Capitolo III Le nuove testualità musicali di Angela Ida De Benedictis con la collaborazione di Nicola Scaldaferri*
§ 1. Testo e scrittura Una delle problematiche più impegnative e urgenti nel campo degli studi filologici dedicati alla musica del Novecento coinvolge a buon diritto il concetto di testo. Il termine, se inteso nell’accezione di «formalizzazione di un pensiero musicale, di cui almeno i parametri ritenuti essenziali si fissino in un mezzo […] tramite un sistema di segni (scrittura musicale o notazione)» o, ancora, di pensiero «fissato nella scrittura»,1 risulta infatti riferibile solo a parte del repertorio prodotto nella seconda metà del secolo laddove, per alcune specifiche produzioni musicali, esso deve essere aperto a nuove riflessioni e a una parziale revisione della sua portata normativa. La necessità di rivedere per certa musica d’avanguardia concetti e procedure proprie allo studio filologico è strettamente legata ad alcune modificazioni che hanno interessato i processi creativi e le possibilità di fissazione dei suoni su supporti anche non cartacei, arrivando a condizionare conseguentemente anche i processi di trasmissione dell’opera nel tempo. La prima di queste modificazioni, a un tempo causa ed effetto di trasformazioni successive, riguarda il concetto (basilare) di notazione musicale. Dopo alcuni secoli di relativa stabi*
1.
I §§ 1 e 4 sono di Angela Ida De Benedictis; il § 2 è di Nicola Scaldaferri; il § 3 è di entrambi gli auto ri. Parti del § 1 derivano da una prima trattazione dell’autrice sull’argomento, Scrittura e supporti nel Novecento: alcune riflessioni e un esempio (‘Ausstrahlung’ di Bruno Maderna); cfr. nota 91. Si veda rispettivamente in questo volume, cap. II, § 1, p. 61, e nel vol. I, cap. I, § 2, p. 5. Cfr. anche, in questo vol., il cap. I, § 1 (p. 6: «[…] quello che della filologia è l’oggetto, ovvero il testo che vive in una tradizione scritta»; p. 6n: «in senso proprio [testo] si riferisce alla formalizzazione scritta di esso»), e, nel vol. I, il cap. I, pp. 5–8 (p. 6: «sede in cui il progetto è stato scritto in una forma tendenzialmente stabile») e le pp. 14–15.
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lità, nel Novecento si registrano importanti cambiamenti (più o meno graduali) della funzione del codice grafico musicale tradizionalmente inteso e, per converso, si assiste a una progressiva evoluzione di nuove proposte notazionali che esplodono intorno agli anni Cinquanta in una molteplicità di soluzioni talmente eterogenee da arrivare non solo a mutare talora in maniera sostanziale il precedente assetto notazionale ma, soprattutto, a mettere profondamente in discussione il significato stesso di scrittura. Le problematiche relative alla scrittura sono, in campo musicale, il sintomo di una trasformazione — solo parzialmente riconducibile a una aperta ‘crisi’ — che affonda le sue radici oltre i confini della notazione, parallela all’insorgere di una nuova sensibilità e a un ripensamento di vari aspetti legati alla produzione musicale (dal processo creativo, allo statuto dell’opera fino all’individualità dell’autore).2 La scrittura musicale viene progressivamente vissuta nel corso della prima metà del secolo come una sorta di contraddizione implicita in nome dell’assenza di un rapporto di immediata corrispondenza tra segno, suono e senso che, al contrario, è possibile riconoscere perlomeno nelle lingue occidentali. Nella pratica musicale si evidenzia una progressiva divergenza tra i nuovi principi che regolano la composizione musicale e i presupposti della notazione che, come conseguenza, conduce a una emancipazione del sistema segnico dalla realizzazione pratica dell’evento sonoro. La partitura apre a una dimensione grafica che va oltre il segno musicale tradizionalmente codificato, gradualmente minato nella sua sfera di convenzionalità. Sarebbe un errore considerare l’esigenza di elaborare nuovi sistemi di notazione quale prerogativa esclusiva del XX secolo. Al contrario, la ricerca incessante di un segno (perfettibile in potenza) che potesse rappresentare in maniera adeguata il suono musicale in rapporto alla prassi dell’epoca si è avviata con l’invenzione, nella cultura occidentale, della scrittura musicale. A partire soprattutto dal Settecento, teorici o musicisti hanno ciclicamente avanzato proposte o suggerimenti per ‘nuovi’ metodi di scrittura mirati di volta in volta ad arricchire, mutare o sostituire del tutto il sistema in uso. 3 Quello che si evidenzia e si afferma nel Novecento è piuttosto una tendenza generalizzata tra i 2.
3.
Tale mutazione nei paradigmi del discorso artistico si era evidenziata fin da inizio secolo, con qualche anticipo rispetto alla musica, anche nel campo delle arti figurative e in letteratura, ed è riconducibile a un più ampio contesto che coinvolge l’estetica, l’antropologia e le discipline linguistiche. Cfr. anche vol. I, pp. 8–11. Per una panoramica sulle proposte notazionali cfr. GARDNER READ, Source Book of Proposed Music Notation Reforms, Greenwood, New York 1987, compendio cronologico di 391 sistemi elaborati dal 1700 fino alla seconda metà del XX secolo; per una ricognizione d’epoca sui secoli XVII e XVIII cfr. invece JOSEPH RAYMOND, Examen critique des notations musicales proposée depuis deux siècles, Libraire Encyclopédique de Roret, Paris 1856. Per una ricognizione storica generale cfr. SYLVIE BOUISSOU, Histoire de la notation: de l’époque baroque à nos jours, Minerve, Paris 2005.
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compositori a constatare — e tentare di risolvere — quel cortocircuito tra intenzione compositiva e notazione che si palesa in tutta la sua portata di ‘necessità’ fin dai primi decenni del secolo. Ripercorrendo le varie tappe di questo itinerario attraverso le singole esperienze dei compositori — dalla notazione ‘organica’ di Busoni (1910) ai cluster di Cowell (ca. 1916), dallo Sprechgesang e le proposte enarmoniche di Schönberg (1912; Eine neue Zwölftonschrift, 1925) alle proposte microtonali di Hába e altri, spingendosi più avanti fino alle partiture grafiche di John Cage, a quelle mobili di Earle Brown, Bruno Maderna ecc. —, si può constatare fino a che punto il ricorso a segni integrativi o diacritici si sia moltiplicato nel tempo, evolvendosi e al contempo assecondando una parallela proliferazione di forme di prescrizione grafica delle composizioni musicali. Col passare degli anni la costellazione delle possibili rappresentazioni di un evento sonoro appare quantomai molteplice e diversificata. A seconda delle sue peculiarità segniche e/o performative, la pagina musicale si apre ad accogliere forme di ‘registrazione/fissazione’ segnica del dato musicale sempre nuove e, soprattutto, mai univoche. Scrittura d’azione, notazione grafica, scrittura intuitiva, notazione pratica, notazione proporzionale, partiture verbali, e ancora, per le musiche elettroniche, notazioni di realizzazione o di progetto:4 anche queste nuove forme di scrittura si collocano certo «diversamente entro un ampio ventaglio di possibilità che vanno da sussidi elementari per la memoria […] o da indicazioni minime necessarie ad orientare l’esercizio dell’improvvisazione, a sistemi che registrano almeno uno dei due parametri assolutamente essenziali alla definizione dell’oggetto musicale (diastemazia e ritmo)».5 Ma, un passo oltre, alcune tra queste notazioni si spingono fino a reinterpretare l’‘essenzialità’ parametrica, abolendola di fatto, e a trasformare in ‘oggetto musicale’ dati in cui qualsivoglia parametro musicale è assente (si pensi per esempio ad alcune partiture 4.
5.
Tra la pubblicistica dedicata alla notazione nel Novecento cfr., tra gli altri, ERHARD KARKOSCHKA, Notation in New Music. A Critical Guide to Interpretation and Realisation, Universal, London 1972 (1a edizione in tedesco: 1966); HOWARD RISATTI, New Music Vocabulary. A guide to Notational Signs for Contemporary Music, University of Illinois Press, Urbana – Chicago – London 1975; GARDNER READ, ‘Musical Notation’. A Manual of Modern Practice, Victor Gollanez, London 1978; KURT STONE, Music Notation in the Twentieth Century. A Practical Guidebook, Norton & Company, New York – London 1980. Per la sola notazione relativa alla musica vocale cfr. HANNA AURBACHER-LISKA, Die Stimme in der neuen Musik. Notation und Ausführung erweiterter Gesangstechnik, Noetzel, Wilhelmshaven 2003. Per una riflessione sui rapporti tra notazione e computer cfr. SUSAN ELLA GEORGE, Visual Perception of Music Notation: On-line and Off-line Recognition, IRM Press, Hershey 2005. In ambito italiano si registrano primi contributi ancora parzialmente consapevoli delle problematiche estetico-musicali proprie all’esteso periodo storico preso in considerazione (cfr. per esempio DANIELE LOMBARDI, Scrittura e suono. La notazione nella musica contemporanea, Edipan, Roma 1980 e ANDREA VALLE, La notazione musicale contemporanea. Aspetti semiotici ed estetici, EDT – De Sono, Torino 2002). Vol. I, p. 8.
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verbali o intuitive di Karlheinz Stockhausen o John Cage).6 Dato comune a tutte queste realtà testuali è la loro impossibilità di definizione e una polivocità intenzionale: classificabili solo in quanto macrocategorie, la loro applicazione è stata ‘personalizzata’ dai singoli compositori che vi hanno fatto ricorso, talora impiegandole in modo misto, ibridato e, non di rado, dando vita a nuove forme di fissazione grafica del dato sonoro non (ancora) chiaramente classificabili. Posto di fronte alla necessità di dare forma al proprio pensiero musicale, ogni compositore ha ossia tentato una propria strada che potesse di volta in volta soddisfare esigenze di chiarezza, economia, completezza, ambiguità ecc., secondo vie più o meno vicine e associabili alla notazione tradizionale che, a tutt’oggi, e grazie al solido sistema didattico sotteso al suo apprendimento, preserva ancora intatto il suo ruolo di ‘sistema madre’.7 Alcuni di questi tentativi, per la loro impenetrabilità e/o apparente arbitrarietà, sembrano contraddire apertamente l’assunto di Carl Dahlhaus per il quale «das oberste Kriterium einer Notation ist Deutlichkeit»;8 altri sono stati ormai da tempo archiviati come «‘once only’ notation».9 In particolare a partire dal secondo dopoguerra, si può affermare che tutto il ventaglio di possibilità grafiche comprese tra gli estremi dell’assoluta economia segnica da una parte, e dello sfrenato edonismo figurativo dall’altra, sia stato battuto e sperimentato in nome di estetiche e necessità sempre diverse. Nelle manifestazioni più estreme di tali sperimentazioni il segno-suono si è cristallizzato talora in segno-vista, in una traccia usata in modo simile se non affine a quanto accade nelle arti figurative e che pertanto sembra rimandare non tanto a contesti psico-motori per la produzione del suono, quanto a una esclusiva percezione visiva. Emblematiche, a questo riguardo, sono alcune pittografie di Sylvano Bussotti, le ‘immagini musicali’ di Daniele Lombardi o altre pagine di vera e propria Augenmusik. La riflessione sulle nuove testualità qui esposta, tuttavia, non intende riferirsi anche a un tipo di produzione, quali appunto le pittografie, in cui l’iconicità della scrittura ha preso il sopravvento sull’aspetto più propriamente realizza6.
7. 8. 9.
Del secondo basti qui citare una composizione estrema (o ‘non-composizione’) quale Empty Words (1977), per voce recitante, costituita da un testo che assembla parti tratte dal diario di Henry David Thoreau; del primo si pensi invece a Richtige Dauern, da Aus den sieben Tagen (1968), la cui ‘partitura’ prescrive letteralmente: «Suona un suono / suonalo così a lungo / finché senti / che devi fermarti. // Suona ancora un suono / suonalo così a lungo / finché senti / che devi fermarti. // E così, ancora. // Fermati / quando senti / che devi fermarti. // Ma, sia che suoni o che ti fermi: / resta in ascolto degli altri // […]» (traduzione dal tedesco di A.I. De Benedictis); cfr. KARLHEINZ STOCKHAUSEN, Aus den sieben Tagen, partitura, Universal, Wien 1968 [nuova edizione: 2002]. Sulla presunta ‘perfezione’ del sistema di notazione occidentale quale modello di riferimento cfr. RICHARD RASTALL, The Notation of Western Music, St. Martin’s Press, New York 1982. CARL DAHLHAUS, Notenschrift heute, «Darmstädter Beiträge zur Neuen Musik», IX 1965, pp. 9–34: 20 («Il criterio supremo di una notazione è la chiarezza»). HUGO COLE, Sounds and Signs. Aspects of Musical Notation, Oxford University Press, London 1974, p. 5.
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tivo-sonoro del segno e/o in cui la scrittura da mezzo è divenuta fine, così separando l’esperienza sonora dalla percezione del suono in sé (esperienza circoscritta soprattutto alla decade compresa tra il 1955 e il 1965). Per questo tipo di produzione, infatti, l’approfondimento analitico e filologico dovrebbe invero essere supportato da strumenti di indagine anche extra-musicale. Al pari, non sono qui prese in esame partiture non propriamente prescrittive — e, tra queste, soprattutto le cosiddette partiture d’ascolto, realizzate in un secondo momento dopo la creazione dell’evento sonoro. 10 Queste ultime, come tutte le forme di testualità descrittiva, riguardano infatti una forma di fissazione dell’opera in quanto evento già compiuto e realizzato a partire da un testo (sia esso cartaceo o, come si dirà, sonoro) che ne ha permesso la realizzazione e, per l’appunto, la ‘descrizione’ a posteriori. Ed è esclusivamente a questa prima forma di testualità — che può anche non coincidere con una stesura scritta — che la seguente trattazione intende fare riferimento. Cionondimeno, si deve considerare che esistono casi di partiture descrittive che, benché redatte successivamente a una fase progettuale, collaborano fattivamente alla creazione di un testo sonoro (si pensi, per esempio, a composizioni quali Kontakte o Carré di Karlheinz Stockhausen) — realtà, questa, propria ad alcuni brani di musica mista dove la dimensione strumentale convive con quella elettronica. La complessità del panorama che si delinea intorno alla metà del Novecento fa sì che in questi anni la fruizione della musica — e la comprensione della sua progettualità — si accompagni a una forte istanza teorica che arriva molte volte a superare lo stesso ascolto nel processo di conoscenza e appropriazione dei fenomeni musicali. Nella dimensione specifica della scrittura e della produzione di testi musicali — cartacei e non — la rottura o l’ampliamento di una dialettica esistente tra creazione e sistema di notazione diviene sempre più visibile anche grazie ai vari dibattiti sorti intorno all’argomento, dai quali emerge come il compositore sia ormai divenuto teorico della prassi notazionale propria e/o altrui, entrando talora in conflitto con le interpretazioni di esegeti, teorici della musica o filosofi coevi. Il dibattito sulle nuove tipologie di notazione e scrittura (che potrebbe altrimenti leggersi anche quale dibattito sull’emergenza di nuove 10. Tali sistemi ‘pseudo-notazionali’ si sviluppano prevalentemente, anche se non esclusivamente, nell’ambito della musica elettroacustica; tra le prime formulazioni teoriche a riguardo si ricorda Pierre Schaeffer che, nel 1952, dopo pochi anni di ricerche nell’ambito della musique concrète, giunse a distinguere tra «partition causale» e «partition des effets» (cfr. PIERRE SCHAEFFER, A la recherche d’une musique concrète, Seuil, Paris 1952, p. 86). La distinzione tra funzione prescrittiva e descrittiva in rapporto a un testo sonoro viene posta con chiarezza in CHARLES SEEGER, Prescriptive and Descriptive Music Writing, «Musical Quarterly», XLIV 1958, pp. 184–95. Cfr. anche, per una discussione critica su ulteriori accezioni assunte nel secondo Novecento dal binomio prescrittivo-descrittivo (anche in riferimento all’esperienza etnomusicologica) NICOLA SCALDAFERRI, Perché scrivere le musiche non scritte? Tracce per un’antropologia della scrittura musicale, in Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino 2005, V, pp. 499–536.
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testualità) si sviluppò pienamente intorno agli anni Sessanta; tra i più importanti contributi si ricordano quelli di Karlheinz Stockhausen (Musik und Graphik, 1960), Cornelius Cardew (Notation – Interpretation, etc., 1961), Domenico Guaccero (L’‘alea’, da suono a segno grafico, 1961);11 e ancora gli atti del congresso «Notation Neuer Musik» (Darmstadt, 1964), con i nodali contributi di Carl Dahlhaus (Notenschrift heute), György Ligeti (Neue Notation – Kommunikationsmittel oder Selbstzweck?), Roman Haubenstock-Ramati (Notation – Material und Form), Mauricio Kagel (Komposition – Notation – Interpretation), Earle Brown (Notation und Ausführung Neuer Musik), oltre a Siegfried Palm, Aloys Kontarsky, Christoph Caskel.12 In area italiana, simili tematiche furono affrontate qualche anno dopo nel corso del Symposium internazionale sulla problematica dell’attuale grafia musicale, svoltosi a Roma nell’ottobre del 1972.13 Le nuove istanze teoriche e le varie riflessioni sulle tematiche relative alla notazione hanno coinvolto tendenze apparentemente antitetiche che, soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, si sono sviluppate pressoché in parallelo, intersecando non di rado i propri percorsi. Da una parte, infatti, la notazione tendeva verso uno straordinario aumento delle prescrizioni esecutive, verso una ipercodifica (o iperdeterminazione) nella quale può ravvisarsi una volontà sempre più rigorosa dell’autore nell’esigere il rispetto delle proprie idee sonore.14 Dall’altra, l’insorgere di tematiche proprie all’ambiguità e all’indeterminazione conduceva al contrario verso uno stravolgimento della scrittura tradizionale, conseguito mediante l’assunzione di espedienti grafici non tradizionali e il ricorso a caratteri simbolici, iconici o verbali. In tali partiture le direttive d’autore mutano di significato fino a comunicare all’esecutore istruzioni collaborative che lo rendono partecipe all’atto creativo dell’evento sonoro. La partitura, secondo una definizione cara a Henri Pousseur, diviene un campo di possibilità che rende idealmente molteplice il momento performativo, considerato ora come presentazione di una delle possibili realtà dell’opera tra le tante sot11. Pubblicati rispettivamente su «Darmstädter Beiträge zur Neuen Musik», III 1960, pp. 5–25 (quindi in KARLHEINZ STOCKHAUSEN, Texte zur elektronischen und instrumentalen Musik, DuMont, Köln 1963, I (1952–1962), pp. 176–88); «Tempo», LVIII 1961, pp. 21–33; «La Rassegna Musicale», XXXI/4 1961, pp. 367–89. 12. In «Darmstädter Beiträge zur Neuen Musik», IX 1965, pp. 9–34 (Dahlhaus), pp. 35–50 (Ligeti), pp. 51–4 (Haubenstock-Ramati), pp. 55–63 (Kagel), pp. 64–86 (Brown). 13. Cfr. Symposium internazionale sulla problematica dell’attuale grafia musicale, atti del convegno (Roma 23–26 ottobre 1972), Istituto Italo Latino Americano, Roma 1974. 14. Si consideri che la stessa cosiddetta musica seriale, lontana dal costituire una categoria linguistica compatta, si è sviluppata secondo ‘grammatiche’ del tutto personali, assecondando una «tendenza verso la moltitudine e la molteplicità» dei linguaggi (cfr. LUCIANO BERIO, La musique sérielle aujourd’hui, «Preuves», XVI 1966, p. 31) che necessita di strumenti di analisi ogni volta peculiari e differenti.
