Quodlibet Studio Discipline Filosofiche
Luca Guidetti La costruzione della materia Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen»
Quodlibet
Prima edizione: marzo 2008 © 2008 Quodlibet Via Santa Maria della Porta 43, 62100 Macerata Tel. 0733-264965. Fax 0733-267358 www.quodlibet.it Stampa: Grafica Editrice Romana s.r.l., Roma ISBN: 978-88-7462-2009-9 Discipline filosofiche Collana fondata da Enzo Melandri Direttore: Stefano Besoli Il volume è pubblicato con il contributo di fondi dell’Università Bologna e R.F.O.
Indice
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1. Storia del movimento e fonti speculative 1.1. La nascita e l’affermazione della «Scuola di Erlangen» – 1.2. La diffusione e la trasformazione del movimento: la «Scuola di Costanza» e i centri minori – 1.3. Le fonti speculative del costruzionismo metodico – 1.3.1. Platone: materia, metodo, dialogo – 1.3.2. Aristotele e la filosofia pratica – 1.3.3. Leibniz, Kant e il principio dell’azione – 1.3.4. Hugo Dingler e Oskar Becker: ordine metodico ed esistenza matematica – 1.3.5. La «non aggirabilità» (Unhintergehbarkeit) della vita
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2. Paul Lorenzen: dalla matematica operativa alla propedeutica logica 2.1. Gli inizi. La «critica dei fondamenti» tra intuizione e linguaggio – 2.2. «Costruzione» e «operazione» nella ricerca dei fondamenti – 2.3. Dalla logica al dialogo – 2.4. Dal dialogo ai «fondamenti» della predicazione – 2.5. Il linguaggio e la teoria dell’astrazione – 2.6. Verità e realtà
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3. Il pensiero metodico e la fondazione della teoria costruttiva della scienza 3.1. Il problema del metodo – 3.2. La sistemazione della logica costruttiva – 3.3. Il problema delle modalità – 3.4. La costruzione della scienza – 3.5. La costruzione dell’etica e il sapere politico
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4. Il costruzionismo metodico in discussione 4.1. Kambartel: «esperienza e struttura» – 4.2. Mittelstrass: la «possibilità» della scienza – 4.3. Janich: protofisica e culturalismo metodico – 4.4. Le critiche al costruzionismo
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Bibliografia
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Indice dei nomi
Elenco delle abbreviazioni
CRP
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Capitolo primo Storia del movimento e fonti speculative
1.1. La nascita e l’affermazione della «Scuola di Erlangen» Nel 1962 Paul Lorenzen (1915-1994) divenne professore ordinario di filosofia all’Università di Erlangen. Egli veniva così ad occupare la seconda cattedra di filosofia, chiamata per volontà di Wilhelm Kamlah (1905-1976), che già dal 1954 era ordinario nella stessa Università1. L’amicizia tra i due risaliva al 1952, anno in cui s’incontrarono ad Hannover, dove Kamlah insegnava alla Technische Hochschule; ma il loro percorso intellettuale era stato per molti aspetti differente, e aveva assunto tratti comuni solo negli anni immediatamente precedenti l’incontro. Kamlah, infatti, era stato allievo del teologo Rudolf Bultmann e, soprattutto, aveva ascoltato le lezioni di Heidegger a Marburgo nel semestre invernale 1927-282. Quest’iniziale formazione teologico-fenomenologica, mediata dall’Essere e tempo heideggeriano, risulterà fondamentale non solo per il successivo percorso filosofico di Kamlah ma anche, in generale – come avremo occasione di vedere –, per l’intera Weltanschauung metodico-costruzionistica. Inoltre, Kamlah era stato studente a Tubinga e a Gottinga (dove aveva anche svolto l’attività di Universitätsprivatdozent), luoghi in cui si respirava un’atmosfera culturale refrattaria ad ogni astrazione intellettualistica e favorevole a una rinnovata «filosofia della vita», in costante rapporto con i motivi fenomenologici fondamentali (H. Nohl, G. Misch, J. König)3. Anticipando e radicalizzando la tesi bultmanniana della «demitologizzazione», Kamlah iniziò a farsi sostenitore di una nuova antropologia in cui la «cura cristiana delle anime» si trasformasse in una «cura profana», fondata sul principio immanente della giustificazione delle condotte di vita di fronte 1 Cfr. P. Mösgen, Ars vitae – ars moriendi. Zur Anthropologie Wilhelm Kamlahs, Univ. Magisterarbeit, Eichstätt, 1997, pp. 105 sgg. 2 Cfr. U.G. Leinsle, Vom Umgang mit Dingen. Ontologie im dialogischen Konstruktivismus, Maro Verlag, Augsburg, 1992, 19962, p. 11. 3 Cfr. C.F. Gethmann, Wissenschaftstheorie, konstruktive, in J. Mittelstrass, hrsg. von, Enzyklopädie Philosophie und Wissenschaftstheorie, Bd. IV, Metzler, Stuttgart/Weimar, 1996, pp. 746-758, in particolare p. 747; Id., Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie. Eine historische Skizze zur Vorgeschichte der Erlanger Schule, in Id., hrsg. von, Lebenswelt und Wissenschaft. Studien zum Verhältnis von Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, Bouvier, Bonn, 1991 (d’ora in poi: LW), pp. 28-77, in particolare p. 33.
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LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
alla «ragione critica»4. Se da un lato questa svolta criticistico-immanentistica gli consentì di evitare le estremizzazioni vitalistico-irrazionalistiche della Lebensphilosophie, dall’altro, come tentativo di radicare la ragione tecnico-scientifica dell’uomo contemporaneo nelle ordinarie forme di vita soggettive, qualitative e finite, essa gli procurò il riconoscimento dell’ambiente scientifico accademico, in particolare di Werner Heisenberg e Carl Friedrich von Weizsäcker5. Si trattava infatti, secondo Kamlah, di far interagire le due grandi tradizioni della cultura filosofica tedesca contemporanea: da un lato l’«ermeneutica della fatticità» di matrice fenomenologico-heideggeriana, con i correlati dell’agire prescientifico e antepredicativo che costituivano – come aveva evidenziato l’«ultimo» Husserl – «il campo universale, l’orizzonte di qualsiasi prassi reale o possibile»6; dall’altro le riflessioni sui fondamenti della matematica e delle scienze naturali che si richiamavano, sostanzialmente, a una ragione «teoretica», in cui doveva realizzarsi la saldatura tra le più recenti configurazioni della logica formale e le concrete metodologie dell’indagine scientifica. A tal fine, Kamlah, opponendo alla filosofia della coscienza di matrice idealistico-neokantiana il principio diltheyano dell’impossibilità di «aggirare» la vita (Unhintergehbarkeit des Lebens)7, scorgeva nel pragmatismo e nella filosofia analitica elementi di riflessione utili a evidenziare, all’interno della tradizione metafisica tedesca, la centrali-
4 Cfr., a tal riguardo, in particolare W. Kamlah, Probleme der Anthropologie. Eine Auseinandersetzung mit Arnold Gehlen, in «Die Sammlung», 1, 1945/46, pp. 53-60, 184-192, 247253, poi ripubblicato, in edizione riveduta, in Id., Von der Sprache zur Vernunft. Philosophie und Wissenschaft in der neuzeitlichen Profanität, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/ Zürich, 1975; Id., Der Mensch in der Profanität. Versuch einer Kritik der profanen durch vernehmende Vernunft, Kohlhammer, Stuttgart, 1949; Id., Einsamkeit und Vernunft. Gastvorlesung zum Oberthema: Wer ist der Mensch?, in «Die Sammlung», 6, 1951, pp. 259-270; poi ripubblicato, in edizione riveduta, in Der Ruf des Steuermanns. Die religiöse Verlegenheit dieser Zeit und die Philosophie, Kohlhammer, Stuttgart, 1954. Ma per la costituzione dell’antropologia critica in relazione alla scienza e al linguaggio, si vedano soprattutto: Id., Wissenschaft, Wahrheit, Existenz, Kohlhammer, Stuttgart, 1960, e il «testamento filosofico» di Kamlah: Philosophische Anthropologie. Sprachkritische Grundlegung und Ethik, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1972, zweite, verbesserte Auflage, BI-Hochschultaschenbuch, Mannheim/Wien/Zürich, 1973. 5 P. Mösgen, Ars vitae – ars moriendi, cit., p. 105. 6 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie (1936-37), ora in Husserliana, Bd. VI, hrsg. von W. Biemel, Nijhoff, Den Haag, 1954; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano, 1961-19832, p. 170. 7 Riguardo alle nozioni di «Unhintergehbarkeit», «Hintergehbarkeit» e alla loro resa in lingua italiana, cfr. infra, § 1.3.5., p. 65, nota 192.
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tà critico-metodica dell’atto linguistico come istanza «vitale» e generatrice delle più elevate forme di conoscenza tecnico-scientifica8. Kamlah tuttavia intuì che per portare a termine quest’interazione tra «ragione pratica» e «ragione teoretica», ed eventualmente rifondare su nuove basi il discorso sulla ragione, occorreva abbandonare il terreno dell’oscuro linguaggio heideggeriano. Così, nel 1954, in una «lettera aperta» contro la «svolta» heideggeriana, Kamlah evidenziava che il fatto di rinvenire nell’affermazione della tecnica moderna esclusivamente la radice ontologica del dominio dell’ente attraverso la manipolazione, e quindi attraverso la «rappresentazione assicurante», manifestava in realtà una tendenza alla «remitologizzazione» dell’ambito assoluto delle possibilità incluse nell’essere autentico a cui, secondo Heidegger, il senso più profondo del «pensare» avrebbe dovuto condurre9. Al contrario, che la tecnica si trasformi in dominio, non fa parte per Kamlah dell’«essenza» dell’agire scientifico, che, anzi, proprio sotto la guida della ragione si rende consapevole di portare in tal modo a compimento solo una delle possibilità dell’essere. L’esaltazione dell’ambito assoluto e totale delle possibilità dell’essere finisce infatti per ipostatizzare in senso «ideale» l’agire umano, sottraendolo alle effettive possibilità di realizzazione di cui solo la ragione, mediante la sua capacità critica e argomentativa, può cogliere le forme e i limiti. Le critiche al «maestro» Heidegger e, in particolare, alla sua condanna della tecnica in favore di una nuova poetica del linguaggio come rivelazione/nascondimento dell’essere, era dunque rivolta, nelle intenzioni di Kamlah, a porre in contatto la filosofia con il discorso razionale della logica contemporanea e, in generale, con la ricerca scientifica, cioè esattamente con quanto le prime indagini di Paul Lorenzen sembravano promettere. Lorenzen, che giunse a Erlangen «per la sola ragione di poter lavorare insieme a Kamlah»10, aveva studiato matematica, fisica, chimica e filosofia a
8 Cfr. M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus auf dem Hintergrund des Konstruktionsbegriffs, Olms, Hildesheim, 1998, p. 39. 9 Cfr. W. Kamlah, Martin Heidegger und die Technik. Ein offener Brief (1954), in Id., Von der Sprache zur Vernunft, cit., pp. 113-123. Kamlah si riferisce soprattutto alle tesi di Heidegger sviluppate in una serie di corsi universitari del 1951-52 e contenute in Was heisst Denken?, Niemeyer, Tübingen, 1954; trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, vol. II: Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna, SugarCo, Milano, 1979, in particolare pp. 104 sgg. 10 P. Lorenzen, Denken um des Menschen willen. Zum Tode des Erlanger Philosophen Wilhelm Kamlah (1976), in H. Kößler, P. Lorenzen, J. Mittelstrass, Reden zum Tode von Wilhelm Kamlah, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1977, pp. 5-8, in particolare p. 5. Cfr., a tal riguardo, P. Mösgen, Ars vitae – ars moriendi, cit., p. 105; Ch. Thiel, Paul Lorenzen (1915-1994), in «Journal for General Philosophy of Science», 27, 1996, pp. 1-13, in particolare p. 3.
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LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
Kiel, Berlino e Gottinga. Allievo di Oskar Becker11 – che, a sua volta, era stato allievo di Husserl –, nel 1938 si era laureato in matematica a Gottinga con una dissertazione su «La fondazione astratta della teoria moltiplicativa ideale»12 e, sempre in matematica, nel 1946 aveva conseguito l’abilitazione a Bonn con uno scritto «Sui gruppi semiordinati»13. A questa rigorosa formazione scientifica egli unì, alla fine degli anni Quaranta, un sempre maggior interesse filosofico per il problema della fondazione, non circolare e non dogmatica, della matematica e del linguaggio scientifico14. È in questo contesto che, nel 1950, in un volume della rivista «Mathematische Zeitschrift», apparve la sua «Fondazione costruttiva della matematica»15, a cui fecero seguito una serie di articoli sulla non-contraddittorietà e la costruzione nell’analisi matematica16, sul concetto di infinito17, sulla concezione ontologica e sulla concezione operativa della logica18, sul ruolo della logica nella crisi dei fondamenti dell’analisi e nell’intuizionismo di Brouwer19, articoli destinati a confluire in quello che dev’essere considerato l’autentico punto d’inizio del costruzionismo metodico, vale a dire l’«Introduzione alla logica e alla
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Cfr. C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 30 sg. 12 Cfr. P. Lorenzen, Abstrakte Begründung der multiplikativen Theorie, Dissertation zur Erlangung des Doktorgrades (Referent H. Hasse, Korreferent C.L. Siegel), Göttingen, 1939; poi in «Mathematische Zeitschrift», 45, 1939, pp. 533-553. 13 Cfr. P. Lorenzen, Über halbgeordnete Gruppen, in «Mathematische Zeitschrift», 52, 1950, pp. 485-526. Sulla biografia intellettuale di Lorenzen, cfr. Ch. Thiel, Paul Lorenzen, cit. 14 Cfr. P. Lorenzen, Brief von 14.01.1988, cit. da C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., Beilage II, pp. 75-77, in particolare p. 76. Si veda anche, a tal riguardo, M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 25. 15 Cfr. P. Lorenzen, Konstruktive Begründung der Mathematik, in «Mathematische Zeitschrift», 53, 1950, pp. 162-202. 16 Cfr. P. Lorenzen, Die Widerspruchfreiheit der klassischen Analysis, in «Mathematische Zeitschrift», 54, 1951, pp. 1-24; Id., Algebraische und logistische Untersuchungen über freie Verbände, in «The Journal of Simbolic Logic», 16, 1951, pp. 81-106; Id., Maß und Integral in der konstruktiven Analysis, in «Mathematische Zeitschrift», 54, 1951, pp. 275-290. 17 Cfr. P. Lorenzen, Über die Widerspruchfreiheit des Unendlichkeitsbegriffes, in «Studium Generale», 5, 1952, pp. 591-594. 18 Cfr. P. Lorenzen, Die ontologische und die operative Auffassung der Logik, in Actes du XIème Congrès International de Philosophie, Bruxelles 20-26 Août 1953, vol. 5: Logique, Analyse Philosophique, Philosophie des Mathématiques, North-Holland Publishing, Amsterdam, Nauwelaerts, Louvain, 1953, pp. 12-18. 19 Cfr. P. Lorenzen, Die Rolle der Logik in der Grundlagenkrisis der Analysis, in Applications Scientifiques de la Logique Mathématique. Actes du 2e Colloque International de Logique Mathématique, Paris 25-30 Août 1952, Gauthier-Villars, Paris, Nauwelaerts, Louvain, 1954, pp. 65-74; Id., Luitzen Egbertus Jan Brouwer. Die Frage nach der Logik in der Mathematik, in H. Schwerte, W. Spengler, ed. by, Forscher und Wissenschaftler im heutigen Europa, Stalling, Oldenburg/Hamburg, 1955, pp. 348-356.
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matematica operative» del 195520. Il libro, «scritto in modo tale da non richiedere particolari conoscenze né di logica, né di matematica», ma sistematicamente progettato per «una nuova – qui definita “operativa” – fondazione della matematica»21, gli valse, l’anno successivo alla sua pubblicazione (1956), la chiamata alla cattedra di filosofia dell’Università di Kiel, dove Lorenzen rimase fino al suo passaggio a Erlangen. Fu in questo periodo che Lorenzen, attraverso una serie di interventi sul linguaggio matematico e sulle condizioni «protologiche» del formalismo logico22, nonché sull’origine delle scienze fisico-geometriche23, mise a punto il passaggio a una teoria dell’astrazione basata da un lato su un criterio costruttivo dialogico24 – che tanta fortuna avrà nel successivo sviluppo della scuola – e, dall’altro, sulla delineazione di una semantica trascendentale volta a fondare lo stesso simbolismo matematico25. Pertanto, quando Lorenzen giungeva a Erlangen, le linee essenziali del suo costruzionismo erano già state impostate. La collaborazione con Kamlah al «Seminario filosofico» dell’Università consentì loro di far crescere alcuni giovani allievi – tra gli altri, Kuno Lorenz (1932), Friedrich Kambartel (1935), Jürgen Mittelstrass (1936), Oswald Schwemmer (1941), Peter Janich (1942) – e di costituire così una «Scuola», le cui prospettive teoretiche cominciarono ad avere risonanza nazionale e internazionale26. Con il discorso inaugurale tenuto alla fi20 Cfr. P. Lorenzen, Einführung in die operative Logik und Mathematik, Springer, Berlin/Göttingen/Heidelberg, 1955, Berlin/Heidelberg/New York, 19692 (d’ora in poi: OLM). 21 OLM, Vorwort zur ersten Auflage. Su OLM e la sua immediata ricezione, si veda W. Stegmüller, Rezension a P. Lorenzen, Einführung in die operative Logik und Mathematik, in «Philosophische Rundschau», 6, 1958, pp. 161-182. 22 Cfr. P. Lorenzen, Protologik. Ein Beitrag zum Begründungsproblem der Logik, in «Kant-Studien», 47, 1955-1956, pp. 350-358, ora in Id., Methodisches Denken, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1968, 19742 (d’ora in poi: MD), pp. 81-93; Id., Ist Mathematik eine Sprache?, in «Sinthèse», 10, 1956-58, pp. 181-186; Id., Formale Logik, Berlin, 1958, 19704; Id., Logical Reflection and Formalism, in «The Journal of Symbolic Logic», 23, 1958, pp. 241-249. 23 Cfr. P. Lorenzen, Die Entstehung der exakten Wissenschaften, Springer, Berlin/Göttingen/Heidelberg, 1960; Id., Das Begründungsproblem der Geometrie als Wissenschaft der räumlichen Ordnung, in «Philosophia Naturalis», 6, 1961, pp. 415-431, ora in MD, pp. 120-141. 24 Cfr. P. Lorenzen, Logik und Agon, Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia, Venezia, 12-18 settembre 1958, Sansoni, Firenze, 1960, pp. 187-194, ora in P. Lorenzen, K. Lorenz, Dialogische Logik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1978 (d’ora in poi: DL), pp. 1-8; Id., Ein dialogisches Konstruktivitätskriterium, in Infinitistic Methods. Proceedings of the Symposium on Foundations of Mathematics, Warsaw, 2-9 September 1959, Pergamon Press, Warszawa/Oxford/London/New York, 1961, pp. 193-200, ora in DL, pp. 9-16. 25 Cfr. P. Lorenzen, Metamathematik, Bibliographisches Institut, Mannheim, 1962, BIWissenschaftsverlag, Mannheim/Wien/Zürich, 19802; Id. Gleichheit und Abstraktion, in «Ratio», 4, 1962, pp. 77-81, ora in Id., Konstruktive Wissenschaftstheorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1974 (d’ora in poi: KW), pp. 190-198. 26 Come nota M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 53, il gruppo di discussione che si riunì intorno a Kamlah e Lorenzen rifiutò inizialmente di definirsi come «Scuola»,
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ne del 1962, in occasione dell’anniversario dell’Università Friedrich-Alexander di Erlangen-Nürnberg, dal titolo Collegium Logicum – ossia «il nome della lezione di logica dell’Università medioevale», scelto allo scopo di sottolineare che, come lo stesso Goethe aveva rilevato, bisogna educare lo spirito a far sì «che esso non salti freneticamente da pensiero a pensiero, ma proceda con ordine»27 – e la pubblicazione nel 1965 di un breve saggio sul «Pensiero metodico»28, Lorenzen gettava le basi per la stesura assieme a Kamlah del «manifesto filosofico» della Scuola di Erlangen, vale a dire la «Propedeutica logica o scuola preparatoria del discorso razionale» (1967)29. La pubblicazione del volume, che ebbe un immediato successo editoriale e fu persino adottato come libro di testo in alcuni Länder, era stata preceduta da un’intensa attività di diffusione della filosofia costruzionistica attraverso conferenze, lezioni, dibattiti. Dal 1965 al 1967 Lorenzen fu Gastprofessor alla Stanford University, all’University of Texas in Austin e all’Accademia delle Scienze di Mosca. Questa notorietà e il successo della Logische Propädeutik gli valsero la chiamata alle cattedre di filosofia presso le Università di Berlino, Bochum, Austin e Bielefeld, ma Lorenzen rifiutò sempre, per poter rimanere a Erlangen e completare il suo programma di poiché ciò sarebbe entrato in contrasto con le prospettive costruzionistiche della sua poisizione filosofica. Tuttavia, con la pubblicazione nel 1980 delle voci Erlanger Schule e Konstruktivismus nell’Enzyklopädie Philosophie und Wissenschaftstheorie (che costituisce la summa dell’intera tradizione del costruzionismo metodico), viene esplicitamente riconosciuta l’appartenenza dei suoi rappresentanti – nonostante le differenze anche importanti che, nel corso degli anni, si determineranno tra di essi – a un gruppo intellettuale sostanzialmente omogeneo, rispetto al quale il termine «Scuola» «è utile per indicare, in modo sintetico e diretto, coloro che sostengono una filosofia costruzionistica» (ibid.). Cfr., a tal riguardo, J. Mittelstrass, hrsg. von, Enzyklopädie Philosophie und Wissenschaftstheorie, Bd. I-II, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1980-1984, Bd. III-IV, Metzler, Stuttgart/Weimar, 1995-1996; ora in 4 Bde., Metzler, Stuttgart/Weimar, 20042 (d’ora in poi: EPW seguita da numeri romani (I, II…) per il volume), in particolare Bd. I, p. 585 sg., Bd. II, pp. 449-453. 27 P. Lorenzen, Collegium Logicum. Festrede gehalten bei der Jahresfeier der FriedrichAlexander-Universität Erlangen-Nürnberg am 3. November 1962, in «Erlanger Universitätsreden», Neue Folge, H. 18, Erlangen, 1963; ora in MD, pp. 7-23. 28 Cfr. P. Lorenzen, Methodisches Denken, in «Ratio», 7, 1965, pp. 1-23, ora in MD, pp. 24-59. Secondo Ch. Thiel, questo saggio dev’essere considerato come «il vero e proprio scritto programmatico della teoria costruzionistica della scienza [Konstruktive Wissenschaftstheorie]» (cfr. Paul Lorenzen, cit., p. 3). 29 Cfr. W. Kamlah, P. Lorenzen, Logische Propädeutik oder Vorschule des vernünftigen Redens, Bibliographisches Institut, Mannheim, 1967. Il titolo è stato successivamente rivisto nel seguente modo: Logische Propädeutik. Vorschule des vernünftigen Redens, Bibilographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 19732; Metzler, Stuttgart/Weimar, 19963 (d’ora in poi ci riferiremo a quest’ultima edizione con la sigla: LP). Benché l’idea stessa di una « propedeutica logica», così come l’elaborazione dei primi sei capitoli del volume, siano riconducibili a Kamlah (cfr. LP, Vorwort, p. 6 sg.), esse devono tuttavia ritenersi il frutto di un lavoro comune, conformemente allo spirito con cui la Scuola si stava costituendo. Ci riferiremo pertanto indifferentemente ai passi del libro mediante l’indicazione «Kamlah e Lorenzen».
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ricerca. Così, negli anni Settanta, la propedeutica logica, che nelle intenzioni degli autori si proponeva come «una disciplina della logica relativamente indipendente», funzionale non solo alla rigorizzazione del linguaggio del logico matematico, ma anche allo studioso di scienze umane, al filologo o allo storico dell’arte30, assisteva a notevoli approfondimenti e ampliamenti al di fuori dell’ambito ristretto della teoria del linguaggio e del simbolismo matematico, allo scopo di ricomprendere le motivazioni conoscitive e costruttive che, in generale, determinano ogni nostra «prassi di vita» (Lebenspraxis)31. Questa presa di posizione pratica nei confronti di tutti i prodotti dell’agire umano – sia degli «oggetti» fisico-matematici, sia degli oggetti o delle norme etico-politiche – è all’origine dell’intensa attività pubblicistica di questi anni, volta tanto a scardinare i presupposti dialettico-morali e scientistico-naturalistici del dibattito filosofico contemporaneo, quanto a porre le basi per una definitiva ricongiunzione tra la filosofia della prassi e la filosofia della scienza32. Nel 1973, in collaborazione con l’allievo Oswald Schwemmer, esce il volume più importante di questa fase – da cui poi, nel 1987, Lorenzen ricaverà quel «Trattato di teoria costruttiva della scienza»33 che costituisce la sua ultima monografia –, vale a dire la «Logica, etica e teoria della scienza costruttive»34 che, in quanto «scuola elementare della ragione tecnica e pratica», rappresenta la continuazione della «scuola preparatoria del discorso razionale»35. Si tratta infatti – secondo gli autori – di «fondare senza interruzione un sistema essenziale di concetti (inclusi i necessari mezzi sintattici) per la logica, l’etica, la matematica, le scienze naturali, la storia e le scienze sociali, in modo tale che l’elaborazione del linguaggio scientifico così costituito (“ortolinguaggio”), possa essere continuata dalle scienze speciali nei loro linguaggi speciali»36. Nonostante l’impegno per uno sviluppo e un ap30
Cfr. LP, p. 5 sg. Ibid. 32 Cfr. P. Lorenzen, Szientismus versus Dialektik, in R. Bubner, K. Cramer, R. Wiehl, hrsg. von, Hermeneutik und Dialektik, Mohr, Tübingen, 1970, Bd. I, pp. 57-72, poi in F. Kambartel, hrsg. von, Praktische Philosophie und konstruktive Wissenschaftstheorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1974 (d’ora in poi: PPKW), pp. 34-53, infine in M. Riedel, hrsg. von, Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 2 Bde., Rombach, Freiburg i.B., 1972-1974 (d’ora in poi: RPP), Bd. II, pp. 335-351 (è da quest’ultima edizione del saggio lorenziano che d’ora in poi citeremo). 33 Cfr. P. Lorenzen, Lehrbuch der konstruktiven Wissenschaftstheorie, Bibliographisches Institut, Zürich, 1987, Metzler, Stuttgart/Weimar, 20002 (d’ora in poi: LKW). 34 Cfr. P. Lorenzen, O. Schwemmer, Konstruktive Logik, Ethik und Wissenschaftstheorie, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1973, zweite, verbesserte Auflage, 1975 (d’ora in poi: KLEW). 35 KLEW, Vorwort, p. 5. 36 Ibid. 31
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profondimento del sapere fisico-matematico – nel 1974, sotto il titolo di «Teoria costruttiva della scienza»37, Lorenzen pubblica una raccolta di scritti a carattere epistemologico e interdisciplinare a cui, dal 1974 al 1978, faranno seguito numerosi interventi e contributi sulla teoria della probabilità, sulla meccanica e la fisica relativistica38 –, l’attenzione di questi anni è sempre più rivolta alla filosofia pratica e alla teoria della cultura, e in particolare alla «questione della messa a punto e dell’organizzazione razionale della stessa prassi del mondo della vita»39. In questa prospettiva, assumono sempre maggior rilievo le riflessioni sulle norme argomentative che devono sorreggere il discorso intorno al sapere tecnologico e alla sua ricomprensione razionale. La morte di Kamlah nel 1976 segna così, in modo paradigmatico, un punto di svolta. Se questi nella sua antropologia si faceva ancora sostenitore della necessità di un’«etica individuale» da contrapporsi all’omologazione sovraindividuale ed essenzialmente irrazionale dell’attuale mondo tecnologico, ora invece Lorenzen intravede nella transsoggettività delle norme argomentative – per cui «vivere insieme» significava «parlare insieme»40 – quel principio che avrebbe consentito di affrancarsi dalle più comuni situazioni socio-politiche nelle quali i rapporti di potere, materiale e culturale, hanno la meglio. Entro un simile e rinnovato quadro teoretico si muovono le ultime due importanti pubblicazioni che, pur riprendendo in parte saggi già precedentemente editi, chiudono in modo significativo la carriera uni-
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Cfr. KW, cit. Cfr. P. Lorenzen, Zur Definition von “Wahrscheinlichkeit”, in KW, pp. 209-218; Id., Eine konstruktive Deutung des Dualismus in der Wahrscheinlichkeitstheorie, in «Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie», 9, 1978, pp. 256-275, ora in Id., Grundbegriffe technischer und politischer Kultur. Zwölf Beiträge, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1985; Id., Zur Definition der vier fundamentalen Meßgrößen, in «Philosophia Naturalis», 16, 1976, pp. 1-9, ora in J. Pfarr, hrsg. von, Protophysik und Relativitätstheorie. Beiträge zur Diskussion über eine konstruktive Wissenschaftstheorie der Physik, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1981, pp. 25-33; Id., Die Eindeutigkeit der Zeitmessung, in «Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie», 7, 1976, pp. 359-361, ora in J. Pfarr, hrsg. von, Protophysik und Relativitätstheorie, cit., pp. 185-187; Id., Relativistische Machanik mit klassischer Geometrie und Kinematik, in «Mathematische Zeitschrift», 155, 1977, pp. 1-9, ora in J. Pfarr, hrsg. von, Protophysik und Relativitätstheorie, cit., pp. 97-105; Id., Eine Revision der Einsteinschen Revision, in «Philosophia Naturalis», 16, 1977, pp. 383-391, ora in J. Pfarr, hrsg. von, Protophysik und Relativitätstheorie, cit., pp. 107-115; Id., Die allgemeine Relativitätstheorie als eine Revision der Newtonschen Gravitationstheorie, in «Philosophia Naturalis», 17, 1978, pp. 1-9, ora in J. Pfarr, hrsg. von, Protophysik und Relativitätstheorie, cit., pp. 117-125. 39 R. Kötter, R. Inhetveen, “Paul Lorenzen”, in «Philosophia Naturalis», 32, 1995, pp. 319-330, in particolare p. 325. 40 Cfr. Ch. Thiel, Paul Lorenzen, cit. p. 7. 38
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versitaria di Lorenzen, vale a dire la «Teoria della ragione tecnica e politica» e (insieme a Kuno Lorenz) la «Logica dialogica»41. Il pensionamento (Emeritierung) di Lorenzen nel 1980 determinò in un certo modo – come vedremo – la fine della Scuola di Erlangen. Molti allievi si erano già trasferiti in altre Università, in particolare a Costanza, dove l’iniziale impostazione costruzionistico-metodica, legata alla riflessione sulla razionalità del sapere fisico-matematico, assunse un segno decisamente culturalistico. Secondo tale prospettiva, il sapere delle scienze naturali appare come uno degli elementi della dinamica conflittuale che sorge sul più vasto terreno della razionalità dialogico-argomentativa; è infatti solo su questo terreno – una sorta di a priori dell’esperienza comune a tutti gli uomini – che potrà svolgersi il confronto tra i differenti «mondi» vitali. Dall’inizio degli anni Ottanta fino alla morte (1994), Lorenzen ribadì sostanzialmente le posizioni già sviluppate nelle opere centrali della Scuola, non senza accogliere numerose critiche e integrazioni che provenivano, per l’appunto, dall’affermazione dell’«a priori del mondo della vita», critiche d’altra parte favorite dallo stesso carattere seminariale, argomentativo e di aperta discussione attraverso cui il suo costruzionismo si era diffuso42. Ancora nel 1987, in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro – vale a dire il già menzionato «Trattato di teoria costruttiva della scienza» –, Lorenzen evidenziava la continuità con la «Propedeutica logica» del 1967 e con la «Logica, etica e teoria della scienza costruttive» del 1973, sostenendo che si trattava ora di passare dalla «scuola preparatoria» (Vorschule) alla «scuola superiore» (Hauptschule) della ragione tecnica e politica. Egli notava tuttavia di esser stato costretto a rinunciare a un’«etica prepolitica» in quanto «non teorizzabile» e, dunque, di «aver fondato i principi del sapere etico-politico (che si articolano in un’antropologia politica e in una sociologia politica) solo a partire dalla prassi argomentativa politica»43. Ma proprio l’accento posto dai suoi allievi su questa prassi aveva fatto sì che la vicenda intellettuale della Scuola si fosse ormai trasformata in un’altra «storia». 1.2. La diffusione e la trasformazione del movimento: la «Scuola di Costanza» e i centri minori Il gruppo di allievi che nei primi anni Sessanta, sotto la guida di Kamlah e Lorenzen, si era costituito intorno al seminario superiore dell’Università di Erlangen, aveva intrapreso la fondazione del costruzionismo metodico 41 Cfr. P. Lorenzen, Theorie der technischen und politischen Vernunft, Reclam, Stuttgart, 1978; P. Lorenzen, K. Lorenz, Dialogische Logik, cit. (DL) 42 Cfr. Ch. Thiel, Paul Lorenzen, cit., p. 9 sg. 43 Cfr. LKW, Vorwort, p. 5. Cfr. infra, pp. 169 sgg.
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secondo molteplici ambiti disciplinari, dalla logica all’etica, dalla fisica e dalla matematica alle scienze storiche, sociali ed economiche. Essi cercarono soprattutto di aprire le nuove istanze costruzionistiche al dibattito filosofico internazionale, accogliendo – anche a scopo polemico – le sollecitazioni che provenivano dai diversi indirizzi della filosofia contemporanea, come la «svolta linguistica» di matrice anglosassone, la pragmatica trascendentale e universale di Apel e Habermas – congiunte alle loro riflessioni sulla funzione della tecnica nella società contemporanea –, l’ermeneutica di Gadamer, il rinnovato interesse in area tedesca ed europea per la «filosofia pratica», la semiotica e la fondazione delle scienze matematiche e naturali44. Così, se Kuno Lorenz, Jürgen Mittelstrass, Carl Friedrich Gethmann e Hans Julius Schneider concentravano la loro attenzione sulla filosofia del linguaggio, la semiotica e la logica dialogica, Friedrich Kambartel, Christian Thiel e Peter Janich si rivolgevano invece alle «protoscienze», cioè alle scienze matematiche e formali in relazione alle scienze naturali, mentre Oswald Schwemmer si dedicava alle scienze sociali, storiche e normative45. Comune a tutti era l’interesse per la logica costruttivistica, l’etica e il concetto di fondazione. Tuttavia, già poco tempo dopo la pubblicazione della «Propedeutica logica», si erano manifestati dissensi e prese di posizione autonome che coinvolgevano in primo luogo lo stesso concetto di «fondazione» e i risvolti etici del costruzionismo metodico. Una posizione originale, notevole per indipendenza critica e forza di penetrazione teoretica, è senza dubbio quella espressa da Kambartel. Il suo saggio «Esperienza e struttura. Contributi a una critica dell’empirismo e del formalismo»46, costituisce la prima monografia organica di un allievo della Scuola e, nello stesso anno della sua pubblicazione (1968), gli valse chiamata alla cattedra di filosofia dell’Università di Costanza. Il trasferimento di Kambartel a Costanza, dove peraltro già insegnava dal 1966, diede così inizio – anche per opportunità accademiche – a una serie di migrazioni verso quest’Università, favorendo la costituzione di un nuovo centro del costruzionismo metodico (la «Scuola di Costanza»), progressivamente sempre più autonomo dall’originario nucleo di Erlangen. Nel 1970 Mittelstrass raggiunse Kambartel a Costanza, accompagnato dal giovane Schneider in qualità di assistente scientifico; l’anno dopo (1971) fu la volta di Janich. L’attività del nuovo gruppo trovò espressione in una raccolta di contributi dal 44
Cfr. C.F. Gethmann, Wissenschaftstheorie, konstruktive, cit., pp. 747-749. Cfr. M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 52 sg. Si veda anche P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica: ragione e linguaggio in Paul Lorenzen e Karl-Otto Apel, in M. Dal Pra, Storia della filosofia, vol. XI, tomo 1, a cura di G. Paganini, Piccin, Padova, 1998, cap. XV, pp. 619-652, in particolare pp. 633-636. 46 Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur. Bausteine zu einer Kritik des Empirismus und Formalismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1968. 45
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titolo «Sul fondamento normativo della scienza» (1973)47, a cui parteciparono anche Lorenzen e Schwemmer come rappresentanti del nucleo originario di Erlangen, e soprattutto nel volume «Teoria della scienza come critica della scienza» (1974)48 al quale, nello stesso anno, Kambartel affiancò la cura di una raccolta sulla «Filosofia pratica e la teoria costruttiva della scienza» in cui egli stesso interveniva con un saggio sulla possibilità costruttiva e i fraintendimenti metodici che riguardano i discorsi pratici49, in particolare assumendo posizioni critiche nei confronti della «Logica, etica e teoria della scienza costruttive» di Lorenzen e Schwemmer50. Nel frattempo, anche altri allievi della prima ora di Lorenzen e Kamlah iniziarono a evidenziare alcune incongruenze all’interno del costruzionismo metodico, soprattutto per quanto riguardava il rapporto tra linguaggio ordinario e linguaggio scientifico. Nel 1967, Kuno Lorenz e Mittelstrass pubblicarono un breve saggio il cui titolo, «L’aggirabilità del linguaggio»51, rappresenterà negli anni successivi in modo paradigmatico la difesa della posizione costruzionistica rispetto alle più recenti tendenze fenomenologiche e cognitivistiche. L’importanza del saggio dev’essere intravista nella sua posizione «trascendentale»: a differenza di quanto pensavano Lorenzen e Kambartel, il livello che l’azione costruttiva non può «aggirare» (hintergehen) non è – per Lorenz e Mittelstrass – il linguaggio quotidiano, ma la condizione di possibilità di ogni linguaggio, vale a dire la facoltà di parlare (Sprachvermögen). Il costruzionismo assume così un punto di vista kantiano, riconducendo ogni critica del sapere alla riflessione sulle sue condizioni. Due anni dopo, un giovane allievo della Scuola di Erlangen, Carl Friedrich Gethmann, dimostrava il suo precoce talento con una lunga recensione alla «Propedeutica logica»52 nella quale metteva in risalto i deficit di fondazione, a suo avviso di carattere dogmatico e metafisico, riguardanti i concetti e le suddivisioni utilizzate nel testo di Kamlah e Lorenzen, in particolare l’attribuzione – criticamente ingiustificata – di inaffidabilità al linguaggio metaforico e artificiale dei diversi ambiti del sapere rispetto, invece, alla presunta fidatezza del linguaggio ordinario. 47 Cfr. F. Kambartel, J. Mittelstrass, hrsg. von, Zum normativen Fundament der Wissenschaft, Athenäum, Frankfurt a.M., 1973 (d’ora in poi: NFW). 48 Cfr. P. Janich, F. Kambartel, J. Mittelstrass, Wissenschaftstheorie als Wissenschaftskritik, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1974 (d’ora in poi: WAW). 49 Cfr. F. Kambartel, Wie ist praktische Philosophie konstruktiv möglich? Über einige Mißverständnisses eines methodischen Verständnisses praktischer Diskurse, in PPKW, pp. 9-33. 50 Cfr. KLEW, cit.; si veda anche supra, p. 15. 51 Cfr. K. Lorenz, J. Mittelstrass, Die Hintergehbarkeit der Sprache, in «Kant-Studien», 58, 1967, pp. 187-208. 52 Cfr. C.F. Gethmann, Logische Propädeutik als Fundamentalphilosophie, in «KantStudien», 60, 1969, pp. 352-368, in particolare pp. 360 sgg.
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In questo modo, nella seconda metà degli anni Settanta, il nucleo originario della scuola si disuniva, diffondendosi, oltre che a Costanza, in numerosi centri minori. Se Matthias Gatzemeier (1973), Schneider (1975), Gottfried Gabriel (1976) e Gethmann (1978) si abilitavano a Costanza con Mittelstrass e Kambartel, Lorenz si trasferiva nel 1970 ad Amburgo, per poi passare nel 1974 a Saarbrücken. Nel 1972, dopo aver insegnato due anni a Costanza e a Kiel, Thiel venne chiamato all’Università di Aachen, per poi ritornare nel 1982 a Erlangen dopo la partenza di Schwemmer per Marburgo, l’unico tra gli allievi di Lorenzen rimasto nella sede d’origine del movimento fino al pensionamento del suo fondatore. Nel 1979, per celebrare il sessantesimo compleanno di Lorenzen (avvenuto quattro anni prima), veniva data alle stampe, a cura di Lorenz, un’ampia raccolta di scritti – dal titolo «Costruzioni versus posizioni» – come contributo alla discussione intorno alla teoria costruttiva della scienza53. I due volumi della raccolta che, sostanzialmente, toccavano nelle loro sezioni tutte le aree filosofico-scientifiche nelle quali per un ventennio il costruzionismo metodico si era impegnato (matematica, logica, fisica, filosofia del linguaggio, metodologia, etica), si presentavano non solo come la summa degli indirizzi costruzionistici di Erlangen e di Costanza, ma fornivano anche un quadro preciso della diffusione mondiale del movimento. Oltre ai centri tedeschi già menzionati, comparivano infatti rappresentanti del costruzionismo – o comunque pronti a recepirne le istanze fondamentali – negli Stati Uniti (Norman Martin, Solomon Feferman, Haskell Curry, Georg Kreisel, John Murphy, Hoke Robinson, Ignacio Angelelli, Richard Martin), in Svizzera (Paul Bernays), in Brasile (Andrés Raggio) e in Spagna (Manuel Medina), assieme ad altri pensatori tedeschi di grande rilievo, come Carl Friedrich von Weizsäcker, Jürgen Habermas, Karl-Otto Apel, Günther Patzig, Karl-Heinz Ilting, Hans Lenk, Manfred Riedel. Gli anni Ottanta costituiscono un periodo di generale ripensamento, volto alla sistemazione e alla ricerca delle radici del costruzionismo metodico. Le posizioni di maggior rilievo sono quelle rappresentate da Kambartel, Schwemmer, Mittelstrass, Janich e Gethmann. Essi infatti, oltre a individuare percorsi originali e autonomi (che avremo modo di considerare nella seconda parte della nostra trattazione), s’impegnano – attraverso un intenso confronto tra gli esponenti del costruzionismo – in un’ampia e dettagliata ricognizione della storia del movimento, allo scopo di sondare, dopo l’uscita di scena dei suoi fondatori, le possibilità di sviluppo dei principi teoretici costruttivistici a favore di una loro apertura critica nei confronti delle emergenti istanze di globalizzazione della tecnica e della cultura scientifica occi53 Cfr. K. Lorenz, hrsg. von, Konstruktionen versus Positionen. Beiträge zur Diskussion um die Konstruktive Wissenschaftstheorie, 2 Bde., de Gruyter, Berlin/New York, 1979 (d’ora in poi: KVP).
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dentale. In questa prospettiva, la riflessione sulle fonti speculative del costruzionismo (in particolare Leibniz, Kant, Dingler, Becker, Husserl, Heidegger, Wittgenstein) si congiunge a una peculiare «decristallizzazione» (Herauskristallisierung) dei principi metodico-normativi, ovvero a una «liberalizzazione» (Liberalisierung) del concetto di costruzione volta e evidenziare il ruolo della «fantasia» (Phantasie) nella formazione delle tecniche di argomentazione che costituiscono la prassi razionale dell’incontro tra le culture54. Il decennio si apre così con una raccolta di saggi curata da Gethmann sulla «Teoria dell’argomentare scientifico»55 alla quale due anni più tardi (1982) egli farà seguire un’altra importante raccolta dal titolo «Logica e pragmatica»56, il cui filo conduttore è rappresentato dalla declinazione pragmaticoargomentativa della logica costruzionistica al centro della quale non appare più la mera sintassi formale della «logica dialogica» di Lorenz e Lorenzen, ma la «base concreta» del mondo vitale che precede ogni astratta definizione delle «condizioni di verità». Sulla stessa linea si erano posti, un anno prima, i volumi collettanei di Schwemmer («Ragione, azione ed esperienza»57) e Janich («Teoria della scienza e ricerca scientifica»58), ai quali faceva seguito, nel 1984, un volume sulla «Filosofia metodica» curato dallo stesso Janich, dove i filosofi costruzionisti si confrontavano col problema della fondazione delle scienze esatte avanzato da Hugo Dingler, il «padre» riconosciuto e comune del costruzionismo metodico59. Gli anni Ottanta si chiudevano con un volume curato da K. Prätor sulla teoria dell’astrazione e con un’acuta dissertazione di un giovane allievo, Rüdiger Welter, su «Il concetto del mondo della vita. Teorie del mondo dell’esperienza preteoretico»60; ma proprio il nuovo decennio si inaugurava con due raccolte di grande rilievo di Gethmann e Janich – rispettivamente
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Cfr., a tal riguardo, M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., pp. 61, 67-68. Cfr. C.F. Gethmann, hrsg. von, Theorie des wissenschaftlichen Argumentierens, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1980 (d’ora in poi: TWA). 56 Cfr. C.F. Gethmann, hrsg. von, Logik und Pragmatik. Zum Rechtfertigungsproblem logischer Sprachregeln, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1982. 57 Cfr. O. Schwemmer, hrsg. von, Vernunft, Handlung und Erfahrung. Über die Grundlagen und Ziele der Wissenschaften, Beck, München, 1981. 58 Cfr. P. Janich, hrsg. von, Wissenschaftstheorie und Wissenschaftsforschung, Beck, München, 1981. 59 Cfr. P. Janich, hrsg. von, Methodische Philosophie. Beiträge zum Begründungsproblem der exakten Wissenschaften in Auseinandersetzung mit Hugo Dingler, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Mannheim/Wien/Zürich, 1984 (d’ora in poi: MP). 60 Cfr. K. Prätor, hrsg. von, Aspekte der Abstraktionstheorie. Ein interdisziplinäres Kolloquium, Rader, Aachen, 1988; R. Welter, Der Begriff der Lebenswelt. Theorien vortheoretischer Erfahrungswelt, Fink, München, 1986. 55
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su «Mondo della vita e scienza» e sugli «Sviluppi della filosofia metodica»61 – le quali, prendendo spunto dalla dissertazione di Welter in cui il costruzionismo veniva posto in una linea di continuità con le più recenti indagini fenomenologiche e filosofico-linguistiche, rappresentano a tutt’oggi l’insuperato status quaestionis dell’intero movimento. La morte di Lorenzen nel 1994 – seguita l’anno successivo da una giornata commemorativa accademica presso l’Università di Erlangen62 – e la pubblicazione nel 1996 dell’ultimo volume dell’«Enciclopedia di filosofia e teoria della scienza», alle cui voci, con la supervisione di Mittelstrass, avevano contribuito i maggiori rappresentanti della konstruktive Wissenschaftstheorie, segnano la conclusione di un percorso comune rispetto al quale, nel decennio successivo, ognuno dei promotori delle Scuole di Erlangen e di Costanza continuerà, nonostante tutto, a far riferimento. 1.3. Le fonti speculative del costruzionismo metodico Il costruzionismo metodico è una corrente filosofica ed epistemologica eminentemente contemporanea, e ciò non solo dal punto di vista temporale, ma soprattutto da quello contenutistico e teoretico. Perciò, le sue corrispondenze, le fonti speculative e, di conseguenza, anche i suoi riferimenti polemici, devono esser colti nell’intero ambito della filosofia del Novecento, in particolare nel pensiero del secondo dopoguerra: dall’ermeneutica e dalla filosofia del linguaggio al pragmatismo; dalla fenomenologia e dalla filosofia della vita alla riflessione sui fondamenti delle scienze fisico-matematiche e al rinnovato interesse per la filosofia pratica63. Tuttavia, proprio la vastità delle aree disciplinari e l’ampiezza del dibattito in cui il movimento, articolato secondo le numerose tendenze e le specifiche distinzioni che in via provvisoria abbiamo delineato, dispiega tutta la sua forza speculativa e propositiva – congiunta alla centralità che al suo interno viene ad assumere il problema della «fondazione» –, fanno retrocedere a periodi precedenti il problema del reperimento delle fonti filosofiche costruzionistiche. L’assetto costruzionistico preliminare, anche di carattere contrastivo, dev’essere infatti ricercato anzitutto in Platone, Aristotele, Leibniz e Kant. 61 Cfr. C.F. Gethmann, hrsg. von, Lebenswelt und Wissenschaft. Studien zum Verhältnis von Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, cit.; P. Janich, hrsg. von, Entwicklungen der methodischen Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1992 (d’ora in poi: EMP). 62 Cfr. Ch. Thiel, hrsg. von, Akademische Gedenkfeier für Paul Lorenzen am 10. November 1995, Universitätsbibliothek Erlangen-Nürnberg, Erlangen, 1998. Il volume, di 36 pagine, contiene i discorsi commemorativi di F. Lösel, Ch. Thiel, F. Kambartel. 63 Cfr., a tal riguardo, F. Kambartel, Erlanger Schule, in EPW, I, p. 585 sg.; Ch. Thiel, Qué significa “constructivismo”?, in «Teorema», 7, 1977, pp. 5-21.
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1.3.1. Platone: materia, metodo, dialogo Una filosofia che «concepisce gli oggetti delle scienze come costruzioni, vale a dire sotto forma di prodotti dell’agire umano orientato in base a scopi»64, si pone, evidentemente, in netto contrasto con una teoria della conoscenza, come quella platonica, fondata sulla visione noetica delle idee come essenze di significato che devono essere «riprodotte» nell’esperienza. Ora, per i costruzionisti questo contrasto è solo apparente, poiché determinato da un duplice fraintendimento dell’idealismo platonico di matrice soggettivistico-spiritualistica. L’intuizione intellettuale che esprime la visione platonica delle idee non si riduce, infatti, né a un atto estatico-contemplativo, né a una forma di conoscenza originaria o autofondata. Non è un momento contemplativo perché comporta la messa in opera di concrete procedure dialettiche di confronto, di verifica e di scelta delle forme e dei criteri della conoscenza; non è, a fortori, un aspetto originario poiché prevede l’istituzione di un processo, di carattere sia logico sia psicologico, attraverso il quale l’episteme viene assicurata e oggettivamente giustificata. Secondo Mittelstrass, in Platone, attraverso la formalizzazione ideale, il fenomeno non viene semplicemente «riprodotto» a partire dall’esperienza, né trasfigurato in una teoria astratta, ma viene, anzi, «superato» in un assetto ipotetico-euristico che costituisce il senso più profondo della svolta teorica del platonismo rispetto alle filosofie precedenti65. Tale assetto non implica tuttavia – come sosteneva il neokantismo marburgese – il «salvataggio dei fenomeni» (sozein ta phainomena) attraverso la prefigurazione dell’idea come «metodo» della scienza, ma promuove anzi un’assiomatizzazione del sapere, in particolare riguardo al mondo fisico e astronomico, di tipo oggettuale e funzionale, in quanto fondato, al tempo stesso, sulla sostanzialità ontologica e sulla paradigmaticità del modello matematico che governa la formulazione delle ipotesi66. 64
C.F. Gethmann, Wissenschaftstheorie, konstruktive, cit., p. 746. Cfr. J. Mittelstrass, Die Rettung der Phänomene. Ursprung und Geschichte eines antiken Forschungsprinzip, de Gruyter, Berlin, 1962, pp. 2 sgg. La concezione secondo cui la conoscenza scientifica consiste fondamentalmente di procedure per «salvare i fenomeni» è stata proposta per la prima volta in modo sistematico da P. Duhem, SWZEIN TA FAINOMENA. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Hermann, Paris, 1908, e ripresa di recente da B.C. van Fraassen, To Save the Phenomena, in «The Journal of Philosophy», 73, 1976, pp. 623-632. La sua nozione originale risale tuttavia al neoplatonico della Scuola di Atene, Simplicio di Cilicia (VI sec. d.C.), secondo cui nel sozein ta phainomena viene «salvata» l’apparente irregolarità dei movimenti dei cieli (cfr. Simplicio, In Aristotelis Physica commentaria, I-II, ed. H. Diels, Berlin, 1882/1895, p. 292, 17-18). 66 Lo stesso Simplicio attribuisce a Platone la paternità filosofico-teoretica del «salvataggio dei fenomeni» (cfr. Simplicio, In Aristotelis de Caelo commentaria, ed. I.L. Heiberg, Berlin, 1894, p. 488, 16-24). Mittelstrass contesta tuttavia radicalmente la legittimità di quest’at65
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In altri termini, elevando la dottrina pitagorica delle relazioni numeriche a una duplice funzione – da un lato paradigmatica ed esplicativa e, dall’altro, secondo la metafora della linea, oggettuale e cosale (dinglich)67 –, la teoria delle idee di Platone supera da una parte il realismo ingenuo della fisica eraclitea, in cui i fenomeni sono rappresentabili o eseguibili, ma, in virtù della loro contraddittorietà, inconcepibili e, dall’altra, si distingue dall’idealismo postulatorio parmenideo, in cui i fenomeni sono concepibili in quanto vengono ricondotti a una matrice puramente noetica (il movimento alla quiete, la diversità all’identità ecc.) ma, in tal modo, essi sono al tempo stesso irrappresentabili, poiché nessuna «immagine», fondata sul criterio della relazione dianoetica, li può riprodurre. Il fatto che i fenomeni non possano «salvarsi» da soli, non giustifica il loro annullamento nell’atto originario dell’intuizione ontologica. Di conseguenza, il sapere o il metodo è per Platone un correlato della conformazione dell’oggetto, cosicché ontologia e semantica risultano cooriginarie nella nozione di «idea». Ciò deve intendersi sia come una critica alla concezione di Natorp – la quale, interpretando l’idea come metodo, fonda l’ontologia sulla semantica e fa di Platone uno «scienziato della natura» ante litteram68 –, sia come uno smarcamento della dottrina delle idee dal realismo gnoseologico di matrice fenomenistica o idealistica, che comporta una reificazione del metodo in base a un prestabilito assetto metafisico, ricadendo in tal modo nel circolo vizioso di fondare la semantica su un’ontologia che già la presuppone. Il problema del «salvataggio dei fenomeni», in quanto proiezione erronea del platonismo antico, cristiano e rinascimentale sul Platone dei dialoghi, induce dunque – per Mittelstrass – a una radicale ricomprensione delle novità introdotte dall’assetto teorico platonico rispetto alla forma preteoretica del modello di sapere eracliteo e parmenideo69. Si tratta, in altri termini, di intendere la dottrina platonica delle idee non tanto a partire dalla tradizionale forma «riproduttiva» che sembra emergere dalle forme relazionali tra le idee e la realtà (metessi, mimesi, parusia ecc.), ma dal senso dell’attivazione funzionale, in prospettiva conoscitiva, che sorregge l’introduzione degli schemi matematico-assiomatici in riferimento all’oggettualità paradigmatica dell’idea70. A quali scopi risponde, in Platone, la formulazione di una tribuzione (cfr. Die Rettung der Phänomene. Ursprung und Geschichte eines antiken Forschungsprinzip, cit., pp. 139 e 149-154). 67 Cfr. J. Mittelstrass, Die Rettung der Phänomene. Ursprung und Geschichte eines antiken Forschungsprinzip, cit., p. 92. 68 Cfr. ivi, pp. 70 sgg. 69 Cfr. ivi, pp. 178 sgg. 70 Osserva a questo proposito Mittelstrass: «Per Platone la natura non è affatto un meccanismo che si possa precisare con mezzi matematici. La matematica fornisce certo anche per lui lo schema in base al quale il demiurgo costruisce il suo mondo, ma non rappresenta il mezzo attra-
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teoria matematica che, in quanto assiomatizzazione del modello cinematico dell’astronomia di Eudosso, garantisce la coerenza dell’osservazione empirica dei cieli attraverso schematizzazioni circolari, uniformi e regolari dei movimenti dei corpi celesti71? A tal proposito, sono necessari alcuni chiarimenti riguardo alle nozioni platoniche di materia, metodo e dialogo. a) La materia. Il problema platonico della materia, esemplificato nella complessità terminologica con cui esso si presenta nel Parmenide, nel Filebo e soprattutto nel Timeo, dev’essere inteso come il riflesso dell’equivocità che inerisce alla nozione stessa di idea72. L’equivocità non riguarda la sua funzione paradigmatica – che è anzi ontologicamente univoca –, ma il senso di tale funzione, cioè l’assetto logico-semantico che ne guida la comprensione. Infatti, la «visione» in cui l’idea si esprime richiede l’attivazione del modello (par£deigma): esso assolve a una funzione universalizzatrice nella misura in cui vi «vediamo» qualcosa. Ciò dipende dalla caratteristica duplicità dell’idea: da un lato è un’entità che rappresenta l’essenza, ossia ciò che vi è di comune a un insieme di cose; dall’altro essa esiste come cosa in sé, indipendentemente dalla sua funzione di rappresentanza. Poiché è insieme una certa cosa particolare e la rappresentazione di molte cose particolari, nell’idea non si dà una distinzione logica tra universale e particolare, il che equivale a dire che l’universale si presenta in essa in un senso solamente intensionale e qualitativo. Ma se ciò da una parte garantisce lo smarcamento dell’idea platonica da qualsiasi «specie» o «forma» astrattiva e concettuale verso cui esso si può conoscere. […] Egli non utilizza la stereometria perché crede che col suo aiuto si possano formulare i processi della natura, bensì unicamente e solo perché i poliedri regolari sono i corpi «più belli» che si possono immaginare. E in questi poliedri, Platone descrive espressamente l’“essenza” e la “natura” degli elementi e non solo, come la moderna scienza della natura, quelle proprietà che si possono direttamente conoscere con l’aiuto della matematica. Fondamentalmente, ciò che egli mette in atto non è affatto una fisica, bensì pura matematica che avanza la pretesa che nelle sue leggi sia presente l’“essenza” delle cose». (ivi, p. 109 sg.). 71 Cfr. J. Mittelstrass, Rettung der Phänomene, in EPW, III, p. 603; Id., Die Rettung der Phänomene. Ursprung und Geschichte eines antiken Forschungsprinzip, cit., pp. 140 sgg. 72 Per l’esposizione di questa complessità terminologica e concettuale, cfr. H. Dorrie, M. Baltes, hrsg. von, Der Platonismus in der Antike. Grundlagen-System-Entwicklung, Bd. 4: Die philosophische Lehre des Platonismus, Bausteine 101-124, Frommann-Holzboog, Stuttgart/Bad Cannstatt, 1996, pp. 489-538. Per la trattazione sistematica del problema della materia in Platone, si vedano: D.J. Schulz, Das Problem der Materie in Platons «Timaios», Bouvier, Bonn, 1966, pp. 713; C. Diano, Il problema della materia in Platone dal Parmenide al Filebo, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 49, 1970, pp. 12-32 e Id., Il problema della materia in Platone. La chora del Timeo, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», cit., pp. 321-335; K.J. Lee, Platons Raumbegriff. Studien zur Metaphysik und Naturphilosophie im “Timaios”, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2000, pp. 120 sgg. (Il testo di Lee è una dissertazione tenuta all’Università di Costanza sotto la supervisione di Jürgen Mittelstrass). Per un resoconto dettagliato del dibattito intorno al problema della materia in Platone fino ai primi anni Settanta, si vedano le preziose osservazioni di M. Isnardi Parente, in E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, Parte II, Vol. III/1, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pp. 12-18, 55-75, 84-86.
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di matrice aristotelica, dall’altro pone il problema dell’interpretazione di una simile universalità oggettuale. Ora, vi sono due modi in cui può essere inteso ciò che non è universale ma adempie solo a una funzione universalizzatrice (in cui, cioè, si svolge l’«attivazione» del modello): da un lato attraverso la nozione, logica e ideale, di costituzione trascendentale, dall’altro attraverso la nozione, pratica e normativa, di operazione costruttiva. Da un punto di vista formale, il risultato è lo stesso: il significato (l’oggetto) viene ricondotto al senso, ossia a quella correlazione di semantica e ontologia che richiede l’introduzione della nozione di «soggettività»; la divergenza sostanziale sorge intorno a quest’ultima che, nel primo caso, assume le sembianze della coscienza mentre, nel secondo, mantiene la connotazione pratica e fattuale del soggetto concreto, le cui scelte di senso sono guidate dal principio dell’azione reale. Tale divergenza mette capo a una disgiunzione logica totale, che si ripercuote sulla stessa nozione di idea. Se infatti l’agire della «coscienza», di tipo trascendentale-formale («costitutivo»), s’imprime sul materiale alogico dell’esperienza, a cui l’idea detta le sue forme attraverso l’ordine metodico – more geometrico – della «coesistenza» spaziale e della «successione» temporale, l’agire costruttivo del soggetto reale deve invece fare i conti con la particolarità del materiale empirico che, nel determinare il limiti di approssimazione alle finalità dell’azione, fissa anche, per proiezione normativa, il senso compiuto dell’idea che ne è a fondamento. In altri termini, mentre la prima concezione, presentando l’idea come «struttura metodica» della coscienza, non mantiene la sua oggettualità e, corrispondentemente, formalizza la materia attraverso la sua riduzione allo spazio geometrico-matematico, la seconda, riconoscendo il carattere oggettuale dell’idea che ne fa un particolare della sua stessa specie, non può al contrario offrire alcuna soggettività formale in grado di esprimere il significato «logico» della materia. Infatti – come lo stesso Platone evidenzia –, nella forma intensionale e qualitativa in cui la suddetta duplicità dell’idea si presenta, non è possibile rendere esplicita, se non per mezzo di metafore, la ragione per cui essa deve valere come modello per tutte le altre cose particolari. Se ne ricava dunque una logica inferenziale da particolare a particolare che, com’è ovvio, non può oltrepassare i limiti del ragionamento per analogia73. Tale struttura analogica, d’altra parte, si ritrova nel modo stesso in cui Platone affronta il problema della materia che, per l’appunto, dev’essere compresa attraverso una sorta di «ragionamento bastardo» (logismÕj nÒqoj), formula con cui Platone esprime l’impossibilità di utilizzare – sia riguardo alle idee, sia, a maggior ragione, riguardo alla materia – le nozioni estensionali e assertorie di «universalità» 73 Cfr., a tal riguardo, P. Grenet, Les origines de l’analogie philosophique dans les dialogues de Platon, Boivin, Paris-Rouen, 1948, pp. 163 sgg.
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e «particolarità», le quali, anzi, devono essere sostituite dalle nozioni intensionali e modali di «necessità» e «contingenza»74. Come esprime dunque l’idea la sua funzione universalizzatrice? E, rispettivamente, come può, universalizzando, rimanere quest’idea, cioè un’oggettualità particolare? Nel Timeo, Platone introduce la figura del Demiurgo, il «divino artefice». Il Demiurgo costruisce il mondo, ma non l’«essere vero», le idee, né l’essere nel senso maggiormente improprio, ossia il non-essere come differenza assoluta, la «materia» (cèra)75. La costruzione avviene dunque in base a due principi non-prodotti, vale a dire – utilizzando la terminologia del Parmenide e del Sofista – in base al non-essere dell’essere che fissa l’identità (l’idea), e in base all’essere del non-essere che genera la diversità (la materia). Si noti che i due principi non sono simmetrici (e dunque nemmeno opposti), in quanto il non-essere dell’idea è relativo (cioè l’idea, in quanto particolare, è insieme identità e diversità) mentre il non-essere della materia è assoluto, cosicché l’«essere» assume per essa la funzione di metapredicato; questo significa, peraltro, che il principio della diversità materiale non tocca l’idea. Tuttavia, è proprio grazie all’azione costruttiva del Demiurgo che questo principio si pone in rapporto, sebbene in modo indiretto, anche con l’idea. Infatti quest’ultima assume un senso universale nella misura in cui è idea del fenomeno, cioè di quell’essere contingente e mutevole che caratterizza l’esistenza. Ma il fenomeno non potrebbe realizzarsi senza il principio della trasformazione, ossia senza l’essere del non-essere della chora. La costruzione demiurgica, consentendo l’individuazione del fenomeno, realizza dunque la funzione normativa e universalizzatrice dell’idea, rivelandone la struttura intensionale-qualitativa: così come la materia, in quanto condizione dell’individuazione, manifesta la necessità della contingenza (il mondo deve darsi in un certo modo per poterne esprimere il senso ideale), l’idea rivela, da parte sua, la contingenza della necessità, poiché la sua funzione universalizzatrice dipende dall’esistenza fenomenica. Se il mondo reale non esistesse, non avrebbe nemmeno senso presentare l’idea come un’universalità paradigmatica. Pertanto, anche se l’idea «è» prima della produzione fattuale – e non potrebbe essere altrimenti, poiché, in caso contrario, essa si ridurrebbe all’atto del produrre o al prodotto –, la sua identificazione come universalità si realizza tuttavia solo in seguito a tale produzione, a cui la materia, attraverso il fenomeno, concorre come condizione di senso. In ultima istanza, la 74 Sull’intera questione, si veda A. Rivaud, Le problème du devenir et la notion de la matière dans la philosophie grecque depuis les origines jusqu’à Théophraste, Alcan, Paris, 1906, pp. 310 sgg.; M. Isnardi Parente in E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, cit., pp. 84-86. 75 Cfr. Platone, Timeo, 48 E 2 sgg., trad. it. di C. Giarratano, in Opere complete, vol. VI, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 393 sgg.
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visione dell’idea come posizione assoluta dell’oggettività è tanto necessaria quanto indicibile; per far sorgere il senso occorre infatti l’azione costruttiva rispetto alla contingenza materiale, vale a dire: l’intenzionalità rispetto all’oggetto ideale è una mera posizionalità metalogica che richiede il completamento da parte dell’intenzionalità reale rispetto ai fenomeni. Si noti tuttavia che senza tale posizionalità, l’intenzionalità fenomenica si ridurrebbe a una mera ricognizione empirica, talché – e questo è il punto che ritroveremo nel costruzionismo metodico – non potrebbe affatto sorgere ciò che chiamiamo «scienza» (™pist»mh). La materia platonica è ciò che, come «luogo» (cèra) o «ricettacolo» (Øpodoc»), accoglie l’azione costruttiva del mondo e rende in tal modo intelligibile l’idea tramite le forme a priori della geometria e della matematica76. 76 Ciò rende, in ultima istanza, illegittima qualsiasi assimilazione della nozione platonica di materia sia al substrato materiale sensibile (Ûlh), sia allo «spazio» o alla «spazialità» come contenitore vuoto o condizione geometrico-matematica dell’essere fenomenico. La hyle indica infatti in Platone semplicemente il «materiale da costruzione» (bosco, legno ecc.) e non ha affatto quel significato teoretico-filosofico che risulterà invece evidente in Aristotele. Quanto all’interpretazione della chora come «spazio», si può accettare nella misura in cui quest’ultimo indica un «indefinito qualitativo», ma non è certo assimilabile all’indefinito quantitativo dello spazio geometrico, per il quale sembra anzi più adeguata la nozione di apeiron del Filebo (cfr. Bäumker, Das Problem der Materie in der griechischen Philosophie, Aschendorff, Münster, 1890, pp. 114 e 193 sgg.). Senza soffermarci su un dibattito che ha visto contrapposti e schierati tutti i maggiori interpreti della filosofia platonica (e che riguarda questioni esegetico-filologiche), è chiaro infatti che se si tende a fare della nozione platonica di «materia» il precursore della nozione cartesiana di spazio geometrico come pura estensione o addirittura di quella kantiana, come «ipotesi spaziale» o «spazialità» (Räumlichkeit, cfr. N. Hartmann, Platons Logik des Seins, Töpelmann, Giessen, 1909, pp. 423 sgg.; J.A. Kilb, Platons Lehre von der Materie, Dissertation, Marburg, 1887, pp. 30 sgg.; P. Natorp, Platos Ideenlehre, Dürr, Leipzig, 1903, pp. 348 sgg.), allora il principio della materialità dovrebbe concorrere in Platone al «salvataggio dei fenomeni», cioè proprio a quello che – come nota Mittelstrass – né l’idea, né la materia platonica, nella loro oggettualità paradigmatica, sono in grado di svolgere. Infatti, nella fisica galileiana e cartesiana il «salvataggio» ha luogo tramite la relazione tra la vera realtà (quantitativa) e l’apparenza (qualitativa) o, più in generale, tra l’apparente irregolarità fenomenica e l’effettiva regolarità e uniformità – ad esempio – dei movimenti dei cieli; ma in tal modo si perde la forma oggettiva e intensiva del modello, dato che solo l’apparenza soggettiva è, in senso proprio, intensiva. Quest’incongruenza si ricava anche dal fraintendimento della forma platonica del giudizio, in cui la copula viene intesa in modo statico-categoriale (cioè come essere o non-essere una cosa «a» il concetto-specie «A»), mentre in Platone la relazione predicativa ha sempre un grado intensivo, per cui «a è A» deve leggersi non secondo l’inerenza, ma in base alla tendenza della cosa all’idea, vale a dire «a → A»: le cose esistono più o meno secondo il paradigma di cui costituiscono un’esemplificazione più o meno approssimativa. Ciò caratterizza il giudizio tipologico-paradigmatico platonico che, a differenza del giudizio categorico aristotelico, si costruisce secondo la forma dell’analogia attributiva (cfr., a tal riguardo, E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna, 1968; nuova ed., Quodlibet, Macerata, 2004, p. 662 sg.). Un chiarimento in tal senso riguardo alla nozione platonica di idea e, conseguentemente, di materia, può essere offerto da due autori per molti aspetti vicini alle concezioni della Scuola di Erlangen, vale a dire Josef König e Hans
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b) Il metodo e il dialogo. La forma intensiva dell’idea e, conseguentemente, della nozione di materia, condiziona altresì la strutturazione metodica del sapere. In Platone, il metodo non indica solo l’ordinamento razionale, di carattere oggettivo e formale, dei procedimenti dell’indagine conoscitiva, ma assume immediatamente una funzione euristica, contenutistica, in ultima istanza ontologica. Se l’idea non è un semplice oggetto, né un mero Radermacher. Secondo Radermacher, il significato dell’oggettualità ideale platonica non sta tanto nel farci vedere le idee, ma nel farci vedere le cose tramite le idee. Le idee (e su questo punto egli si richiama a una serie di osservazioni svolte da König in Sein und Denken. Studien im Grenzgebiet von Logik, Ontologie und Sprachphilosophie, Niemeyer, Halle a.d. Saale, 1937, pp. 67 sgg.) sono paragonabili a uno specchio: questo non è prodotto da noi e tuttavia funziona solo «se noi vediamo qualcosa nello specchio». Si noti, peraltro, che – continua Radermacher – «per mezzo dello specchio noi vediamo le cose, non già le loro immagini», poiché lo specchio non è né un’immagine, né «possiede qualcosa come un’immagine, bensì rispecchia la cosa come il pittore dipinge la cosa». Dipingendo, il pittore – cioè, in termini platonici, il costruttore, il Demiurgo – attiva il modello, crea un’immagine che può essere vista solo se c’è lo specchio. D’altra parte, le immagini dello specchio assumono le forme delle cose che si rispecchiano: questa capacità di assumere infinite immagini è assimilabile alla materia che accoglie le idee, la quale – come già notarono alcuni interpreti antichi, tra cui Plotino e Proclo, rifacendosi al Timeo, 52 C 2-5 (cfr. H. Dorrie, M. Baltes, hrsg. von, Der Platonismus in der Antike, cit. p. 505 sg.) – essendo il principio della diversità assoluta, tende in sé a presentarsi come un mezzo riproduttivo curvo o deformante, in cui le cose appaiono in un modo o nell’altro a seconda del punto di vista dal quale si coglie l’immagine. A questa metafora dello specchio si potrebbe obiettare che in tal modo l’idea perde la sua oggettualità sovraempirica, poiché uno specchio può riflettere tutte le cose che gli si presentano e non vi sarebbero così più distinzioni tra le idee, le quali perderebbero la loro particolarità per fondersi in un’idea unica, totale, sostanzialmente identica alla materia. Ma quest’obiezione è valida solo se si concepisce la particolarità dell’idea in un senso quantitativo-estensionale, che la renderebbe una nozione categoriale (come del resto l’aveva intesa Aristotele). A ben vedere, infatti, le idee sono: a) indefinibili, poiché non si dà un rapporto tra genere e specie; b) tendenti a un’idea unica – vale a dire l’idea del bene – che rappresenta la misura del gradiente di adeguazione di una cosa al paradigma con il quale essa viene valutata e, come tale, è presente in tutte le idee, di cui costituisce l’assetto normativo e trascendentale (cioè non descrittivo). L’idea del bene rappresenta dunque la normatività intrinseca o intensionale (una cosa sarà migliore o peggiore di un’altra relativamente a un’idea, secondo che abbia un grado di approssimazione al modello maggiore o minore), ed è a colui che «vede» che, attivando il modello nell’immagine, spetta il compito di rivelare il senso particolare di questa normatività. Le idee sono eterne, essenziali e sovraempiriche, ma il loro senso si ricava comunque sempre a partire dall’esperienza. Per questo – conclude Radermacher – non solo le idee e la materia, ma anche il «vedere nello specchio, in quanto fondante, non ha presupposti. [...] L’intellezione, per vedere nello specchio, è un’attività originaria; il che, tuttavia, non può significare che le idee (gli specchi stessi) risultino, in questa attività, prodotte. L’intellezione si è potuta certo attuare solo mediante lo specchio, e non si può nemmeno dire che il funzionamento dello specchio sia semplicemente un’attività della coscienza». Cfr. H. Radermacher, Dialektik, in H. Krings, H.M. Baumgartner, Ch. Wild, Handbuch philosophischer Grundbegriffe, 3 Bde., Kösel, München, 1973-1974 (d’ora in poi: HpG), Bd. I; trad. it. Dialettica, in H. Krings, H.M. Baumgartner, Ch. Wild, Concetti fondamentali di filosofia, ed. it. a cura di G. Penzo, Queriniana, Brescia, 1981 (d’ora in poi: CFF), vol. I, pp. 548-571, in particolare pp. 552-559.
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concetto, ma soprattutto un’unità di senso, il metodo deve apparire al tempo stesso come ricerca del significato dell’essere e come fissazione di tale significato nell’anima. La mediazione metodica tra idea e anima rende conto della sua irriducibilità ai procedimenti logico-sistematici della fondazione assiomatica e dimostrativa del sapere. Da Aristotele ai razionalisti moderni, il metodo analitico (risolutivo e regressivo) e quello sintetico (compositivo e progressivo) apparivano come i due lati di un unico procedimento logico77 in cui la materialità oggettuale – espressa nei giudizi singolari e particolari – costituiva la base, essenzialmente extrametodica, della formalizzazione estensionale, cioè del vero obiettivo del sapere. Poiché il rapporto di fondazione di tale sapere era determinato secondo la successione metodica di semantica (sistema dei principi), ermeneutica e ontologia, la funzione costruttiva della conoscenza veniva relegata esclusivamente alla parte «sintetica» o «deduttiva» della dimostrazione che faceva seguito alla parte analitica o induttiva, i cui contenuti e la cui funzione euristica – come evidenzieranno Trendelenburg e Brentano78 – erano affidati alla metafisica, alla filosofia del linguaggio e alla psicologia. Il tratto «arcaico» della logica platonica consiste invece nell’unificazione, all’interno del logos, di metafisica, linguaggio e psicologia e, dunque, nella sostanziale indistinzione tra l’oggettualità materiale e l’assetto formale della conoscenza. Ciò consente la fondazione della semantica sull’ermeneutica mediante l’elevazione del discorso argomentativo a criterio trascendentale dei principi 77 Dobbiamo distinguere da un lato tra il metodo o il procedimento analitico, che riguarda la struttura formale attraverso cui una situazione, un oggetto, un dato o un insieme di dati vengono «risolti» negli elementi ovvero nelle condizioni che li rendono possibili – cosicché questi elementi o condizioni, assunti come principi, vengono generalizzati a tutti gli individui di una determinata specie – e dall’altro l’uso analitico o la funzione argomentativa analitica di un’inferenza, in cui, invece, si hanno già a disposizione i dati occorrenti e, assumendoli come principi generali, li si ordina in una nuova forma rispetto a un individuo. Nel primo caso il metodo analitico equivale al metodo induttivo; nel secondo caso l’uso analitico equivale alla funzione argomentativa della deduzione. Viceversa, bisogna distinguere tra il metodo sintetico come indice del procedimento formale mediante cui dagli elementi o assiomi – assunti come principi – si giunge alla «composizione» dell’oggetto, del fatto, della situazione o proposizione, e l’uso sintetico ovvero la funzione argomentativa sintetica di un’inferenza, in cui la raccolta dei dati rispetto ad alcuni individui viene resa presuntivamente conclusiva rispetto a tutti gli individui della stessa specie. Nel primo caso il metodo sintetico equivale al metodo deduttivo; nel secondo caso l’uso sintetico equivale alla funzione argomentativa dell’induzione (cfr., a tal riguardo, G. Wolters, J. Mittelstrass, Methode, analytische, in EPW, II, pp. 879-881). 78 Cfr. A. Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Zwei Abhandlungen, Berlin, 1846, I: Aristoteles Kategorienlehre, pp. 1-195; trad. it. a cura di V. Cicero, prefaz. di G. Reale, La dottrina delle categorie in Aristotele, Vita e pensiero, Milano, 1994. F. Brentano, Die Psychologie des Aristoteles, insbesondere seine Lehre vom nous poietikos, Kirchheim, Mainz, 1867; trad. it. di S. Besoli, B. Maj e R. Sega, introduzione e cura di S. Besoli, La psicologia di Aristotele, con particolare riguardo alla sua dottrina del nous poietikos, Quodlibet, Macerata, 2007.
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della conoscenza. La dialettica (dialektik¾ tšcnh) si presenta così al tempo stesso come metodo e come contenuto della conoscenza. Il suo procedimento non è né analitico, né sintetico, ma tipico-ideale; il suo mezzo non è né induttivo, né deduttivo, ma noetico-intuitivo poiché fondato sull’individuazione del paradigma („dša) che guida l’argomentazione. La funzione metodica dell’intuizione platonica, in quanto «direttiva di determinazione riferita al contenuto»79, consente da un lato il suo smarcamento dall’atto estatico della conoscenza immediata, sostanzialmente extrametodico e non dialogico e, dall’altro, l’elevazione dell’ipotesi a criterio euristico. Quest’ultima non si presenta pertanto – come appare invece in Aristotele – nella forma di una semplice «premessa» logica di grado o qualità inferiore rispetto alla necessità o all’evidenza assiomatica che deve caratterizzare il punto di partenza del metodo scientifico, ma come la scelta, in base a un giudizio comparativo strutturato secondo il metodo apagogico o indiretto, dell’argomento «più forte» o «migliore» che, nell’insieme dei «luoghi» del discorso razionale (tÒpoi), definisce il senso dell’approssimazione all’idea. In ciò consiste il metodo diaireitico che, secondo la matrice della «divisione per due», esprime la generazione costruttiva dei contenuti conoscitivi. Nella diairesi, la risoluzione analitica e la composizione sintetica, nella loro equipotenza e reciprocità, riflettono il duplice senso della costruzione conoscitiva (come generazione «dal basso in alto» e come ricognizione «dall’alto in basso»), duplicità che si oppone sia alla forma statica e descrittiva dell’analitica aristotelica, sia all’univocità del metodo ipotetico-deduttivo della scienza moderna, in cui l’ipotesi e la verifica – nonostante il loro presentarsi, rispettivamente, come «modello astratto» e come «esperienza astratta» (esperimento) – sono estranee alla costruzione razionale (o sintetica: dai principi agli oggetti) in quanto presuppongono sempre il ricorso alle istanze extrametodiche dell’esperienza, di per sé intensionali, probabili e non garantite80. 79 W. Flach, Anschauung, in HpG, Bd. II; trad. it. Intuizione I, in CFF, vol. II, p. 1090. Cfr., a tal riguardo, Id., Zur Prinzipienlehre der Anschauung, Bd. I: Das spekulative Grundproblem der Vereinzelung, Meiner, Hamburg, 1963, pp. 68 sgg. 80 A tal riguardo, è necessario osservare che, ben prima della scienza galileiana, Platone ha introdotto il metodo ipotetico-deduttivo (già impiegato, per altro, dal pitagorico Archita e da Democrito), al quale egli attribuisce una funzione dialettico-argomentativa, cioè costruttivo-espositiva, a differenza del metodo analitico che costituisce soltanto il momento negativo della ricerca, dove cioè l’uso distruttivo della dialettica serve a eliminare le ipotesi false. Tale funzione argomentativa è, invece, sostanzialmente assente nella scienza moderna, nella quale il metodo ipotetico-deduttivo ha un assetto esclusivamente esplicativo, come si può ricavare dal rilievo che in essa assume sia l’analisi matematica, in grado di formalizzare algebricamente lo spazio fisico (un procedimento inammissibile per la scienza antica, in quanto ciò avrebbe implicato la rimozione del divieto di trasgressione categoriale), sia la nuova teoria della percezione che, attraverso la distinzione tra qualità primarie oggettive e qualità secondarie soggettive, giustifica dal punto di vista fenomenico le determinazioni quantitative. Ciò spiega, d’altra par-
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1.3.2. Aristotele e la filosofia pratica L’unione platonica tra teoria e prassi81, che si esprime nel metodo tipico-ideale legato alla funzione paradigmatica dell’idea – al tempo stesso particolare e universale – conduce all’indistinzione tra le diverse forme di razionalità che caratterizzano l’episteme, indistinzione ben rappresentata dalla valenza costruttiva che assumono sia il metodo apagogico, sia il metodo ipotetico-deduttivo o «espositivo» dell’argomentazione dialettica. In questo senso, le opinioni, nel loro insieme (topoi), sono «valide» nella misura in cui esprimono la tendenza al modello, vale a dire: esse conducono alla scienza o alla ragione in quanto sono risolte nell’idea e quindi annullate come opinioni. Ciò significa che l’univocità ontologica dell’idea vincola la sua struttura metodica: non esistono oggetti non-ideali che possano essere razionalmente compresi; in tal caso, infatti, sarebbe assente proprio quella funzione paradigmatica che fonda la razionalità della conoscenza. Da questo segue altresì che in Platone il metodo tipico-ideale non possa mai ridursi a un semplice procedimento topico-dialettico. Agli occhi dei rappresentanti del costruzionismo metodico, una simile irriducibilità implica un inaccettabile monismo metodologico82: a Platone va senza dubbio ascritto il merito di aver evidenziato la funzione costruttiva della conoscenza, ma il suo rigoroso assetto ontologico non consente di giustificare l’articolazione della razionalità che si manifesta nei diversi ambiti del sapere contemporaneo, in particolare nell’ambito della prassi, i cui oggetti non possono sempre essere rappresentati dai modelli trascendenti, ma appaiono anche circoscritti alle scelte contingenti e alle deliberazioni in merito alle situazioni di fatto. Secondo i costruzionisti, il limite in cui incorre la razionalità ideale platonica è superato dalla nozione aristotelica di «filosofia pratica»83. Tale nozione, introdotta da Aristotele nel II libro della Metafisica, deve collegarsi te, la capacità della scienza moderna, a differenza della scienza platonica, di operare il già discusso «salvamento dei fenomeni». 81 Cfr. O. Gigon, Theorie und Praxis bei Platon und Aristoteles, in «Museum Helveticum», 30-31, 1973, pp. 65-87 e 144-165; L. Ruggiu, Razionalità ed agire. Verità della prassi e prassi della verità in Aristotele, in Id., La scienza ricercata, SIT, Treviso, 1979, pp. 25 sgg.; L. Cortella, Aristotele e la razionalità della prassi. Una analisi del dibattito sulla filosofia pratica aristotelica in Germania, Jouvence, Roma, 1987, pp. 11 sgg. 82 Per la critica costruzionistica al monismo metodologico, cfr. B. Abel, Grundlagen der Erklärung menschlichen Handelns. Zur Kontroverse zwischen Konstruktivisten und Kritischen Rationalisten, Mohr, Tübingen, 1983, pp. 2 sgg. 83 Cfr. J. Ritter, Zur Grundlegung der praktischen Philosophie bei Aristoteles, in «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», 46, 1960, pp. 179-199. Per l’intero contesto, cfr. O. Schwemmer, Philosophie der Praxis. Versuch zur Grundlegung einer Lehre vom moralischen Argumentieren in Verbindung mit einer Interpretation der praktischen Philosophie Kants, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1971.
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alla distinzione tra le scienze riferita nel libro VI (poi progressivamente decaduta dopo la sua morte)84. Mentre le scienze teoretiche hanno come fine od oggetto la speculazione e il conoscere come tali, cioè la «verità», le scienze pratiche e quelle poietiche riguardano invece le azioni. In particolare, le scienze pratiche trattano delle azioni che hanno il loro inizio e il loro termine nel soggetto che agisce (l’«agire» in quanto tale); le poietiche, invece, si rivolgono a quelle azioni che producono qualcosa al di fuori del soggetto (il «fare»). Questa tripartizione si può in realtà ridurre a una bipartizione, ossia da una parte si trovano le scienze che riguardano l’azione (comprendenti l’agire che ha il fine in se stesso: la morale, l’etica e la politica, e il fare che ha il fine al di fuori dell’azione: le arti) e, dall’altra, le scienze che non riguardano l’azione, ma la contemplazione, la conoscenza e la verità (la matematica, la fisica e la metafisica o filosofia prima). Si noti che il criterio di distinzione tra i due ambiti non dev’essere identificato nella «verità» (la cui ricerca – benché non come fine, ma solo come mezzo – è presente anche nelle scienze che riguardano l’azione), quanto piuttosto nel riferimento al valore o «valutatività», la cui definizione è data nell’agire pratico sia come oggetto, sia come scopo, mentre è presente solo come oggetto nel «fare» poietico, in cui lo scopo è invece costituito dalla cosa prodotta85. Il rilievo assunto dal sapere pratico consiste dunque nel fatto che: a) esso ha sempre di mira una forma di verità, sebbene questa forma sia cercata in vista dell’azione; b) nell’azione pratica, la valutazione manifesta una sua peculiare autonomia, in quanto compare al tempo stesso come oggetto e come scopo. Su questa base, alcuni rappresentanti della cosiddetta «riabilitazione della filosofia pratica» – alla quale, come avremo modo di approfondire, prenderanno parte anche importanti esponenti della Scuola di Erlangen, tra cui Kamlah, Lorenzen, Schwemmer, Kambartel e Lorenz –, evidenzieranno come questi due aspetti garantiscano alla filosofia pratica aristotelica non solo una sua peculiare razionalità normativa (in contrapposizione alla versione descrittiva, avalutativa e fondamentalmente «teoretica» della razionalità delle scienze politico-sociali di matrice weberiana e analitica), ma altresì una sua particolare scientificità, legata allo specifico «rigore» logico-argomentativo della valutazione pratica. Infatti, sulla scorta delle con84
Cfr. Aristotele, Metafisica, a, 993 b 19-23; E, 1025 b sgg. F. Volpi, Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla «riabilitazione della filosofia pratica», in C.A. Viano, a cura di, Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pp. 128-148. 85 Cfr. E. Berti, Storicità ed attualità della concezione aristotelica dello Stato, in «Verifiche», 7, 1978, pp. 305-358; Id., La razionalità pratica tra scienza e filosofia, in Centro di Studi Filosofici di Gallarate, a cura di, Il valore. La filosofia pratica fra metafisica e scienza politica, Gregoriana, Padova, 1984, pp. 11-26; Id., Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna, 1987, pp. 55-76; Id., Il metodo della filosofia pratica secondo Aristotele, in A. Alberti, a cura di, Studi sull’etica di Aristotele, Bibliopolis, Napoli, 1990.
