26. IO-SONO LA PORTA, IO-SONO IL PASTORE. 10,1 – 21 10,1
Amen, amen vi dico: chi non entra per la porta nel recinto delle pecore, ma sale da un’altra parte, costui è ladro e brigante.
2
Chi invece entra per la porta è pastore delle pecore.
3
A lui il portiere apre e le pecore ascoltano la sua voce e chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.
4
Quando ha espulso tutte le proprie (pecore), cammina davanti a loro; e lo pecore lo seguono, perché riconoscono la sua voce.
5
Un estraneo invece non seguiranno, ma fuggiranno da lui, perché non riconoscono la voce degli estranei.
6
Questa similitudine disse loro Gesù; ma quelli non capirono cosa fosse ciò che diceva loro.
7
Allora disse di nuovo Gesù: Amen, amen vi dico: Io-Sono la porta delle pecore.
8
Tutti quelli che vennero prima di me, ladri sono e briganti; ma le pecore non li ascoltarono.
9
Io-Sono la porta:
se uno entra attraverso di me, sarà salvo ed entrerà ed uscirà e troverà pascolo. 10
Il ladro non viene se non per rubare, immolare e distruggere. Io venni perché abbiano vita e l’abbiano in abbondanza.
11
Io-Sono il pastore bello: il pastore bello espone la sua vita a favore delle pecore.
12
Il mercenario e chi non è pastore, al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo e abbandona le pecore e fugge; e il lupo le rapisce e disperde,
13
perché è mercenario e non gli interessa delle pecore.
14
Io-Sono il pastore bello e conosco le mie e le mie conoscono me,
15
come il Padre conosce me e anch’io conosco il Padre; e dispongo la mia vita a favore delle pecore.
16
Anche altre pecore ho che non sono di questo recinto: anche quelle bisogna che io conduca; e ascolteranno la mia voce
e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17
Per questo il Padre mi ama, perché io depongo la mia vita per prenderla di nuovo.
18
Nessuno la toglie da me, ma io la depongo da me stesso: ho il potere di deporla e ho il potere di prenderla di nuovo. Questo comando ho preso dal Padre mio.
19
Ci fu di nuovo una divisione tra i giudei a causa di queste parole.
20
Ora dicevano molti di loro: Ha un demonio e delira. Perché lo ascoltate?
21
Altri dicevano: Queste parole non sono di un indemoniato: può forse un demonio aprire occhi di ciechi?
1. Messaggio nel contesto “Io-Sono la porta, Io-Sono il pastore”, dice Gesù a quei farisei ciechi (9,40s) che pretendono di essere le guide del popolo. Si rivolge a loro per illuminarli sulla loro cecità, facendo vedere la bruttezza di ciò che seguono e fanno seguire. Egli si proclama la porta attraverso cui si entra nella vita, il pastore che conduce verso la libertà. È infatti il Figlio, venuto a condurre i fratelli fuori dalle tenebre e dalla morte. I farisei, che stanno davanti a lui dopo la guarigione del cieco nato, sono falsi pastori, che opprimono e sfruttano il gregge dei loro fedeli, perseguitando chi è uscito dal loro controllo. A noi oggi non piace l’immagine dell’“uomo pecora” che segua un pastore. A differenza dell’animale, programmato dall’istinto, l’uomo è libero. Non necessitato dai propri bisogni, è mosso dal desiderio di ciò che ritiene essere meglio per lui. Di sua natura l’uomo è cultura, aperto a un cammino e un progresso sempre maggiori. Ma la cultura nasce e cresce secondo degli ideali che si
propongono, o impongono, da imitare: è un’imitazione dei desideri dell’altro. Oggi, coi massmedia, questo meccanismo, ancor più oleato ed efficiente, lascia spazi sempre minori alla libertà. I nostri modelli culturali, incarnati da persone concrete che li rappresentano, sono i pastori, i capi che seguiamo. Il modello è da seguire e raggiungere, eventualmente da superare, in un crescendo di competizione e rivalità, prima con gli altri e poi con il capo stesso. Si tratta di una sudditanza inquieta che genera lotta e violenza, tenuta a bada da regole, perché non ci si distrugga a vicenda. La legge è dettata dal più forte, che si impone perché può eliminare chi si oppone. Il risultato è che siamo sudditi del modello-pastore vincente, che è sempre quello in grado esercitare maggiore violenza. Chi si ribella è perdente, emarginato o ucciso, a meno che sia tanto forte da prenderne il posto. È la legge della giungla: l’uomo è un lupo per l’altro uomo e domina chi può nuocere di più, a spese dell’innocente (cf. Gdc 9,7-15). Di questo sistema oppressivo non si accorge chi sta in alto, ma chi sta in basso e ne fa le spese. La violenza è un coltello: chi sta dalla parte del manico, non sente alcun male, a differenza di chi sta dalla parte della lama. Ma anche questi pensa di essere felice se riesce a impugnare il manico. Ne nasce un mondo di carnefici e vittime, nel quale giochiamo tutti al medesimo gioco: seguiamo ciecamente lo stesso pastore, che presto o tardi ci beffa tutti. In questo modo la violenza aumenta e aumenterà a dismisura, fino a quando le spade non si trasformeranno in vomeri e le lance in falci (Is 2,4). Ciò è possibile nella storia dell’umanità quando anche i potenti si scoprono vulnerabili come tutti; allora anch’essi “conoscono l’affanno dei mortali”, perché “sono colpiti come gli altri” (Sal 73,5). In questo modo cade la maschera che li inganna e possono scoprire quanto è indesiderabile e brutto ciò che ritengono bello e desiderabile. Ma, fino a quando non si sperimenta sulla propria pelle quanto sia male ciò cui si aspira come a sommo bene, tutto continuerà come prima: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”; suo pastore è la morte: è condotto agli inferi, dove prima ha condotto gli altri (cf. Sal 49,13.15.21). Chissà che ciò non avvenga presto, costatando quanto è debole l’onnipotenza della tecnologia: è un colosso dai piedi d’argilla, tanto affascinante e tremendo quanto fragile (cf. Dn 2,31-35). Forse oggi, per la prima volta nella storia, se apriamo gli occhi e superiamo il complesso dello spettatore, televisivo o meno, vediamo che è vero quanto dice Gesù a proposito dei galilei trucidati da Pilato e del crollo della torre di Siloe: “Se non vi convertite, tutti allo stesso modo perirete ” (Lc 13,3.5). Gesù propone un modello alternativo, che fa uscire da questo gioco di morte: offre all’uomo di realizzare la sua umanità, chiamandolo a diventare come Dio. Propone infatti di imitare non i desideri dell’altro – con i conflitti che ne derivano –, bensì quelli del Padre, che non è rivale di nessuno, ma principio di vita e libertà per tutti. Facendo come lui diventiamo figli, adulti e uguali a lui, come da sempre abbiamo desiderato. L’inganno originario è stato quello di pensare Dio come
nostro antagonista e di averlo preso come modello, rendendoci impossibile la vita. Come può vivere uno, se gli è contro suo padre? Sarà contro di lui, contro di sé e contro gli altri, diventando simile al padre che detesta. Gesù si presenta come il Figlio che conosce l’amore del Padre e ha i suoi stessi desideri: comunicare vita e libertà ai fratelli. Per questo si propone come il pastore “bello”, vero, in contrapposizione al pastore brutto e falso, del quale siamo succubi. Seguendo lui, diventiamo ciò che siamo: figli del Padre e fratelli tra di noi. Solo così usciamo dalla tenebra e veniamo alla luce della verità, che ci rende liberi. A una cultura di competitività, rivalità e violenza, subentra una cultura di fraternità, solidarietà e amore. Finalmente una vita bella, vivibile, “da Dio”: felicità e grazia ci saranno compagne tutti i giorni della nostra vita e abiteremo nella casa dei nostri desideri (cf. Sal 23). Gesù pastore ci libera dal “brigantaggio” che governa i nostri rapporti, con il dominio del più violento di turno. In realtà colui che prendiamo come modello non è che un pastore di morte, la cui fine è scontata sin dall’inizio: è la vittima designata dal gioco stesso che sta giocando, quando arriva un bandito più nocivo di lui. Se nel c. 9 si parlava di luce che apre gli occhi su una realtà nuova, quella del Figlio, ora si parla del pastore-modello che guida verso un nuovo tipo di vita. L’accostamento è suggerito anche dal libro di Enoch (composto prima del 164 a. C.), che presenta la storia di Israele come quella di un gregge alle prese con i lupi: purtroppo i montoni alla guida del gregge sono ciechi, sino a quando viene il pastore che ridà loro la vista. “Vedere” la realtà è necessario per vivere senza farsi troppo male. Per salire rapidamente una scala al buio, non è bene spiccare un poderoso balzo verso la rampa che scende! Il discorso di Gesù è una polemica con i capi del popolo, che per l’ex cieco non sono più il modello da seguire. Gesù qui mostra la diversità tra il suo ed il loro modo di agire: lui libera, dà luce e vita, essi invece opprimono, depredano e tengono schiavo il gregge. Sullo sfondo del discorso c’è un’immagine familiare in Palestina. Il rapporto particolare che c’è tra gregge e pastore è figura di quello tra re e popolo, simile a quello tra Dio e i suoi fedeli. È l’antica figura del re pastore, di Dio stesso come pastore (cf. Sal 23; Is 40,11). Abramo e i patriarchi erano pastori; Mosè, Giosuè e Davide sono chiamati pastori del popolo, guidato da loro in nome di Dio. La vita del pastore dipende dalle sue pecore e quella delle pecore dal loro pastore. Senza di lui esse sono in balia di fiere e predoni, senza alcuno che le conduca ai pascoli e alle acque. I profeti hanno parlato spesso dei capi del popolo come di pastori cattivi e infedeli. Sono dei lupi, che usano i noti metodi della favola sul lupo e l’agnello. La promessa dei profeti mantiene viva
l’attesa di veri pastori, anzi di Dio stesso come pastore (cf. Ger 23,1-6; Zc 11,4-17; Ez 34,1ss; Sal 23). Gesù si presenta come il vero pastore, che conosce e fa il suo lavoro in favore delle pecore: mentre gli altri le fanno morire, lui dà loro la vita, la sua stessa vita di Figlio. Il discorso si presenta come una progressiva rivelazione di Gesù e della sua opera di Figlio per i fratelli. Si può articolare il testo in due parti diseguali, ognuna delle quali contiene le parole di Gesù e le reazioni di chi ascolta. La prima parte (vv. 1-6) è un racconto simbolico, in cui si contrappone il pastore e il ladro. Il primo entra dalla porta, riconosciuto dal guardiano e dalle pecore che conoscono la sua voce; le chiama per nome, le “espelle” dal recinto e cammina davanti ad esse, che lo seguono. Il secondo evita la porta e sale da un’altra parte; ma le pecore non riconoscono la sua voce e non lo seguono, anzi, fuggono da lui. Si sottolinea che gli ascoltatori non capiscono. Infatti sono ciechi che credono di vedere (9,41); neppure ammettono che ci sia altro modo di agire rispetto al loro. Per chi invece, come il cieco nato, è illuminato, il racconto è chiaro. Nel recinto le pecore sono custodite di notte. Con Gesù, luce del mondo (8,12), è venuto il giorno (cf. 11,9s). Di giorno le pecore restano nell’ovile per essere munte e tosate, vendute o macellate; comunque languiscono e muoiono di fame e di sete. In altre parole: i capi tengono il popolo al chiuso, spogliato dei suoi beni e ucciso nella sua libertà. Si comportano da briganti, non da rappresentanti dell’unico pastore. Hanno ridotto il tempio stesso a luogo di mercato (cf. 2,16). Gesù, il pastore vero, è venuto a salvare i fratelli da questa schiavitù, dando inizio ad un nuovo esodo; li “espelle” dal recinto del tempio e, camminando innanzi a loro, come JHWH nel primo esodo, li conduce ai pascoli della vita. L’azione dei capi, che hanno “espulso” il cieco guarito (9,34), diventa, per ironia divina, la stessa del Signore che “espelle” le “sue” pecore fuori dalle loro mani. Quest’espulsione è un atto di nascita, come quello di Israele dall’Egitto. C’è un’orribile schiavitù, la peggiore, che è quella ideologica e religiosa (probabilmente è la stessa cosa, che cambia solo abito). Ogni religione e ideologia che non rispetta l’uomo, perfino nella sua libertà di sbagliare, è anche contro Dio, soprattutto quando lo fa in suo nome. In ogni dialogo religioso la vera domanda teologica da porsi è “antropologica”: mortifica o vivifica l’uomo? Il rispetto che si ha per l’uomo corrisponde alla verità o meno dell’immagine che si ha di Dio. Infatti accettare Dio, l’Altro, significa in concreto accettare l’alterità di ogni altro. In nome di Dio quali intolleranze e abomini contro l’umanità, soprattutto contro la donna che, in una cultura maschilista, è il primo “altro”, rimosso e negato! Maschio e femmina sono l’alterità originaria. Negarla è togliere all’uomo la sua l’immagine e somiglianza con Dio (Gen 1,27).
Più che l’ateismo, forma antidolatrica di derivazione ebraico-cristiana, oggi il problema è quale Dio si propone: uno che è principio di ogni alterità nell’amore, oppure uno che fagocita ogni altro e riduce tutto a nulla? Giustamente è stato osservato un forte legame, anzi una specularità perfetta, che genera una “guerra santa” bilaterale, tra il “Mac-Mondo” della globalizzazione e il fondamentalismo religioso. Rende davvero un cattivo servizio a Dio e all’uomo chi pensa che Dio e l’uomo siano come pensa lui! Nella seconda parte (vv. 7-22), Gesù passa a un discorso in prima persona, dicendo: “IoSono la porta, Io-Sono il pastore bello”. Rivela progressivamente la sua identità, sempre in contrapposizione ai capi, che sono ladri, predoni e mercenari. Gesù è “la porta delle pecore”: attraverso di lui si accede ai pascoli della vita. In altre parole: ci fa uscire dalla schiavitù della legge alla libertà del Figlio (vv. 7-10). Ci dona infatti la sua vita stessa vita di Figlio, rendendoci partecipi del suo rapporto di conoscenza e di amore con il Padre (vv. 11-15). Ma il Figlio non è pastore solo di Israele : è il salvatore del mondo (4,42). Il Signore non vuole fare un unico recinto in cui chiudere tutti come schiavi. Vuole invece tirar fuori gli uomini da ogni ovile per fare di tutti un popolo libero, abbattendo ogni steccato e inimicizia (cf. Ef 1,3ss; 2,1418). Come Israele, così anche gli altri uomini saranno da lui portati alla libertà. Il nuovo popolo è composto da persone libere, al di là di ogni recinzione religiosa e culturale (v. 16). Il Padre ama Gesù, perché è il Figlio che fa dono della sua vita ai fratelli. Questo è il potere, libero e liberante, del Figlio, “il comando” ricevuto dal Padre (vv. 17-18): quello dell’amore. Davanti alla sua rivelazione c’è, come sempre, una duplice reazione: gli uni lo dichiarano pazzo delirante, gli altri lo difendono come uno che apre gli occhi ai ciechi (vv. 19-21). È la duplice reazione che avviene anche tra noi e dentro di noi che ascoltiamo. In questo capitolo la Parola vuol operare, nei capi che ascoltano e in noi che leggiamo, la stessa illuminazione del cieco: intende cambiare il falso modello di uomo che ci tiene schiavi della menzogna e della morte. Gesù è pastore in quanto “agnello di Dio”, che con la sua mitezza vince la violenza dei fratelli. Egli ci libera dai capi che ci tiranneggiano, e per di più con il nostro consenso. Infatti seguiamo tutti il loro falso modello e ci riconosciamo in loro, invece di considerarli come dei malati di cui avere cura. Con lui cessa il sistema di violenza che, da Adamo e Caino in poi, ha regolato il nostro rapporto con il Padre e i fratelli: inizia il nuovo esodo, verso la libertà del Figlio, che ama come è amato. La Chiesa non prende come modello da imitare i vari pastori che schiavizzano l’uomo con il potere e la violenza. Segue il pastore bello, che non conosce altro potere che quello di servire, altra
violenza che quella di amare, altra ricchezza che quella di donare, altra vittoria che quella di perdonare. La neutralità che la chiesa dimostra nei vari conflitti, e giustamente quando non si tratta di prendere le difese del povero, deve venire solo da qui e non da palesi o occulti opportunismi. 2. Lettura del testo v. 1: Amen, amen. Sono parole di rivelazione, con autorità divina. vi dico. Gesù si rivolge ai farisei, pastori ciechi (cf. 9,39-41), per illuminarli. chi non entra per la porta nel recinto delle pecore. Nella Bibbia la parola “recinto” (in greco: aulé) non indica l’ovile, ma il cortile, in genere del tempio o della tenda del convegno. Le pecore sono il popolo di Dio, tradizionalmente designato come “suo gregge”. Abbiamo già trovato le pecore destinate al sacrificio, che Gesù espelle dalla casa del Padre suo insieme ai buoi (2,14ss). Con esse si identifica pure il popolo di oppressi che giacciono nelle vicinanze della porta “Pecoraia”, da dove entravano le pecore per essere immolate nel tempio (5,2). Le pecore nel recinto stanno di notte. Quando viene il giorno, arriva il pastore, che le conduce fuori al pascolo, altrimenti muoiono di inedia. Gesù rimprovera i capi del popolo, che gli stanno dinanzi, di non essere pastori: non entrano dalla porta. Come il serpente nel giardino, entrano subdolamente, aggirando e raggirando l’intelligenza e la libertà, che sono la porta dell’uomo verso Dio. Il loro potere sul popolo è abusivo. Non rappresentano Dio: ne hanno usurpato il posto e fanno il contrario di lui. costui è ladro e brigante. I capi del popolo hanno rubato a Dio il suo gregge: sono ladri. E sono briganti: opprimono ed esercitano violenza. Ladro è Giuda, che si appropria di ciò che appartiene a tutti (12,6). Brigante è Barabba, che voleva vincere con la violenza (18,40; cf. Mc 14,7p). In realtà è un brigante fallito, perché non abbastanza potente da vincere chi ha il potere: è un bandito diventato vittima, perché non è riuscito a prendere il posto del capo, facendolo sua vittima. Il modello che regge la società è quello del “ladro/brigante”, impersonato dai capi. Gesù, con il “suo” fango posto innanzi agli occhi del cieco, ha proposto un nuovo modello di uomo, a immagine di Dio: non ruba ma dona, non opprime né uccide ma dà libertà e vita. v. 2: chi invece entra per la porta è pastore delle pecore. Il pastore, a differenza dei ladri e dei briganti, entra per la porta, perché è di casa. Ai capi Gesù oppone se stesso come pastore legittimo e unico: il pastore è il Signore stesso (cf. Ez 34,11ss) e il suo Messia (Ez 34,23), che prende il suo posto, usurpato dai falsi pastori. La sua opera di liberazione consiste nell’illuminarci: ci fa vedere la realtà, mostrando quanto sono falsi i modelli di vita che ciecamente seguiamo.
v. 3: a lui il portiere apre. L’immagine significa che il pastore è riconosciuto come tale. Ogni uomo riconosce ed apre il suo cuore alla libertà, all’amore e alla vita, che sa ben distinguere dalla schiavitù, dall’egoismo e dalla morte. le pecore ascoltano la sua voce. Il popolo oppresso riconosce chi gli propone una via di uscita. L’ex cieco, che ha ascoltato il pastore, è stato espulso dal tempio ed è venuto alla luce. Anche Lazzaro udrà la sua voce e uscirà dalla tomba (11,43s). Il popolo, in quanto oppresso, è sensibile alla voce della libertà: quando si fa udire, la ascolta volentieri. Il modello dell’oppressore gli è sempre come un paio di scarpe troppo strette, prese incautamente a prestito. chiama le proprie pecore per nome. Per ladri e briganti le vittime non hanno né volto né nome: è una massa anonima da soggiogare e spogliare. Se pensassero di aver davanti persone come loro, agirebbero diversamente. Il che può avvenire, eventualmente, quando capita loro, presto o tardi, di subire la stessa sorte. Per il pastore, invece, ogni pecora ha il suo nome: chiama ciascuna per nome, in un rapporto personale di amicizia. I pastori di Palestina, ai tempi di Gesù, davano il nome alle pecore, come i nostri contadini lo davano alle mucche e noi oggi ai cani. le conduce fuori. Quando viene la luce, il pastore conduce le pecore fuori dal recinto. Gesù luce del mondo, porta il popolo fuori dal recinto della legge e del tempio, per farlo camminare alla sua luce. v. 4: quando ha espulso tutte le proprie (pecore). “Espellere” è ciò che hanno fatto i capi con l’ex cieco (9,34.35) e con quanti hanno accolto il Messia (9,22; 15,21). Gesù assume come propria l’azione dei ladri/briganti e la capovolge: l’espulsione dell’ex cieco da parte delle tenebre diventa la sua stessa azione che lo fa venire alla luce. L’ex cieco è il prototipo delle pecore che hanno raggiunto la libertà, il primogenito dei molti fratelli che seguiranno. Giovanni è ebreo, come la sua comunità. Vive il dramma dell’espulsione dei cristiani dal popolo eletto e lo interpreta alla luce della croce di Gesù. Essa rappresenta il sommo male, il peggiore che possa capitare; eppure il Signore ne ha fatto la salvezza per tutti, giudei compresi. Questi stanno tanto a cuore all’evangelista, che indirizza il c.10 ai loro capi religiosi, perché riconoscano il pastore promesso. Solo in questa luce si possono leggere correttamente le polemiche “antigiudaiche” di Giovanni: sono violente e passionali come quelle dei profeti, testimonianza di un amore ferito che si ostina a proporsi, con forza pari alla resistenza che incontra. cammina davanti a loro. Come JHWH nell’esodo, Gesù guida il suo popolo verso la terra promessa. le pecore lo seguono. Infatti è lui stesso la via che conduce alla vita (14,6): vive in pienezza l’amore del Padre e dei fratelli.
riconoscono la sua voce. Come appena detto, si ripete che ogni uomo sa riconoscere la voce della verità da quella della menzogna. I falsi pastori ci opprimono con subdola menzogna e, all’occorrenza, con violenza, terrore e paura; il vero pastore ci rende liberi, capaci di amare e servire, di sperare e osare. Ognuno è in grado di sentire la differenza tra le due voci. v. 5: un estraneo invece ecc. Le pecore, davanti al ladro e al brigante, hanno un atteggiamento opposto a quello che hanno davanti al pastore. Il giudizio sulla verità del pastore è compiuto dalle pecore stesse, non dai sondaggi o dalle pressioni dei capi. Come l’ex cieco, ogni uomo preferisce la verità alla menzogna, la libertà alla schiavitù, la vita alla morte; a meno che sia ingannato e manipolato. Se segue cattivi maestri e pastori – il ventesimo secolo ci offrì straordinari esempi, diversi dai precedenti solo per la maggior capacità di nuocere; cosa ci riserverà il nuovo? –, lo fa solo perché è mentalmente clonato da chi detiene il potere e lo configura a propria immagine e somiglianza. non riconoscono la voce degli estranei. L’uomo è oggi così estraniato da sé, che Dio pare sia l’unico estraneo. Ascoltiamo tutte le voci più strane, ma non quella della coscienza; siamo sedotti da qualunque mercante ci voglia comprare, ma non da colui che ci ama di amore eterno. v. 6: questa similitudine disse Gesù. Quanto Gesù ha detto, più che una parabola o metafora, è uno specchio preciso dell’atteggiamento dei capi del popolo. Sono così ciechi che fanno esattamente il contrario di ciò che è bene, pensando che sia il meglio. ma quelli non capirono, ecc. Anche l’evidenza può essere non vista. Dal cieco appunto! Se l’interesse è miope, il potere accieca: non fa vedere la realtà, ma i propri deliri – che purtroppo poi si realizzano, in una forma di pazzia così contagiosa da diventare collettiva. Ciò che Gesù dice è comprensibile a chi, come l’ex cieco, è ormai fuori dalla cecità del consenso che il potere induce. Ne può uscire chi ne subisce gli svantaggi; ma solo se apre gli occhi e sa resistere a inganni e ricatti di ogni tipo. Il fine dei vv. 1-6 è convincere i farisei che, con la loro immagine di Dio e di uomo, sono ciechi dalla nascita: non hanno mai visto e non vedono ancora la differenza tra il pastore e il ladro/brigante. Il riconoscimento di questa cecità è principio d’illuminazione. Con il discorso che segue, Gesù pone davanti ai loro occhi il “suo fango”, il modello di uomo vero, perché, se vogliono ascoltare la sua Parola, possano aprire gli occhi e vedere. La narrazione del cieco, che diventa uomo libero, suscita in noi il desiderio di essere come lui. Infatti se tutti siamo ciechi, prima del racconto di uno che ci vede, neppure sappiamo di essere ciechi. v. 7: disse di nuovo Gesù. Gesù chiarisce quanto ha detto, ampliando la metafora della porta (vv 7-10) e del pastore (vv 11-18): mostra se stesso come porta di salvezza in quanto vero pastore. Ai capi, che hanno un falso modello di uomo, egli si presenta ora come “il modello” vero di uomo, a immagine del Dio vivente.
Io-Sono la porta delle pecore. Nel v. 1 Gesù diceva che il ladro/brigante non passa dalla porta; ora dice: Io-Sono la porta, attraverso la quale le pecore possono uscire in libertà e raggiungere la vita. Lui stesso infatti, Parola diventata carne, è la porta tra terra e cielo. La porta è dove il muro della prigione è rotto. Chi è chiuso dentro può uscire; se non vuol uscire, brilla comunque ai suoi occhi la luce del giorno. La tradizione ha per lo più applicato questa parola ai pastori: solo attraverso Gesù, buon pastore, comportandosi come lui, hanno accesso legittimo alle pecore. Il tema però è quello delle pecore che, attraverso l’unico pastore legittimo, possono uscire dal recinto e vivere in libertà. v. 8: tutti quelli che vennero prima di me, ladri sono e briganti. Chi vuol essere capo del popolo, è un falso pastore; a meno che abbia come modello colui che ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Salvo improbabili eccezioni, non pare che sia proprio così. Il Pastore bello ci quanto sia brutto ciò che consideriamo normale, anzi appetibile: il Figlio ci fa vedere come il nostro stare insieme sia latrocinio e brigantaggio, negazione della fraternità. I profeti hanno sempre denunciato l’ingiustizia e l’oppressione dei capi del popolo. Colpisce il fatto che “tutti” siano falsi pastori. Nessuno, infatti, prima di Gesù, ha visto il Padre: da Adamo in poi, tutti abbiamo una falsa immagine di Dio e, quindi, un falso modello di uomo. Quello dominante, impersonato da re, sacerdoti e capi, è proprio di chi si impone con violenza e, per giunta, si fa chiamare benefattore (cf. Lc 22,25), per coprire le sue malefatte. Grande è il potere della parola, sia vera che menzognera. La differenza, non trascurabile, è che la prima fa essere ciò che è, mentre la seconda fa apparire ciò che non è e riduce a nulla ciò che è. ma le pecore non li ascoltarono. Anche se il popolo ha introiettato il falso modello, tuttavia lo avverte come estraneo. Appena gli si propone la luce, subito viene alla luce, come l’ex cieco. v. 9: se uno entra attraverso di me, sarà salvo. La salvezza non è entrare nel tempio come pecore da macello, ma uscire con lui per entrare in lui, il Figlio, che ci dà la vita e in abbondanza (cf. vv. 15-18). Egli è infatti l’intelligenza amorosa del Padre: salva la nostra umanità, aprendola alla luce della sua verità. entrerà ed uscirà. Questo entrare ed uscire si intende di solito come metafora della libertà di entrare ed uscire dall’ovile. Ma Gesù non propone di uscire dall’ovile per entrarci di nuovo, bensì di entrare in lui, che è la porta, per uscire definitivamente dalla schiavitù. Si può, quindi, intendere che chi entrerà (in lui) uscirà (dall’ovile), trovando finalmente cibo e acqua. Lui stesso infatti è il pascolo del gregge, il vero pane di vita (6,33.35.48), che soddisfa ogni fame e sete (cf. 6,35). v. 10: il ladro non viene se non per rubare, immolare e distruggere. Quelli che non hanno lui come modello, vengono nel recinto solo per sfruttare e rubare le pecore, per immolarle nel loro
tempio e distruggerle. Per i capi religiosi il popolo è un gregge su cui spadroneggiare, da sacrificare alla legge, di cui sono i padroni, oltre che le prime vittime. io venni perché abbiano vita e l’abbiano in abbondanza. Gesù è il pastore/agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29): è venuto per liberare le pecore e dare loro la vita, la sua vita di Figlio. Sarà quanto illustra la parabola del pastore bello. v. 11: Io-Sono il pastore bello. Dopo aver detto di essere la “porta” della salvezza, Gesù si identifica con “il pastore bello”. “Bello” significa vero, autentico, buono, che sa fare il proprio lavoro; richiama però anche qualcosa di piacevole, di bello appunto. È importante vederne la bellezza e provarne piacere. Questa bellezza salverà il mondo, rendendoci spiacevole ciò che riteniamo piacevole. Solo allora cambieremo pastore, perché l’uomo agisce sempre seguendo ciò che più gli piace, la delectatio victrix (S. Agostino). Gesù non è “un”, ma “il” pastore, il pastore modello, che si prende cura delle sue pecore. Si propone come tale perché espone (vv. 11-13), dispone (vv 14-16) e depone (vv 17-18) la propria vita in loro favore. Egli è pastore in quanto agnello immolato e vittorioso, che guida il gregge alle fonti dell’acqua di vita (Ap 7,17). È il pastore promesso (Ez 34,1ss), il Signore stesso che si fa pastore (Sal 23). L’alternativa a seguire il pastore della vita è avere come pastore la morte (Sal 49,15). Così fanno i perversi, che si vantano della loro ricchezza e in essa fanno consistere la loro vita (Sal 49,6s). espone la sua vita a favore delle pecore. Ora Gesù fa vedere il suo modo di essere pastore: espone la sua vita a favore delle pecore. Più avanti dirà anche che dispone e depone per loro la sua vita. È la bellezza dell’amore che si mostra in azione! Questa espressione esce uguale ai vv. 15.17.18. In greco non c’è il verbo “dare” (dídomi), come in 6,51, quando Gesù promette che darà la sua carne da mangiare. C’è invece il verbo “porre” (títhemi), che nei diversi contesti, con un procedimento caro a Giovanni, assume significati diversi. Nella traduzione abbiamo lasciato il verbo porre, con dei prefissi: qui Gesù es-pone, al v. 15 dis-pone, ai vv. 17-18 de-pone la propria vita a favore delle pecore. Qui non si vuole dire che il pastore offre o dà la sua vita nel senso che muore. Infatti, se muore, le pecore sono rapite e disperse. Si vuol dire che la prima caratteristica del pastore è l’amore e il coraggio impavido con cui difende le pecore: egli, a differenza del mercenario, “es-pone” per loro la sua vita ad ogni pericolo. v. 12: il mercenario e chi non è pastore, al quale le pecore non appartengono. Per il pastore le pecore sono “sue”: gli appartengono e ne ha cura come della propria vita. Il mercenario, invece, è preoccupato del suo salario: le pecore sono a servizio della sua vita, non lui della loro. Per questo non si es-pone: agisce per “vile interesse” (cf. 1Pt 5,2s). Nel momento del pericolo fugge da chi lo
ha seguito. L’idolo, dopo averci sedotti e spremuti, ci abbandona sempre nel momento del bisogno: non mantiene la promessa e delude la speranza riposta in lui. vede venire il lupo, ecc. Il lupo, nemico tradizionale del gregge, rappresenta le forze ostili del male. Gesù stesso ha mandato i suoi discepoli come agnelli in mezzo ai lupi (cf. Lc 10,3). Ogni epoca ha i suoi lupi. Talora hanno nome e cognome. Ma per lo più sono anonimi. Allora sono più insidiosi: indicano la mentalità diffusa, il falso modello di uomo, “la moda” che serpeggia e fa strage all’interno del gregge. La venuta del lupo evidenzia chi è pastore e chi mercenario, chi sa es-porre la propria vita e chi invece pensa solo a salvare se stesso. il lupo rapisce e disperde. L’azione di rapire e disperdere è tipica del nemico, il diavolo: rapisce all’uomo la sua verità e lo fa fuggire dalla sua vita. Egli fa il contrario del Figlio, che è venuto per dare la vita e raccogliere tutti i dispersi (11,52), riunendoli a sé e al Padre. Anche i discepoli, nell’ora del lupo, quando il pastore sarà colpito, si disperderanno (Mc 14,27p; cf. Zc 13,7). v. 13: perché è mercenario e non gli interessa delle pecore. L’atteggiamento del mercenario evidenzia per contrappunto quello del “pastore bello”. Davanti ai lupi, che hanno appena rinnovato la decisione di ucciderlo (8,59), Gesù non abbandona i suoi e non fugge. Difende le sue pecore perché gli interessano (inter-esse = essere-dentro): le ha a cuore perché le ha nel cuore. Anche il mercenario ha un interesse; ma non sono le pecore, bensì il vantaggio che ne trae. È un prezzolato. v. 14: Io-Sono il pastore bello e conosco le mie e le mie conoscono me. Gesù, dopo aver parlato del pastore bello in termini di coraggio, che gli fa esporre la propria vita, ora dice cosa “dispone” a favore delle sue pecore: mette a loro disposizione la sua stessa vita, che è la conoscenza e l’amore del Padre. C’è una conoscenza, un’intimità, un amore reciproco tra pastore e pecore. Chiama ciascuna per nome (v. 3): “Ti ho chiamato per nome; tu mi appartieni (...), sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,1.4). L’insieme delle pecore non è un “gregge”: ognuna ha un rapporto personale con lui. v. 15: come il Padre conosce me e anch’io conosco il Padre. Il rapporto di conoscenza e amore che c’è tra Gesù e ciascuno di noi è il medesimo che c’è tra il Padre e lui: “Come il Padre amò me, così io amai voi” (15,9). L’amore reciproco tra Padre e Figlio, il mistero che è la loro stessa vita, è il medesimo che circola tra noi e lui. L’espressione richiama il “detto giovanneo” di Lc 10,21s, dove Gesù danza di gioia perché la sua conoscenza reciproca con il Padre è comunicata ai piccoli (cf. anche Mt 11,25-27). e dispongo la mia vita. Se al v. 11 il pastore es-pone, qui dis-pone della propria vita a favore delle pecore: la mette a loro disposizione, la offre loro. Il verbo è al presente, perché la sua vita ci è
sempre offerta, qui ed ora. Il Figlio infatti non la tiene gelosamente per sé: come la riceve così la dona, come è amato dal Padre così ama i fratelli. a favore delle pecore. Giovanni non dice tanto che Gesù muore “al posto” delle pecore, quanto che egli dona loro la sua stessa vita. Sottolinea la trasmissione della “Gloria” dal Figlio ai fratelli. v. 16: anche altre pecore ho che non sono di questo recinto. “Questo recinto” è quello del tempio, in cui sta Israele. Ci sono altri “recinti”, religiosi o laici, che tengono schiavo l’uomo. Il Figlio ha fratelli non solo nel popolo di Dio, ma dovunque: tutto è stato fatto per mezzo di lui (1,2s), luce e vita di ogni uomo (1,9), che è figlio nel Figlio. Per questo il Padre ama il mondo (3,16) e il Figlio, salvatore (4,12) e luce del mondo (8,12), sarà innalzato non solo per radunare i figli dispersi d’Israele, ma per tutti i popoli (11,52). Gesù vuol condurre anche questi alla libertà. Il suo gregge non è una setta di eletti: ogni uomo è figlio amato dal Padre, che lui non si vergogna di chiamare fratello (Eb 2,11). Il cristianesimo è di sua natura universale (= cattolico): non esclude nessuno. Se si esclude qualcuno, si rinnega il Padre, che ama ciascuno, e il Figlio, che è come il Padre. Per un cristiano non amare “i nemici”, o addirittura odiarli, è negare Dio nella sua essenza di amore. È un “ateismo” peggiore di quello di chi lo nega perché non lo conosce o lo misconosce, spesso a causa della nostra cattiva testimonianza. Lo stesso concetto di “missione” non ha nulla a che fare con il proselitismo: è la spinta interiore dell’amore del Figlio verso i fratelli (cf. 2Cor 5,14). anche quelle bisogna che io conduca. “Bisogna” richiama il dono della vita del Figlio dell’uomo innalzato. È questo amore che lo fa pastore dei suoi fratelli: come ha espulso dal recinto del tempio quelli che sono chiusi dentro (v. 4), così vuole condurre al pascolo della vita anche quelli che sono chiusi in altri recinti. ascolteranno la mia voce. La voce del Figlio, che chiama ciascuno per nome (v. 3), e che ciascuno nel suo cuore riconosce come vera (v. 4), è rivolta a ogni uomo, perché gli è fratello. diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Gesù, mediante la sua croce, ha abbattuto ogni muro di separazione tra gli uomini, per fare di tutti, vicini e lontani, un solo uomo (cf. Ef 2,1422): il Figlio, mettendo la propria vita a disposizione di tutti gli uomini (cf. 11,52), ne fa un solo popolo di fratelli, un solo gregge. Gesù dice “un solo gregge” e non “un solo ovile”, come spesso si dice. Il Figlio non è venuto a fare un nuovo ovile, un recinto più grande dove imprigionare possibilmente tutti; tira invece fuori i suoi fratelli da ogni gabbia, religiosa o meno, per farli vivere nella legge di libertà (Gc 2,12), che è l’amore e il servizio reciproco (Gal 5,13). Quanto è facile fare edizioni aggiornate, e peggiorate, della proposta ecumenica di Ruggero Bacone, proprio oggi, che siamo un villaggio
globale. Egli scriveva: “I greci ritorneranno nell’obbedienza della chiesa romana, i tartari si convertiranno per la maggior parte alla fede, i saraceni saranno distrutti; e ci sarà un solo gregge e un solo pastore”. È chiaro che l’unione tra le chiese non deve essere “un solo ovile” che racchiuda le varie comunità, omologandole e omogeneizzandole. Il corpo di Cristo, vivente nella storia, sarebbe irriconoscibile, ridotto a un frullato orripilante: più che un organismo bello e diversificato nelle sue membra, sarebbe una poltiglia indifferenziata, una brodaglia disgustosa. L’unione non deve neppure essere un conglomerato di “diversi ovili”, dove ognuno vuol semplicemente affermare la propria differenza sull’altro: sarebbero pur sempre ovili. In più ci sarebbe un pullulare di rivalità e guerre sante, una disgregazione che divide le varie membra e fa morire ogni singola parte. Si passerebbe da un corpo di Cristo ridotto a un omogeneizzato nell’unico ovile, a un suo smembrato in molti ovili. Il solo gregge, e non ovile – la chiesa “una”, come il Signore la vuole –, è un popolo di persone libere, che hanno trovato in lui la loro verità di figli e vivono da fratelli. Questo popolo nuovo è aperto a tutti: è “cattolico” (=universale), globale. Rispetta però ogni differenza come luogo di intesa e di crescita. C’è infatti un solo Spirito che è amore, un solo Signore che è servo di tutti, un solo Dio che opera tutto in tutti; e ciascun membro, come in un unico corpo, mette la sua differenza a servizio delle altre membra (cf. 1Cor 12,1ss). L’unione tra le chiese e tra gli uomini – la chiesa è destinata al mondo! – è la stessa che si ritrova in Dio: nell’unico amore reciproco, Padre e Figlio sono uno, nella distinzione di ciascuno (cf. v. 30; 17,20-23). Gesù dice: “un solo gregge, un solo pastore”, non: “un solo gregge e un solo pastore” o: “un solo gregge con un solo pastore”. Pastore e gregge non sono distinti da congiungere con una “e” o da porre l’uno “con” l’altro: c’è identificazione tra pastore e gregge. Infatti chi segue il Figlio diventa come lui: a chi accoglie la Parola è dato “il potere” di diventare figlio di Dio (1,12). La pecora diventa come il pastore ed è passata, come lui, dalla morte alla vita, perché è in grado di “porre la propria vita a favore dei fratelli” (cf. 1Gv 3,14-16). Ogni pecora è chiamata, a sua volta, a diventare pastore, come l’agnello. v. 17: per questo il Padre mi ama, perché io depongo la mia vita per prenderla di nuovo. La stessa parola, che al v. 11 significa “es-porre” e al v. 15 “dis-porre”, qui significa “de-porre”. Gesù depone la sua vita volontariamente. Il suo non è un morire, ma un realizzare la propria esistenza come dono totale d’amore: più forte della morte è l’amore (cf. Ct 8,6). Il suo deporre la vita ha come fine il riceverla di nuovo. Gesù, dando la vita, la riceve in pienezza: è uguale al Padre perché non solo si sa amato, ma ama i fratelli con il suo stesso amore. In lui la vita diventa ciò che è:
circolazione viva d’amore, dono ricevuto e dato. Per questo è il Figlio diletto, compimento perfetto dell’amore del Padre. v. 18: nessuno la toglie da me, ecc. Nessuno può togliere la vita a colui che è vita di tutto (1,3c.4). Egli la depone, mettendola a nostra disposizione, con un atto libero d’amore. ho il potere di deporla e prenderla di nuovo. La vita è amore: si realizza nel dono di sé. Il “potere” del Figlio è lo stesso del Padre: quello di amare. La croce in Giovanni è vista non come sconfitta, ma come “Gloria”, manifestazione del Dio amore, che di sua natura si dona. questo comando ho preso dal Padre mio. Il Figlio ha dal Padre un unico comando: quello di dare la vita come la riceve, di amare come è amato. Sarà il comando che presto darà ai suoi discepoli (cf. 13,34), per farli partecipi della sua vita (cf. 1Gv 3,14-16). La vita la perdiamo comunque. Ma non è un vuoto a perdere, da riempire il più possibile di cose che pure andranno perse. È un vuoto da rendere, svuotato il più possibile dall’egoismo perché si riempia d’amore. In questo senso chi depone la vita, la prende di nuovo: chi la perde, la salva. v. 19: ci fu di nuovo una divisione tra i giudei, ecc. La sua parola di amore, invece di unire, paradossalmente produce uno scisma: c’è chi l’accetta e chi la rifiuta. Ma anche chi la rifiuta è accettato; perché l’amore, anche se è crocifisso, non può rifiutare di amare. v. 20: dicevano molti di loro: ha un demonio e delira (cf. 7,20; 8,48.52). Chi rifiuta il dono, considera pazzesca la sua parola, addirittura diabolica. Quanto Gesù dice non è la stessa proposta del serpente: “Sarete come Dio” (Gen 3,5)? perché lo ascoltate? I capi del popolo non vogliono che le pecore ascoltino il pastore bello e ne accolgano la proposta. v. 21: altri dicevano: queste parole non sono di un indemoniato, ecc. Tra il coro dei “molti” non c’è mai unanimità: ci sono sempre “altri”, che mettono in crisi la propria posizione. Per loro le parole di Gesù non sono deliramenti; sono anzi parole di verità, che aprono gli occhi ai ciechi. Questi “altri” sono coloro che, al sopraggiungere della luce, si sono scoperti ciechi e si sono lasciati illuminare. Il pastore bello è venuto a guarirci dalla nostra cecità su Dio e su noi stessi: il “suo” fango vuol farci venire alla luce e nascere dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito. L’ex cieco del c. 9, seguito da questi “altri”, è il modello dell’uomo libero, quale Gesù vuol rendere ciascuno della massa di infermi, ciechi, zoppi ed essiccati, che stanno rinchiusi nella piscina di Bethzathà, presso la porta delle Pecore (5,2). 3. Pregare il testo
a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando Gesù, davanti all’ex cieco e ad alcuni farisei, che racconta queste parabole. c. Chiedo ciò che voglio: vedere la bellezza del vero pastore, essere come l’ex cieco che accoglie il suo invito, non come quei farisei che preferiscono restare nelle tenebre. d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù: mi presentano due modelli di uomo, perché io veda la differenza tra ciò che dà vita e ciò che dà morte, scegliendo di conseguenza. Da notare: • il recinto delle pecore • il pastore entra per la porta • il ladro/brigante non entra dalla porta • il pastore è riconosciuto dal portiere e dalle pecore • il pastore conosce e chiama ogni pecora per nome • le conduce fuori dal “recinto” • cammina davanti alle pecore, che lo seguono, perché riconoscono la sua voce • le pecore non seguono l’estraneo e fuggono da lui perché non conoscono la sua voce • Io-Sono la porta delle pecore • chi passa attraverso di me, sarà salvo • io venni perché abbiano vita e l’abbiano in abbondanza • Io-Sono il pastore bello • il mercenario, davanti al lupo, abbandona le pecore e fugge • il pastore bello espone, dispone e depone la propria vita a favore delle pecore • il pastore bello offre la sua stessa vita, che è l’amore reciproco tra Figlio e Padre • conosco le mie pecore e le mie conoscono me, come il Padre conosce me e anch’io conosco il Padre • ho altre pecore che non sono di questo ovile: anche quelle bisogna che io conduca • ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore • Gesù è il Figlio perché ha lo stesso potere del Padre: deporre la vita e riprenderla liberamente • il comando di Gesù: amare come è amato
• le sue parole ci dividono: se le rifiutiamo siamo ciechi, se le accogliamo veniamo alla luce. 4. Testi utili Sal 23; 37; 49; 73; Ger 23,1-6; Ez 34,1ss; Zc 11,4-7; Lc 15,4-7; Gv 17,1ss; 1Cor 12,1ss; Ap 5,1-11.
27. IO E IL PADRE SIAMO UNO 10, 22 - 42 10,22 Ci fu allora la (festa della ) Dedicazione a Gerusalemme. Era inverno 23
e Gesù passeggiava nel tempio nel portico di Salomone.
24
Allora lo circondarono i giudei e gli dicevano: Fino a quando ci togli la vita? Se tu sei il Cristo, diccelo con franchezza.
25
Rispose loro Gesù: Ve lo dissi e non credete. Le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me.
26
Ma voi non credete, perché non siete mie pecore.
27
Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono;
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io do loro vita eterna e non periranno nei secoli, né alcuno le rapirà dalla mia mano.
29
Il Padre mio, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti e nessuno può rapire dalla mano del Padre.
30 31
Io e il Padre siamo uno. Portarono di nuovo pietre i giudei
per lapidarlo. 32
Rispose loro Gesù: Molte opere belle vi ho mostrato dal Padre: per quale opera di quelle mi lapidate?
33
Gli risposero i giudei: Non ti lapidiamo per un’opera bella ma per una bestemmia: che tu, essendo uomo, ti fai Dio!
34
Rispose loro Gesù: Non è scritto nella vostra legge: Io dissi: Siete dèi?
35
Se disse dèi coloro ai quali fu (rivolta) la parola di Dio – e non si può sciogliere la Scrittura –
36
colui che il Padre santificò e inviò nel mondo, voi dite: Bestemmia! perché dissi: Sono Figlio di Dio?
37
Se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi;
38
ma se (le) faccio e non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre (è) in me e io (sono) nel Padre.
39
[Allora] cercarono di nuovo di catturarlo; e uscì dalle loro mani.
40
E andò di nuovo al di là del Giordano nel luogo dove prima Giovanni battezzava e dimorò là.
41
E molti vennero a lui e dicevano: Giovanni non fece alcuno segno; ma tutte quelle cose, che Giovanni disse di costui, sono vere.
42
E lì molti credettero in lui.
1. Messaggio nel contesto “Io e il Padre siamo uno”, risponde Gesù agli avversari che gli fanno l’interrogatorio. Dopo l’illuminazione di chi è venuto alla luce, c’è il giudizio delle tenebre contro il Figlio dell’uomo, luce del mondo (8,12). Alla fine lo eleveranno sul lucerniere, da dove splenderà in tutto il suo fulgore, facendo conoscere “Io-Sono” (8,28) e attirando tutti a sé (12,32). Anche chi è cieco capisce bene le sue affermazioni e lo accusa: “Tu, essendo uomo, ti fai Dio” (v. 33). Il processo a Gesù, iniziato nella sua prima venuta nel tempio (2,13ss), condotto avanti nella seconda con la volontà di ucciderlo (5,1-18), sviluppato nella terza in una lunga sezione (7,1-10,21), culmina in questa quarta venuta, in cui si formula il motivo della condanna. La decisione di ucciderlo o di catturarlo non può ancora essere eseguita (vv. 31.39). Sarà sentenziata dal sommo sacerdote in 11,50 e richiamata in 18,14, quando Gesù comparirà davanti a lui. Giovanni mette a questo punto l’interrogatorio sull’identità di Gesù che gli altri vangeli pongono davanti al Sinedrio (cf. Mc 14,53-64p), con particolari assonanze con Lc 22,67-71. Giovanni non riferisce il processo davanti al Sinedrio, perché presenta tutta la vita di Gesù come un processo. Allo stesso modo non racconta la trasfigurazione, perché legge tutto alla luce della trasfigurazione. Il suo vangelo è, dall’inizio alla fine, un processo: il processo dell’uomo che accoglie o rifiuta la Parola che lo fa diventare figlio di Dio. È il dramma dell’uomo; ma anche di Dio, che gli è Padre. Nel giudizio che noi facciamo su Gesù, il Figlio, è dato il giudizio che noi facciamo su noi stessi. L’uccisione, che di lui decretiamo ed eseguiamo, svela quella violenza che è nel nostro cuore, la quale decreta ed esegue la nostra condanna, uccidendoci nella nostra verità di figli e fratelli. La sua uccisione però ci salva. Egli infatti è pastore in quanto agnello che toglie il male del mondo (1,29).
Siamo all’ultimo incontro/scontro tra Gesù e i “giudei”, tra il Figlio e il nostro non volergli essere fratelli. Avviene d’inverno, nella freddezza, anzi nella tempesta che prelude la passione. Il destino di Gesù, già segnato dall’inizio, è voluto e preordinato da lui stesso, che prende l’iniziativa. Anticipando a questo punto i capi d’accusa, l’evangelista mostra con chiarezza il motivo della sua condanna. Il processo è il luogo di testimonianza della verità! La verità di Gesù è il suo essere Cristo e Figlio di Dio, il suo essere Cristo in quanto Figlio di Dio. Sarà ucciso perché presenta un Cristo e un Dio “altro” da quello che noi pensiamo. Si pensava allora, e si penserà anche in seguito, a Dio e al suo Messia come a qualcuno che si impone su tutti, con una forza capace di vincere ogni potere avverso, compresa la malattia e la morte. Gesù presenta un Dio e un Messia che non corrisponde alle nostre attese e ai nostri timori: è Signore in quanto servo, è pastore in quanto mite agnello, è salvatore in quanto dà la vita. Ci salva mostrando chi è Dio per noi e chi siamo noi per lui: Dio è Padre che ama e noi suoi figli amati nel Figlio, che si fa nostro fratello, nonostante ogni nostra resistenza o rifiuto. Le nostre idee sul Messia e sulla salvezza sono ambigue come le nostre concezioni di vita e di morte, di Dio e di uomo. Da qui il “segreto messianico”, comune a tutti i vangeli e tematizzato espressamente da Marco. La stessa funzione hanno gli equivoci giovannei. Il Signore infatti compie le sue promesse, non le nostre attese. Gesù riprende qui delle immagini del brano precedente: le pecore, la conoscenza reciproca, l’unione con il Padre, il dare la vita, il rubare, il non ascoltare la voce, il seguire e ascoltare la voce. Il luogo è ancora il tempio, il tempo è una festa che richiama quella delle Capanne (7,1ss). È infatti la hanukkàh, che celebra la riconsacrazione del nuovo tempio ad opera di Giuda Maccabeo, dopo la profanazione. Gesù passeggia liberamente nel portico di Salomone, che corre lungo la facciata orientale del grande cortile esterno del tempio. Si trova nella casa del Padre suo, che i suoi avversari distruggeranno e che lui rinnoverà dopo tre giorni (cf. 2,13-22). Qui dirà che lui stesso è la casa del Padre, come il Padre è la casa del Figlio (v. 38). Egli infatti è il nuovo tempio, il vero pastore, il Signore stesso che conduce le sue pecore al pascolo della vita, e della vita in abbondanza. Offre, infatti, a tutti di partecipare alla sua vita di Figlio. Il testo, che inizia nel tempio, termina al di là del Giordano (v. 40), dove Gesù era apparso all’inizio (1,28ss). Qui le folle riconoscono che è vero quanto Giovanni aveva detto di lui (vv. 41s; cf. 1,20-36). Si chiude così il cerchio della sua attività di Figlio, accreditata dal Padre con i segni che ha compiuto. L’evangelista li ha raccontati perché noi crediamo che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiamo la vita nel suo nome (20,30s). Tra la cornice di un tempo e un luogo determinato – festa della Dedicazione e tempio (vv. 22-23) – e di un tempo e luogo indeterminato, dove Gesù dimora ed è riconosciuto (vv. 40-42), c’è
il suo processo diviso in due parti (vv. 24-31.32-39), ognuna delle quali sfocia nella volontà omicida degli ascoltatori (vv. 31.39). Le due parti riguardano l’identità di Gesù, rispettivamente come Messia e Figlio di Dio. Siamo al nocciolo della fede cristiana. La prima parte inizia con una provocazione a Gesù perché dica con chiarezza se è il Messia. Egli risponde che l’ha già detto, ma non vogliono credergli. Le sue opere e parole – il rinnovo dell’alleanza e del tempio (c. 2), la nascita dall’alto (c. 3), il dono dell’acqua viva e della vita (c. 4), la guarigione dalla paralisi (c. 5), il dono della manna (c. 6), dello Spirito (c. 7), della verità che ci fa liberi (c. 8) e della luce (c. 9) – lo mostrano come Messia (vv. 24-31). È lui il pastore, il Signore stesso che viene a prendersi cura del suo popolo (10,1-21). La seconda parte è una provocazione di Gesù a riconoscerlo come Figlio di Dio (vv. 32-39). Egli apre l’attesa messianica a una prospettiva inaudita: il Messia è il Figlio stesso di Dio, la salvezza che porta è il dono della sua vita. Il sogno di Adamo, diventare come Dio (Gen 3,5), è il dono che Dio vuole fargli. Ma la mano, chiusa nel tentativo di rapirlo, non è in grado di accoglierlo. C’è un crescendo nella storia del male: se il padre Adamo negò il Padre e suo figlio Caino uccise il fratello, i suoi discendenti uccideranno il Figlio che si fa loro fratello. Ciò che suona come bestemmia (v. 33) è la verità di Dio: Dio è amore e Gesù verrà ucciso in quanto Figlio che ama i fratelli con lo stesso amore del Padre. Gesù testimonia la verità della sua rivelazione attraverso le Scritture e le sue opere, che lo manifestano come Figlio di Dio, che è nel Padre come il Padre è in lui (vv. 34-39). Siamo al culmine della sua rivelazione. A noi accoglierlo o rifiutarlo, ucciderlo o credere in lui. Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. È Cristo in quanto Figlio: libera la nostra libertà rivelandoci che Dio è Padre amante e noi suoi figli amati. Sarà ucciso perché si proclama Figlio; ma proprio in quanto ucciso, offrendo la vita per noi, rivela la gloria di Dio e salva ogni uomo. La Chiesa ha come centro della propria fede ciò che per i religiosi è scandalo e bestemmia: un Dio che ama l’uomo, si fa suo simile e gli dona la propria vita. 2. Lettura del testo v. 22: Ci fu allora la (festa della) Dedicazione. La festa ricorda la consacrazione del tempio ad opera di Giuda Maccabeo dopo la profanazione di Antioco Epifane. È la hanukkàh (consacrazione), detta in greco egkainía (rinnovazione) perché è la ri-consacrazione del tempio. È una festa simile a quella delle Capanne, collegata alla consacrazione del primo tempio di Salomone, nella quale Giovanni situa il suo racconto da 7,1 a 10,21. Anche se le due feste vengono a distanza di tre mesi, nel racconto si passa direttamente dall’una all’altra.
era inverno. La hanukkàh cade a metà dicembre: è la festa invernale delle luci. L’inverno è la stagione morta, senza vita, con tempo brutto e burrascoso. In questo clima gelido si svolge il processo a Gesù, che porterà alla decisione di ucciderlo. Deve passare ancora una brutta stagione prima che i fiori appaiano nei campi e la voce della tortora, insieme a quella del diletto, si faccia udire nella gioia di pasqua (cf. Ct 2,10-13). v. 23: Gesù passeggiava nel tempio. Qui, a più riprese, hanno cercato di catturarlo (7,30.32.44; 8,20), di lapidarlo o ucciderlo (7,1.19.25; 8,37.40.59). È nella casa del Padre suo (2,16) e vi passeggia in libertà. Alla fine del processo ne uscirà, sfuggendo alle loro mani (v.39). Nella festa della rinnovazione del tempio sarà decisa la distruzione di quel tempio che lui ricostruirà dopo tre giorni, come disse nella sua prima visita al tempio (2,13-22). v. 24: lo circondarono i giudei. Richiama il Sal 22,17, dove i nemici circondano il Messia. È accerchiato, senza scampo, come vittima designata. È l’ultimo scontro tra Gesù e i suoi nemici prima della passione. Come al solito in Giovanni, “i giudei” non sono il popolo d’Israele, ma i suoi capi, che non hanno accettato la testimonianza di Gesù e si oppongono a lui e ai suoi discepoli. fino a quando ci togli la vita? Il pastore, che “pone” la sua vita a vantaggio delle pecore (cf. brano precedente), è accusato di togliere la vita. L’espressione, carica di significato nel contesto, vuol dire: togliere il fiato, non lasciar vivere, lasciare in sospeso, in dubbio mortale. Effettivamente, se Gesù è il Messia, devono morire le false attese dei capi. Devono anzi morire loro stessi come capi. se tu sei il Cristo, diccelo. È la stessa domanda che negli altri vangeli è posta nel processo davanti al Sinedrio (Lc 22,67a; cf. Mc 14,61; Mt 26,63). Nei discorsi precedenti Gesù si è rivelato come il Cristo, il pastore promesso, anzi Dio stesso pastore del suo gregge. Ma la sua rivelazione è scandalo e follia: è pastore in quanto ucciso dai sapienti, è Signore in quanto crocifisso dai potenti (1Cor 1,23). Se questo è il pastore, i capi del popolo sono i ladri e briganti, ai quali Dio è venuto a strappare di mano il suo gregge (cf. Ez 34). con franchezza. Provocano Gesù a dichiararsi apertamente Messia per poterlo accusare davanti ai romani, che non erano teneri con chi coltivava aspirazioni messianiche. La domanda ha lo stesso scopo di quella del tributo a Cesare (cf. Mc 12,13-17p). Gesù finora si è rivelato con franchezza solo alla Samaritana (4,25s), che, dopo aver scoperto la sua sete, era disposta a credere; si è fatto vedere anche dall’ex cieco, perché illuminato. v. 25: ve lo dissi e non credete. È la medesima risposta che Gesù dà in Lc 22,67b davanti al Sinedrio. Quanto egli ha fatto e detto, e l’evangelista ha raccontato, ha infatti un unico scopo: che noi crediamo che lui è il Cristo, il Figlio di Dio (20,30s). Ma quelli che gli stanno davanti non
possono vedere e credere: sono infatti ciechi che credono di vedere (9,40s). Altrimenti non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1Cor 2,8). le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me. La risposta di Gesù è centrata sulle opere che compie nel nome del “Padre suo”. L’ultima sua opera è stata quella di aprirci gli occhi per farci venire alla luce. Per l’uomo, depositario della Parola, è determinante “vedere” la realtà, conoscere la verità, perché in lui tutto il creato venga alla propria luce e raggiunga il suo senso pieno. Tra poco compirà anche l’opera di dare la vita a Lazzaro, il morto. Sono le sue azioni che parlano in suo favore. Il criterio per riconoscere che la sua azione è da Dio, è il fatto che ci apre gli occhi, dandoci vita e libertà. È sbagliato dire che si crede alla sola Parola, per pura fede. Ogni parola esprime sempre un evento, colto nel suo significato: non è altro che la realtà in quanto capita e comunicata. La parola di Gesù fa leggere le sue opere come “segno” di quel Dio che dà luce, vita e libertà. Sono esse che testimoniano di lui come Messia. v. 26: voi non credete, perché non siete mie pecore. I suoi avversari non possono credere in lui: non seguono lui, il pastore bello, ma un altro pastore, la morte. Credere o meno non è una questione teorica, ma pratica: è un atto di libertà nostra, in cui decidiamo quale fondamento scegliere per la nostra esistenza. L’uomo comunque vive di fede e crede in ciò a cui affida la sua vita, si tratti di cose, idee o persone. Se non si affida a chi dà la vita, si affida ai suoi idoli, che gliela tolgono (cf. Sal 115). Ma il Figlio non taglia il dialogo con i fratelli: anche chi non crede è chiamato a seguirlo. Tutti infatti siamo suoi, predestinati a essere figli nel Figlio. Da 9,41 Gesù si sta esplicitamente rivolgendo a chi non crede, perché veda la propria cecità e desideri la luce. È il pastore bello che va in cerca della pecora smarrita. v. 27: le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono. È un aggancio al discorso precedente sul pastore (vv. 1-21). Anche gli avversari sono chiamati ad ascoltare la sua voce. Sta parlando proprio a loro. v. 28: io do loro vita eterna e non periranno nei secoli. Chi crede nel Figlio mandato dal Padre, ha vita eterna (3,16): la sua stessa vita di Figlio, che egli è venuto a mettere a disposizione di tutti, perché non perisca niente di ciò che il Padre gli ha dato (6,39). È una vita che vince la morte (cf. 8,51), una fonte di acqua zampillante (4,14), offerta a chiunque ha sete e viene a lui (7,37s). né alcuno le rapirà dalla mia mano. La “mano” indica la forza, il potere, la capacità di agire. Il pastore bello rassicura le sue pecore: la sua mano, che è la stessa del Padre, le difende efficacemente da ladri, briganti e lupi. Gesù, proprio mentre è in preda ai nemici suoi e del gregge, rinfranca i discepoli. Subiranno scandalo dalla sua morte e dalle difficoltà che incontreranno (cf.
