Jules Verne MASTRO ZACHARIUS Titolo originale dell’opera MAITRE ZACHARIUS (1854) Traduzione integrale dal francese di M.TRIBONI Prima edizione: 1967 Terza edizione: 1973 Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy © Copyright 1967-1973 U. MURSIA & C. 708/AC/IV - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29
PRESENTAZIONE Nel racconto Mastro Zacharius, di libera fantasia, il Verne ci mostra taluni lati giovanili e romantici della sua arte. Il racconto è vagamente modellato sulla leggenda del Faust. Anche Zacharius, il miglior orologiaio dì Ginevra, vende al diavolo la propria anima pur di realizzare il sogno di orologi perfetti, di regolare e di vincere il tempo, raggiungendo l'immortalità. Il racconto mette in rilievo, a tratti con grande efficacia inventiva, l'orgoglio della scienza che vuole sostituirsi alla fede e forse non gli sono estranei motivi e intenti che possono persino apparire apologetici. GIOVANNI CRISTINI JULES VERNE nacque a Nantes, l'8 febbraio 1828. A undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Tentò dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone. La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei « Viaggi straordinari - I mondi conosciuti e sconosciuti » e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i
mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina di romanzi o racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica. Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905.
Indice PRESENTAZIONE ______________________________________3
MASTRO ZACHARIUS O L'OROLOGIAIO CHE HA PERDUTO LA PROPRIA ANIMA_________________________ 5 CAPITOLO I ___________________________________________5 UNA NOTTE D'INVERNO ___________________________________ 5
CAPITOLO II _________________________________________13 L'ORGOGLIO DELLA SCIENZA _____________________________ 13
CAPITOLO III_________________________________________21 UNA VISITA SINGOLARE__________________________________ 21
CAPITOLO IV _________________________________________29 LA CHIESA DI SAN PIETRO ________________________________ 29
CAPITOLO V__________________________________________36 L'ORA DELLA MORTE ____________________________________ 36
MASTRO ZACHARIUS O L'OROLOGIAIO CHE HA PERDUTO LA PROPRIA ANIMA
CAPITOLO I UNA NOTTE D'INVERNO LA CITTÀ DI GINEVRA giace sulla estremità occidentale del lago, che ne porta il nome; il Rodano, uscendo dal lago, l'attraversa, dividendola in due quartieri distinti, e si divide esso stesso nel centro della città, a cagione di un'isola, che sorge tra le due rive. Questa disposizione topografica si ripete spesso nei grandi centri commerciali o industriali. I primi abitanti furono attratti senza dubbio dalla facilità dei trasporti che offriva loro la rapida corrente dei fiumi, « queste strade che camminano da sé », secondo l'antico detto; col Rodano poi sono strade che corrono. Quando su quell'isola, ancorata come una barcaccia olandese in mezzo al fiume, non sorgevano ancora costruzioni nuove e regolari, un meraviglioso agglomerato di case addossate le une alle altre presentava all'occhio una confusione assai pittoresca. La piccola estensione dell'isola aveva costretto qualcuna di queste case ad appoggiarsi sopra pali confitti alla rinfusa nella rapida corrente del Rodano; queste grosse travi, annerite dal tempo, corrose dalle acque, assomigliavano alle zampe d'un grosso gambero e producevano talvolta effetti fantastici: fili ingialliti, tesi come quelli delle ragnatele in mezzo a queste costruzioni secolari, s'agitavano nell'ombra come il fogliame morto dei vecchi boschi di querce, e il fiume si sprofondava in quella foresta tenebrosa con lugubri muggiti.
Una di queste abitazioni aeree sorprendeva per il suo strano carattere di vetustà; era la casa del vecchio orologiaio, mastro Zacharius, di sua figlia Gérande, del suo apprendista Aubert Thün e della sua vecchia domestica, Scholastique. Che tipo bizzarro quel mastro Zacharius! La sua età era indefinibile; nessuno tra i più vecchi di Ginevra avrebbe potuto dire da quanto tempo la sua testa magra e sottile vacillava sulle sue spalle, né il giorno in cui lo si era visto la prima volta camminare per le vie della città, lasciando svolazzare al vento la sua bianca capigliatura. Quell'uomo non viveva; egli oscillava, come il pendolo dei suoi orologi; la sua faccia secca e cadaverica assumeva tinte oscure; come i quadri di Leonardo da Vinci, egli tendeva al nero. Sua figlia Gérande occupava la più bella camera della vecchia casa, da cui, attraverso un'allegra finestra, il suo sguardo andava a posarsi melanconicamente sulle cime nevose del Giura; ma la camera da letto e la bottega del vecchio consistevano in una specie di cantina posta quasi a livello del fiume, il cui pavimento poggiava sui pali stessi che reggevano la casa. Da tempo immemorabile mastro Zacharius non ne usciva che all'ora di pranzo e per regolare i vari orologi della città; il resto della giornata lo passava presso un tavolo coperto di numerosi strumenti d'orologeria, che per la maggior parte erano stati inventati da lui. Infatti, egli era un uomo ingegnoso; le sue opere erano molto apprezzate in tutta la Francia e in Germania; i più abili operai di Ginevra riconoscevano apertamente la sua superiorità; e quale onore per questa città maniaca degli orologi, la quale lo additava con orgoglio dicendo: — A lui spetta la gloria d'aver inventato lo scappamento! 1 E infatti, da questa invenzione, che i lavori di mastro Zacharius faranno meglio comprendere, ha avuto origine la vera arte dell'orologiaio. Ebbene, dopo avere lungamente e meravigliosamente lavorato, Zacharius riponeva con lentezza a posto i suoi ferri, copriva con leggere campane di vetro i pezzi più delicati che aveva aggiustato, e dava riposo alla ruota veloce del suo tornio; poi alzava una ribalta, 1
Negli orologi, congegno che serve a garantire la regolarità del movimento.
che egli aveva aperto nel bel mezzo della stanza, e là, appoggiato per ore intiere, mentre il Rodano trascorreva con fracasso sotto i suoi occhi, egli s'inebriava tra quelle vaporose brume. Una sera d'inverno, la vecchia Scholastique pose in tavola la cena, alla quale, secondo le antiche usanze, ella prendeva parte insieme con il giovane operaio. Quantunque gli fossero offerte vivande accuratamente preparate in un bel vasellame bianco e azzurro, mastro Zacharius non mangiò; rispose a malapena alle dolci parole di Gérande, che era visibilmente preoccupata per la taciturnità più asciutta del solito di suo padre; lo stesso cicaleccio di Scholastique passava inascoltato al suo orecchio, come quei brontolamenti del fiume, ai quali egli non prestava più attenzione. Dopo quel pasto silenzioso, il vecchio orologiaio lasciò la tavola, senza abbracciare sua figlia, né dare ai suoi commensali l'usato saluto della sera; egli disparve entro la stretta porticina che conduceva nella sua camera, e sotto i suoi passi pesanti la scala gemette con strani scricchiolii. Gérande, Aubert e Scholastique restarono qualche minuto senza parlare. Quella sera il tempo era scuro; le nuvole trascorrevano pesantemente lungo le Alpi e minacciavano di sciogliersi in pioggia; la rigida temperatura della Svizzera empiva l'anima di tristezza, mentre i venti del sud fischiavano intorno con sinistro mugolio. — Sapete bene, mia cara signorina, — disse alla fine Scholastique, — che da qualche tempo il padrone è tutto chiuso in se stesso. Capisco che non abbia avuto fame; le parole gli sono rimaste nello stomaco, e sarebbe ben bravo il diavolo, se riuscisse a strappargliene qualcuna! — Mio padre ha qualche segreto motivo di preoccuparsi, che io non posso neppure indovinare, — rispose Gérande, mentre una dolorosa inquietudine si manifestava sul suo viso. — Signorina, non lasciate che la tristezza invada in questo modo il vostro cuore; voi conoscete le singolari abitudini di mastro Zacharius; chi può leggere sulla sua fronte i suoi pensieri segreti? Senza dubbio gli è capitata qualche noia, ma domani egli non se ne ricorderà più e gli spiacerà vivamente di aver causato preoccupazioni alla propria figlia! Così parlava Aubert, fissando i suoi sguardi nei begli occhi di
Gérande. Aubert, il solo operaio che mastro Zacharius avesse mai ammesso nella intimità dei suoi lavori, poiché ne apprezzava la grande intelligenza, discrezione e bontà d'animo, si era affezionato a Gérande con quella fede misteriosa, che sostiene i sentimenti più profondi. Gérande aveva diciotto anni; l'ovale del suo viso ricordava le ingenue madonne esposte alla venerazione dei fedeli sull'angolo d'una via nelle vecchie città della Bretagna; i suoi occhi esprimevano una grande semplicità; la si amava come la più soave incarnazione del sogno di un poeta. Le sue vesti erano di colore modesto, e lo scialle bianco, che si avvolgeva intorno alle spalle, aveva quel candore e quella fragranza che sono particolari alla biancheria di chiesa. Ella viveva una vita profondamente religiosa in quella città che non era ancora divenuta preda dei rigori del calvinismo. Allo stesso modo che mattina e sera leggeva le preghiere latine sul messale dal fermaglio di ferro, aveva anche letto un sentimento sconosciuto nell'animo d'Aubert Thün e aveva intuito quella viva tenerezza che l'operaio provava per lei. In realtà, per il giovane, tutto il mondo era racchiuso in questa vecchia casa dell'orologiaio, e, terminato il lavoro, quando lasciava la bottega di mastro Zacharius, trascorreva il suo tempo accanto alla fanciulla. La vecchia Scholastique vedeva chiaro in tutto ciò, ma non diceva nulla; la sua loquacità s'occupava di preferenza delle disgrazie del suo tempo. Non si tentava neppure di trattenerla; era come una di quelle scatole musicali, che si fabbricavano a Ginevra; una volta preso l'avvio, si sarebbe dovuto romperla per impedirle di suonare tutte le sue musichette. Vedendo Gérande immersa in un doloroso silenzio, la domestica si alzò dalla sua vecchia sedia di legno, mise un cero sulla punta d'un candeliere, lo accese e lo pose presso una piccola Madonna di cera posta in una nicchia di pietra. Avevano l'abitudine d'inginocchiarsi davanti a quella Madonna protettrice del focolare domestico, per chiederle protezione durante la notte; ma Gérande rimase silenziosa al suo posto. — Ebbene, mia cara signorina, — esclamò Scholastique con sorpresa, — la cena è finita, ed è giunto il momento di darci la buona