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siderazioni di Otfried Höffe ed Helmut Kuhn (successivamente rielaborate e sistematizzate da Enrico Berti)86, è possibile sostenere che la praxis aristotelica, che si esprime in modo eminente nella scienza politica, ha lo scopo di conoscere il bene e i principi della scelta attraverso figure argomentative che, nelle loro conclusioni, non sono valide «sempre», ma «per lo più». Tale conoscenza non risulta né razionalmente, né scientificamente inferiore rispetto al rigore argomentativo della dimostrazione apodittica, e ciò per due ragioni, vale a dire: a) sia dal punto di vista logico-formale, in quanto anche nella filosofia pratica, come nella fisica e nella metafisica, il procedimento diaporetico – che consiste nel presentare le aporie intorno a un certo argomento (momento aporetico), nel dedurre le conseguenze da ciascuna delle opinioni opposte (momento propriamente diaporetico) e nel confutare un’opinione deducendo da essa conseguenze contraddittorie per giungere così alla dimostrazione dell’opinione opposta (momento euporetico) – può mostrare il massimo grado di forza dimostrativa; b) sia dal punto di vista contenutistico, perché, a causa della contingenza del suo oggetto, la filosofia pratica si presenta come una vera scienza del «probabile» nel senso oggettivo del termine87. Il problema dell’assetto scientifico-razionale, di un suo maggiore o minore rigore e forza argomentativa, riguarda semmai la funzione propedeutica che il metodo dialettico assume nella caratterizzazione tipologica del sapere pratico. A differenza di Platone, infatti, l’intento tipologico della filosofia pratica aristotelica muove da un fondamento topicodialettico e, pur sviluppandosi attraverso forme argomentative rigorosamente logiche – in cui un ruolo fondamentale è svolto dal principio di noncontraddizione –, rimane confinato all’interno della «topica» e della sua specifica struttura razionale. In una simile prospettiva, sia che s’intenda considerare, come fa Kuhn, la topica come distinta dalla dialettica e destinata a una ricomprensione scientifico-pratica in base al metodo oggettivo della probabilità (mentre la dialettica assume una funzione solo propedeutica come comprensione non scientifica del «verosimile» soggettivamente inteso), oppure che si voglia attribuire, nel senso di Höffe, anche alla dialettica una funzione scientifica come momento euristico-inventivo nell’insieme unitario del sapere topico-dialettico, rimane in ogni caso in Aristotele una netta differenza con la razionalità del procedimento apodittico-espositivo, caratteristico della matematica e della logica. Quest’ultima forma di razionalità non può affatto essere ricompresa all’interno dell’intento tipologico, poiché solo 86 Cfr. O. Höffe, Praktische Philosophie. Das Modell des Aristoteles, Pustet, MünchenSalzburg, 1971, zweite, durchgesehene Auflage, Akademie Verlag, Berlin, 1996; H. Kuhn, Aristoteles und die Methode der politischen Wissenschaft, in «Zeitschrift für Politik», 12, 1965, pp. 101-120, ora in RPP, Bd. II, pp. 261-290; E. Berti, Il metodo della filosofia pratica, cit. 87 Cfr. H. Kuhn, Aristoteles und die Methode der politischen Wissenschaft, cit., p. 270.
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nel sillogismo apodittico la conclusione può essere staccata dalle premesse per consentire all’argomento di trasformarsi in un’autentica prova. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che il typos aristotelico ha un valore esemplare-paradigmatico, ossia indica un’inferenza da particolare a particolare che mette capo a uno «schema generale» basato sul criterio di rilevanza del confronto tra le opinioni. Tale schema non identifica però mai una specie o una classe a cui il particolare appartiene, ma un concetto tipico a cui esso «più o meno» corrisponde, concetto che evidentemente fuoriesce dalla razionalità logica e ontologica che sorregge la comprensione estensionale della nozione di «sostanza». A sostegno di quest’articolazione della razionalità – assente in Platone – interviene d’altra parte la connotazione funzionale della struttura tipologica del sapere pratico aristotelico; esso infatti può definirsi razionale e, nel senso precisato, «scientifico», perché il suo fine non è la conoscenza, ma l’azione, tant’è vero che a completamento della razionalità pratica, Aristotele pone un’altra forma di razionalità, ugualmente pratica ma non scientifica, vale a dire la «saggezza» (phronesis), i cui oggetti sono determinati da principi del tutto contingenti in quanto dipendenti dalla deliberazione umana che può aver luogo solo nel riconoscimento del caso particolare88. Tale razionalità, legata alla virtù del buon carattere e della buona educazione, presuppone la conoscenza dell’universale da parte della ragione pratica e, in quanto eminentemente prescrittiva e deliberativa, si sviluppa in un sillogismo pratico la cui struttura riproduce per molti versi la facoltà del giudizio estetico e teleologico di matrice kantiana, dove ci si chiede di quali universali o categorie dobbiamo disporre per rendere razionalmente comprensibile un fatto già acquisito. Si noti, tuttavia, che il sillogismo pratico della phronesis non conduce a una teoria dell’azione (caratteristica, invece, della ragion pratica), ma approda a un’azione reale poiché solo i mezzi, e non i fini, possono essere oggetto della deliberazione. Attraverso la phronesis, l’universale della ragion pratica aristotelica conduce dunque non a una semplice «comprensione» razionale, ma a un’azione concreta: in termini kantiani, a sostegno del giudizio riflettente si pone l’«analitica dei principi» che indica l’applicazione dell’universale al caso concreto. In ultima istanza, la riabilitazione aristotelica della topica a fini pratici, se da un lato conferisce ai principi dell’agire una razionalità peculiare e finanche una determinata scientificità, dall’altro pone il problema – insolubile entro il quadro metafisico-ontologico della dottrina della sostanza e delle sue categorie – di una sua conciliazione con i principi che sorreggono l’argomentazione apodittica e strettamente scientifica. Infatti il metodo topicodialettico corre continuamente il rischio di una degenerazione nell’argomen88 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, Z, 1140 b 30 sgg., trad. it. di A. Plebe, in Opere, vol. VII, Laterza, Bari, 1985, pp. 146 sgg.
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tazione retorica fondata sulla persuasione e la convinzione e, come tale, volta alla ricerca del consenso soggettivo anziché della forza oggettiva e universalistica della ragione. Come vedremo, l’etica dialogica e transsoggettiva della Scuola di Erlangen – così come, d’altra parte, l’etica discorsiva di Habermas e quella trascendentale di Apel – si sforzerà di superare i suddetti limiti attraverso la definizione di un contesto dialogico-comunicativo in base al quale la fondazione della razionalità venga cercata all’interno del linguaggio, e non «prima» o «al di fuori» di esso. 1.3.3. Leibniz, Kant e il principio dell’azione Se la filosofia leibniziana, insistendo sul carattere innato e universale delle forme logiche e delle «verità di ragione», costituisce da un lato il punto di riferimento privilegiato delle moderne tendenze logicistiche89, dall’altro, nel suo assetto genetico e metafisico, utilizza percorsi metodici di natura eminentemente antilogica, vale a dire in opposizione a quei principi che si caratterizzano in base all’identità elementare o atomica (discreta), alla dicotomia o bivalenza e, soprattutto, all’esclusione della mediazione tra gli enti o individui che costituiscono l’oggetto del discorso e che, dunque, ammettono solo relazioni esterne, tali da non modificare la sostanza (principio del terzo escluso). Dal punto di vista del costruzionismo metodico, l’importanza della struttura antilogica della metafisica leibniziana consiste nel favorire la regressione analitica ai fondamenti, la quale, trasformando ogni asserzione (tesi, postulato) in una questione, consente di esaminare separatamente, mediante scomposizione, le diverse condizioni da soddisfare prima di poter riproporre l’asserzione stessa non come tesi isolata, ma come effettiva soluzione di un problema90. In tal modo, le forme e i contenuti logici vengono ricondotti al senso funzionale e operativo che li ha generati, impedendo la loro ipostatizzazione. Questa struttura, al tempo stesso formale e operativa, si articola in quattro momenti che possiamo riassumere nel seguente modo. 1) La funzione costruttiva del pensiero riguardo ai fenomeni o alla “realtà” (metafisica della conoscenza). – Gli oggetti dell’esperienza, per quanto «ben fondati» nella realtà, dipendono per Leibniz dalla capacità produttiva del pensiero91. Questa produzione non riguarda né la «forma», né la «mate89 Cfr. B. Russell, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge University Press, Cambridge, 1900; L. Couturat, La logique de Leibniz. D’après des documents inédits, Alcan, Paris, 1901. 90 Cfr. E. Melandri, Logica, in G. Preti, a cura di, Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, vol. 14, Feltrinelli, Milano, 1966, 19702, p. 269. 91 Cfr. R.M. Adams, Leibniz. Determinist, Theist, Idealist, Oxford University Press, New York/Oxford, 1994, pp. 221 e 223. M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino, 2001, p. 73.
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ria», ma il fenomeno empirico nella sua unità e unicità. Da ciò derivano quattro conseguenze fondamentali che toccano l’assetto della conoscenza, vale a dire: i) L’estensione della nozione di pensiero, che non si riduce all’attività mentale o intellettuale, ma ricomprende le stesse funzioni sensibili. Già a livello sensibile, infatti, ha luogo la funzione ideativa dell’immaginazione che permette, ad esempio, la determinazione delle proprietà fenomeniche del numero, della figura e della grandezza92. In quanto immagini e rappresentazioni che esprimono le cose, tali proprietà costituiscono la base semiotica della conoscenza oggettiva, in particolare della riflessione matematica e geometrica93. ii) Il superamento delle dicotomie classiche (forma/materia, sensibilità/intelletto, dato empirico/assetto categoriale) tale da rendere inconsistenti sia il riduzionismo soggettivistico e immaterialistico à la Berkeley94, sia la seriore fondazione «trascendentale» di matrice kantiana, la quale, ricavando le categorie dai giudizi, ripropone a livello metalogico – attraverso la deduzione dei concetti puri dell’intelletto – quella confusione tra il soggetto logico della proposizione e il soggetto psicologico del giudizio che sembrava evitata a livello categoriale95, dove i concetti puri sono tali nella misura in cui rappresentano gli schemi o funzioni predicative fondamentali che rendono possibile l’esperienza. A differenza dell’ambiguità in cui la logica proposizionale kantiana si presenta, la logica leibniziana del concetto, in quanto vincolata alle funzioni significative dei termini o espressioni che costituiscono l’enunciato della proposizione, è già aperta a quell’uso relazionale dei predicati che consente la più ampia ricomprensione dell’esperienza, attribuendo al tempo stesso al concetto il semplice compito di «afferrare» ovvero, letteralmente, di con-cepire nella mente ciò che è già stato designato o significato dal termine. iii) L’assetto semiotico della gnoseologia leibniziana, in quanto tentativo di ricondurre il metodo della nuova scienza moderna ai fondamenti della logica aristotelica, prefigura l’intenzionalità della coscienza, in base alla quale l’immaginazione pone qualcosa (il contenuto espressivo o segnico) come oggetto96. Nella percezione esterna, l’oggetto si determina mediante un rimando simbolico; in quella interna, invece, l’oggetto immanente s’identifica 92 Cfr. G.W. Leibniz, Lettera alla regina Sofia Carlotta, in Scritti filosofici, 3 voll., a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, UTET, Torino, 2000, vol. I, p. 501 sg. Cfr., a tal riguardo, M. Mugnai, Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 23 sg.; E. Pasini, Corpo e funzioni cognitive in Leibniz, Angeli, Milano, 1996, pp. 146 sgg. 93 Cfr. M. Mugnai, Astrazione e realtà, cit., pp. 38 sgg. 94 Cfr. R.M. Adams, Leibniz, cit., pp. 224 sgg. 95 Cfr. E. Melandri, Logica, in G. Preti, a cura di, Filosofia, cit., p. 301. 96 Cfr. R.M. Adams, Leibniz, cit., p. 219 sg.
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col significato sinsemantico. Ciò spiega perché è solo in base alla coscienza della percezione o «appercezione» che è possibile il rimando simbolico; così, ad esempio, il carattere sostanziale che attribuiamo agli oggetti del mondo esterno trova il proprio fondamento nell’autocoscienza poiché l’elaborazione del concetto di sostanza può avvenire solo grazie al «pensiero dell’io»97; allo stesso modo, il rapporto causale è simbolicamente attribuito agli oggetti fisici sulla base di una nozione relazionale di «forza» internamente avvertita e sinsemanticamente riferita a qualcosa. In questo senso, tutti gli attributi del mondo esterno che la fisica cartesiana considera come originari e in sé oggettivi (figura, estensione, numero, moto, massa ecc.) non sono altro che il risultato di diversi livelli di astrazione che predispongono la realtà all’analisi concettuale. È infatti la natura, la qualità e la peculiare conformazione di quel «soggetto» non-psicologico che chiamiamo «realtà» a rendere possibili tali attributi. Nel momento in cui astraiamo, non facciamo altro che ricavare dai dati della percezione quello che vi abbiamo immesso, e ciò non nel senso del soggetto pensante che proietta idealisticamente le sue categorie sulla realtà, ma nel senso di quel soggetto pensato che, in quanto realtà, guida in base alla sua conformazione le nostre percezioni e le nostre concettualizzazioni98. Così, se non ci fosse una cosa che si ripete continuamente, ovvero più cose che abbiano una coesistenza continua, non potrebbe mai sorgere la nozione di «estensione»; parimenti, se non ci fosse una continuità e una regolarità al di sotto dell’apparente disordine e irregolarità del legno che costituisce il bordo del tavolo, non si costituirebbe la «figura» della linea retta. È questo il senso del motto leibniziano: «nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse»99. iv) La questione, e dunque l’ipotesi stessa di un mondo esterno è, in ultima istanza, superflua. Ciò dipende dalla stessa struttura intenzionale della coscienza legata all’immaginazione. Questo non significa che l’oggettività del mondo reale collassi nelle percezioni interne o nelle «idee», né che non vi siano criteri di distinzione tra fenomeni reali e fenomeni meramente immaginativi (fantastici); significa solo che uno stesso immaginario, intenzionalmente costituito (e che, per tale ragione, possiamo definire come «mondo semantico»), sta alla radice della diramazione che per un verso immette in ciò che chiamiamo reale, e per l’altro, complementarmente, si colloca nel non-reale (cioè tanto nell’immaginativo-fantastico, quanto nell’ideale). Infatti, dal momento che da un punto di vista strettamente logico-teoretico (analitico) non è dimostrabile l’esistenza del mondo esterno – non essendo ciò una verità necessaria o di ragione –, l’onere della prova, peraltro incoa97
Cfr. G.W. Leibniz, Lettera alla regina Sofia Carlotta, cit., p. 502. Cfr. M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit., p. 76. 99 G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, cit., vol. II, p. 86. 98
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tiva, può spettare solo alla funzione e al ruolo che i «segni delle cose» assumono all’interno del costrutto conoscitivo delle idee intese come «disposizioni rivolte a un fine»; in tal senso, tutti i fenomeni reali si rendono evidenti attraverso i caratteri della «congruità», della «conseguenza», del «consenso», della «capacità previsionale» ecc. Sono dunque da ultimo le esigenze della nostra vita a garantire la bontà di un costrutto ideativo che riguarda la realtà: «dal punto di vista pratico – nota Leibniz – non fa alcuna differenza se viviamo nella realtà oppure in un sogno, purché abbiamo modo di orientarci nella molteplicità delle apparenze»100. 2) La nozione geometrico-matematica di «continuo» e di approssimazione al limite (matematica e metafisica) in rapporto al mondo fisico e alla materia. – La prima e più evidente applicazione dell’immaginario si ha nell’idealità del continuo matematico-geometrico. Qui la divisione all’infinito e l’infinita reiterazione della somma si configurano in base al criterio della potenzialità o tendenza a un limite – rispettivamente minimo e massimo – del calcolo. Gli elementi costitutivi di quest’ultimo, sia di carattere matematico (i numeri), sia geometrico (i punti), non sono parti reali o «proprie» dell’insieme. Infatti, punti e successioni numeriche non concludono in una retta massima o nel numero massimo, ma sono piuttosto le condizioni, per tendenza al limite, dalle quali risultano rette infinite e quantità infinite. Gli elementi, dunque, non possono essere concepiti senza la proprietà intrinseca di produrre un risultato; ma ciò significa allora che essi non sono fondamentalmente «quantità» nel senso della possibilità di misurazione «per estensione», ma anzitutto entità particolari, di carattere intensionale, che contengono in senso funzionale il loro stesso limite. Ciò spiega perché il supporto «qualitativo» della loro totalità non possa che costituirsi idealmente, sebbene non in modo soggettivo né puramente mentale o concettuale. Diverso è il caso del continuo fisico-materiale, dove la continuità è in realtà il frutto della contiguità delle parti, i cui limiti sono in contatto ma distinti. Questa distinzione si ricava in ragione del fatto che il mondo fisico, in quanto corporeo e materiale, è dotato di una continuità che gli spetta solo come determinazione estrinseca, allo stesso modo degli attributi relazionali di un ente reale rispetto a quelli semplicemente categoriali. «Estrinseco» qui significa che la continuità ha un fondamento oggettivo ma non sostanziale, cosicché per la sua individuazione occorre una considerazione non meramente analitica e scompositiva, bensì sintetico-compositiva. Da ciò consegue che da un lato il continuo fisico, a differenza del continuo matematico, costituisce un’infinità in atto a causa della realtà delle parti o degli elementi che formano gli aggregati e i corpi, ma, dall’altro, esso necessita di un funtore di aggregazione o totalizzazione di tipo non-fisico e non-ma100
M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit., p. 79.
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teriale. Tutto ciò dipende dallo scarto tra il piano ideale e quello reale: solo nel secondo caso, infatti, si produce il raddoppiamento empirico-fenomenico per cui, ad esempio, nel movimento di una ruota dentata ci appare una trasparenza continua mentre effettivamente le parti sono discontinue. Qui l’immaginazione che produce la continuità deve cercare il proprio fondamento oggettivo in un fattore eterogeneo rispetto al fenomeno, mentre tale eterogeneità non è richiesta dal continuo matematico in cui le «parti», proprio in virtù della loro origine ideale, danno origine a strutture omeomorfiche in base alla loro peculiarità sostanziale101. L’unificazione tra i due piani si ottiene solo grazie alla dimensione antilogica ed eminentemente analogica dell’essere che emerge dall’immaginario: come dai punti risulta la retta senza che i punti siano «parti» della retta, così dalle sostanze individuali o monadi, spirituali e non fisiche, risultano gli aggregati dei corpi, senza che esse siano «parti» dei corpi102. 3) La dinamica e la «forza» della monade (fisica e metafisica). Se i caratteri del moto, della figura e della grandezza fossero sufficienti per comprendere i fenomeni fisici – come avviene all’interno di una pura «filosofia meccanica» della natura – la loro descrizione corrisponderebbe alla spiegazione. Ma la forza, nota Leibniz, non rientra – diversamente da quanto credeva Cartesio – in questo criterio. Infatti, come rileverà anche Hume, nessuna descrizione dell’«effetto» o della «causa», in cui la forza si dispiega, può fornirne una comprensione adeguata. La descrizione meccanica rileva dei fatti, e questi hanno solo forme o movimenti, non caratteri dinamici o forze; se li hanno è perché essi sono gia stati compresi come tali prima o indipendentemente dalla descrizione. Dunque, al di sotto della fisica c’è una scienza della dinamica di matrice non più fisica ma metafisica103, un concetto che, assunto in questa prospettiva eminentemente operativa, si avvicina per molti versi alla «protofisica» del costruzionismo metodico104. Questa collocazione della «dinamica» al confine tra filosofia naturale e metafisica trasforma altresì il contenuto di entrambe, in base alla già considerata «legge del continuo»: nella comprensione del mondo corporeo deve rientrare qualcosa di non-corporeo e, viceversa, nella comprensione del non-corporeo (immateriale o «monadico») si deve ricorrere a ciò che è fisico e meccanico. La forza monadica si esprime pur sempre in un movimento e in una 101 In questo senso, l’omeomorfismo, che in topologia indica la trasformazione con continuità di una figura geometrica in un’altra, per cui esse risultano «topologicamente equivalenti», si ricollega al tema leibniziano dell’analysis situs. 102 Cfr. M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit., p. 121. 103 Cfr. D. Garber, Leibniz: Physics and Philosophy, in N. Jolley, a cura di, The Cambridge Companion to Leibniz, Cambridge University Press, Cambridge, 1995, pp. 270-352, in particolare p. 283 sg. 104 Cfr. J. Mittelstrass, Leibniz, in EPW, II, pp. 567-580, in particolare p. 570.
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grandezza, così come i caratteri scritti o vocali dei segni linguistici esprimono – in un senso tutt’altro che «esteriore» o «accidentale» – i significati delle parole. 4) La nozione di finalità e la logica del continuo o «terzo incluso». Poiché il mondo fenomenico è un prodotto dell’attività delle monadi e la base stessa del mondo fisico, vale a dire la «forza», non può essere ridotta a termini meccanici, allora, per la piena comprensione delle apparenze fenomeniche, non si può evitare il ricorso a principi di carattere finalistico; il problema è, semmai, come tale ricorso avviene. Leibniz parla in continuazione di un «regno dei fini» o delle «cause finali» che, attraverso Dio e la teodicea, pongono la spiegazione «architettonica» a fondamento della spiegazione meccanica; proprio per questa ragione il suo finalismo è stato assimilato al vitalismo metafisico e, come tale, espunto dall’autentica considerazione scientifica. Tuttavia, ancor prima che in senso metafisico, la nozione di «fine» è ricavata da Leibniz in base all’indagine della struttura logica della conoscenza. Come la forza, anche il fine indica in primo luogo un processo o una tendenza che trova espressione nell’identificazione conoscitiva. Questa si fonda infatti sul giudizio di interscambiabilità di un’espressione con un’altra: è il giudizio a garantire l’invarianza (l’identità) stabilendo la sinonimia delle espressioni. Ma nell’interpretare la relazione a = b come dipendente da un principio di sostituibilità, la si trasforma da binaria a ternaria. Infatti sono io o qualcun altro che, volendo sostituire il secondo termine al primo per seguire il filo conduttore di una qualche astrazione rilevante ai fini conoscitivi, identifica b con a. Da qui la necessità di rimpiazzare l’espressione o il linguaggio utilizzato dal giudizio con una simbologia il più possibile astratta e «oggettiva», tendente a riportare la logica incerta del giudizio alla logica certa del concetto o idea. Questa simbologia è ciò che Leibniz chiama la «caratteristica universale»105 in quanto si rende indipendente dalle variazioni accidentali delle lingue naturali e trova realizzazione nel linguaggio della matematica. In conclusione, è sempre possibile risalire dal linguaggio matematico alla sua genesi conoscitiva includendo nel risultato (l’identità) il procedimento (l’identificazione), ma è evidente che tale inclusione modifica il significato del risultato, il quale non è più riducibile a un semplice calcolo meccanico. Il piano meccanico e quello «finalistico» ovvero «genetico» (che, a livello metafisico, vuol dire lo stesso), costituiscono due prospettive diverse attraverso le quali viene colto il medesimo stato di cose. Il problema è che prospettive diverse producono anche sensi diversi dell’essere, apparentemente incompatibili. Il legame tra i due sensi trova espressione, secondo 105 Cfr. G.W. Leibniz, Elementa Characteristicae Universalis (1679), trad. it. Elementi della caratteristica universale, in Scritti di logica, a cura di F. Barone, Zanichelli, Bologna, 1968, pp. 288 sgg.
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Leibniz, nel principio di ragion sufficiente che da un lato è a fondamento della realtà, in quanto designa una connessione priva di necessità e tuttavia tale da far intendere o giustificare (finalisticamente) i fatti e, dall’altro, per approssimazione al limite, è anche alla base delle verità identiche e necessarie (cioè perfettamente logiche e meccaniche), in quanto tutto ciò che è logicamente necessario deve anche, a fortiori, essere possibile e giustificabile (fondabile). Dunque il finalismo, la tendenza e l’intenzionalità qualitativa si pongono alla base delle stesse relazioni meccaniche della materia, al punto che l’universo in senso leibniziano è concepibile come un insieme complementare di caratteri meccanici e finalistici; la maggiore o minore presenza dell’uno o dell’altro carattere distingue le monadi tra di loro e separa altresì l’essere organico dall’inorganico, nelle diverse gradazioni che essi possono assumere secondo il modello del calcolo infinitesimale per cui l’esistenza corrisponde al massimo di compossibilità e l’inesistenza a un minimo. Da ciò consegue la necessità di sostituire all’idea di un’identità puntuale, tratta dalla geometria, quella approssimativa al «limite» dell’identificazione trattuale che conserva in sé l’origine dinamica della freccia o del segmento infinitesimale orientato in un dato senso, che è lo stesso della funzione generatrice da cui è sorto106. Il processo di identificazione della monade, a differenza dell’identità puntuale e necessaria che, fenomenicamente, si costituisce more geometrico (per cui a = b e b = a, in senso simmetrico e binario), include nella sua articolazione non solo il risultato a cui perviene, ma anche il procedimento come condizione significante: è l’azione della monade, nella sua «forza», a identificare i termini della relazione e, di conseguenza, a far nascere la relazione stessa nel suo senso metafisico. A questo si riduce la tesi leibniziana che i principi della natura corporea, meccanica e materiale non sono a loro volta corporei, meccanici e materiali; la causalità efficiente non è infatti che l’estrapolazione di un momento o di una «sequenza» finita dell’essere nella continuità del tutto. In questa prospettiva, anche tra vero e falso esiste una graduazione continua che, per Leibniz, si esprime come massimo e minimo di compossibilità, i cui termini estremi sono l’esistenza e il nulla107. La compossibilità va infatti intesa non già a partire da una nozione meramente logica di «possibile» – cioè come il modo del pensiero non-contraddittorio – ma da quella più complessa e costruttiva del virtuale, che esprime un attributo della realtà. Lo slittamento di senso dall’essere possibile o pensabile all’avere la possibilità o potenzialità, istituisce una logica della transizione o mediazione tra vero e falso, così come tra verità di ragione e verità 106 Cfr. E. Melandri, Infinità degli attributi e contingenza del divenire nel sistema delle monadi (1986), in A. Lamarra, a cura di, L’infinito in Leibniz: problemi e terminologia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1990, pp. 210 sgg. 107 Cfr. E. Melandri, L’analogia, la proporzione, la simmetria, ISEDI, Milano, 1974, p. 121 sg.
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di fatto, secondo il principio – eminentemente «antilogico» – del «terzo incluso»108. Lo scarto che nel sistema leibniziano si produce tra l’assetto formale della «caratteristica universale» – a fondamento delle verità logiche e matematiche – e lo svolgimento dinamico della conoscenza e della «forza» fisica che trova giustificazione nell’ontologia delle «monadi», rende impossibile una sua piena acquisizione da parte del costruzionismo metodico, anche a causa dell’ambiguità con cui si evidenzia il principio di ragion sufficiente, eccessivamente vincolato allo schema metafisico dell’«armonia prestabilita». Ciò non impedisce il riconoscimento della presenza in Leibniz di un concetto di costruzione che, sebbene non legato a una genesi empirica e soggettiva, guida in generale l’intera struttura formale del sistema; si tratta di quella particolare «filosofia meccanica» che si pone alla base dei sistemi intelligenti o «automi» e che, in senso leibniziano, si esprime come struttura costruttiva delle macchine calcolatrici109. Se da un lato questa struttura – che Leibniz qualifica nei due momenti dell’ars inveniendi, tendente a stabilire un calcolo logico completo (le conseguenze logiche), e dell’ars iudicandi, volta invece a determinare un procedimento di decisione per l’insieme di tutte le espressioni del linguaggio logico, conforme al concetto di computabilità – anticipa l’«operativismo» assiomatico di Hilbert e la costruzione ricorsiva di Kleene, intendendo il calcolo come l’attività di una macchina ideale che si svolge in base a uno «schema di regole»110, dall’altro essa si dimostra tuttavia insufficiente proprio per l’incapacità dell’operativismo meccanico-computazionale di render ragione di quell’insieme indefinito di oggetti che, in generale, qualifica il sapere matematico. Così, al di là delle critiche che, come vedremo, il costruzionismo metodico muove al formalismo hilbertiano – di cui per altro riconosce il passo avanti in senso operativo rispetto al rigoroso logicismo russelliano –, l’impasse del sistema leibniziano deve rinvenirsi nel mancato sviluppo sul piano 108 A questo riguardo (ivi, p. 123 sg.), Melandri osserva che il principio leibniziano dell’identità funzionale «non può essere univoco. L’univocità della funzione è data dal suo oggetto e non dal suo concetto; ossia, dai valori che ne soddisfano le condizioni poste concettualmente e non dal significato della funzione preso a sé, indipendentemente dal riferimento». In Leibniz – continua Melandri – diventa perciò difficile, per non dire impossibile, sottrarre l’oggetto alla «giurisdizione del “principio d’identità degli indiscernibili”, per cui “identiche sono quelle cose di cui una si può sostituire all’altra senza per questo dover cambiare il giudizio” [...]. In questo modo il riferimento perde il carattere di posizionalità assoluta per assumere quello di sostituibilità equireferenziale, che è relativo e non più direttamente esistenziale». 109 Cfr. K. Mainzer, Kants philosophischer Begründung des mathematischen Konstruktivismus und seine Wirkung in der Grundlagenforschung, mit einem Anhang: Zur mathematischen Präzisierung des konstruktiven Prädikativismus, Dissertation, Münster, 1973, pp. 14, 241 sgg. 110 Cfr. ivi, p. 245.
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della conoscenza simbolica di quell’«infinità potenziale» che Leibniz aveva acutamente evidenziato nel continuum degli «enti» matematico-geometrici. Quando il simbolo si costituisce nel sistema delle monadi, l’infinità è in un certo senso tolta o lasciata da parte, poiché la nozione che ne deriva, proprio in quanto potenzialmente o conoscitivamente accrescibile, è complessa al punto tale che non siamo in grado di trattenere contemporaneamente le note che la compongono. Infatti solo Dio può conoscere compiutamente e in modo diretto un’idea complessa, mentre l’uomo, per operare con essa, ha bisogno dei segni e in particolare del linguaggio111. Così, il simbolo trasfigura in modo statico o proiettivo la dinamica ideativa per far emergere la struttura logica. Ciò corrisponde a una precisa e irrevocabile limitazione dell’intuizione: questa da un lato è circoscritta alle sole idee semplici e, dall’altro, non può offrire alcun oggetto, ma solo un concetto o una verità intrinsecamente relazionale112. È il concetto o l’ambito sintattico della verità che, simbolicamente espresso, delimita l’universo di senso in cui devono ricadere gli infiniti oggetti della conoscenza leibniziana. La dimensione della continuità e la dinamica del «terzo incluso» non possono dunque oltrepassare i confini logici del simbolo, se non attraverso ulteriori assiomatizzazioni che corrispondono ad altrettanti universi controfattuali o «mondi possibili». In questa prospettiva, l’oggetto non è mai soggettivamente ricompreso: l’intuizione e l’esperienza conoscitiva che ne è a fondamento non generano strutture metodiche, ma sono vincolate alla logica del concetto che emerge, a priori, dalla notazione simbolica. Proprio la ricomprensione soggettiva dell’oggetto costituisce invece il fondamento del costruzionismo kantiano113. La dinamica costruttiva si presenta infatti in Kant sia come carattere generale o trascendentale della «logica della conoscenza», sia come aspetto particolare che coinvolge, rispettivamente, lo schematismo, l’immaginazione e gli «oggetti» matematici. In generale, la logica del giudizio che sorregge l’impostazione trascendentale determina il primato del soggetto come correlato ontologico dell’«io penso» da cui trae origine l’azione costitutiva dell’oggettività. Tale primato implica a sua volta una dislocazione della nozione di funzione: se in Leibniz questa 111 Cfr. G.W. Leibniz, Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis (1684), trad. it. Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, in Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, UTET, Torino, 1988, vol. II, pp. 675-678. 112 Cfr., a tale riguardo G.W. Leibniz, Noveaux essais sur l’entendement humain par l’auteur du système de l’harmonie préestablie (1705), trad. it. Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, cit., vol. II, p. 491: «La conoscenza, dunque, è intuitiva, quando lo spirito appercepisce l’accordo o il disaccordo di due idee, immediatamente, di per se stesse e senza l’intervento di alcun’altra. In questo caso lo spirito non compie nessuna fatica per provare o esaminare la verità». 113 Cfr. F. Kaulbach, Das Prinzip Handlung in der Philosophie Kants, de Gruyter, Berlin/New York, 1978, pp. 36 sgg.
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appariva vincolata al concetto, rappresentato nella proposizione dal predicato – mentre al soggetto proposizionale spettava il compito di fornire gli «argomenti» per la relazione predicativa –, ora è all’attività del soggetto, come espressione della «facoltà di pensare», che appartiene il compito di definire le condizioni e i confini di ciò che può rientrare come argomento di un giudizio. La costruzione dell’oggetto, nella sua «realtà empirica» – vale a dire nel suo contenuto – deve così essere preceduta dalla costituzione dell’oggettività che si realizza in base al criterio metalogico della funzione giudicativa114. Ciò comporta da un lato l’espulsione dal piano costruttivo della logica formale, alla quale viene delegato l’unico compito di regolare analiticamente – come «canone» – i contenuti concettuali già definiti e, dall’altro, l’affidamento delle molteplici oggettivazioni empiriche a «schemi» di costruzione che esprimono le forme o «funzioni predicative» fondamentali. Infatti, nella logica trascendentale gli schemi non indicano le costruzioni effettive, ma le condizioni della costruibilità ossia – come detto – l’assetto «costituivo» o «genetico» dell’oggettività; questo spiega il ricorso all’intuizione che si rivela fondante nella misura in cui è sdoppiabile nella realtà empirica del contenuto sensibile o «ricettivo» e nell’idealità trascendentale della «forma pura» che regola e determina, costitutivamente, la costruzione sintetica del contenuto. Se in Leibniz l’intuizione è circoscritta all’apprensione immediata delle idee semplici e delle loro relazioni elementari – e dunque si presenta come eminentemente analitica – in Kant essa assume un valore sinteticocostruttivo proprio in ragione della dipendenza, garantita dalla deduzione trascendentale, dei concetti o «categorie» dai giudizi. Infatti, anche la distinzione «logica» tra giudizi analitici e sintetici deve sottostare, in ultima istanza, all’unità sintetica dell’appercezione che utilizza l’intuizione come funtore di sintesi conoscitiva115. In questo modo, l’intuizione non si rivolge a concetti o idee, ma ad oggetti i quali, non essendo «dati» bensì costituiti attraverso l’atto conoscitivo, si presentano sotto forma di immagini costruttive. Da ciò consegue altresì che il giudizio non consiste nella «sussunzione» di singoli oggetti dati a concetti universali; al contrario, in quanto riconducibile all’immaginazione produttiva che si manifesta nella capacità di giudicare, esso sviluppa la costruzione di singole immagini intuitive che «realizzano» il concetto. Per «giudicare» in senso kantiano, non è sufficiente l’analisi concettuale; con questa si ottiene al massimo la coerenza o la non-contraddittorietà (logica) tra le note costitutive, mentre resta esclusa la validità o «completezza 114
Cfr. ivi, p. 41. Cfr., I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1. Aufl., Hartknoch, Riga, 1781, 2. Aufl., Hartknoch, Riga, 1787, trad. it. a cura di G. Colli, Critica della ragione pura, Milano, 197619872, p. 158 sg. (d’ora in poi: CRP). 115
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semantica» della relazione conoscitiva. Lo schema che guida il giudizio è quindi «metodico», permette cioè di indicare il procedimento attraverso cui un concetto – ad esempio quello di «cerchio» – viene rappresentato e realizzato nella forma di un’immagine. Ora, poiché ogni immagine è spaziotemporalmente determinata, lo schematismo ci rivela che a fondamento della struttura logica del concetto si pone l’intuizione che, proprio facendo emergere il significato oggettivo del concetto, ne consente altresì la ricomprensione conoscitiva o «soggettiva». Dal punto di vista conoscitivo, il piano degli oggetti corrisponde per Kant al piano dei significati, vale a dire alla «costruibilità attraverso lo schema»116. In questo senso, non solo la logica formale viene separata dal procedimento costruttivo, ma anche da qualsiasi conoscenza che si occupi in senso lato di oggetti, e perciò anche dalla matematica. Infatti, dal momento che il procedimento costruttivo azzera ogni volta la ricomprensione conoscitiva del significato costringendolo a un confronto con l’esperienza – trascendentalmente «ridotta» nelle sue forme pure: spazio, tempo e categorie –, non possono più valere al suo interno i principi logico-formali d’identità, noncontraddizione e terzo escluso. Questo spiega altresì perché, in termini kantiani, l’esistenza non sia un predicato, ma una pura posizionalità associata al carattere intuitivo dell’«immagine». A tal riguardo è bene osservare che la non-predicatività dell’esistenza non tocca esclusivamente gli oggetti della percezione esterna o sensibile, ma anche gli oggetti – come quelli matematici – in cui l’intuizione non è, propriamente, sorretta da alcuna «affezione» dei sensi, ma solo dalla capacità produttiva dell’immaginazione. In questa prospettiva possiamo parlare, kantianamente, di «esistenza matematica»117. Ora, la logica kantiana del giudizio, proprio in quanto legata all’unità sintetica dell’autocoscienza, si mostra affètta da una serie di ambiguità che non consentono una sua piena acquisizione da parte del costruzionismo metodico. In primo luogo, Kant stabilisce una netta separazione tra la razionalità della conoscenza filosofica, basata sull’ambito puramente discorsivo e analitico del concetto, e la razionalità della conoscenza scientifica e in particolare matematica, che si avvale dell’evidenza per intuizione mediante cui il concetto viene costruito118. Già Schelling aveva messo in risalto quest’asimmetria all’interno della razionalità kantiana, e cercò di rimediarvi attribuendo all’intuizione un ruolo filosofico fondamentale, in senso rigorosamente intellettuale, per la costruzione dell’intero sistema filosofico-cono116 F. Kaulbach, Das Prinzip Handlung in der Philosophie Kants, cit., p. 40. A tal riguardo, si veda anche: W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Alber, Freiburg/München, 1974, trad. it. di G. Banti, con una Prefazione di E. Garroni e un’Appendice di G. Deriu, Per una semantica trascendentale, Officina Edizioni, Roma, 1979, pp. 67 sgg. 117 Cfr. F. Kaulbach, Das Prinzip Handlung in der Philosophie Kants, cit., p. 40. 118 Cfr. CRP, Dottrina trascendentale del metodo, p. 714.
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scitivo. Tale asimmetria dipende infatti dall’impostazione unilateralmente «soggettiva» del metodo trascendentale kantiano, in base al quale la distinzione tra filosofia e matematica «non si fonda sulla differenza della loro materia, ossia dei loro oggetti», ma solo sulla «forma di tali conoscenze»119. Nel rivendicare l’identità tra conoscenza e oggetto, così come tra verità soggettiva e verità oggettiva, Schelling si limitava a denunciare l’impasse del sistema kantiano che, affidando l’oggettività unicamente alla capacità costitutiva della coscienza, non teneva conto delle leggi relative ai «modi di datità» dei contenuti – peraltro, non necessariamente «sensibili» o empirici – e, per tale ragione, indispensabili nella fondazione del processo costruttivo. Se è vero che il soggetto costituisce l’oggettività nel suo significato, è altrettanto vero che la qualificazione semantica deve ritrovare la propria ragion d’essere anche a parte obiecti, in cui la materia della conoscenza guida le diverse forme di apprensione. Così, ad esempio, gli enti matematico-geometrici si ottengono per Kant con un procedimento additivo, di tipo genetico-sintetico, del quale sono possibili due sottospecie: la constructio per puncta o connessione delle parti, e la constructio per motum o per movimento del tracciare. Ma nessuna connessione o movimento è possibile, cioè termina in un oggetto, se deve avvenire – come Kant sembra prospettare – attraverso una definizione impredicativa dell’esistenza oggettuale. A tal fine, l’esistenza deve infatti rientrare almeno come predicato oggettivo di secondo grado che, ad esempio, qualifichi la «presenza» o l’«assenza» di un ente (cosa, numero, forma spaziale ecc.) in un contesto di determinazioni predicative di primo grado. Se dobbiamo costruire una superficie lineare partendo da un piano grezzo, allo scopo di offrire il concetto universale corrispondente, non possiamo non tener conto degli atti che andranno compiuti rispetto al modo in cui questo piano si presenta (esiste) nel contesto dell’azione produttiva. Ma per Kant, il singolo oggetto «triangolo» – ovvero la sua figura, semplicemente immaginata o disegnata sulla carta – «serve per esprimere il concetto», poiché nella sua intuizione «si considera sempre il solo atto della costruzione del concetto, al quale risultano indifferenti parecchie determinazioni, quelle per esempio della grandezza dei lati e degli angoli»120. A ciò, l’idealismo tedesco prima e – sebbene per ragioni differenti – il costruzionismo metodico poi, si troveranno a replicare che in realtà nessuna immagine o disegno empirico potrebbero «esprimere» il concetto se questo 119 CRP, p. 715. Si veda anche ivi, p. 714: «La conoscenza filosofica considera il particolare solo entro l’universale, mentre la conoscenza matematica considera l’universale nel particolare, anzi nel singolo, ma pur sempre a priori e mediante la ragione, per modo che, come questo singolo è determinato in base a certe condizioni universali della costruzione, così l’oggetto del concetto, cui questo singolo corrisponde solo in quanto suo schema [si legga: immagine, N.d.A.], debba venire pensato in quanto universalmente determinato». 120 CRP, p. 714.
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non fosse già contenuto, metodicamente, nella loro intuizione oggettuale. La costruzione riguarda dunque in primo luogo la materia, che si presenta come immagine «concreta» o semplicemente rappresentata, e solo in seconda istanza essa esprime nella rappresentazione una validità universale come concetto. Lo stesso deve dirsi rispetto alle unità che è necessario sommare al 7 per ottenere il 12: ogni passo successivo di «generazione» deve infatti considerare l’oggettività che esso ritrova al suo inizio (7+1, 8+1, 9+1 ecc.), per non commettere l’errore di fermarsi prima o dopo il risultato che si vuole conseguire. Ora, poiché l’esistenza è legata all’intuizione, la critica all’impredicatività della prima dovrà corrispondere alla critica al carattere immediato, semplice e puramente «posizionale» della seconda. Ma questo significa attribuire all’intuizione quel carattere articolato e metodico che, in Kant, spetta solo allo schema concettuale come prodotto dell’unità sintetica della coscienza. Inoltre, se non è esclusivamente la forma, ma anche l’oggetto della conoscenza a guidare la costruzione concettuale, allora non vi è motivo di limitare quest’ultima alla sola conoscenza matematica. Tanto la filosofia quanto la matematica potranno sempre trovare delle dimensioni qualitative e quantitative nell’immagine oggettuale – come Kant stesso, d’altra parte, sembra in più luoghi ammettere121. Per il costruzionismo metodico, il filosofo, nella produzione dei concetti – al contrario di quanto Kant mette in rilievo –, non si comporta diversamente dal geometra, talché potrebbe senza dubbio valere per il primo ciò che Kant riserva al secondo: «mediante una catena di inferenze egli giunge, sempre guidato dall’intuizione, ad una risoluzione del problema pienamente evidente, e al tempo stesso universale»122. La seconda difficoltà che emerge dalla nozione kantiana di costruzione – peraltro sempre legata all’impostazione trascendentale della logica del giudizio – sta nello schema soggetto-predicato che, relativizzato in sede di linguaggio-oggetto (dove compaiono altre categorie di relazione), permane tuttavia come dogma inconcusso a livello metalogico. Quest’elevazione di un rapporto linguistico e proposizionale a fondamento logico-trascendentale conduce – come in parte già evidenziato – a una confusione fra il soggetto logico della proposizione e il soggetto psicologico del giudizio in base alla quale ogni posizione predicativa viene considerata come il prodotto di una «facoltà», la cui struttura può essere ricavata per via «riflessiva». Da ciò deriva l’ambiguità della nozione di «autocoscienza» che da un lato si presenta come soggetto trascendentale o costitutivo e, dall’altro, può essere interrogata nelle sue strutture solo attraverso quel processo di oggettivazione che essa stessa dovrebbe fondare. Così, se è vero – com’è stato osservato – che Kant cerca di ovviare a quest’ambiguità declinando il metodo analitico, 121 122
Cfr. CRP, p. 715. CRP, p. 717.
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al di fuori della prospettiva rigorosamente «conoscitiva», in maniera relazionale e analogica (vale a dire come «conoscenza di una cosa non nella sua intima costituzione, ma nel suo rapporto con altro da sé»123), è altrettanto vero che la sua presenza a livello teoretico può essere considerata all’origine del programma idealistico di una «logica del concreto» la quale, producendo il collasso di tutte le distinzioni, rende possibile un uso costruttivo o «sintetico» della dialettica, sia attraverso l’identificazione di contraddittorio e contrario, sia mediante la confluenza di razionale e reale. Ora, il programma del costruzionismo metodico consisterà precisamente – prendendo spunto da Kant – nel cercare di evitare la ricaduta nell’idealismo mantenendo in costante interrelazione, già a livello conoscitivo, la dimensione semantica con quella pragmatica del significato. Ciò, tuttavia, poteva realizzarsi solo nell’acquisizione delle nuove istanze fenomenologiche ed esistenziali che consentivano da un lato la riduzione eidetica del significato alla sua pura connotazione logica e, dall’altro, la correlativa riduzione trascendentale del medesimo al suo senso vettoriale o intenzionale. È a queste che ora ci rivolgeremo. 1.3.4. Hugo Dingler e Oskar Becker: ordine metodico ed esistenza matematica Due sono gli ambiti d’indagine filosofico-scientifici che mediano tra le istanze normativo-pragmatiche della fenomenologia husserliana e dell’esistenzialismo heideggeriano da un lato e il costruzionismo metodico dall’altro: in primo luogo, l’operativismo e il costuzionismo fisico-matematico di Hugo Dingler e Oskar Becker; in secondo luogo, la filosofia della vita di Gottinga (Herman Nohl, Georg Misch, Josef König). Vista la loro complessità e articolazione in più ambiti disciplinari, considereremo invece i rapporti diretti con le istanze fenomenologico-esistenziali nel corso della nostra disamina delle posizioni dei costruzionisti di Erlangen e Costanza. Già a partire dal 1907124, e dunque ben prima della comparsa di The Logic of Modern Physics di P.W. Bridgman (1927), Dingler aveva impostato la propria indagine sui fondamenti della conoscenza scientifica che egli stesso successivamente definirà «operativismo»125. Allievo del matematico 123 P. Faggiotto, La metafisica kantiana dell’analogia. Ricerche e discussioni, Verifiche, Trento, 1996, p. 24. 124 Cfr. H. Dingler, Grundlinien einer Kritik und exakten Theorie der Wissenschaften, insbesondere der mathematischen, Ackermann, München, 1907. 125 Cfr. H. Dingler, Empirismus und Operationismus. Die beiden Wissenschaftslehren E-lehre und O-Lehre in ihrem Verhältnis, in «Dialectica», 6, 1952, pp. 343-376. Cfr., a tal riguardo, U. Weiß, Hugo Dinglers methodische Philosophie. Eine kritische Rekonstruktion ihres voluntaristisch-pragmatischen Begründungszusammenhang, Wissenschaftsverlag, Mann-
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Felix Klein e di Edmund Husserl, di cui nel 1902-1903 frequentò le lezioni a Gottinga e con il quale intrattenne in seguito un intenso rapporto epistolare126, Dingler divenne noto al grande pubblico nel 1926 in seguito alla sua denuncia del fallimento e del conseguente «crollo» (Zusammenbruch) di ogni tentativo di giustificazione e di fondazione (Begründung), da parte delle più recenti teorie della conoscenza sia di matrice empiristica che razionalistica, delle scienze inorganiche della natura (matematica, geometria, fisica, chimica)127. Le ragioni di questo fallimento devono rinvenirsi, secondo Dingler, nella generale impostazione teoretico-formalistica che accomuna tanto l’empirismo logico, quanto il razionalismo nelle sue diverse espressioni128. Ciò corrisponde all’introduzione, in modo spesso surrettizio, di un’ontologia della realtà dogmaticamente pregiudicata a fondamento delle istanze conoscitive, le quali si trovano così rimandate a un universo oggettuale – sia esso composto di «fatti», di «essenze» o di «idee» – rispetto a cui le forme della conoscenza, in quanto prodotti della fisiologia dei sensi, della psicologia della percezione o, più semplicemente, dell’evidenza intuitiva della ragione, costituiscono un universo di second’ordine entro cui inutilmente si cerca un criterio di conformità al primo129. Da questa separazione tra la materia della realtà e la sua forma nascono quelle impasses procedurali che caratterizzano sia i tentativi di fondazione «induttiva» degli assiomi scientifici – come il regresso all’infinito e il circolo vizioso o diallele di fondazione (hysteron-proteron) –, sia i tentativi di fondazione «deduttiva» che si esprimono nell’interruzione improvvisa del procedimento di dimostrazione tramite l’assunzione di un principio logico o metafisico130. In questa prospettiva, il rimedio alle difficoltà della fondazione corrisponde di fatto a una sua rinuncia, il che comporta tuttavia – nota Dingler – anche una rinuncia all’integrazione del soggetto di conoscenza e dei suoi «prodotti» nel contesto della realtà e dei suoi significati, consegnando i concetti o alla mera decisione «convenzionale», oppure all’insieme relativistico e congetturale delle teorie scientifiche, che vengono così sottratte a qualsiasi tentativo di ricomprensione critica e filosofica.
heim/Wien/Zürich, 1991, p. 119; M. Buzzoni, Introduzione a P. Janich, I limiti della scienza naturale. La conoscenza come azione, Angeli, Milano, 1992, p. 11. 126 Cfr. G. Wolters, “Dankschön Husserl!” – Eine Notiz zum Verhältnis von Dingler und Husserl, in LW, pp. 13-27. 127 Cfr. H. Dingler, Der Zusammenbruch der Wissenschaft und der Primat der Philosophie, Reinhardt, München, 1926, 19312. 128 Cfr. H. Dingler, Methodik statt Erkenntnistheorie und Wissenschaftslehre, in «KantStudien», 41, 1936, pp. 346-379; ora in Id., Aufsätze zur Methodik, hrsg. von U. Weiß, Meiner, Hamburg, 1987, pp. 3 sgg. 129 Cfr. U. Weiß, Einleitung zu H. Dingler, Aufsätze zur Methodik, cit., p. XIV sg. 130 Cfr. H. Dingler, Methodik statt Erkenntnistheorie und Wissenschaftslehre, cit., pp. 52 sgg.
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Di conseguenza, se da un lato si deve prendere congedo dalla fondazione assoluta del sapere, dall’altro ciò non preclude affatto la possibilità di una fondazione metodica o costruttiva che, opportunamente configurata, può presentarsi altresì come una «fondazione ultima» (Letztbegründung), vale a dire «non aggirabile» (unhintergehbar) dagli atti costitutivi. Ciò si ottiene a condizione che ogni ricostruzione razionale delle posizioni ontologiche e dei nessi semantici venga intesa in senso normativo, in modo tale cioè da non presentarsi come una teoria della conoscenza già data, ma anzi come una «teoria della conoscenza da acquisire»131, secondo il principio cardinale dell’ordine pragmatico o metodico che recupera, all’interno del quadro normativo della costruzione conoscitiva, la necessità ex hypotesi del principio leibniziano di ragion sufficiente, in quanto carattere specifico di quelle «connessioni» che non riguardano verità od oggetti logici, ma le azioni e le scelte concrete132. Così, attraverso un significativo richiamo alla gnoseologia kantiana133, Dingler evidenziava la necessità d’individuare le strutture a priori della conoscenza, in modo tale da ricondurre quest’ultima al momento pragmatico-operativo dell’ordine di produzione, vale a dire alle forme effettive di costituzione – al tempo stesso – degli oggetti e dei loro significati. Ma se Kant aveva fissato la sua attenzione sul «primo apriori» delle intuizioni pure e dei concetti puri dell’intelletto – ricadendo così nelle difficoltà procedurali della «fondazione teoretico-razionale» o «per evidenza» –, ora Dingler pone davanti a tutto il «secondo apriori» della «rivoluzione copernicana» o «fondazione trascendentale». Depurata da ogni residuo coscienzialistico e metafisico, la fondazione trascendentale esprime infatti per Dingler la «produzione a partire dall’agire soggettivo», vale a dire la pura sintesi originaria dei concetti che egli chiama anche «apriori pragmatico» o «apriori della produzione» (Herstellungsapriori)134. L’operativismo dingleriano si veniva così a distinguere sia dal successivo «operazionalismo» di Bridgman, sia dal pragmatismo americano nella misura in cui non si rivolgeva, in senso psicologico-empirico, alle modalità di funzionamento dell’apparato conoscitivo e, in generale, alla «funzionalità» del sapere, bensì alla realizzazione, tramite «indicazioni di azione» (Handlungsanweisungen), di norme costruttive che – metodicamente declinate – devo-
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Ivi, p. 1. Cfr. H. Dingler, Philosophie der Logik und Arithmetik, Reinhardt, München, 1931, pp. 108 sgg. G.W. Leibniz, Discours de Métaphysique (1686), trad. it. Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, cit., vol. I, pp. 76 sgg. Cfr., a tal riguardo, U. Weiß, Hugo Dinglers methodische Philosophie, cit., pp. 90 sgg. 133 Cfr. H. Dingler, Methodik statt Erkenntnistheorie und Wissenschaftslehre, cit., pp. 3 sgg. 134 Ivi, p. 27 sg. 132
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no guidare il concreto «fare» dell’uomo135. Questo significa che non esiste un «sapere» di cui si tratta di rinvenire a posteriori la funzione, ma che l’agire stesso, teleologicamente orientato, definisce l’ambito di pertinenza e la validità di ogni costituzione teoretica. In altri termini, le azioni che fondano le teorie scientifiche non sono sostanzialmente diverse dalle azioni che informano la nostra vita quotidiana in quanto dirette alla produzione di oggetti e di effetti: sia le prime che le seconde devono essere univocamente determinate, unitarie, giustificate e coerenti rispetto alle finalità e ai presupposti pratici136. Pertanto – come Dingler cerca di dimostrare in una lunga e accurata indagine sul «metodo della fisica»137 –, anche le difformità ed equivocità che comunemente si presentano nell’agire (errori logico-procedurali, quaterniones terminorum, fallacie argomentative ecc.) non sono differenti nei due casi, dal momento che a definire i criteri di verità sono solo gli strumenti o i mezzi concreti con cui operiamo sul mondo138. Da qui il gran135 Cfr. U. Weiß, Einleitung zu H. Dingler, Aufsätze zur Methodik, cit., p. XIX sg. Significativo è, a questo riguardo, il modo in cui Dingler presenta la costruzione delle nozione geometriche fondamentali, ad esempio quella di «piano» mediante il «procedimento delle tre lastre» adottato nella produzione industriale della meccanica fine: le superfici di tre oggetti vengono poste a contatto e, attraverso diverse rotazioni, levigate sino ad ottenere, per la lastra centrale, superfici perfettamente piane. Queste servono da «piani originari» o modelli per tutti gli altri piani (cfr. H. Dingler, Die Grundlagen der Geometrie. Ihre Bedeutung für Philosophie, Mathematik, Physik und Technik, Enke, Stuttgart, 1933, pp. 13 sgg. U. Weiß, Hugo Dinglers methodische Philosophie, cit. pp. 158 sgg.). 136 Cfr. H. Dingler, Der Glaube an die Weltmaschine und seine Überwindung, Enke, Stuttgart, 1932, pp. 17 sgg. 137 Cfr. H. Dingler, Die Methode der Physik, Reinhardt, München, 1938, trad. it. di S. Ceccato, Il metodo della ricerca nelle scienze, Longanesi, Milano, 1953. 138 Si veda, ad esempio, il modo in cui Dingler critica il contenuto conoscitivo della teoria della relatività. Poiché «su un piano metodico [...] è chiaro che le asserzioni non sono giudizi, ma [...] asserzioni di attività o di volontà» – e dunque «una proposizione metodica dice ciò che si deve fare al fine di perseguire questo o quello scopo. Essa contiene l’indicazione di un’attività che deve aver luogo ora o in futuro» (H. Dingler, Il metodo della ricerca nelle scienze, cit., p. 51 sg.) –, allora anche lo spazio e il tempo devono essere concepiti metodicamente. Ma questa concezione metodica, che dovrebbe portare a stabilire le condizioni tecnicopratiche di produzione e misurazione delle grandezze fisiche fondamentali, manca nella teoria della relatività la quale, per tale ragione, ricade in un hysteron-proteron. Infatti, il processo di sincronizzazione tramite raggi luminosi che la posizione einsteiniana richiede, non solo è impossibile di fatto, ma necessita altresì di orologi per essere stabilito. Pertanto, il processo che dovrebbe rendere possibile ogni misurazione è a sua volta possibile in base a criteri di misurazione già dati. Inoltre, la teoria relativistica si fonda sul principio della costanza della velocità della luce, la quale, per essere affermata, necessita di nuovo della disponibilità di misurazioni temporali e spaziali che solo da essa sono rese possibili. Da questo punto di vista, la teoria della relatività non è per Dingler ontologicamente errata, ma metodicamente inconsistente (cfr., a tal riguardo, J. Willer, Relativitätstheorie und methodische Philosophie, in EMP, p. 241 sg.). La sua validità, così come quella dello spazio non-euclideo, non dipende dalla capacità di «rappresentare» le cose, ma dalla coerenza con i procedimenti operativi e teleologici che la fanno
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de rilievo che nella conoscenza assumono i presupposti pragmatici e strumentali (unità di misurazione, apparati di riduzione e manipolazione dei dati, strutture di laboratorio, costruzioni per prove ed errori) ossia, in breve, l’intero assetto tecnico dell’indagine scientifica, ben condensato in quella «filosofia dell’esperimento» di cui Dingler intende proporsi come il maggior rappresentante dopo Galilei e Bacone139. Ora, l’agire tecnicamente informato non appare nell’operativismo dingleriano come il frutto arbitrario dell’artifizio umano, ma anzi come quell’ordine che emerge dal contesto della prassi vitale, costituito da atti volitivi, intenzionali e linguistici140. In questa prospettiva, Dingler – richiamandosi implicitamente alle considerazioni svolte da Husserl ne La crisi delle scienze europee riguardo alle «operazioni costitutive di senso» della conoscenza scientifica attraverso le «forme immediatamente intuitive e radicate nel mondo della vita»141 – parlava dell’esperienza vissuta (Erlebnis) come sede di quella «capacità fondamentale» dell’agire conoscitivo il cui carattere doveva dirsi sostanzialmente premetodico, presistematico e protofilosofico. In tale capacità, Dingler coglieva altresì il «punto zero» del sistema, esprimente l’«istanza volizionale ultima» in quanto semplice «avere a che fare» (Umgehen) o «far pratica» (Praktizieren) con le cose e che, colta nella sua pura modalità essenziale, costituiva l’epoché o «concetto limite» del processo operativo142. sorgere. Perciò – com’è stato notato richiamandosi all’operativismo dingleriano (cfr. U. Charpa, A. Grunwald, Albert Einstein, Campus Verlag, Frankfurt a.M., 1993, p. 55 sg.; P. Janich, Hugo Dingler, die Protophysik und die spezielle Relativitätstheorie, in MP, p. 115; K. Zeyer, Die methodische Philosophie Hugo Dinglers und der transzendentale Idealismus Immanuel Kants, Olms, Hildesheim/Zürich/New York, 1999, pp. 142-144) –, solo attraverso una fisica empirica, radicata nelle pratiche dell’apriori vitale, è possibile offrire proposizioni normative da cui si originano i criteri di misurazione. A priori non sono, per Dingler, lo spazio e il tempo come condizioni di ogni conoscenza, ma le norme protofisiche in quanto condizioni delle scienze naturali che impiegano misure. Solo questi brevi accenni rendono, a nostro avviso, inconsistente ogni generica attribuzione di «convenzionalismo» alla posizione dingleriana, dato che in realtà per essa non si tratta affatto di stabilire punti di partenza in base a decisioni arbitrarie o semplicemente intersoggettive, bensì di seguire in modo rigoroso e univoco un principio di ordine metodico vincolato sia alla materia dell’esperienza, sia agli scopi dell’agire. 139 Cfr. H. Dingler, Das Experiment. Sein Wesen und seine Geschichte, Reinhardt, München, 1928. Si veda altresì H. Dingler, Il metodo della ricerca nelle scienze, cit., p. 189: «Come per accendere una lampadina giriamo l’interruttore o, per ottenere un certo suono dal pianoforte, premiamo i tasti, anche nella realtà cerchiamo “interruttori o tasti”, il cui movimento provochi gli effetti desiderati. Il desiderio di comandare sulle circostanze naturali cerca, pertanto, di realizzarsi trovando un sistema di “tasti” che provochino tutti i mutamenti desiderati, e li provochino in modo univoco». 140 Cfr. H. Dingler, Die Ergreifung des Wirklichen, Eidos Verlag, München, 1955, pp. 190 sgg. 141 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 78 sgg. 142 Cfr. H. Dingler, Methodik statt Erkenntnistheorie und Wissenschaftslehre, cit., pp. 18 e 50 sgg.; U. Weiß, Einleitung zu H. Dingler, Aufsätze zur Methodik, cit., p. XXIX.
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In tal modo Dingler, attraverso un singolare recupero di istanze fenomenologiche, configurava ogni possibilità di agire come dipendente da un originario «atto di decisione» (Dezernismus) radicato nella stessa struttura ontologica dell’esperienza nella misura in cui questa, per essere tale, deve sempre presentarsi «trascendentalmente» orientata in senso teleologico143. A questo riguardo, egli individuava il correlato ontologico-noematico dell’atto volitivo in un elemento materiale irriducibile che chiamava l’«intoccato» (Unberührte), in cui intravedeva non già una statica presentazione della datità oggettuale, ma la disponibilità strumentale – benché non ancora metodicamente informata – dell’immediata ricchezza della vita, nell’insieme delle sue forme dinamiche e manifestazioni intuitive144. Così, pur respingendo l’ontologia «deduttiva» della razionalità scientifica – che veniva a configurare una «realtà secondaria» e artificiale – Dingler si appellava alla «realtà primaria» del vissuto come a una sorta di «essere in potenza» rispetto alla realtà metodica delle costruzioni, un essere che, malgrado la sua incompiutezza, non poteva certo dirsi inferiore alle specifiche realizzazioni operative ma, anzi, dal punto di vista fenomenologico-trascendentale si segnalava rispetto a queste per la sua fondamentalità costitutiva e dinamica, cioè come una vera e propria materia generatrice di forme145. L’operazionismo dingleriano – sostanzialmente emarginato all’interno del dibattito epistemologico contemporaneo anche in virtù del rapporto non sempre chiaro che in esso si pone tra il carattere ontologico e quello puramente metodico-euristico degli enti fisici146 – viene accolto dal costruzionismo metodico soprattutto per la sua capacità di ricondurre le scienze naturali al ruolo costitutivo della tecnica che fa dipendere l’oggettività dei risultati dall’agire «poietico» dell’uomo147. Decisamente critici sono invece i 143
Cfr. H. Dingler, Der Zusammenbruch der Wissenschaft, cit., pp. 72 sg., 380. Cfr. H. Dingler, Das Unberührte. Die Definition des unmittelbar Gegebenen, in «Zeitschrift für die Gesamte Naturwissenschaft», 8, 1942, pp. 209-224; ora in Aufsätze zur Methodik, cit., pp. 61-83, in particolare p. 66. Cfr., a tal riguardo, H. Sanborn, Dingler’s Methodical Philosophy, in «Methodos», 15-16, 1952, pp. 191-220, in particolare p. 193 sg. 145 Cfr. H. Dingler, Die Ergreifung des Wirklichen, cit., pp. 208 sgg.; U. Weiß, Einleitung zu H. Dingler, Aufsätze zur Methodik, cit., p. XXXVII. 146 Cfr. M. Buzzoni, Introduzione a P. Janich, I limiti della scienza naturale, cit., p. 17. 147 Cfr. P. Janich, Grenzen der Naturwissenschaft. Erkennen als Handeln; Beck, München, 1992, trad. it. di M. Buzzoni, I limiti della scienza naturale, cit., p. 77 (d’ora in poi: LSN). Sull’isolamento di Dingler, tanto dal punto di vista accademico-scientifico quanto da quello più strettamente umano, hanno in realtà concorso molteplici fattori: dalla troppo sbrigativa riduzione popperiana del suo sistema a un ingenuo convenzionalismo, alla negazione dingleriana della scientificità della teoria relativistica, fino al suo rapporto controverso con il nazismo, caratterizzato inizialmente da uno scontro e poi da un progressivo avvicinamento. In Italia, l’unico ad essersi occupato in modo sistematico di Dingler è stato Silvio Ceccato, direttore negli anni Cinquanta del Centro Italiano di Metodologia e Analisi del Linguaggio e fondatore della Scuola operativa italiana. A Ceccato si deve inoltre la tra144
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costruzionisti rispetto a due caratteri di fondo del «principio dell’ordine pragmatico» di Dingler: in primo luogo, il presupposto «volontaristico» che impegna l’atto di decisione nel senso di un’«istanza metafisica ultima»148, incoerente rispetto alla centralità della prassi come criterio di conoscenza; in secondo luogo, la determinazione essenzialmente individuale e monologica dell’agire poietico dingleriano che, in tal modo, lo qualifica come una sorta di «cartesianesimo operativo» sottratto alla prassi comune e intersoggettiva, ovvero a quella «comunità della comunicazione» in cui si svolge la produzione dei concetti scientifici149. L’eredità dingleriana rappresenta in ogni caso un’acquisizione stabile di tutte le correnti costruzionistiche, com’è anche testimoniato da alcune recenti riabilitazioni del contesto operativo pre-scientifico in cui si colloca la sua «fondazione metodica», soprattutto in rapporto alla fenomenologia husserliana150.
duzione dell’unico volume di Dingler comparso in lingua italiana, vale a dire Die Methode der Physik (cfr. supra, p. 52, nota 137). Purtroppo, la necessità di affermare con forza l’opposizione a qualsiasi forma di «conoscitivismo» e di teoria della conoscenza – a suo avviso inadatta per la sua astrazione a render conto delle costruzioni concrete che fanno sorgere i concetti scientifici –, conduce Ceccato a sviluppare, nei confronti di Dingler, critiche e osservazioni confuse, ricche di classificazioni e neologismi più astratti di quelli che esse vorrebbero eliminare (cfr. S. Ceccato, Contra Dingler, pro Dingler, in «Methodos», 15-16, 1952, pp. 223-290). A queste critiche, Dingler risponde seccamente, punto per punto, nello stesso volume (cfr. Zu der Kritik von Silvio Ceccato, in «Methodos», cit., pp. 291-296), mettendo in imbarazzo la stessa Redazione della rivista – di cui Ceccato è uno dei fondatori –, la quale in una nota sottolinea il «problema della comunicabilità da persona a persona» come esempio delle numerose «inversioni interpretative che si possono rintracciare in tutta la storia del pensiero» (cfr. «Methodos», cit., p. 300). 148 Su ciò si veda H. Dingler, Metaphysik als Wissenschaft vom Letzten, Reinhardt, München, 1929, pp. 186 sgg. 149 Significativo è, a questo proposito, il fatto che nella riedizione dell’opera dingleriana Die Ergreifung des Wirklichen (1a ed. cit.), a cura di Kuno Lorenz e Jürgen Mittelstrass, non compaia l’ultima parte dedicata alla «metafisica» (cfr. H. Dingler, Die Ergreifung des Wirklichen. Kapitel I-IV, mit einer Einleitung von K. Lorenz und J. Mittelstrass, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1969). Proprio nella Einleitung al volume, dal titolo Die methodische Philosophie Hugo Dinglers (cfr. ivi, pp. 7-55, in particolare p. 16) è contenuta la definizione del sistema dingleriano come «cartesianesimo operativo», poi ripresa anche in J. Mittelstrass, Wider den Dingler-Komplex, in Id., Die Möglichkeit von Wissenschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1974 (d’ora in poi: MVW), pp. 84-105, in particolare p. 97, e da K. Mainzer, Kants philosophischer Begründung des mathematischen Konstruktivismus, cit., pp. 129, 132. Per la critica alla scelta dei due curatori di non ripubblicare l’ultima parte metafisica del volume dingleriano, cfr. U. Weiß, Einleitung zu H. Dingler, Aufsätze zur Methodik, cit., p. X sg.; Id., Hugo Dinglers methodische Philosophie, cit., p. 192; K. Zeyer, Die methodische Philosophie Hugo Dinglers, cit. pp. 133 sgg. 150 Cfr. R. Welter, Der Begriff der Lebenswelt, cit., pp. 187 sgg.; P. Janich, Die Galileische Geometrie. Zum Verhältnis der geometrischen Idealisierung bei E. Husserl und der protophysikalischen Ideationstheorie, in LW, pp. 165 sgg.
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Se l’operativismo di Dingler, nonostante l’iniziale contatto con le tematiche husserliane delle Ricerche logiche, si sviluppa in modo sostanzialmente autonomo rispetto alla corrente fenomenologico-esistenziale – rivendicando esclusivamente un proprio spazio nel dibattito sui fondamenti delle «scienze esatte» –, le posizioni filosofiche ed epistemologiche di Oskar Becker si inseriscono invece a pieno titolo all’interno di questa corrente, di cui realizzano l’ambito «regionale» della riflessione intorno al significato e alla validità delle scienze matematico-geometriche151. Allievo di Husserl a Friburgo, dove nel 1922 consegue l’abilitazione con uno scritto sulla «Fondazione fenomenologica della geometria e le sue applicazioni fisiche»152, dal 1923 al 1931 Becker è, con il suo maestro, editor dello Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung in cui, nello stesso anno di pubblicazione di Essere e tempo (1927), fa comparire la sua opera di maggior rilievo riguardo all’«Esistenza matematica»153. Benché coetaneo e compagno di corso di Heidegger – assieme al quale nel 1919 era diventato assistente di Husserl –, Becker frequentò le lezioni e i seminari heideggeriani fino al 1923, riconoscendo ad essi un indiscutibile primato nello sviluppo delle istanze ontologiche presenti nella fenomenologia. Così, almeno fino alla fine degli anni Venti, l’opera beckeriana si colloca al centro di un singolare intreccio storico-filosofico: se da un lato essa condiziona senza dubbio le concezioni di Husserl riguardo al problema dei fondamenti della geometria e della matematica, determinando inoltre un’attenuazione del suo originario «platonismo logico»154, dall’altro è sempre più influenzata dalla nascente impostazione analitico-esistenziale di Heidegger che, nel periodo immediatamente
151
Cfr. C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 53. 152 Cfr. O. Becker, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie und ihrer physikalischen Anwendungen, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 6, 1923, pp. 385-560; Niemeyer, Tübingen, 19732. 153 Cfr. O. Becker, Mathematische Existenz. Untersuchungen zur Logik und Ontologie mathematischer Phänomene, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 8, 1927, pp. 441-809; Niemeyer, Tübingen, 19732. 154 Cfr. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft (1929), ora in Husserliana, Bd. XVII, hrsg. von P. Janssen, Nijhoff, Den Haag, 1974, Beilage III, § 4: Bemerkungen über Tautologie im Sinne der Logistik. Von O. Becker. (Zu §§ 14-18 des Haupttextes), trad. it. di G.D. Neri, Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, Laterza, Bari, 1966, Appendice terza, § 4: Osservazioni sulla tautologia nel senso della logistica. Di O. Becker. (In riferimento ai §§ 14-18 del testo), pp. 413-415. A tal riguardo, si veda C.F. Gethmann, Phänomenologische Logikfundierung, in Ch. Jamme, O. Pöggeler, hrsg. von, Phänomenologie im Widerstreit. Zum 50. Todestag Edmund Husserls, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1989, pp. 192-212.
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percedente la stesura del suo opus magnum, aveva trovato la sua più alta espressione nella cosiddetta «ermeneutica della fatticità»155. Attraverso una disamina fenomenologica dello «spazio percettivo» (Wahrnehmungsraum), Becker – sulla scorta delle osservazioni di Husserl e Hermann Weyl156 – attribuisce ad esso il primato fondazionale nei confronti di tutte quelle costruzioni geometriche che per la conoscenza scientifica caratterizzano lo spazio fisico-materiale dell’esperienza «naturale». Infatti, lo spazio percettivo non è solo intuitivamente determinato ma, nella misura in cui corrisponde al vissuto della rappresentazione spaziale, si presenta altresì come euclideo, vale a dire in modo conforme alla struttura puramente «causale» delle leggi naturali in cui si articola la fisica classica157. In altri termini, è proprio la presenza fenomenica di uno spazio percettivo tridimensionale, lineare, univoco ecc. che può legittimare l’introduzione di una causalità fisica geometricamente contrassegnata in senso euclideo, mentre, per conversione, la possibilità dell’applicazione fisica delle geometrie non-euclidee deve basarsi sull’introduzione nella natura di «legalità non-causali»158. Pertanto, benché su basi fenomenologico-descrittive e non tecnico-costruttive, Becker giunge in modo simile a Dingler ad affermare l’originarietà conoscitiva dello spazio euclideo e del mondo naturale qualificato in tal senso. Tuttavia – a differenza di Dingler –, egli è altresì disposto ad ammettere la scientificità dello spazio non-euclideo nella misura in cui questo oltrepassa lo spazio percettivo e si presenta fenomenologicamente come una forma geometrica ideale, dotata di una sua peculiare «legalità». Si tratta cioè di un vissuto in cui l’intuizione non è riconducibile all’immediatezza sensibile, ma a una visione d’essenza specificamente noetica ed estranea alla mera causalità percettiva. Questo rilievo attribuito alle strutture noetiche delle qualità percettive e, in generale, ai «vissuti» dell’esperienza fisica – sia sensibile che ideale –, si concretizza in un’originale revisione dell’impostazione fenomenologica che porta Becker da un lato ad innestare l’intuizionismo brouweriano sul terreno delle forme costruttive della logica husserliana e, dall’altro, ad accogliere le suggestioni che provenivano dalle osservazioni heideggeriane riguardo alla teoria del significato, al modo d’essere degli enti matematici e al rapporto 155
Cfr. M. Heidegger, Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), Frühe Freiburger Vorlesungen Sommersemester 1923, in Gesamtausgabe, Bd. 63, hrsg. von K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Frankfurt a.M., 1988, trad. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica della effettività, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1992. 156 Cfr. H. Weyl, Das Kontinuum. Kritische Untersuchungen über die Grundlagen der Analysis, Veit, Leipzig, 1918. 157 Cfr. O. Becker, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie und ihrer physikalischen Anwendungen, cit., pp. 97-113. 158 Cfr. ivi, pp. 124-151.
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tra temporalità e costruibilità. Così, fissando la propria attenzione sulla problematica del tertium non datur – già affrontata pochi anni prima dal matematico olandese Luitzen E.J. Brouwer159 –, Becker anticipa e approfondisce la distinzione svolta da Husserl in Logica formale e trascendentale tra una «logica della conseguenza», puramente analitico-formale, in cui vale incondizionatamente il principio del terzo escluso, e una «logica della verità», in cui tale validità è invece limitata ai procedimenti di decisione che, di fatto, si realizzano riguardo ai contenuti di ciascun giudizio160. In altri termini, ogni definizione della tautologia e della contraddizione – come aveva già osservato Brouwer in opposizione tanto al logicismo di Frege e Russell quanto al formalismo di Hilbert161 – presuppone già la soluzione della «questione della decidibilità», poiché solo linguaggi costituiti a partire da proposizioni elementari decidibili sono soggetti all’identità e alla negazione esclusiva162. La verità implica dunque un percorso costruttivo attraverso cui qualcosa viene «reso vero» (wahr gemacht)163, poiché – come noterà di lì a poco Husserl – la semplice pretesa di verità non è sufficiente per accreditare identità e non-contraddizione al contenuto essenziale di un giudizio, essendo infatti possibile che questo, in quanto non supportato da una connessione intenzionale adeguata o decidibile, risulti contenutisticamente privo di senso, come ad esempio: «La somma degli angoli di un triangolo è uguale al colore rosso»164. Si noti, peraltro, che questo non contrasta affatto con la logica della conseguenza o «derivazione» secondo cui un giudizio dev’essere vero o falso. Infatti, il carattere formale di questa logica richiede, del tutto legittimamente, che ogni giudizio sia in sé deciso, ossia – nota Husserl – che «il suo predicato di verità o falsità “appartenga” alla sua essenza»165. Ma tale appartenenza non esaurisce la logica della verità perché non mostra come 159 Cfr. L.E.J. Brouwer, Über die Bedeutung des Satzes vom ausgeschlossenen Dritten in der Mathematik, insbesondere in der Funktionstheorie, in «Journal für die reine und angewandte Mathematik», 154, 1923, pp. 1 sgg. 160 Cfr. O. Becker, Mathematische Existenz, cit., pp. 66 sgg. 161 Cfr. ivi, pp. 54 sgg. 162 Cfr. D. van Dalen, ed. by, Brouwer’s Cambridge Lectures in Intuitionism, Cambridge University Press, Cambridge, 1981, trad. it. L.E.J. Brouwer, Lezioni sull’intuizionismo. Cambridge 1946-1951, a cura di S. Bernini, Boringhieri, Torino, 1983, p. 30 sg. 163 Cfr., a tal riguardo, C.F. Gethmann, Hermeneutische Phänomenologie und Logischer Intuitionismus. Zu O. Beckers Mathematische Existenz, in A. Gethmann-Siefert, J. Mittelstrass, hrsg. von, Die Philosophie und die Wissenschaften. Zum Werk Oskar Beckers, Fink, München, 2002, p. 116 (d’ora in poi: PUW). 164 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., § 90, p. 273. Perciò – conclude Husserl – quando ci addentriamo nel territorio del giudizio in generale, «il terzo qui non è escluso e consiste in ciò, che giudizi con predicati che non hanno alcuna relazione “sensata” al soggetto, si sollevano per così dire, nella loro mancanza di senso, al di sopra della verità e della falsità» (ivi, p. 274). 165 Ivi, § 79, p. 244.
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un giudizio debba essere deciso in sé, cioè per mezzo di quali metodi o pensieri si possa giungere «a un’adeguazione, a un farsi evidente della verità o falsità di ogni giudizio»166. Il limite della logica della conseguenza non sta nell’avanzare una richiesta di determinazione oggettiva del vero, ma nel separare tale determinazione da quei procedimenti soggettivi, intenzionali e costitutivi che ne fondano l’oggettività. Il non-senso di un giudizio può apparire sensato solo a condizione che vengano decise ed esibite le condizioni della sua sensatezza; così se diciamo ad esempio che 180° – in base a una qualche sorta di vissuto sinestetico – equivale al colore rosso, il giudizio precedente assume subito un determinato valore veritativo. È tuttavia ovvio che la decidibilità in tal senso non possa essere contenuta nella pura forma proposizionale del giudizio, poiché ciò imporrebbe il compito, paradossale e stupefacente, «di sapere a priori – conclude Husserl – che “si diano in sé” percorsi speculativi con certi risultati finali, percorsi da praticare ma mai praticati, azioni speculative di forme soggettive sconosciute, effettuabili ma mai effettuate»167. 166
Ibid. Ivi, § 79, p. 244 (trad. it. leggermente modificata). A questo riguardo, Stefano Besoli, mediante un’ampia ricognizione del pensiero husserliano volta a criticarne la riduzione – così come di solito appare nei più comuni e accreditati indirizzi esegetici – a una sorta di «idealismo trascendentale» o persino di neo-coscienzialismo, messa in atto a partire dagli anni Venti fino alle Meditazioni cartesiane, intende piuttosto dare risalto al rinnovato interesse di Husserl per la psicologia che proprio in quegli anni si viene consolidando; un interesse, tuttavia, nient’affatto contrassegnato da ciò che si potrebbe indicare come una forma di regressione semplicemente «psicologistica», bensì rivolto a fissare quell’«“a priori universale della correlazione”, radicato nel “mondo della vita”, la cui natura materiale ne fa [...] qualcosa di trascendentalmente più appetibile rispetto all’“essere-nel-mondo” heideggeriano» (cfr. S. Besoli, Vorwärts zu Husserl: il pendolo della ricerca binswangeriana e il suo oscillare verso il compimento della fenomenologia, in Id., a cura di, Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro. I margini di un’esplorazione fenomenologico-psichiatrica, Quodlibet, Macerata, 2006, pp. 283418, in particolare p. 287). Ora, una simile materialità – nota Besoli – non deve affatto intendersi in modo obiettivistico, ma va anzi compresa in base al nuovo significato operativo che per Husserl assume la trascendenza del riferimento oggettuale. Questa infatti «non si pone mai come “assoluta”, ma risulta invece portatrice di un “senso” conferitole dagli atti costitutivi che ineriscono alla “coscienza”» (cfr. S. Besoli, La verità sottratta alla conoscenza: l’esito tragicomistico della dottrina del giudizio di Lask, in Id., Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza, Quodlibet, Macerata, 2002, pp. 239-338, in particolare p. 251). In tale direzione – continua Besoli richiamandosi alle osservazioni husserliane in merito alla «psicologia fenomenologica» contenute in alcuni scritti composti intorno alla metà degli anni Venti –, «lo spostamento d’accento attuato dalla fenomenologia porta a sviluppare un’analisi intenzionale della soggettività, quale polarità fondante della dinamica costitutiva che funge da matrice trascendentale del senso dell’oggettività», vale a dire una «comprensione genetica del modo in cui i correlati coscienziali vengono a costituirsi nella nostra esperienza», la quale non determina affatto «una presa di distanza dal mondo o, ancor meno, una sua perdita» (S. Besoli, Vorwärts zu Husserl, cit., p. 344). Il fatto è anzi che Husserl, proprio a partire dagli anni Venti, orienta le sue ricerche «in quel senso genetico-costitutivo [...] che aiuta a comprendere 167
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Ora, in quest’affinità tra l’intuizionismo logico-matematico di Brouwer e la tarda fenomenologia husserliana in merito alla costruibilità dei contenuti giudicativi, Becker intravede la possibilità di una concretizzazione dello stesso impianto trascendentale e, in questa prospettiva, intende l’ermeneutica della fatticità heideggeriana come il terreno comune e fecondo su cui sviluppare una logica della verità in riferimento alla natura e allo statuto ontologico degli enti geometrico-matematici168. Già a partire dalle lezioni su Aristotele del 1921-22169, Heidegger aveva infatti impostato una teoria del significato – articolata nei tre momenti del «senso referenziale», del «senso contenutistico» e del «senso esecutivo» – che, proprio in virtù della preminenza accordata a quest’ultimo aspetto, in quanto espressione della «forza» o modalità performativa dell’atto linguistico, rompeva decisamente con la tradizione del mentalismo semantico, secondo cui il significato si presentava come un ens rationis intermedio tra la parola e l’oggetto reale. Benché ciò potesse intendersi come una critica implicita a ogni forma di coscienzialismo, e dunque anche alle declinazioni che in tal senso comparivano nelle Ricerche logiche husserliane, Becker vi colse soprattutto l’occasione per affermare, sulla base dei rilievi heideggeriani, la fondamentale correttezza delle posizioni intuizionistiche, poiché solo l’analisi fenomenologica, come «ermeneutica dell’esserci», è in grado di afferrare la «natura» dell’esistenza matematica in base a sintesi eseguibili in concreto e de facto170.
come la “forma” non sia mai fenomenologicamente “principio”, ma espressione di un’istanza regolativa limitata dalla “materialità” dell’esperienza vivente» (ivi, p. 369). In conclusione, dunque, col richiamo fondazionale al mondo della vita e a quella «logica della verità» che implica la presa di posizione correlativistico-costitutiva della soggettività – la cui espressione ha luogo, emblematicamente, nell’«atto di decisione» a favore di un «modo di datità» dell’oggetto –, «la fenomenologia non solo riabilita il mondo dell’esperienza quotidiana, ma indirizza l’episteme a perseguire un ideale di scientificità che riacquisti “significatività per la vita” stessa» (ivi, p. 395). Sull’originario senso husserliano dell’intenzionalità come «disposizione a trascendere» che «s’inscrive nella sequenza di apprensioni intuitive», si veda inoltre S. Besoli, Introduzione alla Sezione Prima di E. Husserl, Logica, psicologia e fenomenologia. Gli Oggetti intenzionali e altri scritti, a cura di S. Besoli e V. De Palma, Il Melangolo, Genova, 1999, pp. 21 sgg. 168 Cfr., a tal riguardo, O. Pöggeler, Hermeneutische und mantische Phänomenologie, in «Philosophische Rundschau», 13, 1965, pp. 1-39, ora in Id., hrsg. von, Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werkes, Athenäum, Königstein/Ts, 1984, pp. 321-357, trad. it. di S. Poggi, Fenomenologia ermeneutica e fenomenologia mantica, in S. Poggi, P. Tomasello, a cura di, Martin Heidegger. Ontologia, fenomenologia, verità, LED, Milano, 1995, pp. 169-225, in particolare p. 172. 169 Cfr. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles: Einführung in die phänomenologische Forschung, Frühe Freiburger Vorlesungen Wintersemester 1921/22, in Gesamtausgabe, Bd. 61, hrsg. von W. Bröcker, K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Frankfurt a.M., 1985, trad. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1990. 170 Cfr. O. Becker, Mathematische Existenz, cit., p. 196.