13,36-38): “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse” (Mc 14,27). Ma il risorto le riunirà dopo pasqua. Allora capiranno che la sua mano è onnipotente in quanto inchiodata al legno della croce. v.29: il Padre mio, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti. I manoscritti presentano di questa frase quattro varianti principali, dovute al genere neutro o maschile del pronome (hó oppure hós) e dell’aggettivo “più grande” (me_zon oppure meízôn). Ciò significa che all’origine c’era un testo di difficile comprensione, che si è cercato di interpretare. Abbiamo presentato la lezione più difficile, col pronome al neutro e l’aggettivo al maschile, che meglio si accorda a ciò che segue. Un’altra lezione, col pronome e l’aggettivo concordati al maschile, che ben si accorda al contesto e può essere una semplificazione intelligente, suona così: “Il Padre mio, che mi ha dato (le pecore), è più grande di tutti”. Una terza lezione, col pronome e l’aggettivo armonizzati al neutro: “Ciò che il Padre mio mi ha dato, è più grande di tutto” non si adatta bene al senso. Infine, una quarta, col pronome al maschile e il predicato al neutro, si potrebbe tradurre: “Il Padre mio, che mi ha dato (le pecore), è (qualcosa di) più grande di tutto”. Il significato di fondo rimane comunque invariato: il potere del Padre e del Figlio a favore delle pecore è superiore a quello di ogni ladro e brigante. e nessuno può rapire dalla mano del Padre. Prima si parlava della mano del Figlio, ora di quella del Padre, per concludere subito dopo che Padre e Figlio sono uno. Per questo il loro potere è il medesimo: è quello di Dio, amore più forte della stessa morte. v. 30: io e il Padre siamo uno. È il culmine della rivelazione di Gesù. Corrisponde alla sua affermazione sul Figlio dell’uomo che “siede alla destra della potenza di Dio” (Lc 22,69). Il Padre e il Figlio sono piena comunione d’amore, un unico essere e agire, capire e volere. È il mistero di Dio che è “uno”, ma non solo: è perfetta unità d’amore tra Padre e Figlio. A chi gli aveva chiesto se è il Cristo, Gesù risponde che lo è, ma in modo “altro”: è l’Altro, Dio stesso, il Figlio che è una cosa sola con il Padre. v. 31: portarono di nuovo pietre i giudei per lapidarlo. Gesù sarà ucciso in quanto Figlio di Dio, portando su di sé il nostro peccato, che è quello di aver ucciso il nostro essere figli del Padre. v. 32: rispose loro Gesù. La scena è volutamente strana. Invece di sottrarsi alla lapidazione, Gesù, con impassibilità divina, si mette a parlare. Il suo è un discorso di autodifesa, fondato sulle opere che giustificano le sue parole. molte opere belle vi ho mostrato dal Padre. Le “opere belle” di Gesù sono quelle di rifare la creazione come era al principio, di salvare il mondo dalla morte. L’opera di Dio è creazione e liberazione continua; e ciò che il Padre opera, anche il Figlio opera (5,17). Gesù non risponde accampando privilegi: dà come credenziali del suo essere Figlio le proprie opere a favore dei
fratelli. E l’opera bella, per eccellenza, si va compiendo adesso: dà la sua vita a vantaggio di chi lo vuole lapidare. Il processo contro Gesù diventa un processo contro i suoi avversari, che culmina nel loro peccato e nel suo dono. per quale opera di quelle mi lapidate? Gesù è ucciso perché fa il bene: “Non ha fatto nulla di fuori posto” (cf. Lc 23,14s.41b.47). Altrimenti non potrebbe essere l’agnello che toglie il peccato del mondo (1,29). v. 33: non per un’opera bella, ma per una bestemmia. Gesù non è ucciso per le sue opere o per la violazione del sabato (cf. 5,15ss), ma per la sua pretesa di essere Figlio di Dio, definita qui “bestemmia”. Il cristianesimo è effettivamente una bestemmia, la più grande blasfemia che orecchio pio, di qualsiasi religione, possa udire. tu, essendo uomo, ti fai Dio. Si esprime l’accusa, già formulata in 5,18. La sua bestemmia consiste nel fatto che è uomo e si proclama Dio. Non è questa somma empietà (cf. Gen 3,5)? L’uomo Gesù è Dio; anzi, più precisamente, Dio è l’uomo Gesù! La sua umanità ci rivela un Dio totalmente diverso da quello che le religioni professano e che gli atei negano. Ciò che per ogni religione suona “bestemmia”, è l’essenza del cristianesimo ed è la salvezza dell’uomo. Tutte le opere di Gesù, soprattutto quella di deporre la vita a favore dei fratelli, lo rivelano come il Figlio che ama con lo stesso amore del Padre. Se Gesù non fosse Figlio di Dio, sarebbe il più grande impostore della storia. Ma se lui è Figlio di Dio, la più grande impostura della storia è l’idea che noi tutti abbiamo di Dio. In nome del dio che immaginiamo, togliamo la vita all’unico che dà la vita! Il nostro peccato non fu quello di aver pensato di diventare come Dio, ma quello di far diventare Dio come lo pensiamo noi: un dio di schiavitù e di morte, geloso della libertà e della vita all’uomo. Il male non è che l’uomo sia come Dio, ma che Dio sia come l’uomo l’ha pensato. Il Figlio dell’uomo ha fatto piazza pulita di ogni falsa immagine di Dio e di uomo, rivelandoci quel Dio che è amore di Padre verso il Figlio. v. 34: rispose Gesù. La risposta di Gesù si articola in due tappe: i vv. 34-36 argomentano dalla Scrittura, i vv. 37-38 dalle opere. non è scritto nella vostra legge. Per “legge” si intende tutto l’AT. Gesù dice “vostra” non perché non la ritenga anche sua, ma perché essi se ne ritengono gli interpreti autorizzati. Proprio la legge parla di lui: “Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me, perché di me ha scritto” (5,46). Le Scritture infatti gli rendono testimonianza (cf. 5,39). io dissi: Siete dèi, ecc. (Sal 82,6). Qui Gesù, usando il metodo dei rabbini, leva dal contesto un’affermazione del Sal 82,6 e la applica alla sua situazione, con un’allusione a Es 7,1 LXX, dove Dio dice a Mosè che, con i segni che compirà, l’ha fatto “dio sul faraone”. Il suo ragionamento è “a
fortiori”: se sono dèi e figli di Dio quelli che ricevono la parola di Dio, a maggior ragione sarà Dio e Figlio di Dio colui che è la Parola e compie opere superiori a quelle dello stesso Mosè. v. 36: colui che il Padre santificò e inviò nel mondo. Il Padre santificò Gesù con il suo Spirito (cf. 1,32-34): è il Figlio inviato nel mondo per salvarlo (3,17). Colui che da sempre è rivolto verso il seno del Padre, è diventato carne per rivolgersi ai fratelli e narrare loro il mistero di quel Dio che nessuno mai ha visto (1,18). voi dite: bestemmia. Ciò che i suoi avversari ritengono una bestemmia, è la rivelazione stessa di Dio, che nel Figlio manifesta agli uomini il suo vero volto. Con Gesù è messa in crisi ogni immagine religiosa di Dio e del suo rapporto con l’uomo. Ciò che riteniamo devozione, è empietà; ciò che riteniamo bestemmia, è conoscenza vera di Dio e dell’uomo. La sua croce, frutto di questa bestemmia, è la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e ogni idolo. Il peccato dell’uomo, religioso o empio, è sempre l’idolatria. Un “Dio crocifisso”, crocifisso dall’uomo e per l’uomo, è il grande mistero che rivela Dio. sono Figlio di Dio. Gesù non dice: sono il Figlio di Dio, perché “il Figlio di Dio”, nel linguaggio di allora, poteva significare “il Messia”; Gesù ha già affermato al v. 25 di essere il Messia. Ora rivela che lui è il Messia salvatore in quanto unigenito Figlio di Dio. Dicendo di essere Figlio di Dio, intende attribuire a sé, come ogni figlio, la stessa natura del Padre: è realmente uguale a lui. v. 37: se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi. Gesù ritorna ancora sull’argomento delle opere (v. 25): si può credere alla sua Parola solo perché corrisponde alle opere. v. 38: ma se (le) faccio e non credete a me, credete alle opere. Gesù ritiene che le sue opere siano motivo sufficiente per credere: sono infatti il segno che dà del suo essere Figlio, sono la rivelazione del Padre. L’agire manifesta l’essere. affinché sappiate e riconosciate. La fede è un sapere e riconoscere che il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio. che il Padre (è) in me e io (sono) nel Padre. “Il Padre è in me” significa che il Figlio è dimora del Padre; “io sono nel Padre” significa che il Padre è dimora del Figlio. Come fa uno a dimorare nell’altro e viceversa? Uno sta di casa dove sta col cuore: abita dove ama e dove è amato. Padre e Figlio si amano reciprocamente; dimorano quindi ambedue l’uno nell’altro. In questo senso il Padre e il Figlio sono “uno”. Queste dichiarazioni di Gesù avvengono nella festa della Rinnovazione del tempio. È lui il nuovo tempio, la dimora di Dio tra gli uomini, inviato al mondo per salvarlo. E lo salva in quanto Figlio condannato e ucciso dai fratelli, ai quali offre lo stesso amore suo e del Padre.
v. 39: cercarono di nuovo di catturarlo (cf. 7,30; 8,20.59). Le parole di Gesù provocano in chi ascolta una reazione: o crede in lui (vv. 41-42) e ha la sua stessa vita di Figlio, o uccide il Figlio (v. 39) e la propria realtà di figlio. Ma – astuzia di Dio e salvezza nostra! – l’uccisione sua diventa il dono supremo che il Figlio fa di se stesso, testimonianza di amore incondizionato per i fratelli. uscì dalle loro mani. Le tenebre non possono soffocare la luce (1,5): afferrandola, ne sono sconfitte. È un anticipo dell’esodo pasquale. v. 40: andò di nuovo al di là del Giordano, ecc. Gesù torna nel luogo in cui era comparso all’inizio, non si sa da dove, quando scese su di lui lo Spirito e fu manifestato come Figlio di Dio (1,29-34). v. 41: molti vennero a lui. Gesù diviene il luogo di riunione di chi accoglie la luce. Giovanni non fece alcun segno, ma tutte quelle cose, ecc. Giovanni non ha fatto alcun segno; ma lui stesso è il segno per eccellenza: è “voce” della Parola (1,23), la cui verità si è mostrata nelle opere di Gesù. Ciò che egli ha detto sul conto suo, ora è chiaro: davvero Gesù è il Figlio di Dio (cf. 1,34). v. 42: molti credettero in lui. Gesù, con ciò che fa per noi, compie ogni promessa di Dio. Aderire a lui, è aderire a Dio e trovare la vita. Se al v. 20 “molti” lo rifiutano, qui “molti” credono in lui. Sono l’anticipo dei “tutti” che, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (19,37), saranno attirati a lui (12,32). 3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando Gesù che passeggia nel tempio, circondato dai suoi avversari. c. Chiedo ciò voglio: credere che lui, giudicato e condannato, è il Messia che mi salva, il Figlio di Dio che mi dona la sua vita. d. Traendone frutto, medito sul processo di Gesù. Da notare: • la festa della Dedicazione del tempio • è inverno • Gesù cammina nel tempio • i nemici lo circondano • fino a quando ci togli la vita? Se sei tu il Cristo, diccelo con franchezza • ve l’ho detto e non credete
• le mie opere testimoniano di me • voi non credete, perché non siete mie pecore • alle mie pecore do la vita eterna • nessuno può rapirle dalla mano mia e del Padre • io e il Padre siamo uno • lo vogliono lapidare • Gesù continua a parlare • per quale opera bella lo uccidiamo? • la bestemmia: tu, essendo uomo, ti fai Dio • Gesù risponde citando la Scrittura e ricordando le sue opere • le opere di Gesù manifestano che è Figlio di Dio: il Padre è in lui e lui nel Padre • Gesù sfugge alla cattura e torna dove aveva iniziato il suo ministero a.
molti accolgono la testimonianza di Giovanni.
1. Testi utili Sal 82; 22; Is 52,13-53,12; Lc 22,66-71; Gv 5,19-47; 8,31-59; 1Cor 1,17-216; 1Pt 2,21-25.
28. IO-SONO LA RISURREZIONE E LA VITA: CHI CREDE IN ME, ANCHE SE MUORE, VIVRÀ 11,1 - 54 11,1
C’era un infermo, Lazzaro di Betania, del villaggio di Maria e Marta sua sorella.
2
Ora Maria era quella che unse il Signore con profumo e asciugò i suoi piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era infermo.
3
Le sorelle dunque inviarono da lui per dirgli: Signore, ecco: colui che ami è infermo.
4
Ora Gesù, avendo ascoltato, disse: Questa infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché attraverso di essa sia glorificato il Figlio di Dio.
5
Ora Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro.
6
Quando dunque ascoltò che era infermo, allora dimorò nel luogo dov’era due giorni.
7
Poi, dopo questo, dice ai discepoli: Andiamo di nuovo in Giudea.
8
Gli dicono i discepoli: Rabbì, ora i giudei cercavano di lapidarti e di nuovo vai lì?
9
Rispose Gesù: Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina nel giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo.
10
Ma se uno cammina nella notte inciampa, perché la luce non è in lui.
11
Queste cose disse e dopo di questo dice loro: Lazzaro, il nostro amico, dorme; ma vado a risvegliarlo.
12
Allora gli dissero i discepoli: Signore, se dorme sarà salvato.
13
Ora Gesù aveva parlato della sua morte; quelli invece pensarono che parlasse della dormizione del sonno.
14
Allora dunque disse loro Gesù apertamente: Lazzaro è morto.
15
E gioisco per voi che non eravamo là, affinché crediate. Ma andiamo da lui.
16
Allora Tommaso, detto gemello, disse ai condiscepoli: Andiamo anche noi a morire con lui.
17
Venuto dunque Gesù, lo incontrò che già da quattro giorni era nel sepolcro.
18
Ora Betania era vicina a Gerusalemme circa quindici stadi (=3 Km).
19
Ora molti dei giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello.
20
Quando dunque Marta ascoltò che Gesù viene, gli andò incontro. Maria invece sedeva nella casa.
21
Disse dunque Marta a Gesù: Signore, se fossi stato qui, non sarebbe morto mio fratello!
22
Ma ora so che tutte le cose che chiedi a Dio, Dio te (le) darà.
23
Le dice Gesù: Risorgerà tuo fratello!
24
Gli dice Marta: So che risorgerà nella risurrezione nell’ultimo giorno.
25
Le disse Gesù: Io-Sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà.
26
E chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi questo?
27
Gli dice: Sì, Signore! Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo.
28
E, detto questo, andò a chiamare Maria, sua sorella, dicendo di nascosto: Il Maestro è qui e ti chiama.
29
Ora quella, appena ascoltò, si destò veloce e veniva da lui.
30
Ora Gesù non era ancora giunto nel villaggio, ma era ancora nel luogo
dove lo aveva incontrato Marta. 31
Allora i giudei che erano con lei in casa e la consolavano, avendo visto Maria risorgere veloce e uscire, la seguirono, credendo che andasse al sepolcro a piangere là.
32
Quando dunque Maria venne dove era Gesù, vistolo, cadde ai suoi piedi dicendogli: Signore, se fossi stato qui, non sarebbe morto mio fratello.
33
Allora Gesù, quando la vide piangere e piangere i giudei venuti con lei, fremette nello spirito e si turbò
34
e disse: Dove l’avete posto? Gli dicono: Signore, vieni e vedi!
35
Gesù versò lacrime.
36
Dicevano allora i giudei: Guarda come lo amava!
37
Ma alcuni di loro dissero: Non poteva costui, che aprì gli occhi del cieco, fare che anche questi non morisse?
38
Allora Gesù, di nuovo fremendo in se stesso, viene al sepolcro. Era una grotta e una pietra giaceva sopra di essa.
39
Dice Gesù:
Sollevate la pietra! Gli dice Marta, la sorella del defunto: Signore, già puzza: è infatti di quattro giorni! 40
Le dice Gesù: Non ti dissi che, se credi, vedrai la gloria di Dio?
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Allora sollevarono la pietra. Ora Gesù sollevò gli occhi in alto e disse: Padre, ti ringrazio perché mi ascoltasti.
42
Ora io sapevo che sempre mi ascolti, ma lo dissi a causa della folla che sta intorno, perché credano che tu mi inviasti.
43
E, dette queste cose, con gran voce urlò: Lazzaro! Qui fuori!
44
Uscì il morto, legato ai piedi e alle mani con bende, e il suo viso era avvolto da un sudario. Dice loro Gesù: Slegatelo
e lasciate che se ne vada! 45
Allora molti dei giudei, che erano venuti da Maria e avevano viste le cose che fece, credettero in lui.
46
Ma alcuni di loro andarono dai farisei e dissero loro le cose che fece Gesù.
47
Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: Che facciamo? Quest’uomo fa molti segni.
48
Se lo lasciamo così, tutti crederanno in lui; e verranno i romani e porteranno via il nostro luogo e la nazione.
49
Ora uno di loro, Caifa, essendo sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: Voi non sapete nulla!
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Non calcolate che vi conviene che un solo uomo muoia per il popolo e non perisca tutta quanta la nazione?
51
Ora non disse questo da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote in quell’anno, profetò che Gesù stava per morire per la nazione;
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e non solo per la nazione, ma per radunare in unità i figli di Dio dispersi.
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Da quel giorno dunque deliberarono di ucciderlo.
54
Allora Gesù non camminava più in pubblico tra i giudei, ma se ne andò di là in una regione vicina al deserto, nella città detta Efraim, e lì dimorò con i discepoli.
1. Messaggio nel contesto “Io-Sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà”, dice Gesù a Marta. Egli infatti è vita e luce, luce che splende nelle tenebre, vita che risveglia dalla morte. L’ultima opera del Messia è stata l’illuminazione del cieco: ci ha aperto gli occhi sulla realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora ci dà la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi
sulla morte, ipoteca di tutta la vita. Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo. L’uomo è l’unico animale cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Per questo, di sua natura, è cultura. La cultura infatti è una “macchina di immortalità”; ogni nostro sapere e potere è finalizzato ad affrancarci dalla morte e avere più vita. È una macchina splendida e imponente. Ma anche assurda ed impotente: non potendo vincere, cerchiamo di rinviare e rimuovere, o, nel migliore dei casi, interpretare l’appuntamento ineluttabile. La morte comunque, finché viviamo, ci costringe al suo gioco e ci tiene sempre in scacco, che, presto o tardi, è matto. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Non siamo liberi di perseguire la nostra aspirazione: ci sentiamo incantati e dominati dal Fato, che vanifica ogni nostra opera. Restiamo in attesa che sia reciso il tenue filo che ci tiene sospesi nel vuoto, per ricadere nel nulla, noi e ogni nostra fatica. L’esistenza è una condanna. A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando. Gesù ci salva non “dalla” morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece “nella” morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, divino. Ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Invece di chiuderci in difesa o in attacco, possiamo aprirci alla comunione e realizzarci a immagine di Dio, che è amore. Gesù non ci offre una ricetta, menzognera, per salvarci dal comune destino; ci fa invece vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. Questa, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: morremmo subito. Siamo però liberi di spenderla nell’egoismo o investirla nell’amore, sapendo che: “chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (12,25). Noi conosciamo una vita che è per la morte; Gesù ci rivela una morte che è per la vita. Siamo all’ultimo dei “segni”, che rivelano la gloria del Figlio di Dio. Dopo questo racconto seguirà la sua passione, che realizza il significato di tutta la sua azione: Gesù è il Figlio perché comunica la propria vita ai fratelli, e la comunica perché è il Figlio. Gesù, come Lazzaro e ogni uomo, muore. Egli però ha il potere di offrire la vita e di riceverla di nuovo. Anzi proprio perché la offre, la riceve come Figlio uguale al Padre, datore di vita. Questo è il “comando” ricevuto dal Padre (10,18), che lo costituisce Figlio e lo rende nostro fratello. Quest’ultimo segno richiama il primo: rivela la gloria del Figlio dell’uomo (vv. 4.40; cf. 2,11!), donata a ogni figlio d’uomo. È quella gloria che apparirà sulla croce: la gloria dell’Unigenito del Padre (1,14b), che dà, a chi lo accoglie, il potere di diventare figli di Dio (1,12). Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (v. 53). Chi dona vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. È il paradosso della croce, ormai all’orizzonte. Essa esprime l’apice sia del male che è nell’uomo, sia del bene che Dio gli vuole: manifesta la “sua gloria”, amore senza limiti, che si fa carico di ogni nostro limite. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva. Ogni segno, che Gesù finora ha compiuto, illumina un singolo aspetto della Parola come vita e luce degli uomini. La risurrezione di Lazzaro, invece, è un segno globale: dare la vita a un morto significa la vittoria sul nemico ultimo dell’uomo (1Cor 15,26). Siamo al culmine del “libro dei segni”. È vero che Lazzaro morirà ancora. Ma il suo ritorno alla vita indica che la morte non è più padrona dell’uomo ed è segno della risurrezione, che sarà comunione di vita con il Padre della vita. Gesù ci rivela che c’è morte e morte,
come c’è vita e vita. C’è una vita morta, propria di chi, schiavo della paura di perderla, si chiude nell’egoismo per trattenerla; e c’è una morte vivificante, intesa come dono della vita, atto supremo di amore. La risurrezione è credere in Gesù: chi aderisce a lui, già fin d’ora è in comunione con il Figlio e, anche se muore, vivrà (v. 25). Anzi, chi vive e crede in lui, non morrà in eterno (v. 26). Infatti partecipa della vita di Dio, che è amore: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli: chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14). Il ritorno in vita di Lazzaro è segno di ciò che accade alle sorelle Marta e Maria: il fratello esce momentaneamente dal sepolcro, ma per tornarci ancora, mentre le sorelle escono dal villaggio di afflizione e dalla casa di lutto per incontrare, già adesso su questa terra, il Signore della vita. Il vero risorto non è Lazzaro, tornato alla vita mortale, ma le sue sorelle e quanti credono in Gesù, passati alla vita immortale. In genere nel vangelo di Giovanni c’è un racconto breve del segno, seguito da dialoghi e discorsi che lo illustrano. In quest’ultimo invece, come nel primo compiuto a Cana, parole e gesti si intrecciano con brevi annotazioni dell’evangelista, ottenendo uno svolgimento drammatico di grande efficacia. Questo racconto, come altri, è proprio di Giovanni. La sua struttura è simile all’episodio della figlia di Giairo (cf. Mc 5,22-24.35-43p). Troviamo un Lazzaro anche in Luca 16,27-31, dove il ricco epulone chiede che egli risusciti dai morti e sia inviato ai suoi fratelli. Può essere una reminiscenza del fatto narrato da Giovanni, utilizzato da Luca in una parabola. Da Luca conosciamo pure Marta e Maria (Lc 10,38-42). Probabilmente Giovanni ha liberamente elaborato un evento storico in un racconto teologico, per illustrare che Gesù è risurrezione e vita. Posto alla fine del libro dei segni, dove si anticipa la gloria del Figlio, e prima della passione, dove si realizza, questo racconto mostra anche la causa e l’effetto della croce: Gesù è ucciso perché ci dà la vita, ma, proprio dando la vita, ci libera dalla morte. Il capitolo si articola in due grandi parti diseguali: Gesù dà la vita (vv. 1-45) e per questo riceve la morte (vv. 4654). Il protagonista del racconto non è Lazzaro, ma Gesù, nominato 22 volte. Anche i tre fratelli Marta, Maria e Lazzaro sono nominati 22 volte: rispettivamente 8 volte Marta, 8 volte Maria e 6 volte Lazzaro. Il tema è la fede in lui, risurrezione e vita. Il racconto, dopo l’antefatto (vv. 1-3), presenta Gesù, con i discepoli (vv. 4-16), con Marta e Maria (vv. 17-37), con Lazzaro (vv. 38-44) e, infine, le opposte reazioni nei confronti di lui, che sempre sta al centro dell’attenzione (vv. 45-53). Tutti i personaggi sono in movimento: Gesù e i suoi discepoli da oltre il Giordano a Betania, i giudei da Gerusalemme, Marta dal villaggio, Maria da casa e Lazzaro dal sepolcro. Qui tutti si danno convegno, i già e i non ancora morti. La vita è un movimento, che inevitabilmente finisce nel rigore cadaverico della tomba. Lazzaro giace dentro; gli altri per ora stanno fuori. La Parola, che fece uscire dal nulla tutte le cose, nel Figlio dell’uomo si fa ascoltare anche dai morti, facendoli uscire dai sepolcri: è la nuova creazione, l’esodo definitivo dalla morte alla vita (cf. 5,24-29). “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri” (Ez 37,13). Il messaggio primo del testo è Gesù come risurrezione e vita di quelli che credono in lui. Molti Padri hanno visto in Lazzaro, oltre che una prefigurazione di Gesù morto e risorto e della nostra risurrezione futura, anche un simbolo della vita nuova del battezzato, liberato dal peccato, vera morte dell’uomo (cf. Sap 2,24; Gen 3,19; Gb 18,5-21; Pr 11,19; Rm 5,12). Il testo, altamente simbolico ed evocativo, suggerisce varie interpretazioni. La risurrezione di Lazzaro fu chiamata da Pietro Crisologo “il segno dei segni”. Ovviamente ogni singolo dettaglio è significativo, e spesso a vari livelli, come rileveremo nella lettura. Il superamento della morte è il desiderio più profondo dell’uomo; egli non vuole che il suo essere al mondo abbia come destinazione il nulla. Se ciò che è bello e buono, si tramutasse alla fine nella maschera brutta e cattiva della
morte, che senso avrebbe vivere? Se il nulla fosse il fine di tutto, tutto sarebbe assurdo e nulla esisterebbe. Ma il nulla non può essere il fine, perché non può essere il principio della vita che effettivamente c’è. Il fine di ogni realtà corrisponde al suo principio. Siamo destinati non all’annientamento, ma alla comunione con il Figlio e il Padre. Questo racconto ci presenta il cuore del messaggio cristiano, che risponde al bisogno di felicità e pienezza presente in ogni uomo. Seguendo questo desiderio, si può ragionevolmente aver fede nel Dio della vita e accettarlo. Si può anche rifiutarlo e aver fede nel nulla. Ma irragionevolmente, perché dal nulla non può venire nulla, mentre di fatto esistiamo e abbiamo quell’anelito di vita che ci costituisce uomini. Il rifiuto di Dio e della vita deriva, più che da una sua ragionevolezza, dal nostro modo tragico di concepire la morte, con i disturbi emotivi che ne conseguono. Da questo ci guarisce il presente racconto. Gesù è risurrezione e vita. La risurrezione è una vita che non ignora la morte; anzi passa attraverso di essa, dandole il suo vero significato. La Chiesa crede che Gesù è il Figlio di Dio. Egli ha vissuto la sua morte violenta come dono della propria vita ai fratelli: in lui ci è offerta ora la possibilità di essere liberi dalla paura della morte, che ci tiene schiavi nell’egoismo, per vivere come lui nell’amore. Questa è la vita eterna, la vita piena che il Figlio è venuto a portare ai fratelli.
2. Lettura del testo v. 1: C’era un infermo, Lazzaro di Betania, del villaggio di Maria e Marta sua sorella. La struttura di questo versetto richiama l’inizio del vangelo, dove si parla della prima chiamata dei discepoli (cf. 1,44: “C’era Filippo di Betsaida, della città di Andrea e Pietro”). Qui siamo all’ultima chiamata, quella definitiva, che ci fa pienamente suoi discepoli. “Betania” significa “casa del povero” o “dell’afflitto”, e richiama l’altra Betania, al di là del Giordano (1,28), dove Giovanni il Battezzatore riconosce in Gesù il Figlio di Dio (1,34). Qui sarà riconosciuto da Marta (v. 27). Lazzaro è “infermo”: non sta in piedi. Rappresenta ogni uomo che, davanti al male, prima vacilla, poi cade e infine muore. L’attività del Figlio dell’uomo è rialzare l’uomo dal suo male e risuscitarlo dalla morte. Lazzaro è l’unico miracolato di Giovanni che ha un nome proprio: è il primo che esce dal sepolcro per seguire il Pastore bello, che chiama ciascuna delle sue pecore per nome (cf. 10,3). Il suo nome significa “Dio aiuta”: nella morte, come nella nascita, nessuno se la cava da se stesso. Nessuno nasce senza madre, nessuno muore senza il Padre! Al centro dei vv. 1-2 c’è Maria: Betania è chiamato il villaggio di Maria, che unse i piedi di Gesù, Marta è indicata come sua sorella e Lazzaro come suo fratello (v. 2). I termini fratello/sorella erano usuali per indicare i cristiani. Qui si tratta di una comunità che vive in ambito giudaico, come quella alla quale si rivolge il quarto vangelo. Anch’essa, come tutti, si confronta con la malattia e la morte, chiedendosi cosa significhi in concreto che Gesù ci ha salvati. v. 2: Maria era quella che unse il Signore con profumo, ecc. Si anticipa 12,1-3, dove si descrive la vita nuova della comunità, che festeggia il dono della vita con il servizio di Marta e l’amore di Maria. Amore per la presenza di chi si ama (vv. 3.5.11.36) e pianto per la sua assenza (vv. 31.33abis.35; cf. anche 33b.38) sono i sentimenti dominanti in questo racconto di resurrezione. v. 3: colui che ami è infermo. Tra Gesù e i suoi discepoli c’è una relazione di amicizia, al cui inizio sta lui. L’origine di quanto compie per Lazzaro e per ogni uomo è questo amore che si preoccupa e si occupa dell’amico. Qualcuno ha voluto identificare Lazzaro con il discepolo “che Gesù amava” (13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20).
La fede nella risurrezione dai morti, in Israele, non è frutto di speculazioni filosofiche: è nata dall’esperienza che Dio ama il suo popolo, gli è amico e gli resta fedele sempre. v. 4: questa infermità non è per la morte. Al paralitico Gesù dice di non peccare più, perché non gli accada di peggio (5,14). Del cieco nato dice invece che è senza peccato, come pure i suoi genitori: è così perché si manifestino in lui le opere di Dio (9,3). Anche “questa” infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio. C’è quindi un’infermità che conduce alla morte spirituale, che è quella prodotta dal peccato, e un’altra che conduce alla morte fisica, nella quale si rivela la gloria di Dio. La parola “morte” qui è usata in due sensi, uno spirituale e uno fisico: ci può essere chi è fisicamente vivo, ma spiritualmente morto, e chi è fisicamente morto, ma spiritualmente vivo. La morte è il luogo primo di ogni equivoco sulla vita. Può infatti essere intesa come separazione da tutto o come comunione con Dio. La malattia per la morte è il peccato: esso è il pungiglione che infetta la nostra esistenza (cf. 1Cor 15,56), rendendoci egoisti e chiudendoci all’amore del Padre e dei fratelli. Ma dove ha abbondato il peccato, sovrabbonda la grazia (cf. Rm 5,20): ora ogni malattia e morte può diventare “per la gloria di Dio”, che a tutti usa misericordia (cf. Rm 11,32). ma per la gloria di Dio, perché attraverso di essa sia glorificato il Figlio. “La gloria di Dio è l’uomo vivente”; la glorificazione del Figlio è la croce. Lazzaro, restituito alla vita, rivela la gloria di Dio e sarà causa della decisione di uccidere Gesù (vv. 47-53). v. 5: Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Si sottolinea ancora l’amore di Gesù per i tre fratelli. v. 6: dimorò nel luogo dov’era due giorni. Gesù rimane dove si trova e lascia che l’amico muoia. Se fosse andato, non sarebbe morto (cf. vv. 15.21.32). Volutamente arriverà tardi. Quando stiamo male, chiediamo dov’è il Signore, perché non agisce. A noi pare che rimandi il suo intervento e che l’ultima parola spetti alla morte. v. 7: andiamo di nuovo in Giudea. Due giorni dopo l’annuncio della malattia dell’amico, quando sa che ormai il suo destino è compiuto, Gesù propone ai discepoli di tornare in Giudea. Da lì s’era da poco ritirato per l’ostilità incontrata da parte di chi ha il potere. v. 8: cercavano di lapidarti e di nuovo vai lì? (cf. 7,1; 8,59; 10,31.39). È l’obiezione dei discepoli a Gesù: temono la morte sua e loro. Gesù torna a Gerusalemme per l’ultima volta. v. 9: non sono forse dodici le ore del giorno, ecc. “Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare” (9,4). “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce “ (12,35s). Gesù invita i discepoli a seguirlo. Il giorno è lui, in cui splende il sole dell’amore del Padre: di esso vive e per questo è luce del mondo (8,12). v. 10: se uno cammina nella notte inciampa. Viene la notte, quando nessuno può operare (9,4). Per i discepoli sarà il momento della prova e della caduta. Tutti saranno scandalizzati: percosso il pastore, le pecore saranno disperse (cf. Mc 14,27). Anche Pietro lo rinnegherà (13,36-38; 18,16-18-25-27). Il discepolo fallirà come discepolo: abbandonerà e lascerà solo il suo Signore (16,32). v. 11: Lazzaro, il nostro amico. Lazzaro è chiamato “il nostro amico”. Si ribadisce per la terza volta che l’amore del Signore per noi e la nostra amicizia con lui, che ci fa amici tra di noi, è principio di risurrezione e vita. dorme. Per noi la morte è la fine di ogni speranza. Per Gesù invece, sulla linea della rivelazione biblica, è termine del giorno vecchio e inizio del sonno ristoratore, cui segue il risveglio di un nuovo giorno. La morte è sdrammatizzata: non è sprofondare nel buio, ma riposo pacificatore, popolato dai sogni segreti del cuore. La parola
“cimitero” significa “dormitorio”. Siccome il Figlio gli è amico e lo ama, Lazzaro, come ogni uomo, anche se è morto, vive. Amare uno significa dirgli: “Tu non morrai”. Alla luce dell’amore del Figlio, la morte non è più l’attesa angosciante, l’abisso che risucchia, la tragedia della vita: è comunione con il Padre. “È per nascere che si è nati!” Se la nostra gestazione alla nascita terrena è di nove mesi e, normalmente, va da sé, quella alla nascita divina è di circa novant’anni ed è lasciata alla nostra libertà. Alla fine apriamo gli occhi e veniamo alla luce: vediamo la nostra luce. Circa i morti, i credenti non sono nell’afflizione come coloro che sono senza speranza perché ignorano l’amore del Padre (cf. 1Ts 4,13). Costoro vivono sotto il dominio del divisore, che li tiene schiavi per tutta la vita con la paura della morte (cf. Eb 2,14s): vivono la morte giorno dopo giorno, in attesa della fine. Il cristiano invece vive già fin d’ora la vita eterna, nell’amore di colui che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (cf. Gal 2,20). v. 12: se dorme sarà salvato. I discepoli pensano che si tratti del sonno naturale, buon segno per un infermo. Ignorano che si parla della morte. La salvezza viene proprio da lì, sia per il Figlio che per i fratelli. Se il sonno serale è medicina ai mali di un giorno, l’ultimo è medicina ai mali di una vita. v. 13: aveva parlato della sua morte; quelli invece pensarono, ecc. L’evangelista sottolinea l’equivoco: per Gesù la morte è un sonno, per i discepoli è ancora la fine di tutto. v. 14: Lazzaro è morto. Gesù ha atteso che Lazzaro morisse. Dopo aver parlato di sonno e di risveglio, chiarisce l’equivoco: sta parlando della morte, dalla quale lo risveglia per rivelare la gloria di Dio. Nella Bibbia sono raccontati sette ritorni in vita dopo la morte, due nell’AT e cinque nel NT: i figli della vedova (1Re 17,17-24) e della sunammita (2Re 4,18-37), risuscitati rispettivamente dai profeti Elia ed Eliseo, la figlia di Giairo (Mc 5,22-24.35-43p), il figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17) e Lazzaro (Gv 11,1ss), risuscitati da Gesù, Tabità (At 9,36-42) ed Eutico (At 20,9ss), risuscitati rispettivamente dagli apostoli Pietro e Paolo. v. 15: gioisco per voi. Sembra assurdo: annunciando che l’amico Lazzaro è morto, gioisce per i suoi discepoli di non essere stato là per guarirlo. affinché crediate. La risurrezione di Lazzaro sarà per i discepoli il segno che fa loro credere in Gesù come risurrezione e vita. andiamo da lui. Gesù esorta i discepoli ad andare da Lazzaro. Anche se il morto, separato da tutti, non è più amico di nessuno, il Signore gli resta amico e gli viene incontro. La sua decisione di andare verso l’amico corrisponde a quella di andare verso la propria morte, piena anche per lui di desiderio e di angoscia (12,27s; cf. Lc 12,50; 22,15). v. 16: Tommaso, detto gemello, disse: Andiamo anche noi a morire con lui. Tommaso è chiamato “gemello”: è “l’altro” di Gesù, disposto a morire non “per” lui, come Pietro, (cf. 13,37), ma “con” lui. Non sa ancora che, per Gesù, il suo morire è un dare la vita a favore dei fratelli, per riceverla di nuovo (10,17). Qui termina il confronto tra Gesù e i discepoli, che d’ora in poi resteranno sullo sfondo, sostituiti da Marta, Maria e Lazzaro v. 17: venuto dunque Gesù, lo incontrò. Gesù “incontra” l’amico Lazzaro che è già morto. Se all’inizio il discepolo arriva a Gesù per la chiamata di un altro che l’ha incontrato (cf. 1,41.43.45), alla fine è incontrato direttamente dal Signore, che lo chiama a uscire dal sepolcro. È la chiamata definitiva del Pastore bello. già da quattro giorni era nel sepolcro. Si riteneva che dopo tre giorni la morte fosse definitiva, perché al quarto comincia la decomposizione. Il numero quattro indica anche totalità: quattro sono gli elementi, quattro le direzioni. Ogni realtà, da ogni direzione, confluisce nella morte. Sepolcro in greco si dice mnemeîon, che ha la stessa radice di “memoria” e di
“morte”, come anche di méros (= parte, eredità) e di mo_ra (= sorte). L’uomo sa che è terra, da essa viene e ad essa ritorna: è memoria di morte. Questa è la sua sorte, la sua parte di eredità, che sempre ricorda. v. 18: Betania era vicina a Gerusalemme. La morte/risurrezione di Lazzaro, avvenuta a Betania, richiama quella di Gesù, che presto avverrà a Gerusalemme. v. 19: molti giudei erano venuti. Sono amici di Marta e Maria, venuti a consolarle. La solidarietà nel lutto è principio di “umanità”: ognuno si riconosce partecipe del destino dell’altro. I giudei possono spendere buone parole sulla risurrezione futura; però non sanno dar vita a un morto o dare ai vivi, in attesa di morte, quella vita che vince la morte. v. 20: Marta ascoltò che Gesù viene, ecc. L’ascolto della venuta di Gesù la fa uscire dal villaggio di afflizione per andare all’incontro con il Signore che viene. Principio di ogni cammino di fede è ascoltare, uscire e andare all’incontro con colui che viene. Maria invece sedeva nella casa. Maria è ancora bloccata in casa, nel suo dolore. Sarà chiamata dalla sorella, dopo che avrà incontrato il Signore. v. 21: Signore, se fossi stato qui, ecc. Gesù, all’annuncio della malattia di Lazzaro, dimorò dov’era due giorni (v. 6) e disse ai discepoli di essere contento per loro di non essere stato a Betania (v. 15), altrimenti avrebbe soddisfatto l’attesa qui espressa da Marta, poi da Maria (v. 32) e infine dai giudei (v. 37). La nostra richiesta è sempre la stessa: che il Signore salvi dal dolore e dalla morte. A che serve un Dio che non aiuta? Secondo noi è assente proprio nel momento del bisogno. Quando vorremmo che “fosse qui”, lui sembra costantemente altrove. v. 22: so che tutte le cose che chiedi a Dio, ecc. Marta si aspetta un miracolo (cf. 2Re 4,8ss). Sa che Gesù, se fosse stato lì, avrebbe guarito suo fratello; sa anche che è in grado di farlo tornare in vita, perché da Dio ottiene tutto (cf. v. 41s). Ha fiducia che rianimerà Lazzaro. Il Signore lo farà, ma come occasione per rianimare in lei la fiducia in lui, vita senza tramonto. v. 23: risorgerà tuo fratello. La risposta di Gesù sembra una consolazione generica, che richiama alla speranza nella risurrezione dell’ultimo giorno (cf. 6,48-51.54). v. 24: so che risorgerà nella risurrezione nell’ultimo giorno. La risposta di Marta denota una certa delusione: Gesù non sembra esaudire la sua richiesta. L’ultimo giorno è per lei lontano; la speranza di esso non toglie il suo dolore. Anche lei sa che Dio, alla fine, eliminerà la morte per sempre (Is 25,8): crede alla grande promessa, compimento della creazione. Ignora però che l’ultimo giorno è già presente in Gesù, che dà lo Spirito (cf. 7,37-39). v. 25: Io-Sono la risurrezione e la vita. Gesù si rivela con la formula: “Io-Sono”. Egli è per noi risurrezione, presente e futura, perché in se stesso è vita: l’ha ricevuta dal Padre e la comunica ai fratelli. La risposta di Gesù si pone a un livello più alto del desiderio di Marta. Ciò che ha chiesto le sarà concesso; ma questo è niente di fronte al dono che vuol farle, più grande di ogni sua attesa. chi crede in me, anche se muore, vivrà. La fede in Gesù non ci salva dalla morte, ma ci dà qui e ora la vita eterna: è venuta l’ora, ed è adesso, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno (5,25). Noi tutti siamo dei morti viventi, in marcia verso il sepolcro; ma se ascoltiamo la voce del Figlio, vinciamo la morte. Infatti “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (5,24). Ascoltare la sua parola è amare i fratelli: questo è il suo comando (13,34), che ci fa passare dalla morte alla vita. Infatti, chi ama, non dimora nella morte (cf. 1Gv 3,14), ma in Dio, che è amore (1Gv 4,16b). Credere in lui è già vivere oltre la morte: si muore fisicamente, ma si “vivrà” in lui quella vita nell’amore che inizia ora e si manifesterà, senza veli, nell’ultimo giorno.
v. 26: chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Gesù offre la possibilità di vivere “in lui”. La fede infatti ci fa abitare in lui come lui in noi, ci fa vivere di lui, pane di vita (cf. 6,48-58). Chi vive e crede nel Figlio, pur morendo, non morrà in eterno: per lui la morte non sarà chiudere, ma aprire gli occhi su ciò che già ora ha in sé: l’amore del Padre e del Figlio. Questa è la vita eterna, pegno di risurrezione futura, che ci fa esporre, disporre e deporre la vita a favore dei fratelli, per realizzarla pienamente (cf. 10,11-18). credi questo? In genere la fede riguarda la persona di Gesù, il vangelo o Dio. Qui invece, sorprendentemente, riguarda quanto Gesù ha detto: lui infatti è la sua stessa Parola. Marta deve passare da una fede nel suo potere miracolistico a quella fede che incontra Gesù e accetta la sua parola. v. 27: sì, Signore. Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio. Marta dimentica la sua domanda iniziale e risponde alla domanda, ben più importante, del Signore. La vera risurrezione è la sua, non quella di Lazzaro, perché crede in Gesù come Cristo e Figlio di Dio. Se il fratello uscirà dal sepolcro, per questa sua fede Marta nasce alla vita stessa di figlia di Dio. La sua è la fede alla quale il vangelo vuol portare il lettore: credere che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, per avere la vita nel suo nome (20,31). Infatti chi crede in lui non muore, ma ha vita eterna (3,16b): egli è la Parola, vita di tutto ciò che è (cf. 1,1-3). Marta giunge alla fede piena in Gesù, come il Battista prima di lei (1,34). A questo punto la sua attenzione non è più sulla morte del fratello o sull’attesa della sua restituzione alla vita: è tutta concentrata su Gesù, che dona qui e ora la vita a chi lo ascolta. Gesù non è venuto per ridare a un cadavere la vita vecchia, ma per “risuscitare” a una vita nuova chi crede in lui. Non sarebbe stato un servizio da amico far vivere e morire due volte, come non bastasse una volta sola! Egli vuol farci vivere, nella nostra condizione mortale, la vita eterna, che è l’amore per il Padre e per i fratelli. v. 28: detto questo, andò a chiamare Maria, ecc. Dopo la sua adesione a Gesù, nel quale ha trovato ciò che cercava, Marta va da sua sorella. La scoperta di una diventa chiamata per l’altra: la sorella invita la sorella ad andare dal “Maestro”, che la chiama all’incontro con lui. Qui, come altrove nei vangeli, le donne hanno il ruolo principale: rispetto agli uomini, hanno più dimestichezza con la realtà, con la vita e la morte. dicendo di nascosto. Marta parla di nascosto perché sono presenti i nemici di Gesù. Questa “comunità di fratelli” in Betania è immagine di tante comunità che vivono in ambiente ostile. v. 29: appena ascoltò, si destò veloce e veniva da lui. L’annuncio di Marta è efficace: Maria si leva da dove si trova per uscire veloce all’incontro con il Signore della vita. Per Maria si usano i verbi “destarsi” e “risorgere” (cf. v. 31), con i quali si indica la risurrezione di Gesù stesso. Maria, uscendo dalla casa e dal villaggio per correre incontro al Signore che la ama e che ama (cf. 12,1ss), si risveglia e risorge a vita nuova. La vera risurrezione è per lei come per Marta, perché incontra Gesù, sua vita. La velocità di Maria, sottolineata anche al v. 31, è la sollecitudine propria dell’amore. v. 30: Gesù non era ancora giunto nel villaggio, ecc. L’evangelista annota che Gesù non è entrato neppure nel villaggio. Prende l’iniziativa e ci viene incontro; ma attende che noi andiamo nel luogo dove si fa trovare. Incontra Maria dove ha incontrato Marta, fuori dal luogo dove si celebra il lutto. Per tutti è necessario uscire dal villaggio e dalla casa di morte per incontrare la vita. v. 31: i giudei che erano in casa, ecc. Questi giudei, seguendo Maria che pensano vada al sepolcro, si trovano davanti a colui che dona la vita. Anch’essi sono chiamati a credere in lui, per passare dalla morte alla vita. v. 32: Signore, se fossi stato qui, mio fratello, ecc. Il desiderio di Maria è lo stesso di Marta. È quello di ogni uomo: l’attesa impossibile di non morire (cf. v. 37). Anche lei non sa ancora che c’è una qualità di vita che va oltre la morte.
v. 33: Gesù, quando la vide piangere e piangere i giudei. Davanti alla morte non resta che il pianto. È il dolore, rabbioso o rassegnato, per la perdita di ciò che più ci sta a cuore. Davanti alla morte, tutti, poveri e ricchi, saggi e stolti, siamo ugualmente sconfitti: impossibile ogni azione, resta solo questa reazione. La risposta di Gesù a Maria, che lo ama e piange per il fratello, è diversa da quella data a Marta: mostrerà non “che”, ma “come” il Signore è risurrezione e vita: mediante la sua “com-passione”, che farà passare anche lui attraverso il pianto della morte. La morte ci priva di tutto, senza risparmiare nulla. Lascia solo il pianto a chi, non ancora morto, sopravvive ricordando chi l’ha preceduto. Essa regna sovrana: ogni potente le offre il collo, ogni vita si spezza. È salario del peccato (Rm 6,23), suo pungiglione velenoso (cf. 1Cor 15,56). Senza il peccato la morte non sarebbe avvelenata: la nostra fine sarebbe il ricongiungimento con il nostro principio, il ritorno al Padre, l’incontro con lui. Ma il peccato ci ha fatto rifiutare il nostro principio e il nostro fine, ci ha fatto fuggire da lui e ci ha chiusi in noi stessi, nel disperato tentativo di salvarci. La morte, così come noi attualmente la viviamo, è entrata nel mondo a causa del peccato e ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (Rm 5,12). Esso ha fatto sì che la nostra fosse una vita-per-la-morte. fremette nello spirito e si turbò (cf. Sal 42,6.12; 43,5). Il verbo “fremere” significa letteralmente “sbuffare, ansare”: esprime indignazione e ira. Gesù freme dentro di sé contro il male dell’uomo: è l’ira di Dio, che interviene a salvarlo. Il nostro male lo turba profondamente, più che se fosse suo; lo sconvolgerà fino a morirne (cf. 12,27). Tutta la Bibbia rivela l’azione di Dio come passione per l’uomo, che culmina nella “com-passione” della croce, dove “patiscecon” noi il nostro stesso male. La compassione (in greco suona sympátheia, simpatia), con la pietà e la misericordia, sue parenti, non è un semplice turbamento dell’animo, disdicevole per un saggio e comunque impotente. È quel sentire tipico dell’uomo che lo rende simile a Dio, tanto potente da superare anche la soglia ultima della solitudine, la morte. Facendo il verso all’imperativo: “Siate santi, perché io sono santo” (Lv 11,44), Gesù specifica in cosa consista la sua santità: “Diventate misericordiosi così come anche il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). Compatire è principio universale di ogni agire umano: l’azione che non nasce dalla compassione, è prevaricazione sull’altro. La compassione non è il sentimento di chi è debole, ma di chi ha la forza di Dio, che è amore. “La compassione uccide”; ma anche dà vita: a chi compatisce, dà la vita di Dio e a chi è compatito, una compagnia più forte della morte. Per questo Giobbe, davanti al dolore, unico problema dell’uomo, chiede agli amici che cessino ogni spiegazione e gli accordino semplicemente compassione ( cf. Gb 19,21). v. 34: dove l’avete posto? Il Signore sa dov’è l’amico: là dove siamo tutti, prima con il ricordo e poi con il corpo. Vuole che ne prendiamo coscienza, per uscirne e andare nel luogo dove si incontra lui (cf. v. 30). La prima domanda di Dio ad Adamo è: “Dove sei?”. Il cammino di Dio in cerca dell’uomo, cominciato nell’Eden, termina nel sepolcro: lì vede dove noi, i sopravvissuti, abbiamo posto i deceduti, in attesa di essere aggiunti a loro. Signore, vieni e vedi. Ai discepoli che gli chiedevano: “Dove dimori?”, Gesù rispose: “Venite e vedrete” (1,38s). Al Figlio che chiede dove hanno fissato la loro dimora, i fratelli rispondono: “Vieni e vedi!”. “Signore, vieni e vedi” è l’invocazione di ogni uomo. Squarcia i cieli e scendi (Is 63,19) nelle nostre tenebre; apri gli occhi, guarda la nostra miseria e vieni a salvarci. v. 35: Gesù versò lacrime. Mentre gli altri piangono, con clamore, Gesù lacrima. Le sue lacrime però non sono impotenza di dolore, ma potenza di amore: è il pianto di Dio per il male dell’uomo che ama. v. 36: come lo amava. Proprio perché lo amava – e lo ama ancora! – scaturiscono da lui lacrime di compassione: patisce il male dell’amico morto. “Chi ha sete venga a me e beva” (7,37): gli assetati di vita si possono
dissetare a questa fonte. Dagli occhi di colui che è la luce del mondo sgorga l’acqua che ci fa venire alla luce. Il suo amore lo porterà a venire e vedere dove stiamo, sino a condividere la nostra sorte: allora dal suo cuore scaturirà per noi la sorgente di vita. Come la sua sete (cf. 4,7; 19,28) estinguerà ogni nostra sete, così le sue lacrime asciugheranno ogni nostra lacrima. Esse feconderanno la terra e faranno germinare il seme nascosto. Lazzaro stesso si leverà dal suolo, primo stelo di una messe sterminata di fratelli. v. 37: non poteva costui, che aprì gli occhi del cieco, ecc. La risurrezione di Lazzaro è connessa al miracolo del cieco: la vera illuminazione è davanti al buio della morte. La gente si aspettava solo che Gesù gli ritardasse la sorte comune: è l’ossessione costante dell’uomo. Gesù invece compie il miracolo di aprirci gli occhi sulla morte, per liberarci dalla paura che essa incute e con la quale ci tiene schiavi. Essa non è la fine, ma il fine della vita, non è l’oscurità del nulla, ma la luce della Gloria, non è separazione da tutto, ma incontro con il Padre di tutti. Questa illuminazione è la vita eterna che l’ascolto del Figlio ci dona. Ciò che avviene a Lazzaro è segno di ciò che avviene a chi ascolta le parole di Gesù: “Io-Sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (vv. 25s). Il passaggio dalla morte alla vita è quanto avviene in Marta, che dice: “Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (v. 27); è quanto avviene in Maria, che “si desta” e “risorge” per correre verso Gesù. Questa fede in lui è la vita eterna (20,31). v. 38: Gesù, fremendo in se stesso, viene al sepolcro. Il cammino di Gesù che viene a vedere il luogo dove hanno posto l’amico Lazzaro, è incluso nella duplice menzione del suo fremito interiore (vv. 33.38). Qui, al sepolcro, dove termina il cammino dell’uomo, cessa ogni fuga da Dio. Qui arriva anche il faticoso cammino del Figlio in cerca dei fratelli: sarà la fatica dell’ora sesta, quella della croce (19,14; cf. 4,6). Terminato il dialogo con le sorelle, ora comincia quello con Lazzaro. La voce del Figlio farà uscire dal sepolcro il fratello morto, che diventerà gloria di Dio e causa della sua glorificazione sulla croce. era una grotta. Questo sepolcro è una grotta, una cavità della madre terra, quasi grembo di vita diventato fossa di morte, bocca che mangia i figli che ha generato. Nella grotta di Macpela, primo pezzo di terra promessa, fu sepolta la matriarca Sara (cf. Gen 23,1ss); e dopo di lei i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. In questa grotta stanno coloro che hanno dato origine al popolo; chi muore si ricongiunge ai suoi padri, che già sono morti. una pietra giaceva sopra di essa. Questa pietra è principio di ogni separazione: distingue vita da morte. Essa chiude la grotta e vi sigilla dentro la tenebra, facendo della spelonca il “monumento” (mnemeîon), memoria fondamentale, rimossa eppur visibile, dell’uomo. L’uomo è humus, terra: è “umano” perché sa di essere humandus, da inumare, da porre sotto terra. Il sepolcro è “il segno” originario, il tumulo, una tumefazione della terra che indica ciò che resta di un corpo umano – segno che sta all’origine di ogni possibilità di significato. In greco la parola sôma (= corpo) richiama sêma (= tumulo, segno). L’uomo, corpo significante, per breve tempo esce dalla terra per farvi ritorno. La sua esistenza è un breve ricordo di morte, librato sul sepolcro, che presto lo risucchia. v. 39: sollevate la pietra. È l’ordine di Gesù. Il Figlio è venuto per togliere questa pietra che separa i fratelli dalla vita. Nella sua risurrezione essa rotolerà via definitivamente, benché sia molto grande (cf. Mc 16,4), tanto grande da gravare su tutti. già puzza. Il racconto era iniziato con il ricordo del profumo di Maria (v.2); ora Marta parla di fetore. Che altro può uscire da una tomba scoperchiata? Fin che non conosciamo la luce del Figlio e viviamo schiavi della morte, la nostra vita è infestata di lezzo: il nostro volto diventa la maschera funebre di noi stessi, in attesa che ogni forma si decomponga e ogni bellezza svanisca.
è infatti di quattro giorni. Al quarto giorno dal decesso non c’è più speranza di vita. Quattro è anche il numero di totalità (cf. commento al v. 17): siamo al quarto giorno in cui regna la morte. In realtà ogni nostro giorno è sotto il suo dominio. Il primo è quello in cui nasciamo, eredi sicuri della tomba; il secondo è quello in cui cresciamo, soggiogati dalla paura della morte; il terzo è quello del nostro ritorno alla terra; il quarto è quello oltre la morte, che per tutta la vita ci prefiguriamo come separazione definitiva dalla luce. v. 40: non ti dissi che, se credi, vedrai la gloria di Dio? La gloria di Dio, che si manifesterà attraverso la vicenda di Lazzaro (cf v. 4), è la fede in Gesù come risurrezione e vita (cf. vv. 25-26). Se crediamo in lui e viviamo del suo amore, siamo già passati dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14). Il lezzo lascia il posto al profumo; invece del volto sfatto dalla morte, vediamo l’uomo vivente, gloria di Dio. v. 41: sollevarono la pietra. Sulla parola di Gesù è tolta la pietra, dietro la quale pensiamo che ci sia tutto ciò che temiamo. Tolta la pietra, la luce entra nelle tenebre. Gesù sollevò gli occhi in alto. Noi sempre guardiamo in basso, verso la pietra, sulla quale proiettiamo le nostre paure. Gesù invece guarda in alto, verso il Padre della vita: “Tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede” (Sal 25,15). Padre, ti ringrazio perché mi ascoltasti. Gesù non chiede nulla. Ringrazia il Padre perché sempre ascolta il Figlio, come il Figlio sempre ascolta il Padre; vivono infatti dell’unico Spirito, che è il loro amore reciproco. È la seconda volta che Gesù ringrazia il Padre. Nella prima ringraziò per il pane, segno del dono della sua vita di Figlio; ora ringrazia perché questa è comunicata a chi ascolta la sua voce. v. 42: lo dissi a causa della folla che sta intorno, perché credano, ecc. Gesù ringrazia il Padre ad alta voce, perché chi lo ascolta, creda in lui, il Figlio inviato dal Padre. v. 43: con gran voce urlò (cf. 12,13; 18,40; 19,6.12.15; cf. gridò: 7,28.37; 12,44). Questo urlo scaturisce da un’azione di grazie al Padre della vita. Il Figlio dell’uomo urla; e quanti sono nei sepolcri odono la sua voce di tromba: è l’anticipo della risurrezione finale (cf. 5,28s). Lazzaro. Gesù chiama Lazzaro, il morto, per nome; lo chiama presso di sé, alla sua sequela (cf. Mc 1,17; Mt 4,19): “Hai gridato, hai infranto la mia sordità” (S. Agostino). qui. Il suo luogo non è il sepolcro, ma il Figlio. Anche i morti sono del Signore, suoi discepoli, chiamati per nome. fuori. Lazzaro è chiamato ad uscire dal sepolcro, come noi a uscire dal ricordo di morte. Ciò che avviene a Lazzaro è segno di ciò che avviene in noi: tolta la pietra che ci separa da quelli che ci hanno preceduto, è ristabilita la comunione piena tra i fratelli. Tutti infatti, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con il Signore (cf. 1Ts 5,10): viviamo per Dio, che è un Dio dei vivi e non dei morti (cf. Lc 20,37s). Questa prospettiva di una morte-per-lavita ci toglie dall’incubo di una vita-per-la-morte, che rende insensata e disperata la nostra esistenza, incapace di gioire e di amare pienamente. v. 44: uscì il morto, legato ai piedi e alle mani con bende, ecc. Nel mattino di pasqua, bende e sudario non saranno sul corpo di Gesù (20,5-7). Lazzaro, invece, porta ancora i segni della morte, che tornerà a visitarlo: la sua risurrezione è solo provvisoria.
