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LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO LA LETTERA AGLI EBREI
NUOVO TESTAMENTO COLLABORATORI
Paul Althaus t, Hermann W olfgang Beyer t, Hans Conzelmann, Joachim Jeremias, Eduard Lohse, Albrecht Oepke t, Karl Heinrich Rengstorf, Johannes Schneider, Julius Schniewind t, Eduard Schweizer, Gustav Stahlin, Hermann Strathmann t e Heinz-Dietrich Wendland a cura di GERHARD FRIEDRICH
VOLUME 9
LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO LA LETTERA AGLI EBREI
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PAIDEIA EDITRICE BRESCIA
LE LEl TERE A TIMOTEO E A TITO LA LETTERA AGLI EBREI 1
Commento di }OACHIM }EREMIAS
e HERMANN STRATHMANN
Traduzione italiana di Grno CECCHI Edizione italiana a cura di GIAN LUIGI PRATO
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PAIDEIA EDITRICE BRESCIA
Titolo originale dell'opera: Vie Briefe an Thimotheus und Titus. Der Brief an die Hebraer -Obersetz und erklart von JOACHIM }EREMIAS und HERMANN STRATHMANN Traduzione di Gino Cecchi Edizione italiana a cura di Gian Luigi Prato
© Vandenhoeck & Ruprecht, Gi.ittingen © Paideia Editrice, Brescia 1973
1936, 1968
È severamente vietata la riproduzione della traduzione del testo biblico, la quale è di esclusiva proprietà delta Casa Paideia.
NUOVO TESTAMENTO PIANO DELL'OPERA in II volumi I.
Eduard Schweizer Il Vangelo secondo Marco
2.
Julius Schniewind Il Vangelo secondo Matteo
3. K. H. Rengstorf Il Vangelo secondo Luca 4. Hermann Strathmann Il Vangelo secondo Giovanni 5. Gustav Stahlin
Gli Atti degli Apostoli 6. Paul Althaus La Lettera ai Romani 7. Heinz-Dietrich W endland
Le Lettere ai Corinti 8. Beyer, Althaus, Conzelmann, Friedrich, Oepke Le Lettere minori dell'apostolo Paolo 9. Joachim Jeremias - Hermann Strathmann Le Lettere a Timoteo e a Tito; La Lettera agli Ebrei ro. J ohannes Schneider Le Lettere di Giacomo, Pietro, Giuda e Giovanni I
r . Eduard Lohse L'apocalisse di Giovanni
LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO Joachim Jeremias
INTRODUZIONE
Le tre Lettere pastorali {troviamo per la prima volta questa denominazione in Paul Anton nel l 7 5 3) formano, e per il contenuto e per il linguaggio, un gruppo a sé nell'insieme delle Lettere paoline. Di tali Lettere, indirizzate ad una singola persona, fa parte anche quella a Filemone, che però si differenzia dalle Lettere pastorali per il suo carattere privato. r. Timoteo e Tito. Era l'estate del 49 (o 50 ), alcuni mesi dopo la discussione di Paolo con Pietro (Gal. 2,II ss.) e Barnaba (Act. 15,36 ss.), quando all'Apostolo, rimasto solo a Listra (Act. 16,1 ss.), giunse come un dono di Dio, Timoteo, l'uomo che doveva restargli disinteressatamente (Phil. 2,20 s.) fedele :fino alla morte, in comunione di fede con lui. Sembra che in un primo tempo quell'uomo, allora ventenne (v. comm. a I Tim. 4,12), abbia accompagnato Paolo e Sila in qualità di coadiutore missionario; ma ben presto l'Apostolo gli affidò importanti incarichi autonomi (I Thess. 3,r ss.; I Cor. 4,17; 16,ro s.; Act. 19,22; Phil. 2,19 ss.). Egli è nominato fra i mittenti in sei lettere (I e 2 Thess., 2 Cor., Phil., Col., Philm. ). Ha accompagnato Paolo a Gerusalemme alla fine del terzo viaggio missionario (Act. 20,4) e poi gli è stato vicino durante la prima prigionia a Roma (eol. I 'I ; p hilm. I); il prigioniero isolato dice che l'amico disinteressato è la sua consolazione (Phil. 2,19-23). Le Lettere pastorali mostrano l"evangelista', che doveva avere di poco superato i trent'anni (2 Tim. 4,5), in una posizione direttiva di responsabilità come rappresentante dell'Apostolo nella chiesa del-
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Lettere pastorali: Introduzione
l'Asia Minore: Paolo investe lui e Tito (Tit. l,5) del servizio gerarchico e li ordina (r Tim. 5,22), e Timoteo deve mantenere la disciplina nella chiesa a lui affidata (r Tim. 5,19 s.). La 2 Tim. gli reca l'estrema preghiera dell'Apostolo prima di essere messo a morte: «vieni da me più presto che puoi» (2Tim.4,9 cfr.4,21); evidentemente Paolo gli vuole trasmettere in eredità l'opera della sua vita. Dopo il martirio dell'Apostolo egli prosegue fedelmente il suo lavoro, insieme ad uno dei principali dottori dell'ambiente paolino, l'ignoto autore della Lettera agli Ebrei (Hebr. 13,23); è questa l'ultima notizia che abbiamo di lui. La tradizione unanime ne ha fatto, non senza un fondamento storico, il primo vescovo di Efeso. Tito, che sembra essere stato all'incirca coetaneo di Timoteo (Tit. 2,6.7), ci è noto soltanto da quattro Lettere di Paolo (Gal., 2 Cor., Tit., 2 Tim.) ed è strano che gli Atti degli Apostoli non parlino di lui. Pagano di nascita (Gal. 2, 3) e convertito da Paolo (Tit. l,4), lo incontriamo per la prima volta nel 48 (o 49) d.C. come un membro della chiesa antiochena e accompagnatore di Paolo nel viaggio al concilio degli Apostoli (Gal. 2,1); era dunque collaboratore di Paolo già prima di Timoteo. Durante il terzo viaggio è stato latore ai Corinti della 'lettera delle lacrime', l'ultimatum dell' Apostolo, e con la sua abilità è riuscito a riportare all'obbedienza quella comunità, che Paolo dava già quasi per perduta (2 Cor. 2,13 ss.; 7,13 ss.; 8,6; 12,17 s.). Latore della seconda Lettera ai Corinti, egli ha poi preparato definitivamente la venuta a Corinto dell'Apostolo (2 Cor. 8,6.16-24). Soltanto anni dopo lo incontriamo nuovamente (nella Lettera a Tito) a Creta, dove Paolo lo ha lasciato ad organizzare la giovane chiesa cretese (Tit. 1,5). Poco prima della morte dell'Apostolo si recò in Dalmazia, evidentemente per incarico di Paolo ( 2 T im. 4, ro). Secondo la tradizione morì a 9 4 anni a Gortina, vescovo dell'isola di Creta.
Ordine di successione delle Lettere. La situazione
2. Ordine di successione delle tre Lettere. Una base per stabilire tale ordine è offerta dall'evoluzione degli indirizzi delle Lettere. Le Lettere paoline più antiche hanno tutte senza eccezione la formula introduttiva di saluto «grazia a voi e pace»; nella Lettera a Tito è stato tralasciato «a voi», che non si prestava ad un solo destinatario: «grazia e pace»; nella prima Lettera a Timoteo il ritmo, disturbato da quell'abbreviazione, è ristabilito con l'aggiunta della parola éleos ('misericordia'), e così pure nella seconda. Pertanto la Lettera a Tito è probabilmente la più antica delle tre. 3. La situazione. Dalla Lettera a Tito veniamo a conoscenza di una attività missionaria dell'Apostolo, insieme a Tito, nell'isola di Creta ( l ,5 ). Paolo è tornato sul continente e si propone di passare l'inverno a Nicopoli (evidentemente Nicopoli nell'Epiro, 3,12). La rTim. dà notizia soltanto di un viaggio dell'Apostolo in Macedonia, cui deve aver preceduto un periodo di attività a Efeso insieme a Timoteo ( l ,3 ). Il maggior numero di notizie è contenuto nella 2 Tim.: Paolo è in carcere (1,8) a Roma (1,17); la prigionia è molto dura, ed egli è incatenato come un malfattore ( 2 ,9 ). Si è già svolto un primo processo (4,16 s.), che gli è stato favorevole; ma Paolo nutre dubbi sull'esito finale ( 4, l 8) e si aspetta fra breve di essere messo a morte (4,6 ss.9.2 l ). Le notizie sul mantello dimenticato a Troade (4,13 ), su Erasto rimasto a Corinto e su Trofìmo ammalato a Mileto (4,20 ), indicano dove si è svolta l'attività di Paolo prima della sua recente incarcerazione. Sulla dimora di Timoteo v. comm. a 4,19; sul periodo in cui è stata scritta la Lettera v. comm. a 4,2I. Queste notizie non si possono fare concordare con quelle che sono state tramandate negli Atti degli Apostoli e che giungono fino al termine della prima prigionia romana; ciò appare molto chiaramente ad es. in 2 Tim., la quale presuppone che, subito prima di essere incarcerato a Roma, Paolo abbia operato in Grecia ed in Asia Minore, senza essere ac-
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Lettere pastorali: Introduzione
compagnato da Timoteo. Perciò le notizie delle Lettere pastorali devono riferirsi all'epoca successiva alla prima prigionia romana; e di fatto in nessuna fonte antica è detto che Paolo sia stato messo a morte dopo la prima prigionia romana. (L'improvvisa conclusione degli Atti degli Apostoli si spiega con tutta probabilità con il fatto che ai due libri lucani doveva seguire un terzo, conclusivo). Invece, la prima Lettera di Clemente, scritta intorno al 96, parla (5,7) di un viaggio di Paolo in Spagna, che (ove non si desuma soltanto da Rom. l 5 ,24.28) egli può avere compiuto solo dopo la sua prima prigionia romana. La più importante testimonianza a favore del fatto che Paolo sia stato rimesso in libertà e abbia concluso la sua opera con un quarto viaggio missionario è offerta dalle stesse Lettere pastorali, anche nel caso di una loro inautenticità: perfino un falsificatore non avrebbe potuto inventare il quadro esteriore delle Lettere in contrasto con lo svolgimento effettivo degli avvenimenti, in un'epoca in cui erano ancora in vita dei contemporanei dell'Apostolo (l'unica seria difficoltà che si può opporre ad un'attività di Paolo in Asia Minore dopo la prigionia romana è l'annuncio dell'Apostolo [Act. 20,25.38] che la comunità di Efeso non l'avrebbe più riveduto. Tuttavia queste parole potrebbero riflettere semplicemente i timori dell'Apostolo, che egli manifesta in Rom. 15,31, e la pateticità di quel commiato; del resto gli Atti degli Apostoli hanno conservato preannunci del destino dell'Apostolo, che poi non si sono realizzati alla lettera [21,n.13]).
4. Mentre la seconda Lettera a Timoteo, per la forma ed il contenuto, è una lettera privata, la prima Lettera a Timoteo e quella a Tito sotto l'aspetto formale si presentano come scritti ufficiali. La resa di grazie a Dio, con cui si aprono regolarmente le altre Lettere (ad eccezione di Gal.), manca in I Tim. e Tit.; in luogo di essa, I Tim. l ,3 ss. e Tit. l ,5 iniziano con la ripetizione per iscritto di un incarico già dato
La caratteristica delle Lettere pastorali
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a voce, come era d'uso nella corrispondenza ufficiale. Inoltre, in conformità al carattere ufficiale, alla fìne della I Tim. mancano le comunicazioni personali, gli incarichi particolari ecc. e i saluti, consueti nelle Lettere paoline; mentre in Tìt. sono ridotti al minimo ( 3, r 2 ss. ). Anche il contenuto delle due Lettere è ufficiale: in esse Paolo impartisce ampie istruzioni in virtù dei suoi poteri apostolici; ciò significa che I Tim. e Tit. sono scritti ufficiali, destinati non soltanto alle due persone alle quali sono indirizzate, ma a tutta la loro comunità. Esse trasmettono a Timoteo e a Tito le istruzioni dell'Apostolo, ma nello stesso tempo sono lettere credenziali (Roller ), che mostrano alle comunità che i due delegati dell'Apostolo sono autorizzati a guidare, in sua rappresentanza, le chiese dell'Asia Minore e di Creta. Che poi anche 2 Tim. sia destinata pure alla comunità lo prova la frase iniziale ed il plurale in quella finale. 5. La caratteristica delle Lettere pastorali è definita nel modo più appropriato dal titolo che è stato loro dato. Esse sono le uniche in tutta la Bibbia che contengano istruzioni ai 'pastori' della chiesa per la cura delle anime. Ciò che esse dicono a proposito della gerarchia ecclesiastica, della retta predicazione, dell'ordinamento della vita cultuale delle comunità, della guida e del mantenimento della disciplina ecclesiale, della cura delle anime in tutti i ceti della comunità, come pure degli erranti; in sostanza, tutto quanto in esse vi è di assistenza spirituale e di consiglio ha un'importanza generale anche per la gerarchia ecclesiastica di tutti i tempi. Però la definizione 'Lettere pastorali' non ne esaurisce il contenuto; infatti esse sono più che scritti personali (v. sopra 4), perché sono rivolti pure alle comunità. La prima Lettera a Timoteo e la Lettera a Tito contengono i più antichi ordinamenti della vita ecclesiale sul piano del vangelo: ordinano la distribuzione degli incarichi ecclesiastici e fissano quanto si deve richiedere a coloro che sono investiti di un' au-
Lettere pastorali: Introduzione
torità gerarchica; danno istruzioni sul comportamento ecclesiale dei membri della comunità nel servizio liturgico e nella vita quotidiana; fìssano i confìni con le dottrine eretiche. A questi ordinamenti comunitari, che a loro volta sembrano utilizzare in parte un deposito più antico, le Lettere pastorali debbono l'influenza che hanno esercitato anche in seguito. E infìne la peculiarità e l'importanza delle tre Lettere consistono nel fatto che, anche nel caso che siano solo in parte autentiche, sono gli ultimi scritti del grande Apostolo; ciò vale soprattutto per la seconda Lettera a Timoteo, il possente testamento spirituale di Paolo sulla via del martirio. 6. La questione del!' autenticità è oltre modo complicata per le Lettere pastorali. Caratteristico delle difficoltà presentate da questa questione è che la maggioranza degli studiosi non sa decidersi né per una pura e semplice accettazione della tesi della non autenticità né per un'incondizionata dichiarazione di autenticità, ma cerca rifugio in ipotesi che tentano di mediare i due estremi. Per quel che riguarda in primo luogo l'obiezione all'autenticità, non tutti i motivi addotti sembrano validi. Alcuni argomenti (ad es. la ripetizione scritta in I Tim. l,3 ss.; Tit. l,5 ss. di incarichi già dati avoce, o che in I Tim. 2 e 3 vengono date istruzioni che non sono destinate a Timoteo ma alle comunità) si basano sul non riconoscimento del carattere ufficiale di I Tim. e Tit. (v. sopra 4); alcune differenze delle Lettere pastorali dalle Lettere paoline più antiche sono dovute al loro carattere descritto sopra (v. 5). Infìne, l'obiezione che le Lettere pastorali non potrebbero essere paoline perché conoscono il ministero di 'presbitero', ignoto alle altre Lettere di Paolo, si può considerare senza fondamento, ove siano giuste le nostre considerazioni riguardo a ITim. 5,17. Le obiezioni all'autenticità che devono essere prese sul serio, si fondano essenzialmente su quattro considerazioni. Primo, la loro assenza nel canone di Marciane (intorno al 150) e nel più antico codice
La questione del!' autenticità
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paolino che ci sia stato conservato, il P (scritto intorno al 200 ). Ma la loro assenza in Marciane non può essere dovuta ad una non conoscenza delle Lettere, quanto piuttosto deve attribuirsi al loro rifiuto da parte dello stesso Marciane (Tertull., Mare., 5,21), giacché esse erano note forse già a Ignazio, e in ogni caso a Policarpo di Smirne. Per quanto riguarda poi P 46 , i primi ed ultimi 7 fogli sono andati perduti, per cui non sappiamo che cosa venisse dopo il foglio 97 (I Thess. 5 ,2 8 ). Dato che le Lettere pastorali avrebbero da sole richiesto altri 8 fogli, è evidente che non era stato previsto il loro inserimento nel codice; ma ciò non significa necessariamente che esse non siano autentiche, perché la più antica raccolta delle Lettere di Paolo si sarebbe potuta limitare alle Lettere indirizzate alle comunità. Si potrebbe anche pensare che l'amanuense di P 46 abbia fatto male i conti dei fogli che gli erano necessari (infatti la seconda parte del codice contiene un numero di righe per pagina maggiore che per la prima parte); in questo caso sarebbe ricorso all'aggiunta di tre fogli, cui avrebbero corrisposto tre pagine in bianco all'inizio. Secondo, le obiezioni riguardano il carattere religioso e teologico delle Lettere pastorali. Da una parte, in esse più che nelle altre Lettere paoline è posto l'accento sulla 'sana dottrina' della chiesa (I Tim. r,rn; 2 Tim. 4,3; Tit. l, 9; 2,1 ecc.); ripetutamente la parola 'fede' si avvicina al significato di 'dottrina della fede' (ITim.4,r.6; Tit. l,13: la fede diventa ortodossia). Inoltre, in queste Lettere è riservato alla 'opere buone' uno spazio maggiore (I Tim. 2,10; 5,10; 6,18; 2 Tim. 2,21; 3,17; Tit. 2,14) che nelle altre Lettere di Paolo. I due fatti sembrano indicare una loro stesura in epoca postpaolina: la chiesa si consolida dopo gli inizi movimentati, la sua dottrina comincia a formarsi in una solida entità, la sua etica diventa 'borghese' (M. Dibelius ). Ma questa obiezione non tiene del tutto conto del carattere peculiare delle Lettere pastorali, che si prefiggono soprattutto lo scopo di ordinare la vita ecclesiale nella sua edificazione 46
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Lettere pastorali: Introduzione
interiore e nella lotta contro il settarismo. L'insistenza sulla dottrina della fede come ferma norma, che del resto si trova già occasionalmente nelle Lettere più antiche (ad es. Rom. 6,17; 16,17; oggettivizzazione della fede in Gal. l,23 ecc.), si spiega con il largo spazio che viene ad occupare nelle Lettere pastorali la lotta contro le eresie. E per quel che riguarda le 'buone opere', che non sono assenti neppure nelle Lettere più antiche di Paolo (2 Thess. 2,17; 2 Cor. 9,8; Rom. 2,7; 13,3; Col. l,10; Eph. 2,10), esse non vanno assolutamente intese nel senso della giustificazione per le opere, ma sono piuttosto, come nella predicazione di Gesù ( v. la loro pratica secondo I Tim. 5,16), ben precise 'opere di carità' (questa è l'unica traduzione dell'espressione, che abbia un senso), nelle quali si manifestano nell'uomo di Dio le forze efficaci della vita nuova (2 Tim. 3,17). La loro menzione, relativamente frequente nelle Lettere pastorali, si spiega con l'obiettivo pratico di queste. Tuttavia sotto questo aspetto c'è pur sempre una differenza tra ]e Lettere pastorali e le altre Lettere paoline, differenza che appare anche nella cristologia, che ha rapporti maggiori delle altre Lettere con la cristologia dei primi tempi (il che, però, in parte si spiega con il ricorso che le Lettere fanno in molti casi a detti e formule fisse; I Tim. l,15; 2,5 s.; 3,16; 6,13; 2 Tim. 2,8 ecc.). Un peso maggiore delle prime due ha una terza obiezione all'autenticità delle Lettere pastorali che si fonda sul loro vocabolario e stile. In esse manca tutta una serie di parole e di locuzioni tipicamente paoline; altre locuzioni tipiche di Paolo sono usate con un significato diverso, o in un modo differente per costruzione e frequenza; ma soprattutto qui appaiono 306 vocaboli nuovi (un buon terzo di quelli usati complessivamente) che non si trovano in Paolo ('pietà', 'pio', 'essere pio' tredici volte, 'sana dottrina', 'riflessione'), e il lessico in complesso assai ricco ha maggiori contatti con l'usuale linguaggio elevato del mondo ellenistico, e con la lingua della dottrina sapienziale giudeo-ellenistica, della filosofia popolare e dello
La questione del!' autenticità
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stile aulico, di quel che non si verifichi generalmente in Paolo. Lo stile è sobrio e pacato, in contrasto con quello mosso, spesso precipitoso, delle rimanenti Lettere di Paolo; ampio spazio è occupato da elenchi e da enumerazioni (indicati nella nostra traduzione con dei numeri esponenti tra parentesi, v. I Tim. 3,2 ss. 8 ss.; 2 Tim. 3,2 ss. ecc.); il numero degli aggettivi è sorprendentemente elevato. Ma non bisogna sopravvalutare l'importanza di queste statistiche: ogni Lettera paolina ha le sue particolarità; ad esempio nella Lettera ai Romani ci sono 26r parole nuove; e specialmente nelle Lettere pastorali parecchie questioni si spiegano con il carattere che è loro peculiare: un ordinamento comunitario richiede necessariamente altre parole ed uno stile più concreto di quanto non lo esigano preoccupazioni di cura d' anime, e si ricollega più strettamente con antiche formule; e di fatto questo collegamento appare in molteplici modi ( v. ad esem-· pio la nostra nota preliminare ai capp. 2 e 3 della I Tim. e le numerose virgolette nella traduzione). Inoltre, la lotta condotta contro la gnosi obbligava a servirsi della sua terminologia (v. comm. a I Tim. I,4; 6,20; Tit. r,r6) e a costruirsi un vocabolario polemico. La maggiore presenza dello stile aulico - a parte il fatto che se ne trovano alcune tracce nelle Lettere anteriori (ad es. Phil. 3,20: «salvatore», cfr. quanto diremo dopo il commento di 2 Tim. r,14) - si spiega se si rileva che i passi nei quali più colpisce l'uso di tale stile (Tit. 3,4; 2 Tim. r,ro) sono delle citazioni (v. comm. a Tit. 3,4). Però anche qui rimane da risolvere una seria difficoltà, che è ancora accentuata da un'osservazione apparentemente quasi insignificante, che però ha un'importanza non piccola. Il numero medio delle lettere che compongono una parola, nelle Lettere paoline più antiche va da 4,67 (Lettera a Filemone) a 5,02 (prima Lettera ai Tessalonicesi); nelle Lettere pastorali, invece, tale numero è di 5 ,26 in 2 Tim.; 5 ,5 8 in I Tim. e 5,66 in Tit. (Roller). Questa constatazione indica necessariamente che nelle Lettere pastorali la penna è stata
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Lettere pastorali: Introduzione
maneggiata da una mano diversa da quella che ha scritto le Lettere più antiche. Ma la più seria è una quarta obiezione, della quale spesso non si tiene abbastanza conto. All'epoca della stesura di 2 Tim. Paolo si trova in una prigionia molto dura; è incatenato e viene trattato come un malfattore ( 2 · Tim. 2,9). Se ora si pone mente alle condizioni in cui nei tempi antichi vivevano i prigionieri (essi erano ammassati in celle senza luce, dove la sporcizia era insopportabile, e la mortalità fra i carcerati era motivo di alte lamentele) e se si pensa che, con l'antica tecnica della scrittura, la stesura di una lettera della lunghezza di 2 Tim. richiedeva un faticoso lavoro, non di ore ma di giorni, si deve ammettere che è estremamente improbabile che Paolo abbia scritto di suo pugno in carcere la 2 Tim. Poiché, però questa Lettera non può essere separata dalle altre due Lettere pastorali, ne consegue che tutte e tre non possono essere state scritte di pugno dall'Apostolo. D'altro lato, argomenti di grande peso depongono a favore dell'autenticità delle Lettere come scritti di Paolo. a) Innanzi tutto vanno considerati certi aspetti formali. Nelle Lettere pastorali troviamo forme stilistiche tipicamente paoline: ad es. in Christo Iesu (9 volte), cioè la trasposizione di Iesus Christus in Christus Iesus, che nel Nuovo Testamento (ad eccezione di Act. 24,24) è limitata strettamente al corpo delle Lettere paoline (27 volte); l'uso assoluto della parola 'vangelo' ecc. Ma è importante soprattutto l'osservazione seguente: l'inizio e la fine delle Lettere paoline (il cosiddetto formulario epistolare) mostrano notevoli divergenze dall'usuale formulario antico; e in più il formulario paolino ha seguito nel corso degli anni un processo di formazione e di trasformazione dei suoi aspetti peculiari. Già nella Lettera più antica, la I T hess., troviamo il saluto finale, caratteristicamente paolino: «la grazia di nostro Signore Gesù Cristo sia con voi» (IThess. 5,28); a partire dalla 2Thess. la formula iniziale di saluto, anch'essa tipicamente paolina, ha la
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forma ampliata «da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo» (2Thess. l,2); a partire da Gal. Paolo si definisce 'apostolo' (eccettuate le Lettere ai Filippesi e a Filemone, in cui per motivi comprensibili manca questo titolo); dalla I Cor. i destinatari delle Lettere sono chiamati 'santi'; in Rom. per la prima volta, e poi ancora in Eph., Paolo figura come unico firmatario; infine Col. porta la nuova forma abbreviata del saluto finale: «la grazia sia con voi» (4,18). È un argomento molto probante per l'autenticità paolina delle Lettere pastorali che esse non soltanto mostrino i segni generali caratteristici del formulario epistolare paolino (cfr. comm. a Rom. l,1-7), ma che rispecchino esattamente i vari gradi di evoluzione dello stesso, raggiunti nelle ultime Lettere precedenti: nelle Lettere pastorali Paolo chiama sé apostolo (come in Gal.); egli firma da solo (Rom. e Eph. ); la formula iniziale di saluto ha la forma ampliata di 2 T hess.; e soprattutto il saluto finale delle tre pastorali ha la forma abbreviata che si incontra per la prima volta in Col.: «la grazia sia con voi». I vari gradi di sviluppo del formulario epistolare paolino si connettono con tale precisione con le Lettere pastorali, che non si può evitare di collegare queste ultime con le precedenti Lettere di Paolo (Roller ). Pertanto l'ipotesi che esse siano una falsificazione va considerata estremamente improbabile. Inoltre non si vede perché il presunto autore avrebbe redatto addirittura tre lettere, anziché una sola ( Meinertz). b) Oltre a queste caratteristiche formali di autenticità, se ne offrono altre relative al contenuto delle Lettere pastorali. Mai, in tutta la letteratura extra-paolina, appare così chiara la dottrina paolina come nelle nostre Lettere. Ciò che è detto in I Tim. l,12-1;7 sulla misericordia di Dio, che si è manifestata in Gesù Cristo e sul Salvatore, che è venuto per fare salvi i peccatori; la fede in Gesù Cristo come l'uomo nuovo (I Tim. 2,5); la giustificazione per la grazia (Tit. 3,7); il «solo per la fede» (I Tim. l,16; 2 Tim. 3,15 ecc.) e la dura negazione di qualsiasi giustificazione per le opere («non per le o-
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pere nella giustizia, che abbiamo compiute, ma secondo la sua misericordia» Tit. 3,5 cfr. 2 Tim. l,9); l'amore come unico fine di tutti i comandamenti di Dio (I Tim. l ,5 ); l'invito a seguire pazientemente il fratello errante (2 Tim. 2,25 cfr. 2 Thess. 3,15); le parole sulla forza sostitutiva del dolore (2 Tim. 2,10); tutto questo è dottrina paolina, quale la ritroviamo soltanto nelle sue Lettere. Così si dica delle testimonianze di se stesso (I Tim. l,12-16; 2 Tim. 3,10-12; 4, 6-8 ecc.) che nella loro umiltà, disponibilità alla sofferenza, forza nella fede, parlano il vero linguaggio dell'Apostolo. c) A questi rilievi si aggiungono poi considerazioni di altro genere: la posizione verso lo stato (ITim. 2,1 ss.; Tit. 3,1) è quella di Paolo; di martiri non si parla mai; l'avversione per il dolore non è compresa nei vizi elencati in 2 Tim. 3,1 ss. Il tipo della gnosi combattuta in queste Lettere ( v. ad es. I Tim. l,11 e comm. a 2 Tim. 2,18: come in Col. ha tratti giudaizzanti e non è ancora il docetismo) e l'assenza di ogni interesse per il contenuto dei 'miti' gnostici, come anche il fatto che coloro che insegnano la dottrina gnostica si trovano ancora dentro le comunità e che siamo soltanto all'inizio del processo che porterà alla rottura con essi (v. comm. a Tit. l,IO s.) stanno ad indicare che l'eresia è soltanto agli inizi: nelle Lettere di Giovanni la rottura è già avvenuta e il docetismo ha già fatto la sua apparizione. Ciò che è detto sui ministeri della comunità colloca le Lettere vicino a Phil. l , l ( v. prima di I T im. 3 ) e insieme alle Lettere più antiche di Paolo, e prima della I Petr. e delle Lettere giovannee (v. comm. a I Tim. 5,17) Il rito dell'imposizione delle mani nell'ordinazione dev'essere antico, perché è stato ripreso dal giudaismo, che però lo compiva soltanto in J'>alestina (v. dopo il commento a I Tim. 4,16). Le formule cristologiche citate sono chiaramente antiche, per alcuni elementi giudeo-cristiani ( 2 Tim. 2 ,8) e perché l'affermazione della preesistenza appare in secondo piano. Non v'è la minima traccia di una conoscenza degli Atti degli Apostoli e degli
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scritti giovannei. La figura di Timoteo non è per nulla idealizzata (2 Tim. l,7 s.; 2,3.12.22), come ha fatto invece la chiesa antica con la sua esaltazione degli uomini del periodo apostolico. Ma soprattutto ci sono nelle Lettere pastorali numerosi particolari storici (specialmente 2 Tim. 4,9-21; l, 5.15-18; 3,14 s.; Tit. 3,12-14), che non si possono assolutamente considerare falsi: ad es., la preghiera di ritirare il mantello lasciato a Troade in casa di Carpo (2 Tim. 4,13). Il carattere unico della situazione e dell'intima relazione tra il mittente ed il destinatario delle Lettere rimarrà sempre l'argomento principale in favore della loro autenticità. Si ha così un ben strano quadro: contro le considerazioni che sembrano escludere che le Lettere pastorali siano state scritte da Paolo stanno altri motivi di gran peso che depongono a favore della loro autenticità. Se si vuole arrivare ad una soluzione che tenga conto di tutti gli argomenti pro e contro, occorre tener presente (dato che l'ipotesi frammentaristica, per cui sarebbero autentici soltanto 2 Tim. 4,9-22 e Tit. 3,12-15, non è di grande aiuto; v. alla fine di 2 Tim.) che nell'antichità una lettera veniva composta in tutt'altre condizioni di quelle moderne; per il genere di materiale su cui si scriveva (papiro), l'insufficienza delle penne a cannuccia e dell'inchiostro e la lentezza della scrittura in lettere maiuscole, scrivere era un lavoro molto faticoso, che richiedeva molto tempo; perciò, di regola soltanto lettere molto brevi erano scritte di pugno dal mittente, ma non lettere così lunghe come le Lettere di Paolo; ne abbiamo una conferma in Rom. 16,22, secondo cui la Lettera era stata scritta materialmente da Terzo. Ma anche la dettatura parola per parola era estremamente faticosa e lenta, perché, data la lentezza della scrittura, si doveva dettare non frase per frase, ma addirittura sillaba per sillaba, per cui la dettatura parola per parola era usata ancor meno della scrittura di proprio pugno. Pertanto, per scritti piuttosto lunghi, si procedeva a questo modo: il segretario scriveva a senso
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Lettere pastorali: Introduzione
il contenuto della lettera su tavolette di cera e componeva la lettera sulla base di questi appunti; il mittente correggeva lo scritto e lo firmava con i saluti; così ad esempio va inteso I Petr. 5,12 (v. ad l.). Quanto fosse diffusa la collaborazione di un segretario lo ha dimostrato la scoperta nel 1960 di quindici lettere di Bar Kochba: di queste 9 sono in aramaico, 4 in ebraico e 2 in greco; e non soltanto le lettere ma anche la firma sono diverse nella grafia; esse, dunque, sono state dettate a vari scrivani e (ad eccezione forse di una) firmate dallo stesso segretario a nome di Bar Kochba. In base a questa constatazione si può supporre, già per le dieci più antiche Lettere di Paolo, la partecipazione - non soltanto materiale - di compagni di viaggio di Paolo alla loro stesura, come risulta del resto dal fatto che in quelle Lettere, ad eccezione di Rom. e Eph., si fa sempre all'inizio il nome di scrivani-collaboratori e che si parla in larga misura in prima persona plurale. La frequente citazione di Timoteo fra questi scrivani-collaboratori ( v. sopra l) autorizza a pensare che fosse proprio lui il principale collaboratore di Paolo nella stesura delle Lettere più antiche dell'Apostolo. Perciò si può supporre che la stesura delle Lettere pastorali sia avvenuta nel seguente modo: sulla base di previe indicazioni a voce e con la costante partecipazione dell'Apostolo esse furono scritte per suo conto; e si deve contare sulla possibilità che in questa occasione egli abbia dato al suo segretario maggiore libertà, di quel che non avesse fatto prima di allora. Ora il fatto che il collaboratore non fosse più Timoteo, ma un altro compagno di Paolo, un ellenista (v. comm. a I Tim. l , l r.17; 6,15 s.; 2 Tim. 3,8 s.) pratico dell'interpretazione giudaica della Seri ttura ( I T im. l , 9 s.; 2, l 3- l 5), spiega le differenze delle Lettere pastorali da quelle più antiche, scritte con la collaborazione di Timoteo, per vari aspetti nel contenuto e completamente nel vocabolario (fare dei nomi riguardo a ipotesi del genere è sempre pericoloso, tuttavia secondo 2 Tim. 4,1 l s., dato che Luca è certamente
Il contenuto
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escluso, sembra che possa trattarsi soltanto di Tichico che, come sappiamo, godeva delle fiducia dell'Apostolo [Col. 4, 7-9; Eph. 6,21 s.], che aveva già messo gli occhi su di lui per la guida della chiesa cretese [Tit. 3,12] ). Rimane ciò che è veramente decisivo: anche dietro a queste Lettere, come autore di esse, c'è la figura del grande Apostolo dei pagani. 7. Tempo e luogo in cui furono scritte le Lettere. V. sopra introd. 3, e comm. a 2 Tim. 4,2 l. 8. Il contenuto. Prima Lettera a Timoteo: l,1-2 saluti. I l, 3-20: messa in guardia contro i dottori della legge. II 2,1-3, 16: l'ordinamento della comunità. III 4,1-n: contro lepretese ascetiche degli eretici. IV 4,12-6,2: istruzioni per la guida della chiesa. v 6,3-19: errato e giusto atteggiamento verso il denaro. 6,20.21: conclusione della Lettera. Seconda Lettera a Timoteo: l,r.2: saluti. I l,3-2,13: esortazione a professare la fede senza timori. II 2,14-4,8: i settari. III 4,9-18: la situazione personale dell'Apostolo. 4,19-22: conclusione della Lettera. Lettera a Tito: l,1-4: saluti. r l,5-16: il ministero nella comunità e le sette. II 2,1-3,II: condotta di vita cristiana. 3, l 2-15: conclusione della Lettera.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Commentari scientifici: H.J. Holtzmann, Die Pastoralbriefe kritisch und exegetisch behandelt, 1880; B. Weiss, in: Meyer, Kritisch-exegetischer Kommentar ijber das NT XI 71902; G. Wohlenberg, in: Zahn, Kommentar zum NT XIII 3 1923; M. Dibelius, in: Lietzmann, Handbuch zttm NT 13 21931 (riveduto da H. Conzelmann 31955); A. Schlatter, Die Kirche der Griechen im Urteil des Paultts, 1936; C. Spicq, Les Epìtres Pastora/es, 3 1947; B.S. Easton, The Pastora! Epistles, 1947· Commentari di consultazione generale: F. Kohler, in: J. Weiss, Die Schriften des NT, Bd. 2, 31917; Th. Haering, Die Pastoralbriefe, 1928; A. Schlatter, Erlauterungen zum NT, Bd. 2, 4 1928; M. Meinertz, in: Die Heilige Schrift des NT, a cura di Tillmann, 4 1931 (cattolico); P. Leo, Das anvertraute Gut (Die urchristliche Botschaft xv) 1935; ]. Freundorfer, in: Das Regensburger NT 7, 1950 (cattolico). Eccellente la moderna traduzione di H. Menge, Die Heilige Schrift des AT und NT, 81934. Sulla questione dell'autenticità: H.H. Mayer, Uber die Pastoralbriefe, 1913; W. Michaelis, Pastoralbriefe und Gefangenschaftsbriefe, 1930. Fondamentale: O. Roller, Das Formular der paulinischen Briefe, 1933·
LA PRIMA LETTERA A TIMOTEO
I saluti ( r,r-2) Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio nostro salvatore e di Cristo Gesù nostra speranza, 2 a Timoteo vero figlio nella fede: grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore.
1
l-2. Al suo fedele collaboratore Timoteo Paolo non ha davvero bisogno di presentarsi come apostolo, cioè come inviato di Gesù con pieni poteri; se lo fa ciò nonostante, è perché la Lettera è destinata anche alle comunità, la cui guida è stata affidata a Timoteo (v. sopra p. 14). Ma il titolo di 'apostolo' non è un titolo onorifico; molto acutamente Paolo mette in rilievo il suo dovere di obbedienza: la sua missione si fonda sul comando di Dio e di Gesù Cristo. Se qui Dio, mutuando il linguaggio veterotestamentario (cfr. Ps. 2 5 ,5; 27,9; Abac. 3,18; Ecclus 51,1; inoltre Le. l,47; Iudae 25), è chiamato 'nostro salvatore' (cfr. comm. a 2 Tim. l,10) e Gesù Cristo 'nostra speranza', i due appellativi richiamano alla redenzione finale, che è cominciata con la venuta di Gesù: come tutta la predicazione evangelica, la predicazione di Paolo si svolge nella visuale del compimento del mondo, garantito da Gesù Cristo. Gli indirizzi delle Lettere pastorali si caratterizzano per un calore personale, che si esprime nel cordiale «vero figlio nella fede». Paolo può definire così il suo rapporto con Timoteo, perché ha portato alla fede e successivamente ordinato al suo ufficio ( 2 Tim. l ,6) questo suo fedelissimo colla-
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I saluti
boratore (Phil. 2,20). «Grazia, misericordia e pace» è il triplice augurio di benedizione della prima e della seconda Lettera a Timoteo, e si differenzia dalla formula di saluto di tutte le Lettere più antiche perché in luogo del consueto 'con voi' c'è la parola 'misericordia', che deriva da una formula di benedizione giudaica (cfr. Gal. 6,16); come mostra 2 Io. 3, il triplice saluto era usuale nelle comunità cristiane dell'Asia Minore. Non si può scorgere nella triplice formula un argomento in merito alla questione dell'autore della Lettera, perché essa potrebbe essere stata scelta puramente per un motivo ritmico: il singolare 'con te' in greco disturberebbe il ritmo della formula di saluto (v. introd. 2 ). La grazia della divina benedizione, la misericordia che perdona e la pace della comunione con Dio sono i tre beni salvifici che ogni cristiano deve sempre chiedere a Dio, anche se pieno di grazia.
PARTE PRIMA DIFESA DAI DOTTORI DELLA LEGGE (I ,3-20)
I.
Timoteo deve affrontare gli eretici dottori della legge ( 1,3-II)
3 Ti ricordo l'esortazione che ti feci, quando partii per la Macedonia, di rimanere a Efeso per ingiungere ad alcuni di non insegnare una dottrina diversa 4 e di non occuparsi di miti e genealogie interminabili, che portano solo a discussioni invece che all'educazione salvifica di Dio nella fede. 5 Ma il fine di questa ingiunzione è l'amore con puro cuore (1) e buona coscienza (2) e fede non finta (3). 6 Avendo deviato da questa linea, alcuni sono finiti in chiacchiere vane, 7 desiderosi di essere dottori della legge, senza comprendere né quello che dicono né quello che sostengono. 8 Ma sappiamo che la legge è buona se se ne fa un uso legittimo, 9 e cioè che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli ingiusti e gli insubordinati, gli empi e i peccatori, i sacrileghi e i profanatori (1- 4 ), i parricidi e i matricidi (5), gli assassini (6 ), 10 gli impudichi, i sodomiti (7), i mercanti di uomini (8 ), i bugiardi e gli spergiuri (9 ) e quant'altro è contro la sana dottrina. 11 Così (insegna) la buona novella della gloria di Dio beato, il cui annuncio egli mi ha affidato.
3-1 l. L'inizio della Lettera, con il rinnovamento dell'incarico già dato a Timoteo (cfr. Tit. l,5), si conforma al linguaggio ufficiale ( v. p. l 5 ). Quando Paolo era partito, aveva dovuto dire di no a Timoteo che avrebbe desiderato di andare con lui. Ancora adesso non può rinunciare a lui a Efeso, perché la chiesa nell'Asia Minore è minacciata da eretici, e la Lettera vuole dargli il sostegno dell'autorità dell'Apostolo nella sua lotta contro di essi. Questo brano costituisce il primo scontro con gli eretici, cui ne seguiranno molti altri (I Tim. l,19 s.; 4,1-10; 6,3-21; 2 Tim. l,r5; 2,14-26; 3,1-9; 4,1-5; Tit. l,ro-16; 3,8b-II). L'eresia si manifesta in due direzioni: da una parte finisce in vane speculazioni (vv. 4-6),
Timoteo deve affrontare gli eretici dottori della legge
dall'altra pretende l'osservanza di uno stretto legalismo (vv. 7-II ). Per quel che riguarda le speculazioni degli eretici, gli esegeti nella chiesa antica erano divisi nell'interpretare i 'miti' e le 'genealogie' come idee giudaiche oppure gnostiche. Ambedue le spiegazioni in sé hanno del giusto, perché l'eresia ha dei punti di contatto con la gnosi (I Tim. 4,3; 6, 20; 2 Tim. 2,18; Tit. l,16), ma anche degli aspetti giudaici (Tit. l,10.14s.; 3,9). Per il nostro contesto si deve partire dalla constatazione che Tit. l,14 parla di «miti giudaici» e Tit. 3,9 di «genealogie, discussioni e lotte intorno alla legge» (mosaica); perciò si deve supporre che con 'miti e genealogie' si tratti di interpretazioni dell'Antico Testamento. Ora, questa espressione doppia nella letteratura ellenistica serviva a designare la storiografia mitologica; e questo è il motivo per cui Filone intitolò i racconti storici della Bibbia fino alla legislazione sul Sinai «Libro delle genealogie» (Genealogikon ). In tal caso nel v. 4 i 'miti', che vengono nominati per primi, indicano speculazioni sulla creazione. L'espressione ellenistica 'miti e genealogie' significherebbe quindi speculazioni allegoriche sulla storia primitiva dell'Antico Testamento. Ma Dio ha dato l'Antico Testamento non per delle 'chiacchiere', ma come 'educazione salvifica (questo dovrebbe essere il significato della espressione polivalente oikonomia theou) nella fede': un'importante affermazione fondamentale dell'importanza dell'Antico Testamento per i cristiani, che verrà trattata più estesamente in 2 Tim. 3,16 s. Come ogni seria educazione, anche quella di Dio ha una chiara meta, che si riassume semplicemente in una parola: 'amore'. Ma un amore attivo, tanto più nelle battaglie spirituali, ha bisogno di una terra fertile in cui affondare le sue tre radici: un cuore puro (1) una buona coscienza (2) e una fede sincera (3). Quei teologi, contro i quali Timoteo deve intervenire, hanno trascurato tutte queste condizioni; è questo il motivo per cui, nonostante il loro sapere, la dottrina che predicano altro non è che chiacchiere. In quanto 'dottori della legge' (un titolo di
I
Tim.