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Con tale «principio dell’eseguibilità», Becker intendeva inoltre offrire una fondazione antropologica della conoscenza matematica, in opposizione alla fondazione assoluta di matrice hilbertiana, rivolta invece alla separazione tra senso referenziale ed esecuzione171. Così, tra i modi di esistenza dell’esserci si trova anche, secondo Becker, l’«esserci matematizzante» che opera in contesti storici concreti, in mondi vitali contrassegnati da azioni costruttive, procedure di decisione e di dimostrazione che si sviluppano all’interno di quadri esperienziali finiti e sempre suscettibili di revisione e trasformazione172. Da qui il rifiuto dell’infinito attuale, in quanto modalità di comprensione estatica e sovrastorica, a favore dell’infinità potenziale173, la cui peculiare processualità segnala in modo eminente la centralità della struttura temporale nella costruzione degli oggetti matematici174. Congiungendo la nozione brouweriana delle «libere successioni di scelta» – che si realizzano in modo particolare nella più semplice forma del «contare» – con la peculiare struttura della finitudine che caratterizza ogni atto del «vivere», Becker non esita ad attribuire all’essere matematico un’autentica temporalità storica che non appare certo diminuita per il fatto che gli oggetti di cui si compone, nella misura in cui vengono considerati all’interno di un compiuto sistema formale, devono dirsi sottratti a ogni determinazione psicologica o empirica175. In questa prospettiva, la matematica non costituisce altro che «il metodo attraverso cui si cerca di dominare l’infinito attraverso il finito»176, poiché ogni rappresentazione in tal senso – sia essa rivolta all’infinito attuale o alle cosiddette quantità transfinite – si radica in ultima istanza nella capacità produttiva dell’agire umano e delle immagini storicamente definite che si originano da esso177. 171
Cfr. ivi, pp. 185 e 196. Cfr. ivi, Vorbemerkung, p. 1 sg. 173 Cfr. ivi, p. 2 sg. 174 Cfr. ivi, pp. 197 sgg. 175 Cfr. ivi, pp. 226 sgg. 176 Cfr. ivi, p. 319. 177 In questa prospettiva, Pöggeler ha evidenziato come l’«ontologia regionale» rappresentata dalla filosofia della matematica beckeriana, delinei – proprio nel tentativo di «delimitare ciò che è sconfinato» – una fenomenologia di tipo mantico, in un certo senso complementare alla fenomenologia ermeneutica di matrice heideggeriana (cfr. O. Pöggeler, Fenomenologia ermeneutica e fenomenologia mantica, cit., pp. 174 sgg.). Infatti per Becker la matematica, al pari delle altre scienze razionali, è sostanzialmente rivolta al medesimo scopo a cui tende la comprensione «magica» e prescientifica, vale a dire decifrare i misteri della natura, penetrare in essa con esattezza, per coglierne l’intima e più profonda essenza. Ciò implica altresì che, nella dimensione beckeriana, la sfida alla natura lanciata da una scienza informata in senso tecnico non caratterizzi esclusivamente il telos dell’epoca moderna, ma sia anzi tipica dell’uomo già nelle sue forme primitive di organizzazione e trasmissione del sapere (cfr. S. Poggi, P. Tomasello, Introduzione a Id., a cura di, Martin Heidegger. Ontologia, fenomenologia, verità, cit. p. 18 sg.). Inoltre, poiché anche l’arte e le idee hanno per Becker una funzione 172
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La singolare commistione che, nell’opera beckeriana, si realizza tra le istanze provenienti dall’intuizionismo di Brouwer, la fenomenologia descrittiva di Husserl e l’ontologia fenomenologica di Heidegger, dà così vita a un originale sincretismo epistemologico, al centro del quale si pone non tanto il puro statuto mentale dell’atto di intuizione che, nella fattispecie, finisce per rinchiudere le nozioni fondamentali del sistema brouweriano entro la cornice di un solipsismo logico, ma piuttosto la comprensione operativa della «verità» attraverso quel «principio di accesso fenomenologico»178 che, in un certo modo, la rende sempre adeguata a un determinato vissuto. In tale prospettiva, il principio chiave della logica costruttiva beckeriana – vale a dire quel «terzo incluso» (tertium datur) che trapasserà nel costruttivismo della Scuola di Erlangen – se da un lato si richiama all’«intuizione» di Brouwer, dall’altro ne respinge il ricorso alla verifica introspettiva179, per affermare invece la sua collocazione nell’ambito più vasto dell’intenzione significativa vissuta nella sua complessiva unità, nella quale al momento positivo del riempimento di significato, a cui corrisponde l’identità dell’oggetto intenzionato, si contrappone il non-riempimento, che viceversa ne rivela l’alterità. Nella sfera intenzionale, infatti – come già aveva osservato Husserl nella Sesta ricerca –, affermazione e negazione non danno origine a una disgiunzione esclusiva o «bivalente», ma presuppongono un terzo momento comune che egli chiama «identità del riferimento» e che permette di concepire il contrasto come una sintesi relazionale superiore, impossibile nel caso in cui l’intuizione venga intesa come un atto singolo o isolato che semplicemente «si aggiunge» ai precedenti180. Così, ad esempio, «se io penso che A sia rosso, mentre in “verità” A si rivela verde, in questo rivelarsi, cioè nel confronto con l’intuizione, l’intenzione del rosso contrasta con l’intuizione del verde. Ma è innegabile che ciò è possibile soltanto sulla base dell’identificazione di A negli atti della significazione e dell’intuizione»181. Ora – nota Husserl – questa «sintesi di diversificazione», per la quale l’intuizione «non concorda» con l’intenzione significante, «è un fatto descrittivo nuovo, una forma peculiare di sintesi com’è il riempimento stesso»182; si tratta cioè del «veritativa», Pöggeler ha creduto di poter attribuire alla posizione beckeriana all’interno del movimento fenomenologico un ruolo simile a quello assunto da Schelling nel quadro complessivo dell’idealismo (cfr. Fenomenologia ermeneutica e fenomenologia mantica, cit., p. 222 sg.). 178 Cfr. O. Becker, Mathematische Existenz, cit., p. 62; C.F. Gethmann, Hermeneutische Phänomenologie und Logischer Intuitionismus, cit., p. 125. 179 Cfr. S. Bernini, Introduzione a L.E.J. Brouwer, Lezioni sull’intuizionismo, cit., p. 15. 180 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, 2 Bde. (1900-1901), in Husserliana, Bd. XIX/1-2, Zweiter Band: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, hrsg. von U. Panzer, Springer, Dordrecht/Boston/Lancaster, 1984, trad. it. di G. Piana, Ricerche logiche, 2 voll., Il Saggiatore, Milano, 1968, 19822, vol. II, Sesta ricerca, § 11, p. 341. 181 Ivi, p. 340 sg. 182 Ivi, p. 340.
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«vissuto dell’elusione» (Enttäuschungserlebnis), ovvero del vissuto del contrasto, un momento «negativo» da non confondersi con il semplice «vissuto di non-riempimento» (Nicht-Erfüllungs-Erlebnis)183: la prima è una negazione relazionale che si fonda sul vissuto del confronto, la seconda no. È dunque solo sulla base della gnoseologia fenomenologica, volta a distinguere i diversi piani dell’agire intenzionale, che – secondo Becker – il costruzionismo può essere ricompreso in un senso autenticamente antropologico e, di conseguenza, separato da un astratto intuizionismo184. Becker aveva ottenuto la cattedra di filosofia a Bonn nel 1931 e, dal 1946 – anno dell’abilitazione in matematica di Lorenzen presso la stessa Università – fino al pensionamento di Becker (1955), i contatti tra i due furono numerosi e intensi185. Lorenzen stesso riferisce come, in quel periodo, il suo progetto di fondazione di un proto-linguaggio matematico che costituisse il punto di partenza per la concezione costruttivistica della fisica (la cosiddetta protofisica) avesse trovato un’adeguata ricezione solo da parte di Becker, il quale, a sua volta, aveva ricavato indicazioni a tal riguardo da Husserl186. Tuttavia, per quanto Becker intravedesse nella concezione lorenziana della protofisica la medesima impostazione fenomenologico-trascendentale che già egli aveva sviluppato nel suo scritto di abilitazione sui fondamenti della geometria187, Lorenzen non era da parte sua disposto ad accordare alla sfera fenomenologica della percezione spaziale un ruolo fondazionale rispetto all’ambito della spazialità fisica «naturale», poiché ogni 183 Cfr. C.F. Gethmann, Hermeneutische Phänomenologie und Logischer Intuitionismus, cit., p. 124 sg. 184 Sulle modificazioni e correzioni che, proprio in riferimento alle istanze fenomenologiche husserliane e beckeriane, Arend Heyting apportò ai presupposti dell’intuizionismo di Brouwer, cfr. A. Heyting, Die intuitionistische Grundlegung der Mathematik, in «Erkenntnis», 2, 1931, pp. 106-115, in particolare p. 113 sg. Su ciò, si veda: P. Mancosu, From Brouwer to Hilbert. The Debate on the Foundations of Mathematics in the 1920s, Oxford, 1998, pp. 277285; C.F. Gethmann, Arend Heyting und die phänomenologische Erkenntnistheorie, in PUW, pp. 155 sgg. 185 Questi contatti sono testimoniati sia da Otto Pöggler – a quel tempo allievo di Becker – sia da una Lettera del 14.01.1988 di Lorenzen a Gethmann (cfr. C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., pp. 75-77). Dall’inizio degli anni Cinquanta fino alla sua morte (1964), Becker si riferisce più volte all’impostazione costruttivista di Lorenzen come a un indirizzo classico della ricerca sui fondamenti della matematica nel XX secolo (cfr. O. Becker, Untersuchungen über den Modalkalkül, Hain, Meisenheim a. Glan, 1952, trad. it. di G. Franci, Ricerche sul calcolo modale, in O. Becker, Logica modale, calcolo modale, Faenza editrice, Faenza, 1979, 19802, p. 27; Id., Größe und Grenze der mathematischen Denkweise, Alber, Freiburg/München, 1959, pp. 85, 106 sgg.; Id., Die Rolle der euklidischen Geometrie in der Protophysik, in «Philosophia Naturalis», 8, 1964, pp. 49-64). 186 Cfr. Lettera del 14.01.1988 di Lorenzen a Gethmann, cit., p. 77. 187 Cfr. O. Becker, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie und ihrer physikalischen Anwendungen, cit.
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discorso intorno allo spazio presuppone sempre l’introduzione e l’impiego di strumenti di misurazione controllati che rinviano alla prassi costitutiva del mondo fisico-geometrico. In questo senso – attraverso un significativo recupero di istanze dingleriane –, Lorenzen avrà modo di osservare come anche la sfera della percezione non si dia in modo originario, ma si presenti anzi come il risultato di un processo secondario di astrazione188. Al di là, dunque, della convergenza su alcune grandi questioni di fondo – come la critica all’impostazione formalistico-assiomatica delle «scienze esatte», la necessità di riportare i concetti scientifici ai contesti vitali della loro genesi intenzionale, la centralità assunta dalle forme antropologiche e temporali, la critica all’intuizionismo astratto e introspettivo ecc. –, tra il costruzionismo di Becker e quello di Lorenzen emergeva un sostanziale disaccordo (destinato, come vedremo, a caratterizzare la polemica tra la Scuola di Erlangen e i più recenti sviluppi della fenomenologia) riguardo al problema dell’«inizio» (Anfang) del processo produttivo189. Se infatti per l’indirizzo fenomenologico – di cui Becker si era proposto come il maggior rappresentante nell’ambito della riflessione sullo statuto delle scienze geometrico-matematiche – ogni problema di fondazione della conoscenza doveva risolversi facendo emergere le legalità (Gesetztmässigkeiten) essenziali che contraddistinguono l’esperienza190, per il costruzionismo metodico ogni legalità dipende invece sempre dal rapporto – che non può mai essere completamente determinato da alcuna «intuizione offerente» – tra i mezzi e i fi188 Cfr. C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 56. D’altra parte, sarà lo stesso Becker, nel suo saggio critico del 1964: Die Rolle der euklidischen Geometrie in der Protophysik, cit., intorno alla protofisica così com’era stata delineata tra anni prima da Lorenzen in Das Begründungsproblem der Geometrie als Wissenschaft der räumlichen Ordnung, cit., a evidenziare come, mediante un semplice accesso pratico-operativo alla costituzione dello spazio fisico, la sua «euclidicità» non sia affatto «ottenibile in modo vincolante» (erzwingbar). Infatti – come abbiamo già in precedenza osservato – senza il ricorso a un’adeguata fenomenologia della percezione, la geometria euclidea non trova per Becker alcun fondamento costitutivo nell’esperienza e dunque, in senso proprio, nessuna «giustificazione» conoscitiva. Tuttavia, il punto di vista fenomenologico, nella misura in cui non si limita all’indagine percettiva, finisce per giustificare anche altre forme geometriche, rendendo per principio ineffettiva la questione del «vincolo» euclideo. Di conseguenza – nota Mittelstrass – «per Becker, diversamente da Lorenzen, l’euclidicità si pone come una forma geometrica tra tutte le altre forme possibili» (J. Mittelstrass, Oskar Becker und Paul Lorenzen oder: die Begegnung zwischen Phänomenologie und Konstruktivismus, in PUW, p. 69, nota 12, corsivo nostro). Più recentemente, Peter Janich, prendendo spunto dalla critica di Becker, ha cercato di dimostrare la necessità del «vincolo» euclideo mediante un approfondimento in senso «tecnico» delle istanze costruttivo-operative di Lorenzen (cfr. P. Janich, Die technische Erzwingbarkeit der Euklidizität, in EMP, pp. 68-84). 189 Cfr. R. Welter, Die Lebenswelt als “Anfang” des methodischen Denkens in Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, in LW, pp. 157 sgg. 190 Cfr. C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 56.
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ni della pratica operativa, rapporto il cui unico «inizio» è quell’«apriori del mondo della vita» (lebensweltliche Apriori)191 a cui ora rivolgeremo la nostra attenzione. 1.3.5. La «non aggirabilità» (Unhintergehbarkeit) della vita192 Prima ancora che nella tradizione della «filosofia della vita» (Dilthey, Nohl, Misch, König) – da cui pure, come vedremo, i rappresentanti della Scuola di Erlangen traggono alimento –, la base operative del costruzionismo metodico devono essere ricercate nella nozione husserliana di «mondo della vita» (Lebenswelt) e in quella heideggeriana di «essere nel mondo» (in-der-Welt-sein). Benché in modo oscillante e non privo di ambiguità, per i costruzionisti le più feconde indagini husserliane sui fondamenti pre-teoretici della conoscenza come principi normativi dell’agire nei contesti vitali e mondani vanno rintracciate non solo nella Crisi delle scienze europee e nel primo volume delle Idee, ma soprattutto nelle lezioni inedite degli anni Venti, in particolare in Phänomenologische Psychologie e in Erste Philosophie193. Qui Husserl sviluppa il cosiddetto «piano ontologico» dell’impostazione fenomenologico-trascendentale, nella misura in cui, attraverso la critica della coscienza mondana nel suo «atteggiamento naturalistico», ogni ambito del sapere viene ricondotto al mondo originario dell’esperienza e della soggettività costitutiva194. In questo senso, il «mondo della vita» trova 191
Cfr. J. Mittelstrass, Das lebensweltliche Apriori, in LW, pp. 115 sgg. Come abbiamo visto, il termine «Unhintergehbarkeit» significa letteralmente «l’impossibilità di andare dietro a», nella fattispecie alla vita o al linguaggio. Questo concetto, anche se non esplicitamente il termine stesso, si ritrova nella tradizione ermeneutica, sia in Schleiermacher e Dilthey, sia nella linguistica di ispirazione humboldtiana (Humboldt, Hamann e Herder), fino all’ultimo Heidegger, a Gadamer e alle prime opere di Karl-Otto Apel (cfr. P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica, cit., p. 650; C.F. Gethmann, Unhintergehbarkeit, in EPW, IV, pp. 401-403). Recentemente, lo si incontra anche nelle riflessioni sul soggetto e sulla persona, per evidenziare la loro irriducibilità a qualsiasi categoria storico-culturale (cfr. M. Frank, Die Unhintergehbarkeit von Individualität. Reflexionen über Subjekt, Person und Individuum aus Anlaß ihrer „postmodernen“ Toterklärung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986, 19913). Nella lingua italiana, non esiste propriamente un unico termine in grado di rendere compiutamente il senso dell’Unhintergehbarkeit; oltre alla locuzione letterale, utilizzeremo perciò quell’espressione che – a nostro avviso – più si avvicina al suo senso operativo e fondazionale, vale a dire l’«inaggirabilità» o «non aggirabilità», in modo da rendere anche l’aggettivo hintergehbar, spesso utilizzato dai costruzionisti, con «aggirabile». Sinonimi, ma non altrettanto pregnanti, possono essere anche «insormontabilità», «ineludibilità», «non retrocedibilità» o «inderivabilità», che talvolta impiegheremo in contesti non direttamente tematici. 193 Cfr. K. Held, Husserls neue Einführung in die Philosophie: der Begriff der Lebenswelt, in LW, p. 79; R. Welter, Der Begriff der Lebenswelt, cit., pp. 45 sgg. 194 Cfr. E. Husserl, Kant und die Idee der Transzendentalphilosophie, in Husserliana, Bd. VII: Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte, hrsg. von R. Boehm, Nijhoff, Den Haag, 1956, pp. 232 sgg.; trad. it. di C. La Rocca, Kant e l’idea della filosofia 192
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da un lato la sua definizione più appropriata mediante la critica all’obiettivismo della scienza moderna e, dall’altro, emerge in modo compiuto in seguito all’individuazione di un mondo percettivo (Wahrnehmungswelt) intuitivamente contrassegnato e strutturalmente invariante rispetto ai diversi contesti empirici dell’essere oggettuale195. Quest’«invarianza strutturale» delle forme della percezione indica a sua volta la dimensione propriamente categoriale dell’esperienza oggettuale intersoggettiva, accessibile attraverso i differenti gradi della riduzione (eidetica, fenomenologica, trascendentale)196. Per i costruzionisti, l’ontologia husserliana del mondo della vita – così delineata – ha il pregio di recuperare dopo oltre duemila anni la nozione aristotelica di «esperienza», in quanto non teoreticamente pregiudicata in vista delle obiettivazioni scientifiche197. Secondo Aristotele, infatti, l’esperienza – a differenza dell’arte e della scienza – indica quel «sapere del particolare» che non si svolge attraverso principi logici o formulazioni assiomatiche, ma esprime anzi il concreto «fare» e «poter essere» attraverso cui prende corpo un sapere elementare, di tipo «esemplare» o paradigmatico, che consente l’orientazione nel mondo prima di qualsiasi costruzione teoretica, la quale invece trova realizzazione nei procedimenti universalizzanti dell’induzione e della deduzione198. Questo sapere pre-teoretico, che si avvicina alla capacità produttiva peculiare del «fare artigianale» (handwerklichen Können), mostra un duplice vantaggio: da una parte sottrae l’esperienza a una mera aggregazione disordinata di dati, conferendole un carattere normativo già nella sua forma originaria; dall’altra impedisce la sua riduzione alla strumentalità tecnico-sperimentale, subordinata al sapere scientifico e funzionale alla sua costruzione, così come essa si manifesta a partire da Galileo199. Si tratta anzi di un «sapere» che Husserl ha esplicitamente fondato sulla prassi vitale dell’agire, ossia su quell’a priori del mondo della vita di cui egli intende, a più riprese, esibire i fondamenti costitutivi. Tuttavia, accanto al riconoscimento che pur si deve alla fenomenologia in merito alla centralità in essa assunta dall’a priori vitale, per i costruzionisti è proprio il modo in cui si articola l’indagine costitutiva dell’ontologia fenomenologica a impedirne una piena acquisizione. Se infatti – come Hustrascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1990, pp. 121 sgg.; si veda, al tal riguardo, R. Welter, Lebenswelt, in EPW, II, p. 557. 195 Cfr. K. Held, Husserls neue Einführung in die Philosophie, cit., pp. 108 sgg.; R. Welter, Die Lebenswelt als “Anfang” des methodischen Denkens in Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, cit., p. 146. 196 Cfr. . R. Welter, Lebenswelt, in EPW, II, p. 557. 197 Cfr. J. Mittelstrass Das lebensweltliche Apriori, cit., p. 122 sg.; R. Welter, Die Lebenswelt als “Anfang” des methodischen Denkens in Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, cit., p. 149. 198 Cfr. J. Mittelstrass Das lebensweltliche Apriori, cit., p. 122; cfr. supra, p. 35. 199 Cfr. ivi, pp. 124 sg., 132.
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serl sembra proporre attraverso una nuova «estetica trascendentale» nel suo ripetuto richiamo alla soggettività trascendentale costitutiva, cioè a una sorta di «a priori coscienziale» (Bewusstseinsapriori)200 –, si tenta una fondazione teoretica del sapere che attiene al mondo della vita, allora questo mondo, nell’esatta misura in cui esso viene tolto dalla sua concretezza e ricompreso nella «descrizione eidetica dell’a priori universale» rivolta «al problema di un mondo possibile in generale come mondo dell’“esperienza pura”»201, non indica certo più l’a priori «ultimo» o «non aggirabile» (unhintergehbar). In altri termini, l’approccio husserliano al mondo della vita rimane sospeso tra una ricognizione ontologico-descrittiva, non pregiudicata in senso teoretico, e una «fondazione» (Begründung) oggettiva che richiede invece l’adozione di ben determinati presupposti esplicativi – come una teoria della percezione, una nozione di coscienza ecc. – alla base del sapere risultante. Ora, quest’ambiguità si scontra col fatto che – nota Mittelstrass – «il discorso di un a priori del mondo della vita ha senso solo se con esso si pensa alle condizioni di costruzione del sapere scientifico e se simili condizioni vengono presentate in modo tale che non si debba di nuovo teoreticamente andare alle spalle di esse»202. A tal riguardo, si tratta anzitutto di evitare una «filosofia del mondo della vita» a favore invece della ricerca di un inizio «in mezzo» (Anfang inmitten) alla vita stessa, facendo emergere quelle forme elementari di «orientazione», quelle azioni normabili e quelle capacità di predicazione elementare che non sono né metodicamente aggirabili né fondabili attraverso le costruzioni scientifiche203. Queste forme elementari preteoretiche definiscono infatti una serie di «a priori procedurali» che trovano espressione in un insieme di pratiche già da sempre presenti nell’agire umano e, come tali, metodicamente ricostruibili: ad esempio, le pratiche di differenziazione, di misurazione, di produzione, di uso strumentale e di argomentazione204. Al posto della costituzione riflessivo-trascendentale della coscienza pura husserliana deve dunque subentrare l’«apriori sintetico delle costruzioni operativo-pragmatiche» che, pur non rinunciando alla dimensione trascendentale magistralmente evocata da Husserl, ne tenti una declinazione in senso propriamente antropologico, volta cioè a evidenziare quei «fondamenti [Fundierungen] esperienziali» del mondo della vita che, in
200 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 356; R. Welter, Die Lebenswelt als “Anfang” des methodischen Denkens in Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, cit., p. 150 sg. 201 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 356; J. Mittelstrass, Das lebensweltliche Apriori, cit., pp. 133, 135. 202 J. Mittelstrass, Das lebensweltliche Apriori, cit., p. 136. 203 Cfr. ivi, p. 137. 204 Cfr. ivi, p. 138 sg.
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quanto «capacità di fatto» dell’uomo, hanno «già da sempre mostrato la loro validità»205. Così, proprio approfondendo la critica husserliana della «coscienza che fa esperienza del mondo»206, i costruzionisti recuperano, in senso pragmatico-trascendentale, istanze tipiche sia della fenomenologia ermeneutica heideggeriana, sia della filosofia della vita di Gottinga. Già in riferimento a Oskar Becker e, ancor prima, alla biografia intellettuale di Wilhelm Kamlah, abbiamo potuto osservare come il «giovane» Heidegger delle lezioni friburghesi fosse presente, sebbene in modo indiretto, quale fonte imprescindibile del costruzionismo metodico207. Quello che ora invece emerge in modo del tutto esplicito è l’«Heidegger di Marburgo»208, fino alla pubblicazione di Essere e tempo (1927). Qui, nel breve periodo di tre anni dal 1923 al 1926, Heidegger non solo sviluppa motivi già presenti nel periodo friburghese, ma mette altresì in atto una «seconda fondazione» della fenomenologia – in contrasto con la «prima fondazione» husserliana – che sia Becker, sia Pöggeler ritengono superiore per articolazione e profondità a quella messa a punto nel suo opus magnum209. In questa prospettiva, un particolare rilievo assumono i due corsi del 1925-26 – rispettivamente del semestre estivo 1925 sul «concetto di tempo»210 e del semestre invernale 1925-26 sul «problema della verità»211 – in
205 Cfr. R. Welter, Die Lebenswelt als “Anfang” des methodischen Denkens in Phänomenologie und Wissenschaftstheorie, cit., p. 152. 206 Cfr. ivi, p. 145. 207 Cfr. supra, pp. 9 sg. e 56 sgg. 208 Cfr. C.F. Gethmann, Heideggers Wahrheitskonzeption in seinen Marburger Vorlesungen, in Forum für Philosophie Bad Homburg, hrsg. von, Martin Heidegger: Innen- und Außenansichten, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1989, pp. 101-130, trad. it. di P. Tomasello, La concezione della verità nello Heidegger di Marburgo, in S. Poggi, P. Tomasello, a cura di, Martin Heidegger. Ontologia, fenomenologia, verità, cit., pp. 329-355. È infatti il «primo» Heidegger di Marburgo, in particolare delle lezioni del semestre invernale 1923/24 sul Sofista di Platone, ad essere presente nelle riflessioni di Kamlah e Lorenzen all’inizio degli anni Sessanta (cfr. W. Kamlah, Platons Selbstkritik im Sophistes, in «Zetemata», Heft 33, München, 1963; K. Lorenz, J. Mittelstrass, Theaitetos fliegt. Zur Theorie wahrer und falscher Sätze bei Platon, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 48, 1966, pp. 27-40; C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 36). 209 Cfr. C.F. Gethmann, La concezione della verità nello Heidegger di Marburgo, cit., pp. 331 e 335; Id., Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 37. Gethmann non è tuttavia d’accordo con Pöggeler e Becker riguardo a una svalutazione del testo di Essere e tempo nei confronti dei corsi precedenti che egli ritiene anzi parte di una «concezione filosofica unitaria» (cfr. anche Id., Philosophie als Vollzug und als Begriff, in «Dilthey-Jahrbuch», 4, 1986; Id., Der existenziale Begriff der Wissenschaft. Zu Sein und Zeit § 69 b, in LW, pp. 184 sgg.). 210 Cfr. M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitsbegriffs, Marburger Vorlesungen Sommersemester 1925, in Gesamtausgabe, Bd. 20, hrsg. von P. Jaeger, Klostermann,
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cui, oltre alla critica verso la nozione husserliana di coscienza costitutiva o «Io senza mondo», in base alla quale si giungerebbe al paradosso che la coscienza deve anzitutto «produrre» ciò che le permette di esser tale, vale a dire il riferimento al mondo, Heidegger presenta una concezione pragmatica della verità, fondata sulla «struttura profonda dell’interpretazione e della comprensione»212, anziché sulla relazione ontologico-semantica – di matrice idealistica – tra asserzione e concetto da un lato e realtà e oggetto dall’altro. Infatti, pur condividendo nella sostanza la critica husserliana allo psicologismo, Heidegger ritiene che essa venga condotta da Husserl in modo errato, vale a dire attraverso una distinzione tra la sfera d’essere reale (il «compimento» del giudizio) e la sfera d’essere ideale (il suo «contenuto»), finendo così per ricadere in un modello proposizionale di verità che non risponde affatto al problema della sua genesi nell’asserzione. Alla distinzione ontologico-mentalistica husserliana – condizionata secondo Heidegger da diversi fattori, come la nozione di validità di Lotze213, in cui la verità viene concepita come «presenza costante», identica ed universale; il concetto di intuizione sensibile e il modello «ottico» della visione d’essenza214; la tendenza a interpretare l’idealità del contenuto giudicativo secondo il rapporto generespecie, vale a dire come un’universalità generica contrapposta alla particolarità e specificità del suo compimento reale215 – si deve invece opporre una distinzione metodologica216 in cui il rapporto tra atto e contenuto è il medesimo che intercorre – nota Gethmann – «tra un evento e uno schema; di questo schema l’evento viene concepito come una realizzazione. Essa corrisponde alla distinzione tra l’occorrenza di un’azione e lo schema che soggiace all’esecuzione di quell’azione»217. Rintracciare il «fenomeno specifico della verità» significa dunque per Heidegger concepire la tensione tra contenuto ed esecuzione come punto di partenza per la ricostruzione dell’azioFrankfurt a.M., 1979, trad. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova, 1991. 211 Cfr. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, Marburger Vorlesungen Wintersemester 1925/26, in Gesamtausgabe, Bd. 21, hrsg. von W. Biemel, Klostermann, Frankfurt a.M., 1976, trad. it. di U.M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano, 1986. 212 Cfr. C.F. Gethmann, La concezione della verità nello Heidegger di Marburgo, cit., p. 341. 213 Cfr. C.F. Gethmann, La concezione della verità nello Heidegger di Marburgo, cit., pp. 339, 351. Sulla critica heideggeriana a Lotze, cfr. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., pp. 43-60; Id., Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1927, trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, p. 197; S. Besoli, Il valore della verità. Studio sulla «logica della validità» nel pensiero di Lotze, Ponte alle Grazie, Firenze, 1992, pp. 139 sgg. 214 Cfr. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 70; Id., Essere e tempo, cit., p. 430. 215 Cfr. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 50 sg. 216 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 435. 217 Cfr. C.F. Gethmann, La concezione della verità nello Heidegger di Marburgo, cit., p. 337 sg. Sulla definizione esistenziale del concetto di «schema», cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 432.
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ne, nella misura in cui la struttura semantico-apofantica è fondata nella struttura ermeneutica che «fa subentrare lo strumentalismo del mondo dell’attività pratica al contemplativismo degli organi di senso»218. In questa prospettiva, Heidegger non intende respingere la necessità di una fondazione ontologica del sapere scientifico ma, anziché vincolarla direttamente al problema della verità, ne coglie la genesi nel problema del significato, in cui la predicazione non appare ancora dipendere dalla questione della «validità» del giudizio o dell’asserzione. In tal modo, proprio sulla base delle osservazioni già sviluppate nelle lezioni marburghesi, in Essere e tempo la nozione originaria di esperienza, in cui Husserl intravedeva il momento antepredicativo della costituzione intenzionale, viene riportata pienamente all’interno della funzione predicativa, nella misura in cui la struttura modificante dell’«in quanto» (als) – già per altro evidenziata nella tematizzazione aristotelica dell’«essere in quanto essere» – costituisce punto di partenza per distinguere la fondazione ermeneutica dalla determinazione propriamente apofantica219. Ora, questa distinzione viene interpretata dai costruzionisti attraverso l’introduzione di due diverse forme di predicatori, vale a dire, in primo luogo, mediante il «predicatore di proprietà» (Eigenschaftsprädikator), che Heidegger esprime con l’«in quanto» semantico-dichiarativo corrispondente, dal punto di vista ontologico, alla categoria della presenza esistenziale o «semplice presenza» (Vorhandenheit) e, in secondo luogo, con il «predicatore d’azione» (Handlungsprädikator), legato invece all’«in quanto» ermeneutico e corrispondente alla categoria della «utilizzabilità» o modo d’essere del «mezzo» (Zuhandenheit)220. In ultima istanza, la preminenza del momento ermeneutico – che Heidegger traduce nel rifiuto dell’originarietà di ogni isolamento e singolarizzazione oggettuale (l’«atto» di percezione, l’«ego» individuale, il «fatto» semplice, la semplice «presenza» materiale, la «cosa» corporea ecc.) – indica non solo che «ogni indagine teoretica non è priva di una sua propria 218 Cfr. C.F. Gethmann, La concezione della verità nello Heidegger di Marburgo, cit., p. 344. Osserva a tal riguardo Gethmann: «Se in Husserl è il concetto di intuizione sensibile, in Heidegger è invece il concetto di interpretazione quello che deve fornire la risposta al problema della giustificazione». Quest’ultima non viene infatti più concepita «sulla base di un modello ottico, ma in relazione ad un contesto di esperienza tattile. Il contesto della verifica non si costituisce più nell’ambito dell’osservazione distaccata, ma in connessione col controllo delle azioni nel quadro di un aver-a-che fare pratico» (ivi, p. 342). Sul «manifestare puramente contemplativo», cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 200. Sul rapporto di fondazione che s’istituisce tra comprensione, interpretazione e asserzione, cfr. ivi, § 33, pp. 195 sgg. 219 Cfr. ivi, pp. 189, 201. Osserva Gethmann a tal riguardo: «Qui abbiamo a che fare col problema del significato, e non col problema della verità. Chi designa l’“ape come insetto”, stabilisce il significato del predicatore “ape”, ossia non afferma ancora che l’ape sia un insetto» (Der existenziale Begriff der Wissenschaft, cit., p. 201, corsivi nostri). 220 Cfr. C.F. Gethmann, Der existenziale Begriff der Wissenschaft, cit., p. 202 sg.
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prassi»221 nella misura in cui quest’ultima trova la sua espressione più adeguata nel discorso come articolazione linguistica della situazione esistenziale222, ma soprattutto il fatto che il linguaggio stesso è la manifestazione delle possibili «forme di vita» che sorgono all’interno di un «mondo d’opera» (Werk-Welt)223 in cui «si ha a che fare con cose»224. Quest’accentuazione del momento operativo-manipolatorio del sapere scientifico – già in parte presente nel testo heideggeriano225 – costituisce, come vedremo, quell’aspetto caratteristico della posizione costruzionista che contribuisce a distinguerla nettamente da qualsiasi declinazione seriore, in un senso prevalentemente ermeneutico-linguistico, dell’analitica esistenziale. Se è infatti vero che il linguaggio è, propriamente, «non-aggirabile», altrettanto innegabile è il fatto che in esso si presenti, come sue momento costitutivo, quel fenomeno dell’agire che potrà rendersi evidente solo attraverso un’adeguata tematizzazione del mondo della vita a cui il linguaggio stesso appartiene. La mancata articolazione ermeneutica dei mondi vitali da parte dell’analitica esistenziale, il suo fermarsi ai confini «trascendentali» del «prendere cura» e dell’utilizzabilità, determina altresì l’incompiutezza di quella «fondazione operativa» che pure si trova già prefigurata nella mondanizzazione antropologica della coscienza posta in essere dalle indagini heideggeriane. In breve, mentre la fenomenologia «genetica» di Husserl – almeno a partire dagli scritti degli anni Venti – pone una semantica alla base di ogni ontologia, di cui quest’ultima non è che una specificazione interna di congruenza di significati, la posizione esistenziale di Heidegger retrocede al di qua della semantica evidenziando il momento specificamente ermeneutico che la costituisce: se par parlare del mondo ci vuole un linguaggio, d’altra parte la logica interna di questo linguaggio non può a sua volta essere detta; bisogna anzi esigere che sia «compresa» fin dall’inizio. Ma allora – e qui interviene l’integrazione costruzionista all’analitica heideggeriana – il «comprendere» presuppone che l’uso dei segni non si riduca al rimando simbolico dei codici interpretativi, ma richiede altresì la ricostruzione di quegli atti, soggettivamente definiti come «aspettative», «disposizioni», «sforzi», «tendenze» in vista di scopi, «intuizioni» dinamiche della forza ecc., da cui prendono corpo le diverse modalità della comprensione. Ciò rende necessario il recupero di istanze ontologiche – non certo compromesse in senso lo221
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 429. Cfr. ivi, p. 203 sg. 223 Cfr. M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 233 sgg. 224 Cfr. C.F. Gethmann, Der existenziale Begriff der Wissenschaft, cit., p. 204; Id., Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., p. 38. Sulla nozione heideggeriana dell’«aver a che fare con» (Zutunhaben mit) che nei costruzionisti diventa il «praticare le cose» (Umgang mit Dingen), cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 190. 225 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 429 sg. 222
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gico-proposizionale come semplice descrizione di stati di cose, ma anzi intese in senso operativo come «dinamiche degli effetti» legate all’esperienza vissuta226 – che, nel contesto della «filosofia della vita» di Gottinga, trovano espressione in modo particolare nell’opera di Josef König (1893-1974). 226 Su questo punto, Enzo Melandri, allievo di Lorenzen a Kiel alla fine degli anni Cinquanta, esprime bene il senso operativo dell’ontologia costruttiva. Posto “0” il livello del linguaggio-oggetto o «semantica in senso stretto», che nella logica corrisponde ai predicati e alle variabili predicative di primo grado, l’ermeneutica e l’ontologia si situano, rispettivamente, al livello “+1” del meta-linguaggio, che comprende i predicati e le variabili predicative di secondo grado – inclusi i concetti stessi di “esistenza” e “non-esistenza”–, e al livello “-1” del riferimento oggettuale, che invece comprende le costanti e le variabili individuali (cfr. E. Melandri, La linea e il circolo, cit., p. 154). Ora, se isoliamo il livello “0” dagli altri due rendendolo trascendentalmente costitutivo (semantica trascendentale), ne segue che il rapporto tra segno e oggetto – ovvero tra significante e significato – appare lineare, cioè configura il riferimento a oggetti attraverso una relazione predicativa di carattere proposizionale («x è P», ovvero «Px» ecc.). In questo modo la semantica fonda l’ontologia tradizionale, nella misura in cui il senso del «discorso» sulle cose (gli oggetti) dipende dalla loro collocazione all’interno di stati-dicose, rappresentati da proposizioni (cfr. Id., L’analogia, la proporzione, la simmetria, cit., p. 91). La linearità della relazione dipende dal fatto che semantica e ontologia sono qui rapportate mediante un ordinamento univoco a due livelli: è il primo a decidere del secondo in quanto ogni discorso sensato sull’essere presuppone come unità minima la proposizione (cfr. ivi, p. 85 sg.). Si noti tuttavia che un simile modello presuppone un principio d’identità, ovvero un’identificazione già realizzata, in cui a un segno è preventivamente assegnato un determinato significato. Volendo mantenere l’impostazione semantica “lineare”, se ci chiediamo come avvenga tale assegnazione, abbiamo due possibilità: o assumere un meta-linguaggio che parli, in successione, dei diversi passi dell’assegnazione, originando così un regresso all’infinito di metalinguaggi, oppure ricorrere al principio dell’auto-esibizione immediata del fondamento semantico, per assiomatizzazione. Che entrambe le soluzioni siano insoddisfacenti, dipende dal fatto che in questo modello l’esistenza compare al tempo stesso come predicato (∃x(Fx)) e come pura posizionalità (secondo il senso esistenziale del verbo essere: «x è» = «x esiste»), mentre l’assegnazione semantica che esso rende possibile, deve risolversi o per l’una o per l’altra delle nozioni di esistenza, ma non può render conto della loro compresenza nel discorso, la quale genera dunque un’antinomia (cfr. ivi, p. 90). Ne consegue che solo rapportando il piano semantico con quello ermeneutico è possibile garantire una compresenza non-contraddittoria tra l’aspetto posizionale e quello predicativo dell’esistenza. Infatti l’ermeneutica – come quel particolare «metalinguaggio» che è insieme discorso sul linguaggio-oggetto e interpretazione del suo senso extralinguistico – trasforma la linearità semantica in un processo circolare a tre livelli, facendo emergere il senso pre-linguistico (ontico) del riferimento oggettuale (cfr. ivi, p. 91; Id. La linea e il circolo, cit., p. 155). Il codice ermeneutico dell’interpretazione interagisce, attraverso il livello “0” del significante, con il riferimento ontico delle parole: se il codice agisce sui segni, si ricava il messaggio o significato ontologico; se è invece il riferimento ontico ad agire sui segni, si ricava o si modifica il codice. Si noti che il rapporto di azione non è mai unilaterale, ma reciproco, in quanto la circolarità è garantita dalla simmetria che il medium del significante (livello “0”) istituisce tra gli estremi di ermeneutica e ontologia. Il discorso ontologico non può mai dunque porsi al livello “0” del linguaggio-oggetto, poiché ogni tentativo di interpretarlo, rivela l’ambivalenza tra metalinguaggio e significato ontico (cfr. Id., L’analogia, la proporzione, la simmetria, cit. p. 93). In conclusione, un meta-linguaggio è tale nella misura in cui è anche un pre-linguaggio, vale a dire: in ogni lettura del linguaggio dev’esserci un senso per cui il giudizio ermeneutico coincide col riferimento ontico delle parole (cfr. ivi, p. 92). Ciò
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Unitosi nel 1918 al gruppo filosofico di Gottinga – allora guidato dal maggiore allievo di Dilthey, Georg Misch –, nel 1924 König presentava la sua dissertazione sul «Concetto di intuizione»227 a cui, dopo un breve soggiorno di studi a Marburgo presso Heidegger (1925-26), faceva seguire nel 1935 l’abilitazione con il suo opus magnum su «Essere e pensiero»228. In quanto rappresentante dell’ultima fase della «filosofia della vita di Gottinga», König non si limitava a ribadire il principio – già sviluppato da Misch e Nohl – dell’insondabilità (Unergründlichkeit) e non-aggirabilità (Unhintergehbarkeit) della vita, ma approfondiva altresì il motivo della genesi logicolinguistica delle forme conoscitive, tra le quali un particolare rilievo assumeva il fenomeno originario della predicazione e dell’«atteggiamento predicativo» radicato nelle forme di vita come luoghi privilegiati di manifestazione dell’essere, tanto nella sua immediatezza sensibile, quanto nella struttura mediata del concetto e del giudizio229. A tal riguardo, riferendosi sia alla Quarta ricerca logica di Husserl, sia agli scritti di Brentano sui diversi tipi di predicazione e le relative «categorie di significato»230, König analizzava il rapporto tra strutture linguistiche «determinanti» e «modificanti» che – anche sulla scorta delle riflessioni di Plessner in merito alla posizionalità eccentrica della vita umana – egli considerava riconducibili alla dialettica tra «impressione» ed «espressione», caratterizzata da quella immediatezza mediata in cui, ad ogni livello (intuitivo, simbolico, discorsivo), si rivela la matrice ermeneutica della costituzione di senso dell’essere231.
consente inoltre sia una critica di quel carattere «ultimativo» dell’ermeneutica che si ritrova nell’analitica esistenziale heideggeriana, sia una confutazione dell’operazione meramente «ostensiva» del senso più profondo del linguaggio, così come viene presentata da Wittgenstein quando riconosce che il linguaggio può «esibire», ma non «rappresentare» la sua forma logica. A rigor di termini, infatti, il rilievo wittgensteiniano della differenza tra il mostrare e il dire è di nuovo un dire, cioè un metalinguaggio (cfr. ivi, p. 93). Ma come abbiamo visto, l’interpretazione del senso extralinguistico del dire semantico non può essere a sua volta un «dire», bensì solo un operare costruttivo, cioè un porre in relazione l’ambivalenza dell’interpretare (metalinguaggio “+1”) e del significato ontico (pre-linguaggio “-1”). Il predicato di second’ordine – ad esempio, l’esistenza – dev’essere così introdotto mediante un’assegnazione ugualmente costruttiva, ossia come predicatore. Il metalinguaggio ermeneutico può presentare l’ambivalenza dell’ontologia in tutta la sua estensione solo se si sottrae alla rigida qualificazione sia del «dire» rappresentativo, sia del «mostrare» ontico-intuitivo, generando – mediante l’introduzione operativa dell’interpretazione – una relazione dinamica circolare con l’oggetto. 227 Cfr. J. König, Der Begriff der Intuition, Niemeyer, Halle a.d. Saale, 1926. 228 Cfr. J. König, Sein und Denken, cit. 229 Cfr., a tal riguardo, V. Schürmann, Zur Struktur hermeneutischen Sprechens. Eine Bestimmung im Anschluß an Josef König, Alber, Freiburg/München, 1999, pp. 47 sgg. 230 Cfr. J. König, Sein und Denken, cit., pp. 1 e 219 sgg. 231 Cfr. V. Schürmann, Zur Struktur hermeneutischen Sprechens, cit. p. 14 sg.; G. Matteucci, Per una fenomenologia critica dell’estetico, CLUEB, Bologna, 1998, pp. 248 sgg.
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Così, se consideriamo le proprietà delle cose sensibilmente comprensibili (colore, suono, odore ecc.), queste rientrano nell’espressione linguistica come predicati determinanti in quanto corrispondenti alla logica dell’asserzione e delle classi. Il loro impiego è infatti univoco e direttamente semantico: se diciamo «l’asciugamano è blu», il predicato si riferisce al colore che nel nostro linguaggio è indicato dal termine «blu»232. Si noti peraltro che quest’asserzione non è, in senso proprio, un giudizio, poiché giudicare un oggetto come blu non è – in senso stretto – diverso dal percepire l’oggetto blu233. Ciò dipende dal fatto che, se isoliamo la dimensione semantica dell’asserzione, è impossibile comprendere la differenza tra l’aspetto discorsivo dell’identificazione concettuale e quello intuitivo-sensibile dell’individuazione oggettuale: in entrambi i casi abbiamo a che fare con una datità la cui costituzione di senso è incomprensibile in quanto precedente rispetto al momento assertorio dell’enunciato classificatorio. Infatti, sia l’asserzione discorsiva, sia la tematizzazione del momento percettivo non «assegnano» un significato, ma esprimono un’assegnazione già avvenuta in base al contesto vitale dell’agire dal quale la dimensione semantica sorge e assume un senso. Se ora consideriamo invece quelle proprietà che vengono indicate con termini come «ragionevole», «giusto», «bello», «buono», «vero», «falso» ecc., notiamo subito che le asserzioni di cui fanno parte sono qualificabili a pieno titolo come giudizi, in quanto la loro funzione predicativa non si limita a esprimere una relazione semantica, ma manifesta altresì un’attività che riconduce direttamente alla genesi soggettiva della significazione, ovvero alle modalità di relazione, di carattere «vitale», tra l’uomo e il mondo234. Ebbene, questi predicati modificanti, nei quali la funzione metaforica dell’«agire-come» (Wirken als) o dell’«agire-così» (so-Wirken) supera la semplice designazione di proprietà, costituiscono secondo König il fondamento di ogni predicazione, nella misura in cui anche i predicati determinanti non configurano altro che una «differenziazione interna» ad essi235. Ciò implica che, nella ricostruzione del vissuto, debba realizzarsi il capovolgimento della logica classificatoria dell’asserzione: se in questa ogni modificazione di significato tende ad apparire come una determinazione, al contrario nella ricostruzione ogni determinazione estrinseca – in cui cioè il predicato è separabile in modo analitico o sintetico dal soggetto – è per principio riconducibile alla determinazione intrinseca, in cui il soggetto proposizionale od «oggetto del discorso» risulta invece indissolubilmente legato a quella predicazione che, nei suoi confronti, esercita una vera e propria azione costitu232
Cfr. J. König, Sein und Denken, cit., p. 1 sg. Cfr. ivi, p. 2. 234 Cfr. ivi, p. 1 sg. 235 Cfr. ivi, p. 3 sg. 233
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tiva. Così, ad esempio, una «traccia di coniglio» o un’«impronta digitale» è tale per determinazione estrinseca, in quanto l’identificazione sembra avvenire sulla base di un sapere che non è necessariamente o «internamente» collegato alla semplice percezione oggettuale236. La stessa cosa accade per il modo più comune di intendere le «impressioni sensoriali»: queste non sono affatto atti immediati, ma delle specie di ipotesi che si costituiscono sulla base di ciò che ci è noto237. Tuttavia – osserva König – la questione verte proprio intorno a questo «sapere», a questo «esserci noto». Se il sapere fosse intimamente legato alla determinazione della «traccia» (ovvero all’insieme della sua percezione), allora esso potrebbe far apparire il predicato «di coniglio» come una determinazione intrinseca, vale a dire: la traccia rimanderebbe al coniglio intrinsecamente sulla base di un sapere che la «costituisce» come tale. Ma questo è precisamente ciò che accade quando noi abbiamo l’impressione della traccia: vi è un sapere, anche se indeterminato o negativo, che la fa sorgere come soggetto di predicazione238. La distinzione del sapere dal momento sensoriale è quindi un’astrazione allo stesso modo dell’isolamento «intuitivo» in cui viene indebitamente posta l’impressione originaria. Certo, nelle determinazioni intrinseche pure o «modificanti» in senso stretto – come nell’impressione di vivacità o in quella spazio-temporale, che Dilthey collegava alle «espressioni del vissuto»239 – non si presentano intermediazioni ipotetiche, ma ciò dipende dal fatto che in esse l’agire-come e l’oggetto dell’azione non sono separabili nemmeno per astrazione; qui infatti l’«impressione determinata» e l’«impressione di qualcosa di determinato» fanno tutt’uno240. In conclusione, pur essendo «rosso» e «giusto» non solo predicati diversi, ma anche diversi come predicati241, tra le due specie predicative vi è una linea di continuità che si fonda, in ultima istanza, sul carattere intensivoverbale della nozione di «essere» (Sein), in virtù della quale «l’essere è tale solo in quanto essere-vissuto»242, e ogni posizione dell’aggettivo, denotante una determinata proprietà oggettiva, può essere ricondotta alla posizione esplicitamente modificante dell’avverbio243. Questa preminenza delle qualità, dei predicati e delle denominazioni modificanti, se da un lato implica sempre – nota König – il riferimento alla soggettività, dall’altro non dev’essere intesa come una soggettivazione dell’essere, poiché il tema della «relati236
Cfr. ivi, p. 14 sg. Cfr. ivi, p. 17. 238 Cfr. ivi, p. 14. 239 Cfr. ivi, p. 4. 240 Cfr. ivi, p. 9 sg.; G. Matteucci, Per una fenomenologia critica dell’estetico, cit., p. 248. 241 Cfr. J. König, Sein und Denken, cit., p. 2. 242 Ivi, p. 41, nota 1. 243 Cfr. ivi, p. 32. 237
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vità soggettiva» delle sensazioni, in cui l’essere si offre originariamente come datità e può perciò anche presentarsi come apparenza, riguarda piuttosto la predicazione determinante, colta nella sua assolutezza logico-classificatoria244. In realtà, ogni percezione – rileva König prendendo spunto da Jakob von Uexküll – è una correlazione tra l’atto percettivo e l’agire interessato, tra un «mondo di caratteri» e un «mondo di azioni»245. Su questa base, anche l’ontologia non si presenta agli occhi di König come un discorso riguardo a un universo di oggetti o di cose, ma come il risultato dell’ermeneutica dell’agire che nel linguaggio si esprime tramite la produzione predicativa. Benché nelle opere dei costruzionisti di Erlangen non sia riscontrabile un diretto influsso di König, degno di rilievo è il fatto che Lorenzen menzioni più volte le origini della sua formazione filosofica a Gottinga, e in particolare il suo incontro con König nel 1936, le cui lezioni lo introdussero alle tematiche riguardanti la critica del linguaggio246. Così nella sua prolusione del 1957 in occasione dell’assunzione della cattedra di filosofia a Kiel247, Lorenzen attribuiva alla corrente diltheyana – di cui König aveva saputo esprimere al meglio lo stretto intreccio tra ontologia e linguaggio – il merito di aver offerto, attraverso una «logica ermeneutica» estranea sia alla mera ricognizione storicistica dei fatti culturali, sia all’assolutismo logico-coscienziale del neokantismo classico, gli strumenti per comprendere l’insieme delle «opinioni» radicate nel mondo vitale che precedono e condizionano la formazione del sapere scientifico248 e a cui quest’ultimo deve continuamente essere ricondotto attraverso la funzione critico-pratica della «ricostruzione» filosofica.
244
Cfr. ivi, p. 5, nota 1. Cfr. ivi, p. 19 sg., nota 1. 246 Cfr. P. Lorenzen, Denken um des Menschen willen, cit., p. 6; Id., Brief von 14.01.1988, cit., p. 76, C.F. Gethmann, Phänomenologie, Lebensphilosophie und Konstruktive Wissenschaftstheorie, cit., pp. 41 e 48. Significativo è inoltre il fatto che nel 1963 Kamlah, giunto a Marburgo l’anno successivo (1927/28) a quello in cui König aveva assistito alle lezioni di Heidegger, abbia dedicato a Herman Nohl e Josef König la pubblicazione del suo primo scritto giovanile inedito sul Sofista di Platone (cfr. Platons Selbstkritik im Sophistes, cit., Vorwort). 247 Cfr. P. Lorenzen, Wie ist Philosophie der Mathematik möglich?, in «Philosophia Naturalis», 4, 1957, pp. 192-208; ora in KW, pp. 149-166. 248 Cfr. ivi, p. 155 sg. 245
Capitolo secondo Paul Lorenzen: dalla matematica operativa alla propedeutica logica
2.1. Gli inizi. La «critica dei fondamenti» tra intuizione e linguaggio Alla fine degli anni Quaranta, il dibattito sui fondamenti della matematica era giunto a un punto di stallo. Nel nostro contesto, lo sviluppo di questo dibattito e le ragioni del suo fallimento mostrano un interesse che non riguarda tanto motivi specifici, interni alla costituzione disciplinare delle scienze logico-matematiche, quanto piuttosto il terreno filosofico della razionalità e della giustificazione delle norme che guidano la prassi conoscitiva. In questa prospettiva, la «crisi dei fondamenti» che si aprì nel 1902 con la scoperta da parte di Russell della contraddittorietà della teoria cantoriana e fregeana degli insiemi – resa esplicita nel cosiddetto «problema delle antinomie» – si rivela determinata da una condizione che caratterizza gran parte del dibattito successivo, vale a dire la convinzione che la matematica e i suoi «oggetti» (numeri, funzioni, simboli operativi ecc.) risultino strutturalmente conformi a un linguaggio, in cui vigono parti elementari (nominali), connessioni proposizionali, argomenti e regole di inferenza1. Ciò dipende dalla necessità, rivelatasi nel corso del XIX secolo, di ricondurre il metodo analitico a teorie assiomatiche, nella misura in cui il primo, come con1 Non possiamo qui che offrire una trattazione schematica del dibattito sui fondamenti, mettendo in evidenza gli aspetti più rilevanti per l’opera di Lorenzen. La più ricca esposizione complessiva dell’argomento in lingua italiana si ritrova in C. Mangione, La logica nel ventesimo secolo (I), in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano, 1972, 19813, pp. 193-401. la trattazione di Mangione si ritrova, in parte rielaborata, in C. Mangione, S. Bozzi, Storia della logica. Da Boole ai nostri giorni, Garzanti, Milano, 1995. A titolo introduttivo si possono inoltre consultare: H.-G. Steiner, Critica dei fondamenti della matematica, in H. Behnke, R. Remmert, H.-G. Steiner, H. Tietz, Mathematik I, Fischer, Frankfurt a.M., 1964, trad. it. di L. Lombardo Radice, Matematica 1, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, vol. 15, Milano, 1967, pp. 125-148; E. Casari, La logica nel Novecento, Loescher, Torino, 1981; C. Cellucci, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2007; A. Cantini, I fondamenti della matematica, Loescher, Torino, 1979. Importante per i costruzionisti è il saggio di H. Weyl, Über die neue Grundlagenkrise der Mathematik, in «Mathematische Zeitschrift», 10, 1921, pp. 39-79, Separat, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1965. La visione d’insieme più esauriente all’interno del costruzionismo metodico si trova in Ch. Thiel, Grundlagenkrise und Grundlagenstreit. Studie über das normative Fundament der Wissenschaft am Beispiel von Mathematik und Sozialwissenschaft, Hain, Meisenheim am Glan, 1972.
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seguenza della rivoluzione scientifica del XVII e XVIII secolo, non era stato in grado di giungere a sufficiente chiarezza riguardo ai concetti matematici fondamentali (numero, punto, linea, superficie, infinitesimo ecc.) e ai procedimenti di derivazione dei teoremi2. Quest’assiomatizzazione della matematica si fonda su due capisaldi, vale a dire la proposizionalità degli assiomi, per cui essi possono risultare in sé veri o falsi, e la riconduzione delle nozioni fondamentali alla teoria degli insiemi, nella quale possano essere stabilite relazioni e funzioni logiche esprimenti le «leggi del pensiero puro» che opera attraverso «figure» simbolizzanti parole e proposizioni all’interno di un linguaggio.
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Cfr. P. Lorenzen, Collegium Logicum, cit. p. 19. Com’è noto, il metodo assiomatico, tendente a fissare i principi indimostrabili ed evidenti del sapere matematico-geometrico, è già presente in Euclide e, probabilmente, in Ippocrate di Chio; in questi, il metodo analitico ha però solo una funzione euristica, ossia è un’ars inveniendi a partire da principi dati. Con l’avvento della matematizzazione della realtà, operata da Cartesio e Galilei, il metodo assiomatico originario, di carattere proposizionale-descrittivo a cui fa seguito il procedimento sintetico-deduttivo (compositivo), tende a essere sostituito dal metodo analitico (risolutivo) poiché gli elementi della realtà sono i caratteri matematici «discreti», espressi attraverso simboli che si compongono come l’alfabeto di una lingua, da cui vengono sintetizzate non solo le costruzioni matematiche più complesse, ma anche le configurazioni oggettuali. Ciò si basa sul criterio della corrispondenza fra misure e calcolo, e non sull’implicazione logica. In tal senso, nel passaggio dalla nozione di sostanza – su cui si fondava l’assiomatica antica – alla moderna nozione di funzione, la chiarezza intorno alla natura degli enti matematico-geometrici fondamentali che, sebbene in modo ipostatico-dogmatico, veniva garantita dalla prima, appare ora come inversamente proporzionale all’enorme massa di risultati applicativi offerti dal metodo analitico. In quest’ultimo, infatti, i «principi» vengono ricavati in modo regressivo: dalla conclusione (data o ipoteticamente posta) alle condizioni o agli elementi che la rendono possibile. Ma se la conclusione è della stessa natura dei principi, allora un’analisi non servirà a comprenderli (per fallacia di hysteron-proteron); se invece è di natura diversa, allora a fortiori l’analisi si rivelerà inefficace. Dunque la comprensione dei fondamenti di un’analisi matematica capace di formalizzare algebricamente un insieme oggettuale (ad esempio, lo spazio fisico) non può fondarsi esclusivamente sul metodo analitico; da qui la necessità di ricorrere, su nuove basi, al metodo assiomatico. Ricorrendo alla schematizzazione di Wolters (cfr. G. Wolters, Methode, axiomatische, in EPW, II, pp. 881-883; M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 16 sg.), possiamo distinguere quattro forme fondamentali di tale metodo: a) assiomatico-categorico, tipico di Aristotele e della scienza antica, basato sulla verità immediata degli assiomi e sulla loro applicazione deduttiva; b) assiomatico-ipotetico, legato al metodo ipotetico-deduttivo delle moderne scienze empiriche esatte e fondato sulla procedura di verifica e/o falsificazione. In quanto sottoposto al «grado di conferma», questo metodo non serve per stabilire la verità dell’assioma, ma solo la sua «verosimiglianza» o approssimazione al vero. Rientrano in questa forma l’empirismo logico e l’epistemologia popperiana; c) assiomatico formale, tipico della metamatematica di Hilbert e basato su schemi enunciativi che in seguito a un’interpretazione rientrano in un modello; d) assiomatico-costruttivo che, pur utilizzando il calcolo e schemi enunciativi, ritiene necessario il ricorso a significati concreti, ottenuti tramite la costruzione di modelli, per la fondazione delle teorie. A questa concezione, come vedremo, si avvicina Lorenzen.
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Il logicismo, anche nella sua versione più strettamente logistica e calcolistica (sintattica), si fonda di conseguenza sull’assunto di un isomorfismo strutturale che finisce per riversare sull’oggetto matematico tutti i caratteri e i problemi che riguardano la natura del linguaggio, come il rapporto tra forma sintattica e contenuto semantico, tra significato nominale e significato proposizionale, tra il contenuto logico-noetico della proposizione e la sua forma espressiva o enunciativa. Ma è soprattutto la dimensione semantica, di tipo corrispondentistico e realistico, che emerge come un suo tratto indelebile: un simbolo ha significato e può perciò pretendere validità e correttezza nell’esatta misura in cui corrisponde a un oggetto che esiste nell’universo di discorso o nell’insieme considerato. Come la logica, anche la matematica appare così caratterizzata da un assetto implicitamente normativo, composto di divieti, di riduzioni, di assiomi di scelta che sottopongono i simboli allo stesso modello istituzionale che si presenta nel «linguaggio sensato»3. Il codice è infatti vincolato a criteri di coerenza e di validità che vengono attribuiti al segno ma che, non essendo analiticamente ricavabili da quest’ultimo, non appartengono certo alla sua «natura». Da qui il ricorso surrettizio a notazioni di origine mentalistica, esistenziale e concettuale di cui la struttura logica non può render conto, ma di cui non può però fare a meno per mantenersi conforme al paradigma linguistico. In tal modo – in particolare all’interno della teoria russelliana della gerarchia di tipi e ordini logici introdotta allo scopo di evitare le antinomie attraverso una pura organizzazione e schematizzazione formale dei contenuti semantici –, si veniva determinando un’irresolubile ambiguità: da un lato la logica doveva essere non troppo ricca per non ingenerare paradossi, ma sufficientemente potente per permettere una fondazione della matematica classica attraverso definizioni predicative e non circolari, basate sul principio dell’«equivalenza estensionale»; dall’altro, tale requisito imponeva l’estensione della logica ad assunzioni di carattere extralogico e sintetico, le quali trovavano espressione nell’intensionalità delle definizioni e dei concetti, spesso presenti nella matematica e nel linguaggio ordinario in forma impredicativa, tale cioè da rinviare a criteri che non appartenevano alla semantica prescelta come «modello». La sinteticità delle notazioni emergeva così sia a livello paradigmatico (il «linguaggio»), sia a livello del criterio metalogico (la «riduzione estensionale») che caratterizzava il sistema russelliano. Nella seconda metà degli anni Venti, Frank Ramsey – accogliendo le critiche mosse a tal riguardo da Wittgenstein e poi sviluppate nel Tractatus – portava il logicismo alle sue estreme conseguenze, decretandone in un certo
3
Cfr. C. Mangione, La logica nel ventesimo secolo (I), cit., p. 207.
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senso la fine4. Dal momento infatti che le distinzioni intensionali non possono essere ricomprese nella logica se non attraverso processi di riduzione estranei al suo assetto, questa deve presentarsi come un puro sistema simbolico, governato esclusivamente dalla complessità estensionale delle funzioni, cosicché i principi che ne determinano le leggi appaiono come tautologie. L’analiticità del sistema viene dunque garantita attraverso la riconduzione del valore semantico alla mera sintassi formale, poiché la tautologia – secondo la celebre sentenza di Wittgenstein – non «dice nulla» sul mondo, ma mostra solo se stessa. Se il logicismo – come evidenziarono i suoi stessi sostenitori – si era infilato in un vicolo cieco, non meno problematica si stava delineando, nel medesimo periodo, la posizione formalista con cui David Hilbert sembrava aver superato le difficoltà legate sia al realismo corrispondentistico, sia al predicativismo estensionale e «insiemistico» di Russell. Per Hilbert, i principi della matematica e della logica non sono proposizioni, ma assiomi per i quali non si pone il problema del loro contenuto specifico come «valore di verità» (contenuto semantico), ma unicamente quello della commettitura formale entro cui le singole teorie sono «dimostrabili», cioè derivabili in modo non-contraddittorio5. L’esistenza degli enti matematici, così come il loro significato, corrisponde all’affidabilità, ovvero alla non-contraddittorietà delle teorie entro le quali gli «enti» appaiono come «oggetti astratti». Questi vengono in tal modo dotati di un’esistenza ipotetica, ideale, «come se» fossero vincolati da condizioni materialmente significative. Il metodo assiomatico, non considerando i contenuti delle teorie ma ponendo esclusivamente il problema delle condizioni in base alle quali esse possono avere dei contenuti, da un lato evitava il ricorso a qualsiasi procedimento riduttivo e, dall’altro, superava il paradigma linguistico-proposizionale della posizione logicista mediante il ricorso a una logica puramente enunciativa, nella quale, cioè, ogni posizione sensata nel sistema veniva espressa da formule o enunciati definiti dalle sole regole di formazione e trasformazione. La matematica appariva così come una teoria formale inclusiva di ogni teorema, le cui «prove» erano oggetto di una teoria contenutistica di secondo livello – o, in termini kantiani, di impianto trascendentale rispetto ai contenuti particolari – detta «teoria della dimostrazione» o metamatematica. Questa successione nella fondazione – teoria della dimostrazione (contenutistica di secondo livello), teoria formale puramente logistica e calcoli4 Cfr. F.P. Ramsey, The Foundations of Mathematics (1926), in The Foundations of Mathematics and other Logical Essays, Kegan Paul & Co., London, 1931, trad. it. di E. Belli-Nicoletti e M. Valente, I fondamenti della matematica e altri scritti di logica, Feltrinelli, Milano, 1964. 5 Cfr. D. Hilbert, W. Ackermann, Grundzüge der theoretischen Logik, Springer, Berlin, 1928; Berlin/Heidelberg/New York, 19726. D. Hilbert, P. Bernays, Grundlagen der Mathematik, 2 Bde., Springer, Berlin, 1934-1939; Berlin/Heidelberg/New York, 1968/19702.
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stica (enunciativa) come «modello» della matematica ordinaria che ne costituisce invece un’interpretazione informale (contenutistica di primo livello) – si scontrava tuttavia con un limite inerente alle stesse modalità con le quali era stata predisposta l’assiomatizzazione. Infatti la dimostrazione, che doveva incaricarsi di fornire procedure di decisione e strumenti di controllo semplici, in grado di riconoscere le combinazioni legittime, si poneva a sua volta come una teoria che, come tale, impiegava formule e regole di calcolo la cui validità avrebbe dovuto essa stessa garantire. Il tentativo di fondare la matematica mediante una «metamatematica» così costituita si riduceva di conseguenza a una presentazione della metateoria in forma aritmetizzata in cui, invece di concetti e proposizioni, si ottengono formule relative ai numeri naturali. Si trattava cioè – com’è stato osservato – di uno «sforzo di venir fuori dalla palude tirandosi per i propri capelli»6, il quale – utilizzando la metafora kantiana del «come se» in quanto espressione della regressione trascendentale – poneva il problema, contrassegnato dal circolo vizioso, dei criteri che permettono di conoscere le condizioni stesse della conoscenza. Così, nel 1931 Kurt Gödel, enunciando il suo secondo teorema noto anche come «teorema di indecidibilità» o di incompletezza semantica7, metteva a nudo quest’impasse del formalismo hilbertiano, rivelando che i due requisiti dell’autoconsistenza (coerenza o non contraddittorietà) e della completezza (secondo cui ogni formula dev’essere un teorema o la negazione di un teorema, cioè ricavabile come conseguenza da premesse date), ai quali un sistema assiomatico compiuto ed esauriente deve soddisfare, non possono essere posti contemporaneamente: se tale sistema è completo, allora esistono enunciati espressi nel linguaggio del sistema che affermano la propria indimostrabilità – e quindi bisogna giungere alla conclusione che, con i mezzi del sistema, è impossibile una dimostrazione di coerenza; se invece esso è coerente, allora possono sempre esistere enunciati veri che non sono dimostrabili, ossia non sono conseguenze logiche del sistema, il quale risulta dunque incompleto. In altri termini, nell’assiomatizzazione della matematica si può certamente ottenere un calcolo logico completo, ma non c’è nessun sistema coerente di assiomi dal quale discendano tutte le proposizioni vere sui numeri naturali; viceversa se – come accade nel sistema di Peano – si perviene a una coerente caratterizzazione assiomatica attraverso una logica di ordine superiore o metamatematica, allora non si ha più nessun calco6
Cfr. H.-G. Steiner, Critica dei fondamenti della matematica, cit., p. 134. Cfr. K. Gödel, Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme, I, in «Monatshefte für Mathematik und Physik», 38, 1931, pp. 173-198, ed. it. a cura di E. Ballo et al., Proposizioni formalmente indecidibili dei Principia mathematica e di sistemi affini, I, in Opere, vol. I: 1929-1936, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pp. 113-138. 7
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lo che permetta un’enumerazione puramente meccanica dei teoremi. La coerenza della matematica non può dunque essere dimostrata da un ragionamento metamatematico dotato di una rappresentazione nell’ambito del suo stesso formalismo; in ultima istanza, la matematica non si lascia concepire come un unico calcolo, ma richiede una serie ininterrotta di sistemi logici sempre più ricchi8. Da queste conclusioni derivano alcune importanti considerazioni che riguardano lo stesso significato filosofico della «fondazione». In primo luogo, se da un lato la prova di Gödel pone un limite invalicabile alle ambizioni formalistico-assiomatiche hilbertiane, dall’altro ne rafforza alcuni caratteri intrinseci. Così, ad esempio, l’incompletezza, proprio in quanto vincolata al procedimento dimostrativo, mette in evidenza la forma ipotetica di ogni teoria che, dovendo comprendere per principio un’infinità di proposizioni, non può mai essere compiutamente verificata; allo stesso modo, la coerenza non è data in assoluto, ma dipende dal tipo di formalismo impiegato: in una logica bivalente – com’è quella utilizzata da Hilbert – il criterio della coerenza è massimamente ristretto, poiché vincola sul medesimo piano della non-contraddittorietà le teorie formali e la metalogica della dimostrazione che dovrebbe ricomprenderle come un tutto. Da ciò deriva, in secondo luogo, la conseguenza filosoficamente più rilevante: in un sistema completamente assiomatizzato c’è un rapporto di complementarità fra coerenza e completezza (adeguatezza). Infatti, entrambi i requisiti sono necessari, ma il primo esprime, in termini leibniziani, una «ragione necessaria», mentre il secondo contiene solo una «ragione sufficiente» o una necessità ex hypothesi; se dunque si afferma la necessità assoluta della loro congiunzione come predicato metalogico o di secondo grado, bisogna poi fare attenzione a non distribuire tale necessità sui due termini singolarmente presi, rendendola un predicato di primo grado: in tal caso essi risulterebbero sì necessari, ma non sufficienti, in quanto per verificarne la compatibilità – per giustificare o intendere il tutto, direbbe Leibniz – deve intervenire la comprensione della loro relazione complementare la quale, per la sua stessa struttura, risulta impossibile facendo uso del criterio troppo ristretto della logica bivalente o non-contraddittoria. In questo senso, la prova di Gödel, anziché affossare del tutto il formalismo, rivela che esso è in grado di stabilire i limiti della sua validità con i mezzi stessi della sua teoria della dimostrazione9. Se infatti coerenza e com8 Cfr., a tal riguardo, E. Nagel, J.R. Newman, Gödel’s Proof, New York University Press, New York, 1958, trad. it. di L. Bianchi, La prova di Gödel, Bollati Boringhieri, Torino, 1974, 19922, in particolare pp. 93-103; H.-G. Steiner, Critica dei fondamenti della matematica, cit., pp. 135-137. 9 Cfr. E. Melandri, Logistica, in G. Preti (a cura di), Filosofia, cit., p. 316.
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pletezza fossero in un rapporto semplicemente duale e non complementare, sarebbe sempre possibile introdurre un formalismo ad hoc in grado di eliminare le contraddizioni: basterebbe, ad esempio, ricorrere a un sistema di categorie simile a quello aristotelico, in cui compaiono termini primitivi e indefinibili che non possono mai essere soggetti di predicazione, poiché sono vincolati da un mutuo rapporto di esclusione volto a impedire ogni metabasis eis allo genos. Solo un assetto complementare, che si specifichi come legge di proporzionalità inversa tra requisiti tra loro contrari, spiega dunque perché la dimostrazione di coerenza debba implicare una rinuncia alla completezza e viceversa: in quanto complementari, esse sono senza dubbio necessarie, ma mai contemporaneamente soddisfacibili. Tutto questo ci conduce a una terza considerazione riguardo alla funzione centrale che, nell’insieme, riveste la «dimostrazione». Mentre la completezza è un concetto operativo (e non a caso Leibniz intravedeva nella necessità ex hypotesi, che caratterizza il principio di ragion sufficiente, la medesima connessione che si verifica tra una sostanza e le sue azioni), la coerenza è invece operativamente indefinibile poiché dipende, come detto, dalla scelta del formalismo da impiegare. Dunque il tentativo hilbertiano – tipicamente razionalistico – di omogeneizzazione dei due principi attraverso la riduzione della completezza alla coerenza, ovvero della semantica alla sintassi, inibisce il carattere operativo della dimostrazione proprio nel momento in cui ne decreta la necessità a livello metamatematico. Ciò spiega il carattere distruttivo che la prova di Gödel assume nei confronti del formalismo: essa non compromette infatti la possibilità di una dimostrazione metamatematica della coerenza, ma esclude solo che tale dimostrazione possa essere proiettata sulle deduzioni formali della matematica, cioè che essa sia «rappresentabile» nell’ambito della sua medesima sintassi calcolistica10. La prova di Gödel esprime dunque al tempo stesso una chiusura e una nuova apertura riguardo al «problema dei fondamenti»: infatti la scelta del formalismo da impiegare dipende a sua volta da un criterio di «completezza» o adeguatezza che riapre l’intera questione in un senso non più rigorosamente analitico-formale. Si noti che quest’apertura, benché condizionata dalla pars destruens gödeliana, non implica un azzeramento delle prospettive precedenti o quantomeno di alcuni degli strumenti impiegati nelle riduzioni logicistiche e assiomatiche. Così, oltre al metodo ipotetico-finzionale, basato sul «come se», e alla nozione di dimostrazione, Hilbert aveva fatto ricorso a una matematica finitista, originaria e non formale, che egli considerava come il vero fondamento della metamatematica dimostrativa11. Si tratta – notava Hilbert – 10 11
Cfr. E. Nagel, J.R. Newman, La prova di Gödel, cit., p. 103 sg. Cfr. C. Mangione, La logica nel ventesimo secolo (I), cit., p. 213.
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di un nucleo primitivo del pensiero dotato di contenuto materiale su cui non esistono dubbi e per il quale non si pone il problema della non-contraddittorietà, poiché gli enunciati che vi compaiono parlano solo di oggetti concreti e delle loro proprietà effettivamente dominabili e verificabili mediante manipolazione. D’altra parte, la stessa revisione a cui Russell, nel tentativo di stabilire un criterio di significatività degli enunciati, aveva sottoposto il realismo logicistico di Cantor e Frege, traeva spunto dalla necessità di eliminare le definizioni impredicative e, di conseguenza, di escludere qualsiasi circolo vizioso nelle definizioni, così come era emerso dalle osservazioni di Poincaré in merito alla «creazione» degli enti matematici quali correlati dell’attività costruttiva del pensiero12. Questi aveva infatti evidenziato che ogni difficoltà nasceva dal concetto logicista di «definibilità» puramente formale, che vincolava gli enti matematici a insiemi come totalità chiuse e costituite una volta per tutte, le quali, non potendo essere materialmente date, ma solo idealmente poste, rendevano inefficace qualsiasi determinazione contenutisticamente sensata dei primi. Tali difficoltà riguardavano in primo luogo la nozione stessa di «predicazione» che – notava Poincaré – non dev’essere intesa come un fatto esclusivamente linguistico-formale, ma come un’attività derivante dalle modalità di costruzione degli oggetti a partire da altri oggetti. In questa prospettiva, Poincaré non solo stabiliva uno stretto legame tra il predicativismo e il contenuto intuitivo attraverso cui si pongono i dati o enti originari della costruzione matematica, ma – parallelamente a Kronecker13 – configurava l’attività matematica come operante su un dominio di oggetti aperto, che si poteva sì ampliare a piacere con successioni di atti numerativi, ma che non si poteva certo concepire come una totalità o un’«infinità in atto». In quanto «costruibile», ogni insieme doveva anzi considerarsi finito, benché tendente a un’infinità potenziale. Proprio il finitismo, che si veniva così delineando, doveva rappresentare lo sfondo metodologico su cui si innestava la posizione radicalmente intuizionista di Brouwer. Per quest’ultimo si trattava non solo di eliminare ogni 12 Cfr. H. Poincaré, La science et l’hypothèse, Flammarion, Paris, 1902, trad. it. di M. Borchetta, La scienza e l’ipotesi, in Opere epistemologiche, vol. I, a cura di G. Boniolo, Piovan, Abano Terme, 1989, in particolare cap. I: Sulla natura del ragionamento matematico (ma del 1894); Id., La valeur de la science, Flammarion, Paris, 1905, trad. it. di M. Borchetta, Il valore della scienza, in Opere epistemologiche, vol. I., cit., in particolare cap. I. L’intuizione e la logica matematica; Id., Science et méthode, Flammarion, Paris, 1908, trad. it. di C. Milanesi, Scienza e metodo, in Opere epistemologiche, vol. II, a cura di G. Boniolo, Piovan, Abano Terme, 1989, in particolare capp. VII: La matematica e la logica, VIII: Le nuove logiche, e IX: Gli ultimi sforzi dei logici matematici. 13 Cfr. L. Kronecker, Über den Zahlbegriff, in AA.VV., Philosophische Aufsätze. Eduard Zeller zu seinem fünfzigjährigen Doctor-Jubiläum gewidmet, Reisland, Leipzig, 1887, pp. 261274. A tal riguardo, si veda anche H.-G. Steiner, Critica dei fondamenti della matematica, cit., p. 139 sg.
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contaminazione e imposizione da parte dell’apparato logico e linguistico – superando in tal modo anche le declinazioni «predicativiste» di Poincaré –, ma soprattutto di indagare il «fare» matematico prima di ogni teoria, il quale si esprime nell’effettiva attività, eminentemente spirituale e intracoscienziale, dell’intuizione. Da fondamento o «paradigma», la logica e il linguaggio vengono di conseguenza relegati al ruolo di organon del pensiero matematico, in esso impliciti e da esso dipendenti come l’«esposizione» (Darstellung) dipende dal suo contenuto14. Ora, Brouwer trasmette senza dubbio al costruzionismo di Lorenzen alcuni capisaldi stabili del suo sistema: ad esempio, il requisito della finitezza delle prove, da cui deriva che l’esistenza matematica deve coincidere con la costruibilità del suo oggetto, e non con la semplice non-contraddittorietà; oppure la limitazione del principio del terzo escluso a domini finiti, gli unici nei quali è possibile costruire un controesempio di un’affermazione non vera; o infine la concezione dell’«insieme» non come collezione di oggetti, bensì come norma o legge che indica la comune modalità di formazione dei suoi elementi15. D’altra parte, però, le nozioni brouweriane di «intuizione» e di «oggetto matematico» si mostravano certo non prive di ambiguità, in quanto oscillanti tra un richiamo psicologico-mentale – e dunque immateriale – al «pensiero» e all’«atto di coscienza», e il rilievo materiale che invece in tale contesto venivano assumendo le caratterizzazioni pratico-operative della «volontà» e della «conformità al fine», tipiche dell’agire matematico. È precisamente dal tentativo di uscire dalla ristrettezza e ambiguità delle condizioni intuizionistiche attraverso una nuova formulazione del linguaggio matematico e delle procedure di derivazione che – come ora vedremo – prendono spunto le prime opere di Lorenzen. 2.2. «Costruzione» e «operazione» nella ricerca dei fondamenti Su uno sfondo che, dunque, inclinava verso l’assunzione di posizioni radicalmente convenzionalistiche e costruttivistiche – sicché, come osserverà John Myhill16, veniva da chiedersi se in realtà il sistema di Heyting rivolto a una formalizzazione dell’intuizionismo17, sebbene contrassegnato da un’attenuazione del paradigma linguistico-assiomatico in forma eminentemente 14
Cfr. M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 24. Cfr. L.E.J. Brouwer, Zur Begründung der intuitionistischen Mathematik, in «Mathematische Annalen», 93, 1925, pp. 244-257 e 95, 1926, pp. 453-472. Cfr., a tal riguardo, Ch. Thiel, Grundlagenkrise und Grundlagenstreit, cit., p. 111 sg. 16 Cfr. A. Kino, J. Myhill, R.E. Vesley, ed. by, Intuitionism and Proof Theory. Proceedings of the Summer Conference at Buffalo N. Y. 1968, North-Holland, London, 1970. 17 Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, in «Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften», Phys.-Math. Klasse, 11, 1930, pp. 40 sgg. 15
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descrittiva, non costituisse una contradictio in adiecto –, la comparsa nel 1950 del primo importante saggio di Lorenzen sulla «fondazione costruttiva della matematica» sembrava corroborare tale tendenza, nel momento in cui egli dichiarava che il tentativo hilbertiano di formalizzazione e assiomatizzazione attraverso la distinzione tra matematica e metamatematica falliva il problema dei fondamenti, poiché «i mezzi di dimostrazione della metamatematica non sono altro che quegli stessi della matematica», nella quale la non-contraddittorietà, come concetto chiave per giungere a una fondazione, poteva senza dubbio trovare una soluzione più adeguata all’interno di una prospettiva intuizionistica18. Al tempo stesso, egli si chiedeva come fosse possibile evitare il ricorso al termine equivoco «intuizione» che, pur essendo filosoficamente ammissibile, si rivelava non certo ricavabile da un’indagine fenomenologica delle nozioni di «calcolo» e «dimostrazione». Occorreva cioè adottare una prospettiva genetica che non si ponesse in contrasto col metodo analitico ma che, per così dire, giustificasse la struttura della sintesi concettuale a partire dall’analisi stessa. Ora, in primo luogo il «calcolo» non è per Lorenzen una semplice relazione sintattica tra simboli, poiché la conversa non vale: non ogni relazione sintattica di tal genere è un calcolo; essa esprime dunque solo il suo carattere «fenotipico», frutto di una descrizione che, in quanto pregiudicata da assunzioni formali o mentali, non può condurre ad alcuna comprensione della sua natura. Risulta invece chiaro che «calcolo» significa «operare schematico con figure», in cui devono essere introdotti dei «segni» e delle «regole di costruzione». In modo simile, le figure del calcolo sono «successioni di simboli» in cui ciò che più importa non sono gli elementi simbolici singolarmente considerati, ma il modo col quale e lo scopo in vista del quale sono stati introdotti. Non ha dunque senso chiedersi se i segni siano «giusti» e le regole siano «vere» o no, bensì – osserva Lorenzen – solo «se essi siano “utilizzabili”, vale a dire se l’agire con essi, e dunque la costruzione dei segni, sia utile per un qualche scopo»19. La fondazione della matematica, così come di qualsiasi insieme di segni governato da regole, non può di conseguenza essere confinata all’indagine delle semplici relazioni formali e dei modelli, ma – conclude Lorenzen – «appartiene alle applicazioni [Anwendungen]». In questa prospettiva – procedendo in modo simile alla «logica del compito» svilup-
18 Cfr. P. Lorenzen, Konstruktive Begründung der Mathematik, cit., p. 162: «È noto che dalla non-contraddittorietà della logica intuizionistica si può facilmente dimostrare la noncontraddittorietà della logica bivalente cosiddetta classica, ossia: se l’aritmetica intuizionistica venisse fondata, allora anche quella classica potrebbe essere facilmente fondata come una sua utile estensione». 19 Ivi, p. 163.
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pata all’inizio degli anni Trenta da Andrej Nikolaevič Kolmogorov20 – egli evidenziava come la comprensione delle regole e dei segni equivalesse letteralmente all’apprendimento delle loro procedure di costruzione e ri-costruzione indipendentemente dal linguaggio che, in senso ordinario, ne costituiva l’espressione. Quest’«indipendenza» delle operazioni costitutive dal linguaggio (che, come vedremo, sarà oggetto di accese dispute all’interno della stessa Scuola di Erlangen) non doveva tuttavia essere intesa come una sorta di giustapposizione metafisica tra il piano pratico dell’azione e quello riproduttivo-enunciativo dell’espressione simbolica – quasi come se si trattasse di isolare il regno pre-linguistico della fondazione pratica e della manipolazione operativa –, ma era anzi rivolta a una radicale riformulazione del ruolo svolto in tal senso dal paradigma linguistico, in particolare nella sua forma proposizionale, copulativa e nominale. Una simile revisione non poteva tuttavia essere portata a termine senza prima aver messo in chiaro come l’introduzione operativa dei segni non abbia bisogno, in prima istanza, di una «traduzione linguistico-verbale», ma sia anzi intrinseca allo stesso atto costruttivo. Così, ad esempio, se introduciamo i seguenti segni e le regole costruttive: «», «x» e «x → x», possiamo ottenere la seguente costruzione dei segni in successione: «, , , ...,» sottolineando che non si tratta di semplici derivazioni formali, ma di operazioni che possono essere controllate nella loro definitezza21. Quest’ultima caratteristica è decisiva affinché si abbiano segni e regole non soggetti a equivocità. Infatti, la teoria classica degli insiemi contravviene alla definitezza perché utilizza l’espressione «per tutti gli insiemi» o «esiste un insieme», senza aver preventivamente stabilito un concetto di dimostrazione o di refutazione per la proposizione «x è un insieme». Ma ciò non significa altro che ogni proposizione appare sensata o non contraddittoria nella misura in cui essa rientra in un procedimento che definisce i caratteri e i limiti della sua ammissibilità, talché anche le assiomatizzazioni possano essere riconducibili alle costruzioni che ne sono alla base22. Si noti peraltro che una simile fondazione costruttiva supera le restrizioni imposte dalla stessa logica intuizionistica in quanto consente di operare su oggetti – come ad esempio quelli contrassegnati dal tertium non datur su insiemi infiniti – che all’intuizione appaiono insensati o impossibili, mentre al cospetto di «finzioni calcolisticamente finalizzate» si mostrano solo come «definiti per refutazione»23, cioè come figure o successioni di simboli che non sono derivabili seguendo le regole di un calcolo. 20 Cfr. A.N. Kolmogorov, Zur Deutung der intuitionistichen Logik, in «Mathematische Zeitschrift», 25, 1932, pp. 58 sgg. 21 Cfr. P. Lorenzen, Konstruktive Begründung der Mathematik, cit., p. 163. 22 Cfr. ivi, p. 165. 23 Cfr. ivi, p. 165 sg.