Quest’immagine di Lazzaro, tornato in vita con addosso il velo e i legami della morte, mostra come noi pensiamo i morti: delle larve avvolte nell’ombra. Siccome sappiamo di finire così, conduciamo un’esistenza triste, incapaci di camminare e vivere nell’amore. I nostri piedi e le nostre mani sono legati nel seguire il Signore e nello spezzare il pane; il nostro volto, coperto dal sudario, non riflette la sua gloria.
slegatelo. È l’ordine di Gesù a coloro che guardano Lazzaro: è l’ordine rivolto a noi, che guardiamo ancora la morte come fine della vita. Siamo chiamati ad abbandonarne i segni e lasciarli nel sepolcro: saranno il trofeo della vittoria pasquale (cf. 20,5-7). Allora saremo capaci di gioire e amare, abbandonati al Padre ed ai fratelli, in ascolto della parola dal Figlio, nel quale crediamo e viviamo. lasciate. Dobbiamo lasciare, congedare il defunto dal nostro modo di pensare la morte, per essere anche noi riconciliati con la vita. che se ne vada. La morte infatti non è più morte: è come quella di Gesù, che “se ne va” verso il Padre della vita (cf. 7,33; 8,21; 13,3.33.36; 14,4-5.28; 16,5-10.17). In quel giorno apriremo definitivamente gli occhi e non lo vedremo più come in uno specchio, in maniera confusa, ma faccia a faccia (1Cor 13,12). E saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3,26). Sarà il giorno della nostra nascita, in cui verremo alla luce piena della nostra realtà di figli di Dio. Splendidamente S. Ambrogio sente rivolte a sé, peccatore, queste parole di Gesù, come chiamata a uscire da quella tomba che lui è per se stesso: “Possa tu, Signore, degnarti di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe! Se piangerai per me, sarò salvo. Se sarò degno delle tue lacrime, cancellerò il fetore di tutti i miei peccati. Se sarò degno che tu pianga qualche istante per me, mi chiamerai dalla tomba di questo corpo e dirai: ‘Vieni fuori’, perché i miei pensieri non restino nello spazio ristretto (11,43) di questo corpo, ma escano incontro a Cristo e vivano alla luce, perché non pensi alle opere delle tenebre, ma alle opere della luce. Chi pensa al peccato, cerca di chiudersi nella propria coscienza. Chiama dunque fuori il tuo servo. Quantunque, stretto nel vincolo dei miei peccati, io abbia avvinti i piedi, legate le mani e sia ormai sepolto nei miei pensieri e nelle ‘opere morte’ (Eb 9,14), alla tua chiamata uscirò libero e diventerò ‘uno dei commensali’ (12,2) nel tuo convito. E la tua casa si riempirà di prezioso profumo, se custodirai ciò che ti sei degnato di redimere”. v. 45: molti dei giudei, che erano venuti, ecc. Molti dei giudei presenti credono in Gesù. v. 46: alcuni di loro andarono dai farisei. Alcuni invece lo denunciano: lo stesso segno fa venire alla luce chi è cieco e accieca chi crede di vedere. v. 47: che facciamo? I capi dei sacerdoti e i farisei riuniscono il Sinedrio per decidere il da farsi. Al fare di Gesù che dà vita ai morti, si contrappone il fare di chi dà morte ai vivi. Il segno di Lazzaro, che rivela la gloria del Dio della vita, sarà anche causa della glorificazione del Figlio, ben presto elevato sul patibolo. v. 48: verranno i romani e porteranno via, ecc. Ciò che muove la loro decisione è la paura dei romani, che distruggeranno e tempio e popolo. Infatti, se Gesù è il Messia, interverranno pesantemente per stroncare ogni pretesa di libertà. Non hanno capito che i romani faranno con loro esattamente come essi fanno con il Messia. Egli è venuto non a liberarli dai romani, ma a liberare loro e i romani dal gioco di morte che tutti facciamo. Il Signore, che in una notte fece uscire Israele dall’Egitto, non riuscirà in quarant’anni a far uscire l’Egitto dal cuore di Israele. E, se la sua storia è anticipo di ciò che accade a noi (1Cor 10,11), si può pensare che, in duemila anni, non sia ancora riuscito a liberare il nostro cuore. v. 49: Caifa, essendo sommo sacerdote in quell’anno, ecc. È il capo del Sinedrio, che detiene il potere, anche se subordinato ai romani. Ambedue, Sinedrio e imperatore romano, sono sudditi della morte. Ma essa, alla fine, sarà assoggettata al Signore della vita, che è venuto a vedere il luogo dove abbiamo posto l’uomo. v. 50: conviene che un solo uomo muoia per il popolo. Caifa dice il significato della morte di Gesù: è l’uomo, il solo, che muore a vantaggio di tutti, perché nessuno perisca.
v. 51: non disse questo da se stesso, ecc. Suo malgrado, in quanto sommo sacerdote, quella di Caifa è una profezia, che l’evangelista annota e interpreta. È la profezia che, da Abele all’ultimo giusto, svela la verità della storia: è sempre il giusto che paga l’ingiustizia. Egli porta il male degli altri, a salvezza di tutti. v. 52: non solo per la nazione, ma per radunare in unità, ecc. Nel disegno di Dio la morte di Gesù non solo salva il popolo ebraico, ma raduna in unità i suoi figli dispersi nel mondo. Figli di Dio sono tutti gli uomini, che tali diventano, al di là di ogni distinzione di religione e di razza, credendo nel Figlio e amando i fratelli e il Padre. Per questo è importante l’annuncio del vangelo, perché tutti conoscano la verità che fa liberi. Ciò che c’è, per chi lo ignora, è come se non ci fosse. Delle cose necessarie rimane però il desiderio, che, almeno alla fine, sarà appagato. v. 53: da quel giorno dunque deliberarono di ucciderlo. Il giorno in cui Gesù dona la vita, è lo stesso in cui decidono la sua morte. Vita per vita; vita a caro prezzo, a prezzo della propria morte. Finisce così il suo giorno e viene la sua “ora”, in cui svelerà la Gloria. v. 54: Gesù non camminava più, ecc. Gesù scompare; si ritira in una regione vicina al deserto, nella città di Efraim, in Samaria, dove si era rivelato salvatore del mondo.
3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando il cammino di Gesù verso il villaggio e dal villaggio alla tomba. c. Chiedo ciò che voglio: credere alle parole di Gesù, risurrezione e vita di chi crede in lui. d. Contemplo di seguito le varie scene: Gesù e i discepoli, Gesù e Marta, Gesù e Maria, Gesù e Lazzaro. Da notare: •
Maria, Marta e Lazzaro di Betania
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Maria profumò i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli
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Lazzaro era infermo
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Signore, colui che ami è infermo
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questa infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio e la glorificazione del Figlio
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Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro
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Gesù aspetta che l’amico muoia
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le obiezioni dei discepoli ad andare in Giudea: temono la morte
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Lazzaro dorme: vado a risvegliarlo
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Lazzaro è morto: andiamo da lui
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andiamo anche noi a morire con Gesù
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Marta va incontro a Gesù
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se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Ma so che Dio ti concede quanto gli chiedi
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risorgerà tuo fratello
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so che risorgerà nell’ultimo giorno
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io sono la risurrezione e la vita
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chi crede in me, anche se muore, vivrà
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chiunque vive e crede in me non morirà in eterno
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credi questo?
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credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio
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Marta chiama Maria, che va veloce da Gesù
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tutti piangono; Gesù, turbato, lacrima
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dove l’avete posto?
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vieni e vedi
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togliete la pietra
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già puzza: è di quattro giorni
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Gesù prega ad alta voce il Padre, perché noi ascoltiamo e crediamo in lui
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Lazzaro, qui, fuori!
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slegatelo e lasciatelo andare
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molti credettero in lui
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la decisione di uccidere Gesù per salvare tutti
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Gesù si ritira con i suoi discepoli, in attesa della Pasqua imminente.
4.
Testi utili
Sal 16; 23; 1Re 17,17-24; 2Re 4,18-37; 2Mac 7,1ss; Is 25,6-12; Ez 37,1-14; Sap 3,1-9; 4,7-19; 5,15s; Gv 5,24-29; 6,4858; Mc 5,21-43; Lc 7,11-17; 1Cor 15,1ss; Rm 6,1-11.
29. UNSE I PIEDI DI GESÚ 11,55-12,11 11,55
Era vicina la Pasqua dei giudei e salirono molti dalla regione a Gerusalemme, prima della Pasqua, per santificarsi.
56
Cercavano dunque Gesù e dicevano l’un l’altro stando nel tempio: Che vi pare? Non verrà per la festa?
57
Ora i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordini che, se uno sapesse dov’era, avvisasse, per catturarlo.
12,1
Allora Gesù, sei giorni prima della Pasqua, venne a Betania, dove stava Lazzaro, [il morto] che Gesù aveva risuscitato dai morti.
2
Là gli fecero dunque un banchetto e Marta serviva e Lazzaro era uno di quelli che giacevano (a mensa) con lui.
3
Allora Maria, presa una libbra di unguento di nardo genuino, molto pregevole, unse i piedi di Gesù e asciugò con i propri capelli i suoi piedi. Ora la casa si riempì del profumo dell’unguento.
4
Ora dice Giuda l’Iscariota, uno dei suoi discepoli, quello che stava per consegnarlo:
5
Perché questo unguento non si è venduto per trecento denari e si è dato ai poveri?
6
Ora disse questo non perché gli importava dei poveri, ma perché era ladro e, avendo la borsa, portava (via) le cose messe (dentro).
7
Allora Gesù disse: Lasciala, che lo custodisca per il giorno della mia sepoltura.
8
I poveri infatti (li) avete sempre con voi, me invece non avete sempre.
9
Allora seppe molta folla dei giudei che era lì e vennero non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro, che destò dai morti.
10
Ora deliberarono i capi dei sacerdoti di uccidere anche Lazzaro,
11
perché per causa sua molti dei giudei se ne andavano e credevano in Gesù.
1. Messaggio nel contesto
“Unse i piedi di Gesù”: Maria unge i piedi di colui che presto laverà i piedi dei suoi discepoli; profuma i piedi del Messia, che il giorno dopo entrerà a Gerusalemme per regnare. Il racconto, uno dei più sorprendenti e delicati del vangelo, segna l’inizio dell’ultima settimana di Gesù: è il principio della nuova creazione, la luce che illumina ciò che il Signore è venuto a compiere a Gerusalemme. Questa donna è la prima che fa qualcosa per Gesù, il quale se ne compiace: dice che ha fatto “un’opera bella”(cf. Mc 14,6; Mt 26,10). È l’opera bella per eccellenza, che riporta la creazione alla bellezza originaria da cui è scaturita: finalmente una creatura risponde all’amore del suo Creatore! In questo gesto la creazione raggiunge il fine per cui è fatta. Dio è amore amante, presente ovunque è amato. Ciò che da sempre avviene tra Padre e Figlio, ora accade sulla terra, per la prima volta, tra il Signore e questa donna: “Il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo” (Ger 31,22b). Il gesto, disapprovato da Giuda, unico discepolo nominato nella scena, è pienamente approvato da Gesù. Solo lui capisce la donna, come solo la donna capisce lui: con la sua passione per lui, lo consacra, quasi lo genera al suo cammino di passione. La scena inizia e finisce richiamando l’atteggiamento delle folle, per ora favorevoli a Gesù (11,55s; 12,9), opposto a quello dei capi, che vogliono catturarlo e ucciderlo (11,57; 12,10s). Il contesto immediato dell’unzione è il banchetto per la risurrezione di Lazzaro. È la festa per il ritorno alla vita, che si celebra mangiando (cf. Mc 5,43). Ricorda gli incontri dei discepoli con il Risorto (cf. 21,9-14; Lc 24,2931.41-43): “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). In questo banchetto si descrive la vita nuova della comunità, rappresentata dal servizio di Marta e dall’amore di Maria. Servizio e amore saranno il tema della seconda parte del vangelo, la rivelazione della Gloria, di cui la prima parte è segno. Servizio del prossimo e amore di Dio sono i cieli nuovi e la terra nuova, compimento di ogni promessa (Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Infatti da questo “noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14), non solo “a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1Gv 3,18); d’altra parte “da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti” (1Gv 5,2). Con la risurrezione di Lazzaro, figura di quella di Gesù, inizia il Regno, caratterizzato dal servizio fraterno, risposta d’amore a colui che per primo si è fatto servo. Il servizio di Marta è solo menzionato, il gesto di Maria invece è posto in particolare rilievo. Certamente esprime riconoscenza per la restituzione del fratello alla vita. Ma ciò non spiega perché Maria abbia fatto “questo” gesto, il cui significato è tanto grande da essere dichiarato da Gesù come prefigurazione del suo mistero. Si tratta di un atto d’amore gratuito, esagerato fino allo spreco, che riconosce in lui il Messia, il Figlio di Dio, che viene a dare la vita per i fratelli. Gesù connette direttamente questa unzione con la propria morte. Si tratta però di un preannuncio implicito della sua risurrezione: Maria infatti unge il Vivente, non un corpo morto, come invece farà Nicodemo (19,39s). Il vero protagonista del racconto è il profumo, che di sua natura si dona, diffondendo piacere e gioia. È simbolo del Dio amore, che non può non amare e non comunicarsi a tutti. Ma di amore dato non si vive: si può solo morire. Chi ama dà la vita e vive solo se è corrisposto. Dio è amore, pienamente amante e amato nella Trinità; sulla terra effonde il suo profumo e vive ovunque è amato. Dove c’è amore, lì c’è Dio. Il gesto di Maria è il principio della creazione nuova, che inizia quando la sposa risponde allo Sposo, che la ama di amore eterno (cf. Ger 31,3). In questa donna Dio trova ciò che da sempre cerca: essere amato da chi ama. Ciò che Maria fa, anticipa non solo ciò che Gesù farà tra poco, ma anche ciò che la Parola, alla fine del vangelo, compirà in chi l’ascolta.
Questo racconto chiude la prima parte del vangelo e apre alla seconda. Siamo a sei giorni dalla terza Pasqua, l’ultima delle sei feste menzionate nel vangelo di Giovanni. La Pasqua “dei giudei”, in cui il popolo sacrifica l’agnello a Dio, diventerà la Pasqua del Signore, con il sacrificio dell’agnello di Dio (19,28-30), che muore per la salvezza di tutti (11,51s). Con l’unzione di Betania comincia il racconto degli ultimi sei giorni di Gesù, che richiama i sei iniziali (1,192,12). I primi sei terminavano con le nozze di Cana e l’annuncio dell’“ora”; gli ultimi sei, in cui viene l’“ora”, cominciano con questa scena nuziale a Betania. Il settimo giorno, vuoto, sarà il riposo della tomba e cederà il posto all’ottavo giorno, senza tramonto, che inizierà, a sua volta, con la scena nuziale di Maria, che finalmente abbraccia colui che ha cercato (20,1-18). Sei è il numero dell’uomo, creato al sesto giorno. È però anche il numero del Figlio dell’uomo, con i sei giorni iniziali e finali, le sei feste e l’ora sesta della sesta festa, nella quale l’agnello è condotto al macello. La creazione dell’uomo si compie nel Figlio dell’uomo, nella sua Pasqua: il suo sangue lo libera per il nuovo esodo, la nuova alleanza e la nuova festa. Questa ormai non sarà più al settimo giorno, ultimo della settimana, ma al primo dopo il sabato: la domenica, il giorno del Signore, inizio del tempo nuovo. Se il numero sei indica incompiutezza e il sette compimento, l’otto è l’inizio oltre il compimento. Il testo si articola in tre parti. La prima (11,55-57) espone le diverse attese nei confronti di Gesù: c’è chi l’attende per la festa, chi per ucciderlo. La seconda (12,1-8) è la celebrazione del dono della vita, con il banchetto e l’unzione. La terza (12,9-11) descrive l’accorrere delle folle per vedere Gesù e Lazzaro, con la successiva decisione dei capi di eliminare ambedue. Chi non aderisce alla festa per il dono della vita, si mette dalla parte di chi uccide. Gesù è lo Sposo, il cui nome è “profumo effuso”. Tra sei giorni sarà spezzato il vaso del suo corpo e ne uscirà la gloria di Dio, la cui fragranza si espanderà per il mondo intero. La Chiesa è rappresentata da Maria, la sposa, che risponde all’amore dello Sposo.
2. Lettura del testo 11, 55: Era vicina la Pasqua dei giudei, ecc. Il c. 11 termina con quest’annotazione: la Pasqua è vicina. I “molti”, che salgono a Gerusalemme, saranno ormai purificati non dai loro riti, ma dal fiume d’acqua viva che scaturirà dal lato del tempio (Ez 47,1-12), dal sangue e dall’acqua che sgorgherà dal fianco dell’agnello immolato (19,34). v. 56: cercavano Gesù (cf. 7,11; 12,9). Dopo la risurrezione di Lazzaro, tutti cercano Gesù. Come non si può cercare colui che dà vita, che è risurrezione e vita? non verrà per la festa? Verrà per la festa. E sarà la Pasqua, nella quale si realizza ciò di cui la risurrezione di Lazzaro è stata il “segno dei segni”. v. 57: i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordini, ecc. I capi, che sono ladri e briganti, hanno deciso di ucciderlo. Cercano complici per arrestare il Pastore bello, che espone, dispone e depone la vita a favore delle sue pecore. Egli è il Figlio, che compie il comando del Padre (cf. 10,7-18). 12,1: Gesù, sei giorni prima della Pasqua. Gesù, nel testo greco, è nominato al principio e alla fine del versetto. Siamo all’inizio dell’ultima settimana, in cui compie la sua opera. Richiama il primo giorno delle origini, quando Dio fece la luce. La luce fa esistere e vedere il creato. Questo racconto fa “esistere” il Signore stesso nel cuore di una donna e fa “vedere” sulla terra la sua gloria. venne a Betania. L’inizio del versetto richiama 1,28, dove si parla di Giovanni che, in un’altra Betania, riconobbe Gesù come Figlio di Dio. Betania significa “casa del povero”. Il Signore viene nella nostra casa, riempiendola della sua ricchezza.
dove stava Lazzaro, [il morto] che Gesù aveva risuscitato dai morti. Si collega la scena con la risurrezione di Lazzaro. Qui si festeggia la vittoria sulla morte. Lazzaro, il morto, vive oltre la stessa morte. Il suo ritorno in vita è segno della condizione di chi vive e crede in Gesù: anche se muore, vive (11,25s). Sciolto dai lacci della morte, può andare verso il suo destino, che è quello di essere presso il Padre, insieme al Figlio. v. 2: fecero dunque un banchetto. Non si dice chi fa il banchetto. Si accenna a Marta, che serve, e a Lazzaro, che giace “con” Gesù a mensa, mettendo in risalto Maria e il suo amore, principio di tutto, sia per Dio che per l’uomo. La parola “banchetto” esce qui e nell’ultima cena (13,2.4; cf. 21,20). Qui domina il gesto d’amore di Maria, là il Signore ci amerà fino al compimento e darà il comando dell’amore: il Maestro lava i nostri piedi, la donna profuma i suoi piedi. Questo banchetto è un’azione di grazie per il dono della vita, anticipo della festa che la comunità celebrerà dopo Pasqua. Sono i vivi che “mangiano” e fanno festa. Marta serviva (cf. Lc 10,40). Il servizio di Marta, appena nominato, e l’amore di Maria, ampiamente descritto, costituiscono la vita nuova dei credenti, coloro che sono passati dalla morte alla vita. Servire è la manifestazione concreta dell’amore (Gal 5,13s; 6,2), in cui si celebra colui che si è fatto servo (cf. 13,12-19). Lazzaro era uno di quelli che giacevano (a mensa) con lui. Lazzaro è in posizione privilegiata: prefigura coloro che sono già con il Signore. Gesù aveva ordinato di slegarlo e lasciarlo andare là dove deve andarsene. Ora è giunto a “essere sempre con lui”(cf. 1Ts 4,17). Anche il povero Lazzaro, di cui parla Lc 16,19ss, è portato in alto, in seno ad Abramo. Le sorelle non celebrano un banchetto funebre, ma una festa per il Signore e per il fratello, amico del Signore che lo ama. v. 3: Maria, presa una libbra di unguento. È un olio profumato. Una libbra è un terzo di Kg. Richiama le 100 libbre di mirra e aloe con cui Nicodemo ungerà il corpo morto del Signore (19,39). Se quella di Nicodemo è un’onoranza funebre, quella di Maria è un’esplosione di vita. “Profumo” in ebraico si dice shemen, che richiama shem, il Nome. Nel Cantico dei Cantici lo Sposo è chiamato “profumo effuso” (Ct 1,3). Il nome, l’essenza di Dio, è profumo. Infatti è amore, che di sua natura impregna tutto della sua presenza. di nardo. È un profumo molto prezioso. Viene dall’India. La qualità migliore cresce sulle pendici dei monti a 5.000 metri: viene da lontano e da molto in alto! È fatto con le radici del fiore di nardo. Il fiore muore per dare un profumo particolarmente gradito agli uomini. genuino. In greco c’è pistikós, che significa autentico e fedele. La parola non si usa per oggetti, ma per indicare l’amore autentico e fedele di Dio. L’amore stesso è la fede genuina. molto pregevole. Giovanni non sottolinea tanto il costo, quanto il pregio grande del profumo. Giuda ne valuterà il costo in 300 denari, e anche più (cf. Mc 14,5). È il salario medio di un anno di lavoro. Questa scena richiama quella di Luca 7,36ss, che avviene nella casa di “Simone il fariseo”, ed è parallela a quella di Marco e Matteo, che avviene nella casa di “Simone il lebbroso” (Mc 14,3; Mt 26,6). Maria compie un atto folle: l’unica misura dell’amore è il non aver misura. È una risposta all’amore dello Sposo, che viene a Gerusalemme per dare la sua vita: “Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo” (Ct 1,12). L’amore è sempre sollecito nell’intuire e nell’anticipare. unse i piedi di Gesù. Gesù laverà presto i piedi ai suoi discepoli (13,1ss). Lavare i piedi è una manifestazione di affetto tra sposo e sposa. Gesù, lavando i piedi, manifesta la sua vita posta a servizio dell’amore: li lava con l’acqua, segno della sua morte. Qui, invece dell’acqua, c’è il profumo di gioia e di vita. Infatti di amore si muore; è della risposta
d’amore che si vive. Con Maria finalmente l’amore è amato e vive. Essa è la prima che fa per Gesù ciò che Gesù ha fatto per noi. Il suo amore lo consacra Messia e Signore: accoglie lo Sposo, che può finalmente dimorare tra noi. Ora il suo profumo riempie la nostra casa. asciugò con i propri capelli i suoi piedi. Sciogliere i capelli è seduzione e intimità. Maria non asciuga i piedi dalle lacrime (cf. Lc 7,38), ma dall’unguento sovrabbondante che ne fluisce. Lo stesso unguento profuma i piedi dello Sposo e il capo della sposa. “Un re è stato preso dalle tue trecce” (Ct 7,6): il Signore è conquistato, irretito, e dice: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa, quanto più deliziose del vino le tue carezze. L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi” (Ct 4,9-10). ora la casa. La festa per il dono della vita non si celebra nel tempio, ma nella casa, luogo delle relazioni quotidiane, che formano la nostra identità. Lì stanno gli amici che Gesù ama; lì Gesù è amato e lì c’è il profumo, perché Dio è amore. La casa del povero non ha più l’odore acre del fariseo Simone che giudica (cf. Lc 7,39s), né la puzza di Simone il lebbroso (cf. Mc 14,3), né il lezzo del fratello, che Marta temeva (11,39): è piena di profumo. Nella casa, dove prima regnavano lutto e morte, risuonano le grida di gioia, le voci dello Sposo e della sposa e si diffonde la fragranza del profumo (cf. Ger 25,10 LXX). si riempì del profumo. “Riempire”, in greco, è la stessa parola che indica “compiersi”. Questa casa è il “compimento” del profumo, del Nome: vi regnano il servizio e l’amore . L’amore è amato; il profumo riempie la casa e trabocca sul mondo intero (cf. Mc 14,9): Dio è tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28). “Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo” (2Cor 2,14s). Questo profumo, che è di vita per chi ama il Signore, sarà odore di morte per chi lo rifiuta (cf. 2Cor 2,16). v. 4: dice Giuda l’Iscariota, ecc. L’obiezione, posta da Giovanni in bocca a Giuda, da Matteo è attribuita ai discepoli (Mt 26,8) e da Marco agli astanti (Mc 14,4). Tra di essi siamo anche noi, i lettori. Giuda è per Giovanni il prototipo dell’incomprensione dei discepoli: è infatti “uno dei suoi discepoli”. quello che stava per consegnarlo. “Consegnare” è la parola usata per indicare il gesto di Giuda che tradisce Gesù (6,64.71; 12,4; 13,2.11.21; 18,2.5.36; 21,20). Indica pure la sua consegna a Pilato (18,30.35; 19,11), che lo consegna alla croce (19,16), da dove il Signore ci consegnerà il suo Spirito (19,30). Alle nostre consegne di morte, egli risponde con la consegna della sua vita. v. 5: perché questo unguento non si è venduto per trecento denari, ecc. Più di duecento denari servivano per sfamare la folla (6,7), trenta pezzi d’argento fu la vendita di Gesù (cf. Mt 26,15). Questo profumo vale molto di più, perché è fedele e di grande pregio, come l’amore. Giuda invece lo monetizza. E parla di “vendere”, per “dare” ai poveri. Ci sono due modi opposti di pensare e agire, due diverse economie: da una parte calcolo e vendita, dall’altra amore e spreco (cf. Mc 14,4; Mt 26,8). Una è l’economia dell’uomo, che uccide; l’altra quella di Dio, che dà vita. Allo stesso modo ci sono due diversi odori: quello di vita per la vita e quello di morte per la morte. Il problema non è “dare” ai poveri qualcosa, ma “darsi” per amore. In Lc 10,40 Marta, tutta indaffarata, contrappone il suo servizio all’atteggiamento di Maria, che sta seduta e gioisce della presenza di Gesù. Qui Giuda contrappone l’aiuto dei poveri all’amore per il Signore. Non ha capito che qualunque servizio, se non nasce dall’amore, puzza di morte.
v. 6: disse questo non perché gli importava dei poveri, ecc. L’aiuto ai poveri è una maschera per i propri furti. Giuda è ladro, come i capi del popolo (cf. 10,1.8.10), e personifica il male che è nel cuore dell’uomo: è un diavolo (cf. 6,70), menzognero e omicida, come il padre della menzogna che lo ispira (8,44s). avendo la borsa. Giuda teneva la borsa comune, da cui si attingeva per vivere e dare ai poveri (cf. 13,29). Egli, invece di condividere, “ruba”. L’elemosina è spesso un buon pretesto per il furto, già fatto o ancora da fare. È legge economica inderogabile: si può “dare” solo con profitto, per avere indietro di più. Per questo nella Scrittura c’è connessione abituale tra ricchezza e mammona, tra denaro e demonio. Non perché i beni siano cattivi, ma per l’uso ladronesco che ne facciamo; il denaro, che media ogni bene, è “diabolico” nella misura in cui, invece di mettere in comunione i fratelli, li divide tra di loro. v. 7: lasciala, che lo custodisca per il giorno della mia sepoltura. Gesù approva il gesto della donna e la difende. E lo legge come intuizione d’amore del suo destino. Lei unge il suo corpo per la sepoltura, mentre è vivo. Il problema non è onorare un defunto, ma amare il Vivente. Quanto la donna compie è annuncio di risurrezione, risposta d’amore a un amore che sa dare la vita. Maria va “lasciata” compiere questo gesto, che la fa nascere come sposa, allo stesso modo di suo fratello Lazzaro, del quale Gesù dice: “Lasciate che se ne vada”, per giacere al banchetto con lui. Il suo profumo è da “custodire” (= osservare) sempre, fin dentro la tomba e oltre: è il comando dell’amore, che fa vivere Dio in noi e noi in lui. v. 8: i poveri infatti (li) avete sempre con voi. Come sempre abbiamo con noi il Signore (cf. Mt 28,20),che da ricco si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cf. 2Cor 8,9), così abbiamo sempre con noi i poveri. La loro povertà è la nostra ricchezza. La nostra ricchezza ingiusta infatti ci viene da ciò che abbiamo tolto a loro; la nostra ricchezza vera ci viene da ciò che condividiamo con la loro povertà (cf. Mt 25-40). me invece non avete sempre (cf. 12,35). Gesù tra sei giorni tornerà al Padre. Ma sarà sempre con noi, nel dono del suo Spirito che ci fa amare l’altro, cominciando dall’ultimo. L’amore che Maria dimostra per il Figlio, lo Sposo, sarà lo stesso che avremo verso i suoi fratelli. La storia di Cristo continua in tutti i poveri cristi della terra, nei quali egli ci viene incontro per salvarci: con essi il Signore si è identificato (cf. Mt 25,31-45). v. 9: seppe molta folla dei giudei che era lì, ecc. Questa casa, dove si celebra la vita nel servizio e nell’amore, esercita una forza attrattiva sulle folle. È immagine della chiesa, che ha custodito e osservato il profumo di Dio, l’amore reciproco. v. 10: deliberarono i capi dei sacerdoti di uccidere anche Lazzaro. Per i capi, anche Lazzaro deve subire la sorte di Gesù (cf. 11,53). Chi non ascolta Mosè e i profeti, non sarà persuaso neppure da uno che risuscita dai morti (cf. Lc 16,31). Anzi, cercherà sempre di eliminare i testimoni della vita (cf. 16,1-4.33). v. 11: per causa sua molti dei giudei se ne andavano e credevano in Gesù. All’atteggiamento dei capi, si contrappone quello di “molti”. Questi sono attirati a Gesù da Lazzaro, il morto che è risorto. Anch’essi, liberati come lui e sciolti dalle bende di morte, se ne vanno dietro a Gesù, per un cammino di luce.
3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando il banchetto nella casa di Betania. c. Chiedo ciò che voglio: l’amore di Maria per il Signore Gesù. d. Contemplo la scena, guardando, considerando, “odorando” il profumo.
Da notare: • sei giorni prima della Pasqua • il banchetto a Betania per celebrare il dono della vittoria sulla morte • Marta serve • Lazzaro giace a mensa con Gesù • Maria prende una libbra di unguento • è nardo fedele, molto pregevole • unge i piedi di Gesù • li asciuga con i suoi capelli • la casa si riempie del profumo • la reazione di Giuda: vendere e dare ai poveri • Giuda è ladro, menzognero e presto omicida • Gesù difende la donna • Lasciala, che lo custodisca per la mia sepoltura • i poveri li avete sempre con voi, me invece non avete sempre • la folla che accorre per vedere Lazzaro • la decisione di uccidere anche Lazzaro
4.
Testi utili
Sal 45; 133; Cantico dei cantici; Mc 14,3-9; Lc 7,36-50.
30. IL TUO RE VIENE SEDUTO SU UN PULEDRO D’ASINA 12,12-19 12,12
Il giorno dopo, la molta folla che era venuta per la festa, avendo udito che Gesù arriva a Gerusalemme,
13
presero i rami delle palme e uscirono all’incontro con lui e gridavano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore [e] il re d’Israele.
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Ora, incontrato Gesù un asinello, sedette sopra di esso, come è scritto:
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Non temere, figlia di Sion. Ecco il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina.
16
Queste cose i suoi discepoli non (le) capirono prima, ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte su di lui e queste cose gli avevano fatto.
17
Testimoniava dunque la folla che era con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo destò dai morti.
18
[Appunto] per questo la folla gli andò incontro, perché udirono che egli aveva fatto quel segno.
19
Allora i farisei dissero tra loro: Vedete che non giovate a nulla? Ecco: il mondo si allontanò dietro di lui!
1. Messaggio nel contesto
“Il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina”. Queste parole annunciano la venuta del Messia (cf. Sof 3,14; Zc 9,9). I discepoli vedono realizzarsi sotto i loro occhi la grande promessa; ma non la capiscono, anche se i profeti l’hanno predetta. La Scrittura e gli avvenimenti della vita di Gesù, che ne sono il compimento, saranno capiti solo dopo la sua glorificazione, ormai prossima. Gesù è il re, l’unto del Signore che viene. Viene verso la sua città, portando su di sé il profumo con il quale Maria l’ha consacrato il giorno prima a Betania. Le folle gli vengono incontro, lo acclamano e lo seguono per le opere che ha compiuto, ultima delle quali è il dono della vita a Lazzaro. Già prima, quando aveva dato il pane, volevano farlo re (6,15). Gesù è capace di garantire il cibo per vivere e di far vivere chi muore. Cosa si vuole di più dal Messia, da Dio stesso? Le folle gli vanno incontro come a un re che viene in visita: portano rami di palma, segno di vittoria. Lo acclamano re di Israele, colui che viene nel nome del Signore, per liberare il popolo dall’oppressione mortale in cui si trova (Sal 118,26). Finalmente viene l’atteso discendente di Davide (cf. 2Sam 7,8-16), che trionferà dei nemici (cf. Sal 2) e regnerà per sempre. La sorpresa, anzi lo scandalo, sarà vedere che il Signore farà testata d’angolo proprio la pietra che i costruttori hanno scartato, come dice lo stesso salmo con il quale acclamano Gesù (Sal 118,22).
Il titolo di re appare sedici volte in Giovanni, di cui dodici nella passione. Re è innanzi tutto il Signore, del quale non bisogna farsi immagini, perché l’unica immagine a sua somiglianza è l’uomo che ne ascolta la parola. L’uomo però, fin dall’inizio, non ha ascoltato la sua parola e si è fatto molte immagini di Dio, riducendolo a propria somiglianza. Fare Dio simile a noi, invece di fare noi simili a lui, è l’origine dei nostri mali. Il risultato di questa perversione nel concepire Dio e l’uomo prende corpo nella figura del re (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,8-15). Egli sarebbe l’uomo ideale, ideale di ogni uomo. È dio in terra e gode delle sue prerogative: è libero e potente, in grado di disporre di tutto e di tutti. Dio però è esattamente il contrario di ciò che noi pensiamo. Il suo modo di regnare è diverso dal nostro, come il “Pastore bello” è diverso dai ladri e dai briganti (cf. 10,1ss). È vero che il Signore è re. Ma non usa la violenza per conquistare e mantenere il dominio, né si impone sugli altri perché ha il potere di ucciderli. Il suo simbolo è l’asinello, mite e umile (Zc 9,9): non spadroneggia, ma serve, non pratica violenza ma ama, non dà morte ma vita. Gesù è un Messia “politico”, che da sempre mette in crisi le nostre concezioni politiche. Propone infatti un nuovo modo di rapporti civili: a un mondo fatto di padroni e di antipadroni, che produce libertà per pochi e schiavitù per gli altri, succede un mondo di uomini liberi, a servizio gli uni degli altri nel reciproco amore (cf. 13,1-15; Fil 2,5-11; Gal 5,13). Invece del delirio di onnipotenza del superuomo, che suppone un sottouomo, c’è l’accettazione cordiale della propria umanità e dei limiti naturali come luogo di solidarietà. Solo dopo la gloria della croce i discepoli capiranno perché, in risposta alle folle che lo acclamano re, Gesù si trovi un asinello e cavalchi su di esso. Mostra così il suo modo di regnare. Gesù è l’unto di Dio e il salvatore del mondo proprio in quanto va verso la sepoltura (cf. v. 7). È “umile”: accetta la condizione “umana”, che è quella di finire sotto terra, come l’amico Lazzaro e tutti. Gesù non nega né rimuove i limiti propri dell’uomo; la stessa morte è per lui luogo di “umanità”, di comunione con i fratelli, frutto della sua comunione con il Padre. Il seguito del testo mostrerà come Gesù è messia e salvatore del mondo proprio in quanto crocifisso (vv. 2036), con una gloria incomprensibile (vv. 37-50). Giovanni pone il racconto in un contesto diverso dagli altri vangeli, immediatamente dopo l’unzione di Betania e prima della predizione del suo innalzamento e rifiuto. Inoltre offre delle variazioni proprie che rileveremo nella lettura
del testo. Il suo intento è mostrare che la gloria del re, insieme alle Scritture che ne parlano, è comprensibile solo dopo l’evento pasquale. Gesù è il re che viene nel nome del Signore. Per questo è diverso dai re che vengono nel nome degli uomini. La Chiesa, come ogni uomo, è chiamata a capire l’ambiguità di fondo che c’è nell’idea di Dio e di uomo; deve decidersi per il Signore che libera e dà vita, preferendolo ai vari signori che opprimono e danno morte.
2. Lettura del testo v. 12: Il giorno dopo. È il giorno dopo l’unzione di Maria, che ha “consacrato” Gesù come lo Sposo che dà la vita (cf. v. 7). Confortato dal suo amore, dà inizio al suo regno: entra nella città di Davide, dove sarà incoronato e intronizzato, coronato di spine e intronizzato sulla croce. la molta folla che era venuta per la festa, avendo udito che Gesù arriva a Gerusalemme . La città è piena di pellegrini venuti per celebrare la Pasqua, festa di liberazione dalla schiavitù. Nella scena precedente Gesù aveva celebrato nella “casa” di Betania la festa per il dono della vita. Ora va verso Gerusalemme, per la “sua” Pasqua. Si chiude così il suo cammino, iniziato con la prima salita a Gerusalemme (2,12s), dopo aver compiuto il principio dei segni in Galilea (cf. 2,1-12). Giovanni non descrive il suo entrare in città, ma l’uscire della folla per incontrarlo. v. 13: presero i rami delle palme. Con palme, canti e suoni si celebrò la vittoria di Simeone, “perché era stato eliminato un grande nemico” (1Mac 13,51). Con palme una folla immensa, di ogni popolo e lingua, celebra la salvezza di Dio e dell’Agnello (Ap 7,9). Qui si celebra, anticipatamente, la vittoria sul principe di questo mondo, che sarà gettato fuori (cf. v. 31). Queste palme sono il lulab (cf. Lv 23,40), un mazzo di rami di palma, salice e mirto che si tiene nella mano sinistra e un frutto di cedro nella mano destra. Nella festa delle Capanne (cf. Lv 23,39-43), come pure in quella della Dedicazione, il lulab viene agitato al canto del Sal 118, che è un inno di grazie per la vittoria. Giovanni in questo versetto intende unire insieme i significati delle tre grandi feste: Pasqua, Capanne e Dedicazione. uscirono all’incontro con lui. Al suo arrivare corrisponde l’uscire dalla città per andargli incontro, come a un sovrano che torna da una grande vittoria. Ha infatti vinto la morte (cf. v. 17). gridavano: Osanna! È un’invocazione di salvezza, diventata un grido di giubilo, un’acclamazione per il Signore che salva. Questa parola è tratta dal Sal 118,25, che chiede la liberazione da un’oppressione mortale. benedetto colui che viene nel nome del Signore (Sal 118,26a). “Colui che viene” è il Messia, il salvatore atteso (cf. 1,25.27; 3,31; 6,14; 11,27). Gesù è il Figlio, che viene “nel nome” del Padre suo (5,43; 10,25; 17,11.12). il re d’Israele. Quest’acclamazione della folla, aggiunta al Salmo 118, è presa da Sof 3,15, che parla del resto di Israele, un popolo povero e umile che sarà salvato dal Signore: “Re d’Israele è il Signore in mezzo a te” (Sof 3,15). In Israele solo Dio regna (cf. Sal 24; 47; 93; 96; 97; 99; 118). Gesù è il Figlio, che porta ai fratelli il regno del Padre. A Dio dispiace quando il suo popolo, per essere come tutti gli altri, vuole un re che lo domini. È come rifiutare la sua regalità, rinunciare alla propria immagine e somiglianza con lui. Se Dio dà vita e libertà, gli altri re danno morte e oppressione (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,8-15). Per questo Dio aveva promesso a Davide un discendente che avrebbe liberato il popolo e regnato in eterno: è il Messia atteso (cf. 2Sam 7,8-16). Gesù è acclamato esplicitamente come Messia politico: “re d’Israele” sarà il suo titolo sulla croce (19,19), dove apparirà la sua gloria e non ci sarà più alcun fraintendimento. L’incontro d’Israele con il suo re è un equivoco: lo acclamano come re glorioso, ma non capiscono la sua gloria.
Qui Gesù non può fuggire altrove, come dopo il dono del pane, quando si ritirò da solo sul monte (6,15). È stretto dalla folla e “deve” andare a Gerusalemme, dove sarà elevato da terra. Neppure fa un discorso di chiarimento, come a Cafarnao (6,22ss). Ha già detto che lui è re in quanto pastore che espone, dispone, e depone la sua vita a favore delle sue pecore, per riprenderla di nuovo (cf. 10,7-18). Ma queste parole saranno capite quando ne vedranno, tra pochi giorni, la realizzazione. Ora, senza dire alcuna parola, come Maria a Betania, compie in silenzio un gesto inteso a chiarire l’ambiguità. v. 14: incontrato Gesù un asinello. Gesù ha le sue riserve su queste acclamazioni. I suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie (Is 55,8). Esprime la propria regalità con la scelta di un asinello. La cavalcatura regale è in genere la mula (cf. 1Re 1,33-38). Gesù incontra l’asinello. È il grande incontro: ovunque lo incontra, il Signore viene a regnare! L’asinello, umile animale da servizio, indica il messianismo di colui che è mite e umile di cuore (cf. Mt 11,29). È vero che Gesù dà pane e vita; ma non come segno di potere, bensì di amore: si fa pane e dà la vita. La sua regalità si mostra nelle cose che gli faranno (cf. v. 16), nella sua passione, quando lui vincerà la nostra violenza offrendosi come l’agnello che toglie il peccato del mondo. sedette sopra. Come l’acqua viva sedette sul pozzo di Giacobbe (4,6), ora il Messia siede sull’asinello. Per sovrimpressione è lui la fonte di vita, è lui l’asinello. Un graffito paleocristiano rappresenta un crocifisso con la testa d’asino, con la scritta: “Alessameno adora il suo Dio”. La regalità di Gesù è la stessa di Dio, che manifesta sulla croce la sua gloria. Egli ci dona la sua libertà, che è quella di essere a servizio gli uni degli altri (cf. Gal 5,13). Il suo comando è quello di amare come lui ci ama. E l’amore consiste nel servizio. L’asino è immagine del Figlio, che porta i pesi dei fratelli: “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2). Si può capire il messianismo di Gesù contemplando l’asino, come si capisce la sua persona odorando il profumo di Betania. L’ultima domanda dei discepoli al Maestro riguarda il tempo della venuta del Regno (cf. At 1,6). Il Signore risponde non “quando” viene il Regno, ma “come” viene il Re: con l’asinello. Il Regno viene quando accogliamo il Re, così come viene; viene nel nostro essere suoi testimoni (cf. At 1,8), che vivono come lui. come è scritto. L’interpretazione di questo gesto di Gesù viene dalla Scrittura (v. 15), che però sarà capita solo dopo che lui l’avrà realizzata sulla croce (v. 16). v. 15: non temere, figlia di Sion. L’evangelista fa una citazione biblica composita (cf. Sof 3,14a.16b; Zc 9,9). La personificazione di Gerusalemme come “figlia di Sion” richiama l’immagine del Messia sposo.
Il testo di Sof 3, parallelo a Zc 9, presenta un messianismo universale. Il Messia sarà il Signore stesso, accolto dal resto di Israele umile e povero, fedele e giusto, che raduna i dispersi di Israele (cf. Sof 3,9-20). Il centro della profezia è la venuta del Signore, re d’Israele, salvatore potente e sposo, che “esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa” (Sof 3,17s; cf. Is 62,5). ecco, il tuo re viene su un puledro d’asina. È una citazione di Zc 9,9, che Giovanni riduce all’essenziale per presentare la venuta del re sull’asinello. Il profeta contrappone l’asino del Messia ai carri e ai cavalli dei vari re. I carri da guerra – a quei tempi c’erano i “carri falcati”, che entravano nelle truppe nemiche e le falciavano – sono propri di chi vuol prendere il potere che non ha o mantenere quello che sta per perdere; i cavalli sono propri di chi lo esercita tranquillamente. Il Messia, con l’asinello, vince ogni nemico e porta la pace sino ai confini della terra (cf. Zc 9,9s). Il
suo regno non è fondato sulla violenza di chi domina e opprime, ma sulla forza dell’amore di chi si fa servo e libera (cf. Mc 10,42-45p). Incrociando l’asino con il cavallo si ottiene un ibrido infecondo, mulo o bardotto. La nostra impotenza a vincere il mondo viene dalla nostra volontà di essere cristiani e aspirare al potere. Quando poi ci imponiamo con la violenza, allora diventiamo come l’anticristo: anche se abbiamo l’apparenza dell’Agnello, parliamo il linguaggio del drago (cf. Ap 13,11). I “regimi cristiani” sono un bell’esempio di incrocio tra asino e cavallo; le crociate, a loro volta, sono un incrocio incredibile tra asino e carro armato. Sembra che tali incroci non sempre riescano, ma sempre li tentiamo. v. 16: queste cose i suoi discepoli non (le) capirono prima. Come non capirono il suo gesto e le sue parole nel tempio (cf. 2,22), così non capiscono “queste cose”, ossia il suo gesto di sedere sull’asinello e le parole della Scrittura che in esso si compiono. Solo la croce farà capire la Gloria. Gli altri vangeli citano Zc 9,9 per illustrare la regalità di Gesù: leggono ciò che sta accadendo alla luce della profezia, interpretando il presente con il passato. Giovanni, invece, si pone non al presente dell’azione, ma nel futuro: solo dopo la sua glorificazione, sarà chiara sia la Scrittura che il suo compimento in Gesù. quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono. Il principio di comprensione di tutto è la sua glorificazione che fa “ricordare” quanto la Scrittura ha detto e come il Signore l’ha compiuta (cf. 2,22). queste cose erano state scritte su di lui e queste cose gli avevano fatto. L’oggetto del ricordo è la Scrittura e ciò che hanno fatto a Gesù, non ciò che egli ha fatto. La sua azione infatti non è che il segno della sua passione: in ciò che hanno fatto a lui si compie la Scrittura e si realizza ciò di cui la sua azione è “segno”. Se qui lo proclamano re, il titolo regale gli sarà posto sopra la croce (19,19). Giovanni guarda l’avvenimento accaduto, ricordandolo con sguardo contemplativo, per coglierne il mistero: intende penetrare in profondità quanto gli altri evangelisti hanno raccontato e lui stesso, in parte, accenna. È l’ottica che propone alla sua chiesa e ai suoi lettori. v. 17: testimoniava dunque la folla che era con lui, ecc. Il motivo dell’entusiastica accoglienza è la testimonianza della folla che era stata con lui quando diede la vita a Lazzaro. quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro. Con Gesù è giunta l’ora in cui i morti odono la voce del Figlio dell’uomo ed escono dai sepolcri (cf. 5,25). Allora si conosce chi è il Signore (cf. Ez 37,13). Come Lazzaro uscì dalla tomba, così ora le folle escono dalla città, incontro al Signore che viene. Ma soprattutto devono uscire dalle loro false attese per incontrare il salvatore del mondo. v. 18: per questo la folla gli andò incontro, ecc. Gesù è accolto come il trionfatore sul nemico ultimo dell’uomo (cf. 1Cor 15,26): è il Messia che vince la morte. Ma quando vedranno che egli trionferà dando la vita, allora vedranno il significato del segno e resteranno grandemente stupiti: “Vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito” (cf. Is 52,15b). v. 19: i farisei dissero tra loro, ecc. Alla reazione positiva del popolo si contrappone quella dei capi, che si incolpano a vicenda del successo di Gesù. Hanno cercato di ostacolarlo, ma senza riuscirci; le tenebre hanno cercato di arginare la luce, ma inutilmente. Dicono infatti: “Vedete che non giovate a nulla?”. Nonostante tutto, restano uniti nell’ostilità contro di lui. C’è una misteriosa coesione nel male, più facile che nel bene. Il primo infatti è monotono e livella tutto nell’odio e nella morte; il secondo è creativo e diversifica le varie espressioni di vita. il mondo si allontanò dietro di lui. Si sottolinea l’universalità della salvezza che Gesù porta: “il mondo” va dietro di lui, allontanandosi da loro. È infatti l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29), il Figlio che mostra quanto il Padre ama il mondo (cf. 3,16), per attirare tutti a sé (12,32).
Questa universalità della salvezza, causa prima ed effetto ultimo della sua uccisione, sarà l’argomento di ciò che segue.
3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando Gesù che scende da Betania e la folla che gli esce incontro da Gerusalemme. c. Chiedo ciò che voglio: comprendere “come” viene il re e accoglierlo. d. Contemplo la scena, guardando le persone: chi sono, che fanno, che dicono. Da notare: • Gesù va dalla “casa” di Betania alla città di Gerusalemme • le folle prendono palme ed escono all’incontro con lui • osanna • benedetto colui che viene nel nome del Signore • il re d’Israele • in risposta, Gesù, trovato un asinello, sedette sopra di esso • non temere, figlia di Sion • il tuo re viene seduto su un puledro d’asina • i discepoli non capiscono, se non dopo la glorificazione • la Scrittura e l’azione di Gesù sono “segno” della sua passione • la gente gli va incontro per il “segno” di Lazzaro • la reazione dei farisei • il mondo si allontanò dietro di lui.
4. Testi utili Sal 118; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1ss; 2Sam 7,8-16; Sof 3,1ss, Zc 9,9-10; Mc 10,42-45.
31. È VENUTA L’ORA CHE SIA GLORIFICATO IL FIGLIO DELL’UOMO 12,20 - 36 12,20
Ora c’erano dei greci tra coloro che salivano per adorare durante la festa.
21
Allora costoro si avvicinarono a Filippo, di Betsaida di Galilea, e lo pregavano dicendo: Signore, vogliamo vedere Gesù.
22
Viene Filippo e (lo) dice ad Andrea; viene Andrea e Filippo e (lo) dicono a Gesù.
23
Ora Gesù rispose loro dicendo: È venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo.
24
Amen, amen vi dico: se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, esso rimane solo; se invece muore, porta molto frutto.
25
Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per (la) vita eterna.
26
Se uno mi vuol servire, segua me; e dove sono io, lì sarà anche il mio servo; se uno mi serve, il Padre lo onorerà.
27
Adesso la mia anima è turbata. E che posso dire: Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo venni
a quest’ora. 28
Padre, glorifica il tuo nome. Allora venne una voce dal cielo: E glorificai e ancora glorificherò!
29
Allora la folla, che stava (lì) e aveva ascoltato, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: Un angelo gli ha parlato.
30
Rispose Gesù e disse: Non è stata per me questa voce, ma per voi.
31
Adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il capo di questo mondo sarà espulso fuori.
32
E io, quando sarò innalzato da terra, tutti attirerò a me stesso.
33
Ora questo diceva significando di quale morte stava per morire.
34
Allora gli rispose la folla: Noi ascoltammo dalla legge che il Cristo rimane in eterno; e come mai dici tu che bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo?
35
Allora rispose loro Gesù : Ancora per un piccolo tempo la luce è tra voi. Camminate finché avete la luce perché la tenebra non vi afferri. Chi cammina nella tenebra non sa dove va.
36
Finché avete la luce, credete nella luce per diventare figli della luce. Queste cose disse Gesù e, allontanatosi, si nascose da loro.
1.
Messaggio nel contesto “È venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”, dice Gesù. Ormai è alla fine della sua azione e
comincia la passione. È venuta l’ora (v. 23), l’ora decisiva, per la quale è venuto (v. 27). In essa si manifesta, a nostra salvezza, la gloria sua e del Padre, della quale ciò che finora ha compiuto è “segno”. Le folle lo hanno appena osannato come Messia. L’hanno visto venire sull’asinello, ma non hanno capito. Quanto Gesù ora dice di sé, confermato dalla voce dal cielo, toglie ogni ambiguità. Anche i greci ora vogliono “vedere Gesù” (v. 21). Sono l’anticipo di “tutti” quelli che saranno attratti a lui quando sarà innalzato dalla terra (v. 32), primizia del molto frutto del chicco di frumento, caduto nella terra, che muore (v. 24). È vero: tutto il mondo va dietro a lui, anche i pagani (cf. v. 19). Ma chi è questo re? Gesù, rispondendo ai discepoli che gli riferiscono la richiesta dei greci, chiarisce come lui è re e dove si fa vedere: è il Figlio dell’uomo, che presto vedranno innalzato sulla croce. Le parole di Gesù sono un compendio, che chiarisce il significato della sua vita. È, come sempre in Giovanni, una visione retrospettiva, simile a quella di un gambero che corre all’indietro e vede il cammino ormai dalla fine, con l’occhio sul principio. È certamente il modo migliore, forse unico, per capire una storia. Gli elementi di questo brano, molto composito, si unificano attorno alla croce. Da essa il Signore regna e salva tutti. Nel suo essere innalzato dalla terra viene l’ora del Figlio che, nel suo amore di fratello, rivela quello del Padre. La croce, che visivamente è un “innalzamento”, è in realtà l’abbassamento sommo, ostensione nuda dell’obbrobrio. Eppure questa abiezione estrema mostra la gloria abissale di Dio. Dio infatti è amore; e la caratteristica più alta dell’amore è l’umiltà. I vv. 20-22 contengono la domanda dei greci di “vedere” Gesù, ben agganciata al brano precedente, dove i farisei constatano che tutto il mondo va dietro a lui (v. 19). Gesù risponde indirettamente: parla della sua morte, dove tutti possiamo vedere ciò che occhio umano mai non vide (cf. 1Cor 2,9). Dopo l’unzione di Betania e l’ingresso regale in Gerusalemme, è giunta l’ora della glorificazione del Figlio dell’uomo, che è quella del seme che muore e porta molto frutto (vv. 23-24). Se negli altri vangeli la Parola è il seme di Dio, in Giovanni Gesù stesso è il seme. Infatti è lui la Parola. Alla sua gloria è associato chiunque vuol seguirlo nel suo stesso cammino (vv. 25-26). Dopo l’annuncio della morte come dono fecondo di vita, c’è un profondo turbamento, che richiama l’agonia nell’orto, accostato immediatamente alla voce dal cielo, che richiama la trasfigurazione (vv. 27-30). In poche righe Giovanni sbalza di seguito l’esperienza del Getsemani e quella del Tabor, che gli altri vangeli raccontano in ordine inverso e a grande distanza l’una dall’altra. I due episodi si illuminano a vicenda e fanno comprendere agli ascoltatori il mistero del Figlio dell’uomo, che è Figlio di Dio. Segue un’interpretazione del valore salvifico della croce: il Figlio dell’uomo innalzato sconfigge il “capo di questo mondo”, che tiene l’uomo schiavo della menzogna e della paura. Il Crocifisso infatti svelerà quel Dio amore che attira tutti a sé (vv.31-33). Alla folla che non comprende come il Messia possa essere crocifisso e si chiede incredula chi sia questo Figlio dell’uomo, Gesù risponde esortandola a credere in lui, luce del mondo. Alla fine si allontana e si nasconde (vv. 34-36). Il brano seguente sarà una considerazione dell’evangelista sul mistero dell’incredulità nei confronti della croce, già prevista dai profeti (vv. 37-43), seguita da un ultimo grido di Gesù, che invita a credere in lui e nelle sue parole (vv. 44-50). Al centro del brano sta l’innalzamento del Figlio dell’uomo. Le predizioni del suo innalzamento corrispondono alle tre predizioni sulla morte e risurrezione, che gli altri vangeli pongono nella seconda parte del vangelo. Giovanni
invece le pone fin dall’inizio e ne spiega successivamente la ricchezza di significato: dapprima come rivelazione dell’amore del Padre e salvezza del mondo (3,14-16), poi come conoscenza di Io-Sono (8,28) e infine come glorificazione del Padre e del Figlio, vittoria sul male e attrazione di ogni uomo a Dio. Sulla croce di Gesù, tutti possono vedere in pienezza il mistero di Dio. Sia i giudei che i pagani potranno conoscere e accogliere il Messia, salvatore del mondo, solo se guardano in alto, verso il Figlio dell’uomo elevato. In lui Dio si rivela pienamente: è amore tra Padre e Figlio, comunicato dal Figlio a tutti i fratelli. Gesù, dalla croce, attira tutti a sé. Infatti rivela la verità del Dio amore, che vince la menzogna del capo di questo mondo. La Chiesa, come tutti, è chiamata a conoscere e seguire il suo cammino che va dalla morte alla vita, a differenza del nostro che va dalla vita alla morte. L’inevitabile turbamento che esso provoca in noi, come in lui, è superabile solo nella forza della voce di Dio, che ne manifesta il mistero di gloria e di fecondità.