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tese (prevedibili e non) alla pagina. In tutte le sfumature comprese tra i due estremi della massima determinazione e della più ampia libertà grafica, un denominatore comune può essere rintracciato nel rifiuto di una notazione intesa come codice univoco e immutabile, il cui sistema di segni — che storicamente ha influito sulla sintassi musicale almeno quanto la scrittura ha influenzato la parola15 — è ormai palesemente insufficiente a rappresentare le differenti realtà sonore in divenire. > Si accenna qui solo brevemente al peso che, in questo rifiuto, può aver giocato la stessa riproduzione a stampa del segno. I limiti del segno sono, infatti, in stretta relazione causa-effetto con i limiti della sua riproducibilità, tal che la progressiva moltiplicazione delle notazioni e l’individualizzazione delle scritture musicali ha comportato un ritorno alla diffusione e/o alla riproduzione manoscritta delle opere. La stessa tendenza all’indeterminazione potrebbe essere per alcuni aspetti interpretata in controtendenza alla propensione verso la forma ‘chiusa’ incoraggiata dalla stampa.16
Un’ulteriore e determinante causa che ha contribuito a creare questo particolare chiasmo nella pratica compositiva degli anni Cinquanta-Sessanta è da individuare nella progressiva familiarità con la ‘composizione del suono’ condotta negli Studi elettronici, basata sulla diretta sperimentazione e manipolazione dei dati sonori. Quale immediata conseguenza delle problematiche notazionali, vi è un logico ripensamento del concetto stesso di partitura (intesa quale rappresentazione grafica del dato sonoro). Nel campo delle esperienze musicali contemporanee e d’avanguardia, il suo significato esplode o, a seconda i casi, viene a ridimensionarsi in una realtà ora poliedrica: la pagina non porta più un dato univoco nella sua costellazione segnica, ma si apre a letture molteplici e, non di rado, condizionate da variabili non chiaramente deducibili e/o verificabili attraverso la notazione. Talché la riflessione sul concetto di testo (e testualità) deve di conseguenza necessariamente ampliarsi verso nuove prospettive. Nel campo degli studi filologici non è remoto il rischio di vedere equiparata tout court la notazione — fissata attraverso una scrittura — alla musica (la stessa ricerca musicologica, fin dai suoi albori, opera in questo contesto: l’esegesi della musica è principalmente esegesi di testi scritti e si esprime a sua volta attraverso elaborati scritti). Da tale posizione ne consegue nondimeno una
15. Tali considerazioni sono sviluppate in JACK GOODY, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano 1987. Cfr. anche in questo volume il cap. I. 16. Cfr. a questo riguardo WALTER J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 186–7.
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sorta di pregiudizio testuale che ha, come risultato, quello di penalizzare se non ignorare più settori della produzione musicale dell’ultimo secolo.17 Il fatto che tutto ciò che è suono possa essere o divenire segno non implica necessariamente che, per la sua generazione o per la sua fissazione su supporti anche non cartacei (quali la memoria umana o un nastro magnetico, per esempio), il suono necessiti di una traccia visibile. Questa realtà, che accomuna alcune esperienze contemporanee a tradizioni colte extra-occidentali e alla maggioranza delle tradizioni popolari,18 ha necessitato del dovuto tempo prima di essere concordemente accettata dalla comunità scientifica. Per molto tempo, come si è detto, nel campo degli studi di filologia musicale un testo è stato considerato tale solo se dato (o trasmesso) in forma scritta. 19 Condizione, quest’ultima, che — stabilendo implicitamente il primato dell’analisi su quello dell’ascolto — ha portato a riconoscere l’identità dell’opera musicale sulla base di presupposti che sembrano escludere l’unica istanza che in fondo dovrebbe esserle propria: il suono. L’impasse concettuale e terminologica sembra nondimeno risolversi interrogandosi sulla portata semantica del termine ‘scrittura’ (e, conseguentemente, ‘testo’), partendo dal presupposto che, in quanto fenomeno legato al tempo e al luogo in cui diviene o si trasforma, «la 17. L’espressione «pregiudizio testuale», coniata per rimarcare alcuni limiti degli studi di filologia classica, è qui tratta da ERIC A. HAVELOCK (La musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, Laterza, Bari 1995, p. 155); l’autore è a sua volta debitore della proposizione a Ong (Oralità e scrittura cit., p. 230). Per un simile concetto espresso da Roland Barthes («pregiudizio trascrizionista») cfr. Variazioni sulla scrittura, seguite da Il piacere del testo, a c. di Carlo Ossola, Einaudi, Torino 1999, p. 26. Cfr. anche l’espressione paradigm of literacy, introdotta da Leo Treitler per designare il modello del sistema di produzione e circolazione musicale nell’Occidente colto degli ultimi secoli. Nel suo paradigma (proposto soprattutto come categoria storica e pertanto privo di connotazioni ideologiche), Treitler pone al centro la figura del compositore che crea, tramite la scrittura, opere che assumono una forma intenzionalmente definita grazie alla partitura; essa, a sua volta, permetterà all’interprete una loro esecuzione (cfr. LEO TREITLER, Orality and Literacy in the Music of the European Middle Ages, in The Oral and the Literate in Music, ed. by Yosihiko Tokumaru e Osamu Yamaguti, Academia Music LTD, Tôkyô 1986, pp. 38–56). Con litteralismo si intende qui l’insieme di tecniche, processi, comportamenti e concetti che ruotano intorno alla scrittura e alla stampa. Si vedano le considerazioni già sviluppate in merito nel cap. I del presente volume. 18. Bruno Nettl precisa nondimeno che, in realtà, è la musica colta occidentale — con la centralità ricoperta dalla scrittura — a rappresentare un caso particolare che si allontana dal resto delle altre culture musicali del mondo, il cui meccanismo fondamentale di trasmissione resta quello oraleaurale (BRUNO NETTL, The Study of Ethnomusicology, University of Illinoys Press, Urbana – Chicago – London 1983, p. 65). 19. Tra le prime enunciazioni quella di GEORG FEDER, Filologia musicale. Introduzione alla critica del testo, all’ermeneutica e alle tecniche di edizione, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 23 e segg. In alcuni casi si è anche giunti ad asserire che la stessa musicologia, come nascita ed evoluzione, è «fondata su dei documenti, degli archivi e delle partiture scritte, in una parola, sulla scrittura» (SHUHEI HOSOKAWA, Considérations sur la musique mass-médiatisée, «International Review of the Aesthetics and Sociology of Music», XII/1 1981, pp. 21–50: 27 (corsivo originale dell’autore).
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scelta, prima, e poi la responsabilità di una scrittura designano una libertà che ha diversi confini nei diversi momenti della Storia».20 Nel corso della seconda metà del secolo scorso il concetto di scrittura si è ampliato ad accezioni apparentemente in contraddizione con il suo etimo; a seconda delle diverse discipline, il termine è stato adottato con sfumature e rimandi sempre diversi: si è parlato di scrittura scenica, etnografica, architettonica (o dell’ambiente), vocale, onirica, psichica (o ‘non trascrittiva’), e così via.21 La liceità e la diffusione di tali accezioni è ormai accettata nei diversi campi del sapere, sebbene talvolta, in questo esteso quadro semantico, arrivi a risultare compromesso o addirittura assente lo stesso elemento costitutivo della scrittura, il segno (sia esso grafico, figurativo, ecc.).22 In campo musicale, come si è detto, i mutamenti intervenuti nella semiografia del Novecento sembrano letteralmente capovolgere la tesi asseverata da Roland Barthes e Patrick Mauriès per la scrittura letteraria, la cui storia sembrerebbe essere «chiaramente quella di una semplificazione e di un impoverimento (più che di un affinamento)».23 Lo stesso considerevole aumento della produzione di schizzi e abbozzi che si registra nel periodo storico in esame testimonia di una maggiore consapevolezza e al contempo di un’ansia nei confronti della scrittura — sentita talvolta come vero limite tra l’idea e la sua traduzione nella semiografia tradizionale —, che ha spesso comportato un aumento dell’esigenza prescrittiva dell’evento sonoro. L’opera finale del compositore, fissata nella partitura, si presenta man mano come una complessa rete di relazioni sempre meno trasparente, il più delle volte resistente e/o del tutto impermeabile a ogni tentativo di interpretazione che parta dal testo a stampa. L’analisi del testo si trasforma in uno studio dei percorsi e dei pentimenti da cui è emersa la fisionomia finale dell’opera, in un’indagine genetica che ne riveli struttura e relazioni profonde. L’assunto per il quale «i segni e le prove della creazione mentale vanno sempre rinvenuti nei frutti della creazione stessa»24 aumenta ora esponenzialmente la sua validità laddove per «frutti della creazione» si intendano non (solo) le opere all’ultimo 20. ROLAND BARTHES, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982, pp. 13–4. 21. Cfr. tra gli altri BARTHES, Variazioni sulla scrittura, cit., p. 126, e JACQUES DERRIDA, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990 2, pp. 271 e segg. e pp. 258–9. Sempre Derrida afferma che in occidente man mano «il concetto di scrittura comincia […] a debordare l’estensione del linguaggio» (Della grammatologia, Jaka Book, Milano 1969, p. 10). Non è un caso, del resto, che negli stessi anni la semiotica sia stata applicata anche a discipline come la psicologia, la biologia, la fisica. 22. È utile del resto ricordare che «ogni epoca produce un suo tipo di segnicità» (Maria Corti in DOMENICO FIOROMONTE, Scrittura e filologia nell’era digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 245) che comporta una necessaria e parallela evoluzione degli strumenti di indagine e analisi a disposizione degli studiosi. 23. ROLAND BARTHES – PATRICK MAURIÈS, ad vocem «Scrittura», in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1981, XII, p. 612. 24. GREGORY BATESON, La Creatura e la sua Creazione, «aut aut», CCLI 1992, pp. 2–4: 2.
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gradino del loro iter creativo, quanto le tracce che esse lasciano tra i due poli della creazione (pensiero-opera).25 Accanto all’evoluzione/trasformazione del segno grafico e dello stesso concetto di partitura, l’accezione di ‘scrittura’ subisce ulteriori e notevoli oscillazioni anche a seguito dell’ingresso dei mezzi elettroacustici nell’orizzonte creativo dei compositori. Alle opere realizzate e fissate sulla carta (prescritte) se ne affiancano ora anche altre realizzate con nuove tecnologie di fissazione del suono che, talvolta, possono escludere qualsiasi traccia che non sia prettamente acustica. Opere, ossia, per le quali non di rado l’unico testo analizzabile è esclusivamente quello sonoro e per le quali solo a volte si dispone di ‘schizzi’ o di ‘quaderni di appunti’ da intendere come le testimonianze e/o i tentativi fissati direttamente su nastro che precedono l’opera compiuta.26 L’esperienza elettroacustica porta nel campo della notazione una sorta di rivoluzione: ciò che è ora in discussione non è la notazione in quanto codice — più o meno limitato — di fissazione di segni atti a rappresentare arbitrariamente dei suoni ma, ancora più drasticamente, le modalità e la funzione stessa della scrittura. Tra gli inizi degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta si assiste al delinearsi di un nuovo tipo di ‘scrittura del nastro’ che, come si argomenterà più estesamente oltre nel corso dell’analisi di casi paradigmatici (cfr. oltre, § 4), può passare o meno attraverso una fase prescrittiva su carta. In questo periodo, tra musica elettronica da una parte, e musica grafica e d’azione dall’altra, si arriva di fatti alla perfetta convivenza di due diverse forme di ‘testualità’, l’una solo (o quasi esclusivamente) da vedere: immagine del processo sonoro; l’altra solo (o quasi esclusivamente) da ascoltare: essenza del processo sonoro.27 Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta il nastro, già affiancato da tempo da sintetizzatori ed elaboratori, lascia pressoché definitivamente il campo a nuove tecniche di trasformazione e manipolazione dei suoni, tra queste i live electronics. Osservando la sua storia in un’ottica retrospettiva, si può affermare che la fase sperimentale della composizione su nastro magnetico 25. Cfr. infra § 4; si legga anche a questo riguardo GIANMARIO BORIO, Sull’interazione fra lo studio degli schizzi e l’analisi dell’opera, in La nuova ricerca sull’opera di Luigi Nono, a c. di Gianmario Borio, Veniero Rizzardi e Giovanni Morelli, Firenze, Olschki 1999, pp. 1–21. 26. Per una panoramica su differenti proposte analitiche avanzate per la musica elettronica ed elettroacustica cfr., tra i contributi più recenti, STÉPHANE ROY, L’analyse des musiques électroacoustiques: modèles et propositions, L’Harmattan, Paris 2004; Il suono trasparente. Analisi di opere con live electronics, a c. di Andrea Cremaschi e Francesco Giomi, LIM, Lucca 2005; e Analytical Methods of Electroacoustic Music, ed. by Mary H. Simoni, Routledge, New York 2006. Cfr. anche BRIAN FENNELLY, A Descriptive Language for the Analysis of Electronic Music, in Perspectives on Notation and Performance, ed. by Benjamin Boretz and Edward T. Cone, Norton & Company, New York 1976, pp. 117–33. 27. È da sottolineare inoltre che nelle musiche d’azione e grafiche la stessa partitura viene quasi a coincidere con un abbozzo, con una prescrizione dell’idea musicale (cfr. anche STOCKHAUSEN, Musik und Grafik, cit., p. 8).
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possa considerarsi esperita e conclusa già all’alba degli anni Sessanta, tanto da poter interpretare quella specifica fase di creazione/invenzione nello Studio elettroacustico come ‘archeologia’ della contemporaneità.28 L’uso di tale supporto — e non contemplando in questo discorso odierni fenomeni artistici epigonali o marginali — sembra oggi equivalere in alcuni casi ai vari tentativi di riportare alla luce prassi esecutive del passato su strumenti ‘originali’, così in voga per i repertori di altre epoche. 29 L’avvento della computer music (le cui prime sperimentazioni risalgono alla fine degli anni Cinquanta) apre a nuove frontiere nel rapporto medium-creazione con la completa sostituzione della carta a favore di programmi e software specificamente ideati per la scrittura musicale.30 L’ampliamento del dominio della scrittura diviene, tra gli anni Ottanta e Novanta, una delle tendenze proprie delle sperimentazioni su computer (si pensi, per esempio, alla composition assistitée par ordinateur — CAO — sviluppata da musicisti e tecnici dell’IRCAM di Parigi);31 la tecnica di produzione digitale del suono permette inoltre di parlare di sistema binario come notazione e/o musica in sé e di programma informatico come ‘partitura’ per la produzione del suono.32 > Nel caso di alcune composizioni strumentali con live electronics si assiste inoltre a una convivenza, nelle partiture a stampa, di due livelli notazionali, l’uno realizzato nella semiografia tradizionale, l’altro in notazione tecnica. Entrambi sono utilizzati dal tecnico del suono: il primo, sovrascritto con indicazioni relative alle azioni da compiere, è impiegato durante l’esecuzione; il secondo, relativo alle istruzioni per programmare le macchine, è impiegato in una fase precedente l’atto performativo.
28. Cfr. PASCAL DECROUPET, Archeologia di una fenice. La musica elettronica/elettroacustica: una categoria storica?, in Nuova musica alla Radio. Esperienze allo Studio di Fonologia 1954–1959, a c. di Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi, Cidim – RAI, Roma 2000, pp. 2–25. 29. Si veda anche infra al § 3. Sulla precoce obsolescenza dello strumentario tecnico cfr. anche quanto Stockhausen affermava già nel 1960 in Musik und Grafik (cit., p. 24). 30. Per una panoramica generale sulle peculiarità della computer music cfr., tra gli altri, EDUARDO RECK MIRANDA, New Digital Musical Instrument, A-R Editions, Middleton 2006; PETER MANNING, Electronic and Computer Music, Oxford University Press, Oxford 2004; CHARLES DODGE, Computer Music: Synthesis, Composition, and Performance, Schrimer, New York 1997. 31. Cfr. La composition assistée par ordinateur, «Les cahiers de l’IRCAM», III 1993. Nell’area della pratica CAO, che va dal controllo della sintesi del suono alla rappresentazione formale dei suoni al controllo del trattamento dei suoni, una delle maggiori opportunità è data proprio dalla realizzazione di composizioni assistite da programmi informatici per la determinazione e la disposizione degli oggetti sonori nello spazio. 32. Cfr. nell’ordine MIRJANA VESELINOVIĆ-HOFMAN, Notation as Music in Itself in Digital Technology, «New Sound. International Magazine for Music», Belgrade, XI 1998, pp. 33–41: 33, e GERARD ASSAYG, CAO: Vers la partition potentielle, in La composition assistée par ordinateur, cit., pp. 13– 41: 20.
