo abbastanza al corrente" commentò.
"Non sono sicuro che questa sua affermazione sarebbe condivisa da tutti" replicò Conway con un sorriso. "Dall'anno scorso sono accadute nel mondo moltissime cose, sa". "Niente d'importante che non potesse essere previsto nel 1920, o che non sarà meglio compreso nel 1940". "Allora non le interessano gli ultimi sviluppi della crisi mondiale?". "Me ne occuperò a fondo, ma a suo tempo". "Sa, Chang, credo di cominciare a capirla. E' di un'altra pasta, ecco. Il tempo ha per lei minore importanza che non per gli altri. Come a me non importerebbe, se fossi a Londra, di veder sempre un giornale dell'ultima ora, così a lei, a ShangriLa, non importa di vederne uno dell'anno scorso. Queste disposizioni mentali mi sembrano tutt'e due piene di buon senso. Ma mi dica, da quanto tempo non aveva ricevuto qui degli ospiti?". "Con mio grande rammarico, Mr' Conway, non le posso rispondere". Era la solita fine della conversazione; ma Conway la trovava meno irritante del fenomeno opposto di cui aveva tanto sofferto ai suoi tempi, quando certe conversazioni, per quanto si sforzasse, non sembravano finir mai. Chang cominciò a piacergli di più, man mano che lo frequentava; però gli pareva strano di non incontrare mai qualcun altro del monastero. Anche supponendo che i Lama non fossero avvicinabili, non v'erano forse altri "postulanti" oltre Chang? Vedeva qualche volta la piccola manciù nella sala di musica; ma lei non sapeva l'inglese, e lui preferiva non rivelare ancora la sua conoscenza del cinese. Era ancora incerto se facesse musica per passione o per studio. Il modo di suonare, come del resto tutto il suo comportamento, era deliziosamente convenzionale; sceglieva sempre
composizioni fiorite, Bach, Corelli, Scarlatti e talvolta Mozart. preferiva il clavicembalo, ma quando Conway suonava il pianoforte lo ascoltava gravemente, con un compiacimento più ossequioso che sentito. Era impossibile sapere che cosa pensasse, ed era anche difficile indovinare la sua età. Forse non più di trent'anni e non meno di tredici; supposizioni possibili entrambe. Mallinson, che in mancanza di meglio veniva ogni tanto ad ascoltare, la trovava sconcertante. "Non riesco a capire che cosa faccia qui" disse a Conway più di una volta. "Questa professione di lamaismo andrà benone per un vecchio come Chang, ma che interesse può avere per una ragazza? Chissà da quanto tempo è qui". "Anch'io me ne stupisco, ma probabilmente è una di quelle cose che non vogliono dirci". "Crede che le piaccia star qui?". "Direi che non le dispiace". "Sembra quasi insensibile: una bambolina d'avorio più che un essere umano". "E' bello essere così". "Finché dura...". Conway sorrise. "E se ci pensa bene, Mallinson, durerà abbastanza. Dopo tutto la bambolina d'avorio ha bei modi, veste con gusto, è carina, ha un bel tocco sul clavicembalo e non cammina per la stanza come se giocasse a hockey. L'Europa occidentale, per quel che ricordo, conta un numero grandissimo di donne che son prive di tali virtù". "Lei è terribilmente cinico in materia di donne, Conway". A quel rimprovero era abituato. Eppure non aveva mai avuto molto a che fare col gentil sesso; durante le poche licenze nelle stazioni di
collina indiane gli era stato facile avvalorare questa reputazione. In realtà aveva avuto molte amicizie affettuose con donne che l'avrebbero volentieri sposato, se solo avesse detto una parola; ma non l'aveva detta. Una volta aveva persino risposto ad un annuncio sul "Morning Post"; ma la ragazza non voleva vivere a Pechino, e lui non voleva vivere a Tunbridge Wells, e queste reciproche incompatibilità avevano mandato tutto a monte. La sua esperienza in materia femminile era stata intermittente, incerta e poco concludente. Malgrado ciò, non era affatto un cinico. Disse ridendo: "Ho trentasette anni, lei ne ha ventiquattro. Ecco la differenza". Dopo una pausa fu Mallinson che chiese all'improvviso: "A proposito, che età crede che abbia Chang?". "Un'età qualunque" rispose Conway con leggerezza, "fra i quarantanove e i cinquantanove". Tra le molte informazioni che Chang dava ai nuovi arrivati, alcune li persuadevano subito, altre li lasciavano incerti; e se una volta la loro curiosità non veniva appagata, subito scendeva un'ombra di diffidenza su tutto il resto delle cose rivelate. Un argomento rispetto al quale non v'erano segreti era quello delle abitudini e usi della popolazione della vallata; e Conway avrebbe potuto raccogliere, durante le lunghe conversazioni, materiale sufficiente per una tesi di laurea. Come studioso di politica lo interessava soprattutto il modo in cui era governata la popolazione: una specie di autocrazia temperata ed elastica, esercitata dal monastero con una tranquilla benevolenza. Questo sistema era riuscito molto bene, e se ne persuase sempre più a ogni nuova discesa in quel fertile paradiso. Ma Conway si stupiva di non trovare fondamenti di
legge e di ordine; non vi si vedevano né soldati né polizia, eppure qualche mezzo per correggere i delinquenti doveva essere stato escogitato. Chang spiegò che i delitti erano rari, sia perché si consideravano tali solamente fatti molto seri, e sia perché ognuno aveva a sufficienza tutto ciò che potesse ragionevolmente desiderare. Come estremo rimedio contro un colpevole i servi addetti al monastero avevano la facoltà di espellerlo dalla valle, benché questo castigo, considerato come gravissimo e senza appello, fosse stato applicato assai raramente. Ma il fattore principale nel governo di Luna Azzurra, continuava Chang, era l'insegnamento di buone maniere, per cui gli abitanti imparavano subito che certe cose "non si fanno", e chi le fa si abbassa moralmente e socialmente. "Anche voi inglesi nelle vostre scuole pubbliche cercate di inculcare il medesimo sentimento" disse Chang, "ma temo che non lo facciate con gli stessi scopi. Per esempio gli abitanti della nostra vallata sentono che "non è cosa da farsi" l'essere inospitale verso i forestieri, o discutere con rancore, o lottare fra compagni per il primo posto; e parrebbe loro barbarica l'idea di divertirsi a quella simulazione di guerra che i vostri maestri inglesi consigliano nei campi da gioco; lo stimerebbero, anzi, un indegno incoraggiamento di tutti gli istinti più bassi". Conway domandò se avessero mai litigato a causa di donne. "Molto raramente, perché non sarebbe buona educazione prendersi una donna desiderata da un altro". "Ma se qualcuno la desiderasse al punto da infischiarsene se sia buona educazione o no?". "In tal caso, caro signore, sarebbe buona educazione da parte dell'altro il concedergliela, e anche da parte della donna il
mostrarsi condiscendente. Non può credere quanto certe piccole cortesie siano utili per risolvere facilmente tanti problemi". Infatti, durante le sue gite nella vallata, Conway riconosceva fra gli abitanti uno spirito di buona volontà, e una contentezza maggiormente apprezzabili dal momento che sapeva come, fra tutte le arti, quella del governare fosse la più lontana dalla perfezione. Se ne congratulò con Chang, che gli rispose: "Vede, noi siamo persuasi che per governare bene bisogna evitare di governare troppo". "E non avete nessuno strumento democratico, né voto, né al tro?". "Per carità! La nostra gente si scandalizzerebbe se dovesse dichiarare che una politica è buona e l'altra è cattiva". Conway sorrise. Questo modo di vedere le cose gli era veramente simpatico.
Alla propria maniera, Miss Brinklow ricavava intanto soddisfazioni dallo studio della lingua tibetana, mentre Mallinson si stizziva e brontolava, e Barnard persisteva in una sorridente tranquillità che, fosse vera o simulata, era ugualmente notevole. "Francamente" osservava Mallinson, "l'allegria di costui mi dà sui nervi. Prendere le cose con filosofia va bene, ma quel suo insistere in frizzi e motti di spirito mi secca. Se non stiamo in guardia imporrà lui il tono alla compagnia". Anche Conway aveva trovato un po' strana la facilità di adattamento dell'americano; ma preferì limitarsi con Mallinson a parole generiche. "Non le pare una fortuna per noi che accetti la faccenda così bene?".
"Io lo trovo stranissimo. Sa qualcosa di lui? chi sia, che cosa faccia...?". "Credo che ritornasse dalla Persia, dove era stato alla ricerca di petrolio. Quando organizzai la partenza degli stranieri per via aerea ho dovuto faticare non poco per persuaderlo a venire con noi. Acconsentì soltanto quando gli dissi che il suo passaporto americano non lo avrebbe riparato dalle pallottole". "A proposito, l'ha mai visto il suo passaporto?". "Credo di sì, ma non me ne ricordo. Perché?". Mallinson scoppiò in una risata. "Ora dirà che mi sono impicciato in affari che non mi riguardano. E' stato proprio un caso, e naturalmente non ne ho fatto parola con nessuno. Non pensavo di dirlo neppure a lei, ma, giacché è venuto il discorso, meglio così". "Certo; parli". "Barnard ha viaggiato con un passaporto falso; non si chiama affatto Barnard". Conway alzò le sopracciglia, più con interesse che con preoccupazione. "Chi crede che sia, allora?". "E' Chalmers Bryant". "Davvero! E che ragione ha per crederlo?". "Stamattina Chang ha trovato a terra un portafoglio; me lo ha dato, credendo fosse mio. Non l'ho aperto, ma mi sono accorto che era pieno di ritagli di giornali; perché ne caddero alcuni, e non mi vergogno a dirle che li ho guardati. Non sono misteri privati, i giornali, o almeno non dovrebbero esserlo. Parlavano tutti di Bryant, e delle ricerche in corso per rintracciarlo, e uno riproduceva una fotografia molto somigliante a Barnard, però senza baffi". "Ha parlato con Barnard della sua scoperta?".
"No, gli ho restituito il portafoglio senza commenti". "Tutto ciò si basa allora sul riconoscimento di un ritratto di giornale?". "Ebbene, per ora sì". "Non credo che condannerei qualcuno per così poco. Può darsi che lei abbia ragione; non è una cosa impossibile. Se si tratta proprio di Bryant, allora ecco spiegata la sua soddisfazione di trovarsi qui; non credo che vi sia un luogo migliore per nascondersi". Mallinson parve un po' disilluso davanti a questa fredda accoglienza di notizie che gli erano sembrate sensazionali. "E così che cosa pensa di fare?" domandò. Conway rifletté un momento, poi rispose: "Non saprei. Fo rse non farò niente". "Ma, accidenti, se costui fosse Bryant...". "Mio caro Mallinson, se anche fosse Nerone, per ora non ce ne dovrebbe importare. Santo o empio, dobbiamo stare insieme e farci compagnia finché rimarremo quassù; non so quindi cosa ci guadagneremmo a trasformarci da compagni in giudici. Se avessi avuto dei sospetti finché eravamo a Baskul, certo mi sarei messo in contatto con Delhi; sarebbe stato mio dovere. Ma ora posso considerarmi in vacanza". "Non le pare un modo di pensare un po' indolente?". "Non importa che sia indolente, se è sensato". "Mi consiglia dunque di dimenticare ciò che ho scoperto?". "Non ci riuscirà; ma tacere sì. E' il miglior partito per entrambi. Non verso Barnard, o Bryant, o chi diavolo sia, ma per non trovarci poi in una situazione scomoda quando ripartiremo di qui". "Intende dire che dovremmo lasciarlo scappare?".
"Diciamolo in altre parole: daremo a qualcun altro il piacere di acchiapparlo. Quando si è vissuti, per qualche mese, di buon accordo con un tale sembra un po' fuori luogo mettergli le manette". "Non sono del suo parere. Costui non è altro che un ladro in grande stile, conosco molte persone che a causa sua hanno perso i loro denari". Conway alzò le spalle. Ammirava la semplicità e rettitudine di Mallinson; l'etica delle scuole private è forse cruda, ma per lo meno è schietta. Se qualcuno infrange la legge è dovere di tutti consegnarlo alla giustizia, sempre che si tratti di una legge che sia veramente proibito infrangere. E la legge che si riferisce ad assegni, a titoli bancari, a conti correnti, è proprio di questo genere; Bryant l'aveva trasgredita, e Conway ricordava che quantunque allora non si fosse interessato molto del caso ne aveva ricevuto una cattiva impressione. Il fallimento del grandioso gruppo Bryant a New York aveva cagionato perdite di circa cento milioni di dollari, una catastrofe eccezionale, anche per gli ambienti abituati a esperienze simili. In certo qual modo (Conway non era un esperto finanziario) Bryant si era beffato di tutti a Wall Street, e di qui l'ordine di arresto, la sua fuga in Europa, mandati di estradizione in cinque o sei diversi Stati. Finalmente Conway disse: "Se vuol dare retta a me, non dica niente a nessuno; non per un riguardo a lui, ma per noi stessi. Del resto decida lei; non senza aver prima riflettuto, però, che potrebbe anche trattarsi non di Bryant ma di tutt'altra persona". Ma era proprio Bryant; ne ebbero la rivelazione la sera stessa, dopo pranzo. Chang se ne era andato; Miss Brinklow aveva ripreso la sua grammatica tibetana, e i tre uomini stavano prendendo il caffè e
accendendo i sigari. Durante il pranzo più d'una volta il tatto e l'affabilità di Chang erano venute in soccorso quando la conversazione languiva; ma ora che Chang s'era assentato vi fu un altro penoso silenzio. Una volta tanto Barnard rimaneva serio. Conway vide chiaramente che Mallinson non riusciva a trattare l'americano come se nulla fosse accaduto, e che Barnard s'era già accorto di qualcosa. A un tratto l'americano gettò via il sigaro. "Voi tutti sapete ormai chi sono, credo" disse. Mallinson arrossì come una ragazzina, ma Conway rispose col solito tono pacato: "Sì, Mallinson ed io crediamo di saperlo". "Sono stato proprio stupido a lasciare in giro quei giornali". "Capita a tutti alle volte". "Bene, se prendete la cosa con calma, sono abbastanza fortunato". Vi fu un nuovo silenzio, rotto alla fine dalla voce stonata di Miss Brinklow. "Io non so davvero chi sia, Mr' Barnard, ma avevo indovinato da un pezzo che viaggiava in incognito". Tutti la guardarono con sorpresa e lei proseguì: "Quando Mr' Conway ha detto che i nostri nomi sarebbero stati messi sui giornali lei ha risposto che non le importava. Ho pensato allora che probabilmente Barnard non era i l suo vero nome". Il colpevole ebbe un lento sorriso mentre accendeva un altro sigaro. "Signora" disse poi, "non solo lei è un intelligente detective, ma ha trovato una parola davvero gentile per definire la mia posizione attuale. Io viaggio "in incognito". L'ha detto lei, e ha mille volte ragione. Quanto a voialtri, ragazzi, in un certo senso non m'importa che mi abbiate scoperto. Finché nessuno di voi avesse dubitato,
potevamo andar avanti così, ma giacché ora sapete sarei un idiota se mi dessi delle arie con voi. Siete stati tanto simpatici che non voglio ora seccarvi in alcun modo. Sembra che, bene o male, saremo costretti a vivere insieme un bel po' di tempo; dobbiamo perciò aiutarci l'un l'altro il più possibile. Quanto a quello che accadrà poi, lasceremo che a suo tempo le cose facciano il loro corso...". Queste parole erano talmente ragionevoli che Conway osservò Barnard con maggiore interesse e persino con una certa stima. Era strano pensare che quell'uomo pesante, grosso, di buonumore, quasi paterno, fosse uno dei più grandi truffatori del mondo. Pareva piuttosto uno di quei tipi che, con un po' di istruzione, possono diventare dei bravi direttori di scuola preparatoria. Dietro la sua apparente giovialità v'erano segni di tensione e di preoccupazione, ma ciò non significava affatto che quella giovialità fosse forzata. Egli era veramente ciò che pareva: un buon compagno, come suol dirsi; agnello per natura, e lupo solo per professione. Conway disse: "Meglio così". Allora Barnard rise. Evidentemente le sue riserve di buonumore erano inesauribili. "Perdio, ma sa che ha proprio del pazzesco?" esclamò adagiandosi nella sua poltrona. "Voglio dire tutta questa faccenda d'inferno. Prima una corsa vertiginosa attraverso l'Europa; poi avanti, la Turchia, la Persia, fino a quel paesetto! E la polizia che mi correva appresso... A Vienna per poco non mi prendevano! In principio è quasi divertente essere rincorso ma dopo un po' dà sui nervi. Però a Baskul ebbi tempo di riposarmi. Pensavo di essere al sicuro in mezzo a una rivoluzione...". "Lo era" disse Conway sorridendo, "non però dalle pallottole".
"Ecco; ed era proprio quello che mi seccava, alla fine. Capirete ora che la scelta non era facile per me. O stare a Baskul ed essere massacrato, o accettare un viaggetto a bordo di un aereo del governo e trovare le manette ad aspettarmi all'arrivo. Non ci tenevo molto né a una cosa, né all'altra". "Me ne ricordo". Barnard rise di nuovo. "E' andata com'è andata! e potete figurarvi se il cambiamento che mi ha portato fin qui mi preoccupa. E' un mistero dei più complicati, d'accordo, ma a me personalmente non poteva capitare niente di meglio. E quando sono soddisfatto non ho l'abitudine di brontolare". Il sorriso di Conway si fece più cordiale. "E' stato di buon senso, anche se qualche volta ha oltrepassato un po' il limite. Cominciavamo tutti a fantasticare come mai lei potesse mostrarsi così contento". "Lo ero veramente. A conoscerlo, questo non è poi un brutto posto. Il fresco è un po' pungente all'inizio, ma non si può certo avere tutto. Per chi debba cambiare aria è tranquillo e riposante. D'autunno vado sempre a Palm Beach a fare una cura, ma in quei posti eleganti non si riesce a riposare, si è sempre in ballo come in città. Invece qui c'è proprio tutto ciò che il dottore mi ha ordinato e sento che mi fa benone. Seguo una dieta diversa dal solito, non posso occuparmi di affari, e il mio agente non mi telefona". "Crede che ne abbia il desiderio?". "Certo. Chissà che pasticci da aggiustare, laggiù!". Lo disse con tanta semplicità che Conway non poté fare a meno di rispondere: "Non m'intendo molto di ciò che chiamano alta finanza". Era un avvio, e l'americano lo accettò senza schermirsi.
"In generale" disse, "l'alta finanza non val niente". "L'ho sospettato spesso". "Senta, Conway, glielo spiegherò così. Un tale fa ciò che ha fatto per anni, e ciò che tanti altri pure hanno fatto; improvvisamente ha tutto il mercato contro di sé. Non c'è rimedio, ma si fa forza, e aspetta il solito giro. Aspetta, aspetta... non capita più come le altre volte; e quando poi ha perso dieci milioni di dollari legge su un giornale che un professore svedese annunzia la fine del mondo. Ora, le domando, è questo il modo di aiutare il mercato? Naturalmente l'uomo d'affari riceve una bella batosta, ma anche lì, nessun rimedio. E rimane così finché vengono i poliziotti a prenderlo. Se può li aspetta. Io non li ho aspettati". "E' stata dunque solo colpa del destino?". "Certo; ed è così quasi sempre". "Aveva anche i denari di altri" intervenne Mallinson seccamente. "Sì. E sa perché? Perché tutti volevano qualcosa gratis, ma non avevano il cervello per procurarselo". "Non sono d'accordo. Avevano invece fiducia in lei, e credevano i loro denari al sicuro". "Ebbene, non erano al sicuro. Non potevano esserlo. Non c'è sicurezza in nessun luogo e quelli che ci credono sono come una massa di cretini che durante un tifone cerchino di salvarsi sotto un ombrello". Conway interruppe conciliante. "Certo sarebbe stato impossibile trovare un rimedio contro il tifone". "Non potevo neppure tentarlo; come lei non poteva far nulla contro ciò che è accaduto dopo la partenza da Baskul. me ne sono convinto quando l'ho vista così padrone di sé sull'aereo in fuga, mentre
invece Mallinson era tanto nervoso. Sapeva di non poter fare nulla e non gliene importava affatto. Ho provato lo stesso anch'io al momento della mia catastrofe". "Sciocchezze!" gridò Mallinson. "Chiunque può fare a m eno di truffare. Basta condurre il gioco secondo le regole". "Il che diventa infernalmente difficile quando tutto il gioco va a pezzi. Del resto non c'è anima al mondo che conosca queste regole. Non potrebbero insegnargliele neppure tutti i professoroni di Harvard e di Yale". "Parlo di poche regole semplicissime, della vita d'ogni giorno" replicò Mallinson con un certo disprezzo. "Allora sono certo che nella sua vita di tutti i giorni non entra nessuna amministrazione di compagnie di credito finanziario". Conway si affrettò a intervenire. "E se evitassimo le discussioni, non sarebbe meglio? In fin dei conti, se io paragono i suoi affari ai miei, non ho nessuna obiezione da muovere. Io credo che in questi ultimi tempi s'è volato tutti alla cieca, nel significato letterale della frase, e in altri sensi. Ma ora siamo qui, questo è l'importante, e penso anche che avrebbe potuto capitarci di peggio. Ed è ben strano che di quattro persone scelte a caso e rapite per mille miglia ve ne siano tre capaci di trovare nel fatto qualche consolazione. Lei ha bisogno di una cura di riposo e di un rifugio sicuro; Miss Brinklow si sente chiamata a evangelizzare i pagani del Tibet...". "E la terza persona?" interruppe Mallinson. "Non sarò io spero?". "Stavo per includere nella serie me stesso" rispose Conway. "E forse la mia ragione è la più semplice. Mi piace essere qui". Infatti, quando poco dopo fece la sua solita passeggiata serale
lungo la terrazza e verso la vasca dei fiori di loto, provò un senso di profondo benessere fisico e morale. Aveva proprio detto la verità: gli piaceva essere a ShangriLa. Due sensazioni opposte, l'atmosfera calmante e l'assillo del mistero, agivano su di lui con benefico risultato d'equilibrio. Per di più, da alcuni giorni aveva raggiunto grado a grado una bizzarra conclusione circa il monastero e i suoi abitanti: ci stava ancora studiando, ma senza tormento. Era come un matematico che cercando la soluzione di un astruso problema, se ne preoccupasse, sì, ma con molta c alma e spassionatamente. Quanto a Bryant (che però decise di chiamare ancora Barnard) la questione delle sue azioni e della sua identità svaniva subito appena la si inseriva in quel contesto; si salvava solo una frase: "l'intero gioco va a pezzi". Probabilmente Conway dava a questa frase un significato più esteso di quanto non intendesse l'americano: ne sentiva la verità, ma non soltanto nei limiti di un'amministrazione bancaria di credito in America. Era vera tanto a Baskul, come a Delhi come a Londra, tanto per fare una guerra e costruire un impero quanto per i Consolati, per le concessioni commerciali e per i pranzi al palazzo del Governo: c'era un lezzo di dissoluzione su tutto quel mondo di memorie e Barnard l'aveva forse drammatizzato meglio di lui. L'intero gioco andava in pezzi; ma per fortuna non sempre i giocatori erano condotti in giudizio per i pezzi che non riuscivano a salvare. I finanzieri sì, ingiustizia della sorte. Ma a ShangriLa c'era una pace profonda. In un cielo senza luna le stelle brillavano e sulla vetta del Karakal v'era un pallido lume azzurro. Conway era certo che se i portatori attesi fossero giunti in quell'istante, non avrebbe provato una gioia esaltante all'idea di poter partire subito. E, con un sorriso, rifletté che neppure Barnard
sarebbe stato contento. Forse non era giusto mettere al bando un uomo perché aveva perduto cento milioni di dollari; sarebbe stato più facile se avesse soltanto rubato un orologio. Dopo tutto come si potevano perdere cento milioni? Forse soltanto con la stessa leggerezza con cui un ministro potrebbe dichiarare di aver dato via l'India. Ripensò allora a quando avrebbe lasciato ShangriLa con i portatori sulla via del ritorno. Immaginava il lungo viaggio faticoso e il gran momento dell'arrivo alla casetta di qualche piantatore nel Sikkim o nel Baltistan: un momento che doveva essere di gioia delirante, ma che forse poteva anche ri solversi in una disillusione. Poi le prime strette di mano e le prime presentazioni; le prime bevute offerte sulla veranda di un club; visi abbronzati che lo scrutavano con mal celata incredulità. A Delhi sarebbe stato certamente ricevuto dal viceré e dalle autorità: e qui inchini di servi in turbante, infiniti rapporti da scrivere e spedire. Forse anche un ritorno in Inghilterra e a Whitehall; giochi a bordo del piroscafo; la flaccida mano di un sottosegretario; interviste di giornalisti; voci di donna dure, canzonatorie, curiose. "E' proprio vero, Mr' Conway, che quando era nel Tibet...?". Di una cosa poteva esser sicuro: raccontando la sua filastrocca avrebbe potuto ricevere inviti a pranzo per un anno intero. Ma gli sarebbe piaciuto? Gli tornò in mente un detto di Gordon durante gli ultimi giorni a Cartum: "Preferirei vivere da derviscio col Mahdi piuttosto che essere invitato a pranzo tutte le sere a Londra". L'avversione di Conway non era così assoluta, piuttosto pensava che g li sarebbe dispiaciuto molto, e che lo avrebbe anche rattristato, dover raccontare la sua storia al passato remoto. A un tratto, durante queste riflessioni, si vide Chang vicino.