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Questi primi risultati, schematicamente esposti nel summenzionato saggio di rivista, verranno sviluppati e approfonditi da Lorenzen alcuni anni più tardi nella maggiore opera organica di questo periodo, vale a dire in quella «Introduzione alla logica e alla matematica operative» in cui, per la prima volta in modo compiuto, distinguendo nettamente il livello «fondazionale» dell’operare schematico da quello contenutistico-semantico delle verità logico-formali, Lorenzen presenta la metalogica da un punto di vista costruttivo. Nel ribadire la sua distanza dal platonismo, in quanto fiducia nella capacità dell’intelletto di afferrare la verità delle proposizioni prime su cui poggia la totalità dei teoremi geometrico-matematici24, Lorenzen ripercorre brevemente la storia più recente del dibattito sui fondamenti, evidenziando la necessità di coniugare le pur legittime istanze intuizionistiche – in particolare la nozione di «realizzabilità» potenziale e finita25 – con le richieste operative di matrice kantiana e dingleriana, volte invece a una ricognizione metodica delle strutture formali. In tal senso, ciò che più conta non è tanto che gli assiomi vengano considerati come convenzioni linguistiche o come il frutto di una non meglio precisata «certezza intuitiva», ma che tutto questo non divenga l’occasione per negare legittimità a una giustificazione filosofica delle discipline formali26. In altri termini, siano esse intuiti, convenzionalmente decisi oppure riprodotti a partire da un’ipotetica «forma logica», gli assiomi e le regole di derivazione devono poter essere discussi poiché, in caso contrario, non si spiegherebbe la loro assunzione o refutazione. Infatti, anche ammettendo che le strutture formali si presentino come sistemi chiusi rispetto all’interpretazione, ovvero come puri «giochi linguistici», esse vengono accettate perché permettono l’effettuabilità di una determinata prassi calcolistica. In questo senso – avvicinandosi alle osservazioni di Wittgenstein – Lorenzen nota che per quanto un segno, propriamente, non «possegga» un significato, esso non è tuttavia a questo estraneo, nella misura in cui la sua possibilità semantica configura, per così dire, un piano di legittimazione trascendentale che corrisponde alla sua stessa utilizzabilità. Pertanto, sostenere che un segno ha ogni possibile significato, e quindi nessuno in particolare, non comporta affatto un isolamento della sua mera forma sintattica, ma lo colloca anzi in un orizzonte di senso aperto alla 24
Cfr. OLM, p. 1. Questa struttura operativa, nota anche come «astrazione della realizzabilità potenziale» viene sviluppata, nello stesso periodo, dalla teoria algoritmica del matematico russo Andrej Andrejevič Markov (1903-1979) in Teorija algorifmov, Trudy matematičeskogo instituta Akademii nauk, 42, Moscow, 1954, trad. ingl. Theory of Algorithms, IPST, Jerusalem, 1961. Cfr., a tal riguardo, V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, Alber, Freiburg/München, 1965, pp. 57-59. 26 Cfr., a tal riguardo, P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica: ragione e linguaggio in Paul Lorenzen e Karl-Otto Apel, cit., p. 622. 25
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sua concreta forma d’uso, vale a dire disponibile rispetto a un determinato campo di operazioni simboliche in cui, effettivamente, tale forma si rivela, può essere esibita, insegnata e appresa. Nasce così la protologica che consiste nel fondare l’edificio della logica e dell’aritmetica – incluse le nozioni di cui in senso proprio esse si avvalgono – sulla base dei criteri di una prassi operativa relativa al maneggio di un calcolo. In questo modo, le regole e le proposizioni del calcolo non derivano la loro necessità da una pretesa «evidenza» o «verità», ma dal porsi – appunto – come condizioni di realizzabilità che, nella prassi operativa quotidiana, sono già note a ognuno nel momento in cui si tratta di agire in base a schemi, ad esempio nella costruzione di un muro, oppure nella produzione del filato di un tessuto27. La protologica mostra dunque un duplice vantaggio: da un lato consente di dedurre i più importanti teoremi dell’analisi in una maniera costruttivamente controllabile, dal momento che essi appaiono come un aspetto particolare, prescelto in base a determinati scopi, della prassi calcolistica che – in generale – contrassegna l’attività scientifica; dall’altro essa permette di inserire la conoscenza matematica e le sue richieste di «fondazione» entro il più ampio spazio delle forme di vita ordinarie e prescientifiche nelle quali, da sempre, ha luogo un concreto operare con segni e schemi d’azione finalisticamente orientati. Da un punto di vista tecnico, la protologica stabilisce i concetti di «derivabilità» e «inderivabilità» delle figure, così come di «ammissibilità» e «inammissibilità» di una regola (R) in un calcolo (K)28. In particolare, la derivabilità non dipende da assunzioni proposizionali, né da schemi enunciativi assiomatici29, ma da due generi di operazioni, vale a dire: a) l’introduzione di figure fondamentali che costituiscono gli inizi (Anfänge) da cui dipende l’intero processo di produzione; b) l’introduzione di regole che prescrivono la produzione di figure a partire da altre figure già prodotte. Se ora contrassegniamo queste figure come «numeri», appare evidente che la matematica non ha a che fare con «oggetti», ma con schemi operativi nei quali le «regole» definiscono lo spazio normativo che guida la ripetizione o la trasformazione di un’operazione. In questo senso, come già era emerso dal Tractatus wittgensteiniano, i numeri appaiono come gli «esponenti di un’operazione»30. 27
Cfr. OLM, p. 9; P. Lorenzen, Protologik. Ein Beitrag zum Begründungsproblem der Logik, in «Kant-Studien», 47, 1955-56, pp. 350-358, ora in MD, pp. 81-93, in particolare pp. 84 e 91. Cfr., a tal riguardo, C.F. Gethmann, Protologik, in EPW, III, p. 376 sg. 28 Cfr. OLM, p. 7. 29 A questo proposito, Lorenzen osserva che ciò è «indipendente dal modo in cui ne parliamo, esattamente come un bambino può imparare a camminare senza già essere in grado di parlare intorno al camminare» (OLM, p. 13). 30 Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), trad. it. di A.G. Conte, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 1998, prop. 6.021, p. 91.
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A una simile definizione operativa dell’aritmetica si potrebbe obiettare che in tal caso i numeri vengono trasformati in numerali, cioè in segni o espressioni che costituiscono i nomi, ovvero le designazioni dei numeri. Infatti, nella riduzione dei numeri a schemi operativi, questi ultimi, in quanto termini e successioni di segni denotativi prodotti a livello metamatematico, non stanno mai per il rispettivo oggetto (non si pongono cioè in suppositio personalis), ma rappresentano il segno stesso materialmente tracciato o, al massimo, il suo concetto31. In tal modo, non solo si fallisce la domanda riguardo all’«essenza» del numero, ma si cerca altresì in ciò che è spaziotemporalmente determinato, come l’atto di produzione simbolica, il fondamento di qualcosa che si sottrae a tale determinazione. Ora – nota Lorenzen – quest’obiezione sarebbe valida se il processo operativo si svolgesse secondo la tradizionale teoria dell’astrazione, in base alla quale gli «enti astratti» sono trattati come «specie» dotate di caratteristiche peculiari e intrinseche alla propria natura (proprietà, relazioni, concetti, classi), il cui significato è ottenibile o per via empiristica, isolando le qualità comuni, oppure per via idealistica, proiettando sull’oggetto concreto il concetto come complemento infinito dell’idealizzazione. In entrambi i casi una teoria della conoscenza, diversamente concepita, viene ricavata da un’ontologia prestabilita. Ma a ben vedere la fondazione operativa intende esattamente opporsi a una simile relazione che, per tanti versi, appare come un’ingiustificata assunzione metafisica. Infatti, ogni discorso su oggetti astratti è per Lorenzen interpretabile come una particolare modalità enunciativa riguardo a oggetti concreti, nella misura in cui la nozione di «concreto» non corrisponde a quella di «sensibile spazio-temporalmente» (che è piuttosto una sua specificazione), ma di producibililità in base a uno schema, a un insieme di regole e a uno scopo. Perciò, le diverse realizzazioni individuali di una figura, incluse quelle spazio-temporalmente definite, vengono considerate come la stessa figura mediante uno schema di astrazione che stabilisce tra di esse un’eguaglianza32, ovvero una relazione di equivalenza oggettuale in cui le predicazioni risultano invarianti33. Questa teoria costruttiva dell’astrazione – che, per utilizzare un linguaggio spinoziano, non considera gli attributi ontologici degli oggetti ma le loro modalità di significazione e della quale vedremo meglio in seguito la portata quando avremo introdotto la nozione di «astrattore»34 – consente di intendere le asserzioni contenutistiche sui numeri come asserzioni sui segni numerici (cifre) e, allo stesso modo, le asserzioni sugli insiemi come asserzioni su forme di asserzione, con la 31
Su questa distinzione, cfr. E. Nagel, J.R. Newman, La prova di Gödel, cit., pp. 39 e 91. Cfr. OLM, p. 13. 33 Cfr. H.J. Schneider, Abstraktion, in EPW, I, p. 38. 34 Cfr. infra, p. 119. 32
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conseguenza che sia i numeri sia gli insiemi non appaiono come oggetti astratti «preesistenti», ma anzi come il risultato di un’attività logico-matematica inquadrabile all’interno dell’agire specificamente umano35. Il senso dell’impiego del modo di parlare «astratto» al posto del «concreto» consiste in ultima istanza nel fatto che, tramite esso, l’asserzione viene posta in un contesto in cui assume importanza (operativa) solo la sua peculiare «invarianza». Così, ad esempio, il termine «numero», considerato nel suo senso astratto, rimanda a un contesto aritmetico in cui il segno numerico acquista rilievo solo nella misura in cui si prescinde dal modo particolare della sua costruzione. Mediante la sostituzione di ogni discorso su «assiomi» con un discorso che utilizza solo definizioni e prove, la matematica cessa quindi, per Lorenzen, di essere una scienza in cui – come aveva osservato Russell – «noi non possiamo mai sapere di che cosa stiamo parlando, né se ciò che diciamo sia vero»36. In tal modo, essa diventa infatti la teoria di un calcolo scelto a piacere (beliebig) a cui appartiene anche la teoria «contenutistica» hilbertiana e, parimenti, la logica formale in senso stretto sorge quando viene esercitata un’interpretazione ad hoc dei connettivi e dei simboli logici all’interno della più generale teoria del calcolo37. 35
Cfr. ibid.; V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 57. OLM, p. 28. 37 Cfr. K. Lorenz, Logik, operative, in EPW, II, p. 684. Schematicamente, da un punto di vista tecnico la fondazione operativa di Lorenzen può essere compendiata nel modo seguente: 1. Come abbiamo visto, i numeri si possono determinare univocamente con figure, ad es. , , , ecc. Occorre allora definire una classe (Menge) di elementi non come una sintesi in un insieme (Ganze), ma attraverso l’indicazione di una forma enunciativa A(x) che viene soddisfatta dagli elementi della classe (cfr. OLM, p. 4). Le classi si originano cioè attraverso astrazioni da forme enunciative (Aussageformen) logicamente equivalenti, e le forme enunciative sono in ogni caso figure. 2. Si prenda un calcolo K. L’asserzione più semplice su K è che una figura x è derivabile in K. «x è derivabile in K» (in quanto asserzione definita) indica il modo in cui tale asserzione può essere provata. Una prova è quindi l’indicazione procedurale di una derivazione (Ableitung): attraverso l’esecuzione schematica di operazioni con figure si può decidere se ci troviamo di fronte a una derivazione o no. Necessariamente, anche «x è inderivabile in K» è una negazione definita (asserzione negativa), benché essa non sia legata a una prova, ma stabilisca solo come l’asserzione debba essere confutata. Nei suoi confronti, può essere definito solo un concetto di confutazione, ma non un concetto di prova (cfr. ivi, p. 5). Gli enunciati definiti possono a loro volta comparire in concetti di prova o di confutazione. Ad esempio, una regola R è «ammissibile in K» quando, dopo l’aggiunta di R a K, non sono derivabili altre o più figure che in K soltanto. L’asserzione: «R è ammissibile in K» è quindi confutabile attraverso la prova di asserzioni come: «x è derivabile in K, R» e «x è inderivabile in K». Qui non si trova alcun concetto di confutazione decidibile, ma viene senza dubbio fissato un concetto definito di confutazione. 3. Si chiama «definita» ogni asserzione decidibile attraverso operazioni schematiche. Se per un’asserzione è stabilito un concetto di prova o di confutazione, allora l’asserzione è defi36
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nita in base alla prova o in base alla confutazione. La definitezza esclude le concettualizzazioni impredicative, e ammette la confutazione per il quantificatore universale (la «confutazione di un caso») e la prova per il quantificatore esistenziale (la «prova di un caso», cfr. ivi, p. 6). 4. Occorre una modalità di considerazione che preceda la logica e l’aritmetica e che si chiama protologica, la quale, per un calcolo qualsiasi, introduce i concetti di derivabilità e inderivabilità di figure, così come l’ammissibilità (Zulässigkeit) o l’inammissibilità (Unzulässigkeit) di regole (cfr. ivi, p. 17). La protologica generalizza alle figure schematiche del calcolo quanto abbiamo già notato nel punto (2) a proposito degli enunciati, vale a dire: a) una regola può essere ammissibile in un calcolo se può essere aggiunta al calcolo senza che siano derivabili più figure rispetto al calcolo originario. b) Ogni derivazione in K dopo l’introduzione di una regola può essere trasformata in una derivazione nel solo K. Tale regola, se stanno così le cose, può essere eliminata. L’eliminabilità di una regola equivale dunque alla sua ammissibilità (cfr. ivi, pp. 7, 21 sgg.). 4 bis. Chiunque neghi un’asserzione, pone un’asserzione definita in base alla prova, e si fa dunque carico anche di un obbligo di prova. Chi invece nega un assioma non si impegna verso qualcosa, così come non si impegna colui che lo afferma. La comprensione dell’eliminabilità non ha perciò nulla a che vedere con l’evidenza dell’assioma (cfr. ibid.). 5. Da tutto ciò si ricava che il calcolo è esclusivamente un procedimento per la produzione di figure come «serie di simboli» (cfr. ivi, p. 12; V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 56). Le figure semplici o elementari si chiamano atomi; gli atomi (finiti) costituiscono un alfabeto (cfr. OLM, pp. 14-16). 6. La produzione di figure nel calcolo avviene con la seguente sequenza operativa: a) gli «inizi» o figure fondamentali; b) le «regole», per produrre altre figure. Ciò che importa è la possibilità di ripetizione di una stessa operazione: i numeri – come abbiamo già notato (cfr. supra, p. 89) – sono gli esponenti di quest’operazione. Ogni semplice operare sul calcolo è quindi un’attività umana: alla base del calcolo stanno astrazioni che caratterizzano ogni rapporto dell’uomo col mondo e con le cose che lo compongono. «Astrarre» significa soprattutto «avere a che fare con le cose» (Umgang mit Dingen). Si produce così, in primo luogo, l’«astrazione dell’uguaglianza»: le diverse realizzazioni della medesima figura schematica nello spazio e nel tempo vengono considerate come la stessa figura. L’applicazione ripetuta della regola produce inoltre l’astrazione dell’infinità potenziale o – come dice Markov – l’«astrazione della realizzabilità potenziale» (cfr. supra, p. 88). Markov parte infatti da un algoritmo che corrisponde al calcolo: gli atomi corrispondono alle lettere di un alfabeto, le figure alle parole. Nell’algoritmo del calcolo, «» è l’unica lettera dell’alfabeto e i numeri naturali «, , ecc.» sono invece le parole di quest’alfabeto. Sono così possibili due forme fondamentali di astrazione: l’astrazione dell’identificazione, che consente di identificare le parole o le lettere dove esse compaiono in una sequenza, e la summenzionata astrazione della realizzabilità potenziale, che consente di costruire parole o sequenze lunghe a piacere, anche attraverso regole di trasformazione. Si tratta, sostanzialmente, della medesima «stuttura-apeiron» che anche Aristotele ha riconosciuto nella sua Fisica, evidenziandone il fondamento operativo (cfr. W. Wieland, Die aristotelische Physik. Untersuchungen über die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1962, trad. it., condotta sulla seconda edizione rivista del 1970, di C. Gentili, La Fisica di Aristotele. Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui fondamenti linguistici della ricerca dei principi in Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 75 sgg.; V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 58). 7. Tutti i principi che nella logica classica che governano in senso metalogico le forme del ragionamento o «sillogismi» sono operativamente interpretabili come «procedimenti di eliminazione», volti a stabilire l’ammissibilità delle regole (cfr. OLM, pp. 26-36), vale a dire: a) il
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principio di deduzione, secondo il quale se una regola è derivabile in un calcolo, allora è anche ammissibile in quel calcolo; b) il principio di induzione che, come metaregola, consente di evidenziare il carattere operativo dell’aritmetica: tutti gli assiomi sono così sostituibili da definizioni e prove; c) il principio di inversione: esso permette di provare l’ammissibilità di una regola che è inversa rispetto a un’altra regola del calcolo. Se infatti una determinata operazione è ammissibile, allora è tale anche quella che indica il processo inverso o «a ritroso» (rückgängig) rispetto alla prima; d) il principio di uguaglianza: in base alla summenzionata «astrazione dell’uguaglianza», se si pone l’uguaglianza tra due figure atomiche di base, allora per induzione essa si può estendere anche a tutte le altre figure composte mediante le figure-base; e) il principio di inderivabilità: con l’uguaglianza delle figure vengono anche determinate quali figure sono diseguali. Questa definizione della diseguaglianza permette inoltre di provare le asserzioni di inderivabilità, in particolare dimostrando la diseguaglianza di una figura con tutte le figure derivabili del calcolo. Se ne ricava allora immediatamente che, se A è inderivabile, allora la regola «A → B» è ammissibile. Ciò corrisponde nella logica tradizionale al principio che un’asserzione falsa implica qualsiasi asserzione: ex falso quodlibet sequitur. Si è spesso osservato che questo principio non è adeguato al «pensare concreto»; tuttavia, attraverso il concetto operativo di «ammissibilità», esso appare perfettamente giustificato (cfr. ivi, p. 37). 8. Questi cinque principi protologici sono aperti, cioè rimane impregiudicata la possibilità di ammettere regole attraverso metodi che non si riconducono ad essi (cfr. ibid.). 9. Le regole logiche possono essere operativamente interpretate in modo tale da essere ammissibili in qualsiasi calcolo (allgemeinzulässig) (cfr. ivi, p. 39). Esse sono: a) la regola della riflessività generale, in base a cui ogni sequenza di figure implica una figura della sequenza stessa e, attraverso l’ammissibilità ipotetica, b) la regola della transitività, che permette di stabilire l’implicazione tra due figure attraverso una figura intermedia. Si tratta di due metaregole che, applicate alle regole ammissibili di K, consentono di produrre un’ulteriore regola ammissibile in K; ad esse si aggiungono anche le meta-metaregole dell’«importazione» e dell’«esportazione» che, applicate alle prime due metaregole, permettono di produrre sempre altre metaregole ammissibili in K (cfr. ivi, pp. 42-46). Nell’insieme, si tratta di una gerarchia di regole che costituisce il calcolo delle conseguenze (Konsequenzenkalkül), ovvero la «logica consequenziale» (Konsequenzlogik, cfr. ivi, pp. 38-55). In base a quest’ultima, è possibile formare un calcolo della logica dell’implicazione positiva, così come viene presentata dall’intuizionismo. L’implicazione logica è infatti una regola universalmente ammissibile. Si può anche stabilire in tal modo il senso dei connettivi logici: congiunzione, disgiunzione e quantificatore esistenziale vengono ricavati attraverso regole «relativamente ammissibili» e, mediante la determinazione di due figure costanti del calcolo, vale a dire una figura derivabile e una invece inderivabile, si introducono poi la negazione («non-A» viene cioè definito come l’ammissibilità della regola per la quale A implica una figura inderivabile) e il quantificatore universale («per tutti gli x, A(x)» si definisce invece come l’ammissibilità di tutte le regole che, attraverso ogni sostituzione di x, si ottengono dalla regola in base alla quale una figura derivabile implica A(x)). Ciò dà luogo a una logica effettiva o intuizionistica, in cui il tertium non datur e la regola della doppia negazione non sono derivabili (Cfr. P. Lorenzen, Formale Logik, de Gruyter, Berlin, 1958, trad. ingl. by F.J. Crosson, Formal Logic, Reidel, Dordrecht, 1965, p. 86 sg.). Considerato dal lato operativo, il calcolo della logica effettiva o consequenziale è «arbitrario», nel senso che si possono scegliere anche altre implicazioni e regole fondamentali per ottenere un calcolo logico equivalente, così come aveva già notato Wittgenstein nel Tractatus, cit., prop. 6.127, p. 98: «Tutte le proposizioni della logica sono ugualmente giustificate; tra esse non vi sono né leggi fondamentali, né proposizioni derivate che siano tali per essenza». Infatti, non c’è bisogno di nessun calcolo per sapere che, nella misura in cui rappresenta un’implicazione logica, una re-
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2.3. Dalla logica al dialogo Se da un lato la fondazione operativa di Lorenzen si presentava come il primo tentativo sistematico di offrire una giustificazione degli assiomi e delle formule del calcolo logico-matematico, dall’altro proprio il modo in cui tale giustificazione si era sviluppata, vale a dire attraverso il richiamo alla prassi concreta e alle forme d’uso in cui si esprimono i principi e le regole di derivazione, indirizzava la sua indagine verso l’approfondimento delle condizioni semantiche del simbolismo e, accanto a ciò, del rapporto tra l’aspetto semantico e quello più strettamente pragmatico che determina l’introduzione dei simboli e la nascita di nuovi linguaggi formali. Così, a conclusione del suo poderoso volume sulla logica operativa, due questioni rimanevano per Lorenzen ancora aperte e, sostanzialmente, irrisolvibili con i soli strumenti offerti dalla «genesi costruttiva». La prima riguardava in modo più specifico la struttura interna della protologica: in questa, le asserzioni di derivazione che attengono alle figure (ad es.: «la figura Z è deducibile o derivabile in K») sono sempre definite o dimostrativamente oppure per refutazione, ossia esiste per esse un concetto decidibile come senso concretamente mostrabile di «prova» (Beweis); al contrario, un tale concetto o senso definito non esiste per le asserzioni di ammissibilità che riguardano le regole, le quali risultano demandate ad atti estranei rispetto al processo di derivazione38. In altri termini, mentre la sequenza di derivazione è perfettamente definita, non lo è l’introduzione di quei connettivi di subordinazione o «subgiunzioni» (Subjunktionen) che ne costituiscono l’autentico fondamento semantico e che consentono di intendere le derivazioni formali come concrete conseguenze e implicazioni tra le figure. Tali connettivi si originano infatti dalla nozione – eminentemente pratica – di «condizionale», il quale, esplicitato nella forma «Se..., allora...», esprime adeguatamente il carattere ipotetico-costruttivo della derivazione e che, d’altra parte, aveva già trovato un’adeguata formulazione nella complementarità tra «metodo compositivo» e «metodo risolutivo» della fisica galileiana. La seconda questione concerneva invece il carattere di «effettività» del sistema dimostrativo, cioè come esso non fosse semplicemente rappresentabile in uno schema lineare astratto – tanto coerente e formalmente perfetto quanto di fatto inutilizzabile – ma come potesse anzi riprodurre effettivamente i procedimenti di dimostrazione. Oltre che dal matematico, dal logico e, in generale, dall’uomo di scienza, tali procedimenti vengono altresì impiegati da chiunque voglia ragionare sensatamente e costruire un’argogola è universalmente ammissibile (cfr. V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 70). 38 Cfr. K. Lorenz, Logik, operative, cit., p. 684.
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mentazione razionale che abbia validità e, soprattutto, raggiunga il suo scopo. Si trattava evidentemente di due questioni connesse e, in qualche modo, reciproche, poiché solo un modello di calcolo effettivo avrebbe potuto fornire un criterio di decisione riguardo all’ammissibilità delle regole e, d’altra parte, solo regole e asserzioni di ammissibilità definite diversamente che in base al solo valore di verità (Wahrheitswertdefinitheit) avrebbero potuto rappresentare adeguatamente le trame effettive del ragionamento, incluso il modello calcolistico appartenente all’ambito logico e matematico39. A questo riguardo, bisogna osservare che Lorenzen non si trovava ad agire su un terreno vergine, ma poteva ricavare indicazioni feconde dalle opere di Alfred Tarski e di Gerhard Gentzen, quest’ultimo prematuramente scomparso nel 1945 all’età di 36 anni. Se infatti Tarski, attraverso la nozione di «interpretazione in un modello», aveva evidenziato la necessità di precisare in senso semantico ciò che fino ad allora, in termini del tutto vaghi, era stato chiamato «conseguenza logica» – generando l’illusione di poter rispecchiare adeguatamente nel momento sintattico della dimostrabilità e derivabilità logica il concetto intensionale e, in ogni caso, non completamente formalizzabile di «verità»40 –, Genzen si muoveva invece sul terreno delle considerazioni sintattiche e finitarie, ravvisando l’inadeguatezza della nozione stessa di dimostrazione, così come si era presentata nelle posizioni formaliste e logiciste41. Benché anche Hilbert, come abbiamo visto, cercasse di dare un significato finitista e potenziale a quelli che erano i riferimenti «infiniti» delle proposizioni, si trattava ora, dopo Gödel, di prendere atto del fallimento di qualsiasi formalismo dimostrativo per cercare invece un approfondimento dell’interpretazione costruttivistica dell’infinito su vie differenti da quelle che si dipartivano da assunzioni assiomatiche precostituite. Così, cercando di coniugare al tempo stesso finitismo e costruttivismo, Gentzen mostrava un particolare interesse per l’indagine delle strutture di dimostrazione informale, apparentemente più vicine alle pratiche più comuni del ragionamento matematico. In altri termini, si trattava da un lato di riconoscere il peso delle questioni semantiche in ogni considerazione delle «conseguenze logiche», ma anche, dall’altro, di non abbandonare il piano dell’analisi sintattica, consegnandolo a uno sterile formalismo astratto. Così, riprendendo alcune osservazioni svolte quasi un secolo prima da Bernard Bolzano in merito alle «sequenze d’implicazione» contenute in un ragiona39
Cfr. K. Lorenz, Wertdefinit/Wertdefinitheit, in EPW, IV, p. 665. Cfr. A. Tarski, Der Wahrheitsbegriff in den formalisierten Sprachen (1935), ed. it. a cura di F. Rivetti Barbò, Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati, Vita e Pensiero, Milano, 1963. 41 Cfr. G. Gentzen, Untersuchungen über das logischen Schliessen, in «Mathematische Zeitschrift», 39, 1934-1935, pp. 176-210 e 405-431, trad. it. Ricerche sulla deduzione logica, in D. Cagnoni, a cura di, Teoria della dimostrazione, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 77-116. 40
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mento42, Gentzen si proponeva la costituzione di un «sistema effettivo di dimostrazione», ovvero di un «calcolo della deduzione naturale» che indagasse gli operatori logici nel loro stesso modo di essere impiegati informalmente, per poi ricavarne un sistema formale come proiezione simbolica della sua stessa concretezza operativa. In questo senso, Genzen perviene a un duplice risultato, vale a dire: a) le dimostrazioni effettive non fanno mai uso di pochi assiomi fondamentali e di un numero ridotto di regole d’inferenza ma, al contrario, introducono numerose assunzioni e regole di connessione che vengono via via assorbite o eliminate nel corso della «manipolazione» dimostrativa, facendo spazio ad altre assunzioni ovvero a conclusioni che possono rappresentare nuovi punti di partenza; b) di conseguenza, tali dimostrazioni non mostrano affatto una struttura lineare, ma si sviluppano anzi in modo articolato, attraverso sostituzioni, operazioni inverse e regressioni alternate a progressioni, la cui configurazione globale si avvicina piuttosto a quella di un albero con le sue varie «diramazioni»43. Ora, se il modello gentzeniano di «deduzione naturale», proprio nel considerare i processi informali, avvicinava la logica alle strutture dell’esperienza conoscitiva, esso si manteneva d’altra parte ancora all’interno di uno schema sintattico-semantico in cui i segni e le proposizioni assumevano valore in base alle loro «posizioni» e ai «contenuti di verità» nella sequenza di derivazione. Il loro impiego effettivo si mostrava così, ancora una volta, come la conseguenza post hoc di un simbolismo che, per quanto allargato e in un certo senso imprevedibile, non poteva fornire alcuna giustificazione della sua comparsa o, meglio, questa era di nuovo dovuta a caratteri intrinseci e in qualche modo originari alle «forme» dei segni e delle proposizioni. Gentzen sembrava cioè aver compreso che i simboli e la loro forza veritativa nella successione «ad albero» ci insegnano come ragionare; ma dalle sue considerazioni non emergeva né il motivo, né i mezzi in virtù dei quali essi sono dotati di una simile capacità costitutiva, orientativa e, in ultima istanza, normativa. Egli si fermava pertanto al di qua del problema della «definitezza», toccando il limite della «fondazione» come un oggetto non tematico della sua indagine. In particolare, il condizionale, in quanto autentica origine della definitezza delle regole, non poteva essere trattato in una prospettiva esclusivamente vero-funzionale, in quanto le proposizioni e i connettivi da cui esso sorge non possono sempre essere decisi nella loro verità o falsità. Vi sono infatti situazioni inferenziali in cui le «assunzioni» del ragionamen42 Cfr. B. Bolzano, Von der mathematischen Lehrart (1840-1842), trad. it. di L. Giotti, con un’Introduzione di C. Cellucci, Del metodo matematico, Boringhieri, Torino, 1985, pp. 69 sgg.; Id. Wissenschaftslehre (1837), 2. Aufl., Meiner, Leipzig, 1929, Neudruck, Scientia, Aalen, 1981, Bd. II, §§ 154 sgg. Cfr., a tal riguardo, l’Introduzione di C. Cellucci a B. Bolzano, Del metodo matematico, cit., pp. 16 sgg. 43 Cfr. C. Cellucci, Introduzione a B. Bolzano, Del metodo matematico, cit., pp. 23 sgg.
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to si rivelano provvisorie, meramente strumentali o, in ogni caso, «sospese» in merito al loro contenuto veritativo. Proprio il richiamo alle situazioni in cui il ragionamento si colloca, doveva dunque rappresentare per Lorenzen il punto di partenza privilegiato per l’indagine delle forme logico-matematiche nella loro «definitezza». D’altronde, ciò era legato alla stessa funzione che tali forme assumevano nei processi reali di costituzione del sapere: considerarle come sistemi chiusi, giochi simbolici fini a se stessi, non avrebbe implicato altro che la rinuncia alla comprensione del loro senso, comprensione che – si badi bene – per Lorenzen non costituisce affatto una sorta di contestualizzazione aggiuntiva rispetto a strutture in sé compiute, ma è anzi una loro componente essenziale. In effetti, una proposizione «serve anzitutto per essere affermata [behauptet]», il che significa posta in vista del fatto che, intorno ad essa, «sia possibile argomentare con qualcun altro»44. In questa prospettiva, Lorenzen veniva completando quanto già aveva sostenuto Wittgenstein riguardo al modello «monologico» e solipsistico della logica tradizionale: questo non solo non può dire nulla di sé, ma nemmeno può «mostrarsi», nella misura in cui manca nella sua pura forma qualsiasi riferimento a un soggetto reale, verso il quale l’immagine possa dar prova della sua capacità di raffigurazione del mondo. In quanto «affermati», gli operatori logici e le proposizioni s’impongono pertanto come «tratti potenziali all’interno di un dialogo, cosicché il senso dei segni logici si può comprendere attraverso la ricostruzione dell’azione linguistica dell’“affermazione” e della “difesa” di un’asserzione»45. Il richiamo al dialogo come criterio ultimativo di definitezza delle proposizioni, e in particolare di quelle regole di subordinazione inferenziale da cui prende origine la nozione semantica di «conseguenza», era per Lorenzen giustificato non solo dalla necessità di ricorrere a una generica fondazione «pragmatica» del ragionamento, ma soprattutto dal bisogno di affiancare alla disamina teoretica delle preminenti metodologie analitiche e assiomatiche una più ampia ricognizione di tipo storico, volta a evidenziare – in un percorso per molti aspetti simile a quello sviluppato da Husserl ne La crisi delle scienze europee – i motivi essenziali, di carattere vitale, intersoggettivo ed etico-sociale che, a partire dal mondo antico, hanno portato alla «scoperta della logica»46. E in effetti – nota Lorenzen – a dispetto di ogni apparenza, gli antichi hanno seguito una via esattamente opposta a quella 44 Cfr. K. Lorenz, Logik, dialogische, in J. Ritter, K. Gründer, hrsg. von, Historisches Wörterbuch der Philosophie, Bd. V, Schwabe, Basel/Stuttgart, 1980; M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 28. 45 Cfr. H M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 28; J. Schneider, Pragmatik als Basis von Semantik und Syntax, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1975, pp. 102 sgg. 46 P. Lorenzen, Logik und Agon, cit., p. 1.
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dei moderni: se per questi si è trattato di imporre un sistema di regole a un insieme di principi ritenuti in sé veri per decisione umana, per decreto divino o per legge naturale, dando vita a un «gioco solitario» di catene deduttive e rendendo di conseguenza inutile ogni domanda riguardo alla loro fondazione o giustificazione – una sorta di equiparazione della logica alla grammatica della lingua, la cui origine è sorretta dall’alternativa radicale tra innatismo e convenzionalismo –, al contrario per i primi si è affermata da subito la ricerca di un metodo per disciplinare l’arte retorica dei sofisti, ben espressa nella disputa agonale come situazione di conflitto verbale tra opinioni incompatibili47. Pertanto, il compito affidato dai greci alla logica, come patrimonio inconcusso di tutta la nostra civiltà, non consiste certo nell’assimilare le strutture del ragionamento – per così dire – all’immagine di «una nave sulla quale noi già da sempre ci troviamo e la cui riparazione può aver luogo solo in mare aperto»48, ma anzi nell’ancorarle al solido approdo delle tecniche argomentative e degli ambiti circostanziali in cui esse potessero chiaramente delinearsi, come le decisioni politiche, gli atti giudiziari o i discorsi elogiativi. Ciò consente di metterne subito in luce il carattere di strumento o «organo» e quindi di considerarne il fine, rispetto al quale esse sono un semplice mezzo49. È proprio nell’eristica, infatti, come la più classica tecnica di confutazione ed espressione del logos agonale, che si evidenzia la capacità di cogliere uno schema argomentativo indipendentemente dalla sua esemplificazione in concreto. Il campo del logico si circoscrive perciò precisamente nel momento in cui viene riconosciuta la distinzione tra le analogie formali dei «discorsi» e il piano delle loro intenzioni retoriche: è dalla difesa contro il rischio di essere confutati per mezzo di contro-argomentazioni, analoghe nella forma ma con altre finalità, che sorge il bisogno di separare razionalmente le buone dalle cattive argomentazioni. Così – anche con l’aiuto del suo allievo Kuno Lorenz, che in diversi saggi, dal 1961 al 1973, s’incarica di formalizzare le procedure di costituzione e di sviluppo del dialogo50 – Lorenzen pone la definitezza dialogica 47
Cfr. ibid. Ivi, p. 2. Id., Methodisches Denken, in «Ratio», 7, 1965, pp. 1-23, ora in MD, p. 27. 49 Cfr. V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 71. Nota al tal proposito Richter: «Quest’impostazione può apparire ad alcuni del tutto singolare, quasi un attentato all’“oggettività” e “assolutezza” della logica. Ques’ultima viene infatti coinvolta nella soggettività del dialogo. Chi vede nella logica una “dottrina” (™pist»mh) riguardo alle entità logiche, aderirà sicuramente a una simile obiezione. Chi invece ha abbandonato il “mito” degli oggetti logici, accoglierà tale impostazione con favore». 50 Cfr. K. Lorenz, Arithmetik und Logik als Spiele, Dissertation, Kiel, 1961, ora, in forma ridotta, in DL, pp. 17-95; Id., Dialogspiele als semantische Grundlage von Logikkalkülen, in «Archiv für mathematische Logik und Grundlagenforschung», 11, 1968, pp. 32-55, 73-100, ora in DL, pp. 96-162; Id., Dialogische Rechtfertigung der effektiven Logik, in NFW, pp. 250280, ora in DL, pp. 179-209. 48
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(Dialogdefinitheit) a fondamento della «verità» delle proposizioni e degli operatori logici51: questi non valgono in sé, ma solo nella misura in cui vengono affermati o respinti, attaccati e difesi nel corso di un «gioco dialogico» costituito da figure enunciative iniziali e da regole che stabiliscono le mosse lecite e illecite e, soprattutto, che sono ammissibili se consentono l’instaurazione di una procedura finita la quale ci permette di giungere a un risultato conclusivo. L’importanza della funzione dialogica consiste inoltre nella sua reversibilità: essa infatti non si presenta solo come un gioco formale compositivo che può fare le veci delle suddette considerazioni protologiche, ma consente altresì la ricostruzione per «risoluzione» dell’azione linguistica che si trova condensata nelle proposizioni complesse, rivelando quelle convinzioni e regole implicite che sono pragmaticamente necessarie per condurre in porto determinate operazioni con i segni del nostro linguaggio. Così, dietro ogni proposizione «affermata», dobbiamo sempre immaginare un proponente (P) che non ha solo diritti (Rechte) di affermazione e di «attacco», ma anche doveri di difesa (Verteidigungspflichten) rispetto alla messa in discussione da parte di un opponente (O)52. Ora, tali doveri dipendono dalla capacità di sostenere le parti proposizionali e le modalità attraverso le quali esse vengono connesse: a chi afferma «A e B» si può dar torto avanzando dubbi tanto su A, quanto su B, talché – com’è stato osservato – «è proprio questo comportamento argomentativo – che si mostra nel dialogo e che può quindi essere appreso – a determinare la regola d’uso della paroletta “e”, e quindi anche la tavola di verità della proposizione “A e B”»53. A questo proposito, il fatto più rilevante è che – nota Lorenzen – in una simile disputa agonale i giocatori, nell’affermare una proposizione, avanzano la pretesa 51
Cfr. P. Lorenzen, Ein dialogisches Konstruktivitätskriterium, cit., p. 10. Cfr. P. Lorenzen, Logik und Agon, cit., p. 3; K. Lorenz, Dialogspiele als semantische Grundlage von Logikkalkülen, cit., p. 103; J. Schneider, Pragmatik als Basis von Semantik und Syntax, cit., p. 103; LP, p. 159. 53 Cfr. P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica, cit., p. 623 sg. Tutto ciò vale, per estensione, anche nei confronti degli altri connettivi proposizionali nonché dei simboli di quantificazione. Ad esempio, l’affermazione della disgiunzione «A o B» può essere sostenuta quando si è in grado di difendere almeno una delle due parti proposizionali (A, B). Inoltre, poiché la logica operativa respinge azioni su insiemi infiniti, il quantificatore universale «tutti» non può essere semplicemente trattato come un predicato che viene affermato o negato e, di conseguenza, ciò obbliga il proponente a dimostrare che la sua «difesa» del predicato è valida ogni qualvolta l’opponente gli presenta un oggetto scelto a piacere nell’insieme di riferimento (cfr., a tal riguardo, J. Schneider, Pragmatik als Basis von Semantik und Syntax, cit., p. 107 sg.). Si noti inoltre che, in questa circostanza, consideriamo solo le proposizioni complesse formate da connettivi e quantificatori e trascuriamo per il momento le proposizioni semplici, anche dette «elementari» o «prime», le quali – come vedremo (cfr. infra, pp. 121 sgg.) – rimandano la loro costituzione veritativa non tanto a un dialogo formale, ma piuttosto a un dialogo contenutistico o in senso stretto «materiale» (vale a dire non di tipo logico, bensì gnoseologico) che Lorenzen chiama «verificazione interpersonale» e non fa perciò parte della logica dialogica. 52
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di poter costruire una figura ovvero, dall’altro lato, pongono nei suoi confronti una richiesta di giustificazione. Viene così esclusa, o in ogni caso rinviata a un momento successivo, ogni questione semantica riguardo al significato referenziale dell’asserzione: qui infatti «è sufficiente sapere ciò che l’azione di P prescrive», vale a dire il suo impegno a «offrire una derivazione [della proposizione] rispetto a un’eventuale sfida di O»54. Il problema del contenuto semantico viene perciò trasferito dal valore di verità proposizionale alle conseguenze dell’affermazione: «le implicazioni logiche non sono “asserzioni” che significano qualcosa; solo l’affermazione di un’implicazione ha un significato [...]. Non abbiamo bisogno di chiederci se “A∨¬A” significhi sempre il valore di verità “vero”; ci chiediamo invece quali possibilità ha qualcuno di produrre la sequenza “|– A∨¬A”»55. Poiché per molti calcoli non esiste alcuna procedura di decisione, «si può solo consigliare a ognuno di abbandonare al più presto questa “strategia” [cioè il tertium non datur]»56. Il criterio dialogico configura in ultima istanza la logica come un comportamento argomentativo che dev’essere ricostruito razionalmente, le cui regole e le cui figure non sono teoreticamente vere o false, ma pragmaticamente necessarie allo scopo di condurre, in un numero finito di passi, una strategia di successo (Gewinnstrategie) per un’asserzione o un insieme di asserzioni. Di conseguenza, né le lingue «naturali» da un lato, né gli assiomi convenzionali dall’altro possono circoscrivere lo spazio logico dell’uso dei segni, poiché solo una modellizzazione del dialogo è in grado di offrire le procedure di decisione riguardo alla verità di un asserto. Ora, dal fatto che lo spazio logico dipenda da procedure modellizzabili in un dialogo, si possono ricavare due importanti considerazioni. In primo luogo, benché la logica costruttiva e dialogica, soprattutto riguardo alla richiesta di finitezza della procedura di decisione, si avvicini al modello intuizionistico, non esiste per essa, in generale, uno «spazio logico» privilegiato. In altri termini, la definitezza dialogica che corrisponde alla logica effettiva o intuizionistica, non esclude la definitezza semantica o in base al valore di verità tipica della logica classica, ma al contrario la include come un suo caso particolare. Infatti il dialogo non vincola i contenuti, ma indica le strategie della loro possibile costruzione: se, come accade nella logica classica, una proposizione o un’inferenza è caratterizzata dalla cosiddetta «stabilità semantica» (¬¬A→A, duplex negatio affirmat), oppure è decidibile in un contesto di bivalenza (A∨¬A, tertium non datur), allora essa può essere assunta in un dialogo come schema di asserzione. Questa stabilità può essere tuttavia introdotta – nota Lorenzen – solo attraverso una radicale modificazione del 54
P. Lorenzen, Logik und Agon, cit., p. 3. Ivi, p. 7 sg. (corsivo nostro). 56 Ivi, p. 8. 55
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gioco dialogico «effettivo» grazie alla quale al proponente sia concesso di recuperare le sue precedenti affermazioni per retroagire sulle stesse conoscenze esibite dall’opponente; in tal modo «P e O non si fronteggiano più come nemici, ma sono in grado di discutere assieme riguardo ai possibili percorsi del gioco», sostituendo al rapporto agonale un colloquio dialettico57. «Risulta perciò chiaro – conclude Lorenzen – che l’interpretazione ope57 Cfr. Ibid. Si veda anche K. Lorenz, Logik, dialogische, cit., p. 646. A questo proposito, è bene osservare che una proposizione si dice «stabile» quando «segue logicamente», ovvero è implicata dalla sua doppia negazione (cfr. G. Wolters, Stabilitätsprinzip, in EPW, IV, p. 77). Tuttavia, mentre nella logica classica la stabilità riguarda le proposizioni affermative (cioè ¬¬A→A), nella logica intuizionistica sono al contrario «stabili» solo le proposizioni negative (vale a dire ¬¬¬A→¬A). Ciò dipende dal fatto che, mentre nella prima una proposizione (A) è sempre vera o falsa, nell’intuizionismo essa è vera nel caso in cui se ne possa esibire una dimostrazione, falsa se invece c’è una dimostrazione che non esiste una dimostrazione di A (confutazione). È dunque ovvio come, rispetto a insiemi infiniti o a procedure non calcolisticamente decidibili, la nozione di «esistenza» risulti ambigua, poiché un conto è dire che c’è («esiste») una dimostrazione oppure una confutazione – ossia una dimostrazione della negazione –, altro conto è invece dire che non è (operativamente) possibile condurre una dimostrazione, né positiva né negativa: si tratta infatti di un terzo caso, contrassegnato dall’indecidibilità, che la logica classica non considera. In breve, mentre quest’ultima si limita ad affermare che la verità corrisponde all’esistenza di un oggetto o di uno stato di cose in un contesto, la logica intuizionistica o effettiva si chiede invece come facciamo ad arrivare a decretare tale esistenza; dal punto di vista procedurale, è la stessa differenza che si dà tra l’affermare che esiste una risposta a un problema e invece giungere effettivamente a una determinata risposta. Dal punto di vista operativo, la logica classica concepisce quindi i suoi oggetti non come risposte a problemi, ma solo come astratte posizioni di esistenza. In una simile prospettiva, si comprendono anche i contorni entro cui si muove la critica intuizionista al principio del terzo escluso e al principio classico di stabilità o «doppia negazione». Il primo non vale in generale non solo perché non può esercitarsi su domini infiniti, ma anzitutto perché non è «sempre vero», nel senso della definitezza dimostrativa (Beweisdefinitheit; cfr. P. Lorenzen, Metamathematik, cit., p. 21). Nella logica classica esso è al contrario logicamente valido, cioè tautologico, perché la definitezza verofunzionale (Wert- o Wahrheitdefinitheit), non interessandosi delle procedure dimostrative che riguardano le singole proposizioni, permette di considerare sempre vera l’intera disgiunzione A∨¬A, mentre per l’intuizionista tale principio significa esclusivamente che almeno uno, tra A e ¬A, può essere dimostrato: ci basta quindi giungere alla risposta A (oppure non-A) per rendere valida la disgiunzione. Tuttavia, questa condizione sufficiente non è per ciò stesso anche necessaria: se A è operativamente falso – cioè confutabile – non è detto che non-A sia «vero», cioè dimostrabile. Per quanto poi riguarda il principio classico di stabilità, esso giunge ad affermare che sia l’introduzione, sia l’eliminazione della doppia negazione (cioè, rispettivamente, A→¬¬A e ¬¬A→A) costituiscono tautologie simmetriche, mentre dal punto di vista operativo può essere ammessa solo la sua introduzione. Infatti, se A è dimostrabile, allora è certamente impossibile provare che non esiste una dimostrazione di A; ma se non c’è una dimostrazione che non esiste una dimostrazione di A, non è possibile concludere che esista una dimostrazione di A. Si può tuttavia eliminare operativamente la doppia negazione di fronte alle proposizioni negative (¬¬¬A→¬A): infatti, una confutazione (¬A) si presenta non solo nel caso che si dia una dimostrazione che non c’è una dimostrazione di A, ma anche se non c’è una dimostrazione che non esiste una dimostrazione della confutazione. Ora, secondo Lorenzen questa complessa articolazione, che distingue la logica classica da quella effettivo-intuizio-
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nistica, trova un chiarimento proprio nell’effettività della logica dialogica, la quale, pur distinguendo nettamente il modello intuizionistico da quello classico, permette una trasformazione reciproca dei due modelli o, come egli dice, una loro composizione dialettica, approfondendo la nozione di «dimostrazione» che il dialogo permette di articolare – di volta in volta – come «implicazione» tra figure o schemi proposizionali, oppure come «derivazione» in base all’introduzione o all’eliminazione di regole d’inferenza. Il modello dialogico lorenziano – di cui qui consideriamo solo i caratteri tecnici fondamentali – si compone infatti di regole generali di strutturazione (anche chiamate «regole d’inquadramento» (Rahmenregeln)) e di regole speciali di argomentazione (cfr. K. Lorenz, Logik, dialogische, cit., p. 643). Le prime stabiliscono il ruolo e le funzioni del proponente e dell’opponente nel dialogo, nonché gli attacchi ammessi e gli obblighi di difesa per tutti i connettivi e i quantificatori logici. Le seconde riguardano invece i diversi sistemi logici che si possono costruire a partire dalle prime, in particolare il sistema effettivo-intuizionistico e il sistema classico. Tuttavia, mentre il sistema intuizionistico è, per così dire, «naturalmente» effettivo, il sistema classico dev’essere reso effettivo mediante l’introduzione nel sistema intuizionistico di regole argomentative supplementari. A tal fine, il sistema dialogico parte dal sistema intuizionistico per metterne in luce l’effettività e renderla disponibile o «aperta» rispetto al sistema classico. In primo luogo, la dimostrazione non si conclude in un’intuizione, ma – conformemente alla «teoria dei giochi» – nella fissazione di una «strategia di successo» tra due o più interlocutori (cfr. K. Lorenz, Dialogspiele als semantische Grundlage von Logikkalkülen, cit., p. 100; V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 75). Da quest’ultima, infatti, dipendono la verità e la falsità logica che possono articolarsi in quattro aspetti di prova e confutazione, vale a dire: a) se il proponente è in possesso di una strategia di successo del dialogo riguardo a un’asserzione inizialmente posta, allora l’asserzione è universalmente dimostrabile o logicamente vera; b) se l’opponente è in possesso di una strategia di successo contro l’asserzione del proponente, potendo così impedire a questi di vincere il dialogo, allora tale asserzione è particolarmente confutabile; c) se, nel corso del dialogo, l’opponente non si limita a contrapporsi, ma assume a sua volta il ruolo del proponente ed è in possesso di una strategia di successo per la sua asserzione, allora questa è particolarmente dimostrabile; d) se, infine, il proponente originario è in possesso di una strategia di successo contro l’asserzione proposta dall’opponente, allora tale asserzione è universalmente confutabile o logicamente falsa (cfr. V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., p. 75 sg.). Ora, in base a una simile articolazione dialogica, si può ad esempio dimostrare che: 1) principio di non-contraddizione (¬(A∧¬A)) è universalmente dimostrabile (e dunque vale anche per la logica effettivo-intuizionistica); 2) il principio del terzo escluso (A∨¬A) è solo particolarmente dimostrabile e particolarmente confutabile (ossia, solo in casi particolari esso vale anche per la logica effettivo-intuizionistica); 3) la negazione del terzo escluso (¬(A∨¬A)) è invece universalmente confutabile (il che non significa – si badi bene – «universalmente dimostrabile», cfr. ivi, pp. 76-79; P. Lorenzen, Metamathematik, cit., pp. 21-24). Una volta stabilite dialogicamente le strategie di successo e le modalità di prova e di confutazione, per passare alla determinazione effettiva della logica classica occorre sostituire la regola d’inquadramento effettivo-intuizionistica (effektive Rahmenregel) – in base alla quale non c’è alcuna difesa contro un passo dialogico che termina con una negazione e quindi decade per l’avversario ogni possibilità di difendere asserzioni che sono state attaccate prima della negazione (principio di impossibilità di «recupero dialettico» di un’asserzione) – con l’aggiunta del principio di stabilità per le proposizioni affermative (cfr. supra). Tuttavia, quest’ultimo non viene introdotto come figura o schema di asserzione (¬¬A→A, dove → significa «implica logicamente»), ma come regola (¬¬A⇒A, dove ⇒ significa invece che «si può concludere A a partire da ¬¬A»; cfr. G. Wolters, Stabilitätsprinzip, cit. p. 77 sg.). Così, offrendo la possibilità di rimpiazzare ogni asserzione – incluse quelle «primitive» – con la loro doppia
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rativa della logica ci permette di comprendere la legittimità dei punti di vista di entrambi i partiti, degli intuizionisti e dei classici. A seconda che i partner di una conversazione intendano parlare l’uno contro l’altro oppure l’uno con l’altro, la logica più adeguata è quella eristica [intuizionistica] oppure quella dialettica [classica]»58. In secondo luogo – e in conseguenza di quanto abbiamo appena osservato –, se da un lato la configurazione dialettica che la logica classica può assumere all’interno del dialogo rimanda allo sforzo platonico di imporre alla conoscenza una «disciplina» che ne garantisca il sicuro procedere, ponendo così in primo piano il momento del metodo, dall’altro permette una netta separazione delle questioni sintattiche e in senso lato linguistiche da quelle semantico-contenutistiche, la cui «decisione» viene rinviata a una teoria della conoscenza che nessuna logica può esaurire. Si danno infatti due possibilità: o le proposizioni primitive vengono introdotte come intuizioni, e allora – anche prescindendo dall’oscurità che avvolge la nozione di intuizione – occorre una ben determinata teoria della conoscenza in cui tale nozione assuma un senso; oppure sono introdotte in modo classico come assiomi vero-funzionalmente definiti, ma allora anche all’interno del dialogo non vi è per esse alcuna effettiva procedura di decisione riguardo al loro significato. Mentre la dialettica nel suo uso distruttivo, cioè attraverso la confutazione o argumentum e contrario, dà origine a un calcolo logico completo e rigoroso nel momento in cui prova la falsità dei principi e delle proposizioni primitive (secondo lo schema tesi-antitesi), essa non è invece in grado di fornire tale calcolo nel suo uso costruttivo, vale a dire quando si tratta di provarne la verità. In quest’ultimo caso, infatti, lo schema dicotomico-aporetico – esemplarmente rappresentato dal metodo platonico dell’«approssimazione» eidetica – non fa che riproporre in modo sempre più circostanziato le iniziali formulazioni tetico-antitetiche, le quali conducono a una «sintesi» solo come limite di convergenza all’infinito di contrarietà tra loro complementari. In ultima istanza, la logica dialogica, nella misura in cui i suoi criteri metodologici possono al massimo essere riformulati in senso «dialettico», non supera la definizione dei connettivi proposizionali, delle negazione, al proponente è concesso di ripetere o di recuperare a piacere la difesa di ogni passo precedente nel percorso di argomentazione. Lorenzen e Lorenz notano come, rispetto alla strategia «forte» dell’effettività intuizionistica, determinata solo dal meccanismo della sequenza operativa, l’effettività classica risulti più «debole» (cfr. K. Lorenz, Dialogische Rechtfertigung der effektiven Logik, cit., p. 206), in quanto richiede l’acquisizione di una «memoria» ovvero di un «sapere» che, come una sorta di accumulo di esperienza conoscitiva, consenta al proponente di «ritornare sui propri passi». Ma a ben vedere questo è precisamente lo spirito che caratterizza la costruttività della dialettica platonica rispetto ad ogni «argomento eristico». 58 P. Lorenzen, Logik und Agon, cit., p. 8.
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regole di derivazione e di implicazione. Se dunque si vuole che il disciplinamento metodico dell’argomentazione possa fungere da autentico fondamento del sapere, bisogna metter mano a una critica della conoscenza, ovvero a una «propedeutica logica» il cui scopo sia la ricostruzione razionale degli ambiti e delle forme del discorso conoscitivo. È a questa nuova e più ampia formulazione della logica lorenziana che ora ci rivolgeremo. 2.4. Dal dialogo ai «fondamenti» della predicazione Due sono gli aspetti in cui Lorenzen articola la teoria costruttivistica della conoscenza: il primo riguarda il linguaggio, il secondo ha invece a che vedere col metodo o «capacità di ragione». A questa distinzione corrispondono due diversi percorsi attraverso cui egli sviluppa la sua critica razionale: la fondazione linguistica è l’oggetto prevalente delle indagini – condotte insieme a Kamlah – della «Propedeutica logica» del 1967 (poi ampliate e in parte rivedute nella seconda edizione del 1973); la fondazione metodica ha invece una trattazione più articolata e diffusa che, pur rientrando in parte nella prima, accompagna l’insieme della riflessione lorenziana dalla metà degli anni Sessanta fino alla fine degli anni Ottanta, toccando questioni etiche ed epistemologiche del costruzionismo metodico di cui ci occuperemo nel terzo capitolo. Queste due questioni sono a loro volta vincolate a una ricognizione genetica che riguarda la nozione stessa di «fondazione», vale a dire: com’è possibile restituire alla filosofia un compito di natura fondazionale, pur riconoscendo che non vi è una base dell’agire umano che vada al di là del linguaggio, delle forme di conoscenza e, in una parola, della vita? Allo stesso modo, com’è possibile una giustificazione della verità pur ammettendo che non vi è alcuna garanzia del vero che sia in grado di procedere oltre l’accordo di una comunità di parlanti? Il riconoscimento dell’«inaggirabilità» della vita vale senza dubbio come rifiuto di qualsiasi assunzione astratta della soggettività, posta prima della storia, del linguaggio e dell’esperienza, ma – e questo è il punto – in quanto tale essa deve forse valere anche come riconoscimento dell’imprescindibilità delle consuetudini, della tradizione e delle particolari modalità di esistenza del soggetto stesso? A ben vedere, la negazione della fondazione si lega non tanto al rifiuto, in generale, di una nozione di soggettività in qualche modo indipendente dall’esperienza concreta, ma al giusto rifiuto – presente nelle più recenti tendenze fenomenologico-esistenziali ed ermeneutiche – di una reificazione della soggettività. Ora, il fatto che sia impossibile pensare a un soggetto prima della vita, ossia un soggetto ontologicamente definito in tal senso, coinvolge solo in parte la questione della sua indipendenza dall’esperienza. Quest’ultima non è infatti, per Lorenzen, una questione ontologico-teoretica, ma anzitutto pratica, nel-
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la misura in cui l’indipendenza non è la «proprietà» di un ente, ma il risultato di un processo di differenziazione mediante il quale – ad esempio – il soggetto è in grado di liberarsi dalla situazione e perciò anche da ciò che è semplicemente tradizione ed evento che lo costringe entro un determinato punto di vista. Così, di fronte al richiamo gadameriano a ricondurre ogni ontologia e i rispettivi universi semantici alle situazioni ermeneutico-esistenziali che li definiscono, bisogna rispondere evidenziando il rischio di «fallacia trascendentale» in cui la stessa ermeneutica incorre nel momento in cui si propone come una teoria della molteplicità dei codici59. In effetti, nota Lorenzen, ogni interpretazione si richiama a un inizio che non le appartiene, un inizio formato da azioni, scopi, procedimenti costitutivi che, pur situandosi in una connessione d’esperienza, ne consentono una trasformazione e, in alcuni casi, un inquadramento totalmente nuovo. Una volta stabilita l’impossibilità di trovare un «punto zero assoluto» del processo di fondazione – una sorta di neo-cartesianesimo metafisico da cui, singolarmente, anche le concezioni neopositivistiche, col loro appello all’esperienza in senso fisicalistico e comportamentistico, risultano affette60 –, si tratta di ricercare le condizioni preparatorie per un nuovo inizio precisamente nella più evidente manifestazione dell’insormontabilità della vita, vale a dire nel linguaggio. Tuttavia – si badi bene – non è qui in gioco la questione dell’«essenza» del linguaggio: la logica preparatoria non vuole cercare l’inizio del disciplinamento metodico dell’esperienza individuando eventuali «universali linguistici» comuni ad ogni forma dell’agire umano. Infatti, la nostra condizione esistenziale di «immersione» nel fenomeno linguistico ci impedisce di adottare a tal riguardo un atteggiamento riflessivo: noi – notano Kamlah e Lorenzen – «dobbiamo già da sempre parlare»61 e, di conseguenza, ogni filosofia che si presenti come analisi del linguaggio o, meglio, come sua oggettivazione, deve fare i conti con le condizioni stesse che, originariamente, ne decidono ogni possibilità di senso. Questa precomprensione o «circolo della riflessione» risulta evidente tutte le volte che consideriamo i risultati delle più recenti scienze comparate del linguaggio, in cui lo studioso, partendo dal suo peculiare universo linguistico, cerca di penetrare nelle categorie semantiche di altre civiltà. Una simile indagine – come aveva sottolineato Benjamin Whorf – conduce a un duplice risultato, apparentemente contraddittorio: da un lato corrobora la tesi del relativismo linguistico e della funzione determinante del linguaggio nei confronti del mondo vissuto, che si presenta così come un «universo semanticamente chiuso» rispetto ad altri mondi; dall’altro, proprio costrin59
Cfr. LP, p. 27. Cfr. ivi, p. 21. 61 Ivi, p. 14. 60
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gendo lo studioso a rompere i suoi schemi semantici, mette in luce la funzione dinamica ed extrateoretica della comprensione che, in questo caso, non può appellarsi alla funzione esplicativa del «pensiero» e delle sue strutture concettuali (nella misura in cui queste sono, circolarmente, determinate dalle parole), ma deve anzi ricorrere alla ricostruzione del rapporto tra l’uomo e l’universo degli «eventi» che lo circondano, il quale non si definisce certo in termini di mera «rappresentazione», bensì di azione e reazione, di causa ed effetto, di condizioni materiali e di «finalità» che garantiscono la sua sopravvivenza nella natura e la buona riuscita delle sue relazioni interpersonali62. Il linguista «comprende» dunque il diverso non tanto immaginando un nuovo significato di un segno, ma cercando d’individuare l’uso dei segni rispetto agli scopi operativi del gruppo umano in cui essi sono stati introdotti. La relatività linguistica e la sua insormontabilità, in quanto frutto di una determinata proiezione intellettuale sul fenomeno originario, non compromettono di conseguenza la ricerca di un fondamento comune dell’agire umano, il quale consisterà, per l’appunto, non già nell’assimilazione dei suoi molteplici prodotti contingenti – necessariamente vincolata al modello teoretico-grammaticale in cui si esplica la «razionalità» dell’interprete – ma nella fissazione delle modalità e delle condizioni operative a cui ogni linguaggio, come forma d’azione, deve attenersi. Peraltro, una simile razionalità pratica si configura come criterio esplicativo della stessa razionalità «teoretica» che caratterizza il linguaggio nelle culture occidentali. «Il microcosmo europeo – osserva Whorf – ha analizzato la realtà soprattutto in termini di quelle che chiama “cose” (corpi), oltre ai modi dell’esistenza estesa ma informe che chiama “sostanze” o “materia”. Esso tende a vedere l’esistenza attraverso una formula binomia che esprime ciò che esiste come una forma spaziale più un continuo spaziale informe connesso alla forma, come il contenuto è connesso alla sagoma del suo contenitore. Agli esistenti non spaziali, spazializzati nell’immaginazione, vengono attribuite analoghe implicazioni di forma e continuità»63. In una simile prospettiva, se da un lato la nostra struttura grammaticale – guidata dalla dicotomia nome/verbo che si esprime nella proposizione elementare composta da soggetto, copula e predicato – condiziona senza dubbio la segmentazione concettuale tra l’intuizione, che coglie l’oggetto nella sua singolarità, e il pensiero discorsivo, che s’incarica invece di stabilire le relazioni tra gli oggetti – così come la separazione tra termini astratti (generali) e concreti (particolari) –, dall’altro bisogna osservare che tale «abitudine» all’oggetti62 Cfr. B.L. Whorf, Language, Thought, and Reality, M.I.T. Press, Cambridge (Mass.), 1956, trad. it. di F. Cianfaloni, Linguaggio, pensiero e realtà, a cura di J.B. Carroll, Boringhieri, Torino, 1970, pp. 41 sgg. 63 Ivi, p. 113.
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vazione definitoria non è il frutto di un’interazione tra linguaggio e pensiero, ma piuttosto tra il binomio pensiero-linguaggio, come unità indissolubile, e la realtà in quanto correlato oggettuale di tale unità, laddove un simile correlato si presenta per noi come un insieme di «cose» e di «momenti» solo in seguito a determinate esigenze pratiche (identificazione, classificazione, misurazione, quantificazione ecc.) che nella nostra civiltà hanno finito per prevalere64. Questo vale, in modo simile, anche per altre civiltà in cui, ad esempio, il mondo non si presenta come un insieme di «cose», ma come un insieme di eventi: anche per esse non si tratta di stabilire quale termine, tra pensiero e linguaggio, sia a fondamento di una determinata concezione della realtà, ma anzi quale realtà, operativamente intesa, renda possibile la sua stessa riproduzione linguistica e concettuale. Su questa base – notano Kamlah e Lorenzen – siamo ora in grado di proporre un «nuovo inizio» che non faccia ricorso né a definizioni concettuali o assiomatiche, né a considerazioni storiche o culturali: è infatti sufficiente assumere un punto di vista in cui non siano ancora a disposizione le parole necessarie per tali formulazioni, una situazione, cioè, «in cui ancora noi non sappiamo cosa siano “realtà” o “coscienza”, “soggettivo” o “filosofico”, “elettrone” o “concetto” [...] e così via»65. Ovviamente, tali parole sono già a disposizione nel linguaggio ordinario, e in questo senso non possiamo porci, con la nostra situazione originaria, «dietro» di esso. Si tratta piuttosto di comprendere la distinzione e la relazione tra tale linguaggio e quello scientifico o tecnicamente costituito. Ora – come abbiamo poc’anzi osservato – ogni linguaggio, anche quello che impropriamente chiamiamo «naturale», è senza dubbio opera umana, frutto in generale di una tecnica o «arte» che si esprime nella prassi concreta della nominazione del mondo66. Ma il linguaggio tecnico in senso stretto, che ritroviamo sia nelle scienze naturali (fisico-matematiche, chimico-biologiche e applicate), sia nelle scienze culturali, si distingue da quello cosiddetto ordinario o naturale per il fatto di derivare da un’operazione costituitiva consapevolmente pianificata67. Rispetto al linguaggio rigorosamente tecnico, potremmo dunque intendere il linguaggio ordinario in una duplice funzione, vale a dire o come linguaggio esplicativo (Erläuterungssprache) – allo stesso modo in cui, ad esempio, le parole servono al maestro di musica per spiegare o correggere la tecnica di esecuzione durante una lezione di piano – oppure come linguaggio che, nella sua inaggirabilità, manifesta una capacità fondamentale dell’uomo, ossia la
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Cfr. ivi, pp. 124 sgg. Cfr. LP, p. 22 sg. 66 Cfr. ivi, p. 23. 67 Cfr. ibid. 65
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condizione del poter-parlare (Sprechenkönnen)68. Nel primo caso ci troveremmo nella medesima situazione della generazione dei numeri e dei rapporti matematici a partire da atti di giustapposizione di segni e di introduzione di regole: noi non conosciamo certo alcun linguaggio naturale in cui non siano già implicite espressioni elementari di numerazioni e di calcolo; tuttavia potremmo immaginare una situazione iniziale cui non compaiono termini numerici e nella quale questi vengono introdotti attraverso azioni di ripetizione di segni. Il linguaggio naturale servirebbe qui come strumento esplicativo per l’uso di tali segni, allo stesso modo in cui, ordinariamente, si ricorre ad esso per spiegare la corretta esecuzione di un brano musicale. Ciò nondimeno, un simile schema di produzione operativa dei significati si rivela inadeguato per cogliere il rapporto tra il linguaggio naturale e le sue specificazioni tecniche. Infatti – continuano Kamlah e Lorenzen – «non possiamo immaginare alcun linguaggio naturale in cui non compaiano già parole e proposizioni, in cui non siano già note ed esercitate delle azioni [...]. Così, non abbiamo alcuna ragione valida per non presupporre come già in atto l’impiego di termini come “parola” o “proposizione”»69. Di conseguenza, esso non può spiegare ciò che è già in uso nel suo contesto, benché si tratti, per l’appunto, di un uso «ordinario» e non «tecnico». Al maestro di scuola propedeutica che voglia seguire passo a passo la formazione metodica del linguaggio, non rimane dunque che la seconda alternativa, ossia ricostruire – appellandosi a ciò che è già noto e in atto – le condizioni in base alle quali possa realizzarsi un’azione linguistica, «in un modo che ci autorizzi alla convinzione – per così dire – di assistere alla sua data di nascita in un momento successivo»70. Ciò implica che il «nuovo inizio», di cui la propedeutica logica s’incarica, non possa far ricorso a una definizione discorsiva delle regole e delle nozioni concettuali; d’altra parte essa non intende nemmeno affidarsi a un’enigmatica fonte intuitiva che sancisca l’«evidenza» dei nuovi assiomi. Si tratta piuttosto di ricorrere direttamente alla prassi operativa e alle situazioni esemplificative in cui regole e nozioni si mostrano, mettendosi in un certo senso nei panni del maestro elementare che ripercorre le tappe fondamentali di un primo avviamento alle forme del discorso razionale. Cominciamo dunque con una semplice azione linguistica di tipo deittico che, ad esempio, si svolge in un contesto d’istruzione musicale, come quello in cui il maestro dice all’allievo: «Questo è un fagotto»71, mentre gli mostra lo strumento. Si noti che non avremmo potuto cominciare da una proposi68
Cfr. ivi, p. 25. Ibid. 70 Ibid. 71 Ivi, p. 27. 69
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zione elementare composta da un sostantivo che funge da soggetto e un attributo che funge da predicato come: «La rosa è rossa», poiché essa presuppone un’azione deittica in cui le parole «rosa» e «rosso» siano già state introdotte con il loro riferimento oggettuale. La nostra azione linguistica non ha dunque ancora nulla a che vedere con l’introduzione di categorie grammaticali (sostantivi, aggettivi, verbi, soggetti, predicati ecc.), ma solo con i procedimenti operativi tramite cui si assegna una parola a un oggetto, nei quali cioè viene introdotto un predicatore72. Quest’ultimo, infatti, a differenza del semplice «predicato» – puntualizzano Kamlah e Lorenzen richiamandosi alle osservazioni svolte a tal riguardo da Rudolf Carnap73 –, non è una parte proposizionale, ma una modalità espressiva (Wortart) che, attraverso esempi e controesempi, guida l’apprendimento dell’uso delle parole e può quindi stare anche al posto del soggetto grammaticale74. Inoltre, l’esclusione metodica del piano grammaticale comporta la non considerazione, in via preliminare, del problema semantico: non abbiamo qui a che fare con significati, ma con procedimenti di assegnazione (Zusprechen) o non-assegnazione (Absprechen) di termini che, nella fattispecie, si rivelerebbero indispensabili nell’apprendimento di una seconda lingua. Ciò spiega perché, dal punto di vista costruttivo, la conoscenza si configuri come un «imparare» (Kennenlernen) in cui, mediante la differenziazione delle assegnazioni, accanto ad atti di affermazione si pongono sempre atti di negazione. Solo nel differenziare io posso negare: infatti la non-assegnazione di un predicatore appare immediatamente come negazione di quel predicatore. Anche l’assegnazione negativa o non-assegnazione viene così appresa, assieme all’assegnazione affermativa, tramite esempi e controesempi. Nello stesso modo, sulla base di un’asserzione in cui un predicatore è assegnato o no a un oggetto, potremmo costruire una nuova asserzione in cui i predicatori «vero» o «falso» vengono aggiudicati all’asserzione iniziale che compare come oggetto di second’ordine, e così via75. Ora, la prima considerazione che emerge dalle analisi fin qui condotte nell’ambito della propedeutica logica è che solo l’introduzione di predicatori, di cui ancora non sappiamo che cosa essi «significhino», rende possibile una regressione o «ricostruzione» dei fondamenti del linguaggio e della conoscenza. Se il loro significato ci fosse noto, se cioè esso emergesse nella loro stessa enunciazione, allora sarebbe valida l’obiezione di «circolarità» della fondazione, poiché non potremmo ricorrere ad alcun atto di predicazione 72
Cfr. ivi, p. 28. Cfr. R. Carnap, Meaning and Necessity. A Study in Semantics and Modal Logic (1947), 2a ed., University of Chicago Press, Chicago, 1956, p. 6, trad. it. di A. Pasquinelli, Significato e necessità, La Nuova Italia, Firenze, 1976, pp. 9 sg. e 18 sgg. 74 Cfr. LP, p. 29. 75 Ivi, p. 30. 73
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che non fosse già implicito nella ragion d’essere delle parole stesse o, come dice Lorenzen, nei criteri di giustificazione o di «diritto» che ne determinano la comparsa76. In secondo luogo, la fondazione operativa fa sì che il criterio di apprendimento delle parole non sia disgiunto da quello delle cose e del mondo. Il problema corrispondentistico, che cerca di ristabilire l’unità a partire dalla separazione tra linguaggio e mondo, viene di conseguenza risolto o, meglio, escluso ante litteram, poiché l’introduzione del linguaggio, proprio in quanto vincolata ai «predicatori d’uso» (Gebrauchsprädikatoren), rende in ogni caso immediatamente comprensibile il suo riferimento semantico. In ultima istanza – concludono Kamlah e Lorenzen – noi apprendiamo contemporaneamente le parole e gli oggetti corrispondenti, e così impariamo a distinguerli da altre parole e da altri oggetti77. L’immediatezza attraverso cui il predicatore consente l’«introduzione» del linguaggio sottrae alla proposizione il suo valore logico-paradigmatico, che ricade invece sulla forma dell’asserzione. Proprio in quanto quest’ultima è operativamente più originaria della proposizione, anche l’atto che sta a fondamento dell’intera logica tradizionale – vale a dire quello di eleggere il senso della proposizione a criterio per decidere dei contenuti e dei limiti dell’ontologia – risulta inscrivibile in una più ampia struttura operativa che sorregge l’insieme delle modalità di accesso la mondo. In questa prospettiva, la logica enunciativa lorenziana pone in rilevo le ambiguità presenti nell’operativismo proposizionale di Wittgenstein, nella misura in cui questo da un lato rimane ancora legato a una concezione «raffigurativa» della proposizione78 e, dall’altro – proprio per accogliere al suo interno la più complessa dinamica percettiva dell’evento –, sembra recepire, in un senso opportunamente modificato, la dottrina stoica dell’inferenza. Infatti, mentre l’ontologia della «cosa» (in termini whorfiani: della semantica fondata sulla relazione tra nome e verbo) trae alimento dalla trasposizione tematica dell’energia specifica degli organi di senso, in particolare della vista, la quale consente la strutturazione dianoetica della simultaneità attraverso cui si presenta la relazione intraproposizionale, l’ontologia dell’«evento», proprio in forza della sua maggiore primitività, si mostra invece legata alla «cinestesi» di base che, nella forma della successione operativa, rimanda alle radici della vita senziente stessa. Ora, questa maggiore primitività dell’evento trova un’adeguata espressione precisamente nella matrice arcaica della logica stoica, in cui la semantica non emerge dal solo riferimento denotativo-cosale (designatum) del segno o della composizione di segni, ma soprattutto dal discorso (logos) nella 76
Cfr. ivi, p. 31. Cfr. ivi, p. 30. 78 Cfr. V. Richter, Untersuchungen zur operativen Logik der Gegenwart, cit., pp. 18 sgg. 77
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sua piena accezione significativa, vale a dire come integrazione tra senso connotativo (lekton) e riferimento denotativo. Ciò spiega altresì perché la genesi operativa della semantica lorenziana – proprio nel richiamarsi a tale matrice – debba ricorrere a un atto basilare di indicizzazione di tipo cinestetico ed esemplificativo: non essendo legato alla posizione tematica della cosa, ma al senso dell’evento in cui si presenta l’esperienza mondana della conoscenza, il significato non può prodursi che attraverso una rappresentazione mimetica di quest’ultima, nella misura in cui – in ultima istanza – anche la validità della sua trasposizione dianoetico-tematica dev’essere sempre riconducibile al senso interno, connotativo e immateriale, del discorso. Il senso immateriale che sta a fondamento della materialità dell’azione non solo non è quindi una «funzione» delle cose designate, ma neppure della proposizione intesa come puro fatto segnico; esso rimanda anzi alla teleologia intenzionale che l’asserzione sviluppa all’interno dei differenti contesti pratici di vita. Sulla base della «forma dell’asserzione», siamo ora per la prima volta in grado di sollevare il linguaggio dalla sua aderenza al contesto storico di una certa tradizione. Infatti, dal momento che l’introduzione di predicatori è determinata dalla necessità dell’«impossessamento pratico» del mondo, il «linguaggio», a cui tende la propedeutica logica, si pone immediatamente come interlinguale: la sua comprensione, in ultima istanza, non dipende più dalla specificità dei linguaggi storici79. Così, ad esempio, il nome proprio, a prescindere dal suo riferimento alla cosa o al fatto complesso, rimpiazza nelle diverse lingue l’azione deittica e, presentificando immediatamente il suo oggetto, rende il discorso indipendente dalla concreta situazione del parlare80. Il nome comune – come aveva già notato Frege – è invece insaturo, è un posto vuoto o una variabile: «albero» vuol dire «x è un albero», cioè rientra in un’asserzione in cui ha luogo un processo d’identificazione81. In questo senso, la forma elementare dell’asserzione, in cui la copula non sorregge più l’intero assetto logico, ma compare solo come un caso particolare dell’assegnazione positiva o negativa di un predicatore (rispettivamente: «x e P», «x e’ P»)82, sancisce il divieto di trattare il termine «oggetto» come un predicatore. Infatti, l’asserzione «x è un oggetto» non indica alcuna assegnazione, ma solo la ripetizione di un’assegnazione già avvenuta per assiomatizzazione (come: «l’oggetto x è un oggetto»)83. Tuttavia – come abbiamo visto – nella logica operativa un assioma non indica propriamente al79
Cfr. LP, p. 38. Cfr. ivi, p. 32. 81 Cfr. ivi, p. 32 sg. 82 Cfr. ivi, p. 35. 83 Cfr. ivi, p. 39 sg. 80
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cun’azione, ma solo il limite non-operativo di un’assunzione per principio. Ora, questa particolare «trasformazione al limite» è da un lato espressione del fatto che di una simile asserzione non è possibile una ricostruzione razionale, vale a dire un’introduzione mediante esempi e controesempi84 e, dall’altro, è indice di un netto smarcamento della propedeutica logica dalla logica classica del concetto, in cui i predicati, intesi come essenze o categorie, possono essere reificati, individuati o definiti indipendentemente da ciò a cui si applicano. In fin dei conti, dunque, la struttura operativa della nozione di «predicatore», da cui è assolutamente escluso il termine «oggetto», non la rende affatto – come potrebbe sembrare – una semplice condizione della comparsa al suo interno di «predicati», ma la avvicina piuttosto – ancora una volta – alla nozione megarico-stoica di kategorema o «predicamento», quale espressione incompleta e, soprattutto, non-indipendente dall’asserzione a cui appartiene e dalla quale non può mai venire separata, pena l’alterazione del significato. Poiché nell’asserzione così concepita il soggetto e il predicamento formano un’unità inscindibile, l’introduzione del termine «oggetto» – puntualizzano Kamlah e Lorenzen – è sempre sinsemantica, in modo simile al tode ti aristotelico o all’haecceitas scotista85; si tratta cioè di un «pronome dimostrativo allungato» di cui è impossibile parlare altrimenti che in senso metaforico o tautologico86. La declinazione «categorematica» impressa alla forma dell’asserzione, consente ora di precisare meglio il rapporto tra linguaggio e mondo. Richiamandosi sia alla corrispondenza humboldtiana tra la «diversità delle lingue e la diversità delle visioni del mondo», sia alla qualificazione «empratica» attraverso la quale Karl Bühler intende cogliere il nesso tra i significati e le azioni che contraddistinguono il nostro «vivere in comune»87, Kamlah e Lorenzen intravedono nell’«apertura linguistica» del mondo – ben espressa nel fatto che il mondo si dà «già da sempre» nel linguaggio88 – non tanto una generica impossibilità di trascendere con la nostra conoscenza l’atto di predicazione, quanto piuttosto un’occasione per riflettere sul significato che viene ad assumere ogni configurazione sistematica di cose che si proponga come una «totalizzazione» dell’esperienza. In modo simile alla parola «oggetto», anche la parola «mondo» è sinsemantica, talché l’impossibilità di porre un mondo al di fuori del linguaggio non costituisce di certo un divieto ontologico o metafisico, ma piuttosto una violazione della struttura logica, di tipo pratico-categorematico, dell’asserzione. È infatti solo in base 84
Cfr. ibid. Cfr. ivi, p. 40. 86 Cfr. ivi, p. 41. 87 Cfr. ivi, p. 48. 88 Cfr. ivi, p. 45. 85
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all’assunzione della logica tradizionale, di matrice categoriale, che il mondo può apparire come un «insieme» o «composizione» di cose89. In questa logica, il soggetto è sempre riducibile al predicato e, come tale, esso rientra o nel novero delle «idee» (è questo il caso dell’idea del mondo in senso kantiano, come totalità infinita e inesauribile), oppure nella matrice del semplice calcolo (come avviene nella visione meccanicistica del mondo in quanto «somma» di parti). Tuttavia, proprio nella logica categoriale si presenta un caso che fuoriesce dalla riduzione del soggetto al predicato: si tratta dell’individuo empirico che appare ineffabile e, come tale, viene rimandato al principio d’individuazione psicologico o metafisico – ma comunque mai logico – dell’intuizione. Viceversa, l’impostazione categorematica lorenziana, ricomprendendo in sé l’intuizione come principio metodico, fa sì che il soggetto proposizionale «mondo», dovendo comparire al tempo stesso come predicamento, non possa mai esprimere una categoria o un genere ricavato per totalizzazione, bensì solo il riferimento a un substrato individuale che si può indicare in modo esemplare. Ciò implica che il concetto generico di «mondo» non debba mai comparire come soggetto e che, di conseguenza, espressioni come «il mondo», «il mondo è bello», «Dio ha creato il mondo», «questo mondo è il migliore dei mondi possibili» ecc.90, siano prive di significato nella misura in cui il segno d’indicazione («questo», l’«oggetto», la «specie» ecc.) non è legato a un individuo esemplarmente definito. Inoltre, il fatto che il mondo sia sempre un mondo individuale, non ci impedisce, a livello metaforico, di parlarne in generale come di una categoria; ma l’aspetto più importante che emerge dalle osservazioni di Kamlah e Lorenzen dev’essere colto nel capovolgimento della relazione ordinaria tra linguaggio logico e linguaggio metaforico: è ora il primo a riguardare l’individuo, mentre il secondo inerisce al genere. 2.5. Il linguaggio e la teoria dell’astrazione Una volta inscritta la forma generale della proposizione all’interno della «facoltà di parlare» – dove quest’ultima designa la proprietà del discorso di porsi come «schema d’azione» in virtù del quale la comprensione non viene ridotta a un mero atto intellettuale, ma anzi estesa alla capacità di attivazione di un processo intersoggettivo guidato dall’esibizione e dall’uso dei segni –, risulta immediatamente evidente che, per quanto universale si ponga una simile facoltà come espressione della ragione umana, di fatto essa è, nei suoi singoli contenuti, direttamente dipendente dal contesto pratico in cui han-
89 90
Cfr. ivi, p. 49. Cfr. ivi, p. 52.