I,J-II
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origine giudaica, che nel N.T. si trova soltanto altre due volte: Le. 5,17; Act. 5,34) essi cercano fama, non solo nelle sottigliezze della loro interpretazione della Scrittura, ma anche in un rigoroso legalismo (cfr. anche T it. l , l 4) e in un ascetismo (I Tim. 4,3 ), che vogliono imporre alla comunità. Questa loro posizione, che sostituisce all'amore l'osservanza della legge, mostra come non abbiano capito il vangelo, non ostante la loro presunzione. Infatti il legalismo significa misconoscenza del significato del vangelo; certo, anche il cristiano sa che la legge dell'Antico Testamento è rivelazione salvifica di Dio (cfr. 2 Tim. 3,15-17; Rom. 7,12.16), ma essa dev'essere usata 'secondo la legge'. Questo retto uso dei comandamenti della legge veterotestamentaria si ricava dal riconoscimento generale (è da notare che 9a esprime una verità di origine stoica) che le leggi non vengono emanate per i giusti, ma per i rozzi peccatori, descritti nell"elenco dei vizi' (una forma stilistica fissa, cfr. nelle Lettere pastorali anche I Tim. 6,4 s.; 2 Tim. 3,2-5; Tit. 3,3 ). Stupisce in questo elenco la presenza di delitti del tutto insoliti, come il parricidio e il matricidio, e il commercio di uomini; ma essa si spiega con il fatto che l'interpretazione rabbinica del 5° comandamento del decalogo «onora il padre e la madre» (il giudaismo ai tempi di Gesù seguiva la cosiddetta enumerazione 'riformata' dei ro comandamenti) richiamava i figli adulti al dovere di prendere con sé i genitori anziani, di vestirli e di nutrirli, e applicava 1'8° comandamento «non rubare» anche al traffico di uomini. 'Parricidi e matricidi' sono dunque i trasgressori del 5° comandamento e 'mercanti di uomini' i trasgressori dell'8° comandamento. Di fatto l'elenco dei vizi enumera i trasgressori dei lo comandamenti: i trasgressori dei comandamenti della prima tavola sono messi tutti insieme 4 ), mentre quelli dal 5° al 9° sono elencati singolarmente (cfr. i numeri in esponente nella traduzione dei vv. 9.10); l'espressione finale «e quant'altro è contrario alla sana dottrina» si riallaccia al linguaggio della filosofia greca
c-
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L'esaltazione della misericordia di Gesù Cristo
dell'epoca, in cui 'sano' equivale a 'ragionevole, giusto'. Però l'espressione, che è peculiare delle Lettere pastorali, 'sana dottrina' (2Tim.4,3; Tit. l,9; 2,1; cfr. inoltre rTim.6,3; 2 Tim. l,13; Tit. l,13; 2,2.8 e l'immagine della malattia I T im. 6 A) non vuole definire il vangelo come conforme alla ragione, bensì è intesa in un senso antieretico: in contrapposizione all'eresia, la pura dottrina del vangelo è detta 'sana'. Il principio sviluppato nei vv. 9 s., che «la legge non è fatta per il giusto», bolla di eresia il legalismo dei 'dottori della legge' di Efeso. Chi è giustificato per Cristo è libero dalla schiavitù della lettera della legge (Gal. 5,18 cfr. Rom. l0,4). La proclamazione di questa libertà dalla legge è la parte centrale del messaggio affidato in modo particolare all'Apostolo (cfr. Eph. 3,8), che, in confronto alla rivelazione preparatoria della legge veterotestamentaria, svela l'escatologica gloria di Dio beato (un attributo ellenistico di Dio, ripreso dal giudaismo ellenistico) e beatificante. La caratterizzazione degli eretici in questo brano è importante agli effetti della datazione della Lettera. l. Non ci troviamo ancora di fronte alle grandi costruzioni dottrinali gnostiche. 2. L'eresia, come la forma più antica della gnosi (cfr. Col. 2,16 ss.), è giudaizzante. 3. Gli eretici sono ancora dentro la comunità; soltanto in alcuni singoli casi comincia la loro esclusione da essa (I Tim. l,20). Tutte e tre le caratteristiche depongono per una datazione nei primi tempi dell'eresia (v. anche comm. a 2 Tim. 2,18). 2. L'esaltazione della misericordia cli Gesù Cristo ( 1,12-17)
Rendo grazie a colui che mi ha dato forza, Cristo Gesù nostro Signore, per avermi giudicato fedele e per avermi messo al suo servizio, 13 io che prima fui un bestemmiatore del suo nome (1), un persecutore (2) e un nemico violento (della sua comunità) (3); ma ho ottenuto la misericordia di Dio, perché (lo feci) per ignoranza, non possedendo la fede. 14 Sì, la grazia di nostro Signore fu sovrabbondante (in me) con la fede e l'amore che è in Cristo Gesù. 15 È parola certa e degna di fede 12
I Tim. r,r2-r7
33 che Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo. 16 Ma proprio per questo Dio ha avuto misericordia di me, perché Cristo Gesù mostrasse in me per primo tutta la sua longanimità ad esempio di coloro che avrebbero creduto in lui per la vita eterna. 17
«Ma al re dei secoli, immortale, invisibile, unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli». Amen.
12-17. Con le ultime parole del brano precedente: «Così insegna la buona novella della gloria di Dio beato, la cui predicazione egli mi ha affidato», Paolo si era richiamato alla sua autorità apostolica, dando così espressione al grande miracolo della sua vita; perciò non poteva fare a meno di interrompersi per liberare il suo cuore traboccante in un inno di lode. È tuttora incomprensibile per l'Apostolo che Gesù, con la sua chiamata sulla via di Damasco, gli abbia concesso la sua fiducia, che è l'unica condizione che Dio esige dai suoi amministratori (I Cor. 4,2 ); e gli abbia poi data anche la forza di giustificare tale fiducia, a lui che ha bestemmiato il nome di Gesù (1 ), ha perseguitato la sua comunità (2) e ha fatto flagellare i membri di essa (3). C'è soltanto una spiegazione possibile di questo miracolo: mi è venuta incontro la misericordia, misericordia di cui non sono degno. Che Paolo, quando ancora si chiamava Saulo, abbia peccato per ignoranza (Paolo pensa alla distinzione veterotestamentaria tra peccare per ignoranza e peccare per presunzione) e per incredulità, non toglie nulla né alla colpa né al conseguente rimorso, ma può soltanto spiegare la misura in cui è stata possibile una simile misericordia. Paolo si colloca fra coloro per i quali vale la parola di perdono e di assoluzione pronunciata dall'amore del Salvatore dall'alto della croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Le. 23,34). Ma non solo nell'ora della sua conversione egli ha sperimentato l'inafferrabile ricchezza della grazia, ma anche «con la fede e l'amore
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L'esaltazione della misericordia di Gesù Cristo
che è in Cristo Gesù. La sua nuova vita nella comunione con Cristo, che gli dà la forza per credere nel suo Signore e per amare i fratelli, è, come la conversione, nient'altro che l'effusione di un'unica misericordia, che sfugge alla comprensione dell'uomo. Una formula ricorrente I Tim. 3,1; 4,9; 2 Tim. 2,n; Tit. 3,8 (cfr. Apoc. 21,5; 22,6) indica come Paolo voglia riassumere in una citazione tutto quello che ha detto sopra; nessuna parola può meglio riassumere il miracolo della sua vita, di quella detta a Zaccheo dal Salvatore: «il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che è andato perduto» (Le. 19,10). È questa l'esperienza che Paolo ha vissuto sulla via di Damasco: egli faceva parte dei perduti, che giustamente erano caduti sotto l'ira di Dio; anzi, egli era alla loro testa (I Cor. 15,9; Eph. 3,8). Si noti il presente «io sono il primo»; la colpa è stata annullata, ma rimane come un impulso costante all'umiltà. Ed ecco ora la cosa più grande: il disegno di Dio (l'espressione al passivo «mi è stata concessa misericordia» sta in luogo di «Dio ha avuto misericordia di me») in quest'atto di misericordia. Quando il primo dei peccatori divenne il primo dei graziati, quando Gesù Cristo diede a Paolo la dimostrazione della pienezza della sua longanimità, Paolo divenne il prototipo di tutte le future misericordie, fu mostrato al mondo quale eccezionale caso limite di come gli uomini in futuro diverranno beati per la fede edificata su Gesù (qui è presente l'immagine di Gesù come la prima pietra di un edificio, cfr. Rom. 9, 3 3 ). Così Paolo è una testimonianza vivente, irrefutabile, che nessun uomo dev'essere considerato così perduto da non poter essere raggiunto dalla misericordia di colui che è venuto per salvare i peccatori. Spontaneamente, questo inno di esaltazione, questo pensiero alla propria conversione, ed alle innumerevoli che seguiranno, si trasforma in adorazione, in dossologia. Una formula di preghiera liturgica, che la comunità deve aver recitato spesso durante il servizio liturgico e che deve essere derivata dal tesoro di preghiere della sina-
I Tim. z,z8-20
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goga ellenistica precristiana, offre le parole giuste. L'adorazione delle comunità va al Re del tempo del mondo, che in grazia, giudizio e nuova creazione fa trascorrere un'epoca dopo l'altra fino al compimento del mondo, iniziato con la venuta di Gesù. Egli è il donatore della vita ('immortale'), egli è nella pienezza della luce, alla quale nessun uomo può giungere ('invisibile'), egli è l'Unico. A lui spettano, onore e gloria nell'eternità. A questo punto l'autore fa una pausa, per consentire alla comunità di unirsi all'inno di lode con il suo 'Amen'. 3. Combatti la buona battaglia ( r ,18-20)
Queste sono le istruzioni che ti dò, Timoteo figlio mio, in armonia con le precedenti profezie a tuo riguardo. Sostenuto da esse combatti la buona battaglia, 19 avendo fede e buona coscienza. Alcuni, avendola ripudiata, hanno fatto naufragio nella fede. 20 Tra di essi sono Imeneo e Alessandro, che ho dovuto consegnare a Satana, perché imparino a non bestemmiare.
18
18-20. Già l'espressione «queste sono le istruzioni», che riprende i vv. 3 e 5, e poi tutto il contenuto di questo brano, mostrano che esso è la continuazione dei vv. 3-1 I. Paolo ricorda a Timoteo l'ora della sua ordinazione (v. comm. a 4, q), più precisamente - dato che evidentemente l'imposizione benedicente delle mani veniva ripetuta ad ogni nuova ordinazione (dr. Act. 13,3) -, l'ora del suo incarico a rappresentare Paolo a Efeso. Gli uomini dotati del dono della profezia per opera dello Spirito Santo (sull'avvenimento dr. Act. 13,1-3) danno a Paolo il diritto di trasferire a Timoteo la responsabilità del lavoro a Efeso e debbono dare a Timoteo la gioia di portare tale responsabilità e di combattere la buona battaglia, specialmente la lotta contro ogni falsificazione del vangelo. È conforme al senso virile del cristianesimo di Paolo che egli prediliga le immagini tratte dal servizio dei soldati; ed è per propria esperienza che egli definisce
Combatti la buona battaglia
soprattutto chi è investito di un ministero per la comunità ( cfr. 2 Tim. 2,3 .4; I Cor. 9,7) un soldato di Gesù Cristo, che dev'essere armato tanto per sostenere una battaglia quanto per sopportare i dolori. La sua arma più importante è la fede e la buona coscienza (cfr. v. 5 ). Chi va in battaglia incerto nella fede e con coscienza non pura è destinato a soccombere: due esempi ammonitori illustrano la serietà della lotta. I due uomini, di cui Paolo fa il nome (cfr. 2 Tim. 2,17; 4, 14), sembra siano stati collaboratori di Paolo e di Timoteo; la loro rovina cominciò con il lassismo della loro condotta. Divenuti preda delle passioni, la nave della loro vita era destinata a fare naufragio e la loro fede a infrangersi; e quando essi si lasciarono portare a bestemmiare ciò che è santo per la comunità, Paolo si era visto costretto a «consegnarli a Satana», come già aveva fatto con l'incestuoso di Corinto (I Cor. 5 ,5 ). Non si sa come ci si debba figurare nei particolari questa consegna a Satana, ma è certo che qui Satana è immaginato come l'esecutore della condanna, ed è probabile che la consegna nelle sue mani avvenisse nella forma dell'espulsione dalla comunità (scomunica). Si era convinti che gli esclusi sarebbero stati colpiti da pene nel corpo (cfr. I Cor. 11,30); in tutti i casi la condanna del v. 20 è intesa come punizione ecclesiastica, che non avveniva per motivi personali ma per il bene della comunità, la cui vita interiore sarebbe stata altrimenti distrutta dall'opera dei peccatori; e per il bene degli stessi peccatori, cui si doveva impedire di peccare ancora, e con la punizione da parte di Satana, dovevano essere indotti a pentirsi.
PARTE SECONDA L'ORDINAMENTO DELLA COMUNITÀ (2,r-3,16)
In I Tim. 2-3 abbiamo il più antico ordinamento della chiesa cristiana, sorto da una imperiosa necessità pratica. Infatti, mentre agli inizi della missione paolina la vita comunitaria si dispiegava liberamente per l'influenza determinante dei doni dello Spirito, soprattutto quello della profezia e quello delle lingue, ben presto sorsero degli inconvenienti (come quelli che troviamo I Cor. n,12.14), donde il bisogno di fermi ordinamenti. L'ordinamento comunitario di I Tim., il più antico del genere, è così il segno della progressiva conclusione del periodo dell'entusiasmo (cfr. I Cor. 14); esso è diviso in due parti: il cap. 2 tratta del corretto servizio liturgico (preghiere vv. 1-7; contegno degli uomini v. 8 e delle donne vv. 9-15); il cap. 3 tratta dei ministeri comunitari (l'ufficio di guida della comunità vv. 1-7 e diaconato vv. 813 ). Il modo in cui è ordinata la materia nella prima parte lascia vedere che l'ordinamento della comunità è stato derivato dal cosiddetto 'schema familiare' (v. anche Tit. 2,2-10 ), cioè da quelle istruzioni sulla vita cristiana nella famiglia cristiana, che troviamo nel Nuovo Testamento per la prima volta in Col. 3,18-4,1 e Eph. 5,22-6,9 e poi in I Petr. 2,133,9. Si confronti il modo in cui è ordinata la materia nella prima parte dell'ordinamento in I Tim. 2 (superiori, uomini, donne) con quello in cui è ordinata la famiglia in I Petr. (superiori, schiavi, mogli, mariti, tutti). Da che cosa sia stato indotto il trasferimento dello schema dell'ordinamento familiare alla comunità è indicato da I Tim. 3,4 s. 12.15, dove la 'ca-
Il retto svolgimento del servizio liturgico
sa propria' è messa a confronto con la 'casa di Dio'. Dio è un Dio dell'ordine (I Cor. 14,33); ciò vale tanto per la casa cristiana, la famiglia, quanto per la casa di Dio, la comunità. Anche nei particolari l'ordinamento comunitario utilizza materiale tradizionale ( v. comm. a 2, 5; 3, 2 e cfr. 2, 9- I 5 con I Petr. 3,3-6). La conclusione innica in 3,16 gli dà il carattere di un tutto autonomo. I.
Il retto svolgimento del servizio liturgico (2,1-15)
a) Le preghiere (2,1-7) 1 Raccomando,
dunque, prima di ogni altra cosa, preghiere, orazioni, suppliche, azioni di grazie, per tutti gli uomini (1 ), 2 per i sovrani (2) e tutti coloro che sono costituiti in autorità (3), affinché possiamo condurre una vita quieta e tranquilla, con tutta pietà e onestà. 3 Ciò infatti è buono e accetto a Dio nostro salvatore, 4 che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. 5 Infatti «uno è Dio, uno anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, 6 che ha dato se stesso a riscatto di tutti», testimonianza nel tempo fissato. 7 di
questo (messaggio) Dio mi ha costituito predicatore e apostolo dico il vero, non mento -, dottore delle genti nella fedeltà e nella verità.
1-7. In cima all'ordinamento della comunità sta l'orazione pubblica in comune durante il servizio liturgico (più precisamente durante la celebrazione dell'eucaristia, perché tali erano tutte le adunanze delle comunità dei primi tempi), come la espressione più intima di una vivace vita comunitaria; essa veniva subito dopo la spiegazione della Scrittura (Iust., apol., I, 67 ). I quattro vocaboli 'preghiere, orazioni, suppliche, rendimenti di grazie' vanno intesi come un tutto unico in quanto l'orazione cristiana è volta in tutte le direzioni. La preghiera di intercessione vale per tutti gli uomini (1 ), senza limitazio-
I
Tim.
2,I-IJ
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ne alcuna: nello spirito di amore di Gesù nessuno ne è escluso. Vale anche per 'i sovrani' (il plurale sottolinea la validità generale della raccomandazione, che non si limita alla persona di Nerone) (2) e per gli alti funzionari, ad es. i governatori delle province(3). La frase fìnale ('affinché') del v. 2b si rifà ad una formula, contenuta in papiri egiziani, in cui si trova come motivazione di preghiere: cioè la comunità deve motivare la sua intercessione con lo sguardo rivolto alla vita comunitaria «benedici i nostri concittadini, benedici l'imperatore, affinché la nostra vita comunitaria prosperi secondo la tua volontà». In questa motivazione della preghiera di intercessione c'è la fìducia della comunità che essa abbia tanto valore agli occhi di Dio che Egli, nell'indirizzare la storia del mondo, si preoccupi della giusta prosperità della vita comunitaria «nella quiete e nella tranquillità» (cioè, che essa ottenga e conservi la pace) e nella compiacenza di Dio e degli uomini («con tutta pietà ed onestà»). Nella preghiera per le autorità appare in tutta la sua severità l'atteggiamento cristiano verso lo Stato: in luogo dell'adorazione pagana dell'imperatore abbiamo la preghiera per l'imperatore e le altre autorità, non solo come espressione di lealtà ma anche di un interiore interessamento per le loro persone, come appare già dalla sua collocazione («prima di ogni altra cosa») al v. 1 ( cfr. Rom. I 3,5 ). Questa preghiera per lo Stato ad opera della comunità è indipendente dalla posizione politica del singolo e dalla situazione politica; questa preghiera non perde di forza neppure se è formulata per uno Stato empio, per uno Stato persecutore della comunità. Una tale preghiera, che non esclude nessuno, è bene accetta a Dio; egli infatti è il salvatore (cfr. 1,1), e il suo piano di salvezza è generale. Tutti gli uomini (l'accento è posto sul tutti) devono essere salvati dal giudizio dell'ira, «pervenendo alla conoscenza della verità», cioè attraverso alla conversione (cfr. Hebr. 10, 26 ed anche 2 Tim. 2,25; 3,7). La certezza della comunità che la volontà sal vifìca di Dio non esclude nessuno ( cfr. l' ac-
Le preghiere
cento posto su 'tutti' nei vv. l,4 e 6) è in nettissimo contrasto con la convinzione della sinagoga che Dio volesse perdere i peccatori e salvare soltanto i giusti, e in opposizione alla gnosi, che prometteva la salvezza soltanto ai 'sapienti'. La comunità ha questa certezza perché è stata ai piedi della croce; è questo il significato della citazione dei vv. 5. 6 (cfr. le virgolette nella traduzione), che suona come una professione di fede della comunità. La comunità confessa (nel dogma fondamentale giudaico) l'unico Dio e (contro la molteplicità dei redentori a quell'epoca) l'unico mediatore, cioè l'unico mediatore (della pace) tra Dio e l'umanità; la professione di fede descrive la persona e l'opera di questo mediatore con le parole di Gesù in Mc. I0,45 par. Mt. 20,28: «il Figlio dell'uomo è venuto ... a dare la sua vita a riscatto di molti». Chi è? È l'uomo ( = il Figlio dell'uomo, v. Mc. 2, IO), cioè il secondo Adamo, principio e signore della nuova umanità redenta (Rom. 5,12 ss.; I Cor. 15,21s.45 ss.). Che cosa ha fatto? Ha dato (le parole si richiamano a Is. 53) la sua vita in espiazione per gli uomini divenuti preda della morte. Questo sacrificio sulla croce è la 'testimonianza' (di Gesù [ cfr. I T im. 6, l 3 ], di Dio, dei loro messaggeri? ), resa a 'suo', vale a dire 'al giusto' tempo, cioè alla fine dei tempi (Gal. 4,4). Figlio dell'uomo e servo di Dio, questa è dunque la cristologia della fede antica. Nel nostro contesto l'accento è posto sulla parola 'tutti' nel v. 6 (il resto è soltanto una citazione di contorno): per il fatto che Cristo si è consegnato alla morte per tutti gli uomini, senza eccezione, la comunità ha il diritto ed il dovere di impetrare senza limiti per l'umanità non redenta. L'annuncio alle genti della rivelazione di questa illimitata volontà salvifica di Dio è lo speciale compito che Dio ha affidato all'Apostolo (Gal. 2,8; Eph. 3,1-13); l'assicurazione, quasi un giuramento, «dico il vero, non mento», sottolinea con particolare forza la missione divina contro qualsiasi dubbio, avanzato dai settari, sui poteri del1'Apostolo.
I Tim. 2,9-IJ
h) Il giusto servizio liturgico degli uomini ( 2,8) 8 Voglio dunque che gli uomini dappertutto preghino levando mani san te (a Dio), senza ira né con tese.
8. L'elevazione delle mani, con le palme rivolte in alto come coppe pronte a ricevere la benedizione divina, è un gesto di preghiera pagano, giudaico (cfr. il «neppure gli occhi» di Le. 18,13 che va completato con «per non parlare delle mani»), ma anche dei primi tempi cristiani. 'Dappertutto' (Mal. l ,1 l) nel mondo dove Dio è adorato, secondo la sua volontà, le 'mani levate' debbono essere non soltanto esteriormente pure, ma 'sante', cioè non macchiate dal peccato, in particolare da quello dell'ira e della contesa. L'aveva già insegnato Gesù: colui che prega dev'essere pronto a perdonare (Mt. 5,23 s.; 6,12; Mc. 11,25). Come può un uomo chiedere di essere perdonato da Dio, se ha odio nel suo cuore e non vuole perdonare? Come può nell'eucaristia, in cui veniva recitata la preghiera di cui qui si parla (dr. comm. al v. l ) , farsi concedere il perdono dei peccati se a sua volta rifiuta il perdono ai suoi fratelli? Quello di cui parla l'Apostolo è lo speciale peccato degli uomini, che è di ostacolo al loro servizio liturgico e alla loro vita di preghiera. c) Il corretto contegno delle donne durante il servizio liturgico (2,9-15)
(Voglio) similmente che le donne siano in abito decoroso, adorne di verecondia e modestia, e non con trecce e oro e gemme o in vesti lussuose, 10 ma, come si conviene a donne che fanno professione di pietà, con opere di carità. 11 La donna ascolti in silenzio con piena sottomissione. 12 Non permetto alla donna di insegnare né di prevalere sull'uomo, ma stia in silenzio. 13 Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva. 14 E non fu sedotto Adamo ma fu Eva che si lasciò sedurre e cadde in trasgressione. 15 Essa però si salverà diventando madre, purché essi rimangano nella fede, nell'amore e nella santificazione, con modestia. 9
9-15. Anche la partecipazione delle donne al culto presenta
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Il corretto contegno delle donne durante il servizio liturgico
qualche pericolo. Quello soprattutto della tentazione di accendere con un abbigliamento vistoso la concupiscenza dell'uomo, e per conseguenza di distrarre sé e l'uomo dal necessario raccoglimento. Perciò l'ordine nella comunità esige verecondia nel vestirsi delle donne, quando esse partecipano al servizio liturgico comunitario («parole che non tendono a soffocare, bensì a santificare, l'istinto naturale della donna ad ornarsi», come scrive il Haering). Il vero ornamento di una cristiana timorata di Dio, che l'adorna più dell'oro e delle gemme, sono le opere dell'amore (v. al riguardo dopo I Tim. 5,r6); cfr. I Petr. 3,3-6. Un secondo ammonimento è quello che proibisce alle donne di prendere la parola, come atto di culto (cfr. I Cor. r4,33b-36). Questo era un problema di grande attualità; mentre la sinagoga giudaica consentiva alle donne soltanto di ascoltare, nelle comunità paoline (a Corinto, ad es.) era invalsa l'usanza che durante il servizio liturgico prendessero la parola anche delle donne dotate del dono della profezia (I Cor. r l ,5 ); ma questa usanza aveva avuto pericolose conseguenze: si era constatato, infatti, che tali profetesse facilmente trascuravano i loro doveri domestici (cfr. Tit. 2,4 s.) e che le donne, inclini all'entusiasmo, finivano con l'esagerare (ITim. 5,13), offrendo argomenti agli eretici (2 Tim. 3,6 s.). Era dunque necessario intervenire energicamente contro tali insane tendenze emancipatrici. Esse, dicono i vv. 13 s., sono contrarie all'ordine divino della creazione, che obbliga anche la comunità cristiana (cfr. Mc. ro,6; I Cor. 14,34). Paolo, già nel fatto che Adamo fu creato prima di Eva vede la volontà di Dio che la donna sia subordinata all'uomo; in ciò egli segue la concezione orientale, che si incontra spesso anche nel Nuovo Testamento, che quello che è più antico vale di più (cfr. Col. r,r5; Eph. r,4; Io. r,r ecc.). Pertanto una parità di diritti tra l'uomo e la donna nel servizio liturgico equivale ad una infrazione all'ordine posto da Dio nella creazione. Un secondo argomento tratto dalla Scrittura, quello del racconto del
I Tim. 3,I-I 3
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peccato originale, porta alla stessa conclusione: fu Eva a lasciarsi sedurre dal serpente (Gen. 3,6 dr. 2 Cor. 11,3), per cui la punizione di Dio per il peccato originale (Gen. 3,16) è di fare dell'uomo il signore della donna. Inoltre, le stesse parole di Gen. 3,16 indicano quale compito Dio abbia affidato alla donna sposata: la maternità. Questo concetto è esposto qui in un modo molto strano, perché è detto che la donna <:
I ministri della comunità (3,1-13)
La prima parte dell'ordinamento comunitario (cap. 2) si era occupata del corretto servizio liturgico; ora la seconda parte (cap. 3) si occupa degli 'episcopi' (vv. l-7) e dei 'diaconi' (vv. 8-13), cioè dei ministri della comunità. L'episcopato e il diaconato (a parte il 'ministero 1 delle vedove) sono gli unici ministeri (dr. comm. a 5, l 7) conosciuti nelle Lettere
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I capi della comunità
pastorali; la mancata presa in considerazione dei carismatici (apostoli, profeti e dottori, cfr. I Cor. 12,28) si spiega con il fatto che qui si parla soltanto dei ministeri elettivi. Per la questione dell'autenticità delle Lettere pastorali è importante il fatto che nel Nuovo Testamento episcopi e diaconi sono citati gli uni accanto agli altri, oltre che qui soltanto in Phil. r,r. Ciò colloca le Lettere pastorali molto vicine nel tempo alle Lettere più antiche di Paolo. a) I capi della comunità ( 3,1-7) giusto il detto: chi aspira all'ufficio di guida della comunità desidera una funzione eccellente. 2 Perciò il capo della comunità dev'essere irreprensibile (1), sposato ad una sola mogli~ (2), sobrio (3), prudente (4), cortese (5), ospitale (6 ), atto all'insegnamento (7), 3 non dedito al vino( 8 ), non violento( 9 ), ma benevolo(1°), pacifico( 11 ), disinteressato (1 2 ), 4 bisogna che sappia governare bene la sua casa ( 13 ) e che tenga sottomessi i figli con tutta onestà (1 4 ). 5 Se infatti uno non sa governare la propria casa, come potrà essere diligente per la comunità di Dio? 6 Non deve essere neofita(1 5 ), affinché non monti in superbia e non cada nella stessa condanna del diavolo. 7 Occorre infine che abbia una buona riputazione presso quelli che non appartengono alla comunità (1 6 ), per non cadere in discredito e nei lacci del diavolo. 1È
Chi sono gli episkopoi (letteralmente 'i sorveglianti') di cui parla I T im. 3, r-7? La parola si incontra solo cinque volte nel Nuovo Testamento: Phil. r,r per la prima volta, poi I Tim. 3,2; Tit. r,7; Act. 20,28; I Petr. 2,25. È difficile che possa derivare dal linguaggio ellenistico, dove significa funzionario, capo contabile, cassiere; piuttosto trova corrispondenza in un uso giudaico. Infatti sappiamo dal Documento Damasceno che le colonie della setta giudaica degli Esseni avevano a capo uomini che portavano il titolo di 'sorvegliante' (mebaqqer); a proposito del 'sorvegliante' di una di quelle colonie il documento dice: «Egli deve istruire la gente sui fatti di Dio ... , deve aver compassione di essa, come un padre dei suoi figli ... , come un pastore del suo gregge, deve
I Tim. 3,I-7
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sciogliere tutte le catene con cui sono legati .. ., ed esaminare chiunque voglia entrare nella sua comunità» ( l 3 ,7-rr ). Dobbiamo ritenere simili i doveri dei 'sorveglianti' ( episkopoi) delle primitive comunità cristiane ( v. Phil. l ,1 ); però non è necessario dedurne una diretta dipendenza della chiesa dagli Esseni, perché è presumibile che anche le comunità farisaiche fossero organizzate in un modo analogo (cfr. Le. 14, l ). L'episkopos non è un vescovo nel senso dell'episcopato monarchico; né i testi esseni né le comunità neotestamentarie conoscono tale ministero episcopale; come appare da Phil. l ,1 la traduzione più esatta è «capo della comunità». Dato che gli episkopoi avevano anche funzioni spirituali (3,2; Tit. l, 9), si potrebbe dire che I Tim. 3,1-7 e Tit. l,6-9 sono i due primi esempi di parroco nel Nuovo Testamento (cfr. anche Mt. 18 ). 1-7. Con la formula già nota da 1,15 viene citato un detto, nel quale si esalta l'eccellenza dell'ufficio di guidare una comunità come un incarico santo. Ma proprio per questo motivo esso pone molte esigenze; guai a coloro che si danno da fare per riceverlo (cfr. Iac. 3,1 ). Se l'enumerazione di queste esigenze appare a prima vista incolore e molto generica, dipende dal suo allineamento a schemi ellenistici di virtù (così si spiega anche il fatto che gli elenchi di 3,1-7.8-13; Tit. l,69; 2 ,2. 3 siano delle variazioni sullo stesso schema fondamentale); però, ad un esame più attento, si vede che l'elencazione riflette una ricca esperienza ecclesiale. Per primo viene un generico 'irreprensibile' (1): non deve esserci alcuna macchia sul passato di un uomo che debba essere degno della fiducia della sua comunità. Che cosa ciò significhi lo mostrano gli esempi che seguono: sulla sua vita matrimoniale (2) non deve cadere l'ombra di nuove nozze seguite a un divorzio (così probabilmente si deve intendere l'espressione «sposato a una sola moglie» [ITim. 3,2.12; Tit. l,6; dr. ITim. 5 ,9], che si ritrova in iscrizioni sepolcrali dell'epoca), nuove
I capi della comunità
nozze proibite da Gesù (Mt. 5,32 ecc.) e giudicate in Mc. 10, r r par. come una forma camuffata di poligamia. Basti pensare all'enorme aumento del numero dei divorzi nel periodo imperiale. L'episcopo, poi, deve essere 'sobrio' (3), cioè chiaro nel giudizio (non tanto: moderato nel bere, cfr. 8 ), 'prudente' (4 ) nelle sue decisioni, 'cortese' nel comportamento (5). La sua casa deve essere aperta agli inviati della comunità (3 Io. 8, ecc.), come anche ai poveri e ai bisognosi di aiuto ('ospitale' 6 ). Deve avere capacità e doti per insegnare (7). Non deve essere assolutamente 'dedito al vino' (8) o 'violento' (9 ), ma piuttosto deve essere per la comuntià un modello di 'dolcezza' (1°), di 'pace interiore' (1 1 ) e di 'disinteresse' (1 2 ). Ma soprattutto è indispensabile che la sua vita familiare sia esemplare: a casa sua (13 ), specialmente nell'educare i figli ad essere sottomessi ed onesti (' 4 ), egli deve aver dato buona prova, se si vuole affidare alle sue cure paterne la casa di Dio, la comunità con tutte le sue necessità spirituali e materiali (si noti che lo stato matrimoniale del capo della comunità è considerato come una cosa ovvia). Ma se le esigenze poste all'episkopos sono tanto serie, equivarrebbe a indurre l'uomo in tentazione affidandone la responsabilità a un convertito di recente (neophytos =piantato di recente 15 ), magari a motivo della sua elevata posizione sociale: è una tentazione alla superbia, e se essa si impadronisce dello spirito del capo di una comunità è all'opera lo stesso Satana, pronto a esigere da Dio l'esecuzione della condanna (Apoc. 12,10). Va detta, infine, ancora una cosa, che non può essere trascurata prima di chiamare una persona ad esercitare il ministero: la buona riputazione presso gli estranei (16 ). Certamente la comunità conosce il perdono, che è alla base del suo essere; ma perdonare ed eleggere a capo sono due cose ben distinte; perché il mondo per giudicare la comunità guarda innanzi tutto al suo capo spirituale. Un passato macchiato di colpe suscita chiacchiere malevole, senza contare che (come la superbia) apre le porte a Satana, perché ha in sé il
I
Tim. 3,8-r3
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pericolo della ricaduta. Si noti che Paolo non fa parola, fra le condizioni necessarie per l'esercizio del ministero, né di talento organizzativo né di dono della parola facile e suadente: egli chiede soltanto prontezza all'obbedienza verso Dio. b) I diaconi ( 3,8-13)
Similmente i diaconi siano uomini degni (1), non doppi nel parlare (2), moderati nell'uso del vino (3), non dediti a guadagni disonesti ( 4 ), 9 ma serbino il mistero della fede in una coscienza pura (5). 10 Anch'essi siano prima messi alla prova, e siano ammessi all'ufficio di diaconi solo se li si troverà senza colpa. 11 Ugualmente le donne siano degne, non maldicenti, ma sobrie, fedeli in tutto (6 ). 12 I diaconi siano sposati a una sola moglie (7), governino bene i loro figli e la loro casa (8 ). 13 Coloro che adempiono bene il loro compito, acquistano un grado onorevole e una grande fiducia nella fede in Cristo Gesù. 8
8 13. Oltre al ministero dell'episkopos le Lettere pastorali conoscono soltanto (cfr. comm. a 5, r 7) quello del diakonos (co-
me Phil. I,I) e della vedova. I diaconi ('servitori', 'aiutanti') dovevano curare il servizio dei poveri e dei malati nella comunità. Il loro titolo è una novità assoluta per quell'epoca; le definizioni delle cariche nel mondo circostante sono espressioni di potere o di onore. La definizione di questo nuovo ministero risale direttamente a parole di Gesù: egli stesso aveva inculcato nella mente dei suoi discepoli che al suo seguito la vera grandezza consiste nel dovere di servire (Mc. 9,35), e si era presentato come modello nel servizio (Mc. I0,45; Io. 13,1 ss.). Poiché i diaconi maneggiavano il denaro della comunità, tra le loro doti - oltre alla dignità (1 ), la :fidatezza nel parlare (2) e la moderazione nel bere (3) - è indicata particolarmente la chiarezza nelle questioni di denaro (4 ). L'esercizio dell'amore cristiano per incarico della comunità presuppone che essi siano assolutamente meritevoli di fiducia; perciò colui, cui esso è affidato, deve «serbare in una coscienza pura»( 5 ) il vangelo (chiamato mistero della fede', perché
I diaconi
Dio lo tenne nascosto [Rom. 16,25 s.; Col. l,26 s.], finché non ruppe il silenzio in Cristo), cioè fare molta attenzione a non rendere incredibile con scandali la buona novella. Nulla è più dannoso alla fede che essere sostenuta da un uomo non puro dalla coscienza gravata di colpe. Certamente, solo Dio può misurare la fede di un uomo; tanto più deve essere scrutinata e sottoposta ad un periodo di prova la condotta in passato e la dignità morale degli uomini cui deve essere affidato il compito di fiducia di un diacono. Certe condizioni sono poste anche alle loro donne (6 ) (è possibile che al v. l l si parli di diaconesse, cfr. Rom. 16,1-2); infatti, proprio l'attività caritativa è un compito che richiede la collaborazione delle donne. La moglie di un diacono dev'essere degna; non deve cadere nel peccato della maldicenza, cui soggiace più facilmente una donna; deve essere sobria nel giudicare (v. comm. al v. 2) guardandosi dal falso entusiasmo; sotto ogni aspetto essere degna di fede. Anche per i diaconi, ai quali ritorna il v. 12, vale, come per i capi delle comunità, il principio che devono essere «sposati ad una sola moglie» (7) (verosimilmente, v. comm. al v. 2: proibizione di nuove nozze di un divorziato) e che devono dare nella loro casa, specialmente nell'educazione dei figli, l'esempio di una famiglia cristiana (8). Se tanto è richiesto altrettanto sarà dato in contraccambio; un diacono fedele riceve una grande ricompensa: egli «si acquista un grado onorevole», cioè considerazione e fiducia della comunità (si potrebbe anche pensare ai gradini che portano al trono celeste; l'idea che dei gradini portino al trono celeste, come ad ogni trono regale, è fermamente ancorata al mondo biblico, la conosciamo, ad esempio, fin dal sogno di Giacobbe della scala che sale fino al cielo, Gen. 28 ). E egli ottiene <
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Tim. 3,r4-r6
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stato fedele nel suo ministero: egli può guardare consolato al giudizio di Dio; naturalmente non per i suoi meriti, ma per la :fiducia nella fede in Cristo Gesù, che ha espiato a sufficienza tutti i peccati che anche il più fedele ha su di sé in sovrabbondanza. 3. La conclusione dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo (j,14-16) Ti scrivo tutto questo, sperando di venire presto da te; 15 ma, nel caso che dovessi tardare, perché tu sappia come ti devi comportare nella casa di Dio, cioè nella chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità. 16 Senza dubbio grande è il mistero della nostra fede, (cioè Colui) «che fu manifestato nella carne, giustificato nello Spirito (1 ), apparve agli angeli, fu proclamato alle genti (2), fu creduto nel mondo, fu assunto in gloria (3)». 14
14-16. Prima di tutto, il :finale spiega perché Paolo abbia scritto, quantunque abbia l'intenzione di recarsi presto da Timoteo: potrebbero esserci dei ritardi nel viaggio. Ma si potrebbe aggiungere un secondo motivo: l'ordinamento comunitario non è destinato soltanto a Timoteo, ma dev'essere una direttiva costante per le comunità dell'Asia Minore, che dovrebbero riflettere sulla grave responsabilità che pesa su di lorò. La chiesa è infatti la casa del Dio vivo, che non tollera che il suo santuario sia profanato (I Cor. 3,17). Essa è stata posta da Dio nel mondo come una colonna, un fondamento sul quale ha ferma dimora nel mondo la rivelazione di Dio in Cristo, l'unica verità. Questa unica verità, il mistero della nostra fede (v. comm. al v. 9), è lui, soltanto lui, del quale l'inno della comunità adorante canta: «manifestato nella carne ... ».