"Signore" disse il cinese meno lentamente del solito, "mi onoro di recarle importanti notizie...". "Ecco che i portatori arriveranno prima del previsto" pensò subito Conway. E provò quella punta di delusione alla quale era già un po' preparato. "Ebbene?" chiese. Chang, dato il suo temperamento e il suo fisico, era in evidente stato di agitazione. "Caro signore, mi congratulo con lei" continuò, "e sono felice di pensare che in certo qual modo il merito è mio. Dopo le mie vive e ripetute raccomandazioni il Gran Lama si è deciso. Desidera vederla subito". Lo sguardo di Conway ebbe un guizzo scherzoso. "Lei è meno coerente del solito, Chang. che cosa è accaduto?". "Il Gran Lama vuole vederla". "Ho capito. Ma perché questa agitazione?". "Perché è un avvenimento straordinario e senza precedenti. Io stesso, pur sollecitandolo, non l'aspettavo così presto. Non sono neppure due settimane che lei è qui, e sta già per essere ricevuto da lui! Una cosa simile non è mai accaduta così presto!". "Sono ancora un po' tra le nuvole, mi scusi. Devo vedere il vostro Gran Lama, questo l'ho capito. Ma c'è qualcos'altro?". "Non le pare che basti?". Conway rise. "Basta, gliel'assicuro; non mi creda sgarbato. Ma stavo pensando a qualcosa di molto diverso... non ci badi. Sarà un onore e un piacere per me conoscerlo. Quando dovrò andarci?". "Adesso. Sono stato mandato per accompagnarla da lui".
"L'ora non è un po' tarda?". "Non importa. Fra poco capirà molte cose, caro signore. E desidero esprimerle la mia personale soddisfazione che questo periodo un po ' imbarazzante sia ormai terminato. Mi creda, è stato spiacevole anche per me doverle così spesso rifiutare le informazioni che desiderava; molto spiacevole. E sono contentissimo di pensare che questo non sarà mai più necessario". "Lei è strano, Chang" rispose Conway. "Ma non si disturbi con altre spiegazioni; apprezzo le sue parole. Andiamo dal Gran Lama; sono prontissimo. La prego, mi faccia strada".
Vii Seguendo Chang attraverso il vasto corti le deserto Conway era in apparenza calmissimo, ma il suo aspetto nascondeva un ardore, che si faceva più intenso di minuto in minuto. A giudicare dalle parole del cinese, era giunto per lui il momento di importanti scoperte; avrebbe presto saputo se le sue congetture erano davvero così inverosimili come potevano sembrare. Ma oltre questo, lo attendeva certo un colloquio interessante. Durante la sua carriera di diplomatico s'era incontrato con molte personalità; ma le numerose delusioni subite avevano finito per scaltrirlo nei suoi giudizi. Niente affatto timido, aveva il prezioso dono di poter dire cose gentili anche in lingue che conosceva poco. Ma forse questa volta il suo compito sarebbe stato semplicemente quello di ascoltare. Notò che Chang gli faceva attraversare delle stanze che non aveva ancora visto; erano in penombra, e alla tenue luce delle lanterne parevano belle. Poi salirono su per una scala a chiocciola fino ad
una porta a cui il cinese bussò; un servo tibetano aprì con tale prontezza che Conway ebbe il sospetto che stesse già pronto lì dietro. Questa parte superiore del monastero era or nata finemente quanto il pianterreno; ma ciò che più colpiva era un calore asciutto quasi irritante, come se tutte le finestre fossero chiuse e funzionasse in pieno un riscaldamento a v apore. Il senso di rarefazione dell'aria aumentava di stanza in stanza, finché Chang si fermò davanti a un'ultima porta che sembrava introdurre a un bagno turco. "Il Gran Lama" mormorò Chang, "la riceverà da solo". Aprì la porta, fece entrare Conway, e richiuse poi così silenziosamente che questi quasi non se ne accorse. Conway rimase lì incerto, non soltanto per quell'aria soffocante, ma anche perché i suoi occhi si abituarono all'oscurità solo dopo parecchi secondi. Si accorse allora di trovarsi in un ambiente piuttosto basso, dalle cortine scure, mobiliato semplicemente con una tavola e poche sedie. In una di queste era seduto un essere piccolo, pallido e rugoso, immobile nell'ombra: dava l'impressione di un antico ritratto a chiaroscuro, quasi svanito. Se si potesse affermare l'esistenza della realtà separata dalla persona fisica, ecco, essa era lì, adorna di una classica dignità, emanazione, più che attributo, della persona stessa. Conway si stupiva di percepire così nettamente tutte queste sensazioni e si chiedeva se non fossero illusorie reazioni fisiche a quel crepuscolare caldo di serra; sotto quello sguardo d'altri tempi, si sentiva girar la testa; fece alcuni passi, poi si fermò. I contorni dello strano personaggio seduto si facevano ora meno vaghi, non però più corporei; era un vecchietto in ricchi abiti cinesi, le cui pieghe ondeggiavano sul vuoto di un corpo emaciato.
"Lei è Mr' Conway?" sussurrò in un inglese perfetto. La voce era dolce e suggestiva, e quasi commuoveva per una malinconia gentile che procurò a Conway una strana beatitudine; ma la parte più scettica ch'era in lui ne diede la colpa alla temperatura. "Sì" rispose. La voce continuò: "Mi fa piacere vederla, Mr' Conway. L'ho mandata a chiamare perché ho pensato che sarebbe utile che discorressimo insieme. Sieda qui, la prego, e non abbia timore. Sono vecchio, e non posso far male a nessuno". Conway rispose: "Esser ricevuto da lei è per me un grande onore". "La ringrazio, mio caro Conway; la chiamerò così alla maniera inglese. Come le ho già detto, questo è per me un momento di grande piacere. La mia vista è cattiva, ma creda, sono capace di vederla con la mente più che con gli occhi. Spero che si sia trovato bene a ShangriLa, dal suo arrivo in poi...". "Benissimo". "Ne sono lieto. Chang ha certamente fatto tutto il possibile. E pure lui è contento. Mi ha detto che gli ha posto molti interrogativi sulla nostra comunità e sulle nostre regole". "Sono certo molto interessanti". "E allora, se vorrà concedermi un po' del suo tempo, sarò lieto di intrattenerla sulla nostra fondazione". "Non potrebbe farmi un piacere maggiore". "E' proprio quel che credevo... e speravo... Ma prima di tutto, prima di cominciare la nostra conversazione...". Fece un impercettibile cenno della mano e subito entrò un servo a preparare l'elegante rito del tè. Conway, che conosceva la cerimonia, guardò con compiacimento le finissime tazzine piene di liquido quasi
incolore che venivano poste sul vassoio di lacca; e la voce riprese: "Vedo che le nostre abitudini le sono familiari". Obbedendo a un impulso che non avrebbe potuto né spiegare né controllare, Conway rispose: "Ho vissuto per alcuni anni in Cina". "A Chang non l'ha detto". "No". "Perché allora mi onora così della sua confidenza?". In generale Conway non si trovava imbarazzato a spiegare le sue ragioni, ma questa volta nessun motivo si presentò al suo spirito. Alla fine rispose: "A voler essere sincero non ne ho la minima idea... forse volevo dirlo proprio a lei". "Ottima ragione, per due persone che voglio no diventare amiche... Questo profumo non le pare indicato? I tè cinesi sono di varie qualità e tutte profumate, ma a parer mio questo speciale prodotto della nostra vallata, può reggere ogni paragone". Conway portò la tazza alle labbra, e bevve. Sentì un sapore leggero e recondito, una fragranza spettrale che non si posava sul palato, ma stava sospesa tutt'intorno. Disse: "E' delizioso, e anche nuovo per me". "Sicuro, è prezioso e unico come molte erbe della nostra valle. Si dovrebbe bere con molta lentezza, e non solo per un sentimento di affezione o di riguardo, ma anche per estrarne il più alto grado di piacere. Possiamo imparare questa famosa lezione da Kou Kai Tchoud, che visse circa quindici secoli fa. Egli esitava sempre quando stava per giungere al midollo dolcissimo della canna da zucchero, perché diceva: "voglio guidare gradualmente me stesso nella regione delle delizie". Ha forse studiato qualcuno dei grandi classici cinesi?".
Conway rispose che ne conosceva pochissimi e superficialmente. Secondo l'etichetta, la conversazione sarebbe continuata così finché fossero state portate via le tazze del tè; Conway lo sapeva ma, nonostante il suo desiderio di sentire la storia di ShangriLa, non trovava irritante il ritardo. Forse sentiva in se stesso un poco della riluttante sensibilità di Kou Kai Tchoud. Finalmente il segnale fu dato, col solito mistero il servo entrò, poi uscì e senz'altri preamboli il Gran Lama di ShangriLa incominciò: "Probabilmente lei conosce, caro Conway, nelle sue linee generali, la storia del Tibet. chang mi ha informato che frequenta assiduamente la nostra biblioteca, e son certo che avrà studiato i pochi, ma interessanti annali di queste regioni. Saprà, in ogni modo, che il Cristianesimo nestoriano era assai diffuso in Asia durante il medioevo, e che dopo la sua scomparsa ne sopravvisse per molto tempo il ricordo. Nel diciassettesimo secolo vi fu un risveglio cristiano appoggiato e spinto direttamente da Roma, per mezzo di quegli eroici missionari gesuiti i cui viaggi, se mi è permesso dirlo, sono molto più interessanti da leggersi rispetto a quelli di San Paolo. A poco a poco la Chiesa si propagò in larga misura, ed è degno di nota (molti europei non se ne rendono conto) che vi sia stata per un periodo di trentotto anni una missione cristiana nella stessa città di Lhasa. Non fu però da Lhasa, ma da Pechino che partirono nel 1719 quattro frati cappuccini per ricercare ciò che della dottrina nestoriana rimaneva nell'interno del paese. "Viaggiarono per mesi verso sudovest, da Lanshor a Koko Nor, incontrando tutte quelle difficoltà che potete immaginare. Tre morirono durante il cammino, il quarto non era molto lontano dalla
morte quando capitò per caso nella gola rocciosa che anche oggi rappresenta l'unica porta per entrare nella valle della Luna Azzurra. Ivi trovò, con gioia e sorpresa, una popolazione amichevole e prospera che si affrettò a dimostrargli ciò che ho sempre considerato come la nostra più antica tradizione: l'ospitalità agli stranieri. Riacquistò presto la salute, e cominciò a predicare la sua fede. Gli abitanti erano buddisti, ma lo ascoltarono volentieri, ed ebbe molto successo. Su questa stessa montagna v'era già un antico monastero di Lama, ma in tale stato di decadenza che il cappuccino vedendo aumentare il numero dei suoi proseliti concepì l'idea di fabbricare nella stessa meravigliosa posizione un monastero cristiano. Sotto la sua sorveglianza il vecchio edificio fu riparato e in gran parte ricostruito, e lui stesso cominciò a vivere qui nel 1734, quando aveva cinquantatré anni. "Lasci che le dica qualcosa di più su costui. Si chiamava Perrault, ed era nato nel Lussemburgo. Prima di dedicarsi alle missioni dell'Estremo Oriente aveva studiato a Parigi, a Bologna e in altre università: era quel che si dice uno studioso. Della sua gioventù ci restano pochi ricordi; ma non gli era occorso nulla di speciale o di diverso da quel che possa accadere a un uomo della sua età e della sua professione. La musica e le arti lo attiravano, aveva una spiccata disposizione per le lingue, e prima di esser certo della sua vocazione aveva conosciuto tutti i piaceri dell'esistenza umana. Durante la sua gioventù c'era stata la battaglia di Malplaquet e conosceva per esperienza gli orrori della guerra e dell'invasione straniera. Fisicamente robusto, durante i primi a nni del suo soggiorno qui lavorò la terra con le sue mani, come facevano gli altri; coltivò l'orto traendo insegnamenti dagli altri e dandone a
sua volta. Trovò lungo la valle giacimenti d'oro, ma non lo tentarono; molto più lo interessavano le piante e le erbe del luogo. Era umile, e niente affatto bigotto. Non approvava la poligamia, ma non vedeva motivo per inveire contro il gusto prevalente per la bacca tangatse che era popolare non solo per le sue virtù medicinali, ma soprattutto perché agiva come blando narcotico. Perrault stesso se ne lasciò sedurre; accettava dalla vita indigena ciò che essa gli poteva offrire di innocuo e di piacevole e prodigava in cambio i tesori spirituali dell'Occidente. Non era un asceta: sapeva godere i beni del mondo, e ai suoi proseliti insegnava il catechismo, ma anche l'arte di cucinare. Desidero darvi l'impressione che Perrault fosse un uomo serio, operoso, colto, semplice ed entusiasta, che, pur non mancando alle sue funzioni di sacerdote, non sdegnava indossare la blusa del muratore e lavorare alla costruzione di queste stesse camere. Naturalmente le difficoltà di quest'ultima impresa erano immense e soltanto il suo orgoglio e la sua perseveranza riuscirono a superarle. Ho detto orgoglio perché certamente questa fu la sua forza fin dal principio: l'orgoglio della sua fede lo rese certo che se Gotamo era riuscito a far costruire dai suoi seguaci un tempio sullo scoglio di ShangriLa, Roma era ben capace di fare altrettanto. "Ma intanto gli anni passarono e, com'era naturale, i propositi orgogliosi cedettero gradualmente il passo a ragionamenti più calmi. Dopo tutto l'emulazione è una virtù giovanile, e all'epoca in cui questo monastero fu ultimato Perrault si trovò carico d'anni. In realtà, secondo un severo punto di vista, non aveva agito regolarmente, quantunque si debba accordare un certo margine di iniziativa a chi viva così lontano dai suoi superiori ecclesiastici, soprattutto quando le distanze si misurano più facilmente in anni che
in miglia. Però la gente della vallata e gli stessi monaci non avevano apprensioni di sorta: lo amavano e gli obbedivano, e col passare degli anni giunsero a venerarlo. Aveva l'abitudine di mandare a intervalli regolari resoconti al vescovo di Pechino, ma spesso non giungevano a destinazione, e siccome era probabile che i messaggeri morissero fra le asprezze e i pericoli del lungo viaggio, Perrault divenne a poco a poco sempre più riluttante ad esporre la vita dei suoi uomini; fino a quando verso la metà del secolo interruppe del tutto quest'abitudine. E' però probabile che qualcuna delle sue prime lettere fosse arrivata e avesse destato qualche sospetto circa le sue attività, perché nel 1769 uno straniero portò un messaggio, scritto dodici anni prima, con l'invito a Perrault di recarsi a Roma. Se l'ordine gli fosse giunto senza ritardo, avrebbe avuto allora settantasette anni; invece quando lo ricevette ne aveva ottantanove. Non avrebbe certo potuto affrontare il lunghissimo viaggio tra le montagne e sull'altipiano, né sopportare le furiose tempeste e il freddo intenso di quella zona semiselvaggia. Mandò una cortese risposta, spiegando la situazione, ma non si seppe mai se questo suo messaggio avesse poi oltrepassato le grandi c atene montuose. "E così Perrault rimase a ShangriLa, non certo per un atteggiamento di sfida agli ordini dei suoi superiori, ma per l'assoluta impossibilità fisica di eseguirli. Del resto, la morte sarebbe presto venuta a metter fine alle sue irregolarità. "Invece, ecco che proprio intorno a quest'epoca nell'istituzione da lui fondata cominciò a verificarsi un sottile mutamento. Mutamento che qualcuno deplorò forse; ma si trattava di un fatto logico; l'incredibile, se mai, era che quest'uomo potesse un giorno riuscire da solo e senz'aiuti a mutare per sempre le abitudini e le tradizioni
di tutta un'epoca. Non aveva nessun collega dell'Occidente che potesse sostituirlo quando gli fossero venute a mancare le forze, e probabilmente era stato un errore costruire il monastero in un luogo ricco di memorie anteriori e diverse. Ma se errore fu, Perrault non lo riconobbe. Era troppo vecchio e troppo felice. I suoi seguaci gli erano devoti anche se qualche volta dimenticavano di seguire i suoi insegnamenti; gli abitanti della vallata avevano per lui un così reverente affetto che non poteva non perdonarli se ricadevano ogni tanto nelle abitudini di prima. Era ancora attivo e tutte le sue facoltà si conservavano acute. All'età di novantott'anni cominciò a studiare i libri buddisti lasciati a ShangriLa dai primi abitanti, ed era sua intenzione dedicare gli anni che gli rimanevano alla preparazione di un libro che attaccasse il buddismo dal punto di vista dell'ortodossia. Riuscì a condurre a termine quest'impresa (abbiamo qui il suo manoscritto completo) ma la critica non fu molto severa perché aveva ormai raggiunto i cento anni, e a quell'età anche i più acerbi rancori tendono a svanire. "Nel frattempo, come potrete immaginare, molti dei suoi primi discepoli erano morti, e siccome pochi erano venuti a sostituirli, il numero di coloro che vivevano a ShangriLa sotto la guida del vecchio cappuccino diminuiva costantemente. Erano stati ottanta da principio, poi si erano ridotti a una ventina, e infine solo a dodici, quasi tutti vecchissimi. La vita di Perrault ormai non era più che una serena e placida attesa della fine. Era troppo vecchio per ammalarsi, o per soffrire di noia; soltanto il sonno eterno avrebbe potuto impadronirsi di lui, ed egli non ne aveva paura. La buona gente della vallata pensava a provvedere il cibo e il vestiario; la biblioteca gli forniva i libri per continuare gli studi prediletti. Era
diventato debole ma conservava energia sufficiente per poter compiere la maggior parte del cerimoniale del suo ufficio; occupava il resto delle sue tranquille giornate con i libri, con i ricordi, e con le dolci estasi del narcotico. La sua intelligenza si conservava straordinariamente lucida, così da consentirgli persino di cominciare uno studio su certe pratiche mistiche che gli indiani chiamano yoga, e che si fondano su vari e speciali metodi di respirazione. Una tale impresa in un uomo della sua età poteva parere arrischiata e infatti poco dopo, in quel memorabile anno 1789, si sparse nella valle la notizia che Perrault stava per morire. "Giaceva in questa camera, mio caro Conway, e dalla finestra poteva scorgere del Karakal quello che i suoi occhi quasi spenti gli permettevano: una nebbia candida; ma vedeva pure con l a sua intelligenza e poteva raffigurarsi quei meravigliosi e netti contorni ammirati per la prima volta mezzo secolo innanzi. Rivedeva pure, come in strano corteo, tutte le passate vicende, gli anni di viaggio attraverso il deserto e l'altipiano, le grandi folle nelle città dell'Occidente, il clangore e lo scintillio delle truppe di Marlborough. la sua mente si adagiava in una calma di neve; era pronto alla morte; ne era desideroso e contento. Radunò attorno a sé gli amici e i servi e li salutò tutti, poi chiese di esser lasciato solo per qualche tempo. Aveva sempre sperato che, giunto quel momento, col corpo cadente e la mente tesa verso la beatitudine avrebbe abbandonato l'anima a Dio... ma non fu così. Giacque per molte settimane immobile senza poter parlare, poi a poco a poco cominciò a migliorare. Aveva centootto anni". Il sussurrio di quella voce cessò un momento e a Conway, che aveva ascoltato senza fiatare, parve che il Gran Lama avesse tradotto
fluidamente in parole un lontano sogno personale. Poi continuò: "Come a coloro che aspettano a lungo sulla soglia della morte, anche a Perrault fu concessa una significativa visione da riportare con sé nel mondo; e di questa visione le parlerò poi. Io mi limiterò qui alle sue azioni e alla sua condotta, che furono realmente degne di nota. Perché invece di trascorrere la sua convalescenza nell'ozio, come ci si poteva aspettare, si tuffò subito in una rigorosa autodisciplina stranamente combinata con l'inveterata abitudine del narcotico. Prendere droghe, e fare esercizi profondi di respirazione non sembrerebbe un sistema con cui sfidare l a morte, eppure quando nel 1794 morì l'ultimo dei vecchi monaci, Perrault era ancora in vita. "La cosa avrebbe fatto sorridere, se a ShangriLa vi fosse stato qualcuno sufficientemente dotato di umorismo. Il rugoso cappuccino, decrepito non più di quanto lo fosse stato durante gli ultimi dodici anni, perseverò segretamente in quel suo strano rituale, mentre, per la gente della vallata, diventava un essere avvolto nel mistero, un eremita dal potere soprannaturale, che viveva solitario su quella formidabile rupe. Ma perdurava una tradizione di affetto verso di lui, e presto diventò azione meritoria e di buona fortuna salire a ShangriLa e lasciarvi un modesto regalo, o eseguirvi qualche necessario lavoro manuale. Perrault concedeva la sua benedizione a tutti questi pellegrini, senza più pensare, forse, che erano pecorelle smarrite: ora, nei templi della valle, si udivano ugualmente il Te Deum laudamus e l'Om Mane Padme Hum. "Mentre stava per nascere il nuovo secolo, la leggenda si trasformò in una strana e fantasiosa superstizione popolare; si diceva che Perrault fosse diventato un dio, che operasse miracoli e che certe