notte. Volete stancare i vostri occhi in una lunga veglia?... Ah! Santa Vergine! Eppure è proprio il caso di dormire e di cercare un po' di gioia in qualche bel sogno. Nei tempi tristi in cui viviamo, chi mai può sperare in un giorno di felicità? — Non sarebbe forse il caso di chiamare il medico per mio padre? — domandò Gérande. — Un medico! — gridò la vecchia domestica; — ha forse dato ascolto qualche volta alle fantasie dei medici e ai loro consigli? Ci possono ben essere dei medici per gli orologi, ma non certamente per il corpo umano. — Che cosa fare allora? — mormorò Gérande. — Si è rimesso al lavoro o è andato a riposare? — Gérande, — rispose dolcemente Aubert, — qualche contrarietà morale rende inquieto mastro Zacharius. Ecco tutto. — E voi la conoscete, Aubert? — Forse. — Diteci di che si tratta, — esclamò vivamente Scholastique, spegnendo il cero da buona massaia. — Da più giorni, Gérande, accade qualcosa d'incomprensibile; gli orologi fatti e venduti da vostro padre si fermano improvvisamente. Gliene è stato riportato un gran numero; egli li ha smontati con attenzione; le molle erano in buono stato, le ruote perfettamente a posto; egli li ha rimontati con cura anche maggiore; ma a dispetto della sua abilità, sono rimasti ferrai. — Qui sotto c'è il diavolo! — esclamò Scholastique. — Cosa intendete dire? — domandò Gérande; — questo fatto mi sembra naturale; tutto ha un limite sulla terra e l'infinito non può uscire dalle mani dell'uomo. — Tuttavia, — rispose Aubert, — è vero che in tutto questo vi è qualcosa di strano e di misterioso. Io stesso ho prestato il mio aiuto a mastro Zacharius nel ricercare le cause di questi strani guasti e non sono riuscito a trovarle; e più d'una volta i ferri mi sono caduti di mano per un sentimento d'impotenza e di disperazione. — E allora, — riprese Scholastique, — perché dedicarsi a questo dannato lavoro? È forse naturale che un piccolo strumento di rame possa muoversi da sé e indicare le ore? Avreste dovuto accontentarvi
della meridiana! — Voi non parlereste così, Scholastique, se sapeste che la meridiana fu inventata da Caino! — Signore Iddio, cosa mi dite! — Credete, — riprese ingenuamente Gérande, — che si possa pregar Dio di ridonare il movimento agli orologi di mio padre? — Senza dubbio, — rispose il giovane operaio. — Ecco delle preghiere inutili, — brontolò la vecchia domestica, — ma il cielo terrà conto dell'intenzione. Il cero fu riacceso; Scholastique, Gérande e Aubert si inginocchiarono sul pavimento di pietra, e la giovinetta, con la sua voce tremante, pregò per l'anima di sua madre, per la santificazione della notte, per í viaggiatori e i prigionieri, per i buoni e i cattivi e soprattutto per le sconosciute tristezze di suo padre. Poi queste tre pie persone si rialzarono con un po' di fiducia in cuore, poiché avevano deposto i loro dolori nel seno di Dio. Aubert salì nella sua camera, Gérande sedette pensierosa alla finestra, mentre gli ultimi riflessi della luce si spegnevano sulla città; e Scholastique, dopo aver versato un po' d'acqua sui tizzoni accesi e tirato due enormi catenacci, si gettò sul suo letto, dove non tardò a sognare che moriva di paura. Frattanto l'orrore di quella notte d'inverno era cresciuto; talvolta il vento s'insinuava insieme con i vortici del fiume tra i pali che sostenevano la casa, e questa ne tremava tutta; ma la giovinetta, pienamente assorta nella sua tristezza, non pensava che a suo padre; dopo le parole d'Aubert Thün, la malattia di mastro Zacharius aveva preso ai suoi occhi proporzioni fantastiche; le pareva che quella preziosa esistenza diventasse puramente meccanica e si muovesse stentatamente sopra i suoi vecchi cardini. D'improvviso la persiana, spinta violentemente dal vento, batté contro la finestra; Gérande trasalì e si alzò di scatto, senza comprendere il motivo di quel rumore, che l'aveva scossa dal suo torpore. Tuttavia la sua emozione si calmò; ella aprì l'imposta; le nubi s'erano squarciate e una pioggia torrenziale scrosciava sui tetti circostanti. La giovinetta si spinse fuori per afferrare la persiana sbatacchiata dal vento, ma ebbe paura; le parve che la pioggia e il
fiume, confondendo le loro acque gorgoglianti, sommergessero quella povera casa, il cui tetto scricchiolava da tutte le parti. Volle scappare dalla stanza; ma scorse sotto i suoi piedi il riverbero di un lume, che doveva uscire dallo stanzino di mastro Zacharius e in uno di quei sinistri momenti di calma, nei quali gli elementi scatenati sembrano riposarsi, il suo orecchio fu colpito da suoni lamentosi. Tentò di richiudere la finestra, ma non poté riuscirvi; il vento la respingeva con violenza, come un ladro che cerca di introdursi in una casa. Gérande credette d'impazzire dal terrore... Che cosa faceva suo padre?... Aprì l'uscio, che le scappò di mano e sbatté rumorosamente sotto l'impeto della tempesta; così si trovò nella stanza oscura, dove avevano cenato, giunse a trovare a tastoni la scala che conduceva alla bottega di mastro Zacharius e vi si lasciò scivolare pallida e tremante. Il vecchio orologiaio stava ritto in piedi in mezzo alla stanza, che rintronava ai muggiti del fiume; i suoi capelli irti gli conferivano un aspetto sinistro; parlava e gesticolava, senza vedere, senza udire. Gérande rimase sulla soglia, agghiacciata di spavento. — È la morte! — diceva mastro Zacharius con voce cavernosa. — È la morte!... Perché vivere ormai se ho disperso la mia esistenza per il mondo! Poiché io, mastro Zacharius, io sono l'anima di tutti codesti orologi; è una parte di me stesso, che io racchiusi in ciascuna di quelle casse di ferro, di argento, d'oro! Ogni volta che uno di questi maledetti orologi si ferma, io sento che il mio cuore cessa di battere, perché io li regolai sulle sue stesse pulsazioni!... E parlando in questo strano modo, il vecchio gettò lo sguardo sul suo tavolo da lavoro. Vi si trovavano tutti i pezzi di un orologio, che egli aveva accuratamente smontato. Egli prese una specie di cilindro vuoto, chiamato bariletto, e nel quale sta rinchiusa la molla; ne trasse la spirale d'acciaio, la quale, invece di distendersi secondo le leggi dell'elasticità, rimase arrotolata su se stessa come una vipera addormentata; essa sembrava legata, rattrappita, come quei vecchi cui il sangue non scorre più nelle vene. Mastro Zacharius si provò inutilmente a svolgerla con le sue magre dita, la cui ombra fantastica si allungava smisuratamente sulla parete, e poco dopo egli la lanciò
con un terribile grido di collera attraverso la botola nei neri gorghi del Rodano. Gérande restava immobile, con i piedi inchiodati in terra, senza respiro, senza moto; avrebbe voluto ma non poteva avvicinarsi a suo padre; era in preda ad una specie di vertiginosa allucinazione. D'un tratto udì nell'ombra una voce mormorare al suo orecchio: — Gérande! mia buona Gérande! Il dolore vi tiene ancora desta! Risalite, vi prego, la notte è fredda. — Aubert! — mormorò a bassa voce. — Non dovrei forse soffrire anch'io delle vostre stesse tristezze? Queste dolci parole rincuorarono la giovinetta; ella s'appoggiò al braccio dell'operaio e gli disse: — Mio padre è molto malato, Aubert; voi solo potete guarirlo. Questo turbamento interiore non può placarsi solo con l'assistenza amorosa della figlia. Egli ha la mente sconvolta da un fatto piuttosto normale, e lavorando con lui ad aggiustare i suoi orologi, voi lo ricondurrete alla ragione; perché non è vero, vi pare, — aggiunse ancora tutta sgomenta, — che la sua vita possa influire sul movimento dei suoi orologi? Aubert non rispose. — Ma allora, questo di mio padre sarebbe forse un mestiere condannato dal cielo? — soggiunse Gérande atterrita. — Non lo so, — rispose l'operaio, riscaldando tra le sue mani quelle ghiacciate della giovinetta. — Ma tornate nella vostra camera, povera fanciulla, e lasciate che l'angelo dei sogni ispiri qualche speranza al vostro cuore. Gérande risalì lentamente nella sua camera e stette fino al sorgere del giorno, senza che il sonno scendesse sulle sue palpebre, mentre mastro Zacharius, muto e impassibile, fissava il fiume, che scorreva rumorosamente sotto i suoi piedi.
CAPITOLO II L'ORGOGLIO DELLA SCIENZA LA SCRUPOLOSITÀ del mercante ginevrino negli affari è divenuta proverbiale; egli è d'una probità rigida e d'una onestà persino eccessiva. Quale non doveva dunque essere la tristezza di mastro Zacharius, nel vedere che quegli orologi da lui costruiti con tanta attenzione gli venivano respinti perché non camminavano più. Ora, questi orologi si fermavano d'improvviso, senza alcun motivo apparente; le ruote erano in buono stato e perfettamente fissate al loro posto; le molle soltanto avevano perduto la loro elasticità. L'orologiaio cercò inutilmente di cambiarle: le ruote restavano immobili. Questi fatti straordinari danneggiarono immensamente la reputazione di mastro Zacharius: la sua abilità, le sue magnifiche invenzioni avevano più d'una volta fatto nascere sul conto suo sospetti di stregoneria, che ora ripigliavano consistenza. La voce giunse anche a Gérande, e la fanciulla tremò spesso per suo padre, quando uno sguardo male intenzionato si soffermava su di lui. Tuttavia, il giorno successivo a quella notte d'angoscia, mastro Zacharius parve rimettersi al lavoro con un po' di fiducia: il sole mattutino gli ridiede coraggio. Aubert non tardò a raggiungerlo, e ne ricevette un saluto pieno di affabilità. — Sto meglio; — disse, — non so che strani dolori di capo mi abbiano oppresso ieri; ma il sole li ha dissipati insieme con le nubi. — In verità, maestro, la notte non mi piace, né per me, né per voi! — Hai ragione, Aubert. Se mai un giorno tu dovessi diventare un grande uomo, comprenderai che il giorno ti è necessario come il cibo; un sapiente deve pur concedere qualcosa alle adulazioni del resto degli uomini. — Maestro, ecco il peccato di superbia che torna a impadronirsi di voi. — Superbia, Aubert! Distruggi il mio passato, annienta il mio
presente, disperdi il mio avvenire, e mi sarà permesso di vivere nell'oscurità. Povero ragazzo, che non comprendi le cose sublimi cui si ricollega tutta intera la mia arte! Non sei tu dunque che un semplice strumento fra le mie mani? — Eppure, mastro Zacharius, — rispose Aubert, — più di una volta io ho meritato i vostri elogi per il modo con cui aggiusto i pezzi più delicati dei vostri orologi! — Senza dubbio; tu sei un buon operaio, che io amo; ma, quando lavori, tu credi di avere fra le tue dita solo rame, oro o argento; tu non senti il palpito di questi metalli, che il mio genio fa vivere, non li sentì palpitare come cose vive! Perciò tu non morirai della morte delle tue opere! Mastro Zacharius rimase silenzioso dopo queste parole; ma Aubert cercò di riprendere la conversazione: — In realtà, mi piace vedervi lavorare così senza tregua! Voi sarete pronto senz'altro per la festa della nostra corporazione, poiché vedo che questo orologio di cristallo procede rapidamente. — Senza dubbio, Aubert, — esclamò il vecchio orologiaio, — e non sarà per me piccolo onore l'aver potuto tagliare e lavorare questa materia, che ha la durezza del diamante. Ah! Louis Berghem ha fatto una gran cosa, perfezionando l'arte del gioielliere, che ci permette di pulire e di forare le pietre più dure! Mastro Zacharius, in quel momento, teneva fra le mani dei piccoli pezzi d'orologeria in cristallo tagliato e di squisita fattura; le ruote, i perni, la calotta erano della stessa materia, e in questo lavoro di grandissimo impegno egli aveva dato prova di un talento eccezionale. — Non è vero, — riprese, mentre le sue guance s'imporporavano, — che sarà bello veder palpitare questo orologio attraverso il suo trasparente viluppo, e contare le pulsazioni del suo cuore? — Scommetto, maestro, che non sbaglierà di un solo secondo in un intero anno. — E vinceresti senza dubbio la scommessa! Non vi ho forse messo dentro l'essenza più pura di me stesso? Forse che sbaglia il mio cuore? Aubert non osò alzare gli occhi in faccia al maestro.