La concluszone dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo
L'inno a Cristo (3,16), nel quale culmina tutta la Lettera, comincia col presentare un problema di critica testuale. I migliori testi hanno al principio il pronome relativo maschile 'il quale' (greco: hos): «grande è il mistero: (egli) che si è manifestato ... » allora tutto l'inno costituisce una frase relativa, cui manca quella principale. La maggior parte dei testi occidentali hanno il pronome relativo greco neutro ho, e in tal modo collegano, correttamente sotto l'aspetto grammaticale, l'inno a r6a: «grande è il mistero della nostra fede, il quale ... ». La maggior parte dei testi seriori, invece, legge 'Dio' (theos ); con questa lezione conosciuta da Lutero si ha una fase principale corretta: «grande è il mistero: Dio si è manifestato nella carne ... ». Qui, come spesso in altri casi, vale la regola di critica testuale: la lezione grammaticalmente più difficile (nel nostro caso la prima) è quella originale; con il tempo il testo è stato reso più facile. In tal caso, secondo il testo più antico l'inno costituisce una unica frase secondaria, senza la principale, cui per lo meno si dovrebbe premettere 'Egli'; proprio per questo è chiaro che esso è stato tratto dal contesto di un canto comunitario, che probabilmente era preceduto approssimativamente dalle parole: «sia lode e gloria a lui, che si è manifestato ... ». Anche la composizione stilistica merita attenzione; essa è composto di sei righe parallele, ognuna delle quali comincia con un passivo (con uguale finale in greco), che descrive un'azione di Dio. Ogni coppia di righe è una contrapposizione di concetti: carne-Spirito (1 ); angeli-genti (2); mondogloria (3). Ognuna delle tre coppie contrappone dunque il terreno al celeste in una successione chiastica ( terreno-celeste; celeste-terreno; terreno-celeste). Questa constatazione è importante ai fini esegetici, perché mostra che vengono esaltati in forma innica tre successivi avvenimenti della rivelazione di Dio in Gesù Cristo: sono tre avvenimenti, che conosciamo dal cerimoniale vetero-orientale dell'intronizzazione di un re, di cui abbiamo una documentazione per l'Egitto
I
Tmz. 3,r4-r6
5r
(E. Norden). Il cerimoniale dell'intronizzazione del re nell'antico Egitto si componeva di tre atti: l. il nuovo re riceve le proprietà divine in una solenne azione simbolica (esaltazione); 2. il re, ora divinizzato, è presentato agli altri dèi (presentazione); 3. soltanto dopo la presentazione egli è investito della sovranità (intronizzazione). Questo antichissimo cerimoniale si trasformò a poco a poco in una rigida forma stilistica che sopravvisse ancora per poco tempo, fino a quando l'usanza dell'intronizzazione cadde in disuso. Questa forma stilistica dei tre gradi negli inni di intronizzazione si trova ad es. in Phil. 2,9-1 l, dove si succedono: r. l'esaltazione (v. 9a), 2. la proclamazione del nome sopra tutti i nomi (v. 9 b ), 3. l'omaggio all'intronizzato, in adorazione e professione di fede (vv. 10 s.). Un altro esempio è offerto da Mt. 28,18-20: r. attribuzione dei poteri sovrani (v. l8b); 2. proclamazione (vv. 19.2oa); 3. dimostrazione della potenza (cfr. Mc. 16,17 s.) dell'intronizzato (v. 2ob; O. Michel). Si veda infine Hebr. 1,5-14, dove (ogni volta contrapponendo il Figlio agli angeli), si parla l. della elevazione a Figlio di Dio, che gli angeli adorano (vv. 5-6); 2. della proclamazione della gloria imperitura (vv. 7-12); 3. dell'intronizzazione (vv. 13 s.). Questa forma stilistica dell'inno di intronizzazione è propria anche del nostro inno a Cristo, il cui oggetto è l'intronizzazione di Gesù Cristo; essa si compie in tre fasi: r. l'esaltazione del Fglio di Dio fattosi uomo (prima coppia); 2. l'annuncio di questa esaltazione al mondo celeste e terrestre (seconda coppia); 3.l'insediamento di Cristo nella gloria (terza coppia). Ognuna di queste tre fasi si compie nel cielo e sulla terra: la manifestazione di Cristo è un avvenimento cosmico, onnicomprensivo. L'esegesi deve partire da questa constatazione. 1. L 'es a 1t azione. La comunità professa Gesù Cristo come colui che «fu manifestato nella carne, giustificato nello Spirito». Si confrontano due avvenimenti, uno terreno e
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La conclusione dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo
l'altro soprannaturale: quello terreno è l' «apparizione per mezzo della carne», dove la parola 'carne' non significa come per lo più nella letteratura paolina, l'empia essenza dell'uomo naturale, ma, secondo il linguaggio veterotestamentario, l'esistenza terrena di Gesù (così ad es. nelle formule cristologiche affini Rom. r,3 s.; r Petr. 3,18); quello soprannaturale è la «giustificazione per mezzo dello Spirito». Con 'giustificazione' si potrebbe, secondo un linguaggio ellenistico (di cui però si hanno attestazioni soltanto nell'era cristiana), voler dire l'esaltazione al modo di essere della giustizia divina; ma è più probabile che, secondo il linguaggio biblico, si intenda dire che Dio mostra a tutto il mondo come il Giusto colui che è stato crocefisso come un malfattore. Concretamente, in ambo i casi, la giustificazione è la risurrezione; questa è avvenuta 'nello Spirito' (di Dio), cioè in forza dello Spirito di Dio, del quale Gesù è stato il portatore, allo stesso modo che la risurrezione dei fedeli avverrà «per mezzo dello Spirito» (Rom. 8,r r ). Con questa pubblica giustificazione del Crocifisso nella risurrezione è cominciata la sua intronizzazione. Segue 2. l'annuncio dell'esaltazione al mondo celeste e terrestre (presentazione): «apparve agli angeli, è stato proclamato alle genti». Anche qui si confrontano l'avvenimento celeste e quello terreno: gli angeli adorano come loro Signore colui che sta per ascendere in cielo, al quale d'ora innanzi saranno sottomessi (Phil. 2, rr; Eph. r,2os.; rPetr. 3,22). A questa introduzione del Glorioso nella sfera della sua sovranità celeste corrisponde l'annuncio di lui alla sfera della sua sovranità terrestre; infatti la predicazione del vangelo della redenzione per Gesì1 Cristo è la proclamazione ai popoli della terra dei suoi diritti sovrani. Infine 3. l 'in t r o nizz azione: «creduto nel mondo, fu assunto in gloria». Anche l'intronizzazione del Cristo glorioso è un avvenimento che abbraccia cielo e terra: nel mondo celeste l'intronizzazione avviene con l'accoglimento nella gloria di colui che è asceso in cielo e sul
I Tim. 3,I4-I6
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trono alla destra di Dio; sulla terra egli estende la sua sovranità dovunque vi siano uomini che si sottomettono nella fede al messaggio di salvezza. È la vigorosa cristologia della comunità primitiva quella che è espressa nell'inno dell'intronizzazione, come la conosciamo da Phil. 2 ,5-II; anche qui la comunità esprime la sua fede nel Crocifisso, che è il Glorioso, che gli angeli adorano e che d'ora innanzi è il Signore. Ma l'inaudito di questo messaggio rimane il «manifestato nella carne». Che l'eterno Figlio di Dio si sia fatto uomo, questo è il «grande mistero».
PARTE TERZA LA LOTTA CONTRO LE PRETESE ASCETICHE DEGLI ERETICI (4,I-II)
Dopo l'inno gi01oso di lode al mistero divino, con cui si conclude il brano sull'ordinamento comunitario, la Lettera ritorna all'argomento della lotta di Timoteo contro i settari, che aveva già trattato nel primo capitolo. L'ordinamento della vita comunitaria e il mantenimento dell'unità della comunità contro false dottrine costituiscono i due principali interessi della prima Lettera a Timoteo e della Lettera a Tito. Ma mentre nel primo capitolo si era parlato deila dottrina dei settari, nel quarto capitolo sono discusse le loro pretese relative al modo di vita dei loro seguaci. Il vero modo di vita cristiana non è il legalismo ascetico, come sostengono gli eretici, ma è un camminare sotto la disciplina dello Spirito: Timoteo deve attestarlo alla comunità con la parola e con la condotta. r. Le pretese ascetiche dei settari ( 4,r-5) 1 Lo Spirito dice chiaramente che negli ultimi tempi alcuni rinnegheranno la fede, per seguire spiriti dell'errore e dottrine diaboliche, 2 sedotti da mentitori ipocriti, bollati a fuoco nella loro coscienza, 3 che proibiscono il matrimonio e l'uso dei cibi che Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai credenti e da coloro che hanno conosciuto la verità. 4 Perché tutto quanto Dio ha creato è buono, e nulla va rigettato quando lo si prende con rendimento di grazie; 5 infatti è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.
1-5. Questo brano inizia con una parola profetica dello Spirito Santo. Dio stesso ha annunciato in modo inequivocabile
I Tim. 4,I-5
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alla comunità, per mezzo delle parole di uomini carismatici, che negli ultimi tempi l'apostasia farà il suo ingresso nella comunità. La convinzione che il regno di Dio sarebbe giunto dopo un periodo di lotte, dolori e apostasie era comune certezza della cristianità più antica, ed è espressa frequentemente nelle parole profetiche ed ammonitrici che avevano un posto fisso nella primitiva celebrazione cultuale. Nelle parole del Signore di Mc. r 3 ,2 2 ed in quelle dell'Apostolo di 2 T hess. 2,3.rr-12; Act. 20,29-30; Apoc. 3,ro; r3, abbiamo esempi del contenuto di tali profezie sul tempo delle apostasie; e in Act. r r,27-28; r3,r-2; I Cor. 14, esempi di situazioni in cui si levarono voci profetiche durante il servizio liturgico. Ma qui l'Apostolo non si attende in un tempo lontano e indeterminato l'adempimento di queste profezie; infatti, gli element.i concreti dei vv. 3 e 7 provano che egli parla del presente della comunità. I settari sono i primi messaggeri del mondo degli spiriti nemici di Dio, che cercano di distruggere la comunità di Gesù. Come lo Spirito Santo ha preso dimora nei battezzati nel nome di Gesù Cristo, così hanno fatto gli spiriti maligni, per la diffusione delle loro dottrine. 'Dottrine diaboliche'? sì! Satana fonda una nuova religione. Questa è la tentazione degli ultimi tempi. Due sono i segni che stanno a indicare che gli eretici sono strumenti di forze sataniche: r. la loro ipocrita e arrogante falsa pietà e 2. i loro vani sforzi per nascondere, sotto il velo di rigorose pretese ascetiche, nelle loro coscienze il marchio dello schiavo (invisibile, ma incancellabile): qui si intende parlare della schiavitù di peccati nascosti, soprattutto (cfr. 6,3-ro) l'egoismo e l'avarizia. Con ciò è pronunciata la più dura sentenza che si possa immaginare contro i settari e i loro seguaci: strumenti dei demoni. Ma nello stesso tempo la comunità è rafforzata per superare le sue miserie interiori: l'apparizione di questi disturbatori della pace e l'apostasia di alcuni dei suoi membri non avviene a caso, ma fa parte del piano salvifico di Dio; anzi, l'una e l'altra cosa sono il segno che è
Le pretese ascetiche dei settari
prossimo l'ultimo intervento di Dio nella storia del mondo. Apparentemente gli eretici sono sostenitori di una concezione assai severa della vita; essi insegnano che la rinuncia al matrimonio e l'astinenza da certi cibi sono la via per giungere alla salvezza. Da questa duplice pretesa ascetica possiamo dedurre qualcosa di più preciso sulla loro dottrina. Tit. l,10-15 mostra che l'astinenza da certi cibi (si può pensare, ad esempio, ad un'alimentazione di tipo vegetariano, cfr. Rom. 14,1 ss.) deriva da prescrizioni giudaiche sui cibi e le purificazioni; inoltre rTim. 5,23 suggerisce l'ipotesi che venisse chiesta anche l'astinenza dal vino, forse a causa del timore rituale giudaico che il vino potesse essere contaminato da libagioni sacrificali agli dèi. Tutt'altra è l'origine della proibizione del matrimonio, un'idea estranea al giudaismo (ad eccezione di Qumran), ma che si incontra in certi ambienti gnostici ellenistici. In questi ambienti si sosteneva una concezione dualistica del mondo, che distingueva a tal punto tra il corpo e l'anima, la materia e il mondo spirituale, da vedere in tutto ciò che è terreno e naturale qualcosa di contrario a Dio, e nel distacco dell'anima da ogni cosa materiale la via per riunirsi alla divinità. Però non si deve assolutamente pensare a influenze gnostiche, può anche essersi trattato di una conseguenza dell'entusiasmo cristiano dei primi tempi, come ne vediamo a Corinto, ad esempio (I Cor. 7, l ss. ), su cui avrebbe potuto influire l'errata interpretazione di un detto di Gesù, quale quello di Mc. 12,25 (cfr. 2Tim. 2,18!). Perché qui l'Apostolo è tanto duro contro i settari? Perché la loro dottrina e le loro pretese ascetiche intaccano ciò che vi è di più santo nella fede, il 'solo per grazia'; quella che essi predicano è una redenzione fatta da soli, una santità artificiale. Essi vogliono conquistarsi a viva forza l'accesso a Dio e il diritto alla salvezza con l'ascesi e con opere legalistiche, e con il loro tentativo di autoredenzione, che vede il male nella natura anziché nel peccato, disprezzano il perdono e la redenzione che ci sono stati
r Tim. 4,r-5
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dati in Gesù Cristo. E disprezzano pure il santo ordine della creazione, disposto da Dio, che ha istituito il matrimonio e che ha creato i suoi doni affinché i suoi li ricevano con riconoscenza. A questa ascesi, più particolarmente alla proibizione dei settari di fare uso di certi cibi e del vino, l' Apostolo oppone con forza che tutto ciò che Dio ha creato è buono. Una simile parola di fede sarebbe inconcepibile nell'ambito del dualismo ellenistico, con il suo disprezzo del mondo materiale, e nell'ambito del giudaismo, con le sue innumerevoli prescrizioni sugli alimenti e le purificazioni. Come è avvenuto che il cristianesimo primitivo abbia potuto pensarla diversamente? Qual è la conoscenza della verità (v. 3) che autorizza i cristiani ad una simile apertura al mondo? La più chiara risposta si trova in Act. 10,9-16 sulla visione avuta da Pietro degli animali immondi. Il telo con i quadrupedi, i rettili e gli uccelli, che è fatto scendere per le quattro cocche, simboleggia nel linguaggio figurato della Bibbia l'universo con i suoi quattro capi (cfr. Hebr. l,1112; i quattro capi del mondo Apoc. 7, r; 20 ,8 ), e le parole della voce celeste: «ciò che Dio ha purificato non lo dire impuro» (Act. ro,15) annunciano a Pietro che la creazione di Dio, ora che è stata redenta, è pura. Questa è la chiave per l'interpretazione del nostro passo. La cristianità, sa che è stata redenta con il battesimo nel nome di Cristo, dal vecchio mondo, guasto e succube di Satana e del peccato, e che è stata trapiantata nel nuovo mondo, trasfigurato e santificato, della sovranità regale di Gesù Cristo (Col. l ,13 ), in cui non v'è più nulla di impuro. Soltanto da questa certezza di fede della redenta comunità salvifica di Gesù si può capire che «tutto quanto Dio ha creato è buono». Nella prima creazione tutto era buono ( Gen. l ,3 r ), finché il creato non fu rovinato dal peccato; così anche nel nuovo creato, che è subentrato grazie al nuovo Adamo, Cristo (Rom.5,12-21; I Cor. 15,45-49), al quale la comunità appartiene per la fede e il battesimo, tutto è buono. Quando si sa che in Cristo il
La retta pratica cristiana
vecchio è superato e che ognuno che gli appartiene è una nuova creatura ( 2 Cor. 5, r 7 ), i doni di Dio possono essere gustati con diletto. Questo libero uso dei doni di Dio è legato solo ad una condizione: cibo e bevanda sono puri, se vengono ricevuti con un'azione di grazie. Non meno di tre volte (vv. 3.4.5) il testo si richiama esplicitamente alla preghiera pronunciata a tavola come la condizione per il retto uso dei mezzi che Dio ha dato per la vita; la preghiera a tavola era una preziosa eredità del giudaismo, alla quale la cristianità più antica si attenne più esattamente di quanto non l'abbia fatto più tardi una generazione degenere. Come per i giudei, anche per le prime comunità era un'usanza naturale che i loro membri non mangiassero un pezzo di pane più grosso di un'oliva e non bevessero un bicchiere di vino senza alzare gli occhi verso colui che era la fonte di tutti i buoni doni. Come Gesù ha coscienziosamente seguito l'usanza della lode a Dio prima di mettersi a tavola e del rendimento di grazie dopo il pasto (preghiera sul pane: Mc. 14,22; 6,4r; 8,6; Le. 24,30; sui pesci: Mc. 6,4I; 8,7; ringraziamento sul vino dopo il pasto: Mc. 14,23), altrettanto coscienziosamente lo ha fatto la cristianità più antica (sui cibi: Rom. 14,6; I Cor. IO, 30; sul vino: I Cor. ro,r6). Poiché il dono di Dio è santificato dalla sua parola (presumibilmente nella preghiera che si recitava a tavola era incluso un detto scritturale come Ps. 2,4I, cfr. I Cor. 10,26) e dalla preghiera, non c'è posto nella comunità per un'astinenza dettata da una legalistica dottrina di autoredenzione. 2.
La retta pratica cristiana ( 4,6- u )
Se tu esporrai queste cose ai fratelli sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito delle parole della fede e della buona dottrina che hai imparato. 7 Respingi però i miti profani e puerili. Esercitati invece sempre più nella pietà. 8 Poiché «gli esercizi del corpo servono a ben poco, ma la pietà è utile a tutto
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Tim. 4,6-rr
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perché ha la promessa della vita presente e futura». Queste parole sono vere e degne di essere accolte. 10 Infatti noi fatichiamo e lottiamo per questo, perché speriamo nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, soprattutto dei credenti. 11 Questo devi ordinare e insegnare. 9
6-1 r. A partire da 4,6 la Lettera torna a rivolgersi personalmente a Timoteo. Contro i settari egli deve incitare la comu-
nità al retto uso dei doni di Dio, dei quali fanno parte anche
il cibo ed il matrimonio, come è dovere del suo ministero. Dalle sue parole la comunità deve riconoscere che il suo predicatore si nutre della rivelazione di Dio nel vangelo (cfr. Mt. 4,4; Io. 4,34), perché non c'è altra fonte di sapere spirituale. I 'miti' (cfr. comm. a I,4), cui i settari danno tanto valore (si tratta di speculazioni teosofiche [Tit. l,16] e di dottrine fanatiche, da cui discende la loro ascesi [cfr. comm. a 2Tim.2,18]), non solo sono inutili, ma empi, in quanto vogliono sollevare il velo del mistero divino. Timoteo li deve respingere inflessibilmente; le Lettere pastorali tengono in poco conto le discussioni: «esércitati invece sempre più nella pietà». Esiste anche un 'esercizio' cristiano, che qui è contrapposto agli esercizi di ascetismo dei settari ( v. 3 ); esso è la disciplina dello spirito nelle parole, la condotta, l'amore, la fede, la purezza (v. 12). Certamente anche la vita cristiana conosce l'astinenza nelle cose corporali, sia per rafforzare la vita di preghiera (Mc. 9,29; rCor. 7,5) sia per un riguardo verso i fratelli (I Cor. 8, l 3 ), sia come un freno morale (I Cor. 9,27); ma questi 'esercizi' fisici (gymnasia), non saranno mai la via alla salvezza, come afferma il v. 9 in una citazione (cfr. comm. a r ,15 ), originariamente intesa a non sopravvalutare l'importanza dell'atletica. Alla salvezza conduce soltanto l'esercizio dello spirito, la disciplina dello spirito, la pietà, perché ad essa è promessa la vera vita, e non soltanto per l'eternità ma anche nel tempo presente. In vista di questa promessa (conclude questo brano della Lettera) sopportiamo volonterosamente la fatica e la lotta, poiché la
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La retta pratica cristiana
nostra speranza non è fondata sulla forza e sulle opere umane, ma sulla promessa del Dio vivente, la cui volontà di salvezza si estende a tutti gli uomini (cfr. 2 ,4 ): perciò, tanto maggiormente i cristiani debbono confidare nella sua promessa.
PARTE QUARTA ISTRUZIONI A TIMOTEO PER LA GUIDA DELLA CHIESA (4,12-6,2)
Mentre nella parte dedicata all'ordinamento della comunità ( capp. 2 e 3) venivano date delle prescrizioni, valide per tutti, sulla retta forma del culto e sulle doti che si dovevano richiedere in coloro che fossero per essere prescelti all' esercizio di un ministero ecclesiale, il brano 4,12-6,2 contiene delle istruzioni a Timoteo sul modo di guidare, in rappresentanza dell'Apostolo, la chiesa della provincia dell'Asia. Si tratta, dunque, di direttive per la guida della chiesa. Dopo alcuni versetti introduttivi, nei quali Timoteo viene ammonito a non lasciarsi mettere in imbarazzo dalla sua giovane età ( 4, l 2- l 6), seguono istruzioni sul modo di trattare le persone secondo l'età (J,r.2), sul sostentamento delle vedove e sull'ordinamento del ministero vedovile (5,3-16), sulla ricompensa in denaro da dare ai presbiteri e sull'applicazione della disciplina ecclesiastica nei loro confronti, oltre che sulla loro scelta per l'ordinazione ( 5, l 7- 2 5 ), e infine sul1'attività pastorale presso gli schiavi (6,1-2). Si noti in quanta evidenza vien messa, accanto alla vigilanza sui pastori della comunità, la cura che un capo della chiesa deve avere soprattutto pet i più poveri, le vedove e gli schiavi. r. Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età (4,12-16) 12 Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma tu sii di modello ai credenti nelle parole, nella condotta, nell'amore, nella fede, nella purezza. 13 Finché non verrò io, dedicati alla lettura (della Scrittura) (1 ), all'esortazione (2) e all'insegnamento (3). 14 Non trascurare il dono di grazia che
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Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età
è in te, che ti è stato dato per intervento profetico, quando sei stato ordinato con l'imposizione delle mani. 15 Prendi a cuore tutto questo e dedicati interamente ad esso, affinché i tuoi progressi siano evidenti agli occhi di tutti. 16 Vigila su di te e sulla dottrina, persevera in queste disposizioni; così facendo, salverai te stesso e coloro che ti ascoltano. I2-16.
Timoteo appare qui come un uomo in giovane età.
È ammissibile ciò? Quando era stato chiamato a collabo-
rare con Paolo nell'estate del 49 o del 50 (Act. 16,r ss.) Timoteo evidentemente (secondo I Cor. 16,ro-1 I) era ancora molto giovane; da allora erano trascorsi più di dieci anni: dunque, all'epoca della I Tim. doveva essere sui trent'anni o poco più. Del resto, in generale abbiamo delle idee errate sull'età degli uomini del Nuovo Testamento. Gesù, all'inizio della sua attività pubblica, ai primi dell'anno 29, aveva circa 34 anni; i suoi discepoli dovrebbero essere stati più giovani di lui. Giacomo, il fratello del Signore, che era più giovane di Gesù (Le. 2,7 ), aveva appena trent'anni quando gli apparve il Risorto (I Cor. r5,7). Paolo, invece, all'epoca della sua conversione ( 3 I h 3 d.C.) era già stato ordinato scriba (ciò risulta, fra l'altro, dal suo diritto di voto nei processi che comportavano la pena capitale, cui accenna Act. 26,ro ); dunque già allora doveva avere trent'anni, ed essere sulla sessantina quando dettò r T im. La giovane età di Timoteo ha fatto sorgere delle difficoltà nell'esercizio del suo ministero di capo delle comunità dell'Asia Minore: da un giovane nessuno accetta volentieri di ricevere insegnamenti, per non parlare della disciplina; si aggiunga che normalmente a capo delle comunità v'erano uomini relativamente anziani (ITim. 5,17; Tit. I,5 cfr. 7). Ciononostante Timoteo deve esercitare fiducioso il suo ministero al servizio del vangelo; alla sua giovane età egli deve cercare di supplire con un'autorità giustificata interiormente, e cioè con un'esemplare condotta cristiana. È espresso desiderio dell'Apostolo che, finché egli non sarà venuto a Efeso, Timoteo continui
r Tim. 4,r2-r6
nel suo ministero, senza preoccuparsi per la sua giovinezza, e serva la comunità con la lettura degli scritti sacri ('scritti' qui sono naturalmente quelli dell'Antico Testamento; questo passo è la più antica documentazione della lettura del1'Antico Testamento durante il servizio liturgico cristiano), l"esortazione' (=predicazione Act. 13,15; Hebr. 13,22) e l'insegnamento (si deve pensare, ad esempio, alla preparazione dei catecumeni). Egli è ben stato ordinato per il servizio della parola, su ispirazione di Dio; con l'ordinazione gli è ben stato dato da Dio il carisma, la grazia del suo ministero. E i doni di Dio sono da Lui dati per essere usati. Se egli riflette che l'autorità di chi è stato investito di un ministero dev'essere un'autorità interiore, fondata e sull'esemplarità della sua condotta e sulla grazia del suo ministero, che è un dono di Dio reale e realmente efficace, compirà dei progressi spirituali e la comunità si sottometterà a lui volonterosamente. E Dio darà l'una e l'altra cosa ad un servitore della parola, che vigila su di sé e annuncia il puro vangelo (cfr. Iac. 5,20): la salvezza della sua anima e la salvezza di coloro le cui anime gli sono state affidate.
L'ordinazione dei primi tempi cristiani (4,I4) si riallaccia al rito tardo-giudaico; altri modelli non ce ne sono. Nel tardo giudaismo si prescriveva al teologo (scriba) un determinato corso di studi; soltanto quando aveva appreso il metodo di interpretazione della Scrittura e di tutto il deposito della tradizione, egli poteva essere ordinato. L'ordinazione avveniva (sul modello dell'insediamento di Giosuè da parte di Mosè Num. 27,18-23; Deut. 34,9) nella forma dell'imposizione delle mani da parte di tre scribi ordinati. Si era convinti che il rito risalisse ininterrottamente a Mosè e che per conseguenza scendessero sull'ordinato 'l'autorità e la sapienza' di Mosè. L'accoglimento di questo rito nelle comunità cristiane dev'essere avvenuto nella Palestina, perché il tardo giudaismo del tempo non conosceva ordinazioni se non nella
Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età
madre patria. Anche nei primi tempi l'ordinazione cristiana era compiuta formalmente con l'imposizione delle mani ( cfr. Act. 6,6: i sette; 13,3: missionari; I Tim. 4,14 e 2 Tim. 1,6: Timoteo; I Tim. 5 ,22 ), che va tenuta distinta dall'imposizione delle mani per guarire (Mc. 6,5; 7,32 ecc.), per benedire (Mc. ro,16), e per comunicare lo Spirito dopo il battesimo (Act. 8,17-19; anche Hebr. 6,2). L'ordinazione era effettuata in seguito a un'indicazione dello Spirito per bocca di uomini dotati del dono della profezia (Act. J3,2-3; I Tim. l, 18; 4,14) e dopo una preparazione interiore di tutti i partecipanti al rito (Act. 13,3): la chiamata di Dio e la quiete dell'anima del chiamato erano le due condizioni necessarie dell'ordinazione. Formalmente l'ordinazione avveniva con l'imposizione delle mani sul chiamato al ministero ecclesiale, probabilmente davanti alla comunità riunita, dopo una preghiera di intercessione (Act. 13,3). Secondo 2 Tim. 1,6 («con l'imposizione delle mie mani») lo stesso Paolo ha ordinato Timoteo (una certa contraddizione con I Tim. 4,14 verrebbe a cadere se si rendesse - come è senz'altro possibile - l'espressione È:n:lfrscni; 't'W\I xdpw\I 't'OU rcpscr~u't'splou non con «imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri», ma come traduzione letterale dell'espressione tecnica giudaica per esprimere l'ordinazione). Secondo Act. 13,3 sembra che l'imposizione delle mani fosse ripetuta ad ogni nuovo incarico per un determinato servizio. L'ordinazione non era una pura formalità od un atto simbolico, ma comunicava la grazia del ministero; che sia Dio a darla (2 Tim. l ,7 ), in questo passo è implicito con l'uso del passivo. Gli ordinati, che già possedevano lo Spirito (cfr. Act. 6,3.5; 13, l ), con la grazia del ministero ricevevano i poteri e la forza per l'esercizio di quel servizio o incarico cui erano chiamati. Che cosa doni la grazia del ministero è detto nel modo più chiaro in 2 Tim. 1,7; come essa operi, in 2 Tim. l,8 1 • I. V.E. Lohse, Die Ordination im Spi:itjudentum und im Neuen Testament, r95I.
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2.
Il modo corretto di trattare le persone secondo l'età (5,1-2)
1 Non riprendere duramente un vecchio (1 ), ma esortalo come un padre, tratta i giovani (2) come fratelli, 2 le donne anziane (3) come madri, le giovani (4 ) come sorelle, in tutta purezza.
Una vera comunità cristiana è una grande famiglia. Già Gesù aveva chiamato i suoi discepoli e le sue discepole fratelli, sorelle, madri (Mc. 3,31-35) e aveva insegnato ai suoi a considerarsi come una grande famiglia (Mc. 10,29 s.); lo stesso sentimento di legame cordiale lo troviamo in Paolo, quando dice della madre di Rufo (che forse era la moglie di Simone il Cireneo [ cfr. Mc. I 5 ,2 l], quello che aveva portato la croce) che è una madre anche per lui (Rom. 16,13). Perciò anche un vero pastore d' anime deve considerare e trattare come se fossero della sua famiglia i membri della comunità che gli sono stati affidati: come degli uomini ai quali è legato con lo stesso amore e la stessa tenerezza, che lo legano ai suoi genitori e fratelli e sorelle. In tal modo non accadrà che egli tratti un vecchio, che deve ammonire nell'esercizio del suo ministero, irosamente e senza rispetto o che vada incontro a una donna della sua comunità con pensieri impuri. 1-2.
3. Le vedove della comunità (513-16) a) Il loro sostentamento ( 5 ,J-8)
Onora le vedove, che sono veramente vedove. 4 Ma se una vedova ha figli o nipoti, essi prima devono imparare a praticare i loro doveri verso la propria casa e a ricambiare il bene ricevuto dai loro genitori, perché questo è accetto a Dio. 5 Ma colei che è veramente vedova e sola, spera in Dio e si dedica alle preghiere ed alle suppliche notte e giorno. 6 Ma quella che pensa ai piaceri, anche se viva è morta. 7 Raccomanda loro anche questo, affinché siano irreprensibili. 8 Se qualcuno non si prende cura dei suoi, soprattutto di quelli che vivono con lui, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un incredulo. 3
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Le vedove della comunità: il loro sostentamento
3. Il v. 3 è la continuazione dei vv. I .2, e si occupa di un quinto gruppo nella comunità, le vedove (seguono in 6,I, come sesto gruppo, gli schiavi). L'esortazione (tradizionale) <
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'vere vedove' (v. 5 ). La minuziosità delle istruzioni e l' accenno a non felici esperienze in passato fanno pensare che il vedovato fosse sorto da non molto tempo nell'Asia Minore. Questo brano della Lettera tratta prima del sostentamento delle vedove da parte della comunità (vv. 3-8, cfr. 16), poi della loro scelta (vv. 9-16), e tradisce l'intenzione di restringere il più possibile il gruppo delle 'vere vedove'. 4-8. L'esortazione «onora le vedove» fa espresso riferimento al quarto comandamento - cfr. comm. a l,9 s. sull'interpretazione del quarto (quinto) comandamento -. 'Onorare' non significa soltanto portare rispetto ma include, come indicano i vv. 4-8.16 e confermano i vv. 17 s., l'assistenza materiale. Già la comunità primitiva curava questa assistenza alle vedove (cfr. Act. 6,1; 9,39), che era il compito più urgente nelle comunità ellenistiche, perché il mondo antico (ad eccezione del giudaismo) non conosceva un'assistenza pubblica e ordinata dei poveri. Ma ora l'aiuto da parte della comunità dev'essere prestato soltanto alle 'vere vedove', perché non sarebbe giusto far gravare sulla comunità l'onere del mantenimento di vedove che abbiano dei discendenti; in tali casi, invece, va ricordato insistentemente ai figli e ai nipoti il dovere di gratitudine per l'amore di cui sono stati oggetto e la volontà di Dio espressa nel quarto comandamento. Le cose vanno diversamente con le 'vere vedove', e per esse deve provvedere la comunità: la prima loro caratteristica è l'isolamento in cui sono venute a trovarsi, cui si aggiunge il fatto che la loro vita ormai è volta interamente a quella eterna. Una vera vedova cristiana impara dal suo dolore, disposto da Dio, e dal suo isolamento che cosa significhi la speranza cristiana nell'immortalità; e quando un'anima, provata dal dolore e sola, si è abituata a pensare all'altra vita, la preghiera diventa spontaneamente la sua principale forza vitale, notte e giorno (cfr. Le. 2,37 che anch'esso fa precedere la notte al giorno, secondo una espressione diffusa). Al
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Le vedove della comunità: la loro scelta
contrario, una vedova che lenisce il suo dolore in una vita sconsiderata, si è staccata da sola dalla comunità e ha perso ogni diritto all'assistenza da parte di essa; pur vivendo, è spiritualmente morta (Mt. 8,22; Apoc. 3,1 ). Ma, per quel che riguarda l'assistenza alle vedove, vale incondizionatamente il principio che questo dovere va adempiuto in primo luogo (come già era stato detto al v. 4) dai loro parenti: chi trascura questo dovere rinnega, non solo a parole ma anche nei fatti, la sua fede. Un uomo simile è peggio di un pagano, che non conosce Cristo e non può perciò sapere che cosa sia l'amore che Cristo ci ha donato e che vuole risvegliare in noi. h) La loro scelta ( 5,9-16)
Una vedova può essere scelta (solo a queste condizioni): (1)non deve avere meno di sessant'anni; (2) deve essere stata sposata una volta sola, 10 (3) e produrre testimonianza che ha fatto opere di carità: che ha educato figli (1 ), che ha praticato l'ospitalità (2), che ha lavato i piedi dei santi (3), che ha alleviato le tribolazioni dei sofferenti (4 ), che ha compiuto in ogni occasione opere di carità (5). 11 Rifiuta le vedove giovani, perché quando le assalgono desideri che le allontanano da Cristo vogliono sposarsi, 12 meritando d'essere condannate perché non hanno mantenuto la loro prima promessa. 13 Inoltre, non avendo nulla da fare, prendono ad andare in giro per le case; e non sono soltanto oziose (1), ma ciarliere (2 ) e indiscrete (3), e fanno discorsi sconvenienti (4). 14 Perciò voglio che le giovani (vedove) si sposino(1), abbiano figli (2), curino la loro casa (3) e non diano all'avversario alcuna occasione alla maldicenza (4 ). 15 Infatti già qualcuna si è sviata e ha seguito Satana. 10 Se una donna credente ha delle vedove (tra i suoi parenti) le assista, perché non sia gravata la comunità, affinché questa possa provvedere a quelle che veramente sono vedove. 9
9-16.Nella scelta di coloro che sono investite del ministero vedovile occorre andare molto cauti. A tal fìne, una vedova deve soddisfare alle seguenti condizioni: l. Come limite minimo di età sono indicati i sessant'anni, per essere certi della sua esperienza e fidatezza: il ministero è riservato alle an-
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ziane (i sessant'anni erano considerati la soglia della vecchiaia), perché si erano avute delle delusioni con vedove più giovani (vv. rr-r 5 ). 2. La vedova dev'essere stata «moglie di un solo marito»; poiché al v. 14 alle vedove giovani è consigliato espressamente di rimaritarsi, qui si conferma che questa disposizione si riferisce a nuove nozze di persone divorziate, e non diventate vedove (v. comm. a 3,2). 3. Infine si deve avere un'attestazione che la donna, cui affidare il ministero vedovile, abbia compiuto opere di carità. Di queste opere vengono dati quattro esempi: l'educazione dei fan·· ciulli(1), probabilmente orfani (v. quanto è detto qui dopo l'analisi del v. r6); l'ospitalità(2), che aveva un'importanza particolare, dato il grande numero di missionari pellegrinanti nella chiesa dei primi tempi; il «lavare i piedi dei santi» (3), intendendosi con ciò non la sola ospitalità (Le. 7,44), ma anche la disponibilità a rendere con spirito di abnegazione servizi umilianti (Io. 13,r ss.; Mc. r,7): infine la prontezza a soccorrere gli afflitti (4 ). Il fatto che i cristiani, cui devono «essere lavati i piedi», siano detti santi, non va inteso, come del resto sempre in Paolo, senza peccati; i cristiani sono chiamati santi in quanto 'santificati' (I Cor. r,2), vale a dire in quanto uomini che, per il perdono concesso loro nel battesimo (ICor.6,rr; Eph.5,26), sono stati scelti da Dio (v. Rom. r,7). I vv. rr-15 spiegano ampiamente i motivi della prima condizione: il limite di età (v. 9). L'esperienza aveva insegnato che per diversi motivi non era conveniente investire del ministero vedove giovani, che erano piuttosto numerose dato che le donne si maritavano in età molto giovane. Prima di tutto, ad una vedova giovane si presentava facilmente la possibilità di rimaritarsi; e questo fatto di per sé non era sconveniente: infatti il v. 14 consiglia alle vedove giovani di passare a seconde nozze. Ma, poiché il ministero vedovile era concepito come uno sposalizio con Cristo, che di per sé implicava la rinuncia (con un voto?) ad un nuovo matrimonio, una vedova, messa al servizio della comunità,
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Le vedove della comunità: la loro scelta
che decidesse di rimaritarsi era esposta all'accusa di avere mancato alla 'prima promessa', cioè alla parola data a Cristo. Si doveva evitare che le vedove più giovani si venissero a trovare in un conflitto di coscienza del genere. C'era poi un altro motivo: si era constatato che, in una comunità messa in agitazione dai settari, giovani investite del ministero vedovile erano esposte facilmente a tentazioni, che arrecavano danno al loro ministero. Se non avevano troppo da fare, esse andavano in giro per le case (il testo è di difficile comprensione: se si potesse cambiare la lettera iniziale della parola nel testo [ lanthanousin in luogo di manthanousin] allora si leggerebbe: «ed esse, se non hanno niente da fare, vanno segretamente in giro per le case»), e l'ozio (1) faceva nascere il gusto del pettegolezzo (2) e di «immischiarsi curiose negli affari altrui» (3) (il vocabolo in Act. 19,19 ha addirittura un significato di magia, che forse ha anche qui; in tal caso si dovrebbe pensare ad atti superstiziosi, esorcizzazione di malati e cose simili) e di dilettarsi in discorsi 'sconvenienti' (4 ) (forse formule magiche ecc.; la magia a quell'epoca imperversava nel mondo mediterraneo). In qualche caso si era persino verificato che giovani vedove cadessero sotto l'influenza dei settari e avessero perso ogni ritegno, anche morale, ed erano diventate preda del vecchio nemico maligno (cfr. 2 Tim. 3,6 s.). Perciò Paolo ordina che alle giovani sia precluso il ministero vedovile. Non mancava loro nelle comunità l'occasione di accasarsi(1) e di adempiere ai doveri familiari dati da Dio alla donna (2-3 ). Così si tagliava corto ad ogni maldicenza da parte degli avversari increduli (4 ). La conclusione del brano sulle vedove ritorna sulla questione del loro sostentamento. Anche per le vedove che stanno al servizio della comunità vale quanto è stato detto al v. 4: è dovere cristiano di ogni donna credente di prendersi cura delle vedove che ha in casa sua o fra i suoi parenti, in modo che l'assistenza della comunità sia esclusivamente prestata a quelle che sono veramente sole. Questo brano dedicato
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alle vedove è esemplare dell'assistenza cristiana alle vedove, anche ai nostri tempi, soprattutto sotto un aspetto: l'assistenza alle vedove da parte di una comunità viva non deve limitarsi all'aiuto materiale a quelle che, essendo rimaste vedove, sono chiamate alla totale dedizione a Cristo ed alla preghiera per la comunità. Le opere di carità (5,IO). Le Lettere pastorali, in conformità con l'importanza che danno alla pratica cristiana, tornano frequentemente a parlare delle opere di carità, che si attendono dall'intera comunità (Tit. 2,r4; 3,8.r4), ma in particolare dai suoi ministri (Tit. 2,7) e dai benestanti (I T im. 6, r 8 ), come anche dalle donne e dalle vedove ( 2, IO; 5, IO). Per una retta interpretazione di questa espressione occorre considerare che tutto il Nuovo Testamento, come del resto i contemporanei di Gesù, facevano differenza tra l'elemosina e le opere di carità (Act. 9,36; Hebr. r3,r6; I Tìm. 6,18 ecc.). Gesù nel discorso della montagna in Mt. 6, r-4 parla dell'elemosina, in 5,r4-r6 delle opere di carità. L'elemosina consiste nel dare aiuto in denaro; essa fu praticata fra i discepoli (Mc. r4,5; Io. r3,29) ed è elogiata in Tabita e Cornelio (Act. 9,36; ro,2.4.3r). Gesù pone l'amore con cui si rinunzia con gioia a qualcosa a vantaggio dei poveri, al disopra dell'adempimento della lettera dei dieci comandamenti (Mc. ro,2r) e parla del «tesoro nel cielo» prodotto dalle elemosine (Mc. ro,2r; Mt. 6,20). Chiede solo che l'elemosina sia fatta in segreto, anzi che i suoi discepoli dimentichino di averla fatta, perché all'atto non si mischi alcuna idea di merito (Mt. 6,r-4). Le opere di carità (la traduzione letterale 'opere buone' può trarre in inganno, perché può far pensare che si tratti di opere meritorie) si distinguono dall'elemosina in quanto non consistono in un dono di denaro, ma richiedono l'impegno di tutta la persona. Come opere di carità vengono nominate: dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati (Mt. 25,35; 10,42; Iac. 2,r5 s.); dare
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Gli anziani
ospitalità (Mt. 25,35; l0,40 s.; Rom. 12,13; I Tim. 3,2; 5, lo; Tit. l,8; Hebr. 13,2; I Petr. 4,9; Iac. 2,25; 3 Io. 5,8, dr. 10); vestire chi non è sufficientemente coperto (Mt. 25, 36; Act. 9,39; Iac. 2,15 s.); visitare gli ammalati, i carcerati, coloro che non hanno nessuno (Mt. 25,36; Iac. l,27 dr. 2 Tim. l,16 s.), allevare gli orfani (Mc. 9,37; e proprio I Tim. 5,10) e seppellire i morti (Mc. 14,8). Gesù considera grande la benedizione per le opere di carità: le mette al disopra del sacrificio rituale (M t. 9, l 3 ), e a Betania ha detto ai suoi discepoli che le opere di carità sono ancora più importanti dell'elemosina (Mc. 14,3-9 ). I pagani, che non sono venuti in contatto con lui, saranno da lui giudicati nel giudizio finale secondo le opere di carità che avranno compiuto (Mt. 25,31-46). Gesù ha inteso difendere le opere di carità dal pericolo che ad esse vada legata l'idea di merito e di giustificazione, quando ha detto ai suoi discepoli che le opere di carità devono essere compiute in modo che gli uomini lodino il Padre che è nei cieli, e non chi le ha fatte (Mt. 5, l 6); e ciò si ha quando gli uomini hanno la sensazione che l'atto di amore è compiuto in contraccambio dell'amore di Dio. Questa è la differenza decisiva rispetto ad ogni concezione meritoria delle 'buone opere': le opere di carità dei discepoli di Gesù non sono compiute per farsi dei meriti, ma nascono dalla riconoscenza dei figli di Dio. Soltanto così non sono opera degli uomini ma di Dio (dr. comm. a 2 Tim. 2, 2 l ) . 4. Gli anziani (5,17-25) 17 Quegli anziani, che governano bene, siano reputati degni di doppio onore, soprattutto coloro che si affaticano nella predicazione e nella dottrina. 18 Infatti dice la Scrittura: «non mettere la museruola al bue che trebbia»; e ancora: «il lavoratore ha diritto alla sua mercede». 19 Non accettare un'accusa contro un anziano se non sulla testimonianza di due o tre persone; 20 ma coloro che mancano riprendili davanti a tutti, affinché anche gli altri ne provino timore. 21 Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù e agli angeli eletti di seguire queste istruzioni senza prevenzioni, non facendo nulla per parzialità. 22 Non
I
Tim. 5,r7-25
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aver fretta a imporre le mani, e non farti partecipe dei peccati degli altri. Mantienti puro. 23 Non continuare a bere solo acqua, ma prendi anche un po' di vino a motivo del tuo stomaco e delle tue frequenti indisposizioni. 24 Vi sono uomini i cui peccati sono evidenti anche prima di ogni giudizio; invece quelli di altri lo sono soltanto dopo. 25 Similmente anche le opere di amore sono visibili a tutti, e quelle che non sono tali non si possono nascondere. v. r8: Deut. 25'4 e Le. ro,7; v. r9: Deut. 19,15
Il v. 17 presenta delle difficoltà, se si traduce presbyteroi, non con 'gli anziani' ma con 'presbiteri': «i presbiteri, che presiedono bene, siano reputati degni di doppio onore»; poiché qui nel significato di 'onore' secondo il v. 18 è inclusa anche l'idea di ricompensa, il v. 17 distinguerebbe due gradi fra i presbiteri, a seconda della loro efficienza, il che non è verosimile. La difficoltà è risolta se si riconosce che la parola presbyteroi definisce non un ministero ma un livello di età (come al v. l); a questo modo il v. l 7 diventa assolutamente chiaro, in quanto dice che se quegli anziani, cui è stato affidato un incarico, lo esercitano fedelmente, devono avere una doppia ricompensa (in confronto, cioè, agli anziani e alle vedove assistiti dalla comunità). Si risolve così anche la difficoltà offerta dalla Lettera a Tito, nella quale i nomi di presbitero e di episcopo si alternano indifferentemente (1,5 e l,7); anche in Tit. l,5 presbyteros indica una età e non un ministero. Così infine, si spiega anche la mancata inclusione in I Tim. 3 del presbiterio fra i ministri della comunità. Il fatto, che per lo più viene trascurato, che in tutti e quattro i passi delle Lettere pastorali (I T im. 5, r. 17.19; Tit. r,5) la parola presbyteros indica una persona di una data età, è di grande importanza per la datazione delle Lettere stesse e per la loro autenticità; infatti l. neppure le altre Lettere paoline hanno la parola in questione per definire un ministero; i ministri sono chiamati diversamente (cfr. ICor. 12,28; Rom. 12,8; Phil. l,r; Eph.