notti volasse sulla vetta del Karakal per alzare un lume verso il cielo. C'è sempre, con la luna piena, un chiarore sulla montagna, ma non occorre che io le dica che mai né Perrault né altri salirono lassù. Gliene parlo, benché possa sembrare inutile, perché esiste una grandissima quantità di testimonianze infondate che tendono ad assicurare che Perrault faceva e poteva fare anche cose impossibili. Si supponeva, per esempio, che possedesse l'arte della autolevitazione medianica di cui si parla tanto nei resoconti del misticismo buddistico, ma la verità è invece che malgrado molti tentativi, non riuscì ad ottenerla. Riuscì invece a scoprire che l'affievolimento di alcuni sensi può essere compensato con lo sviluppo di altri: nella telepatia acquistò un'abilità speciale, e sebbene non pretendesse di poter guarire gli infermi, v'era nella sua sola presenza qualcosa che in certi casi aiutava. "Desidererà sapere in che modo passava il tempo durante questo periodo di vecchiaia senza precedenti. Si può spiegare così il suo modo di pensare: non essendo morto in età normale cominciò a ripetere a se stesso che non c'era motivo perché il fenomeno dovesse o non dovesse verificarsi in un particolare momento futuro. Essendosi già riconosciuto fuori dal comune gli era facile persuadersi che questa anormalità potesse continuare all'infinito, oppure terminare all'improvviso. E pensando così, cominciò ad agire senza più preoccuparsi affatto di quella fine di cui si era già tanto curato; avendo conservato nel cuore, malgrado tanti avvenimenti, i gusti tranquilli dell'uomo studioso, cominciò a vivere una vita come l'aveva sempre desiderata, ma che di rado gli era stata possibile. Dotato di una memoria straordinaria, c he pareva aver spezzato i legami fisici per spaziare in alte regioni di chiarezza ideale, era
quasi convinto di poter imparare qualsiasi cosa con facilità maggiore di quando, nei lontani giorni studenteschi, si credeva capace di imparare tutto. Ma naturalmente fu presto a corto di libri; però fra i pochi che aveva avuto con sé fin da principio v'erano una grammatica e un dizionario inglese e la traduzione di Montaigne fatta da Florio, con l'aiuto dei quali riuscì a imparare la vostra lingua. Nella nostra biblioteca abbiamo ancora il manoscritto di uno dei suoi primi esercizi: una traduzione in tibetano del saggio di Montaigne sulla vanità. Un lavoro unico, suppongo". Conway sorrise. "Mi piacerebbe vederlo, un giorno, se sarà possibile". "Col più grande piacere. Lo giudicherà anche lei, forse, un passatempo di scarso valore pratico; ma non deve dimenticare che Perrault aveva raggiunto un'età... poco pratica davvero. Se non avesse trovato il modo di occuparsi avrebbe sentito la solitudine, per lo meno fino al quarto anno del diciannovesimo secolo, anno che segna una data importante nella stori a della nostra fondazione. Perché giunse dall'Europa nella vallata della Luna Azzurra un altro straniero. Era un giovane austriaco che si chiamava Henschell e aveva combattuto in Italia contro Napoleone: un giovane di famiglia nobile, di vasta cultura, e di modi assai simpatici. Era stato rovinato dalle guerre, e attraverso la Russia era passato in Asia con la vaga intenzione di rifarsi un avvenire. Sarebbe interessante sapere con precisione come fosse giunto all'altopiano, ma lui stesso non ne aveva un'idea chiara perché quando arrivò qui era prossimo a morire come era già accaduto a Perrault. una seconda volta ShangriLa offrì la sua ospitalità, e lo straniero guarì. Ma a questo punto il paragone cessa, perché Perrault era giunto per predicare e
convertire, mentre Henschell s'interessò subito ai giacimenti auriferi. L'unico suo desiderio era di arricchirsi per tornare al più presto in Europa. "Invece non ritornò. Accadde una cosa strana; benché si sia ripetuta poi tante volte che ora potremmo benissimo non chiamarla più così. La valle, con la sua pace e il suo completo distacco dai crucci del mondo, lo incantò al punto da fargli rimandare di giorno in giorno la partenza, finché una volta, udita la leggenda di ShangriLa, vi salì e conobbe Perrault. "L'incontro fu storico, nel senso più solenne che possa avere questa parola. Perrault, benché fosse ormai al di là di ogni sentimento umano di amicizia o di affezione, era tuttavia ricco di uno spirito benigno e condiscendente che toccò il giovane come l'acqua reca beneficio a un terreno arso dal sole. Non cercherò di descriverle i sentimenti che sorsero fra i due: l'uno diede completa adorazione, l'altro fece partecipe il nuovo venuto della scienza, delle sue estasi, del sogno pazzo che era diventato ormai l'unica realtà della sua vita". "Scusi se la interrompo, ma non capisco bene quest'ultima frase". "Lo so". La risposta, sospirata appena, esprimeva una profonda simpatia. "Sarebbe straordinario che potesse capire. Ho intenzione di spiegarglielo prima che il nostro colloquio sia terminato, ma ora, mi perdoni, vorrei limitarmi alle cose più semplici. La interesserà sapere che fu Henschell a cominciare le nostre collezioni di arte cinese, e a fare i primi acquisti per quel che riguarda la biblioteca e la musica. Fece un interessante viaggio a Pechino e ne riportò il primo materiale nel 1809. Da allora non lasciò mai più la valle, ma fu la sua ingegnosità ad architettare il complicato sistema grazie al
quale il monastero fu in seguito capace di procurarsi dal mondo esterno tutto il necessario". "Vi sarà stato facile fare i pagamenti in oro". "Sì, siamo stati fortunati nel possedere scorte di questo metallo tanto stimato in altre parti del globo". "Tanto stimato che è stata per voi una vera fortuna poter schivare una corsa all'oro". Il Gran Lama chinò il capo con un lievissimo cenno di consenso. "Questa fu sempre la paura di Henschell, mio caro Conway. Aveva ogni cura perché i portatori di libri e di tesori d'arte non si avvicinassero troppo; li obbligava a lasciare i loro carichi a una giornata di distanza; noi mandavamo poi gli uomini della nostra valle a ritirarli. Fece pure in modo che all'entrata del valico vegliassero sempre delle sentinelle. Ma s'accorse che esisteva una difesa più facile o definitiva". "Davvero?". L'accento di Conway, benché controllato, ebbe una vibrazione intensa. "Come vede, è inutile temere l'invasione di un esercito; date le distanze, e la natura del paese, non sarà mai possibile. Tutt'al più ci si potrà aspettare l'arrivo di pochi vagabondi quasi sperduti e così indeboliti dalle difficoltà del viaggio da non costituire alcun pericolo anche se fossero armati. Perciò fu deciso che da quel giorno in avanti gli stranieri sarebbero potuti arrivare liberamente, però con una clausola importante. Arrivarono di quando in quando, col passar degli anni, alcuni stranieri; mercanti cinesi desiderosi di attraversare l'altipiano talvolta scelsero a caso questa direzione, fra le molte altre possibili; nomadi tibetani, allontanatisi dalle loro tribù, si perdettero qui talvolta, come animali sfiniti. Furono
tutti bene accolti, ma parecchi raggiunsero il rifugio della valle soltanto per morirvi. Nell'anno di Waterloo due missionari inglesi che viaggiavano verso Pechino, valicarono le catene di monti attraverso un passo sconosciuto ed ebbero la straordinaria ventura di arrivare qui tranquillamente come per una visita. Nel 1820 un commerciante greco, accompagnato da alcuni servi affamati e malati, fu trovato morente sul più alto crinale del passo. Nel 1822 due spagnoli, che avevano sentito parlare vagamente di o ro, giunsero qui dopo molto vagabondare e molte disillusioni. Nel 1830 vi fu maggiore affluenza. Due tedeschi, un russo, un inglese e uno svedese fecero la pericolosa traversata dei TianShan, spinti da uno scopo che andava acquistando popolarità: l'esplorazione scientifica. Verso l'epoca del loro arrivo era avvenuta a ShangriLa una leggera modifica circa le accoglienze da farsi ai forestieri. Non solo erano i benvenuti se capitavano per caso nella valle, ma si era presa l'abitudine di andar loro incontro se si avventuravano entro un certo raggio. Tutto questo per una ragione di cui parleremo poi, ma il punto importante è che il monastero non era più indifferente riguardo ai suoi ospiti; aveva già bisogno e desiderio di nuovi arrivi. E veramente negli anni che seguirono accadde a più di un gruppo di esploratori, felici del loro primo lontano sguardo al Karakal, di incontrare dei messaggeri latori di un cordiale invito che veniva raramente rifiutato. "Intanto il monastero cominciava a prendere molte delle sue caratteristiche attuali. Devo insistere sul fatto che Henschell era abilissimo e intelligente, e che lo ShangriLa di oggi deve a lui altrettanto quanto al suo fondatore. Non meno; lo penso spesso. La sua era quella mano ferma eppure buona di cui ogni istituzione ha bisogno a un certo punto della sua ascesa; e la sua perdita sarebbe
stata irreparabile se prima di morire non avesse compiuto una quantità di lavoro molto superiore a quella di una normale esistenza umana". Conway alzò gli occhi e, debolmente come un'eco, esclamò: "Dunque è morto!". "Sì. Una cosa improvvisa. Fu ucciso. Era l'anno della vostra ribellione indiana. Poco prima della sua morte un artista cinese aveva disegnato il suo ritratto... glielo posso mostrare ora, è in questa camera". Il lieve gesto della mano fu ripetuto, e il servo entrò nuovamente. Conway, come uno spettatore ipnotizzato, vide il tibetano scostare una tenda all'altro capo della stanza e appendere una lanterna nell'ombra. Poi udì il bisbiglio che lo invitava ad avvicinarsi, il bisbiglio risuonante ormai al suo orecchio come una ben nota musica. Si alzò vacillando e traversò la stanza fino al tremulo cerchio di luce. Il disegno era piccolo, poco più di una miniatura in inchiostri colorati, ma l'artista era riuscito a dare alle carni un tono cereo di grande delicatezza. I tratti del viso erano molto belli, di una linearità quasi femminile, e Conway, oltre ai suggestivi fascini del tempo, della morte e dell'arte, trovò in quella bellezza qualcosa che gli toccò il cuore. Ma ancor più strano fu ciò che scoprì dopo il suo primo impeto di ammirazione: il viso era quello di un giovane. Tornando indietro balbettò: "Ma... ha detto... c he questo ritratto... fu dipinto poco prima della sua morte...". "Sì. Gli somiglia moltissimo". "Eppure, se è morto nell'anno in cui asserisce...". "Sì". "Ed è arrivato qui nel 1803, ha detto, quando era giovane?".
"Sì". Conway non rispose subito, poi con uno sforzo si riprese e domandò: "Mi diceva che è stato ucciso?". "Sì, fu ucciso da un inglese; un altro esploratore; da poche settimane a ShangriLa". "Per quale motivo?". "Aveva litigato a proposito di alcuni portatori. Henschell gli aveva appena comunicato la condizione che regola la nostra accoglienza degli ospiti: compito un po' difficile, che d'allora in poi, malgrado la mia debolezza, sono stato costretto a eseguire io stesso". Il Gran Lama fece un'altra pausa più lunga, in cui c'era una muta domanda; poi continuò: "Forse sta cercando, caro Conway, quale possa essere questa condizione?". Conway rispose lentamente e a bassa voce: "Credo di aver già indovinato". "Davvero? E non può indovinare altro, dopo questa mia lunga e strana storia?". Conway provava un senso di vertigine che gli impediva di rispondere: la stanza era come un vortice d'ombre al cui centro stesse quel benevolo personaggio antico. Aveva ascoltato la narrazione con tale intensità che forse non aveva potuto afferrar bene tutto, ma ora si impadroniva di lui uno stupore profondo, e la certezza che si faceva largo nel suo cervello lo soffocava mozzandogli le parole. "Pare impossibile" balbettò. "Eppure non posso fare a meno di pensare... è stupefacente... è straordinario... incredibile... ma non
è al di là della mia comprensione...". "Che cosa, figlio mio?". E Conway, scosso da un'emozione irrazionale che tuttavia non tentò di nascondere, rispose: "Che lei sia ancora in vita, Padre Perrault".
Viii Vi fu una pausa, causata dal desiderio del Gran Lama di prendere ancora un po' di tè; Conway non se ne meravigliò, perché dopo un racconto così prolungato il vecchio doveva provare una tensione nervosa piuttosto forte. E lui stesso desiderava un attimo di riposo. Sentiva che quest'intervallo era necessario anche da un punto di vista estetico, e che le tazzine del tè, col loro accompagnamento convenzionale di cortesie apparentemente improvvisate, avevano la stessa funzione che ha la cadenza alla fine di un brano musicale. Questo suo pensiero ebbe come conseguenza immediata una strana dimostrazione del potere telepatico del Gran Lama (o fu soltanto coincidenza casuale?) perché questi cominciò subito a parlare di musica rallegrandosi che almeno in questo i gusti di Conway avessero trovato appagamento a ShangriLa. Conway rispose con la dovuta cortesia e aggiunse che era rimasto molto sorpreso nel trovare al monastero una raccolta di composizioni europee tanto completa. Il complimento parve ben accetto, durante il l ento sorseggiare del tè. "In questo, mio caro Conway, siamo assai fortunati, perché uno dei nostri è un musicista di valore. E' stato infatti allievo di Chopin, e abbiamo affidato a lui con gioia l'intera direzione della nostra sala da musica. Sarà bene che lo conosciate". "Molto volentieri. So già da Chang che fra i musicisti
dell'Occidente il vostro favorito è Mozart". "E' vero" rispose. "Mozart possiede un'eleganza austera che corrisponde ai nostri gusti. Egli costruisce una casa non troppo grande né troppo piccola, e la ammobilia con sensibilità perfetta". Questo scambio di commenti continuò finché le tazze del tè furono portate via, e dopo quella breve interruzione Conway si sentì in grado di osservare con calma: "Così, per continuare la nostra discussione di prima, la sua intenzione verso me e i miei compagni è di trattenerci qui? La condizione importante e inevitabile è questa, io credo". "Ha indovinato, figlio mio". "E dobbiamo rimanere qui per sempre?". "Preferirei servirmi della vostra eccellente lingua inglese e invece di dire "per sempre" direi: tutti quanti noi siamo qui... per il meglio". "Ciò che non riesco a capire è perché siamo stati scelti proprio noi quattro fra tutti gli abitanti del mondo". Riprendendo il suo pomposo modo di prima, il Gran Lama rispose: "E' una storia un po' complessa. Dovete sapere che fin dall'inizio ci siamo proposti di mantenere il reclutamento, per quanto è possibile, in numero costante, e che, a parte ogni altra ragione, è molto piacevole avere fra noi gente di varia età e che rappresenti periodi storici differenti. Ma disgraziatamente dopo la guerra europea e la rivoluzione russa, i viaggi e le esplorazioni nel Tibet sono quasi completamente cessati; infatti l'ultimo nostro ospite, un giapponese, arrivò nel 1912, e non fu neppure un acquisto molto prezioso. Devo dirle, mio caro Conway, che noi non siamo affatto ciarlatani, e perciò non possiamo né vogliamo garantire il successo del nostro
sistema. Alcuni fra i nostri ospiti non traggono alcun beneficio dal loro soggiorno qui; altri vivono soltanto fino a un'età normalmente avanzata, poi muoiono per indisposizioni da nulla. Abbiamo in generale rilevato che i tibetani, avvezzi a quest'altitudine e alle rimanenti condizioni di vita, soffrono molto meno delle altre razze; sono gente simpatica, e ne abbiamo ricevuti molti; ma temo che ben pochi di loro sopravvivranno oltre i cento anni. I cinesi resistono meglio, ma anche con loro abbiamo avuto numerosi insuccessi. Senza dubbio i soggetti migliori sono per noi le razze europee latine e nordiche: forse sarebbero ugualmente adatti gli americani degli Stati Uniti e stimo una fortuna che vi sia tra i suoi compagni un cittadino di quella nazione. Comunque, per tornare sulla via che mi farà rispondere alla sua domanda, la nostra posizione, come le spiegavo, era dunque questa: per circa due decadi non avevamo accolto nessun nuovo venuto, e siccome parecchi degli adepti erano morti, si affacciava il problema di sostituirli. Ma qualche anno fa uno dei nostri ci venne in aiuto con un'idea nuova: era un giovane della nostra vallata, degno di tutta la fiducia e simpatizzante con gli scopi propostici; purtroppo, come si verificava sempre per tutti quelli della valle, a lui era negato per natura ciò che viene più fortunatamente accordato a quelli del mondo lontano. Si offrì di partire, di raggiungere le terre circostanti e di portarci dei nuovi compagni servendosi di un mezzo che sarebbe stato impossibile in età precedente. La proposta ci parve sulle prime rivoluzionaria, ma dopo matura riflessione acconsentimmo. Perché bisogna camminare coi tempi nuovi, anche a ShangriLa". "Vuole dire che fu mandato col preciso compito di riportare qualcuno per via aerea?".
"Era un giovane intelligentissimo e di molte risorse, e noi avevamo in lui grande fiducia. Fu un'idea sua e si diede carta bianca per eseguirla. Tutto ciò che sapevamo era che la prima parte del suo progetto comprendeva un periodo di addestramento in una scuola di volo americana". "Ma come poté compiere il resto? Fu puro caso che un aereo di quel tipo si trovasse a Baskul...". "E' vero, caro Conway, molte cose accadono per caso. E il caso che Talu attendeva era proprio quello. Se avesse perduto quell'occasione, avrebbe dovuto aspettare un anno o due, e forse inutilmente. Vi confesso la mia sorpresa quando le sentinelle ci avvertirono del suo atterraggio sull'altipiano. In aviazione i progressi sono molto rapidi, ma a me sembrava che dovesse occorrere un tempo maggiore prima che un apparecchio normale potesse attraversare queste montagne". "Ma non si trattava di un apparecchio normale. Era stato costruito apposta per voli a grandi altezze". "Un altro caso?... Il nostro giovane fu davvero fortunato. Peccato non poterne parlare con lui: la sua morte ci addolorò molto. Talu le sarebbe piaciuto, Conway". Conway annuì; lo trovava possibile. Poi, dopo un breve silenzio, domandò: "Ma qual è infine il suo proposito?". "Figlio mio, il modo con cui mi rivolge questa domanda mi dà un infinito piacere; nel corso della mia lunga esperienza non mi era mai stata rivolta in tono così pacato. Prima d'ora la mia rivelazione è stata accolta in tutti i modi immaginabili; con indignazione, spavento, furia, incredulità, isterismo; mai con semplice interesse. Io accetto con tutto il cuore questa sua disposizione di spirito.
Oggi sente interesse, domani sarà ansioso, e chissà, in avvenire potremo contare sul suo consenso devoto". "Lei ora dice molto di più di quanto io possa prometterle". "Anche il suo dubbio mi piace: è la base di una fede profonda e sensata... Ma non divaghiamo. Sente interesse, e per un uomo come lei è molto. L'unica richiesta in più è di non svelare, per ora, ai suoi compagni ciò che sto per dirle". Conway tacque. "Verrà il giorno in cui anche loro sapranno, ma è meglio non affrettare quel momento. Sono così certo della sua saggezza in proposito che non le domando una promessa; lei agirà, lo so, come pensiamo entrambi che sia meglio... Ora lasci che io le tracci un quadro molto piacevole. Lei è ancora abbastanza giovane; ha dinanzi tutto un avvenire, come suol dirsi: e normalmente la sua attività dovrebbe, per venti o trent'anni ancora, diminuire di ben poco. Una prospettiva lieta, che certamente lei è lontanissimo dal considerare come la considero io sotto il mio speciale punto di vista: un troppo rapido e affannoso intermezzo. Il primo quarto di secolo della sua vita è stato da lei indubbiamente vissuto nella nebbia dell'esser troppo giovane per le cose, mentre l'ultimo quarto sarà normalmente oscurato per lei da quella nebbia ancor più fitta dell'esser troppo vecchio per esse: fra queste due nubi che piccolo e stretto raggio di sole illumina una vita umana! Ma può darsi che lei sia più fortunato degli altri, perché, secondo le norme e i calcoli di ShangriLa, i suoi anni di sole sono appena incominciati. Le accadrà forse, tra qualche decennio, di sentirsi tale e quale come oggi; lei potrà forse conservare a lungo, come fece Henschell, una meravigliosa giovinezza, ma badi, questa sarà soltanto una prima fase superficiale. Verrà un
tempo in cui invecchierà come gli altri, anche se in modo meno rapido, e in condizioni meno avvilenti; a ottant'anni potrà salire fino al valico con l'andatura di un giovane, ma non speri che questa cosa meravigliosa possa continuare quando avrà raggiunto il doppio di quell'età. Noi non facciamo miracoli, noi non abbiamo vinto la morte, e neppure il decadimento. Tutto ciò che abbiamo fatto, e che possiamo fare talvolta, è allargare i tempi di questo intervallo che si chiama vita. E lo otteniamo con metodi che sono tanto semplici qui quanto sarebbero impossibili altrove; ma non s'inganni, la fine ci attende poi tutti. "Io le svelo tuttavia una prospettiva piacevole, lunghe o re di calma durante le quali osserverà un tramonto come gli uomini del mondo esterno ascoltano lo scoccare delle ore, e con preoccupazione molto minore. Verranno gli anni, e passeranno, e lei dai godimenti della carne passerà in regni più austeri, ma di non minore soddisfazione; perderà la forza dei muscoli, e l'aspetto giovanile, ma un nuovo guadagno la ripagherà di questa perdita: raggiungerà la calma e la profondità, la maturità e la saggezza, e l'incantevole limpidezza della memoria. E, tesoro più prezioso di ogni altro, avrà il tempo, dono raro e bellissimo che nei vostri paesi occidentali si perde quanto più lo si ricerca. Rifletta un momento. Potrà leggere a suo agio; non salterà più le pagine per risparmiare qualche minuto, né tralascerà uno studio per timore che poi la assorba troppo. Lei ama la musica, ha detto; ebbene, ecco qui partiture e strumenti, e tutto il tempo e la calma per penetrarne l'intera bellezza. E lei è pure, posso dirlo, un uomo di buona compagnia; non si rallegra al pensiero di sagge e serene amicizie, di un lungo amichevole scambio mentale da cui la morte non la strapperà con la sua fretta consueta?
Oppure, se preferisce la solitudine, potrà servirsi dei nostri vasti cortili e appartamenti per arricchire la mente in pensieri solitari...".