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Sulla scorta di questa breve panoramica si rende del tutto palese l’entità del paradosso implicito in quel summenzionato pregiudizio testuale per il quale molte pagine musicali degli ultimi sessant’anni firmate da compositori quali Berio, Cage, Ferneyhough, Koenig, Ligeti, Nono, Maderna, Stockhausen (solo per citare alcuni nomi già inscritti a pieno titolo nella storia dell’evoluzione del linguaggio musicale) non assurgerebbero a dignità di testo. Aggiornando l’accezione del termine al passo con l’evoluzione del linguaggio musicale, nel campo di alcune produzioni sperimentali del Novecento per testo si deve intendere un enunciato che costituisce una compiuta unità comunicativa e, pertanto, il suo statuto può attribuirsi anche a tutte le produzioni musicali (pure o miste) realizzate in Studi e Laboratori elettronici, con l’ausilio del computer e, più in generale, incise su supporti di fissazione dei suoni non necessariamente dati in forma cartacea e/o scritta. Ed è sempre possibile, utilizzando strumenti e metodi interpretativi consoni a queste differenti tipologie di testo, analizzarne i dati in un contesto tecnico, estetico e, ancora, filologico, poiché ogni forma di creazione musicale non tradizionale — elettronica, mista ecc. — realizza sempre un’opera conchiusa, pensata e concepita nell’interezza dei suoi procedimenti da un compositore, quindi un’entità sempre definibile ed identificabile. Riflessione, questa, che coinvolge anche le cosiddette opere aperte, indeterminate o in movimento, la cui potenziale proteiformità non coinvolge la sfera del testo o del sistema prescelto per la realizzazione (delle varie facce) dell’opera — compiuti, entrambi, pur nella loro ambiguità e a prescindere dall’indifinitezza del risultato —, bensì quella più propriamente estetica dell’evento sonoro.33 Il concetto di scrittura deve applicarsi al nastro così come alle forme di incisione su supporto digitale o, ancora, alle forme di composizione tramite computer poiché, in questi testi, della scrittura può venire a mancare il contesto visibile ma non la sua essenza e la sua tecnologia di riproduzione. Tutte le esperienze sonore legate alla tecnologia delle macchine, esattamente come le composizioni ‘su carta’ legate alla tecnologia della scrittura: a) sono processi artificiali che si stabilizzano come conseguenza di una pratica; b) richiedono l’uso di diversi strumenti; c) sono legate a delle forme di notazione (o, più generalmente, di codificazione); 33. Cfr. a questo riguardo JOHANNE RIVEST, Alea, happening, improvvisazione, opera aperta, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jaques Nattiez, Einaudi, Torino 2001, II («Il Novecento»), pp. 312–21; e ANGELA IDA DE BENEDICTIS, Opera aperta: teoria e prassi, in Storia dei concetti musicali. Espressione, forma, opera, a c. di Gianmario Borio e Carlo Gentili, Carocci, Roma 2007, pp. 317–34.
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d) usano dei supporti a diverso grado di deteriorabilità, dal nastro alla memoria di programmi virtuali; e) sono soggette a lettura e decodifica; f) possono essere sottoposte a successive operazioni di interpretazione e analisi a partire da idonei strumenti concettuali.34 Tutti i testi musicali — siano essi cartacei, magnetici, analogici — sono ‘muti’ se non affidati a un atto performativo che ne consenta la riproduzione dei contenuti (lettura che per tutti i supporti può essere manuale e meccanica a un tempo). Ma mentre nel testo cartaceo è la notazione a essere performativa, e il ruolo dell’interprete gioca un ruolo essenziale sulla qualità di riproduzione dell’opera, nel caso del nastro magnetico — così come nel caso del sistema binario della computer music — è il testo a essere direttamente ‘eseguito’ e l’opera concepita e fissata dal compositore è inseparabile dal suo contenuto interpretativo: composizione, testo e interpretazione coincidono. Variabili logistiche (spazio di esecuzione), tecniche (stato delle macchine) e umane (abilità del tecnico del suono) possono assecondare ma non modificare un contenuto espressivo fissato — si intenda: ‘scritto’ — nei suoi contorni essenziali direttamente sul supporto di incisione. § 2. Collisioni tecnologiche e metodologiche La creazione di dispositivi tecnologici per fissare e riprodurre i suoni ha rappresentato, come è noto, un fatto di importanza epocale che nel volgere di pochi decenni ha finito per imporre dei cambiamenti sostanziali alle modalità di creazione, fruizione, trasmissione degli eventi musicali. Affiancandosi alle tendenze e alle trasformazioni già in corso all’interno del linguaggio creativo musicale del Novecento, essa ha comportato implicazioni che vanno anche oltre la definizione di testo musicale (cfr. § 1). La consapevolezza e la necessità di una riflessione in merito si fa avanti non subito all’apparire di nuove tecnologie, ma solo allorché una certa prassi si è stabilizzata — o in alcuni casi è stata perfino superata. Se infatti è dalla fine dell’Ottocento che alcuni dispositivi cominciano a trovare un’applicazione pratica, è solo col tempo (e di pari passo con i progressi tecnici) che certe problematiche prendono corpo anche sul 34. Bisogna d’altronde considerare che anche la musica registrata o ‘scritta’ direttamente su supporti magnetici o digitali «sviluppa strategie organizzative e retoriche sue proprie» (cap. I, § 4, p. 39), differenti da quelle che regolano la musica notata, e che, se «alla base della scrittura c’è comunque e sempre un processo di elaborazione concettuale che seleziona segni e attribuisce loro significati» (ibidem, p. 35), nel caso della musica elettronica si è in presenza di una scrittura la cui elaborazione concettuale è affidata a ‘segni’ non tangibili.
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piano teorico, diventando particolarmente cruciali a partire dal secondo dopoguerra. L’ombrello di musiche ‘senza scrittura’, vincolate in vario modo ad altri tipi di supporti, finisce per coprire realtà tra loro assai diverse — come le musiche elettroacustiche, le musiche della tradizione etnica, il jazz, la popular music, ecc. —, generando casi di sconfinamenti disciplinari. Teorizzati da Clifford Geertz nella celebre formulazione dei «generi confusi» quasi come una vera e propria categoria intellettuale che ha caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento e che si proietta sul nuovo,35 gli sconfinamenti e le connessioni metodologiche tra ambiti spesso considerati separati ha fortemente interessato svariati contesti musicali in relazione all’avvento di nuove tecnologie proprio per la trasversalità di queste ultime. L’avvento della registrazione e dei supporti che consentono di fissare direttamente tracce sonore ha messo in relazione fenomeni come la musica di tradizione orale registrata e le musiche elettroacustiche, accomunate spesso dallo stesso destino in merito alla salvaguardia del supporto. Ma nel contempo, in merito alla nozione di ‘testo’, ha anche finito per mostrare le enormi differenze che intercorrono tra tali due sfere, contribuendo ancora una volta a distinguere nettamente il testo dal supporto. Uno dei luoghi dove l’incontro tra le tecnologie viene vissuto con maggior intensità è lo Studio elettroacustico del secondo dopoguerra, in cui convivono strettamente grafici, magnetofoni, oscillatori e pentagrammi, utilizzati talvolta dalla stessa persona all’interno della stessa opera, 36 e generando una sorta di cortocircuito intellettuale in grado di stimolare dibattiti assai puntuali. Una spia significativa di questa speciale condizione vissuta dai compositori dell’epoca è data dall’enorme fioritura di testi teorici. Gli scritti di Stockhausen, Boulez, Schaeffer, Pousseur ecc., con il continuo ricorso alla riflessione e alla scrittura letteraria al fine di chiosare, esplicitare e puntualizzare il proprio operato creativo (o anche quello altrui), per profondità e per vastità non conoscono probabilmente equivalenti in compositori di altre epoche. Certamente l’esigenza dei compositori di scrivere anche ‘intorno’ alla musica scaturisce da molteplici fattori, quali il tentativo di teorizzare un nuovo statuto per una nuova arte dei suoni, o la codificazione sistematica delle tecniche compositive in uso (nonché l’evidente bisogno di stabilire una qualche relazione con un pubblico che sembra allontanarsi sempre di più). Tuttavia, è sintomatico osservare come la riflessione si concentri principalmente sul lavoro del compositore in quanto ‘scrittore’ e sulle tecniche connesse, come se l’incontro delle tecno35. Vedi in particolare CLIFFORD GEERTZ, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988. 36. Si pensi per esempio a uno dei ‘documenti’ più significativi a questo proposito, rappresentato da Kontakte di Stockhausen (1959–60), menzionato oltre nel testo.
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logie stimoli una ricerca sulla propria identità artigianale e sul significato del proprio lavoro.37 Se i tre ambiti salienti dell’avanguardia musicale degli anni ’50 sono serialismo, alea ed elettroacustica, è soprattutto quest’ultima ad avere le implicazioni più profonde sia sul piano pratico, sia su quello concettuale. E ciò non tanto a causa dell’espansione dell’orizzonte timbrico prodotto con l’adozione delle nuove sonorità elettroniche (che si pone in linea con l’allargamento dell’orizzonte timbrico e sonoro costantemente in atto nello sviluppo storico della musica occidentale), quanto piuttosto per le operazioni tecnico-concettuali e compositive consentite dai nuovi mezzi di registrazione. La funzione di base di dischi e nastri magnetici subisce una mutazione: nati come mezzi per registrare e utilizzati fino ad allora prevalentemente per incidere/tramandare musica precedentemente composta, essi vengono impiegati adesso come strumenti per creare una nuova musica concepita direttamente all’interno dei laboratori elettroacustici. Per utilizzare le parole di Stockhausen, la musica elettronica non ricorre al nastro e all’altoparlante solo per riprodurre musica già esistente, ma per produrre musica nuova.38 Introdotto come complemento della composizione tradizionale e — soprattutto nel primo periodo di sperimentazione in area tedesca — utilizzato per attuare i più rigorosi principi seriali, il nastro magnetico ha un effetto dirompente: esso rivela la sua faccia totalizzante e arriva a dettare le sue regole e i suoi meccanismi fino all’introduzione di nuove categorie compositive. Da manipolatore di simboli grafici (destinati a restituire una risultante sonora per il tramite di un interprete), il compositore si trova trasformato in un ‘foniurgo’ 39 capace di intervenire direttamente sulla creazione del suono inteso nella sua dimensione fisica. Mediante l’intervento diretto sul supporto, egli può ‘comporre’ la sua opera nel senso più materiale del termine, operando dal livello più intimo della creazione stessa del suono fino alla sua diffusione nello spazio. Naturalmente, questo conduce prepotentemente non solo verso un ripensamento della nozione di testo musicale e delle relative operazioni di esegesi (svincolate ora dal consolidato legame con la scrittura), ma pone al centro della riflessione anche le modalità di fruizione della nuova opera.40 37. In merito si veda anche HUGUES DUFOURT, Musica, potere, scrittura, Ricordi – LIM, Lucca 1997. 38. KARLHEINZ STOCKHAUSEN, Elektronische und instrumentale Musik, «die Reihe», V 1959, pp. 55–67: 55 (anche in Texte zur elektronischen und instrumentalen Musik, I, «Aufsätze 1952–1962 zur Theorie des Komponierens», DuMont, Köln 1963, pp. 141–51: 142). 39. L’espressione è usata da MICHEL CHION in L’art des sons fixés, Editions Metamkine – Nota Bene – Sono Concept, Fontaine 1991. Edizione italiana: L’arte dei suoni fissati o La Musica Concretamente, Edizioni Interculturali, Roma 2004, §§ 4–5. 40. La teorizzazione ha toccato anche le modalità di ascolto: ricordiamo come in ambito francese, presso il Groupe de Recherches Musicales (GRM), sia stata sviluppata la tematica dell’ascolto acusmatico che, riprendendo un vecchio concetto della scuola pitagorica, insisteva soprattutto sul-
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I compositori che lavorano con mezzi elettroacustici diventano pragmaticamente consapevoli della distinzione tra una funzione prescrittiva e una descrittiva, al punto da arrivare talora a scinderle e a redigere due diverse partiture per uno stesso evento sonoro (cfr. supra). La distinzione è tra partitura tecnica e partitura d’ascolto (Hörpartitur): la prima è il progetto dell’evento sonoro da realizzare e fissare su supporto magnetico; la seconda è una trascrizione, mediante un sistema simbolico adeguatamente rappresentativo ed evocativo, dell’evento sonoro registrato sul supporto. Le funzioni prescrittiva e descrittiva che, nella notazione occidentale potevano convivere, vengono ora rigidamente separate. Non si fa più ricorso, in questi casi, a notazioni su pentagramma bensì a grafici: la partitura tecnica è assai vicina a un progetto architettonico, quella d’ascolto vicina a un’opera pittorica. Ci si interroga naturalmente su quale sia la funzione del progetto tecnico: se questo cioè debba consentire anche la ri-realizzazione dell’opera e il suo ri-fissaggio oppure, una volta realizzata e fissata l’opera nella sua dimensione acustica su un supporto (e fatte salve future operazioni di riversamento a tutela del documento sonoro), esso abbia assolto ogni funzione operativa e, in maniera analoga al progetto di un edificio architettonico, possa essere definitivamente accantonato. > Se la ricerca di Pierre Schaeffer ha una valenza soprattutto sul piano speculativo, quella di compositori come György Ligeti e Gottfried Michael Koenig, per citarne due tra i più rappresentativi, affronta in concreto il problema: essi realizzano partiture tecniche che dovrebbero servire anche a nuovi rifacimenti dell’opera. Stockhausen, dal canto suo, nel brano per nastro magnetico Studie II (1954), attua un tentativo di progetto grafico che possa anche avere una valenza descrittiva.
Nella musica mista, che prevede la compresenza di mezzi elettroacustici e interpreti di una liuteria tradizionale, può aver luogo, nello stesso tempo, anche l’utilizzazione di diversi tipi di partitura. In primo luogo vi è il grafico tecnico per la realizzazione e la messa in opera della parte elettroacustica; poi la partitura su pentagramma di tipo prescrittivo rivolta agli strumentisti; infine quella d’ascolto, che ritrae i suoni elettroacustici al fine di poter coordinare l’insieme degli eventi stabiliti dal compositore. In questo caso la partitura d’ascolto (cioè la trascrizione descrittiva degli eventi sonori incisi su nastro) assume anche funzione prescrittiva, soprattutto nel caso in cui è destinata a un interprete addetto a curare la diffusione della parte elettroacustica tramite gli altoparlanti.
l’invisibilità della fonte acustica. Nel corso della seconda metà del Novecento ulteriori elaborazioni e sperimentazioni relative allo spazio sonoro sono state tentate anche da Scherchen, Stockhausen, Nono ecc.
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> Un caso esemplare di convivenza di notazioni e grafici dai diversi significati è offerto da Kontakte di Stockhausen, per pianoforte, percussioni e nastro magnetico (1959–60). Il compositore ha preliminarmente steso un progetto tecnico assai dettagliato per la realizzazione degli eventi sonori su nastro (Realisationpartitur). Scrive poi una partitura per la performance del brano (Aufführungspartitur) che, oltre alla notazione prescrittiva su pentagramma delle parti per gli strumentisti, comprende anche la trascrizione grafica di come il nastro si presume debba suonare. Quest’ultima servirà per coordinare la sua diffusione e, soprattutto, l’interazione dei suoni su nastro con le parti degli strumentisti. In questo, come in altri casi, il coordinamento tra nastro ed esecutori è un dato di primaria importanza: il nastro magnetico scorre ininterrottamente e scandisce in maniera inesorabile gli eventi sonori incisi. Per la riuscita dell’esecuzione è fondamentale che gli esecutori abbiano dei precisi punti di riferimento in base ai quali orientarsi. La partitura per la performance di Kontakte svolge dunque varie funzioni: prescrive agli interpreti la loro parte mediante la scrittura su pentagramma; descrive un evento sonoro (costruito sulla base di un precedente testo prescrittivo) che assume un nuovo e determinante valore prescrittivo nella sua rigidissima scansione temporale; infine, mette ordine nell’insieme, armonizzando il doppio regime di scorrimento temporale del nastro magnetico e degli interpreti e permettendo all’intero sistema di funzionare.
Se, come sostiene Geertz, la scrittura consente di mettere ordine metaforicamente in qualcosa di confuso, in una partitura di musica mista essa svolge in concreto questa funzione ordinatrice e, tendenzialmente, con il massimo dell’efficienza possibile. Una volta instaurata una convenzione grafica per designare degli eventi sonori e verificata la sua funzionalità nel controllarli, essa può essere applicata anche in modi diversi. Si consideri per esempio una composizione di Stockhausen dello stesso periodo, Carré, per quattro cori e quattro orchestre (1958), dove la direzione dei diversi complessi è affidata a quattro direttori. Ognuno dei direttori possiede una partitura suddivisa in due parti: una parte prescrittiva relativa al proprio complesso e una parte descrittiva dove gli altri tre complessi sono riassunti in grafici che, per analogia visiva, intendono richiamare le masse sonore. D’altra parte, le grafie d’azione che di lì a poco avranno grande diffusione, instaurano la convenzione suono/segno su altre basi. All’abbinamento tradizionale suono/altezza, dove la singola nota scritta è quasi un equivalente del fonema, si sostituisce un simbolo grafico dal valore plurimo che designa anche la componente gestuale. La convenzione simbolica viene a basarsi su un nuovo meccanismo che investe non solo i suoni, bensì anche i gesti atti a produrli.