Gli anziani 74 4,II ). Ma 2. ben presto dopo Paolo la parola presbyteros, per indicare un ministro, è diventata d'uso comune nella chiesa dell'Asia Minore (r Petr. 5,r s. [segna il passag-
gio al titolo]; Act. 14,23 [quantunque qui sia anacronistica]; invece 2 Io. r; 3 Io. l 'il vecchio' è probabilmente uno pseudonimo scelto per ragioni politiche). L'uso della parola presbyteros colloca, dunque, le Lettere pastorali insieme alle Lettere paoline più antiche e prima della Prima Lettera di Pietro e degli Atti degli Apostoli. Tit. l,5-9 mostra che i capi delle comunità erano scelti fra gli anziani. Il presente brano regola la ricompensa da dare agli anziani che sono al servizio della comunità (vv. l7-r8), l'applicazione della disciplina ecclesiastica nei loro confronti (vv. I 9-2 r) e (qualora si considerino i successivi versetti come facenti parte di questo brano) la scelta in mezzo a loro dei ministri (vv. 22-25). 17-25. Un doppio 'onore' (rispetto e ricompensa v. r8) dev'essere dato a quegli anziani della comunità, cui è stato affidato un incarico di presidenza, che esercitano fedelmente; ciò va detto in modo particolare di coloro ai quali tocca anche il servizio della parola mediante la predicazione e l'insegnamento: dunque, la guida della comunità e l'evangelizzazione non sempre erano affidate alla stessa persona. La loro fatica va riconosciuta pubblicamente con il doppio del1' assistenza consueta. Il dovere delle comunità di mantenere i loro capi ed i loro maestri è affermato qui l. con un'interpretazione allegorica di una disposizione veterotestamentaria a protezione degli animali (Deut. 25,4 cfr. I Cor. 9,9) e 2. con un detto, che già Gesù aveva ripreso (Le. lo,7 ). Dalle accuse che Paolo si attirò a Corinto, per essersi guadagnato da vivere con il lavoro delle sue mani (I Cor. 9) vediamo quanto fosse naturale per le comunità paoline questo dovere di provvedere al sostentamento dei loro ministri. Oltre al regolamento della misura della ricompensa, era im-
I Tim. 5,I7-25
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portante che Timoteo, come rappresentante dell'Apostolo a capo di gruppo piuttosto numeroso di comunità, ricevesse istruzioni sull'applicazione della disciplina ecclesiastica agli anziani. Da un lato essi debbono essere protetti da insinuazioni avanzate con leggerezza sul loro conto: nessuna accusa dev'essere accolta, che non sia fondata sulla testimonianza di due o tre persone (Deut. 19,15 ). Se però il colpevole si ostina nel peccato, quantunque sia stato ammonito, gliene deve essere chiesto conto severamente nell'assemblea della comunità, per il bene della comunità stessa, che soltanto così imparerà a temere il peccato. E questa istruzione appare tanto importante all'Apostolo da dover fare appello alla coscienza del suo delegato, con un triplice solenne scongiuro, che gli rammenta la resa dei conti nel giudizio finale (dr. 2 Tim. 4,1 ). Certamente l'applicazione della disciplina ecclesiastica in questo caso è doppiamente difficile, perché va fatta ad un uomo anziano o addirittura a un capo della comunità; ma quando si tratta di un peccato, non c'è posto per riguardi né simpatia, non per pigrizia né per carità: esso va punito perché la disciplina nella comunità è infranta se non si comincia ad applicarla dalle persone che sono più in vista e da coloro che sono investiti di un ministero. Non è sicuro che i vv. 22-25 appartengano a questo brano; ma è molto probabile che il filo conduttore di essi sia la scelta degli ordinandi (recentemente da più parti è stata avanzata l'idea che il v. 22 tratti della riammissione dei penitenti, che non dev'essere accordata con troppa fretta; ma l'imposizione delle mani come segno di riconciliazione è attestata soltanto nel III secolo). Timoteo, che qui agisce come rappresentante dell'Apostolo nella guida della chiesa ( cfr. comm. a Tit. l ,5 ), deve procedere all'ordinazione soltanto dopo un attento esame (sulla esortazione cfr. 3, r ss.); l'elezione di una persona indegna lo farebbe corresponsabile dei suoi peccati, cfr. comm. a 3,6-7 ). Ma soprattutto «mantieniti puro»; chi deve esprimere un giudizio o
Gli schiavi
condannare altri, deve avere le mani pulite. Ciò però non significa che egli debba avere falsi riguardi; sembra che i settari (cfr. comm. a 4,3) esigessero l'astinenza dal vino, ma Timoteo non deve cercare la purità in simili legalismi: dato che lo richiede la sua salute, egli può tranquillamente bere del vino, che nell'antichità era considerato un'ottima medicina. Il v. 24 riprende il discorso del v. 22, indicando il motivo della cautela nella scelta degli ordinandi. Certo si hanno casi in cui i peccati sono così visibili a tutti da equivalere agli accusatori che si presentano nei tribunali; ma vi sono anche peccati abituali (forse qui si pensa a peccati abituali d'ordine sessuale), che sono come degli accusatori che si presentano in giudizio soltanto dopo che la causa è stata aperta. Esattamente la stessa cosa avviene con le opere di carità; talvolta esse sono palesi a tutti e tal'altra sono compiute di nascosto. Ma a lungo andare, né il male ( 24) né il bene possono restare nascosti agli altri uomini; e proprio per questo la coscienziosità nella scelta dei ministri è un dovere così serio. 5. Gli schiavi ( 6,1-2) 1 Tutti coloro che sono sotto il giogo della schiavitù, considerino i loro padroni degni di ogni rispetto, affinché non siano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina (cristiana). 2 Coloro poi che hanno padroni cristiani, non li disprezzino, perché sono fratelli, ma li servano con più impegno poiché sono cristiani e amati (da Dio), che si danno pensiero di fare del bene. Così insegna ed esorta.
l-2. Ora si passa a parlare degli schiavi (cfr. gli schemi familiari in Col. 3,22-4,1; Eph. 6,5-9; I Petr. 2,18-25), che costituiscono il sesto gruppo nella comunità (cfr. comm. a 5,3). Si danno due casi: I . i padroni sono pagani (v. I ) ; 2. sono cristiani ( v. 2 ). Il padrone pagano non deve avere l'impressione che la libertà dei figli di Dio li renda incapaci di servire. La conseguenza sarebbe che il padrone pagano parle-
I
Tim.
6,I-2
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rebbe con disprezzo del Dio e della dottrina dei cristiani; infatti il mondo pagano giudica la fede dei cristiani dalla loro vita. Il servizio come schiavi deve essere di fatto una testimonianza del vangelo: questo è il motivo elevato dell'etica cristiana della schiavitù, che nobilita anche il servizio più semplice. Se invece il padrone è un fratello cristiano, c'è il pericolo che il servo scambi la parità religiosa con quella sociale, invece di raddoppiare lo zelo nel servizio, perché è un servizio reso a un fratello. Ma anche i padroni hanno dei doveri particolari, è cioè quello di un amore fraterno nel fare del bene. Per i padroni come per i servi, per chi è in alto come per chi è in basso, vale sempre lo stesso principio: confermare la fede nei fatti. In questo non c'è differenza tra gli uni e gli altri.
PARTE QUINTA L'ERRATO E IL GIUSTO ATTEGGIAMENTO VERSO IL DENARO (6,3-r9)
r. L'atteggiamento errato ( 6,3-10) 3 Se qualcuno insegna altre dottrine e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina della nostra fede, 4 è superbo, non comprende nulla, malato di questioni oziose e di litigi verbosi, da cui nascono l'invidia (1 ), la discordia (2), le offese (3), i sospetti malevoli (4 ), 5 le discussioni (5) di uomini dalla mente corrotta (1), che privi della verità (2), stimano che la religione sia una fonte di guadagno (3). 6 Certo, la religione è una grande fonte di guadagno per chi si accontenta di quello che ha. 7 Infatti, nulla abbiamo portato in questo mondo e nulla possiamo portarne via. 8 Siamo dunque contenti di avere di che nutrirci e coprirci; 9 poiché coloro che vogliono diventare ricchi cadono nella tentazione e nell'inganno, in molte voglie insensate e dannose, che sprofondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. 10 Infatti l'avidità di denaro è la radice di tutti i mali; e alcuni, che si sono lasciati sedurre da essa, si sono allontanati dalla fede e si sono lasciati sopraffare da tanti tormenti.
3-10.Per la terza volta (cfr. l,3-n; 4,1-n) la Lettera si occupa degli eretici. In questo brano è indicato il motivo più profondo del loro distacco dalla comunità: essi hanno trascurato le parole di Gesù, che avrebbero potuto serbare soltanto se fossero stati sani interiormente, e si sono estraniati dalla dottrina della chiesa (letteralmente: dalla dottrina che è conforme alla pietà). Ciò non è avvenuto perché (come si sono immaginati i settari di tutti i tempi) abbiano avuto una comprensione più elevata della cose (non c'è comprensione che superi le parole di Gesù e della sua chiesa), ma per la loro presunzione, che si esprime nell'attaccamento
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morboso a questioni oziose e a litigi verbosi, che distruggono ogni spirito di comunione. Chi è caduto in questo peccato di superbia non può essere contento del successo del fratello (1); semina la discordia (2); quando manca di argomenti ragionevoli ricorre alle ingiurie (3); ha in sospetto le ragioni degli altri (4 ); dà sempre motivo a discussioni (5). E non c'è da meravigliarsene: la superbia corrompe la mente (1) e necessariamente allontana dalla verità di Dio(2) (Rom. l,22); e allora può darsi che gli uomini diventino talmente ciechi da fare della religione un affare (3). La Lettera mette in evidenza con tagliente durezza questo peccato dei settari, che evidentemente si facevano pagare caro il loro insegnamento e sfruttavano i loro seguaci; questa è la cosa peggiore che potessero fare: porre Dio al servizio del peccato. Certamente la religione è una via sicura per giungere ad ottenere un autentico profitto (cfr. 4 ,8): essa arricchisce non solo di beni celesti, ma fa ricchi anche in questo mondo, perché la vita dell'uomo pio è nelle mani beatificanti di Dio. Ma ciò avviene soltanto se egli si mantiene libero dall'avidità di denaro e si accontenta di ciò che Dio gli ha dato (autarkeia è un'espressione stoica). Questo spirito di moderazione e di giusto apprezzamento dei beni della terra si può già avere con la semplice riflessione (corrente nell'etica biblica [lob 1,21; Le. 12,16-21], giudaica e greca) che veniamo nudi al mondo e nudi dobbiamo abbandonarlo. «Stolto, stanotte ti richiederanno la tua anima, e di chi sarà quello che ti sei messo da parte?» (Le. 12,20). Chi ha il minimo necessario per vivere (l'etica stoica giustamente non si è mai stancata di ripeterlo) dev'essere soddisfatto e riconoscente. L'avidità di denaro non solo è insensata, uccide l'anima. Anche nella comunità c'erano dei ricchi (v. I7 ), che possono essere buoni cristiani. Ma se un uomo si lascia prendere dal desiderio di diventare ricco a tutti i costi, dalla auri sacra fames (Orazio), apre le porte alla tentazione di non arretrare davanti a nessun mezzo pur di fare denaro, sorgono desideri che vogliono
Appello a Timoteo e dossologia
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assolutamente essere soddisfatti e la vita finisce nella rovina eterna. «L'avidità di denaro è la radice di tutti i mali» scrive l'Apostolo, citando un proverbio dell'epoca. Non che non ci siano altre cause di peccato, ma l'avarizia è pericolosa in modo particolare perché rende duro il cuore dell'uomo e lo fa capace di tutto. La comunità ne ha fatto l'esperienza: l'avarizia è inconciliabile con la pietà cristiana. In chi ne è vittima la fede si raffredda fino all'apostasia, e in luogo della felicità che si era illuso di conseguire ha soltanto rimorsi. 2.
Appello a Timoteo e dossologia ( 6,n-16)
Ma tu, uomo di Dio, rifuggi da queste cose. Cerca invece la giustizia (1), la pietà(2), la fede(3), l'amore( 4 ), la pazienza( 5 ), la mansuetudine (6 ). 12 Combatti la buona battaglia della fede, conquista la vita eterna, alla quale sei stato chiamato e nella quale hai fatto la tua bella professione di fede alla presenza di molti testimoni. 13 Al cospetto 11
di Dio, che chiama alla vita ogni cosa, [zio Pilato, e di Cristo Gesù, che ha reso la bella testimonianza sotto Pon14 ti raccomando di conservare il mandato, senza macchia e irreprensibile, fino all'apparizione del Signore nostro Gesù Cristo, 15 che a suo tempo sarà resa palese da colui che è
il beato e unico sovrano (1), 16
re dei re e signore dei signori (2), il solo che possiede l'immortalità, e abita in una luce inacces[ sibile (3), che nessun uomo ha visto né può vedere (4 ). A lui onore e potenza in eterno. Amen.
11-16. Un 'uomo di Dio', cioè un uomo che è al servizio di Dio ed è uno strumento nelle sue mani (come gli 'uomini di Dio' dell'Antica Alleanza, I Reg. 12,22 ecc.), non può che fuggire la tentazione del denaro, come un grande pericolo. Egli ha ben altra meta, incomparabilmente migliore. Egli gareggia in questa nobile corsa (Paolo usa questa immagine, che faceva battere il cuore di ogni greco, nella quale è espressa la tensione di tutte le forze fisiche) per la giustizia (1 ),
I Tim. 6,n-I6
8r
(con gli uomini) e la pietà (2 ) (nei confronti di Dio), c1oe per le tre grandi virtù cristiane, fede, amore e pazienza (la stessa forma della triade anche in Tit. 2,2), alle quali se ne unisce una quarta: la mansuetudine, cioè la capacità di sopportare i peccati e i difetti dei fratelli, con un amore che mai si stanca di perdonare. A coloro che hanno gareggiato con la forza che viene loro dalla fede, la palma della vittoria è la vita eterna; e non si tratta di un traguardo irraggiungibile, perché la chiamata di Dio è promessa del suo raggiungimento. Timoteo nel battesimo ha pubblicamente corrisposto a questa chiamata (non abbiamo notizia di una professione di fede nell'ordinazione, come si è voluto dedurre dal v. 12); Paolo glielo rammenta, con una formula di fede articolata in due affermazioni. Timoteo ha confessato, con la cristianità di tutti i tempi, la sua fede in Dio, «che chiama alla vita ogni cosa», vale a dire nell'onnipotente creatore e redentore; infatti, per i primi cristiani, nella confessione della forza vitale di Dio non c'è solo la fede nella creazione, ma anche la fede nella totale salvezza, giacché la stessa forza della vita, Dio che ha creato gli esseri dal nulla, richiama in vita i morti nello spirito e trasfigura i corpi peccatori degli uomini dalla putrefazione allo splendore luminoso della risurrezione. Timoteo ha fatto professione di fede in questo Dio e nel modello dei credenti, nel Salvatore sulla croce, che sotto Ponzio Pilato con la donazione di se stesso ha reso la testimonianza che gli era stata affidata. Ora spetta a lui serbarsi fedele a quella professione di fede e adempiere ai comandamenti di Dio in una condotta di vita immacolata e irreprensibile, fino all'apparizione di Gesù Cristo nella sua gloria regale. Come in molte altre occasioni, anche qui la mente dell'Apostolo trova riposo nell'adorazione di Dio. Lo sguardo rivolto all'ora della pienezza dei tempi, egli prega in un linguaggio solenne, con le parole di una dossologia di fede, tratta dal tesoro di preghiere della sinagoga ellenistica; essa esalta (contro la divinizzazione dell'uomo nel culto del-
Il buon uso dei beni del mondo
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l'imperatore) l'onnipotenza del re di tutti i re, che è al di sopra di tutti i sovrani della terra 2 ) e (contro la 'conoscenza di Dio' degli gnostici) l'inavvicinabilità dell'Eterno, che dimora nella luce di irraggiungibile purezza (3), la cui vista nessun uomo può sopportare (4 ) - a meno che Dio stesso compia il miracolo di concederlo agli occhi di coloro che sono puri di cuore (Mt. 5,8). Non si può considerare questa possente dossologia come l'originaria conclusione della Lettera, per cui i vv. 17-19 sarebbero un'aggiunta successiva. Infatti le idee espresse in 6a-19 formano un tutto conchiuso: all'esortazione a guardarsi dall'avarizia (6,3-10), che culmina nell'appello rivolto personalmente a Timoteo (vv. rr-16, cfr. specialmente il v. l r ), fa seguito un'istruzione sul modo con cui Timoteo deve indirizzare i ricchi al retto uso della loro proprietà.
e-
3. Il buon uso dei beni del mondo ( 6,17-19) 17 Ai ricchi di questo mondo raccomanda di non essere superbi ( 1 ) e di non riporre la loro speranza in ricchezze insicure (2), ma in Dio che ci fa godere con abbondanza di tutto quello di cui abbiamo bisogno (3). 18 (Raccomanda loro inoltre) di fare del bene (1), di arricchirsi di opere di carità (2), di dare di buon cuore (3), e di distribuire (agli altri quello che hanno 4 ) 19 (insomma) di accumulare un buon tesoro per il futuro (5), per conquistare la vera vita.
17-19. Superbia(1) e errata fiducia nel potere che dà la ricchezza nella società umana (2) è la particolare tentazione di quelli che hanno. Troppo facilmente si dimentica che la proprietà non è che un bene di questo mondo e che la sua consistenza è insicura. I cristiani hanno qualcosa di meglio in cui confidare: l'eredità di Dio, che concede in abbondanza ai suoi figli tutto ciò di cui hanno bisogno. Non chi ha molto è ricco, ma chi dà molto; la ricchezza offre la felice possibilità di rendere altri felici, sia con opere di carità 2 ) sia con doni generosi (3-4 ; sulla differenza tra opere di carità e elemosina v. quanto è detto sopra dopo 5,16). La benedizione di
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Tim.
6,20-2I
questo amore pronto al sacrificio è imperitura. Paolo si richiama chiaramente a parole di Gesù (Mt. 6,20; Le. 12,21) quando parla del tesoro di capitali invisibili che l'amore accumula in cielo e che apre la porta alla vera vita (Le. 16,9). Già questo richiamo a parole di Gesù mostra come non si possa interpretare questo passo nel senso di un'idea non paolina di giustificazione per i propri meriti; infatti non c'è contraddizione tra l'affermazione che la bontà di Dio ricompensa le opere di carità e quella di 2 Tim. 1,9 che non otteniamo la salvezza «per le nostre opere»: davanti all'enormità della nostra colpa non vale alcuna pretesa a ricompensa, che volessimo avanzare a Dio (cfr. Le. l 7, IO). La conclusione deUa Lettera ( 6,20-21) 20 Caro Timoteo, custodisci il deposito che ti è stato affidato, evitando i discorsi inutili e le obiezioni di una pretesa 'scienza'. 21 Alcuni l'hanno professata e si sono allontanati dalla fede. La grazia (di Dio) sia con voi.
20-2 r. Nel finale l'Apostolo tira le somme di quanto ha scritto nella Lettera. Ancora una volta si vede quale grave pericolo minacciasse le comunità ad opera dei falsi dottori, che devono aver esercitato un notevole fascino sulla gente (v. 2 r ). La pura dottrina del vangelo è un deposito sacro ( v. comm. a 2 Tim. 1,12), che colui che è incaricato del servizio della parola deve difendere dalle falsificazioni degli eretici. Questi chiamavano 'conoscenza' (gnosis) la loro teologia, perché prometteva la conoscenza del mondo superiore; in realtà questa cosiddetta 'conoscenza' è empia, perché non viene dall'alto e si fonda su una valutazione eccessiva di sé e da parte dell'uomo, che è ribellione alla rivelazione di Dio. Le antitesi (obiezioni) della gnosi che vengono nominate non hanno nulla a che vedere con le Antitesi di Marciane, scritte intorno al 140; infatti la gnosi, contro cui si battono le Lettere pastorali, è giudaizzante, mentre la gnosi di Marciane è
La conclusione della Lettera
aspramente antigiudaica. Piuttosto questo passo prova che la parola 'antitesi', ripresa dalla retorica, già prima di Marciane veniva usata da oppositori della chiesa con il significato di 'obiezioni all'ortodossia'. La Lettera termina con la semplice formula cristiana di saluto, scritta di pugno dal mittente (corrispondeva alla nostra firma); il saluto non è rivolto soltanto a Timoteo, ma all'intera comunità («sia con voi»). Nella parola 'grazia' si compendia l'intero contenuto del vangelo («siete stati salvati per la grazia» Eph. 2,5 ); perciò essa esprime quanto di meglio i cristiani si possano augurare l'un l'altro.
LA SECONDA LETTERA A TIMOTEO
L'indirizzo ( 1,1-2)
Paolo, apostolo di Cristo Gesù (inviato) per volontà di Dio per (annunciare la) promessa della vita, (che ci è stata donata) in Cristo Gesù, 2 al carissimo figlio Timoteo: grazia, misericordia, pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore (sia con te). 1
r-2. Non a caso l'Apostolo nell'indirizzo della seconda Lettera a Timoteo, che formalmente corrisponde a quello della I Tim., (v. comm. a I Tim. r,r s.), dichiara che la predicazione della promessa della vita è il compito che gli è stato affidato da Dio. Infatti la 2 Tim. è il testamento dell'Apostolo martire (4,6-8 ). In vista della morte, egli ha preso sempre più chiaramente coscienza che la certezza della vita eterna, donata e garantita in Gesù Cristo, è il nucleo essenziale della predicazione del vangelo. I. Esortazione a professare impavidamente la fede ( 1,3-2,13) 1.
Rendimento di grazie ( 1,3-5)
Rendo grazie a Dio che servo come i miei antenati con pura coscienza, quando incessantemente mi ricordo di te nelle mie orazioni, notte e giorno. 4 Ho un grande desiderio di vederti, memore delle tue lacrime; quale gioia sarebbe, 5 se mi potessi nuovamente persuadere di persona della tua fede schietta, che già prima abitò in tua nonna Laide e in tua madre Eunice, e che, ne sono certo, abita anche in te.
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3-5. Il rendimento di grazie della
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Tim. mostra chiaramente
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Si deve rendere testimonianza senza paura
che Paolo non si limita a seguire le antiche usanze epistolari ponendo all'inizio ringraziamento e preghiera. Questi versetti sono veramente impregnati di amore. Paolo rivolge lo sguardo riconoscente a Dio, che è anche il Dio dei suoi padri, e che, come loro, serve con pura coscienza (cfr. Act. 24, 14-16); egli può affermarlo senza presunzione, considerando la sua situazione di prigioniero e malfattore (2,9) agli occhi del mondo. Quando egli prega (e lo fa anche in carcere 'incessantemente' - vale a dire, regolarmente - di notte e di giorno) ricordando a Dio le sue comunità e i suoi collaboratori, egli si ricorda anche di Timoteo, di pieno cuore nell'intercessione come nel ringraziamento. Egli desidera ardentemente rivedere il suo fedele discepolo ancora una volta prima di morire; e questa nostalgia pervade chiaramente l'intera Lettera: vieni da me, prima che sia troppo tardi (4,9· 2 l ). L'ultimo distacco era stato doloroso; un nuovo incontro, come servirebbe a rafforzare la fede! Anche Timoteo, come lo stesso Paolo ha potuto sperimentare nella vita di fede che benedizione sia una famiglia pia (il padre non è nominato perché secondo Act. 16,1 era pagano); e Paolo sa per esperienza come siano puri i motivi della sua fede, che certamente si sarà conservata tale. (Paolo pensa alla preghiera pronunciata in 4 ,9 e a cui fa accenno in l ,6 ss. ). Nell'immagine della 'dimora' della fede, cui Paolo ricorre, è implicito che la fede è dono di Dio e non merito dell'uomo. 2.
Si deve rendere testimonianza senza paura (1,6-14)
Per questo motivo ti esorto a ravvivare la grazia di Dio che ti è stata data per l'imposizione delle mie mani. 7 Infatti Dio non ci ha dato uno Spirito di paura, ma uno Spirito di forza, amore e dominio di sé. 8 Non arrossire dunque di confessare nostro Signore e di attenerti a me, suo prigioniero, ma soffri con me per il vangelo, sostenuto dalla forza di Dio, 9 (a) che ci ha salvati e chiamati con santa vocazione, - non per le nostre opere 6
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Tim. r,6-r4
ma per sua libera decisione e la sua grazia -, (b) che ci è stata donata in Gesù Cristo prima dei tempi, w ma ora è stata manifestata con l'apparizione del nostro Salva(e) che ha distrutto la morte [ tore Gesù Cristo,
ed ha portato alla luce una vita immortale per mezzo del vangelo, 11 al servizio del quale Dio mi ha posto come araldo (1 ), apostolo (2) e maestro (3). 12 Qui sta anche la causa di (tutte) queste mie sofferenze, ma non me ne vergogno. Perché so in chi ho posto la mia fiducia e sono certo che egli può custodire il deposito a me affidato fino a quel giorno. 13 Tieni come norma di sana predicazione quello che hai udito da me nella fede e nell'amore a Cristo Gesù. 14 Custodisci il prezioso deposito (a te) affidato con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.
6-14. Come in I Thess. 5,19 lo Spirito di Dio è paragonato a una fiamma, così anche qui il carisma, la grazia del ministero, è stata conferita a Timoteo nella sua ordinazione (v. l'esposizione dopo I Tim. 4,16) con l'imposizione delle mani da parte dell'Apostolo. La grazia conferita insieme al ministero è un fuoco che cova sotto le ceneri, se non viene riacceso continuamente con la preghiera, la fede e i fatti. Timoteo tende ad essere ansioso, si scoraggia facilmente (cfr. I Cor. 16,10 s.), e ciò non dev'essere. Lo Spirito di Dio, che gli è stato conferito per l'esercizio del suo ministero, non ha niente da spartire con lo scoraggiamento; i suoi doni sono la fede piena di forza, l'amore per i fratelli e il dominio su se stessi, che non arretra di fronte a nessuna audacia della fede. Applicato alla situazione concreta ciò significa: non aver timore di confessare la tua fede nel nostro Signore e fatti partecipe delle mie sofferenze, come hai fatto negli anni della mia prima prigionia (Phil. l,1; 2,19; Col. l,1; Philm. l). Soltanto Luca è con me (2 Tim. 4,1 l ), vieni a Roma da me. Già ci voleva del coraggio a confessare il Crocifisso in un mondo ostile, incline allo scherno; ma ora una simile richiesta, fatta in un periodo di poco precedente la persecuzione neroniana, presupponeva la disponibilità ad andare incontro all'estremo sacrificio. Paolo lo sa, ma è prigioniero di Gesù
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Si deve rendere testimonianza senza paura
e non dell'imperatore romano; perciò dichiararsi per lui significa dichiararsi per Gesù, soffrire con lui è soffrire per il vangelo, e più forte di ogni sofferenza è la forza di Dio che aiuta a sopportare e a superare il dolore. Questa forza divina è stata svelata e donata nella storia della salvezza: questa affermazione è fatta in tre frasi relative (tratte dall'uso liturgico, v. nella traduzione a, b e c), ognuna delle quali è composta di due frasi parallele e le cui tre parole principali (messe in evidenza nella traduzione) sono poste alla :fine della riga corrispondente. Nella prima frase (a) troviamo un ampliamento, che ricorre quasi con le stesse parole in Tit. 3,5 anche ivi in una citazione. a) Dio ha rivelato la sua volontà di salvezza redimendoci e facendoci partecipi della redenzione nella chiamata dal mondo alla santificazione (letteralmente, «con una santa chiamata»). Un inciso richiama una delle idee fondamentali della predicazione paolina: non perché ne fossimo degni, ma per libera grazia regale; la salvezza è instabile se si fonda sull'efficienza dell'uomo, ma è incrollabile se si fonda sulla grazia di Dio. b) Questa chiamata di Dio e la Sua grazia le riceviamo unicamente in Gesù Cristo; in lui già ci è stata donata nell'eternità prima che il mondo fosse: è la dottrina della preesistenza di Cristo, unita alla dottrina della preesistenza dei beni della salvezza e del fatto che la salvezza è stata decisa prima dell'esistenza del mondo (Eph. I,4), che esprime la certezza della salvezza e l'esclusione da essa di ogni elemento umano. Questa grazia divina anteriore al mondo è stata proclamata a tutto il mondo in Gesù Cristo, nella sua prima apparizione (soltanto qui nel Nuovo Testamento la parola 'epifania' è applicata alla vita terrena di Gesù invece che alla sua parusia, v. comm. a Tit. 3,4). e) Ma l'opera del Salvatore Gesù Cristo è consistita nella distruzione della morte e nell'offerta della vita nel vangelo, che sono i doni tanto della prima quanto della seconda epifania di Gesù (Dibelius). Questo vangelo che 'illumina' la vita, per la grazia di Dio (il passivo «sono stato posto al
2 Tim. I,6-I4
servizio» vuole esprimere che si tratta di un'azione di Dio), Paolo lo può proclamare come araldo (1 ), trasmettere come inviato (2 ) e inculcare come maestro (3). Per questo messaggio oggi deve subire l'onta di essere trattato come un delinquente ( 2 ,9 ); ma sopporta con gioia perché sa per una lunga esperienza di vita cristiana che la sua fiducia in Cristo (è possibile anche che qui voglia dire la fiducia in Dio) non sarà delusa ed è certo che egli «può custodire il deposito che mi ha affidato» (difficilmente si potrebbe interpretare: «che io gli ho affidato»). Con questo 'deposito' (cfr. ITim. 6,20; 2 Tim. r,r4), che il suo Signore ha lasciato in buone mani e al quale Egli stesso farà la guardia fino alla sua parusia, si può intendere o l'anima (cfr. Sap. r5,8) oppure (cfr. I Tim. 6,20; 2 Tim. 2,2) il vangelo, con maggiore aderenza al v. r4. Timoteo, sull'esempio dell'Apostolo, deve esercitare una continua sorveglianza, annunciare il messaggio e custodirlo come un bene prezioso che gli è stato affidato. Queste parole lasciano vedere che Paolo lo ha scelto come suo successore.
«Gesù Cristo, nostro Salvatore» ( v. ro ). La parola greca soter (salvatore), si trova nel Nuovo Testamento otto volte come attributo di Dio e sedici volte come attributo di Cristo (nelle Lettere pastorali, rispettivamente sei e quattro volte). Il suo uso come attributo di Dio, che oggi suona strano alle nostre orecchie, non ha in sé nulla di strano; si collega all'uso dell'Antico Testamento greco (LXX), come appare nel modo più chiaro in Le. I,47, dove l'espressione è presa da Abac. 3,r8. Infatti negli scritti neotestamentari Dio è detto il Salvatore, sempre con riferimento alla fine dei tempi: come il Dio che ha dato inizio alla redenzione con la venuta di Gesù, e che la donerà ai suoi nel giudizio finale ( v. comm. a I T im. r , r ). Viceversa, costituiscono un problema difficile quei passi in cui Gesù è chiamato salvatore; infatti nell'Antico Testamento il Messia non è mai detto il Salvatore, Gesù
Si deve rendere testimonianza senza paura
non chiama mai se stesso il Salvatore, e come attributo di Gesù la parola non si trova mai negli strati più antichi della tradizione neotestamentaria di provenienza palestinese; invece la definizione di Gesù come il 'Salvatore' si affaccia, prima timidamente e poi in misura sempre crescente, nell'ambito ellenistico. E qui di fatto la parola era molto diffusa come attributo dei molti redentori e salvatori nel paganesimo di quei tempi: «Asclepio, dio e salvatore» è detto in numerose iscrizioni del tempio di quel dio; «Serapide è salvatore, Iside è portatrice di salute» insegnavano le religioni misteriche d'Egitto; «Kaisar soter» era l'espressione del culto imperiale, con il quale venivano resi onori divini agli imperatori romani. Ora, dato che nelle Lettere pastorali ripetute volte sono applicate a Gesù formule del culto dell'imperatore (ad es., 2 Tim. r,ro «l'epifania del nostro Salvatore» che ha «illuminato la vita», inoltre v. comm. a Tit. 3, 4) parve di poterne dedurre che la definizione di Gesù come Salvatore fosse stata presa dal culto imperiale: in netta contrapposizione alla venerazione dei Cesari come salvatori, la comunità professa nel suo re celeste il suo Salvatore. Tuttavia questa spiegazione è soltanto parziale; le radici della definizione di Gesù come Salvatore sono più antiche. Da Mt. r ,2 r sappiamo che le più antiche comunità di lingua aramaica e siriaca interpretavano il nome Gesù (letteralmente: «Jahvé è salvezza») come 'portatore di salvezza'; questa interpretazione del nome di Gesù sarebbe all'origine della attribuzione a Gesù del nome di Salvatore (soter) nei paesi di lingua greca (le attestazioni più antiche sono Act. 5 ,3 r e Phil. 3,20). Nelle terre di missione si conservò questo uso, perché il nuovo attributo di Gesù rendeva comprensibile ai greci ciò che significava per i giudei la parola Messia: il Crocifisso è colui che ha soddisfatto la profonda attesa della salvezza del mondo giudaico come di quello pagano, il Salvatore del mondo.
2
Tim. r,15-r8
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3. Dolorose esperienze dell'Apostolo,
ma anche un'esperienza di fedeltà ( l,15-18) Tu sai che mi hanno voltato le spalle tutti quelli dell'Asia, fra i quali Figelo e Ermogene. 16 Il Signore sia misericordioso con la famiglia di Onesiforo, che mi ha confortato spesso e non ebbe vergogna delle mie catene, 17 ma quando venne a Roma si premurò di cercarmi finché non mi trovò. 18 Che il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno. E quanti servizi mi rese a Efeso tu lo sai meglio di me. 15
15-18.Nella memoria dell'Apostolo è rimasta una dolorosa esperienza. Durante la sua prigionia, dalla quale era trascorso poco tempo (v. comm. a 4,13), tutti nella provincia dell'Asia (nell'Asia Minore occidentale, con capitale Efeso) lo avevano lasciato solo; non che avessero apostatato dalla fede_, ma avevano avuto paura, come i cristiani di Roma durante la sua prima difesa {4,16). Sembra che la delusione sia stata particolarmente amara nel caso di Figelo e di Ermogene (essi sono conosciuti da Timoteo, ma per noi sono sconosciuti); proprio da loro l'Apostolo si aspettava qualcosa di diverso. In queste parole è implicita la preghiera a Timoteo di non lasciarlo solo anche lui. Però non è mancata un'esperienza di commovente fedeltà. Onesiforo lo ha assistito con abnegazione a Efeso (v. l 8); a Roma - dove la comunità cristiana, non senza colpa (cfr. 4,16), aveva evidentemente perduto i collegamenti con Paolo - lo ha cercato da un ufficio all'altro e da un carcere all'altro finché non lo ha trovato (v. l 7 ), poi senza paura è andato a trovarlo e lo ha confortato con la sua assistenza e la sua fedeltà (v. 16). Nel frattempo egli doveva essere morto; infatti la forma dell'augurio per la famiglia di Onesiforo (v. 16 cfr. 4,19), che si discosta dalla consueta formula di saluto, e la benedizione per lui stesso (v. l 8 ), l'augurio di incontrarlo di nuovo beato nella eternità, provano che i vv. 16-18 sono come un'iscrizione sepolcrale per il fedele amico defunto. La ripetizione della parola Signore al v. l 8 si spiega con il fatto che qui si
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Sii mio compagno nel dolore
sono fuse due formule di augurio: «il Signore (Cristo) gli faccia trovare misericordia» e «possa egli trovare misericordia presso (Dio) il Signore». I vv. 16-18 sono un augurio di benedizione, che affida il defunto (v. l 8) e i familiari in lutto (v. l 6) all'eterna misericordia, fiduciosi nella promessa di Cristo nel nuovissimo giorno. 4. Sii mio compagno nel dolore ( 2,I-7) Tu dunque, figlio mio, rafforzati nella grazia, che (ti) è (data) in Cristo Gesù, 2 e ciò che hai udito da me davanti a molti testimoni affidalo a persone fidate, che siano capaci di insegnarlo ad altri. 3 Prendi con me la tua parte di dolori, da buon soldato di Cristo Gesù. 4 Nessun soldato che si è dato al servizio delle armi si interessa degli affari della vita civile, per non dispiacere a chi lo ha arruolato. 5 Anche chi gareggia nell'arena non ottiene la corona se non ha lottato secondo le regole. 6 L'agricoltore che fatica è il primo che ha diritto sui frutti. 7 Considera ciò che ti dico; il Signore ti farà comprendere ogni cosa. 1
1-7. Nuovamente ( cfr. l ,6-8) Paolo chiede coraggio nella fede e prontezza nell'accettare i dolori. Si deve fortificare, con virile decisione, 'nella grazia', cioè nello stato di grazia cristiana. Timoteo dovrà trasmettere a discepoli fidati «quello che ha udito», cioè la dottrina tradizionale apostolica che gli è stata affidata nella sua ordinazione alla presenza di testimoni (cfr. I Tim. 6,12). Egli deve dunque prepararsi alla partenza, in modo che il lavoro possa continuare anche nel caso della sua morte. Il suo posto, come combattente per Gesù Cristo, ora è a Roma presso l'Apostolo prigioniero, giacché la militia Christi non è fatta soltanto di difesa ed attacco, di lotte e di battaglie, ma anche di prontezza ad affrontare le sofferenze, e soltanto la dedizione piena e incondizionata di se stesso conduce alla meta eterna. Ciò è dimostrato con tre immagini, che incontriamo anche in I Cor. 9,7. 24 ss.: il soldato sul campo deve dedicarsi totalmente al suo servizio, per non dispiacere al condottiero; il lottatore se vuole ottenere il premio non deve rendere più facile la lotta
2 Tim. 2,8-IJ
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eludendo le regole stabilite. L'agricoltore deve lavorare sodo se vuole raccogliere i frutti. Paolo non applica a nessuno queste immagini; e volutamente, perché per delicatezza non vuole esprimere più chiaramente la sua preghiera. Timoteo lo sentirà da solo, ed il Signore gli indicherà ciò che in questo momento esige da lui: l'impegno con tutte le sue forze. 5. La comunione con Cristo nel dolore ( 2,8-13)
Ricordati di «Gesù Cristo risorto da(i) morti, (nato) dalla stirpe di Davide», così insegna il vangelo a me affidato, 9 per il quale soffro in catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è (per questo) incatenata. 10 Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, affinché anch'essi ottengano la salvezza per Cristo Gesù con la gloria eterna. 11 È vero il detto: «Se siamo morti con (lui) con (lui) vivremo; 12 se sopportiamo regneremo insieme (con lui); se (lo) rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; 13 (ma) se siamo infedeli egli rimane fedele, poiché non può rinnegare se stesso».
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8-13. Più energicamente di simili considerazioni generali parla l'esempio della passione di Gesù, che l'Apostolo ricorda a Timoteo. Egli cita un'antica formula di professione di fede, articolata in due membri, che ha contatti con Rom. I ,3-4 e un'origine giudeo-cristiana (ciò risulta, per il contenuto, dall'interesse alla discendenza davidica, e, per la forma, dall'assenza - semitizzante - dell'articolo prima di «seme di Davide»). In questo antico credo si afferma la fede nel Risorto come il Messia promesso (cfr. 2Sam. 7,12; Ps. 89,4-5). Nel nostro contesto, l'accento (come dimostra la strana precedenza data alla risurrezione, diversamente da Rom. I ,3 s.) è posto sulle parole «risorto dai morti». Il Salvatore vive.