La voce si fermò creando una pausa che Conway non volle riempire. "Vedo che non fa alcun commento, mio caro Conway. Perdoni la mia eloquenza; io appartengo a un'epoca e a una nazione che non hanno mai considerato di cattivo gusto il dono della favella... Ma forse lei sta pensando a una moglie, a genitori, a figlioli, lasciati laggiù nel mondo? Mi creda, benché ora ne possa provare una pena acuta, fra un decennio non sentirà più, di questa pena, neppure l'ombra. Ma direi, leggendole negli occhi, se non erro, che lei non abbia alcuna di tali preoccupazioni". Conway fu colpito da quel giudizio così esatto. "E' proprio così" rispose. "Non ho moglie; ho pochi amici veri, e nessuna ambizione speciale". "Nessuna ambizione? Come ha fatto a salvarsi da una malattia tanto diffusa?". Conway si accorse che ora, dopo aver lungamente ascoltato, stava prendendo parte attiva alla conversazione. "Gran parte di quel che nella mia professione è considerato buon successo mi è riuscito sempre antipatico, e richiedeva, secondo me, più sforzo del necessario. Ero nel servizio consolare in un posto affatto in sottordine, ma per me andava benissimo". "Ma non vi dedicava tutto se stesso?". "No, non tutto me stesso, e neppure metà delle mie energie. Io sono di natura piuttosto pigro". Le rughe si accentuarono e si intrecciarono sul viso del Gran Lama,
tanto che parve a Conway ch'egli sorridesse. "Esser pigri nel fare certe cose può anche essere una virtù" continuò la debole voce sussurrante. "In ogni caso vedrà che noi non pretendiamo mai troppo. Credo che Chang le abbia spiegato il nostro principio della moderazione, e una delle cose in cui siamo sempre moderati è appunto l'attività. Io stesso, per esempio, sono stato capace di imparare dieci lingue: avrei potuto impararne venti lavorando smodatamente. Ma non l'ho fatto. E accade lo stesso nelle altre cose: non ci troverà né uomini dissoluti né asceti. Finché non raggiungiamo quell'età in cui è necessario aver cura di noi stessi, gustiamo volentieri i piaceri della tavola, mentre per i nostri colleghi più giovani le donne della vallata hanno felicemente applicato il principio della moderazione alla loro castità. Tutto considerato, credo che lei si abituerà senza difficoltà al nostro sistema di vita. Chang era in proposito molto ottimista, e lo sono anch'io dopo questo nostro incontro. Ma devo ammettere che c'è in lei una strana caratteristica che non avevo mai trovato in alcuno dei nostri ospiti. Non è proprio cinismo, e ancor meno amarezza; forse è in parte un senso di delusione, ma anche una chiarezza di idee che non mi sarei mai aspettato in nessun uomo di età diciamo inferiore a un secolo, o giù di lì. Lei è, per dirlo in una parola: spassionato". Conway rispose: "Una parola, nel mio caso, abbastanza espressiva. Non so se lei abbia l'abitudine di classificare la gente che giunge qui, ma se lo fa può scrivere per me così: 1914-1918. Credo che costituirei un campione unico nel suo museo di antichità. I tre che sono giunti con me non hanno niente a che fare con questa categoria. Io ho consumato durante quei quattro anni la maggior parte delle mie energie e delle mie passioni, e benché non ne parli molto, la sola
cosa che ho chiesto al mondo dopo di allora è di esser lasciato in pace. Trovo in questo luogo un fascino e una quiete che mi toccano, e senza dubbio, come ha detto lei, mi ci abituerò". "E questo è tutto, figlio mio?". "Credo di applicar bene a me stesso la vostra regola di moderazione; non le pare?". "Lei è intelligente: Chang me l'aveva detto che è molto intelligente. Ma dica, nella prospettiva che le ho delineato non v'è nulla che le susciti un sentimento più forte?". Conway tacque a lungo, poi rispose: "Il suo racconto del passato mi ha fatto una profonda impressione, ma se devo essere sincero, il suo progetto circa il futuro mi interessa soltanto in astratto. Non so guardare così lontano. Mi spiacerebbe certamente dover lasciare ShangriLa domani, o la settimana prossima, o magari l'anno venturo, ma non posso prevedere adesso quel che penserei in proposito quando avessi c ent'anni. Sento di poter considerare serenamente questo avvenire come qualsiasi altro; ma perché io mi ci appassioni devo avere uno scopo. Mi son chiesto più di una volta se la vita stessa abbia uno scopo; e se non l'ha, una vita lunghissima deve essere ancora più insulsa...". "Le tradizioni di questo monastero, buddiste e cristiane insieme, offrono forza e fiducia, amico mio". "Può darsi. Ma temo di aver bisogno d'una ragione molto chiara e precisa, prima di risolvermi a invidiare i centenari...". "Una ragione c'è, ed è chiara e precisa. La trova in questa colonia di stranieri riuniti dal caso per vivere oltre il loro normale termine di vita. Non è un esperimento vano, e neppure un capriccio assurdo, il nostro. Abbiamo un sogno e una visione. E' la stessa
visione che apparve la prima volta al vecchio Perrault quando giaceva morente in questa stanza nel 1789. Come le ho già detto, rivedeva col pensiero tutta la sua lunga vita, e gli pareva che le cose più belle fossero passeggere e caduche, e che la guerra, la concupiscenza e la brutalità le avrebbero un giorno schiacciate fino a non lasciarne più traccia. Ricordò avvenimenti già visti con i propri occhi, e con la mente ne immaginò altri; vide le nazioni farsi più forti, non in saggezza ma per passioni volgari e per volontà di distruggere; vide la potenza delle loro macchine moltiplicarsi al punto che un solo uomo armato avrebbe potuto gareggiare con un intero esercito del Gran Re. E si accorse che non appena avessero riempito d'orrore e di rovine la terra e il mare si sarebbero rivolti all'aria... Può dire che questa visione non fosse vera?". "Verissima, purtroppo". "Ma non era tutto. Previde il tempo in cui gli uomini, inebriati dalla nuova tecnica dell'omicidio, si sarebbero accaniti a tal punto contro il mondo intero che ogni cosa bella sarebbe stata in pericolo, che ogni libro, ogni quadro, ogni musica, i tesori custoditi per due millenni, le cose più sublimi, delicate, senza difesa, si sarebbero perdute per sempre, come i libri di Livio, o sarebbero state saccheggiate come gli inglesi saccheggiarono il Palazzo d'Estate a Pechino". "Condivido perfettamente la sua opinione". "E' naturale. Ma che cosa contano contro il ferro e l'acciaio le opinioni di uomini ragionevoli? Mi creda, la visione del vecchio Perrault diverrà realtà. Ed è per questo che io son qui, figlio mio, e che c'è lei, e che dobbiamo pregare di poter sopravvivere al fato che da ogni parte ci si stringe attorno".
"Sopravvivere?". "Una probabilità c'è. Prima che lei sia vecchio quanto me tutto sarà passato". "E ShangriLa potrà sfuggire al comune destino?". "Forse. Aspettarci misericordia è inutile; ma possiamo sperare che per trascuratezza il fato ci lasci in disparte. Staremo qui con i nostri libri, con la nostra musica, con le nostre meditazioni, a custodire le fragili eleganze di un'età moribonda, cercando quella saggezza di cui gli uomini avranno tanto bisogno quando le loro passioni si saranno consumate. Abbiamo un patrimonio da amare e da tramandare. Fino al giorno in cui dovremo lasciarlo agli eredi, accettiamo dunque i piaceri che ci sono concessi". "E poi?". "Poi quando i forti si saranno divorati l'un l'altro, figlio mio, allora forse l'etica cristiana finalmente trionferà, e sarà dato ai mansueti il regno della terra". Una sfumatura di enfasi arricchì il mormorio, e Conway ne fu conquistato; allora sentì intorno a sé l'ondata di oscurità, ma simbolicamente, come se il mondo esterno si preparasse già per l'uragano. Vide allora che il Gran Lama stava per muoversi, lo vide sorgere dalla sedia, star ritto come l'incarnazione di un'ombra. Conway venne avanti per aiutarlo ma, colto improvvisamente da un nuovo irresistibile impulso, fece quel che non aveva mai fatto dinanzi a nessun uomo: s'inginocchiò senza quasi sapere il perché. "La comprendo, padre", disse. In qual modo poi si fosse congedato non riuscì a ricordarlo. Passando dal calore di quelle stanze là in alto all'aria gelida della notte s'era come svegliato da un sogno, e trovandosi in presenza di
Chang, silenziosamente sereno, aveva attraversato con lui i c ortili sotto la luce delle stelle. ShangriLa non aveva mai offerto ai suoi occhi una così grande e completa bellezza: gli pareva che la vallata fosse lì subito oltre l'orlo del dirupo, e se l'immaginava come un'acqua calmissima in perfetto accordo con la pace dei suoi pensieri. Conway aveva ormai superato anche il sentimento della meraviglia. Quella lunga conversazione, così ricca di fasi, l'aveva liberato di tutto, lasciandogli soltanto una piena soddisfazione della mente, dei sentimenti, e dello spirito; nemmeno i dubbi lo tormentavano più; erano entrati anch'essi a far parte dell'intero tessuto armonico. Né Chang né lui parlarono. Era molto tardi, e Conway fu contento che tutti gli altri fossero già andati a letto.
Ix La mattina dopo Conway fantasticò a lungo se tutto ciò che gli tornava alla memoria non appartenesse a una visione avuta dormendo o vegliando. Ma fu presto costretto a ricordare con precisione. Quando si presentò a colazione fu accolto da un coro di domande. "Che discorso lungo ieri col principale..." cominciò l'americano. "Che tipo è?". "Ha detto qualcosa riguardo i portatori?" chiese avidamente Mallinson. "Spero che gli avrà parlato dell'utilità di far stabilire qui un missionario" disse Miss Brinklow. L'attacco indusse Conway a preparare le consuete armi difensive. "Temo di dover dare una delusione a tutti" cominciò scegliendo la via più facile. "Non gli ho accennato affatto la questione delle
missioni; non mi ha parlato di portatori, e quanto al suo aspetto posso dirvi soltanto che è vecchissimo, c he parla l'inglese molto bene, e che è proprio intelligente". Mallinson interruppe irritato. "La cosa più importante per noi è sapere se ci si possa fidare o no. Crede che voglia ingannarci?". "Non mi ha dato l'impressione di essere disonesto". "Come mai non ha insistito riguardo i portatori?". "Non ci ho pensato". Mallinson lo fissò incredulo. "Non la capisco più, Conway. A Baskul ha condotto talmente bene la faccenda ch'io non posso credere che sia lo stesso uomo. Sembra andato in pezzi". "Me ne dispiace". "Non serve che gliene dispiaccia. Dovrebbe mettersi di puntiglio e interessarsi di quel che ci capita". "Mi ha frainteso. Volevo dire che mi dispiace di deluderla". La voce di Conway era asciutta come se cercasse di mascherare i suoi sentimenti, i quali, del resto, erano talmente confusi che nessuno sarebbe riuscito a indovinarli. Si era meravigliato lui stesso della sua facilità a fuorviare ogni indagine: era chiaro che intendeva seguire il consiglio del Gran Lama e mantenere il segreto. E si stupiva pure della sua naturalezza nell'accettare una posizione che i suoi compagni avrebbero giudicato, non senza motivo, come un tradimento verso di loro: certo, come aveva detto Mallinson, da un eroe c'era da aspettarsi ben altro. Conway provò per il giovane un'improvvisa e pietosa tenerezza; poi si irrigidì pensando che quando si ha il culto di un eroe bisogna essere preparati alle delusioni. A Baskul Mallinson era stato il novellino che adora il suo caposquadra; ora questi vacillava... era forse già caduto dal
piedistallo. E' sempre triste il crollo di un ideale, anche se illusorio; l'ammirazione di Mallinson avrebbe potuto almeno in parte consolare Conway della fatica di fingersi ciò che non era. Ma ora non si poteva più fingere. C'era nell'aria di ShangriLa un che, dovuto forse all'altezza, che impediva lo sforzo di un'emozione simulata. Conway disse: "Senta, Mallinson, è inutile continuare a ricordare Baskul. allora era diverso; era completamente diversa anche la nostra situazione". "Diversa e più sana. Sapevamo almeno cosa ci aspettava". "Per esser precisi ci aspettavano assassinii e rapine. Se vuole, può chiamarli più sani". La voce del giovane si fece più acuta: "Sì, in un certo senso li dico davvero più sani. Preferisco un chiaro pericolo di fronte, piuttosto che tutti questi misteri". Poi continuò all'improvviso: "Per esempio, quella ragazza cinese... Come ha potuto arrivare qui? Gliel'ha detto il Gran Lama?". "No, perché avrebbe dovuto dirmelo?". "E lei perché non glielo ha chiesto, se la interessa? Trova tanto naturale che una ragazza così giovane viva in un monastero in mezzo ai monaci?". "Questo non è un monastero come gli altri" fu la sola risposta che poté dare dopo averci pensato. "Non lo è davvero, Dio mio!". Tacquero perché evidentemente era difficile continuare la discussione. La storia di LoTsen pareva a Conway lontana dall'argomento; la piccola manciù stava così quietamente nei suoi pensieri che quasi non se ne accorgeva. Ma appena si parlò di lei, Miss Brinklow alzò gli occhi dalla grammatica tibetana che stava
studiando anche durante la colazione; (e Conway pensò segretamente che per far ciò avrebbe avuto tempo tutta la vita). A proposito di ragazze e di monaci le tornavano in mente quelle storie di templi indiani che i missionari protestanti raccontavano alle loro mogli, e che queste riferivano poi alle loro colleghe zitelle. "Si sa già" disse a denti stretti "che in questi luoghi la morale è disastrosa; ce lo potevamo aspettare". Si vo lse a Barnard, come a chiedergli approvazione, ma l'americano si limitò a fare una smorfia. "Non credo che voialtri ci teniate molto a conoscere la mia opinione in materia di morale" osservò seccamente. "Ma se posso esprimere anch'io un mio pensiero, dico che litigare non serve a nulla. Giacché siamo obbligati a star qui ancora un bel po', tanto vale non arrabbiarsi e prender le cose con calma". Conway trovò l'esortazione giudiziosa, ma Mallinson non si placava. "Lei, si capisce" disse con intenzione, "starà meglio qui che a Dartmoor". "Dartmoor? Il vostro grande penitenziario? Sfido! Non ho mai invidiato chi vi abita. E devo dirle anche un'altra cosa: a prendermi in giro così, non creda di offendermi. Pelle dura e cuore tenero, ecco come son fatto". Conway lo guardò con una certa stima, poi si volse a Mallinson quasi a rimproverarlo, ma ebbe a un tratto la sensazione che stessero tutti quanti recitando su un grande palcoscenico di cui lui fosse l'unico a conoscere lo sfondo, e saperlo e doverlo tacere gli diede un desiderio improvviso di stare solo. Con un cenno di saluto uscì nel cortile. Ogni disagio svanì in vista del Karakal, e i rimorsi verso i tre compagni si dileguarono in una misteriosa accettazione di quel nuovo mondo così lontano dal loro spirito. Verrà un tempo,
pensò, in cui l'evidente mistero di tutte le cose renderà ancora più difficile la spiegazione di qualche mistero singolo; e allora si accerterà tutto senza più stupirsi. Aveva dunque già tanto progredito a ShangriLa; e ricordò che un'imparzialità simile, ma assai meno piacevole, l'aveva già raggiunta durante i suoi anni di guerra. Per adattarsi alla doppia vita cui sarebbe stato costretto, aveva bisogno di essere imparziale. Coi compagni, d'ora in poi, avrebbe dovuto vivere in una ristretta zona controllata dal pensiero dell'arrivo dei portatori e del ritorno in India ma negli altri momenti l'orizzonte si alzava per lui come un sipario, il tempo si allargava e lo spazio si restringeva, e il nome di Luna Azzurra assumeva un significato simbolico. Si chiedeva quale delle due vite fosse la più reale, ma il problema non era urgente; e di nuovo ripensava alla guerra, perché durante i bombardamenti aveva avuto la stessa sensazione confortante di possedere diverse vite, di cui una sola poteva esser reclamata dalla morte. Naturalmente ora Chang gli parlava senza più riserve e avevano lunghe conversazioni sulle regole e l'andamento del monastero. Così Conway imparò che durante i primi cinque anni avrebbe vissuto una vita normale, senza alcun regime speciale; c iò si faceva sempre, diceva Chang, "per abituare il corpo all'altitudine ed anche per dare ai rimpianti sentimentali e morali i l tempo di disperdersi". Conway osservò sorridendo: "Dunque siete certi che non esista sentimento capace di sopravvivere a una lontananza di cinque anni?". "Certo può sopravvivere, ma soltanto come una lieve fragranza di cui potremo poi gustare la malinconia". E Chang continuò a spiegare che dopo i cinque anni di noviziato
sarebbe iniziata la pratica del sistema per ritardare la vecchiaia. In caso di favorevole riuscita Conway avrebbe potuto vivere circa mezzo secolo ancora dimostrando in apparenza una quarantina d'anni: età bellissima per rimanervi fermi a lungo. "E che cosa mi dice di lei? Che risultato si è avuto nel suo caso?". "Ah, caro signore, io ho avuto la fortuna di arrivare qui giovanissimo; avevo solo ventidue anni. Ero militare; comandavo delle truppe che nel 1855 operavano contro tribù di briganti. Stavo facendo coi miei soldati una ricognizione, ma non potei tornare indietro a riferirne il risultato ai superiori perché mi perdetti nelle montagne. Dei miei cento uomini solo sette sopravvissero ai rigori di questo clima. Quando fui finalmente soccorso e condotto a ShangriLa ero così mal ridotto in salute che fui salvato soltanto dalle risorse della mia giovinezza". "Ventidue anni" ripeté Conway mentre faceva mentalmente un conto. "Perciò ora ne ha novantasette?". "Sì. Ben presto, se i Lama daranno il loro consenso, riceverò l'iniziazione completa". "Capisco. Deve aspettare di aver raggiunto la cifra tonda". "No, noi non abbiamo veramente un limite fisso, ma in generale si ritiene che un secolo sia l'età giusta oltre la quale le passioni e le fallaci idee di un'esistenza normale sono probabilmente scomparse". "Pare anche a me. E dopo l'iniziazione che cosa farà? Per quanto tempo crede di poter ancora vivere?". "Spero di entrare nel lamaismo con tutte quelle probabilità che sono possibili a ShangriLa. Riguardo poi agli anni, avrò forse
davanti a me un altro secolo, e anche più". Conway assentì. "Mi congratulo con lei, se permette; pare che abbia avuto il meglio nei due sensi: dietro a lei sta una lunga e felice gioventù, e di fronte ha una non meno lunga e piacevole vecchiaia. E quando ha cominciato apparentemente a i nvecchiare?". "Quando avevo più di settant'anni. Capita spesso così, benché ancor oggi sembri forse più giovane di quanto non sia". "Certamente. E supponendo che lei debba lasciare adesso la v alle, che cosa accadrebbe?". "Se restassi assente per alcuni giorni, mori rei". "Perciò quest'atmosfera è indispensabile?". "Esiste una sola vallata della Luna Azzurra, e sarebbe troppo chiederne alla natura una seconda". "Ebbene, che cosa sarebbe accaduto se per esempio l'a vesse lasciata trent'anni fa, durante la sua prolungata giovinezza?". Chang rispose: "Forse anche allora sarei morto. Avrei in ogni modo preso subito l'aspetto di un uomo della mia vera età. Alcuni anni or sono ne avemmo un esempio strano, benché altri esempi meno significativi vi fossero stati anche prima. Uno dei nostri lasciò la valle per recarsi ad incontrare alcuni viaggiatori del cui arrivo eravamo stati informati. Costui era un russo; era giunto qui la prima volta nel fiore degli anni e si era così bene adattato ai nostri sistemi di vita che a circa ottant'anni ne dimostrava la metà. Avrebbe dovuto rimanere assente una sola settimana (il c he non avrebbe avuto importanza per lui) ma disgraziatamente fu fatto prigioniero da alcune tribù di nomadi e condotto a una certa distanza. Sospettammo qualche incidente e lo credemmo perduto. Invece, dopo tre mesi circa,
riuscì a fuggire e a tornare a ShangriLa. Ma era del tutto mutato nell'aspetto e nella persona: rivelava chiaramente la sua età, e morì poco dopo, come può morire un vecchio". Conway per un po' non rispose. Erano in biblioteca, e durante quasi tutto il racconto aveva fissato attraverso la finestra il valico che conduceva al mondo esterno: una piccola nuvola ne velava gli orli. "E' una storia poco allegra, Chang" commentò finalmente. "Dà l'impressione che il tempo sia un mostro in agguato, che ci aspetti fuori della valle per impadronirsi dei negligenti che son riusciti a sfuggirgli più a lungo di quanto avrebbero dovuto". "Negligenti?" chiese Chang. conosceva l'inglese molto bene, ma talvolta uno speciale modo di dire non gli riusciva del tutto chiaro. "Negligente" spiegò Conway, "un uomo pigro, un buono a nulla. Non parlavo sul serio, naturalmente". Chang s'inchinò per ringraziarlo della spiegazione. S'interessava molto di lingue e gli piaceva pesare con filosofia ogni nuova parola. "E' significativo" disse poi, "che gli inglesi considerino la pigrizia come un vizio. Invece si dovrebbe di gran lunga preferirla all'iperattivismo. Non ve n'è forse già troppo nel mondo attuale, e non si vivrebbe meglio se i pigri fossero più numerosi?". "Quasi quasi sarei d'accordo con lei" rispose Conway con una certa gravità allegra.
Durante la settimana che seguì il colloquio col Gran Lama, Conway fece la conoscenza di parecchi fra i suoi futuri colleghi. Chang non pareva né frettoloso né riluttante nel fare le presentazioni, e Conway si sentiva avvolto da un'atmosfera nuova e simpatica in cui né l'urgenza si faceva prepotente, né il ritardo procurava disillusioni.
"Accadrà forse" spiegò Chang "che la conoscenza di alcuni Lama le sia posticipata di qualche tempo, magari di qualche anno, ma non deve meravigliarsene. Sono pronti a conoscerla alla prima occasione, ma se non dimostrano fretta ciò non significa affatto che non ne abbiano il desiderio". Conway, che aveva provato spesso una sensazione simile quando doveva far visita ai nuovi addetti dei Consolati stranieri, comprendeva appieno la disposizione d'animo dei Lama. In ogni caso gli incontri che fece gli andarono a genio, e la conversazione con uomini che avevano tre volte la sua età non risentiva affatto di quel lieve imbarazzo mondano tanto frequente a Londra o a Delhi. Il primo con cui parlò fu un tedesco piuttosto gioviale chiamato Meister, che era entrato nel monastero verso il 1880, ed era l'unico superstite di una spedizione esploratrice. Si esprimeva in un buon inglese, con un lieve accento straniero. Dopo due o tre giorni ebbe luogo una seconda presentazione, e Conway conobbe e parlò per la prima volta con colui che il Gran Lama gli aveva già nominato in modo particolare: Alphonse Briac, un francese di piccola statura, magro, che non pareva affatto vecchio benché si proclamasse allievo di Chopin. conway sentì che tanto lui quanto il tedesco gli sarebbero diventati buoni compagni. Dopo altri incontri giunse a delle conclusioni di carattere generale: si accorse che, per quanto i Lama avessero una spiccata individualità, possedevano tutti una qualità comune non altrimenti specificabile se non col nome di senza età. E inoltre erano tutti acuti e calmi, e questa loro intelligenza si manifestava in opinioni misurate e ben equilibrate. Conway si sentì subito attratto dai loro modi gentili, corrispose con simpatia e si accorse che gliene erano grati. Trovò perciò facile andar d'accordo con loro come avrebbe potuto capitargli con qualsiasi
altro gruppo di persone colte, benché spesso gli sembrasse strano sentir parlare di reminiscenze tanto lontane e di poca importanza. Per esempio, uno di costoro, dai capelli bianchi e dall'aspetto benevolo, chiese a Conway se si interessasse delle sorelle Brontë. "Sì, un poco" rispose Conway; e l'altro replicò: "Vede, quando verso il 1840 ero curato nel West Riding, andai una volta a Haworth e abitai nella parrocchia. Dal mio arrivo qui ho fatto uno studio completo dell'intero problema della famiglia Brontë, anzi sto scrivendo un libro sull'argomento. Forse le piacerebbe che una volta lo vedessimo insieme?". Conway acconsentì cordialmente; e più tardi, rim asto solo con Chang, si stupì della chiarezza con cui i Lama ricordavano la loro vita di prima. Chang rispose che questo faceva parte del loro allenamento. "Vede, mio caro, uno dei primi passi verso la piena lucidità della mente è ottenere una veduta generale del proprio passato, e ciò riesce meglio, come per tutti i panorami, in prospettiva. Quando sarà rimasto con noi per tempo sufficiente, si accorgerà che la sua vita di prima si profilerà in modo sempre più chiaro, come succede quando a poco a poco adattiamo alla nostra vista le lenti di un telescopio. Tutto si rivelerà preciso, ben proporzionato e nel significato autentico. Il Lama che ha conosciuto ultimamente, per esempio, ha scoperto che il vero grande momento della sua vita fu quello in cui, da giovane, visitò la casa di un vecchio pastore protestante che viveva là con le sue tre figliole". "Allora dovrò anch'io mettermi al lavoro per ricordare i miei grandi momenti?". "Non dovrà fare alcuno sforzo, verranno da sé".
"Non so fino a che punto darò loro il benvenuto" rispose Conway soprappensiero.