— Parla francamente, — soggiunse con accento melanconico il vecchio, — non mi hai mai preso per pazzo? Non mi credi talvolta vittima di bizzarre allucinazioni? Sì, eh? Ho letto spesso negli occhi di mia figlia e nei tuoi la mia condanna. Oh! — gridò con dolore, — quale pena non essere compresi neppure dalle creature che più si amano al mondo! Ma a te, Aubert, io dimostrerò che ho ragione. Non scuotere la testa, perché rimarrai stupefatto; il giorno in cui mi ascolterai con attenzione vedrai che ho scoperto i segreti dell'esistenza, i segreti dell'unione misteriosa dell'anima con il corpo. Così parlando Zacharius si accendeva di superba fierezza. I suoi occhi brillavano di un fuoco soprannaturale e l'orgoglio lo dominava in tutte le sue fibre. E in verità, se mai orgoglio ha potuto dirsi legittimo, questo era appunto l'orgoglio di mastro Zacharius. L'orologeria, fino al suo tempo, era rimasta per così dire allo stadio infantile dell'arte. Dal giorno in cui Platone, quattrocento anni prima di Cristo, aveva inventato l'orologio notturno, specie di clessidra, che indicava le ore della notte con il suono di un flauto, la scienza restò pressoché stazionaria; gli artigiani si dedicavano più all'arte che alla meccanica; fu l'epoca dei magnifici orologi in ferro, rame, legno, perfino in argento, finemente cesellati, come un'opera del Cellini. Si aveva un capolavoro di cesellatura, che misurava il tempo in modo molto imperfetto, ma si aveva un capolavoro. Quando l'immaginazione dell'artista non mirava alla perfezione formale, si ingegnava di costruire quegli orologi con personaggi semoventi, e con carillons, il cui effetto era regolato in modo assai divertente. Oltre a ciò, chi si occupava a quei tempi di regolare il cammino del tempo? Il diritto non aveva ancora fissato rigorosamente termini e scadenze; le scienze fisiche e astronomiche non fondavano i loro calcoli sopra misure scrupolosamente esatte; non vi erano banche, che si chiudessero a ora fissa, né convogli, che partissero allo scoccare d'un minuto secondo; alla sera si suonava il coprifuoco e la notte si scandivano a voce le ore in mezzo al silenzio. Certo, si viveva meno a lungo, se la vita si misura secondo la quantità degli affari, ma si viveva meglio. La mente s'arricchiva di quei nobili sentimenti, che nascono dalla contemplazione dei capolavori, e l'arte non si realizzava con tanta fretta. Si costruiva una
chiesa in due secoli; un pittore non faceva che qualche quadro durante tutta la sua vita; un poeta non componeva che una sola opera eminente, ma erano altrettanti capolavori, che venivano affidati all'ammirazione dei secoli. Quando le scienze esatte fecero finalmente dei progressi, l'orologeria seguì il loro corso, ma fu sempre trattenuta da una difficoltà insormontabile: la misura regolare e continua del tempo. Ora, fu proprio nel bel mezzo d'una situazione simile che mastro Zacharius inventò lo scappamento, il quale gli permetteva di ottenere una regolarità matematica, sottoponendo il movimento a una forza costante. Questa invenzione aveva fatto girar la testa al vecchio orologiaio; la superbia si era impossessata della sua mente e, come il mercurio che sale nel termometro, aveva toccato la temperatura della pura follia; per via d'analogia egli si era lasciato trascinare a conseguenze di carattere materialistico: immaginava d'aver scoperto i segreti dell'unione dell'anima con il corpo. Ora, quel giorno, vedendo che Aubert Thün lo ascoltava con attenzione, gli disse con accento semplice e convinto: — Sai tu, ragazzo mio, che cosa è la vita? Hai forse indovinato l'azione di quelle molle, che producono l'esistenza? Hai fissato lo sguardo in te stesso? Con gli occhi della scienza avresti potuto vedere il rapporto intimo che esiste tra l'opera di Dio e la mia, perché è appunto sul modello delle sue creature che io ho copiato la combinazione delle ruote dei miei orologi. — Maestro, — rispose con vivacità Aubert, — voi paragonate una macchina d'acciaio e di rame a questo soffio di Dio chiamato anima, che dà vita al corpo, come la brezza mette in movimento i fiori. Ci possono essere delle ruote invisibili, che facciano muovere le nostre gambe e le nostre braccia? Quali pezzi sarebbero così ben combinati, da far nascere in noi i pensieri? — Non è questo il problema, — rispose il maestro con dolcezza, ma con l'ostinazione del cieco che cammina verso il precipizio; — per comprendermi, ricordati lo scopo dello scappamento, che io ho inventato. Quando vidi l'irregolarità dei movimenti di un orologio, compresi che il movimento racchiuso dentro di lui non gli bastava; era necessario sottoporlo alla regolarità di un'altra forza
indipendente; indovinai che il pendolo, le cui oscillazioni sono regolari e di uguale durata, avrebbe potuto rendermi questo servizio; ma a poco a poco le sue oscillazioni diminuivano e alla fine cessavano. Ora, non fu forse una sublime trovata quella di restituirgli la forza perduta per mezzo di quello stesso movimento dell'orologio, che esso doveva appunto regolare? Aubert fece un segno d'assenso. — E ora, Aubert, — continuò il vecchio orologiaio accalorandosi, — getta uno sguardo in te stesso. Non comprendi dunque che ci sono in noi due forze distinte: quella dell'anima e quella del corpo, vale a dire un movimento e un regolatore? L'anima è il principio della vita, dunque è il movimento; ch'esso sia prodotto da un peso, da una molla o da una influenza celeste, non per questo è meno vero che esso è nel cuore. Ma senza il corpo questo movimento sarebbe inuguale, irregolare, impossibile; così il corpo viene a regolare l'anima; come il pendolo, esso è soggetto a oscillazioni regolari: e ciò è tanto vero, che si sta male quando il bere, il mangiare, il sonno, in una parola le funzioni del corpo non sono regolate. Come nei miei orologi, l'anima rende al corpo le forze perdute con le sue oscillazioni. Che cosa è dunque questa unione intima del corpo e dell'anima, se non uno scappamento meraviglioso, per mezzo del quale le ruote dell'uno vanno ad ingranare in quelle dell'altra? Ebbene, questo è ciò che io ho indovinato, trovato, applicato, e non ci sono più segreti per me in questa vita, la quale, in fondo, non è che una macchina ingegnosa! Mastro Zacharius era sublime nella sua allucinazione, nella quale credeva dì toccare gli ultimi misteri dell'infinito. Ma sua figlia Gérande, ferma sulla soglia dell'uscio, aveva udito tutto; ella si precipitò nelle braccia del padre, che la strinse convulsamente a sé. La fanciulla piangeva. — Che cosa hai, figlia mia? — le domandò mastro Zacharius. Aubert non osò alzare gli occhi in faccia al maestro. — Parla francamente, — soggiunse con accento melanconico il vecchio, — non mi hai mai preso per pazzo? Non mi credi talvolta vittima di bizzarre allucinazioni? Sì, eh? Ho letto spesso negli occhi di mia figlia e nei tuoi la mia condanna. Oh! — gridò con dolore, — quale pena non essere compresi neppure dalle creature che più si
amano al mondo! Ma a te, Aubert, io dimostrerò che ho ragione. Non scuotere la testa, perché rimarrai stupefatto; il giorno in cui mi ascolterai con attenzione vedrai che ho scoperto i segreti dell'esistenza, i segreti dell'unione misteriosa dell'anima con il corpo. Così parlando Zacharius si accendeva di superba fierezza. I suoi occhi brillavano di un fuoco soprannaturale e l'orgoglio lo dominava in tutte le sue fibre. E in verità, se mai orgoglio ha potuto dirsi legittimo, questo era appunto l'orgoglio di mastro Zacharius. L'orologeria, fino al suo tempo, era rimasta per così dire allo stadio infantile dell'arte. Dal giorno in cui Platone, quattrocento anni prima di Cristo, aveva inventato l'orologio notturno, specie di clessidra, che indicava le ore della notte con il suono di un flauto, la scienza restò pressoché stazionaria; gli artigiani si dedicavano più all'arte che alla meccanica; fu l'epoca dei magnifici orologi in ferro, rame, legno, perfino in argento, finemente cesellati, come un'opera del Cellini. Si aveva un capolavoro di cesellatura, che misurava il tempo in modo molto imperfetto, ma si aveva un capolavoro. Quando l'immaginazione dell'artista non mirava alla perfezione formale, si ingegnava di costruire quegli orologi con personaggi semoventi, e con carillons, il cui effetto era regolato in modo assai divertente. Oltre a ciò, chi si occupava a quei tempi di regolare il cammino del tempo? Il diritto non aveva ancora fissato rigorosamente termini e scadenze; le scienze fisiche e astronomiche non fondavano i loro calcoli sopra misure scrupolosamente esatte; non vi erano banche, che si chiudessero a ora fissa, né convogli, che partissero allo scoccare d'un minuto secondo; alla sera si suonava il coprifuoco e la notte si scandivano a voce le ore in mezzo al silenzio. Certo, si viveva meno a lungo, se la vita si misura secondo la quantità degli affari, ma si viveva meglio. La mente s'arricchiva di quei nobili sentimenti, che nascono dalla contemplazione dei capolavori, e l'arte non si realizzava con tanta fretta. Si costruiva una chiesa in due secoli; un pittore non faceva che qualche quadro durante tutta la sua vita; un poeta non componeva che una sola opera eminente, ma erano altrettanti capolavori, che venivano affidati all'ammirazione dei secoli. Quando le scienze esatte fecero finalmente dei progressi,