2. Lettura del testo v. 20: C’erano dei greci. Il dominio del Messia si estende a tutti (cf. Zc 9,10). I greci sono i non giudei, proseliti e simpatizzanti. salivano per adorare durante la festa. Sono saliti a Gerusalemme durante la Pasqua per adorare il Signore; incontrano il Figlio, in cui si adora il Padre in Spirito e verità (4,23). v. 21: si avvicinarono a Filippo, di Betsaida di Galilea. È uno dei primi discepoli di Gesù (cf. 1,35ss). Insieme ad Andrea porta un nome greco. Andrea è il primo che, con un altro, ha cercato Gesù, ha sentito l’invito: “Venite e vedrete”, ha dimorato con lui e lo ha seguito (1,39s). Filippo aderì il giorno dopo, chiamato direttamente da Gesù (1,43). Ambedue sono di Betsaida (casa della pesca!). vogliamo vedere Gesù. Vedere significa conoscere, aderire, credere. La fede è “vedere”. I greci desideravano vedere la luce che viene nel mondo per illuminare ogni uomo (1,9). Esprimono il loro desiderio a Filippo, non direttamente a Gesù. I “greci” infatti, e noi tra questi, accederanno a Gesù mediante i suoi discepoli. v. 22: viene Filippo e (lo) dice ad Andrea; viene Andrea e Filippo e (lo) dicono a Gesù . Andrea e Filippo sono associati qui, in 1,44 e 6,7s. Sono i primi discepoli che ascoltano il desiderio dei pagani di vedere Gesù; ne parlano tra di loro e con Gesù stesso. v. 23: Gesù rispose loro. Gesù non risponde ai greci, ma ai discepoli, che dovranno continuare la sua missione. Nella sua risposta mostra “dove”, sia loro che gli altri, possono vedere il Signore: sulla croce, dove è abbattuta ogni separazione, distrutta l’inimicizia e annunciata la pace ai lontani e ai vicini, ai pagani e ai giudei (cf. Ef 2,14-18). Nelle parole che seguono Gesù espone sinteticamente il senso della sua vita, che propone a ogni discepolo, di ogni luogo e di ogni tempo. è venuta l’ora. L’ora, di cui si è parlato per la prima volta a Cana (2,4; cf. anche 4,21.23; 5,25; 7,30; 8,20), è venuta (cf. 12,23.27; 13,1; 17,1). Tutto il “giorno” di Gesù culmina in quest’ora: è l’ora della glorificazione del Figlio e del Padre (cf. vv. 23.28). che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In Giovanni la vita di Gesù è vista nella prospettiva di quest’ora: è illuminata dalla gloria del Dio amore, che si manifesta sulla croce. Lì il Figlio dell’uomo è glorificato: rivela Dio come Dio, nella sua distanza infinita da ogni immagine che l’uomo si è fatta e si farà di lui. Anche gli altri vangeli hanno come punto di arrivo la rivelazione della Gloria nel Crocifisso. Giovanni ha però una prospettiva rovesciata: contempla
la vita di Gesù all’indietro, dal suo compimento. Per questo il suo Vangelo è tutto una “trasfigurazione”, che legge ogni evento come “segno” della Gloria. v. 24: amen, amen vi dico. Con questa forma solenne di rivelazione divina, Gesù dice, a chi “vuole vederlo”, dove lo può vedere: innalzato sulla croce. Questa è la sua gloria, il mistero di fecondità e vita del seme che muore. se il chicco di frumento. Gesù prende un esempio dalla creazione per indicare il mistero della nuova creazione. Egli, che è Parola, pane e vita, si paragona al seme di frumento, che esplica la sua forza vitale proprio quando cade nella terra. Il destino del seme, che produce secondo la sua specie, è lo stesso del Figlio dell’uomo: come il seme cade nella terra, muore e porta molto frutto, così Gesù, innalzato dalla terra, attira a sé tutti gli uomini e comunica loro la sua vita di Figlio. Gesù esprime con questa parabola la “necessità” divina (de_) della sua croce (cf. v.34), che dà vita attraverso la propria morte. rimane solo. Se il Figlio unico non comunica la propria vita ai fratelli, rimane “solo”: l’unigenito (monogenés) rimane unico (mónos). In questo caso non sarebbe Figlio di Dio, perché non vivrebbe nell’amore che il Padre ha verso tutti i suoi figli. Se non amasse i fratelli, perderebbe la sua identità di Figlio. Lo stesso vale per ogni uomo, creato in lui. L’egoismo è sterile: il seme che volesse conservarsi, resterebbe solo e perderebbe la sua qualità di seme: non comunicherebbe vita. Una vita che non si dona è morta. se invece muore, porta molto frutto. Un chicco che muore è fecondo: dando la vita, è principio di vita. La glorificazione del Figlio è la stessa del seme che muore: dando la vita, si rivela uguale al Padre, principio di vita per tutti. I greci, che vogliono vedere Gesù, sono la primizia di questa fecondità. v. 25: chi ama la sua vita la perde. Risuonano le stesse parole che Gesù rivolge alle folle e ai discepoli in Mc 8,35p: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà”. Questo vale per ogni uomo: l’egoista, attaccato alla propria vita, si ripiega su di sé e resta solo. Perde la sua vita, perché la vita è relazione e amore. Chi vuol trattenere il respiro, muore soffocato. Si vive perché si inspira e si espira: la vita circola in quanto ricevuta e data per amore. chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Corrisponde al detto di Gesù: “Chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,35p). “Odiare” si contrappone a “amare”, “conservare per la vita eterna” a “perdere la vita”. Per quanto sembri paradossale, è vero: chi “ama” la propria vita, la “perde”, anche nel presente; chi la “odia”, la realizza pienamente e la “conserverà” anche per il futuro. La vita infatti è amore: si realizza nel dono di sé. È come il seme: solo se cade nella terra e muore, diventa fecondo. Chi “odia” la sua vita, la ama veramente. Infatti non è più sotto il dominio del capo di questo mondo che lo tiene nella morte (cf. v. 31); ha vinto il maligno, padre della menzogna e omicida (8,44), ed è figlio del Padre della verità che dà vita. v. 26: se uno mi vuol servire. L’invito di Mc 8,34p ad andare dietro di lui, in Giovanni diventa “servire lui”, che per primo si è fatto servo dei fratelli. Servire è l’espressione concreta dell’amore: l’amore è servo della vita. Chi non ama è schiavo della morte. segua me. Gesù invita chi vuol diventare come lui a seguire lui, facendo il suo stesso cammino. dove sono io, lì sarà anche il mio servo. “Dove dimori?”, sono le prime parole rivolte a Gesù (cf. 1,38). La dimora di Gesù è il Padre, che ama il Figlio (cf. 5,20) e tanto ama il mondo da dare suo Figlio (3,16). Anche noi siamo chiamati a dimorare con lui nel Padre mediante l’amore. L’amore fa chi ama casa dell’amato: uno abita dove sta con il suo cuore più che con il corpo. Seguendo Gesù che si fa servo (cf. 15,10.12-14), anche noi siamo dove è lui: dimoriamo in lui (15,4.9b), viviamo come lui nel Padre e viceversa (cf. 14,15-23).
Gesù chiama il discepolo “mio servo”, conferendogli la sua stessa dignità di Figlio, che pone la propria vita a servizio dei fratelli. se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Chi si fa servo, è onorato dal Padre come figlio. Chi ama e serve fino a dare la vita, ha vinto la morte e ha la vita: riceve quel nome che è al di sopra di ogni altro nome (cf. Fil 2,5-11) v. 27 adesso la mia anima è turbata. “Adesso”, giunta l’ora in cui si compie il destino del seme di frumento, Gesù è turbato, come davanti alla morte di Lazzaro (11,33). In questo versetto Giovanni sintetizza il racconto dell’agonia nell’orto. Gesù prova angoscia e paura; ha terrore e tremore davanti a una morte nel fiore degli anni, una morte violenta e ingiusta, infame e nell’abbandono totale (cf. Mc 14,33-34p). Lui, che ha vissuto e proclamato l’amore del Padre e dei fratelli, cade vittima dell’odio e dell’incomprensione. Lui, che è la luce del mondo, finisce sotto terra. È importante questo turbamento di Gesù. Se non ci fosse, noi saremmo soli e smarriti davanti a ciò che ci rende soli e smarriti: la morte, la violenza, l’ingiustizia, l’infamia e l’abbandono. Egli invece è con noi e vive questa situazione da figlio, con fiducia nel Padre. Adamo, per la sua sfiducia, cadde nelle tenebre; Gesù, il nuovo Adamo, porta in questa tenebra la luce del Padre. Gesù nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a chi poteva liberarlo dalla morte; e fu esaudito perché “prese bene” e grida e lacrime e morte. Proprio per questo è il Figlio pienamente unito al Padre, che salva tutti coloro che lo ascoltano (cf. Eb 5,7-9). e che posso dire. In questa situazione, pur nel turbamento, Gesù non ha nulla da dire. Egli è la Parola rivolta verso il Padre e non ha altro da dire se non colui del quale è “la Parola”. Padre. È “la Parola”, detta dal Figlio, che dice il Padre. In essa si esprime totalmente Dio come amore e consegna reciproca tra Padre e Figlio. L’invocazione richiama l’Abbà che risuonò sulle labbra di Gesù nel Getsemani (Mc 14,36p). salvami da quest’ora. Gesù, come ogni uomo normale, ha paura della morte. E la supera con la fiducia nel Padre della vita (Eb 2,14). Queste parole corrispondono alla domanda che passi da lui quell’ora (Mc 14,35p). Giovanni descrive in modo molto conciso il dramma interiore di Gesù davanti alla sua passione, che è quello di ogni uomo davanti alla morte: vorrebbe evitarla. ma per questo venni a quest’ora. È la decisione di Gesù. È venuta l’ora (v. 23) per la quale egli è venuto; e l’accetta (cf. Mc 14,41p). Non perché non senta paura, angoscia e turbamento, ma perché vive con fiducia nel Padre tutto questo, che è la condizione dell’uomo dopo il peccato. Così vince il peccato. È il Figlio che, trovandosi nella stessa condizione dei suoi fratelli, si rivolge, a nome di tutti, al Padre. v. 28: Padre, glorifica il tuo nome. Gesù chiede al Padre di glorificare il suo nome: di farsi conoscere, attraverso di lui, come Padre. La glorificazione del Padre avviene in quella del Figlio, che ama con il suo stesso amore i fratelli. Queste parole corrispondono a quanto dice Gesù nel Getsemani: “Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Quest’unione di volontà tra Padre e Figlio, è la vita stessa di Dio: è il loro amore reciproco, lo Spirito Santo, che in Gesù si comunica a in ogni creatura. allora venne una voce dal cielo. Nei vv. 28b-30 Giovanni riferisce il senso profondo della trasfigurazione, posta dagli altri vangeli al centro della vita di Gesù. Giovanni non la racconta, perché è l’ottica nella quale legge tutta la sua vita: ogni parola e opera è “segno” della sua gloria di Figlio del Padre. Al Figlio dell’uomo, che nell’agonia lo chiama Padre, la voce dal cielo risponde proclamandolo Figlio. Quanto gli altri vangeli dicono esplicitamente della scena luminosa della trasfigurazione (cf. Mc 9,2-8p), qui è misteriosamente espresso dalle parole: “Glorificai e ancora glorificherò”.
glorificai. Il verbo è senza oggetto; si riferisce al “nome” del Padre, di cui immediatamente sopra. Ma la glorificazione del Padre avviene in quella del Figlio, che rivela e offre a noi l’amore del Padre. Il nome del Padre è stato glorificato nel battesimo di Gesù con il dono dello Spirito, che lo costituisce Figlio suo e fratello nostro (1,33s). Inoltre è stato glorificato mediante le opere che il Padre gli ha dato da compiere, “segni” della Gloria, comune ad ambedue. e ancora glorificherò. Il Padre glorificherà il suo nome sulla croce, quando il Figlio darà lo Spirito e rivelerà la sua gloria di Unigenito del Padre (1,14). E lo glorificherà anche nella storia, attraverso i numerosi fratelli che vivranno del suo amore di Figlio e conosceranno il Padre. v. 29: la folla, che stava (lì) e aveva ascoltato, diceva ecc. La folla ha sentito la “voce” e ha intuito che c’è qualcosa di divino. C’è chi dice che è un tuono, voce di Dio (cf. Es 19,16-19; Dt 5,4; Gb 37,5), Signore del tuono (cf. Sal 29); c’è chi dice che è un “angelo”, una voce che gli comunica un mistero divino (cf. Lc 22,43!). Hanno sentito la voce del Padre dal cielo, come hanno sentito le parole del Figlio sulla terra. Ma per ora non hanno capito la voce celeste perché non hanno capito le parole della Parola diventata carne. Sia la voce che le parole sono dei “segni”, leggibili alla luce della realtà che significano. La loro comprensione avverrà quando il Figlio dell’uomo sarà innalzato e tutto sarà compiuto (19,30). v. 30: non è stata per me questa voce, ma per voi. Mentre la folla ritiene che la voce sia rivolta a Gesù (un angelo “gli” ha parlato, v. 29), Gesù dice che questa voce non è per lui, ma per la folla, tra la quale c’è il lettore stesso. Corrisponde alla voce della trasfigurazione che rivela il Figlio agli astanti e dice loro: “Ascoltate lui” (cf. Mc 9,7p). Questa voce è per noi, affinché lo riconosciamo Figlio. Egli infatti non chiede conferme. È sempre unito al Padre e sa che sempre lo esaudisce (cf. 11,42). v. 31: adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il capo di questo mondo sarà espulso fuori. Nell’ora in cui il nome del Padre è glorificato nel Figlio, nell’ora in cui l’uomo conosce l’amore di Dio per il mondo, c’è il giudizio che mostra la menzogna del “capo” di questo mondo. Satana, principio di menzogna e di morte, si è messo a capo (in greco “árchôn”) del mondo, sostituendosi al principio di verità e vita (cf. 1,1); ora è espulso dal mondo e vinto. Davanti al Figlio dell’uomo innalzato cessa la menzogna che ci ha fatto fuggire da Dio (cf. 3,14ss): finalmente ritroviamo nell’amore del Figlio, che è lo stesso del Padre, la sorgente della nostra vita. v. 32: quando sarò innalzato da terra. “Il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato” (Is 52,13). La croce di Gesù, il Servo, non è vista come uccisione e morte, ma come esaltazione e gloria: il suo cadere nella terra (v. 24) è il suo essere innalzato dalla terra. Le parole di Gesù sul Figlio dell’uomo innalzato _ che qui diventa “io” _ corrispondono, come già detto, alle predizioni sulla morte e risurrezione degli altri vangeli. Nella prima il Figlio dell’uomo innalzato dona salvezza al mondo perché rivela l’amore del Padre (3,14.16), nella seconda rivela “Io-Sono”, l’essenza di Dio (8,28); in questa terza vince il capo di questo mondo e “attira tutti” a sé. Infatti, nel dono ormai imminente della vita, appare la Gloria: conosciamo l’amore del Padre, la verità che ci libera. tutti attirerò a me stesso. Chi non conosce l’amore del Padre, è in fuga da lui come Padre, da sé come figlio e dagli altri come fratelli: entra nelle tenebre e nella morte. Però il suo cuore è fatto per la verità e per l’amore, per quella verità che è l’amore, luce della sua esistenza. Quando finalmente “vede” ciò per cui è fatto, lo riconosce subito, come la sete riconosce l’acqua. Allora, libero dalla cecità e dalle paure che lo bloccano, è attirato verso il Figlio che gli rivela la sua identità di figlio. Allora ritorna al Padre e si volge ai fratelli. “Attirerò” è al futuro: vale da allora per un futuro senza fine. Il futuro del mondo è l’attrazione d’amore verso il Figlio. “Tutti”, nessuno escluso, sulla croce vedranno la sua gloria e saranno attirati a lui. Lì lo vedranno non solo i greci, che volevano vedere Gesù (v. 21). Qualunque uomo lo voglia vedere, solo lì potrà vederlo; e il suo occhio attirerà
il suo cuore. Ogni visione di Dio al di fuori della croce è satanica, sotto l’influsso del “capo” di questo mondo: la croce “sdemonizza” l’immagine che l’uomo ha di Dio, restituendo ad ambedue il loro vero volto, l’uno specchio dell’altro. v. 33: questo diceva significando di quale morte stava per morire. Le parole di Gesù si riferiscono alla croce. È un commento dell’evangelista, sempre attento a leggere tutto dalla fine. quale morte. La morte di Gesù non sarà per lapidazione, come più volte i suoi avversari hanno tentato di fare: sarà per “innalzamento” da terra. v. 34: il Cristo rimane in eterno. È l’obiezione della folla a Gesù, accolto poco prima come Messia: come può dire che il Messia muore, e crocifisso, se la Scrittura dice che rimane in eterno (cf. 2Sam 7,16; Sal 89,37)? Il tema della regalità apparirà con chiarezza nel racconto della passione. come mai dici tu che bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato? (cf. 3,14). Morendo sul patibolo, Gesù delude l’attesa dell’uomo. Ma proprio così compie ogni promessa di Dio (cf. 19,30). Per questo “bisogna” che sia innalzato il Figlio dell’uomo. Il rifiuto del Messia crocifisso (cf. Mc 8,32s p) è rifiuto di Dio e della sua gloria. Questo rifiuto è causa della croce ed è vinto solo dalla croce. Da lì infatti Dio si rivela come è: amore assoluto. chi è questo Figlio dell’uomo? Corrisponde alla domanda dell’ex cieco (cf. 9,35s). Dobbiamo guarire dalla nostra cecità, per conoscere il dono di Dio. Gesù ha espressamente usato l’espressione “Figlio dell’uomo” per designare se stesso. È una figura gloriosa e divina, che emerge, sovrana e maestosa, da una situazione di sofferenza (cf. Dn 7,1ss). Gesù non prende una parte della Scrittura, come i suoi ascoltatori che guardano solo alla promessa regale di 2Sam 7,8-16. Egli corregge la nostra falsa immagine di re (cf. Gdc 9,7-15; 1Sam 8,1ss) attraverso quella del Servo sofferente di Isaia e quella del Figlio dell’uomo di Daniele. v. 35: ancora per un piccolo tempo la luce è tra voi (cf. 7,33; 13,33; 14,19; 16,16). Gesù risponde alla domanda sulla propria identità invitando a guardare a lui, luce del mondo che tra poco scomparirà: il chicco cadrà nella terra, la luce entrerà nelle tenebre. camminate finché avete la luce (cf. 8,12; 11,9). Gesù esorta ad una scelta: a “camminare” alla sua luce, per non restare nelle tenebre. È il tema del contrasto tra luce e tenebre che, come quello tra vita e morte, attraversa tutto il vangelo. chi cammina nella tenebra non sa dove va. Chi non cammina alla luce del Figlio dell’uomo innalzato, che rivela l’amore del Padre, “non sa dove va” perché non sa da dove viene: vive smarrito, nell’ignoranza del proprio principio e del proprio fine. v. 36: finché avete la luce, credete nella luce. Camminare ora diventa “credere nella luce”: bisogna aderire a lui, il Figlio, luce del mondo, dal quale tutto il creato riceve vita e luce (cf. 1,3-5.9). Ancora per poco rimane tra loro: presto morirà. Ma proprio così sarà innalzato e illuminerà tutti: il suo andarsene sarà la luce definitiva, la Gloria. per diventare figli della luce. Chi aderisce a lui, è acceso della stessa luce, che è l’amore: chi crede in lui, ha in sé la fonte d’acqua zampillante, lo Spirito del Figlio (cf. 4,14; 7,37s) queste cose disse Gesù e, allontanatosi, si nascose da loro. Qui finisce la rivelazione pubblica e inizia quella ai discepoli. Misteriosamente il Figlio si allontana per tornare al Padre, là dove sta di casa, là dove noi non possiamo andare se non per mezzo di lui. Gesù si nasconde da loro. È già il preludio della sua morte, quando la luce scompare nelle tenebre. Ma cosa fa la luce nelle tenebre? Gesù che si nasconde è il Figlio dell’uomo innalzato: sarà luce sul lucerniere. Lì tutti potranno vederlo.
L’allontanarsi e nascondersi richiama il “gioco” tipico di Dio con l’uomo: si allontana per chiamare vicino, si nasconde per farsi cercare. È il significato profondo del gioco di velarsi e svelarsi il volto, o quello del nascondino, che fanno i bambini: è come un morire per ritrovarsi, nuovi, nello stupore dell’incontro.
3. Pregare il testo a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando Gesù che parla ai discepoli, dopo che la folla l’ha osannato e i greci vogliono vederlo.
c.
Chiedo ciò che voglio: vedere Gesù là dove si fa vedere, nel mistero del Figlio dell’uomo innalzato che attira tutti a sé.
d.
Contemplo con attenzione le parole con cui Gesù sintetizza la sua esistenza di Figlio e la nostra di suoi discepoli.
Da notare: •
i greci vogliono vedere Gesù
•
la mediazione di Filippo e Andrea
•
è venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo
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se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, rimane solo
•
se muore porta molto frutto
•
chi ama la sua vita, la perde
•
chi odia la sua vita, la custodirà per la vita eterna
•
se uno mi vuol servire, segua me
•
dove sono io, là sarà anche il mio servo
•
il Padre mio lo onorerà
•
adesso la mia anima è turbata
•
posso dire: Padre salvami da quest’ora?
•
per questo venni a quest’ora
•
Padre, sia glorificato il tuo nome
•
la voce dal cielo
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glorificai e ancora glorificherò
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la folla dice che è un tuono, che un angelo gli ha parlato
•
Gesù dice che questa voce non è per lui, ma per noi
•
adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il capo di questo mondo è espulso
•
quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me
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Gesù dice di “quale” morte sta per morire
•
come mai il Cristo rimane in eterno e Gesù dice che il Figlio dell’uomo deve essere crocifisso?
•
chi è questo Figlio dell’uomo?
•
ancora per un piccolo tempo la luce è tra voi
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camminate finché avete la luce perché la tenebra non vi afferri
4.
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chi cammina nelle tenebre non sa dove va
•
finché avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce
•
Gesù si allontana e si nasconde da loro.
Testi utili
Sal 22; 25; 26; 27; 30; 31; 38; 40; Is 52,13-53,12; Dn 7; 1Cor 1,18-2,16.
32. NON CREDEVANO IN LUI 12,37 - 50 12,37
Pur avendo egli compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui,
38
perché si compisse la parola che disse il profeta Isaia: Signore, chi credette al nostro ascolto? E il braccio del Signore a chi fu rivelato?
39
Per questo non potevano credere, perché Isaia ancora disse:
40
Ha accecato i loro occhi e indurì il loro cuore perché non vedano con gli occhi e (non) comprendano con il cuore e si convertano e (io) li guarisca.
41
Queste cose disse Isaia, poiché vide la sua gloria e parlò di lui.
42
Così pure molti dei capi credettero in lui; ma, a causa dei farisei, non confessavano, per non essere espulsi dalla sinagoga.
43
Amarono infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio.
44
Ora Gesù gridò e disse: Chi crede in me, non crede in me, ma in chi mi inviò;
45
e chi vede me, vede chi mi inviò.
46
Io (come) luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non dimori nella tenebra.
47
Se uno ascolta le mie parole e non le conserva, io non lo giudico;
non venni infatti a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. 48
Chi trascura me e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che parlai, quella lo giudicherà nell’ultimo giorno.
49
Poiché io non parlai da me stesso, ma chi mi inviò, il Padre, egli stesso mi ha dato un comando (su) cosa dire e cosa parlare.
50
E so che il suo comando è vita eterna. Le cose dunque di cui io parlo, come me (le) ha dette il Padre, così (ne) parlo.
1. Messaggio nel contesto “Non credevano in lui”, nonostante i segni compiuti davanti a loro. Alla fine del libro dei segni, Giovanni fa una riflessione teologica sull’incredulità che Gesù ha incontrato. L’evangelista è preoccupato di comprendere il mistero, sempre presente, della mancanza di fede. Essa, come la fede, ha il potere di meravigliare il Signore stesso (cf. Mc 6,6a; Lc 7,9): l’uso, che l’uomo fa della sua libertà, è qualcosa di inedito, una novità capace di stupire anche chi gliel’ha data. I segni, compiuti da Gesù e narrati nel vangelo, hanno un unico fine: portarci a credere in lui, il Figlio, per avere vita eterna (20,30s). Come mai davanti agli stessi segni c’è chi crede e chi non crede? Ogni racconto di Giovanni conclude con una valutazione in termini di fede o di incredulità da parte di chi vede. Lo spettatore, come il lettore, è sempre “il terzo”, colui per il quale il segno è compiuto o narrato. Per tutti, infatti, la salvezza è aderire al Figlio: il Figlio dell’uomo è la verità dell’uomo. Già nel prologo si parla della luce venuta nel mondo e non accolta (1,11): il dramma tenebra/luce, vita/morte e fede/incredulità attraversa tutto il vangelo. In 2,11 i discepoli vedono il primo segno e credono; qui invece le folle non credono, nonostante che abbiano visto tanti e tali segni. Credere è un atto di intelligenza, che coglie ciò che i segni significano: è vedere l’invisibile, la Gloria che in essi si manifesta, come il significato in una parola.
Giovanni legge l’incredulità sotto vari aspetti. Innanzi tutto non è una novità. Antica come Adamo, contagiò fin dall’inizio il popolo di Dio. Fu il male di cui soffrirono i padri nel deserto, come si allude al v. 37 (cf. Dt 29,1-3). Inoltre ha tre motivi.
Il primo motivo dell’incredulità nel Figlio dell’uomo innalzato è quanto dice Is 52,13-53,1 (cf. v. 38): l’incredibilità dell’opera di Dio, troppo sublime per essere compresa, luce eccessiva per il nostro debole occhio. Il secondo motivo è che l’uomo non è che non “vuole”, bensì non “può” credere (v. 39), perché è misteriosamente accecato (v. 40; Is 6,9-10). Il terzo e ultimo motivo è che l’uomo, cercando la gloria che viene dagli uomini (v. 43), non conosce quella che viene da Dio. L’uomo è fatto per la luce della verità, che è l’amore di Dio per lui. Ma questo non può essere imposto: è liberamente accettato da chi lo conosce e necessariamente rifiutato da chi lo ignora. Chi ignora l’amore del Padre, non può riconoscere il Figlio, se stesso come figlio e gli altri come fratelli. L’incredulità è causa della croce. Ma proprio sulla croce Dio rivela il suo amore “incredibile”, unico antidoto all’incredulità (cf. 3,14-16; 8,28; 12,32). Possiamo dire che il non credere produce il motivo ultimo per credere: la croce. È l’astuzia di Dio, che volge tutto al bene (Rm 8,28), anche il nostro male. Lui, che in un otre raccoglie la acque del mare (Sal 33,7), dalla croce si rivela come il Signore che dirige la storia al fine desiderato (cf. At 4,27s). Il testo si articola in due parti. La prima (vv. 37-43), attraverso un’allusione a Dt 29,1-3, due libere citazioni di Isaia e un’annotazione dell’evangelista, esamina le tre cause dell’incredulità: l’incredibilità di Dio stesso, la cecità provocata nell’uomo e la sua conseguente vanità. Possiamo dire che, a diverso titolo, i “colpevoli” della croce sono tre: Dio, il nemico e l’uomo, ciascuno a modo proprio. La seconda parte (vv. 44-50) è un ultimo appello di Gesù a credere in lui per avere vita. In esso risuonano i temi emersi nel prologo e giocati nel seguito del vangelo, con una parafrasi della prima rivelazione di Gesù (cf. 3,1621). Sullo sfondo c’è Dt 18,15-22, dove si parla del profeta pari a Mosè, al quale dare ascolto. Credere nel Figlio è “la decisione” che salva l’umanità dell’uomo: lo rende ciò che è, figlio di Dio. Dio ha fatto di tutto per condurlo a credere al suo amore e fargli conoscere la verità che lo fa libero. Questo è il senso globale della Scrittura e dell’opera di Gesù, che compie verso i fratelli l’opera del Padre. Questa riflessione sull’incredulità è posta dopo l’ultimo annuncio del Figlio dell’uomo innalzato e prima del suo innalzamento. Il problema della fede si pone davanti al mistero della croce: è l’accettazione di un Messia, anzi di un Dio crocifisso. Ciò che è stupidità e debolezza per gli uomini (cf. 1Cor 1-3), rivela la gloria di quel Dio che nessuno mai ha visto e che il Figlio ha rivelato. Si tratta di una postfazione al libro dei segni: chi non accoglie questi, provoca il giudizio di Dio e la rivelazione della Gloria. Con queste parole si chiude il libro dei segni e inizia l’ora in cui si compie ciò che essi significano. Gesù è il Figlio, inviato dal Padre per comunicare ai fratelli la sua stessa vita di figlio. La diffidenza che incontra è “il” peccato, vecchio come la menzogna che ha allontanato l’uomo da Dio. È l’incredulità, denunciata da Mosè e Isaia, da legge e profeti, che sarà la causa della croce. La Chiesa ha le sue resistenze a credere, come tutti; ma sperimenta anche la resa di chi vede compiersi in esse e attraverso di esse il grande mistero di Dio: la croce, rivelazione sua e salvezza nostra.
2. Lettura del testo v. 37: Pur avendo egli compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano. È un’allusione al discorso di Mosè, che rimprovera il popolo che ha visto segni e prove grandiose, ma “fino ad oggi il Signore non vi ha dato mente per comprendere, né occhi per vedere, né orecchi per udire” (cf. Dt 29,1-3). I segni che Gesù ha fatto sono le sue opere a favore dell’uomo, che l’evangelista ha raccontato: questi dovrebbero essere sufficienti per credere che lui è Figlio di Dio e avere vita eterna (20,30s). Infatti dice Gesù: “Se non compio le
opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (10,37s). Già al primo segno, a Cana, i discepoli hanno creduto (2,11). Perché gli altri non credono alla Parola che dà il potere di diventare figli di Dio (1,12)? Perché le tenebre non accolgono la luce (1,11), perché gli uomini preferiscono le tenebre (3,19-21) e non vogliono venire a lui per avere vita (5,40)? La vita e la morte dell’uomo si gioca nella fede. Il perché dell’incredulità è la domanda che si sono posti Mosè e i profeti, che si pone Gesù e ogni credente. È la domanda, anzi il dramma di Dio stesso, che ama l’uomo e non sa più che fare per guarirlo dal suo male. v. 38: perché si compisse la parola che disse il profeta Isaia. Iniziano le citazioni di compimento della Scrittura, che diventeranno sempre più frequenti nel racconto della passione. Giovanni spiega questa incredulità attraverso Isaia, nominato tre volte (vv. 38.39.41). Signore, chi credette al nostro ascolto? (cf. Is 53,1a). Il profeta aveva già previsto questa incredulità davanti al Servo di JHWH, esaltato ed innalzato. Infatti, al vedere la gloria di colui che era tanto “sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto”, tutti si meraviglieranno, perché “vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito” (Is 52,14-15). il braccio del Signore a chi fu rivelato? (cf. Is 53,1b). Richiama “il braccio teso” con cui Dio liberò il suo popolo dalla schiavitù (Es 6,6). Chi può riconoscere la potenza del Signore nelle braccia inchiodate del Crocifisso? Il mistero della croce risulta incomprensibile perché presenta ciò che occhio umano mai non vide, né orecchio mai udì, né mai entrò in cuore di uomo e che Dio ha preparato per coloro che lo amano (cf. 1Cor 2,9; Is 64,3). Il primo motivo dell’incredulità è quindi l’incredibilità dell’amore eccessivo di Dio, che si manifesta nel dono del Figlio innalzato. Davvero Dio ha reso la sua promessa più grande di ogni fama (Sal 138,2). v. 39: per questo non potevano credere, perché Isaia ancora disse. Non è che le persone non “volevano”, ma non “potevano” e non possono credere, anche per un secondo motivo: la loro cecità, predetta da Is 6,9-10. v. 40: accecò i loro occhi, ecc. (Is 6,9-10). Il testo è preso dal racconto della vocazione di Isaia. Ma Giovanni lo modifica. Mentre in ebraico è il profeta che rende il popolo duro d’orecchi e cieco; mentre nella versione greca dei LXX è il popolo che non vuole convertirsi, Giovanni qui dice che un altro, non nominato ma ben riconoscibile, “accecò gli occhi ed indurì il cuore”. Autore della cecità non è né il profeta, né il popolo, né tantomeno il Signore: è il capo di questo mondo, che il Signore è venuto a gettar fuori (v. 31). E lo getta fuori con il suo essere innalzato, che ci fa vedere il suo amore incredibile. Si tratta del diavolo, il menzognero e omicida dall’inizio (8,44; 13,2), il satana che entra nel cuore di Giuda (13,27). Egli, con la sua menzogna, ha distolto l’orecchio dalla Parola di vita, accecando gli occhi e indurendo il cuore di tutti (cf. Gen 3,1ss): “Non potete ascoltare la mia Parola. Voi siete da quel padre che è il diavolo e volete fare i desideri del padre vostro” (8,43b-44a). È lui che ci ha proposto un’immagine diabolica del Padre, precisamente la sua. Per questo non possiamo vedere, comprendere e volgerci al Signore. Giovanni tralascia anche “l’indurimento di orecchi” di cui parla Is 6,10 per insistere sugli occhi e sul cuore. Infatti chi ha un cuore libero, può vedere dalle sue opere chi è lui (cf. v.37; 5,36; 7,31; 10,37s). Egli non propone una dottrina: è luce del mondo proprio nella sua carne di Figlio, che fa vedere chi è il Padre. L’evangelista inoltre, a differenza di Is 6,9-10, non nomina “il popolo”. Questo termine ha per lui un significato positivo; sono invece i suoi capi, anche se non tutti (cf. v. 42), ad essere ciechi e duri di cuore. Quindi se la prima causa dell’incredulità è l’incredibilità dell’amore di Dio, la seconda è la cecità dell’uomo, ingannato dalla menzogna che solo la croce vincerà.
e (io) li guarisca. L’evangelista sta parlando di Gesù, luce, verità e vita in lotta con il potere di tenebra, menzogna e morte. Egli è venuto a gettar fuori il capo di questo mondo (v. 31), in modo che l’uomo sia guarito, come l’infermo presso la piscina (5,6.9.11.13). v. 41: queste cose disse Isaia, poiché vide la sua gloria e parlò di lui. Isaia vide nel tempio la gloria di Dio (Is 6,14): è la stessa di Gesù, l’unigenito Figlio di Dio (1,14; 17,4.22). Egli ha visto la gloria che il Figlio da sempre ha presso il Padre, prima della fondazione del mondo (17,5): è l’amore tra Padre e Figlio, che si rivela pienamente nell’esaltazione “del Servo innalzato”, di cui il profeta parla. I canti del Servo di JHWH, attribuiti a Isaia, sono i testi dell’AT che meglio aiutano a capire la gloria del Figlio dell’uomo crocifisso. v. 42: pure molti dei capi credettero in lui (At 6,7). “Molti” dei capi credono in Gesù; non si parla però dei farisei, gli osservanti della legge, che restano i suoi oppositori. Dopo aver parlato dell’incredulità generale (v. 37), Giovanni, come spesso fa, corregge l’affermazione, precisandola e limitandola; c’è sempre uno spiraglio di luce: la fede si fa breccia nell’incredulità, la tenebra non vince la luce. Analogamente, nel prologo, dice che i suoi non l’hanno accolto, ma subito dopo afferma che, a quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio (1,11-12). Questi “molti” tra i capi sono quanti si sono sottratti al capo di questo mondo. Tra di essi conosciamo Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (3,1; 7,50; 19,38.39). ma, a causa dei farisei, non confessavano. I veri avversari del Cristo sono quelli che intendono la legge non come libertà di figli, ma come schiavitù alla lettera. La paura di essere scacciati dalla sinagoga (cf. 9,22; 16,2) impedisce agli altri di confessare apertamente la fede in Gesù. Questa è la situazione della chiesa giudeocristiana di Giovanni che, dopo aver convissuto in pace con la sinagoga (cf. At 2,46-48; 3,1), comincia ad esserne espulsa. v. 43: amarono infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio. Amare la gloria degli uomini, oltre che ostacolare la confessione di fede, è anche il terzo motivo di incredulità (cf. 5,44), conseguenza dei due precedenti. Non conoscendo la gloria di Dio, sia per la sublimità sua che per cecità nostra, siamo vanagloriosi, vittime della vanità: diventiamo schiavi degli occhi altrui (Ef 6,6; Col 3,22), preferiamo le tenebre alla luce (cf. 3,19) e non abbiamo in noi stessi l’amore di Dio (5,42). Solo dopo aver visto la gloria del Figlio dell’uomo innalzato, anche Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo supereranno la paura che prima avevano (19,38.39). v. 44: Gesù gridò e disse. È la terza ed ultima volta che Gesù grida (7,28.37; cf. anche 11,43). È il grido della Sapienza, che invita a volgersi a lei per avere vita (Pr 8,20ss). Questi versetti sono la conclusione del libro dei segni, una sintesi di quanto finora la Parola ha detto. Gesù non ha davanti degli uditori: il suo grido risuona, al di là dello spazio e del tempo, invitando ogni uomo a credere in lui per avere vita. Egli è al centro di tutto, perché tutto ha in lui la propria vita. Nei vv. 44-50 esce diciassette volte il pronome della prima persona (io/di me/me/mi) riferito a Gesù, che interpella direttamente chiunque lo ascolta. L’invito contiene le parole chiave del vangelo di Giovanni: credere, inviare, vedere, luce, dimorare, ascoltare, parola, giudicare, salvare, mondo, trascurare, accogliere, parlare, Padre, comandare, vita eterna. All’inizio di tutto c’è il credere in Gesù: l’adesione a lui fa conoscere chi è veramente Dio e fa ascoltare le sue parole, che salvano dalla morte e danno vita eterna. chi crede in me, non crede in me, ma in chi mi inviò. Credere in Gesù, il Figlio, è credere al Padre che l’ha inviato per salvare il mondo (3,16). v. 45: chi vede me, vede chi mi inviò (14,9). Nessuno mai ha visto Dio: il Figlio unigenito l’ha raccontato (1,18). In lui vediamo la gloria dell’unigenito del Padre (1,14). Non nella legge, come la intendevano i farisei, si vede Dio, ma nella sua carne di Figlio dell’uomo innalzato. Attraverso di lui, crocifisso da noi e per noi, che ci ama come il Padre, conosciamo quel Dio che è amore (cf. 1Gv 4,8).
v. 46: io (come) luce sono venuto nel mondo. La Parola è luce (1,4.5): fa esistere e vedere ciò che esiste. Gesù è luce del mondo (8,12; 9,5; 12,35): in lui veniamo alla luce come figli. perché chiunque crede in me, non dimori nella tenebra. Il credere è connesso alla luce: fa conoscere la realtà. Chi crede in lui ha cambiato dimora: ha traslocato dalla tenebra alla luce, è passato dalla morte alla vita (5,24). Credere nel Figlio è vedere la luce della verità nostra e di Dio: conoscere lui come Padre e noi come suoi figli. v. 47: se uno ascolta le mie parole. La fede in concreto è ascoltare le sue parole, che sono Spirito e vita (6,63.68). e non le conserva. La Parola va conservata nel cuore, perché diventi vita (cf. 8,51-52b). Chi ascolta e non conserva le sue parole, dimora nella morte, come prima. io non lo giudico. Il Figlio ha lo stesso giudizio del Padre (5,30s), che non giudica nessuno (5,22a). A lui è concesso il giudizio di Dio sugli uomini, perché è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo (5,26s). E il suo giudizio sarà la croce, dove rivelerà l’amore incondizionato del Padre. non venni infatti a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Dio ha mandato il Figlio non per giudicare il mondo, ma perché il mondo per mezzo di lui sia salvato (3,17). E il suo giudizio sarà essere giudicato e dare la vita per chi lo condanna. v. 48: chi trascura me e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica. Se chi accoglie il Figlio non è condannato, chi non lo accoglie è già stato condannato (3,18). Non però da Dio, ma se stesso: non ha accettato la propria realtà, ha preferito le tenebre alla luce (3,19), non ha accolto la Parola di vita. La salvezza è la nostra adesione al Figlio. Gesù è il profeta definitivo al quale dare ascolto (cf. Dt 18,15ss). v. 49: io non parlai da me stesso, ma chi mi inviò, il Padre, egli stesso mi ha dato un comando (su) cosa dire e cosa parlare. A questo profeta Dio porrà in bocca le sue parole; ed egli dirà quanto il Signore comanderà (Dt 18,18). v. 50: e so. Gesù agisce e giudica secondo che il Padre gli mostra e gli dà da fare (5,19s.30). che il suo comando è vita eterna. Ogni comando di Dio è per la vita (cf. 10,17s). Il fine della sua azione è ridestarci e farci vivere (5,21). Accogliere la parola del Padre ci dà il potere di diventare figli di Dio (1,12). le cose dunque di cui io parlo, come me (le) ha dette il Padre, così (ne) parlo. Gesù è l’esegeta di Dio (1,18): ci dice la sua verità di Padre, che è la nostra salvezza di figli. Tutti i segni, che finora ha compiuto, mostrano la veridicità della sua parola (cf. Dt 18,20-22). Con queste parole si chiude il libro dei “segni”, scritti perché crediamo in lui e abbiamo vita. Al racconto dei segni seguirà quello della realtà che essi significano: la passione del Signore per noi. Essa ci farà vedere la potenza del suo amore, ci aprirà gli occhi e il cuore, ci farà contemplare la Gloria, che progressivamente, attraverso i suoi testimoni, illuminerà il mondo intero. Così finisce “il giorno” di Gesù e inizia “l’ora”. È l’ora decisiva, in cui viene la notte e la luce entra nelle tenebre.
3. Pregare il testo a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando l’evangelista che spiega il motivo dell’incredulità e Gesù che grida il suo invito alla fede.
c.
Chiedo ciò che voglio: che io apra gli occhi e il cuore per vedere la gloria del Figlio dell’uomo innalzato dalla terra.
d.
Traendone frutto, medito sui motivi dell’incredulità, riscontro le mie resistenze e lascio risuonare nel mio cuore il grido di Gesù, che mi invita alla fede in lui.
Da notare: •
non credevano in Gesù nonostante i segni visti
•
già il profeta Isaia parlò dell’incredibilità dell’opera di Dio
•
ancora Isaia parlò dell’accecamento e dell’indurimento del cuore
•
Gesù vuol guarirci dalla cecità e dalla durezza di cuore
•
Isaia vide la gloria di Dio, anticipo di quella che si rivelò sulla croce
•
molti dei capi credettero, ma avevano paura a confessare
•
amarono la gloria degli uomini più della gloria di Dio.
1. Testi utili Sal 34; Dt 29,1-3; 18,15-22; Is 6,1-10; 52,13 - 53,12; 1Cor 1-3.
33. COMINCIÒ A LAVARE I PIEDI 13,1 - 20 13,1
Ora, prima della festa di Pasqua, sapendo Gesù che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che (erano) nel mondo, li amò fino a compimento.
2
E, essendoci una cena, quando già il diavolo aveva messo nel cuore che Giuda di Simone Iscariota lo consegnasse,
3
sapendo che il Padre gli diede nelle mani tutte le cose e che da Dio uscì e a Dio se ne va,
4
si desta dalla cena e depone le vesti e, preso un telo, cinse se stesso;
5
poi mette acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il telo di cui era cinto.
6
Viene dunque da Simon Pietro; gli dice: Signore, tu a me lavi i piedi?
7
Rispose Gesù e gli disse: Ciò che io faccio,
tu ancora non (lo) sai; ma (lo) conoscerai dopo queste cose. 8
Gli dice Pietro: Non mi laverai affatto i piedi, in eterno! Gli rispose Gesù: Se non ti lavo, non hai parte con me.
9
Gli dice Simon Pietro: Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo.
10
Gli dice Gesù: Chi ha fatto il bagno non ha necessità se non che siano lavati i piedi e allora è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti.
11
Sapeva infatti chi lo consegnava. Per questo disse: Non tutti siete puri.
12
Quando dunque ebbe lavato i loro piedi ed ebbe ripreso le sue vesti e si fu adagiato (a mensa) di nuovo, disse loro: Conoscete che cosa vi ho fatto?
13
Voi chiamate me il Maestro e il Signore, e dite bene: infatti (lo) sono.
14
Se dunque io, il Signore e il Maestro, lavai i vostri piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri.
15
Infatti vi diedi un esempio
affinché anche voi facciate come io feci a voi. 16
Amen, amen vi dico: non c’è schiavo più grande del suo Signore né apostolo più grande di chi lo inviò.
17
Se sapete queste cose, siete beati se le fate.
18
Non parlo di tutti voi. Io so quelli che scelsi, ma affinché si compia la Scrittura: Colui che mastica il mio pane levò contro di me il suo calcagno.
19
Fin d’ora (lo) dico a voi, prima che avvenga, affinché crediate, quando sarà avvenuto, che Io-Sono.
20
Amen, amen vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi mandò.
1.
Messaggio nel contesto “Cominciò a lavare i piedi”. Con questa scena inizia la seconda parte del vangelo di
Giovanni, che si svolge tutta in un solo giorno: è “il giorno del Signore”, che culmina con “l’ora” in cui Dio rivela la sua gloria. Nei cc. 13-17 il Signore lascia ai discepoli il suo testamento. Si tratta di dialoghi e monologhi che spiegano il senso della sua morte, principio di vita nuova per tutti. Il tema di fondo è il suo “andarsene”. Non è un congedarsi per una lunga assenza, ma l’inizio di una nuova presenza. Il suo andarsene infatti non è solo il raggiungimento personale della meta, ma l’irruzione della Gloria nel mondo, come si vedrà nei cc. 18-21. La scena si inserisce nell’ultima cena, al centro della quale gli altri vangeli pongono l’istituzione dell’eucaristia. Giovanni tralascia le parole sul pane e sul vino; narra invece di Gesù
che lava i piedi (vv. 1-20), dà il boccone a Giuda (vv. 21-32) e dona il suo comando, quello dell’amore (vv. 33-35). In questo modo l’evangelista spiega l’eucaristia e illustra il significato della croce: la lavanda dei piedi anticipa l’acqua che sgorgherà dal suo fianco, il boccone dato a Giuda manifesta la comunione piena del Figlio con ogni perduto e il comando dell’amore realizza la vita nuova che è venuto a portare sulla terra. Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia, ma, secondo il suo stile, ne contempla e approfondisce il senso per cinque capitoli (cc. 13-17), sviluppando quanto già ha detto nel c. 6 sul pane di vita. Veramente la cena del Signore è il centro della vita cristiana! Questa azione simbolica di Gesù è un’introduzione narrativa, che fa da principio e fondamento alla seconda parte del vangelo. Il racconto si presta a una pluralità di interpretazioni. I fatti sono sempre più ricchi di ogni tentativo di comprensione. L’alveo interpretativo tradizionale scorre tra due sponde, che abbracciano l’ampio fiume di tutta la tradizione cristiana: da una parte il gesto è inteso come esempio illustrativo dell’amore e del servizio reciproco, dall’altra come rimando all’incarnazione, all’eucaristia, al battesimo o alla penitenza. Le differenti interpretazioni non si escludono; anzi, si richiamano a vicenda. Il testo, pieno di suggestioni, è un pozzo inesauribile: ognuno può attingere acqua secondo la sua sete, che, più è appagata, più cresce. Giovanni è maestro in quest’arte di aprire finestre sull’infinito: usa poche parole, primordiali ed evocative, in contesti narrativi simbolici, che stuzzicano l’intelligenza a capire sempre altro e altro ancora, fino a schiudersi all’Altro, sempre presente in ogni realtà, per quanto piccola. L’evangelista, sin dall’inizio, dà al gesto l’interpretazione più ampia possibile: esprime la coscienza che Gesù ha dell’amore del Padre e la sua volontà di manifestarlo ai fratelli in tutta la sua pienezza, sino “all’estremo”, sino a “compimento”. Qualcuno classifica questo racconto tra i “segni”, ma impropriamente. Infatti il servire non è un segno, ma la realtà stessa dell’amore che si manifesta. È tuttavia vero che lavare i piedi è segno di qualunque altro servizio. Purtroppo c’è chi fraintende il gesto di Gesù come degnazione e umiliazione, mentre in esso il Signore fa mostra della sua dignità e grandezza. L’umiltà infatti è l’aspetto più alto del Dio amore, la sua gloria inequivocabile: Gesù, lavando i piedi, esprime totalmente la sua divinità, come nel suo innalzamento sulla croce. Il tema della vita e della luce, fin qui dominante nel vangelo, sfocia in quello dell’amore. È l’amore, luce vera della vita, si realizza non nelle parole o con la lingua, ma nella verità dei fatti (cf. 1Gv 3,18), nell’essere a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13). Portare i pesi gli uni degli altri è adempiere la legge di Cristo (Gal 6,2), osservare il “suo” comandamento.
Come abbiamo visto nella prima parte del vangelo, i temi di fondo sono semplici e universali, come i quattro elementi del cosmo che troviamo in ogni vivente: “terra” impastata con “acqua”, vivificata dall’“aria” e dal “fuoco” luce. Ma, a differenza degli animali, il principio vitale dell’uomo è Dio stesso: la sua terra è impastata da quell’acqua zampillante che è lo Spirito, ravvivata dal suo soffio e illuminata dal suo fuoco che è l’amore. Se la prima parte del vangelo usava le metafore dell’acqua, dell’aria, della luce e del pane, che le riassume tutte, d’ora in poi espone direttamente la realtà: l’amore. È ciò di cui tutto parla e di cui tutti abbiamo qualche esperienza: è la verità stessa di Dio e di noi, suoi figli nel Figlio. In Lc 22,27, durante l’ultima cena, Gesù si definisce “come colui che serve”. Con “la lavanda dei piedi” offre un’icona visibile della sua identità divina. Il suo servizio non è solo una funzione, umile per lui ed utile per noi: rivela la sua natura di Figlio di Dio, Maestro e Salvatore nostro. Quanto egli compie è il suo passaggio da questo mondo al Padre della gloria, atto pasquale del nostro riscatto. Il suo gesto scaturisce dalla piena consapevolezza della sua dignità divina ed esprime, in modo perfetto e compiuto, l’essenza di Dio: l’amore. Lavando i piedi Gesù, lungi dal darci un esempio di abbassamento, ci eleva alla Gloria: rivela quel Dio, a noi ignoto, la cui sovranità è quella dell’amore. Gesù è re, venuto a testimoniare della verità (18,37): presenta il vero volto di Dio e il volto dell’uomo vero, sua immagine e somiglianza. Ecco l’uomo (19,5): ecco Dio! Causa dei nostri mali non è la volontà di essere come Dio (Gen 3,5). Infatti Gesù ci ha ordinato: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro” (Mt 5,48). Il peccato sta nel nostro modo di pensare Dio: abbiamo creduto alle parole di colui che è padre della menzogna e omicida dall’inizio (8,44). Il Figlio, lavando i piedi ai fratelli e ordinandoci di imitarlo (v. 15), ci restituisce la verità del Padre e nostra. Dio è amore incondizionato, che pone la propria vita a servizio dell’uomo, fino a dare per lui la vita. La sua gloria si rivela dalla croce, dove è palese a tutti, in modo indubitabile, quanto egli abbia amato il mondo. La nostra storia, piccola e grande, personale e universale, è un cammino per vedere e riflettere questa gloria, fino a dire: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16). Purtroppo le immagini, incomplete o sbagliate, che abbiamo di Dio ostacolano questo cammino. Infatti ognuno agisce secondo l’immagine che ha di sé, che corrisponde a quella che ha di Dio. Il v. 1 è la porta d’ingresso che introduce i temi della seconda parte del Vangelo: la Pasqua, la coscienza di Gesù come Figlio del Padre, e l’ora dell’amore perfetto, che si realizza sulla croce, dove “tutto è compiuto” (19,30). I vv. 2-3 sono una variazione sul tema e accennano a Giuda. Dopo questa introduzione, solenne ed elevata, ci si aspetta una rivelazione sorprendente. E infatti Gesù
compie l’azione di lavare i piedi, descritta accuratamente con sette verbi (vv. 4-5). Essa suscita la reazione di Pietro e il dialogo con Gesù (vv. 6-11), che poi, a mensa, spiega il significato di ciò che ha fatto, proclamando beato chi fa altrettanto (vv. 12-17). Il brano conclude con un rimando a Giuda e all’elezione divina (vv. 18-19), per finire con l’esortazione ad accogliere ogni inviato come il Signore stesso (v. 20). Anche se il gesto di lavare i piedi ha come protagonisti Gesù e Pietro, esso assume il suo pieno significato all’interno del c. 13, che è centrato su Gesù e Giuda: Gesù, che lava i piedi ai discepoli, darà a Giuda il “boccone”, segno del suo amore irrevocabile. Da questa polarità Gesù/Giuda scocca la scintilla che rivela la gloria di Dio: Gesù è il Figlio che, ponendo la vita a servizio dei fratelli che lo uccidono, rivela loro che sono figli del Padre, amati incondizionatamente. Gesù, che si fa servo per amore, è il Signore, vero volto di Dio e modello dell’uomo nuovo, sua immagine e somiglianza. Egli, come Giuseppe, è il contrario di Caino: ristabilisce la fraternità, infranta dall’uccisione del fratello. La Chiesa è chiamata a lasciarsi lavare i piedi dal Signore; solo così ha parte con lui e può fare altrettanto. 2. Lettura del testo v. 1: Prima della festa di Pasqua. La Pasqua per Giovanni, a differenza degli altri vangeli, inizia venerdì sera, quando sulla croce sarà immolato l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Questa scena ne anticipa il significato. sapendo. Giovanni insiste sulla libertà di Gesù. Egli sa e vuole ciò che accade (cf. anche vv. 3.11.18; 18,4). La croce non è un incidente che gli è capitato: è rivelazione definitiva del Figlio che, conoscendo l’amore del Padre, è uscito per comunicarlo ai fratelli. venne la sua ora. La “sua ora”, preannunciata all’inizio (2,4) e richiamata alla fine del libro dei segni (12,23), è quella del ritorno al Padre, l’ora della Gloria. Tutto “il giorno” di Gesù punta a questo momento. È l’ora della croce, dove Creatore e creatura finalmente si incontrano e la creazione raggiunge il settimo giorno. È l’ora in cui “tutto è compiuto” (19,30) e Dio, portato a termine il suo lavoro, riposa (Gen 2,2). L’“ora”, nella letteratura apocalittica, indica il momento in cui Dio interviene e si rivela (cf. Dn 12,4.9), portando a “compimento” la creazione e la storia. di passare da questo mondo al Padre. La Pasqua di Gesù è un “passaggio” da questo mondo al Padre, dalla schiavitù delle tenebre alla pienezza di vita. In questo esodo Gesù è il primo dei
numerosi fratelli che lo seguiranno sulla via della libertà. L’acqua attraverso cui si compie questo passaggio non è più il Mar Rosso, ma quella con cui il Signore lava i piedi. avendo amato. La parola “amore”, d’ora in poi, subentra alle parole “luce” e “vita”, finora dominanti. Il verbo “amare” ricorre 38 volte nel vangelo di Giovanni: 7 volte nei cc. 1-12 e 31 volte nei cc. 13-21, con una concentrazione di 26 volte nei cc. 13-17. A sua volta la parola “amore” ricorre 6 volte, con una concentrazione di 5 volte nei cc. 13-17. Il verbo, che indica azione, predomina sul sostantivo, perché l’amore si manifesta più nei fatti che nelle parole (cf. 1Gv 3,18). La vita di Dio, di cui l’acqua e il vento, la luce e il pane sono segno, è l’amore: l’amore del Padre, che il Figlio comunica ai fratelli. i suoi che (erano) nel mondo. Questi “suoi”, che Gesù ama, non sono solo i discepoli, ma tutti gli uomini. Egli è il salvatore del mondo (4,42). I discepoli ne sono la primizia, le pecore già uscite dal recinto, dietro il Pastore della vita (cf. 10,3.4.14.27). li amò fino a compimento. In greco c’è la parola télos (= compimento, perfezione, fine, estremità), che richiama le ultime parole dalla croce: “Tutto è compiuto!” (19,30). La sua pasqua è l’ora in cui si realizza il sommo amore, compimento di ogni comando e appare sulla terra la Gloria. L’essenza di Dio infatti è l’amore, quell’amore che sulla croce si esprime sino all’estremo, abbracciando ogni possibile lontananza. Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri nemici (cf. 1Gv 4,10; Rm 5,8). Questo versetto introduce la seconda parte del vangelo, che racconta dettagliatamente l’ultimo giorno del Gesù terreno. È “l’ora” del ritorno al Padre, nella quale il Figlio, donando se stesso, compie la sua opera: offre ai fratelli la pienezza del suo amore. v. 2: essendoci una cena. Non è “la” cena, quella della pasqua ebraica, ma “una” cena, anticipo di ogni cena della comunità che si riunisce per mangiare la pasqua del Signore, la carne dell’Agnello, offerto sulla croce per la salvezza del mondo (cf. 6,51; 1,29). quando già il diavolo aveva messo nel cuore. Gettare o mettere nel cuore significa deliberare. Il cuore è il centro delle decisioni. Per quanto sembri strano – le varianti testuali e le traduzioni lo testimoniano –, questo “cuore” è da attribuire al diavolo. Anch’egli ha un cuore: una volontà menzognera e omicida sin dall’inizio (cf. 8,44). L’evangelista sottolinea che è lui, con il suo inganno, il vero responsabile del male (cf. Gen 3): per sua invidia entrò la morte nel mondo (Sap 2,23s). Giovanni distingue il peccatore dal peccato, il cui vero autore e ispiratore è il diavolo. Egli è il capo di questo mondo, che Gesù è venuto ad espellere per salvare l’uomo (12,31). che Giuda di Simone Iscariota lo consegnasse. Giuda è vittima del diavolo, che gli suggerì di consegnare Gesù. La figura di Giuda si intreccia in tutto il c. 13 con quella di Gesù. È il figlio della perdizione, il figlio perduto: in lui si compie la Scrittura (17,12), che parla di Dio in cerca
dell’uomo perduto. Nel traditore si oggettiva l’amore estremo che Dio ha per tutti. Il suo nome, Giuda (=lode), richiama i giudei, eletti e amati da Dio; inoltre è figlio di Simone, che richiama Simon Pietro, figura parallela a Giuda. Giuda è attore, non autore del male. La consegna di Gesù da parte di Giuda è opera di un suggeritore maligno, che al momento decisivo entra in lui e agisce mediante lui (v. 27). Il male nasce sempre da una parola ingannatrice (cf. Gen 3,4ss). Giuda, come Adamo e ogni uomo, presta orecchio alla parola del nemico invece che a quella del Padre della vita. Possiamo ascoltare l’una o l’altra. Quella però che liberamente ascoltiamo, entra in noi e determina il nostro agire, facendoci semplici attori del maligno oppure co-autori del disegno di Dio. v. 3: sapendo che il Padre gli diede nelle mani tutte le cose. Quanto Gesù sta per compiere nasce dalla sua coscienza lucida di Figlio: egli sa che “il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (3,35; cf. 17,2). Con questa coscienza affronta la passione. Il suo gesto di lavare i piedi a chi rinnega e tradisce, realizza la possibilità ultima del potere di Dio: la libertà di un amore che ama fino all’estremo. La misura dell’amore infatti è il non avere misura. che da Dio uscì e a Dio se ne va. Gesù sa di essere il Figlio venuto in questo mondo per portare agli uomini perduti l’amore incredibile del Padre, che li ama come lui (17,23), ancor prima della fondazione del mondo (17,24). Non si vergogna di farsi loro fratello (cf. Eb 2,11), per tornare con loro al Padre dicendogli: “Eccoci, io e i figli che mi hai dato” (cf. Eb 2,13b; Is 8,18). “Uscì” indica l’incarnazione, “se ne va” indica tutta la sua vita, trasparenza della gloria dell’amore, che ora si compie. v. 4: si desta dalla cena. Ciò che Gesù fa non è compiuto prima, ma durante la cena. Non è quindi una purificazione per il pasto: è il centro del “suo” pasto. Questo gli conferisce un significato specifico, di anticipo della “sua” pasqua. Il verbo “destarsi” è usato per indicare la risurrezione di Gesù. Il suo è un atto di risurrezione: indica la vita nuova che comunica ai fratelli. Lavare i piedi e dare il boccone a Giuda, con il comando dell’amore reciproco, sostituiscono in Giovanni il racconto dell’istituzione eucaristica. Questa infatti consiste nel lavarci i piedi e amarci gli uni gli altri (vv. 14.34), come lui ha amato Giuda e gli altri. depone le vesti. Non si spoglia solo della veste (= mantello), ma delle vesti. Richiama la nudità del nuovo Adamo, rivestito dell’immagine di Dio; allude al Pastore bello, che “depone” la sua vita a favore delle pecore (10,17s). La sua nudità rivela Dio: è la nudità dell’amore. preso un telo. Questo telo, insieme grembiule e asciugatoio, diventa la sua veste definitiva: quella del servo.