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no luogo sia il momento deittico, sia il momento «dimostrativo» dell’uso91. È questo il caso, in particolare, del linguaggio ordinario o «naturale», in cui le parole non sono concepite per mantenere un significato costante, né finalizzate sempre allo stesso impiego. Ora, ciò che distingue un linguaggio scientifico da un linguaggio naturale è precisamente il fatto che nel primo le parole compaiono in un impiego normato il quale, nell’indicare la costanza del significato, dà origine a una terminologia volta a stabilire i confini semantici di una determinata scienza. Propriamente, dunque, i «termini» sono predicatori normati, cioè predicatori di un linguaggio scientifico92. Come le parole ordinarie, anche i «termini» scientifici dipendono dal contesto d’uso, ma al tempo stesso lo generano e ne prescrivono rigorosamente le condizioni di senso. Questo dipende dal fatto che tra i partecipanti a un discorso scientifico è necessario un accordo preliminare riguardo all’impiego di un termine, vale a dire: per procedere a una ricostruzione razionale del linguaggio, anche i termini scientifici devono essere introdotti attraverso esempi e controesempi, ma con la differenza, rispetto alle parole del linguaggio ordinario, che in essi compare la cosciente esecuzione dell’azione volta all’introduzione di una norma. In sostanza, per evitare l’equivocità tale introduzione deve avvenire a priori, sebbene supportata da una metodologia «esemplare»93. Una simile invarianza e relativa indipendenza dei termini rispetto al contesto, oltre a potersi esprimere – come abbiamo visto – in modo dialogico, consente la costruzione di definizioni che non sono altro che regole attraverso cui vengono associati tra loro dei predicatori esemplarmente introdotti, in modo da consentire – come già d’altra parte aveva notato Aristotele – una lettura reversibile o «per conversione» dei predicatori stessi94. Da ciò segue che «invarianza», «indipendenza» e «definizione» non sono altro che caratteri attraverso cui, nel linguaggio scientifico, un termine e il suo significato vengono «sottratti» alla variabilità della forma enunciativa e all’equivocità dell’esperienza, vale a dire il modo mediante cui si pone il problema del concetto e dell’astrazione. Per Kamlah e Lorenzen, un concetto non è né una formazione di pensiero come contenuto mentale, né il «riferimento» di tale contenuto, cioè un oggetto che si manifesti come un modo d’essere non empirico o «generale», ma è il segno di un termine che consente di fare su di esso asserzioni invarianti per quanto riguarda la sinonimicità95. Questa matrice semiologica del concetto consente di fissare il senso interno dell’opera91
Cfr. ivi, pp. 64 sgg. Cfr. ivi, p. 70. 93 Cfr. ivi, p. 71. 94 Cfr. ivi, pp. 78 sgg. 95 Cfr. ivi, p. 87. 92
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zione di generalizzazione non tanto riguardo a un evento mentale o a una realtà oggettiva, ma piuttosto riguardo al discorso come luogo «inaggirabile» della genesi del significato96. Il concetto è la «x» che, indipendentemente da ogni riferimento empirico o ideale, soddisfa le condizioni richieste dal discorso per essere significativo. Pertanto, rispetto alla materialità della forma scritta e fonetica, nonché della relazione simbolica e del contesto empirico in cui essa si manifesta, il concetto deve dirsi immateriale pur non essendo mentale, poiché è anzi una funzione della costruzione sinonimica di un termine, a cui l’asserzione deve far riferimento per garantire l’identità del significato. Ora, un simile processo di costruzione sinomimica, da cui proviene il concetto, è ciò che qualifica in senso proprio l’astrazione. Questa è un’attività che non consiste nell’isolare proprietà essenziali di un oggetto, né nella fissazione di un nome a cui, per convenzione, si attribuisce una funzione di universalizzazione, ma si realizza nella determinazione di un’uguaglianza intensionale in base all’introduzione esemplare di predicatori e di regole per costruire definizioni97. A questo riguardo, Lorenzen nota che il termine «sinonimo» è un predicatore a due posti che svolge una funzione di metapredicatore rispetto a predicatori di livello inferiore, tra i quali viene stabilita una relazione di corrispondenza semantica sotto forma di un’equazione98. Questa riduzione dell’identità concettuale all’uguaglianza predicativa è una diretta conseguenza della struttura categorematica della proposizione, per cui il concetto non è frutto di un’intuizione psicologica o di una sottrazione di proprietà (che, come tali, possono sempre essere reificate), ma il prodotto di una relazione tra proposizioni in un discorso che si presenta come «esterno» rispetto ad esse. Solo il discorso consente dunque esplicite ed esemplari introduzioni di regole dei predicatori. Questo nasce evidentemente dal riconoscimento che il riferimento extralinguistico di un termine (la cosa, l’essenza o il concetto) non è sufficiente per esaurirne il significato: oltre a ciò, esso ha infatti una componente intensionale, data dal senso espresso dalla proposizione nel suo rapporto con altre proposizioni. In tale prospettiva possiamo anche introdurre i termini «genere» e «specie» come forme di astrazione: se «x è P» comporta che «x è Q», allora introduciamo la metapredicazione: «“Q” è più generale di “P” e “P” è più speciale di “Q”»99. Parimenti, possiamo introdurre l’incompatibilità o l’opposizione contraria, così come l’opposizione contraddittoria (vero-falso), oppure l’op-
96
Cfr. ivi, p. 89. Cfr. ivi, p. 88. 98 Cfr. ivi, p. 86. 99 Cfr. ivi, p. 73. 97
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posizione contraria in senso polare, in cui, cioè, un termine «relativo» richiede l’altro per esser compreso: piccolo-grande, corto-lungo ecc.100 La teoria lorenziana dell’astrazione, proprio in virtù del suo carattere intensionale, si configura quindi come un recupero dei modi significandi o suppositiones come basi per distinguere il linguaggio scientifico da quello naturale. Così, ad esempio, se facciamo asserzioni su un termine che sono invarianti rispetto al suo mutante significato, parliamo della sua forma enunciativa (ad esempio: «La parola “porta” è bisillaba»), e utilizziamo il predicatore in suppositio materialis. Invece, quando un predicatore è attribuito a un oggetto in modo invariante rispetto alla variabilità della sua forma fonetico-verbale, allora abbiamo una «proprietà», cioè lo utilizziamo in suppositio personalis101. Infine, se il predicatore emerge come il risultato di un’uguaglianza sinonimica, allora è impiegato in suppositio simplex sotto forma di concetto; quest’ultimo, in quanto significato categorematico – e, si badi bene, non «categorale» – di un termine, è dunque un modello rispetto al quale si precisa qual è, in generale, l’area semantica di una parola. Tale significato è senza dubbio, nel suo riferimento, estensionale o denotativo, ma trae origine da un processo di astrazione che consiste nella normazione, epistemicamente finalizzata, di un più riposto significato connotativo. Ora, nel linguaggio ordinario, a differenza del linguaggio scientifico, i concetti non sono mai rigorosamente normati, poiché i significati, sottraendosi alle regole delle suppositiones, si mantengono nella loro forma connotativa; questo spiega sia le difficoltà della traduzione letterale da una lingua all’altra, sia il fatto che, mentre nei sistemi scientifici le regole dei predicatori valgono in modo esplicito e interlinguale, ciò non accade invece per i sistemi del linguaggio naturale102. La forma dialettica che nell’operazione astrattiva lega significato estensionale e significato intensionale si può evidenziare anche riguardo al rapporto tra la nozione di «concetto» e quella di «classe». Nella logica tradizionale, il primo è spesso assimilato alla seconda in virtù della struttura denotativa del significato. Ma se ora consideriamo la sua genesi operativa, il concetto viene «riattivato» nel processo di astrazione: qui esso indica il significato intensionale di un termine, mentre la classe ha una struttura estensionale; tant’è vero che possiamo avere un concetto di classe, ma non una classe del concetto. Infatti, un predicatore significa intensionalmente un «concetto di classe» quando è ad un posto, un «concetto di relazione» quando è a n ≥ 2 posti, ed estensionalmente significa: nel primo caso una classe,
100
Cfr. ivi, p. 74. Cfr. ivi, p. 92. 102 Cfr. ivi, p. 90. 101
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nel secondo una relazione103. Il passaggio da un predicatore a una classe ha così luogo tramite un’astrazione: quando due predicatori sono estensionalmente uguali, essi significano la stessa classe di oggetti; ma l’uguale estensione dipende dal fatto che i predicatori sono stati preventivamente considerati sinonimi in base all’intensione, cioè che si è proceduto alla reductio ad unum tramite un’equazione104. Da ciò segue inoltre che un insieme (Menge), non è un oggetto concreto, ma anch’esso il risultato di un’astrazione. La stessa azione di astrazione da cui provengono i numeri è simile a quella da cui si originano i concetti. È infine solo l’astrazione, semiologicamente fondata, che ci permette di passare dalle asserzioni (Aussagen) agli stati-di-cose (Sachverhalten) da esse rappresentati105. L’assetto semiologico del concetto e dell’astrazione getta ora una nuova luce sul problema del rapporto tra segno e significato. L’errore fondamentale a tal riguardo consiste nel considerare i significati come oggetti che si danno anzitutto indipendentemente dai segni, ad esempio nella forma di idee eterne, di costruzioni mentali nell’anima o di prodotti dell’intelletto divino. Lo stesso errore fanno coloro che, pur non riducendo il significato dei segni a idee o rappresentazioni, colgono in esso il riferimento a oggetti concreti, secondo la relazione signum-res: il segno «albero» sta per l’oggetto albero106. Ora, la prima obiezione è che l’albero come oggetto concreto è un individuo, ossia è un albero; così il predicatore, che deve poter essere attribuito a più cose, viene in questo modo trasformato in un nome proprio. In verità – notano Kamlah e Lorenzen – anche quel segno che viene considerato non diversamente da un autentico nome proprio, tale cioè da esprimere – come vuole Frege – una relazione biunivoca tra sé e l’oggetto, configura sempre uno schema d’azione che offre la possibilità di ripetute «attualizzazioni»107. Si potrebbe anzi dire che un nome proprio è tanto poco una cosa concreta quanto poco lo sono tutti gli altri segni, siano essi linguistici o no. Infatti, l’enunciazione del nome «Socrate», anziché svolgere un’indeterminata funzione di rappresentanza, esprime piuttosto un invito all’interlocutore a rappresentarsi l’oggetto Socrate come qualcosa a cui si possono attribuire dei predicatori. Non si tratta dunque di enunciare attraverso il nome una «relazione» tra il segno, la rappresentazione e la cosa. In questa prospettiva, il rapporto tra nome e cosa si configura come quello di un automobilista che, attraverso schemi di azione indicativa (Zeigehandlungsschemata), fa comprendere agli 103
Cfr. ivi, p. 93. Cfr. ibid. 105 Cfr. ivi, p. 94 sg. 106 Cfr. ivi, p. 96. 107 Cfr. ivi, p. 96 sg. 104
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altri automobilisti che «al prossimo incrocio volterà a destra»108. In ogni caso – concludono Kamlah e Lorenzen – non giungiamo mai a un significato che sia indipendente da ogni segno; tuttavia, quando diciamo che il significato di un segno non «precede» il segno, così come un oggetto – astratto o concreto – precede invece la sua rappresentazione mentale, non vogliamo dire che nulla sia a fondamento del segno: ciò implicherebbe la riduzione della conoscenza a una semiologia trascendentale che si rivela affetta dagli stessi limiti che emergono dalla logica trascendentale kantiana, in cui l’apriori si definisce in base ai criteri della logica tradizionale109. Una teoria generale dei segni richiede infatti un sistema di relazioni (sintassi) e un codice ermeneutico in grado di far sorgere una semantica; ma allora è anzitutto necessaria una logica già costituita, cioè una logica formale in grado di tenere insieme i diversi «piani» linguistici della teoria. Si tratta evidentemente di un formalismo logico ottenuto per assiomatizzazione, che – come abbiamo visto – contraddice ai requisiti costruttivi e dimostrativi della logica operativa. Ora, una fondazione non assiomatica del segno può essere ricavata proprio considerando l’agire umano e il modo in cui esso articola le strutture conoscitive. L’uomo opera in base ai bisogni, biologici e culturali, che si presentano nel suo contesto di vita; dunque il segno è preceduto dal bisogno o dalla necessità di intendersi su qualcosa che appartiene a tale contesto. A sua volta, il segno così generato retroagisce sui bisogni vitali, producendone dei nuovi o articolando quelli già esistenti. Per questa ragione – richiamandosi ancora una volta a Wittgenstein e a Whorf110 – Kamlah e Lorenzen possono sostenere che il significato di un segno non è un oggetto concreto o qualcosa di spirituale; nella propedeutica logica è stato infatti semplicemente ricostruito un possibile significato dell’espressione d’uso «segno»: in tal senso, esso si è mostrato come un predicatore dell’agire umano. Inoltre, il significato del segno, che comprende sotto di sé la parola, il termine e il concetto, si è rivelato come uno schema d’azione, cioè un’invariante rispetto alle proprietà particolari o «concrete» dell’agire umano111. Da tutto ciò si ricava che ogni asserzione che possiamo fare riguardo a un termine è un’«astrazione», nella misura in cui lo connota all’interno di una situazione112. 108
Cfr. ivi, p. 97. Cfr. ivi, p. 92 sg. 110 Cfr. ivi, pp. 99 e 67. 111 Cfr. ivi, p. 99 sg. 112 Cfr. ivi, p. 101. A questo riguardo, è bene osservare che la relazione inversa rispetto all’astrazione, vale a dire la concretizzazione, non riproduce l’astrazione in termini di operazione inversa. Questo significa che dall’uguaglianza sinonimica del concetto non è possibile passare alla diversità assoluta (omonimica) dell’individuo, poiché occorre introdurre il predicatore dell’«esistenza» che non è ricavabile da un’equazione tra le proprietà intensionali. Infatti 109
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Se la virtualità semantica dell’astrazione si fonda su uno schema d’azione che permette l’uguaglianza sinonimica, allora ogni predicazione dipende da una funzione che è contenuta in questo schema, vale a dire da un astrattore. Così, ad esempio, il concetto di «rivoluzione», in quanto predicatore di un fatto o di un insieme di eventi, è un abstractum che è reso possibile dall’introduzione del termine «concetto» come astrattore; allo stesso modo sono astrattori le parole: «fatto», «numero», «stato di cose», «classe» ecc., nella misura in cui non vengono attribuite ad oggetti, ma indicano come dev’essere intesa un’asserzione113. Dunque gli astrattori non sono predicatori, anche se possono essere impiegati come tali, ad esempio, quando diciamo: «“rivoluzione” è un concetto». Si noti tuttavia che una simile asserzione può essere effettuata solo in base all’impiego preventivo del termine «concetto» come astrattore. Infatti, ciò che essa intende non è una generica assegnazione della nozione in esame a entità di specie particolare che mostrino il contrassegno dell’«universalità» o dell’«idea», bensì la delimitazione effettiva del termine, il suo ambito di applicabilità, il quale, nella fattispecie, ci consentirebbe di dire: «il termine “rivoluzione” può rivolgersi solo alla modernità»114.
l’esistenza non è un membro di tale equazione, ma piuttosto il suo «quoziente»: essa è – per dirla con Frege – quel numero maggiore di zero che deve spettare agli elementi di un insieme per poter avere proprietà intensionali. Come tale, l’esistenza è un metapredicato o, in termini operativi lorenziani, un metapredicatore; se invece la trattiamo come un semplice predicato ne risulta che, per concretizzazione a partire da un concetto (ad. es.: di «animale»), potremmo anche ricavare individui empiricamente inesistenti, sebbene del tutto esistenti in un contesto non-empirico o fantastico. A tal proposito, è bene sottolineare come ogni operazione possa aver luogo solo in base a determinate condizioni di esperienza; ma mentre l’astrazione presuppone tali condizioni, la concretizzazione può modificarle, ovvero ricostruirle in base a una metabasis categoriale che introduce il predicatore di «esistenza» laddove, nel processo inverso, esso non compariva. È qui che interviene l’intuizione metodica che consente di mantener dritta la barra della sequenza operativa attraverso l’indicazione di regole ammissibili e inammissibili volte a impedire ogni metabasis. Si riproduce in questo caso il divieto, tipico della logica intuizionistico-operativa, di eliminazione della doppia negazione per ottenere un’affermazione: se affermiamo che «non-p» (ad esempio, che non esistono liocorni) e dalle condizioni di esperienza così delimitate ricaviamo per astrazione il concetto di animale, non è allora possibile ottenere la concretizzazione dell’individuo «liocorno» (la sua «esistenza») per semplice relazione inversa della negazione; essa infatti sarebbe conseguibile solo mediante un’operazione che destruttura il quadro empirico di riferimento, ad esempio con l’introduzione di un principio di verificazione che sia indipendente dalla zoologia e dalla tassonomia animale e che, nel caso particolare, appartenga ai bestiari della tradizione medioevale. Ciò dipende appunto dal fatto che, in termini operativi o «dimostrativi», dalla negazione della non-esistenza non è possibile ricavare l’esistenza per semplice «funzione di verità». 113 Cfr. LP, p. 102. 114 Ibid.
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2.6. Verità e realtà Assieme a predicatori e astrattori, nella propedeutica al discorso razionale compaiono anche termini che non si riferiscono a oggetti, ma alle stesse asserzioni: essi sono il «vero» e il «falso»115. Tuttavia, dal punto di vista formale, vero e falso possono essere intesi come predicatori che vengono attribuiti agli oggetti «asserzioni», e ciò dipende dal fatto che, formalmente, il significato di un termine si riduce alla sua estensione o denotazione. Se invece consideriamo la prospettiva intensionale di questa predicazione, vale a dire l’operazione che essa «intende», risulta subito chiaro perché l’asserzione non possa essere l’«oggetto» del vero: non se ne possono offrire (esibire) esempi e controesempi, poiché la sua connotazione non supporta la funzione indicativa. Infatti, il controesempio dell’asserzione: «il fiore è rosso», che potremmo in generale esprimere come «il fiore non è rosso», non dice nulla circa la sua verità o falsità fino a quando non sia stato esibito un criterio di relazione dianoetico, vale a dire connotativo, tra i predicatori «fiore» e «rosso». Il predicatore «vero» non ha dunque nulla a che vedere con una semplice operazione di designazione, ma esprime la pretesa a una valutazione della designazione116: il suo oggetto non è il fatto o la cosa, ma il correlato noematico del segno. Ora, la funzione di tale correlato, cioè la «verità», non può essere decisa né dalla struttura del segno, secondo un principio di coerenza, né dall’oggetto secondo un principio di corrispondenza, bensì unicamente dal fatto che noi attribuiamo «con diritto» un predicatore a qualcosa quando anche ogni altro soggetto, che parla il nostro linguaggio e conosce le cose attraverso un esame accurato, conferisce ad esso il medesimo predicatore117. Non si intenda ciò come la riduzione del problema della verità a una semplice «teoria del consenso»118: quello che importa non è l’accordo a cui si perviene, ma il processo attraverso il quale lo si costituisce. Ritorna anche in questo caso il criterio della definitezza dialogica, per cui è la strategia operativa a decidere della bontà del risultato; e se anche alla fine ci sarà colui che ha ragione e colui che invece ha torto, ciò non dipenderà da un’assunzione di principio, ma dalla condivisione di un percorso comune, fondato sul riconoscimento delle «ragioni» dell’altro. Ricordiamo sempre che per Lorenzen il dialogo indica una procedura finita, il cui risultato è determina115
Cfr. ivi, p. 117. Cfr. ivi, p. 121. 117 Cfr. ivi, p. 118 sg. 118 Come sembra invece accreditare S. Strasser, Zur Konsensustheorie der Wahrheit. Eine kritische Studie im Zusammenhang mit Kamlahs und Lorenzens „Logische Propädeutik“, in H. Kohlenberger, hrsg. von, Die Wahrheit des Ganzen, Herder, Wien/Freiburg/Basel, 1976, pp. 53-64. 116
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to, oltre che dalle assunzioni iniziali, anche dallo scopo che esso si prefigge, allo stesso modo in cui, ad esempio, attraverso tecniche di produzione di utensili per la manipolazione dei corpi fisici, lo scienziato riceve istruzioni pratiche per la produzione di forme spaziali che, successivamente, egli riterrà come proprietà empiriche e oggettive di tali corpi119. Otteniamo così la definizione di «uomo razionale»: egli è colui che, attraverso la nominazione degli oggetti, è aperto al partner del discorso e non determina le proprie asserzioni semplicemente attraverso le sue emozioni o l’assunzione di tradizioni e abitudini120. La possibilità di un dialogo razionale e della sua «verità» è in sostanza legata alla verificazione interpersonale, concetto con il quale Lorenzen esprime la legittimità e l’autorizzazione di un interlocutore all’attribuzione di un predicatore121. Tale legittimità si ricava in primo luogo dalla formulazione di domande e ipotesi che vanno razionalmente esaminate, nella misura in cui è solo a partire da queste che sorge la possibilità di determinare l’adeguatezza dei predicatori impiegati nelle asserzioni. In ultima istanza – notano Kamlah e Lorenzen – l’accordo cercato non dipende dalla condivisione preliminare di un «modello» di razionalità, ma da ciò che nel linguaggio socratico si dice omologia e che consiste – di nuovo – nell’imparare l’applicazione dei predicatori per mezzo di esempi e controesempi122. Vero e falso dipendono dunque dall’esplicita ricostruzione dell’impiego di questi predicatori, sempre col vaglio critico della ragione. Questo non significa che ciò sia avvenuto di fatto, ma che deve poter accadere di diritto, poiché «verità» – concludono Kamlah e Lorenzen opponendosi alla nozione heideggeriana di «disvelamento» – è sempre verità nel discorso, ammissibilità nella costruzione del dialogo123. Ora, se la verità esprime la funzione del correlato noematico come oggetto di una verificazione interpersonale, lo stato di cose (Sachverhalt) esprime invece il contenuto (Inhalt) di questo correlato, in modo simile a quello che Frege chiamava il «pensiero» (Gedanke)124. Tuttavia, secondo Kamlah e Lorenzen – a differenza di quanto sosteneva Frege – la configurazione dello stato di cose nella forma del pensiero e del suo contenuto non è di per sé 119 Infatti, i termini introdotti in base a tali tecniche e metodi di produzione per indicare le forme (ad es.: «retta», «piano», «ortogonale» ecc.) rendono possibile una definizione di congruenza che regoli l’uso dei corpi rigidi allo scopo di misurare le lunghezze. La questione della struttura dello spazio empirico viene cioè risolta con un sistema di norme che prescrivono le caratteristiche degli strumenti di misurazione. Le «proprietà» dello spazio non sono dunque empiricamente determinate, vale a dire stabilite mediante la misurazione, ma rappresentano i risultati dell’azione umana rivolta alla costituzione della scienza. 120 Cfr. LP, p. 119. 121 Cfr. ivi, p. 121. 122 Cfr. ivi, pp. 121, 123, 124. 123 Cfr. ivi, p. 129. 124 Cfr. ivi, p. 132.
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sufficiente a garantire il senso o la «connotazione» di una proposizione, poiché esso si presenta piuttosto come un oggetto astratto al pari del numero o del concetto. Ne segue che, come accade per i termini usati per questi ultimi, anche il termine «stato-di-cose» è un astrattore125. In quanto oggetto astratto, lo stato di cose è immateriale, ma non nel senso di ciò che l’operazione astrattiva intende – e in cui, come abbiamo visto, la logica operativa coglie l’autentica funzione connotativa –, ma come ciò che da essa viene inteso, vale a dire il significato denotativo della relazione noematica. D’altra parte, lo stato di cose è un indice dell’invarianza e, soprattutto, della rilevanza in cui diversi enunciati trovano accordo; ad esempio, come quando diciamo che «concretamente (sachlich), le affermazioni di diversi testimoni si corrispondono»126. Così, accanto all’aspetto immateriale della denotazione noematica, esso presenta anche quell’aspetto materiale del contenuto che sottende la forma enunciativa; una siffatta duplicità materiale/immateriale costituisce l’«immagine» o «fantasma oggettuale» dell’intero processo discorsivo, come ciò a cui l’attivazione significativa mette capo. Mentre infatti – concludono Kamlah e Lorenzen – «parliamo del “significato” degli schemi linguistici (morfemi, parole, espressioni), parliamo invece del “contenuto” del discorso attuale»127. Questo implica, ancora una volta, che per comprendere il significato dei primi dobbiamo comunque sempre riferirci all’azione retrostante «contenuta» nel discorso complessivo; in altri termini: legare uno schema linguistico a un significato non vuol sempre dire di averlo «compreso». Solo la comprensione del discorso ci consente di stabilire che diverse proposizioni o schemi rappresentano lo stesso stato di cose. Così, il linguaggio normato non può essere ricavabile dalla singola figura linguistica perché se è vero che ogni enunciato logicamente equivalente è anche equivalente riguardo al contenuto – dove per «logicamente equivalente» dobbiamo intendere l’assunzione del medesimo sistema di regole che determina la struttura interna della proposizione (ad esempio, la possibilità di convertire la forma attiva in passiva e viceversa) –, d’altra parte non ogni enunciato equivalente per contenuto è equivalente anche nella forma logica128.
125
Cfr. ivi, p. 132. Cfr. ivi, p. 132. 127 Cfr. ivi, p. 131. 128 Cfr. ivi, p. 134. A tal riguardo, Lorenzen e Kamlah fanno l’esempio di un processo in cui quattro testimoni vengono messi a confronto attraverso le loro asserzioni: 1. «Il primo dell’anno ho visto come M. ha picchiato sua moglie»; 2. «M. picchia sua moglie ogni giorno»; 3. «Ogni giorno la signora M. viene picchiata da suo marito»; 4. «Il primo dell’anno M. ha colpito sua moglie con una cintura di cuoio». Solo gli enunciati 2 e 3 sono logicamente equivalenti, ma tutti e quattro sono equivalenti per contenuto; essi infatti presentano il medesimo stato di cose: «M. picchia sua moglie» (cfr. ibid.). 126
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Lo «stato di cose» esprime l’effettività o materialità del contenuto attraverso la rilevanza, ma può non essere in sé effettivo o vero. Nel nostro esempio, tutti i testimoni possono convergere sul medesimo stato di cose, ma essere ingannati riguardo al fatto, e perciò non dire la «verità». Ora, ciò che distingue uno stato di cose da un «fatto» (Tatsache) è precisamente che solo l’asserzione vera lo rappresenta129. A questo punto, però, sembrano sorgere due questioni apparentemente irresolubili all’interno della logica operativa fin qui delineata. Anzitutto, dal momento che i fatti costituiscono gli «stati di cose effettivi» (rispetto ai quali essi sono sinonimi), essi dovrebbero anche pretendere l’indipendenza da qualsiasi forma espressiva e rappresentativa, la qual cosa pare riproporre da capo l’antico modello della «corrispondenza» tra i fatti e le asserzioni vere, eliminando il concetto operativo di verità ottenuto attraverso il linguaggio. In secondo luogo, i testimoni che convergono sul medesimo stato di cose sembrano rappresentare precisamente quel criterio di verificazione interpersonale che per Lorenzen è a fondamento della «verità»; ma allora non si può sostenere che essi «si ingannano», cioè che la verità corrisponde al fatto come stato di cose effettivo o «esterno» rispetto allo stato di cose come «contenuto» del discorso. Alla prima questione si può rispondere sottolineando che «i fatti non sono indipendenti da ogni genere di discorso umano, ma solo da determinate asserzioni, nella misura in cui essi possono essere rappresentati mediante asserzioni diverse (così come può esserlo qualsiasi stato di cose)»130. L’equivoco – nota Lorenzen richiamandosi a König – nasce da un’errata interpretazione della funzione rappresentativa del linguaggio, che non è certo quella della raffigurazione o della riproduzione, nello stesso modo in cui, ad esempio, una fotografia o un ritratto «rappresentano» una persona. In realtà, mentre quest’ultima è indipendente dall’immagine raffigurata, lo stato di cose o i fatti non sono indipendenti dalle asserzioni tramite cui vengono «rappresentati». Essi non sono cose che «si trovano» prima o in ogni caso «all’esterno» degli enunciati veri, poiché «non possiamo indicare un fatto come facciamo con un fagotto e dire “questo è un fatto”»131. Come l’asserzione, anche il fatto e lo stato di cose possono essere solo oggetto di una metapredicazione, ad esempio dicendo: «questo è un fatto sicuro» o «questo è un fatto deplorevole». Il fatto è quindi un abstractum al pari del concetto, e il termine «fatto» è un astrattore: come quello è sempre «concetto di...»,
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Cfr. ivi, p. 136. Ivi, p. 136 sg. 131 Ivi, p. 137. «Si può parlare di “questo fatto” solo nel modo in cui si parla di “questo concetto”» (ibid.). 130
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così questo è «il fatto che...»132. L’abitudine del linguaggio ordinario a identificare la nozione di fatto con quella di «fatto concreto» deriva, nella sostanza, dall’impostazione empiristica del pensiero moderno, per la quale solo ciò che è sensibilmente concepibile può costituire il fondamento sicuro di ogni vera conoscenza. Ciò conduce all’ulteriore sovrapposizione tra «fatto» ed «evento» (Ereignis). Quest’ultimo è qualcosa di indipendente da noi, così come lo è la comparsa di certe cose nella natura. Ma non appena ci dirigiamo verso di esso e su di esso facciamo asserzioni, diventa un fatto, ad esempio: se l’evento «la Guerra dei sette anni» viene introdotto all’interno di un’asserzione, può trasformarsi nel fatto «che la Prussia ha vinto la Guerra dei sette anni»133. In conclusione, il fatto concreto è solo una modalità particolare della sua nozione, vale a dire quella in cui l’esperienza sensibile accredita la rappresentazione vera; ma in generale non c’è un oggetto dietro il fatto a cui la sua espressione linguistica o mentale debba corrispondere. Anche l’esperienza sensibile non entra nel «fatto concreto» come un’istanza esterna che ne stabilisca una corrispondenza con la realtà, bensì, al pari dell’espressione linguistica, essa lo costituisce come tale, vale a dire come se nell’immagine, nell’espressione, nel pensiero, nell’esperienza, fosse contenuta la realtà stessa. Ora, tale contenimento, di carattere rigorosamente operativo, è una funzione della verità stessa, sia nel senso del rapporto tra il «vero» da un lato e l’illusorio o ciò che si dice «oggetto fittizio» dall’altro, sia per quanto riguarda i diversi ambiti ontologici in cui si collocano i «fatti». Nel primo caso, un’asserzione non è vera perché rappresenta una sorta di «media relativa» tra le diverse opinioni, ma perché sostenuta dalla convinzione di rappresentare la cosa così com’è. Solo nella misura in cui viene determinata dall’in-sé dell’oggetto, l’asserzione rappresenta «veramente» il fatto. Ciò implica che in ogni asserzione si sostiene che l’oggetto sia rappresentato così com’è in realtà; il problema dell’accordo e dell’illusione nasce solo in seguito alla pretesa di verità che, costitutivamente, determina l’asserzione134. Se in un’asserzione, che in seguito si rivelerà un’illusione, non si fosse convinti di rappresentare la verità, significa che in questo caso il soggetto si è tenuto in un distacco critico di fronte alla sua asserzione o ha intravisto l’inganno: 132
Ivi, p. 137. A questo proposito, Lorenzen e Kamlah fanno riferimento anche a G. Patzig, Satz und Tatsache, in H. Delius, G. Patzig, hrsg. von, Argumentationen. Festschrift für Josef König, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1964, pp. 170 sgg. 133 Ivi, p. 137. 134 In tal senso, Lorenzen e Kamlah notano che noi possiamo «definire il termine “reale” solo per mezzo del termine “vero”, e non viceversa» (cfr. ivi, p. 138). Infatti, il termine «vero» dev’essere introdotto prima nel linguaggio allo scopo di normare lo stato di cose attraverso esempi e controesempi, per poi ricavare lo stato di cose effettivo (wirklicher Sachverhalt) da cui proviene la nozione di realtà (Wirklichkeit).
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comunque non si è lasciato illudere. Ciò che in seguito si presenterà come falso non è dunque per lui, in senso proprio, «illusorio». Per questa ragione, l’illusione non va confusa con l’oggetto fittizio; essa non è una proprietà della cosa, ma del carattere operativo dell’asserzione. Infatti l’oggetto fittizio può essere autentico o non illusorio senza, in ragione di ciò, essere reale ed effettivo, come nel caso della figura di un romanzo o di un’opera d’arte135. D’altra parte, dal momento che rispetto a simili oggetti ideali o fantastici possiamo fare asserzioni vere, anche per essi si può impiegare il termine «fatto», cosicché l’area semantica di quest’ultimo si estende ad ambiti ontologici che superano l’esperienza sensibile136. Siamo così in grado di rispondere anche alla seconda questione riguardo all’aporia che si genera tra la convergenza intersoggettiva e la possibilità – in essa sempre presente – dell’inganno o illusione. Questa convergenza non è una «definizione concettuale» del vero137; essa pone piuttosto un’istanza o esigenza che non consiste nel giungere a un accordo all’interno del linguaggio, bensì nel chiedersi come tale accordo possa essere ottenuto proprio in vista di qualcosa che, in quanto inseità oggettuale, si colloca al di fuori dei suoi criteri formali138. Da ciò consegue che la convergenza delle opinioni non costituisce il «luogo» o il «confine» del vero, ma unicamente lo strumento in base al cui impiego il «vero» assume un significato. Infatti la verità non ci può derivare né dalla realtà (che «non ci parla»), né dal semplice discorso enunciativo intersoggettivo (che può anche «girare a vuoto»), ma solo da quello spazio d’azione (Spielraum)139 – inizialmente tracciato in forma incoativa dai «termini» del nostro linguaggio ordinario – che, come contenuto materiale delle asserzioni, nel processo di confronto interpersonale può ampliarsi o restringersi, mettendosi così alla prova attraverso le capacità di confronto, di unione, di distinzione e di separazione espresse dalla ragione stessa140. È dunque in ultima istanza nella ragione che risiede il «criterio» della verità, poiché solo essa è in grado di normare l’uso dei termini in modo tale da lasciare intravedere l’ulteriorità degli oggetti e, dall’altro lato, di 135 Cfr. ivi, p. 141. Lorenzen e Kamlah sottolineano altresì che se enunciati falsi rappresentano sempre stati di cose fittizi, la conversa non vale, cioè stati di cose fittizi possono non essere falsi, ma più semplicemente si sottraggono al valore di verità. Ad esempio, l’asserzione: «La decima sinfonia di Beethoven ha solo tre tempi», non è né un enunciato falso, né senza senso, «ma è senza senso il tentativo di decidere riguardo alla sua verità o falsità» (ivi, p. 142). 136 Cfr. ivi, p. 140. 137 Cfr. ivi, p. 144. 138 Così, anche il problema della verità come adaequatio rei et intellectus non è una definizione del concetto di verità, ma esprime solo una determinata pretesa (cfr. ivi, p. 143). 139 Cfr. ivi, p. 144. 140 Cfr. ivi, p. 140: «Il fatto che non ci siano solo enunciati veri, che cioè, in quanto esseri viventi dotati di un linguaggio, possiamo ingannarci e fingere, è il segno che abbiamo un mondo ricco e ampio che possiamo sempre più estendere e arricchire».
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ricondurre tale ulteriorità all’interno del linguaggio come un suo contenuto intenzionale al tempo stesso connotativo e denotativo, manifestando così la tipica ambivalenza del nostro rapporto col mondo, in cui qualcosa che non è semplice «espressione» deve tuttavia presentarsi, di fronte alla nostra conoscenza, nel modo dell’espressione. Ora, poiché le proposizioni non pongono il vero e il falso in una sorta di spazio vuoto, ma vengono concretamente «affermate» o «contestate», il discorso razionale che le sottende si congiunge sempre alla verità in senso esistenziale, nella misura in cui la filosofia teoretica – come aveva intravisto Kant – deve trovare la propria continuazione nella filosofia pratica141. Così, i predicatori generali, detti tradizionalmente gli «universali», non appartengono solo alla forma teoretica delle scienze naturali, ma ne rivelano altresì, in senso letterale, il carattere nomotetico, vale a dire la capacità di porre quella «legalità» che ci serve per orientarci nel futuro e che può sorgere anche dall’osservazione di un singolo caso142. Mentre l’ontologia tradizionale tende a cogliere nell’«universale» l’occasione per fare affermazioni generali sul mondo – alimentando così le posizioni, solo apparentemente opposte, del dogmatismo e dello scetticismo143 –, l’ontologia che emerge dalla propedeutica logica, proprio in virtù della sua apertura linguistica al mondo, ammette invece affermazioni riguardo a quest’ultimo solo a partire da proposizioni particolari introdotte in senso esemplare, dalle quali ricava «schemi d’azione» (Handlungsschemata) che si pongono a fondamento degli «schemi di cose» (Dingschemata). Ciò che consente il passaggio tra i due è proprio l’universale, che consiste nella presentazione di schemi di produzione (Herstellungsschemata) in quanto casi particolari degli stessi schemi d’azione linguistica144. In tal modo, si generano produzioni normate di figure come avviene – ad esempio – nel caso della produzione di figure geometriche: qui ogni segno attuale si riferisce a uno schema di produzione ideale, verso cui esso tende. Tali riferimenti ideali non sono altro che le idee in senso platonico145. Ora, questi schemi ideali o modelli non sono affatto identici con i «concetti» a cui perveniamo quando parliamo di semplici «predicatori»; all’eidos giungiamo piuttosto se parliamo di azioni o della differenza attuale delle cose, dalle quali facciamo astrazione allo scopo di predisporre il loro schema come norma ideale. Ma se gli universali sono intesi come esistenti «prima» delle cose, le quali appaiono così sotto forma di mere attualizzazioni particolari dei loro schemi di produzione reificati, allora vi è realismo. 141
Cfr. ivi, p. 146 sg. Cfr. ivi, p. 172 sg. 143 Cfr. ivi, p. 148. 144 Cfr. ivi, p. 175 sg. 145 Cfr. ibid. 142
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Se invece gli universali sono «dopo» le cose, che appaiono come reificazioni di meri schemi d’azione linguistica, allora si presenta il nominalismo, in cui «si parla» solo delle parole o dei concetti146. In quanto schema d’azione, la proposizione è di per sé legata alla comunicazione; perciò la propedeutica logica trova nell’antropologia e nell’etica una sua naturale continuazione147. Su questo punto, Lorenzen e Kamlah si richiamano alla Sprachtheorie di Bühler, secondo cui le forme di comunicazione non si riferiscono solo a stati di cose e a fatti veicolati dai segni, ma implicano azioni – spesso sottaciute o «implicite» – che possono ricostruire il significato dell’informazione in un modo non ricavabile dal semplice rapporto tra i termini148. Così – ad esempio – per ogni proposizione predicativa inserita in un contesto dialogico e comunicativo, la sua semplice struttura logico-formale non rende ragione del passaggio dal nominatore al predicatore che tende invece a presentarsi come la comunicazione dell’ignoto a partire da ciò che è noto149. Certo, oltre alle proposizioni performative esistono anche enunciati unicamente rappresentativi e cognitivi che mostrano interesse alla «pura cosalità» (Sachlichkeit). Questo accade in modo particolare nella logica classica, che indaga schemi d’azione linguistica oscurando il contesto situazionale pragmatico-comunicativo. Tuttavia – come nota Bühler – la funzione rappresentativa del linguaggio risulta incomprensibile se non viene altresì connessa tanto alla funzione causale dell’«appello» quanto alla forma meramente espressiva della locuzione150. Bisogna dunque sempre tener conto che, nel suo fondamento umano, ogni discorso è azione, e ogni enunciato scientifico o filosofico fa parte di un dialogo il cui scopo principale è quello di esaminarne la validità. Questo non deve condurci a un ingenuo pragmatismo, ma deve anzi farci ricordare che l’azione espressa dalla proposizione è sempre legata ai caratteri operativi della «posizione», della «norma» e dell’«invarianza»151, i quali si presentano come criteri inderogabili per una compiuta propedeutica al discorso razionale.
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Cfr. ivi, pp. 41 sg., 176. Cfr. ivi, p. 188 sg. 148 Cfr. ivi, p. 198. 149 Cfr. ivi, p. 193. Lorenzen e Kamlah fanno a questo proposito l’esempio delle due proposizioni logicamente equivalenti: «La vecchia signora è malata» e «La signora malata è vecchia». Il loro contenuto comunicativo è evidentemente differente a seconda delle condizioni conoscitive in cui si trova l’interlocutore. Egli potrebbe infatti sapere da lungo tempo che la signora in questione è vecchia, ma, in base alla prima proposizione, venire solo ora al corrente del fatto che è malata. Dunque nel contesto comunicativo, a differenza di ciò che accade nella mera struttura formale logico-epistemica, non sempre soggetto e predicato sono sinonimi (cfr. ibid.). 150 Cfr. ivi, p. 198. 151 Cfr. ivi, p. 199. 147
Capitolo terzo Il pensiero metodico e la fondazione della teoria costruttiva della scienza
3.1. Il problema del metodo Nel corso della nostra discussione sulla fondazione linguistica del pensiero razionale, abbiamo evidenziato come ogni apertura conoscitiva del mondo tragga origine dall’introduzione di predicatori e di regole atte a stabilirne i confini semantici. Abbiamo anche osservato che queste regole e significati sono di tipo operativo, perché ogni possibile inizio di un processo di giustificazione e di riflessione sulla validità della conoscenza non può avere a che fare né con proposizioni, né con assiomi, ma solo con le modalità di azione (Handlungsweisen) che definiscono i limiti dell’oggettività conoscitiva. Quando dunque ci poniamo il problema della genesi ideale delle diverse forme del discorso razionale, quest’ultimo – come già aveva notato Dingler1 – dev’essere immediatamente ricondotto alla sua genesi metodica, vale a dire al senso dell’imposizione di norme e di regole che guidano tanto il linguaggio scientifico, quanto il linguaggio ordinario, nella misura in cui anche la semplice assegnazione di un predicatore è indice di una volontà di ordinamento del mondo in base a un inizio, uno sviluppo e una finalità. In questa prospettiva, due anni prima dello studio sulla Propedeutica logica, Lorenzen aveva pubblicato un denso saggio sul «Pensiero metodico» in cui, partendo da una citazione di Lichtenberg riguardo all’importanza del «come pensare» rispetto al «che cosa pensare», sottolineava la stretta connessione tra il problema metodico all’interno del costruzionismo e il criterio del «render ragione» (lÒgon didÒnai), presente sia nella domanda platonica sulla conoscenza, sia nel trascendentalismo kantiano, in opposizione all’impostazione assiomatica del più recente positivismo logico2. Tuttavia, quest’enfasi posta sul problema del metodo non deve secondo Lorenzen far dimenticare che ogni giustificazione si pone all’interno «del nostro pensiero in quanto prestazione umana; perciò, quando ci interroghiamo sul suo metodo, dobbiamo comunque cercare di comprendere anche questo metodo come una prestazione umana»3. È ora evi1
Cfr. supra, pp. 49 sgg. Cfr. P. Lorenzen, Methodisches Denken, cit., p. 24 sg. 3 Ivi, p. 25 sg. 2
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dente come una simile impostazione, derivante dalle tendenze ermeneutiche affermatesi alla fine dell’Ottocento e recentemente riproposte nell’opera gadameriana4, collochi la questione della giustificazione, e con essa quella della fondazione, di fronte a un vicolo cieco. Se infatti il problema del metodo che sorregge ogni forma di conoscenza dev’essere compreso all’interno dell’agire umano, allora esso risulta immediatamente dipendente dalle modalità della comprensione, la quale si presenta come un criterio di secondo grado. Dunque a ragione Gadamer, per evitare il regresso all’infinito della semantica conoscitiva, deve intendere il suo processo di giustificazione a partire da una struttura extrasemantica e, nella fattispecie, legata all’assetto extrametodico dell’ermeneutica. Questo significa che, portato al limite della prestazione umana, il criterio di secondo grado della «comprensione» sopprime lo stesso assetto metodico da cui è sorto. Ora, per uscire da una simile impasse non serve riproporre il razionalismo dogmatico delle scienze naturali, ma bisogna anzi assumere il presupposto ermeneutico nel suo senso più profondo e articolato. Infatti – nota Lorenzen –, da Dilthey e da Husserl, così come da Misch e da Heidegger, apprendiamo non solo una generica «circolarità» del nostro comprendere, ma anzitutto il fatto che «ogni pensiero è una stilizzazione superiore [Hochstilisierung] di ciò che già da sempre si compie nella vita pratica»5. Il nostro linguaggio si presenta così – per utilizzare una metafora – «come una nave su cui ci troviamo, una nave che non può mai fare scalo in un porto. Tutte le riparazioni o ricostruzioni della nave devono essere fatte in alto mare»6. In quest’immagine concordano, nota Lorenzen, sia l’ermeneutica, sia la moderna logistica: entrambe vi scorgono un’occasione per rinunciare alla fondazione metodica del nostro pensiero. A ben vedere, tuttavia, il divieto di «scendere dalla nave» del nostro linguaggio non implica una rinuncia alla ricerca di un inizio metodico; e ciò corrisponde precisamente a quanto espresso dallo stesso principio diltheyano della non-aggirabilità della vita: «qui viene solo detto che questo inizio non può essere cercato dietro la vita»7.
4 Lorenzen si riferisce qui evidentemente a H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen, 1960, trad. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Fabbri, Milano, 1972, Bompiani, Milano, 200414. Cfr. a tal riguardo, P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica, cit., p. 625. 5 P. Lorenzen, Methodisches Denken, cit., p. 26. Cfr. anche P. Lorenzen, Logik und Hermeneutik, Manuskript aus dem Philosophischen Seminar, Erlangen, 1968, ora in KW, pp. 1121, in particolare p. 13: «La stilizzazione superiore dell’affermare pratico in un’asserzione teoretica è un procedimento metodicamente insegnabile, vale a dire scomponibile in singoli passi che sono insegnabili l’uno dopo l’altro». 6 P. Lorenzen, Methodisches Denken, cit., p. 27. 7 Ivi, p. 28.
3. IL PENSIERO METODICO E LA TEORIA COSTRUTTIVA DELLA SCIENZA
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Una volta riconosciuto nella vita, d’accordo con l’ermeneutica, lo spazio invalicabile di ogni possibile fondazione metodica, si tratta di cogliere la funzione che a tal riguardo svolge il linguaggio naturale. Questo è stato costruito e continuamente migliorato dai nostri predecessori nel corso del tempo, in modo da farlo diventare una nave confortevole dalla quale non avrebbe senso cercare di fuggire «gettandosi nell’acqua allo scopo di ricominciare da capo ancora una volta»8. Pertanto, nel processo di fondazione metodica, il linguaggio naturale non viene affatto abbandonato, ma assume anzi una funzione nuova, vale a dire quella di un paralinguaggio cui spetta il compito di sorreggere e descrivere i contesti esemplificativi nei quali vengono concretamente esibite le regole di un ortolinguaggio, cioè di un linguaggio ricostruito a regola d’arte9. Si noti che quest’ultimo non coincide affatto con il linguaggio esplicitamente «normato» della scienza, il quale rappresenta semmai un caso particolare della ricostruzione; né, d’altra parte, il paralinguaggio dev’essere confuso con un metalinguaggio. Esso infatti non prescrive le regole o le condizioni dell’ortolinguaggio, ma si pone – per così dire – al suo servizio, accompagnandolo nel processo ricostruttivo. Questa funzione topico-dialettica del linguaggio naturale è resa possibile dalla separazione tra il modo in cui comunemente si parla e il momento «in cui si vuole cominciare a parlare in modo metodico e critico»10. «Si può così tentare – continua Lorenzen – di comprendere la logica, che ci ritroviamo come bell’e fatta, in quanto la si ricostruisce metodicamente: è questo il programma di una logica ermeneutica. Tuttavia, al tal fine si deve anzitutto ottenere metodicamente il linguaggio della stessa ermeneutica: e questo è il programma di un’ermeneutica logica»11. La nave su cui ci troviamo può certamente essere comoda, ma necessitare di riparazioni e di modifiche o, più semplicemente, della conoscenza dei criteri con i quali le sue parti sono assemblate per un migliore utilizzo, oppure per un diverso scopo di navigazione12. L’immagine della nave ci dice dunque che non può essere sufficiente la presentazione di un codice, ma bisogna risalire agli atti che lo determinano e lo rendono significativo al fine di interpretare il messaggio. Di conseguenza, l’extrametodicità dell’ermeneutica, così come viene evidenziata da Gadamer, riguarda solo i contesti specifici di applicazione dell’ortolinguaggio – nella fattispecie, ad esempio, l’ambito del sapere tecnico-scientifico –, ma non tocca la si8
Ivi, p. 29. Cfr. P. Lorenzen, Das Problem einer theoretischen Philosophie unter dem Primat der praktischen Vernunft, Vortrag an der Universität Zürich, 1973, ora in KW, pp. 119-132, in particolare pp. 127 sgg.; KLEW, pp. 24 sgg. 10 P. Lorenzen, Methodisches Denken, cit., p. 41. 11 Ibid. 12 Ibid. 9
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tuazione dialogica in cui la ragione esprime, in generale, la sua capacità di ordinamento del mondo13. In tal senso, i nostri predecessori che hanno costruito la nave, hanno selezionato i legni e plasmato le forme in base a un ordine e a uno scopo: essi avrebbero anche potuto scegliere diversamente, ma solo in ciò che hanno scelto si trova la struttura della nave da cui dobbiamo partire per modificarla – solo dalla materialità del paralinguaggio possiamo partire per ricostruire le «funzioni» del mondo. L’invalicabilità del linguaggio ordinario è quindi perfettamente compatibile col principio della fondazione metodica; anziché disporsi secondo un rimando circolare, è da esso – vale a dire dalla ricognizione delle sue «ragioni» – che possiamo ricavare un primo esempio di assegnazione di un significato al segno. È quest’esercizio di assegnazione che dà senso all’intero processo. Il fatto che l’ermeneutica non sia estranea alla ragione e ai suoi criteri metodici, si accompagna – in secondo luogo – all’aspetto eminentemente riflessivo entro cui prende corpo ogni tentativo di fondazione razionale del rapporto tra l’uomo e il mondo. In questa prospettiva, «il senso della costruzione di una sintassi razionale si trova nel fatto che solo in tal modo impariamo a comprendere il nostro proprio pensare e parlare»14, cosicché «l’ermeneutica fonda le norme per argomentare intorno a interpretazioni»15. Ciò riguarda, evidentemente, tanto il linguaggio delle scienze naturali quanto quello delle cosiddette scienze umane e letterarie. Nella riflessività della fondazione, il primo non appare «maggiormente» normato del secondo, ma solo diversamente normato. Infatti, la definitezza dialogica entro cui – come abbiamo visto – si delinea ogni sapere, consente da un lato di estendere la comprensione ermeneutica al di fuori dell’ambito «spirituale» e, dall’altro, di modificare la stessa struttura circolare dell’interpretazione. Quest’ultima, nella misura in cui procede dalla fissazione di un sistema concettuale alla sua progressiva estensione e trasformazione, si configura piuttosto nella forma di una «spirale» entro cui il soggetto prende posizione per affermare, di volta in volta, la sua peculiare «visione del mondo»16, ma anche, al tempo stesso, per prendere coscienza dei suoi confini semantici. In ultima istanza, la fondazione metodica, lungi dal configurarsi come una «fondazione ultima», consente all’ermeneutica di presentarsi nell’alveo della teoria costruttiva della scienza, sottraendola all’ingenuità della «partecipazione affettiva» o al dogmatismo della «comprensione della vita attraverso la vita», per vincolarla invece all’agire argomentativo dell’inter13
Ibid. Ivi, p. 43. 15 P. Lorenzen, Konstruktivismus und Hermeneutik, in U. Gerber, hrsg. von, Loccumer Kolloquien, 2, Loccum, 1972, pp. 129-134, ora in KW, pp. 113-118, in particolare p. 114. 16 Cfr. P. Lorenzen, Logik und Hermeneutik, cit. p. 20. 14
3. IL PENSIERO METODICO E LA TEORIA COSTRUTTIVA DELLA SCIENZA
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soggettività. Qui il dialogo non appare solo nella forma di un confronto, di un accordo o un disaccordo tra modelli di pensiero, ma soprattutto come un’occasione per portare alla luce e appropriarsi di quegli atti che, originariamente, hanno consentito all’uomo di dare un senso al mondo17. 3.2. La sistemazione della logica costruttiva L’indagine sul «pensiero metodico», congiunta ai risultati della propedeutica logica, consentono a Lorenzen e ai suoi più vicini allievi – in particolare Lorenz e Schwemmer – di porre le condizioni per una fondazione operativa della conoscenza non limitata al linguaggio delle scienze naturali ma, in generale, estesa all’intero ambito di applicazione delle capacità «normative» della ragione. Così, all’inizio degli anni Settanta, sulla base di un volume pubblicato in inglese nel 1969 intorno alla «Logica ed etica normative»18, Lorenzen e Schwemmer mettono mano a una «Logica, etica e teoria della scienza costruttive» che – come già osservato19 – contiene non solo una prosecuzione della scuola propedeutica del discorso razionale, ma anche il tentativo di presentare «un sistema compatto e soddisfacente di concetti fondamentali (inclusi i necessari mezzi sintattici) per la logica, l’etica, la matematica, le scienze naturali, la storia e le scienze sociali, in modo tale che l’elaborazione del linguaggio scientifico, così costruito (l’“ortolinguaggio”), possa essere continuato dalle scienze speciali nei loro linguaggi speciali»20. L’interesse di Lorenzen si volge ora anzitutto all’individuazione di un percorso per la teoria costruttiva della scienza che sia estraneo tanto all’impostazione scientistica, quanto all’impostazione dialettica e storicistica. Riprendendo il cosiddetto «dibattito sul positivismo» (Positivismusstreit), risalente al contrasto tra le relazioni intorno alla «logica delle scienze sociali» tenute da Karl Popper e Th. W. Adorno al Congresso 17 In questa prospettiva, la razionalità metodica dell’ermeneutica deve risiedere, per Lorenzen: a) nel suo carattere sistematico, volto a evidenziare le regole e le norme dei mezzi interpretativi; b) nel tentativo di una ricostruzione terminologica e genetica, tesa a far emergere i diversi «contesti di finalità» e i diversi gradi di razionalità secondo cui, weberianamente, risulta «comprensibile» il rapporto tra mezzi e scopi; c) nell’acquisizione critica delle norme e dei procedimenti interpretativi e argomentativi che vengono proposti, nella misura in cui essi devono risultare aperti e suscettibili di valutazione e di revisione (cfr. R. Wimmer, Methode, hermeneutische, in EPW, II, p. 883 sg.). 18 Cfr. P. Lorenzen, Normative Logic and Ethics, Bibliographisches Institut, Mannheim/ Wien/Zürich, 1969, 19842. 19 Cfr. supra, p. 15. 20 KLEW, Vorwort zur 2. Auflage, p. 5. Questo testo costituisce a sua volta la base da cui Lorenzen, nella fase conclusiva della sua attività scientifica, ricaverà il «Trattato di teoria costruttiva della scienza» (cfr. supra, p. 15).
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della Società tedesca di sociologia che ebbe luogo a Tubinga nell’ottobre del 196121, Lorenzen individua il presupposto della posizione scientistica nel monismo metodologico che, sotto la sollecitazione delle indagini di Popper, Albert e Topitsch, utilizza il tema weberiano dell’«avalutatività» della scienza per respingere dalle strutture conoscitive qualsiasi interferenza con principi pratico-normativi22, dato che, secondo questa tendenza, «è impossibile applicare il metodo costruttivo per gli inizi [Anfänge] delle scienze, in particolare per la fondazione di norme»23. Lo scientismo si avvale, a tal riguardo, del paradigma delle scienze naturali e del metodo matematico-sperimentale, i quali respingono dal loro ambito qualsiasi riflessione normativa. Ne deriva che ogni discorso impostato sul terreno politico, sociale ed etico può dirsi «scientifico» nell’esatta misura in cui rinuncia alle pretese normative della ragione e si mantiene sul terreno della pura descrizione logico-formale24. Ora, questo presupposto viene immediatamente battuto in breccia se è possibile dimostrare che «anche le scienze naturali vengono condotte mediante riflessioni normative, per lo meno nel momento in cui lo scienziato vuole comprendere ciò che fa quando fa scienza»25. Ma per dimostrare che la fondazione metodica non elabora, come invece vuole lo scientismo, il «materiale inerte» delle teorie o dei dati sensibili, non è affatto necessario – nota Lorenzen – accogliere la posizione dialettico-storicistica, secondo la quale ogni considerazione meramente «filosofica» degli inizi delle scienze tende a occultare il radicamento di fatto della ragione umana nella specificità delle situazioni storico-politiche26. Infatti, la tendenza dialettica – rappresentata dai neohegeliani, dai marxisti e dai francofortesi, e ingiustamente accusata dagli scientisti di farsi portatrice di un pericoloso «romanticismo di sinistra» rivolto alla «determinazione del futuro»27 –, pur essendo del tutto condivisibile nell’affermazione, risalente a Kant, del «primato della ragion pratica», fallisce nella pretesa di ridurre una questione di diritto, vale a dire «che cosa dobbiamo intendere per “scienza”», a una questione di fatto, riguardante cioè le condizioni storiche, economiche e sociali della costituzione, organizzazione e diffusione 21 Cfr. T. W. Adorno, K.R. Popper, R. Dahrendorf, J. Habermas, H. Albert, H. Pilot, Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Luchterhand, Neuwied und Berlin, 1969, trad. it. di A. Marietti Solmi, Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino, 1972. 22 Cfr. P. Lorenzen, Szientismus versus Dialektik, cit., in particolare p. 337. La nozione di monismo metodologico riferita al razionalismo critico si deve in particolare a B. Abel, Grundlagen der Erklärung menschlichen Handelns, cit., p. 2. 23 KLEW, p. 12, LKW, p. 11. 24 Cfr. KLEW, p. 14, LKW, p. 14. 25 Ibid. 26 Cfr. KLEW, p. 12, LKW, p. 11 sg. 27 Cfr. P. Lorenzen, Szientismus versus Dialektik, cit., p. 337 sg.
3. IL PENSIERO METODICO E LA TEORIA COSTRUTTIVA DELLA SCIENZA
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del discorso scientifico. Si tratta, in questo caso, di un autentico hysteronproteron, dato che il dialettico tende a confondere la questione della successione metodica, propria della costruzione linguistica e dell’erezione di principi fondazionali della scienza, con il problema della loro legittimità e giustezza riferita al rapporto tra le classi sociali28. Così, se non vuole ridursi a un ingenuo dogmatismo, l’analisi critica nei confronti dei modelli scientifici storicamente determinati non deve considerare la genesi fattuale del nostro linguaggio – ricadendo nel paradosso dell’inaggirabilità del linguaggio ordinario –, ma deve anzi rivolgersi alla sua genesi ideale, cioè a quelle «invarianti» che sono definite dalle «posizioni degli scopi» (Zwecksetzungen) a fondamento di ogni atto costitutivo della conoscenza29. La ricostruzione degli scopi non riguarda però né le condizioni storico-materiali, né gli aspetti psicologico-formali attraverso cui s’impone una determinata visione della scienza. In entrambi i casi non sarebbe possibile un atteggiamento critico nei confronti di quest’ultima: nel primo, perché il filosofo si troverebbe a dipendere da quelle stesse situazioni – siano esse storicamente «contingenti» ovvero «strutturali» – da cui intende prendere le distanze; nel secondo, perché la sua ragione sarebbe condizionata – né più, né meno – da quelle «leggi dell’intelletto» che, introspettivamente, sono le stesse per tutti gli uomini. Pertanto, la ricostruzione metodica non solo tende ad affermare, rispetto allo scientismo, una concezione articolata e pluralistica della «ragione»30, ma è rivolta d’altro canto a impedire la regressione trascendentale della dialettica, nella misura in cui anche quest’ultima dipende, nelle sue diverse forme, da modalità di applicazione della ragione che sono metodicamente ricostruibili31. 28
Cfr. KLEW, p. 16, LKW, p. 15. Cfr. P. Lorenzen, Szientismus versus Dialektik, cit., p. 342. 30 E non «dualistica» come vuole B. Abel, Grundlagen der Erklärung menschlichen Handelns, cit., p. 3. 31 Com’è noto, per il pensiero dialettico l’esaltazione wittgensteiniana del nome comune, riferito all’oggetto d’uso in un contesto, si trasforma in un’ulteriore metafisica della realtà, cioè nell’accettazione acritica del corrispondente stato di cose. Secondo Marcuse, infatti, «sbarrando l’accesso al regno della metafisica, la filosofia positivista erige per il suo uso un mondo autosufficiente, chiuso e ben protetto contro fattori esterni di disturbo. A tal riguardo, fa poca differenza se il contesto che fornisce la convalida sia quello della matematica, delle proposizioni logiche o della consuetudine e dell’uso. In un modo o nell’altro, tutti i possibili predicati significativi sono pregiudicati. Il giudizio pregiudicante può essere tanto esteso quanto la lingua inglese parlata, o il vocabolario, o qualche altro codice o convenzione. Una volta accettato, esso costituisce un a priori empirico che non può essere trasceso. Ma questa radicale accettazione dell’empirico viola l’empirico, perché in esso parla l’individuo mutilato, astratto, che esperisce ed esprime solo quello che gli è dato (dato in senso letterale), che tocca solo i fatti e non i fattori, il cui comportamento è unidimensionale e manipolato. Il mondo come viene esperito è dunque il risultato di un’esperienza ristretta, e la ripulitura positivista della mente porta la mente ad allinearsi con l’esperienza ristretta» (cfr. H. Marcuse, One-Dimensional Man. 29
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Si tratta dunque di individuare forme metodiche della ragione irriducibili tanto a un modello particolare di razionalità, quanto alla specificità dell’espressione linguistica nel contesto proposizionale. A questo riguardo, richiamandosi alla teoria del linguaggio di Karl Bühler32, Lorenzen distingue tra il discorso empratico, che include le azioni linguistiche apprese contemporaneamente ad azioni non linguistiche, le quali rappresentano lo scopo delle prime, e il discorso epipratico, che invece verte intorno all’agire e si accompagna solo ad azioni linguistiche, nella misura in cui queste costituiscono delle risposte sensate ad esso33. Risulta ora evidente che quest’ultimo, svolgendo una funzione esplicativa che non utilizza le capacità deittiche e indicative del linguaggio ordinario, non è sottoposto al controllo naturale attraverso il nostro agire, e può dunque facilmente dar luogo a fraintendimenti. Al contrario, il discorso empratico, in quanto finalizzato all’azione, gode di una capacità di controllo direttamente legata al contesto comunicativo, e si propone pertanto come fondamentale rispetto ad ogni dimensione normativa del linguaggio. Su questa base, Lorenzen può così chiarire che la differenza tra paralinguaggio e ortolinguaggio non dipende solo – come le indagini condotte nella Propedeutica logica sembravano dimostrare – dalla necessità di individuare un ambito semantico «naturale» cui spetta il compito di sorreggere e descrivere l’insieme dei contesti esemplificativi o giochi linguistici nei quali vengono concretamente esibite le regole utili alla costituzione normativa di un linguaggio scientifico, ma anche dal bisogno di offrire «parti linguistiche Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston, 1964, trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967, 197010, p. 195). Ora, dal punto di vista costruttivo quest’osservazione, volta a sottrarre l’empirico alla sua ovvietà e a inserirlo nell’ambito delle strutture dialettiche attraverso una «teoria critica», in realtà non libera le capacità critiche della ragione, ma qualifica quest’ultima, appunto, come ragione dialettica che vincola ogni capacità. Infatti, a differenza del dialogo, la dialettica – così come viene intesa dai francofortesi – non serve a un’analisi dei fondamenti della forma logica, ma intende tale forma come già costituita secondo una «logica del concreto» che produce, trascendentalmente, il collasso di tutte le distinzioni. Ciò si rivela nella riduzione della dimensione pragmatica del significato, di per sé legata a una teleologia intenzionale, alla dimensione semantica attraverso l’identificazione di contraddittorio e contrario che rende possibile l’uso costruttivo della dialettica. Quest’identificazione comporta inoltre l’assorbimento dell’intensionalità dell’atto intenzionale nell’estensionalità della cosa, per cui – come nota appunto Marcuse – tutto ciò che appare come un fatto non include mai i suoi «fattori», che devono anzi essere ricavati dall’universalità delle «strutture» sociali, economiche e politiche. 32 Cfr. K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Fischer, Jena, 1934, Fischer, Stuttgart, 19652, trad. it. di S. Cattaruzza Derossi, Teoria del linguaggio. La funzione rappresentativa del linguaggio, Armando Armando, Roma, 1983, in particolare pp. 91-92, 207209. 33 Cfr. LKW, p. 20.
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empraticamente controllate», le quali non richiedono una ricostruzione metodica e che, proprio per tale ragione, rappresentano il punto di partenza inconcusso, a disposizione del linguaggio naturale, per dar vita a un linguaggio normato «a regola d’arte»34. Inoltre, assume ora una fisionomia più precisa anche quella funzione metalinguistica che in precedenza sembrava doversi assegnare al paralinguaggio ma che Lorenzen si era premurato di tener distinta da quest’ultimo: essa pertiene infatti al discorso epipratico, cioè a quell’unica prospettiva in cui «appare sensata la distinzione tra paralinguaggio e ortolinguaggio»35. Se ora fissiamo la nostra attenzione sul carattere originariamente empratico del linguaggio, possiamo osservare che, ancor prima dell’asserzione, il legame tra discorso e azione si realizza nel carattere dell’esortazione o «valore di richiesta» (Aufforderung), cioè nel grado di attrazione che un’attività o un oggetto possiedono in un comportamento finalizzato36. L’assetto logico del nostro pensiero trova infatti la sua prima espressione non tanto nel denominare le cose, ma piuttosto nella fissazione di un predicatore di attività (Tatprädikator): in tal modo la funzione diacritica della parola è quantomeno legata al segno indicativo, dal momento che – come abbiamo visto – termini come «fiore» o «bianco» non hanno alcun significato se non sono vincolati all’esibizione di esempi e controesempi. Ma questo significa allora che non il sostantivo, ma il verbo o, meglio, l’assetto rematico del linguaggio è a fondamento di ogni pretesa conoscitiva, cosicché anche la locuzione descrittiva dev’essere intesa come un caso particolare all’interno della più vasta e originaria illocuzione operativa. Corrispondentemente, il valore di richiesta che trova espressione nel segno linguistico può realizzarsi non solo nell’esecuzione di un’azione, ma altresì nella sua astensione o mancata esecuzione, la quale si traduce nell’introduzione del segno di negazione ovvero, operativamente, di un negatore (Negator)37. Il valore di richiesta soprintende dunque sia all’esecuzione positiva (affermazione), sia all’esecuzione negativa (negazione) poiché, in 34
Cfr. ivi, p. 21 sg. Ivi, p. 22. 36 Cfr. ivi, pp. 25, 31. In questo senso, proprio attraverso Bühler, Lorenzen sembra avvicinarsi a quanto negli anni Venti e Trenta era stato evidenziato dalla scuola würzburghiana della Denkpsychologie a proposito della «produttività» del binomio inscindibile pensierolinguaggio, in particolare riguardo alla «valenza» o «forza» che ogni processo cognitivo mette in campo quando è necessario di determinare logicamente e metodicamente la realtà. Si tratta infatti di un’autentica disposizione intenzionale o tendenza determinante che prelude all’esecuzione di un compito, impostando metodicamente l’esecuzione stessa. 37 Per questa ragione – nota Lorenzen – «Nel caso del negatore non si tratta di una particella logica in senso stretto. Il suo impiego non è stato infatti ancora stato fissato mediante regole dialogiche (oppure mediante tavole di verità), ma solo esercitato nel nostro agire e parlare» (LKW, p. 27). 35
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una situazione empraticamente controllata, anche la mancata esecuzione implica un’azione finalizzata38. Ora, solo sulla base del predicatore di attività e del negatore è possibile introdurre il predicatore di cosa (Dingprädikator)39. Ciò consente il pieno capovolgimento del tradizionale primato nominale-rappresentazionale del segno linguistico, senza peraltro ricadere nell’opposta determinazione funzionalistica. Non si tratta infatti, secondo Lorenzen, di eliminare dal linguaggio la nozione di «cosa», come base di una concezione sostanzialistica e metafisica, a favore della nozione di «relazione», legata invece alle più moderne prospettive ipotetico-deduttive della conoscenza40. Al contrario, tanto la nozione di cosa quanto la nozione di relazione dipendono – come già aveva osservato Dingler – dal principio dell’ordine metodico mediante cui esse vengono introdotte nella conoscenza. Così, ad esempio, 38 A questo riguardo, Bühler nota che mentre in una struttura linguistica compiuta e ben formata il «campo periferico» (l’Umfeld, nozione che egli ricava da Ewald Hering a proposito del fenomeno percettivo di contrasto tra colore e sfondo) da cui sorge il significato del segno linguistico è il suo contesto, vale a dire una totalità attiva ed esplicita in cui immediatamente «il singolo elemento appare collegato ad altri elementi simili», esistono però anche casi in cui «dei segni linguistici appaiono sciolti dal contesto, ma per nulla privi di un campo periferico»: si tratta delle cosiddette ellissi linguistiche, la cui massima espressione sono, per l’appunto, «le denominazioni ed indicazioni empratiche» (cfr. K. Bühler, Teoria del linguaggio, cit., p. 207). In altri termini, finché il significato di un segno è direttamente ricavabile da una situazione linguistica condivisa e regolata da norme comunemente accettate in cui il linguaggio naturale fa da sfondo, la funzione empratica non emerge e i termini sono collegati da relazioni statiche che possono essere «descritte» e nelle quali l’indicazione cosale vincola l’indicazione rematica; ma quando un segno viene presentato per un ricevente estraneo, allora si richiede un «ampliamento dell’orizzonte della situazione e delle percezioni comuni» che pone in gioco l’elaborazione costruttiva o empratica del segno stesso (cfr. ivi, p. 91). L’emergere della struttura empratica si può per Bühler paragonare a quella situazione nella quale «gli esseri umani che guidano degli autoveicoli hanno inventato i segni di direzione di marcia. [...] La guida delle macchine nella circolazione stradale avviene senza segni fintantoché l’indispensabile rispetto che ciascuno deve avere nei confronti degli altri può essere determinato direttamente dalla percezione di ciò che avviene. Se però ci si accinge a fermarsi repentinamente o a deviare dalla propria direzione di marcia si deve, sempre e soltanto in casi simili, fare un segno» (ibid.). Perciò, l’origine dei discorsi umani costruiti empraticamente «è paragonabile a quella degli indicatori ordinatamente sistemati sulle strade percorse dagli uomini: finché esiste, senza possibilità di equivoci, una sola via, non c’è bisogno di alcun segnale. Ma agli incroci, dove si presentano diverse possibilità, essi sono ben accetti» (ivi, p. 92). In termini lorenziani, il carattere operativo della mancata esecuzione di un’azione (il «non deviare dalla propria direzione») è complementare alla sua esecuzione, cioè il non compiere un’azione non significa affatto non agire, bensì agire negativamente. Perciò il giudizio negativo ha una base ontologica e operativa alla stessa stregua del giudizio positivo. 39 Cfr. LKW, p. 29. 40 Così come, ad esempio, viene espresso in modo emblematico da parte di E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Bruno Cassirer, Berlin, 1910; Id., Zur Einstein’schen Relativitätstheorie, Bruno Cassirer, Berlin, 1920, trad. it. di E. Arnaud e G.A. De Toni, Sostanza e funzione, Sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 9 sgg.
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se per lo scienziato il termine «pietra» è comprensibile – e dunque introducibile nel suo linguaggio – in base a un insieme di relazioni fisico-chimiche che, sorrette dai criteri di misurazione, permettono di determinarne la struttura atomica, molecolare, cristallina ecc., è d’altra parte innegabile che l’area semantica di tale termine debba estendersi all’apprendimento delle sue modalità d’impiego, le quali risultano senza dubbio primarie nel costituire quel rapporto tra noi e l’oggetto che si chiama «esperienza». Ci accorgiamo allora che, a differenza di quanto pretendono le moderne tendenze epistemiche, l’esperienza non indica affatto l’assunzione indeterminata e caotica del dato, ma la costituzione per principio di un ordine, che – nella fattispecie – impedisce di porre il predicatore di cosa prima o al posto del predicatore di attività. Ad esempio, nella costruzione dell’asserzione: «Paolo getta la pietra», viene espresso – nota Lorenzen – «il fatto che abbiamo imparato a impiegare “pietra” e al contempo che, in base ai summenzionati valori di richiesta, non possiamo semplicemente porre “pietra” al posto di “getta”. Di conseguenza, con l’atto di apprendere che – nel nostro caso – si possono tenere in mano delle pietre e gettarle, possiamo anche imparare a collocare “pietra” entro un valore di richiesta che viene dopo “getta”»41. Si noti ora che, attraverso il predicatore di attività, il negatore e il predicatore di cosa, abbiamo cercato di determinare linguisticamente solo i valori di richiesta rispetto ad azioni non-linguistiche, cioè non è stata ancora introdotta in modo compiuto l’asserzione. Infatti, nell’asserzione già costituita non si esprime solo un’operazione, ma anche un’informazione (Bericht) su un’attività. Per riprodurre adeguatamente quest’informazione nella prospettiva operativa e dar così compimento all’asserzione, occorre allora introdurre la «copula di attività» (Tatkopula), volta alla notificazione informativa della modalità discorsiva. L’espressione «Paolo getta ... » diventa perciò un’asserzione nel momento in cui – nel senso greco di prattein – viene attivato il rapporto tra i due termini: essa esprime cioè il fatto che Paolo «pratica» o «mette in atto» (tut) il gettare42. È inoltre evidente che, nel passaggio dal valore di richiesta all’asserzione, non si esaurisce il campo di applicazione di quest’ultima, poiché possiamo avere asserzioni che non riproducono richieste di azioni, ma semplicemente descrivono fatti o accadimenti. Di conseguenza, per non ricadere nell’errore esattamente opposto al descrittivismo della logica classica – vale a dire nella pretesa di ridurre ogni accadimento ad azione – occorre un’adeguata ricomprensione operativa della capacità descrittiva dell’asserzione: ciò si ottiene mediante l’introduzione del «predicatore di avvenimento» (Ge41 42
LKW, p. 29. Cfr. ivi, p. 33.
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schehnisprädikator) e della corrispondente «copula di avvenimento» (Geschehniskopula), per la quale, in modo simile al termine greco keitai (giacere, essere disposto, fissato), si stabilisce una connessione con la categoria filosofica dell’hypokeimenon, volta a esprimere «la relazione tra la cosa, che sta a fondamento dell’avvenimento, e l’avvenimento stesso»43. La trama del discorso empratico in cui si dispiega questa nuova grammatica razionale, sorretta da un lato dal predicatore di attività e dall’altro dal predicatore di cosa, nonché da una serie di funzioni linguistiche accessorie che Lorenzen chiama «appredicatori» – ovvero, nella grammatica tradizionale: l’aggettivo, l’avverbio, e i metapredicati «vero» e «falso» –, sarebbe sufficiente se si costituisse entro un contesto linguistico-operativo comune, in cui cioè i componenti di un gruppo discorsivo impiegano i predicatori nello stesso modo44. Infatti, i valori di richiesta e i contenuti informativi sono operativamente ricostruibili solo sulla base di un’intesa comunicativa che presuppone una «connessione di senso» condivisa e legata, in ultima istanza, a un contesto di vita a cui tutti i soggetti fanno riferimento. Ma quando ci troviamo a ricostruire trame discorsive che intendono porsi tra diversi contesti di vita – come accade nelle relazioni interculturali o, più semplicemente, nell’individuazione delle condizioni per la formazione linguistica –, allora dobbiamo rappresentarci una situazione nella quale «una nuova persona, che non ha familiarità con un determinato modo di parlare, si aggiunge al gruppo»: in tal caso si costituisce una situazione di apprendimento in cui s’impara l’uso di un predicatore per un oggetto esemplarmente scelto, in funzione del quale viene introdotta la «copula d’essere» (Seinskopula, corrispondente all’uso greco del termine «estin»)45. In questo modo, precisando le osservazioni svolte all’inizio della Propedeutica logica, Lorenzen nota come l’«essere copulativo» svolga una funzione trascendentale indipendentemente da qualsiasi notazione metafisica o linguistico-proposizionale. Infatti, la sua transcategorialità non riguarda la possibilità della posizione oggettuale all’interno di un determinato assetto conoscitivo, e ciò per due ragioni: anzitutto, nessun modello particolare di conoscenza, culturalmente e metodicamente determinato, può essere eletto a modello universale – e questo vale sia per la forma logico-linguistica classica, retta dallo schema soggetto-predicato, sia per la forma logico-matematica di tipo analitico, governata dalla funzione proposizionale. In secondo luogo, proprio all’interno di una determinata forma di conoscenza non vi è bisogno di ricorrere a un’originaria notazione d’essere, dato che per l’assegnazione dei predicatori è suffi43
Ivi, p. 35. Cfr. ivi, p. 36. 45 Cfr. ivi, p. 37. 44
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ciente una ricostruzione operativa condivisa da parte dei componenti del gruppo discorsivo che aderiscono a tale forma. Gli unici casi in cui l’essere non dipende dalle intenzioni dell’azione, in cui cioè bisogna apprendere direttamente l’impiego della «copula d’essere», sono dunque quelli che si situano all’esterno o tra i contesti discorsivi, nei quali – per così dire – si richiede sempre la riproduzione di un modello insegnante-allievo. Così, ad esempio, possiamo comprendere le asserzioni: «Paolo getta la pietra» e «questa pietra rotola», se già ne condividiamo il contesto discorsivo, oppure se vi veniamo introdotti «attraverso l’esercizio della copula d’essere con l’apprendimento del rispettivo predicatore: come quando l’insegnante, tenendo nelle sue mani una pietra e alzandola, pronuncia quelle asserzioni e, di conseguenza, l’allievo [...] impiega “pietra” nello stesso modo degli altri componenti del gruppo discorsivo»46. La trascendentalità della funzione copulativa dell’essere è quindi la stessa della sua funzione indicativa e intuitiva: quando rientra nell’assetto discorsivo, essa viene assorbita dai predicatori d’azione; se invece non ne fa parte, allora manifesta la sua piena originarietà. Possiamo così distinguere tra un’agire discorsivo-pragmatico e un’agire deittico-indicativo (intuitivo) più strettamente ontologico, laddove il secondo rappresenta la metalogica del primo o, in termini tradizionali, la sua «logica trascendentale». 3.3. Il problema delle modalità La grammatica razionale, che si delinea nella costruzione dell’asserzione, trova il suo adeguato sviluppo nella costruzione del discorso che Lorenzen articola in modo sostanzialmente identico all’assetto della logica dialogica già presentato nelle opere degli anni Sessanta47. Ora si pone il problema di dare un adeguato compimento e giustificazione alla teleologia intenzionale implicita nelle diverse costruzioni logico-linguistiche, dal momento che la ricostruzione della «genesi di fatto» non corrisponde ancora alla ricognizione critica del discorso conoscitivo. A tal riguardo, si richiede un «giudizio» o, meglio, una «valutazione» degli scopi48, in vista dei quali la logica assertoria dev’essere ricompresa nell’ambito di una radicale riformulazione delle strutture e dei compiti della logica modale49. 46
Cfr. ibid. Cfr. ivi, pp. 53-106. Cfr. supra, pp. 98 sgg. 48 Cfr. P. Lorenzen, Szientismus versus Dialektik, cit., p. 342. 49 Cfr. P. Lorenzen, Zur Begründung der Modallogik, in «Archiv für mathematische Logik und Grundlagenforschung», 2/1, 1954, pp. 15-28, poi in «Archiv für Philosophie», 5, 1954-1956, pp. 95-108; Id., On Modal Logic, in «Philosophy of Science. The Journal of the Philosophy of Science Society», 1, 1968, pp. 199-214; Id., Theophrastische Modallogik, in «Archiv für mathematische Logik und Grundlagenforschung», 12, 1969, pp. 72-75; Id., Praktische und theo47
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In questa prospettiva, l’indagine lorenziana sulle modalità non solo si connette – come vedremo nel capitolo successivo – alla più generale tendenza «riabilitativa» della filosofia pratica affermatasi in Germania all’inizio degli anni Settanta50, ma configura altresì un percorso autonomo all’interno della sua stessa epistemologia, nella misura in cui – per così dire – il giudizio etico non interviene sulle forme logiche, ma ne costituisce l’intima ragion d’essere, una ragione ricavabile, ancora una volta, dal coté ontologico-materiale del «pensiero metodico»51. Com’è noto, il problema modale è contestuale, storicamente e teoreticamente, a quello dell’assertorietà logica, e trova la sua prima formulazione nell’Organon aristotelico52. Secondo Lorenzen, le ambiguità che si manifestano nella dottrina aristotelica delle modalità e che condizionano il declino della logica modale nei secoli successivi, sono il frutto della convergenza di due tendenze tra loro apparentemente contrapposte, vale a dire: da un lato l’intrecciarsi di motivi modali e metafisici che legano la struttura del giudizio alla teoria della sostanza, intesa sia in senso statico (forma-materia), sia in senso dinamico (potenza-atto); dall’altro il bisogno, fatto valere da Aristotele, di un superamento della configurazione «ontica» e teoretica delle modalità – ciò che oggi si definisce come «modalità aletica» – in vista di una loro ricomprensione pratica, ossia rivolta tanto agli aspetti deontici e temporali (detti anche «mellontici»), quanto alle configurazioni epistemiche e «rilevanti» della semantica e dei suoi procedimenti deduttivi53. La prima istanza mette capo all’adozione, teoreticamente inconcussa, del principio di bivalenza, a cui fa seguito l’articolazione vero-funzionale e soprattutto estensionale della cosiddetta «logica classica», la quale trova proprio qui la sua origine54. Tuttavia, in base alla tesi onto-logica dell’isomorfismo, congiunta al principio di estensionalità – secondo il quale, come notava Aristotele, il vero e il falso richiedono che esista o non esista l’oggetto corrispondente – il principio di bivalenza può valere incondizionatamente solo «rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati», mentre deve rimanere in sospeso, e non può quindi trovare applicazione, «rispetto agli oggetti singolari che saretische Modalitäten, in «Philosophia Naturalis», 17, 1979, pp. 261-279, ora in Id., Grundbegriffe technischer und politischer Kultur. Zwölf Beiträge, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1985, pp. 35-55; LP, pp. 225 sgg.; LKW, pp. 106 sgg. 50 Cfr. M. Riedel, hrsg. von, Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 2 Bde., cit. (RPP). 51 Cfr. P. Lorenzen, I fondamenti logici dell’etica, trad. it. di P. Impara, in «Proteus», 1, 1970, pp. 11-21. 52 Cfr. LKW, p. 106; O. Becker, Ricerche sul calcolo modale, cit., p. 26. Cfr. anche G. Franci, Introduzione a O. Becker, Logica modale, calcolo modale, cit., p. 7. 53 Cfr. LKW, p. 107. 54 Cfr. a tal riguardo, E. Melandri, Alcune note in margine all’Organon aristotelico, CLUEB, Bologna, 1965, p. 79.
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ranno»55. Di conseguenza, gli enunciati che si riferiscono a questi ultimi non devono essere considerati né veri né falsi56. Ora, in una simile configurazione bivalente ed estensionale, un enunciato né vero né falso non ha alcuna legittimità logica; infatti per essere estensionale dovrebbe essere più che bivalente (cioè tri- o polivalente) e, per mantenere il requisito della bivalenza, dovrebbe essere, appunto, senza estensione, cioè senza significato. In una siffatta impostazione, per non consegnare gli enunciati sugli eventi futuri a una mera vacuità sintattica, non vi sono così che due soluzioni: o assumere la contingenza rispetto al futuro, considerando l’essere di per sé come un essere temporale – il che equivale rinunciare all’immutabilità e assolutezza della verità che il principio logico assunto richiede –, oppure introdurre una nuova prospettiva intensionale. Questa tuttavia, per la sua stessa definizione, non è né formalizzabile, né riducibile al quoziente logico57. Infatti, tutte le intensioni che possiamo ricavare da un’impostazione estensionale e vero-funzionale riguardano predicati di oggetti (in termini aristotelici: di sostanze); in esse si presentano dunque come predicati di primo grado non solo il vero e il falso, ma anche i modi della predicazione, come il possibile e il necessario. In altri termini: anche i modi di predicazione e le relative «intensioni» saranno sempre predicati determinanti (cioè modalità de re), e niente affatto modificanti. Aristotele sembra accorgersi di quest’impasse e rileva giustamente che da N(p ∨ ¬p): «È necessario che domani vi sarà o non vi sarà una battaglia navale», in quanto modalità meta-logica o de dicto, non si può ricavare Np ∨ N¬p: «È necessario che domani vi sarà una battaglia navale o è necessario che domani non vi sarà una battaglia navale», come modalità ontologica o de re 58; ma risolve poi il tutto appellandosi alla contingenza di p, cioè all’impossibilità che il contingente (futuro) abbia come predicato il «necessario». Così, per salvare l’intensionalità dell’essere bisogna ricorrere a una dislocazione extra-logica della predicazione, in particolare all’ontologia, all’etica e alla psicologia, le quali appariranno tuttavia sempre come fondazioni surrettizie rispetto all’originaria «tecnica analitica»59. Ora, rispetto all’analitica aristotelica e, in senso lato, rispetto alla logica classica che ne consegue, Lorenzen rileva che non è il principio di bivalenza la causa della mancata formalizzazione dell’intensionalità, ma il ben più radicale principio di estensionalità. La bivalenza infatti non impone un attributo, ma configura solo lo spazio logico dell’attribuzione. Per55 Aristotele, De interpretatione, 9, 18 a 28-34, trad. it. di G. Colli, Dell’espressione, in Opere, vol. I, Laterza, Roma-Bari, 1973-19843, p. 60. 56 Cfr. ivi, 9, 19 a 24 sgg., pp. 63 sgg. 57 Cfr. LKW, p. 108; G. Franci, Introduzione, cit., p. 9. 58 Cfr. Aristotele, Dell’espressione, cit., 9, 19 a 24-b 5, p. 63 sg. 59 Cfr. LKW, p. 107.
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ciò, non solo essa non ha nulla a che vedere con il determinismo o l’indeterminismo, ma si presenta anzi come un caso particolare di un più riposto principio operativo a cui spetta il compito di decidere dell’ammissibilità e della sensatezza di quello che diciamo «possibile» o «necessario»60. In questo senso, Lorenzen assume una posizione critica anche rispetto alle più recenti versioni «intensionali» della modalità, vale a dire la semantica di Kripke e la teoria dell’«implicazione stretta» di Lewis. Riguardo alla prima61, bisogna certo riconoscere che essa – sviluppando peraltro un’intuizione risalente alla logica leibniziana dei «mondi possibili» – offre la possibilità, attraverso la nozione di «accessibilità» a stati di cose diversi da quello attuale, di separare l’interpretazione attributiva della verità (tipica di Aristotele) da quella relazionale. Ciò consente sia di sganciare la nozione di vero dalla funzione temporale, facendo in modo che una proposizione contingente non cessi di essere tale nel momento in cui viene verificata o falsificata – e quindi il contingente non riguardi solo il futuro, né il necessario solo il presente o il passato –, sia soprattutto di legare la verità non tanto al «contenuto» di un enunciato (che può essere soggetto alla variabilità del giudizio), ma piuttosto al criterio attraverso il quale ne viene certificata la validità, vale a dire alla soddisfazione o no delle condizioni richieste dal suo senso. Si tratta tuttavia di un sistema di completezza semantica che si mantiene all’interno della logica delle modalità ontico-aletiche e che, come tale, non può offrirne alcuna ricostruzione metodica, poiché considera come dato il calcolo modale classico conforme alla logica della quantificazione62. In tal caso, infatti, il criterio della validità è semplicemente stabilito attraverso definizioni teoretico-semantiche ricavate dalla comune dottrina dei quantificatori: l’operatore di necessità corrisponde al quantificatore universale; l’operatore di possibilità riproduce invece il quantificatore esistenziale63. Così, ad esempio, si dice che un enunciato modale o una formula di implicazione sono «universalmente validi» quando sono veri in tutti gli insiemi dei mondi possibili, ma non si indica alcuna procedura di decisione per cui tali verità universali vengono conseguite64. A quest’interpretazione «statistica» della modalità65, pur sempre basata sull’estensione dell’operatore modale, Lorenzen contrappone una definizione pragmatica che, prendendo spunto dalla «teoria dei giochi», si av60
Cfr. ivi, p. 132 sg. Cfr. S.A. Kripke, A Completeness Theorem in Modal logic, in «Journal of Symbolic Logic», 24, 1959, pp. 1-14. 62 Cfr. LKW, p. 107. 63 Cfr. K. Lorenz, Modallogik, in EPW, II, p. 909. 64 Cfr. LKW, p. 130. 65 Secondo la definizione di O. Becker, Ricerche sul calcolo modale, cit., pp. 35 sgg. 61
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vale di diversi piani dialogici (Dialogebenen) allo scopo di giustificare formalmente la genesi metalinguistica dei predicati modali66. In questa prospettiva, ad esempio, la «necessità» non indica ciò che vale sempre o per ogni oggetto di un insieme, ma è un’asserzione (in simboli: ∆A = «è necessario che A») riguardo al modo di validità di un’asserzione (A), e precisamente quello di essere conseguenza logica di una sequenza o di una classe (Σ) di asserzioni vere67. La connessione con la semantica kripkiana può quindi essere stabilita quando diverse sequenze o classi di asserzioni (nΣ) – che danno vita ad asserzioni modali tra di loro disomogenee – vengono messe a confronto all’interno di una costruzione dialogica. Così, ad esempio, un processo dialogico che inizia su un piano «L» con un’asserzione modale di necessità («∆A»), viene da un lato «attaccato» mediante l’indicazione di un piano «L1» in cui vale una diversa sequenza di asserzioni, e dall’altro «difeso» – sempre sul piano «L1» indicato dall’opponente – tramite l’introduzione dell’asserzione di «A» e l’indicazione di un insieme di regole ammissibili da cui possa risultarne la necessità. La coppia («L», «L1») deve pertanto soddisfare una ben precisa relazione di ammissibilità («R») la quale riproduce in termini operativi la kripkiana relazione di accessibilità tra mondi possibili68. Il vantaggio di questa formulazione pragmatica della modalità sta nel fatto che è possibile formalizzare senza riduzioni estensionali il processo intensionale di costituzione ovvero di «giustificazione» degli operatori modali: è infatti la strategia argomentativa, con i suoi richiami alle funzioni e agli scopi delle asserzioni, a motivare l’insorgenza di una modalizzazione. In questo modo Lorenzen – similmente a quanto accadeva per la più comune logica assertoria (categorica) – è in grado di porre la logica operativa modale a fondamento di tutte le altre forme di modalità; ad esempio, il calcolo modale classico sorge quando il calcolo effettivo viene «indebolito» mediante l’introduzione del principio di stabilità rispetto all’operatore di necessità (cosicché da ∆A si possa ricavare ¬¬∆A)69.