Qualunque cosa potesse offrirgli il passato, egli stava scoprendo la felicità nel presente. Quando si tratteneva in biblioteca a leggere, o nella sala di musica suonava Mozart, si sentiva tutto preso da una profonda emozione spirituale, come se ShangriLa fosse davvero un'essenza di vita, distillata dalla magia degli anni e preservata miracolosamente contro il tempo e contro l a morte. In quei momenti gli tornava alla memoria la sua conversazione col Gran Lama; sentiva quella intelligenza quieta passare con bontà sopra ogni divergenza, dare agli occhi e alle orecchie mille lievi e mormorate assicurazioni. E se ascoltava LoTsen, ammirando la sua abilità nel dominare qualche intricato ritmo di fuga si chiedeva che cosa vi fosse dietro quel leggero impersonale sorriso che l e schiudeva le labbra a somiglianza di un fiore. Essa parlava pochissimo, pur sapendo adesso che Conway conosceva la sua l ingua; era quasi muta per Mallinson, al quale talvolta piaceva entrare nella sala da musica. Ma Conway trovava nei suoi silenzi un incanto che si esprimeva perfettamente. Desiderò conoscere la sua storia, e seppe da Chang che la fanciulla apparteneva alla famiglia reale manciù. "Era fidanzata a un principe del Turkestan e viaggiava verso Kashgar per incontrarlo quando i suoi portatori si persero nelle montagne. Sarebbero certo periti tutti se non avessero incontrato i nostri messaggeri". "E quando accadde tutto questo?". "Nel 1884. Aveva diciotto anni".
"Diciotto anni allora?". Chang s'inchinò. "Sì, con lei riusciamo proprio in modo eccellente, come lei stesso può vedere. Ha prog redito costantemente e molto bene". "E come ha accettato la situazione nei primi tempi?". "Forse fu più riluttante degli altri: non protestò, ma ci accorgemmo che per un lungo periodo rimase molto turbata. Naturalmente trattenere una giovinetta che viaggiava per incontrare il suo sposo fu un caso eccezionale. E tanto più grande fu il nostro desiderio di vederla felice qui". Chang sorrise blandamente. "Temo che l'esaltazione dell'amore renda più difficile una pronta condiscendenza, benché cinque anni siano un tempo più che sufficiente allo scopo". "Suppongo che provasse un sentimento profondo per l'uomo che doveva sposare...". "Non si potrebbe dirlo, caro signore, perché non l'aveva mai visto. E' l'antica usanza cinese, come sa. L'agitazione dei suoi sentimenti era del tutto impersonale". Conway assentì pensando con dolce tenerezza a LoTsen. se la immaginò come poteva essere cinquant'anni prima, mentre i portatori la trasportavano faticosamente attraverso l'impervio altipiano: una statua nel suo palanchino istoriato, con lo sguardo fisso sull'orizzonte spazzato dai venti che doveva apparirle così duro dopo i suoi giardini orientali, i suoi stagni pieni di fiori di loto. "Povera bimba!" disse fra sé pensando a tanta eleganza prigioniera da anni: essa era come un freddo vaso prezioso, senza alcun altro ornamento che un fuggevole raggio di luce. Conoscere il passato di lei aumentò in Conway - anziché affievolirlo - il suo compiacimento
per quella calma e per quel silenzio. Si sentiva appagato, ma con minore estasi, anche quando Briac gli parlava di Chopin e g li suonava brillantemente le note melodie. Pareva che del suo grande maestro i l francese conoscesse molte composizioni che non erano mai state pubblicate, e, siccome se le era trascritte, Conway passò molte ore piacevoli ad impararle a memoria. Provò un'acuta soddisfazione pensando che né Cortot né Pachmann avevano avuto tanta fortuna. E i ricordi di Briac continuavano: la sua memoria gli suggeriva ogni tanto altri brani buttati giù o improvvisati dal compositore: man mano che li ricordava trascriveva anche questi e ve ne erano alcuni davvero deliziosi. "L'iniziazione di Briac è recentissima, perciò deve perdonargli se parla molto di Chopin. i Lama più giovani si preoccupano ancora del passato; è uno scalino necessario onde poter contemplare il futuro". "Credo che questa sarà l'occupazione dei più vecchi". "Sì. Per esempio il Gran Lama consacra quasi completamente la sua vita a una chiaroveggente meditazione". Conway pensò un momento e poi chiese: "A proposito, quando crede che potrò rivederlo?". "Certamente alla fine dei primi cinque anni, mio caro signore". Ma profetizzando con tanta sicurezza Chang si sbagliava, perché dopo meno di un mese dal suo arrivo a ShangriLa Conway ricevette un secondo invito di recarsi in quelle torride stanze superiori. Chang gli aveva detto che il Gran Lama non usciva mai dai suoi appartamenti e che quell'aria riscaldata era necessaria alla sua vita fisica, perciò Conway, già preparato, trovò questa volta più sopportabile il cambiamento. E veramente respirò senza fatica, appena ebbe fatto il suo inchino e quegli occhi affondati nell'orbita gli ebbero risposto
con un battito impercettibile. Si sentiva legato a quell'uomo per il tramite dell'intelligenza, e benché sapesse che questo secondo colloquio così vicino al primo fosse un onore senza precedenti, non si sentiva affatto nervoso, né oppresso da tanta solennità. Per lui l'età non costituiva un fatto imbarazzante, come del resto neppure il rango o il colore. Nulla gli aveva mai impedito di trovar simpatica la gente perché troppo giovane o troppo vecchia. Sentiva per il Gran Lama il più sincero rispetto, ma anche gli pareva naturale che le loro relazioni dovessero essere cortesi. Vi fu il solito scambio di cerimonie, e Conway rispose a molte domande gentili. Disse che la vita a ShangriLa gli piaceva e che aveva già stretto alcune amicizie. "E ha mantenuto il segreto con i suoi compagni?". "Finora sì. Certi momenti sono stati imbarazzanti, ma forse lo sarebbero stati di più se avessi parlato". "Proprio come prevedevo: ha agito nel modo che credeva migliore. E questo imbarazzo, dopo tutto, non è che temporaneo. Chang mi riferisce che probabilmente due di loro non ci daranno alcun fastidio". "Lo credo anch'io". "E il terzo?". Conway rispose: "Mallinson è un giovane eccitabile... ha un assillante desiderio di ritornare". "Gli è affezionato?". "Sì, gli voglio molto bene". In quel momento fu portato il tè, e mentre sorseggiavano la profumata bevanda il discorso si fece meno serio. Era questa
un'opportuna convenzione che permetteva alle parole di acquistare quasi un alito di quella frivola fragranza, e Conway vi era particolarmente sensibile. Quando il Gran Lama gli chiese se, nella sua vasta esperienza di luoghi e di persone, non trovasse che ShangriLa fosse unica al mondo, e se l'Occidente avesse qualcosa di simile, Conway rispose sorridendo: "Ebbene, sì. A voler essere sincero, mi rammenta un poco Oxford, dove ho studiato e in seguito ho tenuto lezioni e conferenze. Il paesaggio non è certo così bello, ma spesso gli argomenti di studio non hanno davvero maggior praticità dei vostri, e benché anche il più vecchio dei lettori e conferenzieri non sia certamente così avanti negli anni come lei, nondimeno danno l'impressione di invecchiare in modo simile al suo". "Lei ha uno humour" replicò il Gran Lama, "di cui negli anni a venire le saremo tutti molto grati, caro Conway".
X "E' straordinario" disse Chang quando seppe che Conway era stato nuovamente chiamato dal Gran Lama. E la parola era assai significativa da parte di uno che non usava mai superlativi. Prima d'ora non era mai accaduto, insisteva; mai il Gran Lama aveva desiderato un secondo colloquio prima che i cinque anni di noviziato avessero purificato il nuovo aspirante di tutte le sue emozioni. "Perché, vede, è per lui una gran fatica parlare a un nuovo arrivato di tipo comune. La sola presenza di passioni umane è, all'età sua, una cosa spiacevole e non desiderata. Non già ch'io dubiti della sua profonda saggezza in proposito, ché anzi essa c'insegna come persino le regole fisse della nostra comunità siano soltanto moderatamente fisse; ma l'avvenimento è ugualmente straordinario".
Per Conway, naturalmente, ciò non era più straordinario di tutto il resto, e dopo aver visitato il Gran Lama una terza, poi una quarta volta, cominciò a considerarlo con crescente disinvoltura. Già nel modo in cui le loro due mentalità si avvicinavano, c'era qualcosa di predestinato; come se ogni tensione in lui si rallentasse, lasciandogli poi, al termine, una calma perfetta. Certe volte gli pareva di essere del tutto ammaliato dal potere di quell'intelletto accentratore; poi, mentre bevevano il tè nelle trasparenti tazzine azzurre, tutto ciò che v'era stato di cerebrale fra loro si mutava in una vivacità gentile di miniatura, come se un teorema si sciogliesse limpidamente in un sonetto. Le loro conversazioni spaziavano largamente senza timore: interi sistemi filosofici, lunghi periodi di storia venivano analizzati in tutti i possibili sviluppi. Per Conway l'esperienza era affascinante; ma serbava sempre il suo spirito critico, tanto che una volta, dopo averlo ascoltato, il Gran Lama gli disse: "Figlio mio, lei è giovane d'anni, ma la sua saggezza ha la maturità dell'età avanzata. Certo le è accaduto qualcosa fuori del consueto". Conway sorrise: "Niente di più di quel che è toccato a molti altri della mia generazione". "Non ho mai conosciuto nessuno che le somigli". Dopo una pausa Conway rispose: "Non c'è in questo niente di misterioso. Se una parte di me stesso le pare invecchiata ne fu causa una forte e prematura esperienza. Il periodo che va dai diciannove ai ventidue anni è stato per me un periodo di educazione eccezionale, ma anche mo lto estenuante. "Ha sofferto molto in guerra?". "Non poi eccessivamente. Ero di volta in volta eccitato, temerario,
spaventato, imprudente, e talora in preda a una collera pazza. Del resto così come me erano alcuni milioni di giovani. Mi ubriacavo, uccidevo, sfogavo i più bassi istinti in grande stile. Provavamo un'acre soddisfazione a colpire e soffocare dentro di noi ogni sentimento, e se uno riusciva a scampare ne rimaneva un senso di noia infinita e di irritazione. E' questo stato d'animo che ci rese poi tanto difficili gli anni successivi. Non creda che la mia sia una posa tragica; in generale ho avuto poi abbastanza fortuna. Ma ci pareva di essere in una scuola con un direttore cattivo; ad averne voglia ci si poteva anche divertire, ma che logorio di nervi, e che poco costrutto! Credo di esserne stato consapevole più della maggior parte di noi". "E la sua educazione continuò così?". Conway alzò le spalle. "Forse l'esaurirsi delle passioni è il principio della saggezza, se mi permette di modificare il proverbio". "Figlio mio, questa è pure la dottrina di ShangriLa". "Lo so. Perciò qui mi trovo benissimo". Aveva detto la verità. Col passare dei giorni e delle settimane cominciava a sentirsi preda di un male dolcissimo che gli avvolgeva intelletto e corpo insieme: stava cedendo al fascino, come già Perrault, e Henschell, e gli altri. Luna Azzurra l'aveva preso: e senza scampo. Le montagne tutt'intorno splendevano come un baluardo di inaccessibile purezza, da cui i suoi occhi abbagliati scendevano alle verdi profondità della valle; era un quadro meraviglioso, e se allora gli giungeva, attraverso lo stagno dai fiori di loto, l'argentea e moderata melodia del clavicembalo, provava l'impressione che questa intessesse un ricamo di suoni e di immagini per formare un disegno perfetto.
Si era silenziosamente innamorato della piccola manciù, e lo sapeva. Il suo amore non chiedeva nulla, neppure una risposta; era un tributo dell'intelletto, e i sensi vi aggiungevano soltanto una lieve fragranza. Quella fanciulla era per lui il simbolo di tutto ciò che è fragile e delicato; la sua gentilezza stilizzata, il tocco delle sue dita sulla tastiera, gli davano un senso di intimità che lo appagava completamente. Le aveva parlato qualche volta in un modo che, se lei lo avesse voluto, li avrebbe condotti a una conversazione meno formale; ma le sue risposte non infrangevano mai la squisita riservatezza dei suoi pensieri, né, del resto, egli lo avrebbe desiderato. A un certo momento si era accorto che il gioiello promesso aveva una sola sfaccettatura: il tempo; egli possedeva il Tempo, tempo per tutto ciò che desiderava accadesse, così tanto tempo che anche il desiderio si placava nella certezza dell'appagamento futuro. Fra un anno, fra dieci anni avrebbe avuto ancora tempo. La visione crebbe e gli diede una grande felicità. Ma poi, a intervalli, ritornava nella vita degli altri per urtare nell'impazienza di Mallinson, nella giovialità di Barnard, nelle robuste intenzioni di Miss Brinklow. sentiva che sarebbe stato contento solo quando anche loro avessero saputo tutto; e prevedeva, come Chang, che né l'americano, né la missionaria si sarebbero ribellati troppo. Una volta, anzi, Barnard lo divertì dicendogli: "Creda, Conway, questo è un bel posticino per fissarcisi per sempre. Da principio mi pareva di non poter fare a meno dei giornali e del cinema, ma credo che ci si abitui a tutto". "Lo credo anch'io" rispose Conway. Seppe più tardi che Chang, sollecitato da Barnard, lo aveva accompagnato giù nella valle a godere di tutti quei divertimenti che
il luogo poteva offrirgli per una notte di libera uscita. Quando Mallinson ne fu informato ebbe una smorfia di disprezzo. "Per bere, m'immagino" disse a Conway, e aggiunse poi rivolto a Barnard: "Non dovrei immischiarmi negli affari altrui, ma ricordi che deve mantenersi in buona salute per il viaggio! I portatori dovrebbero arrivare fra un paio di settimane, e, da quanto mi è stato detto, il ritorno non sarà proprio una gita di piacere". "Non ho mai creduto che lo potesse essere" acconsentì di buon grado Barnard. "E quanto a mantenermi in forma non mi sono mai sentito così bene da anni. Faccio la mia passeggiata tutti i giorni, non ho seccature, e le osterie della valle non ci permettono di passare un certo limite. Non lo sapete? Il motto della ditta è Moderazione". "Sì, sono sicuro che è riuscito a spassarsela moderatamente" disse acido Mallinson. "Ci sono riuscito certo! In quest'albergo ciascuno può trovare quel che desidera. A certuni, per esempio, piacciono le ragazzine cinesi che suonano il piano; non è così? I gusti son gusti". Conway non se la prese affatto, ma Mallinson arrossì come uno scolaretto. Punto da una collera che lo fece uscire dai gangheri, scattò a dire: "Ma quando si piglia gusto alla roba degli altri, si può finire in prigione". "Sicuro, se ci si lascia prendere" ribatté l'americano con una strizzatina d'occhi. "E giacché siamo sul discorso" continuò, "voglio dirvi subito, a tutti, una cosa. Ho deciso di fargliela a questi famigerati portatori. Credo che arriveranno qui abbastanza regolarmente; ebbene, io aspetterò che facciano un'altra gita, e magari un'altra ancora. Se però i monaci si fideranno e mi faranno
credito sul conto dell'albergo". "Vuole dire che non verrà via con noi?". "Già. Ho deciso di star quassù per un po' di tempo. Per voi che sarete ricevuti a suon di banda quando ritornerete a casa, va benissimo; ma io che il mio benvenuto me lo aspetto da una fila di poliziotti... Più ci penso, a una tale accoglienza, e meno mi va". "In altre parole, non se la sente di andare incontro a quella musica". "Intanto devo dire che per la musica non ho mai avuto nessuna passione". Mallinson disse con freddo disprezzo: "Questo riguarda l ei. Quanto al resto nessuno potrà impedirle di restar qui tutta la vita, se le piace". Guardò tuttavia gli altri con aria interrogativa. "Non credo che tutti sceglierebbero così; ma i modi di pensare sono differenti. Che ne dice Conway?". "Che è vero. I modi di pensare sono differenti". Mallinson si voltò verso Miss Brinklow, che improvvisamente posò il libro e dichiarò: "In quanto a questo credo che anch'io resterò qui". "Come?" gridarono tutti insieme. Essa continuò con un chiaro sorriso che le illuminava la faccia: "Ho pensato molto a come si sono svolti i fatti che ci hanno condotto fin qui, e non posso venire che a una sola conclusione: c'è un potere misterioso che opera dietro le scene. Non lo crede, Mr' Conway?". Conway si sarebbe trovato in imbarazzo a dover rispondere, ma Miss Brinklow continuò sempre più incalzante: "Chi sono io per poter discutere i dettami della Provvidenza? Sono stata mandata qui per uno scopo, e ci resterò". "Vuole dire che spera di fondare qui una missione?" chiese
Mallinson. "Non solo lo spero, ma ne ho tutta l'intenzione. So come si deve agire con questa gente; troverò la mia strada, non tema. Mancano tutti di decisione". "E lei si propone di insegnargliela?". "Lo desidero, Mr' Mallinson. mi oppongo fermamente a quell'idea di moderazione di cui qui si parla tanto. Chiamatela pure larghezza di vedute, se così vi piace, ma per me conduce soltanto alla peggiore rilassatezza. Il peggior guaio di questa gente è proprio questa loro cosiddetta larghezza di vedute, e io intendo combatterla con tutte le mie forze". "E crede che glielo permetteranno?" disse Conway sorridendo. "Può darsi che la trovino così decisa da non riuscire a impedirglielo" interruppe Barnard. poi aggiunse scherzando: "E' proprio come vi ho detto io, quest'albergo provvede per tutti i gusti". "Se le piace la prigione, può darsi" scattò a dire Mallinson. "Ebbene, anche in questo caso, vi sono due modi differenti di vedere le cose. Perbacco, ma pensi a tutti coloro che darebbero quanto possiedono pur di trovarsi in un luogo come questo ed esser fuori dei pasticci, e invece non possono uscirne!... Siamo in prigione noi o loro?". "E' un sottilizzare confortante... per una scimmia in gabbia" ribatté Mallinson, senza accennare a calmarsi. Più tardi parlò a quattr'occhi con Conway. "Quell'individuo mi dà sui nervi" disse camminando su e giù per il cortile. "Se non tornerà indietro con noi non mi dispiacerà affatto. Mi dia pure del permaloso, ma esser schernito a proposito di quella
ragazza cinese non mi diverte". Conway prese Mallinson sotto braccio. Si accorgeva sempre più che gli voleva bene, e che le ultime settimane trascorse insieme avevano rafforzato il suo sentimento, malgrado l'umore di lui talvolta urtante. Gli rispose: "L'ho inghiottita io la sua pillola, convinto che la presa in giro fosse per me, non per lei". "No, mi creda, parlava per me. Sa che mi interesso a lei. Mi ci interesso davvero, Conway. Vorrei sapere come mai si trovi qui, e se le piaccia realmente. Mio Dio, se parlassi la sua lingua come lei, saprei spiegarmi ben presto". "Chissà poi se ci riuscirebbe... Vede bene che non parla a lungo con nessuno". "Mi stupisco che non la tormenti con mille domande". "Non credo che sia nelle mie abitudini tormentare la gente". Avrebbe desiderato dirgli di più, ma subito la pietà e l'ironia lo trattennero creando quasi un velo di nebbia tra lui e l'amico: quel giovane così avido e ardente non avrebbe davvero accettato con rassegnazione la confessione di Conway. Questi si limitò a dire: "Se fossi in lei non mi cruccerei tanto per LoTsen. sembra abbastanza felice". La decisione di rimanere dichiarata da Barnard e da Miss Brinklow parve a Conway un'ottima cosa, quantunque per tale decisione venisse a trovarsi - in apparenza - schierato in campo con Mallinson contro di loro. Era una situazione straordinaria, e per affrontarla non aveva ancora fatto nessun piano speciale. Per fortuna non ce n'era per ora alcuna necessità. Prima di due mesi non sarebbe potuto accadere niente di nuovo, e più tardi la
crisi, anche se ci si fosse preparato con la più grande diligenza, non sarebbe stata meno acuta. Non voleva dunque affliggersi per l'inevitabile. Tuttavia una volta disse a Chang: "Mi preoccupo per Mallinson. temo che l a prenderà piuttosto male quando ne sarà informato". Chang si espresse con simpatia: "Sì, non sarà facile persuaderlo della sua buona fortuna. Ma, dopo tutto, si tratterà di una difficoltà assolutamente temporanea. Fra vent'anni il nostro amico si sarà riconciliato col suo destino". A Conway parve un po' troppo da filosofi questo modo di vedere le cose: "Ma come faremo a spiegargli la verità? Sta contando i giorni che ci separano dall'arrivo della carovana, e se i portatori non venissero...". "Ma verranno". "Davvero? Credevo che tutti i suoi discorsi su quel tema fossero un piacevole raccontino per tenerci a bada". "Niente affatto. Abbiamo a ShangriLa l'abitudine di essere moderatamente sinceri, e vi assicuro perciò che quanto ho detto a proposito dei portatori è quasi esatto. Li aspettiamo press'a poco per l'epoca che conoscete". "Se è così, vi riuscirà difficile impedire a Mallinson di seguirli". "Ma non lo tenteremo neppure. Constaterà personalmente che i portatori sono riluttanti e incapaci di scortare qualcuno sulla via del ritorno". "Capisco. Ecco il vostro sistema. E poi cosa credete che avverrà?". "Dopo un periodo di disinganno, siccome è giovane e ottimista
ricomincerà a sperare che la nuova carovana, attesa fra nove o dieci mesi, si presti più docilmente dell'altra alle sue proposte. E noi, se saremo saggi, non gli troncheremo a tutta prima queste nuove speranze". Ma Conway disse seccamente: "Non credo affatto che abbia la pazienza di aspettare. Tenterà di fuggire per conto suo". "Fuggire? Le pare la parola adatta... Sì, il valico è aperto a tutti e sempre. Noi non abbiamo carcerieri, se non quelli che la natura stessa ci ha fornito". Conway sorrise. "La natura ha fatto il suo lavoro alla perfezione. Ciò nonostante non credo che possiate sempre fidarvi di lei. Pensate ai numerosi gruppi di esploratori che sono giunti qui. Il valico era ugualmente aperto per loro anche quando volevano andar via, no?". Toccò ora a Chang di sorridere. "Mio caro signore, vi sono circostanze speciali che richiedono uno speciale trattamento". "Benissimo. Voi lasciate dunque alla gente qualche probabilità di fuggire soltanto quando sapete che sarebbe da pazzi provarci? Eppure sono convinto che qualcuno lo tenterà ugualmente". "Sì, è accaduto; ma molto di rado. Però chi si allontana è sempre lietissimo di poter tornare appena abbia provato a passare una sola notte sull'altipiano". "Senza riparo, né vestiario adatto?... Se è così, capisco perfettamente come i vostri dolci sistemi abbiano la stessa efficacia dei più severi. Ma che accade di quei pochi che non ritornano?". "Ha risposto lei stesso alla domanda" replicò Chang. "Non ritornano". Ma si affrettò ad aggiungere: "Le assicuro però che di