l'orologeria seguì il loro corso, ma fu sempre trattenuta da una difficoltà insormontabile: la misura regolare e continua del tempo. Ora, fu proprio nel bel mezzo d'una situazione simile che mastro Zacharius inventò lo scappamento, il quale gli permetteva di ottenere una regolarità matematica, sottoponendo il movimento a una forza costante. Questa invenzione aveva fatto girar la testa al vecchio orologiaio; la superbia si era impossessata della sua mente e, come il mercurio che sale nel termometro, aveva toccato la temperatura della pura follia; per via d'analogia egli si era lasciato trascinare a conseguenze di carattere materialistico: immaginava d'aver scoperto i segreti dell'unione dell'anima con il corpo. Ora, quel giorno, vedendo che Aubert Thün lo ascoltava con attenzione, gli disse con accento semplice e convinto: — Sai tu, ragazzo mio, che cosa è la vita? Hai forse indovinato l'azione di quelle molle, che producono l'esistenza? Hai fissato lo sguardo in te stesso? Con gli occhi della scienza avresti potuto vedere il rapporto intimo che esiste tra l'opera di Dio e la mia, perché è appunto sul modello delle sue creature che io ho copiato la combinazione delle ruote dei miei orologi. — Maestro, — rispose con vivacità Aubert, — voi paragonate una macchina d'acciaio e di rame a questo soffio di Dio chiamato anima, che dà vita al corpo, come la brezza mette in movimento i fiori. Ci possono essere delle ruote invisibili, che facciano muovere le nostre gambe e le nostre braccia? Quali pezzi sarebbero così ben combinati, da far nascere in noi i pensieri? — Non è questo il problema, — rispose il maestro con dolcezza, ma con l'ostinazione del cieco che cammina verso il precipizio; — per comprendermi, ricordati lo scopo dello scappamento, che io ho inventato. Quando vidi l'irregolarità dei movimenti di un orologio, compresi che il movimento racchiuso dentro di lui non gli bastava; era necessario sottoporlo alla regolarità di un'altra forza indipendente; indovinai che il pendolo, le cui oscillazioni sono regolari e di uguale durata, avrebbe potuto rendermi questo servizio; ma a poco a poco le sue oscillazioni diminuivano e alla fine cessavano. Ora, non fu forse una sublime trovata quella di restituirgli la forza perduta per mezzo di quello stesso movimento dell'orologio,
che esso doveva appunto regolare? Aubert fece un segno d'assenso. — E ora, Aubert, — continuò il vecchio orologiaio accalorandosi, — getta uno sguardo in te stesso. Non comprendi dunque che ci sono in noi due forze distinte: quella dell'anima e quella del corpo, vale a dire un movimento e un regolatore? L'anima è il principio della vita, dunque è il movimento; ch'esso sia prodotto da un peso, da una molla o da una influenza celeste, non per questo è meno vero che esso è nel cuore. Ma senza il corpo questo movimento sarebbe inuguale, irregolare, impossibile; così il corpo viene a regolare l'anima; come il pendolo, esso è soggetto a oscillazioni regolari: e ciò è tanto vero, che si sta male quando il bere, il mangiare, il sonno, in una parola le funzioni del corpo non sono regolate. Come nei miei orologi, l'anima rende al corpo le forze perdute con le sue oscillazioni. Che cosa è dunque questa unione intima del corpo e dell'anima, se non uno scappamento meraviglioso, per mezzo del quale le ruote dell'uno vanno ad ingranare in quelle dell'altra? Ebbene, questo è ciò che io ho indovinato, trovato, applicato, e non ci sono più segreti per me in questa vita, la quale, in fondo, non è che una macchina ingegnosa! Mastro Zacharius era sublime nella sua allucinazione, nella quale credeva di toccare gli ultimi misteri dell'infinito. Ma sua figlia Gérande, ferma sulla soglia dell'uscio, aveva udito tutto; ella si precipitò nelle braccia del padre, che la strinse convulsamente a sé. La fanciulla piangeva. — Che cosa hai, figlia mia? — le domandò mastro Zacharius. — Se io avessi qui soltanto una molla, — rispose ponendosi la mano sul cuore, — non vi amerei tanto, padre mio! Zacharius guardò fissamente la figlia e non rispose. D'un tratto emise un grido, portò la mano sul cuore e cadde svenuto sulla sua vecchia poltrona di cuoio. — Padre mio! Che cosa avete? — Aiuto! — gridò Aubert. — Scholastique! Scholastique non venne subito. Avevano picchiato alla porta di casa; ella era andata ad aprire e solo poco dopo fece ritorno in bottega. Ma prima che avesse aperto bocca, il vecchio orologiaio, avendo ripreso i sensi, le disse:
— Io ho sentito, mia vecchia Scholastique, che tu mi stavi portando un altro di questi maledetti orologi che si è fermato! — Gesummaria! È proprio la verità, — rispose Scholastique, consegnando un orologio a Aubert. — Oh! Il mio cuore non s'inganna, — disse dolorosamente il vecchio con un triste sospiro. Frattanto, Aubert aveva caricato l'orologio, ma non andava più.
CAPITOLO III UNA VISITA SINGOLARE LA POVERA GÉRANDE avrebbe probabilmente visto la propria vita spegnersi come quella di suo padre, se il pensiero d'Aubert Thün non l'avesse sostenuta. Il vecchio orologiaio veniva meno visibilmente; le sue facoltà tendevano a scemare, concentrandosi sopra un unico pensiero; per effetto di una funesta associazione di idee, egli collegava ogni cosa con la sua mania: la vita reale sembrava essersi ritirata da lui per far posto a quella esistenza fantastica delle ombre e delle potenze nascoste; avvenne che qualche rivale male intenzionato risuscitò le dicerie diaboliche, che erano state diffuse a proposito dei lavori di mastro Zacharius. La notizia dei guasti inspiegabili che si manifestavano nei suoi orologi fece una straordinaria impressione sugli orologiai di Ginevra. Che cosa significavano quegli arresti improvvisi e i singolari rapporti che essi sembravano avere con la vita di Zacharius? Erano misteri tali, che non si potevano considerare senza un segreto terrore. Siccome tutte le diverse classi della città, dal garzone di bottega al signore, si servivano degli orologi di Zacharius, non ci fu alcuno che non potesse giudicare da se stesso la stranezza del fatto, poiché questo bizzarro incidente si rinnovava dappertutto. Qualcuno, ma inutilmente, volle andare da lui; mastro Zacharius era gravemente
ammalato, la qual cosa permise alla figlia di sottrarlo a queste visite che degeneravano in continui alterchi. Le medicine e i medici furono impotenti di fronte a questo deperimento organico, di cui non si arrivava a scoprire la causa. Sembrava talvolta che il cuore del vecchio cessasse di battere, poi le sue pulsazioni tornavano a farsi sentire. Esisteva allora l'abitudine di sottoporre i lavori degli artigiani, dopo un certo tempo, all'approvazione del popolo. I capi delle varie corporazioni cercavano di distinguersi con la novità o perfezione delle loro opere e fu appunto tra di essi che la condizione di mastro Zacharius trovò la più rumorosa compassione; ma era una compassione interessata: i suoi rivali tanto maggiormente lo compiangevano, quanto la sua malattia lo rendeva meno temibile. Si ricordavano bene dei suoi magnifici orologi con personaggi semoventi, dei suoi orologi con carillon, che destavano l'ammirazione generale e si vendevano ai più alti prezzi nelle città di Francia, di Svizzera e di Germania. Grazie però alle cure amorose e continue di Gérande e di Aubert, la salute di mastro Zacharius parve migliorare un poco, e in questa specie di tregua, che la convalescenza gli concedeva, egli riuscì a staccarsi dai pensieri che lo ossessionavano. Sua figlia lo costrinse a uscire di casa e a rinvigorirsi al tepore del sole di primavera. Del resto, era necessario che egli si allontanasse da quella bottega, ove si affollavano sempre i suoi clienti malcontenti. Vi rimase invece Aubert, caricando e ricaricando inutilmente quegli orologi ribelli. Egli a volte si cacciava le mani tra i capelli, temendo di impazzire come il suo principale. Gérande guidava invece i passi di suo padre lungo le strade più tranquille della città; a volte, sostenendo il braccio di mastro Zacharius, si avviava verso Sant'Antonio, da cui la vista spazia sulla vetta di Coligny e sul lago. Qualche volta, nelle belle mattinate, si potevano vedere disegnati sull'orizzonte i picchi giganteschi del monte Buet. Gérande designava per nome tutte queste località quasi sconosciute a suo padre, che sembrava aver perduto la memoria, ed egli provava un piacere infantile a sentire queste cose, il cui ricordo si era dileguato dalla sua mente. Mastro Zacharius si appoggiava alla
figlia e quelle due teste, l'una bianca, l'altra bionda, si confondevano nello stesso raggio del sole cadente. Accadde così che il vecchio orologiaio si accorse alla fine che non era solo al mondo. Vedendo la figlia tanto giovane e bella e se stesso così vecchio e sfinito, pensò che dopo la sua morte ella sarebbe rimasta sola e senza appoggio, e guardò intorno a sé e intorno a lei. Molti giovani operai di Ginevra l'avevano già corteggiata; ma nessuno aveva ottenuto d'entrare in quel recesso impenetrabile, nel quale la famiglia viveva; fu dunque naturale che in questi lucidi intervalli della sua esistenza la scelta del vegliardo si fermasse sopra il buon Aubert Thün. Una volta formulato questo pensiero, egli notò ben presto che quei due giovani erano cresciuti con le stesse idee e le stesse credenze, e i battiti dei loro cuori gli parvero isocroni, come disse un giorno a Scholastique. La vecchia domestica, letteralmente incantata da quella parola (per quanto non ne avesse compreso il significato) giurò sulla sua santa protettrice che tutta la città lo avrebbe saputo in un quarto d'ora; mastro Zacharius durò gran fatica a calmarla, e ottenne finalmente da lei che su questo segreto serbasse un silenzio, che ella tuttavia non seppe mai mantenere. Sicché, all'insaputa di Gérande e d'Aubert, si parlava già in tutta Ginevra del loro prossimo matrimonio. Accadde tuttavia che, durante simili conversazioni, si udisse sovente uno strano sogghigno e una voce che diceva: — Gérande non sposerà Aubert. Se coloro che parlavano si volgevano dalla parte da cui proveniva la voce, si trovavano a faccia a faccia con un vecchietto piccolo, che nessuno conosceva. Che età aveva quell'uomo strano? Nessuno avrebbe potuto dirlo. Si indovinava che doveva esistere da un gran numero di anni o di secoli, ma questo era tutto. Una grossa testa schiacciata poggiava su due spalle la cui larghezza uguagliava l'altezza del corpo, la quale non oltrepassava i tre piedi. Questo personaggio avrebbe figurato bene sulla mensola di una pendola; il quadrante avrebbe naturalmente trovato posto nella sua faccia, e il pendolo avrebbe oscillato a suo bell'agio sul petto. Il suo naso poteva essere scambiato