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§ 3. Tecnologie, supporti e testualità Il rapporto musica-tecnologia-macchina, lungi dall’essere un fenomeno tipico dei tempi moderni, è antico quanto la musica stessa, come stanno a dimostrare già solo quei sofisticati dispositivi tecnologici che sono gli strumenti musicali. La relazione tra musica e tecnica è assai articolata e coinvolge più dimensioni; essa riguarda non solo l’aspetto fisico-manuale, ma anche il complesso di operazioni concettuali che porta alla realizzazione materiale della musica e alla sua fissazione su supporti, toccando dunque la sfera delle tecniche compositive.41 Le relazioni tra musica e tecnica arrivano nel corso del XX secolo a essere in parte rivoluzionate dall’entrata in scena dei dispositivi meccanici di produzione e riproduzione del suono, i quali comportano un incremento nello sviluppo di nuove elaborazioni musicali e, non ultimo, di nuove rappresentazioni del pensiero musicale. Grazie infatti a questi strumenti gli eventi musicali, memorizzabili e tramandabili in precedenza solo indirettamente tramite simboli grafici su supporti quali la carta o la memoria, hanno cominciato ad essere registrati e trasmessi direttamente nella loro forma sonora. Alla fine dell’Ottocento, in particolare, prendono consistenza due fenomeni che nel volgere di poco tempo hanno influenzato enormemente le modalità di fruizione, diffusione e produzione degli eventi musicali. Il primo riguarda la riproducibilità automatizzata di un brano, raggiunta grazie ad appositi dispositivi che consentono di fissare le sequenze gestuali di una performance e di poterle successivamente ripetere, giungendo così anche alla riproduzione del brano musicale stesso. Il secondo riguarda la possibilità di fissare direttamente il suono su un supporto grazie al procedimento fisico della registrazione meccanica/analogica.42 Tali fenomeni, e tra questi soprattutto la registrazione, per via delle dirompenti conseguenze che avrà nel volgere di pochi decenni, hanno contribuito all’insorgere di questioni cruciali non solo sul piano tecnico ma anche su quello concettuale. Se per lungo tempo nella tradizione colta occidentale la scrittura aveva costituito l’unico modo per fissare i dati sonori mediante 41. Per maggiori approfondimenti cfr. ANGELA IDA DE BENEDICTIS, Macchine e musica: Incontri, tangenze, promesse, in Machinae: Tecniche Arti Saperi nel Novecento, a c. di Giuseppe Barletta, Graphis, Bari 2008 (in corso di stampa). 42. Tra i volumi dedicati alla storia dei vari strumenti di riproduzione sonora o ad aspetti estetici, tecnici e pratici della registrazione cfr. ROLAND GELATT, The Fabulous Phonograph 1877–1977, second revised ed., Cassell, London 1977; HERBERT JÜTTEMANN, Phonographen und Grammophone, Klinkhardt und Biermann, Braunschweig 1979 (nuova ed. 2000); MICHAEL CHANAN, Repeated Takes. A short History of Recording and its Effects on Music, Verso, London – New York 1995; TIMOTHY DAY, A Century of Recorded Music, Yale University Press, New Haven 2000; THORSTEN KLAGES, Medium und Form: Musik in den (Re-)Produktionsmedien, epOs Music, Osnabrück 2002; MARK KATZ, Capturing Sound: how Technology has changed Music, University of California Press, Berkeley 2004.
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le notazioni, con l’arrivo della registrazione e con l’avvicendarsi di diversi tipi di supporto si giunge ad avvertire non solo l’esigenza di una ridefinizione della nozione di testo musicale, bensì di tutto l’orizzonte concettuale che ruota intorno alle idee di definitività, conservazione e tradizione. > Gli influssi delle prime macchine di registrazione sonora sulla musica hanno coinvolto soprattutto due livelli: quello creativo — relativo alle procedure di rappresentazione del pensiero musicale nel suo farsi e fissarsi su un supporto — e quello performativo, attinente a una presunta volontà di tramandare la propria opera secondo precise direttive d’autore. Igor Stravinskij, parlando delle sue prime incisioni discografiche, affermava nel 1928: «Si j’ai tenu à diriger pour Columbia les enregistrements de L’Oiseau de feu et de Petrouchka, c’est que, par ce moyen peut-être ancore insuffisant mais déjà satisfaisant, j’ai voulu tenter de graver mes traditions, ma volonté, et montrer dans quel esprit je souhaite voir exécuter mes œuvres. S’il existe entre une de mes exécutions au pupitre et une exécution au microphone une certaine différence, je dois dire cependant que j’y trouve une plus grande véracité que lorsque la baguette est confine à un chef d’orchestre, si intelligent, si respecteux soit-il de mon œuvre. / J’estime donc que le phonographe est actuellement le meilleur instrument de transmission de la pensée des maîtres de la musique moderne».43
La riproducibilità di un brano musicale trova realizzazione soprattutto grazie alla pianola (player piano), strumento diffuso nell’ultima decade dell’800 che consente la ripetizione automatizzata di una composizione musicale. La pianola, o più propriamente ‘pianoforte automatico’, è un dispositivo che utilizza un rotolo di carta perforata in cui ogni perforazione corrisponde a un tasto di una comune tastiera di pianoforte. Fondamentale è la data del 1904, quando la casa tedesca Welte immette sul mercato dei prodotti assai precisi e versatili, i Welte-Mignon; questi sono in grado di fissare in maniera assai fedele l’esecuzione su una tastiera, incluse le variazioni dinamiche e agogiche.44 Ovviamente l’idea di questi dispositivi non nasce dal nulla ma affonda le radici in un certo sperimentalismo settecentesco (legato anche alle innovazioni nel 43. Intervista a Igor Stravinskij in «Nouvelle littéraires», 8.12.1928, p. 11. Nella stessa intervista, Stravinskij arrivava ad affermare: «De mon contact avec le phonographe, j’ai acquis le sentiment qu’il ne s’agit pas ancore là d’un nouvel instrument classé comme tel, mais que le phono peut facilement le devenir, si on écrit spécialement pour lui». 44. Cfr., tra gli altri, MARK REINAHART, The Welte-Mignon Recording Process in Germany, «The Pianola Journal», XVI 2005, pp. 3–32. Per un catalogo dei rulli esistenti per questo strumento cfr. GERHARD DANGEL – HANS W. SCHMITZ, Welte-Mignon Klavierrollen. Gesamtkatalog der europäischen Aufnahmen 1904–1932 für das Welte-Mignon Repoduktionspiano, Schmitz, Stuttgart 2006. Per una storia dell’incidenza coeva delle registrazioni Welte-Mignon nella prassi interpretativa cfr. HERMANN GOTTSCHEWSKI, Die Interpretation als Kunstwerk. Musikalische Zeitgestaltung und ihre Analyse am Beispiel von Welte-Mignon-Klavieraufnahmen aus dem Jahre 1905, Laaber, Laaber 1996.
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campo industriale) che aveva visto vari tentativi di concepire e costruire macchine per fissare esecuzioni musicali o comporre seguendo procedimenti automatici; questa tendenza ha portato nella seconda metà dell’800 al brevetto di un gran numero di apparecchi che troveranno il loro apice negli strumenti prodotti dalla ditta Welte.45 Il piano meccanico venne guardato con grande interesse da numerosi compositori e/o pianisti tra cui Richard Strauss, Sergej Rachmaninov, George Gershwin, Claude Debussy — che fissarono alcune loro esecuzioni (alcune datate all’ultima decade dell’800) — e in seguito da Igor Stravinskij, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero e Paul Hindemith, che scrissero per esso dei brani musicali. La pianola conobbe il suo culmine nella seconda decade del Novecento, momento dal quale iniziò ad entrare in declino anche a causa dello sviluppo di mezzi, come il fonografo, che avevano raggiunto nuove frontiere grazie alla registrazione elettrica (1925). Con il loro perfezionamento tecnologico fu possibile riprodurre qualunque tipo di suono e non solo quelli fissati attraverso la performance di un tastierista. > Stravinskij fu tra i primi a comporre brani specificamente pensati per la pianola (la sua Etude, scritta per l’Aeolian Company, data al 1917). Nel 1921 firmò un contratto con la ditta di pianoforti meccanici Pleyel, a Parigi, per il quale gli si metteva a disposizione uno studio per trascrivere le sue opere in forma di rulli di carta perforata destinati al piano meccanico della casa (il Pleyela). Fino al 1929 egli realizzò per la Pleyel e la Aeolian Company (Duo-Art) circa cinquanta rulli dei quali almeno quaranta sono trascrizioni e/o adattamenti da proprie opere (Petrouchka, Le Sacre du printemps ecc.). Il compositore confessò a Erik Satie: «nel piano meccanico avrei voluto trovare non uno strumento destinato a riprodurre le mie opere, ma a ricreare le mie opere», 46 lasciando con ciò intendere di essere maggiormente interessato alla possibilità di realizzare nuove versioni delle sue opere piuttosto che alla registrazione del suono in quanto tale. Nei rulli del Sacre du printemps il compositore indica per esempio dei tempi metronomici per le singole sezioni a volte anche ampiamente diver45. Per un panorama generale e per puntuali rimandi bibliografici cfr. CLAUDIO BACCIAGALUPPI, Prima di Welte: il melografo da utopia illuminista a prodotto industriale, in Instrumental Music and the Industrial Revolution, ed. by Roberto Illiano and Luca Sala, Ut Orpheus, Bologna (in preparazione). 46. In «Nouvelle littéraire», cit., p. 11. In un’ulteriore intervista (Stravinsky sees Vision of a New Music. Player-Piano, Composers Says, Holds Unpumbed Possibilities in ‘Polyphonic Truth’, «The New York Times Magazine», 18.1.1925, p. 12) il compositore affermava: «Le piano mécanique offre une nouvelle vérité polyphonique. Il esiste d’autres possibilités. Il y a là quelque chose en plus. Ce n’est pas la même chose que le piano. Le piano mécanique ressemble au piano, mais il ressemble aussi à l’orchestre […]. Il y a des combinaisons sonores au-delà de mes dix doigts […]. Le rouleaux tels que ceux réalisés par Paderewki de son jeu splendide sont des photographies, mais je fais des lithographies. Il y a là des combinations nouvelles pour le clavier entier». Cfr. anche JEANMICHEL NECTOUX, Stravinsky par lui-même: premiers enregistrements parisiens, «Revue de la Suisse Romande», XXXVIII/8 1985, pp. 103–10.
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genti dalla versione originale47 e, più in generale, tutta la seconda parte offre un buon repertorio degli adattamenti effettuati per il piano meccanico. Fondata sulla riduzione a quattro mani stabilita da Stravinskij nel 1913, la versione del Sacre per Pleyela del 1921 è così piena di varianti da oltrepassare la trascrizione per divenire una nuova versione dell’opera. Lo stesso compositore ebbe a dire diversi anni dopo e riferendosi ad altri arrangiamenti: «many of my Pleyela arrangements, especially of vocal works like Les Noces and the Russian songs, were virtually recomposed for the medium».48 > Hindemith perforò da sé i rulli della Toccata per pianoforte meccanico (1926, rullo Welte 4108) e della Suite per organo meccanico (Das Triadische Ballett, 1926), ‘componendo’ direttamente sul supporto con l’ausilio di schizzi ma senza aver prescritto una partitura.49 Una ricostruzione del brano per pianoforte meccanico è stata compiuta nel 1996 dal pianolista Rex Lawson,50 le cui cautele (e relative soluzioni) nella trascrizione di aspetti dubbi e aperti quali quelli relativi al metro, al fraseggio, pause, variazioni di velocità, articolazione e dinamica possono essere prese a modello nel caso di futuri lavori di trascrizione di composizioni per strumenti meccanici tramandate sui soli supporti perforati.
Il fonografo con rullo o cilindro (dapprima di stagno, poi di cera), brevettato nel 1877 da Thomas Edison, è l’apparecchio che getta le fondamenta della registrazione meccanica (analogica) del suono. Anche in questo caso va detto che non si è trattato del solo tentativo compiuto in quegli anni in questa direzione; nella seconda metà dell’800, per esempio, erano stati ideati in Francia apparecchi come il Paléophone di Charles Cros o il Phonautograph di Léon Scott de Martinville che non ebbero però applicazioni pratiche.51 Il fonografo, 47. La «Danza sacrificale» che chiude l’opera, per esempio, è nella versione a stampa indicata come ottavo = 126, laddove in due rulli incisi dallo stesso compositore va da 136,5 a 147. Cfr. REX LAWSON, Stravinsky and the Pianola, «The Pianola Journal», I 1987, pp. 15–26 (I) e ivi, II 1989, pp. 3–16 (II, dove alle pp. 10–6 è riportata una lista completa di tutti i rulli realizzati da Stravinskij). Cfr. anche Rex Lawson on Stravinsky and the Pianola, in Igor Stravinsky, Pianola Works, CD Performing Arts Center, New York 1991. 48. IGOR STRAVINSKIJ – ROBERT CRAFT, Expositions and Developments, Faber & Faber, London 1962, p. 70. Cfr. anche NECTOUX, Stravinsky par lui-même: premiers enregistrements parisiens, cit., p. 108. 49. I due documenti sonori sono stati incisi rispettivamente nel CD «Player Piano vol. 4: Piano Music without Limits – Original Compositions of the 1920s», Dabringhaus und Grimm Audiovision, MDG 645 1404–2, 2007; e nel CD KOCH International, 1995. La prassi di incidere direttamente sul rullo senza una prescrizione tradizionale della composizione era molto diffusa tra quanti si sono cimentati con la pianola ed ha contraddistinto anche parte della produzione di uno degli ultimi grandi autori per pianoforte meccanico, Conlon Nancarrow (1912–1997). 50. Cfr. REX LAWSON, Hindemith: Toccata for Mechanical Piano. Specially Transcribed for the Pianola Journal, «The Pianola Journal», IX 1996, pp. 19–20 (introduzione) e pp. 21–8 (trascrizione). 51. Per un sommario quadro d’insieme e per le relative indicazioni bibliografiche sullo sviluppo della registrazione cfr. anche, oltre ai testi già a nota 42, JACQUES HAINS, Dal rullo di cera al CD, in Enciclopedia della Musica, Einaudi, Torino 2001, I, pp. 783–819.
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benché ancora a uno stadio piuttosto rudimentale, consente la realizzazione di tutte le operazioni di base del circuito della registrazione e del riascolto di un evento sonoro quali la captazione del suono (mediante un imbuto); la trasformazione dell’onda sonora in un’azione fisica (mediante la vibrazione di una membrana collegata a una puntina); la possibilità di fissare il suono su un supporto (mediante il solco tracciato dalla puntina sul rullo); e la possibilità di poter riascoltare la traccia sonora (ripercorrendo il solco inciso sul rullo con la puntina). Esso presenta dunque i procedimenti di base che si ritroveranno in tutte le tecnologie successive: presa del suono, incisione, conservazione e riascolto. Di fatto i principi base della registrazione analogica del suono fissati dal fonografo resteranno invariati fino all’avvento dei mezzi digitali negli ultimi decenni del ’900. La comparsa del rullo fonografico segna inoltre l’avvento del supporto inteso come oggetto fisico a sé stante, in grado di conservare direttamente un fenomeno sonoro nella sua traccia acustica e non nella sua espressione grafica o altrimenti codificata per trasmettere e/o mediare l’informazione sonora.52 Le ripercussioni di questa evoluzione epocale investono due ulteriori aspetti, qui solo menzionati: l’uno riguarda la distinzione (complementare ma essenziale) tra supporto e formato di incisione; il secondo riguarda il ruolo che le macchine — in quanto mezzi imprenscindibili per la decodifica del suono inciso sul/i supporto/i di vario formato — assumono nel processo di trasmissione/diffusione dell’elaborato sonoro (riflessione che abbraccia anche i limiti, i distinguo e le peculiarità osservabili tra le nuove macchine e i tradizionali ‘mediatori’ e ‘portavoce’ musicali: interpreti e strumenti). Come è noto, le prime applicazioni del fonografo non furono musicali e l’idea di Edison era quella di farne una macchina da usare in ufficio anche per via della qualità assai bassa del suono registrato che si poteva ottenere ai tempi. Ancora all’inizio del Novecento si era lontani dall’idea che l’apparecchio potesse influenzare la composizione musicale. Non stupisce pertanto che inizialmente molti compositori e grandi pianisti fossero attratti più dalla pianola che dalla possibilità di registrazione fonografica; solo con il passare degli anni il miglioramento della qualità di registrazione e di riproduzione promosse una estesa diffusione dello strumento in ambito soprattutto musicale.53 52. Segno è infatti tanto la scrittura musicale quanto un foro su un rullo di carta, per esempio. Entrambi stanno per il suono ed entrambi lo mediano. 53. Cfr. soprattutto i testi di Jüttemann e Gelatt citati a nota 42; cfr. inoltre Edison, Musicians and the Phonograph: a Century in Retrospect, ed. by John Harvith and Susan Edwards Harvith, Greenwood, New York 1987. Il fonografo e il rullo di cera rivestono un ruolo di considerevole importanza soprattutto nell’ambito dell’etnomusicologia; questo sia per via della possibilità di registrare meccanicamente dei suoni senza l’apporto dell’elettricità (che ne consentiva un utilizzo anche in località disagiate), sia per la possibilità di poter riascoltare sullo stesso apparecchio quanto appena
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> Johannes Brahms fu tra i primissimi compositori a inaugurare il nuovo supporto sonoro con l’incisione di un arrangiamento della prima delle sue Danses hongroises e di una parafrasi dal Libelle di Strauss (registrati il 2 dicembre 1889). Quasi del tutto mascherato da rumori di fondo, questo cilindro resta un documento storico di inestimabile valore sebbene fino ad oggi nessun tentativo di filtraggio o riversamento del segnale audio sia riuscito a restituire un’accettabile immagine sonora della registrazione.54
I rulli del fonografo sono dei pezzi unici: la possibilità di duplicazione del rullo, sebbene ideata e tentata, non ha mai preso piede e fu velocemente soppiantata dalla concorrenza del disco che, brevettato con qualche anno di ritardo, si dimostrò assai più versatile ai fini della duplicazione. Ai tempi della sua maggiore diffusione il rullo era di fatto un esemplare in unica copia; esso costituiva un supporto in grado di assicurare la conservazione di un evento sonoro ma non una sua ampia diffusione. In sostanza, esso presentava uno status assai simile a quello di un testo manoscritto e come questo, grazie alla possibilità intervenuta nel tempo di riversare i suoi contenuti su altro supporto sonoro (identico o di differente qualità e formato), ha conservato pressoché intatta la possibilità di essere trasmesso nel tempo. L’invenzione del grammofono a disco piatto, brevettato da Emil Berliner nel 1887, segna il vero punto di svolta nella storia della musica riprodotta ed ha ripercussioni assai importanti sull’attività musicale. Se il procedimento di registrazione analogico dell’incisione di una traccia resta sostanzialmente invariato rispetto a quello del fonografo, è il cambiamento del supporto a determinare le novità più considerevoli. Il disco è più pratico e meno ingombrante; contiene eventi sonori di durata maggiore e può essere inciso sulle due facciate. Ma, soprattutto, la sua duplicazione e la sua diffusione in copie multiple è facilmente realizzabile grazie al procedimento del bagno galvanoplastico, messo a punto da Berliner nel 1888. Tale perfezionamento tecnologico porta a una divisione netta delle fasi di registrazione ed incisione (da effettuare mediante apparecchiature specifiche) da quella dell’ascolto; quest’ultimo viene effettuato per il mezzo del grammofono, strumento che, messo in commercio a partire dal 1894, diventerà subito un oggetto di larga diffusione.
registrato. Ricercatori come Bartók e Brailoiu continuarono per anni, nel corso delle loro ricerche, a usare il fonografo anche quando furono disponibili mezzi più sofisticati per la registrazione del suono. I primi importanti archivi di musica etnica conservano soprattutto rulli di cera incisi con il fonografo (tra questi deve essere quantomeno menzionato l’Ethnologisches Museum, sorto a Berlino ai primi del ’900, custode della collezione — oggi patrimonio dell’Unesco — del Berliner Phonogramm-Archiv). 54. Una riproduzione parziale dell’originale e di vari passaggi denoising sono ascoltabili alla pagina http://ccrma.stanford.edu/groups/edison/brahms/brahms.html.