cinse se stesso. La sua nudità è rivestita di servizio. In esso consiste la gloria del Dio amore, la sua vera veste, che l’uomo Gesù, nella sua morte, assume in modo completo e definitivo. Per questo è Dio! Quando riprenderà le sue vesti (v. 12), non si toglierà il telo: rimarrà sempre la sua veste più intima. Il suo servizio, che gli fa deporre le vesti e lo conduce alla morte, va oltre la stessa morte: è amore che vince la morte, gloria del Signore della vita, che sempre continuerà a lavare i piedi. v. 5: mette acqua nel catino. Con precisione puntuale, si descrive l’azione solenne di Gesù, che preordina ed esegue in anticipo ciò che avverrà subito dopo a lui, per opera delle nostre mani. Come l’acqua delle purificazioni divenne vino per le nozze, così quest’acqua sarà tra poche ore il sangue e l’acqua che egli effonderà per noi, perché abbiamo parte con lui (v. 8b). Dio nel Mar Rosso rivelò “la sua gloria” affogando i nemici e salvando il suo popolo (Es 14,4.17-18). Ora rivela la sua gloria dando la vita per i nemici. Questa è la sua pasqua! Il passaggio del Mar Rosso è in un catino d’acqua. Acqua che non affoga nessuno, se non colui che salva tutti. cominciò a lavare i piedi dei discepoli. La pasqua definitiva, che segna il passaggio da questo mondo al Padre, è il suo amore di Figlio che pone la vita a favore dei fratelli: lava i loro piedi perché camminino come lui ha camminato. Gesù, lavando i nostri piedi, ci fa passare da questo mondo al Padre: ci abilita a uscire con lui dalla schiavitù per tornare, nella libertà di figli, al Dio dal quale siamo fuggiti. Questo è l’esodo in cui Dio rivela la sua gloria e vince ogni nemico dell’uomo, compreso il nemico ultimo, la morte (1Cor 15,26). Infatti chi ama i fratelli è passato dalla morte alla vita (1Gv 3,14). Lavare i piedi è gesto di ospitalità e di accoglienza, riservato allo schiavo non giudeo. Ma è anche gesto di intimità della sposa verso lo sposo e di riverenza dei figli verso il padre. Questa ospitalità e accoglienza, questa intimità e riverenza nei nostri confronti, sono le caratteristiche proprie del “Signore e Maestro” (v. 13s), del Maestro che rivela chi è il Signore: non un padrone, ma uno che serve per amore. La qualità più profonda dell’amore è l’umiltà di porre la propria vita a servizio dell’altro. Il Figlio fa ciò che vede fare dal Padre (5,19). Il Padre è il primo che serve il Figlio mettendo la propria vita a sua disposizione; il Figlio fa altrettanto con i fratelli. Gesù, sapendo che è giunta la sua ora di tornare al Padre, sapendo che il Padre gli ha dato tutto nelle mani, ora tiene nelle mani i nostri piedi. Nei piedi è il cammino dell’uomo che si è allontanato da Dio; ora sono nella mano del Figlio, che è la stessa del Padre, dalla quale nessuno può rapire (cf. 10,28-30). Dio è amore (1Gv 4,8b): Gesù lavando i piedi, pone la propria vita a disposizione dei fratelli, portando questo amore sino all’estremo, “a compimento”. Così “compie”
tutte le Scritture, che parlano dell’“amore folle” di Dio per l’uomo. Il Figlio ce lo mostra amandoci con lo stesso amore con cui il Padre ama lui (cf. 15,9) e, in lui, ciascuno di noi (cf. 17,23). L’evangelista vuol far sostare su Gesù che lava i piedi: nel racconto il gesto è ricordato ben otto volte! Con tante ripetizioni, vuole che anche il lettore capisca, e accolga il mistero. Qui dice che “cominciò”. È un inizio, preciso e puntuale, che continuerà senza fine: è il servizio infinito dell’amore, sole senza tramonto. ad asciugarli con il telo. I piedi dei discepoli, immersi nell’acqua di colui che dà la vita per loro, sono asciugati e rivestiti dalla sua stessa veste di servo per amore. di cui era cinto. La veste di cui il Signore è cinto, la Gloria che lo ricopre, avvolge anche i nostri piedi, abilitandoli al suo stesso cammino. v. 6: viene dunque da Simon Pietro. Non si dice se Pietro sia il primo o l’ultimo a cui Gesù lava i piedi. È nominato come rappresentante degli altri, che certo hanno avuto la stessa reazione. Signore. Pietro chiama Gesù col nome di “Signore”. Gesù è il Signore che si fa servo, il Figlio che compie verso i fratelli la stessa opera del Padre. È il Signore da seguire: solo così siamo liberi, uguali a lui, che non si mette sopra gli altri, ma a servizio di tutti. tu a me lavi i piedi? È una reazione di rifiuto: non vuole che il Signore gli lavi i piedi. Anzi, non accetta il Signore, che si rivela tale nel lavare i piedi. Lo vuole diverso da quello che è, perché è diverso da quello che pensa lui. La contrapposizione “tu/me” indica la distanza tra Gesù e Pietro. In realtà non Gesù è lontano da Pietro, ma Pietro da Gesù. Lavare i piedi è il modo più proprio nel quale il Signore si rivela e si dona all’uomo, mettendo in crisi la concezione che abbiamo di lui e di noi. Per noi il Signore è “sublime”, il servo è “infimo”. Gesù invece presenta il Signore come servo, rivelando sublime ciò che noi consideriamo infimo. v. 7: ciò che io faccio, tu ancora non (lo) sai. Solo la croce farà conoscere “Io-Sono” (8,28). Da essa Pietro capirà che Gesù ora sta rivelando il mistero stesso del Dio amore. conoscerai dopo queste cose. “Dopo queste cose” sono le parole con cui inizia il c. 21, quando il Risorto si manifesta a Pietro, lo interroga sull’amore e gli promette di rivestirlo della sua veste di gloria. Quanto Maria ha fatto per Gesù a Betania, corrisponde a ciò che Gesù fa per i suoi discepoli nel cenacolo. Con l’anticipazione tipica di chi ama, essa ha risposto all’amore con l’amore. Lo farà anche Pietro e chiunque altro, quando accetterà il Signore che gli lava i piedi: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). v. 8: gli dice Pietro. Pietro reagisce perché non capisce. Si oppone a Gesù come dopo la sua prima predizione della morte e risurrezione del Figlio dell’uomo (cf. Mc 8,31-33; Mt 16,21-23). Per
lui il Cristo, Maestro e Signore, deve esigere da tutti ospitalità e accoglienza, intimità e riverenza. Egli invece è l’Altro, il solo che fa agli altri ciò che ognuno di noi esige da loro. non mi laverai affatto i piedi, in eterno. Pietro non accetta che Gesù lo serva, come non accetta che il Signore dia la vita per lui; preferisce darla lui per il Signore (v. 37). Egli pensa che il Signore stia sopra tutti per dominare, non sotto tutti per servire. Ignora che Dio è amore; per questo il primo è l’ultimo e servo di tutti (cf. Mc 9,35; 10,43-45). se non ti lavo, non hai parte con me. Non accettare il suo servizio è rifiutare lui e non conoscere la gloria che lui ha prima della fondazione del mondo: l’amore stesso del Padre (17,24). Accettare lui che “lava i piedi” ci dona la capacità di amare come lui ci ha amati, di aver parte alla sua vita di Figlio. v. 9: Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo. Pietro vuol essere con Gesù; anche se non lo capisce, aderisce a lui. Senza saperlo, dice una verità: il Signore, lavandogli i piedi, gli ha sanato la radice del suo camminare. L’uomo è il cammino che fa: il nuovo modo di camminare gli laverà anche le mani e il capo. Gli darà infatti un nuovo modo di agire (mani) e di pensare (capo), perché gli donerà un cuore nuovo, quello di figlio a immagine del Padre. v. 10: chi ha fatto il bagno non ha necessità se non che siano lavati i piedi e allora è tutto puro. È una frase misteriosa. Forse significa che, pur avendo fatto il bagno, con ogni possibile abluzione e purificazione, battesimo compreso, se non accettiamo il Signore che ci lava i piedi, non siamo “puri”, non abbiamo parte con lui alla vita di Dio. C’è pure chi vede qui un’allusione alla confessione dei peccati: anche dopo il battesimo, è sempre necessaria una purificazione ulteriore dei “piedi”, per camminare come lui ha camminato. Fare il bagno allude al battesimo, che non è rimozione di sporcizia (1Pt 3,21), ma coscienza filiale di chi lava i piedi e pone la vita a servizio dei fratelli. voi siete puri. I discepoli sono già puri per la parola che hanno ascoltato (cf. 15,3). Anche se non hanno ancora capito, non importa: la realtà del dono sempre precede ed eccede ogni comprensione. ma non tutti. Durante la cena si pensa a Giuda fin dall’inizio (cf. v. 2). Anche a lui Gesù ha lavato i piedi e solo a lui darà il boccone, segno particolare di amore. v. 11: sapeva infatti chi lo consegnava. Gesù, come conosce l’amore del Padre, conosce anche quanto i fratelli ne siano privi. Per questo sono nella morte e per questo viene a dare loro la sua vita. Il gesto di lavare i piedi, compimento dell’amore, è volutamente incluso nella duplice menzione di Giuda. Il brano successivo evidenzierà il rapporto tra Gesù e Giuda, qui messo sullo sfondo per dare il vero significato al tutto.
v. 12: quando dunque ebbe lavato i loro piedi. Per la sesta volta si parla di “lavare” i piedi. Gesù lo ripeterà, subito dopo, per altre due volte: “Se dunque io, il Maestro e Signore, lavai i vostri piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri (v.14). È il centro del mistero da comprendere. ebbe ripreso le sue vesti. Prima di lavare i piedi, Gesù si è spogliato per vestirsi da servo: ha deposto la sua vita per metterla a nostro servizio (cf. v. 4). Quando la riprende di nuovo, secondo il comando del Padre (cf. 10,18), non si toglie la veste di servo. Questa rivela in eterno la sua gloria. conoscete che cosa vi ho fatto? Dopo la descrizione del fatto (vv. 1-5) e delle reazioni di Pietro (vv. 6-11), siamo ora invitati a riflettere su ciò che è avvenuto. Gesù stesso ne spiega il significato e le conseguenze per la nostra vita pratica (vv. 12-20). Chi conosce cosa il Signore ha fatto lavando i piedi, conosce Dio. Di lui infatti non abbiamo altra conoscenza vera se non quella della croce, dove rivela la sua gloria di servo per amore. v. 13: voi chiamate me il Maestro e il Signore. Maestro è chi sa di più, Signore chi è di più. Gesù è Maestro e Signore perché, lavando i piedi, sa di più ed è di più: conosce e vive l’amore eccessivo del Padre. Gesù è maestro e Signore proprio perché lava i piedi: facendosi servo è il Maestro che rivela chi è il Signore, quel Dio che nessuno mai ha visto. v. 14: se dunque io, il Signore e il Maestro, lavai i vostri piedi, anche voi ecc. Lavando i piedi, il Signore manifesta la sua potenza, il Maestro insegna la sua sapienza. È la potenza che vince il capo di questo mondo (cf. 12,31), la sapienza che ne svela la menzogna. Anche noi, se vogliamo diventare come lui, dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. L’umiltà di un Dio che lava i piedi all’uomo è il fondamento di un’esistenza nuova: ci fa capire cosa significa “essere come Dio”, “essere santi come lui è santo”. L’etica cristiana non deriva da un imperativo morale, ma dall’esperienza personale del Maestro e Signore che mi lava i piedi: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), perché anch’io possa amare come sono amato. Questo è il nuovo comando (v. 34), la parola che è lampada per i miei passi, luce sul mio cammino (Sal 119,105). Gesù è in mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27). Nel servizio vicendevole noi abbiamo parte con lui: entriamo nella Trinità, partecipando della vita stessa di Dio, che è amore dato e corrisposto. Questo è il significato profondo dell’eucaristia, nostra pasqua, manifestazione del Dio amore e salvezza dell’uomo. Il Signore rivelando la sua gloria, salva l’umanità dell’uomo: la guarisce dall’immagine padronale che ha di lui e di se stesso. Il gesto di Gesù che lava i piedi fonda la comunità nuova. In essa, invece del dominio di uno sull’altro, regna il servizio reciproco tra tutti.
v. 15: vi diedi un esempio, affinché anche voi facciate come io feci a voi. Quanto Gesù ha fatto è il modello da imitare. Se ci amiamo gli uni gli altri (v. 34), conosciamo la via per essere dove lui è (14,3s.15-24). La presenza nuova e definitiva di Dio nel mondo è l’amore. Queste parole di Gesù interpretano le parole dell’istituzione eucaristica: “Fate questo in memoria di me”. “Fate questo” equivale a: “affinché voi facciate come io feci a voi”; “in memoria di me” corrisponde a: “vi diedi un esempio”. Non si tratta di un semplice rito, ma di un “fare” concreto: facciamo memoria di ciò che lui ha fatto per noi, per poter fare anche noi come lui, vivendo le nostre relazioni quotidiane nel servizio reciproco. v. 16: non c’è schiavo più grande del suo Signore (cf. 15,20). Per noi il Signore è il sovrano, lo schiavo è l’infimo. Gesù si rivela il Signore facendosi schiavo: il primo è l’ultimo e l’ultimo è il primo! né apostolo più grande di chi lo inviò. È l’unica volte che il sostantivo apóstolos ricorre nel vangelo di Giovanni. Gesù chiama i suoi apostoli ad essere grandi come lui, che si è fatto servo. La vera grandezza è quella dell’umiltà dell’amore. Ogni altra grandezza è vuota in se stessa e istupidisce chi la cerca; è ridicola per chi ne capisce l’inganno e dannosa per chi ne subisce l’allettamento. L’apostolo che vuol essere come i grandi del mondo – nell’ultima cena i discepoli litigano su chi è il più grande (cf. Lc 22,24-27)! – non ha capito chi è il Signore. L’eucaristia capovolge gli pseudovalori che dominano la società, rendendo possibile un nuovo modo di vivere, pienamente bello e umano: all’oppressione dell’egoismo succede la libertà del reciproco servizio. Questa è la liberazione definitiva, che restituisce l’uomo alla sua realtà di figlio di Dio. v. 17: se sapete queste cose, siete beati se le fate. La beatitudine è fare queste cose, come dice Gesù alla fine del discorso evangelico (Lc 6,46-49; Mt 7,21.24-27). Ma nessuno può farle se prima non le conosce. Uno fa ciò che sa! Noi, come Pietro, ancora non le sappiamo né le facciamo; neppure vorremmo che il Signore le facesse (cf. vv. 6-8). “Queste cose” ci sono dette adesso perché dopo, quando saranno accadute, le possiamo comprendere (cf. v. 7). v. 18: non parlo di tutti voi. Come un ritornello martellante, il pensiero di Gesù ricorre a Giuda, che non partecipa a questa beatitudine. È la sua preoccupazione di fondo: come salvare il fratello perduto? io so quelli che scelsi. Si sottolinea ancora la conoscenza divina di Gesù, che qui riguarda i discepoli che ha amato e scelto. L’amore è sempre una scelta, un’elezione. Israele è il primogenito, eletto da Dio per manifestare ai popoli la sua gloria, il suo amore per tutti. Gesù, il Figlio che conosce l’amore del Padre, conosce anche il proprio amore per i fratelli che ha scelto. Se non amasse i fratelli, non si comporterebbe da figlio: sarebbe come Caino, che
sopprime il fratello. La sua elezione inoltre non esclude nessuno, altrimenti non sarebbe il Figlio del Padre di tutti. La sua fedeltà, infine, è irrevocabile, più grande di ogni infedeltà. Gesù sa che ha scelto uomini fallibili e infedeli. Ovviamente il contesto parla in modo particolare di Giuda, scelto e amato come gli altri. affinché si compia la Scrittura. Nel tradimento di Giuda si compie la Scrittura, che parla della fedeltà di Dio a noi che siamo infedeli. Il Signore fa del nostro male il luogo in cui rivela sino all’estremo il suo amore: l’amore compiuto, perfetto. colui che mastica il mio pane. È una citazione, leggermente modificata, dal Salmo 41,10, che inizia con la beatitudine del giusto sofferente. Il “mio pane” richiama il pane dato da Gesù, la sua carne per la vita del mondo (6,51). Esso realizza la grande promessa: “Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (6,54), perché “chi mastica la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui” (6,56). levò contro di me il suo calcagno. Continua la citazione dal Sal 41,10. Levare il calcagno significa fare lo sgambetto, far cadere. Richiama la promessa di Gen 3,15, in cui è schiacciata la testa del nemico che insidia il “calcagno” della discendenza di Eva. In realtà la menzogna del serpente antico è vinta da colui che lava i piedi e dà la vita per chi leva contro di lui il calcagno. La parola “calcagno” ricorda anche il nome di Giacobbe (Israele), che significa “il tallonatore”, che sta alle calcagna (Gen 25,26) e “soppianta” Esaù, sottraendogli la primogenitura (Gen 27,36). Il Vangelo di Giovanni dice che Giuda era “ladro” (12,6). Ora suggerisce che come il padre Giacobbe rubò la primogenitura, così Giuda rubò al Padre l’Unigenito, soppiantando il primogenito di ogni creatura. Giuda è il prototipo dell’uomo peccatore, che il Padre tanto ama da cedere per lui il Figlio (3,16), il quale, a sua volta, si offre a lui nel boccone immerso e dato (cf. v. 26). Il fatto che il Signore dia da mangiare il suo pane a chi leva contro di lui il calcagno, è il compimento della Scrittura, rivelazione di Dio come amore assoluto per l’uomo. Gesù, dando la vita per Giuda e quanti in lui si riconoscono, veramente schiaccia la testa del serpente e vince la menzogna che ci allontanò da Dio. Il suo boccone ripara il danno del primo boccone, con il quale satana ci fece lo sgambetto, facendoci decadere dalla nostra condizione di figli. v. 19: fin d’ora (lo) dico a voi, prima che avvenga, affinché crediate, quando sarà avvenuto, che Io-Sono. Gesù predice il tradimento di Giuda e ribadisce il suo amore per lui, perché i discepoli credano alla fedeltà di Dio: la sua elezione rimane in eterno, al di là di ogni nostra infedeltà. Solo così conosciamo “Io-Sono” e siamo liberi dal veleno mortale del serpente. Proprio nel lavare i piedi ai discepoli e nel dare il boccone a Giuda, il Signore si rivela come tale: amore fedele in eterno.
v. 20: chi accoglie colui che io manderò, ecc. Le conseguenze di questo atteggiamento di Gesù per la chiesa e la sua missione sono evidenti: Giuda è apostolo, scelto e inviato. Anche se infedele, il Signore gli è fedele. Accogliere lui e chiunque altro, è accogliere Gesù stesso, che si identifica con l’ultimo dei fratelli, perché lo ama con lo stesso amore del Padre. Questo significa, anche, che la missione è valida nonostante l’infedeltà dell’inviato. Colui che tiene in un otre le acque del mare (Sal 33,7), inserisce nel suo disegno di salvezza ogni colpa e male dell’uomo. Tutto ciò sarà esplicitato nel racconto seguente, da leggere in continuità con questo. 3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando Gesù nel cenacolo per l’ultima cena con i suoi. c. Chiedo ciò che voglio: lasciarmi lavare i piedi, per fare altrettanto. d. Guardo e ascolto le varie persone: chi sono, che fanno, che dicono? Nota bene: •
rileggo e “mastico” con cura ogni parola del testo, per assaporarla e assimilarla.
4. Testi utili Sal 41; Es 12,1-14; 13,17-14,31; Is 52,13-53,12; Mc 14,17-31; Lc 22,14- 38; Fil 2,5-11; Gal 5,136,2; 1Cor 13,1ss.
34. ADESSO FU GLORIFICATO IL FIGLIO DELL’UOMO E DIO FU GLORIFICATO IN LUI 13,21 - 32 13,21 Dette queste cose, Gesù fu turbato nello Spirito e testimoniò e disse: Amen, amen vi dico: uno di voi mi consegnerà. 22
Si guardavano l’un l’altro i discepoli, incerti di chi parlasse.
23
Stava adagiato nel grembo di Gesù uno dei suoi discepoli, colui che Gesù amava.
24
Allora Simon Pietro gli fa cenno di domandare chi sia colui del quale parla.
25
Allora quello, reclinatosi così sul petto di Gesù, gli dice: Signore, chi è?
26
Risponde Gesù: Quegli è colui per il quale io immergerò il boccone e gli(elo) darò. Allora, immerso il boccone, (lo) prende e dà a Giuda di Simone Iscariota.
27
E, dopo il boccone, allora entrò in lui il satana. Gli dice dunque Gesù: Ciò che fai, fallo presto!
28
Ma questo nessuno dei commensali capì
perché gli(elo) avesse detto. 29
Alcuni infatti pensavano, poiché Giuda aveva la cassa, che Gesù gli dicesse: Compera ciò di cui abbiamo bisogno per la festa, o di dare qualcosa ai poveri.
30
Preso dunque il boccone, quegli uscì subito. Ed era notte.
31
Quando dunque fu uscito Gesù dice: Adesso fu glorificato il Figlio dell’uomo e Dio fu glorificato in lui.
32
Se Dio fu glorificato in lui, allora Dio lo glorificherà in sé e subito lo glorificherà.
1. Messaggio nel contesto “Adesso fu glorificato il Figlio dell’uomo e Dio fu glorificato in lui”, dice Gesù dopo aver dato il boccone a Giuda, che esce nella notte. Questo “adesso” segna l’inizio dell’“ora” della glorificazione del Figlio dell’uomo (12,23), nella quale è espulso fuori il capo di questo mondo (12,31) e noi finalmente conosciamo Io-Sono (8,28; cf. 13,19). Quando le tenebre si impadroniscono della luce, è l’ora stessa in cui la luce entra nelle tenebre. Ed è la salvezza. Gesù ha appena lavato i piedi ai discepoli, dicendo: “Se sapete queste cose, siete beati se le fate” (v. 17; cf. Mt 7,21-26). Il suo gesto e la relativa spiegazione sono inclusi nella menzione del tradimento (vv. 2.11.18s), che qui è ripreso come argomento principale. Giuda è fuori dalla beatitudine di quelli che fanno queste cose; è tra quelli per i quali il Signore dice: “Ahimè per voi” (cf. Lc 6,24-26). Giovanni omette l’“ahimè per quell’uomo” pronunciato da Gesù nei riguardi del traditore (Mc 14,21p); elabora però a fondo il tema del tradimento. E con un effetto a sorpresa. Nel vangelo si sottolinea che Giuda è “uno dei Dodici” (6,71), “uno di voi” (6,70), “uno dei discepoli” (12,4), “colui che mastica il mio pane” (v.18), al quale Gesù dà il suo boccone. Proprio
lui è il figlio della perdizione (17,12), il figlio perduto. E il Padre chi cerca se non il figlio perduto (cf. Lc 15,1ss; 19,10)? Il suo tradimento è predetto perché, quando sarà avvenuto, “crediate che IoSono”, ha appena detto Gesù (v. 19). Proprio in esso si rivela chi è Dio e che Gesù è Dio, il Figlio che ha il cuore del Padre. In Giuda è rappresentato l’apice del mistero del male, tragedia dell’uomo e di Dio che lo ama. Esso consiste nel rifiutare l’amore del Figlio e del Padre, che significa perdere la propria essenza di figli e di fratelli. Il tradimento di Giuda fa pensare all’impotenza di Dio davanti alla libertà dell’uomo; suggerisce l’irreparabilità del male, l’invincibilità delle tenebre e la sconfitta della luce. L’amore perde davanti al male?! Giovanni ci fa vedere che la luce vince le tenebre lasciandosi prendere da esse. La debolezza di Dio è l’unica forza capace di liberare la libertà dell’uomo e riscattarlo dalla morte. A proposito di Giuda esce la domanda, fondamentale e inquietante, che ciascuno si pone circa il proprio destino: sono perduto o salvato? Tale domanda suppone che ci sia un’alternativa tra salvezza e perdizione: o c’è l’una o c’è l’altra. Il vangelo invece mi fa vedere che sono perduto e salvato, salvato proprio in quanto perduto. Da che cosa sono salvato se non sono perduto? Giuda di Simone Iscariota rappresenta ogni uomo, inclusi i giudei e i discepoli. Non a caso il suo nome è Giuda, che richiama i giudei, e quello di suo padre è Simone, come quello del discepolo Pietro. Tutti siamo peccatori, privi della gloria di Dio, e giustificati gratuitamente grazie al sangue di Gesù (Rm 3,23s). Gesù è venuto a salvare il mondo (3,17). La perdizione di Giuda, comune a tutti, è il “luogo teologico” della salvezza. Infatti è impossibile salvare chi non è perduto, come è impossibile riempire un bicchiere pieno. Che salvezza c’è se non dall’inferno? Se la salvezza non fosse dall’inferno, sarebbe falsa e inutile. Infatti non sarebbe salvezza, e noi resteremmo nel nostro male. La luce non suppone le tenebre, come l’amore non suppone l’odio, né la vita la morte, né la gioia la tristezza. La salvezza invece suppone necessariamente la perdizione. Non che il male sia necessario al bene; ma, siccome c’è, “è necessario” che Dio entri in esso per incontrarci. Per lui la nostra perdizione diventa motivo per salvare noi e opportunità per rivelare se stesso. La figura di Giuda ci impressiona perché rappresenta quell’ombra profonda che non vogliamo ammettere. È la condizione umana: da Adamo in poi, nessuno ha creduto all’amore del Padre, tutti abbiamo rinunciato alla nostra realtà di figli. Il rifiuto dell’amore è vero suicidio: uccide l’essenza dell’uomo. È il peccato del mondo, del quale siamo tutti azionisti, con la nostra quota parte che ne accresce il capitale. Ma è proprio “questo” mondo perduto che Dio ha tanto amato da
dare per esso il suo Figlio unigenito (3,16). Nel nostro male brilla così la nostra verità più profonda: non è l’ombra minacciosa che temiamo, ma la luce dell’amore infinito che Dio ha per noi. Ognuno di noi è sconcertato, come i discepoli che si guardano gli uni gli altri (v. 22), chiedendo chi sia (v. 24; cf. Lc 22,23) o domandandosi perplessi: “Sono forse io?” (cf. Mc 14,19; Mt 26,22.25). Il vangelo si preoccupa di mostrare che il tradimento, allora come adesso, non viene dall’esterno, ma sta all’interno dei discepoli, riuniti per celebrare la cena con il Signore. Gesù, svelando il tradimento, non intende denunciare il traditore; gli offre invece la sua amicizia, pur sapendo che la rifiuta. Mostra così la propria fedeltà all’amico infedele, nella gratuità di un amore che non conosce condizioni né condizionamenti. Gesù ama Giuda, anche se rifiutato. Lo ama e non può non amarlo, perché è l’amore. È il Figlio che ha verso di lui lo stesso amore del Padre, che nessuno finora ha visto. Se egli non avesse dato la vita per Giuda o l’avesse rifiutato per il suo rifiuto, sarebbe uomo e non Dio (cf. Os 11,9): non sarebbe il Figlio del Padre, Io-Sono che salva (cf. v. 19). Per questo il tradimento di Giuda è la glorificazione di Gesù, Figlio dell’uomo, come Figlio di Dio; ed è insieme la glorificazione di Dio stesso, che in lui si rivela come amore. Il tradimento di “uno dei Dodici” fa uscire ogni discepolo dalla falsa sicurezza e dalla presunzione di salvarsi, ma anche dall’angoscia di disperarsi e perdersi. Fa capire che la salvezza è un amore assoluto che si dona anche a chi lo rifiuta e non si nega neppure a chi lo nega. Dio ama me e ogni uomo più di se stesso, perché è Dio! Questa è la “meraviglia” operata da colui che fa della pietra scartata la testata d’angolo (Sal 118,22s), del tempio distrutto il nuovo tempio (2,19). L’uccisione del Figlio è il massimo male che noi possiamo perpetrare; Dio ne fa il massimo bene che lui ci possa offrire: il dono del Figlio. Il Signore, dando la vita a chi gliela toglie, si rivela per quello che è. È vero quanto Giuseppe diceva ai fratelli: “Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,20). Gesù è profondamente turbato (v. 21), come davanti al sepolcro di Lazzaro (11,33), l’amico che ama (cf. 11,3.5.11.36). Questo racconto ha sorprendenti parentele con quello di Lazzaro. Innanzi tutto il contesto è simile: da una parte Gesù dà la vita all’amico morto e riceve la condanna a morte (11,53), dall’altra Gesù, nel boccone dato a Giuda, offre la sua vita all’amico che lo consegna alla morte. Oltre al turbamento (v. 21) e all’amore di Gesù (v. 23), c’è anche il comune richiamo alla notte (v. 30 e 11,10) e alla gloria di Dio che si rivela nella morte (vv. 31s e 11,4).
Giuda non è solo quella figura tragica che inquieta i discepoli e turba Gesù: è il prototipo di noi tutti, scelti da Dio che ci ama come siamo, conoscendo ciò che c’è nel nostro cuore. La croce rivela la libertà e l’assolutezza del suo amore, sovrano su ogni male. Che ne è della libertà dell’uomo? Come sarà liberata dalla possibilità di rifiutare quell’amore che la rende libera? Prima della croce siamo schiavi dell’ignoranza e della paura: non conosciamo Dio e non “possiamo” ascoltare Gesù (cf. 8,43). Per questo lo rifiutiamo e fuggiamo da lui. Infatti dice Gesù di chi lo crocifigge: “Non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Solo guardando il Figlio dell’uomo innalzato siamo guariti dal veleno mortale (3,14) e nasciamo alla nostra esistenza autentica. Conosciamo infatti ciò che siamo: figli amati dal Padre. Per questo “è necessario” che il Figlio sia innalzato, per attirarci tutti a sé (cf. 3,14; 12,32). Solo allora la nostra libertà è liberata e possiamo amare come siamo amati. Il tradimento di Giuda sembra il fallimento dell’opera di Gesù. Giovanni invece lo presenta come il compimento delle Scritture (v. 18b). Il piano d’amore di Dio si compie non malgrado, ma attraverso le resistenze dell’uomo. Esse, alla fine, non fanno che “compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse” (At 4,28). In esse vediamo l’amore “compiuto” e indubitabile di Dio per noi. In questa scena del tradimento si menziona per la prima volta “il discepolo che Gesù amava” (v. 23). È qui infatti che il Signore rivela in pienezza il suo amore. Come Gesù è verso il grembo del Padre (1,18), così questo discepolo è adagiato nel grembo (v. 23) e poi reclinato sul petto del Figlio (v. 25). Questo discepolo, amato da Gesù, per noi è l’opposto di Giuda. Per Gesù invece il discepolo più amato è Giuda, che vorrebbe accogliere nel suo seno e far riposare sul suo petto. Il racconto ha un’intenzione precisa: far passare quel Giuda che è in noi dal tradimento al riposo sul cuore del Figlio. L’identificazione con Giuda, così amato da Gesù, ci permette di riconoscere ed espellere da noi quel male, identico al suo, che è in ciascuno di noi. Il vangelo è scritto per il lettore! Il diavolo, il divisore, che aveva in cuore di far tradire Giuda (v. 2), qui è chiamato satana, l’avversario, che ora entra nel suo cuore (v. 27). È lui il responsabile dell’uccisione di Gesù. Ma colui che causò la nostra morte, è inconscio strumento della nostra salvezza. Se satana trasforma il gesto di Gesù in odio della luce e fa entrare Giuda nella notte, il Signore trasforma il suo rifiuto in testimonianza assoluta d’amore che entra in ogni notte. Il racconto fa vedere che Gesù non subisce la passione, ma la dirige coscientemente e liberamente. Se le forze del male scatenano contro di lui tutta la loro violenza distruttiva, il Signore le incanala per realizzare la sua opera. Proprio qui incomincia la rivelazione della “sua” gloria, salvezza dell’uomo.
Come si vede, si tratta di un racconto teologicamente denso, che affronta i nostri interrogativi più profondi: la perdizione e la salvezza, l’odio e l’amore, la libertà dell’uomo e la grazia di Dio, la responsabilità nostra e il suo governo sulla storia. La risposta è data non a parole, ma con dei fatti nuovi che, da un punto prospettico più elevato, aprono a una composizione ancora inedita di questi dilemmi. Il testo inizia con il turbamento di Gesù, che annuncia il tradimento di uno dei discepoli. Questi chiedono chi sia il colpevole (vv. 21-25). Poi Gesù compie verso Giuda un gesto di amicizia, inteso non a svelare il traditore, ma a rivelargli il suo amore (v. 26). Allora, insieme al “boccone”, anche satana entra in lui e Gesù lo esorta a fare presto ciò che vuol fare. I discepoli non capiscono e Giuda esce nella notte (vv. 27-30). È la notte in cui ormai è entrata la luce del mondo: è l’ora della glorificazione del Figlio e del Padre (vv. 31-32). Se Giuda guarda se stesso, sprofonda nella notte; se guarda Gesù, diventa il discepolo che Gesù ama. Gesù ama Giuda e dà la vita per lui che lo tradisce. Dopo avergli lavato i piedi, compie verso di lui un ulteriore gesto d’amore e di comunione. Proprio nel suo rifiuto si compie la Scrittura e si rivela la gloria: Dio è amore gratuito per ogni perduto. La Chiesa si riconosce in Giuda, il traditore amato, per potersi alla fine identificare con il discepolo che riposa sul petto di Gesù.
2. Lettura del testo v. 21: Dette queste cose, Gesù fu turbato nello Spirito. Gesù ha appena preannunciato il tradimento di Giuda (vv. 18s). Il suo turbamento non è per la propria morte, ormai imminente e già accettata. Non è come quello del Getsemani (cf. 12,27), ma piuttosto come quello davanti a Lazzaro morto, l’amico che amava (11,33). Corrisponde all’esclamazione: “Ahimè per quell’uomo attraverso il quale il Figlio dell’uomo è consegnato” (Mc 14,21). Gesù sente il male che si fa colui che gli fa male. In verità la croce è l’ahimè di Dio, il suo dolore per il male del mondo che lo rifiuta. Il turbamento di Gesù è “nello Spirito”. Significa dentro il suo animo o nello Spirito Santo? Il suo animo sente lo stesso turbamento dello Spirito di Dio, che è amore: chi ama sente come proprio il male dell’amato. L’amore rifiutato è la morte di chi ama. Davanti ad essa anche i discepoli saranno turbati (14,1.27). Più avanti si parlerà ampiamente dello Spirito Santo (14,16-18; 14,26; 15,26-27; 16,7-11; 16,12-15).
testimoniò e disse. Testimoniare è un termine giuridico. Si sta infatti istruendo il processo contro il capo di questo mondo, che verrà espulso (12,31). È la penultima volta che Gesù testimonia. L’ultima sarà davanti a Pilato, quando dice di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità (18,37), quella verità che vince la menzogna e ci fa liberi. amen, amen vi dico: uno di voi mi consegnerà. Il tradimento è previsto e affermato con autorità divina. Il peccato, nostra parte di vangelo, è il luogo in cui si rivela il perdono, la tenebra in cui brilla la luce, la disgrazia che manifesta la grazia. Il tradimento è di “uno di voi”, uno dei Dodici. Il nemico non è l’altro, l’estraneo. È l’amico intimo, amato e scelto dal Signore, che in anticipo ne conosce la defezione. Questo “uno di voi” rappresenta tutti noi. Il nostro tradimento è il risultato ultimo di quella menzogna che ci impedisce di riconoscere l’amore eterno che Dio ha per noi. v. 22: si guardavano l’un l’altro i discepoli, incerti di chi parlasse. I discepoli si guardano in faccia, per vedere chi è il traditore. Ognuno pensa che possa essere chiunque altro al di fuori di lui. Tranne Giuda, l’unico che sa. Egli fa da specchio agli altri, chiamati a riconoscersi in lui, al quale è rivelato l’amore incondizionato con cui è amato nella sua non amabilità. Alla domanda che ciascuno si fa: “Sono forse io?” (Mc 14,20p), ognuno, alla fine, può rispondere: “Sono io!”. Devo scoprire che Giuda è mio fratello, mio gemello. Anzi io stesso. In lui infatti, qualunque sia stato o sia il mio rapporto con Gesù, vedo la mia verità profonda: l’amore assoluto del mio Signore per me. v. 23: stava adagiato nel grembo di Gesù uno dei suoi discepoli. Come il Figlio è verso il grembo del Padre (1,18), così questo “uno” sta adagiato nel grembo di Gesù, figlio nel Figlio. Anche questo discepolo, come Giuda, è “uno”, ma rappresenta ogni discepolo che, essendosi visto in Giuda, ha riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per lui (1Gv 4,16). Discepolo è colui che, invece di guardare se stesso che ha rinnegato o tradito, guarda il Signore che lo ama. Questa è la vera conversione. colui che Gesù amava. La tradizione identifica questo discepolo con Giovanni, autore del quarto vangelo. Chiunque sia questo discepolo e chiunque sia l’autore, il quarto vangelo è tutto una contemplazione del mistero di Gesù visto dagli occhi di chi ha scoperto come Gesù lo ama: per questo lo segue nel processo (18,15s), sta ai piedi della croce (19,26), testimonia ciò che ha visto (19,35), riceve l’annuncio della tomba vuota (20,2), giunge per primo al sepolcro e crede (20,8), riconosce il Risorto sulla riva del lago (21,7) e rimane fino al ritorno del Signore (21,20ss): è colui che rende testimonianza e ha scritto questi fatti (21,24). L’autore del quarto vangelo si è già identificato con Lazzaro, che Gesù amava insieme alla sue sorelle (11,5). Ora vuol portare il lettore a riconoscersi in Giuda, per scoprire l’amore gratuito e fedele del Signore che dà la vita per lui, che è infedele e morto. Questo discepolo è il prototipo
dell’uomo che ha capito il vangelo e lo testimonia ai suoi fratelli, perché facciano la sua stessa esperienza. Infatti il senso profondo del vangelo non può coglierlo se non chi abbia poggiato il capo sul petto di Gesù (Origene). v. 24: Simon Pietro gli fa cenno di domandare chi sia colui del quale parla. Pietro ritiene, e giustamente, che questo discepolo è in grado di sapere da Gesù chi è il traditore. v. 25: reclinatosi così sul petto di Gesù. Il discepolo, che prima era nel grembo, ora è sul petto: passa dal grembo che lo genera al cuore che lo ama e gli parla. È quel petto il cui fianco sarà aperto dalla lancia (19,34). La sua intimità con il Figlio è risposta all’intimità del Figlio verso i fratelli, che si manifesta pienamente nel dare il boccone a chi lo tradisce. Signore, chi è? Questo discepolo è l’unico che chiede chi sia il traditore. Il Signore glielo rivelerà attraverso il segno massimo di amore che si possa dare. Nel tradimento infatti si manifesta il trionfo dell’amore (cf. vv. 31-32). v. 26: è colui per il quale io immergerò il boccone e gli(elo) darò. Il gesto di Gesù non è una finzione per svelare il traditore, ma un segno per rivelargli il suo cuore: chi tradisce è colui per il quale il Signore immerge se stesso nella morte, dando per lui la vita. Il boccone, immerso e dato, richiama il segno di amore di Booz, che dice alla futura sposa di mangiare il suo pane e immergere un boccone nell’aceto (Rut 2,14). Ciò che qui Gesù fa, diventerà chiaro quando la sua “sete” sarà abbeverata di “aceto” (19,29). Questo boccone, dato a Giuda dopo la lavanda dei piedi, mostra il compimento dell’amore: l’amore non è solo servizio, ma, innanzitutto, dono di sé all’altro. In questo boccone, ricordato quattro volte (vv. 26bis.27.30), Gesù dona se stesso a colui che lo tradisce. Proprio qui Gesù “ama a compimento”: l’amore raggiunge la sua compiutezza (v. 1), mostrandoci come siamo amati, perché anche noi possiamo amarci a vicenda (vv. 34s). immerso il boccone. In greco la parola immergere (bápto) ha la stessa radice di battezzare (baptízo). Questo boccone è Gesù stesso, immerso e battezzato nella morte, per dare a noi la sua carne e il suo sangue. (lo) prende e dà. Sono parole eucaristiche (cf. Mc 14,22; Mt 26,26; Lc 22,19; cf. 1Cor 11,23). Con questo boccone Gesù si consegna a chi lo consegna. Giuda in Giovanni è l’unico con cui Gesù è in comunione. In lui prende dimora il dono assoluto di Dio, che così è glorificato come tale. Poco prima il traditore è stato indicato come “colui che mastica il mio pane” (v. 18), l’amico in cui confidavo (Sal 41,10); ora si affida alla sua bocca, come suo pane. A chi leva il calcagno contro di lui, il Figlio unigenito dona se stesso e la sua benedizione (cf. v. 18). Così si rivela la gloria di Dio, ed è sbugiardato il satana che aveva mentito su di lui. Colui che ha fatto cadere Eva e insidierà il calcagno della sua discendenza, è schiacciato con questo gesto (Gen 3,15).
v. 27: dopo il boccone, allora entrò in lui il satana. Avviene come in Gen 1-3: prima c’è il dono di Dio all’uomo; solo dopo subentra il danno di satana che vuol rovinarlo. Ma il dono, come sta al principio, sta anche alla fine di tutto, come per-dono. Dopo il boccone satana entra in Giuda. Entrò anche nei nostri progenitori con il boccone che Eva mangiò e diede ad Adamo, che pure ne mangiò (Gen 3,6). Ma ora l’ingannatore è ingannato. In Giuda non trova il boccone che l’uomo prese, mangiò e diede, ma il Signore stesso, che non mangia, perché è la vita, e si dà da mangiare. Proprio così satana, mentre credeva di aver trionfato, verrà espulso e vinto da questo boccone. ciò che fai, fallo presto. Con queste parole Gesù “accelera la salvezza”. Vuole e ordina ciò che l’amico sta compiendo, prendendo su di sé la morte dell’amato. Gesù non vuole il tradimento dell’amico o la propria croce: il male non è necessario per il bene. Se non ci fosse, sarebbe meglio! Ma, dato che c’è, con fantasia suprema, Dio ne fa un bene maggiore: lo vince portandolo su di sé per amore, rivelando così la sua gloria. v. 28: nessuno dei commensali capì perché gli(elo) avesse detto. Un velo copre la Gloria; solo Giuda e il discepolo che Gesù amava possono capire. v. 29: Giuda aveva la cassa. Giuda ha la cassa comune; non è proprietà sua, ma di tutti. Anche per ciascuno di noi, ciò che abbiamo e siamo, non è proprietà privata: è un dono da gestire per il bene comune. Giuda, come tutti, è “ladro” (12,6): se ne appropria. Questo latrocinio è il peccato di Adamo, di Israele e di ogni uomo: voler possedere ciò che è dono, senza accorgersi che così lo distrugge. Se la perdizione dell’uomo è rubare ciò che è donato, la salvezza del Figlio dell’uomo è donare ciò che gli è rubato. La “cassa” di Giuda serve veramente alla ricostruzione del nuovo tempio (cf. 2Cr 24,8-14). Ora, dopo il boccone, Giuda stesso è come l’arca dell’alleanza, che contiene la Gloria. compera ciò di cui abbiamo bisogno per la festa. Per la festa non c’è nulla da comperare. L’agnello, provveduto da Dio stesso, è il Figlio, che sostituisce Isacco e ogni suo figlio (Gen 22,1ss). Solo di lui c’è bisogno per la festa. Giuda non va a comperare, ma a “vendere” ciò che è necessario per la festa: il Signore che si è consegnato a lui e a quanti, comprando e vendendo, rubano. dare qualcosa ai poveri. Il gesto di Giuda darà ai poveri non qualcosa, ma la ricchezza di Dio: il corpo del Figlio, in cui sono tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3), in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). v. 30: preso il boccone, quegli uscì subito. Giuda prende il boccone ed esce. Ma si porta con sé il Signore: come è entrato satana, anche lui è entrato in Giuda.
La vera lotta del vangelo è tra Gesù e il capo di questo mondo, tra la luce e la tenebra. Chi vincerà? La tenebra non riesce a catturare la luce (cf. 1,5). Dopo questo boccone, la tenebra è gravida di luce. Giuda è colui “che mastica il mio pane”, dice Gesù (v. 18). Questo pane è la sua carne e il suo sangue di Figlio (6,54), immerso nella morte per dare vita ai fratelli. era notte. Quando decisero di uccidere Gesù era inverno (10,22). Ora è notte. La tenebra avvolge Giuda. Ma nella notte, di Giuda e del mondo, c’è ormai questo boccone immerso, preso, dato e ricevuto. Giovanni non parla del suicidio di Giuda. Mostra invece come il Signore entra nel peccato e nella disperazione. La notte di Giuda è quella in cui cade chi non cammina nel giorno (11,10), il sepolcro in cui giace Lazzaro, l’amico morto che Gesù ama e che il suo pianto risveglia. Anche Giuda è morto; ma Gesù, nel suo amore verso l’amico, si fa boccone che si immerge nella morte: entra nella notte per risvegliare all’amore chi dorme. In questa notte il Signore passa e fa giustizia di ogni idolo (Es 12,12), restituendo a Dio la sua verità e a noi la nostra libertà. v. 31: quando dunque fu uscito. Richiama il v. 12: “quando dunque ebbe lavato”. Là Gesù spiegò la lavanda dei piedi, perché anche noi facciamo come lui ha fatto a noi (v. 15). Qui invece vediamo ciò che sta all’origine della lavanda dei piedi: il suo amore assoluto, che giunge a compimento (v. 1), perché anche noi ci amiamo come lui ci ha amati (v. 34). Nel boccone immerso e dato a Giuda vediamo la compiutezza dell’amore di Dio, che giunge all’estremo. Veramente nel dono che Gesù fa della sua vita, “tutto è compiuto” (19,30). Gesù ha rivelato in Giuda il colmo dell’amore, amando il non amabile fino a darsi a lui come sua vita. Non risponde all’odio con odio: egli è tutto e solo amore. adesso. “Adesso”, dopo il dono fatto a Giuda, inizia l’ora della glorificazione. fu glorificato il Figlio dell’uomo. Il gesto, con il quale Gesù si dona a Giuda, segna la sua glorificazione. Il Figlio dell’uomo è glorificato come Figlio del Padre. Infatti, mentre si consegna a chi lo consegna, rivela di avere in sé lo stesso amore del Padre. In lui torna a brillare sulla terra quell’amore, principio di tutto, che il menzognero e omicida dall’inizio (8,44) ci aveva nascosto. Dio fu glorificato in lui. L’amore del Figlio verso gli uomini è la anche glorificazione di Dio: fa risplendere sulla terra l’amore eterno tra Padre e Figlio. In Gesù comincia la creazione nuova, ormai piena della Gloria. v. 32: se Dio fu glorificato in lui. Il verbo glorificare è usato tre volte al passato. Indica l’evento della croce, visto come già compiuto dopo il dono del boccone a Giuda. “Adesso” si è già rivelata quella gloria che, tra poco, apparirà sulla croce, quando tutto sarà compiuto e il Figlio ci darà il suo Spirito (19,30).
allora Dio lo glorificherà in sé e subito lo glorificherà. Se la carne del Figlio dell’uomo innalzato rivela la gloria del Dio amore, anche Dio glorificherà la carne del Figlio dell’uomo; e lo glorificherà “subito”, al terzo giorno, quello della risurrezione, sua e nostra. Per questo il verbo glorificare è qui al futuro. La predizione del tradimento si conclude con questo inno alla Gloria, riscatto del creato e compimento del settimo giorno: Dio è tutto in tutti (1Cor 15,28). La gloria del Signore, nel contesto pasquale, è la salvezza dell’uomo dai suoi nemici (cf. Es 14,4.17-18). Nel boccone dato a Giuda è vinta l’inimicizia di ogni nemico e tutti siamo salvati: è espulso il capo di questo mondo (12,31) e l’uomo è finalmente libero. La morte di Gesù è vista come esaltazione del Dio amore che si dona, con una forza più grande della morte. L’amore del Figlio, che si rivela pienamente nei confronti di Giuda, è l’esorcismo definitivo, che libera da ogni male. Il quarto vangelo non racconta esorcismi, perché il racconto evangelico stesso è l’esorcismo per eccellenza, che sbugiarda la menzogna del maligno, rivelando all’uomo l’amore infinito di Dio per lui. Queste parole di Gesù sono il vero cantico del mare (Es 15,1-21), l’inno di vittoria sulla morte e su ogni inimicizia. 3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito. b. Mi raccolgo immaginando il cenacolo con Gesù e i discepoli. c. Chiedo ciò che voglio: conoscere la gloria del Dio amore, riconoscermi in Giuda per sentirmi il discepolo che Gesù amava. d. Traendone frutto, contemplo la scena e le persone: chi sono, che fanno, che dicono. Da notare: • Gesù fu turbato nello Spirito • uno di voi mi consegnerà • i discepoli si guardavano l’un l’altro • il discepolo adagiato verso il grembo di Gesù, gli chiede chi è • colui per il quale io immergerò il boccone • Gesù immerge il boccone, lo prende e lo dà a Giuda • satana entra in Giuda
• ciò che fai, fallo presto • cosa occorre per la festa • preso il boccone, Giuda uscì nella notte • adesso fu glorificato il Figlio dell’uomo e Dio fu glorificato in lui • subito Dio lo glorificherà in sé.
4. Testi utili Sal 41; 103; 136; Es 14; Es 15,1-21; Mc 14,17-21; Mt 26,20-25; Lc 22,14.21-23.
35. VI DO UN COMANDO NUOVO: CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI COME IO AMAI VOI 13,33 - 38 13,33
Figlioli, ancora per poco sono con voi; mi cercherete e, come dissi ai giudei: Dove io me ne vado, voi non potete venire, (lo) dico adesso anche a voi.
34
Vi do un comando nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io amai voi così anche voi amatevi gli uni gli altri.
35
Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri.
36
Gli dice Simon Pietro: Signore, dove te ne vai? Rispose Gesù: Dove io me ne vado, non puoi seguirmi adesso, ma mi seguirai più tardi.
37
Gli dice Pietro: Signore, perché non posso ancora seguirti? Porrò la mia vita per te.
38
Risponde Gesù: Porrai la tua vita per me? Amen, amen ti dico: non canterà il gallo prima che tu mi abbia rinnegato tre volte.
1. Messaggio nel contesto “Vi do un comando nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io amai voi”, dice Gesù alla comunità che accoglie il suo amore. Ormai sta per andarsene, come sta scritto di lui. Noi però non “possiamo” ancora andare dove lui va, anche se lo vogliamo. Lo seguiremo più tardi, quando avendo conosciuto il suo amore per noi, saremo in grado di amarci come lui ci ha amati. Allora anche noi saremo dove è lui, perché lui sarà in noi e noi in lui. E noi vedremo il suo volto nel fratello che amiamo, chiunque sia, anche Giuda. E tutti lo vedranno nel volto di chi ama. Se nel brano precedente c’era il confronto con Giuda, ora c’è il confronto con Pietro, altro lato scuro del nostro cuore. Pietro ama Gesù, vuol essere con lui ed è disposto a dare la vita per lui. Non capire però ancora di capire la cosa principale: la salvezza non viene da ciò che lui fa per il Signore, ma da ciò che il Signore fa per lui. Origine dell’amore non è lui, ma il Signore! Il suo desiderio di essere come Gesù è buono e giusto. Deve però comprendere che esso non può tradursi in volontà di potenza, ma in accoglienza di dono. Il desiderio è la facoltà più alta dell’uomo: lo apre a ciò che gli è impossibile fare e può solo accogliere. L’appetito non produce il cibo, può però accoglierlo. Gesù nell’ultima cena predice il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro. L’accostamento è intenzionale. Se in Giuda vediamo il male, in Pietro vediamo “il bene” dal quale Cristo ci salva. È un male più profondo e sottile, travestito da bene, più difficile da riconoscere. È lo stesso che aveva spinto Pietro a impedire che Gesù gli lavasse i piedi. Fra il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro gli altri vangeli pongono l’istituzione dell’eucaristia; Giovanni vi incastona il comando dell’amore. Mostra così come “la cena del Signore” non sia un semplice rito, ma quell’amore concreto con il quale egli ha amato Giuda e Pietro, e chiunque altro in loro si riconosca come peccatore amato da Gesù. La cena della comunità nuova è come quella che si celebra per Lazzaro tornato in vita: c’è il servizio di Marta, che corrisponde alla lavanda dei piedi, e l’amore di Maria, che corrisponde al boccone dato a Giuda. Questo è il profumo che riempie tutta la casa, in cui “si compie” quell’amore con il quale egli ci ha amati. L’amore di Gesù che si dona è tradito da Giuda e rinnegato da Pietro; ma, a loro volta, il tradimento e il rinnegamento rivelano l’assolutezza di questo amore, che liberamente si consegna e si rivela. Il v. 33 introduce il tema di Gesù che se ne va e della nostra ricerca di lui; i vv. 34-35 contengono il comando dell’amore, mediante il quale il discepolo può incontrare il suo Signore.
Uno infatti abita dove ama: sta dove è il suo cuore. Il comandamento che Gesù ci dà è lo stesso che ha ricevuto dal Padre (cf. 10,18b). Non è una “legge”, che “lega”, ma un “co-mando”, che ci “manda-insieme” con lui verso la pienezza di vita, che è la libertà del Figlio che ama come è amato. Questo comando non è un’imposizione, ma un dono (“vi do un comando”), che ci fa vivere la nostra realtà di figli e fratelli. Ed è nuovo perché per la prima volta vediamo un Dio che ci lava i piedi e ci dà se stesso, abilitandoci ad amare come lui. Il cuore ama solo se si sa amato: la sorgente del nostro amore reciproco è l’amore con il quale Gesù per primo ci ha amati. Egli ci dice infatti di amarci come lui ci ha amati. Questo come indica non solo il modo, ma anche il “motivo, che è insieme causa agente, esemplare e finale: il suo amore per noi è fonte del nostro amore reciproco. “Amatevi gli uni gli altri, come io amai voi ” si può tradurre: “Amatevi gli uni gli altri con lo stesso amore con il quale io amai voi”. I vv. 36-38 rivelano il significato profondo del rinnegamento di Pietro, che si dichiara disposto a dare la vita per Gesù. Anche lui, come Giuda, è chiamato ad accogliere il dono di Dio (4,10). Non conosce ancora l’amore gratuito del suo Signore e non sa che la salvezza non consiste nel dare la vita per lui, ma nel fatto che lui dà la vita per noi. Sacrificare la vita per Dio è l’apice della generosità dell’uomo, il punto più alto della religiosità. Ma è una religiosità “perversa”, di chi vuole occupare il posto di Dio. Nel vangelo c’è un capovolgimento: è Dio che si sacrifica per l’uomo e non l’uomo per Dio, è lui che dà la vita per noi e non noi per lui. Infatti “Dio è amore” (1Gv 4,8b); e “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). “Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7s). Per questo possiamo esclamare con Paolo che nulla, neppure il peccato, il tradimento e il rinnegamento, ci può separare dall’amore di Dio in Cristo Gesù (cf. Rm 8,39). L’amore dal quale nulla ci può separare è quello che il Padre ci offre nel Figlio; da quello che noi abbiamo per lui tutto ci può separare: ogni realtà può essere per noi occasione di peccato, tradimento e rinnegamento! È importante che Pietro rinneghi e che Gesù glielo predica, come ha fatto con Giuda. Solo così scopre che il Signore è fedele a lui che è infedele. Anche se noi manchiamo di fede, il Signore rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13). Egli infatti è amore fedele per sempre. Nel suo rinnegamento Pietro capirà la gratuità assoluta dell’amore che il Signore ha per lui. Saprà che l’amore non è oggetto di merito; chi lo vuol meritare, lo nega. L’amore infatti o è gratuito o non è; se è meritato è “meretricio”. Meritare l’amore è il terribile peccato del giusto, che si
oppone direttamente a Dio che è amore. Pietro, perdonato nel suo peccato, conoscerà chi è il Signore (cf. Ger 31,34) e sperimenterà che “eterna è la sua misericordia” (cf. il ritornello del Salmo 136). È il canto che conclude la cena pasquale, al quale Mc 14,26 accenna immediatamente prima della predizione del rinnegamento di Pietro. La coscienza del peccato perdonato segnerà per Pietro la difficile conversione dalla legge al Vangelo (cf. Fil 3,1-16), che lo renderà capace di pascere i fratelli (21,15-17), confermandoli nella fede (Lc 22,32). La fede infatti è credere alla fedeltà di Dio nella nostra infedeltà. Pietro, grazie all’esperienza del rinnegamento, potrà testimoniare a tutti che il Signore è amore e misericordia. Se non avesse rinnegato, avrebbe sempre potuto pensare che il Signore lo amava perché lo meritava. Non avrebbe colto il mistero di Dio. Paradossalmente si può dire che, se Pietro avesse dato la vita per Gesù, non si sarebbe salvato. Perché la salvezza è ciò che Pietro non può né vuole capire: Gesù che gli lava i piedi e dà la vita per lui. L’esperienza che il Signore non rinnega chi lo rinnega farà conoscere a Pietro e a tutti il comando nuovo: sperimenterà l’amore con cui è amato e potrà anche lui posare il capo sul petto di Gesù, aver parte con lui e amare gli altri con il suo stesso amore. Nel c. 13, oltre Gesù, ci sono tre figure: il discepolo che Gesù amava, Pietro e Giuda. Pietro rappresenta la comunità, che sta tra il discepolo amato e Giuda: attraverso la propria infedeltà è chiamato a fare l’esperienza di quell’amore assoluto che si è manifestato nei riguardi di Giuda, per capire di essere anche lui il discepolo che Gesù amava. Non a caso la predizione del tradimento di Giuda è inserita tra la reazione di Pietro a Gesù che gli lava i piedi e la predizione del suo rinnegamento. Gesù mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Non perché lo meriti, ma perché sono peccatore (cf. 1Tm 1,15). Il Signore mi ama solo perché non può non amarmi, perché è amore. La Chiesa riconosce, con Giuda e con Pietro, di non meritare questo amore. Solo così può conoscerlo come tale. Riconoscendosi in Giuda e in Pietro, i suoi due rappresentanti, può posare il capo sul petto di Gesù, per ascoltare e vedere la sua gloria, che si rivelerà nei capitoli seguenti. 2. Lettura del testo v. 33: Figlioli. Gesù chiama i suoi discepoli con questo diminutivo affettuoso (in greco teknía: figliolini, piccoli generati). Sta per lasciare loro il suo testamento, prima di congedarsi da loro.
ancora per poco sono con voi. Tra poche ore sarà posto sotto terra, come il chicco di grano. E il discepolo si sentirà solo, privo di quella relazione che costituisce la sua vita. Sperimenterà il dramma dell’assenza dell’amato. mi cercherete. Come la cerva anela ai corsi d’acqua (Sal 42,1) e la sentinella al mattino (Sal 130,6), come la notte è attesa del giorno e la fame di cibo, come l’occhio desidera la luce e la terra riarsa la pioggia (Sal 63,2), così i discepoli cercheranno il loro Maestro. “Che cercate?” è la prima domanda di Gesù (1,38). L’uomo è un animale che “cerca”. Cerca la propria identità, la verità sua e del mondo. “Chi cercate?” è la domanda rivolta a coloro che lo vogliono sopprimere (18,4.7); “Chi cerchi?” è la domanda rivolta alla Maddalena dal Risorto (20,15). Si può cercare il Signore per motivi diversi: per un nobile interesse, per volontà omicida o per amore. Chiunque, in ogni modo, lo cerca. E lo trova, sempre uguale a se stesso: amore e nient’altro che amore. come dissi ai giudei (cf. 7,33s). Gesù rimane per poco tempo e poi va da colui che l’ha mandato. Aveva già detto ai giudei: “Mi cercherete e non mi troverete; e dove io sono voi non potete venire” (7,33s; cf. 8,21). dove io me ne vado. Il tema dell’andarsene di Gesù domina i cc. 13-17 e si realizza nei cc. 18-21. La seconda parte del vangelo ci mostra come il suo andarsene è un ritorno al Padre e un nuovo modo di essere tra noi, nella sua gloria. voi non potete venire. La sua mancanza si fa desiderio e ricerca dei discepoli. Ma potranno andare dove lui è andato solo quando avrà manifestato loro il suo amore e comunicato il suo Spirito. Solo quando, innalzato, attirerà tutti a sé, andranno da lui, che si è fatto fiume d’acqua viva per l’assetato, cibo per l’affamato e luce per il cuore. Allora saremo capaci di fare il suo stesso cammino, per essere sempre con lui nella gioia. I suoi restano nel mondo e per ora non sono in grado di seguirlo. Ma lascia loro il suo testamento per mostrare come, dopo che tutto sarà compiuto, potranno e dovranno andare a lui, per essere con lui. (lo) dico adesso anche a voi. Anche ai discepoli Gesù dice quanto ha detto ai suoi nemici (cf. 7,33s; 8,21). A questo punto infatti possono riconoscersi in Giuda e in Pietro, che tradiscono e rinnegano. I discepoli rappresentano tutti gli uomini, che il Figlio ama, come ama Giuda e Pietro. Sono incapaci di seguirlo, perché non hanno ancora capito perché lui ha lavato i piedi a Pietro e dato il boccone a Giuda. Solo il discepolo che Gesù amava è, per ora, in grado di seguirlo (cf. 18,15s; 19,26s.35).