66
Cfr. LKW, pp. 111 sgg.; K. Lorenz, Modallogik, cit., p. 909. Cfr. LKW, p. 113; K. Lorenz, Modallogik, cit., p. 908. 68 Cfr. LKW, p. 126; K. Lorenz, Modallogik, cit., p. 909. 69 Così, la possibilità di differenziazione delle strutture modali avviene a seconda del modo in cui si costruisce la relazione di ammissibilità. Ad esempio, se alla relazione non viene posta alcuna condizione, si ottiene la parte omogenea della logica modale minimale, cioè da «A e B implica C» si passa, per regola di derivazione, a «è necessario che A ed è necessario che B, implica è necessario che C»; a sua volta, se tale relazione è riflessiva, si ottiene l’intera logica modale minimale con l’aggiunta dell’implicazione: «è necessario che A implica A» (cfr. K. Lorenz, Modallogik, cit., p. 909). 67
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Per quanto poi riguarda la concezione lewisiana dell’implicazione stretta70, Lorenzen rileva che il suo tentativo, proprio in quanto volto a evidenziare il legame necessario tra antecedente e conseguente di un condizionale, mette in risalto le relazioni intensionali tra le proposizioni, intensionalità che, d’altra parte, è contenuta nella stessa struttura operativa di ciò che chiamiamo «implicazione», nella misura in cui questa significa non tanto una generica condizionalità «materiale» o «filoniana», bensì un’autentica deduzione logica del conseguente dall’antecedente. L’implicazione stretta, proprio in quanto riconduce il condizionale semplice: «se p, allora q», al condizionale modalizzato: «è necessario che (se p, allora q)», ha dunque non solo l’innegabile vantaggio di stabilire una transizione continua tra logica categorica e logica modale, ma soprattutto il merito di riportare l’assetto logico-formale alle concrete procedure operative che sorgono dall’esperienza ordinaria, nella quale è impossibile formulare un condizionale «implicativo» senza presupporre, in qualche modo, un legame effettivo di deducibilità tra le componenti proposizionali. Tuttavia, il sistema lewisiano mostra alcune ambiguità che ne impediscono la piena assunzione in un contesto logico-operativo. Anzitutto, il punto di partenza contrastivo da cui esso procede è viziato da una serie di equivocazioni di fondo che si traducono in autentici non sequitur. Si tratta in particolare della critica ai cosiddetti «paradossi dell’implicazione materiale» – legati agli schemi eminentemente vero-funzionali di matrice filoniana e poi ripresi da Russell – secondo i quali una proposizione vera è implicata da qualunque proposizione (se il conseguente è vero, allora il condizionale è sempre vero), e una proposizione falsa implica qualsiasi proposizione (se l’antecedente è falso, parimenti il condizionale è sempre vero)71. Ora – come aveva già rilevato Quine distinguendo tra «uso» e «menzione»72 – nella costruzione di un condizionale materiale non s’intende affatto stabilire un’«implicazione» tra proposizioni, poiché il suo scopo non è quello di menzionarle, ovvero di parlare intorno ad esse attraverso i loro nomi, ma al contrario quello di usare le proposizioni stesse come parti di una proposizione più lunga, verificando in tal modo i limiti di compatibilità delle parti componenti. Perciò, appare come un semplice truismo affermare che l’implicazione coinvolge connessioni strutturali che «superano» i meri valori di verità. In tal senso, la critica al condizionale è mal po70 Cfr. C.I. Lewis, C.H. Langford, Symbolic Logic, The Century Co., New York, 1932, Dover, New York, 19592. 71 Per questi paradossi, si può vedere D. Palladino, C. Palladino, Logiche non classiche. Un’introduzione, Carocci, Roma, 2007, pp. 56 sgg. 72 Cfr. W.V.O. Quine, Methods of Logic, Holt, Rinehart and Einston, New York, 1959, trad. it. di M. Pacifico, Manuale di logica, Feltrinelli, Milano, 1960-19807, pp. 58 sgg.
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sta poiché questo non richiede più di quanto la sua forma possa offrire. Il compito dell’operazione ricostruttiva non è quello di sopprimere il condizionale a favore dell’implicazione, ma di cercare di cogliere l’istanza di derivazione che il primo intende esprimere. Bisogna così notare che, mentre nella trasformazione lewisiana la verità delle premesse diventa una condizione necessaria per ogni valida inferenza, nella versione filoniana essa risulta invece una condizione solo sufficiente per la conclusione. Infatti, la condizione lewisiana è talmente restrittiva da escludere la possibilità stessa di un discorso ipotetico, ossia precisamente di quel discorso che appartiene alla nostra più concreta esperienza. Ma allora è chiaro che, se si ammette l’uso di ipotesi, bisogna anche ammettere che dal non-vero si possano trarre legittime inferenze. A ben vedere, non è affatto detto che da una premessa falsa (la quale, intensionalmente, comprende anche l’incerto, l’imprevedibile e il contraddittorio) debbano derivare conseguenze operativamente inaccettabili o inutili. Di fatto, una premessa di tal genere può semplicemente dar luogo a una conseguenza «paradossale» nel senso letterale del termine, cioè contraria a un insieme di credenze o di principi assiomaticamente introdotti, nella misura in cui essa è in grado di destrutturare l’ovvietà dell’aspettativa legata a tali principi, allo scopo di approntare le condizioni per una nuova ristrutturazione. Ciò che risulta distruttivo per la logica formale classica può così offrire prospettive costruttive del tutto feconde, in un certo senso assimilabili alla leibniziana ars inveniendi. Quanto poi all’idea del «nesso logico» che deve prodursi tra premessa e conclusione, bisogna distinguere tra conseguenza e derivazione: se la prima richiede l’interpretazione del nesso come implicazione stretta, la seconda dipende invece da un percorso più articolato che risulta composto – come abbiamo visto – dall’introduzione ed eliminazione di regole e di premesse aggiuntive, secondo le procedure indicate dai modelli dialogici. È infatti all’interno di un gruppo di discorso, in cui tali modelli si esprimono attraverso atti intuitivi e usi linguistici, che le modalità logiche possono essere introdotte e sensatamente impiegate73. La proposta lorenziana riguardo alle espressioni di modalità è, in ultima istanza, quella di intenderle per ciò che esse effettivamente sono, vale a dire come operatori irriducibili a un semplice calcolo, i quali anzi vincolano i soggetti che li asseriscono a un reciproco impegno costitutivo. Risulta perciò alquanto riduttivo separare la logica modale ontico-aletica da quella deontica e mellontica, in cui cioè si introducono gli operatori «obbligatorio» e «permesso», nonché le notazioni temporali riguardanti il passato e il futuro. Infatti – concludono Lorenzen e Schwemmer – non solo la logica vero-funzionale non consente di intendere il carattere ope73
Cfr. LKW, p. 107 sg.
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rativo e qualitativo di ciò che, attualmente, diciamo «necessario» e «possibile», ma restringe altresì il campo semantico all’«essere» e a ciò che, heideggerianamente, si definisce come semplice presenza, mancando di considerare che le modalità ontiche – soprattutto quando compaiono in una forma iterata («è necessario che sia possibile» = «dev’essere possibile che...», ecc.) – non vanno interpretate come «la necessità [o la possibilità] di asserzioni rispetto al futuro (che qualcosa necessariamente sarà), bensì come l’obbligatorietà [o la permissibilità] di tali asserzioni: che qualcosa deve [può] essere»74. Proprio in quanto rivolto al divenire (Werden), l’operatore modale ontico può risultare, senza contraddizione, come una «proprietà» dell’oggetto non aggiunta in modo surrettizio ai suoi attributi descrittivi. Ne consegue quello che potremmo definire come l’«azzeramento pragmatico» della descrizione: essa non può mai trascurare i principi modali e dinamici a fondamento dell’intera compagine attributiva. Lo stretto rapporto che Lorenzen instaura tra necessità e dover-essere permette anche di risolvere in modo adeguato lo spinoso problema riguardante la legittimità di una logica normativa. Una prima obiezione all’impiego di strumenti logici in ambito normativo, coinvolgente soprattutto la sfera giuridica e quella etica, deriva dal fatto che le norme, in quanto imperativi, non sono né vere né false, e dunque non possono essere ricondotte a schemi di derivazione formale75. Ma la seconda e ben più radicale obiezione riguarda il problema dei fondamenti: se i principi logici, conformemente a una concezione normativa della necessità, vengono direttamente intesi come regole pratiche o norme direttive volte a prescrivere un dover-essere, allora essi si trasformano immediatamente in leggi etiche e finanche giuridiche, generando il paradosso che la necessità delle norme logiche, in quanto dipendente dal loro carattere di cogenza, dovrebbe dirsi in funzione del potere repressivo che si può esercitare sulle trasgressioni76. Da ciò conseguirebbe inoltre quello che si può considerare il più grave e decisivo fraintendimento della natura e dello scopo delle leggi logiche, vale a dire che la conformità alla norma diventerebbe condizione sufficiente per la validità di un argomento.
74
Cfr. ivi, p. 119. Cfr. C.F. Gethmann, Logik, deontische, in EPW, II, pp. 636-642; D. Palladino, C. Palladino, Logiche non classiche, cit., p. 65. 76 E proprio per questa ragione, Anderson propone la riduzione della logica normativa alla logica modale aletica, ampliando il linguaggio di quest’ultima con una «costante proposizionale» S il cui significato è «sanzione» (cfr. A.R. Anderson, The Formal Analysis of Normative Systems, New Haven, Conn., 1956, ora in N. Rescher, ed. by, The Logic of Decision and Action, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh Pa, 1967, pp. 147-213; Id., A Reduction of Deontic Logic to Alethic Modal Logic, in «Mind», 67, 1958, pp. 100-103). 75
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Ora, alla prima obiezione si può rispondere accettandola in pieno: in una prospettiva semplicemente vero-funzionale, è evidentemente impossibile ricondurre il discorso normativo a schemi di derivazione formale77; ma è proprio questa prospettiva che – come abbiamo visto – la logica operativa intende evitare attraverso il criterio della definitezza dialogicopragmatica. Quanto alla seconda, occorre evidenziare la fallacia di quaternio terminorum a cui essa va incontro. In modo simile alla distinzione svolta da von Wright tra «norme» e «proposizioni normative»78, anche Lorenzen sottolinea la necessità di non confondere le norme di base (Basisnormen) con le asserzioni ovvero i giudizi normativi (normative Urteile)79. Solo questi ultimi, in quanto contenenti proposizioni relative a norme, possono essere veri o falsi. L’obiezione secondo cui in una logica normativa i principi logici vengono intesi come regole pratiche, si dimostra dunque affètta da un vizio di sovrapposizione tra il linguaggio di prim’ordine (la formulazione normativo-prescrittiva) e l’asserzione che, posta in second’ordine come formulazione descrittiva riguardo a una prescrizione, esprime l’adesione o meno alla norma80. Tuttavia, mentre la posizione di von Wright, proprio in virtù di questa distinzione, sembra risolversi per una decisa sottrazione di qualsiasi fondamento logico alla razionalità normativa – corrispondentemente alla netta separazione tra logica modale aletica e logica modale deontica –, Lorenzen, richiamandosi alla fondazione pratica della nozione di verità, assegna al contrario tale razionalità al compito stesso della logica operativa. Questa dislocazione «interna» della razionalità normativa si riflette dunque anche – in un senso opportunamente modificato – sulla fondazione normativa dei principi logici. In realtà, che i principi logici siano «norme», da un lato non implica affatto che essi siano normativamente giustificati in un senso etico-giuridico – compito che spetta piuttosto alla teoria della scienza politica, la quale deve valutare la giustezza o adeguatezza di un processo operativo81 – e, dall’altro, non comporta alcuna riduzione della modalità ontica alla modalità deontica. Si tratta piuttosto, ancora una volta, di ricostruire le azioni da cui sorgono le modalità deontiche e che, metodicamente, definiscono 77 Ciò, ovviamente, a meno che non si intenda il discorso normativo come circoscritto al rapporto tra le proposizioni normative, secondo il «principio di estensionalità» (cfr. F. von Kutschera, Einführung in die Logik der Normen, Werte und Entscheidungen, Alber, Freiburg/ München, 1973). 78 Cfr. G.H. von Wright, Norm and Action. A Logical Enquiry, Routledge & Kegan Paul, London and Henley, 1963, trad. it. di A. Emiliani, Norma e azione. Un’analisi logica, Il Mulino, Bologna, 1989, in particolare pp. 141 sgg. 79 Cfr. LKW, p. 121. 80 Cfr. C.F. Gethmann, Logik, normative, in EPW, II, p. 683. 81 Cfr. LKW, p. 122.
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il significato che s’intende attribuire ai termini primitivi. Come aveva già sottolineato Dingler, il significato di un principio logico non si esaurisce in una determinata norma (la quale dovrebbe, come tale, ammettere principi di scelta, di valutazione, di giustificazione e di relativa «sanzione» che, evidentemente, travalicano gli obiettivi della logica stessa), ma esprime anzi una funzione normativa entro un contesto o una situazione discorsiva. La logica deontica – nota Lorenzen – ha così il compito di risalire dall’imperativo incondizionato, espresso dalla norma (!A), all’imperativo condizionato (C → !A), il quale stabilisce che «a ognuno che si trovi nella situazione rappresentabile come C, viene rivolto il valore di richiesta in base a cui egli deve porsi A come scopo. Chi riconosce un tale imperativo, si ripromette di porsi A come scopo nel caso si verifichi C. Già da ora, dunque, egli acconsente al fatto che in ogni tempo futuro, se le condizioni C sono soddisfatte, sarà disposto a riconoscere l’imperativo incondizionato !A. Se non lo fa, allora glielo si potrà rimproverare»82. Come la fondazione dialogica della logica effettiva offre una fondazione della logica classica, così l’approvazione attuale delle regole di un dialogo futuro offre una fondazione normativa della logica modale, nella sua articolazione ontica, deontica e temporale83. Questa differenziazione dipende in ultima istanza non da una generica quanto ineffettiva separazione tra «descrizione» da un lato e «prescrizione» dall’altro, ma dal grado e dai contesti operativi in cui avviene la prescrizione: per la logica modale ontica ha luogo una prescrizione semplicemente semantica, in base all’istanza di derivazione da una sequenza o da una classe (Σ) di asserzioni vere; per la logica modale mellontica la prescrizione riguarda invece le asserzioni contenenti indicazioni temporali, in particolare intorno a futuro, che vengono costruite sulla base di un sapere (W) riguardo allo stato presente (S) e alle «leggi di decorso» (G) di un fenomeno o di un insieme di fenomeni (W = G ∧ S)84; infine, per la logica modale deontica si tratta di partire da un sistema di imperativi condizionati (C → !A), legati a una situazione riconosciuta come valida all’interno di un gruppo, per formulare un sistema di imperativi incondizionati (!A1 .... !An = !Z) rivolti a un sog82
Ivi, p. 119 sg. Cfr. ivi, p. 147. Sull’interpretazione costruttiva della modalità, in particolare riguardo al suo assetto normativo, cfr. R. Inhetveen, Die konstruktive Interpretation der modallogischen Semantik, in A.G. Conte, R. Hilpinien, G.H. von Wright, ed. by, Deontische Logik und Semantik, Athenaion, Wiesbaden, 1977, pp. 89-100; H. Lenk, hrsg. von, Normenlogik. Grundprobleme der deontischen Logik, Verlag Dokumentation, Pullach, 1974; G. Di Bernardo, a cura di, Logica deontica e semantica, Atti del Convegno tenuto a Bielefeld, 17-22 marzo 1975, Il Mulino, Bologna, 1977; Id., Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Il Mulino, Bologna, 1972; L. Venzi, Azioni individuali e logica intenzionale, CLUEB, Bologna, 1985. 84 Cfr. LKW, pp. 111 e 120. 83
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getto operativo del gruppo stesso che si trova nella condizione di poter agire in futuro entro un contesto simile85. Il compito della logica deontica è dunque quello di indagare ciò che è obbligatorio o permesso relativamente a un sistema !Z preso a piacere. Si noti, inoltre, che ad ogni livello (ontico, deontico e temporale), può svilupparsi un calcolo modale non vero-funzionale, ma effettivo. Infatti, solo con la «stabilizzazione» dell’effettività si può ottenere, per astrazione paradigmatica dall’azione, la verofunzionalità86. 3.4. La costruzione della scienza La definitezza dialogica, congiunta alla determinazione metodico-normativa della logica nella sua articolazione categorica e modale, rende ora possibile la fondazione costruttiva della scienza. Da questo punto di vista, la capacità fondazionale del costruzionismo metodico è direttamente proporzionale alla coerenza dell’insieme di regole pre-teoretiche che fungono come condizioni pragmatiche di possibilità della conoscenza. Inoltre, tale insieme si lega necessariamente a una riflessione sui diversi aspetti della conoscenza e sul loro intrecciarsi nei giudizi scientifici, la cui costituzione scandisce il passaggio dal paralinguaggio all’ortolinguaggio. Possiamo così distinguere tre aree tematiche del processo costruttivo, vale a dire: a) l’origine della conoscenza, nella distinzione tra «empirico» e «a priori»; b) il suo contenuto oggettuale, di tipo formale o materiale; c) la sua struttura processuale, di carattere analitico o sintetico. a) «Empirico» e «a priori». In prima istanza – nota Lorenzen seguendo Kant –, a priori sono tutte le verità non-empiriche87. Ciò tuttavia non significa che l’a priori sia estraneo all’esperienza. Anzi, dal punto di vista costruttivo, ogni esperienza, in quanto dotata di un senso, si dà sulla base di una costituzione a priori che ne determina la modalità. Le difficoltà sorgono nella misura in cui, da un lato, l’operazione costitutiva viene assegnata a una coscienza costituente e, dall’altro, l’oggetto costituito trae origine da una datità materiale o «empirica», indipendentemente dalle azioni che la determinano secondo un principio di finalità, sia quest’ultimo legato ai contesti vitali prescientifici o alle operazioni ortolinguistiche della scienza. La critica alla nozione di «datità» s’inserisce così, per Lorenzen, all’interno di un più ampio confronto con la concezione neopositivistica dell’esperienza come insieme di fatti rappresentati, sul piano linguistico, dalle proposizioni elementari sintetico-semantiche (osservative) e 85
Cfr. ivi, pp. 120 sgg. Cfr. ivi, p. 96. 87 Cfr. ivi, p. 155. 86
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dalle operazioni logiche analitico-sintattiche (teoriche) a cui spetta il compito di «regolare» i significati costituitisi a livello proposizionale88. In questa concezione, il problema metodico, e con esso la tematica dell’a priori, venivano ridotti alla sfera dell’analiticità, con la conseguenza che l’esperienza doveva dirsi, in sé, puramente extrametodica, e le operazioni logiche apparivano, per definizione, estranee a qualsiasi configurazione materiale della conoscenza89. Ma il risvolto più importante di una simile tesi è il totale fraintendimento della genesi stessa della conoscenza, vale a dire di quelle proposizioni elementari in cui si esprimono le stesse verità empiriche. Infatti, ogni proposizione esprimente una verità empirica – ad esempio «Londra è una città» – è senza dubbio descrittiva, ovvero contiene ciò che i neopositivisti chiamano «base osservativa»90; tuttavia, il suo contenuto descrittivoosservativo non corrisponde affatto a un’esperienza «pura» o a una datità. Ora, ciò non dipende da una condizione psicologica che conduce dalla semplicità del dato alla complessità della proposizione, ma dalla condizione logica che lega ogni esperienza all’assegnazione predicativa e proposizionale e che, come tale, si trova già aggiudicata all’interno della conoscenza prescientifica. L’a priori configura così, per Lorenzen, uno spazio crescente di strutturazione empirica in cui, attraverso la normazione dei significati, si passa dalle originarie esperienze vitali alle determinazioni scientifiche che trovano nell’esperimento l’espressione più evidente e metodologicamente vincolata. Nelle proposizioni generali, come ad esempio: «le stesse cause hanno gli stessi effetti»91, l’a priori vede realizzata la sua non-empiricità attraverso un procedimento di astrazione in cui, a seguito di una verificazione interpersonale, si offre una definizione dell’ambito di applicazione del termini. Perciò, le proposizioni empiriche contengono una «verità» solo in senso derivato e, a loro volta, le proposizioni nonempiriche, cioè propriamente a priori, portano a compimento una tendenza al vero già implicita nelle prime. Questa concezione dinamica dell’a priori, che non ha nulla a che vedere con una netta separazione tra forme sintattico-teoretiche e forme concrete-materiali, ma si rivolge anzi alla progressiva definizione, di carattere operativo, delle competenze conoscitive, permette inoltre di intendere l’ambito empirico-descrittivo come un caso particolare del processo costruttivo: la descrizione si ha quando la sintesi, a partire dal mondo della vita e dalle esigenze che lo determinano, non perviene a esplicitare le sue condizioni, ma si presenta come sintesi 88
Cfr. LP, p. 202. Cfr. F. Kambartel, Empirismus, in EPW, I, p. 543. 90 Cfr. LP, p. 168. 91 Cfr. ivi, p. 169. 89
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pura, irriflessa, conforme al carattere ipotetico che riconduce ogni proposizione a un’asserzione. In ultima istanza, mentre il dato osservativo richiede una coscienza costitutiva in cui possa maturare il processo di significazione, al contrario la pretesa di verità che si manifesta nelle proposizioni empirico-operative fa riferimento esclusivamente al grado di conformità metodico-pratica delle asserzioni, nella misura in cui tale grado corrisponde ai bisogni effettivi espressi dai soggetti concreti della conoscenza. Nelle verità empiriche ha luogo ciò che Kant chiamava una «sintesi ricognitiva», in attesa di una più adeguata e rigorosa normazione capace di estendere l’azione – che nella fattispecie si dimostra individuale e circostanziata – a una condizione universale che comporti l’apprendimento e la previsione d’uso dei predicatori. In esse, dunque, l’a priori rimane – per così dire – sullo sfondo, non essendo ancora in grado di garantire la comprensione di quegli schemi operativi che invece pertengono alle verità non-empiriche. Il rapporto tra l’universalizzazione categoriale e lo schematismo – per ritornare all’esempio kantiano – viene in tal modo capovolto: non sono gli schemi che devono dar prova della bontà del concetto, ma è anzi il concetto, definito come astrattore, che deve metter capo a schemi. Così, se da un lato la nozione lorenziana di «esperienza» recupera – in polemica con la versione neopositivistica – la concezione costruttivistica kantiana, dall’altro essa emenda proprio quel coscienzialismo che costituiva il tratto più significativo di questa concezione e che le permetteva di distinguere tra giudizi di percezione, validi solo nell’ambito soggettivo dei casi osservati, e giudizi di esperienza, la cui validità obiettiva è invece garantita dalla generalizzazione sintetica delle «dotazioni» a priori dell’intelletto. Tutti i giudizi d’esperienza sono quindi «empirici» nella misura in cui non vengono sottoposti a una rigorosa normazione operativa; tuttavia, essi non sono puramente a posteriori, in quanto fanno riferimento al fondamento a priori della prassi vitale e pre-scientifica dalla quale trae origine la stessa prassi scientifica. Si tratta – com’è stato osservato – della congiunzione complementare tra i motivi kantiani della «costituzione soggettiva» e i motivi conoscitivi di matrice aristotelica, volti a cogliere nell’esperienza la capacità orientativa della predicazione che si origina dalle forme pratiche della «differenziazione» e dell’esemplarità topica, le quali caratterizzano il «sapere intorno al particolare» o, per conversione, la «percezione dell’universale»92. b) Formale e materiale. Una volta chiarito che l’a priori è, in senso lato, il titolo generale che accompagna ogni esperienza razionale o metodica del mondo – e in questa prospettiva si è parlato di un «a priori del mondo 92
Cfr. J. Mittelstrass, Erfahrung, in EPW, I, p. 569 sg.
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della vita» –, si tratta ora di considerare la forma più ristretta che esso assume all’interno delle cosiddette «verità di ragione», vale a dire quelle forme conoscitive che caratterizzano l’attività scientifica, tanto nelle scienze fondamentali (logica, matematica, geometria, cronometria, fisica, meccanica razionale), quanto nelle scienze speciali o «applicate». Si noti peraltro che, con «verità di ragione» – corrispondentemente alla suddetta accezione dinamica e operativa dell’a priori – non si deve affatto intendere, in senso leibniziano, solo l’ambito delle conoscenze necessarie e analitiche, ma anche tutte quelle conoscenze in cui compaiono termini, cioè predicatori normati in base a regole e ad assegnazioni esplicite e condivise93. Se ora consideriamo il rapporto che queste normazioni instaurano con i loro oggetti, possiamo distinguere tra scienze o verità formali e scienze o verità materiali. Così, la logica e la matematica sono senza dubbio scienze formali; infatti, benché i dialoghi che costruttivamente portano alle verità logiche e matematiche siano materiali in quanto implicano il confronto tra diverse «posizioni» sostenute da soggetti reali, dal punto di vista conoscitivo essi non dicono nulla sul nostro mondo, sono cioè solo «giochi con simboli»94. Al contrario quando, partendo dalla vita quotidiana, si costituiscono ambiti del sapere che trattano di mezzi e di scopi – vale a dire gli ambiti del sapere tecnico e di quello politico – allora ci troviamo di fronte a scienze materiali. Nell’azione costruttiva bisogna dunque distinguere l’imposizione e l’impiego di mezzi e scopi dalla loro conoscenza e valutazione: se il primo aspetto si manifesta in ogni scienza, il secondo si evidenzia invece solo in quelle materiali: «L’aritmetica – nota Lorenzen – non dice nulla su quali scopi siano obbligati o vietati, non dice nulla su quali effetti si raggiungano attraverso certe azioni. Se si dispongono per due volte due mele in un cesto, normalmente si otterranno nel cesto quattro mele; se però si fanno cadere per due volte due gocce in un bicchiere, normalmente non si otterranno quattro gocce, ma una goccia più grande. Il fatto che “2 × 2 = 4”, non è una conoscenza causale»95. Cerchiamo ora, su questa base, di distinguere l’impostazione operativo-formale da quella assiomatico-formale riflettendo, ad esempio, sul nostro sapere riguardo al fatto che «3 < 4». Nel primo caso, il sapere si ottiene come conseguenza della costruzione della coppia «3, 4» secondo la regola «<». Se ora ci chiediamo in base a quali criteri accettiamo tale regola, non possiamo evidentemente rispondere in termini di «verità», ma 93 Cfr. LP, p. 70 sg. Conseguentemente, le «verità di fatto» non contrassegnano semplicemente i contenuti contingenti e sintetici, ma anche tutte quelle conoscenze in cui compaiono predicatori che non hanno ricevuto un’esplicita e coerente normazione. 94 LKW, p. 149. 95 Ivi, p. 149.
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solo richiamandoci a finalità pratiche. Infatti – notano Lorenzen e Schwemmer –, «nessuno è costretto ad assumere tali regole, ma esse sono consigliabili se vogliamo aprire un nuovo campo di attività simbolica che talvolta si rivela utile quando abbiamo a che fare con una molteplicità di cose. Solo la vita può insegnarci il valore di una simile tecnica. Dal punto di vista terminologico, diremo che le regole che impiegano il segno «<» possiedono una giustificazione pragmatica»96. Al contrario, nell’impostazione assiomatica la regola «<» è semplicemente parte di una proposizione che lega due termini, cioè una conseguenza logica dell’assioma: «n < n+1», cosicché la domanda sulla giustificazione veritativa dell’assioma stesso non ha evidentemente alcun senso. Se però – concludono Lorenzen e Schwemmer – «cominciamo con le regole “<”, pragmaticamente giustificate, notiamo inoltre che gli assiomi, i quali impiegano il segno “<”, sono effettivamente veri, vale a dire nel senso che essi possono essere difesi come tesi in un gioco dialogico»97. In ultima istanza, la formalità del sapere matematico non dipende dalla sua estraneità al tema della «giustificazione», ma dal rapporto che quest’ultimo instaura con l’esperienza. Qui infatti le caratteristiche della realtà che propriamente esperiamo non sono costitutive né dei segni né delle loro relazioni, ma solo delle ragioni in virtù delle quali introduciamo certi segni e certe relazioni. Ed evidentemente un conto è giustificare per effetto di una ragione pratica o causale, un altro è invece concludere grazie a leggi e a simboli formali, col solo criterio della verità del risultato. Per contrasto, le scienze materiali, pur non essendo empiriche, chiamano direttamente in causa la determinatezza della nostra esperienza. Nelle scienze formali non abbiamo bisogno di un sapere riguardo a determinati oggetti: in tal caso, si utilizzano proposizioni elementari per parlare intorno a tutti gli oggetti, accadimenti o cose, comunque essi possano presentarsi. Per questo la costruzione e l’ampliamento del nostro linguaggio può avvenire esclusivamente attraverso costruzioni simboliche98. Ma consideriamo ora il mondo più da vicino: non si tratta solo di stabilire, in generale, che ci sono oggetti i quali, con l’aiuto di predicatori simbolici, possono essere considerati come identici o diversi, molteplici o unici ecc., ma anche che, attraverso determinati mezzi predicativi, essi possono essere inquadrati all’interno di determinati scopi conoscitivi. Questo sapere «tecnico», che caratterizza le scienze materiali, si rivela in modo particolare nei metodi della classificazione scientifica: qui noi abbiamo già a che fare con proposizioni elementari, e il senso dei predicatori si ri96
KLEW, p. 185; LKW, p. 152. KLEW, p. 185; LKW, p. 152. 98 Cfr. LKW, p. 177. 97
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vela attraverso esempi e controesempi. Si noti anzitutto che il metodo esemplare non va confuso con la definizione ostensiva, perché gli esempi non sono «cose», bensì strumenti per determinare la nostra attività99. Per rendere stabile questo metodo si richiede inoltre l’introduzione di regole che prescrivano legami tra i diversi predicatori. In tal modo può originarsi una normazione semantica che si esprime, in particolare, nella scienza naturale aristotelica, in cui la conoscenza ha luogo attraverso la fissazione di proposizioni categoriche generali vincolate secondo quelle regole di subordinazione e di sovraordinazione che caratterizzano la classificazione per «generi» e «specie». Se ora ci poniamo il problema della giustificazione delle conoscenze contenute in tali proposizioni categoriche, ci accorgiamo immediatamente che tale giustificazione non può avvenire attraverso un criterio di verità, sia esso «empirico» o per «definizione». Infatti, la normazione dell’impiego di predicatori non serve a stabilire ciò che in assoluto è vero o falso, ma solo quelle modalità che, all’interno di una determinata cultura o mondo vitale, rendono possibile l’applicazione univoca e condivisa del linguaggio predicativo da parte di qualsiasi soggetto di conoscenza100. Il senso in cui nelle scienze materiali entra in gioco l’esperienza, si può quindi cogliere in base allo stesso criterio che distingue le «verità materiali» dalle «verità empiriche». Queste ultime si fondano su proposizioni elementari che vengono generalizzate, come ad esempio: «Tutti i mammiferi respirano con i polmoni»; esse non possono essere né attaccate, né difese tramite un dialogo, ma solo verificate o falsificate all’interno di una determinata zoologia101. Le verità e le scienze materiali sono invece costituite da normazioni in base al mondo vitale in cui ci troviamo; esse saranno più o meno ragionevoli o adeguate, ma in ogni caso le proposizioni che si riferiscono a tali norme possono essere difese o attaccate non tanto perché «corrispondono» a una particolare esperienza, ma perché sono o no conformi ai metodi d’introduzione dei predicatori e delle regole che 99 Indicativi sono, a questo riguardo, i racconti storici, in cui l’apprendimento del significato dei predicatori può avvenire anche attraverso storie fittizie assunte come paradigma dell’azione (cfr. LKW, p. 179). 100 Bisogna così distinguere – nota Lorenzen – tra regole e norme. Mentre le norme esprimono obblighi, divieti e permessi, e possono essere valide o no in un determinato contesto, le regole sono indicazioni procedurali che stabiliscono rapporti di derivazione in base a norme. In questa prospettiva, le regole possono essere considerate come norme o imperativi fittizi che si ritrovano nella struttura logico-grammaticale di una lingua. Ad esempio, dalla norma: «chi ha affermato “x è p” non può attaccare “x è q”», si ricava la seguente regola nella forma di un imperativo: «se viene predicato “p”, allora si predica anche “q”». Mentre le norme devono essere preventivamente assegnate al discorso, le regole indicano invece le trasformazioni possibili all’interno di un discorso già normato (cfr. LKW, pp. 180-182). 101 Cfr. LKW, p. 182.
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costituiscono l’assetto conoscitivo di tali scienze. Attraverso le esemplificazioni concrete, le caratteristiche della realtà che propriamente esperiamo servono per mostrare la ragionevolezza della regola (ad esempio, se si afferma che «x è un insetto», allora non si può attaccare che «x è un animale»)102, e non il contenuto empirico del fatto a cui tale regola si applica. L’apriorità delle scienze materiali non sta tanto, dunque, nell’impiego circostanziato di una determinata tecnica, bensì nella teoria normativa che, tradotta nel linguaggio scientifico, guida tale impiego. Questa distinzione tra tecnica e teoria della tecnica è la stessa che, nella fattispecie, distingue le questioni interne a una determinata zoologia da quelle che invece riguardano la teoria della zoologia103. Si noti infine che ogni sapere materiale intorno alla tecnica non può spingersi al di là di una teoria di primo grado, che tratti del semplice rapporto tra mezzi e scopi. Per una valutazione di questo rapporto, cioè per una teoria dell’uso della teoria, occorre un sapere materiale di secondo grado, il quale – come apparirà chiaro in seguito – trova espressione nella scienza politica. c) Analitico e sintetico. Abbiamo visto che la distinzione tra verità formali e materiali dipende, in sostanza, dal rapporto che la giustificazione normativa intrattiene con l’esperienza. Se ora consideriamo le modalità di tale giustificazione, notiamo che il sapere formale e quello materiale possono trovare un terreno comune nella misura in cui entrambi presentano una struttura analitica oppure sintetica. «Analitiche in senso lato» devono infatti dirsi, secondo Lorenzen, tutte quelle proposizioni o verità complesse che possono essere dimostrate in un dialogo sia attraverso la semplice forma logica, sia mediante una definizione puramente convenzionale, sia, infine, ricorrendo a una definizione che si avvalga di esempi e controesempi104. All’interno di quest’ambito possiamo poi isolare le verità «analitiche in senso stretto», ossia quelle verità che utilizzano solo definizioni esplicite, mentre vengono escluse le proposizioni propriamente logiche, le quali o si avvalgono di «definizioni implicite» in senso assiomatico, cioè concernenti il valore di verità (è questo il caso della logica classica), oppure introducono definizioni esplicite ma dialogiche (definizioni
102
Cfr. ivi, p. 181. Cfr. ivi, p. 183. Perciò, il carattere ipotetico delle proposizioni elementari che costituiscono le verità empiriche di una scienza dev’essere distinto dall’ipoteticità delle norme che riguardano le sue verità materiali. Nel primo caso, «ipotetico» significa «assunto fino ad ulteriori tentativi», nel secondo invece «assunto fino alle ulteriori proposte»: «In quest’ultimo caso – nota Lorenzen – si tratta di cominciare la ricerca di argomenti pro e contro l’assunzione delle norme: siamo dunque all’interno di questioni “normative”» (ibid.). 104 Cfr. LP, p. 202 sg.; LKW, pp. 156 sg.; 177 sg.; 182-184. 103
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procedurali), come accade nella logica operativa effettiva e nella logica intuizionistica105. Ora, ciò che più importa è che per Lorenzen le verità analitiche – similmente a quanto sostenevano Bolzano e Frege in opposizione a Kant – sono di volta in volta legate all’astrazione attraverso la relazione di equivalenza, l’invarianza funzionale e la sostituibilità sinonimica106. La critica alla nozione kantiana di analiticità, in quanto modellata sullo schema grammaticale soggetto-predicato, dipende dal fatto che in essa l’identità del collegamento tra la premessa (AB) e la conclusione (B) di un giudizio analitico (AB → B) viene intesa come l’esplicitazione delle rappresentazioni concettuali e finanche psicologiche della premessa. Come appare subito chiaro, una simile commistione di concetto logico e rappresentazione mentale è fonte di equivocità riguardo alla nozione stessa di «analitico». Quest’ultima si fonda infatti per Kant su un’anticipazione in virtù della quale si spera che, riformulando in maniera esplicita lo stesso giudizio, esso risulti apparire anche formalmente identico107. Ma ciò dipende a sua volta dal presupposto errato della costanza del significato nel passaggio tra la rappresentazione e l’espressione: evidentemente – nota Lorenzen – il significato non si mantiene in sé costante, ma è tale solo in base alla forma della definizione108. Kant, ad esempio, intende come analitico il giudizio: «Tutti i corpi sono estesi», mentre non sarebbe analitico il giudizio: «Tutti i corpi sono pesanti» per il fatto che qui il predicato è qualcosa di affatto diverso rispetto a ciò che in generale pensiamo del mero concetto di corpo109. Dunque l’analiticità non è né una proprietà logica della proposizione, né della sua schematizzazione linguistica; la semantica che essa esprime, dipende – com’è ovvio – dall’ermeneutica implicita nel «pensiero» che ne è a fondamento, per cui lo stesso giudizio può apparire o no «analitico» a seconda del suo contenuto noetico. Si tratta di un’impasse senza via d’uscita: se pensare significa giudicare, giudicare significa allora esprimere un rapporto semantico tra un soggetto e un predicato; tuttavia la forma del rapporto tra soggetto e predicato rimanda a sua volta alle rappresentazioni sottostanti, vale a dire al pensiero stesso che si fa contemporaneamente carico dell’assegnazione significativa e dell’interpretazione, producendo un circolo vizioso da cui si potrebbe uscire solo ammettendo ciò che Kant non può ammettere, ossia un’intuizione intellettuale. La definizione è perciò indispensabile per formulare il requisito 105
Cfr. LP, pp. 209 sgg.; LKW, pp. 156-158. Cfr. LKW, p. 164 sg. 107 Cfr. CRP, pp. 54 sgg. 108 Cfr. LKW, p. 156. 109 Cfr. CRP, p. 55. 106
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di analiticità; essa infatti, indipendentemente dalla sua «convenzionalità», garantisce un assetto stabile e univoco su cui fondare l’assegnazione semantica, rimandando l’ermeneutica allo sfondo operativo e vitale in cui il giudizio s’inserisce. Una volta reso in tal modo autonomo l’ambito semantico attraverso la dislocazione metalogica del piano ermeneutico, il requisito leibniziano-bolzaniano dell’analiticità, che si esprime nella clausola dell’invarianza veritativa (salva veritate), può essere soddisfatto: una proposizione è analitica quando l’assegnazione di un predicatore (p) a un oggetto (x) tramite una definizione (D) può essere sostituita da qualsiasi altra assegnazione di un predicatore all’interno della stessa definizione, senza che cambi il suo valore di verità. Si noti tuttavia che, a differenza di Bolzano, Lorenzen non fonda l’analiticità sulla sostituibilità della variabile rappresentazionale, la quale non costituisce certo – come in Kant – un prodotto del pensiero, ma corrisponde, in quanto «in sé», al suo significato obiettivo. Egli si affida anzi all’operazione di assegnazione di un predicatore; ciò che impedisce d’intendere il sintetico per semplice negazione dell’analitico. Infatti la sinteticità non si ottiene attraverso una diversa determinazione della variabile nella definizione, bensì mediante un processo di costruzione in base a regole pragmaticamente giustificate. In tal modo – nota Lorenzen richiamandosi al termine latino «constructio» – la sintesi implica una vera e propria «composizione» (Zusammensetzung) che dà luogo a verità sintetiche nella misura in cui si aggiunge alle regole logiche e alle definizioni110. In ultima istanza, mentre per le verità analitiche l’operazione di assegnazione si svolge internamente alle forme logiche o alla struttura della definizione, le quali costituiscono criteri normativi metalinguistici, nelle verità sintetiche ha invece luogo una manipolazione oggettuale che si lega direttamente ai bisogni pratici dell’uomo, evidenziando quella struttura genetica della normazione che si riflette sia nelle forme logiche, sia nelle definizioni. Essendo legata all’agire umano, si tratta di una struttura progressiva e modulare che trova il suo limite massimo nelle verità matematiche, e il suo minimo nelle verità puramente empiriche. Su questa base, si viene ora delineando il quadro di una teoria della scienza che combina la tipologia del rapporto tra la giustificazione normativa e l’esperienza (cioè il «formale» e il «materiale») con le modalità della giustificazione (vale a dire l’«analitico» e il «sintetico»); otteniamo così: 1) Proposizioni analitico-formali. Esse si costituiscono attraverso regole logiche e definizioni. Ad esempio, dalla definizione «celibe = uomo maschio e non sposato» si ottiene la proposizione vera: «se x è sposato con y, allora x non è celibe». Si noti anzitutto che, per difendere la verità di 110
Cfr. LKW, p. 155.
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questa proposizione è sufficiente la sola definizione. Non dobbiamo quindi appellarci ad alcun metodo dialogico-costruttivo attraverso cui giustificare la sua «difendibilità». Inoltre, quando il definitum viene sostituito dal definiens, otteniamo le verità puramente logiche, cioè «vere» per la sola forma. Le verità logiche sono perciò una specie particolare di verità analitico-formali; d’altra parte, le «verità analitico formali in senso stretto» sono solo quelle difendibili attraverso la forma logica e almeno una definizione111. 2) Proposizioni analitico-materiali. Si tratta di proposizioni la cui analiticità fa riferimento a regole per l’assegnazione dei predicati di un linguaggio (regole logiche e definizioni) e che, pur non necessitando di una conferma empirica, richiedono una normazione attraverso il metodo esemplare, vale a dire l’illustrazione per mezzo di esempi e controesempi112. Esse sono quindi «analitiche» perché non utilizzano regole costruttive, e sono al tempo stesso «materiali» perché fanno riferimento alla struttura dell’esperienza, sebbene non riguardino il fatto empirico. Il riferimento esperienziale consiste nella prescrizione di regole ai predicatori per adattarli al mondo della vita: gli esempi e controesempi devono cioè mettere capo a una normazione analitico-materiale composta di obblighi, divieti e permessi113. Così, ad esempio, la proposizione che afferma che «se x è chiaro, allora x non è nero», conduce alla seguente normazione: «chi ha affermato che x è chiaro, non può affermare che x è nero»; essa è certamente analitica ma non formale, in quanto, in questo caso, ha senso cercare di mostrare la ragionevolezza della regola adducendo un insieme di esemplificazioni concrete che chiamano in causa la nostra esperienza materiale della determinatezza dell’universo cromatico. Da ciò consegue che la normazione analitico-materiale non si riferisce solo ai predicatori «propri» (Eigenprädikatoren) che guidano la classificazione secondo generi e specie, ma pertiene anche agli appredicatori, i quali esprimono quell’universo qualitativo in cui si risolve il nostro «avere a che fare con le cose», nella fattispecie con i colori114. 3. Proposizioni sintetico-formali. L’espressione più significativa di queste proposizioni si ritrova nelle verità aritmetiche e matematiche. In esse abbiamo a che fare con pure costruzioni simboliche115, senza alcun riferimento all’esperienza, anche se l’esperienza può giustificare l’introduzione di tali costruzioni. Si faccia qui attenzione al senso della «giustifica111
Cfr. ivi, p. 156. Cfr. ivi, p. 182. 113 Cfr. ivi, p. 184. 114 Cfr. ivi, p. 186. 115 Cfr. ivi, p. 149. 112
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zione», da non confondersi né con la giustificazione analitico-formale, puramente definitoria, né con quella analitico-materiale, in cui l’esperienza si presenta in maniera esemplare o strutturale. In questo caso, infatti, l’esperienza, comunque intesa, non condiziona il valore di verità, ma determina solo la possibilità pratica di adozione di un certo sistema simbolico. Si tratta, per l’appunto, di una prospettiva pragmatica che può variare da cultura a cultura, dal momento che «solo la vita ci può insegnare il valore di una simile tecnica»116. 4. Proposizioni sintetico-materiali. La distinzione tra scienze formali e scienze materiali – nota Lorenzen – non viene in generale accettata dalle più recenti tendenze epistemologiche117. Ciò dipende dal fatto che la tecnica, a cui le scienze materiali sono strettamente legate, non riveste per esse alcun valore conoscitivo, ma viene relegata all’ambito eminentemente applicativo-strumentale. Ora, questa limitazione, oltre a produrre conseguenze negative riguardo all’uso e alla valutazione degli apparati tecnologici, i quali vengono sottratti a qualsiasi possibilità di razionalizzazione normativa «interna», risulta paradossale per la stessa modalità di determinazione delle scienze formali. Se infatti il criterio della formalità è l’assiomatizzazione, allora non solo la logica e la matematica, ma anche la geometria e la fisica teorica devono essere annoverate tra le scienze formali118. Si noti la petizione di principio: l’oggettualità dei diversi ambiti dell’indagine scientifica dovrebbe certificare la possibilità di assiomatizzazione, ma il postulato dell’assiomatizzazione traccia preventivamente i limiti della loro oggettualità, ovvero – ciò che è lo stesso – li amplifica indefinitamente. Questa difficoltà, che mette fuori gioco qualsiasi discorso intorno alla giustificazione razionale della scienza, nasce dal conflitto, sollevatosi all’inizio dell’età moderna, tra la prospettiva formalistica e quella empiristica riguardo a scienze – come la geometria e la fisica – che non hanno a che fare solo con relazioni simboliche, ma soprattutto con lo spazio, il tempo e i corpi. In questo senso, le critiche alla geometria euclidea e la conseguente affermazione delle geometrie non-euclidee nascono dal giusto rilievo che, se i suoi principi vengono concepiti come assiomi, allora sono incoerenti; se invece se ne cerca la coerenza riferendoli alla «naturalità» dello spazio fisico, allora perdono la loro formalità e universalità poiché si riducono a enunciati empirici (sintetici a posteriori). In primo luogo, infatti, una teoria 116 Cfr. ivi, p. 152. Il termine «tecnica» dev’essere qui inteso in senso incoativo, ossia come semplice espressione di una procedura operativa di manipolazione di segni, e non come sinonimo del «sapere tecnico» (technisches Wissen), proprio delle scienze materiali (cfr. ivi, p. 150). 117 Cfr. LKW, p. 148. 118 Cfr. ibid.
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assiomatica, per essere valida, richiede la coerenza semantica degli assiomi come assunzioni formali, cioè la loro verità in un’interpretazione qualsiasi (modello), requisito che – com’è noto – la teoria euclidea non può soddisfare, in quanto esiste almeno un’interpretazione in cui l’assioma delle parallele risulta falso. In secondo luogo, anche volendo intendere i principi – come in effetti Euclide sembra proporre – sotto forma di proposizioni descrittive intorno allo spazio, vale a dire non come semplici notazioni formali, ma come contenuti intuitivi, è allora necessario il ricorso all’intuizione come immagine che si forma in riferimento a eventi concreti, ad esempio i raggi luminosi o i corpi rigidi. Si riproducono così i difetti tipici di un’interpretazione immaginativa dell’intuizione, la quale, presentando la parte per il tutto, si trova a dover dipendere da una più riposta inferenza analogica, rendendo impossibile la sua elevazione a «principio»119. D’altra parte, si potrebbe tentare di evitare la riduzione degli assiomi geometrici a proposizioni sintetiche a posteriori convertendo – come fa Kant – l’intuizione dello spazio con lo spazio dell’intuizione, in modo tale che sia l’atto noetico, e non il correlato noematico-esperienziale (immaginativo), a produrre l’assiomatizzazione attraverso le proposizioni sintetiche a priori. Si tratta senza dubbio di una novità che, nota Lorenzen, ha avuto importanti conseguenze sul piano dell’epistemologia costruttiva. Tuttavia, essa risulta sovradeterminata nella misura in cui, fondandosi sull’anticipazione dell’esperienza, l’immaginazione produttiva kantiana supera noeticamente la tridimensionalità, per poi trovarsi circoscritta a quest’ultima sul piano estetico, dove l’intuizione, presentando il tutto per la parte, viene riconsegnata allo spazio «naturale» della sensazione. In ogni caso, dunque, l’assiomatizzazione dei principi geometrici sembra inconciliabile con l’istanza intuitiva che dovrebbe attestarne l’evidenza. Di fronte a questo dualismo tra «formale» ed «empirico», che rende impossibile un’adeguata ricostruzione del processo conoscitivo, Lorenzen replica anzitutto evidenziando che i principi euclidei non sono propriamente assiomi, cioè assunzioni primitive indimostrabili e di per sé evidenti, suscettibili inoltre – come accade nell’assiomatica moderna – di una connotazione convenzionale e sintattica, bensì postulati. Come tali, essi si 119
Bisogna infatti osservare che se l’intuizione si forma in rapporto allo spazio fisico, allora le esperienze si adattano con un’approssimazione molto buona alla geometria euclidea. Ma com’è noto la sua concorrente, la geometria non-euclidea, si comporta del pari in modo euclideo, con altrettanto buona approssimazione, in piccole porzioni di spazio. La nostra intuizione, legata alle immagini corporee, potrebbe quindi essere condotta alla geometria euclidea dal fatto che le nostre stesse esperienze si svolgono in una porzione dello spazio che è troppo piccola per constatare deviazioni da essa. Tuttavia, l’assioma delle parallele contiene un’affermazione sull’intero percorso di due rette, e non soltanto sul breve tratto che può essere dominato dall’intuizione.
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presentano nella forma di proposizioni prescrittive o di vere e proprie richieste esistenziali riguardo a procedimenti costruttivi che si collegano alle proposizioni comuni e, soprattutto, alle definizioni operative, in quanto sfondo conoscitivo di tutti i principi120. Ora, è proprio la mancata chiarezza con cui Euclide configura il rapporto tra definizioni e postulati a determinare un’assiomatizzazione formale dei principi geometrici121. In altri termini, l’istanza costruttiva dei postulati non può coesistere con l’istanza formale delle definizioni, le quali si presentano in modo eminentemente concettuale o «astrattivo», non considerando che la nozione di «spazio» non può essere ridotta a connotazioni puramente simboliche, ma ha anzi a che fare con la realtà fisica e perciò anche, in un certo senso, con la nostra esperienza. È dunque comprensibile che i successori di Euclide abbiano cercato una coerenza tra definizioni, postulati e principi attraverso un’assiomatizzazione; tuttavia ciò significa altresì la rinuncia implicita a qualsiasi «giustificazione» del sapere geometrico. Ora, secondo Lorenzen una simile giustificazione non può essere cercata in una teoria dello spazio, attraverso la formalizzazione dei postulati oppure mediante un’improbabile fondazione empirica delle definizioni, ma esclusivamente grazie a una prototeoria che, nella fattispecie, si presenti come protogeometria, volta a inserire le definizioni e i postulati all’interno della prassi operativa pre-scientifica122. È infatti solo in questa 120 Cfr. LKW, pp. 194, 199. Com’è noto, nei suoi Elementi Euclide pone tre gruppi di proposizioni primitive: le definizioni (Óroi), in cui si presentano i concetti fondamentali di punto, linea, retta, superficie ecc.; i postulati (a„t»mata), in cui vengono formulate le richieste costruttive ed esistenziali per le figure e tra i quali si trova anche il postulato delle parallele; e infine i principi o «concezioni comuni» (koinaˆ œnnoiai), ossia proposizioni di equivalenza di natura non specificamente geometrica, bensì relazionale o funzionale (ad esempio: «due elementi che sono uguali allo stesso terzo, sono tra di loro uguali»). Da Proclo in poi, i postulati e le nozioni comuni vennero chiamati «assiomi» (¢xièmata), cioè – traendo spunto dalla definizione aristotelica – quei principi o proposizioni prime da cui inizia la dimostrazione, e la cui validità dev’essere necessariamente ammessa da chiunque voglia conoscere (cfr. Aristotele, Analitici secondi, I, 19, 76 b 14; I, 2, 72 a 15). In tal modo, l’indimostrabilità per principio degli assiomi viene sovrapposta alla non-dimostrazione di fatto che viene affermata nei postulati: infatti questi, pur essendo – in un senso particolare – «dimostrabili», vengono assunti e utilizzati senza dimostrazione. Si riproduce dunque, anche in questo caso, la differenza fondamentale tra una nozione logico-sintattica di «dimostrazione» e una invece operativo-costruttiva la quale, evidentemente, non è «empirica», ma pragmatica, cioè volta a indirizzare l’esperienza secondo un principio di finalità (cfr. K. Mainzer, Euklidische Geometrie, in EPW, I, pp. 604606). 121 Cfr. LKW, p. 199. 122 Cfr. ivi, p. 196. Sulla protogeometria in accezione costruzionistica, oltre all’opera del padre ispiratore H. Dingler, Die Grundlagen der angewandten Geometrie. Eine Untersuchung über den Zusammenhang zwischen Theorie und Erfahrung in den exakten Wissenschaften, Akademische Verlag, Leipzig, 1911, si vedano, in particolare: P. Lorenzen, Eine konstruktive Theorie der Formen räumlichen Figuren, in «Zentralblatt für Didaktik der Mathematik», 9,
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prassi che da un lato i simboli definitori vengono ricondotti ai loro concreti contenuti esperienziali e, dall’altro, le prescrizioni costruttive si aprono alla possibilità di una generalizzazione concettuale e astrattiva. Inoltre, se ci affidiamo esclusivamente all’assetto teorico in cui può realizzarsi la piena coerenza dei principi, sono possibili solo due concezioni disciplinari della geometria: o quella analitico-formale di matrice cartesiana, in cui vengono utilizzati concetti matematici tratti dall’analisi numerica, oppure la versione sintetico-formale di Hilbert, anche detta «assiomatica in senso stretto», nella quale gli enti geometrici non sono più definiti con l’ausilio di coordinate numeriche, bensì attraverso concetti primitivi assunti in qualità di variabili, cosicché gli assiomi non si presentano più come proposizioni, ma come forme proposizionali. In entrambi i casi, tuttavia, oltre alla giustificazione, viene meno anche il significato oggettivo del sapere geometrico. Per ovviare a queste difficoltà, occorre dunque riferirsi alla prassi pregeometrica della manipolazione dei corpi e delle figure costruendo, attraverso una serie di determinazioni esemplari, un autentico «vocabolario protogeometrico»123. Si prenda, ad esempio, la concreta prassi dell’operaio che squadra la pietra per farne un buon materiale da costruzione: egli non ha a che fare con simboli, definizioni e concetti, ma solo con lati, spigoli, angoli e superfici di un corpo fisico. In base alla sua attività possiamo allora introdurre i predicatori: «piano», «retto», «tangente», «ortogonale» ecc. Pertanto, mentre nelle concezioni assiomatiche il teorema dell’ortogonalità – nella sua astratta idealità – è una semplice conseguenza logica degli assiomi, cosicché la sua «difesa» potrà risultare esclusivamente formale, viceversa nel manipolare concreto dell’operaio – nel suo «avere a che fare con le cose» – egli dovrà di fatto accontentarsi di raggiungere un risultato solo approssimativo; nondimeno, ciò non gli impedirà di condurre la sua azione in base a una norma ideale, ovvero – come diceva Platone – di giustificare la sua conoscenza dei principi geometrici secondo un oggetto ideale124. Egli potrà pertanto difendere il suo prodotto in base al grado di conformità alla norma che rappresenta lo scopo del suo agire, anzi potrà altresì valutare il suo agire precisamente secondo la prassi di produzione ideale che lo determina. Ma questo significa allora che la comprensione dell’azione non si fonda su ciò che l’operaio ha fatto, bensì su ciò che in1977, pp. 95-99; R. Inhetveen, Über die Konstruktion geometrischer Gegenstände, in W. Diederich, hrsg. von, Zur Begründung physikalischer Geo- und Chronometrien, Bielefeld, 1979, pp. 42-58; P. Janich, Was heißt «eine Geometrie operativ begründen»?, in W. Diederich, hrsg. von, Zur Begründung, cit., pp. 59-77; K. Mainzer, Geschichte der Geometrie, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1980, pp. 20 sgg. 123 Cfr. LKW, p. 192. 124 Cfr. ivi, p. 193.
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tende fare: «un mattone – nota Lorenzen – non è un oggetto naturale, ma un artefatto: dobbiamo produrre i suoi lati, e dobbiamo produrli ortogonalmente»125. Attraverso la definizione operativa o, meglio, empratica126, dei principali «enti» geometrici – come punto, linea, superficie, piano, retta ecc. –, partendo inoltre dalla considerazione dei corpi che si danno nella dimensione intenzionale dell’agire, Lorenzen intende la geometria come una scienza materiale che, conformemente al principio dingleriano dell’ordine metodico, respinge qualsiasi riduzione al formalismo matematico e all’empirismo fisico, per presentarsi invece come teoria normativa delle forme spaziali secondo la riproducibilità tecnica degli apparati e delle strumentazioni scientifiche127. Questo richiamo alla tecnica non deve tuttavia essere considerato come una rinuncia alle potenzialità teoretico-speculative della conoscenza umana che, nella fattispecie, sembrano evidenziarsi nelle interpratazioni analitiche e assiomatiche dei fondamenti della geometria. Infatti, l’«apriori tecnico» alla base della conoscenza geometrica non implica un’immutabilità dello strumento empirico di determinazione, così come dalla nozione di «corpo rigido» non consegue che ciò che noi possiamo pensare, in generale, di un corpo, debba comportarsi come tale. Esse non sono dunque nozioni metafisiche sulla realtà e sui suoi criteri di accertamento, ma ci dicono piuttosto quali condizioni devono essere soddisfatte affinché sia in generale possibile introdurre una determinata strumentazione, adeguata a un’altrettanto determinata concezione dei corpi fisici. Evidentemente, quale sia la forma particolare dello spazio che sorge dall’in125 Ivi, p. 193. Continua poi Lorenzen, richiamandosi al procedimento dingleriano delle «tre lastre»: «Quando cominciamo a cercare di capire come vengono prodotti i lati piani, giungiamo facilmente alla tecnica della levigazione delle lenti. Le lenti sferiche vengono prodotte mediante lo strofinamento reciproco di due blocchi di vetro. Se si ha sufficiente pazienza, lo si può effettuare senza una macchina. Ma non si otterrà alcuna superficie sferica ideale, bensì solo una realizzazione di una superficie sferica ideale» (ibid.). In sostanza, lo svolgimento della «prassi artigianale» (handwerkliche Praxis) che, dal punto di vista protogeometrico, determina la geometria euclidea, può essere brevemente definito nel modo seguente. Il passaggio dai corpi alle superfici, dalle superfici alle linee e da queste ai punti avviene mediante successive azioni di scomposizione ottenute grazie a superfici, linee e punti di «taglio» (Schnitt) che consentono di ottenere parti perfettamente adattabili l’una con l’altra, così come la rottura in due parti di una mela – comunque praticata – produce due superfici le cui linee di adattamento delimitano spazi simmetrici e congruenti. Attraverso la definizione costruttiva degli elementi fondamentali, si può quindi passare ai concetti fondamentali (incidenza, disposizione, ortogonalità) applicando alle figure i procedimenti della «simmetria di combaciamento» (Klappsymmetrie) e della congruenza (cfr. LKW, pp. 195-198). Ciò che emerge, dunque, è il fatto che gli elementi e i concetti non vengono ricavati mediante definizioni simbolico-amalitiche, ma grazie a procedimenti dinamici (sintetici) di scomposizione e ricomposizione. 126 Cfr. LKW, p. 195. 127 Cfr. P. Janich, Protophysik, in EPW, III, p. 379.
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terazione tra una certa tecnica e il suo oggetto, è un quesito a cui solo l’indagine empirica può dare una risposta128; ma non è certo una questione empirica quella riguardo alle regole che dobbiamo accettare perché sia possibile stabilire un accordo intersoggettivo che sorregga la nostra prassi di costruttori, di misuratori e, in generale, di persone che operano su oggetti dotati di una forma e di un’estensione spaziale129. Se ne conclude che le regole istitutive della geometria non sono proposizioni che possano rivelarsi false nel corso dell’esperienza, ma rappresentano anzi le condizioni che rendono possibile l’inquadramento tecnico-normativo della conoscenza, e in particolare la misurazione dello spazio. In quanto norme tecnicamente a priori che guidano la determinazione corporea, i principi geometrici sono sintetico-materiali e, come tali, si inseriscono nel più vasto ambito sintetico-materiale della protofisica130, la quale comprende anche la cronometria e la meccanica razionale131. «Qui – nota Lorenzen – noi ci occupiamo della materia – levighiamo superfici, regoliamo movimenti e provochiamo urti. Prescriviamo norme in base alle quali la materia deve “comportarsi” – se ci si concede questa metafora biologica. Nella protofisica, il nostro rapporto col mondo non è più passivo (il che renderebbe possibile solo un’attività linguistica); d’ora in poi noi trasformiamo attivamente il mondo»132. Questo non significa, peraltro, svalutare l’importanza dell’indagine fisica in senso stretto, ma solo «comprendere criticamente ciò che il fisico fa, o dovrebbe fare, quando mette in moto dei procedimenti di misurazione e, successivamente, comincia a lavorare con i risultati delle misurazioni»133. Così – come avremo occasione di approfondire trattando le posizioni assunte a tal riguardo da Peter Janich –, l’a priori materiale della protofisica è in realtà, nella sua applicazione all’indagine fisica, «teoretico riguardo alle forme» (formentheoretisch), in opposizione all’impostazione «teoretica riguardo alle grandezze» (größentheoretisch) caratteristica delle tradizionali nozioni fi128
Cfr. LKW, p. 211 sg. Cfr., a tal riguardo, P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica: ragione e linguaggio in Paul Lorenzen e Karl-Otto Apel, cit., p. 630. 130 Il termine «protofisica» è stato coniato da Friedrich R. Lipsius, Wahrheit und Irrtum in der Relativitätstheorie, Mohr, Tübingen, 1927, e ripreso in ambito costruzionistico nel 1960 da P. Lorenzen, Das Begründungsproblem der Geometrie als Wissenschaft der räumlichen Ordnung, cit., p. 140. In generale, sul dibattito intorno alla protofisica, cfr. G. Böhme, hrsg. von, Protophysik. Für und wider eine konstruktive Wissenschaftstheorie der Physik, Frankfurt a. M., 1976; G.H. Hövelmann, Bibliographie zur Protophysik und ihrer Rezeption und Diskussion, in «Philosophia Naturalis», 22/1, 1985 (Sonderheft: Protophysik heute, hrsg. von P. Janich), pp. 145-156. 131 Cfr. LKW, p. 200 sg. 132 Ivi, p. 210. 133 Ivi, p. 211. 129
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siche134. In questo senso, le forme spaziali non vengono identificate attraverso misure (ad esempio, la retta come «la linea più breve» ecc.), bensì mediante l’ordine di successione inverso dei concetti di misura, come la congruenza e i rapporti tra le lunghezze135. I concetti formali fondamentali sono pertanto ricostruiti percorrendo a ritroso il procedimento tecnicomateriale di realizzazione: un ruolo centrale svolge, a questo riguardo, il principio di omogeneità, all’interno del quale vengono formulate le finalità produttive che devono essere raggiunte dai procedimenti di realizzazione in base a determinati apparati di misurazione136. Tale principio viene cioè a indicare quell’indifferenziabilità ideale – legata in modo emblematico al principio leibniziano di «identità degli indiscernibili»137 – che serve per passare dal discorso sulle proprietà spaziali – contingenti e imperfette – dei corpi reali, al discorso sugli oggetti ideali o matematici138. La geometria matematico-analitica e, in generale, assiomatica, si presenta in ultima istanza come una sorta di «stilizzazione superiore» (Hochstilisierung) del linguaggio intorno agli scopi di produzione tecnica degli apparati di indagine, indipendentemente dal grado qualitativo di realizzazione. 134
Cfr. P. Janich, Protophysik, cit., p. 379. Si veda altresì R. Inhetveen, Konstruktive Geometrie. Eine formentheoretische Begründung der euklidischen Geometrie, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1983. 135 Cfr. P. Lorenzen, Geometrie als meßtheoretisches Apriori der Physik, in O. Schwemmer, hrsg. von, Vernunft, Handlung und Erfahrung. Über die Grundlagen und Ziele der Wissenschaften, Beck, München, 1981, pp. 49-63. 136 Cfr. P. Lorenzen, Das Begründungsproblem der Geometrie als Wissenschaft der räumlichen Ordnung, cit., pp. 128 sgg. 137 Cfr. ivi, p. 134. 138 In questo senso, il principio di omogeneità permette di fissare l’univocità (Eindeutigkeit) delle forme geometriche fondamentali dal punto di vista della teoria dell’azione: esecuzioni indipendenti delle procedure di realizzazione protogeometriche conducono infatti allo stesso risultato (cfr. LKW, p. 219). Questo principio esprime dunque in massimo grado la fondazione operativa dei postulati euclidei, ad esempio che «tutti gli angoli retti sono uguali». Si noti inoltre che questa teoria protofisica dell’ideazione, in quanto operativamente determinata, esclude qualsiasi ricorso alla «riproducibilità prototipica», secondo cui l’uguaglianza tra le forme si stabilisce in base al rapporto tra il modello originale e la copia. Infatti, il processo di produzione non avviene sul fondamento di una posizione intuitivo-figurale del modello (in analogia, ad esempio, col «metro originario» di Parigi per le grandezze), ma in ragione di una conoscenza delle regole al fine di costruire forme sempre uguali. Questo sapere riguardo al processo di produzione esclude, in ultima istanza, la reificazione del modello (idea), per avvicinarsi alla nozione sistemico-dinamica di equifinalità, così com’è stata formulata negli anni Sessanta da Ludwig von Bertalanffy (cfr. General Systems Theory (1968), trad. it. di E. Bellone, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, Mondadori, Milano, 2004, pp. 129, 210-213). Essa impone inoltre l’abbandono della funzione immaginativa dell’intuizione, a favore invece di un’accezione metodica: la norma è un «sapere intorno alla ricetta» (Rezeptwissen) tramite cui la tecnica «vincola» le forme fisico-geometriche a determinate realizzazioni strumentali (cfr. P. Janich, Protophysik, cit. p. 379).
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LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
Possiamo così offrire il seguente quadro sinottico delle combinazioni costruttive rispetto alle verità formali e materiali139:
Verità formale
materiale costruttiva
logico-formale
costruttivo-formale
costruttivo-materiale
ideativo-formale
descrittivomateriale (empirica)
regolativo-materiale
Da questo otteniamo il quadro lorenziano dell’interazione tra empirico e a priori da un lato, sintetico e analitico dall’altro140:
Verità analitica
sintetica a priori in senso stretto
logico-formale
definitoria (analitico-formale)
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analitica in senso stretto (concettuale)
normativo-regolativa (analitico-materiale)
sintetica in senso stretto
ideativo-formale (ideale)
descrittivomateriale (empirica)
costruttiva
costruttivoformale
costruttivomateriale
(sintetico-formale)
(sintetico-materiale)
Cfr. K. Lorenz, Wahrheit, in EPW, IV, p. 585. Cfr. LKW, p. 211. Rispetto a quello di Lorenzen, il nostro schema risulta modificato e ampliato in seguito al rilievo attribuito alla dimensione costruttiva. 140
3. IL PENSIERO METODICO E LA TEORIA COSTRUTTIVA DELLA SCIENZA
169
3.5. La costruzione dell’etica e il sapere politico Una volta tracciato il percorso della logica e della teoria costruttiva della scienza, si tratta ora di rivolgere l’attenzione ai fini dell’agire umano, cioè non tanto al rapporto tra mezzi e prodotti, siano questi puramente simbolici o tecnici, bensì alla costituzione e alla giustificazione degli scopi che si definiscono all’interno dell’operare intersoggettivo141. Abbiamo infatti visto che per Lorenzen ogni agire è determinato da un insieme di regole razionali e normative: nella conoscenza si tratta, in particolare, delle regole pragmatiche che permettono a una comunità di cooperare razionalmente in ambito logico, aritmetico e fisico. Ora, queste regole pragmatiche sono evidentemente «buone» o «giuste» in relazione agli scopi che si propongono, scopi che riguardano la rappresentazione o la modificazione della realtà. In senso lato quindi, i fini dell’agire umano, a qualsiasi livello, sono sempre operativamente «giustificati» poiché non si dà un atto puramente teoretico al di fuori della sua genesi pratica, così come non si dà una teoria della verità senza una teoria della costituzione dialogica che la fa sorgere142. Ma il punto, allora, è proprio questo: la valutazione dei fini non potrà appoggiarsi su una qualche posizione oggettiva del bene e del male, né, d’altra parte, potrà far riferimento a un criterio esclusivamente tecnico-strumentale che ne certifichi il vantaggio o lo svantaggio soggettivo143. L’operaio che squadra la pietra per farne un buon materiale da costruzione, non potrà dire di aver raggiunto il suo scopo se utilizza una materia prima scadente o se non rispetta le leggi fisico-geometriche di costruzione delle figure e del rapporto tra le forze; allo stesso modo il matematico non potrà dire di aver costruito un buon sistema aritmetico se non saprà giustificare e difendere le regole d’introduzione e d’uso dei simboli. A ciò si potrebbe obiettare che, in fondo, l’operaio e il matematico hanno rispettato una teoria della tecnica, senza peraltro poter accedere a una sua valutazione, ovvero a una teoria dell’uso della teoria: ad esempio, l’edificio costruito potrebbe essere utilizzato per fini malvagi, così come il sistema simbolico potrebbe servire per calcolare la produzione di strumenti di distruzione. Il problema della valutazione dei fini, dunque, sembra sorgere al di fuori del processo operativo, e questo può avvenire in due modi: o attraverso un’etica dogmatica dei principi, oppure mediante un’etica del movente o dell’utilità.
141
Cfr. LKW, pp. 228 sgg. Cfr. ivi, p. 148. 143 Cfr. KLEW, p. 150. 142
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LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
In realtà – nota Lorenzen – una simile obiezione si basa su un’incomprensione della genesi e della struttura dell’agire umano. Se è infatti vero che il problema degli scopi ultimi non dev’essere confuso con quello del semplice rapporto tra mezzi e obiettivi, è altrettanto innegabile che ogni interpretazione degli scopi non debba essere formulata secondo il modello solipsistico che – in generale – relaziona la «coscienza» umana con un insieme di «valori». Nello squadrare la pietra, così come nel costruire un sistema simbolico, l’uomo si avvale di un pensiero metodico, cioè a dire di un sistema di segni e di «ragioni» che vengono appresi all’interno di una comunità umana, i cui obiettivi possono dirsi raggiunti e nella quale, soprattutto, l’esperienza può assumere un senso solo quando si sia definito un reciproco terreno d’accordo che istituisce le regole della comunicazione e dà forma al vivere144. Ma ciò è quanto dire che ogni giustificazione pragmatica, per quanto strumentale possa apparire, si lega a una dimensione etica che vede, kantianamente, la ragione non come un fatto, bensì come un compito che dev’essere portato a termine. Chi colloca il problema della valutazione al di fuori del percorso pratico-normativo che ha fatto sì che ci fosse qualcosa come un agire umano, non commette un errore teoretico, ma rende impossibile la ricostruzione e la giustificazione di quegli atti che hanno determinato le sue scelte. Nella reificazione – empiristica o dogmatica – della scelta, egli si pone, in un certo senso, al di fuori del dialogo, ossia al di fuori del linguaggio e del pensiero che, soli, rendono possibile la comprensione del valore. In questa prospettiva – richiamandosi alle considerazioni svolte in Germania alla fine degli anni Sessanta dal movimento di «riabilitazione della filosofia pratica»145 – Lorenzen propone una fondazione razionale dell’eti144 Cfr., a tal proposito, P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica: ragione e linguaggio in Paul Lorenzen e Karl-Otto Apel, cit., p. 631. 145 Riguardo al movimento di «riabilitazione della filosofia pratica», nonché alle sue matrici aristoteliche e kantiane, la cui complessità e articolazione non possiamo qui ricostruire, cfr. supra, Cap. 1, pp. 33 sgg. In questo senso, il dibattito sulla filosofia pratica in Germania ha avuto un’ampia risonanza anche in Italia. Oltre ai già citati saggi di Berti, Volpi e Cortella, segnaliamo, in particolare: K.-O. Apel, R. Pozzo, hrsg. von, Zur Rekonstruktion der praktischen Philosophie. Gedenkschrift für Karl-Heinz Ilting, Frommann-Holzboog, Stuttgart/Bad Cannstatt, 1990; A. Da Re, L’etica tra felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, Dehoniane, Bologna, 1986; F. Volpi, La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, in «Il Mulino», 35, 1986, pp. 928-949; E. Berti, a cura di, Tradizione e attualità della filosofia pratica, Marietti, Genova, 1988; Id., La razionalità pratica. Modelli e problemi, Marietti, Genova, 1989; Id. Problemi di etica. Fondazione, norme, orientamenti, Gregoriana, Padova, 1990; T. Bartolomei Vasconcelos, M. Calloni, a cura di, Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova, 1990. Per un quadro d’insieme delle diverse posizioni: G. Fornero, La riabilitazione della filosofia pratica in Germania e il dibattito fra «neoaristotelici» e «postkantiani», in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. IV, tomo II: La filosofia contemporanea, a cura di G. Fornero, F. Restaino, D. Antiseri, UTET, Torino, 1994, pp. 195-220.
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ca la quale, attraverso il recupero del kantiano «primato della ragion pratica», si impegni in una propedeutica etica, ovvero a favore di una «teoria del sapere politico»146 volta alla ricostruzione del linguaggio e del vocabolario concettuale delle diverse forme d’azione e delle prospettive di riflessione che costituiscono il giudizio morale. Tuttavia, a differenza dei maggiori esponenti di questo movimento – il cui manifesto programmatico trova espressione in due poderosi volumi pubblicati all’inizio degli anni Settanta147 – Lorenzen non si limita a intravedere nella ragione pratica un modello complementare e per molti versi alternativo alla ragione teoretica di matrice logico-analitica, ma riconduce entrambe le prospettive alla comune radice pragmatico-linguistica o, meglio, vitale-esperienziale, nella misura in cui esse sono solo espressioni diverse di quella medesima facoltà di ragione che interviene nella determinazione costruttiva del mondo148. Questo fondamento razionale comune non rappresenta dunque altro che la continuità tra le forme del sapere scientifico (logico, matematico, fisico) e le forme del sapere etico-politico: la teoria etica dell’uso della tecnica non si riduce certo alla semplice teoria scientifica; tuttavia entrambe sottostanno alla razionalizzazione linguistico-normativa dell’esperienza149. Si tratta ora di procedere a una ricostruzione della terminologia etica150 che, riferendosi al comune fondamento linguistico-normativo, concorra a eliminare il dualismo, prodottosi in seguito all’affermazione dello scientismo, tra l’uomo politico pratico – al quale, guidato da una sorta di 146
Cfr. LKW, p. 228. Cfr. M. Riedel, hrsg. von, Rehabilitierung der praktischen Philosophie, cit. (RPP) 148 Cfr. M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., pp. 220 sgg. 149 In questo senso, la ricostruzione di Lorenzen si muove su un duplice piano: da un lato – coerentemente alle istanze «riabilitative» della filosofia pratica – egli critica la riduzione della razionalità alla dimensione teoretico-analitica della philosophy of science di matrice anglosassone, nella quale l’etica, l’economia e la politica «o diventano discipline non scientifiche (una sorta di “lirica del concetto”), oppure, allo stesso modo delle scienze della natura, vengono coltivate come scienze empiriche: descrizioni avalutative delle opinioni di fatto su ciò che è bene e su ciò che è male, su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e così via, nel vano tentativo di trovare, anche qui, “leggi di moto” per questi “fatti”» (LKW, p. 228). Dall’altro, pur sottolineando come la teoria costruttiva della scienza stabilisca un «fronte comune contro lo scientismo assieme all’ermeneutica (da Schleiermacher e Dilthey fino a Gadamer) e alla dialettica (da Hegel a Habermas)» – dal momento che «nell’ambito etico-politico le descrizioni avalutative sono un’illusione, poiché senza “valori” non si può decidere su ciò che nella descrizione dev’essere assunto come “rilevante” e ciò che invece va escluso come “irrilevante”» –, egli nota altresì che «la teoria qui presentata si distingue metodicamente sia dall’ermeneutica sia dalla dialettica mediante l’assunzione della svolta critico-linguistica (“linguistic turn”): l’aggettivo “costruttivo” indica anzitutto il compito di costruire – o quantomeno di ricostruire criticamente – i mezzi linguistici per tutte le scienze». Per questa ragione, in ogni processo di formazione culturale l’impiego del linguaggio «avviene sempre e solo in modo “protrettico”» (LKW, p. 229). 150 Cfr. O. Schwemmer, Grundlagen einer normativen Ethik, in PPKW, pp. 78 sgg. 147
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ragione minore, spetterebbero le «decisioni» in base alla tecnica e alla politica –, e l’uomo teoretico ovvero lo scienziato della politica, a cui invece verrebbe affidata l’elaborazione, razionalmente «superiore», degli strumenti intellettuali per la tecnica e per la politica151. Un simile dualismo, riguardante la sfera dei principi della ragione, potrà essere tolto solo considerando i fini peculiari dell’agire etico152. Se tutte le azioni raggiungessero perfettamente e senza difficoltà il loro scopo – se cioè, come aveva notato Kant, vi fosse una perfetta corrispondenza tra volontà e ragione –, esse non sarebbero comprensibili, poiché non sarebbe possibile individuare nell’agire quel senso vitale che deriva dallo scarto tra l’intenzione o tendenza e la realizzazione dello scopo. Tutti i procedimenti di giustificazione delle azioni nascono dunque in situazioni di carenza o difficoltà, vale a dire quando si presenta la minaccia del mancato raggiungimento dello scopo. Su questa base negativa, che antropologicamente condiziona il nostro agire, possiamo distinguere due differenti situazioni: la prima è una semplice situazione di «carenza» (Mangelsituation), determinata dall’intenzione e dalla difficoltà di approntare i giusti mezzi per i fini preposti; la seconda invece è la situazione di «conflitto» (Konfliktsituation), la quale non riguarda tanto il rapporto mezzi-fini, ma piuttosto la possibile incompatibilità teleologica, ovvero il reciproco impedimento che si manifesta tra fini diversi153. Mentre la soluzione del primo compito richiede dunque l’intervento di un sapere tecnico che si esprime nella capacità di predisporre delle «leggi procedurali», il secondo deve al contrario far ricorso a un sapere pratico che permetta di decidere riguardo a quali «posizioni dei fini» (Zwecksetzungen) siano preferibili per superare il conflitto. In 151 Infatti, nota Lorenzen, «dal momento che siamo abituati a distinguere il politico pratico dal politico teoretico (lo scienziato della politica) [...], il richiamo alla “ragion pratica” appare come se si dovesse affermare che le decisioni del politico pratico potessero essere prese in modo migliore dagli scienziati» (LKW, p. 230). Evidentemente, la ragione pratica che Lorenzen intende proporre riferendosi alla tradizione aristotelico-kantiana, non deve affatto confondersi con l’esercizio applicativo di un retrostante «sapere teoretico», come accade, ad esempio, «per le decisioni pratiche nella costruzione di un ponte, delle quali non è competente il fisico teorico, bensì l’ingegnere capo» (ibid.). Mentre infatti, in un ambito analitico, «pratico» equivale ad esecutivo, cosicché in esso la «ragion pratica» risulta incomprensibile, nell’ambito costruttivo la prassi riguardo ai fini etici ha invece a che vedere con una diversa modalità della ragione normativa, cioè con quella stessa ragione che presiede alla costituzione delle scienze naturali e simboliche. La differenza tra sapere teoretico e sapere etico non è dunque data, semplicemente, dalla diversità degli oggetti (i fatti, le pure esperienze e le teorie nel primo; le azioni, i valori e le norme nel secondo), ma dal rapporto tra le azioni e i correlati oggettuali, da cui consegue una diversa interpretazione del rapporto – sempre presente – tra mezzi e scopi. 152 Cfr. KLEW, p. 149. 153 Cfr. ivi, p. 149.
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questa prospettiva, l’etica si configura, per Lorenzen e Schwemmer154, come la scienza dei principi del «superamento del conflitto» (Konfliktbewältigung), un sapere che può essere appreso nel discorso pubblico mediante la realizzazione di leggi operative di carattere generale155. Queste leggi utilizzano a loro volta proposizioni generali legate ai principi dell’argomentazione, in base ai quali vengono confrontate le preferenze rispetto agli scopi, ossia le valutazioni conflittualmente rilevanti156. I principi del superamento del conflitto mediante il discorso sono così inseriti nella più ampia trama del confronto vitale in cui – come abbiamo osservato – vengono avanzati valori di richiesta, appresi per mezzo di esempi e controesempi. Ora, il perseguimento di questi valori genera precisamente il campo semantico dell’«azione» morale. Da ciò consegue che il discorso etico, anziché offrirsi come una mera definizione dei concetti morali – quali appaiono, ad esempio, nelle strutture teoretico-formali, sia empiristiche sia razionalistiche, della filosofia della morale tipica dell’evo moderno –, si rivela piuttosto consegnato a un interesse pragmatico volto alla ricerca di un’attenuazione dei conflitti attraverso il conseguimento di una sorta di «saggezza operosa», così come essa si presentava nella filosofia morale degli antichi, e in particolare di Aristotele157. 154 A questo proposito, dobbiamo sottolineare che, mentre per le tematiche riguardanti il sapere scientifico le posizioni assunte da Lorenzen nello sviluppo del suo pensiero sono sostanzialmente omogenee, per gli argomenti di carattere etico-pratico si presenta invece uno scarto tra le opere dei primi anni Settanta – in particolare la «Logica, etica e teoria della scienza costruttive», composta in collaborazione con Schwemmer – e il «Trattato di teoria costruttiva della scienza», pubblicato alla fine degli anni Ottanta, in cui la parte sull’etica viene radicalmente emendata e assorbita nella teoria del sapere politico. Ciò dipende non solo dal fatto – come è già stato evidenziato (cfr. supra, Cap. 1, p. 17) – che per Lorenzen i principi dell’argomentazione (cioè il «principio di ragione» e il «principio morale»), nella misura in cui vengono circoscritti alla prassi prepolitica, manifestano «lacune di fondazione» per il superamento delle quali si rende necessaria un’etica come antropologia politica (cfr. LKW, p. 238 sg.), ma anche dall’accoglimento delle critiche provenienti dai suoi stessi allievi. Questi ultimi, infatti – come vedremo – immediatamente dopo la pubblicazione del progetto etico di Lorenzen e Schwemmer, avevano denunciato l’astrattezza dell’universalismo attraverso cui veniva presentato quello stesso principio di ragione che, in ultima istanza, doveva sorreggere l’intero impianto dell’etica costruttiva. Noi seguiremo entrambe le prospettive, mettendo in luce i punti di continuità e di divergenza. 155 Cfr. KLEW, p. 150. 156 Cfr. ivi, p. 151. 157 Si noti a tal riguardo che presso gli antichi la filosofia morale sorge, e si mantiene dialetticamente, come opposizione dell’universalità della ragione (personale in quanto esercizio, ma universale nel suo valore) alla sostanziale gregarietà delle opinioni del gruppo (universali di fatto, ma particolari nel valore). Ora, questo scopo è senza dubbio perseguito mediante la ricerca di una fondazione teoretica dei valori morali (il «sommo bene»), ma sempre in funzione dell’esplicazione dell’attività razionale dell’uomo, la quale costituisce – appunto – la sua «opera propria», specifica ed essenziale. Tuttavia, questa duplice natura, insieme teoretica e prag-
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In questa prospettiva – mediante la complessa trama che lega i valori di richiesta afinali, rivolti cioè alla semplice esecuzione di un’azione, e valori di richiesta finali, tendenti invece alla produzione di uno stato di cose –, Lorenzen e Schwemmer configurano un rapporto mezzi-scopi nel quale le decisioni, che emergono all’interno della prassi discorsiva, determinano un superamento del conflitto nella misura in cui le deliberazioni tecniche vengono sottoposte al primato delle deliberazioni pratiche158. A queste ultime spetta il compito di rendere compatibili le richieste operative che provengono dai diversi soggetti del discorso etico, considerando non solo quali mezzi e quali scopi siano giustificati in una situazione conflittuale, ma valutando altresì le relazioni che si stabiliscono tra gli scopi e gli effetti di un’azione159. Infatti – come d’altra parte aveva già evidenziato Weber – mentre in un contesto etico ogni azione tende a uno scopo, che risulta analiticamente comprensibile in base ai mezzi e ai valori che rappresentano l’universo pratico-soggettivo di riferimento, non ogni azione risulta invece giustificabile in base agli effetti prodotti, che costituiscono dunque l’approdo sintetico della relazione discorsiva. In questo senso, per procedere a quella valutazione delle deliberazioni che si segnala come il compito fondamentale della ragion pratica, occorre introdurre sia un principio regolativo, di tipo sintattico, sia un principio costitutivo, di tipo semantico. Al primo, cioè al principio di ragione (Vernunftprinzip), è affidato l’incarico di delineare il terreno comune entro cui devono muoversi i soggetti del discorso etico160. Il suo obiettivo è quello di mettere da parte, ovvero di trascendere, le esigenze meramente fattuali della soggettività a favore di una dimensione transsoggettiva, facendo appello alle «capacità» o alle facoltà razionali presenti in ogni uomo161. Al secondo, vale a dire al principio morale (Moralprinzip), spetta invece il compito di delineare la struttura normativa dell’agire etico, approntando un sistema «gerarchico» matica, della filosofia morale classica, è spesso fonte di equivoci e contraddizioni nella misura in cui, fondendo alla base essere e dover-essere e risolvendo il secondo nel primo, essa sembra togliere al supremo principio etico ogni reale efficacia normativa: il principio stesso non è cioè qualcosa che deve attuarsi, ma è già in atto, anzi è il vero essere. (cfr. G. Preti, Etica, in Id., a cura di, Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, vol. 14, Feltrinelli, Milano, 1966, 19702, pp. 76-79). Si tratta, com’è evidente, di una contraddizione che nasce allorquando la fondazione ontologica dell’etica classica viene concepita come una riduzione della funzione alla forma, smarrendo così quelle istanze operative dei principi che invece la ricezione lorenziana dei motivi etici platonici e aristotelici intende affermare. Per questa ragione – notano Lorenzen e Schwemmer – «nell’etica intendiamo parlare intorno a processi di vita che, attraverso impostazioni discorsive e valori di richiesta, possiamo provocare o impedire» (KLEW, p. 152). 158 Cfr. KLEW, pp. 153-159. 159 Cfr. ivi, p. 156. 160 Cfr. ivi, p. 162. O. Schwemmer, Grundlagen einer normativen Ethik, cit., pp. 82 sgg. 161 Cfr. KLEW, p. 164.
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di scopi a cui corrisponde una gradazione delle norme162. Così, ad esempio, nel corso dell’esecuzione di un’azione, per raggiungere uno scopo potrebbe essere richiesto il preventivo perseguimento di parecchi altri scopi: questi si definiscono di conseguenza come scopi intermedi o inferiori (S1 .... Sn) rispetto allo scopo superiore (Ss); parimenti, gli scopi intermedi sono accompagnati da norme intermedie o subnorme (N1 .... Nn), formulate in vista della norma superiore (Ns) che si lega allo scopo ultimo163. La complessa trama che, attraverso una ricostruzione della terminologia etica, lega l’argomentazione razionale al sapere pratico guidato dal «principio morale», si presenta tuttavia come non completamente determinabile in senso operativo, nella misura in cui il richiamo alle norme e agli scopi «superiori» si configura come un tentativo – non esente da incertezze e ambiguità – di fondare linguisticamente e pragmaticamente l’imperativo categorico kantiano164. In questa prospettiva, il principio morale, col suo richiamo alle «norme superiori», dovrebbe configurarsi come la giustificazione ultima del principio di ragione: questo non è infatti in grado, da solo, di garantire la transsoggettività dell’agire in base all’universalità incondizionata della norma, ma ne decreta unicamente la sua intersoggettività, cioè un’universalità relativa o «soggettiva»165. Di conseguenza, l’intuizione costruttiva, a cui è stato affidato il compito di sorreggere metodicamente il sapere etico, deve in ultima istanza fare appello a un’intuizione per evidenza (Einsicht), benché si tratti pur sempre di un’intuizione non legata alla formalità astratta del valore, ma all’esercizio della ragione e all’osservanza dei principi normativi166. Così, mentre Schwemmer, attraverso una ricostruzione dell’etica dei principi kantiani167, appare continuamente alla ricerca di un terreno di conciliazione tra le due forme dell’intuizione, in cui costruzione ed evidenza 162 Cfr. ivi, p. 166. P. Lorenzen, Normative Logic and Ethics, cit., p. 82; O. Schwemmer, Grundlagen einer normativen Ethik, cit., pp. 86-89. 163 Cfr. altresì, a tal riguardo, R. Wimmer, Universalisierung in der Ethik. Analyse, Kritik und Rekonstruktion ethischer Rationalitätsansprüche, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1980, pp. 97-121. 164 Cfr. N. Roughley, Vernunftprinzip, in EPW, IV, p. 525. 165 Cfr. KLEW, p. 168. 166 Cfr. ivi, p. 170. 167 Cfr. O. Schwemmer, Philosophie der Praxis, cit., in particolare pp. 15-77, 106-131, 207-242; Id., Grundlagen einer normativen Ethik, cit.; Id. Appell und Argumentation. Aufgaben und Grenzen einer praktischen Philosophie. Versuche einer Antwort auf die „Kritik der praktischen Philosophie der Erlanger Schule“, in PPKW, pp. 148 sgg.; Id. Brief an Kambartel von 08.07.1974, in PPKW, pp. 228-231; Id., Ethische Untersuchungen. Rückfragen zu einigen Grundbegriffen, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986; Id., Moralität und Identität, in Id., Die Philosophie und die Wissenschaften. Zur Kritik einer Abgrenzung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1990.