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È proprio la relativa facilità di duplicazione del disco che determina la notevole fortuna di questo supporto; esso darà vita a una vera e propria industria (quella discografica), in grado di determinare tendenze e gusti del pubblico, promuovere interpreti secondo logiche sempre più legate al mercato (si pensi fin dagli esordi del mezzo alla fama di artisti come Enrico Caruso, legata indissolubilmente alle incisioni discografiche), condizionare la nascita di nuovi generi musicali e nuove forme di espressione strettamente legate alle caratteristiche di questo supporto. Si assiste nel tempo anche alla nascita di espressioni musicali non più legate alla diffusione dei supporti cartacei ma ai mezzi di registrazione — si pensi al jazz, le cui prime registrazioni risalgono al 1917 55 — e a un uso massiccio dell’industria discografica per la creazione di cataloghi di musica etnica (rivolti, soprattutto negli USA, al mercato degli immigranti). Nel campo delle tecniche compositive, col suo indotto dei sistemi di registrazione e riproduzione, il disco esercita agli esordi una certa influenza suggerendo particolari scelte creative; cruciale è la questione della durata dei brani musicali che deve necessariamente tenere conto dei pochi minuti di musica che si possono incidere su una facciata di un disco (dai 4 minuti per lato — durata standard dei 78 giri dal 1904 alla seconda metà degli anni Quaranta — ai 25 minuti raggiunti per la prima volta con l’avvento dei Long Playing nel 1948).56 > Nel novembre del 1928 Stravinskij registra a Parigi per la Columbia otto estratti dell’Oiseau de feu, una delle sue migliori registrazioni, caratterizzata da una particolare trasparenza che mette in rilievo la finezza dell’orchestrazione. Gli otto pezzi (incisi ognuno sulle singole facciate di quattro dischi) riprendono le pagine riunite nella Suite sinfonica stabilita dallo stesso autore nel 1919, ma gli imperativi del 78 giri — ossia i 4 minuti per ogni lato di 30 cm — avevano imposto un taglio differente e più ‘generoso’: l’introduzione è più lunga, le Supplications de l’Oiseau de feu sono date come supplemento, così come le Jeu des princesses avec des pommes d’or (riprese nella sola seconda suite sinfonica stabilita dal musicista nel 1945); diversamente, alcuni dettagli d’orchestrazione (come la parte della celesta presente nella registrazione) sono improntati alla versione originale del balletto del 1910. Per quanto riguarda invece la Danse infernale du roi Kastcheï — la cui durata originale deborda dal minutaggio im55. I primi brani jazz (Livery Stable Blues e Dixie Jass Band One Step) furono registrati a New York dalla Victor dal gruppo «The Original Dixieland Jass Band», composto da musicisti bianchi di New Orleans. 56. Il primo LP a 33–1/3 giri fu introdotto sul mercato dalla Columbia Records. Nello stesso 1948 furono messi in commercio anche i primi magnetofoni portatili commerciali (Magnetocord PT-6). La durata limitata della facciata di un disco aveva costituito un serio problema per le ricerche di Parry e Lord sui cantori epici negli anni ’30 a causa dell’estensione ben più lunga delle loro performance. L’inconveniente era stato risolto con l’impiego di due incisori che, usati alternativamente, permettevano la continuità di un’esecuzione senza interruzione.
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posto dal supporto —, essa è presa necessariamente a un tempo così veloce da mettere a dura prova la coesione dell’orchestra.57 Qualche anno prima, nel 1925, lo stesso compositore aveva scritto la Sérénade en La, per pianoforte solo, forse il primo brano di musica colta composto appositamente per la lunghezza del disco; la durata di ognuno dei suoi quattro movimenti è infatti contenuta perfettamente in quattro lati a 78 giri di velocità (ossia: un movimento completo per ogni lato). Sebbene la Sérénade non sia stata commissionata da una compagnia discografica, Stravinskij ha sempre detto di averla scritta «with recording in view».58
Alcuni dettami tecnici propri ai primi sistemi di registrazione condussero a soluzioni che erano in parte in controtendenza rispetto a certe situazioni di gigantismo musicale che avevano caratterizzato l’ultima stagione compositiva del XIX secolo, saldandosi al contrario con le esigenze tecniche suggerite da un altro ‘strumento’ di diffusione sonora che andava sviluppandosi all’epoca, la radio. In questa direzione vanno ad esempio la preferenza per organici strumentali ‘trasparenti’ e relativamente ridotti, selezionati in base alla loro compatibilità con i mezzi di captazione e riproduzione sonora coevi. La diffusione dei mezzi di riproduzione del suono generò anche non poche confusioni sullo status di questi nuovi strumenti in rapporto alla partitura. Significativa a questo proposito è la sentenza del tribunale civile di Cremona che, nel 1906, condannò la ditta Anelli & C., produttrice di rulli per pianoforte meccanico, a risarcire la ditta Ricordi per aver violato il diritto di edizione sulle opere musicali protette dalla legge sulla proprietà artistica.59 E sebbene i mezzi all’epoca non giungessero comunque a mettere in discussione lo statuto della partitura in quanto depositaria dell’opera musicale (tema, questo, che verrà affrontato in tutta la sua urgenza a partire dagli anni Cinquanta soprattutto nell’ambito della musica elettroacustica), essi contribuirono tuttavia a focalizzare maggiormente l’attenzione sul momento più propriamente esecutivo dell’opera. 57. Cfr. NECTOUX, Stravinsky par lui-même: premiers enregistrements parisiens, cit., pp. 103–4. Per aspetti più generali e approfondimenti sulle incisioni di Stravinskij cfr. Igor Stravinsky – The Composer in the Recording Studio. A Comprehensive Discography, compiled by Philip Stuart, Greenwood, New York 1991 (informazioni tecniche sull’incisione del 1928 al § «Discography», p. 27). I quattro dischi sono stati riversati e messi in commercio nel 1989 su CD Pearl GEMM 9334. 58. Cfr. ROBERT CRAFT, The Composer and the Phonograph, «High Fidelity», June 1957, pp. 34–5 e p. 99 (cit. a p. 35). 59. Del caso riferisce MARCO CAPRA, L’idea di musica riprodotta in Italia tra Otto e Novecento, in Il suono riprodotto, a c. di Alessandro Rigolli e Paolo Russo, EDT, Torino 2007, p. 6 («[…] si ritenne che la confezione e diffusione dei rulli di carta traforata, in guisa di vere e proprie partiture che utilizzavano un sistema autonomo di notazione, inducessero contraffazione e quindi offesa al diritto di proprietà»; deve esser nondimeno dato atto che nelle premesse della condanna il tribunale aveva individuato il potenziale di autonomia proprio al nuovo supporto).
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Il disco è stato il primo supporto utilizzato in modo consapevole dai compositori al fine di sperimentare nuove soluzioni creative. Primi tentativi di uso creativo e simultaneo di più grammofoni furono effettuati già all’inizio degli anni Venti da Stefan Wolpe a Berlino; sempre a Berlino, all’interno del centro sperimentale della Rundfunkversuchesstelle della locale Musikhochschule, nel 1930 Paul Hindemith realizzò un brano per due grammofoni (Schallplattenmusik).60 Esperimenti più consapevoli furono quindi compiuti da John Cage alla fine degli anni Trenta (in Imaginary Landscape No. 1 del 1939 si impiegano tra l’altro delle registrazioni su disco eseguite con variazioni di velocità). Ma è alla fine degli anni Quaranta, nell’ambito parigino del Club d’Essai di Pierre Schaeffer, che la manipolazione del disco a scopi creativi è impiegata in maniera intensiva e porta alla ‘nascita’ della cosiddetta musique concrète.61 Durante la prima fase di attività dello Studio di Parigi, dal 1948 al 1951, il supporto impiegato per la ricerca e la produzione musicale è rappresentato esclusivamente dal disco e solo successivamente si passa a utilizzare il nastro magnetico. > Il processo compositivo della musique concrète vede il suo momento centrale nella manipolazione dei dati incisi sul supporto; è proprio la versatilità di quest’ultimo che condiziona pesantemente le strategie compositive e lo stesso risultato musicale. Il disco forniva determinate possibilità di manipolazione che, per quanto possano oggi apparire limitate, erano per l’epoca ricche di potenzialità creative; la strada seguita nei primi lavori era soprattutto quella del collage o della registrazione diretta su disco di suoni concreti. I primi lavori significativi prodotti da Schaeffer nello studio parigino, dagli Études de bruits fino alla Symphonie pour un homme seul, erano dapprima progettati su partitura, quindi registrati e assemblati mediante dischi a 78 giri.62
Negli Studi di musica sperimentale — sorti in Europa soprattutto all’interno delle sedi radiofoniche — il disco come mezzo ‘creativo’ fu letteralmente soppiantato dal nastro magnetico, supporto che per le sue ripercussioni sulle procedure compositive, sul concetto di ‘materiale’ musicale e sulla stessa idea di scrit60. Cfr. rispettivamente STEFAN WOLPE, Lecture on Dada, «The Musical Quarterly», LXXII/2 1986, pp. 202–15 (p. 209: «[…] I had eight gramophones, record players, at my disposal. / And these were lovely record players / because one could regulate their speed […]»); e MARTIN ELSTE, Hindemiths Versuche «grammophonplatten-eigener Stücke» im Kontext einer Ideengeschichte der Mechanischen Musik im 20. Jahrhundert, «Hindemith-Jahrbuch», XXV 1996, pp. 195–221. 61. Sulla musica concreta cfr. dello stesso PIERRE SCHAEFFER, A la recherche d’une musique concrète, Edition du Seuil, Paris 1952; ID., La musique concrète, Presses Universitaires de France, Paris 1967 (e successive ristampe). 62. Alcune pagine delle partiture degli Etudes de bruits, della Symphonie pour un homme seul e di altre composizioni concrete sono riprodotte in FRANÇOIS BAYLE, Pierre Schaeffer: l’œuvre musicale, INA – GRM, Paris 1990.
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tura costituì per molti compositori attivi nella prima metà degli anni Cinquanta una vera e propria rivoluzione. L’orizzonte sonoro, già arricchito e condizionato dalle esperienze compositive dei decenni precendenti (da Stravinskij a Webern a Varèse), viene ulteriormente ad ampliarsi grazie allo sviluppo delle sperimentazioni elettroacustiche. Il nuovo supporto, il nastro magnetico, presenta delle caratteristiche di versatilità nettamente superiori a quanto era stato sviluppato fino ad allora: è con il nastro magnetico che i procedimenti di montaggio e di mixaggio dei suoni diventano fondamentali all’interno della tecnica compositiva.63 Il lavoro nello Studio elettronico richiedeva operazioni lunghe e laboriose. Le azioni di generazione o acquisizione del suono, il montaggio dei frammenti di nastro, la sincronizzazione di nastri e magnetofoni e la diffusione nello spazio non si limitavano a costituire delle semplici operazioni tecniche al servizio di un’idea poetica; la complessità dell’azione fisica e la manualità richiesta da queste procedure imponevano infatti un’attenta valutazione del loro uso ai fini del risultato che si intendeva conseguire e spesso producevano inattesi risultati sonori, tanto da poter così essere (re)impiegate come consapevole meccanismo creativo. I mezzi elettroacustici si rivelarono sempre più capaci di condizionare pesantemente il lavoro del compositore e la forma finale dell’opera musicale. Va da sé che tali condizionamenti assumevano tante sfaccettature per quanti erano i diversi atteggiamenti assunti dai compositori nei confronti del nuovo supporto e delle tecniche di creazione elettronica. Nello Studio elettronico della NWDR, 64 sorto a Colonia alla fine del 1951, agli esordi si puntava soprattutto su una progettazione abbastanza rigorosa della produzione del suono e a un controllo altrettanto rigoroso della successiva manipolazione (si pensi alle prime opere prodotte in questa sede da Karlheinz Stockhausen). Nello Studio di Fonologia della RAI di Milano, fondato alla fine del 1954, le sollecitazioni che emergevano durante il lavoro creativo venivano accolte in maniera più libera rispetto a quanto avveniva negli altri Studi. Luciano Berio e Bruno Maderna, tra i padri dello Studio milanese, non ricorrevano alla rigorosa progettazione delle opere elettroacustiche ma seguivano una prassi di continua sperimentazione, concependo ogni brano congiuntamente alle operazioni tecniche necessarie alla sua realizzazione e verificandone in concreto momento per momento il risultato sonoro.65 63. Cfr. NICOLA SCALDAFERRI, Montage und Syncronisation: Ein neues musicalisches Denken in der Musik von Luciano Berio und Bruno Maderna, in Elektroakustische Musik. Handbuch der Musik im 20. Jahrhundert, hrsg. von Elena Ungeheuer, Laaber, Laaber 2002, V, pp. 66–82. 64. «Studio für elektronische Musik» del Nordwestdeutscher Rundfunk (ora WDR). Cfr. a questo proposito ELENA UNGEHEUER, Wie die elektronische Musik «erfunden» wurde… Quellenstudie zu Werner Meyer-Epplers musikalischem Entwurf zwischen 1949 und 1953, Schott, Mainz 1992; ed Elektroakustische Musik. Handbuch der Musik im 20. Jahrhundert, cit. 65. Sullo Studio di Milano si veda Nuova Musica alla Radio. Esperienze allo Studio di Fonologia della RAI di Milano 1954–1959 / New Music at the Radio. Experiences at the ‘Studio di Fonologia’ of RAI in Milan, cit.; e C’erano una volta nove oscillatori. Lo Studio di Fonologia della RAI
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La logica creativa messa a fuoco utilizzando il nastro finisce per contagiare, a diversi livelli, anche la composizione per strumenti tradizionali. Nel campo delle singole tecniche compositive anche relative ad opere di tipo tradizionale si possono riscontrare comportamenti direttamente derivati dalla lavorazione in Studio: tra i materiali preparatori dell’opera Hyperion, per esempio, vi sono schemi cartacei che richiamano direttamente la «dialettica tra stati di pregnanza» della materia sonora che Maderna mette in atto in composizioni elettroacustiche come Continuo. Ancora più evidente è il caso dei materiali preparatori di composizioni per orchestra come Ausstrahlung (discussa oltre) o Aria: durante la preparazione del piano armonico di quest’ultima, Maderna taglia e incolla strisce di carta pentagrammata con le altezze al fine di ‘sincronizzare’ la successione degli agglomerati sonori.66 > In una celebre conferenza tenuta ai Ferienkurse di Darmstadt del 1957, introducendo l’ascolto della composizione Syntaxis, Maderna fornisce a questo proposito indicazioni di estremo interesse: «L’incontro col mezzo elettronico determinò un vero e proprio rovesciamento nelle mie relazioni col materiale musicale. A quel punto dovetti completamente riorganizzare il mio metabolismo intellettuale di compositore. Mentre il comporre strumentale è nella maggior parte dei casi preceduto da uno sviluppo di pensiero di tipo lineare — proprio perché si tratta dello sviluppo di un pensiero che non sta a diretto contatto con la materia — il fatto che nello studio elettronico si possano provare direttamente diverse possibilità di concretizzazione di strutture sonore, che attraverso manipolazioni continue si possano rinnovare e mutare all’infinito le immagini sonore così ottenute, e, infine, il fatto che sia possibile mettere da parte una grandissima scorta di materiali parziali, pone il musicista di fronte ad una situazione completamente nuova. Il tempo ora gli si presenta come il campo di un grandissimo numero di possibilità di ordinamento e di permutazione del materiale appena prodotto. Noi ora proviamo forti propensioni verso questo tipo di pensiero e di condotta anche nella musica strumentale. Non ha senso chiedersi se sia stata l’esperienza elettronica a provocare un tale rinnovamento o se piuttosto essa non rappresenti il risultato di uno sviluppo in questa direzione già presente nella musica degli ultimi anni. Indubbio è invece il fatto che proprio la musica elettronica rende possibile dimostrare la validità di un tale modo di concepire la composizione. Il punto centrale consiste nel fatto che una struttura non è una cosa sola, ma può assu-
di Milano nello sviluppo della nuova musica in Italia, a c. di Paolo Donati e Ettore Pacetti, ERI – RAI, Roma 2002. 66. Si vedano anche le riproduzioni degli schizzi di Maderna che compaiono in GIANMARIO BORIO – VENIERO RIZZARDI, Die musikalische Einheit von Bruno Madernas ‘Hyperion’, in Zwölf Komponisten des 20. Jahrhunderts, Paul Sacher Stiftung, Basel 1993, pp. 117–48.
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mere su di sé un grande numero di funzioni secondo la sua posizione nei confronti del tutto».67
Le affermazioni di Maderna sono certamente emblematiche del modo in cui l’incontro con l’elettroacustica e soprattutto con il nastro magnetico ha cambiato il modo dei compositori di concepire l’opera musicale, con implicazioni che arrivano a coinvolgere lo stesso statuto testuale (cfr. supra §§ 1–2). Nondimeno, bisogna precisare che la pratica del montaggio inizia in realtà molto prima dell’avvento della musica elettroacustica e si sviluppa, con forti implicazioni estetiche e una specifica riflessione teorica, grazie a un supporto assai simile al nastro magnetico: la pellicola cinematografica. Rivelatosi come fenomeno dalle forti valenze estetiche a partire dall’opera di David Wark Griffith, il montaggio costituisce un punto cardine della riflessione sulla tecnica del linguaggio cinematografico e questo non solo nel periodo del muto e nel cinema a inquadratura fissa ma, nei suoi significati di base, anche nei decenni successivi. Un momento fondamentale di questa riflessione è costituito dai lavori di Sergej Ejzenstejn, che dedica la parte più consistente della sua opera teorica proprio al montaggio.68 Per il regista sovietico questa procedura non designa solo la pratica tecnica della giunzione delle pellicole ma un principio che regge la costruzione del film e che incide fattivamente sulla concezione dell’operato artistico; l’esperienza del montaggio esula inoltre dall’ambito puramente cinematografico e si estende a tutte le forme artistiche giungendo perfino ad acquisire tratti epistemologici. Ogni innovazione tecnologica in realtà, come ampiamente dimostrato da una ricca tradizione di studi sulle dinamiche culturali, presenta forti ripercussioni a livello psicologico; le relazioni tra fenomeni tecnologici simili, anche a prescindere dal loro contesto, sono assai profonde proprio perché implicano una relazione tra i rispettivi percorsi concettuali. Da questo punto di vista è significativo notare come in ambito cinematografico, ricorrendo a tecniche di montaggio sulla parte sonora di una pellicola, siano state sviluppate alla fine degli anni ’20 singolari esperienze da un lato vicinissime al mondo della (futura) musica elettronica, dall’altro completamente estranee agli ambiti di ricerca dei musicisti più all’avanguardia dell’epoca. Vale la pena menzionare in questa sede almeno un caso straordinario: il film acustico senza immagini di 67.