Il comando che segue è un testamento, nel quale chi parte lascia i suoi beni a chi resta, perché ne possa vivere. Gesù ci lascia in eredità il suo amore: questa sarà la presenza nuova di colui che se ne è andato, il suo venire a noi per prenderci con sé, perché anche noi siamo dove lui è (14,3). v. 34: vi do. È un dono ciò che Gesù lascia ai suoi: è la sua stessa vita, da coltivare e custodire (cf. Gen 2,15). Gli altri vangeli, fra il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro, raccontano l’istituzione dell’eucaristia. Giovanni invece ne tralascia il racconto, esplicitandone però il senso profondo e le conseguenze pratiche per la vita di ogni giorno. Per questo, al posto delle parole sul pane e sul vino, pone il comando dell’amore. È il modo di vivere proprio di chi accoglie colui che ha lavato i piedi a Pietro e si è fatto boccone per Giuda. un comando. Il Signore ci fa dono di un ordine, di un comando. Co-mandare significa alla lettera “mandare-insieme”. Fin dal principio Dio ci manda-insieme verso la felicità, ponendo come unico divieto ciò che porta alla morte (cf. Gen 2,16s). Mosè, dopo l’uscita dalla schiavitù, diede al popolo le dieci parole per vivere nella libertà donata da Dio (Es 20,2ss; cf. Dt 7,7-15). Ora Gesù promulga la legge definitiva: dopo averci fatto dono di se stesso, ci dice di vivere del suo amore. Nel boccone offerto a Giuda ci dà ciò che comanda. Per questo il suo comando non è troppo alto per noi, né troppo lontano da noi. Non è nel cielo, né al di là del mare. Anzi, “questa parola è molto vicino a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (cf. Dt 30,11-14). nuovo. Il comando di Gesù è nuovo rispetto alla legge che fu data a Mosè: è la grazia e la verità del Figlio (1,17), la sua vita donata a chi mastica la sua carne e beve il suo sangue, il boccone immerso e consegnato all’amico nella notte. Questo comando non si oppone alla legge: ne è anzi il compimento pieno (Rm 13,10; cf. Dt 6,5; 30,15-20). Il comando è insieme antico e nuovo (cf. 1Gv 2,7s): antico come Dio che è amore (1Gv 4,8b), nuovo per il cuore nuovo e lo Spirito nuovo (cf. Ez 36,26) che il Figlio ci dona. che vi amiate gli uni gli altri. Il “che” significa il senso, il fine del comando nuovo. Dio è amore e ci comanda di amare, per essere con lui e come lui. Gesù ci comanda di avere verso i fratelli il medesimo amore che lui ha per noi: è lo stesso con cui il Padre ama il Figlio e ogni figlio (17,23) e il Figlio ciascuno dei suoi fratelli (15,9). È sbagliato dire che Gesù ha comandato l’amore del prossimo dimenticando l’amore di Dio: questo è la sorgente di quello. L’amore per Dio e per l’uomo sono inscindibili. Infatti “da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16); “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo”.
Per questo Giovanni scrive: “Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,20s). E, poco più avanti aggiunge: “Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti” (1Gv 5,2). Qui si parla dell’amore reciproco nella comunità. È infatti nella reciprocità che l’amore vive. Questa comunità però non si chiude in sé: è aperta a tutti gli uomini, che in essa riconoscono il dono che da sempre desiderano (cf. v. 35). come io amai voi. Gesù ci ha amato servendoci e consegnandosi a noi per amore. Anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri “come” lui amò noi. Il suo amore per noi è lo stesso che Circolo tra noi: è il medesimo che c’è tra lui è il Padre. “Voi” sono i discepoli, i cui prototipi sono Pietro e Giuda: Pietro che non capisce e rinnega, Giuda che tradisce e consegna. I discepoli sono suoi “nemici”, come gli altri; e Gesù li ama di amore assoluto, totale e fedele, fino a lavare i piedi a Pietro, fino a diventare “boccone” immerso e dato a Giuda. Gesù ci dona di vivere gli uni verso gli altri il suo stesso amore. Celebrare l’eucaristia non è un semplice rito: masticare e assimilare il boccone ricevuto significa amarci “come” lui ci amò. L’eucaristia, cena pasquale dell’umanità nuova, si celebra in questo amore quotidiano, che fa di noi e dei nostri rapporti concreti il vero culto gradito a Dio, che ci trasfigura nel Figlio (cf. Rm 12,1ss). così anche voi amatevi gli uni gli altri. “Come” lui ha amato noi, “così” anche noi possiamo amarci gli uni gli altri. Il suo dono è per noi fonte di vita nuova. Il Signore ci comanda di essere ciò che siamo: il suo amore ci ha fatto figli, quindi possiamo e dobbiamo amare come siamo amati. La vita infatti è amore dato e corrisposto. Mentre Lv 19,18 comanda di amare il prossimo, ora che il prossimo di Gesù è il nemico, rinnegatore e traditore, questo comando è universale, esteso a tutti. Se uno, come raccomanda Paolo, esamina se stesso davanti all’eucaristia (1Cor 11,31), sa di non amare “così”: si accorge di essere dalla parte di Pietro e di Giuda. Ma proprio così sa “come” Gesù lo ama. Allora, invece di sentirsi giudicato, è salvato (1Cor 11,31s): coglie il suo amore e può amare così come è amato. v. 35: da questo conosceranno tutti. Il segno di riconoscimento, palese a tutti, del nuovo popolo e della sua elezione è l’amore vicendevole di questo tipo, aperto a tutti, cominciando dai nemici.
L’amore è un linguaggio comprensibile da tutti: tutti esistiamo in quanto amati e diventiamo adulti in quanti capaci di amare. Nell’amore fraterno tra gli uomini brilla sulla terra la gloria del Padre: circola in noi e fra noi la vita di Dio, amore tra Padre e Figlio offerto dal Figlio a ogni fratello. Per questo chi non ama il fratello è ancora nella morte (cf. 1Gv 3,14b). Ma, in quanto amato dai fratelli con l’amore del Figlio, torna alla vita come Lazzaro, l’amico morto che Gesù amava. In questo amore tutti conoscono cosa significa essere discepoli del Figlio: si sentono amati ed eletti anch’essi come fratelli, abilitati a diventare figli di Dio (cf. 1,12). v. 36: Signore, dove te ne vai? Pietro, come non ha capito la lavanda dei piedi e il boccone di Giuda, così non ha capito il comando dell’amore, che dice da dove viene e dove va Gesù. Ha solo capito che se ne va; si sente solo e abbandonato. Vuole stare con lui, ma non ha ancora compreso che, per aver “parte con lui”, deve lasciarsi lavare i piedi e ricevere il suo boccone. Solo così può essere là dove lui da sempre è: nell’amore di Figlio verso il Padre e verso i fratelli. dove io me ne vado, non puoi seguirmi adesso. Bisogna prima che prima Gesù sia elevato da terra, per attirare tutti a sé (12,32). Prima di vedere il compimento dell’amore sulla croce, l’uomo non è in grado di amare: non sa ancora come è amato. Il chicco di grano deve cadere sotto terra e morire per portare molto frutto (12,24). ma mi seguirai più tardi. Pietro lo seguirà dopo la sua risurrezione (21,19), quando avrà conosciuto il suo amore. Solo “dopo queste cose” capirà (13,7; 21,1) e seguirà il Signore. Finora segue i suoi buoni propositi. Signore, perché non posso ancora seguirti? Pietro vorrebbe seguirlo subito. Ma lo seguirà solo dopo il rinnegamento, quando avrà capito la fedeltà del suo amore e contemplato colui che è stato trafitto (19,37). porrò la mia vita per te. Pietro vuol fare per Gesù ciò che Gesù fa per lui (10,11.18): è generoso e vuol amarlo per primo. Invece è lui che per primo ci ama (1Gv 4,19). Pietro non ha ancora capito che “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Gesù gli predice il rinnegamento perché capisca che il suo amore è gratuito e assoluto, per lui come per Giuda. Pietro, sotto il suo amore che pure c’è, nasconde un grande peccato. Non fa come Giuda, che rifiuta il Signore, ma come Adamo che ne vuol prendere il posto. È il modo più sottile per sopprimerlo! Fa come il primo uomo, che non si considera figlio e si sostituisce al Padre. Questo tentativo, tipicamente religioso, di “meritare” l’amore di Dio è il peccato del “giusto”, che va direttamente contro Dio, la cui essenza è amore gratuito. Il nostro amore non sarà che risposta
d’amore all’amore ricevuto. Diversamente è delirio di onnipotenza, proprio di chi vuol essere principio di se stesso e nega la sorgente che l’ha generato. v. 38: porrai la tua vita per me? Gesù ribadisce quanto Pietro ha detto, perché se ne ricordi: la salvezza non è che l’uomo dia la vita per Dio, ma che Dio dà la vita per lui. Solo dopo è in grado di amare e può esclamare con Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). amen, amen ti dico: non canterà il gallo prima che tu mi abbia rinnegato tre volte. La predizione solenne del rinnegamento di Pietro è importante, come quella del tradimento di Giuda. Nella nostra infedeltà comprendiamo la fedeltà e la gratuità dell’amore di Dio: sappiamo di essere giustificati dalla sua grazia (cf. Rm 3,23s). Pietro capirà, dopo il suo rinnegamento, che è Gesù a dare la vita per lui; solo così sarà sicuro che nessuno lo può strappare dalla mano del Figlio, che è la stessa del Padre (cf. 10,28-30). “Dopo queste cose” (cf. v. 7; 21,1), Pietro conoscerà chi è il Signore e lo seguirà fino a dar la vita per lui. A sua volta il discepolo che Gesù amava – che lo seguirà con Pietro nel processo, senza rinnegarlo (18,15s), sarà ai piedi della croce (19,26s), contemplerà e testimonierà il trafitto (19,35), precederà Pietro al sepolcro (20,2-8) e gli indicherà il Risorto (21,7) – resterà sempre con noi, fino al ritorno del Signore (21,20-23). Resterà con noi nella testimonianza del vangelo, che lui ha scritto (21,24), perché anche noi ascoltiamo la Parola che ci fa diventare figli (1,12; 20,30s), e conosciamo “come” Gesù ha amato noi. 3. Pregare il testo a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando Gesù con i suoi nel cenacolo.
c.
Chiedo ciò che voglio: amare gli altri “come” lui ha amato me, insieme con Giuda e con Pietro.
d.
Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono.
Da notare: • ancora per poco sono con voi • mi cercherete • dove vado io voi non potete venire • come dissi ai giudei, lo dico adesso anche a voi • vi do un comandamento nuovo
• amatevi gli uni gli altri “come” io amai voi • da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli • Signore, dove te ne vai? • dove me ne vado io, non puoi seguirmi adesso; mi seguirai più tardi • perché non posso ancora seguirti? • porrò la mia vita per te • non canterà il gallo e mi avrai rinnegato tre volte. 2. Testi utili Sal 103; Dt 30,15-20; Gv 21; 1Cor 13; Gal 2,20; Rm 5,6-11; 8,28-39; 1Tm 1,15; 2Tm 2,13; 1Gv 4,7-21. 36. NON SIA TURBATO IL VOSTRO CUORE 14,1-14 14,1
Non sia turbato il vostro cuore; continuate a credere in Dio e pure in me continuate a credere.
2
Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se no, vi avrei detto che vado a prepararvi un luogo?
3
E quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, di nuovo vengo e vi prenderò presso di me, perché dove sono io siate anche voi.
4
E dove [io] me ne vado, sapete la via.
5
Gli dice Tommaso: Signore, non sappiamo dove te ne vai,
come possiamo sapere la via? 6
Gli dice Gesù: Io-Sono la via e la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
7
Se avete conosciuto me, anche il Padre mio conoscerete; e fin d’ ora lo conoscete e l’avete visto.
8
Gli dice Filippo: Signore, mostraci il Padre e ci basta!
9
Gli dice Gesù: Da così tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre! Come puoi tu dire: Mostraci il Padre?
10
Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io dico a voi, non le dico da me stesso, ma il Padre che dimora in me fa le sue opere.
11
Continuate a credere a me: Io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me. Se no, credete a causa delle opere stesse.
12
Amen, amen vi dico:
chi crede in me, anche lui farà le opere che io faccio e ne farà di più grandi, perché io vado presso il Padre. 13
E ciò che chiederete nel mio nome, lo farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio.
14
Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io (la) farò.
1. Messaggio nel contesto “Non sia turbato il vostro cuore”, risponde Gesù ai discepoli, smarriti per la sua partenza. Hanno turbamento profondo e senso di orfanezza: cosa sarà di loro quando il Signore se ne sarà andato? La Chiesa fin dall’inizio si porta dentro una domanda: che fare in questo tempo, tra la sua partenza e il suo ritorno? La comunità cristiana nasce, ora come allora, da una comprensione profonda della sua partenza. Gesù non è assente; ha dato inizio a una nuova presenza, che si concreta nell’amarci “come” lui ci ha amati, lavando i piedi a Pietro che rinnega e dando il boccone a Giuda che tradisce. Non ci abbandona, ma ci dona il suo Spirito, che ci fa vivere in lui, come lui in noi. Il suo andarsene non è una morte che decreta la fine sua e nostra; è invece un compimento, in cui egli è glorificato e noi nasciamo a una fecondità di vita filiale e fraterna. Nel testo si avverte anche la preoccupazione per i pericoli che i discepoli incontreranno in questa attesa lunga, sempre troppo lunga! La partenza di Gesù lascia un vuoto interiore che facilmente può essere riempito da surrogati. Infatti se la “via” è una, le deviazioni sono numerose; se la verità esige intelligenza, le menzogne germinano spontaneamente; se la vita cresce con lentezza, la morte viene improvvisa e basta qualunque stoltezza a provocarla. Oltre le difficoltà interiori, ci sono anche quelle esteriori. L’ambiente ostile non aiuta certo a camminare sulla retta via, a cercare la verità e a promuovere la vita. Anzi si oppone duramente a chiunque lo mette in questione.
Come si vede, l’evangelista è preoccupato della sua comunità e le indica la via maestra da seguire: la fede in Gesù e l’amore che ci viene dal suo Spirito. È questa l’eredità che il Signore ci ha lasciato, che ci permette di vivere come lui ha vissuto. Gli ampi discorsi di Gesù nell’ultima cena sono il suo testamento e corrispondono, seppur con stile diverso, ai discorsi escatologici degli altri vangeli. Nella prospettiva della sua passione, ormai imminente, chiariscono cosa il suo “andarsene” significhi per la nostra vita di ogni giorno. Sono parole di addio: chi parte apre il cuore e confida il senso compiuto della sua esistenza. È il Signore glorificato che parla (cf. 13,31), per tranquillizzarli sul futuro (14,1-14). Esso sarà sotto il segno del suo amore (14,15-31), che li unirà profondamente a lui e al Padre (15,1-17), così che possano testimoniarlo davanti al mondo, partecipando allo scandalo della croce (15,18-16,4a). È un bene la sua partenza: con essa comincia la sua venuta nello Spirito, che ci fa vivere in questo mondo l’amore con il quale lui ci ha amati (16,5b-15), fino a quando saremo nella gioia definitiva dell’incontro con lui (16,16-33). Infine il c. 17 rivede il cammino dal punto d’arrivo: la comunione del Figlio con il Padre, che il Figlio offre ai fratelli. La partenza di Gesù apre la storia dell’uomo al suo stesso cammino di Figlio. In questi discorsi il futuro del mondo è visto come progressiva glorificazione del Padre nel Figlio dell’uomo e, in lui, di ogni figlio d’uomo. In Gesù, il primogenito, è rivelato il mistero di ogni suo fratello. Il c. 14 è un incoraggiamento ai discepoli, perché non sia turbato il loro cuore, come si dice all’inizio e alla fine (vv. 1.27). Il turbamento è vinto dalla conoscenza della verità, che fa capire la partenza di Gesù come compimento della sua opera e dà il coraggio di seguirlo. Con il suo “andarsene” Gesù si rivela definitivamente via, verità e vita: la via per raggiungere Dio, verità e vita dell’uomo. Se prima il Maestro era con noi, ora è in noi, mediante la fede e la preghiera, l’amore e il dono dello Spirito. Questa è la sua nuova presenza, che realizza la grande promessa: è l’alleanza nuova tra Dio e uomo, che va oltre la stessa morte, in comunione con il Signore mediante il suo Spirito che è in noi (cf. Ez 36,26s). Il capitolo è un’unità che, per comodità di lettura, articoliamo in due parti: la prima è sulla fede in Gesù (vv. 1-14) e la seconda sull’amore (vv. 15-31). In questa prima parte si parla sei volte di “credere”, quattro di “conoscere”, tre di “sapere” e tre di “vedere”. Credere è comprendere in profondità che l’andarsene di Gesù è un precederci e prepararci un posto, perché anche noi possiamo essere sempre dove è lui. Egli infatti è il Figlio, la “via” per il ritorno al Padre (vv. 1-4). Tommaso obietta che i discepoli, ignorando dove lui vada, non conoscono la via (v. 5). Nessuno è tanto smarrito quanto chi non sa dove andare! Gesù risponde che conoscere lui è “la via” per giungere al Padre. Non la legge, ma il Figlio porta a Dio, perché rivela “la verità” che lui è
Padre e noi siamo suoi figli. Questa verità è per noi “la vita”. Conoscere lui è conoscere il Padre e la propria realtà di figli. Il Gesù terreno, la carne del Verbo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, svela la verità nostra e di Dio. Per questo è la via da seguire per avere la vita. In lui, Parola di Dio, ci è donata la conoscenza piena di ciò che siamo e dobbiamo fare (vv. 6-7). A Filippo, che gli chiede di mostrare il Padre, principio e fine di ogni cammino, Gesù risponde che chi ha visto lui, ha visto il Padre. Infatti tutta la sua vita di Figlio è “esegesi” del Padre che nessuno mai ha visto (1,18). Il modo nel quale egli ha vissuto la fraternità con noi, ci fa vedere non solo che abbiamo un Padre comune; ci mostra anche chi egli è. Il Figlio infatti ha lo stesso volto del Padre (vv. 8-9). Attraverso le sue opere e le sue parole, Dio si comunica a noi come amore tra Padre e Figlio. Per questo anche noi faremo opere come le sue, anzi ancora più grandi, proprio perché è tornato al Padre e dona a ciascuno di noi la pienezza del suo Spirito (vv. 10-12). Gesù non ci abbandona e non ci lascia soli. Il vuoto della sua partenza da noi è colmato dalla sua presenza in noi. L’adesione profonda a lui è la fiducia che ci fa superare ogni paura. Questa fede si esprime nella preghiera fatta nel suo nome. Essa è un dialogo con il Padre, che possiamo fare perché siamo nel Figlio, dal quale otteniamo tutto ciò che ci serve per vivere da figli (vv. 12-14). In sintesi: l’andarsene di Gesù, che tra poche ore sarà innalzato, è visto come un prepararci il posto e un tornare a noi in modo più profondo, perché anche noi siamo dove lui è. Con il suo andarsene da noi comincia il nostro ritorno a lui: ci è donato di andare dove lui è andato, di camminare come lui ha camminato. Gesù è il Figlio che ci ha mostrato il volto del Padre. Nel suo dimorare presso di noi ci ha aperto il cammino verso la nostra dimora, nel suo andarsene presso il Padre ci dona la forza di compierlo. La Chiesa, credendo in lui, il Figlio, conosce la via del ritorno a casa, vede la verità di Dio che ci è Padre e partecipa alla sua stessa vita di Figlio. 2. Lettura del testo v. 1: Non sia turbato il vostro cuore. Così inizia il c. 14, che termina dicendo: “Non sia turbato il vostro cuore, né sia spaventato” (v. 27). Gesù dà per scontato che i discepoli siano turbati e spaventati. Vuole tranquillizzarli e rassicurarli. Così fece anche Mosè, prima di morire, con il popolo che aveva liberato dalla schiavitù (Dt 31,6.8; cf. Gs 1,1-9). Gesù stesso ha provato turbamento davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro (11,33), come pure davanti alla propria morte (12,27) e al tradimento di Giuda (13,21). Il turbamento è un tempo di prova, occasione di crescita nella fede, ma anche tentazione di caduta nella sfiducia.
Il cuore dei discepoli, conteso da sentimenti opposti, sta diventando il cuore nuovo, della nuova alleanza (Ger 31,31-34, Ez 36,26), capace di amare come è amato. “Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi” (Es 14,13). continuate a credere in Dio e pure in me continuate a credere. La fede è il miglior ansiolitico, come la sfiducia è il peggior ansiogeno. Gesù pone sullo stesso piano la fede in Dio e la fede in lui: chi crede in lui, crede in colui che l’ha mandato (12,44). Lui e il Padre sono una cosa sola (10,30.38; cf. 14,11.20; 17,21-23). Credere in lui come Figlio è credere in Dio come Padre. A ben guardare, ogni tentazione riguarda sempre la fede, unica forza per superare gli inevitabili turbamenti: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sia la vostra forza” (Is 30,15b). In noi paura e fede stanno sempre insieme, anche se in proporzione inversa; la paura, a sua volta, è quel vuoto che la fede progressivamente riempie. La fede in Dio, Padre, ha il suo respiro nella preghiera fatta nel nome di Gesù, il Figlio (cf. 13-14). v. 2: nella casa del Padre mio. Così Gesù aveva chiamato il tempio (2,16), che identificò con il suo corpo (2,21). La casa del Padre è il Figlio, in cui si adora in Spirito e verità (4,24). Come il tempio, fatto da mani d’uomo, sarà distrutto, così Gesù sta per morire; ma proprio il suo andarsene lo costituirà nuovo e definitivo tempio. ci sono molte dimore. “Dove dimori?” è la prima domanda dei discepoli a Gesù (1,38). Ora, dopo aver visto Gesù che lava i piedi a Pietro e dà il boccone a Giuda, sappiamo dove dimora: l’amore perfetto fa del Padre la dimora del Figlio e del Figlio la dimora del Padre. Nella casa del Padre, ossia nel Figlio, ci sono molte diverse dimore: una per ogni fratello, nessuno escluso. A chiunque lo accoglie egli dà la possibilità di diventare figlio di Dio (1,12). Gesù è il tempio nel quale ogni uomo incontra Dio e ritrova il volto di cui è immagine e somiglianza. vado a prepararvi un luogo. “Casa del Padre”, “dimora” e “luogo” richiamano il tempio, il luogo dove Dio è di casa tra gli uomini. L’andarsene di Gesù ci prepara questo luogo: ci mostra dov’è e ce lo dona. Il suo andarsene è infatti il compimento dell’amore (13,1; 19,30), la venuta della Gloria: mette in comunicazione cielo e terra e ci introduce come figli nella casa del Padre. v. 3: quando sarò andato, di nuovo vengo. L’andarsene di Gesù ci prepara e ci apre la nostra dimora nella casa del Padre. Ci dona infatti il suo stesso amore di Figlio. Per questo il suo andarsene da noi è in realtà un venire pienamente incontro a noi. Dicendo l’espressione: “di nuovo vengo”, non indica la sua venuta alla fine dei tempi (“parusia”), ma la venuta imminente, quando tra poco, elevato da terra, ci attirerà tutti a sé (12,32). Allora ci “prenderà” con sé, perché siamo anche noi dove lui già è, al presente. Infatti l’amore senza limiti che, proprio andandosene, ci offre, è la sua
nuova e definitiva venuta in noi, che ci permette di essere là dove prima non potevamo andare (13,33). La sua venuta tra noi è ormai quella dell’amore (cf. vv.15-24). perché dove sono io, siate anche voi. Il fine del suo andarsene da noi e del suo venire a noi è perché anche noi siamo dove lui è: lui è nel Padre come il Padre è in lui (cf. v. 10). Infatti l’amore corrisposto fa essere l’uno nell’altro, ognuno dimora dell’altro. Prima che Gesù se ne vada e ci doni il suo amore, noi non possiamo essere dove è lui (7,33s.36; 13,33.36). v. 4: dove io me ne vado, sapete la via. La via del ritorno al Padre, dal quale eravamo fuggiti, è la via dell’amore compiuto, che il Figlio ci ha manifestato nel c. 13. Per essere “dove” lui è, bisogna seguire il comando di amare “come” lui ci ha amati (13,34). Questa, e nessun’altra, è la via. v. 5: gli dice Tommaso: Signore, non sappiamo dove te ne vai, come possiamo sapere la via? Tommaso è disposto ad andare a morire con Gesù (11,16). Gli vuole bene e pensa che l’amore più grande sia quello di morire per l’amico (15,13). Però non sa ancora che l’amore è più forte della morte (cf. Ct 8,6). L’amore, e non la morte, è la realtà ultima, perché è anche la prima. L’andarsene di Gesù non è un morire, ma un compiere la vita stessa nel dono di sé: è un ritorno al Padre della vita. Tommaso faticherà a credere che Gesù è risorto (20,24ss), proprio perché ignora che l’amore è la via alla vita. In Tommaso vediamo rispecchiata l’incredulità comune a tutti noi. Poniamo infatti la morte come orizzonte definitivo della vita. Ma essa non è voluta da Dio (cf. Sap 1,13s); è solo stipendio del peccato (Rm 6,23), provocata dagli errori della nostra vita (Sap 1,12). Tommaso, chiamato anche Didimo, significa “gemello”. Gemello di ciascuno di noi, chiamato a diventare gemello di Gesù. Per questo il Signore gli risponde mostrandogli l’amore non è solo il cammino per affrontare decorosamente la morte: è la via della verità e della vita. Ma per conoscere questo dovrà prima mettere il dito nel luogo dei chiodi e la mano nel fianco aperto. Solo allora vedrà e toccherà il mistero nascosto e potrà dire: “Mio Signore e mio Dio” (20,27s). Nel Cenacolo, Leonardo raffigura Tommaso con l’indice puntato in alto: è il dito che ha toccato il cielo! v. 6: Io-Sono la vi e la verità e la vita. “Io sono”, così caro a Giovanni, è qui specificato da tre sostantivi. Gesù, in quanto Figlio amato che ama il Padre e i fratelli, è per noi “la via” della salvezza, perché ci rivela “la verità” di Dio e dell’uomo; ed è per noi “la vita”, perché ci dona il suo amore, che è la vita stessa di Dio. Egli infatti, vita di tutto ciò che esiste (1,4), possiede e comunica la vita come il Padre (5,26). La via non è una strada, ma una persona da seguire; la verità non è un concetto, ma un uomo da frequentare; la vita non è un dato biologico, ma un amore da amare.
La via è sempre in riferimento alla casa paterna, dalla quale o verso la quale si cammina. La via di Dio è tradizionalmente la legge. Ora è la dottrina di Gesù (cf. At 9,2; 18,25s; 24,22), la nuova legge, che ci riporta a casa. La “verità di Dio” è la carne di Gesù, il Figlio che fa vedere il Padre. La “vita di Dio” è lo stesso amore tra Padre e Figlio che Gesù ci ha testimoniato vivendo e donato morendo. Altre vie da questa fuorviano, altre verità sono fallaci, altre proposte di vita sono mortifere. Gesù, in quanto via, ci conduce alla nostra identità, là da dove siamo usciti; in quanto verità ci fa vedere la nostra realtà di figli e quella di Dio come Padre; in quanto vita è l’amore di Dio stesso, principio e fine di tutto. Gesù è la via perché è la verità dell’amore, che dona la vita. Tommaso troverà questa via entrando nelle sue ferite; in esse toccherà la verità di un amore estremo che sa dare vita. Non è tanto una via da percorrere, come la legge; è piuttosto una via che ci porta lei stessa, perché ci dona la grazia e la verità del Figlio (cf. 1,14.17). Una suggestiva traduzione del finale del prologo (1,18) dice: “Dio nessuno l’ha visto mai; il Figlio unigenito, che è tornato nel seno del Padre, lui ha aperto la via” (I. De La Potterie); un’altra ancora dice: “Dio, nessuno l’ha visto, mai. (L’)unigenito, Dio, colui che è verso il seno del Padre, egli trascinò (là)” (Y. Simoens). nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Ci si attenderebbe: “Nessuno va al Padre, ecc.”. Gesù dice viene, perché lui è nel Padre e il Padre è in lui (v. 10). Il suo stesso andarsene per prepararci un luogo, è un venire a noi (v. 3): l’amore che ci rivela sulla croce ci attira e unisce a lui, rendendoci capaci di amare come lui ci ama. Gesù, il Figlio, è l’unica via da seguire per tornare al Padre: per mezzo di lui conosciamo e amiamo Dio, conosciamo e amiamo i fratelli. Ciò non significa che, chi non lo conosce, è perduto. Il Figlio infatti, Parola eterna del Padre, è da sempre all’opera, in infiniti modi, per illuminare ogni uomo e fargli conoscere la verità dell’amore (cf. 1,9.14). di fatto “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1Gv 4,7b), “perché Dio è amore” (1Gv 4,8b). v. 7: se avete conosciuto me, anche il Padre mio conoscerete. Gesù è anche la via per conoscere la verità del Padre: è il Figlio, venuto a rivelarla con le sue opere e le sue parole. La sua croce è l’unica “notizia di Dio”, di quel Dio che è tutto e solo amore senza limiti. La sua opera è farci conoscere Dio come un Padre, infinitamente amoroso (cf. 3,16): questa è la verità che ci libera dalla menzogna e ci dona la vita. e fin d’ora lo conoscete e l’avete visto. Gesù è anche la via per vedere il volto del Padre, nostra vita. Infatti è già venuta l’ora in cui Gesù rivela l’amore perfetto (13,1), che presto si compirà sulla croce (19,30). Ciò che Gesù ha appena fatto, lavando i piedi a Pietro e dando il suo boccone a
Giuda, è già la glorificazione del Padre e del Figlio (13,31s), che mostra nel Figlio il volto stesso del Padre. v. 8: dice Filippo: mostraci il Padre e ci basta. Filippo, chiamato direttamente da Gesù a seguirlo (1,43-46) e da lui interpellato sul pane (6,5s), è colui che ha accolto ed espresso il desiderio dei greci che vogliono vedere il Signore (12,21s). Ora chiede arditamente di vedere il Padre. Il suo desiderio corrisponde a quello di Mosè: “Mostrami la tua gloria!”. (Es 33,18). È il desiderio profondo di ogni uomo: “Di te ha detto il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 27,8). Inoltre dice un altro salmo: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. […] Quando verrò e vedrò il volto di Dio […], lui, salvezza del mio volto e mio Dio?” (Sal 42,1.3b.12d). Il suo volto è la nostra realtà, perché di lui siamo immagine e somiglianza: vedere lui è raggiungere la propria identità, la propria vita. Da qui scaturisce quello che gli antichi chiamavano “desiderium naturale videndi Deum”, il desiderio naturale di vedere Dio. Esso è quell’apertura all’infinito che fa sì che l’uomo vada oltre se stesso: è un animale desiderante, “troppo grande per bastare a se stesso”. Se Tommaso non conosce la via della verità e della vita, pur avendola davanti, Filippo non vede il Padre, pur avendo davanti il suo volto nel Figlio. Anche in 6,7 egli non aveva capito il dono del pane che Gesù stava per fare. Filippo chiede a Gesù di fare quanto da sempre ha fatto: mostrare il Padre. Le cose più evidenti si capiscono per ultime; il principio lo si capisce solo dalla fine. Ogni uomo desidera conoscere il Padre. In lui ritrova quell’alterità di amore che lo fa essere quello che è. v. 9: da così tanto tempo sono con voi. Il tempo che Gesù ha passato con noi, è quello in cui, chi lo conosce come Figlio, vede il Padre. Tutta la sua esistenza terrena non è altro che la rivelazione del Padre nel suo amore di Figlio per i fratelli. La sua umanità, la sua carne, è la Parola stessa di Dio rivolta all’uomo, per crearlo e plasmarlo a sua immagine. Per questo la creazione dell’uomo è sempre aperta: è opera costante della Parola, in sinergia con il nostro ascolto. Fin dall’inizio Gesù aveva detto a Natanaele, presentatogli da Filippo, che avrebbe visto il cielo aperto sul Figlio dell’uomo (1,51). Lui, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio è la scala di Giacobbe, l’apertura tra cielo e terra, comunione tra Dio e uomo. chi ha visto me, ha visto il Padre. Queste parole sono il compendio della rivelazione cristiana: il volto dell’uomo Gesù, nostro fratello, è “il Volto”. Egli è l’unigenito Figlio, da sempre verso il seno del Padre, che si è rivolto a noi per mostrarcelo. “Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre” (6,46): chi crede in lui, non crede in lui, ma in colui che l’ha mandato. Per questo “Chi vede me, vede chi mi ha mandato” (12,44s).
Il volto del Figlio, amore senza condizioni verso i fratelli, è lo stesso del Padre. Il Figlio sa che il Padre. Quanto finora il Vangelo ha raccontato di Gesù ci ha mostrato il Volto, suo e del Padre. Il Figlio fa ciò che vede fare dal Padre: quello che egli fa, anche il Figlio lo fa (5,19). Cosa ho visto finora del volto del Figlio, pieno di grazia e di verità (cf. 1,14b)? v. 10: non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Conoscere e vedere il Padre equivale a credere che Gesù è nel Padre e il Padre è in lui. Si parla di immanenza reciproca tra Padre e Figlio. L’amato infatti dimora in chi lo ama: è la sua vita! L’amore reciproco tra Padre e Figlio li fa uno dimora dell’altro. Il Figlio è venuto a comunicarci la pienezza d’amore con il quale il Padre ama lui e lui ama il Padre (cf. 15,9; 17,23). le parole che io dico a voi, non le dico da me stesso. Ogni parola del Figlio è parola del Padre: lui stesso è la Parola del Padre, rivolta a noi per entrare in comunione con noi e comunicarci se stesso. Ogni sua Parola inoltre dà ciò che dice: è viva ed efficace, opera del Padre che dimora in lui. il Padre che dimora in me fa le sue opere. Opera propria del Padre è amare e dare vita. Ogni azione del Figlio è la stessa del Padre, comunicazione a noi del loro amore reciproco, vita di ambedue. v. 11: continuate a credere a me: io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me. Gesù ci dice di credere non solo in lui (v. 1), ma anche a queste sue parole, nelle quali rivela che lui è nel Padre e il Padre in lui. Aderendo a lui, pure noi siamo nel Padre e il Padre in noi: Dio è il luogo “dove” anche noi siamo di casa, partecipi, nel Figlio, della vita trinitaria. se no, credete a causa delle opere stesse. Le parole di Gesù sono credibili perché corrispondono alle sue opere. Le sue parole sono come il biglietto che accompagna il dono: dichiarano l’amore e il nome di chi dona, perché abbiamo il piacere di entrare in comunione con lui. La fede non è cieca, ma fondata su fatti concreti e sulla ragionevolezza delle spiegazioni che ne dicono il significato. Unica spiegazione ragionevole dell’amore è l’amore stesso. Solo l’amore è credibile, degno di fiducia. v. 12: amen, amen vi dico: chi crede in me. La fede in Gesù, affidabile per le opere e le parole (vv. 1.11.12), è antidoto al turbamento e al conseguente smarrimento. Credere in lui ci sblocca dalle paure e libera la nostra realtà di figli e fratelli. Gesù ci chiede di fidarci di lui mentre sta compiendo e spiegando la cosa che più ci turba: il suo andarsene. farà le opere che io faccio e ne farà di più grandi. La prova che le sue parole sono vere, saranno le opere che noi, compiremo quando lui sarà tornato presso il Padre.
Certamente non faremo opere più grandi di lui che ha sfamato le folle e ha fatto uscire dal sepolcro chi è morto. Però, come il significato è più grande del segno, così amare come lui ci ha amati è più grande che nutrire vivi o risuscitare morti: è passare da una vita per la morte alla vita stessa di Dio. Nulla di ciò che si fa è veramente grande; solo l’amore è più grande di tutto, perché senza di esso tutto è nulla (cf. 1Cor 13,1-3). Queste opere più grandi sono “il molto frutto” (15,8) che i tralci porteranno restando uniti alla vite. v. 13: ciò che chiederete nel mio nome, lo farò. Credere in concreto è chiedere, desiderare. La fede vive di preghiera. Essa dà voce al bisogno essenziale dell’uomo, bisogno dell’altro per essere se stesso. Gesù garantisce che farà ciò che gli chiediamo nel suo nome. Uniti infatti a lui, il Figlio, chiediamo e otteniamo tutto ciò che serve per vivere da fratelli, amandoci gli uni gli altri. La certezza dell’esaudimento dona la fiducia, necessaria perché la richiesta sia efficace. Bisogna infatti domandare “con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (Gc 1,6-8). Se poi chiediamo con fiducia e non otteniamo, è perché chiediamo male, per soddisfare i nostri egoismi (cf. Gc 4,3). La fiducia di un cuore filiale, che chiede secondo i desideri del Padre, ottiene veramente tutto. Ottiene addirittura lo Spirito Santo, il dono stesso della vita di Dio (Lc 11,13), ben visibile dal suo frutto di amore, gioia e pace (Gal 5,22). affinché sia glorificato il Padre nel Figlio. L’opera del Figlio è glorificare il Padre, comunicando il suo amore a tutti i fratelli (cf. 13,31s). v. 14: se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io la farò. Ribadisce il v. 13. Gesù garantisce che continua ad agire in noi. Lui se ne va, ma ci dà la possibilità di chiedere e ottenere per il futuro che lui faccia attraverso di noi ciò che ha fatto quand’era tra noi: ci amerà sempre, perché anche noi possiamo amarci. 3. Pregare il testo a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando Gesù nel Cenacolo, con i suoi.
c.
Chiedo ciò che voglio: non turbarmi, ma conoscere Gesù, via verità e vita, vero volto del Padre che mi dona di essere figlio, come lui.
d.
Ascolto e medito le parole di Gesù.
Da notare: •
non sia turbato il vostro cuore
•
credete in Dio e in me credete
•
nella casa del Padre mio ci sono molte dimore
•
vado a prepararvi un luogo
•
di nuovo verrò e vi prenderò presso di me
•
dove io sono, siate anche voi
•
dove io vado, voi conoscete la via
•
Io-Sono via, verità e vita
•
nessuno viene al Padre se non per mezzo di me
•
se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio
•
fin d’ora lo conoscete e l’avete visto
•
chi ha visto me, ha visto il Padre
•
non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?
•
le parole e le opere del Figlio sono dal Padre e lo mostrano come Figlio
•
le nostre opere sono le stesse del Figlio, tornato verso il Padre
•
le opere più grandi che dobbiamo fare
•
il Figlio garantisce di fare ciò che gli chiediamo uniti a lui.
1. Testi utili Sal 27; 42; 67; Gen 15; Dt 32,1-47; Gs 1,1-9; Lc 11,9-13; 17,5-6; 18,1-8; Gc 1,5-8; 4,2-3.
36. SE QUALCUNO MI AMA, OSSERVERÀ LA MIA PAROLA 14,15-31
14,15
Se mi amate, osserverete i miei comandi;
16
e io pregherò il Padre e vi darà un altro Consolatore, affinché sia con voi in eterno,
17
lo Spirito della verità, che il mondo non può accogliere, perché non lo vede né conosce. Voi lo conoscete, perché dimora presso di voi e sarà in voi.
18
Non vi lascerò orfani; vengo da voi.
19
Ancora un poco e il mondo non mi vede più, ma voi mi vedete, perché io vivo e voi vivrete.
20
In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio e voi in me e io in voi.
21
Chi ha i miei comandi e li osserva, quegli è chi mi ama; ma chi mi ama, sarà amato dal Padre mio e io amerò lui e a lui manifesterò.
22
Gli dice Giuda, non l’Iscariota:
Signore, [e] cosa è accaduto che stai per manifestare te stesso a noi e non al mondo? 23
Rispose Gesù e gli disse: Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui.
24
Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha inviato.
25
(Di) queste cose vi ho parlato dimorando presso di voi;
26
ma il Consolatore, lo Spirito santo che il Padre invierà nel mio nome, egli vi insegnerà tutte le cose e vi farà ricordare tutte le cose che vi dissi [io].
27
Pace lascio a voi, la mia pace do a voi; non come (la) dà il mondo, io (la) do a voi. Non sia turbato il vostro cuore né sia spaventato.
28
Ascoltaste che io vi dissi: Me ne vado e vengo da voi. Se mi amaste, vi rallegrereste che vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me.
29
E adesso (l’)ho detto a voi, prima che accada, affinché, quando accadrà, crediate.
30
Non parlerò più (di) molte cose con voi; viene infatti il capo del mondo e in me non ha nulla;
31
ma affinché il mondo conosca che amo il Padre e come mi comandò il Padre così faccio. Destatevi, andiamo da qui.
1. Messaggio nel contesto “Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola”: è il ritornello che, con variazioni, Gesù ripete ai suoi discepoli (cf. vv. 15.21.23.24). Amare Gesù, il Signore, è il centro del cristianesimo, compimento del precetto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,5). Ora i discepoli sono in grado di amarlo. Hanno visto come lui li ama con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze: si è fatto loro servo e ha dato la vita per loro, anche se lo rinnegano e tradiscono. Egli è fedele a noi e ci ama di amore eterno (Sal 117; Ger 31,3). Il nostro amore per lui è risposta al suo per noi, che ci vuole simile a lui. Amare lui significa, in concreto, accogliere e vivere la sua parola. Gesù tra poche ore offrirà la vita per noi. È bene per noi che se ne vada (16,7). Proprio così ci prepara il posto e ci apre la via della verità e della vita, per essere anche noi dove lui è (vv. 1-14). Per questo ci manda, insieme al Padre, il Paraclito (v.16). Non ci lascia quindi soli. Se lo amiamo, lo portiamo nel cuore e lui abita. Il Signore non è più solo con noi e presso di noi, ma addirittura in noi. Questo è il suo ritorno definitivo a noi. Con il suo andarsene inizia la sua nuova presenza, l’alleanza nuova ed eterna che i profeti hanno promesso. Il tema dell’alleanza fa da sottofondo al discorso di congedo di Gesù. Mai nominata
esplicitamente, è descritta attraverso le sue caratteristiche: amore e osservanza della Parola, presenza ed immanenza reciproca, dono dello Spirito e di un cuore nuovo. Queste parole di Gesù sono difficili da spiegare, perché semplici come l’acqua e il pane: le conosce chi ne gusta. Esse si riferiscono a ciò che costituisce ogni relazione positiva tra le persone: amare e osservare la parola, dimorare con/presso/in e vedere, vivere e conoscere, manifestare e dire, ricordare e insegnare, pace e gioia. I termini sono collegati tra di loro. Infatti chi ama osserva la parola dell’amato, dimora con/presso/in lui e quindi lo vede, vive di lui e quindi lo conosce. La parola che lo manifesta, insegnata e ricordata, è per lui fonte di pace e di gioia. Il tessuto connettivo del testo è il verbo “amare”, ripetuto dieci volte, che descrive la relazione del discepolo con Gesù e con il Padre. L’amore per Gesù ci fa entrare nella nuova alleanza, stabilendo un rapporto con Dio fondato sul suo amore di Padre, che il Figlio è venuto a comunicarci. Dio non è più lontano: è “con” e “presso” di noi, addirittura “in” noi mediante il suo Spirito, che ci riempie della sua conoscenza e ci fa sua dimora. L’andarsene di Gesù è la glorificazione del Figlio dell’uomo e di ogni figlio d’uomo, reso partecipe dell’amore reciproco tra Padre e Figlio. Lo Spirito, che tra poco ci donerà, diventerà il principio della nostra esistenza di figli di Dio e di fratelli tra di noi: ci farà capire e ci suggerirà dal di dentro ciò che il Figlio ha detto, perché viviamo del suo amore, fonte di pace e di gioia. Tutto il discorso mostra qual è il frutto dell’amore di Gesù: la comunione con lui, il Figlio, ci fa entrare in relazione con il Padre e ci fa vivere del loro amore reciproco. Innanzi tutto si specifica che amare Gesù è osservare la sua parola, che ci dona lo Spirito della verità (vv. 15-18). Anche se egli se ne va, chi lo ama lo vede, perché partecipa della sua stessa vita (vv. 19-21). Il mondo non ha questa conoscenza perché non lo ama e non conosce la sua parola: ignorando il Figlio, non ha lo Spirito della verità che gli fa conoscere il Padre (vv. 22-24). Tutto ciò che Gesù ha detto quando era tra noi, ci verrà fatto comprendere e ricordare dallo Spirito (vv. 25-26). Gesù non ci abbandona, ma compie il senso della sua venuta tra noi: ci lascia la sua pace e la sua gioia, frutto dello Spirito di amore (vv. 27-28). Gesù ha predetto tutto, perché crediamo che il suo andarsene non è un morire, ma un tornare a noi e in noi con la sua presenza di amore, che vince il male e mostra al mondo chi è il Padre (vv. 29-31). Gesù è il Signore che ci ama: amare lui è il comando che ci rende simili a lui. La Chiesa nasce dall’amore di Gesù per lei, che diventa il suo stesso amore per lui. Non si tratta di un sentire vago o estatico, ma di un conoscere e mettere in pratica le sue parole. 2. Lettura del testo
v. 15: Se mi amate. Nel c. 13 Gesù ci ha lasciato in eredità il comando di amarci gli uni gli altri. Qui va più a monte: ci dice di amare lui. Il fine dell’amore è la reciprocità, per la quale uno diventa vita dell’altro. Amando lui, diventiamo anche noi ciò che lui è – l’amato è vita di chi lo ama! – e possiamo amare i fratelli con il suo amore, che è lo stesso del Padre. Il cristianesimo è innanzi tutto amore per Gesù, che ci assimila a lui, il Figlio, dandoci il suo stesso amore verso il Padre e i fratelli. osserverete i miei comandi. L’amore non è solo un sentimento. Coinvolge tutta la persona, dandole un nuovo modo di essere: informa il suo capire, volere e agire. È un’unione di intelletto, di volontà e di azione, che trasforma chi ama nell’amato. Concretamente si ama con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). “Osservare” significa guardare con cura, custodire, praticare, eseguire. Osservare i suoi comandi è la condizione per rimanere nell’alleanza del Dio fedele, che ci ha amati, scelti e liberati. Si possono osservare per dovere, da schiavi, come fa il fratello maggiore (cf. Lc 15,29), oppure per amore, da figli. Per Gesù il principio dell’osservanza è l’amore di un cuore che si sa amato, il cuore nuovo dell’alleanza nuova. Gesù parla di “miei comandi”, alludendo ai vari precetti della legge, che assume come propri. Non ne vanifica nessuno, ma li compie tutti (cf. Mt 5,17s). Li chiama “miei”, perché di lui parlano le Scritture e Mosè (cf. 5,39.46); e parla di “comandi”, al plurale, perché il suo comando, pur essendo uno solo (cf. 13,34), è anche molteplice. L’amore infatti si esprime in ogni singola azione e fa discernere, qui e ora, cosa è meglio fare. Non in forza della legge, ma in piena libertà, l’amore è legge a se stesso: in ogni circostanza sa riconoscere e fare ciò che è buono e giusto. Per questo l’amore è compimento della legge (Rm 13,10b), con tutti i suoi vari precetti. “Ama e fa’ ciò che vuoi” (S. Agostino) non significa che chi ama si permette tutto, ma che l’amore non fa male ad alcuno (Rm 13,10a) e guida spontaneamente la volontà a fare ciò che è bene. Chi fa il male, non ama. v. 16: io pregherò il Padre. Gesù, con il suo andarsene, diventa il pontefice tra noi e Dio, il fratello intercessore presso il Padre, colui che ci apre l’accesso a lui e ai suoi doni. I numerosi verbi al futuro indicano ciò che avverrà presto: l’innalzamento del Figlio dell’uomo aprirà all’uomo il suo futuro definitivo. e vi darà. Gesù chiede per noi al Padre il dono definitivo. Egli ottiene tutto ciò che chiede (11,42). Per questo il Consolatore ci è certamente dato. Noi preghiamo non perché lui ce lo dia, ma per disporci a riceverlo.
un altro Consolatore. La parola greca è Paraclito, che esce solo nel corpo giovanneo (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1). Significa ad-vocatus (= chiamato-presso), colui che assiste e soccorre nel processo. Èl’avvocato difensore, che si oppone all’accusatore (= satana). Abbiamo tradotto Consolatore, perché “con-solare” significa stare con uno che è solo, in modo che non sia più solo. Il Consolatore è colui che sta “con” noi, offrendoci quella compagnia che vince la nostra solitudine radicale. Questo Consolatore è “un altro” rispetto a Gesù, che ormai se ne va. È dato dal Padre a chi ama il Figlio e osserva i suoi comandi. Le sue caratteristiche sono descritte attraverso le sue azioni: è “con” noi in eterno (v. 16b), è “lo Spirito della verità”, dimora “presso” di noi in Gesù, sarà “in” noi dopo il suo andarsene (v. 17), ci insegnerà e farà ricordare quanto Gesù ha detto (v. 26). affinché sia con voi in eterno. Il Consolatore è descritto innanzi tutto come compagnia: è l’essere per sempre con–noi. Non siamo mai più soli. v. 17: lo Spirito della verità. Lo Spirito è vita; Spirito della verità si può tradurre anche come “vita vera, autentica”, quella di Dio. Questa ci è restituita dalla verità che ci libera dalla menzogna e ci fa vivere nell’amore del Padre. Lo Spirito della verità è il contrario dello spirito di menzogna, che ci ha fatto fuggire da lui e vivere nella schiavitù dell’egoismo. Lo Spirito della verità è lo Spirito di Gesù, che ha detto a Tommaso: “Io-Sono la verità e la vita” (v.6). che il mondo non può accogliere. Il mondo, in quanto sta sotto il dominio della menzogna, non può ancora ricevere lo Spirito della verità. Solo dopo la croce potrà conoscere Gesù (cf. v. 31). perché non lo vede né lo conosce. Lo Spirito della verità del Padre è visibile e conoscibile nel Figlio: chi vede lui, vede il Padre (cf. v. 9). Il mondo non può riceverlo, perché è incapace di vederlo e conoscerlo. Infatti, tra poche ore, prenderà e appenderà al legno il Signore della gloria. Lo farà per cecità (cf. 1Cor 2,8): “Non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). voi lo conoscete. I discepoli conoscono questo Spirito contemplando quanto Gesù ha appena fatto. Lavando i piedi a Pietro che rinnega e dando il boccone a Giuda che tradisce, ha rivelato l’amore compiuto (13,1), quel Dio che è amore (cf. 1Gv 4,8). perché dimora presso di voi. Questo amore ha preso dimora presso di noi in Gesù, il Figlio che vive nei nostri confronti l’amore stesso del Padre: in lui abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi (1Gv. 4,16a). Gesù, stando con noi e presso di noi, ci ha fatto conoscere lo Spirito della verità.
sarà in voi. Tra poche ore, quell’amore che era “con” e “presso di” noi, “sarà” in noi. Questo è il dono supremo che il Figlio ci comunica dalla croce, dove “tutto” è compiuto e consegna il suo Spirito (19,30). Noi siamo da sempre in Dio, che ci ama con fedeltà eterna (cf. Sal 117,2; Ger 31,3b). Infatti chi ama ha nel cuore l’amato: è abitato dalla sua presenza. Accogliendo il suo amore, pure noi lo amiamo. Allora, nell’amore reciproco, anche lui è in noi come noi in lui. v. 18: non vi lascerò orfani. Orfana è una persona orbata, derubata di ciò che di sua natura le spetta, come un figlio privato del padre, un amico dell’amico, una sposa dello sposo, e viceversa. Non è solo un’esperienza di abbandono. È solitudine e smarrimento di sé: perdita di identità, scomparsa di ciò che fa essere ciò che si è. I discepoli, con la morte di Gesù, non sono lasciati orfani. Anzi, ritrovano il loro posto presso il Padre, perché ricevono l’amore stesso del Figlio. vengo a voi. Il suo andarsene è in realtà il suo venire a noi, anzi il suo essere in noi con il suo Spirito che ci fa figli, in comunione con lui e con il Padre. v. 19: ancora un poco e il mondo non mi vede più. Il mondo, che ora non vede lo Spirito della verità in Gesù, tra poco non vedrà più neppure Gesù: lo eliminerà fisicamente. ma voi mi vedete. I discepoli continueranno a vederlo. Ma lo vedranno in modo nuovo: attraverso le ferite delle mani e del fianco, che mostrano il suo amore, sorgente di gioia e di pace (cf. 20,20). perché io vivo e voi vivrete. Gesù ha in se stesso la vita (5,26) che vince la morte (11,25). Tra poco, quando noi gli avremo preso e lui ci avrà dato la vita, erediteremo la stessa vita che egli da sempre vive: quella di Figlio amato, che ama il Padre e i fratelli. Continueremo a vederlo anche in futuro, ma in modo più profondo, perché lui sarà la nostra vita. Vedremo lui in noi e noi in lui. Questa nuova vita sarà visibile anche agli altri, attraverso il frutto abbondante che produce in noi (cf. 15,1ss; Gal 5,22). v. 20: in quel giorno. “Quel giorno”, nell’AT, è quello in cui il Signore viene, rivelando la sua gloria e salvando l’uomo. È il giorno della risurrezione, quando il Risorto si farà vedere ai discepoli e donerà loro il suo Spirito (20,19ss). È il giorno definitivo in cui, finita la notte, inizia la luce senza tramonto. Allora il Signore, che prima era con noi e presso di noi nella carne, sarà in noi mediante il suo Spirito. voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio, voi in me e io in voi (cf. vv. 7-11). Si parla della nostra comunione con Dio in termini di conoscenza e di immanenza, propria dell’amore: l’amato abita in chi lo ama. Nel giorno di Pasqua conosceremo che Gesù è nel Padre, che lo ama e lo fa risorgere; conosceremo pure che noi siamo nel Figlio, perché ci ha amato e ha dato la vita per
noi; conosceremo infine che lui è in noi, perché lo amiamo e osserviamo le sue parole. Attraverso l’immanenza reciproca di noi nel Figlio e del Figlio in noi, conosciamo che il Figlio è nel Padre e il Padre nel Figlio. “Nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre e chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelare” (Lc 10,22). In quel giorno il Figlio ci darà la sua stessa conoscenza reciproca con il Padre: avremo parte alla vita di Dio. v. 21: chi ha i miei comandi e li osserva. “Avere” i comandi di Gesù significa farli propri e viverli. Ascoltare la Parola e non osservarla è l’empietà denunciata dai profeti. Si può infatti ascoltare il profeta con piacere, “come una canzone d’amore”, senza fare ciò che dice (Ez 33,3033); si può addirittura ucciderlo, come fa Erode con il Battista (Mc 6,20.27). Ascoltare la Parola e non farla è stoltezza e rovina (Mt 7,26s). quegli è chi mi ama. Nel v. 15 Gesù diceva che chi lo ama, osserva i suoi comandi; qui dice che chi osserva i suoi comandi, lo ama. L’amore è principio e fine dell’osservare i suoi comandamenti: se l’amore fa vivere come lui, vivere come lui realizza l’amore. chi mi ama sarà amato dal Padre mio. Il Padre ama tutti gli uomini, anche se lo ignorano e rifiutano. Ma solo chi ama il Figlio e osserva i suoi comandi, ha il Figlio dentro di sé e sperimenta l’amore del Padre verso di lui. Accettare l’amore gratuito del Padre è l’atto di libertà che ci fa essere ciò che siamo: figli che rispondono con amore all’amore del Padre. io amerò lui. Il Figlio ci ama da sempre, come il Padre, anche se lo rinneghiamo con Pietro e lo tradiamo con Giuda. Il fatto che ci ami così, ci permetterà di fare esperienza del suo amore per noi. a lui mi manifesterò. Solo chi ama conosce l’amore con cui è amato. Senza amore per Gesù, non c’è conoscenza né di lui né del Padre né dello Spirito: “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8). Qui si parla di amore e manifestazione di Gesù al futuro: anche se è una realtà già presente (cf. v. 17b), essa si manifesterà in “quel giorno” e crescerà sempre di più, all’infinito. v. 22: gli dice Giuda, non l’Iscariota. Il nome di Giuda richiama i giudei. L’obiezione che egli fa a Gesù corrisponde all’attesa di tutti. Nel c.13 si parla di Simon Pietro, di Giuda Iscariota e del discepolo che Gesù amava; nel c.14 di altri tre: Tommaso, Filippo e l’altro Giuda. Ognuno di loro riflette un aspetto particolare di ciascuno di noi. cosa è accaduto che stai per manifestare te stesso a noi e non al mondo? Tutti, compresi i suoi parenti, attendono una sua manifestazione spettacolare davanti al mondo (cf. 7,4b). Gesù però ha appena detto che tra poco il mondo non lo vedrà più (cf. v. 19). Giuda gli chiede come mai non si riveli al mondo, ma solo ai discepoli.