così disgraziati ce ne sono stati ben pochi, e spero che il suo amico non sarà tanto imprudente da aumentarne il numero". Conway non si sentì abbastanza rassicurato da queste risposte e il futuro di Mallinson continuò a preoccuparlo. Desiderava che il giovane potesse avere il permesso di partire per poi ritornare, com'era stato recentemente concesso all'aviatore Talu. Chang ammise che i superiori avevano pieni poteri di fare tutto ciò che credessero giusto e saggio. "Ma saremmo davvero saggi, caro signore, se affidassimo noi stessi e tutto il nostro avvenire semplicemente ai sensi di gratitudine del suo giovane amico?". La domanda era giusta perché intuiva facilmente quel che Mallinson avrebbe fatto appena tornato in India. Da quel momento divenne questo il tema favorito di Conway, e vi si esercitò spesso, quantunque non gli piacesse nemmeno col pensiero ritrovarsi in quel mondo profano che a grado a grado veniva relegato nell'ombra dal ricco e invadente mondo di ShangriLa. Fuorché nei momenti in cui pensava a Mallinson si sentiva pienamente soddisfatto: la struttura di questo nuovo sistema, rivelandoglisi lentamente, lo meravigliava per quel complicato adattarsi ai suoi gusti e alle sue necessità. Un giorno disse a Chang: "A proposito, che posto occupa nella vostra vita l'amore?... Immagino che qualche volta accadrà ai vostri ospiti di innamorarsi". "Accade di frequente" rispose Chang con un largo sorriso. "Naturalmente ne sono immuni i Lama, e anche la maggior parte di noi quando raggiungiamo un'età molto avanzata; ma fino allora siamo come gli altri uomini, con la differenza che forse ci comportiamo più ragionevolmente. E questo discorso mi offre l'occasione per assicurarle, Mr' Conway, che l'ospitalità di ShangriLa sa
comprendere tutto. Il vostro amico Mr' Barnard ne ha già avuto la prova". Anche Conway sorrise, poi rispose un po' asciutto: "Grazie. Lo so. Ma per il momento sono attratto da tutt'altro. Domandandovi che posto occupa nella vostra vita l'amore, ero curioso di conoscerne piuttosto l'aspetto emotivo che non quello fisico". "Le pare di poterli facilmente dividere? Sta forse innamorandosi di LoTsen?". Conway fu un po' scosso, ma sperò che l'altro non se ne accorgesse. "Perché me lo chiede?". "Perché se ciò le accadesse, caro signore, sarebbe cosa naturalissima; sempre, beninteso, con moderazione. LoTsen non le corrisponderebbe in modo appassionato, non se lo potrebbe aspettare; ma sarebbe un esperimento delizioso, gliel'assicuro. E ne parlo con cognizione di causa perché io stesso mi innamorai di lei quando ero molto più giovane". "Davvero? E le corrispose, allora?". "Mostrando di apprezzare gentilmente l'onore che io facevo, e concedendomi un'amicizia divenuta con gli anni preziosa". "In altre parole, non le corrispose". "Se lo preferisce, no". E Chang aggiunse sentenziando: "Risparmiare ai suoi innamorati quel momento di sazietà che segue il possesso completo è stata sempre la sua prerogativa". Conway rise. "Questo va benissimo nel suo caso, e forse anche nel mio, ma che dice del caso di un giovane dal sangue ardente come Mallinson?". "Mio caro amico, sarebbe la miglior cosa che possa capitare. E non per la prima volta toccherebbe a LoTsen di dover confortare il
dolente esiliato, venuto a conoscenza che per lui non vi sarà più ritorno". "Confortare?". "Certo, ma non deve fraintendere questa mia espressione. LoTsen non offre le sue carezze, eccetto quelle spontanee che può suscitare in un cuore affranto, esclusivamente con la sua presenza. Che cosa dice di Cleopatra il vostro Shakespeare? "Vi fa più affamati dove più vi soddisfa". Tale tipo femminile si ritrova frequentemente in quelle razze che sono scosse dalla passione, ma sarebbe fuori posto a ShangriLa. E se potessi correggere la citazione, direi che LoTsen toglie la fame quanto meno la soddisfa. Occorre, per riuscirci, un talento ben più delicato e più duraturo". "Che mi pare essa eserciti con mo lta maestria". "Sì, è vero, ne abbiamo avuto numerosi esempi. Riesce a calmare le scomposte vibrazioni del desiderio riducendole a un tranquillo mormorio, sempre piacevole anche quando è lasciato senza r isposta". "In tal senso, si potrebbe dire che faccia parte del sistema d'allenamento di questa casa?". "Se le garba, dica pure così" rispose Chang con blanda condiscendenza. "Ma sarebbe più gentile, e non meno vero, paragonarla all'arcobaleno riflesso in una coppa di cristallo, o alle gocce di rugiada sui boccioli di una pianta da frutti". "Sarebbe molto più gentile, è vero!". Conway apprezzava sempre le risposte agili ma misurate che provoc ava frequentemente lui stesso con quella scherzosa maniera di trattare il cinese. Ma la prima volta che si trovò solo con la piccola manciù sentì che le osservazioni di Chang erano fini ed acute. C'era in lei una fragranza che si comunicava all'emotività di Conway, accendendone la
brace in una fiamma che non bruciava, ma riscaldava soltanto. Improvvisamente si rese conto che ShangriLa e LoTsen erano un'armonia ideale e che a lui non restava altro da desiderare di più se non smarrirsi in quella grande calma e trovarvi un'indefinita parvenza di consenso. Le sue passioni erano state per anni come un fascio di nervi su cui avessero agito tutte le vibrazioni del mondo; ora il male era acquietato e poteva finalmente abbandonarsi a un amore che non gli desse più né tormento né noia. Qualche volta passando di notte presso lo stagno dei fiori di loto si immaginava di avere la fanciulla tra le braccia, ma subito sopraggiungeva il senso del tempo a far svanire la visione e a calmarlo infondendogli una tenera infinita riluttanza. Sentiva di non esser stato mai così felice, neppure in quegli spensierati anni precedenti la grande barriera della guerra. Gli piaceva il sereno mondo di ShangriLa, non oppresso ma pacificato da quella sua unica tremenda idea. Gli piaceva quello speciale sistema per cui i sentimenti erano avvolti e contenuti dal pensiero, e i pensieri si trasformavano in felicità dopo essere passati attraverso il linguaggio. Conway, a cui l'esperienza aveva insegnato che la franchezza non è sempre una garanzia di buona fede, non era per contro neppure disposto a considerare una frase ben tornita come prova di poca sincerità. Gli piaceva la tranquilla atmosfera di bei modi in cui la conversazione non era un'abitudine, ma un ornamento. E gli piaceva constatare che si può anche parlare di cose da poco senza timore di far perdere tempo, e che anche i più fragili sogni possono essere bene accolti dall'intelletto. ShangriLa era sempre tranquillo, e tuttavia era come un'arnia di lavoro continuo ma non assillante; i Lama vivevano come se avessero davvero il tempo nelle
loro mani, ma questo tempo non pesava più di una piuma. Conway non fece la conoscenza di nessun altro di loro, ma a poco a poco fu edotto circa la varietà e il genere delle loro occupazioni; oltre a conoscere molte lingue, alcuni erano studiosi di vasti problemi che avrebbero certo destato grande meraviglia nel mondo dell'Occ idente. Parecchi stavano preparando manoscritti su molteplici argomenti: uno di essi (così diceva Chang) faceva importanti ricerche di matematica; un altro stava sviluppando Gibbon e Spengler entro una vasta sintesi di storia della civiltà europea. Ma non tutti si occupavano di materie così profonde, e neppure vi si applicavano dalla mattina alla sera: vi erano altre vie in cui si avventuravano fantasiosamente, ricercando, per esempio, come Briac, brani di vecchi motivi musicali, oppure, come l'ex pastore inglese, una nuova teoria sulla genesi del famoso romanzo di Emily Brontë Cime tempestose. E vi erano inoltre occupazioni più superficiali e meno pratiche. A questo proposito una volta, durante una delle sue visite al Gran Lama, Conway fece un'osservazione e il Gran Lama subito replicò raccontando la storia di un artista cinese del terzo secolo avanti Cristo. Essendosi questo artista dedicato per anni a intagliare draghi, uccelli e cavalli sopra un nocciolo di ciliegia, aveva infine offerto il suo lavoro a un principe reale. Il principe sulle prime non vide altro che un nocciolo, ma l'artista gli disse "di far innalzare un muro, di far aprire in esso una finestra e di osservare bene il nocciolo nella luminosa gloria dell'alba". Così fece il principe, e soltanto allora si accorse che il nocciolo era bellissimo. "Non le pare una storia delicata, mio caro Conway, e non crede che ci insegni una lezione preziosa?". Conway fu d'accordo con lui: gli era dolce pensare che i sereni
scopi di ShangriLa potevano riunire un'infinità di occupazioni minime e strane, proprio secondo i gusti che aveva sempre avuto lui stesso. E veramente, quando ricordava il passato, vedeva riaffacciarsi tutte le immagini, alquanto numerose, dei compiti che non aveva potuto realizzare perché gli erano sembrati o troppo vaghi, o troppo faticosi: ora invece erano tutti possibili, anche sentendosi pigri. Era una prospettiva deliziosa, tanto che non trovò nulla da ridire quando Barnard gli confidò che anche lui intravedeva per quel che lo riguardava un avvenire interessante a ShangriLa. Pareva dunque che le gite di Barnard nella valle, fattesi più frequenti negli ultimi tempi, non fossero del tutto dedicate al bere e alle donne. "Vede, Conway, glielo dico perché è così diverso da Mallinson, che mi darebbe volentieri una co ltellata; se ne sarà accorto. Ma credo che lei possa capire la situazione molto meglio di lui. E' una cosa buffa: voi impiegati del Governo inglese siete terribilmente duri e inamidati da principio, ma poi tirate le somme, di voi ci si può fidare". "Non si fidi troppo" rispose Conway sorridendo. "Del resto anc he Mallinson è un impiegato del Governo inglese come me". "Sì, ma non è che un ragazzo. Prende le cose senza un pizzico di buon senso. Noi due invece siamo uomini di mondo, accettiamo quel che capita. Per esempio, ora siamo in quest'imbroglio, è vero, e non possiamo ancora capirne né il dritto né il rovescio, né perché siamo sbarcati qui, ma infine non può accadere a tutti gli uomini di questo mondo?... E lo sappiamo, poi, perché ci troviamo in questo mondo?...". "Forse c'è qualcuno che non lo sa davvero; ma che cosa significa questo preambolo?".
Barnard abbassò la voce e mormorò rauco: "Oro, ragazzo mio". Poi continuò quasi estatico: "Proprio così; e niente altro. Nella valle ce ne sono tonnellate, alla lettera. In gioventù sono stato ingegnere minerario e so riconoscere la roccia. Mi creda, è ricca quanto il Rand e mille volte più facile da scavare. Pensava che andassi a far baldoria, tutte le volte che scendevo giù in poltroncina. Niente affatto. Sapevo io quel che facevo. Già me l'ero immaginato da un pezzo che questi bei tipi non potevano procurarsi quel po' po' di roba che arrivava qui da lontano senza pagarla salata; e in che altro modo avrebbero potuto pagare se non con oro, o argento, o diamanti o qualcosa di simile? E' logico, mi pare. Quando ho cominciato a guardarmi intorno, non ci è voluto molto a scoprire tutto il trucco". "Ha fatto la scoperta da solo?" chiese Conway. "Non proprio, ma ho quasi indovinato; e allora mi sono rivolto direttamente a Chang, capite, da uomo a uomo. Mi creda, Conway, quel cinese non è affatto un cattivo compagno, come avremmo potuto credere". "Ma io personalmente non l'ho mai creduto". "Lo so che vi siete sempre intesi, e perciò non la stupirà che ci siamo messi d'accordo. Mi ha mostrato tutti quanti i lavori, e se le interessa saperlo, ho il pieno consenso delle autorità per fare nella valle tutte le ricerche che voglio, e compilare poi un rapporto esteso. Che cosa ne pensa, eh, ragazzo mio? Parevano entusiasti di avere il parere di un tecnico, specialmente quando dissi che sarei probabilmente riuscito a dar loro dei punti circa l'aumento della produzione". "Mi accorgo che si troverà qui come a casa sua" disse Conway.
"Ebbene, ho trovato lavoro, e questo è già molto. Poi non si sa mai come andranno a finire le cose. Forse a casa mia non avranno più tanta voglia di mandarmi in galera quando sapranno che posso insegnar loro la via di una nuova miniera d'oro. Non c'è che una difficoltà: mi crederanno sulla parola?". "Perché no? Si possono far credere tante cose!...". Barnard approvò con impeto. "Son contento di vedere che mi capisce, Conway. E' qui che noi due possiamo preparare un bel colpo. Naturalmente faremo a metà in tutto. La cortesia che dovrà usarmi sarà di mettere la sua firma al mio rapporto: Console d'Inghilterra, e tutto il resto. Sarà una bella garanzia". Conway rise: "Vedremo, vedremo, stenda intanto il suo rapporto". Come si divertiva a contemplare una probabilità tanto remota! E nello stesso tempo era lieto che Barnard avesse trovato una momentanea consolazione.
La pensava così anche il Gran Lama, che Conway cominciò a vedere sempre più spesso. Andava a visitarlo di sera tardi, e vi rimaneva parecchie ore, dopo che i servi avevano portato via per l'ultima volta il vassoio del tè, ed erano stati licenziati per la notte. Il Gran Lama non mancava mai di interessarsi al benessere e ai pro gressi dei suoi tre compagni, e una volta chiese particolari sulla loro precedente carriera, inevitabilmente interrotta dal loro arrivo a ShangriLa. Conway rispose, ma soprappensiero: "Mallinson... nel suo ramo... sarebbe riuscito bene... E' ambizioso e pieno di energia. Ma gli altri due...". Alzò le spalle: "Conviene a entrambi di rimanere qui... almeno per un certo tempo".
Notò, attraverso le cortine della finestra, un debole balenio di luce; già aveva sentito tuonare mentre attraversava i cortili per salire a quelle stanze ormai familiari. Non si sentiva alcun suono, e i pesanti cortinaggi attenuavano i lampi fino a ridurli a brevi e pallide scintille. "Sì" disse il Gran Lama, "abbiamo fatto tutto il possibile perché non li assalisse la nostalgia. Miss Brinklow desidera convertirci, e anche Mr' Barnard vorrebbe farlo: convertirci in una società ristretta e passiva. Progetti innocui: serviranno a far loro passare il tempo piacevolmente. Ma che dire del suo giovane amico, a cui non recano sollievo né l'oro né la religione?...". "Certo sarà un problema". "Temo che sarà un problema per lei" disse il Gran Lama. "Perché per me?". Non ebbe una risposta immediata perché in quel momento fu recato il tè e all'apparire dei servi il Gran Lama riprese il suo antiquato cerimoniale d'ospitalità. "In questa stagione il Karakal ci manda dei temporali" osservò alleggerendo la conversazione secondo l'uso. "La gente di Luna Azzurra li crede prodotti dai demoni infuriati nell'immenso spazio oltre il valico. Li chiamano quelli di fuori; forse si sarà accorto che nel loro dialetto questa espressione è usata per tutto il resto dell'universo. Naturalmente ignorano l'esistenza di altri paesi come la Francia, l'Inghilterra e persino l'India! Si figurano che lo spaventoso altipiano si estenda - e non si sbagliano di molto - senza limiti. Comodamente radunati a un livello tiepido e riparato dai venti, pare loro incredibile che qualcuno della vallata desideri lasciarla: si immaginano, anzi, che tutti quanti quelli di fuori siano oltremodo sventurati e desiderino
entrare in quel luogo sicuro. Si tratta soltanto di un punto di vista, non è vero?". Conway si ricordò delle osservazioni quasi uguali di Barnard, e le citò. "Che buon senso!" commentò il Gran Lama. "E pensare che è il primo americano entrato nella nostra comunità! Siamo proprio fortunati". "Grande fortuna davvero" pensò Conway divertendosi "poter annoverare fra gli adepti di ShangriLa un uomo attivamente ricercato dalla polizia di dodici nazioni" e avrebbe voluto far partecipe di questo suo pensiero il Gran Lama, ma poi preferì lasciare che Barnard stesso scegliesse il momento più opportuno per r accontare la sua storia. Disse soltanto: "Senza dubbio ragiona bene, e ce ne sono molti altri al mondo oggi che sarebbero ben lieti di trovarsi qui". "Ce ne sono troppi, mio caro Conway. Noi siamo un'unica barca di salvataggio dentro un mare in tempesta; possiamo prendere a bordo alcuni sopravvissuti, ma se tutti i naufraghi ci raggiungessero e si arrampicassero su, saremmo noi a naufragare... Non ci pensiamo per ora. Sento che ha fatto amicizia col nostro ottimo Briac. un mio simpatico compatriota; io però non condivido il suo parere che Chopin sia il più grande fra i compositori. Per parte mia preferisco Mozart...". Finalmente fu portato via il tè e il servo ebbe il permesso di andare a coricarsi; allora Conway osò tornare sulla domanda alla quale non era stato risposto. "Si parlava di Mallinson, e lei ha detto che sarebbe diventato un problema per me. Perché proprio per me?". Con molta facilità il Gran Lama rispose: "Perché io sto per morire, figlio mio".
Pareva straordinaria una simile dichiarazione, e Conway rimase senza fiato. Dopo qualche minuto il Gran Lama continuò: "E' sorpreso? Eppure, amico mio, siamo tutti mortali; anche a ShangriLa. Può darsi che mi vengano ancora concessi alcuni minuti, o forse, chissà, alcuni anni. La sola cosa certa che posso annunciarle è questa: vedo già la fine. E' molto affettuoso da parte sua preoccuparsene, e non nasconderò che anche alla mia età v'è qualche cosa di malinconicamente penoso nella contemplazione della morte. P er fortuna mi rimane fisicamente ben poco che sia soggetto a morte materiale e, in quanto al resto, tutte le nostre religioni mostrano un ottimismo unanime. Sono pago, ma durante il poco tempo che mi resta devo abituarmi a una strana sensazione: devo rendermi conto che mi rimane appena tempo per una sola cosa. Può immaginare di che si tratta?". Conway tacque. "Riguarda lei, figlio mio". "Sono confuso da tanto onore". "Ho in mente di fare molto per lei". Conway s'inchinò lievemente senza parlare, e il Gran Lama, dopo una breve pausa, ricominciò: "Forse sa già che la frequenza dei nostri incontri è stata una cosa del tutto insolita qui. Ma è tradizione nostra, se posso permettermi il paradosso, di non essere mai schiavi della tradizione. Niente di rigido, niente regole inflessibili. Facciamo ciò che ci sembra giusto, guidati un poco dall'esempio del passato, ma più ancora dalla nostra presente saggezza e dalla chiaroveggenza nell'avvenire. Ed è perciò ch'io mi sento incoraggiato a quest'atto finale della mia esistenza". Conway era sempre silenzioso.
"Io metto nelle sue mani, figlio mio, l'eredità e il destino di ShangriLa". La tensione si ruppe infine, e subentrò per Conway una benevola e dolce persuasione: poi tutti gli echi svanirono nel silenzio e non rimase altro che il battito del suo cuore, come un gong percosso. E allora, attraverso quel ritmo, gli giunsero queste parole: "L'ho aspettata, figlio mio, per un tempo lunghissimo. Seduto in questa stanza ho osservato i volti dei nuovi venuti, ho scrutato i loro occhi e ascoltato le loro voci, sperando che un giorno sarebbe giunto lei. I miei colleghi sono diventati vecchi e saggi, ma lei in giovane età è saggio almeno quanto loro. Amico mio, il compito che le lascio non è affatto troppo arduo, perché nel nostro ordine conosciamo soltanto legami di seta. Basterà che sia gentile e paziente, che abbia cura delle ricchezze dell'intelletto, che sappia presiedere con segreta e tranquilla saggezza mentre fuori infuria l'uragano: tutto questo sarà semplice e piacevole per lei, e vi troverà la felicità". Di nuovo Conway tentò di parlare senza riuscirvi, ma alla fine un vivido lampo rischiarò l'ombra ed egli poté esclamare: "L'uragano... l'uragano di cui parla...". "Sarà l'uragano, figlio mio, come il mondo non ne ha mai visti. Invano si chiederà sicurezza alle armi, appoggio dall'autorità, aiuto dalla scienza. L'uragano infurierà finché ogni fiore di bellezza sia calpestato, e tutte le cose umane siano livellate in un caos immenso. Ho avuto già una visione simile quando ancora Napoleone era uno sconosciuto; la visione mi si ripresenta di nuovo oggi, più chiara col passar di ogni ora. Crede che mi inganni?". Conway rispose:
"No, credo che abbia ragione. Una rovina simile ci ha già travolto un'altra volta e le oscure età che seguirono durarono cinque secoli". "Il confronto non è del tutto esatto. Quelle età non furono poi così oscure; erano piene di tremule luci, e se queste luci si fossero spente in Europa per sempre, altri raggi vi sarebbero stati, dalla Cina al Perù, con i quali avrebbero potuto riaccendersi. Ma l'età oscura che verrà coprirà tutto il mondo con un'unica coltre funebre; non vi saranno rifugi né santuari se non quelli troppo nascosti per venir scoperti, o troppo umili per esser cercati. ShangriLa può sperare salvezza per questi due motivi. L'aviatore diretto alle grandi metropoli con il suo carico seminatore di morte non passerà per questa via, e se per caso ci passasse stimerà inutile sciupare per noi una delle sue bombe". "E tutto ciò accadrà così presto ch'io potrò vederlo con i miei occhi?". "Credo che sopravvivrà all'uragano. E continuerà a vivere anche dopo, durante il lungo periodo di desolazione, diventando sempre più vecchio e sempre più saggio e più paziente. Custodirà l'essenza della nostra storia aggiungendovi l'aroma del suo intelletto. Accoglierà benevolmente gli stranieri e insegnerà loro i segreti del vivere a lungo e della sapienza e forse uno di loro prenderà il suo posto quando sarà diventato vecchissimo. Oltre questo la mia visione si affievolisce; ma vedo, lontanissimo, un mondo nuovo sorgere dalle rovine, lo vedo agitarsi rozzamente, e pieno di nuove speranze cercare i suoi perduti e leggendari tesori. Che saranno tutti qui, figlio mio, nascosti nella vallata della Luna Azzurra, protetti dai monti, miracolosamente salvati per un nuovo Rinascimento...". La voce cessò e Conway vide davanti a sé un volto illuminato da una
attraente remota bellezza; poi il chiarore svanì e non rimase altro che una maschera in ombra, in procinto di sbriciolarsi come un legno antichissimo. Maschera immobile, con gli occhi chiusi. Lo guardò a lungo; poi, come in sogno, si accorse che il Gran Lama era morto. Tutto era talmente strano e incredibile intorno, che sentì il bisogno di attaccarsi a qualcosa di reale, e con un moto istintivo dell'occhio e della mano guardò l'orologio da polso. Era mezzanotte e un quarto. Attraversò la stanza per giungere alla porta, ma qui si rese conto dell'impossibilità di domandare aiuto. Sapeva che i tibetani erano stati licenziati per la notte, e non aveva la minima idea di dove trovare Chang o qualcun altro. Stette incerto sulla soglia dell'oscuro corridoio; vide dalla finestra che il cielo si era rischiarato, benché le montagne fossero ancora accese a tratti da un lampeggiare continuo, come in un affresco argenteo. E in quel momento, avvolto ancora nelle spire del sogno, si sentì padrone di ShangriLa. Gli stavano intorno le cose da lui predilette, create nella sua anima più profonda in cui ora viveva con fervore crescente, lontano dall'irritante mondo. I suoi occhi, frugando nelle tenebre, incontrarono le sottili punte dorate rilucenti nelle bellissime lacche, e il profumo di tuberosa, appena avvertibile tanto era sottile, lo guidò di stanza in stanza. Si trovò, barcollando, nel cortile accanto allo stagno; la luna piena navigava nel cielo dietro il Karakal. mancavano venti minuti alle due. Più tardi si accorse che Mallinson gli s'era avvicinato e lo prendeva per il braccio trascinandolo via in gran fretta. Non capì bene di che si trattasse, ma sentì confusamente che il ragazzo parlava infervorato.