BRUNO MADERNA,
Esperienze compositive di musica elettronica, conferenza tenuta il 26 luglio 1957 a Darmstadt, in Bruno Maderna. Documenti, a c. di Mario Baroni e Rossana Dalmonte, Suvini Zerboni, Milano 1985, pp. 83–5: 83–4. 68. Dell’enorme mole di scritti del regista sovietico si ricordano SERGEJ M. EJZENSTEJN, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 1985; ID., Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986. Uno sguardo globale sulla storia del montaggio (e della sua presenza anche in altri ambiti artistici) viene fornita dal regista in Dickens, Griffith e noi, in SERGEJ M. EJZENSTEJN, Forma e tecnica del film e lezioni di montaggio, Einaudi, Torino 1964, pp. 172–221.
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Walter Ruttmann, Weekend (1930), sorta di Hörspiel su pellicola della durata complessiva di 11'10", composto da 240 sequenze di suoni concreti. 69 Il suono registrato e il montaggio furono utilizzati qui per la prima volta come mezzi di creazione artistica. Oltre ad anticipare temi della riflessione acusmatica, Ruttmann si avvalse di alcune tecniche di realizzazione molto affini a quelle in uso negli anni Cinquanta negli Studi elettroacustici, di cui sembra precorrere non solo il clima di lavorazione, ma anche la peculiare ricerca empirica di una logica sonora tutta interna al brano.70 Bisogna nondimeno specificare che l’esperienza di Ruttmann non venne recepita dai musicisti coevi. All’epoca il dibattito musicale più avanzato su musica e tecnologia si svolgeva sul terreno della radiofonia o sull’uso di strumenti ad alimentazione elettrica. E non è del resto un caso che negli anni Cinquanta i compositori giungessero alla composizione elettroacustica proprio tramite l’esperienza radiofonica ignorando in gran parte le esperienze affini, teoriche e compositive, già realizzate in ambito cinematografico. Il nastro magnetico venne assunto dai giovani compositori quasi inavvertitamente, senza una riflessione esplicita sul suo funzionamento e su quanto esso comportava. Anche le sue implicazioni furono acquisite nella pratica e non sempre in maniera pienamente consapevole. Il dibattito teorico che accompagnava la nuova musica si svolgeva di volta in volta sul modo di costruire il suono, di organizzarlo e dominarlo, riflessioni troppo urgenti ed impegnative che lasciavano all’epoca poco spazio a considerazioni aperte alle caratteristiche del supporto: il nastro rappresentava principalmente il mezzo su cui fissare e conservare le nuove situazioni sonore. Il rapporto tra musica e tecnologie (di registrazione e/o riproduzione) è profondamente segnato da un precoce invecchiamento delle macchine e dei supporti, con implicazioni assai importanti e delicate sulla conservazione e la capacità di restituzione delle opere all’ascolto. Questo riguarda non solo le macchine e i dispositivi del primo Novecento, ma anche tutta la musica prodotta in seguito con l’ausilio di macchine elettroniche. Se inizialmente la scrittura del69. Di Weekend si perse ogni traccia nel 1932; una copia venne ritrovata nel 1978 a New York presso il regista Paul Falkenberg, amico di Ruttmann tra gli anni Venti e Trenta; cfr. JEANPAUL GOERGEN, Il montaggio sonoro come ‘ars acustica’, in Walter Ruttmann. Cinema, pittura, ars acustica, a c. di Leonardo Quaresima, Manfrini, Rovereto 1994, pp. 177–91. Per una panoramica generale sull’esperienza sonora di Ruttman cfr. invece CARLO PICCARDI, Fotogrammi di musica. Rapporti tra suono e visione nel cinema di Ruttmann, in ibid., pp. 93–136. 70. Cfr. la descrizione fornita da Lotte H. Eisner di una visita all’atelier del regista durante la lavorazione di Weekend (in GOERGEN, Il montaggio sonoro come ‘ars acustica’, cit., p. 186): «Alla moviola sono stati incollati i singoli spezzoni. Ed ora si ascolta e si riascolta, si esaminano il ritmo, il carattere ascendente e discendente dei rumori accostati l’un l’altro; se sono troppo lunghi vengono abbreviati, i segmenti collocati diversamente, equilibrati, contrapposti, accentuati rispetto ad altri. […] Ora si passa all’ascolto di un brano in fase di lavorazione. Il montaggio lo ha parzialmente articolato, evidenziato nel diminuendo o nel crescendo, valutato nel ritmo».
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l’opera su nastro aveva alimentato il mito dell’eternità di un testo fissato in modo ‘definitivo’ dall’autore e svincolato dalla mediazione di un interprete, con il tempo la realtà si è rivelata ben diversa. L’esecuzione di un’opera su nastro presuppone infatti non solo la conservazione dei dati sonori fissati sul supporto magnetico (che può coincidere con il testo, filologicamente inteso), bensì anche quella dello stesso supporto nonché di tutto l’apparato tecnologico e di tutte le competenze per la sua manutenzione e il suo uso.71 A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, l’affermarsi dei sistemi di registrazione digitale determina alcune novità sostanziali sia nella pratica compositiva, sia nella sfera specifica dei supporti sonori. Se nelle tecniche di registrazione analogica ogni riversamento o passaggio da un supporto all’altro consisteva in una reincisione, il trasferimento dei dati digitali è al contrario molto più agevole e la memoria digitale, nelle sue varie configurazioni possibili, è attualmente il supporto più in uso. La storia delle tecnologie digitali e del loro impiego nel campo della musica costituisce un fenomeno assai dinamico e in continua trasformazione;72 i tentativi fino ad oggi compiuti per fornire delle linee di tendenza nel campo delle applicazioni compositive possono essere considerati studi pioneristici (solitamente dedicati ad autori e/o opere specifiche) o resoconti di esperienze condotte dagli stessi compositori; in entrambi i casi una sintesi che abbracci le varie sperimentazioni è ancora lontana dall’essere (o poter essere) realizzata. Tra le più diffuse tecnologie digitali si devono qui ricordare i già citati live electronics, sistemi di elaborazione sonora che permettono il trattamento dei dati in tempo reale.73 Si tratta di un fenomeno assai indicativo in quanto porta a una ulteriore variazione o slittamento concettuale che investe non più solo la ‘definitività’ dell’opera musicale, bensì anche l’accezione di ‘definibilità’. Con i live electronics l’opera non è più solo unica e irripetibile, ma di fatto ritorna ad essere anche parzialmente irriproducibile, nel 71. Cfr. a questo proposito ALVISE VIDOLIN, Conservazione e restauro dei beni musicali elettronici (file scaricabile al sito www.dei.unipd.it/~musica/Dispense/VidolinCidim.pdf). Si veda anche il recente Ri-mediazione dei documenti sonori, a c. di Sergio Canazza e Mauro Casadei Turroni Monti, Forum Editrice, Udine 2007. Nel settore della conservazione e del restauro dei documenti sonori sono attivi in Italia centri quali il MARTLab di Firenze e il Laboratorio Mirage dell’Università degli Studi di Udine. 72. Il primo elaborato teorico dedicato all’argomento è stato redatto alla fine degli anni Settanta da JEAN-CLAUDE RISSET, The Development of Digital Techniques: a Turning Point for Electronic Music, IRCAM, Paris 1978. Per una panoramica sulle pubblicazioni dedicate alle tecnologie digitali e alla computer music si rimanda alla bibliografia presente nel sito del Computer Music Journal, rivista edita dalla MIT Press (http://204.151.38.11/cmj/) e a quella raccolta in ftp://ftp.cs.ruu.nl/pub/MIDI/DOC/bibliography.html. Cfr. anche nota 30. 73. Per una panoramica introduttiva si veda l’uscita di «Contemporary Music Review», VI/1 1991, dedicata ai live electronics (in particolare le pp. 85–8). Cfr. anche NICOLA BERNARDINI, Live electronics, in Nuova Atlantide. Il continente della musica elettronica 1900–1986, a c. di Roberto Doati e Alvise Vidolin, ERI – RAI, Venezia 1986, pp. 61–78.
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senso che ogni sua fissazione su un supporto di registrazione abbatte o distorce una buona parte della sua realtà sonora. Le macchine permettono di costruire e trasformare lo spazio d’ascolto, di plasmarlo a mo’ di una scultura sonora, ma sono limitate nel momento in cui devono veicolare la riproduzione di quello stesso spazio: fino ad oggi non vi sono impianti o supporti ancora in grado di contenere fedelemente tutte le informazioni acustiche e le traiettorie spaziali proprie a un’esperienza d’ascolto con live electronics. § 4. Problematiche metodologiche. Esempi e casi paradigmatici di indagine filologica nella produzione del secondo Novecento Negli studi musicologici dedicati ad alcune opere realizzate nella seconda metà dello scorso secolo, la prevalenza dell’analisi del segno grafico sul dato squisitamente acustico è stata gradualmente messa in discussione fino a ribaltare talvolta i rapporti d’importanza. Tale tendenza ha seguito da presso le peculiarità genetiche ed estetiche della produzione presa in esame, di fatto assecondandone la dimensione sperimentale, affinando nuovi metodi di indagine. Soprattutto a seguito dell’avvento delle tecnologie elettroniche, la possibilità di manipolare e sperimentare direttamente la materia sonora — la possibilità ossia di comporre il suono con il suono attraverso il suo ascolto diretto — cominciò ben presto a far parte di un orizzonte creativo applicabile tanto alle opere per nastro quanto a quelle strumentali o miste e per molti compositori (Stockhausen, Maderna e Nono tra questi) tale attitudine resta indiscussa anche per alcune composizioni realizzate al di fuori degli Studi elettronici. All’interno della produzione di uno stesso autore non di rado si affiancano e avvicendano opere realizzate e fissate sulla carta (prescritte) ad altre che utilizzano nuove tecnologie di ‘scrittura’ del suono su supporti quali il nastro magnetico o la memoria, per esempio. Opere che, escludendo talvolta qualsiasi traccia che non sia prettamente acustica, possono essere studiate e analizzate esclusivamente a partire dal testo sonoro. Per molte composizioni create a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’opera — sia essa concepita per una liuteria tradizionale o elettroacustica e a prescindere dall’appartenenza a una corrente informale — può coincidere con piani schematici, con dati operativi, con progetti sempre meno dettagliati o relativi al piano globale degli effetti prodotti, con tracce compositive ridotte al minimo funzionale, con abbozzi cartacei o sonori (in questi ultimi casi si tratta di veri ‘quaderni di appunti’ precompositivi e/o tentativi propedeutici all’opera compiuta ‘scritti’ direttamente su nastro). Nei casi più estremi, l’opera può anche arrivare a identificarsi con l’interprete. Nelle varie circostanze si os-
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serva comunque come la propensione a determinare e fissare il materiale per un’unica composizione diventi ormai — nonostante le differenze e le peculiarità delle singole procedure — una regola del processo creativo che consegue a riflessioni compositive immanenti e sperimentali. Le nuove leggi di organizzazione del linguaggio devono essere ora ricostruite opera per opera attraverso una ricerca mirata delle relazioni formali e funzionali. Anche quando esistente, la partitura si palesa non di rado insufficiente alla comprensione delle tecniche compositive e delle strutture dell’opera: ogni valutazione diretta è, nella produzione post-bellica, sovente negata e le domande rivolte al testo restano senza risposta. Nonostante la possibile conoscenza dei sistemi e delle funzioni che regolano precedenti composizioni del medesimo autore, la velocità delle acquisizioni e i costanti sviluppi tecnici rendono indispensabile una disamina diretta delle fonti (solitamente custodite in archivi specifici o presso gli stessi compositori). Per una corretta analisi o per ottenere delle presumibili risposte interpretative, la partitura cartacea o il testo sonoro devono necessariamente essere rapportati alla documentazione dei differenti livelli redazionali, al materiale precompositivo e a documenti che solo con un errore di prospettiva possono essere considerati di importanza secondaria (tra questi, la corrispondenza dei compositori o la loro produzione teorica).74 L’aumento dell’esigenza prescrittiva dell’evento sonoro (nella forma di appunti, schizzi e abbozzi) è, come già accennato, un segnale rivelatore della crescente preoccupazione che accompagna la ricerca di un sistema nuovo o alternativo atto a fissare il pensiero compositivo. Lo studio della messa a punto della struttura diviene inalienabile dalla comprensione della struttura stessa (così come essa risulta nella sua conformazione definitiva prescelta dal compositore per il supporto carteceo o sonoro che tramanda l’opera). L’analisi diviene una tappa obbligata e fondamentale del metodo filologico, venendo a incontrarsi (talvolta a fondersi) con l’indagine relativa alla genesi dell’opera e con la critica del testo. Per determinata musica del secondo Novecento lo studio esegetico arriva a basarsi pressoché esclusivamente sulla disamina degli schizzi e dei testimoni genetici, diventando talora prioritariamente critica genetica e delle varianti. Data la presenza del texte (livello redazionale definitivo, nella presente accezione aperto a forme non cartacee), la recensio si realizza nell’individuazione dei testimoni di varia natura del processo compositivo che consentono di restituire il testo nella sua iniziale logica di ideazione e strutturazione. Molte volte la critica del testo non comprende ma combacia con la critica genetica, attraverso la quale può individuarsi 74. Esemplare, da questo punto di vista, l’importanza di questa specifica tipologia di fonte nello studio della produzione di compositori come Boulez, Cage, Maderna, Nono, Schaeffer, Stockhausen ed altri.
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l’originario assetto dato dall’autore alla materia prima delle trasformazioni che ne occultano la comprensione. Il fine di questa operazione, che procede in stretta comunione con l’analisi, è quello di rendere perspicui i procedimenti morfologici e sintattici dell’opera, di poter accedere alle intenzioni sonore perseguite dal compositore. Lo studio dei materiali preparatori arriva sovente a costituire l’unico modo per conoscere nei termini vichiani, a riconoscere ossia l’esistenza di un fenomeno nell’identificazione del modo con cui il fenomeno si è costituito: conoscere, per poter interpretare, è conoscere nello sviluppo del farsi. > In un celebre saggio del 1981 Joseph Kerman afferma che «non tutto il lavoro sugli schizzi e sugli abbozzi dei compositori si pone come obiettivo la comprensione della creazione, della creatività o del processo creativo; e nemmeno tutto il lavoro sul processo compositivo si riduce allo studio degli schizzi».75 Questa affermazione, se estesa a determinata musica del XX sec., può essere passibile di alcune considerazioni che possono trasformarne la prospettiva metodologica e concettuale. In linea generale, le discussioni sulla validità o sull’opportunità dello studio genetico dell’opera dovrebbero essere mirate e differenziate a seconda del periodo storico in analisi e, nel caso della musica del Novecento, autore per autore. Le stesse tesi di Douglas P. Johnson e di Leonard Meyer possono risultare meno efficaci se rivolte alla produzione musicale del secondo Novecento.76 La norma per la quale lo «studio sulla genesi di un’opera non si [può] sostituire alla sua analisi» perde perentorietà laddove la sola possibilità di comprensione dell’opera è fornita dallo studio del materiale precompositivo. Analisi e critica dell’opera, ora quasi assimilate nel medesimo momento di indagine, vengono proiettate su regole metodologiche affatto differenti da quelle che guidano lo studio della musica dell’Ottocento o di epoche storiche precedenti.
Al cambiamento di relazione con il materiale musicale di base, alla scoperta e manipolazione di materiali e supporti nuovi, deve conseguire una ricerca di adeguate forme di analisi ed esegesi che rispettino la (e partano dalla) particolare natura dell’opera. Varie esperienze di studio condotte negli ultimi anni dimostrano come, ampliati gli orizzonti semantici dei termini scrittura e testo, sia possibile intraprendere un processo di critica testuale anche per composizioni fissate su nastro magnetico, su disco o per la computer music. Per composizioni, ossia, dove per la definizione del testo la notazione e/o la scrittura possono: a) non esistere del tutto; b) non esistere in quanto prerequisito; c) esistere solo in parte secondo codici affatto nuovi e personali.
75. JOSEPH KERMAN, Lo studio degli schizzi, in La critica del testo musicale, cit., pp. 97–107: 98. 76. Cfr. i saggi di DOUGLAS P. JOHNSON e di LEONARD MEYER in ibid. (p. 104 per la citazione riportata oltre nel testo).
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In questi casi, per interpretare l’opera come fenomeno musicale (come artificio costruttivo e/o progetto complesso) e per avvicinarsi a comprendere l’intenzione originale dell’autore lo studioso dovrà basarsi sulla realtà sonora dell’opera e, nel caso di uno studio genetico, riferirsi alle approssimazioni sperimentali che il compositore ha annotato su nastro o su altro supporto non cartaceo. A rigore, qualsiasi documento che riveli tracce significative per la comprensione di un’opera mantiene inalterata la sua caratteristica di testimone, sia esso cartaceo, sonoro o elettronico. Negli esempi che seguono sono illustrati vari percorsi di indagine filologica finalizzati di volta in volta alla ricostruzione e/o al riconoscimento della fisionomia dell’opera il più vicino possibile alla volontà d’autore, all’individuazione di varianti strutturali d’autore, all’analisi di corruttele nella tradizione dell’opera, a una ricostruzione del processo creativo che illumini la peculiarità delle scelte operate dall’autore durante la fissazione del suo pensiero musicale. Alcuni tra questi rendono palese quanto l’analisi di supporti non cartacei (registrazioni d’autore, nastri preparatori, nastri di registrazioni in studio, prime incisioni ecc.) sia, nel caso dei repertori contemporanei, un passo obbligato quanto necessario per una corretta ricognizione filologica dei testi — e questo a prescindere dalla loro problematicità presunta o apparente. Altri evidenziano come, nel caso di repertori fissati su supporti non cartacei, il rapporto tra testo e prassi diventi talora quasi simbiotico e fino a che punto «la tradizione esecutiva della musica […] si arricchisce progressivamente, si modifica, si irradia attraverso l’attività interpretativa dei singoli esecutori».77 4.1 A floresta é jovem e cheja de vida di Luigi Nono Nel processo di definizione di alcune opere — acustiche e/o elettroniche — il compositore può affrancarsi sia dalla scrittura (intesa in senso lato), sia dalla partitura (intesa quale supporto che renda riproducibile — tramandabile — l’opera). Un caso paradigmatico è fornito da A floresta é jovem e cheja de vida di Luigi Nono (1965–66), per soprano, tre voci di attori, clarinetto in Si bemolle, lastre di rame e nastri magnetici, su testi documentari raccolti da Giovanni Pirelli, esempio in cui confluiscono più problematiche legate al concetto di testo.