Ancora nessuno ha capito che la gloria di Dio è amore, umiltà e servizio. Essa è vista solo da chi ama e serve in umiltà. Gli altri restano ciechi fino a quando, contemplando la gloria del Figlio dell’uomo innalzato, saranno attirati a lui (12,32). Solo il cuore vede la realtà. v. 23: se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola. In risposta alla domanda di Giuda, Gesù ribadisce che amare lui significa vivere come lui, osservando la sua parola. E la sua parola è il comando di amarci a vicenda (13,34). il Padre mio lo amerà. Solo chi ama il Figlio e i fratelli, sperimenta l’amore del Padre. verremo da lui. La “venuta” di Dio, Padre e Figlio, sarà quella dello Spirito, (v. 26), proprio di chi ama il Figlio e i fratelli. Per questo è scritto: “Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1Gv 4,7). e faremo dimora preso di lui. La dimora di Dio tra gli uomini, la sua alleanza definitiva, è quella dell’amore. Chi ama Gesù, diventa tempio di Dio, luogo della sua presenza: ha in sé il Figlio che è nel Padre e il Padre che è nel Figlio. In lui Padre e Figlio pongono la propria dimora, manifestandosi a lui e in lui. Il posto che Gesù ci prepara presso il Padre siamo noi stessi che, nell’amore, diventiamo dimora sua e del Padre. v. 24: chi non mi ama, non osserva le mie parole. Chi non ama Gesù, non osserva le sue parole. Per questo ignora il Figlio, inviato dal Padre per rivelare il suo amore per noi. La conoscenza è sempre frutto di amore, di pratica d’amore. la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre. Gesù, il Figlio, è la parola ineffabile del Padre, diventata carne per mostrarci il volto di Dio. v. 25: (di) queste cose vi ho parlato dimorando presso di voi. Quando Gesù era presso di noi nella carne, ci ha ripetuto in continuazione “queste cose”: con opere e parole ci ha rivelato l’amore del Padre per noi, che è il suo stesso di Figlio. Tutta la sua esistenza è stata un’esegesi, un racconto del Padre. Il periodo in cui egli ha dimorato presso di noi è il centro e il culmine del tempo. È quel tempo in cui l’invisibile Dio fa vedere il suo volto e mediante l’annuncio del vangelo, ogni tempo accede a “quel tempo”, nel quale Dio si rivela in modo definitivo e ……….. v. 26: il Consolatore, lo Spirito santo, ecc. Il Consolatore, chiamato prima lo Spirito della verità, ora è detto lo Spirito santo. “Santo” significa “di Dio”: lo Spirito santo è la vita di Dio, che il Padre invierà a noi che siamo in comunione con il Figlio. È il dono ultimo del Dio creatore, che mediante esso si dona alla sua creatura, per essere tutto in tutti (1Cor 15,28) . egli vi insegnerà tutte le cose. Lo Spirito d’amore ci insegnerà e imprimerà nel cuore il Figlio. Nel vangelo di Giovanni è sempre Gesù che insegna: solo il Figlio ci fa conoscere il Padre. Una volta sola lo si dice del Padre, che insegna a lui l’essere Figlio (cf. 8,28). Qui si parla anche
dello Spirito santo, che insegnerà a noi ciò che Gesù ha detto. È il maestro interiore, che ci rende “tutti istruiti da Dio” (6,45; Is 54,13). Dio, che prima era con noi nella legge e poi presso di noi nella carne del Figlio, sarà in noi con il suo Spirito, l’amore che fa conoscere tutto. Con l’andarsene di Gesù si è compiuta la rivelazione: il Figlio ha manifestato il volto del Padre. Ma questo volto è conoscibile solo dall’amore. Per questo lo Spirito santo, l’amore che è in noi, ci farà comprendere tutto ciò che il Figlio ci ha detto (cf. 16,12-15). e vi farà ricordare tutte le cose che vi dissi. L’amore, come fa capire, così fa ri-cordare, portare-nel-cuore, tutto ciò che Gesù ha detto, perché possiamo viverne. Gesù ha dato e detto se stesso, mostrando, nel suo volto di Figlio, quello del Padre. Lo Spirito santo non aggiungerà nulla a quanto egli ha rivelato: farà invece entrare sempre più profondamente in noi il mistero del Figlio e del Padre, con un amore che fa conoscere e una conoscenza che fa amare sempre di più. La profezia cristiana non è che “ricordo” del Figlio, attualizzato qui ed ora dallo Spirito (cf. 15,26-27; 16,7-15). L’uomo vive di ciò che ri-corda, di ciò che ha nel cuore. È importante la memoria: ciò che non è in memoria, non esiste. v. 27: pace lascio a voi, la mia pace do a voi. La pace è “il” dono che contiene ogni altro dono. La pace è propria di chi è appagato, di chi ha trovato ciò che cerca, ottenuto ciò che desidera. Gesù, andandosene, ci lascia la pace, ci dà la “sua” pace: è la pace messianica, pienezza di ogni benedizione. Questa pace nasce dall’amore (cf. vv. 15-23) e fiorisce nella gioia (cf. v. 28b). non come (la) dà il mondo io (la) do a voi. La pace per il mondo è l’intervallo tra due guerre. Dura fino a quando il vincitore può imporsi e il vinto non può ribellarsi. È la pax romana, che il mondo conosce da sempre; e pare che ancora non ne conosca una diversa. Non è questa la pace che Gesù ci lascia. Ma non è neppure la pace degli stoici, l’atarassia, di chi resta impavido anche se il mondo gli crolla addosso. Non è neppure quella pax perniciosa di chi vive tranquillamente da schiavo dell’egoismo, proprio o altrui. La pace di Gesù è quella che nasce da un amore più forte della morte, la pace del Crocifisso risorto, che ci rende concittadini dei santi e familiari di Dio (cf. Ef 2,14-19). non sia turbato il vostro cuore né sia spaventato. La fine del c. 14 ribadisce l’inizio (cf. v. 1). L’andarsene di Gesù non lascia un vuoto pieno di paura e scoraggiamento; è invece il suo essere per sempre in noi con il suo amore. Questa è l’eredità, la pace che ci lascia come testamento. v. 28: vi dissi: Me ne vado e vengo da voi (cf. vv. 2-3). Gesù di nuovo tranquillizza i suoi, dicendo che il suo andarsene è un venire a noi in modo nuovo: il suo andarsene sulla croce è un venire in noi mediante l’amore. se mi amaste, vi rallegrereste che vado dal Padre. Chi ama Gesù, gioisce del suo ritorno al Padre: vede la croce come compimento dell’amore.
il Padre è più grande di me. Il Figlio e il Padre sono uguali (cf. 5,19-30; 10,30). Il Padre è più grande nel senso che è l’origine del Figlio. v. 29 adesso (l’)ho detto a voi, prima che accada, affinché, quando accadrà, crediate (cf. 13,19). La parola di Gesù anticipa l’evento perché, quando avverrà, possiamo leggerlo alla sua luce (cf. 2,22; 12,16). Allora crederemo che lui è il Signore della storia: sa ciò che fa e fa ciò che sa, dirigendo tutto secondo il suo amore per noi (cf. Ez 33,33). v. 30: non parlerò più (di) molte cose con voi. La rivelazione di Gesù volge al termine, perché è completa: non c’è nulla da aggiungere all’amore estremo. La Parola sta per tornare al suo silenzio divino. Ma il Signore, grazie al vangelo, parlerà sempre con noi; e noi, grazie allo Spirito, potremo comprendere, ricordare e vivere ciò che ha detto. viene infatti il capo del mondo. Il capo, usurpatore, del mondo sta venendo per prendere Gesù e innalzarlo sulla croce. Ma la luce vince la tenebra lasciandosi prendere da essa (cf. 12,31)! in me non ha nulla. La tenebra non ha nulla in comune con la luce e non può nulla contro di essa. Presto la menzogna sarà sbugiardata dalla verità, la morte vinta dalla vita. Il capo di questo mondo sarà sconfitto dalla propria vittoria. v. 31: ma affinché il mondo conosca. Gesù entra nella tenebra per illuminarla: dona la vita a chi gliela ruba. Così “il mondo”, che lo rifiuta perché non l’ha visto né conosciuto, può finalmente conoscere quanto Dio lo ama ed essere attirato a lui (cf. 3,14-16; 8,28; 12,32). come mi comandò il Padre, così faccio. Il comando del Padre per il Figlio è esporre, disporre e deporre la vita a favore dei fratelli (cf. 10,11ss): “Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso: ho il potere di offrirla e ho il potere di riceverla di nuovo: questo comando ricevetti dal Padre mio” (10,18). La croce, ormai imminente, è azione libera del Figlio, che compie il comando d’amore del Padre e rivela la gloria di Dio. destatevi, andiamo da qui. Queste parole chiudono la prima parte dei discorsi di addio del Signore. I cc. 15 e 16 ne saranno una ripresa e interiorizzazione e il capitolo 17 la conclusione. Sono le stesse parole che Gesù dice in Mc 14,42, prima di essere arrestato. Il Signore dice ai discepoli di destarsi (risorgere): attraverso il comando dell’amore, li associa al suo andarsene da questo mondo al Padre. Con queste parole il discorso di Gesù “esce” simbolicamente dal cenacolo e si proietta fuori nello spazio e nel tempo. Si rivolge alla comunità futura che, come tralcio unito alla vite, prolungherà nel mondo la presenza feconda del suo Signore (cc. 15-16). 3. Pregare il testo
a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando Gesù nel cenacolo con i discepoli.
c.
Chiedo ciò che voglio: amare Gesù e osservare le sue parole.
d.
Lascio risuonare in me la parola del Signore. Da notare •
se mi amate, osserverete i miei comandamenti
•
il Padre vi darà un altro Consolatore, che sia con voi in eterno
•
lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere
•
voi lo conoscete perché dimora presso di voi e sarà in voi
•
non vi lascerò orfani: verrò da voi
•
tra poco il mondo non mi vede più
•
voi mi vedete, perché io vivo e voi vivrete
•
in quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi
•
chi mi ama sarà amato dal Padre mio e io amerò lui e a lui manifesterò me stesso
•
perché Gesù non si manifesta al mondo?
•
chi mi ama osserverà la mia parola; e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui
•
lo Spirito santo vi insegnerà e ricorderà tutte le cose che vi ho detto
•
la pace del mondo e la pace del Signore
•
non sia turbato il vostro cuore
•
vado e torno a voi
•
se mi amaste, vi rallegrereste che io torno al Padre
•
vi ho detto questo prima che accada, perché, quando accadrà, crediate
•
viene il capo di questo mondo
•
non ha potere su di me, ma mi consegno a lui perché il mondo conosca che amo il Padre e faccio la sua volontà
• 4.
destatevi, andiamo da qui.
Testi utili
Sal 16; 103; 117; 136; Dt 6,1-13; Gv 15,26-27; 16,7-15; Lc 10,21s; 1Gv 3,11-24; 4,7-5,4; Ef 2,1-22.
38. IO-SONO LA VITE E VOI I TRALCI 15,1-17 15,1
Io-Sono la vite, quella vera, e il Padre mio è l’agricoltore.
2
Ogni tralcio in me che non porta frutto, lo toglie e ogni (tralcio) che porta frutto, lo monda perché porti più frutto.
3
Già voi siete mondi per la parola che vi ho parlato.
4
Dimorate in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non dimora nella vite, così neppure voi se non dimorate in me.
5
Io-Sono la vite, voi i tralci. Chi dimora in me e io in lui, questi porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
6
Se qualcuno non dimora in me,
è gettato fuori come il tralcio e si secca e li raccolgono e gettano nel fuoco e bruciano. 7
Se dimorate in me e i miei detti dimorano in voi, qualsiasi cosa volete, chiedete e vi avverrà.
8
In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate per me discepoli.
9
Come il Padre amò me, anch’io amai voi; dimorate nell’amore, il mio.
10
Se osserverete i miei comandi, dimorerete nel mio amore, come io ho osservato i comandi del Padre mio e dimoro nel suo amore.
11
(Di) queste cose ho parlato a voi affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12
Questo è il mio comando: che vi amiate gli uni gli altri come (io) amai voi.
13
Nessuno ha un amore più grande di questo: che qualcuno ponga la propria vita per i suoi amici.
14
Voi siete miei amici se fate le cose che io vi comando.
15
No, non vi chiamo più servi, perché il servo non sa cosa fa il suo Signore; vi ho chiamati invece amici perché tutte le cose
che ascoltai dal Padre mio, feci conoscere a voi. 16
Non voi sceglieste me, ma io scelsi voi e vi posi perché voi andiate e portiate frutto e il vostro frutto dimori, affinché qualsiasi cosa chiediate al Padre nel mio nome, ve (la) dia.
17
Queste cose vi comando: che (vi) amiate gli uni gli altri.
1. Messaggio nel contesto “Io sono la vite, voi i tralci”, dice Gesù ai suoi discepoli presenti e futuri. Con questa metafora, ricca di suggestioni, il Signore glorificato (13,31) parla della sua unione profonda con quelli che aderiscono a lui, lo amano e osservano le sue parole (cf. c. 14). Vite e tralci sono un’unica pianta: hanno la medesima linfa e producono lo stesso frutto. Il contesto dell’ultima cena e l’immagine della vite, che suggerisce il vino, alludono all’eucaristia: se uno mangia la sua carne e beve il suo sangue, ha la vita eterna: il Signore dimora in lui e lui nel Signore (cf. 6,54-58). I cc. 15-16 sono una variazione sul tema dei cc. 13-14. Giovanni, il cui simbolo è l’aquila, volteggia sullo stesso luogo, con cerchi sempre più elevati. Qui, parlando della comunione che già ora c’è tra Gesù e i suoi, ci porta oltre lo spazio e il tempo, abbracciando ogni spazio e tempo, per dilatarsi infine nell’immensità di Dio (c. 17). Il discorso ha la continuità discontinua propria del planare dell’aquila: in una corrente ascensionale, senza moto percettibile, ci trasporta sempre più in alto, con una visione sempre più ampia che, dal cielo, mette a fuoco ogni lontananza sulla terra. Non si tratta di un “doppione”, ma di una “ripetizione” di quanto ha appena detto. La verità va contemplata non una, ma infinite volte, per poter essere interiorizzata e gustata. Ogni volta il ricordo di ciò che si è capito si ravviva con risonanze nuove, più semplici e profonde, che riempiono il cuore e lo allargano senza fine. Per noi, che viviamo nel tempo, la ripetizione è principio di vita, come il battito del cuore, il ritmo del respiro e ogni altra funzione vitale. Questo vale anche per la vita nello Spirito: la Parola, sempre di nuovo ascoltata, masticata e assimilata, ci fa vivere e crescere giorno dopo giorno. Nel costante ricordo essa si imprime in noi e ci modifica, fino
a trasformarci in se stessa. Uno infatti vive di ciò che ri-corda, di ciò che ha nel cuore. Nella ripetizione non c’è il pericolo della noia: nella frequentazione assidua, ciò che è bello è sempre più bello. La ripetizione è il fondamento della “contemplazione”, che ci porta progressivamente a diventare riflesso della bellezza di Dio. La vite è il frutto della terra promessa: dà il vino, che allieta il cuore dell’uomo (Sal 104,15). È simbolo della gioia e dell’amore, quel “di più” necessario alla vita dell’uomo perché sia umana. Richiama il “principio dei segni” che Gesù compì a Cana, rinnovando l’alleanza (cf. 2,1ss). L’abbondanza del frutto della vite evoca la benedizione dei tempi messianici (cf. Gen 49,1012). In Osea 10,1-3 la vigna è Israele stesso, che, più è benedetto da Dio, più lo dimentica e si attacca agli idoli. Isaia 5,1-7 è il noto canto della vigna, in cui Dio si lamenta con il suo popolo: alla sua fedeltà e premura, contrappone infedeltà e dimenticanza. Non rispondere al suo amore significa rompere l’alleanza con lui, nostra vita, e distruggere noi stessi, sua vigna (cf. Ger 2,21; Ez 15,1-6; 19,10-14). Ma il Signore resta fedele, e, alla fine, si compiacerà della sua vigna, che avrà fatto la pace con lui (Is 27,2-5). Anche gli altri vangeli conoscono questa allegoria della fedeltà ostinata di Dio e dell’infedeltà crescente dei capi del popolo, causa della morte del Figlio (cf. Mc 12,1-12p). Il Salmo 80 rilegge la storia di Israele sotto la metafora di una vigna, piantata da Dio con amore e vigore, che diventa florida fino a riempire le terra, dai monti al mare e al fiume. Ma ora è abbandonata e devastata. Il Salmo è un’invocazione al Signore perché visiti questa sua vigna, faccia splendere il suo volto e la salvi dalla desolazione. Giovanni qui presenta la risposta a questa preghiera, finalmente esaudita. Ora la vigna è Gesù stesso, vera vite che porta frutto. In lui c’è il passaggio dalla vigna alla vite, dai molti all’unico, che è insieme risposta di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio. Essere uniti a lui mediante la fede, l’amore e l’osservanza della sua parola (cf. 14,15ss), ci fa passare dall’infedeltà alla fedeltà, dalla sterilità alla fecondità, dal lutto alla gioia. In lui la nuova alleanza tra Dio e uomo è indissolubile: è lui stesso la nuova alleanza, perché è insieme Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Il nuovo popolo è formato dai tralci uniti a lui, unica vite che produce frutti d’amore. Dopo la metafora di Gesù-vite e della fecondità dei tralci che dimorano in lui (vv. 1-6), si dice che dimorare in lui è compiere il suo comando di amarci con il suo stesso amore (vv. 7-17). È un’istruzione chiara al popolo della nuova alleanza, perché capisca la novità di vita alla quale è chiamato e non cada nella presunzione e nell’infedeltà di prima (cf. Rm 11,17-24; 1Cor 10,11ss). Queste parole servono a rassicurare i discepoli. Ma anche ad ammonirli, perché restino uniti a lui mediante l’osservanza del comando dell’amore, radice e frutto di ogni fecondità.
La parola “dimorare”, cara a Giovanni, richiama relazioni, affetti, amore. L’uomo dimora dove ha il suo cuore: abita dove ama, è di casa in colui che ama. In Gesù, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, anche noi siamo figli, rivolti verso il seno del Padre. L’unione con Dio non è un vago affetto, una speculazione esoterica o un’illuminazione intellettuale: è vita concreta, spesa nell’amore per i fratelli. L’amore si prova con i fatti, più che con i sentimenti e le parole. Questa unione “porta frutto” (esce sette volte), il frutto dell’“amore” (cinque volte “amare” e quattro “amore”), che ci rende suoi “amici” (tre volte), partecipi della sua “gioia” (due volte). Il punto d’arrivo è la gioia, segno proprio della manifestazione di Dio e compimento dei desideri dell’uomo. Queste parole di Gesù ci fanno vedere e contemplare il nostro rapporto con lui e con il Padre. Sono da ricordare continuamente, per vivere sempre più di lui come lui del Padre. Gesù è la vera vite feconda, che porta il frutto desiderato. Egli vive totalmente l’amore di Dio verso l’uomo e l’amore dell’uomo verso Dio. La Chiesa, come tralci uniti a quest’unica vite, porta lo stesso frutto: nell’amore concreto vive la vita di Dio, partecipa alla pienezza della sua gioia. 2. Lettura del testo v. 1: Io-Sono la vite, quella vera. “Io-Sono” è una forma di rivelazione, che richiama il nome del Dio salvatore, dato a Mosè (Es 3,14). Gesù lo applica a sé (8,28.58; 13,19; cf. 6,20; 18,5.8). Qui, come altrove, è seguito da un predicato, che specifica il suo rapporto con noi. Ha già detto: Io-Sono il pane (6,35), la luce del mondo (8,12), la porta (10,7.9), il pastore (10,11), la risurrezione e la vita (11,25), la via, la verità e la vita (14,6). Ora dice: “Io-Sono la vite, quella vera”, come aveva detto di essere il pane, quello vero (6,32). Lui è la “vera” vite, a differenza delle altre che non danno frutto, come è il “vero” pane, diverso da altri cibi che non saziano, la “vera” luce (1,9), diversa da altri bagliori che non illuminano. La vigna è simbolo del popolo dell’alleanza. Qui si sostituisce alla vigna la “vite”; si passa dal collettivo al singolo che rappresenta tutti. Questo passaggio dal molteplice all’Uno è fondamentale: in lui, il Figlio, tutti diventiamo figli, vero popolo di Dio, che porta il frutto dell’alleanza. L’alleanza vera è quella tra il Padre e il Figlio, che abbraccia la creazione intera. Nella carne del Figlio di Dio si compie la comunione tra Creatore e creatura. Finisce la storia di infedeltà dell’uomo, che rende infruttuosa la sua esistenza (cf. Is 5,1-7; 27,2-5; Ger 2,21; Ez 19,1014; Sal 80); in lui finalmente la terra dà il suo frutto (Sal 67,7): Israele fiorisce e germoglia, riempiendo il mondo di frutti (Is 27,6).
il Padre mio è l’agricoltore. Colui che ha cura della vite è il Padre stesso, nel suo amore per il Figlio. È quell’amore che Dio ha manifestato per Israele, sua vigna: “Hai divelto una vite dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i più alti cedri. Ha esteso i suoi tralci fino al mare e arrivavano al fiume i suoi germogli” (Sal 80,9-12). Ma questa prosperità è cessata per l’infedeltà del popolo. Nel canto della vigna si dice che Dio “possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti, vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino” (Is 5,1-2a). Ma essa non ha prodotto che uva selvatica (Is 5,2b.4b). Grande è il disappunto di Dio: “Che cosa devo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?” (Is 5,4a). “Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Ger 2,21). “Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque. Era rigogliosa e frondosa per l’abbondanza dell’acqua; ebbe rami robusti, buoni per scettri regali; il suo fusto si elevò in mezzo agli arbusti, mirabile per la sua altezza e per l’abbondanza dei suoi rami. Ma essa fu sradicata con furore e gettata a terra, il vento d’oriente la disseccò, ecc.”. Questo è il lamento di Dio per il suo popolo (Ez 19,10-14), che ha abbandonato lui, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono acqua (Ger 2,13). Dio è addolorato per il suo popolo – come per ogni uomo e per la creazione intera –, che ama con lo stesso amore con cui il Padre ama il Figlio (17,23), come il Figlio stesso ci dimostra (v. 9). È inconcepibile per l’uomo la passione che Dio ha per lui e per l’universo: tutto è creato nel Figlio e in vista di lui, perché tutto, attraverso la nostra risposta d’amore, ritorni al suo principio. Se non rispondiamo all’amore di Dio, è un fallimento sia per noi che per lui: noi falliamo come figli e lui come Padre. In Gesù, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, finalmente l’alleanza eterna di Dio trova risposta nell’uomo. Il Padre è paragonato all’agricoltore o, meglio, al viticoltore, laborioso ed esperto, amoroso e paziente, che coltiva la sua vigna. Piantare la vigna è un atto di amore e speranza nella vita. v. 2: ogni tralcio in me. L’unione tra il Figlio e ogni uomo è come quella tra la vite e il tralcio: hanno la stessa vita e producono lo stesso frutto. In lui, vera vite, ritorniamo a Dio e alla sua alleanza. L’essere o dimorare “in” lui è la condizione per vivere ed essere fecondi. che non porta frutto. Gesù ha parlato di messe abbondante (4,36) e di grano che porta molto frutto (12,24). Non portare frutto è essere fuori dal comando e dalla benedizione fondamentale del Creatore, che vuole le creature partecipi della sua fecondità (Gen 1,22.28). Una vita che non produce vita è morta: una luce che non illumina è spenta.
Mentre i diversi termini dell’allegoria sono trasparenti, il frutto di cui si parla sarà chiaro solo alla fine (v. 16b). Qui sorge una domanda: come possiamo essere in lui e non portare frutto? Purtroppo possiamo essere discepoli di Gesù solo a parole, senza vivere la sua parola (cf. Mt 7,21-23p). È un severo ammonimento perché non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). lo toglie. Gesù, essendo Figlio, non esclude nessun fratello: tutti siamo in lui, perché ci ama. Se però non viviamo di lui e non amiamo i fratelli, siamo mort;: siamo non-figli, che si autoescludono dal Figlio e dal Padre: siamo recisi da lui (cf. Mt 7,19; 25, 41-46; Rm 11,17-21; 1Cor 10,11s). Questo è il dramma dell’uomo, ma anche di Dio, che troverà la sua soluzione sulla croce. “Dio infatti ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito” (3,16). Nell’alleanza, sia antica che nuova, Dio è sempre fedele. Ciò che manca è la nostra risposta, lasciata alla nostra libertà. Gesù, il Figlio, è il primo che risponde amando il Padre e i fratelli. Chi fa come lui, porta frutto. ogni (tralcio) che porta (frutto), lo monda perché porti più frutto. Il Padre è un agricoltore che sa fare il suo mestiere. Si prende cura della sua vite togliendo i rami infecondi e sfrondando gli altri, perché siano più fruttiferi. Si tratta di una mortificazione che è per la vivificazione. Non c’è solo il male evidente; c’è anche un male nascosto, frammisto al bene. Possiamo infatti condurre una vita spirituale tutta intenta ai nostri gusti, senza amare né Dio né l’uomo. Allora “succhiamo” egoisticamente l’amore; siamo come i succhioni della vite, che non producono frutto. Dio in noi toglie ciò che è male e purifica dall’egoismo ciò che è bene. v. 3: già voi siete mondi per la parola che vi ho parlato. C’è una “purezza” iniziale del discepolo (cf. 13,10s). È quella potatura operata dalla parola, “più tagliente di una spada a doppio taglio”, che penetra fin nelle profondità dei pensieri e del cuore. La parola mette a nudo la nostra verità (cf. Eb 4,12s): è un costante esorcismo che ci libera da ogni menzogna. Per questo il battesimo “non è rimozione di sporcizia del corpo, ma invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo” (1Pt 3,21). Il battesimo cristiano non è solo nell’acqua, ma anche nello Spirito. La parola del Signore è Spirito e vita (6,63): ci comunica lo Spirito, la vita del Figlio. Il battesimo in Cristo è innanzi tutto un’immersione nella sua parola, che ce lo fa conoscere e amare. Essa ci porta a sfrondare i nostri egoismi, a rompere con il mondo e ad assimilarci a lui. v. 4: dimorate in me. È un imperativo: il Signore ci supplica di essere tralci uniti alla vite, di dimorare in lui. Si dimora in lui dimorando nel suo amore per noi (v. 9), sorgente del nostro amore reciproco (vv.12.17). Amare Gesù e fare la sua volontà è un atto di libertà nostra, che nessuno, neppure Dio, può fare al nostro posto. Questo ci fa dimorare in lui e portare il suo stesso frutto.
e io in voi. Noi siamo sempre in lui, perché ci ama. Ma possiamo non accettare di essere in lui e rifiutare che lui sia in noi. L’immanenza reciproca dell’amore – qui è tra Gesù e noi, altrove è tra il Padre, Gesù e noi – è tale appunto perché reciproca. Lui ci ama comunque; tutto dipende dalla nostra risposta. L’espressione richiama il discorso eucaristico di Cafarnao: “Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me ed io in lui” (6,56). Il suo amore per noi è la fonte del nostro dimorare in lui: possiamo amarlo perché lui per primo ci ha amati. come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non dimora nella vite, così neppure voi se non dimorate in me. Nei vv. 4-8 si parla otto volte di “dimorare in” Gesù. Si afferma ripetutamente, in negativo e in positivo, la necessità dell’unione con lui: separati da lui non si porta frutto, uniti a lui si produce molto frutto. L’unione con lui, non solo affettiva ma anche effettiva, è la possibilità stessa di una vita feconda. Corrisponde all’entusiastico “essere in Cristo” di Paolo, ritornello di tutte le sue lettere. È talmente importante dimorare in lui che, se non c’è, siamo rami secchi, già morti. v. 5: chi dimora in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla . La nostra azione scaturisce da ciò che siamo: solo uniti al Figlio siamo figli e possiamo portare frutti di amore fraterno. Soprattutto nell’azione apostolica, la nostra unione con il Signore è determinante (cf. Mc 3,14). Un grande maestro spirituale (Lallemant) dice che, se non si è “contemplativi”, è bene dedicarsi all’apostolato solo per breve tempo e a modo di esperimento; diversamente si reca danno a sé e agli altri. L’azione vera scaturisce dalla contemplazione: nasce da un cuore che conosce e ama. Se non si conosce, si sbaglia nel fare; se non si ama, non si ha la forza per fare. Qui Giovanni sta parlando della nostra “vita nello Spirito”, indispensabile per glorificare e testimoniare al mondo l’amore del Padre e del Figlio. L’unione con Gesù non è solo abbandono estatico, ma vita concreta, che porta i suoi stessi frutti. Mistica d’amore e mistica di servizio sono inseparabili. L’efficacia del servizio nasce dalla forza stessa dell’unione con Gesù. v. 6: se qualcuno non dimora in me, è gettato fuori come il tralcio e si secca e li raccolgono e gettano nel fuoco (cf. Mt 7,19). Non dimorare in lui, vita di ciò che esiste, equivale a essere già morti. Pensa forse Giovanni al peccato per la morte, all’apostasia (cf. 1Gv 5,16)? Qui l’avvertimento, più generale, è rivolto ai discepoli, perché dimorino in lui, nel suo amore, come si dice nel seguito, perché lui dimori in noi. Diversamente ogni loro attività è paglia, che sarà bruciata (cf. 1Cor 3,12-15). v. 7: se dimorate in me e i miei detti dimorano in voi. Ora Gesù specifica: dimorare in lui significa che le sue parole dimorano in noi. La sua parola, che ci monda (v. 3), ora diventa i suoi “detti”, al plurale. Non è sufficiente accettare Gesù come persona; bisogna accettare anche il suo messaggio, con tutte le sue parole. Accogliere una persona vuol dire anche accettare il suo mondo,
la sua storia. Dimorare in lui, accettarlo e amarlo, significa avere il suo stesso modo di pensare e, quindi, di agire. Non si tratta di moralismo. Un amore che non ispira e non trasforma la vita concreta, è falso: si ama con i fatti e con la verità (1Gv 3,18). L’amore diventa necessariamente impegno morale, modo di valutare e di vivere. qualsiasi cosa volete, chiedete e vi avverrà (cf. 14,13s!). Se dimoriamo in lui e le sue parole dimorano in noi, siamo in sintonia con lui e vogliamo ciò che lui vuole. Per questo avviene ciò che vogliamo. È però importante che chiediamo ciò che vogliamo: un dono può essere fatto solo a chi lo desidera. Non può però essere preteso: va desiderato per aprire il cuore ad accoglierlo. Il Padre ci vuol donare ciò che ha dato al Figlio: tutto (cf. 3,35; 13,3)! Attende solo che noi, chiedendolo, gli diamo il via libera. La preghiera è una richiesta a chi può e vuole esaudirci: esprime il nostro sì al dono. Senza il nostro libero assenso, Dio non può compiere in noi la sua azione più profonda: donarci il suo amore. Perché l’amore è necessariamente libero. v. 8: in questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto. La gloria di Dio è la sua manifestazione al mondo, che salva il mondo stesso. Il Padre è stato glorificato nel Figlio, perché questi ha amato i fratelli con il suo stesso amore incondizionato (cf. v. 9; 13,31). Allo stesso modo è glorificato in noi se le parole del Figlio dimorano in noi in modo fruttuoso, producendo ciò che dicono. e diventiate per me discepoli. La gloria del Padre è che diventiamo discepoli del Figlio, imparando ad essere figli. Già lo siamo. Eppure siamo chiamati a “diventare” tali: non si è mai finito di “diventare” discepoli. Il “per me” indica quanto il Figlio desideri che siamo suoi discepoli. v. 9: come il Padre amò me, anch’io amai voi. Siamo al vertice della rivelazione del Dio amore: l’amore unico e totale che il Padre ha per il Figlio, è lo stesso che il Figlio ha per noi, suoi fratelli. Nell’amore di Gesù vediamo l’amore estremo di Dio per noi (13,1; 19,30). “Amò” in greco è un “aoristo complessivo”; indica un amore perfetto, che è da sempre e per sempre. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano tutte le cose (3,35). L’essere del Padre è amare ed essere amato dal Figlio. Nel reciproco amore l’essere dell’uno è essere dell’altro e viceversa. Il loro amore reciproco è la vita stessa di Dio, principio di tutto. Questo amore è donato dal Figlio a noi, suoi fratelli. Siamo vertiginosamente presi nell’amore del Padre e del Figlio, partecipi della vita di Dio. dimorate nell’amore, il mio. Siamo chiamati a “dimorare” nell’amore suo per noi, che è lo stesso che il Padre ha per lui e per noi (cf. 17,23). Questa è la nostra vera casa. Qui finalmente possiamo vivere, ritrovando la nostra identità di figli e di fratelli. L’unico amore tra Padre e Figlio circola
anche in noi e ci fa dimorare nel Figlio come il Figlio nel Padre. Dimorare nel suo amore ci fa diventare figli di Dio (1,12): ci rende capaci di portare frutto, di amare i fratelli con il suo stesso amore. Se dimoriamo nel suo amore, siamo realmente divinizzati (1Gv 3,1), perché l’amore è comunicazione di ciò che si è e si ha. Il discepolo che Gesù amava è il modello di ogni discepolo: ha dimorato nel suo amore, adagiato nel suo grembo e poggiato sul suo petto (13,23.25), fino a stare ai piedi della croce e scrutare nel suo fianco trafitto (19,26.35). v. 10: se osservate i miei comandi, dimorerete nel mio amore. Ora si esplicita che, per dimorare nel suo amore, bisogna non solo che le sue parole dimorino in noi, ma che noi osserviamo i suoi comandi. Questi comandi, che ci fanno camminare come lui ha camminato, sono in realtà un unico comando (cf. vv. 12.17). Come la sua Parola è una e molteplice, così i suoi comandamenti sono molteplici e uno: è il comando dell’amore, che muove e ordina ogni nostra azione. Chi non ama, non dimora nell’amore: chi non risponde all’amore con cui è amato, non accetta l’amore. Dimorare nel suo amore per noi, significa in concreto amare come lui ama. come io ho osservato i comandi del Padre mio e dimoro nel suo amore. Noi possiamo amare perché lui per primo ci ha amati; possiamo osservare il suo comando perché lui ha osservato il comando del Padre, che lo ha mandato a testimoniarci il suo amore per noi (cf. 3,17): suo cibo è fare la volontà di colui che lo ha mandato a compiere la sua opera (cf. 4,34). Gesù è il primo uomo che dimora nell’amore del Padre: è il Figlio che compie la volontà del Padre perché ama i fratelli. Anche noi dimoriamo in lui, nel suo amore, se amiamo come lui ci ha amati. La conferma di essere nel suo amore ci viene da una vita conforme alla sua. L’aspetto etico toglie ogni ambiguità all’amore: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14). La fede è inscindibile dall’amore, anzi ha come oggetto l’amore: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). A sua volta, l’amore di Dio è inscindibile dall’amore per l’uomo: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,20s). Ed è pure inscindibile dalle opere: non si ama a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). v. 11: (di) queste cose ho parlato a voi. Le parole che Gesù ha detto a noi rivelano l’amore del Padre per lui, che è anche il suo per noi (v. 9). affinché la mia gioia sia in voi. Il fine dell’azione di Gesù è comunicarci la gioia ineffabile del suo amore reciproco con il Padre. La gioia è il colore dell’amore, che vive nella reciprocità: gioisce
chi ama ed è amato. Tanto amore è senza gioia perché o non è amore o non è reciproco. La gioia, che viene dalla comunione d’amore, è il fine della rivelazione (cf. 1Gv 1,1-4). È proprio di Dio dare gioia. Ed è proprio e solo di Dio dare gioia senza nessun motivo che la produca: è l’esultanza interiore che viene dal suo Spirito in noi, che ci attesta l’amore del Padre (cf. Rm 8,16). e la vostra gioia sia piena (17,13). L’uomo è desiderio insaziabile di felicità: solo Dio gli dà quella gioia senza limite che è lui stesso, amore infinito. v. 12: questo è il mio comando (cf. v. 17; 13,34). Per dimorare nel “suo” amore, bisogna osservare i suoi comandi che si riducono a uno: l’amore fraterno, che resta dimezzato fino a quando non è reciproco. L’amore del prossimo è pieno compimento della legge (cf. Rm 13,10). Nei vv. 1217 si parlerà dell’amore che ci fa dimorare in lui e produrre il suo stesso frutto, a glorificazione di Dio e gioia nostra. che vi amiate gli uni gli altri come (io) amai voi. L’amore che Gesù ha mostrato verso di noi sulla croce è la sorgente del nostro amore reciproco. Uno infatti può amare se e come è amato. Gesù ha dimorato nell’amore del Padre amando i fratelli. Noi dimoriamo nel suo amore di Figlio facendo altrettanto. Il comando di amare Dio (cf. Dt 6,5) diventa comando di amarci reciprocamente. Infatti l’amore per Dio e l’amore per l’uomo sono un’unica realtà, come l’amore del Figlio verso il Padre e verso di noi è lo stesso amore del Padre verso il Figlio e verso di noi. L’amore è uno solo: è Dio. E mette in comunione tutti. Si parla di amore gli uni verso gli altri. L’amore infatti è vita e gioia solo nella reciprocità. Essa da sempre c’è in Dio; noi siamo chiamati ad averla tra di noi. v. 13: nessuno ha un amore più grande di questo, che qualcuno ponga la propria vita. L’apice dell’amore sta nel porre la propria vita a favore dell’amato (cf. 10,14-18). Gesù ha mostrato questo amore compiuto lavando i piedi a Pietro e dando il suo boccone a Giuda (cf. 13,1ss). per i suoi amici. Gesù ci ha considerati amici. Anche quando eravamo suoi nemici, traditori come Giuda o rinnegatori come Pietro, ci ha mostrato il suo amore assoluto, gratuito ed indubitabile (cf. Rm 5,6-11). Proprio così, da nemici che eravamo, ci ha fatto suoi amici. L’amicizia pone su un piano di parità: rispondendo all’amore con l’amore, diventiamo come Dio! v. 14: voi siete miei amici se fate le cose che io vi comando. Gesù è sempre e comunque nostro amico. A nostra volta anche noi siamo suoi amici se rispondiamo al suo amore facendo come lui ha fatto. v. 15: no, non vi chiamoo più servi, ecc. “Servo” è un titolo onorifico. Servi del re sono i grandi di corte, servi di Dio sono i profeti e i giusti. Il servo esegue la volontà del suo Signore, ma con un
rapporto di sudditanza, non di amicizia. Gesù non ci vuole servi, ma amici. Non siamo infatti sudditi della legge, ma viviamo nella libertà dei figli, che amano la volontà del Padre. Se Mosè ci ha dato la legge, dalla pienezza della Parola diventata carne riceviamo grazia su grazia: la grazia della verità del Figlio, che ci mette in comunione con il Padre (cf. 1,16-18). Gesù infatti ci ha fatto conoscere tutto ciò che ha udito da lui: è la Parola che ci dà il potere di diventare figli di Dio (1,12). v. 16: non voi sceglieste me, ma io scelsi voi (cf. 6,70; 13,18). Origine della scelta è il suo amore gratuito per noi: “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama” (Dt 7,7-8a). Siamo stati scelti non per essere servi, ma amici di Dio, uniti a lui nell’unico amore. vi ho posti perché voi andiate e portiate frutto. Qui non si parla della scelta dei Dodici e del loro invio in missione, ma dei discepoli, presenti e futuri, che devono andare dove Gesù stesso è andato: verso la pienezza dell’amore del Padre, amando i fratelli fino a porre la propria vita a loro servizio. Questo è il “molto frutto” che glorifica il Padre (cf. v. 8). È quel “molto frutto” che porterà il Figlio stesso, quando darà la vita per i fratelli (cf. 12,24): allora attirerà tutti al suo amore (12,32). Corrisponde alle “opere più grandi” che i discepoli faranno dopo di lui (cf. 14,12), portando il suo amore a tutti i fratelli. Questo frutto è proprio di chi osserva il suo comando e dimora in lui: è il distintivo dei discepoli del Figlio. La loro vita fraterna fa conoscere a tutti l’amore del Padre (cf. 13,34): è la rivelazione storica di Dio al mondo, che continua quella di Gesù, il Figlio che ha amato i fratelli con lo stesso amore del Padre (cf. 13,35; 17,22s). Questa è la missione fondamentale della Chiesa, sale della terra, luce (Mt 5,13ss) e profumo di Cristo nel mondo intero (2Cor 2,14). Vedendo come i discepoli vivono, tutti ritrovano quella bellezza che in fondo al cuore desiderano: la bellezza che salverà il mondo. La missione non è propaganda, ma irraggiamento dell’amore reciproco, che attirerà tutti a sé. Quel Dio che nessuno mai ha visto, noi l’abbiamo visto nel volto del Figlio (cf. 1,18), che ha detto: “Chi ha visto me, ha il visto il Padre” (14,9). Gli altri lo vedono nel nostro volto di suoi fratelli. e il vostro frutto dimori. Questo frutto è la vita eterna: ci fa dimorare nel Figlio e nel Padre e fa dimorare il Figlio e il Padre in noi. affinché qualsiasi cosa chiediate al Padre nel nome mio, ve (la) dia (cf. v. 7; 14,13; 16,23.26s). Sappiamo che il Padre sempre ci ascolta (11,42), perché siamo nel Figlio. Per questo gli chiediamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere da figli. v. 17: queste cose vi comando: che (vi) amiate gli uni gli altri (cf. v. 12). Ecco cosa chiedere al Padre nel nome del Figlio: il suo stesso amore per i fratelli. Oltre questo amore non c’è più nulla, se
non ancora l’amore, che è infinito. Perché Dio è amore (1Gv 4,8.16) e “chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1Gv. 4,16b). 3. Pregare il testo a.
Mi metto in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando il cenacolo con Gesù e i discepoli.
c.
Chiedo ciò che voglio: dimorare in Gesù, osservare le sue parole e il suo comando, amare i fratelli con il suo stesso amore.
d.
Mastico, rumino e contemplo ogni parola di Gesù.
Da notare: •
Io-Sono la vite, quella vera
•
ogni tralcio che in me non porta frutto, il Padre lo toglie
•
ogni tralcio che porta frutto, lo monda perché porti più frutto
•
la sua parola ci monda
•
dimorate in me ed io in voi
•
il tralcio porta frutto solo se è unito alla vite
•
Io-Sono la vite e voi i tralci
•
chi dimora in me e io in lui, porta molto frutto
•
senza di me non potete fare nulla
•
chi non dimora in me, è un tralcio morto
•
dimoriamo in Gesù se le sue parole dimorano in noi
•
se dimoriamo in lui e le sue parole dimorano in noi, il Padre ci dona tutto
•
il Padre è glorificato se noi portiamo molto frutto e diventiamo discepoli del Figlio
•
come il Padre amò me, anch’io amai voi
•
dimorate nell’amore, il mio, come io dimoro nell’amore del Padre perché osservo i suoi comandamenti
•
la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena
•
questo è il mio comando: che vi amiate gli uni gli altri come io amai voi
•
nessuno ha amore più grande di quello di dare la vita per i suoi amici
•
voi siete miei amici se fate ciò che io vi comando
•
non siete servi, ma amici, perché vi ho comunicato tutto ciò che ho ricevuto dal Padre
•
non voi sceglieste me, ma io scelsi voi
•
vi ho posti perché andiate e portiate molto frutto
•
qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà
•
questa cosa vi comando: amatevi gli uni gli altri.
1. Testi utili Sal 1; 80; 103; Is 5,1-7; 27,2-6; Ger 2,21, Ez 19,10-14; Mc 12,1-12; Mt 7,15-20.21-27; 25,31-46; Rm 11,16-36; 1Gv 2,1-11; 3,16-24; 4,1-5,4.
38. SE IL MONDO VOI ODIA, SAPPIATE CHE PRIMA DI VOI HA ODIATO ME 15,18 - 16,4
15,18
Se il mondo odia voi, sappiate che prima di voi ha odiato me.
19 Se foste dal mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete dal mondo, ma io vi scelsi dal mondo, per questo vi odia il mondo. 20
Ricordate la parola che io vi dissi: Non c’è servo più grande del suo Signore. Se perseguitarono me, anche voi perseguiteranno; se osservarono la mia parola, anche la vostra osserveranno.
21
Ma tutte queste cose faranno a voi a causa del mio nome, perché non conoscono chi mi inviò.
22
Se non fossi venuto e (non) avessi parlato loro, non avrebbero (alcun) peccato; adesso invece non hanno scusa per il loro peccato.
23
Chi odia me, anche il Padre mio odia.
24
Se non avessi fatto tra loro le opere che nessun altro fece, non avrebbero (alcun) peccato; adesso invece e hanno visto e hanno odiato e me e il Padre mio.
25
Ma (questo) affinché si compisse la parola
che è stata scritta nella loro legge: Mi odiarono gratuitamente. 26
Quando verrà il Consolatore che io vi invierò dal Padre, lo Spirito della verità che proviene dal Padre, quegli testimonierà di me;
27
e voi pure testimonierete, perché siete con me dal principio.
16,1
(Di) queste cose vi ho parlato affinché non vi scandalizziate.
2
Vi faranno espellere dalle sinagoghe; addirittura viene un’ora che chiunque vi ucciderà penserà di rendere culto a Dio.
3
E queste cose faranno perché non conobbero il Padre né me.
4
Ma (di) queste cose vi ho parlato affinché, quando verrà la loro ora, vi ricordiate di esse, che io ve (le) dissi. Non vi dissi prima queste cose dal principio perché ero con voi.
1.
Messaggio nel contesto “Se il mondo odia voi, sappiate che prima di voi ha odiato me”, dice Gesù a quelli che, uniti
a lui, vivono il comando dell’amore. Chi ama è odiato! I discepoli non devono scandalizzarsi. Ciò che da sempre è capitato ai giusti, capita a lui e capiterà ai suoi discepoli. In loro si compie ciò che ancora manca alla passione del Figlio per la salvezza dei fratelli (cf. Col 1,24). Invece di cadere nello scandalo, sono chiamati a superarlo: si tratta di una prova, che sarà per loro motivo di gioia (cf. Gc 1,2-4; 1Pt 1,6-7; At 5,41). Si avvera infatti per loro l’ultima
beatitudine del Regno, che li rende simili al loro Signore e a quanti, prima di loro, l’hanno testimoniato: “Beati siete, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e diranno ogni male contro di voi, [mentendo,] per causa mia: gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli; così infatti perseguitarono i profeti prima di voi” (Mt 5,11p). L’opposizione del “mondo” contro chi agisce bene è una sorpresa amara. Sembra qualcosa di strano e indebito (cf. 1Pt 4,12). “Chi vi potrà far del male, se sarete ferventi nel bene?” (1Pt 3,13). Così pensiamo, fino a quando non facciamo l’esperienza che, proprio agendo con giustizia, ci tocca subire l’ingiustizia. È la legge fondamentale della storia, difficile da capire: il male che facciamo, lo pagano gli altri; il bene che facciamo, lo paghiamo noi. “Nessuna buona azione resta impunita!”. Il “mondo” in Giovanni ha, per lo più, una connotazione negativa. Non è tanto il creato, opera di Dio e scenario della storia dell’uomo. È piuttosto un modo di pensare e di agire fondato sull’egoismo e sulla paura. Si impone a tutti, quasi un canovaccio nel quale ognuno è costretto dalle circostanze a recitare la sua parte. Chi cerca la verità, la libertà e l’amore è odiato, perseguitato ed estromesso come uno che smaschera e guasta il gioco opposto, che tutti fanno. Eppure proprio “questo” mondo Dio ha tanto amato da dare suo Figlio, per salvarlo (3,16s). La comunità cristiana non deve temere. È chiamata a vivere “nel” mondo senza essere “dal” mondo (17,14-16). Rompe così la sua logica di violenza e di morte, riconoscendo nel Dio dell’amore e della vita il principio del proprio esistere. Chi, ingiustamente, subisce ostilità, si sente smarrito. Gli pare di viaggiare contro mano. Ma lo Spirito gli testimonia che è nella verità e lo rende capace di testimoniarla. Per questo è una grazia, per chi conosce il Signore, soffrire ingiustamente (1Pt 2,19). Se la comunità cristiana non sperimenta difficoltà, deve preoccuparsi molto. Si trova in una pax perniciosa, fatta di compromessi, spartizioni e compravendite con il potere mondano. Il pericolo non è l’ostilità del mondo, ma le sue lusinghe, che fanno cadere nella mondanità. Non che bisogni cercare persecuzioni. Sarebbe stolta imprudenza, o peggio. Ma non si può neanche cercare a tutti i costi di evitarle. Sarebbe tradire l’amore della verità e la verità dell’amore, diventare sale senza sapore, che non giova a nulla (Mt 5,13). Chi opera il bene si attira odio, talora anche persecuzione. Il mondo infatti ama ciò che è suo (v. 19); odia invece tutto ciò che gli mostra la sua bruttezza e vacuità. Il discepolo sa che “amare il mondo è odiare Dio” (Gc 4,4). Riconosce che l’accumulo di ricchezze produce povertà, spirituale e materiale; sa che la ricerca di vanagloria spegne l’autenticità; non ignora che la sete di potere sopprime la libertà, propria e altrui. Queste cose, che il mondo tanto ama da farne il principio del proprio agire (cf. 1Gv 2,16), non sono che la perversione dei desideri più profondi dell’uomo.
Promettono vita, ma danno morte. Distruggono l’umanità dell’uomo e gli scavano dentro un vuoto sempre maggiore. Chi vive nell’amore e nella condivisione, nella verità e nella libertà del servizio reciproco, è come luce che dissipa le tenebre. Per questo le tenebre lo odiano. I veri cristiani non sono odiati perché si emarginano o perché agiscono male (cf. 1Pt 4,16). Chi si emargina o prevarica, giustifica la società. Sono invece odiati perché fanno il bene, emarginati perché mostrano quella diversità alla quale ogni uomo si sente intimamente chiamato: diventare come Colui che ha detto: “Siate santi perché io sono santo” (Lv 11,44). Il cristiano disturba perché capovolge i criteri sui quali il mondo si regge. All’“homo homini lupus” sostituisce il principio “homo homini Deus”: l’uomo è chiamato ad essere non come un lupo, ma come Dio nei confronti dell’altro uomo. E questo avviene nella testimonianza di un amore che non esercita violenza, nemmeno quando gli tocca portarla. Non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene (Rm 12,21). È facile, per evitare l’odio del mondo, cadere nella tentazione di confinare la fede nell’ambito spiritualistico, agendo come tutti gli altri nella vita pratica. Basta infiorarla di qualche opera buona in favore dei poveri. L’assistenza tacita la coscienza e lubrifica il sistema di ingiustizia, evitando costosi attriti. Pochi effettivamente si chiedono a che gioco si stia giocando nei rapporti di produzione e di consumo, che rispetto c’è per l’altro, soprattutto per il povero. Si tratta di una fede adulterata, a buon mercato, che mette insieme diavolo e acquasanta – stanno bene insieme, perché quest’acqua non è per niente santa. Spesso, purtroppo anche in buona fede, vanno a braccetto Dio e mammona, religione e oppressione, devozione e ingiustizia. Questa fede – non odiata dal mondo, anzi funzionale ad esso – accusa di fanatismo, addirittura di tradimento del vangelo, le voci profetiche che cercano di risvegliare la coscienza. Il vero pericolo è sempre stato, e sempre sarà, la mondanità di una Chiesa che dimentica lo spirito delle beatitudini. Allora la croce è ridotta a un ornamento di vario materiale e uso a copertura e giustificazione di iniquità. Quanti mettono in questione il fatto che la globalizzazione sia sotto la legge dell’interesse economico e non della giustizia e della fraternità? Quanti pensano che è devastante ridurre l’uomo a macchina di produzione del massimo profitto? Oggi, sotto l’influenza dei mass-media, è così forte il dominio del “mondo” sull’intelligenza e sulla volontà, addirittura sull’inconscio di tutti, che “questo” modo di vivere si impone come l’unico possibile, anzi il migliore dei modelli possibili. Non viene il sospetto che questo sia solo il modo migliore, finora trovato, per annegare tutti nella stupidità. Ci fa camminare, come dice Paolo dei pagani, nella vacuità della mente, con l’intelletto ottenebrato e il cuore indurito, anestetizzati e interiormente dissolti nella nostra identità, intenti a divorare avidamente ciò che ancora non abbiamo consumato (cf. Ef 4,17-19). Anche i credenti sposano senza problemi il modello culturale dominante. Stiamo assistendo alle più gravi ingiustizie: i ricchi affogano nel grasso e il numero dei poveri va crescendo. Ma, fatto ancor più grave, gli stessi
poveri vogliono diventare come i ricchi che li opprimono (cf. Gc 2,5-7). È una vera perdita di umanità, che minaccia oppressi e oppressori, tutti concorrenti nello stesso gioco fatale. Quanto Gesù dice ai discepoli non è solo un incoraggiamento per una minoranza spaesata, come poteva sembrare la comunità degli inizi. È un ammonimento per noi, perché apriamo gli occhi sul tesoro che abbiamo e che è per tutti: la salvezza dell’umanità dell’uomo. Bisogna stare attenti agli inganni. Taluni pensano di realizzare il regno di Dio usando i mezzi propri del mondo. I “buoni” sono tentati di combattere contro i “cattivi”, per il trionfo del bene. Stentano a capire che non devono combattere, anche se sono combattuti. Contro l’odio, l’unica arma è quella dell’amore. La violenza infatti è vinta solo dalla mitezza, la menzogna dalla verità, il dominio dal servizio. Voler far giustizia con la forza, non solo è inutile (cf. Sir 20,4), ma anche controproducente: il bel nome di Dio è bestemmiato per causa nostra (Rm 2,24; Is 52,5). Dio non ha perso il controllo della macchina che ha messo in moto: vuol salvare il mondo che ama. E ci riesce con il solo amore, principio, mezzo e fine di tutto. Non abbia paura il piccolo gregge: al Padre è piaciuto affidargli il suo regno (Lc 12,32), quel regno che è per tutti i suoi figli. Il testo parla all’inizio dell’odio e della persecuzione immeritata (15,18-25) e alla fine dell’espulsione dalla sinagoga in nome di Dio (16,1-4). Al centro c’è la testimonianza dello Spirito della verità nei discepoli e attraverso di loro (15,26-27). Gesù ha espulso il capo di questo mondo con il suo essere elevato da terra: con l’amore ha vinto l’odio. La Chiesa, associata alla lotta e alla vittoria del suo Signore, usa le sue stesse armi, non quelle del nemico. Altrimenti si allea con l’avversario. 2.
Lettura del testo v. 18: Se il mondo vi odia. Per mondo si intende l’insieme dei valori che strutturano le nostre
relazioni. In Giovanni ha un senso negativo. Infatti possiamo dire che si fonda sull’“imitazione appropriativa”: ognuno imita il desiderio dell’altro, che è quello di appropriarsi di qualunque cosa l’altro desidera. È un “contagio mimetico”, che ci mette gli uni contro gli altri, innescando un processo di rivalità, dove domina sempre il più violento. In questo modo i valori fondamentali dell’uomo – l’accoglienza e la solidarietà, la verità e la libertà, l’amore e la vita – sono compromessi, si dissolvono e vengono distrutti. Per questo si dice: “Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1Gv 2,15). Anzi, “amare il mondo, è odiare Dio” (Gc 4,4). Infatti il mondo ritiene bene ciò che è male e viceversa: ha come principio di azione l’egoismo e non
l’amore, il possesso e non il dono, la rivalità e non la solidarietà, l’accumulo e non la condivisione, la violenza e non la mitezza, l’arroganza e non la semplicità, l’orgoglio e non l’umiltà, la rabbia e non la compassione. Oggi possiamo aggiungere, come punto estremo che permette ogni delirio: l’immagine e non la realtà. Il risultato è l’idolatria (= culto dell’immagine, dell’idolo), che ci rende inconsistenti e morti, come le immagini che adoriamo. “Tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo” (1Gv 2,16). S. Ignazio di Loyola, negli “Esercizi spirituali”, stigmatizza la strategia di satana come avidità di ricchezze, il cui accumulo porta alla vanagloria e alla superbia, principio di ogni male. La strategia del Regno, invece, consiste nel portare gli uomini ad apprezzare la povertà e il disprezzo che essa comporta, per giungere all’umiltà, principio di ogni bene. C’è una vera lotta interiore tra male e bene. “L’asse del male” non è esterno a noi, ma passa dentro il nostro cuore, attraverso la mondanità che è in noi. Quando però, invece di imitare i desideri del mondo, riusciamo a imitare quelli del Figlio, allora siamo odiati. Infatti, non giocando allo stesso gioco, lo mettiamo in crisi. Se due lottano, vince il più forte. Ma se uno, invece di opporsi a chi gli si avventa contro, si scansa, quello cade abbattuto dalla sua stessa forza. La violenza non è vinta da una violenza maggiore, né l’egoismo da un egoismo maggiore: solo la mitezza e l’amore spuntano le armi del male. Proprio per questo chi è mite e ama è oggetto di violenza e odio. prima di voi ha odiato me. Il Figlio, che imita il desiderio del Padre e ama i fratelli, ci ha aperto la via della libertà. Lui per primo è stato odiato. L’odio del mondo è, per il discepolo, contrassegno di garanzia (cf. Mt 5,11p): è simile al suo Maestro e Signore. L’odio contro l’amore è la causa della croce di Gesù. Questa, a sua volta, è l’unica vittoria possibile dell’amore sull’odio. v. 19: se foste dal mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo (cf. 3,20s). Si dice la causa di questo odio. “Da” indica origine e paternità. “Essere dal mondo” significa mutuare da esso la propria identità, il proprio modo di sentire e agire. Se i discepoli avessero gli stessi desideri del mondo, sarebbero amati perché favorirebbero il suo gioco. Accetterebbero che la vita è una lotta senza fine, fino a quando tutto è finito; nel frattempo è premiato il più violento di turno, che può imporsi sugli altri, soppiantando chi era prima di lui. invece non siete dal mondo. I discepoli non mutuano dal mondo la loro identità. Non desiderano ciò che esso desidera. Hanno un’altra origine: sono “dal” Padre. Sono quindi figli che vivono da fratelli. Hanno come modello “il Pastore bello”, colui che non toglie, ma dà la vita (cf. 10,1-21).
io vi scelsi dal mondo. I discepoli sono eletti per essere santi come Dio è santo: testimoniano la diversità di Dio. Sono scelti per mostrare al mondo l’amore del Padre verso il Figlio e del Figlio verso i fratelli, per portarli alla luce della vita. Questo è il “molto frutto”, per il quale sono scelti (15,8.16). per questo il mondo vi odia. È chiaro il motivo dell’odio del mondo. I discepoli, testimoniando la verità di Dio e dell’uomo, smascherano la menzogna di cui esso è schiavo: vivendo l’amore fraterno, mostrano l’insensatezza del suo gioco mortale. v. 20: ricordate la parola che io vi dissi: non c’è servo (13,16; cf. Mt 10,24). Gesù ha lavato i piedi ai discepoli, dichiarandosi il modello da imitare per essere come lui, Maestro e Signore (13,14s). Subito dopo aveva detto che non c’è servo più grande del suo Signore (13,16). Qui ricorda e completa l’istruzione. se perseguitarono me, ecc. Se il servo fa come il suo Signore, ottiene gli stessi risultati. Se hanno perseguitato lui, che ha testimoniato l’amore sino all’estremo, perseguiteranno anche loro, per lo stesso motivo. Egoismo e amore sono inconciliabili, come morte e vita. Tra loro non c’è mai pace. Il destino del discepolo è il medesimo del suo Maestro. v. 21: tutte queste cose faranno a voi a causa del mio nome. I discepoli sono perseguitati nel “nome” di Gesù, il Figlio che testimonia l’amore del Padre. Non perché fanno del male (cf. 1Pt 4,15), ma perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di loro (1Pt 4,14). perché non conoscono chi mi inviò. Il motivo della persecuzione è l’ignoranza del Padre. Chi non conosce l’amore del Padre, non ama né sé né gli altri. Odia l’amore. Anche se, come il fratello maggiore, osservasse tutte le prescrizioni della legge (cf. Lc 15,29), andrebbe contro il principio della legge, che dice di amare il Padre e i fratelli. v. 22: se non fossi venuto e (non) avessi parlato loro, non avrebbero (alcun) peccato. Se il Figlio non avesse mostrato l’amore del Padre, non l’avremmo mai conosciuto. Saremmo vissuti ignorando il bene; il male sarebbe stato la condizione normale. Saremmo come dei ciechi che non hanno mai incontrato un vedente. Senza conoscenza del bene non c’è peccato. Si vive tragicamente nell’irresponsabilità dell’ignoranza. Tutti i mali, soprattutto i peggiori, si consumano sempre nell’incoscienza generale, dove nessuno è veramente responsabile. “Perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34), dice Gesù dei suoi crocifissori. Infatti, se l’avessero saputo, non l’avrebbero fatto (cf. 1Cor 2,8). ora invece non hanno scusa per il loro peccato (cf. 9,41; Rm 1,20s). Chi prima non conosceva che la via del male, ora conosce anche quella del bene. Il peccato, quindi, è inescusabile. È importante questo richiamo alla responsabilità: conoscere il male come tale è il presupposto per uscirne. Per questo il primo dono dello Spirito di verità è convincere il mondo di peccato (cf. 16,8s).