per lo stilo di una meridiana, tanto era sottile e acuto; i suoi denti storti e a superficie smussata somigliavano a quelli di una ruota e digrignavano tra le labbra; la sua voce aveva il suono metallico di una campana, e si poteva sentire il suo cuore battere come il tic tac di un orologio. Questo ometto, le cui braccia si muovevano come le sfere su un quadrante, camminava lento e a sbalzi, senza mai voltarsi indietro. Chi lo avesse seguito, avrebbe scoperto ch'egli faceva un miglio all'ora e che il suo cammino era press'a poco circolare. Era da poco tempo che egli vagava, o meglio camminava in giro per la città; ma si era già potuto osservare che ogni giorno, nel momento in cui il sole passava sul meridiano, egli si fermava davanti alla chiesa di San Pietro e ripigliava il suo cammino dopo i dodici colpi del mezzogiorno; all'infuori di questo momento preciso, pareva che egli sorgesse all'improvviso in tutte le conversazioni in cui si parlasse del vecchio orologiaio, e la gente si chiedeva con un certo spavento quale relazione ci potesse essere tra mastro Zacharius e questo essere misterioso. Si notò inoltre che egli non perdeva mai di vista il vecchio e la figlia nelle loro passeggiate. Un; giorno Gérande, mentre passava sulla Treille, avvertì che egli la guardava e rideva, e si strinse a suo padre con un movimento istintivo di paura e di angoscia. — Che cosa hai, mia Gérande? — chiese mastro Zacharius. — Non so, — rispose inquieta la figlia. — Ti trovo mutata, ragazza mia! — disse il vecchio orologiaio. — Non vorrei che anche tu ti ammalassi... Ebbene, — aggiunse poi con un triste sorriso; — bisognerà che io ti curi, e ti curerò molto bene. — Oh, padre mio! Non è nulla; ho solo freddo; suppongo che sia... — Che cosa? Parla dunque, Gérande! — La presenza di quest'uomo che ci segue di continuo, — rispose a voce bassa. Mastro Zacharius si volse verso il vecchietto. — In verità, esso va bene, — disse egli con aria di soddisfazione, — sono appunto le quattro. Non hai nulla da temere, figlia mia; non è un uomo, è un orologio. Gérande guardò suo padre con spavento. Come mai Zacharius
aveva potuto leggere le ore sul viso di quella strana creatura? — A proposito, — continuò il vecchio orologiaio, senza più occuparsi di questo incidente, — sono alcuni giorni che non vedo Aubert. — Eppure non ci ha mai lasciato, — rispose Gérande, i cui pensieri, a questo nome, presero un corso più lieto. — Che fa dunque? — Lavora, padre mio. — Ah! Lavora ad aggiustare i miei orologi, non è vero? Ma non ci arriverà mai, perché essi non hanno bisogno di una riparazione ma di una « resurrezione ». Gérande restò in silenzio. — Bisognerà che io sappia se ne sono stati portati degli altri di quegli orologi dannati, sui quali il diavolo ha gettato una maledizione! Dopo queste parole, mastro Zacharius si chiuse in un mutismo assoluto, fino al momento in cui arrivò davanti alla porta di casa e per la prima volta, mentre Gérande saliva tristemente alla sua cameretta, egli entrò nella bottega. Nell'attimo in cui egli ne oltrepassava la soglia, uno dei tanti orologi sospesi alla parete suonò le cinque; di solito quelle pendole numerose, mirabilmente regolate, battevano le ore contemporaneamente e il cuore del vecchio esultava del loro accordo; ma quel giorno tutte le varie sonerie si misero in moto una dopo l'altra con grande irregolarità, sicché, durante un quarto d'ora, l'orecchio rimase assordato dal loro battere successivo. Mastro Zacharius soffriva atrocemente; non poteva star fermo; andava dall'uno all'altro di codesti orologi, supplicandoli vivamente di suonare a tempo, come un direttore d'orchestra che non fosse più padrone dei suoi orchestrali. Quando l'ultimo suono venne a morire, la porta della bottega si aprì, e mastro Zacharius rabbrividì dalla testa ai piedi, vedendo innanzi a sé lo strano vecchietto, il quale lo guardò fisso e gli disse: — Maestro, non potrei intrattenermi qualche istante con voi? — Chi siete? — domandò bruscamente l'orologiaio. — Un confratello, e nulla più. Io sono colui che ha l'incarico di
regolare il sole. — Voi regolate il sole? — replicò con vivacità Zacharius, senza batter ciglio; — ebbene non vi faccio per nulla i miei complimenti! Il vostro sole va male, e per andar d'accordo con lui noi siamo obbligati ora ad accelerare, ora a rallentare i nostri orologi! — Per il piede forcuto del diavolo! — gridò il mostruoso personaggio. — Voi avete ragione, mastro Zacharius; il mio sole non segna sempre mezzogiorno alla medesima ora; mai in breve si saprà che ciò proviene dal movimento della terra intorno a lui, e si inventerà una specie di giorno medio, che eliminerà queste differenze. — E io, io sarò ancora vivo a quell'epoca? — domandò il vecchio orologiaio, i cui occhi si erano animati d'uno strano splendore. — Senza dubbio, — replicò il vecchietto ridendo; — potete forse credere che morirete? — Oimè! Io però sono molto malato! — Infatti, parliamo di ciò. Per Belzebù! Questo ci condurrà appunto a quanto volevo dirvi. E così parlando lo strano personaggio saltò senza far complimenti sulla vecchia poltrona di cuoio e incrociò le gambe l'una sopra l'altra alla maniera di quelle ossa scarnificate che i decoratori di paramenti funebri incrociano sotto le teste di morto; poi riprese con accento ironico: — Vediamo, mastro Zacharius, cosa succede dunque in questa buona città di Ginevra? Si dice che la vostra salute peggiori e che i vostri orologi abbiano bisogno di medicine!... — Allora voi capite, voi credete che ci sia un rapporto intimo fra la loro esistenza e la mia? — gridò Zacharius. — Io suppongo che questi orologi abbiano dei difetti, abbiano persino dei vizi. Se questi bricconi non hanno una condotta molto regolare, è giusto che paghino per le loro sregolatezze; mi sembra che avrebbero bisogno di mettersi un po' in ordine. — Che cosa intendete per difetti? — disse mastro Zacharius arrossendo per l'intonazione sarcastica, con cui queste parole erano state pronunciate. — Non hanno forse diritto d'essere fieri della loro nascita e della loro bellezza?
— Non troppo, non troppo; — rispose il vecchietto. — Essi portano un nome illustre e sul loro quadrante sta incisa una firma celebre in tutto il mondo; essi hanno il privilegio esclusivo di entrare fra le più nobili famiglie, ma da qualche tempo si guastano e voi non potete farci nulla, mastro Zacharius. Il più inetto dei garzoni orologiai di Ginevra potrebbe darvi dei punti. — A me? A me? A Mastro Zacharius?! — gridò il vecchio con un terribile moto d'orgoglio. — A voi, mastro Zacharius, che non potete restituire la vita ai vostri orologi. — Ma, ciò accade perché ho la febbre, sicché l'hanno anch'essi, — rispose il vecchio orologiaio, mentre un sudore freddo gli correva per tutto il corpo. — Ebbene, essi moriranno con voi, dal momento che voi siete incapace di ridonare elasticità alle loro molle. — Morire! No, voi l'avete detto. Io non posso morire, io, il primo orologiaio del mondo; io, che per mezzo di questi congegni d'ogni specie e di queste ruote diverse ho saputo regolare il movimento con precisione assoluta. Non ho forse assoggettato il tempo a leggi esatte, e non posso io disporne come voglio? Prima che un'abile mano, un genio sublime venisse a ordinare regolarmente queste ore scompigliate, in che immensa incertezza era immersa la umanità! A quale movimento sicuro potevano riferirsi gli atti degli uomini? Ma voi, uomo o diavolo che siate, voi non avete dunque mai pensato alla grandezza della nostra arte, che chiama tutte le scienze in suo aiuto? No! No! Mastro Zacharius non può morire! Perché, avendo io regolato il tempo, questo finirebbe con me; esso tornerebbe a quell'infinito, da cui il mio genio seppe strapparlo, e si perderebbe irreparabilmente nell'abisso senza fondo del nulla. No, no, io non posso morire, come non può morire il Creatore di questo universo, che è sottoposto alle sue leggi. Io sono diventato suo uguale e ho diviso la sua potenza. Mastro Zacharius ha creato il tempo, se Dio ha creato l'eternità. Il vecchio orologiaio assomigliava in quel momento all'angelo ribelle, che si era levato contro il suo Creatore. Il vecchietto lo accarezzava con lo sguardo e sembrava ispirargli tutto quello sfogo
d'empietà. — Ben detto, maestro, — rispose. — Belzebù aveva meno diritti di quanti ne abbiate voi per paragonarsi a Dio! La vostra gloria non deve perire; perciò il vostro servo vuole offrirvi il mezzo di domare questi orologi ribelli. — Qual è questo mezzo? Qual è? — gridò Zacharius. — Lo saprete il giorno successivo a quello in cui mi avrete offerto la mano di vostra figlia. — La mano di Gérande? — Appunto. — Il cuore di mia figlia non è libero, — rispose seriamente Zacharius a questa domanda, che non parve né sorprenderlo né offenderlo. — Be'!... Ella non è il meno bello dei vostri orologi, ma finirà per fermarsi. — Mia figlia?... Gérande?... Mai! — Ebbene, ritornate ai vostri orologi, mastro Zacharius! Caricate e ricaricate i vostri orologi; preparate il matrimonio di vostra figlia e del vostro operaio!... Temprate le molle fatte del vostro migliore acciaio; benedite il vostro futuro genero e la sua fidanzata, ma ricordatevi che i vostri orologi non andranno mai, e che Gérande non sposerà Aubert. E subito il vecchietto uscì, ma non tanto presto che mastro Zacharius non potesse sentire suonare le sei nel suo petto.
CAPITOLO IV LA CHIESA DI SAN PIETRO INTANTO LO SPIRITO e il corpo di mastro Zacharíus si andavano indebolendo sempre più. Solo uno straordinario eccitamento lo ricondusse ancor più violentemente di prima ai suoi lavori di orologeria, dai quali sua figlia non sapeva più come distrarlo. La sua superbia era cresciuta dopo quella empia conversazione, cui il misterioso visitatore l'aveva proditoriamente trascinato; e perciò egli decise di dominare, con la forza del suo genio e del suo lavoro, quel malefico influsso che incombeva su di lui. Visitò dapprima i vari orologi della città affidati alla sua sorveglianza; si assicurò con una ispezione scrupolosa che le ruote fossero in buono stato, solidi i perni e i contrappesi esattamente equilibrati. Non ci fu pezzo, ch'egli non esaminasse; ascoltò perfino, col raccoglimento di un medico che ausculta il petto di un malato, le campane della soneria; il bronzo era perfettamente sonoro. Nulla lasciava credere che quegli orologi fossero sul punto d'essere ridotti al silenzio. Gérande e Aubert lo accompagnavano spesso in queste sue visite. Il vecchio orologiaio avrebbe dovuto compiacersi nel vedere queste due nobili creature tanto sollecite della sua salute; e certo egli non si sarebbe tanto preoccupato della sua prossima fine, pensando che la sua esistenza doveva continuare in quella dei suoi figli, se avesse riconosciuto che in essi si trasfonde sempre qualcosa della vita del padre. Il vecchio orologiaio, rientrato in casa, riprendeva i suoi lavori con una impazienza febbrile; quantunque fosse persuaso di non riuscire nel suo intento, non voleva rassegnarsi e smontava e rimontava senza tregua gli orologi che venivano riportati alla sua bottega.