77. Cfr. vol. I, § 5 (Testo e prassi), p. 13. Tutti gli esempi che seguono nel testo sono tratti (con alcune modifiche e aggiornamenti) da ANGELA IDA DE BENEDICTIS, Il suono oltre il segno: la carta, i limiti e gli inganni (cinque esempi), «AAA – TAC Acoustical Arts and Artifacts / Techonology, Aesthetics, Communication», II 2005, pp. 53–65, saggio al quale si rimanda per maggiori approfondimenti ed esemplificazioni schematiche sui singoli casi.
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> Di A floresta é jovem e cheja de vida non è mai esistita una partitura a stampa fino alla ricostruzione compiuta nel 1998 per Casa Ricordi da Veniero Rizzardi e Maurizio Pisati. Come è stato accuratamente descritto nel saggio che introduce questa operazione di «ricomposizione» dell’opera, 78 in A floresta il processo e la realizzazione dell’idea compositiva sono affidati a degli interpreti — o meglio, alla loro memoria — che arrivano a sostituire la funzione della partitura scritta incarnando una sorta di «intavolatura virtuale».79 Per questa composizione, infatti, la realizzazione del progetto è direttamente sonora: le parti vocali e strumentali sono modulate da voci/timbri specifici che, in virtù delle loro peculiarità, condizionano il processo compositivo. L’elaborazione creativa procede qui soprattutto per istruzione verbale-sperimentazione-memorizzazione da parte dell’interprete la cui figura, pertanto, da una parte coincide con il «materiale acustico» dell’opera, dall’altra realizza «la fissazione dell’opera in quanto propria e specifica tradizione orale».80 Tale processo di definizione mnemonica della composizione è testimoniato in vari nastri magnetici (scil.: tracce sonore) che costituiscono il corpus di abbozzi più importante di A floresta, conservati, insieme a tutti gli altri materiali dell’opera, presso la Fondazione Luigi Nono di Venezia. La diretta sperimentazione e manipolazione di ‘situazioni sonore’, realizzata con gli interpreti e sugli interpreti, è ‘scritta’ (incisa) dal compositore direttamente su nastri che affiancano o sostituiscono nel processo di definizione dell’opera appunti e schizzi cartacei. Che questi nastri siano giunti fino a noi (al pari di numerosi altri nastri parziali e preparatori di altre opere dello stesso Nono, di Maderna, di Berio ecc.) è d’altronde un eloquente indizio di scrupolo archivistico: a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il suono — il nastro — diventa un ‘segno’ della memoria, da conservare e rubricare come carta. Ma, sebbene non leggibile, l’opera può dirsi definita in tutti i dettagli e non presenta che in minima parte elementi di indeterminazione e improvvisazione; la sua ‘materia’ è indissolubilmente legata all’interprete (alle pieghe della sua memoria) in una inscindibile coesistenza di testo virtuale e prassi esecutiva. Ed è rilevante che Nono continui a pensare in termini di ‘testo’ pur nella consapevolezza che una qualsiasi veste editoriale, più o meno consueta o tradizionale, non avrebbe senso né pertinenza. Senza particolari rimpianti, egli rinuncia alla stesura di una partitura poiché l’opera, ad ogni modo, esiste anche in assenza di un testo prescritto. Un accettabile sostituto della carta è intravvisto nell’edizione discografica, le cui fasi di produzione e post-produzione sono seguite con cura da Nono al fine di realizzare tramite questo supporto la versione di riferimento in vista di fu78. Cfr. VENIERO RIZZARDI, La partitura di ‘A floresta é jovem e cheja de vida’, in A floresta é jovem e cheja de vida, partitura, Ricordi, Milano 1998 (n. 131241), pp. V–XII (citazione a p. V). 79. Sull’importanza della memoria nel processo di trasmissione dei testi musicali cfr., in questo volume, cap. I, § 3 (Le funzioni della memoria). 80. RIZZARDI, La partitura di ‘A floresta é jovem e cheja de vida’, cit., p. V.
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ture riprese. Ancora a circa venti anni dalla sua ideazione, sollecitato sull’impossibilità di realizzare A floresta a causa della mancanza di una partitura, Nono dichiarerà: «Mi hanno domandato più volte di rifarla, ma ho detto no, perché bisognerebbe scegliere nuovamente delle voci, lavorare per un mese minimo, scoprire nuove possibilità… e preferisco scrivere un’altra opera. Evidentemente questo genere di attitudine non corrisponde del tutto ai bisogni del mercato! Comunque resta un disco e questo basta, anche se offre soltanto il 10% della realtà».81
Sebbene il disco non possa essere assimilato all’equivalente normativo di una partitura, in un caso come quello illustrato la sua funzione diviene comunque prioritaria sia per reinterpretare eventualmente le istruzioni lasciate agli interpreti sia, soprattutto, per ‘ricomporre’ a posteriori una partitura che, come tale, non è mai esistita. In questi casi, l’operazione di riscrittura — operazione per la quale abbozzo cartaceo (schizzi, quaderni degli interpreti ecc.) e sonoro (nastri preparatori e registrazione discografica) convergono e si equivalgono — è giustificata dall’indiscutibile natura di opera musicale compiuta del testo consegnatoci dall’autore. 4.2 Honeyrêves di Bruno Maderna Un caso che ha per oggetto sempre un’incisione discografica, sebbene rimandi ad altre tipologie di ‘difficoltà’, è costituito da un brano per flauto e pianoforte del 1961 di Bruno Maderna, Honeyrêves. Alcune vicende di questa composizione dimostrano come lo studio delle deformazioni apportate sul testo nel tempo può essere applicato anche a brani del repertorio contemporaneo la cui forma testuale è apparentemente integra. > Di Honeyrêves esiste uno spartito edito nel 1963 dalle Edizioni Suvini Zerboni di Milano che, contrariamente alla maggior parte delle partiture maderniane, non riproduce un manoscritto dell’autore ma sembrerebbe essere opera di un copista.82 La genesi di questa composizione per flauto e pianoforte è pressoché contemporanea a quella di Serenata IV (per flauto, strumenti e nastro magnetico) e della «ballata amorosa» Don Perlimplin, opera radiofonica presentata nello stesso 1961 alla XIII edizione del Premio Italia. Per sciogliere il visibile ‘intrico genetico’ che avviluppa queste opere si è dovuto 81. Intervista di Philippe Albéra (1987), in Luigi Nono, Scritti e colloqui, a c. di Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi, Ricordi – LIM, Milano 2001, II, pp. 415–29: 424. 82. BRUNO MADERNA, Honeyrêves, per flauto e pianoforte, spartito, Suvini Zerboni, Milano, © 1963, S5979Z. Questo testo non risulta ancora inserito nel novero dei titoli che formano la collana «Riedizione critica delle opere di Bruno Maderna», promossa dalla casa editrice e diretta da Mario Baroni e Rossana Dalmonte.
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CAPITOLO III necessariamente partire dall’osservazione della condivisione dei medesimi materiali tra le tre composizioni, unico dato certo in una discreta ridda di datazioni e cronologie talora confuse. È infatti stato osservato che «la partitura di Don Perlimplin contiene interamente Honeyrêves (alle pp. 3 e 7–13) anche se con un ordine differente delle sezioni»; o che Serenata IV è «concepito come una sorta di montaggio di sezioni che si ritrovano anche in opere contemporanee, cioè Honeyrêves, Don Perlimplin […]»; e ancora che è «impossibile, e forse non ha neppure molto senso, viste le abitudini compositive di Maderna, cercare di stabilire priorità cronologiche».83 In tale congerie creativa, gli unici dati certi sembrerebbero essere forniti pertanto dall’esistenza di due edizioni pubblicate a distanza di due anni l’una dall’altra — nell’ordine: Don Perlimplin, © 1961,84 seguita da Honeyrêves, © 1963 —, laddove per Serenata IV il compositore non ha lasciato alcuna partitura. Nel 1962 la casa discografica Time Records — istituita a New York nel 1959 e, dal 1960, guidata da Earle Brown — licenziò la prima incisione di Honeyrêves (LP S/8008, stereo, e 58008, mono).85 Questa registrazione, effettuata sotto la diretta supervisione del compositore dai suoi interpreti di fiducia (Severino Gazzelloni e Aloys Kontarsky), tramanda però una versione di Honeyrêves che non è conforme a quanto si legge nella partitura. Nei primi 40" dell’incisione discografica, per esempio, si ascolta una variante di natura squisitamente interpolativa: nella versione tramandata dal disco Gazzelloni apre il brano con il solo riprodotto nei primi tre sistemi dello spartito a stampa di Honeyrêves ma, invece di lasciare il campo al solo del pianoforte in 4/4, prosegue insieme al pianista eseguendo una parte non presente nello spartito ma leggibile, nella sua integrità, nella partitura a stampa del Don Perlimplin (ultimo sistema p. 2 più primo sistema p. 3 della partitura a stampa).86 Solo dopo questa parte a due Kontarsky attacca quindi il suo assolo di sei battute in 4/4, del tutto conforme a quanto si legge negli ultimi tre sistemi della prima pagina dello spartito di Honeyrêves.
83. Cfr. rispettivamente Don Perlimplin, scheda redatta da Francesca Magnani e Tiziano Popoli, in Bruno Maderna, Documenti, cit., pp. 239–42: 241; Serenata IV, scheda redatta da F. Magnani, in ibid., p. 232; e Honeyrêves, scheda redatta da F. Magnani, in ibid., p. 233. 84. BRUNO MADERNA, Don Perlimplin, ovvero il trionfo dell’amore e dell’immaginazione, ballata amorosa di Federico García Lorca, traduzione di Vittorio Bodini, adattamento radiofonico e musica di Bruno Maderna, partitura, Suvini Zerboni, Milano, © 1961, S5810Z (se non altrimenti specificato, in questa sede si rimanda a questa edizione e non alla recente riedizione pubblicata con il numero di lastra S11953Z). 85. Oltre a Honeyrêves, nel disco compaiono Proporzioni di Evangelisti, Sequenza I di Berio, Somaksah di Matsudaira, Gymel di Castiglioni e Le merle noir di Messiaen. L’incisione stereo fu riedita nel 1970 con l’etichetta Mainstream che, dal 1966, aveva rilevato il catalogo della Time Records (LP MS/5014). Per maggiori informazioni sulla Time Records e per l’esatta datazione delle incisioni cfr. DAVID J. HOEK, Documenting the International Avant Garde: Earle Brown and the TimeMainstream Contemporary Sound Series, «Notes», LXI/2 2004, pp. 350–60. 86. Si consideri che questi due sistemi formano inoltre la parte finale di Serenata IV (con la sola variante dell’oboe in luogo del flauto).
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Da cosa stanno leggendo dunque Gazzelloni e Kontarsky? Da una prima versione di Honeyrêves o da un collage montato sulla base di frammenti già composti per il Don Perlimplin (che a sua volta ‘presta’ i medesimi materiali a Serenata IV)? Le risposte a queste domande risolvono come d’incanto la questione (forse peregrina, ma filologicamente importante) relativa alla datazione e alla cronologia genetica delle tre opere.87 Lo studio degli schizzi di Serenata IV (conservati presso la Paul Sacher-Stiftung di Basilea) e l’analisi delle varianti presenti nel disco Time Records permettono di districare con un notevole margine di sicurezza la problematica relativa alla successione cronologica delle tre opere: seppure considerevole, il loro groviglio è permeabile almeno fino al punto di stabilire che Serenata IV è successiva al Don Perlimplin e precedente alla versione definitiva di Honeyrêves.
Tali considerazioni giustificano da sole l’inclusione del testo in vinile tra i testimoni primari in uno studio esegetico su Honeyrêves, laddove le differenze riscontrabili tra la versione incisa e quella a stampa dovrebbero obbligatoriamente essere registrate come varianti d’autore nel caso di una riedizione critica dello spartito. 4.3 Ausstrahlung di Bruno Maderna Nel caso di alcune composizioni miste (per strumenti e nastro) la presenza di una partitura può rivelarsi addirittura fuorviante. L’indiscusso primato della carta ha portato talvolta a leggere e interpretare in modo improprio realtà per le quali la partitura licenziata non riflette che una parte limitata o minima del testo. I casi di Ausstrahlung (1971) e del già citato Don Perlimplin (1961) sono a questo riguardo esemplari. Si tematizzano qui di seguito concisamente alcuni aspetti relativi all’opera del 1971 (il cui organico comprende voce femminile, flauto e oboe obbligati, grande orchestra e nastro magnetico) per affrontare, più oltre, l’esempio del Don Perlimplin, che coinvolge tematiche più specifiche connesse allo statuto della partitura nel caso delle opere radiofoniche. > Di Ausstrahlung è stata licenziata nel 1975 una partitura dalle Edizioni Ricordi; ancora inedito è invece il nastro della prima esecuzione assoluta, realizzata nel
87. Nella recente riedizione del Don Perlimplin (a c. di Sandro Gorli, Suvini Zerboni, Milano, © 2001 [di qui in avanti: Riedizione critica 2001] p. XIII) il curatore afferma cautamente che «è molto difficile stabilire se [Honeyrêves] sia confluita nel Don Perlimplin o se da quest’ultimo sia stata estratta e resa un pezzo autonomo». La versione discografica della Time Records — non contemplata dal curatore tra i materiali consultati per l’edizione dell’opera radiofonica — rende, più che plausibile, del tutto evidente la seconda ipotesi.
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CAPITOLO III 1971 a Persepoli sotto la direzione dello stesso Maderna.88 Il raffronto tra quanto è fissato su questo documento sonoro e i dati contenuti nell’edizione Ricordi evidenzia immediatamente numerose discordanze. È stato per esempio rimarcato che la partitura «è articolata in sette Ausstrahlungen (‘irradiazioni’) numerate progressivamente. È preceduta dalla riproduzione di una nota manoscritta dove assai dettagliatamente Maderna indica un piano esecutivo che è puntualmente rispettato nella esecuzione di Persepoli, ma che non coincide affatto con l’ordinamento numerico sopra citato. Tale piano contiene infatti una duplice serie di ‘infedeltà’ nei confronti della partitura: anzitutto c’è da notare che in esso (e nell’esecuzione che ne deriva) la sequenzialità delle sette sezioni è complessivamente ignorata […]».89 Stando a questa lettura, nell’eseguire la sua opera Maderna sarebbe in un certo senso infedele a se stesso tradendo le sue stesse prescrizioni registrate in partitura. Eppure non deve essere dimenticato che si è alle prese con un’edizione postuma — realizzata a due anni dalla morte del compositore senza una dichiarata responsabilità di curatela 90 — passibile di pecche e lacune di un certo rilievo (in essa mancano infatti le parti solistiche dei due strumentisti, la partitura vocale della cantante e, ancora, i riferimenti alla presenza del nastro magnetico). Un’edizione, quindi, che dei quattro livelli che compongono l’opera (voce, soli, strumenti e nastro) non ne comprende che uno, quello strumentale, laddove il vero testo della composizione — l’unico che ci restituisca un’immagine completa ed esaustiva del brano (e l’unico che potrebbe essere di aiuto allo studioso per realizzare un’edizione realmente performativa) — è da vedersi in questo caso nella registrazione della prima di Persepoli.91 Il caso di Ausstrahlung può essere preso a modello anche per comprovare l’opportunità e l’efficacia di uno studio genetico condotto attraverso l’analisi di quei peculiari «schizzi sonori», menzionati in precedenza, costituiti dalle approssimazioni sperimentali registrate direttamente su nastro o su altro supporto non cartaceo. Il rinvenimento tra i materiali preparatori del compositore di otto diverse bobine, ciascuna delle quali da intendersi come ‘specchio’ di uno
88.
BRUNO MADERNA,
Ausstrahlung, partitura, BMG Ricordi 131908 (© 1975). Il nastro originale della prima esecuzione assoluta di Persepoli è depositato presso la Paul Sacher-Stiftung di Basilea (Sammlung Bruno Maderna, bobina «TS 1084»); una copia della registrazione è disponibile anche presso l’Archivio Bruno Maderna di Bologna. 89. Ausstrahlung, scheda redatta da Francesca Magnani e Tiziano Popoli, in Bruno Maderna, Documenti, cit., pp. 301–3: 301. 90. Nella partitura Ricordi non compare in nessun luogo il nome del curatore; nondimento, in testimonianze documentarie si fa riferimento al contributo fornito per l’edizione dalla vedova del compositore, Beate Christina Maderna, e da Arturo Tamayo. 91. Per maggiori approfondimenti sulle problematiche che accompagnano l’edizione a stampa di Ausstrahlung cfr. ANGELA IDA DE BENEDICTIS, Scrittura e supporti nel Novecento: alcune riflessioni e un esempio (‘Ausstrahlung’ di Bruno Maderna), in La scrittura come rappresentazione del pensiero musicale, a c. di Gianmario Borio, ETS, Pisa 2004, pp. 237–91: 267–84, e ID., ‘Ausstrahlung’ ou la textualité brisée d’un hymne à la vie, in Bruno Maderna, èdités sous la direction de Geneviève Mathon, Laurent Feneyrou et Giordano Ferrari, Basalte, Paris 2007, I, pp. 287–317.