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La comunione con Cristo nel dolore
Il suo cammino verso la gloria è passato attraverso la passione e la morte; e questa è la via che devono percorrere anche i suoi discepoli per ottenere la salvezza. Proprio adesso Paolo ne fa l'esperienza su se stesso, nel momento in cui per la predicazione del messaggio del Crocifisso deve sopportare la prigionia e, ciò che è peggio e più umiliante, la vergogna di essere trattato come un malfattore; ma - aggiunge giubilante - il vangelo non è incatenato! Con queste parole Paolo dovrebbe aver pensato non tanto alla sua testimonianza del vangelo durante gli interrogatori in carcere (Phil. 1,2 ss. cfr. 2 Tim. 4,17), quanto piuttosto all'attività dei suoi collaboratori nelle Gallie e in Dalmazia (4,10 ). Anche se già era corroborante la certezza che le sue sofferenze potessero essere un servizio reso al vangelo, la sua prontezza ad affrontare il dolore ha un motivo più profondo, e cioè che il suo soffrire va a vantaggio dei suoi fratelli. Paolo pensa, come sappiamo da Col. l,24, alle misure che Dio ha fissato per il tempo precedente il sopraggiungere della parusia; in conformità con le parole di Gesù sulle calamità che precederanno la fine dei tempi (Mc. 13,5-27 ), la cristianità antica parlava della misura del peccato che prima dovrà essere colmata (I Thess. 2,16 dr. Mt. 23,32), del numero fissato dei martiri che prima dovranno rendere la testimonianza del sangue (Apoc. 6,1 l ), della misura stabilita di pagani che prima dovranno trovare la salvezza (Rom. 11,25) e anche della misura dei dolori di Cristo, che dovranno essere sofferti prima della fine dal corpo di Cristo, la sua comunità (Col. l,24). Se Paolo sottrae alcunché a questa misura di dolori, soffre in sostituzione degli eletti; le sue sofferenze e il suo martirio fanno parte, in questo senso profondo, del compito che egli ha, come servo del vangelo, di aiutare i suoi fratelli a salvarsi (ovviamente, la stessa salvezza e lo splendore del corpo trasfigurato essi l' avranno 'in Cristo Gesù'; questo pensiero rivolto al Signore della comunità esclude qualsiasi idea di merito). Ancora più
2 Tim. 2,8-r3
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in profondità nella comprensione paolina del dolore conducono i quattro distici di un canto, che è citato con la formula introduttiva nota dar Tim. l,15; 3,1; 4,9; Tit. 3,8, e che è collegato a quanto precede con la parola 'sopportare' (vv. lo.12). I primi due distici riportano parole di Paolo (Rom. 6,8); i due ultimi un detto di Gesù (Mt. lo,33). L'inno è un'esaltazione del martirio. Dato che la forma stilistica di questo inno è assolutamente non greca e sicuramente è di un autore giudeo-cristiano, e che nel contenuto esso segue Rom. 6,8, non è da escludere che sia stato composto dallo stesso Paolo. La prima riga parla di «morire con Cristo» (cfr. Rom. 6,8) usando la preposizione greca syn, che esprime un'unione particolarmente stretta e che in Paolo è usata per indicare, a differenza della vita che devono condurre i cristiani nel tempo ( en Christo = in Cristo), l'unione sacramentale al Signore, che avviene nel battesimo e la comunione escatologica con lui nel mondo della luce (syn Christo = con Cristo). Il martirio per Cristo (questo è quanto di più profondo Paolo ha da dire sul dolore) è un «morire con (syn) Cristo»; come il battesimo, esso unisce il martire con il suo Signore: è l'inizio di quella comunione con Cristo nel mondo celeste che ha il suo compimento, al momento della parusia, nella trasfigurazione del corpo. Questo morire 'con Cristo', perciò, garantisce il vivere 'con (syn) Cristo' nel mondo trasfigurato. La sopportazione del dolore, dice la seconda frase, garantisce la partecipazione (syn) al governo regale di Gesù sul mondo trasfigurato (Rom. 8,17; I Cor. 6,2; 15,24 s.; Apoc. l,6; 3,21; 5,10; 20,4; 22,5). Ma che avviene se noi manchiamo? Se noi rinneghiamo Cristo ricadendo nel tempo del dolore (terza frase), nel giudizio finale anch'egli ci dovrà rinnegare, come ha detto egli stesso in Mt. ro,33. Ma se «saremo infedeli» (quarta frase) ... Qui mutano la costruzione della frase e il pensiero. Paolo non può dire che «anch'egli sarà infedele». Egli rimane fedele. Queste parole potrebbero voler dire che egli rimane fedele a se
Nessuna discussione inutile
stesso, dando esecuzione alla sua sentenza; ma non può essere questo il senso. 'Fedele', detto di Cristo, esprime la sua credibilità; se esso ha un secondo significato, è sempre quello della perseveranza nella sua bontà (2 Thess. 3,3; Hebr. 2,17; cfr. il significato profano di pistos: 'colui del quale ci si può assolutamente fidare'). Perciò sembra giusta la spiegazione di Lutero e di una parte degli esegeti moderni: egli ci rimane fedele; o meglio: egli rimane fedele alle sue promesse (cfr. Rom. 3,3 molto affine al v. 13: «se alcuni diventano infedeli, può la loro infedeltà abolire la grazia di Dio?»). Per quante volte possiamo mancare e essergli infedeli, egli potrà sempre perdonare. La logica si infrange contro l'amore del Salvatore. Non si tratta di un lasciapassare per il peccato e la caduta (lo prova la terza riga dell'inno) ma di un conforto per la coscienza spaventata. Mentre chi cade interrompe il legame con il suo Signore (riga 3 ), la fede che ha mancato (riga 4) può fare appello alla fedeltà del suo Signore (Fridrichsen). II. I settari ( 2,14-4,8) 1. Nessuna discussione inutile ( 2,14-21)
Rammenta tutto questo (ai membri della comunità) e scongiurali davanti a Dio che non si lascino indurre in vane discussioni, che non servono a nulla, se non a portare alla rovina coloro che le odono. 15 Sforzati di stare davanti a Dio come (cristiano) provato, come un operaio che non ha di che vergognarsi e che presenta la parola della verità rettamente. 16 Evita i discorsi profani e vuoti; i loro autori regrediscono sempre più nell'empietà, 17 e la loro parola si estenderà come un cancro. Fra di essi ci sono anche Imeneo e Fileto, 18 che si sono allontanati dalla verità, sostenendo che la risurrezione è già avvenuta, e hanno così sovvertito la fede di alcuni. 19 Ma il saldo fondamento posto da Dio resiste, munito di questo sigillo: «Il Signore conosce i suoi» e: «Eviti l'ingiustizia chi pronuncia il nome del Signore». 20 In una grande casa non ci sono soltanto vasi d'oro e d'argento, ma anche di legno e d'argilla, gli uni per usi nobili, gli altri per usi vili. 21 Pertanto se uno si purifica da tale (sporcizia), sarà un utensile 14
2 Tim. 2,r4-2r
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per usi nobili, santificato, utile al padrone, pronto ad ogni opera buona. v. 19: Num. 16,5; Is. 52,II (26,13)
Può stupire, considerando che Paolo pregherà fra poco in questa stessa Lettera (4,9.2 l) Timoteo di venire il più presto possibile a Roma, che con 2,14 inizi un ampio brano contenente istruzioni sul modo di comportarsi con i settari (dr. I Tim. 1,3 ss.; 4,1 ss.; 6,3 ss.; Tit. l,10 ss.; 3,9 ss.), che turbavano le comunità dell'Asia Minore. Tuttavia occorre riflettere che queste istruzioni valgono anche per i successori di Timoteo, che questi dovrà insediare prima della sua partenza (2,2), e che Paolo deve contare sulla possibilità di essere già morto quando arriverà il suo discepolo e amico. Già da questo appare chiaro che la 2 Tim. è il testamento dell'Apostolo (cfr. 4,6ss.). 14-18. Con la massima insistenza l'Apostolo ricorda ripetutamente a Timoteo (cfr. vv. 16.23) di mettere in guardia le comunità dall'entrare in discussioni con i settari. C'è poco costrutto a discutere di formule religiose; anzi, l'esperienza ha insegnato che con le discussioni non si riesce a convertire gli avversari e gli altri invece spesso ne escono con una grande confusione nella mente. Quello che importa non è la superiorità nel discutere con gli avversari, ma la fedeltà nella predicazione, mantenuta al cospetto di Dio. Non ci si deve lasciare irretire in quelle speculazioni gnostiche, che vogliono sostituire al vangelo idee umane, e che sono 'empie', come ogni discorso su Dio fatto senza inginocchiarsi davanti a lui. Sarebbe ancora peggio, perché gli gnostici cresceranno ancora di più nella loro empietà, e la loro dottrina si estenderà come un cancro; non ci si può rimediare con delle discussioni. Anche Imeneo e Fileto hanno preso questa strada; Paolo aveva già dovuto «consegnare a Satana» il primo
Nessuna discussione inutile
per le sue bestemmie (I Tim. l ,20) e ora sembra che egli sia diventato uno dei capi della setta. È molto importante per la conoscenza dell'eresia, contro cui si battono le Lettere pastorali, la descrizione che qui viene fatta di uno dei punti principali della dottrina di questi due uomini. Essi insegnano che «la risurrezione è già avvenuta», che cosa si debba intendere con queste parole lo si può vedere forse dal racconto di Ireneo sullo gnostico samaritano Menandro, un discepolo di Simon Mago (su quest'ultimo v. comm. a Act. 8,20): questo Menandro, contro la fede cristiana nella risurrezione, insegnava che il suo battesimo comunicava la risurrezione e che i suoi discepoli non morirebbero più, ma resterebbero immortali, senza invecchiare; oppure si può pensare alla dottrina, di cui parlano gli Atti apocrifi di Paolo (cap. 14), che la risurrezione avviene nei bambini oppure attraverso la conoscenza di Dio. Anche nel brano in discussione sembra che si tratti di una spiritualizzazione della dottrina sulla risurrezione, che potrebbe essersi richiamata alla dottrina sul battesimo insegnata da Paolo (cfr. Rom. 6 A; Col. 2,12; 3,1-4; Eph. 2,6; 5,14). Che questa dottrina avesse avuto una grande risonanza è comprensibile, perché suonava male all'orecchio dei pensatori greci la dottrina cristiana sulla risurrezione ( I or. l 5; Act. l 7 '3 2); per la filosofia popolare greca, fin da Platone, il corpo era la prigione del1' anima e la sede del male: perciò la risurrezione del corpo era un controsenso per il pensiero greco. L'ostacolo era rimosso con questa interpretazione della dottrina della risurrezione. Ma perché Paolo combatte questa dottrina con parole così dure, trattandola da pettegolezzo frivolo, empietà, incredulità? Perché erano in gioco decisive conoscenze di fede; se, secondo il pensiero greco, si disprezzava il corpo, si aprivano le porte all'autoredenzione, che vedeva la via della salvezza nel distacco ascetico dal corpo (v. comm. a ITim.4,3), oppure al cattivo uso del corpo (cfr. ICor.6, 12 ss.). Se poi al disprezzo del corpo si univa la fanatica il-
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Tim.
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lusione di vivere già ora nella pienezza della vita (cfr. I Cor. 4,8 ), ci si veniva a staccare totalmente dalla sequela del Crocifisso e si sostituiva la theologia crucis con una entusiastica theologia gloriae. Il v. 18 è importante ai fini della datazione delle Lettere pastorali. La gnosi ha cercato di evitare un secondo ostacolo intellettuale per la comprensione greca, lo scandalo della morte sulla croce del Redentore, e lo ha fatto chiarendo che sulla croce non sarebbe morto il Figlio di Dio, ma l'uomo Gesù (Cerinto; eretici della prima e della seconda Lettera di Giovanni) oppure un corpo apparente (docetismo). Il fatto che questa teoria gnostica non appaia ancora nelle Lettere pastorali è una prova della loro antichità, che è confermata anche dai tratti giudaizzanti dell'eresia che esse combattono (Tit. r,ro ss.; 3,9), che sono caratteristici della gnosi più antica. 19-2 I. Ma
la chiesa di Dio non è minacciata nella sua stabilità dalla caduta di qualche suo membro; infatti rimane incrollabile il suo fondamento: il Signore conosce i suoi, cioè coloro che si tengono lontani dall'ingiustizia nelle parole e nei fatti. La certezza che l'Onnisciente sa distinguere i suoi da coloro che si allontanano da lui, dà alla comunità la calma fermezza contro gli eretici. Che ci siano anche questi non è cosa che debba stupire: in ogni grande casa ci sono, oltre a vasi di metalli nobili per i giorni di festa, anche dei vasi di legno e di argilla per raccogliere la sporcizia e la spazzatura. L'ha permesso Dio, anzi è nell'ordine divino della creazione (Rom. 9,2 r ), che le comunità non devono discutere né criticare, ma accettare obbedienti. Ogni loro membro deve aver cura di tenersi pulito da qualsiasi sporcizia; fuori metafora: è giunto il momento della chiara separazione tra la chiesa e il fanatismo. Questa 'pulizia' è la via perché i membri della comunità diventino vasi utili, dei quali il padrone di casa si possa servire. Un'importante, autentica idea paolina: tutto quanto di bene noi facciamo è opera di Dio; egli sod-
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La giusta via per la conversione degli erranti
disfa in noi le esigenze della legge (Rom. 8,4); ha preparato le buone opere nelle quali dobbiamo camminare (Eph. 2,10 ). Gli uomini devono pensare soltanto a essere strumenti utili nelle mani di Dio, l'opera buona ha da farla egli stesso. «Se c'è qualcosa di buono in me, viene tutto da te, Signore». 2.
La giusta via per la conversione degli erranti ( 2,22-26)
22 Fuggi le passioni della gioventù; cerca piuttosto di seguire la giustizia (1), la fede(2), l'amore(3) e la pace( 4 ) con coloro che invocano il Signore con cuore puro. 23 Evita le dispute insensate e stupide, perché sai che fanno (soltanto) nascere litigi. 24 Ora, un servo del Signore non deve litigare, ma essere amabile con tutti( 1), pronto ad ammaestrarli (2), paziente (3). 25 Egli deve riprendere con mansuetudine gli avversari (4 ) (e vedere) se Dio attraverso la penitenza non li faccia giungere alla conoscenza della verità, 26 perché tornino a ragionare, una volta (liberati) dai lacci del diavolo che li ha irretiti nella sua volontà.
22-26. Con le 'passioni della gioventù' che Timoteo deve fuggire (sulla sua giovane età v. comm. a r T im. 4, I2 ) non si possono intendere soltanto quelle dei sensi; i versetti che seguono fanno supporre che in esse vadano comprese la passionalità, la vanità, l'arroganza spirituale e altre simili. Ad esse si contrappone la condotta di vita cristiana, che deve essere soprattutto pacifica; essa, infatti, unisce i discepoli di Gesù. Il rivolgersi a Gesù nella preghiera è, come I Cor. r,2 ecc., la caratteristica dell'essere cristiani; ciò, per essere autentico, deve essere fatto con la coscienza pura ( come in I Io. 3,19 ss. ecc. 'cuore' sta per 'coscienza', un uso che si spiega con il fatto che né l'ebraico né l'aramaico hanno un vocabolo proprio per dire la 'coscienza'). Ancora una volta è detto ( cfr. vv. r 4. r 6) che tale condotta di vita cristiana esclude il piacere delle discussioni; un servo del Signore (Gesù) sa che la confutazione accesa degli avversari non è la strada giusta per ottenere la loro conversione, ma che lo è l'amore, che è amabile con loro(1), che è pronto a rendere conto della propria certezza di fede (2), che una volta
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tanto può anche essere tollerante(3) e che riprende gli avversari con mansuetudine (4 ). Questo amore, che vince ogni cosa, renderà perplessi gli apostati; più ancora, esso soltanto apre le porte all'opera di Dio. Infatti la battaglia per la fede non si combatte soltanto fra gli uomini; ubriachi del loro sapere gli gnostici sono caduti nei lacci di Satana e senza volerlo diventano suoi strumenti (per la distruzione della chiesa) come un animale preso vivo nella rete del cacciatore. Soltanto qui appare chiaro il motivo per cui questo brano mette in guardia con tanta insistenza dalle dispute e dalle vane discussioni: l'appello alla ragione non è un'arma adatta per la battaglia contro il vecchio nemico maligno; lo è invece l'appello alla coscienza e alla fiducia che Dio può richiamare alla penitenza anche coloro che, apparentemente senza speranza, si sono smarriti e ostinati e hanno già messo la testa nel laccio di Satana. Infatti, soltanto Dio può mutare i cuori. Un fedele pastore d'anime sa che il meglio che possa fare è di preparare, con amore instancabile, la via a Dio per il suo santo operato. 3. La degenerazione degli ultimi giorni (3,1-9)
Ma sappi che negli ultimi giorni sopraggiungeranno tempi difficili. Gli uomini saranno egoisti (1 ), avidi di denaro (2), vanagloriosi (3), superbi (4 ), bestemmiatori (5), disobbedienti ai genitori (6 ), ingrati (7), sacrileghi (8 ), 3 senza cuore (9 ), implacabili ( 10 ), diffamatori ( 11 ), sfrenati (1 2 ), indisciplinati (13 ), nemici del bene (1 4 ), 4 traditori (1 5 ), protervi (16 ), pieni di sé (1 7 ), dati al piacere invece che a Dio (1 8 ). 5 Essi avranno l'apparenza della pietà, ma ne rinnegheranno la forza (1 9 ). Anche da costoro tienti lontano; 6 ad essi appartengono coloro che si insinuano nelle case e cercano di legare a sé delle donnette cariche di peccati (1 ), trasportate da desideri di ogni genere (2), 7 che stanno sempre ad imparare (3) e non giungono mai a conoscere la verità (4 ). 8 Come Iannes e Iambres fecero resistenza a Mosè, anch'essi resistono alla verità, uomini dalla mente corrotta che non hanno superato la prova della fede. 9 Ma non andranno molto avanti, perché la loro stoltezza sarà palese a tutti, come fu già degli altri due. 1
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La degenerazione degli ultimi giorni
r-9. Dal presente, l'Apostolo rivolge lo sguardo agli ultimi giorni. Egli ricorda la fondamentale convinzione dell'attesa neotestamentaria della fine dei tempi, di cui aveva parlato in I Tim. 4,r ss.: che, cioè, il Regno di Dio viene attraverso al dolore (Mc. r 3 ). Tra l'estrema, più grave tribolazione, che precede la parusia, c'è l'allentamento di ogni vincolo morale, descritto in un elenco di vizi che ne enumera r 9. La nostra traduzione ha cercato di rendere il meglio possibile il modo in cui è articolata l'enumerazione, con una successione divocaboli in certo qual modo affini. Questo elenco si differenzia dall'elenco dei vizi di Rom. r,29-32 - che descrive i vizi propri del paganesimo - per il fatto che (come mostrano i vv. 5 e 6 ), contiene anche peccati che si diffonderanno all'interno della cristianità. Da ciò esso trae la sua tremenda serietà. Egoismo(1) e avidità di denaro(2) si insinuano come le radici di tutti i mali, presunzione contro Dio (3·5 ) e l'indisciplinatezza nei rapporti con il prossimo (6-17 ), compreso il più vicino, ne sono la conseguenza. Si vuole vivere la vita che più piace, indifferenti a Dio (18 ). E ciò avverrà (intenzionalmente tale intima falsità è messa in rilievo alla fine dell'elenco, come la cosa peggiore di tutto) sotto l'apparenza esteriore della pietà (1 9 ). Già appaiono i primi segni di questi avvenimenti alla fine dei tempi; per la comunità di Gesù non è mai troppo presto per stare in guardia: le ultime parole del v. 5 potrebbero contenere l'invito a negare la comunione con il resto dei cristiani (cfr. 2 Io. r o) a coloro i quali si sono messi per questa strada. Fra tali uomini ci sono i settari gnostici; la loro apparente pietà si mostra nel modo più chiaro nella loro propaganda, rivolta di preferenza a donne aventi un pesante passato ('"2 ), la cui miseria interiore le spinge, sì, ad interessarsi di questioni religiose (3), ma che non hanno la volontà di chinarsi alla severità del messaggio cristiano (4 ). A questa propaganda condotta con motivazioni sleali e dubbie i settari uniscono una lotta accanita alla comunità, alla quale appartenevano ancora poco tempo prima, e alla sua
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predicazione. È una vera resistenza al messaggio di Dio, come quella che fu opposta a Mosè alla corte del Faraone dai due maghi Iannes e Iambres; ma (ed è questo che dà forza alla comunità) il destino di quegli oppositori della verità, i cui colpi fallirono, si ripeterà con i settari. Le loro sobillazioni, anche se potranno ottenere dei successi momentanei, sono già giudicate; la comunità lo sa, nella prospettiva della fine dei tempi ( v. l) come nella retrospettiva della storia della salvezza (vv. 8 s.). I nomi dei due maghi, Iannes e Iambres, non si trovano nell'Antico Testamento; fanno parte della leggenda tardo-giudaica di Mosè, elementi della quale si ritrovano nel Nuovo Testamento (istruzione di Mosè nella sapienza egiziana Act. 7,22; Mosè aveva 40 anni quando apparve in pubblico 7 ,2 3; la legge data per mezzo degli angeli Act. 7,53; Gal. 3,ro; Hebr. 2,2; la nube avvolge gli Israeliti I Cor. ro,2; la pietra dell'Oreb li segue I0,4; l'arcangelo Michele si disputa con Satana la salma di Mosè I udae 9 ). Ex. 7 ,1 l s. 22 racconta che savi e maghi egiziani ripeterono davanti al Faraone il miracolo di Aronne, che aveva mutato il suo bastone in un serpente; la leggenda colorì questo racconto ed alla coppia di fratelli, Mosè e Aronne, contrappose una coppia di fratelli, maghi egiziani: Iannes e Iambres (la più antica attestazione è CD 5, l 8 s.: «lachne e suo fratello». Probabilmente la leggenda originaria parlava di un mago soltanto: 'Giovanni l'apostata' [mamre]; negli ambienti di lingua ellenistica mamre fu trasformato in Iam[b]res e inteso come nome proprio). Che in 2 Tim. 3, 8 gli eretici siano paragonati a questi due maghi egiziani ha un profondo significato. Il Nuovo Testamento volentieri interpreta 'tipologicamente' l'Antico Testamento, vede cioè nelle figure e negli avvenimenti veterotestamentari delle prefigurazioni ('tipi') di ciò che avverrà alla fine dei tempi, che è cominciata con Cristo. Ad esempio tutto il Nuovo Testamento considera la generazione del deserto il 'tipo' della comunità messianica di salvezza (I Cor. ro,1-13; Hebr. 3,7-4,13; Apoc.
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La retta via nella sequela del!' Apostolo
r 5 ,3 ecc.). Come la generazione del deserto fu portata, sotto la guida del redentore Mosè mandato da Dio, dalla schiavitù nella Terra promessa, così la comunità cristiana è condotta dalle tenebre, la miseria e il peccato sotto la sovranità regale di Dio, da parte del Salvatore. E per questo motivo il destino della generazione del deserto è un'ammonizione (I Cor. ro,r-r3) e una consolazione (Apoc. r5,3; 2 Tim. 3, 9 ): modello del destino della comunità salvifica neotestamentaria. 4. La retta via nella sequela dell'Apostolo ( 3,rn-17) 10 Tu invece mi hai seguito nella dottrina (1 ), nella condotta (2), nei progetti (3), nella fede (4 ), nella longanimità (5), nell'amore (6 ), nella pazienza (7), 11 nelle persecuzioni (8 ) e nei dolori ( 9 ) che ho subito ad Antiochia, a !conio e a Listra. Quante persecuzioni non ho dovuto sopportare! Ma il Signore mi ha salvato da tutte. 12 E tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati. 13 Ma uomini cattivi e ingannatori andranno di male in peggio, seduttori e sedotti. 14 Tu però resta fedele a ciò che hai imparato e che è divenuto certezza per te; tu sai da chi l'hai appreso 15 e fin dall'infanzia hai imparato la Sacra Scrittura, che ti può dare la saggezza che porta alla salvezza attraverso alla fede fondata in Cristo Gesù. 16 Ogni Scrittura proviene dallo spirito di Dio ed è utile per insegnare (1 ), confutare (2), correggere (3), formare alla giustizia (4 ), 17 affinché l'uomo di Dio sia nella condizione adatta, cioè preparato per ogni opera buona.
ro-17. Timoteo è sulla strada giusta. Da quando fu convertito dalla predicazione missionaria dell'Apostolo, ne ha seguito l'esempio, non solo nella dottrina, ma anche nella condotta di un missionario di Gesù Cristo (nella enumerazione i membri 2-9 sono appaiati). Quale spirito di sacrificio avrebbe chiesto l'essere un seguace del grande Apostolo, Timoteo l'ha visto con i propri occhi subito dopo la sua conversione. Quando Paolo giunse a Listra, la patria di Timoteo, nel primo viaggio missionario, era stato appena cacciato da Antiochia (in Pisidia; Act. r 3 ,50 ), a Iconio era sfuggito appena in tempo alla lapidazione ( I4 ,5-6 ), e nella stessa Listra era
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Tim. 3,ro-r7
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stato lapidato, tratto fuori della città e là lasciato per morto ( 14, r 9); non a caso il primo viaggio missionario nelle Lettere di Paolo è ricordato quasi soltanto in relazione alle sue sofferenze (Gal.4,r3s.; 2Cor. rr,25; 2Tim.3,rr). Da allora sono trascorsi circa r 5 anni. Timoteo lavora nelle comunità dell'Asia Minore che un tempo Paolo aveva fondato fra tante gravi persecuzioni; perciò anche adesso ha sempre davanti agli occhi i sacrifici che esige la vocazione missionaria. Antiochia di Pisidia, !conio, Listra non sono che stazioni della via crucis che l'Apostolo ha percorso ( 2 Cor. r r, 23-33 ecc.). Ma ogni stazione (prorompe riconoscente l'Apostolo) è anche una testimonianza del possente aiuto del Signore. Ciò che Paolo ha imparato, vale per tutti i discepoli di Gesù (questo 'tutti' è sottolineato inesorabilmente): la sequela di Gesù percorre la via al Calvario. Certamente ci sono altri che sanno come fare per sottrarsi al dolore, e che dietro una maschera pia perseguono fini egoistici. Essi faranno ancora di peggio, ma la condanna è gia stata pronunciata: seduttori sedotti (una frase proverbiale a quei tempi). Timoteo deve comportarsi diversamente. La sua vita interiore e l'esercizio del suo ministero poggiano su due fermi sostegni: l'uno è la parola dell'Apostolo, il vangelo (Paolo lo ammonisce a non dimenticare chi erano i suoi maestri); l'altro è la Sacra Scrittura dell'Antico Testamento, che un tempo aveva imparato dalla sua pia madre Eunice e da sua nonna Laide ( r ,5) (l'usanza giudaica raccomandava di istruire i bambini alla lettura della Sacra Scrittura fin dal quinto anno di età [Pirqe Abot 5,21] ). Perché è tanto importante che Timoteo fin dalla giovinezza abbia avuto familiarità con l'Antico Testamento? Perché gli scritti dell'Antico Testamento (per le comunità cristiane più antiche non esisteva ancora nessuna raccolta di scritti neotestamentari) danno la conoscenza della via che conduce alla salvezza. L'Antico Testamento infatti non contiene soltanto la legge, che non vale più per il cristiano (I Tim. r,9), ma fa anche conoscere la
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La retta via nella sequela dell'Apostolo
retta condotta secondo la volontà di Dio. Naturalmente questo secondo aspetto si svela soltanto a chi legge la Scrittura nella fede in Gesù Cristo, come Paolo ha mostrato esemplarmente in Rom. 4 ecc., perché soltanto la fede preserva dalla comprensione dell'Antico Testamento in un senso legalistico. «Dunque l'Antico Testamento non ha senza il vangelo la dignità di parola donatrice di salvezza» ( Schlatter ). Anche per i cristiani l'Antico Testamento è documento ispirato della rivelazione: ogni passo della Scrittura è «sorto dallo spirare dello Spirito di Dio»; è veramente Dio che qui parla. Perciò la parola dell'Antica Alleanza, letta alla luce del vangelo, rimane per la comunità della Nuova Alleanza e per i suoi capi un insostituibile strumento divino di santificazione, cioè per insegnare la volontà di Dio (1 ), convincere i peccatori (2), rinfrancare e migliorare i pentiti (3), educare nella retta condotta, quale Dio la chiede (4 ). Così la parola di Dio fa sì che gli uomini di Dio siano «nella condizione adatta», cioè che siano pronti a diventare strumento di Dio nelle opere di carità (v. comm. a rTim. 5,10): non è pensabile opera buona per la quale non sia utilizzabile un uomo di Dio.
Il giudizio dell'Apostolo sul!' Antico Testamento in 3, r 517 è quanto di più chiaro ci sia su questa questione negli scritti neotestamentari. È patrimonio di tutto il Nuovo Testamento: r. la convinzione che la parola veterotestamentaria è operata dallo Spirito di Dio, è parola ispirata di Dio, e 2. la certezza che soltanto la comprensione cristocentrica e nella fede in Cristo dell'Antico Testamento ne schiude la profondità e lo rende strumento di santificazione. Per quel che riguarda l'ispirazione dell'Antico Testamento, il Nuovo Testamento mostra certe differenze nella sua concezione. Infatti nel Nuovo Testamento si riflettono le forme diverse che il dogma dell'ispirazione aveva assunto nel giudaismo palestinese e in quello ellenistico: mentre in Palestina si teneva conto della cooperazione degli strumenti umani di Dio,
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Tim. 4,I-8
nella diaspora (Filone) si propendeva per una rigida ispirazione verbale che vedeva in essi solo una penna inerte nelle mani dello Spirito. Gesù e Paolo sostengono la più elastica concezione palestinese dell'ispirazione: essi fanno il nome degli uomini, per mezzo dei quali Dio ha parlato (Davide: Mc. r2,36s.par.; Mosè: Rom. ro,19; Isaia: Rom. ro,20), anzi Gesù può a volte trovare nell'Antico Testamento, oltre alla parola di Dio, anche delle parole puramente umane (Mc. ro, 5 par.). Viceversa in H ebr. incontriamo la stretta ispirazione verbale del giudaismo ellenistico, estesa alla traduzione greca dell'Antico Testamento (LXX; cfr. comm. a Hebr. r,514). 5. Esercita fedelmente il tuo ministero: il mio tempo sta per finire ( 4,1-8) 1 Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che giudicherà i vivi e i morti, per la sua apparizione e il suo regno: 2 predica la parola (1 ), insisti quando è tempo e quando non è tempo (2), riprendi (3), biasima (4 ), esorta('), con molta pazienza ed ogni genere di insegnamenti. 3 Perché verrà il giorno in cui (gli uomini) non sopporteranno più la sana dottrina, ma, secondo quanto piacerà loro e nel desiderio di aver solleticate le orecchie, si cercheranno dei maestri 4 distogliendo l'orecchio dalla verità ma rivolgendolo ad ascoltare dei miti. 5 Ma tu sii vigilante in ogni cosa (1 ), sopporta i disagi (2), compi il tuo lavoro di predicatore del vangelo (3), adempi pienamente il tuo ministero (4 ). 6 Quanto a me, il mio sangue sta già per essere versato in libagione ed è giunto il momento della mia dipartita. 7 Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto alla fine della corsa, sono rimasto fedele. 8 E ormai è pronta per me la corona della giustizia che in quel giorno mi consegnerà il Signore, il giusto giudice, non solo a me ma anche a tutti quelli che hanno atteso con amore la sua apparizione.
1-8. Le esortazioni a Timoteo si fanno sempre più urgenti.
In un appello solenne, la cui severità è accresciuta dal richiamo alla professione di fede (cfr. Act. I0,42; I Petr. 4,5; Simbolo apostolico) Paolo lo mette di fronte all'inelluttabile
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Esercita fedelmente il tuo ministero: il mio tempo sta per finire
esigenza di Dio e all'incorruttibile giudizio di colui che tornerà per giudicare i vivi e i morti, ma anche per costituire il suo regno della grazia. Sotto il segno di questa esortazione solenne c'è l'ammonimento ad essere fedele al ministero. Ora più che mai deve suonare alto l'appello del vangelo (1 ). A tempo opportuno o inopportuno, piacciano o no agli uomini il momento, l'ora e le altre circostanze, Timoteo deve insistere (2), riprendere (3), punire i peccati senza paura (4 ), portare la promessa consolante del messaggio evangelico (5). E tutto questo con la pazienza amorosa, che tutto sopporta e tutto spera e che trova sempre nuove vie per giungere al cuore degli uomini. Questa fedeltà è ora necessaria più che mai. Sta per cominciare il tempo in cui nella chiesa si troverà insopportabile l'austera predicazione sul peccato e il giudizio, sulla redenzione e la santificazione, perché essa non si confà al naturale gusto degli uomini e questi vorranno udire discorsi ingegnosi, interessanti, sensazionali, come le speculazioni gnostiche dei settari con le loro idee sulla creazione e il peccato originale, sul corso degli eoni e l'autoredenzione. Si troveranno in gran numero maestri per solleticare le orecchie con questi discorsi. Ora si deve essere vigilanti e riflettere che la caratteristica della giusta predicazione non è di piacere agli uomini ma di giungere alla loro coscienza, anche se così la predicazione dovesse diventare odiosa alle lore orecchie. Le inimicizie e i disagi sono inseparabili dal ministero se il predicatore ('evangelista' cfr. Act. 2 r , 8; Eph. 4, rr ), noncurante degli umori e dei gusti degli uomini, vuole soltanto annunciare puramente ed integralmente il vangelo, con la fedeltà che Dio esige dai suoi amministratori (I Cor. 4,2 ). Ma non solo la situazione della chiesa richiede oggi questa piena fedeltà; lo richiede anche la situazione in cui si trova l'Apostolo, che scrive il suo testamento con lo sguardo fisso alla morte (v. 6), ritornando con la mente alla sua corsa vittoriosa (v. 7) e fiducioso nel giudizio del suo Salvatore glorioso (v. 8 ). In due immagini, che travia-
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mo anche nella Lettera ai Filippesi (2,17; r,23), l'Apostolo parla al presente della sua fine, perché la sua condanna a morte è attesa da un giorno all'altro. «Il mio sangue sta per essere versato in libagione» è la prima immagine; la sua morte è immolazione, perché come martire muore in onore a Dio e perché la sua passione va a vantaggio dei fratelli (v. comm. a 2,10). La seconda immagine è quella della partenza. La sua morte è ritorno al Signore (Phil. r, 2 3 ), nella casa del Padre. In tutte e due le immagini c'è la gioia di essere pronto a morire; Paolo muore volentieri perché sa di «morire al Signore» (Rom. 14,8 ). Il consacrato alla morte guarda indietro alla corsa che ha fatto: la gara è finita, il traguardo è stato raggiunto. Come in un sospiro egli aggiunge: io ho tenuto fede (si deve tradurre così; 'tener fede' è una locuzione fissa). Lo sguardo riposa sulla visione del traguardo. Lì è pronta la corona della vittoria, che premia la resistenza (cfr. Apoc. 2, 10 ). Paolo china il capo davanti a Cristo, il giusto giudice, che nella parusia (non si intende parlare della morte) gli metterà sul capo la 'corona della giustizia': il fatto che il giusto dia la giustizia (Rom. 3,26), per Paolo rimane fino all'ultimo l'unico dono inconcepibile di salvezza (Gal. 5 ,5 ). Ma non solo per lui è pronta la corona. È come se Paolo avesse paura che si cadesse nell'equivoco che egli, per aver fatto qualcosa di speciale, riceverà un premio speciale. Perciò egli rivolge lo sguardo ai fratelli. La stessa prqmessa vale per tutti coloro che hanno dato tutto il loro amore a Gesù e attendono con gioia la sua parusia. III. La situazione personale delt' Apostolo ( 4,9-18) Vieni presto, più presto che puoi. 10 Perché Dema mi ha abbandonato per amore di questo mondo ed è partito per Tessalonica, Crescente per le Gallie, Tito per la Dalmazia. 11 Soltanto Luca è con me. Porta con te anche Marco, che mi è utile per il ministero. 12 Tichico l'ho mandato a Efeso. 13 Quando vieni portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo, e anche i libri, soprattutto le pergamene.
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La situazione personale dell'Apostolo
14 Il fabbro Alessandro mi ha fatto del male assai; «il Signore gli renderà secondo le sue opere». 15 Anche tu guardati da lui, perché si è aspramente opposto alle nostre parole. 16 Durante la mia prima difesa nessuno mi ha assistito, mi hanno abbandonato tutti; che non gliene sia tenuto conto. 17 Ma mi ha assistito il Signore e mi ha dato forza affinché la mia predicazione si compisse fino all'ultimo e potessero udirla tutti i pagani, e così fui liberato «dalla bocca del leone». 18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà nel suo regno celeste. A lui gloria nei secoli dei secoli. Amen.
v. 14: Ps. 62,13; v. 17: Ps. 22,22; Dan. 6,2r.28
9-18. Il brano finale è dominato dall'estrema preghiera, espressa due volte a Timoteo (vv. 9.2 l) di venire al più presto; altrimenti non troverà più in vita l'Apostolo. Paolo lo desidera ardentemente. È solo, più di quel che Timoteo possa pensare, e ha fatto amare esperienze con gli uomini (cfr. l,15; 4,16). L'ultimo tratto di strada è stato duro. Anche Dema, il suo compagno e collaboratore durante la prima prigionia romana (Philm. 24; Col. 4,14), è stato di quelli che hanno preferito il loro benessere all'apparizione del Signore (v. 8), e si è messo al sicuro a Tessalonica. Crescente, un collaboratore finora sconosciuto, è partito per la 'Galazia': è difficile pensare alla Galazia nell'Asia Minore, piuttosto, con la chiesa antica, si deve intendere le Gallie. Crescente avrebbe dovuto fare il viaggio per incarico dell'Apostolo (la leggenda lo fa vescovo nelle Gallie). Tito (dr. in traduzione l ) , che da Creta era tornato da Paolo (Tit. 3,12), è andato in Dalmazia, cioè nella provincia imperiale dell'Illirico (Iugoslavia), dove erano giunti già anni prima degli inviati forse dalle comunità della Macedonia (Rom. 15,19). Nonostante la prigionia dell'Apostolo la chiesa cresce: la parola di Dio non è legata (2 Tim. 2,9). Luca, il 'caro medico' (Col. 4,14), dei fidati, che Timoteo conosce, è l'unico che è con Paolo; dunque Paolo può ricevere visite in carcere. Ma Paolo non pensa a sé, ma al lavoro; il raccolto è grande e occorrono
III
operai. Perciò Timoteo deve condurre con sé Marco, che si trova in Asia Minore, dove si era recato durante la prima prigionia romana dell'Apostolo (Col. 4, IO). Paolo può avere bisogno proprio di lui a Roma (da questa osservazione si può forse dedurre l'esistenza di tensioni fra seguaci di Paolo e di Pietro, per calmare le quali era particolarmente adatto il :figlio spirituale, I Petr. 5,13, e interprete di Pietro? cfr. introduzione al Vangelo di Marco). Quanto a Tichico Paolo vuole rimandarlo in patria (cfr. Col. 4,7-9; Eph. 6,21 s.), e cioè a Efeso nella provincia dell'Asia (Act. 20,4) (nel testo il verbo 'mandare' è all'aoristo, ma dovrebbe trattarsi di un aoristo proprio dello stile epistolare, che fa riferimento al momento in cui la lettera arriva a destinazione; per cui si dovrebbe leggere: «mando», e non: «ho mandato»); probabilmente egli ha partecipato alla stesura della Lettera (v. p. 2 5 ). Paolo suppone che Timoteo viaggerà via TroadeMacedonia-Brindisi, perciò gli dice di portargli il suo mantello che, evidentemente non da molto tempo, ha lasciato a Troade: l'inverno è alle porte e il carcere è freddo. Anche dei libri Paolo ha lasciato a Troade; evidentemente intendeva tornarvi presto, prima di essere inaspettatamente fatto prigioniero (v. comm. a l, l 5 ). Si potrebbe forse trattare di lettere delle comunità, ed è possibile che potessero servirgli per la sua difesa. Soprattutto ci tiene alle pergamene, cioè rotoli contenenti forse uno o più libri della Bibbia, come il Salterio e Isaia, nella traduzione greca (era prescritto che i libri biblici fossero scritti su pergamena). Sono questi i tesori dell'Apostolo, che ben presto costituiranno la sua eredità terrena. Nominando Troade, Paolo si sovviene di un nemico particolarmente accanito, il fabbro Alessandro, dal quale mette in guardia Timoteo. Dovrebbe trattarsi dello stesso Alessandro, che aveva dovuto consegnare a Satana (r Tim. l,20); sotto questo aspetto soltanto diventano comprensibili le parole di minaccia all'indirizzo di Alessandro. Si noti bene che Paolo non usa l'ottativo deprecativo, ma
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La situazione personale del!' Apostolo
il futuro di una cosa che avverrà certamente; non è dunque una personale irritazione che esprimono le sue parole. La consegna a Satana di colui che una volta era stato un membro della comunità, (v. comm. a ITim. 1,20) era avvenuta già da molto tempo, dopo che erano falliti tutti i tentativi di indurre Alessandro a pentirsi. L'ultima parola è al Signore (secondo Rom. 2,6 qui si intende Dio) nel giudizio finale. Da Troade il pensiero dell'Apostolo torna a Roma, al recente passato: qui egli ha dovuto fare un'amara esperienza. Quando dovette comparire in giudizio la prima volta, rimase solo davanti ai giudici: nessun membro della comunità cristiana di Roma si era presentato per intervenire a suo favore, quantunque qualcuno avrebbe potuto fargli da patrono (difensore). Su un simile comportamento hanno evidentemente influito, oltre alla paura, antichi contrasti messi in luce dalla Lettera ai Romani (cfr. però comm. ai: v. II). Ma Paolo ha perdonato, come discepolo di colui che perdonò prima di morire (Le. 23,34); egli lascia su questa terra ogni amarezza. Gli uomini sono venuti meno, ma il Signore no (la dossologia al v. 18 prova che anche qui si intende Dio); Egli ha mantenuto la promessa di Gesù (Mc. 13,II; Mt. 10, 19 s.) ed è stato l'avvocato dell'Apostolo. La sua difesa aveva fatto una profonda impressione: il processo fu rinviato, nonostante la gravità dell'accusa ('la bocca del leone'); ciò è avvenuto per la causa del vangelo, dice Paolo. Egli è tanto immerso nel suo ministero (kerygma ha qui il significato di ministero della predicazione) che considera la sua difesa, in una questione di vita o di morte, soltanto come occasione per annunciare il vangelo. La conclusione della sua predicazione è stata il messaggio ai suoi giudici e a tutti quelli che erano presenti al processo. Dio gli ha dato questa estrema occasione, affinché fosse interamente adempiuto il suo compito di predicare il vangelo «a tutti i pagani». Per lui stesso l'aver evitato la condanna a morte era stato soltanto un rinvio. Egli attende un secondo pro-
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II}
cesso e ne vede l'esito chiaramente; una salvezza ben maggiore lo attende. Dio lo libererà da ogni male, come chiede l'ultima frase del Padre nostro (che secondo il v. l 8, dunque, nell'ambiente paolino era intesa «liberaci dal male» e non 'da Satana'), e al di là di ogni miseria di questa terra lo porterà in salvo nel suo regno celeste. Il martirio gli aprirà le porte della attuale gloria regale di Dio nel cielo, che è l'anticamera del Regno del Salvatore che ritornerà sulla terra trasfigurata (Phil. 3,20; I Cor. 15,25; 2 Tim. 4,1 ). Come spesso in Paolo (Rom. 9,5; l l,33-36; Gal. 1,5; Phil. 4,20; E ph. 3 ,2 l; I T im. l, l 7) anche qui la sola menzione della potenza e della grazia di Dio diventa adorazione, dossologia: «a Lui gloria nei secoli dei secoli», alla quale il lettore è invitato ad unirsi con il suo 'amen'. Finale della Lettera (4,r9-22) Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesiforo. 20 Erasto è rimasto a Corinto, Trofimo l'ho dovuto lasciare a Mileto malato. 21 Vieni, se ti è possibile, ancora prima dell'inverno. Ti salutano Eubulo, Pudente, Lino, Claudia e tutti i fratelli. 22 Il Signore Gesù Cristo sia con il tuo spirito. La grazia sia con voi. 19
19-22. Seguono i saluti, per primi ai fedeli sposi Priscilla e Aquila (Act. 18,2 s. 18.26; I Cor. 16,19; Rom. 16,3 s.), ai quali una volta Paolo aveva salvato la vita, correndo egli stesso un pericolo mortale (Rom. 16,4); poi alla famiglia del fedele defunto Onesiforo (v. comm. a 2Tim. l,16-18). Il confronto con l,18 (Onesiforo a Efeso) e Act. 18,24-26 (Priscilla e Aquila talvolta a Efeso) fa supporre che Timoteo si trovi ancora (r Tim. 1,3) a Efeso; anche l,15 lo fa pensare, perché Efeso era la capitale della provincia dell'Asia (il nome di Efeso in 4,12 [invece che 'da te'] difficilmente si può addurre a prova del contrario, considerando tutti i nomi di località citati nei versetti vicini). Nel v .20 Paolo aggiunge alcune notizie a quelle dei vv. lo-18. Erasto, forse il cassiere di Corinto nominato in Rom. 16,23 (cfr. Act. 19,22), è
Finale della Lettera
rimasto a casa sua; Trofìmo, una delle persone nominate in 20,4 (cfr. Act. 21,29), è ammalato a Mileto. Paolo dunque era stato da poco a Troade (v. 13) e Mileto, forse anche a Corinto, senza essere accompagnato da Timoteo. La successione in cui al v. 20 sono nominati Corinto e Mileto, fa supporre che Paolo si trovasse in viaggio per Gerusalemme. Per la seconda volta Paolo prega Timoteo di venire. Vedi di prendere una nave ancor prima che sia chiusa la navigazione nel Mare Adriatico (mare clausum: dall' r 1 novembre al ro marzo= 17 settimane; secura navigatio: dal 27 maggio al 14 settembre). È necessario affrettarsi: la condanna a morte può essere pronunciata da un giorno all'altro. Questa preghiera a Timoteo forse permette una datazione della Lettera. È difficile che Paolo abbia chiamato Timoteo nell'inferno della persecuzione neroniana dell'autunno del 64; dunque la 2 Tim., ove sia autentica (v. al riguardo dopo il v. 22 e pp. 17 ss.) sarebbe stata redatta al più tardi nell'autunno del 63. Seguono i saluti di fratelli nella fede di Roma; Lino nell'elenco dei vescovi di Roma appare come il primo capo di quella comunità, dopo Pietro. Un augurio di benedizione ai suoi diletti collaboratori e alle comunità affidate ad essi sono le ultime parole di mano dell'Apostolo, che si avvia incontro alla morte.