Xi Quando raggiunsero la stanza dove solevano pranzare, Mallinson lo trascinava ancora per il braccio. "Venga, Conway, ci resta appena il tempo fino all'alba per radunare la nostra roba e andarcene. Gran novità, mio caro; chissà cosa diranno domattina Barnard e Miss Brinklow quando vedranno che siamo partiti... eppure, se loro restano, è perché vogliono; probabilmente senza di loro faremo più strada. La carovana di portatori è a cinque miglia dal valico; sono arrivati ieri carichi di libri e di altre cose... domani cominceranno il viaggio di ritorno... E' chiaro c he quelli del monastero volevano burlarsi di noi... non ce l'hanno mai detto... saremmo rimasti abbandonati qui Dio sa quanto... Ma che succede? Si sente male?". Conway si era lasciato cadere su di una sedia e si appoggiava al tavolo sui gomiti. Si passò la mano sugli occhi. "Male? No, non credo. Forse... sono un po' stanco". "Il temporale, probabilmente. Dove è stato tutto questo tempo? L'ho aspettata per ore". "Ero... ero andato a fare una visita al Gran Lama". "A quello! Bene, in ogni modo sarà l'ultima, grazie a Dio". "Sì, Mallinson, è stata proprio l'ultima visita". C'era nella voce di Conway e più ancora nel silenzio che seguì una sfumatura che fece andar in collera il giovane. "Davvero mi piacerebbe che non prendesse le cose con tanta calma; dobbiamo fare un bel po' di strada, sa?". Conway si irrigidì nello sforzo di ritrovare la piena coscienza di se stesso. "Mi spiace" disse. Poi per accertarsi dei suoi nervi e della realtà
delle sue sensazioni accese una sigaretta, ma si accorse che la mano e le labbra tremavano. "Temo di non capirla... dice che i portatori...". "Sì, i portatori, amico mio. Su presto, si rimetta". "Sta pensando di andar loro incontro?". "Pensandoci? Ma ne sono certissimo, che diavolo! L i troveremo subito di là dal crinale. Dobbiamo raggiungerli immediatamente". "Immediatamente?". "Sì, sì, perché no?". Conway fece un secondo tentativo per passare da un mondo all'altro. Vi riuscì in parte, e allora disse: "Si renderà conto che non è molto facile". Mallinson, che stava allacciandosi un paio di stivali tibetani da montagna, rispose tagliente: "Facile o no, dobbiamo farlo e lo faremo; e con fortuna, se non perdiamo tempo". "Non vedo come...". "Oh Dio, Conway, ma dunque ha paura di tutto? Non le è rimasta nelle vene neppure una goccia di sangue?...". Questo richiamo, in parte appassionato e in parte canzonatorio, aiutò Conway a ritornare in se stesso. "Non è questione di sangue nelle vene; se vuole le spiegherò. Si tratta di alcuni particolari importanti. Supponendo che lei arrivi oltre il valico, e che trovi là i portatori, è sicuro che la conducano con loro? Che cosa può offrir loro per allettarli? E se non si mostrassero così volenterosi come lei l i vorrebbe? Non può certo presentarsi e chiedere che lo scortino ad ogni costo. Occorrono accomodamenti, discussioni preventive...".
"O qualsiasi altra cosa capace di farci ritardare" esclamò Mallinson amaramente. "Ma che uomo è? Per fortuna non ho bisogno di lei per agire. Tutto è già stato combinato: i portatori sono stati pagati in anticipo, e hanno accettato di accompagnarci. Ecco qui pronti i vestiti e l'equipaggiamento per il viaggio. Non ha più scuse. Su, facciamo quel che si deve". "Ma... non capisco...". "Non importa". "Chi ha fatto tutti questi progetti?". Mallinson rispose bruscamente: "Se ci tiene a saperlo, li ha fatti LoTsen. E' già con i portatori. Ci aspetta". "Ci aspetta?". "Sì, viene con noi. Ha qualcosa in contrario?". Al sentir nominare LoTsen i due mondi cozzarono nella mente di Conway e si fusero all'improvviso. Gridò bruscamente, e quasi con disprezzo: "Sono sciocchezze. E' impossibile". Anche Mallinson era urtato: "Perché impossibile?". "Perché... perché sì. V'è un'infinità di ragioni. Mi creda sulla parola: non si può. E' abbastanza incredibile che sia già arrivata là - sono stupito di ciò che mi dice -, ma è assurdo che possa andare più avanti". "Non mi pare affatto assurdo. Il desiderio di andarsene è tanto naturale in lei come lo è in me". "Ma lei non vuole andarsene. Il suo sbaglio è tutto lì". Mallinson sorrise con i nervi tesi.
"Crede forse di conoscerla meglio di me v ero?" osservò. "Ma forse si sbaglia". "Che cosa vuole dire?". "Ci sono altri modi per arrivare a capire la gente senza bisogno di studiare tante lingue". "Ma per carità, a che cosa vuole giungere?...". Poi Conway continuò con maggior calma: "E' assurdo. Non dobbiamo litigare, noi due. Mi dica di che si tratta, Mallinson. non capisco ancora". "E perché allora sta facendo questo c hiasso d'inferno?". "Mi dica la verità, la prego, mi dica la verità". "E' abbastanza semplice. Qualunque ragazza della sua età, chiusa quassù con quei vecchioni strambi, cercherebbe di scappare alla prima occasione. Finora questa occasione non c'era stata". "E' un errore di valutazione il suo. Vede la posizione di lei qui con gli occhi con cui considera la sua. Invece, come le ho sempre detto, è assolutamente felice". "E allora perché ha detto che sarebbe venuta via?". "Ha detto questo? Come ha potuto dirlo? Non parla inglese". "Gliel'ho chiesto in tibetano. Miss Brinklow ha trovato le parole. Non è stata una conversazione fluida, ma sufficiente... perché c'intendessimo". Mallinson arrossì. "Non mi guardi così, Conway. Chi ci vedesse crederebbe che ho fatto il bracconiere nelle sue riserve". Conway rispose: "Non passerebbe per la testa a nessuno, ma l' osservazione mi spiega più di quanto fosse nelle sue intenzioni. Posso dirle soltanto che me ne dispiace moltissimo". "Diavolo, e perché mai?". Conway lasciò cadere la sigaretta. Era stanco, preoccupato, tutto
invaso da una profonda tenerezza che avrebbe preferito non si fosse svegliata nella sua anima. Disse con dolcezza: "Vorrei che non dovessimo sempre bisticciarci. LoTsen è m olto carina, lo so, ma perché litigare per lei?". "Carina?" Mallinson ripeté la parola con sdegno. "E' di più. Lei non deve pensare che gli altri abbiano il suo sangue freddo in queste circostanze. L'ammira come un oggetto in un museo, e crede d'aver fatto quanto lei merita, ma io sono più pratico e quando vedo in difficoltà qualcuno che mi piace, cerco di portargli aiuto". "Ma si può anche essere troppo impulsivi, no? E dove crede che potrà andare se lascia il monastero?". "Avrà degli amici in Cina o altrove. Dovunque starà meglio di qui". "Come fa ad esserne tanto sicuro?". "Ebbene, se non ci sarà nessuno che si occupi di lei, me ne occuperò io. Quando capita di salvare una persona da una minaccia infernale, non si sta lì a informarsi se abbia o no dei parenti o un luogo dove poter andare". "E per lei ShangriLa è un luogo infernale?". "Lo credo fermamente. Qui incombe una presenza oscura e maligna. Tutta la faccenda mi ha fatto quest'impressione fin dal principio: il modo in cui fummo portati qui da un pazzo, e poi come siamo stati trattenuti con una scusa o con l'altra. Ma per me l'aspetto più terribile è l'effetto che ha avuto su di lei". "Su di me?". "Sì, su di lei. L'ho vista andar fantasticando qua e là come se non gliene importasse niente; la sentii persino dire che sarebbe rimasto volentieri qui per sempre, che il posto le piaceva... Ma che cosa le è accaduto, Conway? Non può ridiventare quello di prima? A Baskul si
andava tanto d'accordo! Era così diverso allora!". "Mio caro ragazzo!". Conway protese la mano verso Mallinson e ne ricevette una stretta calda e affettuosa. Mallinson continuò: "Lei non se n'è accorto, ma mi sono sentito terribilmente solo in queste ultime settimane. Nessuno che si curasse dell'unico problema veramente importante! Barnard e Miss Brinklow potevano avere qualche ragione, ma trovar lei contro...!". "Mi dispiace". "Ripete sempre la stessa frase, ma non mi è di nessun aiuto". Allora Conway, spinto da un impulso improvviso, disse: "Ebbene, lasci che la aiuti, se posso, confidandole un segreto. Quando mi avrà ascoltato, molto di ciò che ora le sembra così strano e complesso apparirà chiaro. Capirà almeno per qual motivo è impossibile che LoTsen parta con lei". "Credo che non vi sia niente che mi possa far pensare così. A ogni modo faccia presto, perché non c'è davvero tempo da perdere". Conway raccontò brevemente tutta la storia di ShangriLa come l'aveva appresa dal Gran Lama e con i particolari delle successive conversazioni con Chang. qualunque altra cosa avrebbe voluto fare eccetto questa, ma gli sembrò che, date le circostanze, il passo fosse giustificato e forse necessario: Mallinson era veramente un caso speciale per lui, da risolversi come meglio reputava. Parlò rapido e con facilità e così facendo si sentì di nuovo soggiogato dal fascino di quello strano mondo senza tempo; la sua bellezza lo conquistava fin nelle intime fibre, e più di una volta gli parve di leggere le pagine di un memoriale, tanto le idee e le frasi si erano stampate chiaramente nel suo cervello. Tacque un solo dettaglio per
risparmiarsi un'emozione che non poteva ancora sopportare: che il Gran Lama era morto quella notte e che lui ne era l'erede. Verso la fine della narrazione si sentì già sollevato; quand'ebbe finito fu addirittura contento: era stata la soluzione migliore. Alzò allora gli occhi tranquillamente, persuaso di aver fatto bene. Ma Mallinson, ticchettando con le dita sul tavolo, dopo una lunga pausa esclamò: "Non saprei davvero cosa dirle, Conway... se non che è pazzo del tutto...". Seguì un lungo silenzio, durante il quale i due uomini si fissarono, ma in modo ben diverso: Conway disilluso nuovamente e chiuso in se stesso, Mallinson a disagio e in preda a un'impazienza mal contenuta. "Così, mi crede pazzo?" chiese alla fine Conway. Mallinson scoppiò in una risata nervosa. "Mi sembra logico dopo un simile racconto... Cioè... dopo tante sciocchezze... Insomma, mi pare che non valga la pena di discuterne". Negli occhi e nella voce di Conway ci fu un'immensa sorpresa. "Le chiama sciocchezze?". "Ma in che altro modo potrei chiamarle? Mi spiace dirlo, Conway... è una dichiarazione un po' dura... ma credo che nessun uomo con la testa perfettamente a posto le giudicherebbe altrimenti". "Perciò pensa ancora che siamo stati condotti qui, per caso, da qualche pazzo che aveva fatto i suoi bravi progetti per scappare in aereo e volare più di mille miglia soltanto per il piacere di farlo?". Conway gli offrì una sigaretta. Vi fu una pausa che diede a entrambi un senso di sollievo. Poi Mallinson rispose:
"Senta, non serve discutere la faccenda punto per punto. In realtà, circa il suo racconto che questa gente aveva pensato di mandare per il mondo - così, vagamente - qualcuno a adescare gli stranieri, e che il nostro pilota studiò l'arte di volare e poi aspettò pazientemente il momento buono, e che finalmente un apparecchio adatto si trovò a dover partire da Baskul con quattro passeggeri... via, non dirò che sia letteralmente impossibile, ma mi sembra ridicolo e troppo ben congegnato. E ancora, se fosse un fatto a sé si potrebbe discutere; ma lei ci aggancia ogni sorta di altri eventi assolutamente inverosimili... tutte queste frottole di Lama che hanno centinaia d'anni, e che hanno scoperto un nuovo elisir di gioventù, o come diavolo vuole chiamarlo... ebbene io mi domando da che razza di microbo lei sia stato punto; ecco tutto". Conway sorrise. "Sì, può sembrare incredibile. Anche a me, forse, da principio, fece la stessa impressione... non ricordo bene. E' certamente una storia non comune, ma si è reso conto con i suoi occhi che anche questo luogo non è comune. Pensi alle cose straordinarie che abbiamo realmente visto entrambi, una valle perduta fra montagne inaccessibili, un monastero con una biblioteca di libri europei...". "Oh, sì, con riscaldamento centrale, e acqua corrente, e tè alle cinque, e tutto il resto... è meraviglioso, lo riconosco". "E che cosa ne dice allora?". "Ben poco, lo confesso. E' un assoluto mistero. Ma questa non è una ragione per accettare dei racconti virtualmente impossibili. Credere nei bagni caldi perché si sono usati è molto diverso dal credere che certa gente abbia varie centinaia d'anni perché ve l'hanno raccontato". Rise ancora, inquieto. "Senta, Conway, questo paese le
ha scosso i nervi, e non me ne stupisco davvero. Raduni la sua roba e andiamocene. Finiremo questa discussione fra un mese o due, dopo un buon pranzetto da Maiden". Conway rispose pacatamente: "Non ho alcun desiderio di tornare a far quella vita". "Che vita?". "Quella a cui lei pensa ora... pranzi... balli... tennis...". "Ma io non ho mai parlato di balli né di tennis! E del resto, che cosa c'è di male? Vuole dire che non intende venire con me? Dunque resterà qui con gli altri due? Ah, ma almeno non riuscirà a impedirmi di andarmene via!". Mallinson gettò la sigaretta e balzò alla porta tutto acceso in volto. "Lei è fuori di sé!" urlò selvaggiamente. "E' pazzo, ecco. E' vero che è sempre calmo, mentre io sono sempre eccitato, ma io sono sano di mente, e lei non lo è! Mi avevano avvertito prima che vi raggiungessi a Baskul; credevo che s'ingannassero, ma ora mi accorgo di no...". "Di che cosa l'avevano avvertita?". "Dicevano che lei era stato travolto in uno scoppio di granata in guerra e che dopo di allora era rimasto un po' strano. Non glielo rimprovero, non è colpa sua, e Dio sa se mi costa parlarle così... Ah, me ne vado. E' terribile, e mi fa male, ma devo andare. Ho dato la mia parola". "A LoTsen?". "Se vuole saperlo, sì". Conway si alzò e gli stese la mano. "Addio, Mallinson". "Per l'ultima volta: non vuole proprio venire?". "Non posso".
Si strinsero la mano e Mallinson lo lasciò.
Conway, rimasto solo, sedette nuovamente al tavolo, nella luce delle lanterne. Gli pareva, come in quel detto famoso rimastogli nella memoria, che tutte le cose più belle fossero passeggere e periture; che i suoi due mondi non avrebbero mai potuto conciliarsi, e uno di essi sarebbe sempre rimasto sospeso a un filo. Dopo aver riflettuto a lungo guardò l'orologio: mancavano dieci minuti alle tre. Non si era ancora mosso dal tavolo, e stava fumando l'ultima delle sue sigarette, quando Mallinson tornò. Il giovane entrò agitato, ma appena si accorse di Conway fece un passo indietro verso l'ombra come per tentare di ricomporsi. Non parlava; e allora, dopo un momento di attesa, Conway gli domandò: "Ebbene, che cosa è accaduto? Perché è tornato?". Questa domanda così naturale ridonò coraggio a Mallinson; avanzò, si tolse la pesante pelliccia di pecora e sedette. Aveva il volto pallidissimo, e tremava in tutta la persona. "Non ne ho avuto la forza" gridò quasi singhiozzando. "Ricorda quel punto in cui ci legarono tutti insieme? Sono arrivato fin lì, ma non ho potuto andar oltre. Non tollero le altezze e al chiaro di luna mi pareva un abisso tremendo. Sono stupido, vero?". Non si controllò più, e stava per cedere a una crisi di nervi, ma Conway riuscì a calmarlo. Allora continuò: "Questa gente del monastero può dormire tranquilla: nessuno li minaccerà mai per via di terra! Ma che cosa non darei, Dio buono, per volarci sopra con un carico di bombe!". "E perché vorreste farlo, Mallinson?". "Perché è necessario fracassar tutto. Questo è un sito malsano e
immondo e se realmente le sue favole avessero un fondamento sarebbe più odioso ancora! Un mucchio di vecchi stregoni, in agguato come ragni per accalappiare chi passa vicino... è schifoso... E poi, chi avrebbe la voglia di vivere fino a una simile età? Quanto al suo preziosissimo Gran Lama, se ha appena la metà degli anni che lei dice, è ora che qualcuno ponga fine ai suoi dispiaceri... Ah, perché non vuole venir via con me, Conway? Mi pesa pregarla solo per una ragione egoistica, ma, perbacco, io sono giovane, e siamo stati così buoni amici... tutta la mia vita non conta proprio niente per lei in confronto alle bugie di queste orrende creature? E LoTsen? anche lei è giovane... non conta nemmeno?". "LoTsen non è giovane" disse Conway. Mallinson lo guardò e cominciò a ridere nervosamente. "Oh, no, non è giovane... non è affatto giovane, è naturale. Dimostra circa diciassette anni, ma lei mi dirà - immagino - che è una novantenne ben conservata". "E' arrivata qui nel 1884, Mallinson". "Delira, caro mio!". "Mallinson, la sua bellezza, come tutte le cose belle al mondo, è alla mercé di chi non sappia apprezzarla. E' fragile e può vivere soltanto dove la fragilità è molto amata. La porti via dalla valle e la vedrà svanire come un'eco". Mallinson rise aspramente, come se acquistasse fiducia dai suoi stessi pensieri. "Di questo non ho paura. Se mai è proprio qui che LoTsen non è altro che un'eco". E dopo una pausa aggiunse: "Non che questo tenore di discorsi ci porti molto lontano; sarebbe meglio tagliar corto con tutte queste belle frasi poetiche e tornare alla realtà; Conway, io
voglio aiutarla, so che son tutte sciocchezze, ma voglio discuterle con lei per il suo bene. Farò finta che ci sia qualcosa di possibile in ciò che mi ha riferito, e che si debba esaminarlo. Mi dica ora seriamente: quali prove ha da darmi in proposito?". Conway tacque. "Può dirmi soltanto che qualcuno le ha sciorinato una filastrocca fantastica. Non accetterebbe senza prove una storia del genere neppure da una persona attendibilissima e che avesse conosciuto fin dai primi anni della sua vita. E che prove ha in questo caso? Neppure una, a quanto vedo. LoTsen le ha forse raccontato la sua storia?". "No, ma...". "E allora perché credervi se gliel'ha raccontata qualcun altro? E può forse mostrarmi un solo fatto, i n questa faccenda della longevità, in grado di darle consistenza?". Conway pensò un momento, poi accennò alle o pere sconosciute di Chopin che Briac gli aveva suonato. "Ebbene, io non sono musicista, e quest'argomento non mi dice nulla. Ma anche se quelle melodie fossero autentiche Briac non potrebbe averle avute in qualche altro modo, senza che questa storia debba perciò esser vera?". "Sarebbe di certo possibile". "Poi dice che esiste questo famoso metodo per conservare la giovinezza, eccetera, eccetera. Com'è? Ha accennato a qualche droga; ebbene, voglio sapere di che droga si tratta. L'ha vista? provata? Qualcuno le ha forse portato degli esempi concreti?". "Devo ammetterlo, non conosco i particolari". "E non si è mai curato di chiederne? Non le pareva che una storia simile avesse bisogno di conferma? Se l'è bevuta così?". Vedendo che
era in vantaggio si fece incalzante. "E di questo luogo, a parte ciò che le hanno raccontato, che cosa conosce in realtà? Ha visto alcuni vecchi - ecco tutto. Più di questo non possiamo dire, se non che tutto è bene organizzato qui e va avanti come sulle ruote. Come e perché sia sorto il monastero non lo sappiamo; e perché vogliono tenerci qui, ammesso che proprio lo vogliano, è ugualmente misterioso; ad ogni modo tutto questo non è sufficiente per credere a qualsiasi antica leggenda che ci raccontino! Se a lei, che dopo tutto ha la stoffa del critico, dicessero tutto ciò in un monastero inglese rifiuterebbe di crederlo - non capisco perché debba prenderlo per buono soltanto perché ci troviamo nel Tibet!". Conway annuì. Anche in mezzo a pensieri molto seri non poté fare a meno di approvare una stoccata giunta a segno. "E' un'osservazione acuta, Mallinson. suppongo che la verità sia questa: quando dobbiamo credere senza prove a qualche cosa, incliniamo sempre tutti dalla parte che più ci attira". "Sarò un idiota, ma non riesco a capire che piacere ci possa essere a continuare a vivere quando si è già mezzi morti. Per gusto mio, mi dia una vita breve, ma brillante. E tutte queste chiacchiere su una guerra futura... sciocchezze! Come si fa a sapere quando ci sarà un'altra guerra, e come sarà? Nella grande guerra tutti i profeti non si sbagliarono forse?". Siccome Conway taceva aggiunse: "E poi, a che serve dire che gli eventi sono inevitabili? Anche se lo fossero, è inutile crucciarsi. Se dovessi andare in guerra a battermi, lo sa il cielo che bella paura avrei, ma preferisco affrontare la paura piuttosto che seppellirmi qui". Conway sorrise. "Mallinson, lei è straordinario nel fraintendermi. Quando eravamo a
Baskul mi credeva un eroe, ora mi prende per un vigliacco. In realtà io non sono né l'uno né l'altro, benché questo non abbia ora nessuna importanza. Tornato in India racconti pure, se vuole, che ho deciso di stabilirmi in un monastero del Tibet perché un'altra guerra mi faceva paura. Il motivo non è questo ma sarà certamente creduto da tutti quelli che già mi credono pazzo". Mallinson rispose con una certa tristezza: "Lo so che è sciocco parlare così. Non dirò mai una sola parola contro di lei, qualunque cosa accada. Può contarci. Non la capisco, lo ammetto, ma... ma vorrei capirla. Le assicuro che lo desidero tanto. Conway, non posso proprio aiutarla? Non c'è nulla ch'io possa dire, o fare per lei?". Ci fu un lungo silenzio interrotto alla fine da Conway: "Vorrei farle una domanda: mi perdonerà se sarà troppo intima". "Ebbene?". "E' innamorato di LoTsen?". Il pallido viso del giovane cambiò colore in un attimo. "Credo di sì. Le parrà assurdo e incredibile, e forse lo è, ma non posso far violenza ai miei sentimenti". "Non mi pare affatto assurdo". La discussione, dopo molta burrasca, sembrava entrata in porto, e Conway aggiunse: "E neppur io posso far violenza ai miei. Quella ragazza e lei siete le due persone al mondo a cui voglio più bene, benché possa sembrare strano". Si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza. "Abbiamo detto tutto quello che si poteva dire, non è vero?". "Credo di sì". Ma poi Mallinson in un impeto d'ardore continuò: "Ma che sciocchezza... credere che non sia più giovane! Ed è anche una
cattiveria; e di pessimo gusto. Mi dica che non lo crede, Conway! E' una cosa ridicola...". "E chi potrebbe darle la prova che è giovane?...". Mallinson voltò il capo da un lato e fissò gli occhi a terra; c'era sul suo viso un'austera timidezza. "Ne ho la certezza assoluta... Forse ora mi stimerà meno... Ma ne sono proprio certo. Lei non l'ha mai capita, Conway. Era fredda solo in apparenza... Il risultato della vita qui. Tutto il calore si era raggelato... ma il calore c'era". "Purché qualcuno lo sciogliesse dal gelo?". "Sì... si potrebbe dire così". "Ed è veramente giovane, Mallinson?... ne ha la certezza?". Mallinson rispose dolcemente: "Sì; è proprio una fanciulla. Mi dispiaceva tanto per lei; ma fu un'attrazione reciproca. Non credo che ci sia niente da vergognarsi. Del resto, in un posto come questo è la cosa più logica che potesse accadere...". Conway andò al balcone e guardò la lucida cima del Karakal; la luna navigava sempre alta in un oceano senz'onde. Sentì che il sogno, come tutte le cose troppo belle, era svanito al primo tocco della realtà; sentì che l'avvenire del mondo intero messo su una bilancia contro la gioventù e l'amore avrebbe pesato meno dell'aria. E si accorse pure che la sua mente viveva in un mondo tutto suo, con ShangriLa in microcosmo, e che anche questo mondo era in pericolo. Perché mentre cercava di farsi forza, le vie della sua immaginazione si torcevano e si tendevano sotto l'urto; gli edifici crollavano, tutto stava per frantumarsi. Se ne sentiva addolorato solo i n parte; ma infinitamente triste e perplesso. Non sapeva più se era stato pazzo e se fosse ora
rinsavito, o se fosse stato sano di mente per un certo tempo, e poi di nuovo impazzito. Quando si volse, era cambiato; la sua voce si era fatta più acuta, quasi brusca, il suo viso lievemente contratto: somigliava al Conway che era stato a Baskul. pronto all'azione si piantò di fronte a Mallinson con una nuova e improvvisa vivacità. "Se fossi con lei, crede che riuscirebbe a passare in cordata quel punto pericoloso?" gli chiese. Mallinson gli balzò incontro: "Conway!" gridò con voce strozzata. "Ma allora viene con me?! Si è finalmente deciso!". Partirono non appena Conway si fu preparato per il viaggio. Andarsene fu straordinariamente semplice: una partenza, non una fuga: nessun incidente nell'attraversare le zone di luce e d'ombra dei cortili. Si poteva credere che non vi fosse nessuno, pensò Conway, e subito l'idea di quel vuoto divenne vuoto dentro di lui; mentre Mallinson, quasi inascoltato, seguitava a parlare del viaggio. Com'era strano che la loro lunga discussione si fosse mutata in azione; che questo segreto santuario venisse abbandonato da chi vi aveva trovato tanta felicità! Non era passata un'ora che si fermarono senza fiato a una curva del sentiero e videro per l'ultima volta ShangriLa. Sprofondata sotto di loro, la valle della Luna Azzurra sembrava una nuvola, e i tetti sparsi parvero a Conway quasi fluttuanti nella scia di nebbia che si allontanava dietro ai suoi passi. Era questo il momento dell'addio. Mallinson, rimasto silenzioso per la fatica della ripida salita, disse ansando: "Bravo, andiamo benone; coraggio e avanti!". Conway sorrise, ma non disse nulla: stava già preparando la corda
per attraversare lo strettissimo passaggio a pic co. Come aveva detto il giovane, si era finalmente deciso; ma era anche vero che questa decisione era l'unica cosa rimastagli. Tutto quel che ancora era vivo in lui, era quel poco di energia attiva; il resto era vuoto, un vuoto difficile a sopportare. Viandante fra due mondi, d'ora in poi avrebbe dovuto camminare, camminare sempre; ma per il momento, nel suo profondo annullamento interiore non sentiva se non l 'affetto per Mallinson e il dovere di aiutarlo: il suo destino era, come quello di innumerevoli altri uomini, fuggire dalla saggezza e diventare un eroe. Mallinson sull'orlo dell'abisso fu tutt'altro che calmo, ma Conway riuscì a farlo passare in perfetto stile alpinistico, e quando la prova fu superata sentirono subito entrambi il bisogno di accendere una sigaretta. "E' stato molto buono, Conway... forse indovina ciò che provo... non posso spiegarle quanto sono contento...". co ntento...". "Dia retta a me: non llo o tenti neppure". Dopo una lunga pausa, e prima di riprendere il cammino, Mallinson aggiunse: "Non soltanto per me, ma anche per lei. Che fortuna che si sia accorto ora che tutta quella roba era un ammasso di fandonie!... E' meraviglioso vederla tornato come prima...". "Niente affatto" rispose asciutto Conway, consolandosi così nel suo interiore tormento. Verso l'alba attraversarono il valico senza essere molestati da nessuna sentinella, ammesso che ce ne fossero; Conway pensò che, fedeli alla regola, non sorvegliassero la strada se non moderatamente. Raggiunsero in breve l'altipiano, reso liscio e nudo
dai venti furiosi, e dopo una graduale discesa scorsero l'accampamento dei portatori. Lì tutto accadde secondo le previsioni di Mallinson: trovarono già pronti gli uomini, tipi robusti in pellicce di pelo di pecora, appiattati contro la bufera, e ansiosi di cominciare il viaggio verso TatsienFu, a mille e cento miglia verso oriente, ai confini della Cina. "Viene con noi!" gridò Mallinson fuori di sé per la gioia quando si incontrarono con LoTsen. non s'era ricordato che non capiva l'inglese, ma Conway tradusse la frase. Gli pareva che la piccola manciù non fosse mai stata così raggiante. Gli sorrise con molta grazia, ma i suoi occhi erano tutti per il giovane.