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stadio creativo differente, permette infatti di documentare quale e quanta cura Maderna abbia riposto nella preparazione del nastro stereofonico dell’opera, cura certo non inferiore a quella che si può individuare per la selezione testuale e a quella dedicata alla scrittura (su carta) delle singole Ausstrahlungen.92 Ricostruitone l’ordine, il loro ascolto in successione regala allo studioso un privilegiato quanto raro sguardo d’insieme sul percorso compiuto dal compositore per la definizione del nastro magnetico depositato presso l’editore. Seguendo la successione genetica si va dall’incisione dei singoli materiali concreti (nella fattispecie voci di uomini e donne che in uno Studio di registrazione leggono testi in lingua hindi, persiana o tedesca), alle richieste di espressività nella dizione («Madame, faccia più recitato», «…se tutto fosse schwebend [sospeso]…», «molto bene, ma puoi farlo anche di più; basta che tu capisci la questione del ritmo…»)93 — puntualmente verificabili nella sessione di registrazione successiva —, ai ritocchi e le modifiche che coinvolgono processi di ripartizione dei canali, alla definizione dei riverberi, alla creazione dei loops ecc. Il tutto permette non solo di penetrare nell’accurato processo di definizione dei quattro interventi elettronici che confluiscono nel nastro definitivo ma, nella complessa cornice della realtà mobile dell’opera, di stabilire anche che — diversamente dalle sette Ausstrahlungen che compongono l’edizione cartacea e contrariamente a quanto affermato dai primi resoconti critici che hanno contribuito a creare una storia dell’opera — il loro ordine fissato sul nastro è definitivo e non permutabile.94
4.4 Ritratto di città di Luciano Berio e Bruno Maderna Anche nel caso di pubblicazioni di opere originariamente incise su solo supporto magnetico può essere talora applicato un concetto chiave per la preparazione di un’edizione, quello relativo alla ricostruzione di un archetipo, ossia di un livello che potrebbe anche non coincidere con l’originale, ma che rappresenta l’unica possibilità concreta di avvicinarsi il più possibile ad esso. 95 Un ottimo esempio è a questo proposito fornito da un’opera elettroacustica di Luciano Berio e Bruno Maderna, Ritratto di città, «studio per una rappresenta92. Sette bobine sono conservate presso la Paul Sacher-Stiftung di Basilea; l’ottava è invece archiviata presso il fondo dell’ex Studio di Fonologia della RAI di Milano (cfr. a questo proposito Scrittura e supporti nel Novecento, cit., p. 277n). Il nastro stereo definitivo è depositato presso Casa Ricordi di Milano; una ulteriore copia perfettamente conforme al nastro depositato presso l’editore è inoltre presso la Paul Sacher-Stiftung di Basilea. 93. Le citazioni rimandano a indicazioni verbali di Maderna tratte rispettivamente dalle bobine catalogate come «TS 1032» e «TS 1026» (Paul Sacher-Stiftung di Basilea). 94. Cfr. al contrario quanto affermato in MASSIMO MILA, Maderna musicista europeo, a c. di Ulrich Mosch, Torino, Einaudi 1999 (19731), p. 73, dato ripreso in studi seriori. 95. Cfr. anche vol. I, cap. III, § 2, p. 132.
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zione radiofonica» realizzato nei locali della RAI di Milano alla fine del 1954. La sua prima pubblicazione in supporto digitale (CD), avvenuta nel 2000 all’interno di un volume dedicato agli esordi dello Studio di Fonologia,96 ha presupposto un approfondito processo di collazione tra nastri differenti (di scelta quindi del testo più opportuno come base per l’edizione) che, contro ogni aspettativa, ha condotto a un vero e proprio caso di filologia delle strutture. > La città ritratta in questo atipico documentario radiofonico è quella di Milano, dipinta a tinte oniriche e surreali dall’estensore del testo, Roberto Leydi. L’opera è suddivisibile in tre parti articolate al loro interno in sequenze autonome e potenzialmente modulari. L’azione non è nei fatti ma nelle cose e negli scorci descritti da due voci maschili che, su un evocativo sfondo sonoro, illustrano momenti, luoghi e attività della città, dall’alba al calare delle tenebre (passando per il silenzio che avvolge il mattino, il risveglio, la nebbia, l’operare monotono e ripetitivo di un ragioniere, l’alienazione urbana, il Duomo, la stazione, i navigli, le morti segrete, la notte e, con questa, di nuovo al silenzio).97 Lo schema strutturale della versione definitiva dell’opera è nondimeno differente da quello riscontrabile in due ulteriori versioni di Ritratto di città, entrambe compiute, rinvenute nel fondo sonoro di Bruno Maderna depositato presso la Paul Sacher-Stiftung di Basilea.98 A livello macroformale il documentario radiofonico può essere suddiviso in tre macrosezioni (della durata di 10' circa ciascuna nella versione definitiva) che operano una sorta di tripartizione nel quotidiano cittadino distinguendo tra il risveglio, le consuete attività quotidiane e l’itinerario vespertino. Il confronto tra la versione definitiva e le due ulteriori elaborazioni conservate nel fondo sonoro di Maderna rivela come sia l’equilibrio temporale della struttura tripartita, sia l’articolazione interna delle singole sequenze siano stati attentamente vagliati dai due compositori nonostante le condizioni di urgenza che hanno accompagnato la preparazione dell’opera. Rispetto ai 29'03" dell’opera definitiva, le durate delle altre due bobine sono sensibilmente maggiori: 31'22" per la prima versione (sottoposta in seguito a vari tagli testuali), 30'50" per quella intermedia. Entrambe le due bobine precedenti alla definitiva — o meglio, a quella reputata come tale — rivelano inoltre un differente ordinamento delle sequenze interne al blocco centrale. L’assetto definitivo di questa sezione — in cui sono contrapposte l’attività lavorativa e quella spirituale — è caratterizzato da un perfetto equilibrio tra testo e musica elettro96. Nuova Musica alla Radio. Esperienze allo Studio di Fonologia della RAI di Milano 1954–1959, cit. 97. Cfr. anche lo schema strutturale dell’opera in DE BENEDICTIS, Il suono oltre il segno: la carta, i limiti e gli inganni, cit., p. 62. 98. Bobine catalogate provvisoriamente come «TS 1050» e «TS 1031». Si segnala che presso l’archivio dello Studio di Fonologia della RAI di Milano esiste, oltre alla versione definitiva edita nel volume menzionato a n. 96, una ulteriore bobina incompleta dell’opera (catalogata come «Fon. 22») in cui le sole due varianti testuali che la differenziano dalla versione definitiva concordano invece con parti presenti nella bobina «TS 1050».
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nica, con momenti di silenzio più o meno brevi che ne scandiscono la suddivisione interna. Tale simmetria è assente dall’iniziale assetto fissato nelle due bobine depositate presso la Paul Sacher Stiftung, in cui gli elementi interni a queste sequenze centrali sono interpolati altrimenti in un equilibrio sostanzialmente diverso che riconnota e dona differente significato ai medesimi scorci temporali e urbani. Così come nella prassi scrittoria, anche in questi casi la rilettura e la trascrizione del testo (realizzate attraverso le successive operazioni di copiatura del nastro) hanno suggerito e/o dato corso a nuovi cambiamenti.
4.5 Don Perlimplin di Bruno Maderna Don Perlimplin (1961) rappresenta per Bruno Maderna al contempo la prima produzione radiodrammatica ‘d’arte’ e il suo debutto in una dimensione scenica, benché immaginaria. Proprio a causa della sua natura radiofonica, per lo studio di una simile opera può rivelarsi infruttuoso se non inopportuno operare nella cornice di una mentalità ‘cartocentrica’. Come la maggior parte delle creazioni realizzate e concepite appositamente per il mezzo radiofonico, anche il Don Perlimplin dovrebbe infatti a buon diritto essere annoverata tra quelle opere la cui forma ultima e compiuta risulta scritta su supporto magnetico. Per la sua implicita natura, essa dovrebbe essere ‘tramandata’ nel suo assetto autoriale in forma esclusivamente acustica anche se, di fatto, per la sua realizzazione Maderna sentì il bisogno di produrre una ‘partitura’ che, nello stesso 1961, fu pubblicata dalle edizioni Suvini Zerboni.99 Per quanto definita nella maggioranza dei parametri, anche questa, come quasi tutte le ‘partiture’ di radiodrammi o radioopere, è da intendersi come canovaccio o copione di regia per il montaggio e la realizzazione dell’opera, piuttosto che come base performativa ‘chiusa’ e completa in tutte le sue parti. Concetti quali definitività, stabilità e restituzione del testo — e, ancor più, quello di (ri)edizione cartacea — possono talora confliggere apertamente con la natura di queste particolari fonti. Per un’opera radiofonica solitamente il testo definitivo è costituito dalla versione registrata sul nastro destinato alla riproduzione: per le sue caratteristiche di realizzazione, e poiché tutte le operazioni permesse dalle attrezzature elettroniche e radiofoniche sono parte integrante dell’opera, il prodotto artistico finale è da vedersi nel tutto formato da testo, musica e tecnologia. Le operazioni di manipolazione del suono costituiscono, in simili opere, un parametro non visualizzabile con la scrittura tradizionale; di questo si deve tener conto soprattutto 99. Cfr. nota 84.
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nell’eventualità che lo stesso compositore abbia approntato una partitura o, meglio, una guida per la realizzazione sonora dell’opera — spesso destinata anche a finalità pratiche ed economiche (cessione dei diritti a una casa editrice, deposito presso la SIAE100 ecc.). > Non sempre le (rare) operazioni editoriali relative a questa produzione radiofonica risultano semplici e, spesso, esse aprono a problematiche di importanza e complessità notevoli. Nella riedizione critica del Don Perlimplin approntata nel 2001, il curatore ha scelto per esempio di eliminare in alcuni luoghi della partitura la parola «montaggio» — presente a più riprese nell’edizione originale del 1961 (e rivelatrice del lavoro da svolgere in Studio) —, sostituendola con l’indicazione «[gli strumenti] improvvisano su materiali». Talché una dicitura quale «Musica — (Violini, Viola, Pianoforte, Chitarra elettrica, Mandolino, Arpa) — Montaggio tratto dalle pagine 5, 6 e 14» (partitura 1961, p. 21) si trasforma tacitamente in: «Improvvisazione: Violini, Viola, Pianoforte, Chitarra elettrica, Mandolino, Arpa improvvisano su materiali tratti dalle pagine 5, 6 e 14».101 All’ascolto del nastro definitivo del Don Perlimplin (tuttora inedito e conservato presso la RAI) si evidenziano inoltre differenze sostanziali rispetto ad alcuni luoghi della partitura, frutto di decisioni prese in itinere, che solo incorrendo in un errore di prospettiva possono essere interpretabili in nome di una presunta natura ‘aperta’ dell’opera.102 Come precisa lo stesso Maderna, il Don Perlimplin è «un’opera concepita e realizzata specificamente per la Radio», elaborata in uno Studio, quello di Fonologia, dove «le singole piste sono state ricopiate ed accuratamente elaborate con l’aggiunta di filtri, echi, interpolazioni di parti del testo recitato» ecc. 103 Nono100. Si consideri che al 1961 la normativa sul deposito delle opere registrate su nastro (elettroniche) non era ancora né chiara né condivisa dalle varie società europee nate a tutela del diritto d’autore. In Italia la SIAE ritenne per la prima volta di accettare depositi di registrazioni magnetiche nel 1957 e ne dette pronta informazione al direttore dello Studio elettronico della RAI di Milano, Luciano Berio. Nella lettera di notifica inviata al compositore dal direttore della SIAE si legge però che «non tutte le Società di autori hanno ritenuto, per adesso, di dover includere nel repertorio da esse tutelato le opere di musica elettronica» (lettera dell’11 settembre 1957, inedita, depositata presso l’Archivio dell’ex Studio di Fonologia della RAI di Milano). La mancanza di una norma comune — con le sue potenziali ripercussioni sugli introiti per gli autori — ha condizionato la forma di deposito delle opere elettroniche almeno fino alla prima metà degli anni Sessanta. 101. Cfr. Riedizione critica 2001, p. 25. 102. Che il nastro del Don Perlimplin possa essere interpretato quale una tra le realizzazioni possibili di una composizione condizionata dalle tematiche dell’indeterminazione o dell’opera aperta (cfr. per esempio Riedizione critica 2001, p. VIII) è una supposizione che andrebbe ponderata meditando maggiormente sulle peculiarità di un’opera radiofonica. Oltre a una confusione tra apertura creativa e performativa che sembra celarsi dietro questa interpretazione, ci si dovrebbe anche chiedere come e se un’opera destinata alla trasmissione radiofonica (di questo particolare genere) possa essere ‘aperta’. 103. Citazioni tratte da una nota manoscritta di Bruno Maderna, riprodotta integralmente in ANGELA IDA DE BENEDICTIS, Radiodramma e arte radiofonica. Storia e funzioni della musica per radio, EDT – De Sono, Torino 2004, pp. 256–7 (manoscritto rinvenuto presso la Paul Sacher-Stiftung di Basilea).
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stante queste premesse, ancora una volta le ‘differenze’ tra traccia scritta e quanto registrato su nastro dallo stesso autore sono state interpretate quasi come licenze o libertà prese da Maderna nei confronti di una partitura la cui natura performativa, giova ripeterlo, è invero assai discutibile.104 L’esistenza di una partitura manoscritta (di cui forse si è sottovalutata la natura anche ‘funzionale’ a un deposito presso editore e SIAE nonché alla preparazione del nastro) ha inoltre implicitamente giustificato l’approntamento di una riedizione di un’opera il cui statuto testuale e la cui identità restano tuttavia indissolubilmente legati a un nastro che rappresenta al contempo la versione d’autore e il supporto performativo e riproducibile. Ci si potrebbe allora chiedere se, nella fattispecie, tali operazioni editoriali non ci consegnino una «nuova versione» dell’opera, una base per nuove re-interpretazioni non priva certo di meriti e interesse, ma di cui non devono passare inosservati e taciuti né la mutazione di destinazione (che porta un’opera radiofonica a trasformarsi sic et simpliciter in un’opera teatrale o da camera), né il suo essere altro rispetto all’opera compiuta e realizzata da Maderna.105 Tra i numerosi e fin troppo perspicui esempi tematizzabili in merito alle ‘lacune’ della partitura del Don Perlimplin — tipiche di una base squisitamente operativa —, se ne sceglie qui soltanto uno che coinvolge un aspetto tra i più studiati e ponderati da Maderna in sede di registrazione dell’opera, quello della disposizione stereofonica delle voci e dei suoni. Nel nastro messo a punto dal compositore (realizzato a partire da una registrazione multipista),106 la ripartizione dei canali sx, sx-dx e dx segue così da presso l’evoluzione dell’intreccio da 104. Cfr. per esempio scheda del Don Perlimplin in Documenti, cit., p. 240 («Se confrontate con il montaggio registrato che Maderna preparò per il Premio Italia [ossia il nastro definitivo dell’opera, NdA], molte delle indicazioni della partitura risultano disattese. Indichiamo qui alcuni esempi vistosi di tale infedeltà […]»). O, ancora, è curioso leggere nelle note del curatore alla recente edizione del Don Perlimplin che la partitura riporta «indicazioni più somiglianti a veloci appunti che ad esaurienti spiegazioni su ciò che era stato fatto» (Riedizione critica 2001, p. VIII): mutando il punto di osservazione, si potrebbe affermare che proprio di appunti si tratta, forse propedeutici a qualcosa ancora da fare. 105. Occorre forse nuovamente sottolineare che il Don Perlimplin nasce come opera radiofonica e che come tale è circolata durante la vita del compositore, il quale non ha mai considerato né l’eventualità di rifacimenti sulle scene teatrali, né la possibilità di una sua nuova registrazione: come è possibile dedurre anche da fonti documentarie, per Maderna l’opera era il nastro realizzato presso lo Studio di Fonologia. Pertanto, l’osservazione che «Il compositore non si è curato di conservarli [i nastri intermedi] in modo da permettere una seconda esecuzione della partitura» (Riedizione critica 2001, p. VII) potrebbe forse più fondatamente convertirsi nel dubbio che Maderna, semplicemente, non abbia reputato necessaria una «seconda esecuzione della partitura». Il primo rifacimento del Don Perlimplin (realizzato dopo la morte dell’autore e autorizzato non da indicazioni verbali o documentarie ma dalla sola esistenza della partitura) risale all’8 novembre 1975, a Colonia, in versione tedesca. 106. «La ripresa sonora è stata realizzata con un magnetofono a 4 piste in modo da permettere la più chiaramente percettibile separazione degli strumenti […]. Nello Studio di Fonologia della RAI (Sede di Milano) le singole piste sono state ricopiate ed accuratamente elaborate […]» (Bruno Maderna, nota manoscritta per il Don Perlimplin, cit., cfr. n. 103).
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CAPITOLO III poter parlare di un vero e proprio esempio di «drammaturgia stereofonica»: la ‘voce’ del protagonista — interpretato da un flauto — è sempre collocata sul canale dx; Marcolfa, la governante che condiziona e determina le sue mosse dominando sul suo intero spazio vitale è, naturalmente, a sx+dx; essa è collocata sul solo canale dx (quello del padrone) allorquando parla sottovoce e, per rendere immediatamente riconoscibili i singoli ruoli e il gioco delle parti, durante il dialogo con Don Perlimplin e la futura suocera di lui (interpretata da un quartetto di sassofoni); Belisa, la promessa sposa, così come sua madre, sono sul canale sx ma, dopo il matrimonio, la giovane passerà a dx, sul canale del marito (con la musica, però, che continua a contrappuntare e rivelare i suoi veri pensieri dimorando a sx). L’intermezzo dei due folletti, incastonato a circa metà dell’opera, è una sorta di compendio delle tecniche di missaggio stereofonico tra sx-dx a diffusione mono e bicanale, con passaggi da solo sx a solo dx a sx+dx, e la triplicazione dei livelli in stereofonia raggiunta con l’inclusione dei suoni elettronici nel loro dialogo. La Canzone di Belisa, «Sulle rive del fiume», raffinato esempio di montaggio a canone della stessa voce, oltre alla perizia tecnica rivela una più ampia dimensione drammatica allorché la si ascolta nell’originale maderniano, con la prima parte a solo disposta sul canale sx (ossia, sul lato dello spensierato periodo prematrimoniale, del ricordo) e la replica in eco delle parti II e III a dx, a mo’ di monito della nuova angusta situazione. Nella pubblicistica dedicata al Don Perlimplin (basata pressoché esclusivamente sulla lettura della partitura o sull’ascolto della versione edita dalla Stradivarius nel 1996), è omesso qualsivoglia accenno a questa fondamentale dimensione stereofonica della ballata radiofonica maderniana. Lacuna parzialmente comprensibile, se si considera che l’accesso al nastro originale è difficoltoso (benché possibile) e che nella partitura non v’è alcuna indicazione in merito alla disposizione stereo dei ruoli. Né potrebbe d’altronde esserci, poiché questa, insieme a tutte le ulteriori operazioni di montaggio, i missaggi, le interpolazioni con altri brani e altro ancora, era tra gli artifici realizzati, com’è naturale, direttamente in Studio.