Act.
6-2r. I vv. 6-21 con la loro semplice concretezza contraddicono alla supposizione che le Lettere pastorali non siano autentiche. Non è possibile, come si è cercato di fare, staccare dal contesto questi versetti, come fossero un frammento di una Lettera autentica: il vocabolario e lo stile indicano chiaramente che esse sono una parte costitutiva delle Lettere pastorali. La singolarità della situazione, che si riflette particolarmente nel v. r 3, e la singolarità della relazione tra lo scrivente e il destinatario, resteranno sempre, come abbiamo già detto a p. r 8, l'argomento principale a favore del1' autenticità delle Lettere pastorali.
LA LETTERA A TITO
La Lettera a Tito è probabilmente la più antica delle tre Lettere pastorali (v. p. 12). Anche in essa sono predominanti i due grandi argomenti che hanno dettato la I Tim.: l'ordinamento della vita ecclesiale e la lotta contro gli eretici. Il primo è sviluppato in I ,5-9 (le qualità che si devono esigere nei ministri) e 2,1-3,7 (regole della condotta di vita cristiana); il secondo nelle affermazioni antieretiche che concludono le due sezioni (r,ro-r6; 3,8-11). L'indirizzo ( 1,1-4) Paolo, servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo, (inviato) per (il servizio della) fede degli eletti di Dio e per (divulgare) la conoscenza della verità della nostra fede 2 nella speranza della vita eterna, che Dio, il quale non mente mai, ha promesso (di donare) prima di tutti i tempi 3 per poi rivelare a tempo debito la sua parola nella predicazione, che mi è stata affidata per ordine di Dio, nostro Salvatore, 4 a Tito, suo diletto :figlio nella comune fede. Grazia e pace (sia con te) da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù, nostro Salvatore. 1
l-4. Il prescritto, steso in una forma molto concisa, spiega più precisamente nei vv. rb-3 che cosa significano le parole 'apostolo di Gesù Cristo'. Paolo, come apostolo, ha una doppia missione: la conservazione nella fede delle comunità e la diffusione della conoscenza della verità «della nostra fede» (letteralmente: «che è tale secondo la pietà», dove 'pietà', come in I Tim. 6,3 dr. 3,16, significa la fede della chiesa in contrapposizione alle dottrine degli gnostici giu-
II6
Insediamento dei capi delle comunità
daizzanti). Ma le due cose, la cura della vita comunitaria nella fede e l'attività missionaria si svolgono nella prospettiva del futuro di Dio: «nella speranza della vita eterna». Questa speranza è ben fondata; già prima di tutti i tempi (cioè prima che il mondo fosse) Dio ha formulato la promessa della vita eterna, quando affermò la decisione della redenzione. Però soltanto nel vangelo, dopo il tempo del silenzio, egli ha rivelato la promessa che era nascosta (dr. la stessa contrapposizione dell'eterno consiglio e della sua rivelazione in Gesù in 2 Tim. 1,9-10). Le voci dei profeti sono dunque comprese nel tempo durante il quale Dio ha tenuta nascosta la sua decisione; anche per Paolo soltanto Gesù Cristo è - secondo l'espressione usata dal vescovo martire Ignazio da parola, con la quale Dio ha rotto il silenzio» (Mg. 8,2). La predicazione (kerygma, v. comm. a 2 Tim. 4,17) Dio l'ha istituita per manifestare a tutti gli uomini la sua promessa della vita eterna svelata in Cristo: ai credenti, perché si tengano fermi nella fede, ai non credenti affinché giungano alla fede. Il v. 4 prova che Tito (come Timoteo, v. comm. a I Tim. l,2) è stato convertito e probabilmente anche ordinato da Paolo (su 'Salvatore' nei vv. 3 e 4 dr. comm. a I Tim. l,1; 2Tim. l,ro; sulla benedizione al v.4 v. sopra p. 12). I. Il ministero comunitario e il settarismo ( l,5-16) l.
Insediamento dei capi delle comunità ( 1 ,5-9)
Ti ho lasciato a Creta per mettere in ordine ciò che restava ancora da fare e insediare in ogni città degli anziani, secondo le istruzioni che ti ho dato; 6 che ognuno di essi sia irreprensibile (1) sposato con una sola donna (2), che i suoi figli siano credenti, e non li si possa accusare di essere dissoluti o disobbedienti (3). 7 Perché un capo della comunità (episcopo) dev'essere irreprensibile, in quanto amministratore di Dio, e non sia superbo (4 ), iracondo (5), dedito al vino (6 ), violento (7), avido di illeciti guadagni (8 ), 8 ma ospitale (9), amante del bene ( 10 ), saggio ( 11 ), giusto (1 2 ), pio ( 13 ), padrone di se stesso (14 ), 9 tenace nell'attaccamento all'insegnamento sicuro, conforme alla dot5
Tit. I,5-9
117
trina (1 affinché sia in grado di esortare nella s<1na dottrina e di confondere coloro che la contraddicono. 5 ),
Sembra che Paolo si sia fermato a Creta soltanto per breve tempo; ciò nonostante il cristianesimo aveva già preso piede in più città. Perciò vi ha lasciato Tito con poteri straordinariamente ampi, in qualità di suo rappresentante, affidandogli il compito di grande responsabilità di dirigere la comunità. (La mancanza del rendimento di grazie all'inizio della Lettera e la ripetizione di un incarico già dato a voce fanno parte dello stile ufficiale, v. pp. 14 s., dunque la Lettera è diretta anche alle comunità ed è intesa a rafforzare l'autorità di Tito). Che la scelta dei capi delle singole comunità tra 'gli anziani' (v. comm. a I Tim. 5,17-25) non sia affidata alle stesse comunità, è dovuto al fatto che le comunità di missione erano state costituite da poco tempo. In questa scelta Tito deve assicurarsi di due cose: l'irreprensibilità personale ( 1, che cosa intenda con questa parola è detto al v. 7) ed una famiglia esemplare. Il candidato dev'essere «sposato con una sola donna» (2, v. comm. a I Tim. 3,2: proibizione di nuove nozze di divorziati) e i suoi figli si devono essere fatti cristiani, come i genitori, e non debbono essere causa di una cattiva reputazione del padre con una condotta dissoluta e disobbediente, rendendogli così impossibile l'esercizio del suo ministero(3). Il v. 7 chiama la carica, che devono rivestire gli uomini che saranno scelti, con il nome di episcopo, ossia capo della comunità (v. comm. a I Tim. 3,1 ); evidentemente a Creta non v'erano ancora diaconi. Il 'modello di parroco' (v. comm. a I Tim. 3,1} ha contatti molto stretti con I Tim. 3,1-7; al v. 7b sono descritti i sentimenti non cristiani che fanno disonore al ministero (le ultime parole «non avido di illeciti guadagni» 8 possono riferirsi tanto all'esercizio di una attività poco pulita quanto [ cfr. v. l l ] al pericolo di servirsi del ministero per arricchirsi); e ad essi si contrappongono in 8 s. le rette intenzioni cristiane. La dote più importante è citata alla fine del brano. La guida di una comunità va affidata soltanto ad un uo-
rr8
La lotta agli eretici
mo che abbia veramente a cuore una predicazione secondo la dottrina tradizionale della chiesa (1 5 ). Altrimenti, come potrebbe predicare rettamente e confondere i settari che gettano la comunità nella confusione, e contro i quali, invece, chi esercita il ministero deve ergersi come un baluardo? 2. La lotta agli eretici ( l,ro-16) 10 Infatti vi sono molti ribelli, ciarlieri, seduttori, specialmente fra i circoncisi. 11 Bisogna chiudere loro la bocca, perché sconvolgono intere famiglie insegnando ciò che non si deve per turpe interesse. 12 Uno di essi, proprio un loro profeta, ha detto: «i cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri». 13 Questa testimonianza è vera; perciò riprendili duramente, affinché conservino una fede sana 14 e non diano retta a miti giudaici e alle prescrizioni di uomini che voltano le spalle alla verità. 15 «Tutto è puro per i puri», ma per coloro che sono macchiati e increduli nulla è puro, perché la loro coscienza e la loro mente sono contaminate. 16 Infatti sostengono di conoscere Dio ma nei fatti lo negano: esseri abominevoli, disobbedienti e incapaci di qualsiasi opera buona.
10-16. Ora si passa a descrivere gli eretici, dei quali si era parlato al v. 9. Essi rappresentano un serio pericolo per le
giovani comunità cretesi, ancora malsicure, perciò è il caso di procedere contro di loro con ogni energia. Soprattutto si deve interdire loro la partecipazione alle assemblee comunitarie. La descrizione è molto simile ai passi che trattano degli eretici I Tim. 1,3-II; 4,1-II; 6,3-10; 2 Tim. 2,14-18 nelle espressioni usate per caratterizzarli, ma è importante per il riferimento che fa alla particolare situazione a Creta. L'eresia dell'Asia Minore è venuta dietro all'Apostolo fino a Creta; qui come altrove si tratta di persone che contraddicono la dottrina e l'ordinamento della chiesa, e la moralità delle quali è giudicata molto male. Come in I Tim. 6,5 viene loro rinfacciata specialmente l'avidità di guadagni: essi sanno approfittare dei loro seguaci; quanto alle dottrine 'sconvenienti' forse si deve pensare a magie di ogni genere (v. comm. a I Tim. 5 ,13 ). A Creta i giudeo-cristiani sono apparsi i peg-
Tit.
I,IO-I6
g10n e pm invadenti avversari; hanno preso del carattere cretese tutti i vizi, enumerati in un esametro diventato proverbiale, tratto da uno scritto di Epimenide di Creta (VI secolo a.C.) intitolato Teogonia (genealogia degli dèi): bugiardi, rissosi, amanti dei piaceri. Con questa gente non c'è altro da fare se non riprenderli severamente senza debolezze, affinché la vista della loro miseria morale li riporti sulla retta strada. La loro dottrina è caratterizzata sotto un duplice aspetto: da un lato, essi danno retta a 'miti' giudaici, espressione con la quale si dovrebbe pensare all'interpretazione del1'Antico Testamento nel senso di speculazioni gnostiche (v. comm. a I Tim. l,4); dall'altro, essi esigono l'osservanza di 'prescrizioni umane', e cioè di prescrizioni giudaizzanti di purificazione (caratteristica della gnosi più antica, v. comm. a 2 T im. 2, l 8 ). Dunque l'essenza della loro dottrina è l'autoredenzione per mezzo della conoscenza di mondi superiori e l'osservanza di prescrizioni rituali (v. comm. a I Tim. 4,1 ss. ). Il presente brano comincia dalle prescrizioni di purificazione, di fronte alle quali va fatta valere la semplice ma pregnante affermazione che «tutto è puro per i puri», che nel contenuto risale a Gesù (Mc. 7,15) ed era un possesso sicuro delle comunità (Rom. 14,20 cfr. 14). Per chi è stato purificato da Dio nell'acqua del battesimo (cfr. Tit. 3,5-7) tutto ciò che Dio ha creato è puro. Egli fa parte del nuovo ordine divino del mondo e può usare dei doni di Dio con la libertà del cristiano (v. comm. a I Tim. 4,3-5 ). Viceversa, se la mente e la coscienza sono macchiate, tutto è impuro (non solo questo o quel cibo) e tutto è profanato e sporcato. La purità è nella rinascita, non nelle cose della natura. Come il legalismo ascetico dei settari, neppure la loro presunta conoscenza più elevata ('conoscere Dio' o 'conoscere' sono tipiche espressioni gnostiche) resiste al giudizio del vangelo. Qui la pietra di paragone è la vita. Chi asserisce di conoscere Dio e nello stesso tempo lo rinnega di fatto è abominevole davanti a Dio (cfr. I Io. 2,4).
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Le varie categorie della comunità
II. Le regole della condotta di vita cristiana ( 2,1-3,1 l) i.
Le varie categorie della comunità ( 2,1-10)
1 Ma
tu insegna ciò che è conforme alla sana dottrina: 2 che i v e c chi (1) siano sobri, onesti, prudenti, sani nella fede, nell'amore, nella perseveranza; 3 similmente le donne anziane(2) abbiano un comportamento santo, non siano maldicenti né dedite al vino, maestre nel bene, 4 per insegnare alle giovani (3) ad essere prudenti, e ad amare il marito ed i figli, 5 ad essere riservate, caste, ad aver cura della casa, ad essere buone, sottomesse al marito, perché non sia bestemmiata la parola di Dio. 6 Esorta ugualmente i giovani (4 ) ad essere misurati 7 in tutto, dando nella tua persona l'esempio di opere di carità e portando nel tuo insegnamento integrità, gravità, 8 un insegnamento sano, irreprensibile, affinché colui che è della parte avversa, non trovando nulla di male da dire contro di noi, resti confuso. 9 Gli schiavi (5 ) siano sottomessi ai loro padroni, compiacenti in ogni cosa, non li contraddicano, 10 non li derubino ma mostrino buona fedeltà in tutto, per rendere onore in ogni cosa alla dottrina di Dio, nostro Salvatore.
Le istruzioni sulla pastorale specifica in 2,I-ro si rivolgono direttamente alle singole categorie, non in quanto membri di una famiglia (come ad esempio fa Col. 3,r8 ss.), ma come classi della comunità. Ogni membro della comunità ha il santo dovere di essere di esempio alla comunità stessa con una condotta cristiana, e di fare onore al vangelo davanti a quelli che sono di fuori (Mt. 5,I6). L'uomo illuminato e maturo deve incarnare l'atteggiamento essenziale del cristiano: fede, amore, pazienza. Le donne anziane, con la loro condotta ed il loro consiglio devono essere 'maestre nel bene' alle donne più giovani; spesso infatti un cuore giovanile non giunge senza lotte e difficoltà ad avere una visione chiara delle cose e a formarsi un giudizio prudente. Essere interamente sposa e madre è il compito della donna giovane; dato che il peccato della donna è odioso in modo particolare, essa deve guardarsi dal pericolo che la sua vita quotidiana possa indurre il marito (evidentemente, come in r Petr. 3,r s., si pensa ai I-Io.
Tit.
2,II-IJ
I2I
matrimoni misti) a disprezzare il vangelo. La ponderazione è la qualità del giovane cristiano che entra nella maggiore età, e il giovane ministro gli deve essere di esempio, il primo ad offrirsi quando ci sia da compiere un'opera di carità e a confondere gli avversari, dentro e fuori la comunità, con la purezza, la gravità e una predicazione inattaccabile. Anche gli schiavi, tanto disprezzati, partecipano interamente al compito della comunità di rendere onore a Dio con la loro condotta (I Tim. 6,1 s.); essi sono un gioiello del vangelo se, con l'obbedienza e la fedeltà, si dimostrano dei redenti da Dio, il Salvatore (v. comm. a 2 Tim. l,10 ). 2.
Perché è· tanto importante la santificazione della vita quotidiina ( 2,n-15)
11 Perché la grazia di Dio, nella sua forza che procura salvezza a tutti gli uomini, si è manifestata 12 per insegnarci a vivere in questo tempo sobri (1), giusti (2) e pii (3), rinnegando l'empietà e i desideri di questo mondo, come uomini 13 che attendono la beata speranza, cioè l'apparizione della gloria del grande Dio e del nostro Salvatore Gesù Cristo, 14 che si è dato (alla morte) per noi, per «redimerci da ogni iniquità» e «purificarci, per fare di noi un popolo eletto», zelante nelle opere di carità. 15 Cosl tu devi parlare, esortare e riprendere con ogni autorità. Che nessuno ti disprezzi.
v. 14: cfr. Ezech. 37,23 (Ps. 130,8; Ex. 19,5). II-15. Il fatto che la nuova vita, di cui ha parlato 2,1-10, debba essere visibile in tutti i membri della comunità, perfino negli schiavi, è tanto importante perché (si veda la traduzione data sopra) l'esperienza aveva insegnato che il mondo resta interdetto, più che dalle parole, dall'evidenza di questa nuova vita, e in certo qual modo intuisce che la grazia di Dio offre realmente la salvezza a tutti gli uomini. La vita quotidiana dei cristiani, . che diventa evidenza della grazia di Dio, l'edificazione della comunità da parte di Dio, che è predica di Dio al mondo! 3'4-7 parla dell'effetto salvifico
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La santificazione della vita quotidiana
della grazia, che cancella le colpe, perdona e giustifica, grazia che abbiamo ricevuto nel battesimo; questo brano (ricorrendo a concetti ben fermi nelle comunità) tratta dell'effetto salvifico edificante della grazia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo. L'opera cominciata dalla grazia giustificante nel battesimo, si continua nella grazia edificante nella vita quotidiana dei cristiani. Il battesimo significava la rinunzia (il participio aoristo dimostra che Paolo pensa ad una decisa rottura con i peccati del passato) alla vecchia esistenza peccatrice. Empietà e desideri 'di questo mondo' erano i connotati di quell'esistenza (la parola 'mondano' è intesa in senso giovanneo, cfr. I Io. 2,16: «tutto quanto c'è al mondo, concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita»). Tutta la colpa che questa vita aveva accumulato è stata coperta dalla grazia giustificante di Dio. Ora la grazia edificante continua l'opera di Dio e ci aiuta a condurre la nuova vita. Questa vita nuova è descritta in tre modi con parole mutuate dall'ideale di vita dell'etica greca: riguardo al proprio io, è una vita sobria; riguardo agli altri uomini, una vita giusta; riguardo a Dio, una vita pia. Quello che l'etica greca si attendeva invano dalle forze proprie dell'uomo diventa realtà quando è all'opera la grazia edificante di Dio. Qui si scopre, nonostante l'identità dei vocaboli, l'abisso che separa l'etica cristiana da quella non cristiana, sia essa giudaica o greca: qui la forza portante della moralità è l'esigenza della legge o della ragione o della coscienza, che pone agli uomini un impossibile 'devi'. Il cristianesimo, invece, conosce un nuovo motivo dell'etica, che dà la forza per adempierne i precetti: «la grazia edifica». La riconoscenza del graziato figlio di Dio per il Suo perdono: ecco la la nuova forza portante, attraverso alla quale si esplica la grazia edificante di Dio come forza di santificazione. Tale vita di santificazione è sostenuta dalla speranza nella parusia; il Salvatore apparirà alla destra del Padre nella gloria regale ed accoglierà i suoi nel suo regno (la traduzione: «che
Tit. 3,r-8a
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attendono l'apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo» è formalmente possibile; ma l'attribuzione a Gesù dell'appellativo tardo-giudaico 'grande Dio' - LXX, Enoc, Filone, Flavio Giuseppe - sarebbe assolutamente unica nel Nuovo Testamento). La frase conclusiva mette in evidenza la duplice (cfr. comm. al v. r 2) operazione della grazia di Dio come adempimento della promessa veterotestamentaria di Ezech. 37,23: Gesù ha consegnato se stesso alla morte (cfr. Mc. I0,45) per «redimerci da ogni iniquità», che dominava la nostra vecchia vita, e per «purificarci, per fare di noi il suo popolo eletto», capace e disponibile a compiere le opere di carità (su questa espressione cfr. l'excursus dopo I Tim. 5,16). Tito deve diffondere questo messaggio della grazia giustificante ed edificante di Dio, e le comunità, alle quali va letta la Lettera, devono sapere che l'autorità di questo messaggio non è sminuita per la giovane età di chi lo predica (Tit. 2,6-7 cfr. I Tim. 4,12). 3. L'atteggiamento verso l'autorità e il prossimo (3,1-8a)
Rammenta loro che siano sottomessi (1) all'autorità ed ai magistrati, obbedienti ai loro ordini (2), pronti ad ogni azione buona (al servizio del bene comune) (3); 2 che non parlino male di nessuno (4 ) e siano pronti alla pace (5), benevoli ( 6 ) e dolci con tutti gli uomini (7). 3 Non è molto tempo, infatti, che anche noi eravamo insensati (1 ), ribelli (2), smarriti (3), schiavi dei più vari desideri e piaceri (4 ), operanti con malizia e invidia (5), odiosi (6 ) e odiandoci l'un l'altro (7). 4 «Ma quando apparve la bontà e la benevolenza per gli uomini di Dio, nostro Salvatore, 5 egli ci ha salvato - non per le opere di giustizia che potessimo ma per la sua misericordia [aver compiute, con il lavacro che dona rigenerazione, cioè il rinnovamento per opera dello Spirito Santo, 6 che ha effuso in noi con abbondanza attraverso Gesù Cristo nostro Salvatore, 7 affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo eredi della vita eterna, nella quale speriamo». sa È sicura questa parola, e voglio che tu sia categorico al riguardo, af1
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L'atteggiamento verso l'autorità e il prossimo
finché coloro che hanno creduto in Dio procurino di adoperarsi in opere di carità.
l-8a. Le istruzioni sulla condotta di vita cristiana trattano per ultimo l'atteggiamento verso le autorità e il mondo circostante. Questa questione, particolarmente importante per le giovani comunità missionarie, era già stata oggetto dell'insegnamento all'epoca della conversione dei Cretesi. Non solo si deve obbedienza alle autorità imperiali e cittadine anche se pagane (cfr. Rom. 13,1ss.; 1-2 ), ma i cristiàni hanno anche il dovere di promuovere efficacemente il bene comune (3). Anche verso i pagani, per quanto essi possano offendere con denigrazioni, odio, scherni e torti personali, il cristiano deve mostrarsi come un discepolo di Gesù, non parlando male di nessuno ( 4 ), non essendo litigioso (5) e sopportando le ingiustizie (6-7 ). Questa indulgenza naturalmente è possibile soltanto con una profonda umiltà e con una chiara conoscenza di se stessi ( v. 3 ), e per la gratitudine dei figli di Dio che hanno avuto il dono della grazia (vv. 4-7). Non era trascorso molto tempo da quando la medesima lontananza da Dio dominava la loro mente e il loro cuore, gli stessi desideri ed egoismi peccaminosi. I cristiani di Creta da poco convertiti non erano molto migliori degli uomini dai quali oggi subiscono dei torti; e se sono mutati non è opera loro ma azione meravigliosa di Dio. - I versetti che seguono, come lascia supporre la formula introduttiva all'inizio del v. 8, sono probabilmente una citazione di un inno, nel quale in prima persona plurale si rendevano grazie a Dio per la grazia data nel battesimo. L'antitesi del v. 5a potrebbe essere un'aggiunta, inserita nell'inno per esprimere l'idea fondamentale della predicazione paolina con una citazione veterotestamentaria; infatti in 2 Tim. 1,9 troviamo, anche là in una citazione, un'aggiunta dal contenuto esattamente uguale. Questo miracolo di Dio, canta la comunità, è iniziato con la nascita e la morte in croce di Cristo; la sua venuta costituisce la svolta nella sto-
Tit. 3,I-8a
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ria dell'umanità, perché in Lui apparve, come una luce che splende nelle tenebre, «la bontà e l'amore per gli uomini di Dio, nostro Salvatore». Sono parole solenni, riprese dal modo di esprimersi dello stile aulico: non c'è altra virtù, che sia esaltata così spesso in un sovrano ellenistico come la :filantropia, e che suoni così bene all'orecchio dei greci, in tali echi dello stile aulico (':filantropia': solo qui nel Nuovo Testamento; 2 Tim. l,IO 'epifania'; forse anche Tit. 2,13: 'il grande Dio') si è voluto vedere un indizio addirittura decisivo della non autenticità delle nostre lettere; ma a spiegare l'uso di questo stile, che si allontana da quello generalmente usato, è sufficiente l'osservazione che questo passo, come 2 Tim. l,9 s., e anche Tit. 2,n-14, sono delle citazioni -. Questa 'benignità e benevolenza di Dio', signore celeste e re della comunità, manifestatasi in Gesù fatto uomo, non soltanto rappresenta la svolta nella storia dell'umanità, ma anche la svolta in ogni vita veramente cristiana. La bontà di Dio ci ha strappato alla rovina (nelle giovani comunità cretesi ognuno ne aveva fatto la personale esperienza) senza la nostra cooperazione, soltanto per la sua misericordia: questa idea fondamentale della teologia paolina è espressa con estrema chiarezza. La salvezza ci è stata data nel 'lavacro della rigenerazione' (palingenesia: il vocabolo specificatamente ellenistico, nella Stoa indica il 'rinnovamento' del cosmo dopo l'incendio del mondo, e poi entra nel linguaggio comune: il ritorno alla libertà dall'esilio può essere detto palingenesia; l'espressione fu poi ripresa dal giudaismo ellenistico, ad es. per indicare il 'ritorno alla vita' dopo la morte. La sua applicazione al battesimo, che avviene per la prima volta in Tit. 3,5 si spiega con il fatto che già il giudaismo insegnava che il proselita al momento della conversione era come 'un bimbo appena nato', 'una nuova creatura'. Il cristianesimo aveva ripreso questo paragone: il battesimo fa come 'una nuova creatura' [Gal. 6,15; 2Cor. 5,17], come un 'bambino appena nato' [r Petr. 2,2] è un 'essere rigenerato' [Iac. l,18;
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La disciplina ecclesiastica nei con/ronti degli eretici
I Petr. l,3.23; lo. l,12; 3,3-8; I Io. 3,9s.; 5,18]; a rendere questa idea si prestava ottimamente la parola palingenesia = 'rinnovamento in un'esistenza più alta', 'rinascita'). L'acqua del santo battesimo, in cui Dio ci promette il suo perdono e la sua giustificazione ( v. 7 ), significa un rinnovamento totale dell'uomo. «Il vecchio è passato; ecco che tutto è stato fatto nuovo» (2 Cor. 5,17). Quando la rinascita è descritta come un «rinnovamento per opera dello Spirito Santo», che Dio «ha effuso in noi con abbondanza per Gesù Cristo, nostro Salvatore», si esclude ancora una volta ogni azione umana; non c'è alcuna rigenerazione che avvenga ad opera dell'uomo. È Dio uno e trino, Padre, Figlio e Spirito Santo, a compiere nel battesimo il miracolo della rigenerazione. Ma la grazia battesimale è ancora più grande: essa dona la promessa del battesimo. Dato che nel battesimo otteniamo la giustificazione per la grazia di Dio (anche questa è un'affermazione tipicamente paolina), che ci ha procurato la morte espiatrice di Gesù, possiamo osare sperare nella sentenza assolutoria di Dio nel giudizio, e nella partecipazione alla vita eterna. La riconoscenza per questa grazia di Dio nel battesimo ci pone nella posizione giusta verso gli altri uomini, che esclude ogni senso di superiorità e ogni duro giudizio su coloro i quali sono ancora lontani dalla salvezza (v. 2 ), e ci dà la capacità di compiere le opere di carità. Il vero amore attivo sorge esclusivamente da una profonda riconoscenza.
4. La disciplina ecclesiastica nei confronti degli eretici ( 3,8b-1 I) Bb Questo è buono e utile per gli uomini. 9 Ma evita le dispute storiche e filosofiche come le polemiche sulla legge: sono cose inutili e infruttuose. 10 Quanto all'eretico, ammoniscilo una e due volte, e poi scaccialo (dalla comunità), u sapendo che un uomo simile è uscito di strada e pecca, e si condanna da solo.
9-1 I. Come la prima ( l, rn- l 6) anche la seconda parte della
Tit. J,I2-I5
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Lettera a Tito si chiude con un'osservazione sui settari. Per la determinazione del genere delle dottrine nomistico-gnostiche v. comm. a I Tim. I,4 ss.; Tit. r,ro ss. Per il bene della comunità, la cui vita nella fede è minacciata dagli eretici, Tito deve applicare ai settari la più stretta disciplina ecclesiastica. Prima, in uno spirito di pastoralità, deve ammonire un settario due volte e richiamarlo alla penitenza, la prima volta (secondo Mt. r8,r5-r6) a quattr'occhi, la seconda alla presenza di uno o due testimoni. Se questi ammonimenti sono vani, il settario dev'essere escluso dalla comunità; tale esclusione avveniva secondo Mt. r8,17 (dr. rTim. 5,20) in una assemblea della comunità. In tale caso non è Tito a pronunciare la sentenza, ma lo stesso interessato; perché se è stato ammonito, e ciò nonostante continua a peccare, pecca sapendo che cosa fa ed è giudicato nella propria coscienza escludendosi da solo dalla comunità. Conclusione della Lettera ( 3,12-15) Quando ti avrò mandato Artema o Tichico, affrettati a raggiungermi a Nicopoli: ho deciso di passare là l'inverno. 13 Prendi tutte le disposizioni necessarie per il viaggio di Zena, il giurista, e di Apollo, affinché non manchino di nulla. 14 Anche i nostri debbono imparare ad eccellere nelle opere di carità quando sia necessario, affinché (il loro cristianesimo) non resti senza frutti. 15 Ti salutano tutti quelli che sono con me. Saluta coloro che ci amano nella fede. La grazia sia con tutti voi. 12
12-15. Uno sconosciuto Artema oppure il ben noto Tichico (Act. 20,4; Eph. 6,21; Col. 4,7-9; 2 Tim. 4,12; v. inoltre l'introduzione, pp. 24 s.) dovranno fra non molto tempo sostituire Tito, ed assumere la direzione della chiesa cretese. A Nicopoli, quella situata in Epiro, lo attenderà Paolo; la scelta di questa località sul Mare Adriatico fa supporre che i piani futuri dell'Apostolo fossero rivolti all'oc,:idente. Ora veniamo a conoscenza di un altro motivo della Lettera: il viaggio a Creta di due maestri cristiani, del giurista Zena e di Apol-
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Conclusione della Lettera
lo, che conosciamo da Act. 18,24 ss.; I Cor. 1,12; 3'4 ss. 22; 4,6; 16,12; essi sono raccomandati all'aiuto ed alle cure della comunità. Il modo in cui questa raccomandazione viene presa ad occasione per esortare Tito ad educare le giovani comunità in un fattivo amore, in cui non devono stare indietro alle comunità giudaiche della diaspora, è caratteristico del cristianesimo pratico delle Lettere pastorali. La Lettera chiude con i saluti e l'invocazione della grazia (scritta di pugno dal mittente, cfr. pp. 24 s.).
LA LETTERA AGLI EBREI Hermann Strathmann
INTRODUZIONE
Una delle caratteristiche della Lettera agli Ebrei è che a sezioni di contenuto dogmatico, che hanno sempre un carattere dottrinale, si alternano di continuo ampie istruzioni ed esortazioni di carattere pratico-pastorale. Ma queste ultime, a parte il capitolo finale, hanno un unico scopo, quello cioè di richiamare con la massima energia al dovere di mantenersi fermi nella confessione di Gesù, di perseverare fedelmente nella fede cristiana che dà salvezza. Tutti gli sforzi dell'autore della Lettera, dal cap. r al cap. 12, sono concentrati su questo fine; e questo scopo ultimo traspare anche nel cap. r 3 fra le righe delle numerose e particolareggiate esortazioni, dove, minacciando e allettando, con esempi ammonitori e incoraggianti, egli cerca di influenzare il lettore in questo senso. Ma da questo quadro non restano affatto fuori le sezioni dottrinali; al contrario, gli servono da fondamento. Esse infatti non traggono origine da una mentalità teoricizzante, ma perseguono anch'esse lo scopo pratico di offrire un aiuto al lettore perché possa mantenersi deciso e sicuro nel suo comportamento religioso. Una convinzione dottrinale, ordinata e ferma, per l'autore è la base di una duratura decisione della volontà. Perciò queste sezioni dottrinali non turbano l'impressione di compiutezza, che distingue la Lettera agli Ebrei da quasi tutti gli altri scritti neotestamentari, anzi l'aumentano. L'alternanza delle sezioni è ben meditata; essa crea, per così dire, delle pause di respiro, in cui si possono raccogliere le forze per una nuova ascesa, finché nei capp. 9 e ro giungiamo alla esposizione della dot-
La Lettera agli Ebrei: Introduzione
trina del servizio sacerdotale di Gesù nel santuario celeste, prima d'essere ancora una volta invitati a tenerci saldi senza esitazioni alla confessione della speranza. Lo scopo dell'autore appare chiaramente dalla struttura della Lettera. Essa comincia con una dimostrazione della superiorità del Figlio sugli angeli ( cap. l ), cui segue immediatamente l'esortazione a non trascurare il messaggio della salvezza portato da lui ( 2, 1-8 ), senza lasciarsi ingannare dalla sua umiliazione terrena, che era anzi il presupposto per il compimento della sua missione sacerdotale ( 2 ,8-1 8 ). Dopo avere affermato di sfuggita la superiorità di Gesù su Mosè ( 3, 1-6) segue, riallacciandosi al destino della generazione di Israele nel deserto, una nuova, accentuata e minacciosa messa in guardia dall'incredulità, che sarebbe fatale (3,74,13 ). Ad essa poi è contrapposta la confessione di Gesù come il sommo sacerdote al modo di Melchisedec (4,14-5, ro ); ma prima di svilupparne il significato, viene inserito un brano di ammonimento, che pone davanti agli occhi con forza ancora maggiore la gravità della caduta insanabile, e di incoraggiamento nella visione della fedeltà di Dio alle sue promesse (5,n-6,20). Soltanto ora comincia la vera e propria parte dottrinale della Lettera, che parla della superiorità della posizione sacerdotale (cap. 7 ), del luogo del culto (cap. 8) e dell'opera di Gesù (9,1-10,18), come 'mediatore della Nuova Alleanza', in confronto al sacerdozio veterotestamentario. Possiamo considerare tutto quello che precede (capp. 1-6) una introduzione a questa parte centrale dottrinale della Lettera, che l'autore affronta soltanto dopo un triplice avvio. Ad essa segue ancora un'energica esortazione a perseverare ad essere saldi nella fede ed un ammonimento sulle rovinose conseguenze della caduta ( lo, l 9- l 2, 2 9); ma in mezzo a questa sezione troviamo il grande capitolo esemplificativo dei testimoni della fede nella storia d'Israele ( cap. l l ). Come un segno fiammeggiante di pericolo, alla fine di que-
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sta parte ci sono le minacciose parole dell'Antico Testamento: «Anche il nostro Dio è un fuoco che consuma». Il finale è costituito dal cap. 13, con esortazioni particolari e una conclusione personale. La Lettera si può dunque riassumere nel seguente schema formale: r. capp. l-6 introduzione; 2. 7, l10, 18 esposizione; 3. ro,19-12,29 deduzione; 4. cap. 13 finale. È chiaro allora che la Lettera è indirizzata ad un gruppo di lettori che sono in estremo pericolo di rigettare la fede in Gesù come rivelatore e apportatore di salvezza. I lettori sono stanchi, le loro gambe vacillano. La loro tentazione è da un lato la forma umiliante e dolorosa dell'apparizione terrena di Gesù (cap. 2 ); poi, le sofferenze che essi stessi debbono sopportare in quanto cristiani; ( lo,32 ss.; 12,3 ss.) e in ultimo la delusione per la mancata realizzazione della salvezza finale (ad es. lo,36 s.; 3,14; 6,12). Al contrario, sembra che la religione dell'Antico Testamento eserciti una forte attrattiva su questo gruppo di persone; speravano forse, professandosi per essa, di sottrarsi alla prova del martirio? Da più parti, invero, singoli passi (spec. 3,12; 6,r.2) sono interpretati nel senso che i lettori fossero piuttosto sul punto di rinunciare a qualsiasi fede in Dio o addirittura di cadere nel paganesimo; ma il modo in cui l'autore adduce le sue prove, lo esclude. Esso infatti presuppone la fede in Dio e nella parola di rivelazione dell'Antica Alleanza. Non avrebbe senso nei confronti di materialisti, o anche di pagani provare che la fede cristiana è giusta fondandosi sulla superiorità di Gesù sugli angeli della fede veterotestamentaria. Per i lettori è certa l'autorità di Mosè e del culto veterotestamentario; un atteggiamento del genere sarebbe comprensibile piuttosto in giudeo-cristiani. Il commento mostrerà come i passi, che sembrano richiedere un'altra interpretazione, in realtà non la richiedono affatto. Il tentativo di identificare più precisamente il gruppo cui
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è destinata la Lettera incontra delle difficoltà. Innanzi tutto non si può contare sul titolo tradizionale 'agli Ebrei': esso è un'aggiunta posteriore che esprime l'opinione - tratta dalla stessa Lettera - che essa fosse indirizzata a cristiani di origine giudaica. I lettori parlavano il greco, perché la Lettera è stata scritta originariamente in greco, come risulta dalle sue caratteristiche linguistiche e dal fatto che essa utilizza l'Antico Testamento nella traduzione greca dei LXX. La pericolosa condizione religiosa dei lettori e alcune, sia pure imprecise, allusioni al loro passato ( 6,ro; ro,32 s.; 13, 7 ), in particolare a precedenti persecuzioni da essi subite, obbligano a pensare ad un gruppo di persone localmente delimitato, che si potrebbe trovare a Roma; e concorrono a questa ipotesi anche i saluti degli italiani (I 3 ,24) ed il fatto che a Roma si trovano le prime tracce della Lettera (nella rClem. del 95/96 d.C.). Si dovrebbe allora pensare ad un gruppo di giudeo-cristiani all'interno della comunità romana, che sarebbe contrapposta ai destinatari della Lettera con la sottolineatura di 'tutti' in r 3 ,24. Si tratta comunque solo di una supposizione. Anche se la lettera è dunque destinata ad un determinato gruppo di persone che si trovano in una data situazione, con una precisa intenzione, tuttavia il fatto che le situazioni concrete non sono ben delineate dà la sensazione di un forte divario dalle Lettere di Paolo. Se si esclude la conclusione personale, tutta la composizione ha molto meno la forma di una lettera che non di un trattato teologico-pastorale o di una predica, come è detto anche in 13,22 che chiama lo scritto una 'esortazione': ci si serve della forma stilistica della predica sinagogale ellenistica. Tuttavia, a motivo della conclusione di tipo epistolare, senza la corrispondente introduzione, essa ha - per la forma - qualcosa di disunito ed enigmatico. Lontano dai destinatari, l'autore - abituato alla predicazione - potrebbe aver scritto sotto forma di una esortazione ciò che voleva dire ai lettori, ma poi alla fine, per dare
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una nota personale allo scritto, per così dire come se fosse presente, l'avrebbe concluso come fosse una lettera. In ogni caso, di fronte ad ipotesi di critica letteraria, questa supposizione merita la preferenza. Da ciò dipende anche il destino della Lettera nella chiesa. Infatti Hebr. è entrata nel N.T. solo in quanto presunta lettera di Paolo, e tale fu considerata, soprattutto perché l'ultima parte del cap. 13, con riecheggiamenti d'ogni genere, e specialmente con l'osservazione relativa a Timoteo ( 13,2 3 ), richiamava alla memoria l'Apostolo. Però anche il modo in cui, ad es. all'inizio del cap. I, viene descritta la divinità del figlio, il fatto che tutto il pensiero cristologico gravita attorno alla morte espiatrice di Gesù ed alla sua elevazione nella gloria celeste, il modo con cui si parla del suo patrocinio celeste presso Dio, la stessa affermazione che la legge non fa che ricordare i peccati ( 10,2 s.), questo e altro ancora richiama alla memoria affermazioni analoghe di Paolo. Di fatto deve esservi un qualche rapporto tra Paolo e la Lettera agli Ebrei; le idee di Hebr. difficilmente possono essersi formate indipendentemente da quelle paoline. Resta il fatto che la Lettera non può essere stata scritta da Paolo; nonostante i punti di contatto i concetti religiosi di Hebr., il suo stile e il suo modo di esprimersi sono assolutamente differenti. L'autore non si annovera fra i testimoni originari di Cristo e parla di sé in un modo che Paolo non avrebbe potuto fare (2,3); per indicare la persona di Cristo usa espressioni del tutto differenti da quelle usate da Paolo; il concetto centrale del pensiero cristologico di Hebr., il sommo sacerdozio di Cristo, è estraneo a Paolo; mancano certi concetti tipici delle Lettere paoline; la legge mosaica è vista dai due sotto un diverso punto di vista; infine affermazioni quali quella sulla caduta irrimediabile ( 6 ,4 ss. ), non hanno alcuna corrispondenza in Paolo.
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Ma se dunque la Lettera non è di Paolo, essa per il contenuto e la forma suppone come autore una persona di grande forza ed indipendenza spirituale, una persona piena di profondo pathos cristiano, cui la familiarità con la formazione teologica e formale del giudaismo ellenistico della diaspora 1 consentiva di esporre le sue convinzioni in un modo incisivo. Inoltre dev'essere stato una persona che amava occuparsi della legislazione cultuale veterotestamentaria. Ora, come apprendiamo da una notizia di Tertulliano, nel II secolo certi circoli dell'Asia Minore facevano il nome di Barnaba, che ben conosciamo dagli Atti degli Apostoli, come autore di questo scritto. Tutto quanto possiamo dedurre dalla Lettera sul suo autore si adatta ottimamente a questa tradizione. Soltanto che tra lo spirito informatore di Hebr. e quello della Lettera di Barnaba, che ci è pervenuta fra i Padri Apostolici, corre una tale distanza, che quest'ultima non può essere stata scritta dall'amico e collaboratore missionario di Paolo, il che è escluso anche per altri motivi. L'attribuzione a Barnaba, però, rimane una semplice supposizione; altre ipotesi non valgono la pena di essere ricordate (Lutero pensava ad Apollo di Act. 18 ). Il periodo di composizione della Lettera si colloca tra la persecuzione neroniana ( 10,32 s.) e la comparsa della Prima Lettera di Clemente (95/96), che l'ha utilizzata. Manca ogni allusione alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito (70); ora dopo il 70 sarebbe stato ovvio servirsi dell'avvenuta distruzione come prova dell'insufficienza del culto veterotestamentario. Ma dato che la lettera si attiene alla Scrittura sarebbe fuori luogo dedurre che essa debba essere stata scritta prima del 70 dal fatto che l'autore non si sia servito r. Essa appare dal tipo della sua esegesi, da numerosi particolari della stessa e dall'uso di concetti e formule di ogni genere, che ricordano altre formule analoghe di Filone d'Alessandria; cfr. ra; 8,I s. 5; IO,I.