Aubert, dal canto suo, s'industriava inutilmente di scoprire le cause di quei guasti inesplicabili. — Maestro, — diceva, — tutto questo non può derivare che dall'usura dei perni e degli ingranaggi. — Tu ti diverti dunque ad uccidermi a poco a poco? — gli rispondeva violentemente mastro Zacharius. — Questi orologi sono forse l'opera di un fanciullo? Forse che, per timore di pestarmi le dita, ho lavorato male la superficie di questi pezzi di rame? Non l'ho forgiato io stesso questo metallo, affinché avesse una maggior durata? Queste molle non sono state temprate con la massima perfezione? C'è forse un olio più fine per lubrificarle? Tu stesso convieni che tutto ciò è impossibile, e confessi dunque che ci si è immischiato il diavolo! E poi, dal mattino fino alla sera, affluivano di continuo nella casa di mastro Zacharius i clienti malcontenti e arrivavano fino a lui, che non sapeva cosa rispondere. — Quest'orologio resta indietro! — diceva l'uno, — e io non riesco più a regolarlo! — Questo, — soggiungeva un altro, — ci mette tutta la sua ostinazione; si è fermato né più né meno come il sole di Giosuè. — Sé è vero, — ripeteva la maggior parte dei malcontenti, — che la vostra salute influisce sopra i vostri orologi, curatevi, mastro Zacharius, e guarite. Il vecchio guardava tutta quella gente con occhi stravolti e non rispondeva che scuotendo la testa o con tristi parole: — Aspettate i primi giorni di bel tempo, amici... È la stagione, in cui la vita si rianima nei corpi indeboliti; bisogna che il sole venga a riscaldarci tutti! — Bell'affare, se i nostri orologi devono essere malati durante l'inverno! Sapete, voi, mastro Zacharius, che il vostro nome è scritto in tutte lettere sui loro quadranti? Non fate proprio onore alla vostra firma! Accadde infine che il vecchio, vergognandosi di questi rimbrotti, trasse dal suo antico scrigno istoriato alcune monete d'oro e ricomperò gli orologi diventati inutili. A questa notizia i clienti accorsero in folla, e il denaro in quella povera casa si esaurì in breve
tempo. Ma almeno fu salva la probità ginevrina del mercante. Gérande fu molto lieta dell'onestà dimostrata dal padre che tuttavia la gettava nella miseria, e ben presto anche Aubert offrì i suoi risparmi a mastro Zacharius. — Che avverrà di mia figlia? — diceva il vecchio orologiaio, ridestandosi talvolta, in questo totale fallimento, ai sentimenti dell'amore paterno. Aubert non osò rispondere che egli aveva il coraggio d'affrontare l'avvenire e sentiva una profonda devozione per Gérande. In quel giorno mastro Zacharius l'avrebbe chiamato con il nome di genero per assicurare l'esistenza di sua figlia e smentire quelle funeste parole, che ronzavano ancora al suo orecchio: « Gérande non sposerà Aubert ». Tuttavia, con questo sistema di risarcire i danni agli altri, il vecchio orologiaio giunse a spogliarsi di tutto; i suoi vasi antichi passarono in mani estranee; egli vendette alcuni magnifici paraventi di quercia finemente scolpiti, che rivestivano le pareti della sua casa; alcuni ingenui quadri dei primi pittori fiamminghi non rallegrarono più lo sguardo di sua figlia; e tutto, persino i preziosi strumenti che il suo genio aveva inventato, tutto fu venduto per indennizzare i compratori. Solo Scholastique non voleva ascoltar ragioni su questo punto; ma i suoi sforzi non potevano impedire agli importuni danneggiati di arrivare fino al suo padrone e di uscire poco dopo con qualche oggetto prezioso. Allora il suo brontolio e i suoi rimbrotti echeggiavano in tutte le vie dell'isola, ove la si conosceva da molti anni; ella s'affaticava a smentire le voci di stregoneria e di magia che correvano intorno al suo padrone; ma siccome in fondo ella stessa era persuasa della loro verità, snocciolava preghiere sopra preghiere per ottenere il perdono delle sue pie menzogne. Era stato notato apertamente che da lungo tempo l'orologiaio aveva abbandonato il compimento dei suoi doveri religiosi; per il passato egli accompagnava Gérande alle funzioni e pareva trovasse nella preghiera quella gioì» spirituale che essa diffonde nei cuori e nelle menti privilegiate, giacché è il più sublime esercizio dello spirito. Questo volontario allontanamento del vecchio dalle pratiche
religiose, insieme con le sue nuove abitudini, aveva in qualche modo legittimato le accuse di sortilegio; perciò, nel doppio intento di ricondurre suo padre a Dio e al mondo, Gérande decise di chiamare in suo soccorso la religione. Pensò che la pietà aistiana avrebbe potuto ridare vita a quell'anima languente; ma i suoi dogmi d'umiltà e di fede dovevano combattere una superbia indomabile; essi urtavano contro quell'orgoglio della scienza che riconduce tutto a se stessa, senza risalire alla sorgente infinita, da cui sgorgano i primi principi. In tali circostanze, la giovinetta cercò di convertire il padre alla religione e la sua influenza fu così efficace che il vecchio orologiaio promise di assistere la domenica seguente alla messa grande nella chiesa di San Pietro. Gérande ebbe un momento d'estasi e di felicità, come se il cielo si fosse aperto davanti ai suoi occhi. Scholastique non poté trattenere la sua gioia ed ebbe finalmente argomenti decisivi contro le malelingue, che accusavano d'empietà il suo padrone. Ella ne parlò alle sue vicine, alle sue amiche, alle sue nemiche, a chi la conosceva e anche a chi non la conosceva. — Davvero, noi non possiamo credere a quello che voi ci raccontate, donna Scholastique, — le veniva risposto. — Mastro Zacharius ha sempre agito di comune accordo con il diavolo! — Voi allora non vi ricordate, — replicava Scholastique, — i bei campanili, in cui suonano gli orologi del mio padrone. Quante volte egli ha fatto suonare l'ora della preghiera e quella della messa! — Senza dubbio, — si rispondeva; — ma non ha forse inventato anche macchine che si muovono da sé, e che sanno fare il lavorò di un uomo in carne e ossa? — Forse che un figlio del demonio, — ribatteva la donna incollerita, — avrebbe saputo fare quel bell'orologio di ferro, che la città di Ginevra non fu abbastanza ricca per comperare? A ogni ora vi appariva scritta una bella sentenza morale, e un buon cristiano che si fosse conformato a questi suggerimenti sarebbe andato dritto dritto in paradiso! È un lavoro del diavolo questo? Questo capolavoro, che era stato realizzato una ventina d'anni prima, aveva infatti portato alle stelle la gloria di mastro Zacharius; ma in quella stessa circostanza le accuse di stregoneria erano state generali; d'altronde il ritorno del vecchio alla chiesa di San Pietro
avrebbe dovuto ridurre le malelingue al più assoluto silenzio. Mastro Zacharius, senza ricordarsi più di questa promessa fatta alla figlia, era tornato nella sua bottega. Dopo aver sperimentato la sua impotenza nel ridonare la vita a quegli orologi morti, egli decise di tentare se potesse farne dei nuovi; abbandonò tutti quei corpi inerti, tutti quegli orologi che si fermavano per la città, e si rimise a condurre a termine l'orologio di cristallo, di cui tutti i pezzi erano stati così scrupolosamente preparati. Ma ebbe un bel fare, un bell'adoperare gli strumenti più perfetti, impiegare i rubini e i diamanti adatti a resistere all'attrito dei perni, a comporre insomma un capolavoro; terminato finalmente l'orologio, la prima volta che lo caricò, gli si spezzò tra le mani. Il povero vecchio nascose questo avvenimento a tutti, perfino alla figlia; ma d'allora in poi la sua vita non assomigliò più che alle ultime oscillazioni di un pendolo; egli andava deperendo e indebolendosi, senza che più nulla giovasse a restituirgli la forza di un tempo; sembrava che le leggi della gravità, agendo direttamente sopra di lui, lo trascinassero inesorabilmente nella tomba. Quella domenica, così impazientemente, così ardentemente desiderata da Gérande arrivò alla fine. Il tempo era bello e la temperatura mite; gli abitanti di Ginevra se ne andavano tranquillamente per le vie della città, discorrendo allegramente del ritorno della primavera. Gérande, prendendo con cura il braccio del vegliardo, si diresse verso San Pietro, mentre Scholastique li seguiva, portando loro il libro delle preghiere. La gente li guardava passare con quella curiosità indiscreta che destava il loro strano aspetto: il vecchio si lasciava condurre come un bambino, o piuttosto come un cieco. I fedeli di San Pietro lo videro entrare nella chiesa con un sentimento di sgomento; essi fecero persino l'atto di ritrarsi, mentre egli si avvicinava. Già risonavano i canti della messa e Gérande si diresse verso il suo solito banco, e vi si inginocchiò col più profondo raccoglimento. Mastro Zacharius si fermò presso di lei, in piedi. Le cerimonie religiose si svolsero con la solennità che caratterizzava quell'epoca di fede; ma il vecchio non credeva. Egli
non implorò la pietà del cielo con le invocazioni del Kyrie; 2 col Gloria in excelsis non cantò la magnificenza di Dio; la lettura del Santo Vangelo non lo trasse dalle sue meditazioni materialistiche ed egli dimenticò di associarsi agli altri nell'atto di fede del Credo; il superbo vecchio rimaneva immobile, senza sedersi, senza inginocchiarsi, insensibile e muto, come una statua di marmo; e persino nel momento solenne in cui il campanello annunziò il miracolo della transustanziazione egli non si inchinò minimamente e guardò diritto l'ostia consacrata che il sacerdote alzava sui fedeli genuflessi. Gérande guardò suo padre piangendo; abbondanti lacrime bagnarono il suo libro delle preghiere. In questo punto l'orologio di San Pietro suonò le undici e mezzo; mastro Zacharius si voltò con un triste sorriso verso quel vecchio campanile, che parlava ancora così bene. Egli ebbe l'impressione che il quadrante interno lo guardasse fissamente, che i numeri delle ore brillassero come se fossero stati segnati con tratti di fuoco; e che le lancette dardeggiassero scintille elettriche attraverso le loro punte aguzze. La messa ebbe termine. Era uso che l’Angelus 3 si recitasse a mezzogiorno, e i sacerdoti prima di abbandonare il presbiterio, aspettarono che l'ora suonasse all'orologio del campanile. Ancora qualche istante, e quella preghiera sarebbe salita al cuore della Vergine. Ma d'improvviso si udì un rumore stridulo. Mastro Zacharius lanciò un grido... La grande sfera del quadrante, arrivata sul punto che segna il mezzogiorno, s'era arrestata di colpo, e mezzogiorno non suonò. Gérande si precipitò in soccorso del padre, riverso sulla sedia, senza più segni apparenti di vita, e che venne trasportato fuori della 2
Il Kyrie è una invocazione che si recita o si canta all'inizio della messa, dopo « l'introito ». Il Gloria in excelsis, cui si accenna più oltre, è un inno di lode e il Credo un atto di fede. 3 Angelus è una preghiera alla Madonna che si recita al mattino, al mezzogiorno e alla sera. Le sue parole ricordano il saluto dell'Angelo il quale annunciò alla Vergine che sarebbe stata madre di Dio.
chiesa. « È il colpo mortale », pensò Gérande. Mastro Zacharius, ricondotto in casa, fu posto a letto in uno stato di completo sfinimento. La vita non si manifestava più che alla superficie del suo corpo, come le ultime nubi di fumo, che vagano intorno a una lampada appena spenta. Quando riprese i sensi, Aubert e Gérande erano chini su di lui. In quel momento supremo l'avvenire, davanti ai suoi occhi, prese la forma del presente; egli lo previde: vide sua figlia sola, abbandonata, senza appoggio. — Figlio mio, — disse allora ad Aubert, — io ti do per sposa mia figlia; — e stese la mano verso i due giovani, che si videro così uniti davanti a un letto di morte. Ma a questo punto il vecchio si sollevò con un movimento di collera; le parole del piccolo vecchietto gli tornavano alla memoria. — Io non voglio morire! — gridò. — Non posso morire! Io, mastro Zacharius, non devo morire!... I miei libri... i miei conti! E così dicendo, si slanciò verso un libro, nel quale stavano scritti i nomi dei suoi clienti e gli oggetti, che aveva loro venduto; egli lo sfogliò con frenesia e il suo dito scarno si arrestò sopra una pagina. — Ecco! — disse. — Ecco quel vecchio orologio di ferro che vendetti a Pittonaccio! È il solo che non mi è stato ancora riportato... Dunque esiste ancora, va ancora, vive ancora!... Ah! Io lo voglio! Lo ritroverò; lo terrò con tanta cura che la morte non avrà alcun potere su di me! E svenne. Aubert e Gérande, dopo essersi scambiata un'occhiata, si inginocchiarono presso al letto del vegliardo e pregarono insieme.