Il fine di ogni azione educativa è portare alla responsabilità – non alla colpevolizzazione – del male che si fa. Si diventa responsabili del male solo dove c’è la conoscenza del bene. Per questo l’educazione , più che sul rimprovero del male, si basa sulla proposta del bene. v. 23: chi odia me, anche il Padre mio odia. I vv. 23-24 ribadiscono ed esplicitano i vv. 2122. Come l’amore è conoscenza, così l’ignoranza diventa odio, meccanismo di difesa contro l’ignoto. Gesù è odiato perché rivela Dio come Padre. L’odio contro di lui svela il nostro rifiuto del Dio amore. Il nostro dio infatti è “il mondo” con i suoi desideri, che da Adamo in poi abbiamo proiettato su Dio. L’origine dei nostri mali è il pensare un dio geloso di sé e invidioso degli altri. Dio è invece amore di Padre verso i figli. v. 24: se non avessi fatto le opere, ecc. (cf. 10,32-38). Gesù si appella alle sue opere, oltre che alle sue parole (cf. v. 22). Sono segni del suo amore verso i fratelli, che manifestano quello del Padre. Infatti il Figlio fa ciò che vede fare il Padre (cf. 5,19-30). Gesù non ha solo presentato una dottrina: con la sua esistenza di fratello, ha mostrato di essere il Figlio, che ha lo stesso volto del Padre (cf. 12,44-46; 14,7-9). Gesù non ha detto parole vuote: è la Parola diventata carne, carne come la nostra, per rivelare il destino di ogni carne. Ci ha mostrato che l’amore è possibile, perché è reale. Ciò che egli ha detto e fatto mostra come il nostro pensare e agire sia sbagliato. Per questo è odiato. v. 25: affinché si compisse la parola, ecc. L’odio contro il Figlio e il Padre è visto come compimento della Scrittura. Essa infatti rivela l’amore di Dio per l’uomo e il rifiuto dell’uomo nei confronti di Dio. mi odiarono gratuitamente. L’odio è immotivato, come l’amore. Sia l’odio che l’amore hanno il loro motivo non nell’altro, ma in se stessi. Uno ama o odia per “connaturalità”, secondo che ha amore o odio nel suo cuore. “Gratuito” in greco si dice: “in dono”. L’odio è una dose di veleno che trabocca da un cuore chiuso nelle tenebre, l’amore è un dono di vita che trabocca da un cuore pieno di luce. Queste parole sono prese da un salmo (Sal 69,5; cf. Sal 35,19), che già venne citato all’inizio dell’attività di Gesù (2,17 = Sal 69,10) e sarà richiamato alla fine (19,28s: cf. Sal 69,22). L’odio contro Gesù non è quell’odio/amore che si ha contro il concorrente: è odio gratuito contro l’amore gratuito. v. 26: quando verrà il Consolatore che io vi invierò dal Padre (cf. 14,16-21). Questo Spirito, come è inviato dal Padre (14,26), è inviato anche dal Figlio. È il dono che Gesù ci farà nella sua glorificazione, quando effonderà sui fratelli il suo stesso amore reciproco con il Padre (cf. 19,30).
lo Spirito della verità che proviene dal Padre. Il Padre, origine del Figlio, è il principio dell’amore. Il Figlio è risposta a questo amore. quegli testimonierà di me. Lo Spirito della verità testimonierà ai discepoli chi è Gesù (cf. 16,12-15) e ci farà conoscere in pienezza il Figlio e il Padre. v. 27: voi pure testimonierete. Lo Spirito, donandoci l’amore del Figlio, ci rende capaci di testimoniarlo al mondo (cf. 16,7-11). Lo Spirito, che fu al principio della creazione, la porterà a compimento salvandola dalla perdizione. Per i discepoli, come per Gesù, l’ignoranza e l’odio diventano il luogo in cui si testimonia la conoscenza del Padre e l’amore dei fratelli. perché siete con me da principio. I discepoli possono testimoniarlo perché, essendo con lui dall’inizio (cf. 1,35-51), lo hanno visto. 16,1: (Di) queste cose vi ho parlato, affinché non vi scandalizziate. Gesù ha predetto l’odio gratuito contro il giusto. Sarà ciò che i discepoli vedranno tra poche ore sulla croce: lo scandalo, che all’inizio farà disertare tutti. Quando lo vedranno crocifisso, lo sconfesseranno. Lo riterranno un fallito; non ne comprenderanno la gloria. Sarà un momento di smarrimento generale, che poi rientrerà, grazie a queste parole. I discorsi dei cc. 13-17 sono la via che la comunità dei discepoli ha percorso per giungere a comprendere la croce, gloria di Dio e salvezza dell’uomo. Se i discepoli si fossero definitivamente allineati con gli altri nel leggere la croce come fallimento, non sarebbe nata l’umanità nuova. La madre di Gesù e il discepolo amato, che stanno ai piedi della croce (19,25-27), sono la prefigurazione di tutti gli altri, quando avranno superato lo scandalo. Le parole di Gesù prima di andarsene vogliono farci superare lo “scandalo” della sofferenza del giusto, che porta il male del mondo. La storia mondana, riscritta sempre dall’ultimo vincitore, è apologia di reato: giustifica il più violento, che riesce in quel momento a dominare gli altri. Dio invece scrive la storia dando voce e ragione alle vittime della violenza. La storia non è il trionfo del male, che gratuitamente elimina il giusto, ma la vittoria del giusto, che vince il male amando gratuitamente. Il povero, oppresso, non è cattivo e disapprovato da Dio; il ricco, oppressore, non è buono approvato da Dio! Tutta la Bibbia dà ragione a coloro ai quali il mondo dà torto: demistifica la storia scritta dai potenti, mostrandola come esaltazione mitologica del potente di turno. v. 2: vi faranno espellere dalle sinagoghe (cf. 9,22; 12,42). È l’esperienza traumatica dei primi discepoli e della Chiesa di Giovanni, di origine giudaica. Da qui si capisce la polemica con quelli che si considerano gli unici “giudei” e li espellono dalla loro assemblea.
viene un’ora che chiunque vi ucciderà penserà di rendere culto a Dio. Presto o tardi viene per il discepolo un’ora che lo associa all’“ora” del suo Maestro. È l’ora della testimonianza, nella quale chiunque, di qualunque religione sia, lo ucciderà in nome del suo dio. Ma di quale dio? Cristo fu ucciso per bestemmia, come anche Stefano. Dai pagani i cristiani furono uccisi per “ateismo”. È sempre in nome di dio che si uccide: un dio identificato con la tradizione e la legge, garante del potere dominante. Che ne è del Dio che ha creato la vita e ama tutte le sue creature? Anche noi cristiani, le cose peggiori le abbiamo fatte e le facciamo nel nome di dio, del dio che assicura i nostri privilegi. Purtroppo abbiamo imparato, invece che da Gesù, da quelli che lo combattono. Solo dalla rivoluzione francese si smise di ammazzare in nome di dio. Lo si fece in nome della dea ragione; poi semplicemente per la nazione, la classe o la razza; ora, più dichiaratamente, per il proprio interesse. Se ultimamente i credenti sono stati uccisi in nome dell’ateismo, è un buon segno: il male perde la sua giustificazione “divina”. Tutti finalmente possono capire che nessun male si può fare in nome di Dio. Ciò che è contro l’uomo, è contro Dio. L’ateismo è un prodotto ebreo-cristiano, che, alla fine, toglie a Dio la maschera satanica di giustificatore del male. Quando tutti gli uomini capiranno che non si può fare del male all’altro in nome di Dio o della ragione, ci sarà una grande novità: ognuno si vergognerà della propria stoltezza e agirà secondo sapienza. I “mea culpa” di Giovanni Paolo II sono la cosa più bella che la Chiesa abbia fatto: riconoscere come infedeltà a Cristo i misfatti compiuti in nome di una convinta fedeltà a lui! La stupidità e l’ignoranza hanno recato e recano sempre più danno della cattiveria. La buona fede, soprattutto se presunta, ha nuociuto e nuoce più della malafede. Quando ogni persona e comunità, religiosa o politica, avrà detto il suo mea culpa, ideologico e pratico, il mondo sarà certamente più respirabile. v.3: queste cose faranno perché non conobbero il Padre né me. L’origine della violenza e del male è sempre l’ignoranza dell’amore Padre/Figlio. Non accettare di essere figli, amati dal Padre nel Figlio, rende impossibile vivere da fratelli. Ignorare il Padre comune equivale a non riconoscere se stesso come figlio e l’altro come fratello. Se si esclude il Padre, si può parlare di fraternità, uguaglianza e libertà, ma resta un’ideologia vuota. È come voler l’acqua tagliandosi dalla sorgente, volere i raggi togliendosi dal sole. Che fraternità reale c’è senza il Padre, che uguaglianza c’è se non siamo fratelli, che libertà c’è se non siamo figli? Rifiutare l’amore del Padre è rigettare la fonte della propria vita. v. 4: (di) queste cose vi ho parlato, ecc. È il testamento di Gesù ai suoi discepoli presenti e futuri, che percorreranno il suo stesso cammino di Figlio. Quando verrà l’ora della difficoltà, si
ricorderanno che fu predetta. Allora capiranno che non si tratta di un incidente, ma del mistero stesso di salvezza. non vi dissi queste cose da principio, perché ero con voi. I discepoli hanno bisogno di sentire queste parole ora e non prima. Adesso che Gesù se ne va e queste cose stanno per accadere, possono cominciare a capirne il senso. Alla loro luce coglieranno lo scandalo del crocifisso come glorificazione di Dio e vittoria sul male del mondo.
3. Pregare il testo a. Entro in preghiera come al solito; b. Mi raccolgo immaginando Gesù con i suoi nel cenacolo; c. Chiedo ciò che voglio: non scandalizzarmi dell’odio del mondo; d. Traendone frutto, medito su ogni Parola di Gesù. Da notare: • il mondo ha odiato me prima di voi • il mondo ama ciò che è suo • voi non siete “dal” mondo • il destino di Gesù è lo stesso del suo discepolo • ciò che Gesù ha detto e fatto mostra l’amore di Dio e il nostro peccato • la responsabilità ci viene dalla conoscenza di lui • l’odio contro Gesù è gratuito • lo Spirito ci testimonierà chi è Gesù e ci renderà capaci di testimoniarlo • lo scandalo della croce del giusto • i discepoli saranno perseguitati in nome di Dio! • la non conoscenza di Dio è l’origine della violenza religiosa • le parole di Gesù ci danno luce per comprendere le contraddizioni presenti. 4. Testi utili Sal 35; 69; 73; Is 52,13-53,12; Gv 10,1-21; Gc 5,1-11; 1Pt 1,6-9; 1Pt 2,19-25; 1Pt 3,13-17; 1Pt 4,12-19; 1Gv 2,15-17.
40. CONVIENE A VOI CHE IO ME NE VADA. INFATTI, SE NON ME NE VADO, IL CONSOLATORE NON VERRÀ DA VOI 16,4b-15 16,4b
Ora queste cose non vi dissi all’inizio perché ero con voi.
5
Ma adesso me ne vado da colui che mi inviò e nessuno tra voi mi chiede: Dove vai?
a.
Ma, perché vi ho parlato di queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore.
7
Ma io vi dico la verità: conviene a voi che io me ne vada. Infatti se non me ne vado il Consolatore non verrà da voi; se invece parto lo invierò da voi.
8
E quegli, venuto, convincerà il mondo circa (il) peccato e circa (la) giustizia e circa (il) giudizio:
9
circa (il) peccato perché non credono in me,
10
circa (la) giustizia perché vado al Padre e non mi vedrete più,
11
circa (il) giudizio perché il capo di questo mondo è stato giudicato.
12
Ancora molte cose ho da dire a voi, ma per ora non potete portar(le).
13
Ora quando quegli verrà, lo Spirito della verità, vi condurrà nella verità tutta intera; infatti non parlerà da se stesso, ma parlerà di quanto ascolterà e vi ripeterà le cose che vengono.
14
Quegli mi glorificherà perché prenderà dal mio e (lo) ripeterà a voi.
15
Tutte quante le cose che ha il Padre sono mie: per questo vi dissi che prenderà dal mio e (lo) ripeterà a voi.
1.
Messaggio nel contesto “Conviene a voi che io me ne vada. Infatti, non me ne vado, il Consolatore non verrà da voi” , dice Gesù ai
discepoli che sono tristi per la sua partenza. Riprende il tema centrale dell’ultima cena: il suo andarsene non è fallimento, ma compimento della sua opera. Infatti è per lui il ritorno al Padre e per noi il dono del suo Spirito. Così inizia la nuova presenza: se prima era “con” noi, ora è “in” noi con il Consolatore. La sua assenza è per noi il distacco necessario per nascere e crescere. Queste parole di Gesù sono un conforto per i futuri discepoli che dovranno affrontare le sue stesse difficoltà: lo Spirito della verità testimonierà a loro favore, facendo loro comprendere il significato del suo andarsene come vittoria sul male (vv. 7-11; cf. 15,26) e rendendoli capaci di portare avanti la sua stessa testimonianza (vv. 12-15; cf. 14,25s; 15,27). Si può leggere in continuità la sezione 14,15-16,15. È un’ampia riflessione sull’azione dello Spirito, che unisce la comunità al suo Signore, come il tralcio alla vite. L’andarsene di Gesù crea un vortice che risucchia anche noi dietro di lui. Il tempo tra la sua partenza e il suo ritorno è la storia della nostra vita nello Spirito. Nel c. 16 si tracciano le linee fondamentali di questa storia, che è insieme storia della Chiesa e storia del mondo. La Chiesa infatti testimonia al mondo che la sua verità autentica è l’amore da cui viene e verso cui va. Con il suo andarsene Gesù compie la sua missione, perché ci apre la via del ritorno al Padre. La nostra esistenza di discepoli ha un valore “escatologico”, definitivo: è già ora vita eterna, perché viviamo da figli e da fratelli. Ma ha anche un valore “apocalittico” e “salvifico”: svela e, svelando, dona la vita del Figlio a chiunque l’accoglie. I discepoli, ai quali Gesù ha promesso la pienezza della sua gioia (15,11), sono tristi: vivendo l’amore (15,1213), incontrano l’odio gratuito del mondo (15,18-25) e la persecuzione dei correligionari (16,1-4a). Ma queste
sofferenze sono come il travaglio del parto. In essa viene alla luce la creatura nuova, a immagine del Figlio (cf. Mc 13,9-13p). Mentre sperimentiamo la croce e ci sentiamo in balia del male, in un mondo senza Dio, la potenza dello Spirito ci testimonia della verità del nostro cammino, che è lo stesso di Gesù verso la Gloria. Gesù se ne torna al Padre, ma i discepoli non sanno neppure chiedere “dove” va (cf. 14, 1-6). Sono in ansia sul futuro, suo e loro. Non vedono la sua partenza come glorificazione; è una preoccupazione, che li riempie di tristezza (vv.4b-6). Gesù dice che è bene anche per noi che lui torni al Padre, perché così ci manda il Consolatore ( v. 7), lo Spirito della verità. Questi porterà a compimento l’opera di Gesù, sottraendo il mondo al capo di questo mondo (vv. 811) e introducendo i discepoli sempre più profondamente nel suo mistero di Figlio (vv. 12-15). Con la croce di Gesù, lo Spirito ribalta la situazione. Il mondo, convinto del suo errore, è salvato dalla perdizione e il capo di questo mondo, che pensava di aver trionfato con le armi della menzogna, dell’odio e del potere, è sconfitto dal Figlio che, dando la vita per amore, vince ogni menzogna, odio e potere di morte. Lo Spirito è come luce, che inevitabilmente dissipa la tenebra: fa vedere al mondo il proprio inganno e rivela ai discepoli ciò che ancora non hanno capito. Con la sua forza li rende capaci di “portare” il peso di ciò che Gesù ha detto. In questo modo lo glorificherà in loro, trasformandoli a sua immagine, per mostrare al mondo la sua gloria di Figlio. Lo Spirito di Dio, principio della creazione, compie la sua opera nella liberazione dell’uomo, generandolo a una vita filiale. Questo è il frutto abbondante (15,1-17) di chi ama Gesù, le “opere più grandi” (14,12) che compirà chi viene dopo di lui. La partenza del Figlio avvia il cammino dei fratelli dietro di lui. Come lui li ha attirati a sé, così essi, con la loro testimonianza, attireranno a lui tutti, fino a quando sarà completo il disegno del Padre, che vuole salvare il mondo (cf. 3,16s). La vita nello Spirito del Figlio, propria del discepolo, è unione affettiva, ma anche effettiva con Gesù: con e come lui, porta avanti il processo di salvezza per tutti. Come già detto, il tempo che c’è tra l’andata di Gesù e il suo ritorno, è la storia del nostro ritorno al Padre, che si compie giorno dopo giorno nel segno dell’amore verso i fratelli. La sua assenza da noi è ormai la sua presenza in noi e, attraverso di noi, al mondo intero. L’andata di Gesù è come il sorgere del sole che raggiungerà il pieno fulgore, lo scaturire della sorgente che feconderà la terra, l’inizio del regno dell’amore che, trasmettendosi dall’uno all’altro, trionferà su tutti. Gesù, nel suo andarsene al Padre, ci dona il suo Spirito. Questo ci dà coscienza dell’inganno in cui vive il mondo e capacità di vivere il suo stesso amore di Figlio. La Chiesa vive di questo Spirito, per continuare nella storia la stessa testimonianza del Figlio a favore dei fratelli. 2.
Lettura del testo v. 16,4b: Queste cose non vi dissi dall’inizio. “Queste cose” sono sia l’andarsene di Gesù, che ritorna al Padre,
sia il destino del discepolo, che compie nel mondo il suo stesso cammino di Figlio. perché ero con voi. Questo discorso, come già il c. 15, è fatto nell’ottica di un Gesù che già se ne è andato (cf. commento a 14,31b). Era con noi, per custodirci (17,2), ma ora è assente. Si tratta di un’attualizzazione delle sue parole per la comunità che verrà dopo. v. 5: adesso me ne vado. Gesù non dice mai che muore. Il suo andarsene è un ritorno al Padre che l’ha inviato a compiere la sua missione. Ora, dopo averla portata a termine, è glorificato, presso il Padre.
nessuno mi chiede: dove vai? (cf. 13,36.37; 14,5.8.22). I discepoli ignorano che il “dove” del Figlio è la comunione piena con il Padre e i fratelli. Non osano neppure chiedere dove stia andando: non capiscono la sua croce come realizzazione piena dell’amore. Si trovano nella situazione di smarrimento che colpì gli Undici e colpirà sempre anche la Chiesa: la morte sembra la parola definitiva, la croce il fallimento di tutto. Sono come i discepoli di Emmaus, che vedono naufragata ogni loro speranza (cf. Lc 24,21). v. 6: la tristezza ha riempito il vostro cuore. Come tutti piangevano per la morte di Lazzaro (cf. 11,33-35), anche i discepoli hanno con il cuore gonfio di tristezza per la morte di Gesù. Si sentono orfani (cf. 14,18). Non hanno ancora capito il mistero del chicco di grano (cf. 12,24). Sono come le donne al sepolcro, che cercano tra i morti colui che è vivo (Lc 24,5); come la Maddalena piangente, che cerca il suo Signore e non lo trova. Eppure le sta davanti agli occhi (20,11ss). L’esperienza di risurrezione sarà il passaggio dalla tristezza alla gioia, per opera del Consolatore che ci fa entrare nella gloria del Figlio. v. 7: vi dico la verità. La nostra tristezza è frutto della menzogna di chi non sa da dove viene e dove va. Gesù ci dice la verità: la sua morte è un andare al Padre dal quale viene. conviene a voi che io me ne vada. Già Caifa, senza saperlo, disse che “conviene” a tutti che lui muoia (cf. 11,59). se non me ne vado, il Consolatore non verrà da voi. Gesù, il Figlio, andandosene ci dà la pienezza dell’amore del Padre: ci consegna il suo Spirito, che ci fa nascere dall’alto (3,3-5), ci vivifica (6,63) e ci invia ai fratelli, portando a tutti la riconciliazione (20,22s). Il “Consolatore” vincerà ogni nostra solitudine. Egli, che prima era “presso” di noi nella presenza terrena di Gesù, dopo la sua partenza dimorerà sempre “in” noi (14,17b). Il dono più stupefacente di Dio è la coscienza che lui è in noi, più intimo a noi di noi stessi. È “commovente, fino a strappare lacrime di esultanza”, pensare che il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19). Se Gesù non va in croce, questo Spirito ci resta ignoto. se invece io parto, lo invierò a voi. Sulla croce infatti ci consegnerà lo Spirito (19,30), inviato a noi dal Figlio, come il Padre (cf. 14,18). v. 8: quegli, venuto. L’ottica è quella di dopo Pasqua, quando Gesù avrà consegnato il suo Spirito. Nei vv. 8-15 si descrive la sua opera, prima nei confronti del mondo (vv. 8-11), poi nei confronti dei discepoli (vv. 12-15). convincerà il mondo circa (il) peccato (cf. v. 9). Si può tradurre “convincerà” oppure “accuserà”. Ma lo Spirito di Dio non è accusatore (= satana), bensì consolatore (= paraclito, avvocato). Egli farà comprendere al mondo, non solo ai giudei, “il” peccato, di cui è vittima: non accettare il Figlio. Chi ha condannato Gesù capirà che lui è il salvatore del mondo (4,42), l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29). circa (la) giustizia (cf. v. 10). Qui per giustizia si intende chi ha ragione. Il mondo capirà che Gesù ha ragione: scoprirà l’inconsistenza di ciò su cui fonda il proprio agire e vedrà la bellezza dell’amore. circa (il) giudizio (cf. v. 11). Qui giudizio significa condanna. Lo Spirito sulla croce farà capire il giudizio di Dio, che condanna il peccato e salva il peccatore. v. 9: circa (il) peccato perché non credono in me. Nei vv. 9-11 si specificano le tre azioni costanti del Consolatore nei riguardi del mondo. Egli lo illuminerà sul suo errore, convicendolo di peccato; gli farà scoprire la menzogna di cui è vittima, facendogli capire ciò che è giusto; così lo salverà dal suo male, mostrandogli qual è il giudizio di Dio.
Qui si dice che “il” peccato del modo è non credere in Gesù, il Figlio di Dio che è venuto a rivelarci l’amore del Padre. Il nostro errore, sin dall’inizio, è non credere all’amore di Dio. Guariremo da questo peccato contemplando il Figlio dell’uomo innalzato, dove vedremo che Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito per salvarlo (cf. 3,16s). Questa incredulità non è solo un fatto passato: opera anche al presente in coloro che “non credono in me”, perché non hanno ancora riconosciuto e creduto l’amore che Dio ha per loro (cf. 1Gv 4,16). v. 10: circa (la) giustizia, perché vado al Padre. Il Consolatore, svelando la menzogna di satana, mostrerà che Gesù ha ragione e il mondo ha torto: la sua croce non è umiliazione e sconfitta, ma glorificazione e trionfo dell’amore. non mi vedete più. Non vedremo più Gesù nella carne, perché è presso Dio. Lo rivedremo grazie allo Spirito (cf. 16,16ss), che ci fa vivere di lui e come lui. v. 11: circa (il) giudizio. Il mondo, che ha giudicato e condannato il Figlio, capirà la croce come giudizio di Dio contro il male e salvezza dell’uomo. La croce infatti è rivelazione piena dell’amore vittorioso di Dio. Con essa il Figlio ha espulso il capo di questo mondo (12,31; 14,30), che ci teneva schiavi nella sua menzogna su Dio. v. 12: ancora molte cose ho da dire a voi. Gesù, col suo andarsene, ci ha detto tutto su Dio: non può dirci o darci di più. Ma l’amore sorpassa ogni conoscenza: c’è sempre un di più da capire, che rimane non detto. Lo Spirito ci farà capire il “non detto” di ciò che Gesù ha detto (cf. v. 13). Il Consolatore attualizzerà nella storia la sua presenza, “parlando” qui ora di ciò che egli “ha detto” allora. Tutta la storia è compimento della rivelazione del Figlio, alla luce dell’amore che accresce la conoscenza e della conoscenza che accresce l’amore. ora non potete portarle. Solo dopo la croce, dove vediamo e accogliamo il suo amore, comprendiamo ciò che lui ha detto e fatto. Siamo finalmente in grado di portare il peso delle sue parole. Per l’uomo la parola, principio di tutto, ha un peso specifico superiore a qualsiasi altra realtà! Nei vv. 12-15 si parla dell’azione del Consolatore nei confronti dei discepoli: è maestro interiore, che prolunga in loro il parlare della Parola diventata carne. Gesù, raccontato dal Vangelo, è la lettera che dice tutto: lo Spirito d’amore è come la luce, che lo fa comprendere e vivere. La sua carne, come la lettera che la racconta, è un segno che solo l’amore sa leggere nel suo significato. v. 13: quando verrà lo Spirito della verità. Il Consolatore è chiamato lo Spirito della verità, che sbugiarda lo spirito della menzogna che ci domina(va). Egli verrà a noi quando contempleremo il Trafitto che, dall’alto della croce, ci dà il suo Spirito (cf. 19,30-37). vi condurrà nella verità tutta intera. Questa affermazione non è da intendere come se Gesù fosse una “mezza verità”, che poi lo Spirito completerà: è già la verità “tutta intera”. Lo Spirito d’amore ci introdurrà in essa e ce le renderà sempre più trasparente, guidandoci nel suo stesso cammino di verità e di vita. La “carne” di Gesù infatti ci ha mostrato tutta la gloria di Dio. Ma questa non è mai totalmente capita e sarà sempre più comprensibile all’infinito, perché infinita. È una verità dinamica, un cammino di comprensione e di amore senza fine. non parlerà da se stesso, ma parlerà quanto ascolterà. Cessato il “dire” di Gesù, continuerà il “parlare” dello Spirito in noi, che renderà presenti a noi le sue parole. Lo Spirito non dice nulla di diverso di quanto il Figlio ha detto. Però, essendo amore, farà risuonare nel nostro cuore ciò che ha ascoltato in quello di Dio. Solo l’amore rende presente e fa comprendere l’amato. vi ripeterà. Nei v. 13-15 esce tre volte questa parola, che significa: “ripetere, annunciare di nuovo, interpretare”. L’amore ci rende atti a ricevere la rivelazione del Padre e del Figlio. La Parola diventata carne ci ha
rivelato tutto: lo Spirito ce la ripete e annuncia sempre di nuovo, dandoci la luce per interpretarla e viverla nella nostra situazione concreta. Per l’uomo ogni realtà esiste in quanto la conosce e vale secondo l’interpretazione che ne dà. le cose che vengono. L’espressione “vi ripeterà le cose che vengono”, non significa che lo Spirito rivelerà le cose future. L’uomo, cosciente di morire, è sempre curioso, anzi ghiotto, di previsioni scientifiche e/o oroscopi: la conoscenza delle cose future serve a ingannare il vuoto dell’unica certezza che gli morde lo stomaco. Non significa neppure che lo Spirito rivelerà alla comunità futura cosa dire, in modo eventualmente infallibile. “Le cose che vengono” sono il regno del Messia, che viene a salvare il mondo (cf. 11,27; 12,13). Lo Spirito della verità ci farà comprendere il mistero del Figlio nella storia: è lo Spirito di “profezia”, che ci fa leggere ciò che avviene alla luce di “colui che viene”. La profezia cristiana consiste nel leggere il presente alla luce del passato di Gesù: ciò che è accaduto a lui, accade e accadrà a ogni discepolo, in ogni luogo e tempo. La nostra profezia è “ricordo attualizzante” di Gesù: ci fa vedere cosa lui fa, ora come allora. Anzi, ci dona di vedere la realtà con i suoi occhi di Figlio, che sono gli stessi del Padre. v. 14: quegli mi glorificherà. Gesù è già stato glorificato nella carne dopo aver dato il boccone a Giuda (13,3135): ha rivelato la gloria che il Figlio da sempre aveva, prima della fondazione del mondo (cf. 17,5.24). Qui si parla della glorificazione futura del Figlio nei suoi fratelli, mediante lo Spirito che li farà vivere come lui. Infatti dice Gesù: “Ho dato loro la gloria che tu hai dato a me” (17,22), perché “l’amore con cui mi hai amato, sia in loro e io in loro” (17,26). prenderà dal mio e lo ripeterà a voi. Il Consolatore glorificherà in noi il Figlio prendendo ciò che è suo, la sua comunione con il Padre (cf. v. 15), e comunicandolo a noi. v. 15: tutte quante le cose che ha il Padre, sono mie. Il Figlio è uno con il Padre (10,3): ha la stessa vita e la stessa gloria, lo stesso amore e la stessa volontà di salvare il mondo. Lo Spirito trasmette tutto questo a noi, introducendoci nel mistero della Trinità, amore tra Padre e Figlio che si effonde su ogni creatura. In questo consiste essenzialmente la sua opera, che glorifica il Figlio nei fratelli, fino a che Dio sia tutto in tutti (1Cor 1,28b) per questo dissi che prenderà del mio e lo ripeterà a voi. Gesù ribadisce lo che lo Spirito/amore ci annuncerà sempre di nuovo il mistero del Figlio, fino a imprimerlo nel nostro cuore e farci suo ri-cordo vivo. Così entriamo sempre più pienamente nel suo stesso rapporto ineffabile di Figlio con il Padre, diventando noi stessi figli. Allora la nostra carne, come la sua, sarà “esegesi” del Dio invisibile (cf. 1,18). Questa è la glorificazione del Figlio che lo Spirito della verità condurrà avanti nella storia, grazie al fatto che “se ne va” al Padre. 3.
Pregare il testo
a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando Gesù nel cenacolo con i discepoli.
c.
Chiedo ciò che voglio: il dono del Consolatore, che mi faccia comprendere la vittoria della croce e mi renda capace di testimoniare Gesù qui e ora.
d.
Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.
Da notare: •
ero con voi
•
adesso me ne vado da chi mi inviò
•
la tristezza ha riempito il vostro cuore
•
conviene a voi che io me ne vada
3.
•
se non me ne vado, il Consolatore non verrà da voi
•
il Consolatore convincerà il mondo circa il peccato di non credere in me
•
il Consolatore convincerà il mondo che la croce ha vinto il potere del male
•
lo Spirito di verità vi condurrà nella verità tutta intera
•
vi “parlerà” di quello che io ho detto e vi farà vedere il Regno che viene
•
glorificherà il Figlio in noi, comunicandoci il suo rapporto con il Padre.
Testi utili
Sal 84; Ez 36,22-38; Gv 1,29-34; 3,3-8; 6,63; 7,37-39; 14,26-28; 15, 26-27; 19,30; 20,22-23.
41. NEL MONDO AVETE TRIBOLAZIONE; MA ABBIATE CORAGGIO: IO HO VINTO IL MONDO 16,16-33 16,16
Un poco e non mi vedete più e ancora un poco e mi vedrete.
17
Dissero allora (alcuni) dei suoi discepoli gli uni agli altri: Cos’è questo che dice: Un poco e non mi vedete e ancora un poco e mi vedrete? e: Perché me ne vado al Padre?
18
Dicevano dunque: Cos’è questo “poco” [di cui parla]? Non sappiamo cosa dice!
19
Conobbe Gesù che volevano domandargli e disse loro: Su questa cosa cercate gli uni gli altri, perché ho detto: Un poco e non mi vedete e ancora un poco e mi vedrete?
20
Amen, amen vi dico: piangerete e gemerete voi, il mondo invece gioirà. Voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza diventerà gioia.
21
La donna quando partorisce ha tristezza, perché è giunta la sua ora; ma quando ha partorito il bambino, non ricorda l’afflizione a causa della gioia, perché è nato un uomo al mondo.
22
Anche voi dunque adesso avete tristezza: ma ancora vi vedrò e si rallegrerà il vostro cuore e la vostra gioia nessuno ve la toglie.
23
E in quel giorno non mi domanderete nulla.
Amen, amen vi dico: qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, (la) darà a voi. 24
Finora non chiedeste nulla nel mio nome: chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa.
25
Di tutte queste cose vi ho parlato in similitudini. Viene un’ora quando non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi annuncerò sul Padre.
26
In quel giorno nel mio nome chiederete; e non vi dico che chiederò al Padre per voi.
27
Egli infatti, il Padre, vi vuol bene (vi è amico???) perché voi mi avete voluto bene (mi siete stati amici???) e avete creduto che da Dio sono uscito.
28
Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo e di nuovo lascio il mondo e vado dal Padre.
29
Dicono i suoi discepoli: Ecco, adesso parli apertamente e non parli con nessuna similitudine.
30
Adesso sappiamo che sai tutte le cose e non hai bisogno che alcuno ti interroghi; per questo crediamo che sei uscito da Dio.
31
Rispose loro Gesù: Ora credete?
32
Ecco, viene un’ora, ed è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo. Ma non sono solo, perché il Padre è con me.
33
Di queste cose vi ho parlato, affinché in me abbiate pace.
Nel mondo avete tribolazione; ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo! 1.
Messaggio nel contesto “Nel mondo avete tribolazione; ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo”, sono le parole di Gesù ai
discepoli che tra poco non lo vedranno più. Paurosi e increduli per la sorpresa, lo rivedranno poco dopo, il mattino di Pasqua, in “quel giorno” che è il giorno del Signore. Ma prima passeranno due giorni di angustia. Il primo è quello in cui lo vedono ancora nella carne, in cammino verso la croce: è il “poco” tempo del venerdì Santo. Il secondo è quello in cui non lo vedranno, perché giacerà nel sepolcro: è il “poco” tempo del sabato santo. Nel primo lo vedono innalzato da terra; nel secondo non lo vedono, perché posto sotto terra. Sono due giorni di tribolazione e pianto: uno di smarrimento per ciò che accade, l’altro di angoscia per ciò che è accaduto. Sono i due tempi in cui si compie il destino del Figlio dell’uomo, che ogni uomo attraverserà nel suo cammino da “questo mondo” al Padre, per giungere alla gioia completa. Questi due tempi, pur essendo breve preludio a un tempo ben diverso, a chi li vive sembrano un unico, interminabile tempo. L’angoscia infatti oscura ogni orizzonte e proietta l’ombra presente su ogni futuro. Ma è solo il tempo del chicco di grano che muore per portare molto frutto (12,24), delle doglie del parto, che fanno venire alla luce l’uomo nuovo. Questo periodo di travaglio, che si prolunga dal venerdì al sabato santo, dura in realtà quanto l’esistenza di ogni persona e abbraccia l’arco di tutta la storia, in cammino verso l’aurora senza tramonto del giorno di Pasqua. Allora il Signore si farà vedere, di mattina a chi lo cerca come la Maddalena (20,11ss), di sera agli altri (cf. 20, 19ss) e, otto giorni dopo, a chi quel giorno non c’era (20,26ss). Tuttavia questo tempo resta pur sempre “breve”, perché transitorio – come i nostri anni che sfumano in un soffio (Sal 90,9), come la scena di questo mondo che presto scompare (1Cor 7,31). È il tempo, “ormai diventato breve” (1Cor 7,29), della Chiesa nel mondo, che ricalca le orme del Verbo fatto carne: è il tempo di Maria e di chi l’ha visto in croce, il tempo delle donne del sabato santo, custodi silenziose del dono di Dio, già dato ma non ancora conosciuto. È il tempo dell’assenza, in attesa che sorga in noi il sole che illumina il nuovo giorno. È il tempo, comune a ogni uomo, del grande “silenzio di Dio”, in cui sulla croce dona tutto se stesso e nel sepolcro si dona a tutti, per parlarci poi definitivamente nella gioia dello Spirito. In questo tempo ci poniamo le domande fondamentali. Ci chiediamo innanzi tutto dov’è il Signore che cerchiamo e come possiamo vederlo (vv. 16-22); vogliamo inoltre capire qual è il nostro nuovo rapporto con il Padre (vv. 23-28); vogliamo infine sapere se la nostra fede è autentica o illusoria, presunta o reale (vv. 29-31). Sono gli interrogativi che la Chiesa si è posta dopo che Gesù se ne è andato e che ancora si pone nell’attesa del suo ritorno. Come e quando troviamo colui che cerchiamo? Che senso ha questa storia dopo di lui, senza di lui? Come vivere la sua assenza? Quando sarà il suo ritorno? Queste domande si condensano nel detto di Gesù, ossessivamente ripetuto: “Un poco e non mi vedete più e ancora un poco e mi vedrete” (vv. 16.17.18.19). Che valore ha per noi questo “poco” tempo in cui Gesù si assenta per andare al Pare e mostrarsi a noi di nuovo (v. 17b)? Gesù dice che, in questo “poco” tempo, i suoi discepoli saranno tristi e afflitti. Ma presto saranno nella gioia, quando capiranno che il suo andarsene è per lui un tornare al Padre e per noi un ricevere il dono del suo Spirito. Sarà la sorpresa della Maddalena piangente al sepolcro (20,11-18), che si ripeterà per i discepoli e per Tommaso chiusi nel cenacolo (20,19-29), come dopo per i sette sul lago di Tiberiade (21,1ss).
Ciò che è accaduto allora, accade anche ora e sempre ai discepoli, chiamati a fare la stessa esperienza dei primi. Quando subiranno le medesime afflizioni del loro Signore che “ha vinto il mondo”, capiranno nello Spirito che stanno facendo il suo stesso cammino. Allora lo vedranno nella propria vita, conformata alla sua, e gioiranno di una gioia che nessuno può rapire. L’esistenza cristiana ha come modulo l’esistenza terrena di Gesù: la conoscenza di lui e della potenza della sua risurrezione ci fa partecipare alle sue sofferenze e alla sua morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti (Fil 3,10s). La gioia della risurrezione sta al principio e alla fine del nostro cammino: nel mezzo c’è il “poco tempo” in cui partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare alla sua gloria. Il tempo, prezioso, della nostra tristezza e del nostro non vedere il Signore è quello che impieghiamo a comprendere, sotto la guida dello Spirito, la sua presenza scandalosa sulla croce e la sua assenza dolorosa negli abissi, mistero ineliminabile della vita sua e nostra (cf. At 4,27). Dopo abbiamo una gioia inalienabile, perché vediamo la storia come il travaglio che genera il mondo nuovo (cf. Rm 8,28), il corpo totale del Figlio ( cf. Ef 4,13b), il cui capo è già venuto alla luce. Per questo i discepoli gioiscono nelle persecuzioni subite a causa del nome di Gesù (cf. Mt 5,11s; At 5,41; 2Cor 1,3-7; Gc 1,2-4; 1Pt 1,6-7; Eb 12,11). Completano infatti nel loro corpo quello che ancora manca ai patimenti del Figlio per la salvezza dei fratelli (cf. Col 1,24). Dopo la partenza di Gesù, il nostro rapporto con il Padre sarà molto più profondo: il dono dello Spirito d’amore ci farà dimorare nel Figlio e ci darà libero accesso al Padre. “Nel suo nome”, uniti a lui, siamo figli e possiamo chiedere e ottenere tutto dal Padre. Il poco tempo dell’afflizione è il passaggio necessario per giungere alla gioia compiuta (cf. At 13,22), che consiste nel vedere con chiarezza il nostro rapporto di figli con il Padre: il Padre ci ama come ama il Figlio e il Figlio ci ama come lo ama il Padre. E noi possiamo dire: “Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1Gv 4,16). Il c. 16 tratteggia la vita del credente nel “breve tempo” della sua esistenza: è un passaggio dalla tristezza alla gioia, dal non vedere al vedere, dal non capire al comprendere il mistero della croce e della sua vittoria. L’opera propria di Dio e del suo Spirito è farci compiere questo passaggio, che è la nostra pasqua di liberazione. La gioia, colore proprio di Dio, è il frutto maturo dell’amore. Non si tratta di euforia o superficialità. Conosce difficoltà e tribolazioni, contraddizioni e dolori (cf. 2Cor 1,3-7). È quella la gioia che scaturisce dalle ferite del Risorto (20,20). L’andarsene di Gesù segna il passaggio, faticoso ma bello, alla vita adulta, libera e responsabile, di chi ama come è amato. Questo è il compimento della missione del Figlio, rivelazione della gloria di Dio e salvezza dell’uomo. Gesù, andandosene, ci dà la sua stessa intimità con il Padre e ci abilita a fare il suo stesso cammino. La Chiesa vive nella storia il passaggio – è la sua pasqua! – tra il poco tempo dell’afflizione di chi non vede il Signore e il tempo della gioia di chi lo vede: vive le proprie afflizioni comprendendole, alla luce della croce, come doglie del parto per un’umanità nuova. 2.
Lettura del testo v. 16: Un poco e non mi vedete più (cf. 7,33, 13,33, 14,9). Questo poco tempo in cui Gesù è ancora visibile
prima di scomparire, è quello che va dall’ultima cena alla deposizione nel sepolcro. È il tempo in cui Gesù compie il ritorno al Padre che l’ha inviato e ci lascia il suo Spirito. È l’ultimo tratto della sua vita terrena, in cui si realizza ciò di
cui tutto il resto è segno. È il tempo in cui si fa vedere pienamente: manifestando la gloria dell’amore compiuto, ci rivela l’essenza di Dio e dell’uomo. I discepoli, acciecati e scandalizzati, lo lasciano solo (v. 32). e ancora un poco e mi vedrete. Questo secondo poco tempo, in cui Gesù resta invisibile per poi mostrarsi di nuovo, è quello che va dalla sua sepoltura al mattino di Pasqua, quando i discepoli lo rivedranno. È, come il primo, un tempo difficile. Ma, nell’incontro con il Risorto, dolore, paura e delusione si scioglieranno in gioia, fiducia e speranza. L’evangelista usa due diverse parole per indicare “il vedere” del primo e del secondo tempo: nel primo usa oráo, nel secondo theoréo (cf. 20,18.20.25.29), per sottolineare la differenza che c’è tra il vedere Gesù nella carne e il vederlo risorto nella forza dello Spirito. In questo secondo tempo il mondo non lo vedrà più, mentre i discepoli lo vedranno, “perché io vivo e voi vivrete”, aveva detto Gesù (14,19): lo vedranno perché avranno il suo stesso Spirito. Il senso del c. 16, enigmatico per gli ascoltatori di Gesù, è chiaro per i lettori del Vangelo. Si parla di due momenti. Nel primo i discepoli lo vedono ancora per poco, prima che muoia e scompaia nel sepolcro; nel secondo non lo vedono più, per rivederlo come risorto. Come già detto, sono rispettivamente il venerdì e il sabato santo, due giorni di lutto che portano al terzo giorno, della gioia senza fine. Il primo è segnato da scandalo, peccato e abbandono; il secondo da ripensamento, conversione e ritorno. Sono i due tempi ineliminabili del nostro passaggio, con Gesù, dal mondo al Padre. Nel primo crollano gli idoli dell’uomo, con quanto pensa, ama e spera; nel secondo germoglia una nuova attesa, che apre alla promessa di Dio. Ambedue i tempi sono di tristezza. Ma sono due tristezze diverse. La prima, che viene dal mondo, produce peccato e morte; la seconda, che viene da Dio, produce pentimento e salvezza (cf. 2Cor 7,8-10). Di ambedue si serve lo Spirito di verità: mediante la prima convince il mondo del proprio male (cf. vv. 8-10), mediante la seconda guida il discepolo alla verità, dandogli la forza di portarne il peso (cf. vv. 12-13), fino a condurlo alla gioia piena. Ciò che vale per i discepoli di allora, vale anche per noi, lettori del Vangelo. Tutti infatti passiamo attraverso questi due tempi di afflizione per giungere alla gioia. La Pasqua è il modulo stesso della vita spirituale, intesa come passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla conversione, dalla desolazione alla consolazione, dall’afflizione alla gioia. Ognuno compie in sé il mistero pasquale ed è chiamato a leggere la propria esistenza attraverso quella dei primi discepoli, per giungere alla Gloria, nella visione del Risorto. Il primo tempo, quello della fuga che termina nel non vedere Gesù, ci rivela “Io-Sono”, il salvatore che porta su di sé il peccato del mondo. Il secondo tempo, quello del ritorno che ci fa comprendere il mistero del suo amore, ci porta a vedere per sempre il Signore. v. 17: cos’è questo che dice, ecc. Quanto Gesù ha detto al v. 16 è ripetuto di seguito tre volte, una ancora da lui e altre due dai discepoli (vv.17.18.19). Questi non capiscono e si interrogano cosa significhi. Il centro della fede cristiana è capire il venerdì e il sabato santo, che sono rispettivamente il “poco tempo” in cui vedono e non vedono Gesù, per vederlo poi come risorto. Il tempo del silenzio di Dio è quello dell’uomo che ascolta e non comprende. perché me ne vado al Padre? (cf. v. 10). I discepoli si chiedono pure cosa significhi ciò che Gesù ha appena detto: “Me ne vado al Padre” (v. 10; cf. 13,1). Se capissero questo, capirebbero anche il resto. Infatti tra poco non vedranno più Gesù nella carne e tra poco lo vedranno nello Spirito, proprio perché lui se ne va al Padre, dal quale è uscito (cf. v. 28). Quando coglieranno la croce come gloria del Figlio tornato al Padre, allora essa non sarà motivo di tristezza, ma di gioia: non sarà la fine di tutto, ma la sorgente di una vita nuova nell’amore. v. 18: cos’è questo “poco”? I discepoli non vedono ciò che distingue i due tempi, ma ciò che materialmente li accomuna. Per questo si concentrano sul “poco” (tempo) di cui Gesù parla. Ignorano che il tempo è come la vita: uguale per tutti, si differenzia per lo Spirito con cui si vive.
Questo “poco tempo” di cui Gesù parla, a un orecchio attento, richiama “il breve tempo” che manca per il giudizio di Dio (Os 1,4; Is 20,25; Gv 51,33; Ag 2,6) e la sua salvezza (Is 19,27). non sappiamo cosa dice. Ignorando che cosa significhi: “Me ne vado al Padre”, i discepoli non comprendono né che tra poco non lo vedono più, né che poco dopo lo vedranno ancora: non capiscono né la sua morte né la sua risurrezione. Queste cose le capiranno solo “dopo” (cf. 13,7), quando tutto sarà compiuto (19,30). Ma è importante che siano dette prima, in modo che, quando accadranno, conosceranno la verità della Parola, che tutto dice e compie. v. 19: conobbe Gesù che volevano domandargli, ecc. La mia parola non è ancora sulla lingua e il Signore già la conosce tutta (Sal 139,4). Gesù, Parola del Padre per mezzo di cui tutto fu fatto (1,3), sa tutto (cf. v. 30) e risponde senza che i discepoli lo interroghino. Ripete la loro domanda, che riprende ciò che ha appena detto, per spiegarlo subito dopo. È determinante capire questo punto, che contiene in sintesi il mistero dell’esistenza del discepolo, strettamente legata a quella del suo Maestro. v. 20: amen, amen vi dico. Con autorità divina, Gesù fa luce sul nostro futuro di persone che partecipano al suo stesso destino di lotta e di vittoria sul male. piangerete e gemerete voi, il mondo invece gioirà; voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. I due tempi sono di lamento e tristezza, sia per il suo innalzamento sulla croce che per il suo abbassamento nel sepolcro. Sono i due tempi, rispettivamente del giudizio e della salvezza di Dio, che i discepoli faticheranno a capire. Il mondo riterrà di aver vinto, la tenebra penserà di aver catturato la luce. Ma sarà beffato, ed espulso, il capo di questo mondo. E il mondo sarà salvato. Allora la tristezza dei discepoli si muterà in gioia, il loro lamento in danza, la loro veste di sacco in abito di gioia (Sal 30,12). v. 21:
la donna quando partorisce ha tristezza perché è giunta la sua ora. Gesù paragona il tempo
dell’afflizione a quello della donna in procinto di partorire. In questo modo fa capire la fecondità del momento che il discepolo attraversa. Anche il chicco muore per portare frutto (cf. 12,24). Il termine “donna” – usato per la madre di Gesù all’inizio e alla fine del Vangelo (2,4; 19,26), la Samaritana (4,7.9b.11.15.17.19.21.25.25.27.28.39), l’adultera (8,3.4.9.10) e la Maddalena (20,13.15) – evoca il popolo di Dio, la sposa con-sorte dello Sposo. Anche per lei giunge l’ora, in cui condivide la sua stessa sorte. Questa donna richiama la madre dei viventi, Eva che acquista “un uomo” (Gen 4,1). Ritroviamo la stessa immagine nell’Apocalisse: la donna incinta, che grida nel travaglio del parto, insidiata dal drago (Ap 12,2s). Ci sono anche allusioni a Is 26,17s; 66,7-10. I due splendidi testi, che parlano della salvezza inattesa e gloriosa di Dio, fanno da sfondo interpretativo alla metafora usata da Gesù. L’evangelista parla spesso di generazione. Il tema fondamentale del suo vangelo è la Parola, che ci dà il potere di nascere figli di Dio (cf. 1,13; 3,3-8; 8,41 e l’episodio del cieco nato: 9,2.19.20.32-34). L’afflizione, che il discepolo è chiamato a sostenere nel mondo, è la stessa del suo Maestro e Signore: una tribolazione quale non fu dalla creazione del mondo né mai più ci sarà (cf. Mc 13,18). Essa però non conduce alla morte: è “principio di doglie” (Mc 13,8b). L’umanità, il creato stesso, è “gestante”: geme nelle doglie del parto, in attesa impaziente della rivelazione dei figli di Dio (Rm 8,19). Il discepolo è turbato per la prova che gli sta davanti. Lo è stato anche Gesù, che subito fu confortato dalla voce del cielo (cf. 12,27s). Ora ci conforta lui direttamente, con la sua parola. La prova, breve, è fonte di gloria perenne. quando ha partorito il bambino, non ricorda l’afflizione. Gesù vuol far comprendere ai discepoli che la loro afflizione è breve e feconda di vita. Le “doglie” del parto infatti, anche se molto dolorose, non sono mortali: espellono il Figlio dalla madre, lo fanno nascere alla sua vita.
a causa della gioia, perché è nato un uomo al mondo. Quest’uomo è il nuovo Adamo, il Figlio, che sulla croce viene alla luce e illumina il mondo. Quest’uomo è ciascun discepolo, che percorrerà la stessa via del suo Maestro. Si tratta di una nascita – è “il natale dell’anima” – che produce in noi la gioia, caratteristica propria di quel Dio che è amore. v. 22: anche voi adesso avete tristezza. Il discepolo, davanti alla croce, è triste come la donna per la quale è giunta l’ora del parto. ma ancora vi vedrò. Gesù risorto vedrà ancora i suoi discepoli, come sarà visto anche da loro: sarà la gioia dell’incontro pasquale. Gli ultimi discorsi di Gesù non sono un addio. Sono piuttosto un arrivederci gioioso, dopo una dolorosa separazione. Madre e figlio si vedono reciprocamente solo dopo il distacco del parto! la vostra gioia nessuno ve la toglie. Questa gioia, che viene dalla croce, è invincibile: è amore e vita che vince l’odio e la morte stessa. v. 23. e in quel giorno. Si pone una connessione – la congiunzione “e” – tra la gioia e “quel giorno”, che è quello di Pasqua (cf. 20,19s). “Quel giorno” sarà la nascita dell’uomo nuovo, in una vita che dura sempre. È il giorno definitivo, il giorno del Signore. Allora il silenzio di Dio diventa “la Parola”; al tempo di incomprensione e tristezza, succede quello di comprensione e gioia. non mi domanderete nulla. Domandare (erotáo) significa anche pregare. I discepoli non domanderanno più nulla, perché sapranno che il Signore è con loro (cf. 21,12). Allora avranno capito ciò che ancora non possono intendere. qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, ve la darà (cf. 14,13s; 15,7-16; Mt 7,7-11, Lc 11,913).Chiedere (aitéo) indica la preghiera di richiesta. In quel giorno, uniti a Gesù (“nel mio nome”), otterremo dal Padre tutto ciò che chiediamo. Otteniamo lui stesso come nostro Padre! Colui che tanto ci ha amato da darci il suo Figlio unigenito (cf. 3,16), come non ci donerà ogni cosa insieme a lui (cf. Rm 8,32)? v. 24: finora non chiedeste nulla nel mio nome: chiedete e riceverete. Tra poco ci darà il suo Spirito: uniti a lui, nel suo nome, abbiamo il suo stesso rapporto con il Padre e da lui otteniamo tutto. La nostra preghiera è pienamente esaudita, oltre ogni speranza. Siamo infatti figli nel Figlio, nelle cui mani il Padre ha posto ogni cosa (3,35; 13,3), perché è una sola cosa con lui (10,30). Gesù non è solo il mediatore tra noi e il Padre: ci dà il suo stesso rapporto con lui (1,12), per cui siamo chiamati e siamo realmente figli (cf. 1Gv 3,1). Per questo è bene per noi che lui se ne vada, altrimenti non riceviamo il suo Spirito (v. 7). Infatti il dono certo che la nostra richiesta ottiene dal Padre, è quello dello Spirito Santo, che ci fa suoi figli (cf. Lc 11,13) affinché la vostra gioia sia completa. Donandoci il suo amore “compiuto” (13,3), il suo stesso Spirito (19,30), abbiamo la gioia piena del Figlio, che ama com’è amato dal Padre. È la gioia profonda dell’uomo nuovo, il Figlio che dimora in noi quando accogliamo il suo amore. v. 25: vi ho parlato in similitudini. Finora Gesù ha parlato in similitudini. Anche tutta la sua azione è similitudine, segno della Gloria (2,11) che presto ci rivelerà e donerà. viene un’ora quando non vi parlerò più in similitudini. Tra poco viene un’ora, che è l’ora in cui tutto si compie. Allora Gesù non ci parlerà più con parole e similitudini, ma con il dono della sua carne e del suo Spirito. Dai segni della Gloria passeremo alla Gloria stessa, che ci farà vedere il significato dei segni. v. 26: in quel giorno, ecc. È “quel giorno” (cf. v. 23) in cui “voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (14,20). Allora tutto sarà chiaro e non gli domanderemo più nulla (cf. v. 23). Sarà il giorno della risurrezione (cf. 20,19), in cui riceveremo lo Spirito (20,22).
In quel giorno chiederemo nel nome di Gesù. E lui non chiederà al Padre per noi, perché in lui avremo diretto accesso al Padre. Grazie al suo andarsene, ci ha fatto dono del suo Spirito, che grida in noi: “Abbà” (Gal 4,6; Rm 8,15). v. 27: il Padre vi vuol bene (vi è amico???), perché voi mi avete voluto bene (mi siete stati amici???). Qui “amare” non è agapáo, che indica l’amore unilaterale di Dio, ma philéo (cf. 5,20; 11,33-36; 20,2; 21,15.16.17bis), che indica l’amore reciproco, di amicizia (cf. 15,13s). Infatti in quel giorno capiremo il suo amore e potremo amarlo come lui ci ha amati. Il Padre ama il Figlio (5,20), da prima della creazione del mondo (17,24b), e ama ciascuno di noi come lui (cf.17,23b), il quale, a sua volta, ci ama dello stesso amore del Padre (14,9). Noi, amando il Figlio, siamo uno con lui, come lui con il Padre (cf. 17,22.26b). Amiamo Gesù, perché lui per primo ci ha amati (1Gv 4,19). La nostra vita è risposta al suo amore, fino a esclamare con Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). e avete creduto che da Dio sono uscito. Riconosciamo l’amore del Padre perché accettiamo Gesù come suo Figlio: crediamo che lui è “uscito” da Dio Padre, come noi da nostra madre. Per questo Dio dimora in noi e noi in Dio (cf. 1Gv 4,15). v. 28: sono uscito dal Padre e sono venuto al mondo (cf. 1,1ss). Gesù è il Figlio, da sempre presso il Padre, venuto nel mondo e diventato carne per raccontarci e donarci il suo stesso amore che ci fa figli. di nuovo lascio il mondo. Gesù ora lascia il mondo che lo odia e uccide. Ma, proprio lasciando il mondo, compirà la sua missione di testimoniare a tutti l’amore del Padre. vado dal Padre. Il senso della sua missione è andare dal Padre, aprendo a noi il cammino verso di lui. Il Figlio è la Parola uscita da Dio, che non torna a lui senza compiere ciò per cui è stata mandata: farà germogliare sulla terra la sua vita (cf. Is 55,10s). v. 29: adesso parli apertamente e non parli con nessuna similitudine. Quanto i discepoli dicono è vero, anche se non lo capiscono. Veramente Gesù innalzato è la Parola, aperta e palese a tutti: è la gloria di Dio che si rivela a noi faccia a faccia. Il resto è segno e similitudine. v. 30: adesso sappiamo che sai tutte le cose (cf. v. 16). Si può sapere che l’altro sa, senza capire ciò che sa. per questo crediamo. I discepoli dicono di credere. Ma la loro è una fiducia ancora cieca e vuota, senza comprensione. Questa sarà frutto del suo andare al Padre: vedendolo in croce, capiremo come lui ci ama oltre misura. Allora la nostra fede sarà illuminata e avrà il suo contenuto: la conoscenza dell’amore del Padre in quello del Figlio. v. 31: ora credete? È un’affermazione ironica da parte di Gesù. I discepoli ora credono di credere; tra poco crederanno di non credere. Ma, quando saranno dispersi e lo lasceranno solo, capiranno che è lui a credere in loro, suoi fratelli, come nel Padre. Non l’hanno ancora visto sulla croce, dove si rivela. Il racconto della passione è lo scandalo incomprensibile della fede: solo lì si conosce “Io-Sono” e si fa esperienza dell’amore di Dio. La loro fede è illusione: non si è ancora confrontata con lo scandalo della gloria di Dio. v. 32: ecco, viene un’ora, ed è venuta. È l’ora della croce, imminente. La passione, iniziata nell’ultima cena, si va concludendo. Il travaglio è quasi alla fine: è l’ora del parto.
sarete dispersi. I discepoli subiranno scandalo: il pastore sarà percosso e le pecore disperse (Mc 14,27-31; Mt 26,31-35), facile preda del lupo (10,12). Vedranno nella croce un fallimento, non il compimento dell’amore. mi lascerete solo. Gesù predice la defezione dei discepoli, come già aveva predetto il rinnegamento di Pietro (cf. 13,36-38). Nella sua solitudine Gesù si rivelerà come l’unico, l’Unigenito del Padre, che ci ama con il suo stesso amore. L’abbandono dei discepoli sarà momentaneo. Proprio in esso Gesù rivelerà la Gloria, amore fedele che non
abbandona neppure chi lo abbandona. Allora noi, con Paolo, potremo esclamare che nulla ormai ci può separare dall’amore di Dio. Ovviamente non da quello che noi abbiamo per lui, ma da quello che lui ha per noi in Cristo Gesù, nostro Signore (cf. Rm 8,38s). ma non sono solo, perché il Padre è con me. Il Figlio affronta questa solitudine perché ama come è amato dal Padre. È il momento in cui c’è la massima sintonia tra i due, l’ora in cui il Figlio rivela il Padre e noi finalmente, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi è il Signore (cf. Ger 31,34). v. 33: di queste cose vi ho parlato. Gesù ha parlato dell’odio del mondo e dell’afflizione che i discepoli e la sua comunità dovranno affrontare dopo di lui, con lui e come lui. affinché in me abbiate pace. Gesù vuol farci superare il turbamento e darci la sua pace, quella del Figlio che ama il Padre e i fratelli. Questa pace è “in me”, dice Gesù: consiste nell’essere “in lui”, con-sorti di lui e del suo destino. La pace è il dono di “quel giorno”, quando il Risorto si manifesta e vince la paura dei discepoli (cf. 20,19). nel mondo avete tribolazione. Proprio mentre “nel mondo” abbiamo tribolazione, “in lui” abbiamo la sua stessa pace di Figlio, che è sempre con il Padre. ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo. Questa tribolazione è il travaglio della nascita del Figlio, che testimonia la pienezza dell’amore ed espelle il capo di questo mondo (12,31). La croce non è la vittoria del male su Dio, ma di Dio sul male: è il trionfo dell’amore. Con questa fede anche il discepolo nasce da Dio e vince il mondo (cf. 1Gv 5,4). 3. Pregare il testo a.
Entro in preghiera come al solito.
b.
Mi raccolgo immaginando Gesù e i discepoli nel cenacolo.
c.
Chiedo ciò che voglio: comprendere le difficoltà e le tribolazioni come doglie del parto per la nascita dell’uomo nuovo.
d.
Traendone frutto, medito e contemplo le parole di Gesù.
Da notare: • un poco e non mi vedete più: la croce e la sepoltura come fine di un modo di vederlo • ancora un poco e mi vedrete: la risurrezione come l’inizio di un nuovo modo di vederlo • perché me ne vado al Padre: la croce come camminare del Figlio verso il Padre • l’incomprensione dei discepoli: cos’è questo “poco”? •
la tristezza per il presunto “fallimento” della croce e per il nostro reale abbandono di Gesù
•
la gioia dell’incontro con lui
•
il passaggio dalla desolazione del venerdì/sabato santo alla consolazione di rivedere il Risorto è descritto come le doglie e la nascita dell’uomo nuovo
•
vi vedrò e si rallegrerà il vostro cuore
•
la vostra gioia nessuno ve la toglie
•
“in quel giorno” non mi domanderete più nulla
•
qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, ve la darà
•
chiedete e riceverete, perché la vostra gioia sia compiuta
2.
•
viene l’ora quando apertamente vi annunzierò il Padre
•
il Padre ama voi
•
voi avete amato me e avete creduto che da Dio sono uscito
•
sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo
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ora lascio il mondo e vado al Padre
•
sappiamo che sai tutto: per questo crediamo
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sarete dispersi e mi lascerete solo
•
ma io non sono solo: il Padre è con me
•
in me abbiate pace: nel mondo avete tribolazione
•
coraggio, io ho vinto il mondo.
Testi utili
Sal 27; 30; Is 26,7-19; 66,5-14; Mc 13; 2Cor 1,3-7; Rm 8,18-30; Eb 11; Ap 12,1-12.