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di questo argomento senza contare che in 8,4 s. sembra implicita la persistenza del culto giudaico. Piuttosto, dato che sembra che la persecuzione neroniana sia già lontana, si dovrebbe poter datare la lettera intorno all'8o. La particolare importanza della Lettera nel quadro del Nuovo Testamento risiede nella sua presentazione di Gesù come colui che supera l'istituzione cultuale dell'Antico Testamento. Paolo aveva insegnato che Gesù aveva superato l'ordinamento salvifico nomistico dell'Antico Testamento. Il fine religioso a cui tende Paolo, fariseo, ma anche cristiano, è quello della giustificazione. I pensieri del cristiano Paolo si sviluppano intorno all'idea centrale che questa meta non può essere raggiunta percorrendo la via legalistica del farisaismo («fa questo, allora vivrai») ma soltanto gratuitamente lungo la via della fede nella grazia di Dio, manifesta in Cristo crocifisso: la legge non è una via alla salvezza, ma serve soltanto alla preparazione negativa di questa via della grazia. Ma la religione giudaica al tempo di Gesù si muoveva in due direzioni: da un lato essa era una pietà legalistica, che voleva piacere a Dio con una stretta fedeltà alla legge, che determinava tutta la forma della vita; ma d'altro lato era una pietà cultuale, legata al Tempio, che si sforzava di assicurarsi il perdono e la comunione con Dio con l'aiuto del sacrificio istituito da Dio stesso ( nell'ordinamento veterotestamentario della legge). Perciò il punto di vista paolino necessita di un'integrazione, quella cioè che vede in Gesù colui che supera l'Antico Testamento anche come istituzione cultuale di salvezza; ed è proprio quello che fa la Lettera agli Ebrei. L'espressione significativa del fine religioso cui tende il suo autore, è insita nel concetto di compimento, di più esatto compimento nei riguardi della coscienza ( 9 ,9 ). Concretamente tale concetto corrisponde a quelli di purificazione della coscienza, santificazione, redenzione, riscatto, remissione dei peccati (9,9-15; rn,1-4). Tutto questo doveva pro-
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priamente compiere il culto sacrificale dell'Antico T estamento, specialmente il sacrificio del sommo sacerdote nel grande giorno della espiazione, ma non ne aveva la possibilità. Come avrebbe potuto cancellare i peccati lo stesso sangue di buoi e arieti ( I0,4)? L'Antico Testamento inteso come ordinamento sacrificale non raggiunge il suo scopo così come se lo si intende con il fariseo Paolo come via nomistica alla salvezza. Per raggiungere il fine era necessaria una vittima migliore, il sommo sacerdote neotestamentario che offriva se stesso come vittima; perciò l'interesse teologico centrale dell'autore è di provare la sua superiorità e il suo valore definitivo. Anche secondo la Lettera agli Ebrei l'ordine veterotestamentario fa vedere all'uomo soltanto la miseria del suo peccato, in quanto l'immolazione della vittima dev'essere sempre rinnovata ( ro,1-3 ); ma l'immagine di Cristo della Lettera agli Ebrei mostra il sommo sacerdote celeste che con l'offerta espiatoria del suo sangue ci ottiene una volta per sempre il perdono, aprendo così la porta del santuario, l'accesso a Dio. Perciò l'Antico Testamento come ordinamento cultuale è antiquato, superato, abrogato. Anche sotto questo aspetto Cristo è la fine della legge: una spiegazione inevitabile per la completa chiarificazione dei rapporti della fede cristiana con la religione israelitico-giudaica. Tra le Lettere del Nuovo Testamento nessuna come quella agli Ebrei suscita un'impressione così strana nell'uomo d'oggi. Le idee cultuali, delle quali è intessuta, non hanno più alcuna risonanza in noi. Anche nel modo di utilizzare l'Antico Testamento e in generale di addurre le prove a dimostrazione del suo assunto, l'autore è interamente figlio del suo tempo. Tuttavia le questioni e le miserie, contro cui si batte, non sono affatto del suo tempo soltanto, ma accompagnano la comunità cristiana nel suo cammino attraverso i secoli. E anche la solenne severità con cui questo maestro sconosciuto del I secolo, di altissima spiritualità, pone
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davanti agli occhi dei suoi lettori la grandezza del fatto di Cristo, che «ha trovato un'eterna redenzione» e «purifica le nostre coscienze dalle opere morte per il servizio del Dio vivente», così che «possiamo accedere con il cuore pieno di gioia al trono della grazia»; la solenne severità con cui pone davanti agli occhi dei suoi lettori l'estrema responsabilità della loro decisione di rinnovarsi, e scongiura: «Non gettate via la vostra fiducia»; il pathos profondo con cui incoraggia sé e la sua comunità rivolgendo lo sguardo al «capo della fede, che la porta a compimento», per sostenere con decisione virile la battaglia di cui si vedono i segni premonitori; tutto questo non ha perduto nulla della sua efficacia e non lo perderà, finché ci sarà una chiesa cristiana. Per non parlare delle incisive formulazioni di alcune idee, che sono entrate nel sangue della comunità cristiana. E coloro che si occupano più da vicino della Lettera agli Ebrei saranno sempre attratti in un modo particolare dal rigore austero del suo atteggiamento. Indichiamo alcune tra le opere esegetiche più importanti sulla Lettera agli Ebrei: tra le più antiche l'opera di F. Bleek, 3 voli. (r828r840), tra le più recenti: l'eccellente commentario di E. Riggenbach 2-3 ed. r922, che è uno dei migliori commentari della serie curata dallo Zahn; H. Windisch (nel manuale di Lietzmann), 2 ed., r93r; A. Seeberg, r9r2; Strack-Billerbeck, voi. 3, r926, 671 ss.; O. Holtzmann, Das NT, voi. 2, r926, 777 ss. Nella serie dei Commentari del Meyer recentemente è apparso quello di O. Michel, 9 ed., 1955. Per servirsi dell'opera di M. Kahler, Der Hebraerbrief in genauer Wiedergabe seines Gedankengangs, r88o (un po' troppo prolisso) e di Th. Haering, Der Brief an die Hebraer, r925, non è necessaria la conoscenza della lingua greca. Negli «Schriften des NT», 3 ed., r9r7, r57 ss., G. Hollmann aveva curato la Lettera agli Ebrei. Le lezioni di Lutero sulla Lettera agli Ebrei del r 5 r 7 / r 8 sono apparse in traduzione tedesca ad opera di E. Vogelsang. Uno studio di E. Kasemann, Das wandernde Gottesvolk, Gottingen, r938, cerca di dimostrare che le idee della Lettera agli Ebrei sarebbero determinate in modo decisivo dalla mitologia delle dottrine gnostiche sulla redenzione, cui l'autore avrebbe fatto ricorso per rendere chiaro il mes-
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saggio di Cristo al mondo ellenistico. William Manson, The Epistle to the Hebrews, London 195 l, vuole giungere ad una migliore compresione della Lettera «by bringing the Epistle into dose integration with historical and doctrinal developments occurring within the sphere of the world-mission of Christianity as inaugurated by Stephen and his successors» (integrando più strettamente la Lettera con gli sviluppi storici e dottrinali avvenuti nell'ambito della missione della cristianità nel mondo, cominciata da Stefano e dai suoi successori). H. Kosmala, Hebriier-Essener-Christen, Leida 1959· Secondo il cap. r le idee fondamentali dell'autore della Lettera agli Ebrei e dei suoi destinatari sono esseniche. Nell'ambito della teologia cattolica citiamo il Commentario di O. Kuss, nella serie dei Commentari di Regensburg, 1955; inoltre C. Spicq, L'épitre aux Hébreux, 1952/53. Secondo lo Spicq la Lettera agli Ebrei è opera del seguace di Filone, Apollo, convertitosi al cristianesimo, destinata ad un gruppo di sacerdoti giudei che, scacciati da Gerusalemme, si erano trasferiti ad Antiochia, ma che erano in pericolo di ricadere nel giudaismo. F. Schierse, Verheissung und Heilsvollendung, Miinchen 1955· La Lettera agli E. sarebbe la prima predicazione liturgica intesa a dare ad una pietà liturgica un contenuto di speranza escatologica e della più severa responsabilità. Indice di alcune questioni di particolare importanza
Cfr. sul concetto di alleanza comm. a 7,20; 9,15 - sul concetto di garante (mediatore) comm. a 8,6 - sul Figlio e gli angeli comm. al cap. l - sulla evoluzione morale di Gesù comm. a 5 ,7 s. - sulla caduta irreparabile comm. a 6,4-6; ro,26-31; 12,16 s. - sulla valutazione della legge comm. a 7,11 s. - sul concetto di fede comm. a lo,38 e II,1 sul nome di Gesù comm. a 2,9 - sul concetto di vittima comm. a 9,14; I0,4 - sulla Lettera agli Ebrei e Filone comm. a 1,3; 4,13; 9,1 s. - sull'uso della Scrittura comm. a l,5-14; 4,1-10; 7,r-10; lo,510; lo,37 s. - sul concetto di compimento comm. a 5,1-ro; 7,11 s. sul dolore come punizione divina comm. a 12,1-1 r.
PARTE PRIMA INTRODUZIONE (capp. r-6)
La superiorità del Figlio sugli angeli ( r,r-14) 1 Dio ha parlato un tempo molte volte e in molti modi ai padri attraverso i profeti, 2 ma alla fine di questi giorni ci ha parlato per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose, per mezzo del quale ha creato anche i mondi. 3 Questi, che è splendore della sua gloria e immagine della sua sostanza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, ha compiuto la purificazione dai peccati e si è assiso alla destra della maestà nel più alto (dei cieli), 4 di tanto divenuto superiore agli angeli, quanto il nome che ha ereditato è incomparabile al loro. 5 Infatti a quale degli angeli ha mai detto: «Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato»? E ancora: «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio»? 6 E di nuovo, quando introduce il primogenito nel mondo, dice: «E lo adorino tutti gli angeli di Dio». 7 E mentre agli angeli si rivolge così: «Egli fa gli angeli suoi come venti ed i suoi servitori una fiamma di fuoco»; 8 al Figlio invece dice: «Il tuo trono, o Dio, sussiste nei secoli dei secoli e lo scettro dell'equità è lo scettro del tuo regno. 9 Hai amato la giustizia e hai odiato l'iniquità; perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di esultanza a preferenza dei tuoi compagni». 10 E ancora: «Tu, o Signore, al principio hai fondato la terra, e i cieli sono opera delle tue mani. 11 Essi periranno, ma tu rimani. E tutti invecchieranno come un vestito 12 e come un mantello li avvolgerai», come un vestito, «e saranno cambiati. Ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni durano senza fine». 13 E a quale degli angeli ha mai detto: «Siedi alla mia destra finché non abbia posto i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi»? 14 Non sono forse tutti spiriti incaricati di un ministero, mandati per il servizio di coloro che debbono ereditare la salvezza?
Senza alcun saluto o una qualche introduzione di genere epistolare, e senza il minimo accenno ad un rapporto personale con i lettori, l'autore comincia subito con l'esporre con
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parole concise, pregne di contenuto, l'onnicomprensivo significato di Gesù come il Figlio di Dio; e lo fa in una successione artistica di frasi, ben studiate fino nei particolari formali, in cui si sente la presenza di uno slancio enfatico. Questa introduzione, sotto l'aspetto formale, caratterizza subito l'autore come un uomo istruito del suo tempo, cui è familiare un linguaggio artisticamente accurato. Nella traduzione la costruzione del periodo è forzatamente disarticolata, perché proprio quello che è un vantaggio nel testo originario, cioè la stretta connessione e l'intreccio delle singole frasi, nelle lingue moderne risulterebbe troppo pesante. 1-3. Per quel che riguarda il contenuto, in poche parole ci è dispiegato dinnanzi agli occhi un grande dramma della storia della rivelazione e della salvezza, al cui centro sta il Figlio. Si incomincia con la contrapposizione della definitiva rivelazione di Dio, fatta in lui, con la precedente rivelazione. Certamente essa c'è stata, ma appartiene all'oscura preistoria. Per secoli, dal tempo di Malachia, Dio non aveva più parlato (cfr. 2 Petr. r ,2 r ). La nuova rivelazione era riservata «alla fine di questi giorni»; infatti l'apparizione del Figlio inizia la fine dei tempi, in cui vivono l'autore e coloro che come lui credono, il tempo cioè del grande e definitivo cambiamento e del trapasso nel mondo del compimento (cfr. 9,26 e I Petr. r,20; ICor. ro,rr). E sono essi ora (quale privilegio!) a ricevere la rivelazione, mentre allora lo erano i padri, ossia i predecessori d'Israele (l'autore poteva parlare di loro come dei padri, senza giustificare la deduzione che per questo motivo i lettori fossero dei giudeo-cristiani. Infatti la comunità cristiana sapeva di essere il vero Israele e l'erede della storia israelitica della salvezza; perciò anche Paolo, per esempio, poteva parlare ai cristiani di origine pagana di Corinto dell'antico Israele come «dei nostri padri» [I Cor. ro,r] ); e quella rivelazione in ultima analisi era avvenuta in molti singoli avvenimenti e in forme diverse, visioni, sogni o espe-
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rienze particolari, e per mezzo di una pluralità di strumenti, i profeti, fra i quali si dovrebbero includere anche uomini come Mosè e Abramo ( Gen. 20,7 ). Questa era già una ricchezza, ma anche un segno di insufficienza. Ma tutto questo appartiene al passato, perché ora, nella parola di Gesù, Dio parla per mezzo di una persona che ha la posizione di Figlio e pertanto può portare una rivelazione totale (cfr. Io. l,18). Ma ci si può rendere conto dell'importanza di questi fatti soltanto se si ha chiaro nella mente chi è questo Figlio; perciò ora si accenna al suo rapporto con l'universo e con Dio, poi al suo atto redentore e infine alla sua elevazione nella gloria, per quindi dedurne il suo rapporto con gli angeli. Prima di tutto Dio lo ha costituito, proprio perché è il Figlio, erede dell'universo; la frase si riallaccia a Ps. 2,8, ma estende l'eredità, dalle genti e dai confini della terra di cui parla il Salmo, a tutto l'universo. Ma questo rapporto si realizzerà soltanto in futuro, quando non ci sarà alcuna sfera dell'essere che non gli sarà assoggettata (cfr. I Cor. l 5 ,24 s.; Phil. 2, IO); egli allora riceverà ciò che già gli appartiene. Giacché questo Figlio non è come gli altri figli, che sorgono nel tempo, ma per mezzo di lui Dio ha già creato i mondi, l'universo, nella sua incommensurabile pienezza temporale e spaziale (cfr. Io. l,3; ICor. 8,6). Il Figlio è dunque e mediatore e fine della creazione (dr. Col. l,16). Evidentemente la parola ':figlio' è un'espressione figurata, che vuole illustrare la relazione essenziale esistente tra Gesù e Dio e che al v. 3 è descritta in altri modi: splendore della sua gloria e immagine della sua sostanza (con questa seconda espressione si intende un'effigie ottenuta con un conio; quanto alla prima, la parola 'splendore' dovrebbe significare che il Figlio si comporta con Dio come il riflesso con la fonte di luce che lo produce). Queste due espressioni non vogliono descrivere soltanto l'armonia esistente tra le due persone, ma anche la sua ragione, che è nella loro misteriosa relazione essenziale; infatti il riflesso non esiste senza la fonte di luce e l'effigie
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senza l'immagine dell'essere divino. Non è altro che una conseguenza di questa indissolubile relazione vitale che ora sia attribuito al Figlio anche il sostegno del mondo; egli sostiene l'universo per mezzo della sua parola, possente come il 'sia fatto' del principio (cfr. ù,3). Affermazioni del tutto simili fa Sap. 7 ,24 ss. sulla divina Sapienza, e con immagini del tutto simili parla del Logos Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù: quando egli parla del Logos e del suo rapporto con Dio, oppure con il mondo visibile e con gli uomini, ricorre molto spesso a parole come immagine, impronta, profilo, sigillo, calco, stampo. Anche le sue affermazioni sulla posizione del Logos nei confronti del mondo hanno un suono assai simile a ciò che leggiamo qui nell'introduzione della Lettera agli Ebrei; ma questa analogia è soltanto apparente. Infatti, con questi concetti e queste immagini Filone vuole descrivere il rapporto del creato con l'eterno, del mondo dei fenomeni con quello delle idee, e particolarmente dello spirito umano con quello divino. Il mondo delle idee è per lui (in totale conformità con la filosofia platonica) il prototipo del mondo dei fenomeni, che procede da Dio per la mediazione del Logos. Ma anche se esistono dei fili che collegano l'autore della Lettera alla filosofia alessandrina, egli però non descrive dei rapporti concettuali inventati dalla filosofia per determinare le relazioni tra il mondo dell'esperienza e le sue cause, che sono al di là di ogni esperienza; egli non parla di un'idea, di un concetto filosofico, ma di una precisa figura storica. Le espressioni 'filoniane' per lui non hanno un valore cosmologico-speculativo, ma un significato teologico e salvifico. Per lui il Figlio non è il mondo delle idee uscito da Dio, che a sua volta è il prototipo del mondo dei fenomeni; egli piuttosto lo sostiene con la sua parola creatrice. Egli descrive, con formule che ha preso dalla filosofia alessandrina della religione, l'appartenenza a Dio e l'opera divina del Figlio (cioè di Gesù) come il misterioso centro del mondo, per mezzo del quale Dio ci ha parlato alla fine dei giorni e che,
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come è detto subito dopo, ha compiuto in un evento assolutamente storico l'opera della redenzione: ha compiuto la purificazione dai peccati. Come, non ci è ancora detto. Ma l'espressione, tolta dal linguaggio del culto, è già indicativa delle idee nelle quali si muove l'autore (cfr. 9,22 s.; ro,2). Egli non parla dell'incarnazione, e non dice null'altro intorno alla vita di Gesù; solo questo: che egli (naturalmente con la sua morte) ha compiuto la purificazione dai peccati. Quantunque prima nel v. 2 si fosse detto che Dio ha parlato attraverso al Figlio, qui però tutto il significato della sua vita si esaurisce nel fatto della sua morte; infatti essa è descritta come un fatto finalizzato. Questo modo di vedere corrisponde interamente a quello di Paolo. Non si parla della risurrezione, ma si passa subito all'elevazione nella gloria; in ciò non c'è niente che debba stupire: Paolo procede nello stesso modo in Phil. 2,8 s. La risurrezione è implicita, come un naturale presupposto, dato che si parla della elevazione nella gloria, echeggiando Ps. no,r. È questo il Salmo sul sacerdozio regale, al quale il cristianesimo primitivo attribuiva un alto valore, proprio per la sua applicazione all'elevazione di Gesù nella gloria (cfr. Mt. 22,44; Mc. 16,19; Act. 2,34s.; 7,56; ICor. 15,26; Col. 3,1; Eph. l, 20; I Petr. 3,22; Apoc. 3,2r. In Hebr. questo Salmo ha addirittura un ruolo decisivo. Il Figlio siede accanto al Padre; ciò esprime la sua partecipazione alla maestà ed alla regalità di Dio. Il v. 4, poi, ne trae la conseguenza per il rapporto di Gesù con gli angeli, svelando così il fine ultimo dei versetti introduttivi: proprio seguendo la via della sua morte e della sua elevazione nella gloria egli ha ottenuto una posizione tanto migliore, più elevata di quella degli angeli ( anche qui non si può non pensare a Phil. 2,9 s.), come appare anche dal nome di figlio di cui è insignito. 5-14. Della giustezza di questa conclusione il resto del capitolo dà un'estesa dimostrazione fondata sulla Scrittura. Le
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citazioni sono tratte dalla Bibbia greca (LXX), e non da quella ebraica. Questo è chiaro soprattutto nei vv. 6.7. La citazione del v. 6 proviene da un'aggiunta dei LXX a Deut. 32, 43. La citazione del v. 7 si trova già nel testo ebraico, dove però delle forze della natura, venti e fiamme si dice che Dio fa ricorso ad esse per le sue necessità; esse sono, per così dire, elevate al livello degli angeli. Il nostro testo, invece, dice che Dio fa operare gli angeli come forze della natura; si potrebbe quasi dire che essi vengono degradati a forze della natura. Questo rovesciamento di prospettiva viene dai LXX. Nei due versetti, dunque, è proprio la divergenza dal testo ebraico che interessa l'autore ai fini della sua dimostrazione. Casi analoghi ricorrono spesso nella nostra Lettera (cfr. specialmente ro,5-ro). Ciò prova non soltanto che l'autore è abituato a leggere la Bibbia esclusivamente in greco, ma anche che considera questo testo divinamente ispirato, anche con le sue varianti scorrette. Per lui l'Antico Testamento è una raccolta di enunciazioni di Dio; anche quando si parla di Dio in terza persona, come ad esempio nei vv. 6 e 9, è Dio che ha la parola. Pertanto la persona che le ha trascritte, per esempio il poeta dei Salmi, ha un'importanza molto relativa: una sola volta la Hebr. cita un autore, ma non come soggetto, soltanto come portavoce delle parole di Dio (4,7 ). Anche un'altra volta un autore umano appare come soggetto della citazione, ma proprio questo passo prova come la sua identità sia indifferente all'autore della Lettera. Infatti ivi è detto: «Qualcuno ha attestato in qualche punto» (1,6); non si potrebbe dire in modo più chiaro quanto poco importante ne sia l'autore. Perché non è lui che parla, ma Dio o lo Spirito (cfr. 3,7 ). Anche per questo motivo le citazioni sono introdotte impersonalmente con 'è detto' o 'dice' (mentre manca del tutto lo 'è scritto' molto frequente in Paolo). L'autore ha ripreso questa concezione della Scrittura dal giudaismo, particolarmente dal giudaismo ellenistico, nel quale era molto sviluppata l'idea dell'ispirazione,
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sulla falsariga di motivi già presenti in Platone. Questo giudizio sulla raccolta degli scritti veterotestamentari naturalmente non poteva non influenzare fortemente, nei singoli casi, il modo di utilizzarla, perché ci si sentiva autorizzati a servirsi di singole enunciazioni di Dio, indipendentemente dal loro contesto storico. Si sviluppava così la cosiddetta interpretazione allegorica della Scrittura, che trae le sue regole non dal contesto ma da altre affermate convinzioni, a conferma delle quali si ricorre liberamente alla Scrittura. Per strano che sia tale procedimento per una mente formata storicamente, essa però corrispondeva alle idee e ai metodi esegetici di allora. Perciò anche il nostro autore non si comporta diversamente. Abbiamo nel presente brano sette citazioni, di cui quella centrale si riferisce agli angeli e le rimanenti al Figlio; di queste ultime, le prime due riguardano la relazione tra il Padre e il Figlio, mentre la terza riconosce al Figlio il diritto all'adorazione degli angeli. Anche questa citazione va intesa come riferita al Figlio, perché soltanto la successiva (v. 7) è esplicitamente riferita agli angeli. Di quelle che seguono, le prime due riguardano l'incrollabile posizione sovrana assicurata da Dio al Figlio, mentre la terza è rivolta alla sua realizzazione finale, e corrisponde alla terza citazione: gli angeli di Dio gli testimoniano la loro venerazione, i nemici gli vengono sottomessi con la forza. Nel versetto finale del capitolo ritorna l'idea, contenuta nella quarta citazione, della posizione subordinata degli angeli. Anche questo capitolo, dunque, è bene articolato. La prima conferma del v. 4 è offerta da Ps. 2, 7. Nel1'inno canta il re d'Israele. Egli si sente sotto la sicura protezione di Jahvé contro i nemici, soggiogati ma sempre minacciosi; questa protezione gli permette di soffocare ogni resistenza con la minaccia della definitiva rovina. Nel passo citato qui il re si richiama ad un detto, con cui Dio lo ri-
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conosce come suo figlio. Il salmo fu riferito già dalla teologia giudaica precristiana al re salvifico della fine dei tempi (cfr. Ps. Sal. 17,21 ss., I secolo a.C.); il cristianesimo primitivo lo riferì a Gesù cfr. Le. 3,22 D; Aet. 4,25 ss.; 13,33; Apoe. 12,5 ). Secondo il contesto, l'accento (a motivo del nome di figlio) è posto sulle prime parole della citazione; la seconda parte è riportata perché faceva parte della consueta citazione, ma non ha importanza nel presente contesto. Perciò è del tutto errato domandarsi a quale momento si riferisce l'avverbio 'oggi'; prescindendo da una simile domanda, è difficile - nonostante Aet. 13,33 - che si possa pensare alla risurrezione o all'esaltazione nella gloria, perché, secondo l ,2 s., Gesù non ebbe la posizione di Figlio soltanto in seguito a tale esaltazione. Anche in 5 ,5 la stessa citazione si riferisce ad un momento anteriore all'assunzione del suo ministero sacerdotale. Perciò la cosa più ovvia è che con la citazione si voglia ricordare il battesimo di Gesù, tanto più che secondo una diffusa, e probabilmente originaria, lezione di Le. 3,22 la voce dal cielo, udita in quella occasione, aveva la forma di Ps. 2,7. La seconda citazione si riferisce originariamente alla posizione della dinastia davidica, ma fu interpretata messianicamente non soltanto dalla comunità cristiana delle origini, ma già dal giudaismo; ciò avvenne senza tener conto del contesto, nel quale si prevedono futuri peccati di questo 'figlio', cioè dei re davidici, mentre Hebr. sottolinea energicamente l'assenza di peccato nel sommo sacerdote veterotestamentario (cfr. 4, l 5 ). Tuttavia non si sentì il bisogno di giustificare questa attribuzione messianica, come non lo si era sentito nel caso di Ps. 2,7 e non lo si sentirà in nessun altro caso del genere. La certezza che i passi si adattano a Gesù è sufficiente. A nessuno degli angeli, dice la domanda retorica del v. 5, è stato concesso questo attributo. È vero che qualche volta nell'Antico Testamento gli angeli sono chiamati figli di Dio (cfr. Gen. 6,2.4; Deut. 32, 43 LXX; Ps. 29,1; 89,7; lob l,6; 2,1; 38,7), ma i LXX, sui
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Hebr.
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quali si basa Hebr., per lo più hanno cancellato questa espressione, oppure, dove l'hanno lasciata, forse non l'hanno attribuita agli angeli; inoltre è sempre estesa a tutti gli angeli, e mai si attribuisce a un solo angelo un rapporto esclusivo con Dio, quale quello espresso nelle parole citate. Un rapporto che per volontà divina ('egli dice') rispetto agli angeli si esplica nel diritto a un'adorazione smisurata pari a quella che solitamente spetta a Dio. Questo dice la terza citazione, nella quale naturalmente viene trasferito al Figlio ciò che nell'Antico Testamento è detto di Dio. La prima metà del v. 6 può essere intesa nel senso che il 'di nuovo' (in analogia col v. 5) indichi che si sta per fare una nuova citazione, oppure che si voglia parlare di una seconda entrata del primogenito nel mondo, naturalmente senza che in precedenza si sia parlato di una prima. Ciò, però, poteva essere senza importanza se ogni lettore avesse saputo di una seconda venuta del Figlio; ma in ogni caso in questo passo per «introduzione del primogenito nel mondo» si intende il ritorno di Cristo alla fine dei tempi e non la nascita di Gesù; per la forma grammaticale del verbo greco l' 'introduzione' deve essere riferita al futuro. In quel futuro, dunque, tutti gli angeli devono adorare il primogenito (questo attributo è riferito a Cristo non in contrapposizione agli angeli ma ai tanti 'figli', che egli deve portare alla salvezza, cfr. 2,10): un'attesa che è credenza comune del cristianesimo primitivo (cfr. Phil. 2,ro s.; Apoc. 5,13; Io. 5, 23; inoltre Mt. 16,27; 24,30; 25,31; 2 Thess. 1,7; Apoc. 19,14, dove gli angeli sono detti l'esercito celeste del Signore, che lo accompagna nel suo ritorno). Quanto è modesto rispetto a lui il posto occupato dagli angeli! Essi non stanno (per disposizione di Dio) al disopra della creazione, ma in essa, mutabili come le forze che vi dominano. I due passi biblici che seguono vi contrappongono l'immutabilità della posizione sovrana del Figlio. Il primo è tratto ancora da un Salmo regale; infatti Ps. 45 è un canto nuzia-
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le in onore di un re israelitico, la cui sovranità è esaltata con elevate parole. Certamente ad esso non si adatta l'invocazione 'o Dio' al principio del v. 8 e nella seconda riga del v. 9; ma in tutti e due i passi essa risale ad un'errata tradizione testuale, questa volta del testo primitivo, che dipende dalla tendenza dei giudei in familiarità con la Scrittura (tendenza riscontrabile soprattutto in questa parte del Salterio) a sostituire il nome di Dio, Jahvé, con altri nomi come Dio o Signore. Ma proprio questa errata tradizione testuale, passata anche nei LXX, rendeva questo passo molto prezioso per il nostro autore; giacché colui che parla nel salmo è, sì, il poeta o il cantore, ma per il nostro autore è Dio. E questi ora si rivolge a un altro chiamandolo Dio. Chi altri potrebbe essere se non il Figlio? La Hebr. non si perita di chiamarlo (indirettamente attraverso un detto di Dio nell'Antico Testamento) addirittura Dio, sia pure solo questa volta (cfr. comm. a Rom. 9,5 e Io. 1,1). Lo stesso Dio, dunque, gli promette la durata eterna del suo trono e dichiara che egli stesso lo ha unto solennemente, proprio come si unge un re, per insignirlo di questa dignità al cospetto dei suoi compagni, gli angeli. Il Figlio è l'eterno re del mondo. In questo atto solenne si deve vedere l'elevazione nella gloria, perché è motivato con la prova morale sostenuta da Gesù ('perciò' v. 9). È questa per l'autore di Hebr. un'idea importante (cfr. 5,7 s.), che qui è espressa con le parole che il suo scettro è uno scettro di rettitudine, che egli ha amato la giustizia e odiato l'iniquità. Dunque l'autore ha lo sguardo rivolto alla vita di Gesù; però in questo contesto il passo del salmo lo interessa soprattutto per l'affermazione che fa dell'eterno, divino posto di Signore occupato dal Figlio. Se il finale del passo metteva in rilievo questa dignità in confronto agli angeli, la citazione seguente di Ps. 102 la contrappone alla corruttibilità del mondo. È la stessa eternità e potenza di Dio che è messa in luce in relazione alla sua creazione, che è opera delle sue mani. Nell'autore c'è un sentimento di am-
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mirazione per la sua grandiosità. Eppure essa è corruttibile: non soltanto passa, ma Dio la rimuove; come un mantello liso, egli arrotola il firmamento con il suo ornamento splendido di sistemi solari e il gioiello della via lattea e dello zodiaco. Un quadro grandioso! Naturalmente anche questa volta la Lettera applica queste frasi al Figlio, probabilmente prendendo lo spunto dall'appellativo 'Signore' del v. ro. Esse diventano così una predizione del grande mutamento del mondo, che egli apporterà restando fermo nella sua immutabilità. Ma queste frasi non fanno che reiterare in forma poetica ciò che era già stato detto al v. 2. Che ora, ancora una volta (cfr. v. 3) e questa volta formalmente, ci si richiami a Ps. l 10 non può stupire. Il Cristo siederà alla destra di Dio fino alla sottomissione dei suoi nemici (cf r. I Cor. l 5, 2 5 ). È l'altra faccia della visione escatologica del v. 6. Come era avvenuto là, Dio poteva bene parlare a questo Figlio, ma soltanto a lui. Egli siede sul trono in una calma sovrana; gli angeli invece, sono attivi nel mondo al servizio degli eredi della salvezza futura. E in che modo lo siano ce lo dicono in numerosi esempi l'Antico e il Nuovo Testamento (cfr. nel Nuovo Testamento Mt. l,20; 4,II; 18,10; Act. 10,3.7.22; 12,7; 23,9; 27,23). Questa fede negli angeli era molto sviluppata nel giudaismo. L'autore volutamente esprime le sue riflessioni in modo da far apparire gli angeli subordinati non solo al Figlio, ma perfino ai credenti della· comunità cristiana; e lo fa perché queste riflessioni non gli sono state dettate da un'inclinazione ad oziose teorizzazioni (come dimostra l'ammonimento immediatamente successivo) ma perché persegue un preciso fine pratico-religioso. Egli vuole mitigandone le punte affrontare determinate idee, che a quanto pare i lettori hanno in mente, ma che non tendevano a speculazioni sugli angeli o a un culto degli angeli, di cui parla la Lettera ai Colossesi. Al contrario, per i lettori di Hebr. aveva una grande importanza la collaborazione degli angeli nell'istituzione dell'Antica Alleanza, che era una prova della gran-
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dezza di quest'ultima; né la Hebr. Io contesta. Ma che importanza può avere essa ai fini dell'atteggiamento verso il Figlio e la rivelazione portata da lui, se il rapporto tra il Figlio e gli angeli è quale è qui descritto? Piuttosto se ne può trarre una deduzione del tutto differente: il che è fatto in 2,r-4. Conseguenza: non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza ( 2,1-Sh) 1 È necessario, pertanto, che ci applichiamo con maggiore attenzione agli insegnamenti che abbiamo ascoltato, per non andare alla deriva. 2 Infatti, se le parole dette per mezzo degli angeli sono diventate incrollabili, e se ogni trasgressione e disobbedienza ha ricevuto la giusta punizione, 3 come potremo sfuggirvi, se trascureremo una tale salvezza? La quale, predicata anzitutto dal Signore (stesso), ci fu poi confermata da coloro che l'avevano udita, 4 dandone testimonianza Dio (stesso) con segni e prodigi e ogni sorta di miracoli e con doni dello Spirito Santo distribuiti secondo la sua volontà. 5 Infatti non ad angeli ha sottomesso il mondo futuro, di cui parliamo. 6 Anzi qualcuno in un punto (della Scrittura) ha testimoniato ciò: «Che cos'è l'uomo perché tu ti ricordi di lui, o il figlio dell'uomo perché tu ne abbia cura? 7 Per un momento l'hai abbassato al disotto degli angeli, (ma poi) l'hai coronato di gloria e di onore, sa.b tutti hai posto sotto i suoi piedi». Infatti, poiché gli «ha sottomesso tutto», non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto.
r-8b. L'esortazion.e, con la quale comincia questo brano (v. r ), si fonda sulla contrapposizione tra la rivelazione dell' Antico e quella del Nuovo Testamento (vv. 2-4), e questa contrapposizione a sua volta è fondata sulla posizione di Cristo nel mondo. Soltanto qui è chiaro perché la Lettera agli Ebrei dia tanto valore alla superiorità del Figlio sugli angeli. Nel v. 2 leggiamo di parole dette per mezzo degli angeli: sono parole di Dio, come in r , r s.; gli angeli non sono altro che suoi strumenti. Al v. 3 a quelle parole è contrapposto il messaggio della salvezza annunciato per mezzo del Signore. Secondo la classificazione di r, r s., le parole degli angeli fanno parte della rivelazione profetica; però questa non è
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intesa qui in tutta la sua ampiezza, ma è limitata alla legge mosaica, come si deduce dall'osservazione sulla punizione della sua trasgressione. Secondo il pensiero giudaico tutto passava in secondo piano dinnanzi alla legge; l'avvenimento della promulgazione della legge sul Sinai occupava vivamente l'immaginazione giudaica: l'Antico Testamento racconta di spaventosi fenomeni naturali che accompagnarono larivelazione sul Sinai ( cfr. Ex. r 9,r 9 s.; 20,r 8 ). Forse la teologia giudaica ne trasse lo spunto per parlare di una cooperazione degli angeli nel corso di quegli avvenimenti ( cfr. r ,7 ). Il testo ebraico dell'Antico Testamento non ne parla ancora ma, secondo il testo dei LXX di Deut. 33,2, v'erano in quella occasione miriadi di angeli che scortavano Jahvé, e per il giudaismo del tempo di Gesù questa era un'idea corrente: Flavio Giuseppe la conosce (ant. 15,5,3) e la si ritrova nel discorso di Stefano (Act. 7,38.53) e anche in Paolo (Gal. 3, r 9 ). Per la sensibilità giudaica, il ricorso al mondo degli angeli con il suo splendore serviva a mettere nella giusta luce l'importanza della legge (cfr. il racconto della natività, Le. 2 ). Una legge promulgata in una forma così solenne non poteva che essere 'ferma'; le sue disposizioni, in particolare le pene minacciate in caso di disobbedienza, erano incondizionate. Lo ha dimostrato l'esperienza di Israele, subito e poi nel corso dei secoli. La forma del periodo del v. 2 mostra che non c'è diversità di opinione al riguardo tra l'autore e i suoi lettori. Ma, invece di dedurne (come forse i suoi lettori potrebbero essere inclini a pensare) che si debba prendere la legge mosaica a norma della propria condotta religiosa, l'autore consegue dalla dimostrata superiorità di Cristo sugli angeli la nostra responsabilità, ancora maggiore e più gravida di pericoli, nei confronti del suo messaggio, e il nostro dovere di prestare la massima attenzione a ciò che abbiamo udito, per evitare di passare oltre al porto della salvezza, abbandonati alla corrente degli umani peccati, e di avviarci alla caduta nella rovina. In questo passo si espri-
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me la profonda severità dell'autentico pastore, che sa di essere stato chiamato ad aver cura delle anime che gli sono state affidate (cfr. 13,17); tale severità è confermata pure dal fatto che egli sceglie una forma di ammonimento, che è rivolto anche a se stesso e non soltanto ai suoi lettori. Egli sa di dover lottare insieme ad essi, di non aver conseguito il possesso dello Spirito una volta per sempre, ma di doverlo conservare con una decisione sempre rinnovata, e con questa allusione alle sue personali responsabilità egli mira ad attenuare la resistenza che il lettore potrebbe opporre alla sua esortazione. Infine egli afferma che il lettore non deve lottare da solo ma in comunione con quanti seguono la sua stessa via. Quello che si è udito, sul quale è richiamata l'attenzione dei lettori, non può essere che la parola che, secondo l,2, Dio ha pronunciato per mezzo del Figlio, quale è predicata nella comunità cristiana. Il suo contenuto è la salvezza: una salvezza di possente grandezza, perché non si tratta di un possesso terreno come era la 'terra promessa' agli Israeliti, ma del mondo che ha da venire (come è detto al v. 5, cfr. 13,14), cioè dell'eterna salvezza. Quanto maggiore è l'offerta tanto maggiore è la responsabilità; un'indifferente trascuratezza conduce diritto alla rovina. Perché anche il nostro Dio è un fuoco che consuma (12,29). Ma la misura della responsabilità non deriva soltanto dalla grandezza del bene della salvezza, ma anche dal modo in cui essa ci è stata resa intelliggibile; in un modo, cioè, che dovrebbe escludere qualsiasi dubbio e qualsiasi riserva. Secondo Deut. 19,15 (cfr. Mt. 18,16) una cosa è certa se è attestata da due o tre testimoni. Ora, la salvezza è stata prima annunciata dal Signore (un appellativo che è applicato a Gesù nella sua apparizione terrena, come in l,10 era stata applicata a lui nella sua posizione divina: il Gesù storico è l'eterno Signore). Non dagli angeli, ma da lui stesso è stato proclamato il messaggio della salvezza, che poi è stato predicato da coloro che l'hanno udito. L'autore non discute neppure l'idea, che per
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lui è inammissibile, che si possa fare differenza, e tanto meno contrapposizione, tra il contenuto del messaggio di Gesù e quello della predicazione dei suoi discepoli, nel senso magari che egli abbia inteso predicare un moralismo escatologico con una salvezza distaccata dalla sua persona. Il messaggio della salvezza è stato 'confermato' da coloro che l'hanno udito, cioè è stato predicato in un modo tale, da dover prestare loro fede. E ciò vale anche per l'autore; dunque egli non fa parte dei testimoni auricolari della predicazione di Gesù. Ma ciò non significa di per sé che egli appartenga ad una generazione successiva: anche un contemporaneo, vivente fuori della Palestina (come ad esempio il levita cipriota Barnaba), solo per questa via poteva avere appreso quello che sapeva di Gesù. Ad ogni modo questa frase rende impossibile l'attribuzione della Lettera a Paolo; non tanto perché qui potrebbe parlare un uomo della seconda generazione, quanto piuttosto perché Paolo ha affermato con la massima energia la sua autonomia dai primi apostoli: Gal. l,16 s. e il presente passo si escludono a vicenda. Ma c'è stato ancora un terzo testimone, Dio stesso, con i suoi atti: qui si parla di segni, perché indicano il quadro divino dell'avvenimento, di prodigi, per l'impressione fatta sugli uomini, di dimostrazioni di potenza, perché sono possibili soltanto con speciali elargizioni di potenza. Inoltre si parla dei doni dello Spirito, che Dio distribuisce a suo giudizio, come rileva anche Paolo in I Cor. l 2. Questa valutazione del miracolo è comune al cristianesimo delle origini; si trova specialmente in Paolo, ma anche in Io. e altrove (cfr. ad es. Rom. 15,19; 2 Cor. 6,7; 12,12; Gal. 3,2; I Cor. 2,4 s.; 4,20; Io. 5,32.36; 8,18; lo,25.38; Act. 2,22; 5,12; 15,12 ecc.), ed è inconcepibile che si sia potuto parlare a questo modo, se non si è potuto disporre di numerose esperienze del genere. Ci si può rifiutare di prestar fede a questi testimoni? Chi lo fa, è perché lo vuole; ma allora deve avere ben chiare le conseguenze che ciò comporta per lui: è assolutamente fuori del-
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la salvezza, non può essere partecipe del mondo a venire, perché il giudizio non tocca agli angeli, ma proprio al Figlio, come è spiegato ai vv. 5-8. Si facilita la comprensione di quello che segue se, contro la consueta ripartizione di questi versi, essi vengono uniti, ad eccezione della terza parte del v. 8, ai precedenti. Essi costituiscono il motivo conclusivo dell'esortazione nel v. 3. L'autore ha parlato della salvezza; adesso esprime lo stesso concetto parlando del mondo che ha da venire, cioè del nuovo cosmo atteso dalla comunità, perché la salvezza consiste precisamente nella partecipazione ad esso. Chi vuole ottenerlo non può rivolgersi agli angeli, perché essi comandano il mondo presente. Dio infatti ha fissato i confini dei popoli secondo il numero dei suoi angeli, dice il testo greco di Deut. 32,8. «Ad ogni popolo ha destinato un principe angelico» (Ecclus 17,17). Così ad esempio Dan. ro parla di angeli protettori del regno di Persia e della Grecia. Questa idea degli angeli protettori si è affermata nel giudaismo sotto l'influenza di idee religiose orientali, ma essi non hanno alcuna autorità sul mondo che ha da venire, il cui comando spetta al Figlio, che è l'erede di tutto ( l ,2 ); perciò è così importante seguire il suo appello. Ma invece di dire direttamente 'ma al Figlio', l'autore si serve di una citazione di Ps. 8. Questo salmo, nel suo significato originario, non parla del 'Figlio' ma dell'uomo, che è nulla di fronte alla maestà del cielo stellato, quest'altra creatura di Dio; e come è grande la bontà di Dio che ciò nonostante rivolge all'uomo una cura particolare, anzi gli ha dato su questa terra una posizione dominante quasi simile a quella divina: egli è 'il piccolo dio del mondo'. Ma parve al nostro autore che questo salmo si adattasse in modo eccellente a Gesù, il Figlio di Dio (cfr. I Cor. 15,27; Eph. l,22); la sua applicazione a Gesù gli fu certamente suggerita dal fatto che nel v. 6 si parlava del 'figlio dell'uomo'. Abbiamo qui una traccia della definizione messianica di Gesù, corrente nei Vangeli sinottici, tratta da Dan. 7; definizione che presto cessò di essere usata
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nella cristianità primitiva perché, già poco comprensibile al mondo giudaico, era del tutto incomprensibile a quello greco. (Si trova ancora alcune volte nel quarto vangelo, e in Act. 7,56; Apoc. r,13; J4,14). La citazione era molto utile all'autore per la sua riflessione, perché egli non la riferiva, o non la riferiva soltanto, alla creazione del mondo, ma (prendendo nel suo significato più rigoroso il 'tutto' nell'ultima riga della citazione) anche e soprattutto al mondo che verrà. Infatti, quando (v. 8) è detto che nulla è escluso dall'assoggettamento al Figlio, secondo il contesto ciò può significare soltanto che non ne è escluso neppure il mondo che verrà. Egli è il suo Signore, perciò attenetevi alle sue parole (vv. r e 3)! Ma la citazione era importante per l'autore anche per un altro motivo, e lo era proprio nella sua forma in greco. Questa diverge dal testo ebraico, che parlava di un piccolo abbassamento in confronto a Dio, mentre il testo greco parla di una diminuzione in confronto agli angeli. Inoltre l'autore intende il 'piccolo' in senso temporale. Ciò gli dà la possibilità di discutere un'obiezione, che sente verrà avanzata a quanto ha detto finora sulla posizione sovrana del Figlio nei cieli: e cioè l'accenno all'umiliazione nella passione del Gesù storico. Inoltre, la citazione indicava subito anche il senso di questa umiliazione: proprio essa era il presupposto della sua incoronazione con gloria e onore. Dunque la citazione costituisce la transizione dalle affermazioni fatte finora sul dominio del Figlio a quelle che seguono sull'umiliazione di Gesù, avviandosi così al tema centrale della Lettera. L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio ( 2,8c-18) se Ma ora non vediamo ancora che «tutto è assoggetato» a lui.
diamo tuttavia colui che «per un momento è disotto degli angeli», Gesù, per il patimento della gloria e di onore», affinché, per grazia di Dio, a vantaggio di tutti. 10 Conveniva, infatti, che
9 Vestato abbassato al morte «coronato di gustasse la morte colui per il qua-
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le e per mezzo del quale sono tutte le cose, volendo condurre alla gloria molti figli, rendesse perfetto, attraverso alle sofferenze, chi doveva guidarli alla salvezza. 11 Perché tanto colui che santifica quanto coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine. Perciò non si vergogna di chiamarli fratelli, 12 quando dice: «annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea». 13 E ancora: «porrò la mia fiducia in lui». E ancora: «ecco, io e i figli che Dio mi ha dato». 14 Ora poiché i figli avevano in comune la carne e il sangue, anch'egli alla stessa maniera ne partecipò, per annientare con la morte colui che aveva il dominio della morte, cioè il diavolo, 15 e riscattare coloro che per tutta la vita erano tenuti in schiavitù dalla paura della morte. 16 Infatti, non è certo degli angeli che egli si prende cura, ma è «del seme di Abramo» che si prende cura. 17 Per conseguenza dovette diventare in tutto simile ai fratelli, per divenire un misericordioso e fedele sommo sacerdote nei loro rapporti con Dio ed espiare i peccati del popolo. 18 Avendo infatti egli sofferto e patito la tentazione, può venire in aiuto a coloro che sono nella prova.