CAPITOLO V L'ORA DELLA MORTE PASSARONO ANCORA alcuni giorni d'angoscia, e mastro Zacharius, quell'uomo quasi morto, si rialzò dal suo letto di dolore e ritornò alla vita per effetto di un eccitamento straordinario: viveva d'orgoglio. Ma Gérande non si illuse; il corpo e l'anima di suo padre erano perduti per sempre. Lo si vide occupato a raccogliere le sue ultime risorse, senza prendersi cura dei suoi; mostrava un'energia e una rapidità incredibili, camminando, frugando, mercanteggiando i suoi capolavori e mormorando parole misteriose. . Un mattino Gérande discese nella sua bottega; mastro Zacharius non c’era. Per tutto quel giorno lo aspettò ma mastro Zacharius non tornò. Gérande pianse tutte le sue lacrime durante questa assenza, poi anche le lacrime inaridirono, giacché suo padre non ricomparve. Aubert corse per la città e si fece la triste convinzione che il vecchio fosse partito. — Seguiamolo, seguiamo mio padre, — gridò Gérande, quando il giovane operaio le riferì questa dolorosa notizia. — Ma dove può essere? — si chiese Aubert. Una ispirazione illuminò d'improvviso la sua mente; gli tornarono alla memoria le ultime parole di mastro Zacharius... L'orologiaio non viveva più che in quel vecchio orologio di ferro che non gli era stato riportato; mastro Zacharius doveva essersi messo a cercarlo. Aubert comunicò questo segreto pensiero a Gérande. — Guardiamo il libro di mio padre, — disse la fanciulla. Tutti e due entrarono nella bottega... Il libro era aperto sul tavolo. Tutte le consegne fatte dall'orologiaio, e che gli erano state poi riportate per via della irregolarità mostrata dai vari orologi, erano cancellate da una mano tremante, tutte, meno questa:
« Venduto al signor Pittonaccio un orologio di ferro con soneria e personaggi semoventi, e depositato nel suo castello d'Andernatt ». Era quell'orologio che a ogni ora mostrava alcune « sentenze morali » e di cui la vecchia Scholastique aveva parlato tanto e con tanti elogi. — Mio padre è là! — Corriamo, — rispose Aubert; — possiamo ancora salvarlo! — Non per questa vita, — mormorò Gérande, — ma almeno per l'altra. — Sia lodato il Signore, Gérande! Il castello d'Andernatt sorge nelle valli del Dent-du-Midi, a una ventina d'ore di strada da Ginevra. Partiamo subito. Quella sera stessa Aubert e Gérande, seguiti dalla vecchia domestica, se ne andavano camminando per la strada che costeggia il lago di Ginevra. Percorsero cinque leghe durante la notte, non essendosi fermati né a Bessinge né a Hermance, dove sorge il celebre castello dei Mayor. Passarono a guado e non senza fatica il torrente della Dranse e in ogni luogo chiedevano notizie di Zacharius. Ma ben presto ebbero la certezza che camminavano sulle sue tracce. L'indomani, al cader del giorno, dopo aver passato Thonon, arrivarono a Evian, di dove la costa svizzera del lago si svolge per una distesa di dodici leghe; ma i due fidanzati non avvertirono l'incanto di quei luoghi. Essi andavano come spinti da una forza sovrumana: Aubert, appoggiato a un nodoso bastone, offriva il braccio ora a Gérande, ora alla vecchia Scholastique, attingendo dal cuore una energia suprema per sostenere le sue deboli compagne. Parlavano delle loro sofferenze, delle loro segrete speranze e percorrevano così quella bella strada che costeggia il lago e che si prolunga ai piedi del ristretto altipiano, che collega le rive del lago alle alte montagne dello Chablais. In breve toccarono Bouveret, nel punto in cui il Rodano si getta nel lago di Ginevra. Di qui abbandonarono il lago e il cammino divenne più faticoso in quella regione montuosa. Vionnaz, Chesset, Collombey, villaggi sperduti, furono presto alle loro spalle. Ma erano stanchi, avevano i piedi sanguinanti per le rocce aguzze che affioravano dal terreno. E di mastro Zacharius nessuna traccia.
Eppure bisognava ritrovarlo, ed essi non chiesero ospitalità e riposo né a quelle borgate isolate, né al castello di Monthey, che con i suoi dintorni divenne poi appannaggio di Margherita di Savoia. Finalmente, sul cadere del secondo giorno, arrivarono, più morti che vivi, all'eremitaggio di Notre-Dame di Sex, posto alla base del Dentdu-Midi e situato a 600 piedi sul livello del Rodano. L'eremita li ricevette tutti e tre, mentre cominciava a scendere la notte; gli infelici non avrebbero potuto camminare oltre, e dovettero riposarsi. L'eremita non diede loro alcuna notizia di Zacharius. A stento si poteva sperare di ritrovarlo ancora vivo, in mezzo a quelle sperdute solitudini. La notte era profonda, l'uragano infuriava sulla montagna, e le valanghe rotolavano dalle cime sconvolte. I due fidanzati, seduti accanto al focolare dell'eremita, gli raccontavano la loro dolorosa storia. Le loro vesti bagnate dalla neve si asciugavano in un angolo, e il cane di fuori guaiva lamentosamente e mandava latrati, che, uniti al sibilo della bufera, formavano strani lamenti. — La superbia, — disse l'eremita ai suoi ospiti, — ha perduto un angelo creato per il bene; è questa la pietra d'inciampo in cui urtano i destini degli uomini; alla superbia, principio di tutti i vizi, non si può opporre alcun ragionamento, giacché per la sua stessa natura il superbo non vuole ascoltare consigli... Non resta dunque che pregare per lui. Tutti e quattro stavano per inginocchiarsi, quando i latrati del cane raddoppiarono, e fu picchiato alla porta dell'eremitaggio. — Aprite in nome del diavolo! La porta cedette sotto un urto violento e apparve un uomo scarmigliato, con gli occhi stravolti, a malapena vestito. — Mio padre! — gridò Gérande. Era infatti mastro Zacharius. — Dove sono? — disse. — Sono forse già entrato nell'eternità?... Il tempo è finito, le ore non suonano più... le lancette si fermano! — Padre mio! — ripeté Gérande con una così straziante commozione che il vegliardo parve ritornare nel mondo dei vivi. — Tu qui, mia Gérande? — gridò; — e anche tu, Aubert!... Ah, i miei cari fidanzati, voi venite a sposarvi nella nostra vecchia chiesa!
— Padre mio! — disse Gérande, afferrandolo per il braccio, — ritornate alla vostra casa a Ginevra, ritornate con noi! Il vecchio si sottrasse alla stretta di sua figlia e tornò verso la porta, dove la neve già si ammucchiava. — Non abbandonate i vostri figli! — esclamò Aubert. — Perché, — rispose tristemente il vecchio orologiaio, — perché tornare in quei luoghi, che la mia vita ha già abbandonato, e dove una parte di me stesso è già per sempre sepolta?. — La vostra anima non è morta! — gli rispose l'eremita con accento grave. — La mia anima!... Oh, no, le sue ruote sono ancora buone!... Le sento muoversi con regolarità... — La vostra anima è immateriale! La vostra anima è immortale! — riprese l'eremita con energia. — Sì, come la mia gloria!... Ma essa è rinchiusa nel castello d'Andernatt, e io voglio riaverla! L'eremita si fece il segno della croce. Scholastique era quasi morta di paura; Aubert sosteneva Gérande tra le sue braccia. — Il castello d'Andernatt è abitato da un dannato, — rispose l'eremita, — un dannato che non saluta la croce del mio eremitaggio! — Padre mio, non ci andate! — Voglio la mia anima! Essa è mia! — Trattenetelo, trattenete mio padre! — gridò Gérande. Ma il vecchio aveva oltrepassato la soglia e si era slanciato nell'oscurità, gridando: — La mia anima! Voglio la mia anima! Gérande, Aubert e Scholastique si precipitarono sui suoi passi. Essi camminavano per sentieri impraticabili, sui quali mastro Zacharius andava come l'uragano, spinto da una forza irresistibile. La neve turbinava intorno a loro e confondeva i suoi fiocchi bianchi con la schiuma dei torrenti straripati. Nel passare davanti alla cappella innalzata in ricordo del massacro della legione tebana, Gérande, Aubert e Scholastique si fecero rapidamente il segno della croce. Mastro Zacharius non si levò neppure il berretto. Finalmente, in mezzo a quella regione selvaggia, apparve il
villaggio di Évionnaz. Anche un cuore di ferro sarebbe rimasto turbato vedendo quella borgata sperduta in mezzo a quelle orribili solitudini. Il vegliardo passò oltre. Si diresse verso sinistra ed entrò nella più cupa delle gole del Dent-du-Mídi che manda verso il cielo le sue cime aguzze. E subito apparve davanti a lui un rudere vecchio e scuro, come le rocce su cui poggiava. — È la! È là! — gridò il vecchio, affrettando di nuovo la sua corsa sfrenata... Il castello d'Andernatt non presentava più, già a quell'epoca, che un cumulo di rovine. Una grossa torre, vecchia, diroccata, lo dominava e sembrava minacciare con la sua caduta i vecchi pignoni che s'alzavano ai suoi piedi. Quei grandi ammassi di pietre facevano una spaventosa impressione. Si intuiva che in mezzo a quell'ingombro di macerie si aprivano sale tenebrose dai soffitti crollati e vi erano immondi covi di vipere. Una porticina stretta e bassa, che si apriva sopra un fossato pieno di macerie, dava accesso nel castello d'Andernatt. Quali abitanti erano passati di là? Non lo si sa. Senza dubbio qualche margravio, mezzo brigante e mezzo signore, aveva soggiornato in quel castello. Al margravio erano succeduti i banditi o coloro che battevano monete false, impiccati sul luogo stesso dei loro delitti. E la leggenda diceva che, nelle sere invernali, Satana veniva a dirigere i suoi « sabba » 4 sul pendio dei profondi abissi, in cui scompariva l'ombra di quelle rovine. Mastro Zacharius non fu affatto spaventato da quell'aspetto sinistro. Arrivò alla porticina e nessuno gli impedì di passare. Un grande e tenebroso cortile apparve ai suoi occhi. Nessuno gli impedì di attraversarlo. Egli salì una specie di piano inclinato, che conduceva a uno di quei lunghi corridoi, le cui arcate sembrano spegnere la luce del giorno sotto le loro pesanti volte. Nessuno gli sbarrò il passo. Gérande, Aubert e Scholastíque lo seguivano sempre. Mastro Zacharius, come guidato da una mano invisibile, sembrava sicuro della sua strada e camminava con passo rapido. Arrivò così a 4
Erano detti « sabba » certi presunti convegni di streghe e di diavoli che si tenevano il sabato, solitamente in luoghi solitari e selvaggi.