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si presentino – attraverso una prospettiva, per cosi dire, «platonica» – nello stesso rapporto nel quale si danno i diversi mezzi dell’azione rispetto a un unico fine, nel suo Lehrbuch der konstruktiven Wissenschaftstheorie Lorenzen prende invece progressivamente le distanze dalle linee d’indagine tracciate in Konstruktive Logik, Ethik und Wissenschaftstheorie, per approdare a un recupero delle istanze etico-pratiche già discusse, pochi anni prima, in Normative Logic and Ethics e, soprattutto, nel saggio su «Scientismo e dialettica». Ora la ricostruzione delle forme del discorso morale non appare più vincolata all’individuazione dell’universalità categorica di un principio normativo transsoggettivo, bensì agli atti e alle operazioni della soggettività concreta, consistenti nel desiderare, nel volere, nell’aspirare a qualcosa, nel dover-essere e finanche nel rappresentare e nel sentire. Da qui la necessità di legare la nuova etica o antropologia politica a una psicologia dell’agire che sia in grado, partendo dalla ricostruzione delle esperienze di fatto, di presentare una genesi critica dei principi normativi168. Si tratta per l’appunto di una psicologia che si ricollega al filo conduttore di tutta l’opera lorenziana, vale a dire al fatto che «la stessa ragione teoretica ha un fondamento pratico»169. Si prenda, ad esempio, un sistema (Σ) di proposizioni indicative teoreticamente caratterizzate: se un simile sistema «implica logicamente» un’asserzione (A), non per questo bisogna certo accettare il comando ad essa legato (!A); tuttavia, «chi intenda pensare logicamente, se vuole seguire Σ, allora deve seguire anche A». Questo giustifica l’introduzione di un nuovo simbolo per l’asserzione A implicata da Σ, cioè a dire: «A è obbligatorio (relativamente a Σ)»170. La logica dell’asserzione – nota Lorenzen declinando l’assetto del pensiero deontico nella direzione della ragion pratica – è così connessa senza soluzione di continuità alla logica delle modalità etiche171. Nel mondo della vita, infatti, le asserzioni, similmente alle implicazioni tra le asserzioni, non indicano solo rapporti logico-formali, né possono dirsi legate alla semplice dimensione operativa della dimostrazione logica. Esse contrassegnano piuttosto un impegno, una decisione e una volontà di comprendere che hanno a che fare col potere e col dovere concreti172. Detto questo, non si tratta di fondare il discorso morale su una psicologia empirica, ma anzi di far emergere le strutture psicologiche che guidano l’argomentazione etica. Ciò potrà essere realizzato – osserva Lorenzen – attraverso una noologia non empirica, corrispondente a quella che, nella più recente tradizione cognitiva, viene 168
Cfr. LKW, Psychologischer Anhang, pp. 254-266; Szientismus versus Dialektik, cit.,
p. 342. 169
P. Lorenzen, Szientismus versus Dialektik, cit., p. 339. Ivi, p. 343. 171 Cfr. ivi, p. 342 sg. 172 Cfr. ivi, p. 344. 170
3. IL PENSIERO METODICO E LA TEORIA COSTRUTTIVA DELLA SCIENZA
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designata come psicologia razionale o «philosophy of mind»173. Ora, il nostro rapporto con le cose e con l’agire altrui si determina tanto in base a proposte di azione, quanto al fatto che ci decidiamo a favore di certe norme: «di chiunque proponga una modalità di azione per dare origine a un certo stato A, si deve dire che “egli desidera che A”»; allo stesso modo, «chi approva una decisione, si è con ciò formato una volontà», poiché quest’ultima si costituisce solo «mediante argomentazioni razionali a partire dai desideri originari»174. Respingendo qualsiasi riduzione del significato vitale delle norme etiche alla mera osservazione dei comportamenti linguistici e cognitivi, Lorenzen si dimostra – in ultima istanza – sempre più attento a cogliere il carattere formativo dell’argomentazione razionale. Grazie a questo carattere, la volontà, i desideri e il dover-essere non costituiscono dei semplici «dati» appartenenti al mondo interno, ma sono anzi il frutto di processi che si apprendono vivendo175. Così come una proposizione deve dirsi «vera» non tanto se è logicamente condivisa, ma piuttosto se è operativamente possibile difenderla contro ogni eventuale obiezione, parimenti nelle decisioni pratiche noi saremo in grado di trascendere la nostra soggettività nella misura in cui impareremo a produrre ragioni a loro sostegno. Il principio della moralità consiste dunque nella seguente riformulazione dell’imperativo categorico: «Agisci in modo tale che la norma della tua azione possa essere difesa contro chiunque»176. In questa prospettiva, nell’antropologia politica, che significativamente conclude le riflessioni etiche lorenziane, l’accento viene posto sull’introduzione empratica degli imperativi etici, a partire dai contesti storici in cui i bisogni e i moventi umani trovano una loro adeguata collocazione177. Attraverso la competenza, la prudenza e la risolutezza178, l’agire dell’uomo politico deve superare, per Lorenzen, l’idea formale della transsoggettività allo scopo di far emergere la materia dell’argomentazione che si origina dal confronto intersoggettivo179. Anche il politico, dunque, deve poter accedere a quella «scuola preparatoria del discorso razionale» in cui – soltanto – può sorgere qualcosa come una fondazione della nostra esperienza, sia essa legata alle forme conoscitive della ragion pura o alle istanze etiche della ragion pratica.
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Cfr. ivi, p. 345. Cfr. ivi, p. 346 sg. 175 Cfr. ivi, p. 347. 176 Cfr. ivi, p. 348. 177 Cfr. LKW, p. 243. 178 Cfr. ivi, pp. 251-254. 179 Cfr. ivi, p. 251. 174
Capitolo quarto Il costruzionismo metodico in discussione
4.1. Kambartel: «esperienza e struttura» L’attività di Lorenzen e di coloro che, tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, contribuirono più da vicino alla delineazione dei confini teoretici entro cui si muovevano le riflessioni della Scuola di Erlangen (in particolare Kamlah, Lorenz e Schwemmer), aveva aperto una serie di questioni che riguardavano sia lo statuto delle indagini epistemologiche – in special modo il tema della «fondazione» delle scienze –, sia il rapporto di queste con le altre discipline filosofiche, come la logica, l’etica e la fenomenologia del mondo della vita. Così, gli allievi che negli anni successivi svilupparono le proprie posizioni all’interno o in relazione alle originarie istanze lorenziane, oltre ad approfondire temi costruzionistici di carattere generale, si impegnarono nella loro applicazione alle particolari aree della ricerca scientifica, insistendo soprattutto sulla natura «protodisciplinare» dell’impostazione costruzionistica1. Ma queste diverse direttrici dovevano pur sempre muoversi sul comune terreno pre-empirico del principio dingleriano dell’«ordine metodico», volto a evidenziare il fatto che ogni nozione scientifica è legata a una preliminare determinazione operativa degli strumenti di misurazione e dei criteri di verità, tali da consentire la mancanza di lacune e la non-circolarità dell’argomentazione2. In questa prospettiva, nel dare alle stampe la sua prima e forse più importante opera dal titolo «Esperienza e struttura»3, il giovane Friedrich Kambartel si proponeva di far luce sulla natura dell’a priori all’interno di un modello di conoscenza, come quello costruzionistico, che non voleva indulgere alle tentazioni formalistiche dell’epistemologia analitica né, d’altra parte, intendeva rinunciare alla fondazione unitaria del discorso scientifico a favore di una sua segmentazione – tipicamente logico-empiristica – in un linguaggio osservativo-descrittivo e in uno invece teorico-interpretativo4. A tal proposito, Kambartel si richiamava alle riflessioni contenute nell’opera
1
Cfr. C.F. Gethmann, Wissenschaftstheorie, konstruktive, cit., p. 750. Cfr. ibid. 3 Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit.; cfr. supra, p. 18. 4 Cfr. K. Lorenz, Empirismus, logischer, in EPW, I, p. 544. 2
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di un giovane filosofo dell’educazione, Günther Buck5, grazie al quale il problema dell’a priori veniva posto al centro di una teoria dell’apprendimento basata sull’induzione e sulla comprensione tramite esempi6. Attraverso un significativo percorso che andava da Aristotele a Wittgenstein, Buck aveva infatti cercato di dimostrare che l’apriorismo conoscitivo non si riduce affatto a un ingenuo «nativismo», così come, d’altra parte, la conoscenza paradigmatica o «esemplare» non ha nulla a che vedere con un dogmatico empirismo associazionistico7. In tal senso, egli non si avvaleva delle classiche argomentazioni, di matrice leibniziana e kantiana, volte a stabilire una differenza tra il «possesso» di conoscenze a priori e l’«acquisizione» apriorica delle nozioni conoscitive – vale a dire tra il contenuto attuale e la funzione potenziale del processo –, ma fissava anzi la sua attenzione sul carattere «prestazionale» dell’atto conoscitivo8, nella misura in cui esso si dimostrava legato alla prassi concreta dell’apprendimento e della formazione concettuale. Riferendosi in primo luogo alle indagini di Wolfgang Wieland in merito alla costituzione della scienza antica – in particolare della fisica9 –, Buck rinveniva così nella dottrina dei principi di Aristotele, e soprattutto nella sua distinzione tra ciò che è «primo per natura» (prÒteron tÍ fÚsei) e ciò che è invece «primo per noi» (prÒteron prÕj ¹m©j)10, l’affermazione di una sostanziale equivalenza tra la strutturazione conoscitiva (mathesis) e il procedimento induttivo (epagoge)11. Quest’ultimo non indica una semplice generalizzazione dell’esperienza a partire dai suoi dati elementari e soggettivi, ma la relazionalità dei principi, in quanto nel conoscere «noi ci riferiamo già da sempre ai principi, anche se ciò accade in modo non tematico, vale a dire tale che essi non ci sono direttamente noti nella loro specificità»12. L’epagoge in senso aristotelico – nota Buck – non è dunque altro che l’esplicazione o l’elaborazione di quel «primo in sé che si ritrova in ciò che è primo per noi»13, talché il rapporto tra a priori e a posteriori non dev’essere confuso con quello che – in senso kantiano – si dà tra l’oggettività delle strutture conoscitive e la soggettività del materiale empirico e sensibile14. Mentre in Kant la 5 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung. Zum Begriff der didaktischen Induktion, Kohlhammer, Stuttgart/Berlin/Köln/Mainz, 1967; F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit., pp. 11, 14. 6 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 9. 7 Cfr. ivi, pp. 23, 28. 8 Cfr. ivi, pp. 24, 26. 9 Cfr. W. Wieland, Die aristotelische Physik, cit., pp. 78 sgg., trad. it. cit., pp. 86 sgg. 10 Cfr. Aristotele, Secondi Analitici, 71 b 35 – 72 a 2, trad. it. di M. Gigante e G. Colli, a cura di G. Giannantoni, in Opere, Laterza, Bari, 1984, vol. I, p. 263. 11 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 34. 12 Cfr. ivi, p. 35. 13 Cfr. ibid. 14 Cfr. W. Wieland, Die aristotelische Physik, cit., p. 72 sg., trad. it. cit., pp. 76 sgg., 90, 99.
4. IL COSTRUZIONISMO METODICO IN DISCUSSIONE
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conoscenza di ciò che è per principio non trae affatto origine dall’(aus) esperienza, al contrario in Aristotele «quello che è primo per natura proviene effettivamente “dall’”esperienza, e precisamente perché il riferirsi a questo “primo” è già una prestazione del modo di vivere l’esperienza stessa». Se ne conclude che «senza la nostra familiarità – conforme all’esperienza – con i principi, non potremmo mai interrogarci riguardo ad essi», poiché non si produrrebbe alcuna «unità delle esperienze che facciamo riguardo all’oggetto»15. Ora, dal momento che per Aristotele «ogni conoscenza del particolare è in verità un procedere da un sapere, in esso implicito, dell’universale»16, non ha senso chiedersi, come accade nell’empirismo moderno, quali «leggi» della coscienza presiedano alla generalizzazione concettuale: quest’ultima è infatti già data, a parte obiecti, nella nozione aristotelica di «esempio» (par£deigma)17, che indica quella predisposizione dell’empeiria – di carattere eminentemente pratico-teleologico e mediato dal principio intensionale dell’analogia – ad assumere il singolare da un punto di vista universale18. Bisogna di conseguenza osservare che, se dal punto di vista sistematico il metodo sillogistico-deduttivo assume in Aristotele una supremazia epistemica, ciò non accade dal punto di vista genetico, in cui è invece l’induzione «esemplare» che vincola l’intero processo della conoscenza19. Non si tratta tuttavia, nota Buck, di una genesi psicologico-trascendentale20, bensì logico-ope15
G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 36. Ivi, p. 37. 17 Cfr. ibid. 18 Quest’universalità nel singolare – nota Buck – risulta evidente quando l’impostazione teoretica aristotelica viene ricondotta alla sua base semiotico-pragmatica. Ciò appare chiaro nella relazione tra «esempio» e «analogia», mediante cui l’induzione non ha solo come fine la ricerca dei principi, ma anche l’utilizzo dei principi per nuove conoscenze. Infatti, l’esempio è per Aristotele un’«induzione retorica», così come l’entimema è un «sillogismo retorico» (cfr. ivi, p. 43; Aristotele, Retorica, 2, 1356 b 4 sgg., trad. it. di A. Plebe, M. Valgimigli, Opere, vol. X, Laterza, Bari, 1984, p. 8 sg.). Ogni nuova conoscenza si basa dunque sempre su una nuova esperienza, ossia sull’anticipazione che l’esempio – analogicamente declinato – fornisce rispetto alla prassi di utilizzo dei principi. Ma a tal fine è necessario che l’ambito del mentale – coerentemente alle osservazioni di Lorenzen – venga posto in relazione con la sfera empratica del linguaggio: «Le parole indicano un intero in modo indeterminato. Così, mediante questa modalità vaga, noi comprendiamo la parola “cerchio” – per così dire – “nella sua generalità”, diversamente dalla definizione (ÐrismÒj), attraverso cui questo preliminare concetto indifferenziato viene invece scomposto nelle singole determinazioni essenziali. Ora, l’esempio ha il compito di mostrare che, fondamentalmente, con la comprensione della parola viene al tempo stesso inteso anche ciò che, attraverso la definizione, ha trovato svolgimento nelle singole determinazioni. È infatti la stessa cosa che, in entrambi i casi, s’intende, e la definizione mette solo in evidenza ciò che con la parola viene inteso “in senso proprio”, ossia ciò che implicitamente già sempre si presuppone nel momento in cui si utilizza o si comprende la parola» (G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 35). 19 Cfr. ivi, p. 33. 20 Cfr. ivi, p. 40. 16
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LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
rativa, nella misura in cui l’induzione comprende tanto la riflessione quanto l’argomentazione, le quali escludono una semplice intuizione «noetica» dei principi21. Dal momento che i principi sono tali «per» le cose e non semplicemente «prima» delle cose, l’apriori aristotelico riproduce quell’immediatezza mediata che costituisce il significato ultimo dell’intuizione metodica tipica della costruzione operativa del sapere, la quale rende impossibile la separazione del piano teoretico della riflessione conoscitiva da quello pratico della riflessività dell’esperienza22. È infatti a quest’ultima, e in particolare alla sua struttura eminentemente materiale, che l’induzione deve riferirsi per garantire l’universalità dei principi23. Ora, proprio il richiamo alla materialità dell’esperienza è ciò che, secondo Buck, lega la dottrina aristotelica dei principi alla nozione husserliana dell’a priori. Riferendosi all’interpretazione di Husserl fornita da Wilhelm Szilasi alla fine degli anni Cinquanta24, Buck intravede nel carattere epagogico dell’esperienza il nocciolo operativo della fenomenologia che, soprattutto in Esperienza e giudizio, trova la sua più significativa espressione mediante il concetto di «anticipazione»25. Grazie a questo, infatti, i principi della conoscenza sono strettamente connessi a quel prius dell’esperienza che si dà nell’atto della precomprensione come il fondamento in base al quale è possibile la conoscenza dei diversi momenti della medesima cosa e che, per tale ragione, ci permette di indicare, nella stessa forma modificata della «possibilità», ciò che di essa in futuro si mostrerà26. Una simile «struttura di orizzonte» dell’esperienza, che si manifesta nella trascendenza intenzionale dell’atto costitutivo, proprio nel determinare – come nota Husserl – «la sconosciutezza al tempo stesso come un modo della conosciutezza»27, fa sì che l’universalità del principio sia già presente nella stessa datità percettiva e, come tale, sia ricavabile attraverso quella che Szilasi chiama «intuizione 21 «Che i principi siano in sé chiari, cioè non possano essere fondati in base ad altro da sé, non significa anche che essi vengano ricavati in un modo geneticamente immediato. [...] Si può tendere ai principi solo in quanto, al tempo stesso, ci si rivolge alle cose che devono essere fondate. La distinzione tra un percorso induttivo e uno deduttivo non esclude dunque che il movimento “a partire dal” prÒteron prÕj ¹m©j sia contemporaneamente un movimento a ritroso “verso” di esso» (cfr. ivi, p. 39). 22 Cfr. ivi, p. 132. 23 Cfr. ivi, p. 43 sg. 24 Cfr. W. Szilasi, Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, Niemeyer, Tübingen, 1959; Id., Philosophie und Naturwissenschaft, Francke, Bern/München, 1961. 25 Cfr. E. Husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, hrsg. von L. Landgrebe, Claassen, Hamburg, 1948, trad. it. di F. Costa e L. Samonà, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica, Bompiani, Milano, 1995, pp. 30 sgg. 26 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 56 sg. 27 Cfr. E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit. p. 34 sg. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 59.
4. IL COSTRUZIONISMO METODICO IN DISCUSSIONE
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empirica dell’apriori»28. Buck sottolinea tuttavia come questo rigoroso radicamento empirico dell’apriori non si mantenga all’interno dell’indagine intorno alle pure forme della percezione, né faccia semplicemente ricorso alla struttura «logica» dell’atto costitutivo, ma si riferisca anzi costantemente alla «storia sedimentata» della coscienza intenzionale, in cui l’induzione è volta a presentare una sorta di «tipica empirica» (empirische Typik) di quell’accadere contingente che contraddistingue il mondo della vita29. Perciò, «l’intuizione dell’apriori possiede una particolare “storia di formazione” che non può essere separata dalla storia della coscienza che esperisce». Si tratta piuttosto – come Husserl stesso evidenzia – di una capacità (Vermögen) di intuizione strettamente connessa alla struttura dell’apprendimento conoscitivo30. Così – conclude Buck – il fatto che «il momento anticipatorio appartenga a priori a ogni esperienza» non significa altro che «l’esperienza e l’apprendimento sono possibili solo sulla base di prestazioni [Leistungen], le quali rispetto ad essi vengono “prima” (prius)»31. In ultima istanza, proprio il metodo esemplare ci rivela che, dal punto di vista fenomenologico, queste capacità di intuizione non sono «dotazioni» a priori, ma il frutto di un’analisi strutturale dell’esperienza in cui la dimensione semantica è in costante interrelazione con la dimensione pragmatica del significato. Nella fenomenologia, la prima viene determinata con la riduzione eidetica del significato alla sua pura connotazione logica, la seconda invece con la correlativa riduzione trascendentale al suo senso vettoriale o intenzionale. Tuttavia, il costante richiamo husserliano al «riempimento» dell’istanza intenzionale fa sì che il momento operativo fondamentale dell’esperienza negativa si qualifichi eminentemente come delusione di un’aspettativa, ossia come un «“perturbamento” dell’essere presso di sé dell’io nel sistema della certezza», nella misura in cui per Husserl «il tratto fondamentale della soggettività è la conservazione di sé stessa, e in particolare la conservazione di sé in un sistema di certezze oggettive non modificate»32. In questo modo – nota Buck richiamandosi a Scheler33 – viene meno la considerazione positiva che la delusione ha nella storia del vissuto personale, e soprattutto il carattere formativo che essa rivela nel momento in cui non si riduce a una 28 Cfr. W. Szilasi, Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, cit., p. 44; G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 62. 29 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 63. 30 Cfr. ivi, p. 64. 31 Cfr. ivi, p. 66. 32 Ivi, pp. 68, 70. 33 Cfr. ivi, p. 68. Buck si riferisce in particolare a M. Scheler, Zur Ethik und Erkenntnislehre, in Schriften aus dem Nachlaß, Bd. 1, Francke, Bern, 19572, pp. 217 sgg. e Die Idole der Selbsterkenntnis, in Gesammelte Werke, Bd. 3, Vom Umsturz der Werte, Francke, Bern, 1955, pp. 213 sgg.
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semplice «mancanza», ma può dare origine alla confutazione di un’assunzione. Ora, quest’incapacità di comprendere il senso dell’esperienza negativa che, secondo Buck, la fenomenologia condivide con l’empirismo classico34, può essere superata solo evidenziando la collocazione originariamente pratico-linguistica che il metodo esemplare assume rispetto alla formazione dei concetti. Su questo punto bisogna richiamarsi non tanto a Wittgenstein35, il quale pure ha ricondotto la comprensione dell’«esempio» al suo uso e alla sua funzione euristica in vista di una ristrutturazione produttiva dell’esperienza negativa, ma soprattutto a Hans Lipps36. Nel proporsi come massimo rappresentante di quella «svolta linguistica» della fenomenologia che, all’interno del movimento, doveva farsi carico sia delle istanze ontologico-esistenziali heideggeriane, sia della rinnovata attenzione per i contesti vitali dell’origine dei concetti – maturata negli anni Cinquanta in seguito alla pubblicazione delle Ricerche filosofiche wittgensteiniane37 –, Lipps aveva svolto una critica serrata nei confronti dell’husserliana «unità ideale del significato», a favore di una nozione del «contenuto» conoscitivo, non pregiudicata in senso esclusivamente eidetico, che egli chiamava «concezione» (Konzeption)38. Si trattava cioè – nelle intenzioni di Lipps – di recuperare l’antica idea del logos semantikos come luogo costitutivo di quella capacità di comprendere preliminare e irriducibile alla concettualizzazione scientifica39. Se quest’ultima è volta alla sussunzione univoca dell’esperienza alla teoria, con la «concezione» ci troviamo invece di fronte a una nozione di natura pratica, che esprime l’essere-all’-opera (Am-WerkSein) dei concetti nel momento in cui essi si riferiscono alle concrete situazioni della vita quotidiana40. Nelle concezioni si presenta così una sorta di «indeterminatezza concettuale» che indica al tempo stesso l’apertura dell’agire conoscitivo alle intenzioni e alla progettualità del soggetto di conoscenza, 34
Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 71. Cfr. ivi, pp. 117, 123, 143 sgg. 36 Cfr. ivi, pp. 124 sgg. 37 Cfr. H. Lübbe, Neopositivismus und Phänomenologie im Spätstadium, in «Kant-Studien», 52, 1960-1961, pp. 220 sgg.; H.-G. Gadamer, Die phänomenologische Bewegung, in «Philosophische Rundschau», 11, 1963, pp. 1-45, trad. it. di C. Sinigaglia, Il movimento fenomenologico, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 77 sgg. 38 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 124. H. Lipps, Untersuchungen zu einer hermeneutischen Logik, Klostermann, Frankfurt a.M., 1938, pp. 55 sgg. 39 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 124 n. 9; H. Lipps, Untersuchungen zu einer hermeneutischen Logik, cit., p. 15. 40 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 125 n. 17. Per tale ragione – osserva Buck – l’operatività della «concezione» lippsiana si distingue nettamente dall’interpretazione strumentalistica della conoscenza da parte del pragmatismo americano, e in particolare di Dewey. Secondo questi, infatti, i concetti – siano essi scientifici od ordinari – sono mezzi per la spiegazione delle situazioni e, di conseguenza, egli non è in grado di comprendere la diversità dei riferimenti situazionali che si presenta nei concetti stessi (cfr. ivi, p. 126). 35
4. IL COSTRUZIONISMO METODICO IN DISCUSSIONE
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rivelando, nella forma delle «decisioni preliminari», quelle «unità di misura immanenti» che costituiscono gli autentici motivi vitali dell’indagine scientifica41. Ciò si esprime, ad esempio, nel fatto che «il fisico, prima di ogni considerazione e spiegazione di un fenomeno, deve avere un concetto preliminare di quello che significa “natura”»42. In tale prospettiva – nota Buck – si manifesta una singolare convergenza tra il carattere anticipatorio e offerente delle «concezioni» lippsiane e le «delineazioni sistematiche secondo concetti» evidenziate da Szilasi: queste come quelle s’inscrivono nell’«orizzonte della comprensione» in cui le cose, in quanto pragmata, si rivelano sempre e solo «da un certo lato»43. Si noti infatti la contradictio in adiecto in cui ricade la prospettiva teoretica vincolata alla relazione di sussunzione: il concetto deve fornire l’unità di misura univoca che vincola il processo di «lateralizzazione» delle cose, ma solo dall’attivazione preliminare di quest’ultimo esso può ricevere tale unità di misura44. Lipps può così concludere che solo il carattere ermeneutico e l’atteggiamento riflessivo contenuto nella «concezione» sono in grado di sottoporre la conoscenza a un «impegno vincolante» (Verbindlichkeit) nei confronti dei suoi oggetti45; ma a tal fine è necessario riferirsi al linguaggio come quel punto di vista sulle cose in cui le concezioni si trovano «sedimentate». Nel linguaggio non esistono determinazioni concettuali, ma unicamente contenuti possibili di significato nel senso della dynamis, vale a dire della loro capacità di essere diversamente «riempiti» in base alle situazioni46. I significati non costituiscono dunque delle «universalità» in sé conoscibili e isolabili dall’esperienza, ma contengono l’interpretazione di quelle espressioni linguistiche che, in quanto esempi, «riempiono» paradigmaticamente l’universale mediante il particolare da cui sorgono. Ed è precisamente in virtù di questo loro carattere operativo che le espressioni possono attualizzare le «tracce» conoscitive, ovvero le direzioni delle anticipazioni contenute nelle concezioni47. Proprio traendo spunto dalle ricche osservazioni di Buck in merito alla funzione euristica della conoscenza esemplare, Kambartel svolgeva una serrata critica ai presupposti sistematici dell’empirismo classico, e in particolare alla loro riproposizione modificata da parte del neoempirismo di Rudolf 41
Cfr. ivi, p. 127. Ivi, p. 127. 43 Cfr. ivi, p. 128. Buck si riferisce qui a W. Szilasi, Wissenschaft als Philosophie, EuropaVerlag, Zürich/New York, 1945, p. 29. 44 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 127 n. 23. 45 Cfr. ivi, p. 128; H. Lipps, Untersuchungen zu einer hermeneutischen Logik, cit., p. 63. Si veda anche H. Lipps, Die Verbindlichkeit der Sprache. Arbeiten zur Sprachphilosophie und Logik, Klostermann, Frankfurt a.M., 1944, 19582, in particolare pp. 38 sgg. 46 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 130; H. Lipps, Untersuchungen zu einer hermeneutischen Logik, cit., p. 92. 47 Cfr. G. Buck, Lernen und Erfahrung, cit., p. 131. 42
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Carnap48. Se infatti in Locke la base empirica puramente materiale del «dato», da cui sorgevano le «idee semplici», rivelava un’immediata difficoltà nel momento in cui si trattava di giustificare la conoscenza dell’universale – non essendo chiara la funzione di rappresentanza che, a tal riguardo, doveva svolgere il concetto ricavato dal processo di astrazione, il quale appariva di volta in volta sia come una parte dello stesso materiale empirico, sia come un prodotto della coscienza stessa, ovvero dell’operazione conoscitiva49 –, in Carnap il ricorso al «sistema di costituzione» (Kostitutionssystem), così come esso veniva presentato ne La costruzione logica del mondo50, cercava di ovviare a tale difficoltà attraverso la delineazione di un insieme di concetti logici riconducibili alla «base» elementare e immediata dell’esperienza, ma da questa formalmente indipendenti, nella misura in cui essi erano in grado tanto di offrire l’«ordine logico» degli oggetti empirici, quanto di raffigurare gli «schemi» dei processi conoscitivi che consentono la «generalizzazione» del particolare51. L’operazione carnapiana sembrava dunque per la prima volta contenere una fondazione sistematica dell’empirismo: essa non si occupava più del rapporto tra materia e forma dell’esperienza, che veniva confinato al discorso metafisico come sfondo degli «pseudoproblemi della filosofia», ma prendeva spunto direttamente dalla funzione simbolica del linguaggio, in particolare dal suo assetto logico-formale, in cui assumevano rilievo le caratterizzazioni e gli enunciati strutturali ai quali veniva affidato il compito di descrivere le basi empiriche e le loro «relazioni»52. La nozione di «struttura formale» si incaricava così di render conto per intero dei dati immediati dell’esperienza, al punto tale che Carnap poteva sostenere che «il dato non si fa portatore di una struttura, ma è effettivamente la sua stessa struttura»53. In questo senso, i presupposti empiristici carnapiani venivano progressiva48
Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit., pp. 149 sgg. Cfr. ivi, pp. 26, 34. Osserva a tal riguardo Kambartel: «l’atomismo delle idee di Locke è, propriamente, un realismo del concetto, nella misura in cui i concetti sono già contenuti come parti nelle idee particolari, e perciò nella realtà intorno alla quale possiamo sapere qualcosa [...]. Giusta è pertanto l’osservazione di Locke che, mediante l’astrazione dei concetti universali, “non produciamo nulla di nuovo”». Da questo deriva tuttavia l’aporia classica dell’empirismo: «Come si può parlare intorno al dato senza già presupporre una qualche interpretazione riguardo ad esso e dunque, da questo punto di partenza “non concettuale”, rendere possibile una concettualizzazione?» (ivi, p. 149). 50 Cfr. R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt, Weltkreis-Verlag, Berlin-Schlachtensee, 1928; Der logische Aufbau der Welt, Scheinprobleme in der Philosophie. Das Fremdpsychische und der Realismusstreit, Meiner, Hamburg, 19612, ed. it. a cura di E. Severino, La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filosofia, UTET, Torino, 1997, pp. 292 sgg. 51 Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit., p. 152. 52 Cfr. ivi, p. 153 sg. 53 Cfr. ivi, p. 175. 49
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mente maturando una duplice trasformazione: da un lato facevano emergere la loro natura essenzialmente formalistica, del tutto favorevole a una completa assiomatizzazione del dato (così come, d’altronde, si era manifestato nelle «forme enunciative» di Hilbert)54, dall’altro essi generavano un nuovo problema, non risolvibile al livello del «sistema costitutivo». Quest’ultimo, infatti – per esplicita ammissione di Carnap – intendeva presentarsi come «neutrale», ossia completamente esente da riferimenti alle funzioni cognitive, nell’esatta misura in cui il puro dato empirico doveva dirsi estraneo rispetto a qualsiasi istanza soggettiva (subjektlos)55. Ciò dipendeva dal fatto che la struttura formale, in quanto «modello», conteneva già l’interpretazione del riferimento oggettuale56. Ma se è così – nota Kambartel – i casi sono due: o la tesi formalistica mostra sé, cioè si presenta come immediatamente evidente in base a una qualche «intuizione», e allora non può offrire alcuna descrizione del dato57; oppure si presenta come un’ipotesi semantica, ma allora deve ricorrere a un’istanza esterna, poiché nessun sistema simbolico è in grado di rappresentare la logica ad esso immanente58. In realtà, nessun modello può contenere un’interpretazione se questa non è già stata stabilita prima della sua costituzione; e anche il ricorso all’evidenza o all’intuizione, cioè la soluzione più coerente secondo l’impostazione carnapiana, non farebbe altro che rimpiazzare il dato empirico di base con una nuova «datità formale», riproponendo le aporie tipiche dell’empirismo lockeano59. Il problema di fondo è così – conclude Kambartel – che le teorie formali, per quanto avanzino la pretesa di riferirsi all’esperienza, non sono in grado, di per sé, di costituire l’ambito della loro applicazione60. Ora, rinunciare all’applicazione implica altresì la rinuncia alla fondazione, la quale si potrà ottenere solo facendo emergere il significato del linguaggio formale61. Da 54
Cfr. ivi, pp. 159 sg., 181. Cfr. ivi, p. 184. 56 Cfr. ivi, p. 188. 57 Cfr. ivi, p. 189. 58 Cfr. ivi, p. 190 sg. 59 Infatti – osserva Kambartel – «la tesi formalistica non significa altro che questo: si può indicare un sistema formale in cui tutti i concetti scientifici che vengono presentati possono essere definiti in un modo o nell’altro e nel quale possono essere “fondate” tutte le asserzioni scientificamente dimostrate. Se si vuole dunque provare la tesi formalistica rispetto a una specie di esperienza, allora si dovrà intendere l’esperienza come il fatto che noi abbiamo questo o quel concetto e che facciamo queste o quelle asserzioni. [...] La natura della base empirica, la sua struttura particolare, può essere pertanto controllata solo partendo dal nostro sistema concettuale». Da ciò consegue che «dei nostri concetti bisogna considerare solo quello che è riducibile a una descrizione di struttura»: il sistema costitutivo carnapiano non contiene altro che «una siffatta indicazione operativa di carattere politico-scientifico» (ivi, p. 191 sg.). 60 Cfr. ivi, p. 168. 61 Cfr. ivi, p. 192: «Ciò che in generale si può dire scientificamente, in un modo o nell’altro dev’essere detto formalmente, e precisamente per il fatto che solo il formale appare 55
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qui la necessità, fatta valere da Carnap nelle opere successive all’Aufbau, di declinare in senso fisicalistico la tesi formalistica che sorregge l’impianto «costitutivo»62. Il fisicalismo consiste infatti nella prescrizione di un linguaggio cosale il cui carattere estensionale e denotativo è dotato di un riferimento spazio-temporale; in tal modo il problema del significato sembra risolversi nel criterio dell’individuazione oggettuale offerto dai suoi termini semantici primari63. Giustamente Carnap rileva che il problema dell’individuazione non può precedere il costrutto linguistico per mezzo del quale l’esprimiamo: se ci appellassimo a un criterio pre-linguistico, ad esempio quello della «percezione», risulterebbe impossibile il confronto tra la struttura logica del linguaggio e il dato sensibile, poiché il significato di quest’ultimo dipende dalla preventiva assunzione di strutture semantiche in base alle quali – come aveva già notato Kant – non il semplice atto percettivo, ma solo il suo schema può produrre una conoscenza. È tuttavia evidente che il criterio fisicalistico-estensionale carnapiano risponde ai requisiti di significatività nell’esatta misura in cui presuppone una certa qualificazione intensionale o qualitativa dell’esperienza. Non vi è infatti alcuna ragione per assumere che i parametri dell’individuazione spazio-temporale siano di un certo tipo e in un determinato numero: ad esempio, nella geometria tradizionale, fondata sulle misure di segmenti ed angoli, «quadrato» e «rotondo» sono fra loro termini incompatibili, mentre rispetto alla topologia essi diventano sinonimi. In tal senso si comprende la declinazione fenomenistica che Nelson Goodman ha inteso imprimere alla concezione carnapiana attribuendo priorità costitutiva ai qualia, ossia ai costrutti che partono dalle qualità e dagli aggettivi rispetto a quelli che, fisicalisticamente, partono dagli individui e dai nomi64. Purtroppo – nota Kambartel – l’astrazione tipologico-reale a cui il fenomenismo goodmaniano conduce, proprio nel porsi come duale rispetto al fisicalismo, viene meno al requisito di significatività referenziale evidenziato dal Carnap: il processo di concretizzazione, a cui dovrebbe spettare l’individuazione, non può certo dirsi capace di riprodurre l’astrazione intensionale in termini di operazione inversa65. in ultima istanza in grado di spiegare se stesso. Quello che rimane è dunque un’affermazione di immediatezza per sistemi formali. La questione se il dato sia puramente formale scompare nell’affermazione che solo il formale si possa, in fondo, dare in senso puro, e non comporta perciò alcun ulteriore problema di significato e di fondazione». 62 Cfr. ivi, p. 193. 63 Cfr. ivi, p. 246. 64 Cfr. ivi, p. 193 sg. 65 Cfr, ivi, p. 194. A questo proposito, è bene osservare che la concretizzazione che si compie a partire dall’astrazione ottenuta in base ai qualia fenomenici (cioè l’astrazione per caratterizzazione o tipico-reale), non può mai portare a un’individuazione univoca, ossia all’«individuo concreto», ma, al massimo, a un «individuo astratto», come può essere – ad esempio – la
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È a questo punto che, secondo Kambartel, la lezione di Buck in merito al carattere fondazionale della conoscenza esemplare si rivela feconda. Essa ci fa notare che la tesi di Carnap si basa su un’interpretazione errata del simbolismo formale, poiché la conformazione simbolica, resa attraverso un modello, in sé non riproduce né la struttura di una concreta situazione relazionale, né quella struttura proposizionale o assertoria del linguaggio che si determina a partire dalla nostra esperienza66. Si tratta anzi solo di esempi, per quanto corretti e adeguati, di queste strutture, cioè di rappresentazioni che le «intendono» in un senso paradigmatico. Perciò – conclude Kambartel – la formula «Px» non rappresenta la forma logica della proposizione «Aristotele è un filosofo», ma solo un insieme di segni che risultano significativi in quanto rimandano a una preliminare operazione di assegnazione67. Se ne ricava che noi non possiamo immediatamente comprendere, attraverso la sua semplice esibizione simbolica, ciò che grazie ad essa viene inteso, ma possiamo farlo solo in quanto il suo esser-così viene posto in relazione nozione di «Italiano tipico» (cfr., a tal riguardo, E. Melandri, La linea e il circolo, cit., p. 645). Quindi il tentativo goodmaniano di dar vita a un’astrazione che renda conto dell’intensionalità dell’oggetto individuale, fallisce nella misura in cui deve ricorrere a un’individuazione cosale già data attraverso un linguaggio fisicalistico. Quest’impasse era già stata colta da Kant, il quale aveva evidenziato che la regressione trascendentale dell’individuazione implica altresì che le sensazioni siano graduabili, cioè che l’unico linguaggio-base o linguaggio-oggetto possibile, partendo da un fenomenismo, sia quello ricavabile dal principio delle anticipazioni della percezione («in tutte le apparenze il reale, che è un oggetto della sensazione, possiede quantità intensiva, cioè un grado», cfr. CRP, p. 242), che dipende a sua volta dagli assiomi dell’intuizione («tutte le intuizioni sono quantità estensive», cfr. ivi, p. 238). In termini carnapiani, il linguaggio fenomenistico deve sempre affidarsi a un pre-linguaggio o linguaggio di primo grado indipendentemente fissato, e quindi a carattere fisicalistico. Ora, vi sono due modi per eliminare la disgiunzione esclusiva tra fenomenismo e fisicalismo: o approfondire il senso del pre-linguaggio costitutivo dell’esperienza attraverso una regressione trascendentale di tipo fenomenologico, in cui l’astrazione tipologica, essendo eidetica, si configura come tipico-ideale, poiché in tal caso la conoscenza non fa perno sull’oggetto ma sulla ripetizione degli schemi percettivi mediante la messa in rilievo di «forme» della sensazione (cfr. E. Melandri, La linea e il circolo, cit., p. 652), oppure – come fa Lorenzen – trasformare costruttivamente il pre-linguaggio in un proto-linguaggio, nel quale l’individuazione fisica sia al tempo stesso un’assegnazione operativa, vale a dire quell’«azione» che, intensionalmente, ritroviamo nella definizione dell’oggetto. Kambartel rileva tuttavia che se l’azione costruttiva non manifesta già in sé un punto di accumulo tale da consentire una generalizzazione, non è possibile né un’individuazione né un’astrazione. Ora, per Kambartel un simile punto di accumulo si può cogliere precisamente nel carattere paradigmatico dell’«esempio», grazie al quale l’induzione come autorispecchiamento o riflessività garantisce l’individuazione non attraverso un’identità numerica, di carattere spaziotemporale, bensì mediante un’identità strutturale. Quest’ultima è senz’altro più debole della prima, poiché consiste solo nella ritenzione di un atteggiamento acquisito; essa tuttavia consente di mantenere in costante interrelazione l’immagine fisico-quantitativa dell’oggetto e il significato fenomenico-qualitativo della conoscenza. 66 Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit., p. 197. 67 Cfr. ibid.
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con la sua capacità – data sotto forma di «esempio» – di mostrare la struttura stessa. Tutti gli elementi linguistici formali devono dunque essere ricondotti agli esempi concreti nei quali – unicamente – si rivela quell’intenzionalità del nostro agire irriducibile tanto alla pura datità atomistica dell’empirismo classico, quanto alla datità simbolico-formale dell’empirismo logico68. Al termine della sua lunga e intensa disamina, volta a mettere in luce le tappe fondamentali della nozione di «esperienza», Kambartel si ricollega così ai temi fondamentali della «propedeutica logica» lorenziana, cercando tuttavia di attenuare i tratti formalistici che ancora persistevano nel criterio della «definitezza dialogica», per mettere in risalto le concrete situazioni argomentative attraverso cui si dipanano le strutture della conoscenza umana69. In questa prospettiva, un posto particolare vengono ad assumere le osservazioni del «secondo Wittgenstein» in merito ai fondamenti della matematica e ai presupposti operativi del linguaggio ordinario70. Ora – nota Kambartel – la comprensione delle leggi scientifiche non dipende né dai dati empirici, né dalla natura dei simboli con cui vengono espresse; in senso proprio, non si tratta nemmeno di ricorrere all’esperimento come «prova» della loro validità. È infatti solo il giusto contare e operare con segni che permette di comprendere l’«essenza» del numero e delle operazioni. La comprensione del loro giusto uso – come osserva Wittgenstein – «si cura di sé», non ha cioè bisogno di ricorrere alla «verità» di determinate proposizioni o assetti formali71. Senza dubbio, non vi è una comprensione dell’impiego corretto dei segni senza la comprensione della loro immagine o forma; ma allora questa non può essere separata dai fenomeni o «applicata» ad essi. La forma non è né la loro condizione, né la loro descrizione; essa indica anzi il fenomeno stesso dal punto di vista operativo, ovvero la materia dell’esperienza che, inserita in una trama d’azione, rivela la sua struttura più appropriata72. In tal senso – rileva Kambartel –, «la matematica è prima dell’esperienza. Essa “crea quelle forme che noi chiamiamo fatti”. Potremmo anche dire: la comprensione dell’uso, ad esempio, di un’immagine significativa, precede ogni esperienza»73. 68
Cfr. ivi, p. 198. Cfr. ivi, p. 251 sg. 70 Cfr. ivi, pp. 199 sgg. 71 Cfr. ivi, p. 212 sg. 72 «Pertanto, in una prova – osserva Kambartel citando Wittgenstein – “non ci limitiamo a riprodurre le condizioni in base alle quali il risultato si è ottenuto una volta (come si fa in un esperimento), ma riproduciamo il risultato stesso”» (ivi, p. 215; cfr. L. Wittgenstein, Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik (1937-1944), ed. by G.H. von Wright, R. Rhees, G.E.M. Anscombe, Basil Blackwell, Oxford, 1956, 19642, trad. it. di M. Trinchero, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino, 1988, II, 54, p. 119). 73 Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit., p. 215; L. Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, cit., V, 15, p. 227. 69
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Quella particolare tecnica, dunque, che si manifesta nella nostra capacità di manipolazione dei segni, equivale alla comprensione di un paradigma che non è empiricamente né confutabile, né verificabile. Il dover-essere del paradigma non è cioè una questione che riguardi la possibilità di accertamento empirico o di coerenza formale, ma solo il frutto di un esercizio (Übung), il quale può essere appreso tramite una «lezione» pragmaticamente orientata74. Da una simile determinazione genetica del modello paradigmatico si conclude che «l’universalità spettante alle figure e alle costruzioni della matematica, in considerazione delle loro applicazioni o realizzazioni di volta in volta diverse, non pone quindi più per principio gli elementi della matematica e i termini che li descrivono al di fuori di una generale base contenutistica del predicare; infatti l’introduzione di parole “predicative”, le quali “intendono” l’universale, può aver luogo – in ultima istanza – solo attraverso determinazioni d’uso paradigmatiche»75. La fondazione «esemplare» della conoscenza rappresenta in effetti ciò che, secondo Kambartel, lega le notazioni antiformalistiche wittgensteiniane tanto alla comprensione aristotelica dell’esperienza, quanto all’analisi kantiana della «capacità di giudizio»76: le prime, come le seconde, si possono compendiare nella formula di Kant in base alla quale la logica generale non offre «prescrizioni» per il giudizio poiché solo gli esempi costituiscono le «dande» di quest’ultimo77. L’attenzione a una nozione di esperienza non empiristicamente riducibile, nonché la critica alla reciprocità, sempre possibile, tra il puro dato e la forma astratta della teoria, portano Kambartel a una netta presa di posizione nei confronti dell’etica costruttivistica, soprattutto per come essa si era venuta delineando negli scritti di Lorenzen e Schwemmer all’inizio degli anni Settanta78. In particolare, egli respinge il ricorso a un «principio di ragione» che, per la sua stessa natura trascendentale o transsoggettiva, si sottragga alla struttura argomentativa del sapere, rimproverando a Lorenzen il fatto di essersi richiamato, in tal caso, a una sorta di «atto di fede»79. In questo senso, si tratta per Kambartel di evidenziare come nella pretesa di una «fondazione» universale dei principi etici si manifesti una duplice lacu74
Cfr. F. Kambartel, Erfahrung und Struktur, cit., p. 217. Ivi, p. 217 (corsivo nostro). Se è così – conclude Kambartel – «non è necessario che quella che chiamiamo l’intenzione di un paradigma venga separata da quest’ultimo e ipostaticamente resa un oggetto indipendente, ideale o formale, della nostra conoscenza, poiché senza dubbio gli esempi e controesempi costituiscono, in se stessi, ciò che “applichiamo” in questo o in quest’altro modo» (ibid.). 76 Cfr. ivi, pp. 129 sgg. 77 Cfr. ivi, p. 218. 78 Cfr., a tal riguardo, M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., pp. 56-60. 79 Cfr. F. Kambartel, Wie ist praktische Philosophie konstruktiv möglich? Über einige Mißverständnisse eines methodischen Verständnisses praktischer Diskurse, in PPKW, p. 10; P. Lorenzen, Normative Logic and Ethics, cit., p. 74. 75
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na: da un lato la domanda sulla legittimità di un principio di ragione si pone già, circolarmente, sul terreno di questo principio80; dall’altro, la ricerca di una genesi normativa dell’agire morale non si traduce in un’autentica «ricostruzione critico-argomentativa», ma solo nell’assunzione di una sorta di principio dialettico in base al quale un sistema di scopi razionalmente predisposti (tesi) determina la modificazione di scopi reciprocamente confliggenti (antitesi), in vista di un’universalizzazione dell’agire (sintesi) che superi le posizioni dei singoli partecipanti al discorso etico81. Ora, per evitare di ridurre la prassi umana al «canone chiuso di bisogni e scopi “razionali”» occorre rimpiazzare il suddetto principio dialettico, che finisce per assimilare l’epistemologia costruttiva alla «teoria critica» dei francofortesi, con una riflessione genetica di carattere euristico, volta cioè a evidenziare «i problemi concreti (materiali) che toccano i giudizi e le decisioni pratiche»82. In tal senso la ragione non viene posta all’inizio del processo dialogico come una specie di principio normativo sovrastorico, ma è anzi ricondotta a quelle concrete esperienze costitutive che, esemplarmente, tracciano il percorso orientativo della prassi umana. L’agire etico, infatti, non si determina solo in base a «norme»; al contrario, esso si nutre soprattutto di quelle proposte di cambiamento e di completamento della condotta che formano la trama dei rapporti intersoggettivi83. L’etica costruttiva di Kambartel – nella misura in cui, secondo le indicazioni di Buck, respinge l’apriorità logica della ragione per affidarsi invece alla funzione euristico-riflessiva che la ragione stessa acquista nell’esperienza conoscitiva, nella quale essa appare come un «principio mediato»84 – finisce così per prendere le distanze anche dalla caratterizzazione protrettica o «protologica» del discorso pratico: questo non serve per ricostruire metodicamente le aspirazioni dei soggetti dialoganti al superamento dei conflitti mediante la formazione di un ortolinguaggio ad hoc, poiché deve già essere ammessa la loro disponibilità a riconoscere in un tale ortolinguaggio, protretticamente istituito, la capacità di orientare razionalmente l’azione85. Nonostante i ripetuti richiami alla genesi operativa dei concetti, la protologica lorenziana si dimostra così affètta, secondo Kambartel, da un vizio comune tanto all’epistemologia empiristica quanto alla concezione weberiana dell’«avalutatività» delle scienze storico-sociali, vale a dire che, in fondo, solo nell’ambito logico-teoretico sia possibile una fondazione dell’ogget80
Cfr. F. Kambartel, Wie ist praktische Philosophie konstruktiv möglich?, cit., p. 11. Cfr. ivi, p. 21. 82 Cfr. ivi, p. 23 sg. 83 Cfr. ivi, pp. 23, 25. 84 Cfr. supra, p. 184 sg. 85 Cfr. ivi, p. 29 sg. 81
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tività e dell’universalità del sapere86. Se invece si considera che «“fondazione” è in ultima istanza un concetto pratico che si trova prima di ogni metodo di fondazione in senso stretto»87, allora la struttura retorica ed ermeneutica del discorso protrettico – che pure Lorenzen aveva evidenziato – non decade a mero «preambolo» tecnico della conoscenza88, ma si rivela anzi come quel luogo di formazione del pensiero in cui, prima di ogni ragionamento, viene l’«argomento» in quanto frutto dell’induzione esemplare che fa emergere l’universalità nell’esperienza. A ben vedere, dunque, solo nel ricondurre la «fondazione» alla sua originaria matrice aristotelica è possibile rintracciare quelle «pietre da costruzione» (Bausteine) con cui erigere un’adeguata «critica dell’empirismo e del formalismo». 4.2. Mittelstrass: la «possibilità» della scienza Se mediante critica ai fondamenti logici dell’empirismo moderno Kambartel si dimostra attento a evidenziare le istanze pratiche e teoretiche che s’intersecano nella formazione dei concetti, in particolare quella genuina Setzung o «posizionalità» che caratterizza l’analiticità a priori del discorso scientifico – e in tal senso dev’essere inteso il suo interesse per l’opera di Bolzano89 –, Mittelstrass si offre invece come lo storico del movimento costruzionistico, di cui coglie i presupposti metodici non solo nel pensiero antico, ma soprattutto in quel periodo che, da Galileo a Leibniz, sancisce la nascita della scienza moderna. In questa prospettiva, sviluppando i temi già esposti nella sua dissertazione del 1961 sul «Salvataggio dei fenomeni»90, all’inizio degli anni Settanta egli presenta un’ampia ricognizione su «Età moderna e illuminismo» che, in quanto frutto di intense discussioni presso il Seminario filosofico di Erlangen, da un lato si contrappone al carattere monologico di gran parte delle indagini intorno alla filosofia moderna91 e, dall’altro – diversamente dalle consuete codificazioni dottrinarie –, intende cogliere nell’affermazione dell’autonomia della ragione un’istanza che ri86 Cfr. F. Kambartel, Moralisches Argumentieren. Methodische Analysen zur Ethik, in PPKW, pp. 54-72, in particolare p. 66. 87 Ibid. 88 Cfr. F. Kambartel, Wie ist praktische Philosophie konstruktiv möglich?, cit., p. 30 sg., P. Lorenzen, Brief an Kambartel von 02.07.1974, in PPKW, pp. 225-227, in particolare p. 227. 89 Dal 1969 Kambartel è infatti curatore, assieme a Eduard Winter, Jan Berg, Jaromír Louzil, Edgar Morscher e Bob van Rootselaar, della Gesamtausgabe, in oltre 120 volumi, delle opere di Bernard Bolzano presso l’editore Frommann-Holzboog. 90 Cfr. J. Mittelstrass, Die Rettung der Phänomene. Ursprung und Geschichte eines antiken Forschungsprinzip, cit.; si veda anche supra, Cap. 1, pp. 23 sgg. 91 Cfr. J. Mittelstrass, Neuzeit und Aufklärung. Studien zur Entstehung der neuzeitlichen Wissenschaft und Philosophie, de Gruyter, Berlin/New York, 1970, Vorwort.
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guarda in primo luogo l’esigenza di una disciplina del pensiero92. Il termine «illuminismo» non indica perciò, per Mittelstrass, esclusivamente un movimento storico di opposizione alla tradizione, al principio di autorità e finanche volto a sostituire – come comunemente s’intende – il dogma oscurantista della fede con il nuovo dogma universale e transsubiettivo della ragione, ma diventa il nome di un atteggiamento o, meglio, della prassi costitutiva dell’esperienza, basata sul metodo e sul dialogo, che si estende ben al di là del «secolo dei lumi»93. «Illuministica» deve così dirsi quella capacità pratica dell’uomo che attraversa tutte le epoche storiche e che consiste nell’offrire una comprensione razionale del mondo aperta alla comunicazione e all’insegnamento94. Si tratta, secondo Mittelstrass, di una condizione operativa che, oltre a ricomprendere i fatti umani o «storici» in senso stretto, riguarda anche le produzioni scientifiche che si rivolgono alla natura, e in particolare al mondo «fisico». Coerentemente alla generale impostazione costruzionistica, il principio di Vico, verum ipsum factum, viene da una parte esteso alle scienze naturali e, dall’altra, è opportunamente modificato nel fieri che caratterizza l’agire, allo scopo di evitare la reificazione del modello razionale quale si ritrova, ad esempio, nelle più recenti rappresentazioni cibernetiche dell’intelligenza e della vita95. Il pensiero occidentale è dunque contrassegnato, proprio ai suoi inizi, da una prima fase illuministica che non dev’essere intesa come una consolatoria «scoperta della ragione» in grado di ridurre il caos del mondo all’ordine teoretico del pensiero, ma come decifrazione di quelle possibilità di azione che si esprimono anzitutto nella determinazione dello spazio fisico, in quanto al tempo stesso spazio dei concetti e spazio dell’esistenza concreta96. Tutte le proposizioni generali che in questa fase originaria, segnata dalla figura di Talete, determinano il sapere geometrico, assumono così per Mittelstrass la forma di «ricette» volte all’isolamento di quelle proprietà rilevanti – di carattere non astrattivo ed essenzialmente extralogico – che si ricavano dalla manipolazione di figure97. È in tal modo che sorgono i concetti di congruenza, uguaglianza, omogeneità e simmetria: essi non sono riconducibili a «principi fondamentali» da cui si possa «ricavare» una dimostrazione, poiché il processo dimostrativo stesso, nella sua forma ostensiva e manipolatoria, costituisce la ragion d’essere del sapere intorno ai principi. Ora, nella fase più matura del pensiero classico, cioè con Platone e Aristotele, questo ca92
Cfr. ivi, p. 1. Cfr. ivi, p. 3. 94 Cfr. ivi, p. 11. 95 A tal riguardo, ci permettiamo di rimandare alle osservazioni svolte in L. Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas, Quodlibet, Macerata, 2007, pp. 54 sgg. 96 Cfr. J. Mittelstrass, Neuzeit und Aufklärung, cit., pp. 15 sgg. 97 Cfr. ivi, p. 32. 93
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rattere manipolatorio del sapere non viene perduto. Infatti, benché in Aristotele si presenti chiaramente l’esigenza di una fondazione assiomatico-deduttiva, egli si dimostra altresì indisponibile a una trattazione convenzionalistica o formalistica dei principi, richiamandosi esplicitamente – come già Buck e Kambartel avevano evidenziato – alla necessità, per così dire, «prototeoretica» di un procedimento induttivo, in quanto «regressione a un sapere che l’uomo “sempre già” possiede, nella misura in cui egli si comporta come un essere che “sempre già” agisce e “sempre già” parla – in modo più o meno consapevole – secondo regole “generali”»98. Il passaggio dall’«affidabilità dell’essere» all’«affidabilità della ragione» segna per Mittelstrass l’inizio del secondo illuminismo in cui alla manipolazione ricettiva dei segni, di tipo oggettivistico, subentra la spontaneità costruttiva dell’intelletto99. In questa fase, caratterizzata dalla Nuova Scienza, la precedente fisica empirica, che si articola in «proposizioni sui fenomeni», lascia spazio alle indagini metodologiche, rivolte alla formulazione di proposizioni intono alla costruzione (Aufbau) dello stesso sapere fisico. Le determinazioni terminologiche riguardanti gli enti fisici, così come la struttura logica delle ipotesi, delle dimostrazioni sperimentali e delle leggi, sembrano ora mosse da un intento fondazionale rivolto alle strutture a priori del discorso scientifico, tale da inscrivere i concetti entro una vera e propria configurazione protofisica dello spazio dell’esperienza100. In questo contesto, la posizione di Galileo assume un significato del tutto particolare. Infatti, con la scienza galileiana non solo, conformemente alla tradizione rinascimentale dei «laboratori», si stabilisce un solido legame tra ragione matematica (teoria) e capacità tecnica101, ma si afferma altresì la meccanica razionale, quale modello esplicativo e giustificativo dell’operare scientifico. E proprio il tema della giustificazione, connesso al compito della protofisica, rappresenta per Mittelstrass il punto di saldatura – tipico dell’indagine galileiana – tra la scienza e la riflessione sulla scienza102. A differenza della tradizione delle «scuole», aderente al metodo morfologico-descrittivo di matrice aristotelica, le proposizioni protofisiche della nuova scienza non sono sottoponibili al controllo dell’esperienza, né in senso proiettivo (cioè secondo lo schema isomorfico che lega pensiero e realtà), né in senso correlativo (vale a dire in base al metodo «statistico» baconiano, nel quale le interrelazioni funzionali tra i fenomeni sono concepite come coefficienti esistenziali anziché come nessi causali). La reciprocità che in Galileo si stabili98
Cfr. ivi, p. 34 sg. Cfr. ivi, pp. 59 e 87 sgg. 100 Cfr. ivi, pp. 169, 171. 101 Cfr. ivi, p. 172. 102 Cfr. ivi, p. 209 sg. 99
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sce tra il metodo compositivo – volto alla formulazione delle ipotesi a partire dal potere esplicativo dei principi, e non dalla loro verità – e il metodo risolutivo, il cui criterio è la corrispondenza tra misure e calcolo, e non la deduzione assiomatica103, fa sorgere la determinazione metrica e numerale delle proprietà empiriche, il cui significato oggettivo è in funzione del momento pragmatico che inerisce ad esse. In questo senso, gli aspetti teoreticoconcettuali della scienza galileiana rivelano una stretta dipendenza non solo dalle capacità metateoriche delle formulazioni metodologiche, ma anche dagli apparati di misurazione e di osservazione che guidano l’esperienza del mondo fisico: «per accedere a un’indagine empirica – nota Mittelstrass – l’ipotesi che la caduta dei corpi sia un movimento uniformemente accelerato viene in ultima istanza controllata mediante l’introduzione dei risultati delle misurazioni nelle formule protofisiche»104. La stretta interdipendenza tra metodo e misurazione che – secondo le indicazioni già fornite da Dingler – Galileo pone a fondamento dell’esperienza scientifica, consente quindi di fissare il quadro entro cui deve muoversi ogni giustificazione protofisica delle teorie riguardo ai corpi fisici. Non è infatti sufficiente richiamarsi all’origine empirica o alla struttura formale delle «leggi» naturali: se queste dipendono dai criteri di misurazione, allora non possono spiegare il funzionamento di questi criteri o, meglio, possono spiegare ogni loro funzionamento, senza distinzione riguardo alla loro correttezza. Se, ad esempio, un apparato di misurazione, che è un corpo fisico, funziona male, le leggi naturali devono essere chiamate in causa per spiegare la sua disfunzione allo stesso modo in cui esse sono necessarie per spiegare il suo corretto funzionamento. Da ciò consegue che il carattere normativo utile a definire la «giusta» funzione, vale a dire il criterio valutativo dell’apparato, non può essere ricavato dall’assetto teoretico della legge, ma solo dalla sua genesi tecnicopratica105. Dalle indagini sul processo storico di costituzione del sapere scientifico, Mittelstrass veniva così mettendo a punto, negli anni successivi a Neuzeit und Aufklärung, i requisiti fondamentali che, in generale, devono caratterizzare ogni discorso filosofico intorno alla possibilità della scienza106. Anzitutto, una concezione della scienza che non voglia ridursi a una semplice enunciazione dottrinaria – così come, da un punto di vista analitico, viene presentata l’idea di una «scienza della scienza» – non può limitarsi alla confi103
Cfr. ivi, p. 185. Cfr. ivi, p. 231. 105 Cfr. J. Mittelstrass, Das praktische Fundament der Wissenschaft und die Aufgabe der Philosophie, in «Konstanzer Universitätsreden», 50, Universitätsverlag, Konstanz, 1972, ora in NFW, pp. 1-69, in particolare p. 61 sg.; cfr., a tal riguardo, P. Janich, Protophysik, cit., p. 378. 106 Cfr. J. Mittelstrass, Die Entdeckung der Möglichkeit von Wissenschaft, in MVW, pp. 29-55, in particolare p. 1. 104
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gurazione teoretica di un metalinguaggio formale sull’attività scientifica, ma deve inoltre sviluppare quella base normativa, di carattere fondazionale e giustificativo, che appartiene al concreto agire dell’uomo di scienza107. Il ruolo di quest’ultimo è pertanto quello di offrire un «sapere di stabilizzazione della prassi»108, estraneo tanto alla fondazione deduttiva della teoria, quanto alla mera ricognizione induttiva a partire dai «dati» dell’esperienza. Il dato originario dell’attività scientifica non è – per Mittelstrass – né un fatto empirico, né una determinazione assiomatica, ma la razionalità tecnica dell’assetto osservativo, la quale dev’essere sottoposta a una ricostruzione critica109. Ora, la costruzione degli apparati di misurazione non è altro che una particolare espressione di questa razionalità, al cui fondamento si pone la ben più essenziale prassi discorsiva, cioè il linguaggio determinato da interessi metodologici e teleologici110. L’insistenza con cui Mittelstrass sottolinea il carattere fondazionale della prassi discorsiva si connette a una serie di osservazioni svolte in un saggio, composto alcuni anni prima in collaborazione con Kuno Lorenz, sull’«aggirabilità del linguaggio»111. Qui Lorenz e Mittelstrass prendono in esame le posizioni espresse da Karl-Otto Apel nel suo primo importante scritto su L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, come rappresentative dell’«attuale situazione della filosofia del linguaggio»112. Nel respingere la riduzione dell’analisi linguistica alla dimensione logico-sintattica, così come nel prendere le distanze da qualsiasi ingenua derivazione del linguaggio dalle forme del pensiero, Apel sembrava in effetti porsi sulla stessa linea del costruzionismo: la cultura umanistica aveva scoperto la dimensione pragmatica del discorso che, in quanto calato in una determinata civiltà, si faceva portatore di una sorta di «a priori storico-sintetico» della lingua, come specchio delle esigenze e dei valori di una comunità di parlanti relativamente a determinati mondi vitali e immagini della realtà113. Apel attribuiva tuttavia a questa ricostruzione operativa della lingua un compito trascendentale attraverso una «radicalizzazione della critica della conoscenza kantiana in una critica del linguaggio»; l’elemento pragmatico veniva così a dipendere, in ultima istanza, dalla prospettiva ermeneutica mediante cui do107
Cfr. J. Mittelstrass, Das praktische Fundament der Wissenschaft, cit., p. 2. Cfr. ibid. 109 Cfr. ivi, p. 12. 110 Cfr. ivi, p. 19. 111 Cfr. K. Lorenz, J. Mittelstrass, Die Hintergehbarkeit der Sprache, cit. Cfr. supra, Cap. 1, pp. 19, 65 sgg. 112 Cfr. K. Lorenz, J. Mittelstrass, Die Hintergehbarkeit der Sprache, cit., p. 187; cfr. K.-O. Apel, Die Idee der Sprache in der Tradition des Humanismus von Dante bis Vico, Bouvier, Bonn, 1963, trad. it. di L. Tosti, L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, Il Mulino, Bologna, 1975. 113 Cfr. K. Lorenz, J. Mittelstrass, Die Hintergehbarkeit der Sprache, cit., p. 189. 108
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veva essere colto il «linguaggio d’uso quotidiano» caratteristico di una civiltà o di una comunità114. Il punto allora – notano Lorenz e Mittelstrass – è proprio questo: se l’ermeneutica deve far riferimento sempre e solo a contenuti storicamente dati, la prassi potrà di conseguenza presentarsi unicamente come una prassi di fatto, corrispondente alla chiusura del soggetto nel mondo storico a cui appartiene115. Il linguaggio, ridotto a lingua, appare così evidentemente «non aggirabile», talché non solo la dimensione pragmatica, ma anche quella ermeneutica non potrà ambire ad alcun ruolo fondazionale, dal momento che il codice viene in tal caso a coincidere, né più né meno, con una non meglio precisata «descrizione astrattiva» e finanche «intuitiva» delle particolari esperienze vitali116. Ora, una simile difficoltà si lega non solo alla dipendenza – stabilita da Apel – delle «condizioni di possibilità» dalle «condizioni di fatto», ma soprattutto all’incomprensione della stessa nozione di «prassi»: questa non ha unicamente a che vedere, in modo riproduttivo, con gli atteggiamenti e le intenzioni che compaiono o sono comparsi in un determinato gruppo umano, bensì anche con la capacità, ad essa inerente, di produrre nuovi atteggiamenti, i quali risulterebbero indecifrabili a partire dalla «tradizione»117. Perciò, quando Apel si riferisce alla «prassi futura» dell’uomo, egli in realtà non offre alcun criterio per la sua comprensione, poiché non gli è chiara quella condizione di possibilità operativa che, pur riguardando il linguaggio, non è in se stessa un semplice prodotto linguistico. Confondendo il processo costitutivo dell’asserire con l’oggettività dell’asserzione, vale a dire la praxis sovrastorica con la poiesis storica118, Apel giunge quindi a un’ipostatizzazione del linguaggio, che gli appare esclusivamente come «opera», trascurando di mettere a fuoco l’altro e ben più essenziale aspetto – reso evidente dallo stesso Wilhelm von Humboldt – per cui esso è anche attività organica (energeia) che produce continuamente nuove realtà storiche. Questa fissazione sull’«inaggirabilità» del linguaggio d’uso quotidiano deriva ad Apel – notano Lorenz e Mittelstrass – da un’errata interpretazione dell’ermeneutica dell’esserci heideggeriana119. Vero è che Heidegger, denunciando l’inadeguatezza del programma fenomenologico riguardante l’intuizione immediata di un «accesso extralinguistico» al mondo, ha sostenuto altresì il bisogno di una ricognizione ermeneutica delle essenze, ma egli non intendeva con ciò riferirsi – come invece fa Apel – all’originaria «mediazio114
Cfr. ivi, p. 187 sg. Cfr. ivi, p. 188. 116 Cfr. ivi, p. 193. 117 Cfr. ivi, p. 191. 118 Cfr. ivi, p. 192. 119 Cfr. ivi, p. 195. 115
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ne linguistica» dell’essere-nel-mondo120. Il linguaggio non è affatto, per Heidegger, una «grandezza trascendentale»: la sua collocazione esistenziale non riguarda tanto il rapporto tra il discorso individuale e un linguaggio che si è storicamente evoluto, bensì il fatto che «appartiene all’essenza dell’uomo avere un linguaggio, e con ciò non s’intende sostenere una cosa diversa da quella che la tradizione stessa conosce già dai tempi di Platone, quando cioè essa determina l’uomo come un zùon lÒgon œcon»121. Il senso del rilievo heideggeriano, secondo cui «La totalità dei significati della comprensibilità accede alla parola. I significati sfociano in parole. Non accade quindi che parole-cose vengano fornite di significati»122, consiste dunque nella possibilità di nominare quelle connessioni di azioni (Handlungszusammenhänge) che si traducono nell’assegnazione di predicatori. Il senso sorge in ultima istanza in base alla totalità dell’azione e non dev’essere perciò in nessun modo confuso con un evento (Ereignis) linguistico123. Anzi, nel suo saggio Il cammino verso il linguaggio, Heidegger stesso viene precisando che il termine «evento» non è riservato alla forma linguistica, ma a quel «mostrare» (Zeigen) che consiste nel far vedere e nel far apparire124; in questa prospettiva, «ciò che nel parlare “accade” [sich ereignet] – concludono Lorenz e Mittelstrass – è piuttosto “l’essere”»125. Un simile fraintendimento delle riflessioni heideggeriane, in virtù del quale «vengono attribuite al linguaggio determinate prestazioni senza rendere effettivamente comprensibile come esse possano sorgere»126, porta Apel a credere di aver in tal modo risolto le contraddizioni interne al positivismo logico. Queste tuttavia non potranno essere superate fino a quando non risulterà chiaro il significato profondo del richiamo kantiano alle «condizioni di possibilità», il quale non consiste certo nell’ipostatizzazione di determinate forme storiche della comprensione linguistica, bensì nella distinzione tra la facoltà di parlare e il linguaggio d’uso empiricamente dato: «mentre la facoltà di parlare non è aggirabile, e può pertanto essere detta un apriori formale della comprensione del mondo, si può invece senza difficoltà aggirare ogni parlare esistente di fatto»127, poiché solo la prima – come abbiamo d’altra parte visto nella disamina della propedeutica logica lorenziana – 120
Cfr. ivi, p. 196. Cfr. ivi, p. 198. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 34, p. 209. 122 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 34, p. 204. 123 Cfr. K. Lorenz, J. Mittelstrass, Die Hintergehbarkeit der Sprache, cit., p. 199. 124 Cfr. M. Heidegger, Der Weg zur Sprache, in Id., Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen, 1959, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Il cammino verso il linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1990, pp. 192 sgg. 125 Cfr. K. Lorenz, J. Mittelstrass, Die Hintergehbarkeit der Sprache, cit., p. 200. 126 Cfr. ivi, p. 202. 127 Ivi, p. 204. 121
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consente di ricostruire criticamente le strutture intenzionali che muovono il linguaggio ordinario128. Una volta fissata la non-aggirabilità dell’apriori formale del linguaggio, si tratta – secondo Mittelstrass – di chiarire il rapporto tra la forma espressiva e la prassi preteoretica della vita in cui essa si esercita. Per «forma» non si deve qui affatto intendere una sorta di rivestimento metodico dei contenuti linguistici, ma quel sapere elementare, di carattere orientativo e in grado di produrre differenziazioni, che costituisce la vera base fondazionale (Begründungsbasis) dell’agire umano129. In tal modo, Mittelstrass intende non solo opporsi a tutte quelle teorie della scienza di matrice analitica che, sotto la scorta delle osservazioni di Albert e Popper in merito al cosiddetto «trilemma di Münchhausen»130, respingono qualsiasi tendenza fondativa della filosofia, ma ne evidenzia altresì le lacune argomentative, in virtù delle quali l’antifondazionalismo, oltre a rivelarsi come un nuovo pregiudizio, appare condizionato da un modello deduttivo che non ha nulla a che vedere con la concreta genesi dell’attività conoscitiva. Infatti, non potendo conce128 Nelle opere successive – soprattutto a partire dai saggi dei primi anni Settanta raccolti in Transformation der Philosophie, 2 Bde., Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1973, trad. it. parziale di G. Vattimo, Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977 –, Apel verrà progressivamente modificando la sua tesi dell’impossibilità di andare al di là dell’orizzonte linguistico che appartiene a una comunità di parlanti, per accedere a una dimensione più propriamente pragmatico-trascendentale, nella quale «intrascendibili» non risultano i confini empirici della lingua, ma l’idea stessa di linguaggio che si forma direttamente insieme alla lingua storica entro cui viviamo. Si tratta di un approfondimento di quelle «condizioni di possibilità» che nei saggi degli anni Sessanta sembravano effettivamente contrastare con la necessità – avanzata dallo stesso Apel – di una fondazione riflessiva dell’agire umano. Tuttavia, dal punto di vista costruzionistico quest’apertura «trascendentale» si rivela non già insufficiente, ma essenzialmente equivoca: il problema non è infatti il trascendentale, ma la nozione di «pragmatica», rispetto alla quale l’idea di linguaggio – nel modo in cui Apel la presenta – si rivela solo come un’estrapolazione al limite, di matrice empiristico-associazionistica, del dato soggettivo. Non è tanto in discussione il fatto che possa formarsi un’idea di linguaggio, ma come tale idea possa costituirsi, ossia quali operazioni metodiche stiano alla base di quell’assegnazione dei termini da cui si origina il linguaggio come una forma unica e compiuta. E questo non può essere dettato da un’idea come «prodotto», ma come un’attività originaria (cfr. a tal riguardo, W. Kuhlmann, Reflexive Letztbegründung. Zur These von der Unhintergehbarkeit der Argumentationssituation, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 35, 1981, pp. 3-26; C.F. Gethmann, R. Hegselmann, Das Problem der Begründung zwischen Dezisionismus und Fundamentalismus, in «Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie», 8, 1977, pp. 342-368; P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica, cit., p. 650). 129 Cfr. J. Mittelstrass, Erfahrung und Begründung, in MVW, pp. 56-83, in particolare p. 65; Id., Historische Analyse und konstruktive Begründung, in KVP, Bd. II: Allgemeine Wissenschaftstheorie, pp. 256-277, in particolare p. 256. 130 Cfr. J. Mittelstrass, Historische Analyse und konstruktive Begründung, cit., p. 258. Riguardo alle fallacie argomentative che il razionalismo critico, in polemica con il costruzionismo metodico e con la pragmatica trascendentale di Apel, ricomprende sotto la denominazione di «trilemma di Münchhausen», cfr. infra, pp. 217-219.
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pire la teoria altrimenti che nella sua struttura assiomatica o «posizionalità formale», le epistemologie analitiche si trovano da un lato consegnate a un mero convenzionalismo e, dall’altro, a dover ricorrere a una collocazione storicistica del sapere131. Dei due, è senza dubbio quest’ultimo carattere che, in misura più significativa, contrassegna la vacuità esplicativa del principio analitico di «tolleranza». In base ad esso – come sostiene Stegmüller – «le intuizioni dello scienziato devono essere sempre riconosciute come valide fino a quando non venga provato il contrario», ossia il punto di partenza delle indagini filosofiche in merito allo statuto della conoscenza dev’essere solo il «faktum della scienza»132. Ma allora – nota Mittelstrass – ogni valutazione del processo costitutivo del sapere si riduce a una semplice ricognizione constatativa, in cui le dottrine scientifiche si succedono in base a una sorta di darwinismo storico che, nel proporre uno «sviluppo di fatto» della conoscenza, decide della bontà dei loro assetti metodici133. Ora, accanto a un approccio genetico-descrittivo che si rivolge alla «connessione degli effetti» (Wirkungszusammenhang) e la cui manifestazione più evidente è la storia degli sviluppi causali di fatto del sapere, si pone anche un punto di vista genetico-ricostruttivo che tende invece alla «connessione dei fondamenti» (Gründezusammenhang)134. Se nel primo si presentano stati e realizzazioni, nel secondo si tratta al contrario di far emergere quelle «posizioni dei fini» e «proposte d’azione» che mettono capo alle orientazioni pratiche135. È d’altra parte chiaro che nessuna «storia degli effetti» potrà mai condurre a una comprensione unitaria del sapere senza presentare un legame con la connessione dei fondamenti. L’epistemologia analitica respinge questo legame perché muove da una prospettiva esclusivamente teoretica, nella quale le condizioni della razionalità si riducono alla consistenza e alla controllabilità dei prodotti della scienza136. In tal modo, il rapporto causa-effetto smarrisce quell’originario senso dinamico e costitutivo che lo lega alla vita e che – osserva Mittelstrass – potrà emergere solo attraverso la connessione delle azioni (Handlungszusammenhang)137. Il processo di formazione del sapere rinvia così, quale suo fondamento, al primato logicopratico della predicazione elementare che permette di articolare l’apriori del131
Cfr. ivi, pp. 256, 259, 264. Cfr. ivi, p. 262. Mittelstrass si riferisce qui alle posizioni espresse da W. Stegmüller, Probleme und Resultate der Wissenschaftstheorie und Analytischen Philosophie, Bd. IV/1: Personelle Wahrscheinlichkeit und Rationale Entscheidung, Springer, Berlin/Heidelberg/New York, 1973, p. 24. 133 Cfr. J. Mittelstrass, Historische Analyse und konstruktive Begründung, cit., pp. 263, 265. 134 Cfr. ivi, p. 266 sg. 135 Cfr. ivi, p. 267. 136 Cfr. ivi, p. 269. 137 Cfr. ivi, p. 268. 132
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la conoscenza in un «apriori della differenziazione», un «apriori della produzione» e infine un «apriori della misurazione»138. Si tratta, in conclusione, di riportare la conoscenza ai suoi fondamenti argomentativi secondo tre istanze, vale a dire: 1) sono possibili forme elementari e non-deduttive della fondazione che precedono le relazioni deduttive; 2) è metodicamente scorretto parlare delle forme di differenziazione e di orientamento pre-teoretiche come di una base «inaffidabile» dell’esperienza scientifica in senso stretto; 3) è falso che tutte le proposizioni addotte per giungere a una fondazione siano teoreticamente determinate e che, di conseguenza, gli «inizi» di una teoria possano essere solo di tipo empirico, ovvero ipotetico-deduttivo139. Nel presentare il costruzionismo metodico come «terza via» tra il certismo della «fondazione ultima» – tipico di Dingler e, in una certa misura, di Apel – e il fallibilismo che invece caratterizza il razionalismo «analitico» di Albert e Popper140, Mittelstrass si richiama alla distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, in cui intravede da un lato la critica alla mitologia empiristica del «puro dato sensibile» e, dall’altro, quel punto di congiunzione tra ragione teoretica e ragion pratica in mancanza del quale sarebbe impossibile alcun approdo ontologico nella ricerca del «fondamento»141. Traendo spunto dalle osservazioni svolte qualche anno prima da Gerold Prauss in merito alla grammatica implicita nell’espressione kantiana «cosa in sé» – in particolare alla sua critica nei confronti di qualsiasi interpretazione nominale dell’inseità a favore invece di una determinazione avverbiale, per cui Kant in effetti non intenderebbe parlare semplicemente di «cose», bensì della lo-
138
Cfr. ivi, p. 270. Cfr. ivi, p. 271. 140 Cfr. J. Mittelstrass, Gibt es eine Letztbegründung?, in MP, pp. 12-35, ora in J. Mittelstrass, Der Flug der Eule. Von der Vernunft der Wissenschaft und der Aufgabe der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1989 (da ora in poi: FDE), pp. 281-312, in particolare pp. 294 sg., 312; Id., Forschung, Begründung, Rekonstruktion. Wege aus dem Begründungsstreit, in H. Schnädelbach, hrsg. von, Rationalität. Philosophische Beiträge, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1984, pp. 117-140, ora in FDE, pp. 257-280, in particolare pp. 273 sgg.; Id., Wider den Dingler-Komplex, in MVW, pp. 84-105, in particolare p. 88 sg.; H.J. Schneider, Der theoretische und der praktische Begründungsbegriff, in PPKW, pp. 212-222. Il termine «certismo», per indicare le concezioni fondazionalistiche volte a una «razionalità giustificativa», è stato introdotto nel dibattito epistemologico tedesco da H.F. Spinner, Begründung, Kritik und Rationalität. Zur philosophischen Grundlagenproblematik des Rechtfertigungsmodells der Erkenntnis und der kritizistischen Alternative, Bd. I: Die Entstehung des Erkenntnisproblems im griechischen Denken und seine klassische Rechtfertigungslösung aus dem Geiste des Rechts, Vieweg, Braunschweig, 1977, p. VIII. Su ciò, si veda anche P. Schroeder, Certismus, in EPW, I, p. 385 sg. 141 Cfr. J. Mittelstrass, Ding als Erscheinung und Ding an sich. Zur Kritik einer spekulativen Unterscheidung, in J. Mittelstrass, M. Riedel, hrsg. von, Vernünftiges Denken. Studien zur praktischen Philosophie und Wissenschaftstheorie, de Gruyter, Berlin/New York, 1978 (d’ora in poi: VD), pp. 107-123, in particolare p. 109. 139
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ro «modalità di considerazione»142 –, Mittelstrass evidenzia come il rapporto tra fenomeno e cosa in sé non si configuri affatto nella forma di una mera proiezione di una realtà di base nella sua «manifestazione» sensibile, ma si presenti anzi come l’introduzione esemplare di una distinzione che ha la sua radice nell’appartenenza del soggetto conoscitivo a un mondo linguisticamente articolato143. In altri termini, la distinzione kantiana tra le condizioni di possibilità e il condizionato, cioè il mondo fenomenico, si fonda sul fatto che il soggetto deve già poter distinguere, e questa capacità si richiama a sua volta al fondamento pratico-operativo della ragione teoretica144. Il carattere esemplare del fenomeno si rivela infatti nella sua forza di esprimere la natura ideale dell’inseità, laddove per «idea» non si deve intendere l’infinito complemento oggettuale di un processo di determinazione, ma piuttosto quella virtualità operativa che si manifesta nelle proposizioni geometriche, le quali «non si riferiscono a figure empiriche, bensì presuppongono sempre lo schema di realizzazione di un’idea rispetto a tali figure»145. In questo senso, Mittelstrass rivela una singolare convergenza con le posizioni di Friedrich Kaulbach riguardo a quella «logica della predicazione» che sottende la nozione kantiana di «concetto», in quanto regola di un’azione costruttiva direttamente ricavata dall’esibizione intuitiva dell’oggetto146. In questo caso, la realizzazione ideale, lungi dall’implicare una sorta di «isolamento noumenico» dell’esperienza, significa anzi solo che «senza di essa non sarebbe possibile un determinato discorso su figure empiriche, un discorso cioè che consenta miglioramenti o approssimazioni a piacere in considerazione dello schema»147. Il fenomeno è dunque tale conformemente alla «misura» o alla norma della sua idea; e ciò ricorda da vicino – nota Mittelstrass – la dottrina platonica delle idee come «immagini originarie» (Urbilder), di cui le cose empiriche non sarebbero che raffigurazioni148. Il ricorso alla sensibilità contenuto nella nozione kantiana di fenomeno, non consiste altro che nell’impiego (Gebrauch) di distinzioni esemplarmente introdotte allo scopo di comprendere il mondo149. Rispetto a questo bisogno pratico, le azioni linguistiche, normativamente o «idealmente» condizionate, trasmettono alle cose sensibili quell’affidabilità che, da sola, l’esperienza non può garantire. Le massime kantiane della ragion pratica possono così, in ul142
Cfr. ivi, p. 116 sg. Mittelstrass fa riferimento al saggio di G. Prauss, Erscheinung bei Kant. Ein Problem der „Kritik der reinen Vernunft“, de Gruyter, Berlin, 1971. 143 Cfr. J. Mittelstrass, Ding als Erscheinung und Ding an sich, cit., p. 111 sg. 144 Cfr. ivi, p. 111. 145 Ivi, p. 115. 146 Cfr. F. Kaulbach, Subjektlogik und Prädikatlogik, in VD, pp. 23-51, in particolare p. 39. 147 Cfr. J. Mittelstrass, Ding als Erscheinung und Ding an sich, cit., p. 115. 148 Cfr. ivi, p. 118 sg. 149 Cfr. ivi, p. 120.