Epilogo Fu a Delhi che mi m i incontrai nuovamente con Rutherford. eravamo stati a pranzo dal viceré, ma a tavola la distanza e più tardi il cerimoniale ci avevano tenuti divisi fino al momento in cui i servi in turbante ci porsero i nostri cappelli all'uscita. "Vieni con me all'albergo a prendere qualcosa" mi disse. Salimmo in un taxi e attraversammo poche aride miglia fra le nature morte dei Lutyens e quel palpitante e caldo cinema che è la vecchia Delhi. Avevo letto sui giornali che Rutherford era appena tornato da Kashgar. s'era ormai fabbricata quella reputazione che riesce a conquistarsi automaticamente il meglio di ogni cosa; qualsiasi vacanza un po' insolita assume il carattere di un'esplorazione, e benché l'esploratore si guardi bene dal fare qualcosa di speciale, il pubblico non lo sa, ed egli ricava il cento per cento da qualche impressione frettolosa. Per esempio, non m'era parso che il viaggio
di Rutherford, così com'era stato riportato dalla stampa, fosse di quelli che fanno epoca: le sepolte città del Khotan erano roba vecchia, solo che ci si ricordasse di Stein e di Sven Hedin. ero abbastanza intimo con Rutherford da canzonarlo un poco a tal proposito, e lui ne rise. "Hai ragione; se avessi raccontato la verità, sarebbe stata una storia più interessante". Salimmo nella sua stanza d'albergo a bere un whisky. "Hai fatto ricerche di Conway, vero?" suggerii quando mi parve giunto il momento propizio. "La parola ricerche è un po' esagerata" rispose. "Non si può ricercare un uomo solo in un paese grande come mezza Europa. Posso dire soltanto che ho visitato vari luoghi dove mi aspettavo di incontrarlo, o di averne almeno notizie. L'ultimo messaggio, ricordi, annunziava la sua partenza da Bangkok per il nordovest. ho trovato qualche traccia risalendo il paese per un breve tratto, e penso che avrà probabilmente cercato di avvicinarsi ai distretti abitati da tribù indigene verso il confine con la Cina. Non credo che avrebbe tentato di entrare in Birmania dove poteva imbattersi in impiegati governativi inglesi. Forse l'unico indizio l'avrei scovato in qualche località dell'alto Siam, ma di giungere fin là non mi è passato neppure per la mente". "Credevi forse più facile scoprire la valle della Luna Azzurra?". "Confesso che mi sembrò più probabile. Hai dato un'occhiata a quel mio dattiloscritto?". "L'ho letto con molta attenzione. Anzi l'avrei rispedito, ma sei partito senza lasciare indirizzo". Rutherford annuì.
"E che cosa ne pensi?". "L'ho trovato estremamente interessante, sempre però che sia fedele al racconto di Conway". "Ti do la mia parola d'onore. Non ho inventato niente; anzi, di mio v'è forse ancor meno di quel che tu possa immaginare. Ho un'ottima memoria, e Conway aveva un modo speciale di descrivere le cose. Non devi dimenticare che conversammo ininterrottamente per quasi ventiquattr'ore". "Bene, come ti ho già detto, è molto interessante". Si appoggiò alla spalliera della sedia sorridendo. "Se non trovi altro da dirmi, sarà meglio che te ne parli io. Ho l'aria di essere molto sicuro, vero? Ma forse non lo sono. In generale, nella vita, a creder tutto troppo facilmente, si sbaglia; ma quando si crede troppo poco, ci si annoia. La storia di Conway mi fece certamente molta impressione, e per vari motivi; mi proposi quindi di aggiungervi tutto ciò che era possibile, oltre - s'intende - alla probabilità di ritrovare anche lui". Dopo aver acceso un sigaro continuò: "Far questo voleva dire viaggiare molto in luoghi strani; ma siccome mi piace... I miei editori non si lagneranno se mando loro una volta tanto un libro di viaggi. Devo aver fatto, tutt'insieme, parecchie migliaia di miglia; Baskul, Bangkok, ChungKiang, Kashgar, le ho visitate tutte, e il mistero è certamente racchiuso in qualche piccolo punto di tale area. Ma è un territorio abbastanza vasto, come vedi, e tutte le mie i nvestigazioni non poterono oltrepassarne neanche il margine (e neppure, perciò, il margine del mistero). Se poi, dell'avventura di Conway, vuoi soltanto i fatti, e solo quei fatti che siano stati controllati da me, tutto ciò che posso dirti è
che lasciò Baskul il 20 maggio e che arrivò a ChungKiang il 5 ottobre. E le ultime notizie sono che partì di nuovo da Bangkok il 3 febbraio. Tutto il resto è probabilità, possibilità, indovinello, mito, leggenda, quel che vuoi". "Non hai dunque trovato nulla nel Tibet?". "Mio caro, non ci sono neppure entrato nel Tibet. al palazzo del governo non vollero nemmeno sentirne parlare; tutto ci ò che si può ottenere da quei signori è che diano la loro approvazione a una spedizione sull'Everest, e quando dissi che volevo vagabondare nei KuenLuns per conto mio, mi guardarono come se avessi proposto loro di scrivere una biografia di Gandhi. Oh, ne sapevano molto più di me: "Andare in giro per il Tibet non è impresa per un uomo solo; bisogna partire con una spedizione bene organizzata, diretta da qualcuno che sappia almeno qualche parola di tibetano". (E pensare che io, mentre Conway mi raccontava la sua storia, mi ero di continuo meravigliato che vi fossero tante difficoltà per aspettare l'arrivo dei portatori! dicevo: ma perché non prendere tutt'e quattro le proprie robe, e via tranquillamente da soli?...). La gente del Governo aveva mille ragioni; tutti i passaporti del mondo non mi avrebbero aperto la via dei KuenLuns. mi ci avvicinai fino a poterli vedere in lontananza in una giornata limpidissima, a una cinquantina di miglia. Non molti europei possono dire altrettanto". "Sono montagne spaventose?". "Sembravano un fregio bianco all'orizzonte, ecco tutto. A Yarkand e a Kashgar ne domandai a quanti incontravo... Credo che siano la catena meno esplorata del globo. Ebbi la fortuna di parlare con un americano che tempo innanzi aveva tentato di attraversarli ma non era riuscito a trovare un valico. Diceva che v'erano sì dei passaggi, ma
tremendamente alti e non segnati sulle carte. Gli chiesi se credeva possibile l'esistenza di una vallata come l'aveva descritta Conway, e lui mi rispose che se non impossibile era certo poco probabile, soprattutto sotto gli aspetti geologici. Gli domandai poi se avesse mai sentito parlare di una montagna a cono, alta quasi come le più alte vette dell'Himalaya, e la sua risposta fu un po' strana. Disse che v'era in proposito una leggenda, ma che la credeva senza fondamento. Aggiunse che la leggenda parlava di monti anche più alti dell'Everest, ma che a lui non pareva possibile. "Non credo che il più alto picco dei KuenLuns superi i 25'000 piedi, se pure ci arriva" disse. Ma si affrettò ad aggi ungere che quelle cime non erano mai state misurate rigorosamente. "Gli chiesi allora che cosa sapesse dei monasteri di Lama nel Tibet, dove si era recato parecchie volte, e raccontò le solite cose che si leggono nei libri. Mi assicurò che non erano davvero luoghi di incanti, e che i monaci erano generalmente sporchi e corrotti. "Vivono a lungo?" chiesi, e mi rispose di sì, quando però non morivano prematuramente di qualche male ripugnante. Allora mi feci coraggio e andai al punto chiedendogli se avesse mai sentito qualche leggenda di longevità estrema fra i Lama. "Ne ho sentito a bizzeffe" rispose, "se ne raccontano di tutti i generi dappertutto, ma verificarle è impossibile. Per esempio le mostrano un essere ripugnante e le dicono che è rimasto per cent'anni murato in una cella; a guardarlo le parrebbe estremamente probabile, ma naturalmente non può esigere il certificato di nascita". Interrogato se credeva che possedessero qualche potere occulto o medicinale per prolungare la vita o la gioventù, mi disse che realmente si attribuiscono loro molte e strane nozioni in proposito, ma che a
parer suo chi avesse indagato un po' da vicino avrebbe scoperto facilmente una specie di trucco indiano della corda: è sempre qualcun altro che l'ha vista. Disse che i Lama parevano avere strane forze di controllo fisico. "Li ho osservati mentre stavano seduti sull'orlo di un laghetto gelato, completamente nudi, con una temperatura sotto zero e un vento furioso; i loro servi rompevano il ghiaccio e inzuppavano d'acqua gelida larghe lenzuola con cui poi li avviluppavano. Lo facevano per dodici volte e più, e sempre i Lama asciugavano queste lenzuola con il calore del loro corpo. Si crede che mantengano il sangue a un'elevata temperatura con la forza della volontà, ma mi pare una spiegazione poco convincente"". Rutherford si versò di nuovo da bere. "Ma questo, come diceva pure il mio amico americano, non ha niente a che vedere con la longevità. Dimostra soltanto che, riguardo all'autodisciplina, i Lama hanno gusti ben poco allegri. Ecco dunque fin dove ero giunto con le mie investigazioni, e probabilmente sarai d'accordo con me che, con simili testimonianze, non c'è neppure quanto basta per impiccare un cagnolino". Gli dissi che concordavo pienamente, e gli chiesi poi se i nomi "Karakal" e "ShangriLa" non avessero trovato qualche eco nella memoria dell'americano. "Niente affatto; ho provato inutilmente. Dopo aver ascoltato l e mie domande concluse: "I monasteri mi interessano poco; una volta a un tale che incontrai nel Tibet dissi che se per caso avessi abbandonato la via giusta, l'avrei lasciata per evitarli, non per andare a caderci dentro". Questa sua casuale osservazione mi fece venire un'idea curiosa, e gli chiesi quando fosse avvenuto questo suo incontro. ""Oh, da un bel pezzo" mi rispose, "prima della guerra.
Credo che fosse nel 1911". Insistetti per avere altri particolari che mi diede ricordando alla meglio. Pare che allora stesse viaggiando per una società geografica americana, con parecchi colleghi, portatori, eccetera... una spedizione in regola. In qualche luogo presso i KuenLuns aveva incontrato quest'individuo, un ci nese in una portantina con portatori indigeni. Questo tale parlava in buon inglese, e aveva insistito vivamente perché visitassero un certo monastero nelle vicinanze; anzi si era offerto come guida lui stesso. L'americano aveva risposto che non avevano tempo e che la proposta non li interessava, e questo fu tutto". Dopo una pausa Rutherford proseguì: "Suppongo che questo non significhi gran che. Quando qualcuno si sforza di ricordare un incidente qualunque capitatogli vent'anni prima, non puoi architettarvi su grandi congetture. Ma puoi trarne motivo per interessanti riflessioni". "Sì, benché una spedizione bene organizzata c he avesse accettato l'invito non sarebbe poi stato troppo facile trattenerla al monastero contro la volontà dei componenti". "E' vero. E forse non si trattava neppure di ShangriLa". Ci ripensammo a lungo, ma pareva un argomento troppo nebuloso per poterlo discutere, e io continuai c hiedendogli se avesse scoperto qualche prova a Baskul. "A Baskul non ebbi alcuna speranza; e fu anche peggio a Peshawar. nessuno mi seppe dir nulla, eccetto che il dirottamento dell'aereo era un fatto innegabile. Furono anche piuttosto restii nell'ammetterlo; non era un episodio da vantarsene". "E dell'apparecchio non si ebbe mai più nessuna notizia?". "Non una parola, né dell'apparecchio, né dei passeggeri. Potei però verificare che si trattava veramente di un aereo speciale, capace di
salire a grandi altezze e attraversare lunghe catene di montagne. Cercai pure di rintracciare quel Barnard, ma il suo passato risultò così misterioso che non sarei affatto sorpreso che fosse proprio Chalmers Bryant, come diceva Conway. Tanto più che la scomparsa di Bryant fra tanto chiasso e fra tutte le recriminazioni del fallimento era sembrata a tutti stupefacente". "Ti sei informato del rapitore?". "Tentai, ma anche qui senza risultato. L'aviatore militare che l'altro aveva atterrato per prenderne il posto, era morto qualche tempo dopo; così anche questa promettente pista di indagini fu troncata. Scrissi persino in America a un mio amico che dirige una scuola d'aviazione per sapere se di recente avesse avuto qualche allievo tibetano, ma la sua risposta, benché pronta, fu una nuova delusione. Mi disse che non faceva alcuna distinzione fra tibetani e cinesi: che di questi ultimi ne aveva istruito circa cinquanta per combattere contro i giapponesi. Niente da fare neppure lì, come vedi. Però feci una bizzarra scoperta, che del resto mi sarebbe stata facile anche da Londra. Verso la metà del secolo scorso c'era a Jena un professore tedesco che si fece giramondo e visitò il Tibet nel 1887. Non tornò più, e si diceva fosse annegato guadando un fiume. Si chiamava Friedrich Meister". "Cielo! uno dei nomi citati da Conway!". "Sì, ma potrebbe anche essere una coincidenza. E poi non proverebbe nulla perché l'uomo di Jena era nato nel 1845". "Però è strano" dissi. "Sì, è abbastanza strano". "E sei riuscito a rintracciare gli altri?". "No. E' un peccato che la lista dei nomi non fosse più lunga. Non
trovai cenno di nessun allievo di Chopin che si chiamasse Briac, benché questo non provi che non sia esistito. Conway era piuttosto parco nei nomi, e se ci pensi è strano che di circa ci nquanta Lama che dovevano trovarsi nel monastero me ne nominasse soltanto uno o due. Anche di Perrault e di Henschell non potei trovare alcuna traccia". "E che mi dici di Mallinson?" domandai. "Che cosa gli sarà capitato? E di quella ragazza? Quella piccola cinese?...". "Cercai di informarmi anche di loro, mio caro. Come avrai visto dal manoscritto, il difficile consisteva in questo: che la storia di Conway termina nel momento in cui abbandonarono la vallata con la carovana dei portatori. Dopo di questo o non volle o non poté raccontarmi cosa fosse successo; però, bada, me l'avrebbe detto poi, se avessimo avuto più tempo. Possiamo però tentare di ricostruire in qualche modo la tragedia. Le fatiche del viaggio dovettero essere impressionanti e v'era il pericolo di incontrare briganti, o magari di essere traditi dalla stessa scorta. P robabilmente non sapremo mai con esattezza ciò che accadde, ma è quasi sicuro che Mallinson non sia mai giunto in Cina. Figurati se non ho fatto ogni sorta di inchieste! Cercai, prima di tutto, di reperire delle notizie sui grandi invii di libri e di merci oltre la frontiera tibetana, ma né a Sciangai, né a Pechino, che mi parevano i luoghi più probabili per simili spedizioni, trovai assolutamente nulla. Questo però non avrebbe molta importanza, perché per le loro importazioni i Lama dovevano certo preoccuparsi del segreto assoluto. Allora feci un tentativo a TatsienFu. Sembra un luogo magico, difficilissimo a raggiungersi, una specie di mercato alla fine del mondo, dove i portatori cinesi dello Yunnan passano i loro carichi di tè ai
tibetani. Ne leggerai qualcosa nel mio nuovo libro, che sarà presto pubblicato. Gli europei arrivano di rado fin laggiù. Vi trovai gente educata e cortese, ma assolutamente nessuna testimonianza dell'arrivo di Conway con i suoi compagni". "Perciò non ti sei ancora spiegato come Conway abbia potuto arrivare a ChungKiang?". "Sono giunto a questa sola conclusione: che vi capitò per caso, come avrebbe potuto capitare in qualunque altro posto. Però noi, una volta a ChungKiang, possiamo finalmente rientrare nel regno dei fatti, e questo è già un risultato. L'ospedale della missione con le sue suore è una realtà indubitabile, ed è pure una realtà l'entusiasmo di Sieveking a bordo quando Conway suonò quella pseudomusica di Chopin". Rutherford si interruppe, poi disse pensoso: "Puoi constatare che sto facendo un vero esercizio per equilibrare tutte le probabilità; ebbene, i due piatti della bilancia salgono e scendono con scatti quasi uguali, tanto da una parte che dall'altra. Certo - siamo franchi -, se non accetti il racconto di Conway, vuol dire che hai dei dubbi o sulla sua sincerità, o sulle sue facoltà mentali". Si interruppe nuovamente, come aspettando qualche parola di commento; e io dissi: "Come sai, dopo la guerra non l'ho più rivisto; ma mi dissero che era tornato molto cambiato". Rutherford rispose: "Sì, lo era davvero. Come può un giovane (anzi un ragazzo, quasi) assoggettarsi a tre anni di intenso logorio fisico e morale senza che una parte di lui non sia fatta a brandelli? La gente dirà, immagino, che ne uscì senza un graffio. Ma le ferite c'erano: erano dentro".
Parlammo un poco della guerra, e delle sue conseguenze a seconda delle persone; ma tornò presto sul tema principale: "Devo aggiungere una cosa, e forse è la più strana di tutte: un particolare che venne fuori quando feci le mie ricerche alla missione. Come puoi intuire, suore, medici, infermieri, fecero tutto il possibile per aiutarmi; ma non rammentavano gran che, perché a quell'epoca avevano avuto un lavoro enorme per un'epidemia di febbri. Una delle mie domande fu in che modo Conway fosse arrivato all'ospedale: da solo, oppure accompagnato da qualcuno che lo avesse trovato ammalato in qualche luogo? Nessuno se ne ricordava, era accaduto tanto tempo fa... Ma a un tratto, quando stavo per rinunciare al mio interrogatorio, una delle suore disse casualmente: "Credo che il dottore dicesse che era stato accompagnato qui da una donna". Non seppe dirmi altro; e siccome il dottore non era più alla missione, non potei averne subito la co nferma. "Ma ormai ero così a buon punto nelle mie indagini, che non avevo nessuna intenzione di troncarle. Seppi che il dottore si trovava a Sciangai, in un grande ospedale, e andai a trovarlo. Era un ometto buffo ma intelligentissimo; parlava inglese abbastanza bene spezzando le sillabe alla cinese in un modo divertente. Lo avevo già conosciuto durante il mio primo soggiorno a ChungKiang, e fu molto cortese, benché sovraccarico di lavoro per una recente incursione aerea dei giapponesi, un avvenimento feroce; le incursioni aeree dei tedeschi su Londra non sono nulla in confronto a quanto i giapponesi fecero nei quartieri indigeni di Sciangai. Il dottore mi disse subito che ricordava benissimo il caso di quell'inglese che aveva perduto la memoria. Gli chiesi se era vero che fosse stato accompagnato all'ospedale da una donna. "Sì, certo, da una donna cinese". Si