un vecchio uscio tarlato, che vacillò sotto i suoi colpi, mentre i pipistrelli tracciavano cerchi obliqui intorno alla sua testa. Una sala immensa, conservata meglio delle altre, si aprì davanti al suo sguardo. Alte formelle scolpite ne rivestivano i muri sulle quali ombre, larve e lemuri 5 sembravano agitarsi confusamente. Alcune finestre lunghe e strette, simili a feritoie, tremavano per l'infuriare della bufera. Giunto nel mezzo della sala, mastro Zacharius mandò un grido di gioia. Sopra un basamento di ferro accostato alla muraglia era posato quell'orologio, in cui si concentrava tutta la sua vita. Questo capolavoro senza uguale rappresentava una vecchia chiesa romanica con i suoi contrafforti in ferro battuto e il suo pesante campanile, in cui stava una soneria completa per l'Ave Maria, l'Angelus, la messa, i vespri, la compieta e la benedizione della sera. Sopra la porta della chiesa, che si apriva all'ora delle funzioni, era intagliato un rosone, nel centro del quale si muovevano due sfere, e l'archivolto del quale riproduceva le dodici ore del quadrante scolpite in rilievo. Fra la porta e il rosone, come aveva raccontato la vecchia Scholastíque, si leggeva in un riquadro di rame una sentenza sul modo d'impiegare ogni parte della giornata. Mastro Zacharius aveva ordinato questa successione di sentenze con una sollecitudine tutta cristiana; le ore della preghiera, del lavoro, dei pasti, della ricreazione e del riposo si succedevano secondo la disciplina religiosa e dovevano infallibilmente guidare alla salute eterna chi avesse osservato con scrupolo le loro prescrizioni. Mastro Zacharius, ebbro di gioia, stava per impadronirsi di questo orologio, quando dietro di lui scoppiò una stridula risata. Egli si volse e, al lume di una lucerna fumosa, riconobbe il vecchietto di Ginevra. — Voi qui? — gridò Zacharius. Gérande ebbe paura. Si strinse al fianco del fidanzato. — Buon giorno, mastro Zacharíus! — disse l'ometto. — Chi siete voi? 5
Secondo antiche credenze, i lemuri erano ombre di defunti che tornavano in terra a molestare i vivi.
_— Il signor Pittonaccio, per servirvi. Voi siete venuto a darmi vostra figlia! Vi siete ricordato delle mie parole: « Gérande non sposerà Aubert ». Il giovane operaio si slanciò contro Pittonaccio, che gli scappò come una ombra. — Fermatevi, Aubert! — gridò mastro Zacharíus. — Buona notte, — disse Pittonaccio, e disparve. — Padre mio, — gridò Gérande, — fuggiamo da questo luogo maledetto! Padre mio!... Mastro Zacharíus non era più là. Inseguiva per le stanze diroccate l'ombra di Pittonaccio. Scholastique, Gérande e Aubert restarono accasciati in quella sala immensa. La giovane era caduta sopra un sedile di pietra; la vecchia domestica s'inginocchiò accanto a lei e pregò. Aubert rimase in piedi a vegliare sulla fidanzata. Alcuni pallidi barlumi serpeggiavano nell'ombra, e il silenzio non era interrotto che dal lavoro di quegli animaletti, che rodono il legno vecchio, e il cui rumore segna il tempo dell'« orologio della morte ». Alle prime luci del giorno essi s'arrischiarono tutti e tre per le scale interminabili, che circolavano sotto quell'ammasso di pietre. Per due ore si aggirarono così, senza incontrare anima viva e senza udire che un'eco lontana, la quale rispondeva alle loro grida. Ora si trovavano sepolti a cento piedi sotto terra, ora dominavano dall'alto quelle montagne selvagge. Il caso li ricondusse infine nella vasta sala, che li aveva accolti durante quella notte d'angoscia. Essa non era più vuota. Mastro Zacharíus e Pittonaccio vi discorrevano insieme, l'uno in piedi e rigido come un cadavere, l'altro accoccolato sopra una lastra di marmo. Zacharíus, avendo veduto Gérande, andò a prenderla per mano e la condusse verso Pittonaccio, dicendole: — Ecco il tuo padrone e signore, figlia mia! Gérande, ecco il tuo sposo! Gérande tremò dalla testa ai piedi. — Mai! — gridò Aubert, — è la mia fidanzata. — Mai! — rispose come un'eco lamentosa Gérande. Pittonaccio si mise a ridere. — Volete dunque la mia morte? — gridò mastro Zacharíus. —
Là, dentro quell'orologio, l'ultimo di tutti quelli usciti dalle mie mani, che ancora cammina, è chiusa la mia vita, e quest'uomo mi ha detto: « Quando io avrò tua figlia, quest'orologio ti apparterrà ». E quest'uomo non vuole ricaricarlo! Può spezzarlo e precipitarmi nel nulla! Ah! figlia mia! Non mi ami dunque più? — Padre mio! — sospirò Gérande, riprendendo i sensi. — Se tu sapessi quanto ho sofferto lontano da questo principio della mia stessa esistenza! — riprese il vecchio. — Forse non si aveva cura di questo orologio! Forse si lasciava che le sue molle si consumassero e che le sue ruote uscissero dai perni! Ma ora, con le mie stesse mani, voglio tener ferma e salda questa salute così cara, giacché bisogna che io non muoia, io, il grande orologiaio di Ginevra! Guarda, figlia mia, come quelle sfere procedono con passo fermo e sicuro. Fa' attenzione, ecco che stanno per suonare le cinque, ascolta bene e leggi la bella sentenza, che si presenterà ai tuoi occhi. Suonarono infatti le cinque al campaniletto di quell'orologio, diffondendo un rumore strano, che si ripercosse dolorosamente nell'anima di Gérande, e sul riquadro di rame apparvero in lettere rosse le seguenti parole: « Bisogna mangiare i frutti dell'albero della scienza ». Àubert e Gérande si guardavano con sgomento. Non erano più le sagge sentenze dell'orologiaio cristiano; sicuramente il soffio di Satana era passato di là. Ma mastro Zacharius non vi fece neppure caso e riprese: — Capisci, Gérande mia? Io vivo! Vivo ancora! Ascolta il mio respiro uguale, guarda come il sangue circola nelle mie vene... No! Tu non vorrai uccidere tuo padre e accetterai come sposo quest'uomo, affinché io diventi immortale e raggiunga la potenza di Dio! A queste empie parole Scholastique si fece il segno della croce e Pittonaccio emise un ululato di gioia. — E poi, Gérande, tu sarai felice con lui! Vedi, quest'uomo è il tempo; la tua esistenza sarà regolata con una precisione assoluta. Gérande! Poiché io ti diedi la vita, tendi la vita a tuo padre! — Gérande, — mormorò Aubert, — sono io il tuo fidanzato. — Ma è pur sempre mio padre! — rispose Gérande accasciandosi.
— Gérande è tua, — disse mastro Zacharius, — e ora, Pittonaccio, manterrai la tua parola. — Ecco la chiave di quell'orologio, — rispose l'ometto. Zacharius afferrò una lunga chiave, che assomigliava ad un serpe attorcigliato; corse all'orologio e si mise a caricarlo, con nervosa rapidità. Lo stridere delle molle aveva un suono raccapricciante. L'orologiaio girava, girava la chiave, senza che il suo braccio si stancasse; sembrava che questo movimento di rotazione non dipendesse più dalla sua volontà. Egli girava sempre più rapidamente, con strane contorsioni, finché cadde sfinito. — Eccolo caricato per un secolo! — gridò con gioia terribile. Aubert scappò dalla sala come, un pazzo. Dopo lunghi giri, trovò l'uscita di quel castello maledetto e si slanciò nella campagna. Tornò all'eremitaggio di Notre-Dame di Sex; parlò al sant'uomo con accenti così disperati che egli acconsentì ad accompagnarlo la sera stessa al castello d'Andernatt. Se durante quelle ore d'angoscia Gérande non aveva pianto fu perché le lacrime si erano disseccate nei suoi occhi. Mastro Zacharius non abbandonava quell'immensa sala; a ogni istante andava ad ascoltare il battito regolare del vecchio orologio e sorrideva con una gioia disumana. Intanto erano suonate le dieci, e con gran terrore di Scholastique sul riquadro di rame erano apparse queste parole: « L'uomo può divenire simile a Dio ». Il vecchio non si sentiva per nulla offeso da quelle empie sentenze, anzi le leggeva con delirio e si compiaceva in questi pensieri di superbia, mentre Pittonaccio s'aggirava intorno a lui e lo avviluppava in una serie di cerchi tortuosi e fantastici. L'atto di matrimonio doveva essere sottoscritto a mezzanotte. Gérande quasi esanime, non vedeva, non sentiva e non capiva più nulla; il silenzio non era interrotto che dai gemiti del vecchio e dai sarcasmi di Pittonaccio, al quale più di una volta le unghie s'allungarono smisuratamente. Suonarono le undici; Zacharius trasalì e con voce allegra lesse queste parole: « L'uomo deve essere lo schiavo della scienza e per lei deve sacrificare parenti e famiglia ».
— Sì, — gridò, — non vi è che la scienza a questo mondo! Le lancette avanzavano con mosse serpentine sul quadrante e mandavano fischi da vipere; i battiti dell'orologio erano precipitosi e lugubri. Mastro Zacharius non parlava più. Egli aveva il rantolo, e dal suo petto oppresso non uscivano che parole smozzicate. — La vita!... La scienza! Questa scena aveva due nuovi testimoni: l'eremita e Aubert. Zacharius era accasciato al suolo, Gérande, accanto a lui, più morta che viva, pregava... D'improvviso si udì lo scatto secco che precede il suono delle ore. Zacharius si rizzò: — Ecco la mezzanotte! — gridò. L'eremita distese la mano verso il vecchio orologio, e la mezzanotte non suonò. Mastro Zacharius mandò allora un grido, che certamente fu sentito persino nell'inferno, quando sull'orologio apparvero queste parole: « Chi tenterà di rendersi uguale a Dio sarà dannato in eterno ». Il vecchio orologio scoppiò con il fragore di un fulmine; la molla ne schizzò fuori e saltò attraverso la sala con mille contorsioni fantastiche. Il vecchio le corse dietro, cercando invano di prenderla e gridando: — La mia anima! La mia anima! .. La molla infernale saltava e rimbalzava davanti a lui senza che egli riuscisse a prenderla. Infine Pittonaccio l'afferrò d'un balzo è, con un'orribile bestemmia, sprofondò sotterra. Mastro Zacharius cadde riversò. Era morto. - Il corpo dell'orologiaio fu sepolto in mezzo ai picchi selvaggi d'Andernatt. Poi Aubert e Gérande tornarono a pregare per lui a Ginevra, e durante i lunghi anni di felicità che Dio accordò loro si sforzarono di riscattare l'anima di quell'infelice, invasato dall'orgoglio della scienza.