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tima istanza, essere trasformate in ciò che Mittelstrass chiama postulato o imperativo metodico: «Distingui in modo tale che le tue proposte possano servire come ragioni di cambiamento delle proposte fino ad ora esistenti e come fondamento di proposte future»150. E proprio nel rivelare l’interesse pratico di ogni filosofia teoretica, la separazione kantiana tra fenomeno e cosa in sé indica, al tempo stesso, il legame indissolubile che il soggetto morale intrattiene con le «ragioni» della scienza151. 4.3. Janich: protofisica e culturalismo metodico Nell’affrontare il problema della fondazione conoscitiva, tanto nelle sue implicazioni concettuali quanto nei suoi risvolti etico-pratici, Kambartel e Mittelstrass tracciano i contorni logici generali entro cui si muove il movimento costruzionistico, e intendono questi contorni come sviluppo e trasformazione delle originarie istanze lorenziane. Al centro del loro interesse sono infatti le condizioni di possibilità dell’impostazione costruttiva, condizioni che, in un certo senso, assumono una caratterizzazione trascendentale rispetto al concreto operare della scienza. Le indagini di Janich sembrano invece muoversi a diretto contatto con i risultati che, nelle riflessioni di Lorenzen e, soprattutto, di Dingler, legano l’operazionismo costruttivo alle ricerche scientifico-naturali, in particolare ai temi fisici dello «spazio», del «tempo» e della «materia». In questo senso, la ricerca filosofica intorno ai principi del mondo fisico deve tendere in primo luogo alla determinazione metodica delle definizioni operative riguardo alle grandezze fisiche fondamentali. All’interno di una siffatta «protofisica» – come aveva già notato Lorenzen –, assumono rilievo tutti quegli aspetti del sapere intorno alla natura che non hanno a che vedere tanto con i risultati o gli oggetti, quanto con i criteri strumentali ed eminentemente tecnici che condizionano la loro produzione. Avremo così una cronometria come protofisica del tempo152, 150
Ivi, p. 122. Cfr. ivi, p. 123. 152 Cfr. P. Janich, Die Protophysik der Zeit, Dissertation, Bibliographisches Institut, Mannheim/Wien/Zürich, 1969, seconda edizione riveduta e ampliata, Die Protophysik der Zeit. Konstruktive Begründung und Geschichte der Zeitmessung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1980; Id., Das Maß der Dinge. Protophysik von Raum, Zeit und Materie, Cap. II: Protophysik der Zeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1997, pp. 131-268, in cui compaiono i seguenti saggi già pubblicati: Was messen die Uhren?, in «alma mater philipphina», 1982, pp. 12-14; Hat Ernst Mach die Protophysik der Zeit kritisiert?, in «Philosophia Naturalis», 22/1, 1985 (Sonderheft: Protophysik heute, hrsg. von P. Janich), pp. 51-60; Hugo Dingler, Die Protophysik und die spezielle Relativitätstheorie, in MP, pp. 113-127; Geschwindigkeit und Zeit. Anregungen bei Aristoteles und Augustinus zur Lösung eines modernen methodologischen Problems, in E. Rudolph, hrsg. von, Zeit, Bewegung, Handlung. Studien zur Zeitabhandlung des Aristoteles, KlettCotta, Stuttgart, 1988, pp. 168-192; Zeit und Natur, in M. Hauskeller, G. Schiemann, Ch. 151
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una geometria come protofisica dello spazio153 e, infine, un’ilometria come protofisica della materia154.Quest’articolazione dell’indagine conoscitiva è preceduta da una serie di considerazioni, comuni a tutto il costruzionismo, che si rivolgono alla giustificazione del processo costitutivo del «mondo fisico»: anche per Janich si tratta di una giustificazione «dal basso», cioè a partire dalla prassi del mondo della vita, nelle sue forme produttive e pragmatiche155; tuttavia – diversamente da Lorenzen e Mittelstrass – egli tende a evitare il pericolo di una reificazione di questo mondo in una sorta di a priori non-aggirabile, ponendo al centro dell’attenzione non la questione dei «principi», ma le fallacie della struttura logico-argomentativa tipica dell’epistemologia analitico-descrittiva, in modo da ottenere, per contrasto, la validazione dell’approccio costruttivo-prescrittivo156. In primo luogo, dunque, l’errore dell’impostazione empiristica è rilevabile, oltre che nell’acriticità del «dato» già evidenziata da Kambartel, nell’antinomia che deriva dallo scambio tra il linguaggio oggettivo di prim’ordine, consistente nella «conoscenza della natura», e il linguaggio riflessivo di second’ordine, per cui – nota Janich – «la stessa conoscenza della natura è oggetto della conoscenza della natura»157. Si noti che una simile riduzione non è, in se stessa, fonte di antinomie; la si ritrova, ad esempio, nella forma kantiana del giudizio riflettente, quando si tratta di risalire dal dato alle ca-
Rehmann, hrsg. von, Naturerkenntnis und Natursein. Für Gernot Böhme, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1997. 153 Cfr. P. Janich, Das Maß der Dinge. Protophysik von Raum, Zeit und Materie, cit., Cap. I: Protophysik des Raumes, pp. 35-128, in cui compaiono i seguenti saggi già pubblicati: Die protophysikalische Begründung der Geometrie, originariamente come: Zur Protophysik des Raumes, in G. Böhme, hrsg. von, Protophysik. Für und wider eine konstruktive Wissenschaftstheorie der Physik, cit., pp. 83-130; Die technische Erzwingbarkeit der Euklidizität, cit.; Id., Was heißt «eine Geometrie operativ begründen»?, cit.; Id., Euklids Erbe. Ist der Raum dreidimensional?, Beck, München, 1989; Id., Form und Große. Eine Wissenschaft wovon ist die Geometrie?, in Id. Grenzen der Naturwissenschaft, cit., pp. 26-43, trad. it. a cura di M. Buzzoni, I limiti della scienza naturale, cit., Parte seconda, Cap. 1: Forma e grandezza. Qual è l’oggetto della geometria in quanto scienza?, pp. 41-55. 154 Cfr. P. Janich, Ist Masse ein „theoretischer Begriff“?, in «Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie», 8, 1977, pp. 302-314; Id., Das Maß der Masse, in KVP, Bd. I, pp. 340-350; Id., Das Maß der Dinge. Protophysik von Raum, Zeit und Materie, cit., Cap. III: Protophysik der Masse, pp. 271-304, in cui compare il seguente saggio già pubblicato: Die Eindeutigkeit der Massenmessung und die Definition der Trägheit: Hylometrie, in «Philosophia Naturalis», 22/1, 1985 (Sonderheft: Protophysik heute, hrsg. von P. Janich), pp. 87-103. 155 Cfr. P. Janich, Die exakten Wissenschaften, in WAW, Cap. VII, pp. 96-107, in particolare p. 99. 156 Cfr. P. Janich, Eindeutigkeit, Konsistenz und methodische Ordnung: normative versus deskriptive Wissenschaftstheorie zur Physik, in NFW, pp. 131-158, in particolare p. 131 sg. 157 LSN, p. 27.
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tegorie con cui lo individuiamo158. Tuttavia, l’impostazione trascendentale kantiana riesce a immunizzarsi dalle antinomie facendo emergere la particolare modificazione introdotta dal giudizio riflettente: qui non è un problema di conoscenza diretta, bensì di riorganizzazione della medesima. Al contrario, nella prospettiva analitica il giudizio conoscitivo deve sempre risolversi nell’acquisizione della conoscenza come estensione pura e semplice del metodo che ne è a fondamento; in termini kantiani è come se, per ogni forma della conoscenza, dovesse valere la «giurisdizione dell’intelletto». Da quest’impasse argomentativa si possono ricavare tre considerazioni che – secondo Janich – risultano esiziali per l’empirismo. Anzitutto, è singolare notare come proprio la filosofia analitica, che aveva scoperto le antinomie logiche, ricada essa stessa vittima dell’errore che ha contribuito a rivelare, segno di un malcelato pregiudizio logico-sintattico che determina il loro imperfetto superamento. In secondo luogo, la posizione analitica potrebbe essere salvata solo con l’introduzione di un principio ad hoc di tipo «antropico», per cui la conoscenza della natura, appartenendo all’uomo in quanto parte della natura, potrebbe essere conosciuta come un oggetto naturale; una conclusione che, tuttavia, fuoriesce dall’osservazione empirica, non potendosi ridurre per principio una questione di atteggiamento – cioè una funzione – a una questione di accertamento di fatto. In terzo luogo – come conseguenza diretta di questa seconda considerazione –, ogni ermeneutica viene così ridotta alla semantica denotativa, per cui la semplice definizione di «natura» dovrebbe già contenere la sua interpretazione, vale dire la capacità di parlare del suo codice; ma – come aveva rilevato Wittgenstein – ciò contraddice il divieto di riflessività stabilito dalla semantica denotativa, cioè il fatto che un linguaggio non possa dimostrare le condizioni di validità della sua sensatezza (la sua «forma logica»), ma solo esibirle. Da tutto ciò si ricava la necessità di ricondurre l’interpretazione alla sua matrice non naturalistica o, meglio, pre-naturalistica, ossia alla cultura. Mentre l’interpretazione naturalistica della conoscenza naturale non distingue «l’oggetto della ricerca naturale da questa stessa ricerca», al contrario l’interpretazione culturalistica «porta sempre con sé il significato d’un intervento umano sulla natura»159. Si tratta – nota Janich – di un significato implicito nella nozione stessa di «cultura», la quale non implica affatto un’osservazione disinteressata, ma quello sforzo umano verso la conoscenza «consistente in primo luogo in abilità pratiche, relative al commercio con la natura, da parte di raccoglitori, cacciatori, agricoltori e allevatori»160. Una vol158 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790), trad. it. di A. Bosi, Critica del Giudizio, UTET, Torino, 1993, Introduzione, IV, p. 157 sg. 159 Cfr. LSN, p. 27 sg. 160 Ivi, p. 25.
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ta stabilito che la natura dev’essere sempre ricompresa come oggetto della prassi umana, ne consegue altresì che tutti gli sforzi scientifici per la conoscenza devono essere considerati dal punto di vista di azioni umane dirette a dei fini161. Questo serve a eliminare due fraintendimenti che hanno costantemente condizionato il rapporto tra natura e cultura. Anzitutto, la separazione e la reciproca esclusione tra scienze della natura e scienze della cultura sono esse stesse il frutto di un discorso meramente naturalistico162. Infatti, poiché per «natura» s’intende tutto ciò che non è stato fatto dall’uomo, ci si sente legittimati a trasferire il carattere di oggettività dal correlato ontico al sapere ad esso relativo. In tal modo si perde di vista la differenza tra l’oggettività come attributo del reale e l’oggettivazione, che indica invece una modalità di costituzione soggettiva del significato. Si noti che solo mantenendo tale differenza è possibile una scienza dell’uomo: qui, così come nella natura intesa sotto forma di dato duro extraumano, l’oggettività è garantita dal fatto che il suo riferimento diventi, in un certo senso, «naturale», cioè una datità extramentale. Ciò pone fuori gioco l’inutile disputa – anch’essa di matrice naturalistica – riguardo alla questione se il metodo determini l’oggetto (ermeneutica trascendentale) o se, al contrario, sia piuttosto l’oggetto a guidare il metodo (scientismo): ogni oggetto dev’essere anzi ricondotto alle sue più riposte modalità di oggettivazione, le quali hanno a che fare, in prima istanza, con i fini dell’agire conoscitivo. In secondo luogo, quando si indica la natura come oggetto della prassi umana, non si vuole semplicemente dire che le scienze naturali sono praticate e prodotte dagli uomini163. Il naturalista non avrà certo difficoltà ad ammettere che i metodi di ricerca e le istituzioni scientifiche sono sottoposte a una storia che, nella sua articolazione linguistica, viene insegnata sotto forma di teorie e applicata mediante la tecnica. Tuttavia, con ciò non si è ancora compreso il significato profondo dell’agire conoscitivo, il quale non consiste certo nella semplice descrizione di un comportamento fallibile e rivedibile, bensì nel rilievo che assume il carattere intenzionale e volontario dei processi operativi a cui esso fa riferimento. Nel richiamarsi alla necessità di non confondere il comportamento con l’azione, Janich ribadisce – secondo le indicazioni già fornite da Lorenzen – che il linguaggio scientifico, lungi dall’apparire come un mero involucro esterno di uno stato di cose contingente, si configura piuttosto come la fondamentale forma di orientamento dell’esperienza, forma preclusa a coloro i quali si collocano all’interno di una descrizione empirica: «mentre il naturalista asserisce ciò che è, il culturalista ha a che fare con esortazioni, e 161
Cfr. ivi, p. 28. Cfr. ivi, p. 29. 163 Cfr. ivi, p. 30. 162
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quindi con proposizioni linguistiche, che non rivendicano d’essere vere o false, valide o invalide, ma a cui è connessa l’attesa che ad esse ci si attenga o che vengano ricusate». Di conseguenza, «se il naturalista non abbandona mai la prospettiva dell’osservazione [...] il culturalista, in quanto è colui che esorta, ha assunto invece la prospettiva del partecipante»164. L’emergenza del concetto di «azione» alla base delle considerazioni scientifiche deve ora indurre l’indagine filosofica a prendere le distanze da qualsiasi reificazione dell’esperienza conoscitiva. Il costruttivismo a cui Janich intender richiamarsi, non ha nulla a che vedere con una segmentazione del modo in «cose» e «azioni». L’agire non è infatti un aspetto del mondo accanto alle cose, ma anzi il frutto di un bisogno umano, la cui origine è già da sempre tecnicamente condizionata165. Un simile legame indissolubile tra teoria e tecnica, in quanto mediato dalle azioni, produce alcune importanti conseguenze sul piano del linguaggio e della logica che lo sottende. Quando parliamo delle «motivazioni» e dei «fini» che guidano un’azione, siamo in generale indotti a configurare il processo operativo come contrassegnato da un insieme di cause che, secondo una successione lineare, determinano, per accumulo, l’intensità, la forza e la direzione del vettore in cui si esprime la dinamica dell’evento: si tratta cioè di un principio di ordinamento seriale volto a evidenziare il carattere funzionale dell’operazione, in contrapposizione al carattere «riproduttivo» dell’osservazione empirica166. Ora, un simile modo d’intendere la teoria dell’azione, per quanto distinto dall’astratta concezione neutrale e contemplativa del sapere scientifico, non rende conto dell’effettiva capacità operativa degli apparati tecnici. Questi non considerano solo, come semplici «fatti», gli stati iniziali e gli stati finali, ma includono anche l’intera situazione complessiva dell’evento, la quale può cambiare con lo svolgersi del processo167. Così, se ad ogni istante la dinamica dell’evento è determinata da un vettore lineare, è tuttavia unicamente dalla composizione degli istanti, ottenuta mediante procedimenti differenziali, che può risultare l’intero corso dal quale emerge il significato dell’azione. Il «fine», come l’integrale di tutte le forze che lo compongono, esclude dunque un rapporto statico tra le prime e le ultime fasi, stabilendo quella complementarità tra la 164
Ivi, p. 31. Cfr. ivi, p. 33. 166 Cfr, a tal riguardo, E. Cassirer, Sostanza e funzione, cit., p. 31 sg. 167 Su questa nozione dinamica e trasformativa del processo in cui si esprime l’azione, la quale rimanda necessariamente a Leibniz, cfr. K. Lewin, The Conflict between Aristotelian and Galileian Modes of Thought in Contemporary Psychology, in «Journal of General Psychology», 5, 1931, pp. 141-177, poi in Id., A Dynamic Theory of Personality, McGraw-Hill, New York, 1935, trad. it., G. Petter, Il conflitto fra una concezione aristotelica ed una concezione galileiana nella psicologia contemporanea, in K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, Giunti, Firenze, 1965, 19972, pp. 9-50, in particolare p. 41. 165
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dinamica teleologica dell’azione e la cinematica descrittiva del movimento fisico che caratterizza l’intenzionalità del «sapere». La logica differenziale dell’agire rende altresì ragione della critica alla concezione raffigurativa del linguaggio. I mezzi linguistici della scienza, in quanto legati al successo o all’insuccesso delle operazioni, non riproducono semplici cose, bensì rapporti comunicativi contrassegnati dalla trasmissione di esortazioni, di domande e asserzioni; perciò il linguaggio serve alla costruzione degli oggetti in vista dell’organizzazione dell’agire tecnico. Come il maestro – osserva Janich – insegna all’apprendista al tempo stesso il fare e il discorrere specifico di una disciplina, così «il linguaggio viene in certo qual modo inventato insieme con la realtà prodotta dall’uomo stesso»168. Poiché dunque, ogni sapere intorno alla natura «si rivela piuttosto come risposta a domande e soluzione di problemi», esso dev’essere sottratto all’ambito di quanto si crede debba avvenire secondo «leggi di natura» e di cui si presume di non poter disporre169. Ciò permette di cogliere sotto una nuova luce anche il rapporto tra la tecnica, l’agire normativo e le forme di giustificazione del sapere. Dove il linguaggio è semplice espressione di un prodotto concettuale, e questo a sua volta è traduzione in forma teorica dell’esperienza di fatto, anche le norme appaiono come introduzioni per principio che servono esclusivamente a produrre definizioni riguardo agli usi linguistici dei termini. Le definizioni operazionali sono cioè in tal caso solo applicative, cosicché la tecnica viene intesa, né più né meno, come una scienza naturale «applicata». Ma allora da un lato le norme appaiono come fondazioni ingiustificate, dal momento che è sufficiente l’analisi semantica del concetto per ottenere un uso corretto del linguaggio, e, dall’altro, la tecnica non ha alcuno status teoretico, nella misura in cui quest’ultimo è anzi riservato al puro assetto concettuale del sapere. Per transitività, la tecnica si mostra esente da obblighi di legittimazione, poiché la valutazione della bontà del suo impiego intersoggettivo non è compito dello scienziato teorico – che ne regola invece deduttivamente il solo uso linguistico –, bensì dell’uomo politico o dell’apparato socio-economico in cui essa si trova inserita sotto forma di tecnocrazia. In sostanza, alla «teoria» e all’«uso della teoria» non è affiancata una teoria dell’uso della teoria, che sarebbe possibile solo laddove le norme non accadessero «per principio», ma secondo l’assetto stesso che l’esperienza assume nell’intera situazione dell’agire. Ora, questa considerazione teoretico-pragmatica dipende evidentemente dal fatto che – nota Janich – «le definizioni operazionali non stabiliscano soltanto gli usi linguistici dei termini, bensì normalizzino anche i procedimenti», vale a dire «forniscano una semantica per le teorie delle scienze naturali unicamente nel loro 168 169
LSN, p. 33. Cfr. ivi, p. 35.
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nesso con la produzione di attrezzature da laboratorio»170. In questa prospettiva, – conclude Janich – la scienza naturale non è interpretabile diversamente da una tecnica applicata, rispetto alla quale il compito ricostruttivo del filosofo consiste nel condurre il sapere competente che ne è a fondamento «all’ambito di ciò che viene praticato secondo un progetto e di cui pertanto ci si deve assumere la responsabilità»171. Una volta precisati, nel senso suddetto, i confini trascendentali entro cui deve muoversi una teoria normativa dell’azione, Janich procede a delineare i rapporti e le analogie strutturali che sono rinvenibili tra i vari ambiti della protofisica e le altre aree dell’indagine scientifica, come la chimica, la biologia, la fisiologia della percezione, la psicologia e la teoria dell’informazione172. Per quanto riguarda la protofisica, si possono evidenziare le seguenti strutture dell’agire normativo: 1) Il principio dell’ordine metodico. Si tratta del «principio della catena fondativa» già esposto da Dingler con l’esempio della statua lignea dipinta: «nessuno dubita del fatto che nella produzione di una figura lignea occorra prima intagliare e poi dipingere. La sequenza di queste azioni poietiche è stabilita dal fine della catena delle azioni»173. Questo principio vieta un discorso, cioè impedisce di descrivere o prescrivere la sequenza metodica delle azioni in modo diverso da quello in cui queste azioni devono essere eseguite. Di conseguenza, ogni determinazione spaziale o temporale, geometrica o cronometrica, trova nell’ordine metodico un fondamento sintetico a priori. Ad esempio, nella geometria analitica ogni rappresentazione di un punto mediante coordinate impiega già, in senso costruttivo o sintetico, la fissazione della scala degli assi coordinati; questa è una struttura che ha già una forma spaziale e che, dunque, presupponendo una geometria, non può essere analiticamente compresa. Allo stesso modo, la misurazione del tempo presuppone la fissazione normativa degli apparecchi di misura (orologi) non disturbati, fissazione che – evidentemente – non può essere garantita sulla base di misurazioni o di spiegazioni secondo le cosiddette «leggi di natura», le quali funzionano anche per gli apparecchi guasti174. 2) Il principio di riproducibilità senza prototipi. Come conseguenza diretta dell’ordine metodico, l’obiettivo della conoscenza delle forme spaziali e temporali non può avere «esemplari unici» in quanto punti di riferimento iniziali del processo, ma è viceversa il procedimento produttivo a dover condurre allo stesso risultato esemplare pur utilizzando materiali e punti di 170
Ivi, p. 38. Ivi, p. 35. 172 Cfr. ivi, p. 36 sg. 173 Ivi, p. 47 (trad. it. leggermente modificata). 174 Cfr. ivi, pp. 42, 44, 58, 68 sgg. 171
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partenza differenti. Ciò è dovuto alla normatività stessa dell’agire, come accade nell’esempio della levigatura delle tre lastre per ottenere una superficie piana175. 3) Il principio dell’esperienza originaria, ovvero legata al mondo della vita come quel «carattere di cose che capitano» (Widerfahrnischarakter) al di fuori del nostro volere176. Si tratta dello «scontro» originario col dato duro dell’empiria. Nell’esperienza pura non emerge propriamente un dato empirico (che può presentarsi solo attraverso un criterio di produzione), ma quel limite indeterminato e indeterminabile dell’esperienza stessa che ci fa «toccare» la resistenza del mondo e costituisce la stessa condizione di possibilità per eseguire un’azione. Da ciò dipende il fatto che, in ultima istanza, le azioni non siano suscettibili di argomentazione, ma solo di realizzazione177. Lo stesso linguaggio riceve qui la sua capacità di presa sulle cose: tutti i termini sono infatti, originariamente, prescrizioni, cioè istruzioni per le azioni178. Dal punto di vista conoscitivo, si può «aggirare» il linguaggio solo se questo assume un carattere descrittivo. Ora, queste tre strutture normative della protofisica stabiliscono, secondo Janich, una convergenza tra il processo fenomenologico di idealizzazione a partire dal mondo della vita e la determinazione costruttiva del sapere come prassi di orientamento sulla base di strumenti e di assegnazioni linguistiche. Questa convergenza si articola in due aspetti, vale a dire a) una determinazione strumentale della conoscenza spazio-temporale; b) una teoria non-naturalistica della percezione. a) La determinazione strumentale delle forme spazio-temporali a partire dall’esperienza materiale-corporea. In questo caso, Janich si riferisce direttamente alle osservazioni di Husserl in merito alla «matematizzazione galileiana della natura», contenute nel § 9 de La crisi delle scienze europee e sviluppate nelle Appendici II e III al medesimo paragrafo179. Attraverso le sue indagini genetico-costitutive sulla conoscenza, Husserl sembra in effetti muoversi in una prospettiva volta a evidenziare il carattere differenziale di quell’agire che, partendo dall’«esperienza sensibile quotidiana», mette in atto una diversificazione del mondo, sottraendolo all’ovvietà del «dato» soggettivo180. Nell’esperienza dei corpi – nota Husserl – noi non abbiamo a che fare con entità geometrico-ideali, ma con contenuti reali che si esprimono in movimenti e deformazioni, secondo una gradualità che mette capo a un’iden175
Cfr. ivi, p. 47 sg. Cfr. ivi, p. 70. 177 Cfr. ibid. 178 Cfr. ivi, pp. 60, 64. 179 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 53 sgg. e 371 sgg. 180 Cfr. ivi, p. 53; P. Janich, Die galileische Geometrie. Zum Verhältnis der geometrischen Idealisierung bei E. Husserl und der protophysikalischen Ideationstheorie, cit., p. 169. 176
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tità per approssimazione: qui le forme sensibili consistono nel «più o meno retto, più o meno piano, più o meno circolare»181. La perfezione delle figure ideali, in quanto «polo invariabile e insieme irraggiungibile», è dunque relativa alla soddisfazione di uno «speciale interesse pratico», grazie a cui «noi siamo “geometri”»182. A questo riguardo, Janich rileva come l’interesse pratico evidenziato da Husserl corrisponda precisamente alla prassi di produzione tecnica, cioè a quell’agire costruttivo in base al quale il «metodo dell’idealizzazione» assume un significato conoscitivo183. Husserl stesso, d’altra parte, si riferisce esplicitamente a quella metodica della misurazione che rimanda al mondo circostante intuitivo e pre-scientifico, dove vigono prima le forme rudimentali, poi le regole dell’arte e infine le «determinazioni intersoggettive di queste forme (ad esempio, nell’agrimensura)»184. Ora, nota Janich, proprio nel distinguere il processo di realizzazione meramente tecnico-artigianale dalla «costruzione concettualmente definitoria delle forme pure»185, la fenomenologia è in grado di scorgere – secondo le stesse parole di Husserl – che l’«obiettività esatta» non è una tecnica volta a «riplasmare le cose già date dell’esperienza», bensì il frutto di una «prassi in cui il materiale è costituito dalle rappresentazioni imperfette delle cose e in cui, attraverso un atteggiamento generale del pensiero, di una cosa particolare esemplare e assunta come esempio per “una cosa qualsiasi in generale” viene pensata come già decorsa tutta l’infinita molteplicità delle sue rappresentazioni soggettive, sempre imperfette ma sempre perfezionabili, attraverso l’esercizio della possibilità attiva di percorrere, rispetto a qualsiasi “rappresentazione”, le linee di un possibile perfezionamento»186. Così – in misura maggiore rispetto a Kambartel –, Husserl sembra cogliere nell’esempio non solo la capacità di esprimere l’universale nel particolare, ma soprattutto quell’operazione conoscitiva in cui si manifesta l’idealizzazione sistematica e che, di conseguenza, «rende evidente l’applicabilità delle idealità costruibili al mondo dell’esperienza»187. In questo senso, il «programma 181 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 55; P. Janich, Die galileische Geometrie, cit., pp. 169, 171. Si veda anche l’Appendice II a La crisi delle scienze europee, cit., p. 372: «Esiste quindi sempre, ed inerisce sempre modalmente all’esperire stesso, qualcosa come un maggior avvicinamento alla cosa, un conoscerla più precisamente; ciò implica [...] la costante possibilità di una rettifica. Per es.: ciò che era stato visto come liscio, piano e uniformemente rosso ecc., può rivelarsi “in verità” un po’ ruvido, corrugato, macchiato ecc.». 182 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 55; P. Janich, Die galileische Geometrie, cit., p. 170. 183 Cfr. P. Janich, Die galileische Geometrie, cit., p. 169. 184 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 57; P. Janich, Die galileische Geometrie, cit., p. 171. 185 Cfr. P. Janich, Die galileische Geometrie, cit., p. 171. 186 Cfr. E. Husserl, Appendice II a La crisi delle scienze europee, cit., p. 374. 187 Cfr. ivi, p. 375 sg.
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della protofisica» si presenta per Janich come una diretta ed esplicita continuazione delle concezioni husserliane a proposito dell’agire pre-teoretico, e in particolare esso intende colmare quelle lacune che ancora permangono in Husserl riguardo al problema della fondazione, lacune consistenti sia nella mancata costruzione di un linguaggio pre-geometrico intorno alle forme dei corpi reali, sia nell’assenza di una specifica delineazione della praxis tecnica188. b) La teoria non-naturalistica della percezione. Nelle più comuni teorie fisiologiche sulla percezione sensoriale, il dato sensibile deve essere esaminato attraverso i metodi delle scienze naturali. Ne deriva la conseguenza paradossale che il dato della percezione sensoriale di un qualsiasi organismo si presenta come esattamente identico al dato della percezione sensoriale del fisiologo in quanto ricercatore, poiché risulta inevitabile l’iterazione conoscitivo-percettiva in base a cui «il fisiologo ha la percezione sensoriale di organismi aventi percezione sensoriale»189. Riferendosi alle indagini del fisiologo Herbert Hensel190 – il quale a sua volta si richiamava a Husserl e a Dingler –, Janich sostiene perciò la necessità di una trattazione antinaturalistica delle qualità percettive, dal momento che la tesi della derivazione naturale o «fisica» delle percezioni dagli stimoli tramite «catene causali» dovrebbe essere sostenuta da un isomorfismo psico-fisico, cioè da un fattore naturalisticamente inderivabile191. Infatti – come notava Hensel – ogni tentativo di spiegazione della percezione dipende da un sapere antecedente riguardo a «ciò che in generale esiste come oggetto di possibile percezione. [...] La fisica non può fornire l’informazione ultima sul percepibile, bensì dipende essa stessa da quest’ultimo»192. Tuttavia, se Husserl e Dingler intravedono un simile sapere originario unicamente nella «prassi di orientarsi nel percepire sulla base del mondo della vita»193, Janich richiede altresì la fondazione di questa prassi in una 188
Cfr. P. Janich, Die galileische Geometrie, cit., p. 172 sg. LSN, p. 105. 190 Herbert Hensel (1920-1983) è stato direttore dell’Istituto di Fisiologia dell’Università di Marburgo. Alla sua attività si deve, tra le altre opere, un’Allgemeine Sinnesphysiologie. Hautsinne, Geschmack, Geruch, Springer, Berlin, 1966, e un importante saggio su Goethe e l’esperienza sensoriale (Goethe, Science and Sensory Experience, in D. Seamon, A. Zajonc, ed. by, Goethe’s Way of Science. A Phenomenology of Nature, State University of New York Press, Albany, New York, 1998, pp. 71-83). 191 Cfr. H. Hensel, Goethe, Science and Sensory Experience, cit., p. 73 sg. 192 LSN, p. 106 sg. Cfr., a tal riguardo, H. Hensel, Goethe, Science and Sensory Experience, cit., p. 71 sg. In questo punto, Hensel rinviene una connessione tra l’esperienza operativa della percezione e la nozione goethiana di «fenomeno originario» (Ürphänomen) come sequenza metodica che si conclude in un’intuizione o «esperienza di ordine superiore all’interno dell’esperienza stessa» (cfr. ivi, p. 75). 193 LSN, p. 107. 189
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teoria dell’azione e della definizione linguistica in quanto operazioni tecniche estranee a qualsiasi formalismo194. Nell’universo delle scienze naturali, i fenomeni – come gli «stimoli», le «sensazioni», gli «organismi», il «corpi inorganici» ecc. – vengono spesso espressi da termini che non sono esplicitamente definiti (ricadendo così nell’ambiguità delle definizioni implicite), oppure «si rifugiano in qualche gioco di prestigio formale di tipo definitorio», dal quale è impossibile ricavare una comprensione del reale195. Qui Janich si richiama alla tecnica del «salvataggio dei fenomeni» già evidenziata da Mittelstrass: essi non sono naturalmente «semplici» o «complessi», bensì il frutto di un ordinamento concettuale che viene fondato dallo scienziato stesso e che già nell’antichità serviva per «conciliare il visibile con le precedenti assunzioni teoriche»196. Perciò, senza compiere quei passi che precedono in senso metodico la scienza e che, come tali, non appartengono al suo ambito, è impossibile un sapere riguardo alla percezione: «il vedere un oggetto come rosso – nota Janich – si riferisce sempre alla capacità [intenzionale] che abbiamo necessariamente acquisito insieme con l’uso corretto della parola “rosso”»197. Ora, il fatto che la funzione di un organo percettivo possa essere conosciuta soltanto dopo che sappiamo quello che avviene nel momento in cui già abbiamo una percezione sensoriale linguisticamente descritta, si collega direttamente alla conversione dell’ordine temporale a cui l’agire sottopone la catena causale tra «stimolo» e «percezione». Come l’azione, mirando a qualcosa che non c’è ancora, può essere valutata solo in base al raggiungimento del suo obiettivo o all’esecuzione del suo schema, nello stesso modo la percezione è decifrabile esclusivamente facendo riferimento alla sua controfattualità futura: essa consiste cioè «nel controllare se vengono soddisfatte le nostre attese percettive, attese che, formatesi muovendo dal passato, sono dirette verso stati o fini futuri»198. In questa prospettiva, se si considerano i passi inevitabili per acquisire un sapere linguisticamente fondato, allora quell’«ordine» che, secondo il naturalista, prescrive la sequenza sintetica della ricerca scientifica a partire da ciò che è «elementare» per giungere al «complesso», risulta estremamente problematico; infatti – conclude Janich –, dal momento che lo scienziato deve già disporre e saper usare le capacità proprie della vita quotidiana prima delle dimostrazioni teoriche di queste capacità, ne risulta che «il fenomeno più semplice è l’uomo stesso», non però inteso come mero organismo, ma come persona fornita di un «agire e discorrere coscienti, intenzionali»199. 194
Cfr. ivi, p. 113. Cfr. ivi, p. 110 sg. 196 Ivi, p. 112. 197 Ivi, p. 114. 198 Ivi, p. 116. 199 Cfr. ivi, p. 112. 195
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Nel cercare una terza via tra naturalismo e relativismo conoscitivo, l’impostazione pragmatico-strumentale di Janich200 – oltre a sviluppare una severa critica nei confronti del costruzionismo radicale in cui intravede una sorta di naturalismo antropocentrico basato sull’«apriorismo del cervello»201 – intende anche differenziarsi rispetto all’originario costruzionismo lorenziano, proponendo, nelle opere degli anni Novanta, un culturalismo metodico aperto – in senso operativo – sia alle nuove istanze di comunicazione tra uomo e natura, sia ai bisogni d’integrazione sociale che emergono dalle più recenti conquiste tecnologiche202. Mentre infatti il costruzionismo metodico si propone in modo quasi esclusivo come una critica della scienza, il culturalismo metodico presenta invece, in senso lato, una critica della conoscenza in quanto espressione dei diversi modi di vita dell’uomo203. In tale prospettiva, il costruzionismo di prima maniera si dimostra non solo condizionato dalla tendenza «certistica» tipica dell’epistemologia dingleriana204 – tendenza che, d’altra parte, si rivela esplicitamente nel tentativo lorenziano di costituzione di un ortolinguaggio205 –, ma è altresì affetto da un criterio di fondazione circolare, dal momento che le regole operative, siano esse protologiche o dialogiche, non si richiamano, in ultima istanza, alla concreta prassi argomentativa caratterizzata da fini tecnici e strumentali, bensì – come accade nella logica dialogica – a schemi di ragionamento e di giustificazione sostanzialmente formali, cioè a dire a un’impostazione essenzialmente teoretica che per molti tratti si avvicina a quella dell’empirismo logico e del razionalismo critico206. Questa dura reprimenda di Janich nei confronti di tutta la tradizione di Erlangen approda, in conclusione, alla proposta di una nuova filosofia della natura che – sulle orme dell’«empirismo operativo» di Goethe e dell’antropologia filosofica di Kamlah – non si disperda negli infiniti meandri delle scienze naturali, ma sappia anzi porsi in modo riflessivo sia all’interno dell’attuale dibattito ecologico, sia a favore di un’etica eudemonistica e non tecnocratica, in grado di considerare razionalmente anche 200 Cfr. D. Hartmann, P. Janich, Methodischer Kulturalismus, in Id., hrsg. von, Methodischer Kulturalismus. Zwischen Naturalismus und Postmoderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1996, pp. 9-69, in particolare p. 36. 201 Cfr. ivi, p. 17; P. Janich, Die methodische Ordnung von Konstruktionen. Der Radikale Konstruktivismus aus der Sicht des Erlanger Konstruktivismus, in S.J. Schmidt, hrsg. von, Kognition und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1992, pp. 24-41. 202 Cfr. D. Hartmann, P. Janich, Methodischer Kulturalismus, cit., pp. 58 sgg. Si veda anche: P. Janich, Konstruktivismus und Naturerkenntnis. Auf dem Weg zum Kulturalismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1996; E. Jelden, hrsg. von, Prototheorien – Praxis und Erkenntnis?, Universitätsverlag, Leipzig, 1995. 203 Cfr. D. Hartmann, P. Janich, Methodischer Kulturalismus, cit., pp. 52, 58. 204 Cfr. ivi, p. 59. 205 Cfr. ivi, p. 60. 206 Cfr. ivi, pp. 64-66.
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ciò che nella nostra vita è indisponibile alla semplice manipolazione scientifica207. Ma tutto questo significa allora che solo una teoria strumentale della conoscenza può riconoscere ed evitare le degenerazioni strumentalistiche dell’agire: senza una critica della cultura è, in ultima istanza, inevitabile che anche le obiettivazioni costruzionistiche, al pari degli altri modelli di obiettivazione, si trasformino in ideologie. 4.4. Le critiche al costruzionismo L’atteggiamento polemico che costantemente il costruzionismo metodico mantiene nei confronti dei due capisaldi della modernità e dei loro epigoni contemporanei, ossia l’empirismo e il razionalismo, ha suscitato una serie di obiezioni anche da parte di quelle correnti, come la fenomenologia e la pragmatica trascendentale, che risultano più vicine ai suoi presupposti sistematici. Tali obiezioni sono sia di carattere generale, cioè rivolte agli stessi fondamenti e agli scopi dell’impostazione operativa, sia di carattere particolare, nella misura in cui tendono a isolare alcuni aspetti ritenuti insoddisfacenti, ma non mettono in discussione l’impianto filosofico complessivo (come la fondazione pragmatica, il principio dell’ordine metodico, l’epistemologia strumentalistica, la struttura dialogica, il rapporto tra scienza e tecnica). In questa sede, ci occuperemo solo del primo genere di obiezioni208. 207
Cfr. ivi, pp. 66-68. Per quanto riguarda le obiezioni circostanziate, possiamo qui in breve ricordare le seguenti: a) Nel costruzionismo metodico si rivela un’eccessiva dipendenza dell’agire da fattori tecnici, cioè da scopi e bisogni che non consentono di discutere la possibilità di un agire libero all’interno della ragion pratica (cfr. M. Riedel, Zweck- und bedürfnisgebundenes Handeln. Zur Tragweite der teleologischen Begründungsansatzes in der Handlungstheorie, in Id., Für eine zweite Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1988, pp. 139-151). b) La teoria costruzionistica della predicazione in base allo schema come modello predicativo linguistico non è completamente giustificabile in senso pragmatico-operativo. In altri termini, lo schema linguistico che sta a fondamento dell’applicazione predicativa non è semplicemente conseguibile attraverso esempi e controesempi, ma dev’essere presupposto come una forma pre-operativa. Infatti lo schema si mostra – ovvero si rende noto – attraverso le figure, ma non riceve da queste il suo senso (cfr. L. Eley, Philosophie der Logik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1985, pp. 120 sgg.). Lo stesso vale per l’astrazione, in cui l’invarianza si pone come schema a priori rispetto alle azioni (cfr. G. Siegwart, Zur Inkonsistenz der konstruktivistischen Abstraktionslehre, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 47, 1993, pp. 246-260; Id., Die fundamentale Methode der Abstraktion. Replik auf Dirk Hartmann und Christian Thiel, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 47, 1993, pp. 606-614; W. Künne, Abstrakte Gegenstände via Abstraktion? Fragen zu einem Grundgedanken der Erlanger Schule, in K. Prätor, hrsg. von, Aspekte der Abstraktionstheorie, cit., pp. 19-24). c) Il principio della normazione linguistica che determina la costruzione di un linguaggio scientifico è sostanzialmente condizionato da una tendenza scientistica e fondamentalistica. Quest’ultima infatti si esprime nell’esigenza lorenziana di offrire determinazioni terminologiche che conducano a «definizioni 208
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1. Albert: l’impossibilità della fondazione extrateoretica della scienza. Proprio alla fine degli anni Sessanta, Hans Albert, il maggior rappresentante del razionalismo critico di ispirazione popperiana, nel primo capitolo del suo saggio Traktat über kritische Vernunft209 svolgeva una serie di considerazioni in merito alla «ricerca di fondamenti sicuri» della conoscenza, evidenziando come la ricerca di un punto d’appoggio archimedico condurrebbe inevitabilmente a una situazione aporetica che egli, con un ironico richiamo alle peripezie del noto barone, denomina «trilemma di Münchhausen»210. Pur non riferendosi direttamente alla Scuola di Erlangen, il cui assetto teorico si stava ancora definendo, Albert nomina esplicitamente il «decisionismo epistemologico» di Dingler e, in generale, di tutte quelle concezioni, siano esse ontologico-normativistiche o convenzionalistiche, che cercano di assicurare la verità dei loro principi attraverso argomenti deduttivi o inferenze logiche211. In particolare – nota Albert – nell’idea della fondazione si presenterebbe costantemente il ricorso a un principio o postulato di ragion sufficiente di matrice leibniziana, che – come aveva già osservato
essenziali», mettendo in secondo piano il carattere ermeneutico di ogni normazione linguistica che trae spunto dal concreto agire e parlare, ossia da determinati interessi orientati all’intesa reciproca (cfr. G. Gabriel, Definitionen und Interessen. Über die praktischen Grundlagen der Definitionslehre, Frommann-Holzboog, Stuttgart/Bad Cannstatt, 1972, in particolare pp. 117 sgg.). Ora, all’obiezione di Riedel rispondono direttamente sia Kambartel (Unterscheidungen und Thesen zu meinem Vortrag „Universalität als Lebensform“, in W. Oelmüller, hrsg. von, Normenbegründung – Normendurchsetzung. Materialen zur Normendiskussion, Bd. II, Schöningh, Paderborn, 1978, pp. 159-183, in particolare pp. 175 sgg.), sia Lorenzen (Konstruktivismus, in «Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie», 25, 1994, pp. 125-133, in particolare pp. 127 sgg.): il problema etico della libertà dell’agire non è determinabile in base a un procedimento di fondazione normativa o pragmatica, poiché l’etica è irriducibile – in ultima istanza – a qualsiasi principio metodico-normativo. Per quanto poi concerne la critica di Eley alla nozione operativa di «schema», Lorenzen risponderebbe accogliendone la sostanza, ma non la conversione dell’ordine metodico: è vero che lo schema non si ricava dalle figure, ma è falso che esso sia pre-operativo, cioè un fattore meramente teoretico: esso non si può infatti comprendere senza la sua capacità di riprodurre la dinamica dell’azione. La struttura operativa dello schema non dev’essere quindi confusa con la sua applicazione circostanziata. Infine, le obiezioni di Gabriel sono le stesse che, di fatto, vengono mosse dagli allievi di Lorenzen al maestro (in particolare da Mittelstrass e Janich) e che – come abbiamo visto – conducono a una revisione dei presupposti iniziali della Scuola di Erlangen (cfr., a tal riguardo, M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., pp. 255 sgg.). 209 Cfr. H. Albert, Traktat über kritische Vernunft, Mohr, Tübingen, 1968; 5a ed. migliorata e ampliata, Mohr, Tübingen, 1991, trad. it., condotta sulla 2a ed. invariata del 1969, di E. Picardi, Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna, 1973, in particolare Cap. 1: Il problema della fondazione, pp. 17 sgg. 210 Cfr. ivi, pp. 20 sgg. 211 Cfr. ivi, pp. 18, 19, 45-48.
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Schopenhauer212 – non riguarda la ragione reale ovvero la «causa» delle cose, bensì la ragione conoscitiva, strettamente congiunta al monismo teorico, vale a dire alla trasmissione del valore di verità positivo dall’insieme delle premesse alla conclusione213. Infatti, mediante un argomento deduttivo valido non si ottiene mai un «contenuto», ma solo una formazione analitica che trasferisce agli enunciati quanto è già stato deciso riguardo ai fondamenti214. Il problema della «decisione» non potrà così essere posto a partire da un’argomentazione logica, ma dovrà anzi ricorrere a elementi extralogici e, in generale, sintetici che, per la loro stessa natura, non sono argomentativamente controllabili, nella misura in cui non permettono di «staccare» la conclusione dalle premesse. Tuttavia, non volendo rinunciare alla forza dell’argomentazione, il fondazionalista dovrà rifugiarsi in un’inaccettabile «logica dell’illusione», le cui fallacie sono analiticamente rilevabili in tre forme: a) il regresso all’infinito, determinato dal fatto che ogni premessa può analiticamente giustificarsi solo in base a un’altra; esso sarebbe superabile solo attraverso il passaggio dalla ragione conoscitiva alla causa reale, cioè nel salto dal piano logico a quello ontologico, il che implica tuttavia una rinuncia a qualsiasi argomentazione; b) il circolo logico o petizione di principio, la cui evidente scorrettezza determina lo scacco di ogni pretesa fondativa; c) l’interruzione del procedimento, vale a dire la sospensione arbitraria del principio di ragion sufficiente per ricorrere a un «punto zero» che si ritiene indubitabile per autoevidenza o per intuizione, secondo il modello riflessivo della causa sui che si ritrova, ad esempio, nella dottrina della «conoscenza immediata» della scuola di Fries-Nelson215. Ora, secondo Albert l’evidente inaccettabilità delle prime due fallacie spinge il fondazionalista a propendere per la terza soluzione, la quale però si rivela propriamente come un dogma che contrasta con l’assunto stesso della ragione critica, ossia con la falsificabilità potenziale di qualsiasi affermazione e, quindi, con l’impossibilità di ogni pretesa alla «fondazione ultima»216. La gnoseologia classica, in cui Albert include anche ogni concezione operazionale, è dunque caratterizzata da un modello di conoscenza come rivelazione (Offenbarung), per la quale «la verità è manifesta e basta aprire gli occhi per vederla»217. Del resto, la situazione non cambia di molto se si 212
Cfr. A. Schopenhauer, Ueber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde. Eine philosophische Abhandlung (1813), trad. it. di A. Vigorelli, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, Guerini e Associati, Milano, 1990, pp. 30 sgg. 213 Cfr. H. Albert, Per un razionalismo critico, cit., p. 18. 214 Cfr. ivi, p. 22. 215 Cfr. ivi, p. 23 sg. 216 Cfr. ivi, p. 24. Cfr. anche H. Albert, Transzendentale Träumereien. Karl-Otto Apels Sprachspiele und sein hermeneutischer Gott, Hoffmann und Campe, Hamburg, 1975, p. 122. 217 Cfr. H. Albert, Per un razionalismo critico, cit., p. 26.
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adottano altre procedure inferenziali, come l’induzione oppure la deduzione trascendentale: anche in questi casi la verità è sottratta alla semantica dell’esperienza e al suo carattere congetturale per consegnarsi al monopolio dell’interpretazione, nella misura in cui ogni asserzione è vincolata all’autorità e all’infallibilità dell’interprete218. Le risposte dei costruzionisti alle obiezioni di Albert non si fanno tardare e – come già in parte evidenziato – si muovono lungo due direttrici: da un lato viene sostenuto un indebolimento del principio di fondazione, per il quale non si parla più di «fondazione ultima» o assoluta in senso «certistico», ma solo di giustificazione in base a norme e scopi che, sotto forma di proposte e progetti, sono sottoponibili al controllo intersoggettivo attraverso il dialogo e le azioni219; dall’altro si sottolinea la struttura teoreticodeduttiva del trilemma di Münchhausen così come viene formulato da Albert, secondo il quale «fondazione» equivale a una prova logica in base a ipotesi e dimostrazioni220. Così intesa, la fondazione è evidentemente impossibile, mentre risulta del tutto legittima dal punto di vista non-deduttivistico. Il trilemma albertiano si presenta infatti conforme alla logica dei connettivi vero-funzionali, poiché nelle tre ipotesi che, rispettivamente, mettono capo al regresso all’infinito, alla circolarità e all’interruzione del procedimento, il termine «fondare» viene concepito come un predicatore per enunciati o asserzioni e, in quanto tale, deve essere vero o falso221. Al contrario, nella fondazione pragmatico-operativa esso si presenta come un predicato di azione (Handlungsprädikat) grazie al quale vengono contrassegnate determinate sequenze dell’agire discorsivo. Di conseguenza, una fondazione non è in sé vera o falsa, ultima o parziale, ma dipende dal procedimento con cui l’azione corrispondente raggiunge un determinato scopo222; in quanto tale, essa indica una tendenza, non uno «stato». In ultima istanza, Albert intende la fondazione nei primi due casi secondo una direzione sostanzialmente riduttiva (come circolo o regresso) anziché pro-duttiva, mentre per il terzo caso o «lemma di interruzione» non si può indicare alcun significato operativo, dal momento che esso rappresenta la negazione stessa di ogni procedimento223. Per ricomprenderlo, occorre elevarsi a quella struttura metodico-
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Cfr. ivi, p. 28. Cfr. F. Kambartel, Begründung, in EPW, I, p. 273. 220 Cfr. J. Mittelstrass, Münchhausen-Trilemma, in EPW, II, p. 946. 221 Il trilemma assume infatti la seguente forma logica vero-funzionale: «Se A, allora (B ∨ C ∨ D); ma (¬B ∧ ¬C ∧ ¬D), dunque ¬A». Cfr. Ch. Thiel, Trilemma, in EPW, IV, p. 340; J. Mittelstrass, Münchhausen-Trilemma, cit., p. 945. 222 Cfr. C.F. Gethmann, Letztbegründung, in EPW, II, p. 596. 223 Cfr. C.F. Gethmann, Letztbegründung, cit. p. 596, C.F. Gethmann, R. Hegselmann, Das Problem der Begründung zwischen Dezisionismus und Fundamentalismus, cit., pp. 360 sgg. 219
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riflessiva dell’intuizione che si sottrae a qualsiasi logica meramente inferenziale224. 2. Apel e Hogrebe: le critiche al costruzionismo relativistico del «mondo della vita» in funzione di una fondazione «trascendentale» del rapporto tra semantica e pragmatica. Di segno apparentemente opposto al razionalismo critico albertiano sono invece le obiezioni mosse al costruzionismo metodico da parte della pragmatica trascendentale di Karl-Otto Apel: se il primo rimprovera agli allievi di Lorenzen un eccesso di fondazionalismo, il secondo ne rileva invece una carenza, nella misura in cui l’insistenza sul fatto che la scienza è «relativa» a una determinata condizione esistenziale e ai suoi bisogni conduce a una distruzione delle pretese di validità non solo degli asserti scientifici, ma anche di ogni discorso razionale225. In questa prospettiva – attraverso un richiamo all’impostazione pragmatistica di Peirce e all’ermeneutica heideggeriana –, Apel sottopone la filosofia trascendentale kantiana a una trasformazione nella quale il tema delle «condizioni di possibilità» non riguarda più la conoscenza in generale e le sue istanze soggettive, bensì le pretese di validità intersoggettiva, così come vengono presupposte e avanzate in ogni autentica argomentazione linguistica. Al posto del soggetto tra-
224 Nell’Appendice alla 5a edizione del Traktat über kritische Vernunft (non presente nella traduzione italiana), Albert replica ai «critici del criticismo» – in particolare a Janich, Kambartel e Mittelstrass – che la rinuncia alla garanzia di verità per gli enunciati, sostenuta dalla posizione costruzionistica, comporta anche l’abbandono della pretesa di confutare il trilemma, poiché una confutazione ha senso solo all’interno di una medesima struttura logica. Inoltre, i rappresentanti del costruzionismo più recente, proprio allontanandosi dal volontarismo e dal decisionismo di Dingler, si sarebbero sostanzialmente convertiti al fallibilismo, che essi avrebbero cercato di rivestire con delle non meglio precisate «fondazioni operative». In altri termini – nota Albert – il costruzionismo, ponendo l’accento sugli interessi pratici che rendono possibile ogni azione fondativa, avrebbe semplicemente messo fuori gioco ogni autentico «problema della conoscenza», per concentrarsi invece su quel «problema dell’inizio» (Anfangsproblem) che costituisce un vero e proprio relitto del pensiero fondazionale classico (cfr. ivi, pp. 230-235, 270-273). «Io non vedo dunque – conclude Albert – in qual misura il ricorso ad azioni normate [...] possa rinunciare a coinvolgere caratteri teoretici» (ivi, p. 272), cioè elementi cognitivi comunque essi possano presentarsi. La risposta a questa contro-obiezione albertiana si trova, a nostro avviso, in un recupero degli originari motivi costruzionistici lorenziani e, in un certo senso, dingleriani: ogni decisione, in quanto realizzazione, contiene in sé un’evidenza fondazionale irriducibile, proprio perché non può mai essere, oggettivamente, una fondazione ultima: ciò si connette ai motivi fenomenologico-esistenziali della «scelta» e della «costituzione soggettiva» del vero. Infatti, la ragione si apre all’altro nella misura in cui, scegliendo, mostra il suo fondamento pre-razionale, cioè ontologico-materiale. 225 Cfr. C.F. Gethmann, Letztbegründung vs. lebensweltliche Fundierung des Wissens und Handelns, in Forum Philosophie Bad Homburg, hrsg. von, Philosophie und Begründung, cit., pp. 290, 300; si veda anche, a tal riguardo, M. Jäger, Die Philosophie des Konstruktivismus, cit., p. 270.
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scendentale kantiano subentra dunque la comunità trascendentale della comunicazione alla quale appartengono tutti gli esseri razionali226. Proprio in base all’«apriori della comunità della comunicazione» che, in quanto aspirazione ideale di ogni soggetto parlante, costituisce la norma etica universale implicita in ogni discorso razionale, Apel può così avanzare senza riserve quella pretesa alla «fondazione ultima» che, a più riprese, ha rappresentato un profondo motivo di discordia tra gli esponenti del costruzionismo più recente e i suoi fondatori, in particolare Dingler e Lorenzen. La ragione è infatti, per Apel, «fondabile» senza ricorrere a un circolo logico o a un atto di fede che tragga spunto da un atteggiamento decisionistico pre-razionale, ma in base al fatto che, vivendo da sempre immersi in un gioco linguistico trascendentale, noi ci muoviamo sin dall’inizio e per principio nell’ambito del logos e delle sue regole; dunque chiunque argomenti, «ha necessariamente già accettato il punto di vista della ragione»227. Insistendo sulla tesi di una «struttura doppia del discorso», Apel giunge perciò a distinguere tra una parte illocutiva o performativa dell’azione argomentativa, la quale funge da «fondamento», e un contenuto o parte proposizionale, che invece costituisce l’oggetto della prima. Chi negasse la possibilità di regole o principi fondanti rispetto alla situazione argomentativa cadrebbe di conseguenza in un’autocontraddizione performativa in quanto nel contenuto proposizionale negherebbe ciò che l’azione argomentativa deve necessariamente ammettere o presupporre228. Ora, nel suo complesso percorso di risposta alle obiezioni mosse da parte della «pragmatica trascendentale», Gethmann contrassegna questo sdoppiamento strutturale apeliano come «argomento ritorsivo»229 (Retorsionsargument), poiché «ciò che viene detto mediante il contenuto proposizionale di un’azione di contestazione entra in disaccordo con le presupposizioni o le premesse di questa contestazione»230. Si tratta di un argomento del tutto accettabile, che ha la forza di metterci al riparo da qualsiasi ricaduta scettica, sia essa empiristica o formalistica. Tuttavia – nota Gethmann – esso non 226
Cfr. C.F. Gethmann, Transzendentalpragmatik, in EPW, IV, p. 336. Cfr. K.-O. Apel, Das Problem der Begründung einer Verantwortungsethik im Zeitalter der Wissenschaft, in E. Braun, hrsg. von, Wissenschaft und Ethik, Lang, Frankfurt a.M., 1986, pp. 11-52, trad. it. Il problema della fondazione di un’etica della responsabilità nell’epoca della scienza, in E. Berti, a cura di, Tradizione e attualità della filosofia pratica, cit., pp. 15-45, in particolare p. 23. 228 Cfr. K.-O. Apel, Das Problem der philosophischen Letztbegründung im Lichte einer transzendentalen Sprachpragmatik. Versuch einer Metakritik des „Kritischen Rationalismus“, in B. Kanitscheider, hrsg. von, Sprache und Erkenntnis. Festschrift für Gerhard Frey zum 60. Geburtstag, AMOE, Innsbruck, 1976, pp. 55-82, in particolare p. 71. 229 Cfr. C.F. Gethmann, Retorsion, in EPW, III, pp. 597 sgg. 230 C.F. Gethmann, Letztbegründung vs. lebensweltliche Fundierung des Wissens und Handelns, cit., p. 288. 227
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è esente da difficoltà, soprattutto se si considera che, in tal modo, risulterebbero «ultimativamente fondate» un numero imprecisato di asserzioni. Apel cerca di rimediare a ciò delimitando, ovvero «definendo» la nozione di argomentazione mediante la richiesta di accettazione, da parte del parlante, del principio dell’etica della comunicazione; ma si tratta evidentemente di un accorgimento che sposta il problema dall’asserzione alla definizione, dal momento che per principio quest’ultima è sorretta da convenzioni in base alle quali, nella fattispecie, colui che argomenta potrebbe anche assumere altri principi «fondativi» dell’etica231. Da qui la proposta gethmanniana di ricorrere a una sorta d’indebolimento o «relativizzazione» della fondazione, sebbene non in un senso «distruttivo riguardo alla validità», bensì aperto o «costruttivo». Infatti, mentre il primo senso dice, ad esempio: «tu sostieni questo perché sei un borghese o perché il tuo cervello è fatto in un certo modo ecc.», il secondo porta invece a evidenziare che la validità sorge sulla base dell’interazione e della comunicazione entro la vita, ovvero – in una parola – partendo dalle stesse modalità di esistenza dell’uomo232. L’accusa di «relativismo in base al mondo della vita» (Lebenswelt-Relativismus) è perciò inconsistente o, meglio, è una contradictio in adiecto. Essa presuppone, come alternativa, la validità in tutti i mondi vitali, vale a dire la soppressione dell’impostazione operativa a favore di una concezione statico-formale, mentre si dovrebbero far risaltare quelle situazioni di invarianza che caratterizzano ogni specifica situazione vitale e che, come tali, rappresentano l’autentica base comunicativa tra le diverse esperienze culturali233. Il tema apeliano della «trasformazione semiotica del kantismo», congiunto al rimprovero di relativismo nei confronti della Scuola di Erlangen, si collega a un’altra tendenza che, a partire dagli anni Settanta, si è mossa nel senso di una convergenza tra le nuove istanze linguistiche e la filosofia kantiana, vale a dire la semantica trascendentale di Wolfram Hogrebe234. Questi intende distinguersi sia dalla semiotica o pragmatica trascendentale di Apel, che egli ritiene eccessivamente vincolata alle istanze abduttive e regolative di Peirce e, come tale, si dimostra incapace di comprendere il profondo significato «costitutivo» del trascendentalismo kantiano235, sia dalla semantica 231
Cfr. C.F. Gethmann, Letztbegründung, cit., p. 596. C.F. Gethmann, Letztbegründung vs. lebensweltliche Fundierung des Wissens und Handelns, cit., p. 292. 233 C.F. Gethmann, Letztbegründung vs. lebensweltliche Fundierung des Wissens und Handelns, cit., p. 295. Nota infatti Gethmann riguardo al caso del «contare», in un modo che esplicitamente si richiama alle tematiche whorfiane: «Se è vero che gli Hopi contano in modo diverso (vale a dire che, nel nostro senso, non contano affatto), è allora evidente che essi non hanno nemmeno la nostra aritmetica, anche se, in generale, ne posseggono una» (ivi, p. 290). 234 Cfr. W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, cit. 235 Cfr. ivi, pp. 111 sgg. 232
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operativa del costruzionismo metodico, nel cui relativismo riguardo al mondo della vita rinviene una sorta di «capovolgimento» del processo di fondazione a favore di un’assolutizzazione della prassi236. Riferendosi all’esempio lorenziano del «mare» e della «nave» discusso in Methodisches Denken237, Hogrebe osserva che l’attività di predicazione, guidata dal principio della costruzione metodica, non può essere originaria, né semplicemente può essere affidata a segni indicativi o deittici. Essa infatti presuppone la possibilità della distinzione, ossia quella dimensione semantico-costitutiva che, nel contesto operativo, rimane in ombra238. Da ciò derivano alcune importanti conseguenze che compromettono la «ricostruzione operativa» della conoscenza. Anzitutto, poiché per i costruzionisti è impossibile spingersi al di là della predicazione, non resta altro da fare – come d’altra parte ammette Mittelstrass239 – che cercare il fondamento dal lato del parlante stesso, cioè dalla parte di chi opera le distinzioni; si produce così una cartesianizzazione del rapporto tra il linguaggio (in quanto res cogitans) e il mondo (in quanto res extensa), «per cui non risulta mai possibile chiarire pienamente che cosa sia in realtà ciò che i gesti e le azioni ostensive indicano»240. In secondo luogo, il proposito di costruire metodicamente il pensiero si riduce a un «modo metodicamente disciplinato di apprendimento e d’impiego dei predicatori», nel quale il problema della sua comprensione e del suo significato viene rimandato alla preoccupazione aggiuntiva, ma mai tematizzata, di «mirare alla cosa»241. In terzo luogo, dal momento che «la costruzione metodica si colloca nel punto in cui la filosofia come filosofia trascendentale ha già operato e portato a termine il suo compito»242, essa non è nemmeno in grado di spiegare la differenza tra cose e azioni, la quale «viene introdotta in termini esclusivamente sintattici, nella netta contrapposizione tra nome e verbo così come essi compaiono nelle predicazioni, ma non in termini semantici»243. Per questa ragione, i costruzionisti sono tenuti a «presupporre in linea di principio come un fatto la comprensibilità delle azioni», non essendo in grado di tematizzarne le condizioni di senso nel quadro sintattico del loro programma244. In ultima istanza, dunque, anche in Lorenzen, come in Apel, mancano quelle regole costitutive che permetto236 Cfr. W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, cit. p. 28; G. Deriu, Appendice a W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, cit., p. 145. 237 Cfr. MD, pp. 27 sgg.; supra, Cap. 2, p. 98. 238 Cfr. W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, cit. pp. 23-25. 239 Cfr. J. Mittelstrass, Die Prädikation und die Wiederkehr des Gleichen, in «Ratio», 10, 1968, pp. 53-61, in particolare p. 60. 240 W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, cit. p. 25, nota 80. 241 Cfr. ivi, p. 26. 242 Ivi, p. 28. 243 Ivi, p. 30. 244 Cfr. ivi, p. 31.
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no di stabilire il quadro intensionale in cui è possibile comprendere una predicazione. Infatti, conclude Hogrebe, senza le regole semantico-trascendentali – e non già empirico-pragmatiche – che mostrino le condizioni di significato della predicazione, «qualora ci trovassimo nella necessità di costruirci una zattera in mezzo al mare, in assenza di queste regole potremmo per esempio voler prendere dell’acqua invece che del legno»245. Ora, le obiezioni di Hogrebe – la cui matrice deve ricercarsi nelle posizioni assunte dal «giovane neokantiano» Rudolf Zocher in merito al «pluralismo semantico» della fondazione246 –, hanno certamente il merito di riportare al centro dell’attenzione il tema del trascendentale come condizione di senso delle azioni, soprattutto per quanto riguarda il problema originario della loro «comprensione», ma non colgono nel segno nella misura in cui rimproverano ai costruzionisti di Erlangen di non offrire alcun valido criterio della comprensione, per limitarsi a una sorta di «regolazione sintattica» dei significati. È infatti evidente – come d’altra parte abbiamo già osservato – che per i costruzionisti non si tratta di far ricorso a una generica assolutizzazione empiristica della prassi, la quale «nella sua sostanziale ripetitività, garantisce la coerenza del nostro sapere»247, ma dell’individuazione di un più riposto criterio ermeneutico dell’agire orientato a scopi, da cui dipende ogni assegnazione semantica. In tale prospettiva, non si presenta nemmeno il pericolo di «scambiare l’acqua col legno», dato che con la prima si potrebbe costruire ben poco. L’obiezione di «assolutismo pratico» si fonda, in ultima istanza, su un’indebita confusione tra il fatto dell’agire, in sé contingente, e le sue funzioni attuali, i cui effetti sono sempre, nella loro concreta realizzazione, irrevocabili. 3. Holenstein e la trascendibilità del linguaggio. Proprio all’interno della comune radice fenomenologica, matura quella che può essere considerata la critica più rigorosa ai presupposti sistematici del costruzionismo di Erlangen. Elmar Holenstein, uno dei più acuti studiosi riguardo alla tematica della sintesi passiva e dell’apriori materiale in Husserl, pubblica infatti all’inizio degli anni Ottanta un saggio intorno all’«aggirabilità» del linguaggio in cui non solo si discutono le tesi del quasi omonimo contributo di Lorenz e Mittelstrass comparso alla fine degli anni Sessanta, ma si attaccano altresì punto per punto le posizioni di fondo che caratterizzano l’intero movimento costruzionistico248. Pur riconoscendo il fatto che Lorenzen e i suoi allievi, 245
Ivi, p. 33. Cfr. R. Zocher, Kants Grundlehre. Ihr Sinn, ihre Problematik, ihre Aktualität, Universitätsbund, Erlangen, 1959, pp. 40 sgg. 247 G. Deriu, Appendice a W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, cit., p. 145 sg. 248 Cfr. E. Holenstein, Von der Hintergehbarkeit der Sprache. Kognitive Unterlagen der Sprache, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1980, in particolare Cap. 1: Von der Hintergehbarkeit der Sprache (und der Erlanger Schule), pp. 10-52. 246
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richiamandosi alla facoltà di parlare, non sostengono un determinismo linguistico alla maniera di Humboldt, Weisgerber e Whorf, Holenstein mette in evidenza una netta contrapposizione tra le teorie logico-costruttive, basate sul consenso linguistico intersoggettivo, e quelle invece fenomenologicoricostruttive, il cui punto di riferimento è costituito dall’esperienza percettivo-materiale come fonte originaria di tutte le differenziazioni oggettuali249. Certo – nota Holenstein – i costruzionisti non negano l’esistenza di differenziazioni pre-linguistiche, ma poi finiscono per trattare la facoltà di parlare come l’unica e autentica facoltà di differenziare. Ora, ciò si può concedere per le differenziazioni successive e più complesse, ma non per quelle più semplici e basilari, che vengono anzi intuitivamente colte in virtù della loro capacità di «offrirsi» in un senso fenomenologico-categoriale250. Ciò dipende dal fatto che, lungi dall’essere determinata dal linguaggio, l’esperienza ha una sua peculiare struttura che può essere esibita; è questa struttura che avanza al linguaggio una serie di «richieste» (Aufforderungen), e non viceversa251. Considerata da un simile punto di vista, la filosofia del linguaggio dei costruzionisti si fonda per Holenstein su un duplice errore gnoseologico, ossia: 1) l’argomentazione utilizza un hysteron-proteron, poiché è evidente che «ogni comprensione intersoggettiva delle differenziazioni linguistiche presuppone anzitutto una percezione intersoggettivamente unitaria di segni linguistici, cioè una differenziazione non-linguistica e percettiva di forme sensibili che fungono come segni»252; 2) si sostiene che al di fuori dell’universo di discorso, cioè del mondo linguisticamente articolato, esiste un mondo in sé, sostanzialmente amorfo, rispetto al quale si deve utilizzare un criterio corrispondentistico di verità, secondo la formula adaequatio rei et intellectus. Tuttavia, tale formula porta a un circolo nella definizione di verità, poiché si cerca di spiegare la verità di una proposizione con la realtà dello stato di cose da essa espresso, vale a dire con la proposizione stessa. Per evitare questo circolo, i costruzionisti ricorrono al consenso intersoggettivo, il che equivale a dire a una derivazione della nozione di realtà dalla verità linguistica: «uno stato di cose è reale se un’asserzione che lo rappresenta è vera». Di fronte a una simile dipendenza, che – conclude Holenstein – rischia di sfociare in una nuova forma di idealismo, è invece necessario affermare in senso fenomenologico la corrispondenza tra realtà percepita e realtà pensata (adaequatio rei perceptae et rei intellectae), ossia «un’adaequatio perceptionis et propositionis, la corrispondenza di un’asserzione con la percezione»253. 249
Cfr. ivi, pp. 10-13. Cfr. ivi, pp. 14-17. 251 Cfr. P. Spinicci, Oltre l’ermeneutica, cit., p. 652. 252 E. Holenstein, Von der Hintergehbarkeit der Sprache, cit., p. 19. 253 Cfr. ivi, p. 20 sg. Tutto ciò riguarda ovviamente non solo l’assegnazione elementare dei termini, ma anche la struttura predicativa più complessa che, secondo Holenstein, è «aggirabi250
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Il rilievi mossi da Holenstein, per quanto non sempre corretti – in particolare riguardo al concetto costruzionistico di verità, che egli intende in senso vero-funzionale e non propriamente dialogico-operativo, così come alla tesi dell’inseità oggettuale che viene ridotta a una sorta di «reificazione» pre-operativa del mondo –, avevano tuttavia il merito di porre la Scuola di Erlangen e tutte le sue più recenti diramazioni di fronte alla necessità di un più serrato confronto con gli impetuosi sviluppi delle scienze cognitive, della linguistica strutturale e delle indagini biologico-antropologiche sulle origini della conoscenza e del linguaggio. Il suo appello a favore di un recupero dell’estetica trascendentale, legato al tema dell’intuizione e della materialità dell’esperienza, non è in effetti rimasto inascoltato e, a partire dagli anni Ottanta, ha prodotto un sempre più intenso scambio teoretico tra la fenomenologia della percezione e alcune correnti della filosofia costruzionistica254. Non si può tuttavia sostenere che questo scambio – se si escludono le tematiche riguardanti il mondo della vita – abbia prodotto una sostanziale convergenza, dato che la fenomenologia non può prescindere dal riferimento alla riduzione trascendentale che imposta la costruzione della forma sull’assunzione di una datità materiale, mentre l’operazionismo di Erlangen rivendica al contrario la costruzione della materia sulla base di presupposti e di scopi che, in quanto condensati nella cultura e nel linguaggio, si presentano come un insieme immateriale di significati. Così, se nella fenomenologia la costruzione assume – in un senso, per così dire, aristotelico – la forma della costituzione soggettiva, in cui l’univocità logica dello ego mette capo all’equivocità ontologica del mondo con le sue «regioni», nell’operazionismo essa si configura invece – in una prospettiva che, in un certo qual modo, si richiama al modello platonico – come un autentico processo di concretizzazione a partire dalle astrazioni storico-semantiche, nelle quali l’equivocità logica delle forme culturali trova realizzazione nell’univocità ontologica di una determinata prassi umana255. La ricerca del modo in cui i due processi possano metter capo a una «dialettica della complementarità», è un compito che attende sia la fenomenologia, sia la teoria costruttiva della scienza.
le» allo stesso modo della prima. Infatti – nota Holenstein richiamandosi a Husserl – l’oggetto si mostra sempre in una «sintesi antepredicativa» come substrato delle determinazioni (cfr. ivi, p. 26). 254 Cfr. K. Held, Husserls neue Einführung in die Philosophie: der Begriff der Lebenswelt, in LW, pp. 79-113, in particolare pp. 108 sgg.; R. Welter, Der Begriff der Lebenswelt, cit., pp. 199 sgg. 255 Sul rapporto di «conversione» tra equivocità ontologica e univocità logica da un lato, e tra univocità ontologica ed equivocità logica dall’altro, cfr. E. Melandri, L’analogia, la proporzione, la simmetria, cit., pp. 66 sgg.
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Indice dei nomi
Abbagnano N., 170, 235 Abel B., 32, 134, 135, 231 Ackermann W., 80, 234, 238 Adams R.M., 36, 37, 231 Adorno Th.W., 133, 134, 231 Agazzi E., 231 Albert H., 134, 200, 202, 217, 218, 219, 220, 231 Alberti A., 33, 232 Anderson A.R., 148, 231 Angelelli I., 20 Anscombe G.E.M., 190, 250 Antiseri D., 170, 235 Apel K.-O., 18, 20, 36, 65, 166, 170, 197, 198, 199, 200, 202, 220, 218, 221, 222, 223, 231, 248 Archita di Taranto, 31 Aristotele, 22, 23, 28, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 60, 66, 78, 92, 114, 142, 143, 144, 163, 173, 180, 181, 189, 194, 204, 231, 232, 233, 234, 237, 238, 240, 242, 247, 248, 249, 250 Arnaud E., 138, 233 Arnold W., 229 Agostino d’Ippona, 204, 240 Auletta G., 57, 237 Bacone F., 53 Ballo E., 81, 237 Baltes M., 25, 29, 234 Banti G., 46, 238 Barone F., 41, 243 Barth E.M., 232 Bartolomei Vasconcelos T., 170, 232 Baumgartner H.M., 29, 242, 247 Bäumker C., 28, 232 Becker O., 12, 21, 49, 56, 57, 58, 60, 61, 62, 63, 64, 68, 142, 144, 232, 235, 236, 237, 246 Behnke H., 77, 249 Belli-Nicoletti E., 80, 247 Bellone E., 232,167
Berg J., 193 Berkeley G., 37 Bernays P., 20, 80, 238 Bernhard P., 232 Bernini S., 58, 62, 232, 234 Bertalanffy L. von, 167, 232 Berti E., 33, 34, 170, 221, 231, 232 Besoli S., 30, 59, 69, 232, 233 Bianca D.O., 44, 51, 243 Bianchi L., 82, 246 Biemel W., 10, 69, 237, 239 Binswanger L., 59, 232 Boehm R., 66 Böhme G., 166, 205, 230, 233, 240, 241 Bolzano B., 95, 96, 158, 159, 193, 233 Boniolo G., 84, 247 Boole G., 77 Borchetta M., 84, 247 Borrelli M., 236, 245 Borzeszkowski H.-H. von, 233 Bosi A.,, 206, 242 Bozzi S., 77, 237 Braun E., 221, 231 Brentano F., 30, 73, 233 Bridgman P.W., 49, 51 Bröcker W., 57, 60, 237, 238 Bröcker-Oltmanns K., 57, 60, 237, 238 Brouwer L.E.J., 12, 58, 60, 62, 63, 84, 85, 228, 232, 233, 234, 244 Bubner R., 15, 229 Buchheim T., 233 Buck G., 180, 181, 182, 183, 184, 185, 189, 192, 195, 233 Bühler K., 112, 127, 136, 137, 138, 233 Bultmann R.K., 9 Buzzoni M., 50, 54, 205, 233, 240 Cagnoni D., 95, 235 Calloni M., 170, 232 Cantini A., 77, 233 Cantor G.F., 84 Cantù P., 233
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LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
Caracciolo Perotti M., 199, 237 Caracciolo A., 199, 237 Carnap R., 109, 186, 188, 189, 233 Carroll J.B., 106, 250 Cartesio R., 78, 235 Casari E., 77, 233 Cassirer E., 138, 233 Cattaruzza Derossi S., 136, 233 Ceccato S., 52, 54, 233, 234 Cellucci C., 77, 96, 233 Charpa U., 53, 234 Chiodi P., 69, 238 Cianfaloni F., 106, 250 Cicero V., 30, 249 Colli G., 45, 143, 180, 231, 242 Conte A.G., 90, 150, 239, 250 Cortella L., 32, 170, 234 Costa F., 182, 239 Couturat L., 36, 234 Cramer K., 15, 229 Cristin R., 69, 238 Crosson F.J., 93, 227 Curry H., 20
Drieschner R., 235 Duhem P., 23, 235 Düsing K., 235
Da Re A., 170, 234 Dahrendorf R., 231, 134 Dal Pra M., 18, 248 Dalen D. van, 58, 234 Dante A., 197, 231 De Carolis M., 60, 238 De Palma V., 60, 232 De Toni G.A., 138, 233 Delius H., 124, 229, 246 Demmerling Ch., 235 Democrito di Abdera, 31 Deriu G., 46, 223, 224, 238 Dewey J., 184 Di Bernardo G., 150, 234 Diano C., 25, 234 Diederich W., 164, 239, 241 Diels H., 23, 248 Dilthey W., 65, 69, 73, 75, 130, 171 Dingler H., 21, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 129, 138, 150, 163, 196, 202, 204, 210, 213, 217, 220, 221, 229, 233, 234, 240, 244, 246, 247, 249, 250 Dorrie H., 25, 29, 234
Gabriel G., 20, 217, 235 Gadamer H.G., 18, 65, 130, 131, 171, 184, 235 Galilei G., 23, 53, 66, 78, 193, 195, 235 Gallino L., 136, 244 Garber D., 40, 235 Garroni E., 46, 238 Gatzemeier M., 20 Gehlen A., 10 Gentili C., 92, 250 Gentzen G., 95, 96, 235 Gerber U., 132, 229 Gerhardt C.I., 243 Gethmann C.F., 9, 12, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 56, 58, 62, 63, 64, 65, 68, 69, 70, 71, 76, 89, 148, 149, 179, 200, 219, 220, 221, 222, 230, 235, 236, 237, 238, 239, 245, 246, 250 Gethmann-Siefert A., 58, 236, 237, 246 Geymonat L., 77, 244 Giani Gallino T., 136, 244 Giannantoni G., 180, 231 Giarratano C., 27 Gigante M., 180, 231
Einstein A., 233 Eley L., 216, 235 Emiliani A., 149, 250 Ende H., 235 Euclide, 78, 162, 163, 205, 240 Eudosso di Cnido, 25 Faggiotto P., 49, 235 Feferman S., 20 Filippini E., 10, 239 Flach W., 31, 235 Fornero G., 170, 235 Fraassen B.C. van, 23, 235 Franci G., 63, 142, 143, 232, 235 Frank M., 65, 235 Frege G., 58, 84, 111, 117, 119, 121 Frey G., 221, 231 Friedmann J., 235 Fries J.F., 218
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INDICE DEI NOMI
Gigon O., 32, 237 Giotti L., 96, 233 Gödel K., 81, 82, 83, 90, 95, 237, 246 Goethe W., 14, 213, 215, 238 Goodman N., 188 Grenet P., 26 Gründer K., 97, 244 Grunwald A., 53, 234 Guidetti L., 194, 237 Haas G., 237 Habermas J., 18, 20, 36, 134, 171, 231 Hamann J.G., 65 Hartmann D., 215, 216, 237, 248 Hartmann N., 28, 237 Hasse H., 12, 227 Hauskeller M., 204 Hegel G.W.F., 171 Hegselmann R., 200, 219, 236 Heiberg I.L., 248 Heidegger M., 9, 11, 21, 56, 57, 60, 61, 62, 65, 68, 69, 70, 71, 73, 76, 130, 198, 199, 236, 237, 238, 241, 246 Heisenberg W., 10 Held K., 65, 66, 226, 238 Hensel H., 213, 238 Herder J.G., 65 Hering E., 138 Hesse R., 238 Heyting A., 63, 85, 236, 238 Hilbert D., 43, 58, 63, 78, 80, 82, 83, 95, 164, 187, 238, 244 Hilpinien A.G., 150, 239 Höffe O., 34, 238 Hogrebe W., 46, 220, 222, 223, 224, 238 Holenstein E., 224, 225, 226, 238 Hövelmann G.H., 166, 238 Humboldt W. von, 65, 198, 225 Husserl E., 10, 12, 21, 50, 53, 55, 56, 57, 58, 59, 62, 63, 65, 66, 67, 69, 70, 71, 73, 97, 130, 182, 183, 211, 212, 213, 224, 226, 232, 236, 238, 239, 249, 250 Ilting K.-H., 20, 170, 231 Impara P., 229 Inhetveen R., 16, 150, 164, 167, 229, 239, 242
Ippocrate di Chio, 78 Isnardi Parente M., 25, 27, 239
Jaeger P., 69, 238 Jäger M., 11, 12, 13, 18, 21, 78, 85, 97, 171, 191, 217, 220, 239 Jamme Ch., 56, 236 Janich P., 13, 18, 19, 20, 21, 22, 50, 53, 54, 55, 64, 164, 165, 166, 167, 196, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 215, 217, 220, 233, 237, 238, 239, 240, 241, 245, 250 Janssen P., 56, 239 Jelden E., 215, 235 Jolley N., 40, 235 Jonas H., 194, 237 Kambartel F., 13, 15, 18, 19, 20, 22, 33, 152, 175, 179, 180, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 195, 204, 205, 212, 217, 219, 220, 229, 230, 235, 239, 240, 241, 243, 245, 248 Kamlah W., 9, 10, 11, 13, 14, 16, 17, 19, 33, 68, 76, 104, 105, 107, 108, 109, 110, 112, 114, 117, 118, 120, 121, 122, 124, 125, 127, 179, 215, 227, 230, 241, 242, 246, 249 Kanitscheider B., 221, 231 Kant I., 13, 19, 21, 22, 33, 36, 32, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 50, 51, 53, 55, 65, 89, 126, 134, 151, 153, 158, 159, 162, 172, 180, 184, 188, 189, 191, 202, 203, 206, 224, 228, 234, 236, 238, 239, 242, 244, 246, 247, 248, 249, 250 Kaulbach F., 44, 46, 203, 242 Kilb J.A., 28, 242 Kino A., 85, 242 Kirchgässner G., 242 Kleene S.C., 43 Klein F., 50 Kneepkens C.H., 233 Kohlenberger H., 120 Kolmogorov A.N., 87, 242 König J., 9, 28, 49, 65, 72, 73, 74, 75, 76, 123, 124, 229, 242, 246, 248
254 Kößler H., 11, 230, 249 Kötter R., 16, 242 Krabbe E.C.W., 232 Kreisel G., 20 Krings H., 29, 242, 247 Kripke S.A., 144, 242 Kronecker L., 84, 242 Kuhlmann W., 200, 242 Kuhn H., 34, 242 Künne W., 216, 242 Kutschera F. von, 149, 242 La Rocca C., 66, 239 Lamarra A., 42, 245 Langford C.H., 146, 243 Lask E., 59, 232 Lee K.J., 25, 243 Leibniz G.W., 21, 22, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 51, 82, 83, 193, 208, 231, 234, 235, 243, 245, 246, 247 Leinsle U.G., 9, 243 Lenk H., 20, 150, 243 Lewin K., 208, 243 Lewis C.I., 144, 146, 243 Lichtenberg G.C., 129 Lipps H., 184, 185, 243 Lipsius F.R., 166, 243 Locke J., 186 Lolli G., 237 Lombardo Radice L., 77, 249 Lorenz K., 13, 17, 18, 19, 20, 21, 33, 55, 68, 91, 94, 95, 97, 98, 99, 101, 133, 144, 145, 168, 179, 197, 198, 199, 224, 228, 233, 234, 239, 243, 244, 245, 246 Lorenzen P., 9, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 33, 63, 64, 68, 72, 76, 77, 78, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 93, 94, 95, 97, 98, 99, 100, 101, 103, 104, 105, 107, 108, 109, 110, 112, 114, 115, 117, 118, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 127, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 161, 162, 163, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171,
LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
172, 173, 174, 175, 176, 177, 179, 181, 189, 191, 193, 204, 207, 217, 220, 221, 223, 224, 227, 229, 230, 233, 242, 243, 246, 248, 249, 250 Lösel F., 22 Lotze R.H., 69 Louzil J., 193 Lübbe H., 184, 244 Lütterfelds W., 244 Mach E., 204, 240 Mainzer K., 43, 55, 163, 164, 244 Maj B., 30, 233 Mancosu P., 63, 244 Mangione C., 77, 79, 83, 237, 244 Marcuse H., 135, 244 Marietti Solmi A., 134, 231 Marini A., 69, 238 Markov A.A., 88, 92, 244 Martens E., 244 Martin N., 20 Martin R., 20 Matteucci G., 73, 75, 244 Mayer G., 244 Mazzarella E., 57, 60, 237, 238 Medina M., 20 Melandri E., 28, 36, 37, 42, 43, 72, 82, 142, 189, 226, 244, 245 Milanesi C., 84, 247 Misch G., 9, 49, 65, 73, 130 Mittelstrass J., 9, 11, 13, 14, 18, 19, 20, 22, 23, 24, 25, 28, 30, 40, 55, 58, 64, 65, 66, 67, 68, 153, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 204, 214, 217, 219, 220, 223, 224, 229, 230, 234, 236, 237, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 250 Mondolfo R., 25, 27, 239 Mori M., 246 Morscher E., 193 Mösgen P., 9, 10, 11, 246 Mugnai M., 36, 37, 38, 39, 40, 243, 246 Murphy J., 20 Myhill J., 85, 242 Nagel E., 82, 83, 90 Natorp P., 24, 28, 246
INDICE DEI NOMI
Nelson L., 188, 218 Neri G.D., 56, 239 Newman J.R., 82, 83, 90 Nohl H., 9, 49, 65, 73, 76 Oelmüller W., 217, 241 Pacifico M., 146, 247 Paganini G., 18, 248 Palladino D e C., 146, 148, 246 Panzer U., 62, 239 Pasini E., 37, 38, 243, 246 Pasquinelli A., 109, 233 Patzig G., 20, 124, 229, 246 Peano G., 81 Peckhaus V., 232, 246 Peirce C.S., 220, 222 Pelz W., 246 Penzo G., 29, 242 Peschl M.F., 250 Peters W.S., 246 Petter G., 208, 243 Pfarr J., 16, 230 Piana G., 62, 239 Picardi E., 217, 231 Pilot H., 134, 231 Platone, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 31, 32, 34, 35, 68, 76, 164, 194, 199, 234, 235, 237, 241, 242, 243, 244, 246, 248 Plebe A., 35, 181, 231 Plotino, 29 Pöggeler O., 56, 60, 61, 68, 236, 246 Poggi S., 60, 61, 68, 236, 246 Poincaré H., 84, 85, 247 Popper K.R., 133, 134, 200, 202, 231 Pozzo R., 170, 231 Prätor K., 21, 216, 242, 247 Prauss G., 202, 203, 247 Preti G., 36, 37, 82, 174, 245, 247 Proclo, 29, 163 Quine W.V.O., 146, 247 Radermacher H., 29, 247 Raggio A., 20 Ramsey F., 79, 80, 247 Rasmussen S.A., 247
255 Reale G., 30, 249 Rehmann Ch., 205 Remmert R., 77, 249 Rentsch Th., 235 Rescher N., 148, 231 Restaino F., 170, 235 Rhees R., 190, 250 Richter V., 88, 91, 92, 94, 98, 102, 110, 247 Riedel M., 7, 15, 20, 142, 171, 202, 216, 229, 230, 242, 245, 246, 247 Ritter J., 32, 97, 244, 247 Rivaud A., 27 Rivetti Barbò F., 95, 249 Robinson H., 20 Rootselaar B. van, 193 Roughley N., 175, 247 Rudolph E., 240 Ruggiu L., 32, 247 Russell B., 36, 58, 77, 80, 84, 91, 247 Samonà L., 182, 239 Sanborn H., 54, 247 Scheler M., 183, 247 Schelling F.W.J., 46, 47, 62 Schiemann G., 204 Schleiermacher F.D.E., 171 Schmidt S.J., 215, 240 Schnädelbach H., 202, 245 Schneider H.J., 18, 20, 90, 97, 99, 202, 247, 248 Schopenhauer A., 218, 248 Schroeder P., 202, 248 Schulz D.J., 25, 248 Schürmann V., 73, 248 Schwemmer O., 13, 15, 18, 19, 20, 21, 32, 33, 133, 147, 155, 167, 171, 173, 174, 175, 179, 191, 227, 230, 248 Schwerte H., 12, 228 Seamon D., 213, 238 Sega R., 30, 233 Severino E., 186, 233 Siegel C.L., 12, 227 Siegwart G., 216, 236, 248 Simplicio, 23, 248 Sinigaglia C., 184, 235 Spengler W., 12, 228
256 Spinicci P., 18, 65, 88, 99, 130, 166, 170, 200, 225, 248 Spinner H.F., 202, 248 Stachowiak H., 237, 241, 244 Stegmüller W., 13, 201, 248, 249 Steiner H.-G., 77, 81, 82, 84, 249 Strasser S., 120, 249 Szilasi W., 182, 183, 185, 249 Talete di Mileto, 194 Tarski A., 95, 249 Testa I., 233 Thiel Ch., 11, 12, 14, 16, 17, 18, 20, 22, 77, 85, 216, 219, 227, 232, 248, 249 Tietz H., 77, 249 Tomasello P., 60, 61, 68, 236, 246 Topitsch E., 134 Tosti L., 197, 231 Trendelenburg A., 30, 249 Trinchero M., 191 Uexküll J. von, 76 Ugazio U.M., 11, 69, 237, 238 Ursua N., 249 Valente M., 80, 247 Valgimigli M., 181, 231 Vattimo G., 11, 130, 200, 231, 235, 238 Venzi L., 150, 249 Vesley R.E., 85, 242 Viano C.A., 33, 249 Vico G.B., 194, 197, 231 Vigorelli A., 218, 248 Volpi F., 33, 170, 249 Wahsner R., 233 Weber M., 174 Weisgerber L., 225 Weiß U., 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 234, 249 Weizsäcker C.F. von, 10, 20 Welter R., 21, 55, 64, 65, 66, 67, 68, 226, 250 Weyl H., 57, 77, 250 Whorf B.L., 105, 106, 118, 225, 250 Wiehl R., 15, 229 Wieland W., 92, 180, 250 Wild Ch., 29, 242, 247
LA COSTRUZIONE DELLA MATERIA
Willer J., 52, 250 Wimmer R., 133, 175, 250 Winter E., 193 Wittgenstein L., 21, 73, 79, 88, 89, 93, 97, 110, 118, 180, 184, 190, 206, 235, 250 Wohlrapp H., 250 Wolters G., 30, 50, 78, 101, 250 Wright G.H. von, 149, 150, 190, 239, 250 Zajonc A., 213, 238 Zeller E., 25, 27, 239, 242 Zeltner H., 229 Zeyer K., 53, 55, 250 Zitterbarth W., 250 Zocher R., 224, 229