8c-9. Per il momento, così inizia il brano, non si vede ancora nulla della condizione sovrana del Figlio alla fine dei tempi; perciò tanto più chiara sta davanti ai nostri occhi la sua umiliazione, che giunge al suo livello più basso con la sofferenza della morte. Ma non dobbiamo lasciarci confondere da ciò. Piuttosto c'era in esso una profonda necessità divina. Vi alludeva già il fatto che in questa umiliazione si compiva la parola della Scrittura del Ps. 8; ma essa si può provare anche oggettivamente: conveniva a Dio, dice il v. IO. Questa affermazione domina l'intero brano. I versetti che seguono (fino al v. r 8) hanno soltanto il compito di mostrare in che misura conveniva a Dio condurre alla meta per la via delle sofferenze la guida della nostra salvezza. Doveva essere così, tanto per la situazione oggettiva degli uomini da salvare (vv. rr-15) quanto per la capacità soggettiva del salvatore (vv. r 6-r 8 ); soltanto in questo modo egli è diventato idoneo al sommo sacerdozio. Così si giunge all'idea con la quale l'autore schiude a sé e ai suoi lettori la comprensione della persona e dell'opera di Cristo. Se nel suo complesso questo
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sviluppo delle idee è chiaro, esso offre però delle difficoltà nei particolari. Queste cominciano subito col v. 9. Il v. 10 giustifica il v. 9 con le parole: «infatti conveniva a Dio ... rendere perfetto attraverso alle sofferenze»; dunque la frase principale del v. 9 dovrebbe anch'essa riferirsi alle sofferenze. Questa infatti dev'essere la spiegazione. Però il v. 9 non sembra affatto corrispondere a questa aspettativa; è vero che si parla del dolore, addirittura due volte, la prima nella frase principale e la seconda nella frase retta da 'affinché', ma l'affermazione centrale è che vediamo Gesù coronato di gloria e onore. Sembrerebbe che qui si parli dell'elevazione alla gloria celeste concessagli in premio per aver sopportato i dolori della morte; almeno questa è l'opinione comune, sostenuta sempre fino ad oggi nei commentari. Ma la successiva proposizione finale, al termine del versetto, non concorda affatto con tale interpretazione; l'elevazione nella gloria non è avvenuta affinché gustasse la morte: egli l'aveva già gustata e per questo era stato elevato nella gloria. E non può essere valida neppure la spiegazione che la morte avrebbe ricevuto un valore salvifico universale soltanto con l'elevazione nella gloria; un concetto del genere avrebbe dovuto essere espresso in tutt'altro modo. Inoltre, proprio dopo il v. 8, ci si deve domandare: vediamo allora il Glorioso nel suo splendore? E infine, se questo fosse il punto più alto dell'affermazione fatta al v. 9, ci si dovrebbe attendere che i versetti successivi tornassero in qualche modo sull'idea dell'elevazione nella gloria. Ma ciò non avviene. La spiegazione usuale della 'incoronazione di gloria e onore' con l'elevazione nella gloria è tanto impossibile che uno dei più recenti esegeti si rifugia nella supposizione che il testo sia stato corrotto. Ma questa ipotesi è superflua perché l'espressione in questione non significa affatto l'elevazione nella gloria. I concetti di 'gloria e onore' si riferiscono piuttosto alla dignità di Gesù come sommo sacerdote; in 5 A s. essi sono esplicitamente usati in tal senso. Essi derivano da Ex. 28,2: Mosè deve fare
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a suo fratello Aronne una veste sacra a 'onore e gloria'. Se interpretiamo il v. 9 in questo modo, tutto diventa subito chiaro: vediamo l'umiliato Gesù insignito della dignità di sommo sacerdote per le sofferenze della morte, cioè affinché gusti la morte per tutti. La frase finale è dunque la spiegazione dell'espressione 'per il patimento della morte': essa non ha il significato di ~perché egli aveva sofferto' ma quello di «affinché egli soffra», e, per grazia di Dio, per tutti. Nella morte di Gesù non v'era nulla di che scandalizzarsi; anzi da essa dipendeva la salvezza di ognuno. Il proposito salvifico è assolutamente generale; una sua limitazione, magari a Israele, va del tutto esclusa. E questa morte non avvenne a caso o contro i piani di Dio, ma al contrario avvenne 'per la grazia di Dio'. Una parte non indifferente dei testi; con una facile modificazione delle lettere greche, ha invece 'senza Dio'. Questa variante si richiamerebbe al grido di Gesù in Mt. 27,46 cfr. Ps. 22,2; ma introduce nel contesto un motivo che gli è del tutto estraneo, mentre 'per grazia di Dio' consente il collegamento con il v. ro: è stato Dio stesso ad aprire la via della salvezza. Questo è uno dei principali punti fermi di tutta la predicazione cristiana delle origini, la decisa barriera contro ogni interpretazione mitologizzante di Cristo (cfr. Gal. 4,4; 2 Cor. 5,19; Rom. 5,8; 8, 32; Io. 3,16; Mt. 11,25 ss.). Inteso così, il versetto si inserisce benissimo nel contesto generale; non viene delusa l'attesa che l'idea dominante del v. 9 ritorni in seguito. Infatti al v. 17 siamo riportati a tale idea dominante del sommo sacerdozio di Cristo: soltanto percorrendo la via della passione egli poteva diventare sommo sacerdote. Questa è una giustificazione atta a convincere quanti si sentono sconcertati di vedersi dinnanzi agli occhi, invece del celeste sovrano, Gesù sofferente e morente. Per la prima volta Gesù è chiamato per nome. Sotto questo aspetto Hebr. ha delle forme che divergono da quelle usate da Paolo. Il 'Gesù' puro e semplice, in Paolo si trova solo pochissime volte; in Hebr. è quasi
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frequente come Cristo; l'espressione favorita di Paolo, 'Signore', è usata solo rare volte in Hebr., e mai l'intera formula paolina 'nostro Signore Gesù Cristo'. Non che ci sia una particolare intenzione in questa scelta di appellativi: è soltanto un'abitudine, ma proprio per questa ragione, questa caratteristica stilistica è uno dei tanti motivi per escludere che la Lettera sia di Paolo. Finora l'autore aveva parlato soltanto di 'Figlio'; se ora per la prima volta fa il nome di Gesù, lo si dovrebbe attribuire al fatto che qui aveva molto chiara davanti agli occhi la figura storica di Gesù nella sua passione e morte. ro-r8. La conclusione del v. 9, che la morte di Gesù per il bene di ognuno era fondata nella grazia di Dio, necessitava di una spiegazione. Per il momento il v. ro si limita a dire che conveniva a Dio fare così, ma questa affermazione doveva essere ulteriormente motivata; il che avviene nei vv. r I ss. Tuttavia anche il resto del v. ro è già formulato in questa prospettiva; quando, infatti, l'autore chiama Dio lo scopo di tutte le cose, e al tempo stesso il loro fondamento, per mezzo del quale esiste ogni cosa, e quando dice di lui che ha voluto condurre alla gloria molti figli, sembra che per lui esista un rapporto fra le due affermazioni. Egli, cioè, vuol dire che, come creatore, Dio non poteva rinunciare alla realizzazione dello scopo della sua creazione, vale a dire che gli esseri creati ritornassero a lui. Ciò non sarebbe stato conforme al suo essere, non gli sarebbe convenuto; sarebbe stato un rinnegare se stesso. Egli li deve condurre 'a sé', alla gloria del regno celeste, del mondo che ha da venire. Certo, non è purtroppo possibile che tutti siano salvi nella sua comunione; per questo motivo non si parla più di tutti, come al v. 9, ma soltanto di molti, che sono chiamati figli perché, secondo il v. r r, vengono tutti da lui. Ma almeno questi molti li ha voluti salvare; tuttavia essi si trovano, per così dire, in un'altra sfera d'influenza, dalla quale devono essere
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fatti uscire. Questo è il compito della 'guida', che è nel contempo autore della loro salvezza e condottiero delle schiere dei salvati, che è alla loro testa quando abbandonano il regno del male, la sfera d'influenza lontana da Dio. Questa immagine espressiva del condottiero, che è anche il salvatore, si trova anche in Apoc. 3,15; 5,31 come già ha tradotto Lutero. Se ora si dice che è convenuto a Dio condurre alla meta questa 'guida' attraverso il dolore, cioè che diventasse veramente il salvatore, non si è ancora spiegato perché la liberazione era possibile soltanto alla fine del cammino della passione; ma già si intuisce che la colpa è del regno del male, in cui si trovano coloro i quali devono essere salvati. Ma Gesù (ora improvvisamente egli diventa il soggetto della proposizione, senza che se ne abbia la sensazione: Dio era in Cristo) non poteva tralasciare di venire in loro aiuto perché essi sono suoi fratelli, in virtù dell'origine comune (da Dio, cfr. v. loa): la più elementare, e quindi la più efficace, motivazione del comandamento dell'amore. Ma ora la loro relazione reciproca è descritta con un'espressione che, al di là dell'immagine della guida, dice più propriamente qual è il suo contenuto: egli è il santificatore, essi sono i santificati. La santità di Dio esprime la sua totale contrapposizione ad ogni peccaminosità: l'una o l'altra. Se gli uomini debbono venire 'a Dio', dev'essere tolto loro ogni peccato. Nel culto veterotestamentario il sacerdote 'santifica' con i mezzi esteriori prescritti dalla legge mosaica; ma colui che 'santifica' veramente è Gesù, come si ripeterà poi. I cristiani sono coloro che per mezzo di lui ricevono la capacità di entrare nella comunione di Dio. Per il momento l'attenzione dell'autore si concentra sulla relazione fraterna esistente per la comune origine da Dio; lo riconosce lo stesso Gesù, senza vergognarsi di questa sgradevole 'parentela', per quanto il carattere peccaminoso dei suoi 'fratelli' gliene offrirebbe un motivo sufficiente. Ma a dimostrazione di ciò non vengono citate parole (o esempi) tratte dalla tradizione della vita di Gesù, ma dall'Antico Te-
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stamento, le parole del quale, se appena sembra che possano adattarsi alla soluzione, vengono applicate con estrema disinvoltura tanto a Cristo quanto allo stesso Dio. La prima citazione è tratta dal Salmo 22, di cui è nota l'interpretazione messianica della storia della passione (cfr. Mt. 27), che qui è data per ammessa. Sembrerebbe che il v. 13 contenga due citazioni, che sono unite da un 'e ancora'; in realtà le due citazioni si trovano l'una accanto all'altra in Is. 8,17 s. Però la prima si ritrova tale e quale anche nel salmo di ringraziamento di Davide (2 Sam. 22,3); si può pensare perciò che l'autore abbia avuto in mente tutti e due i passi della Scrittura. Comunque, con il primo si vuole dire che Gesù, come secondo Ps. 22 si unisce ai suoi fratelli nella lode a Dio, così come loro è tenuto alla fede in Dio. Nella seconda citazione, secondo il testo originario, il profeta parla di sé e dei suoi figli come segni di Jahvé; la forma sconnessa che la frase ha nella Lettera deriva anch'essa dai LXX. Presa come detto di Gesù, deve confermare la stretta relazione di parentela esistente tra Gesù e gli uomini, che stanno accanto a lui come i molti altri figli di Dio, che Dio gli ha dato per salvarli. Certo che allora egli doveva lasciare la sua esistenza celeste per ridursi nella condizione in cui essi si trovavano, cioè nell'esistenza corporea. 'Sangue e carne' dice Hebr.; Paolo direbbe semplicemente 'carne'. Proprio a causa di questa esistenza corporale, sensoriale, gli uomini sono in potere del diavolo, cioè della forza del male, che è anche la potenza della morte. Essi vivono; ma la loro vita non è degna di questo nome, è piena di paura della morte e perciò è una vera esistenza da schiavi; tale appare a Hebr. il sentimento informatore della vita degli uomini prima di Cristo: più paura della morte che gioia della vita. Qui la parola morte ha un duplice significato caratteristico: anzitutto la fine della vita corporea, ma poi anche il contrario della 'salvezza' nel mondo che ha da venire (vv 5 e r o): è dunque, per così dire la porta di accesso al male eterno. Queste idee hanno dei punti di contatto
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strettissimi con quanto Paolo dice della carne sede del peccato e dei suoi effetti; infatti egli intende dire la stessa cosa quando parla del peccato come dello stimolo della morte, il peccato che trova posto e alimento nella carne (I Cor. 15,56; Rom. 7 ,13 ss.). La figura del diavolo è l'incarnazione metafisica della misteriosa sicurezza della potenza sopraffatrice del male; è facile per l'autore metterla in tanta evidenza, perché era corrente nel giudaismo vedere nel diavolo 'l'angelo della morte'. Per la sua invidia è venuta nel mondo la morte (Sap. 2,24); egli è l'assassino (lo. 8,44), lo sterminatore (ICor. lo,10; 5,5). Ora Gesù entra in questa sfera di dominio della carne e del sangue, del diavolo e della morte, nella quale si trovano gli uomini. E anch'egli muore. Ma la sua morte ha il fine e l'effetto sorprendenti di infrangere il potere del principe della morte. Come, non è detto chiaramente; si vuole forse dire che i peccati sono stati estinti e reso inefficace lo 'stimolo della morte' (ICor. 15,50)? Oppure si allude alla discesa di Cristo nel regno dei morti che non è riuscito a trattenere lui, l'innocente, per cui egli ha potuto addirittura disputare al principe della morte la sua preda e tornare vittorioso, alla testa dei liberati, dal regno dei morti alla vita? 1 • La seconda idea non esclude la prima; comunque l'autore intende dire che in questo modo è stato rotto l'incantesimo della paura della morte, come la porta dell'eterna rovina. Anche se rimane la morte del corpo, è scomparso il terrore di essa. I tre versetti che seguono danno ancora una giustificazione dell'idea del v. ro, partendo sempre dalla forma esistenziale dell'uomo. Se si fosse tratr. Cfr. Barn. 5,6: «Egli ha preso su di sé quella sofferenza perché doveva apparire nella carne per disarmare la morte e mostrare la risurrezione dei morti»; inoltre Od. Sal. (rr secolo) 42,n: «L'inferno mi vide e si infiacchi; la morte sputò me e molti con me, fui veleno e fiele per essa, scesi fino in fondo ad esso, tanto era profondo l'abisso. I piedi e la testa gli diventarono senza forza, perché non poteva sostenere il mio volto; io creai fra i suoi morti la comunità dei viventi». Questi passi, e numerosi altri, provano che idee del genere non erano estranee a quei tempi.
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tato di angeli non sarebbe stato necessario il cammino attraverso alle sofferenze; essi non hanno né sangue né carne e non sono soggetti alla morte. Dunque l'autore non prende in considerazione una redenzione del mondo degli angeli (dr. Col. r,20 s.). Ma si tratta di uomini, poiché l'espressione 'seme di Abramo' non limita a Israele l'azione salvifica di Gesù, e il v. 9 aveva già affermato chiaramente la validità universale della morte di Gesù. L'espressione usata qui si riferisce a tutti i cristiani presenti e futuri (essi sono il vero Israele) ed è stata scelta soltanto per spiegare nuovamente l'umiliazione di Gesù mediante il rapporto di fratellanza fra il salvatore e i salvati: Gesù attira a sé i suoi fratelli, il seme di Abramo attira a sé il seme di Abramo ( cf r. Gal. 3,16.29). La prestazione dell'aiuto fraterno era però soggetta a condizioni non soltanto oggettive, ma anche soggettive: egli li doveva comprendere, nel loro stato miserevole della tentazione al peccato; ma questa comprensione si può avere soltanto in base alla personale esperienza. Percorrendo la via della sofferenza egli sperimentava quanto sia difficile essere sempre obbedienti a Dio, e poteva così venire in aiuto a coloro che subiscono le tentazioni. Si pensa qui ad un'assistenza per vincere le tentazioni? Almeno per il momento no; il v. r8 è semplicemente una spiegazione del v. r 7. Dunque si intenderebbe dire in che cosa consiste prima di tutto questo aiuto: nell'espiazione. Gesù diventò un misericordioso sommo sacerdote che non si rifiutò di espiare i peccati del popolo con la donazione della propria vita e dargli così la salvezza. Qui sono totalmente assenti le idee del v. r 4; il linguaggio è immediatamente religioso: l'uomo sta davanti a Dio, da cui lo separa il peccato. Il servizio reso da Gesù è stato di eliminare questo ostacolo; la sua esperienza personale glielo ha reso psicologicamente possibile. Certamente, proprio per il fatto di avere egli stesso vinto la tentazione che è insita nel dolore, egli è anche capace di aiutare i fratelli a vincere la tentazione. Ma è l'altro aspetto che
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qui interessa. Per i destinatari di Hebr. la passione del 'Figlio' è motivo di scandalo. L'autore vede in essa la conferma dell'amore fraterno di Gesù, che fa salvi, e - in ultima analisi - della volontà salvifica di Dio. Paolo e Giovanni dicono la stessa cosa (cfr. 2 Cor. 8,9; Io. 3,16). Ma Hebr. cerca di sollevare un poco il velo che, nonostante tutto, ci nasconde il cammino di Gesù; chi riesce a spiegarsi tutto questo, pensa l'autore, cesserà di borbottare sull'umiltà di Gesù. Perciò viene a buon punto l'esortazione con cui incomincia il cap. 3. Gesù superiore a Mosè ( 3,1-6) Dunque, fratelli santi, che siete partecipi di una vocazione celeste, considerate bene l'apostolo e sommo sacerdote della nostra professione di fede, Gesù, 2 che è «fedele» a colui che l'ha costituito, come lo fu «Mosè in tutta la sua casa». 3 Infatti, egli è stato ritenuto degno di una gloria superiore a quella di Mosè, nella misura in cui l'onore del costruttore di una casa è più grande di quello della casa stessa. 4 Ogni casa infatti è costruita da qualcuno: ma colui che ha costruito tutte le cose è Dio. 5 E «Mosè è stato fedele in tutta la sua casa» come
Per quel che riguarda la costruzione dei capitoli seguenti, va rilevato che l'esortazione di 3,r, che segue consequenzialmente al cap. 2, è ripetuta alla fine del cap. 4: in 3,1 è detto «considerate bene ... il sommo sacerdote della nostra confessione» e nel cap. 4, richiamandosi ancora a Gesù come sommo sacerdote, è detto «restiamo fermi nella confessione». È ripetuto anche l'accenno alla capacità di patire insieme a noi di colui che è stato tentato come noi (2,17). Perciò le affermazioni sulle caratteristiche del sommo sacerdote (4,I45, r o) dovrebbero collegarsi direttamente a 3, I. Invece, la
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affermazione della fedeltà di Gesù come sommo sacerdote (2,17) deve aver risvegliato il ricordo di Num. 12,7, dove si parla della fedeltà di Mosè; e questo ha dato all'autore la felice occasione di dimostrare la superiorità di Gesù su Mosè, e poi riallacciarvi l'esortazione ai lettori di non attirare su di sé il destino toccato alla generazione del deserto per la sua incredulità al tempo di Mosè. Soltanto dopo è ripresa l'idea di 2,17 s.; 3,1: perciò le affermazioni di 3,2-4,13 si presentano come una lunga e ben meditata digressione, o meglio come un lungo inciso. r-6. L'esortazione è fatta in modo da esercitare la massima impressione possibile con tutti i mezzi. Per la prima volta la Lettera si rivolge direttamente ai lettori, e in un modo assai solenne. Essi sono fratelli; vorranno forse abbandonare questa comunione? Fratelli santi; non vorranno dunque rinnegare ciò che già debbono al sommo sacerdote, cioè la capacità di salire fino al trono della grazia divina (4,16). Essi fanno parte di coloro che sono chiamati a partecipare alla salvezza celeste. Il loro bene è così grande, che non lo vorranno dissipare. Sarebbe una cosa inconcepibile. Ma allora, se la questione dell'umiliazione di Gesù è come l'ha descritta il cap. 2, debbono comportarsi diversamente; non possono lasciarsi sviare. Piuttosto debbono prestare la massima attenzione all'apostolo e sommo sacerdote della nostra confessione, cioè a colui al quale ci professiamo in quanto cristiani. La parola 'professione', che si trova anche in 4,14 e lo,23, potrebbe significare una formale professione di fede in Gesù, resa forse durante la cerimonia del battesimo (cfr. rn, I 3 ), senza che perciò qui e negli altri due passi si possano trarre conclusioni sul suo significato. Non v'è mai stata una formula di fede cristiana, in cui si parlasse di Gesù come sommo sacerdote; tuttavia alcuni pensano che proprio qui si alluda all'uso di questo attributo di Cristo nella preghiera liturgica. L'insolita definizione di Gesù come apostolo, vale
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a dire inviato (di Dio, naturalmente), vuole ricordare che, secondo r,2, Dio ci ha parlato attraverso a lui. L'attenzione da prestare a Gesù gli è tanto più dovuta, in quanto egli si mantiene fedele a Dio, il suo creatore, che gli ha attribuito questo servizio. Va rilevato per inciso che l'autore, per quanto anche nel cap. r abbia avvicinato al massimo il Figlio a Dio e l'abbia chiamato mediatore della creazione, tuttavia qui non si perita di parlare della sua creazione da parte di Dio. Quanto è detto ai vv. r.2a sembra quasi un'introduzione ad affermazioni più precise sul sommo sacerdozio di Cristo, che poi si trovano nei capitoli successivi; ma l'autore qui si sofferma sulla fedeltà di Cristo. Anche Mosè aveva dato prova di tale fedeltà secondo Num. 12,7, però soltanto nel testo dei LXX: il testo originario non parla della fedeltà di Mosè, ma dell'incarico affidatogli di dirigere tutta la casa di Jahvé, cioè Israele. Ma, dice H ebr., da questo riconoscimento della fedeltà di Mosè non si può dedurre che gli si debba prestare la stessa totale attenzione che a Gesù. Piuttosto, la fedeltà di Mosè è nominata soltanto per dimostrare il contrario. Infatti l'autore proprio dal passo di Num. 12,7 deduce la superiorità di Gesù su Mosè. Per darne la dimostrazione egli si serve del concetto di 'casa'. La posizione di Mosè certamente era molto onorevole, gli era affidato il governo della casa; però anch'egli non era che una parte di questa casa, e perciò nell'onore sta molto indietro al costruttore di essa. Con ciò viene dato per implicito, come un fatto naturale secondo r ,2, che Gesù sia il 'costruttore' della 'casa' d'Israele (cfr. I Cor. ro,4). Il v. 4b intende dire che con questa affermazione non · dev'essere naturalmente sminuita la posizione di Dio come creatore del mondo; in tal caso il v. 4b esprime soltanto un concetto derivato. Oppure signifìca che Dio stesso ha assegnato a Gesù questa posizione (cfr. v. 2 inizio e r,2: «Dio ha creato per mezzo di lui ... »). Mentre nel v. 4 per 'casa' si intende l'edifìcio, il v. 5 vi comprende anche i domestici. La superiorità di Cristo è dedotta dal fatto che Mosè è chiama-
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to servo, sia pure incaricato dell'importante compito di comunicare al popolo le istruzioni divine ricevute nella tenda dell'incontro; mentre sappiamo dal cap. r che Gesù è figlia, e perciò non può fare parte dei domestici. Mosè, dunque, è 'nella' casa, Gesù invece 'sopra' di essa. Il versetto finale del brano dà una svolta sorprendente a questa idea: la casa, di cui si parlava nel passo di Num., era Israele; la casa sopra la quale sta Gesù è la comunità cristiana. Questa ora occupa la posizione privilegiata, che prima il concetto attribuiva ad Israele. Naturalmente ad una condizione: che non falliscano anch'essi. Ciò che distingue il cristiano è la grata e gioiosa certezza del futuro compimento della salvezza, che occorre tenere ferma contro ogni tentazione della fiacchezza. Quanto ciò sia decisivo viene ora mostrato con l'esempio del destino della generazione che ha attraversato il deserto ma non è giunta alla meta: un motivo che domina le argomentazioni seguenti fino a 4,13. Ammonimento a non perdere la promessa, come avvenne per la generazione d'Israele nel deserto ( 3,7-4,13) Perciò, come dice Io Spirito Santo: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nella esasperazione, il giorno della tentazione nel deserto, 9 dove i vostri padri (mi) tentarono, mi misero alla prova pur avendo veduto le mie opere per quaranta anni. 10 Per cui mi adirai contro questa generazione e dissi: hanno un cuore sempre perverso; ma essi non .hanno riconosciuto le mie vie, 11 sicché ho giurato nella mia ira: non entreranno nel mio riposo». 12 Badate, fratelli, che qualcuno di voi non abbia un cuore cattivo ed incredulo, al punto di allontanarsi dal Dio vivo, 13 ma esortatevi a vicenda ogni giorno, fin tanto che si può dire 'oggi', perché nessuno di voi 'si indurisca' lasciandosi ingannare dal peccato. 14 Poiché siamo stati fatti partecipi di Cristo, alla condizione di restare saldi sino alla fine nella nostra fiducia iniziale. 15 Quando si dice: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nella esasperazione», 16 chi erano dunque coloro che, pur avendo udito, «esasperarono» (Dio)? Non furono forse tutti coloro che erano usciti dal7
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l'Egitto mediante Mosè? (1) 17 E contro chi «si è adirato per quaranta anni»? Non forse contro quelli che avevano peccato e i loro «corpi caddero nel deserto»? 18 E a chi «giurò che non sarebbero entrati nel suo riposo» se non a quelli che avevano disobbedito? 19 E noi vediamo che non poterono entrare per la loro incredulità. 1 Temiamo dunque che qualcuno di voi, pur rimanendo valida la promessa di «entrare nel suo riposo», pensi di essere arrivato tardi. 2 Perché anche a noi, come a loro, è stata data la buona novella; ma la parola che avevano udito non giovò loro affatto, perché non restarono in comunione mediante la fede con coloro che l'avevano ascoltata. 3 Infatti «entriamo nel riposo» noi che abbiamo creduto, secondo quanto egli ha detto: «così ho giurato nella mia ira: non entreranno nel mio riposo», benché 'le opere' fossero compiute sin dalla fondazione del mondo. 4 Infatti ha detto in qualche parte circa il settimo giorno: «E Dio si riposò il settimo giorno da tutte le sue opere». 5 E ancora in quel punto: «Non entreranno nel mio riposo». 6 Poiché dunque è acquisito che alcuni vi devono entrare, e quelli cui per primi era stata data la buona novella non vi sono entrati a causa della loro disobbedienza, 7 fissa di nuovo un giorno, un 'oggi', dicendo a Davide dopo tanto tempo, come è stato detto (sopra): «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori». 8 Infatti se Gesù ( = Giosuè) li avesse portati in questo riposo, non avrebbe parlato in seguito di un altro giorno. 9 Resta dunque riservato al popolo di Dio un riposo al settimo giorno. 10 Giacché chi «è entrato nel suo riposo» anch'egli «si riposa dalle sue opere», come Dio dalle sue. 11 Affrettiamoci dunque a «entrare in quel riposo», affinché nessuno cada imitando quell'esempio di disobbedienza. 12 Infatti la parola di Dio è viva e forte e più tagliente di qualsiasi spada a doppio taglio, e penetra fino alla divisione di anima e spirito, giunture e midolla, e giudica i pensieri e le intenzioni del cuore. 13 E non c'è nessuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto davanti a colui al quale dobbiamo rendere conto.
È consigliabile prendere in considerazione questo lungo brano esortativo come un tutto unico, già per il solo fatto r. Il testo greco della seconda parte del v. 16 letteralmente si dovrebbe tradurre: «Ma non tutti coloro che ... erano usciti». Però questo 'ma' non ha senso dopo la precedente frase interrogativa. Si dovrebbe dunque completare: «forse soltanto alcuni?» e proseguire: «non [furono] piuttosto tutti...?». Forse il testo è corrotto in questo punto. Perciò nella traduzione si usa omettere il 'ma'.
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che fìno a 4,II riecheggia di continuo la citazione iniziale da
Ps. 9 5. Ma ritornano continuamente anche i concetti fondamentali del 'riposo' promesso, cui tende la generazione d'Israele uscita dall'Egitto, e quello della incredulità, o della disobbedienza, a causa della quale è stato negato ad essa di poter raggiungere la meta. Se si vuol tentare di dare un' articolazione al brano, non lo si può fare attribuendo al cap. 3 la funzione di presentare l'esempio di Israele e al cap. 4 quella di mostrare come si debba applicare praticamente l'esempio stesso, perché un'applicazione ai lettori si trova già in 3, 1214. Si potrebbe dire che il cap. 3 è una messa in guardia e il cap. 4 un'esortazione; ma i due aspetti si intrecciano fra di loro. Noi preferiremmo suggerire l'articolazione seguente: in 3,7-14 i lettori, con la citazione di Ps. 95,7-11, sono messi in guardia dal pericolo di cadere nell'incredulità; i vv. l 5- I 9 danno un'interpretazione del passo del salmo, per dimostrare che il destino della generazione del deserto fu dovuto di fatto alla sua caduta nell'incredulità. Ma (4,1-3a) la promessa, alla quale non si è creduto non giova né a noi né a loro. Tuttavia ( vv. 3b-5) il diritto della fede nel riposo promesso si deduce dalla Scrittura in modo sufficientemente chiaro; e più precisamente ( vv. 6-ro) quella promessa è tuttora valida per noi. Da quanto precede dobbiamo con la massima serietà trarre la conclusione pratica, perché non c'è modo di sfuggire alla minaccia di Dio ( vv. l l - l 4). 3,7-1 l. Per introdurre l'esortazione l'autore si serve di un passo di Ps. 9 5, che è spiegato e applicato anche in seguito quasi come un testo per una predica. Esso viene attribuito allo Spirito (cfr. 9,8; 10,15), come precedenti citazioni erano state attribuite a Dio o al Figlio; si tratta di una differenza puramente formale. Però, proprio perché la parola è parola ispirata da Dio, essa è fuori dal tempo e l"oggi' del v. 7 - senza tener conto della data in cui il salmo è stato composto - è riferito alla presente comunità cristiana, come ri-
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sulta evidente in 4, 7. L'appello di Dio è valido indipendentemente dall'occasione per cui è stato rivolto la prima volta; è questo il presupposto di ogni utilizzazione edificante della Bibbia. Ps. 95 è un invito alla lode e all'obbedienza a Dio; e alla fine contiene un ammonimento a guardarsi dalla disobbedienza, che viene appoggiato con l'accenno al destino dei padri del popolo, quando erano nel deserto. Il v. 8 allude alla scena di Massa e Meriba, dove il popolo se la prese con Mosè perché mancava l'acqua e domandò: «Jahvé è sì o no in mezzo a noi?» (Ex. 17,1-7). In tal modo essi misero Dio alla prova con la loro ribellione, e ciò «quantunque avessero veduto le mie opere», cioè l'aiuto miracoloso nell'esodo dall'Egitto, il nutrimento con la manna, ecc. Ma il passo del Salmo collega questa scena a quella successiva al rientro degli esploratori in Num. 14. Le difficoltà che si possono framettere all'ingresso nella terra promessa danno fastidio al popolo, che si rifiuta di seguire Jahvé. Preferiscono far ritorno in Egitto. Ed ecco allora il giuramento di Jahvé (v. r r ), con la conseguenza che l'intera generazione, indocile per tutti i quarant'anni di migrazione nel deserto, non potrà avanzare oltre, e non giungerà nel 'riposo', nella terra in cui avrebbe dovuto prendere dimora. Nel Salmo, dunque, i quaranta anni sono anni dell'ira di Jahvé. Ma l'autore della nostra Lettera ha modificato il testo greco dei LXX, inserendo un 'per cui' all'inizio del v. ro, con la conseguenza che i 'quarant'anni' non vanno riferiti, come nei LXX, a «mi adirai», ma alla frase «essi videro» (v.9). Si ha così l'impressione che l'espressione «essi videro le mie opere per quarant'anni» (v. 9 fine) voglia definire tale periodo di tempo un periodo di aiuti prodigiosi; ma dal v. r 7 si deduce che questo non è il pensiero dell'autore. Ma allora dobbiamo considerare le 'opere' (v. 9 fine), contrariamente al testo originario, come degli atti punitivi; per cui possiamo tradurre liberamente: «perciò hanno dovuto sopportare i miei castighi per quarant'anni», cui fa da parallelo la frase «perciò mi adirai». In tal-
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modo questa piccola modificazione testuale dell'autore non sarebbe più riferita agli atti di benevolenza sperimentati dalla generazione nel deserto e scompare questo appello a un sentimento umano di gratitudine. Le parole suonano molto più aspre e dure: Dio parla. Essi odono la sua parola. Ma invece di obbedirgli, come sarebbe naturale, essi chiedono ed esigono da Dio, con un contegno provocante, la prova della sua esistenza mediante l'aiuto immediato in ogni necessità. Se non dà questa prova, si allontanano da lui ... per poi sperimentare che Dio non si lascia trattare in questo modo e che la sua ira è una realtà. 3,12-19. Ora l'autore d'improvviso, ma richiamandone l'attenzione con il vocativo, rivolge lo stesso appello ammonitore ai suoi lettori. Il passo è uno di quelli che hanno dato motivo di pensare che il pericolo che correvano i destinatari della lettera non potesse essere quello di un'inclinazione alla religione giudaica, ma quello di una caduta nel paganesimo, se non addirittura nella totale incredulità; ma si è trascurato di considerare che le espressioni 'incredulità', 'allontanamento' dal 'Dio vivo' e 'disobbedienza' sono tutte prese da N um. l 4. Come qui non si parla di passaggio ad una religione pagana o all'ateismo, così le espressioni usate nel nostro passo non possono essere forzate in un altro senso. Esse potevano benissimo essere usate anche se i lettori, diventati insicuri nella loro fede cristiana, si sentivano attratti dalla religione giudaica; infatti, se uno si rifiuta di seguire Dio su una questione decisiva in un momento decisivo, ci troviamo di fronte a quell'atteggiamento fondamentale di infedeltà e di apostasia che, se non vi si pone rimedio in tempo, ben presto si impadronisce di tutto il cuore che si incattivisce e finisce per essere inaccessibile ad ogni impulso buono, se si insiste in questo atteggiamento. È questo l'effetto del peccato, che riesce a tanto solamente perché fa intravvedere all'uomo vantaggi illusori (cfr. Mc. 4,19). Perciò i lettori so-
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no esorta ti ad incoraggiarsi a vicenda (cfr. lo, 2 5 ), :fintantoché dura il tempo della grazia (cioè fino al momento del ritorno di Cristo), e a strappare la maschera al peccato. L'autore insiste sulla mutua responsabilità: per lui non esiste un cristianesimo privato dei singoli credenti, al contrario egli apprezza altamente il valore pastorale della comunione cristiana. Soltanto così si conserva la fermezza delle proprie convinzioni, che è la condizione necessaria (come è implicito nella frase) per poter entrare nel 'riposo', naturalmente in un senso più profondo di quello che cercavano i padri nel deserto. In luogo di questo concetto qui si dice: per essere partecipi, in Cristo e con Cristo, della sua 'casa' e della sua salvezza; ma vedremo presto come e perché un concetto non è possibile senza l'altro, e tutti e due finiscono per dire la medesima cosa. Nel v. 14 è chiaramente ripresa l'esortazione del v. 6, perfino nella formulazione della condizione posta ai lettori. Segue ora la spiegazione del salmo nei vv. l 5- l 9, intesa come giustificazione di questa esortazione. La severità con cui l'autore mette in guardia i lettori contro i pericoli dell'incredulità e dell'apostasia, è confermata da ciò che racconta di Israele Num. 14. L'esperienza salvifica di essere stati tratti fuori dall'Egitto non li proteggeva dal peccato di ribellione a Dio: un buon inizio non garantisce che non si finisca nella rovina. Con la loro disobbedienza e incredulità (i due concetti sono così intimamente legati fra di loro che l'autore quasi non fa differenza tra l'uno e l'altro) attirarono su di sé il giudizio dell'ira e «non poterono entrare». In Num. 14 si racconta che, dopo il giuramento di Dio di non farlo entrare nella terra promessa, il popolo cambiò parere: ora essi cercavano di entrarvi; ma Jahvé non era con loro, e «vennero gli Amaleciti e i Cananei... e li batterono». Indirettamente i lettori sono messi in guardia dall'insanabile caduta (cfr. 6,4ss.; ro,26; l2,16s.), in forma tale da dovere essi stessi giudicarsi, infatti non possono rispondere se non affermativamente alle incalzanti domande dell'autore.
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4,1-10. Traiamo dunque la conclusione giusta, valutando appieno la serietà della situazione e perciò con un senso di timore; così continua l'autore in 4,1, includendo se stesso nell'esortazione, contrariamente a 3,12. Ammonimenti e spiegazioni dei loro motivi si alternano di continuo in questo brano, che ha lo stile di una predica. Gli Israeliti nel deserto non arrivarono nel 'riposo'; dunque la promessa non è stata adempiuta. Ma essa dev'essere adempiuta, perché Dio non promette invano. Nella forma del vangelo si rinnova più profondamente la promessa veterotestamentaria; e anche la condizione è sempre la stessa: la fede. Gli Israeliti, secondo Num. 14, nel momento decisivo non prestarono fede all'assicurazione che Jahvé avrebbe dato loro la vittoria sulle popolazioni della Palestina, dove avrebbero trovato 'riposo'. Essi non furono all'altezza della situazione, e perciò non giunsero alla meta; e quando tentarono di farlo, era 'troppo tardi'. Pietro quando dubita non riesce a galleggiare sulle onde; atti di eroismo li compie soltanto la fede. Neppure la parola di un Mosè, anzi dello stesso Figlio, non può nulla senza un'adesione personale; vale la regola che possiamo ottenere il 'riposo' promesso solo con la fede. Quando ora l'autore prosegue con le parole 'come ha detto' e ripete il passo di Ps. 95,11 = 3,II, a prima vista si ha l'impressione di una certa confusione, perché qui e fino al v. 5 non si parla più della fede. Ma evidentemente l'autore non intende fornire ulteriori prove per dimostrare che la fede è necessaria; ciò che ha detto finora lo ha chiarito a sufficienza. Egli vuole piuttosto mostrare che la fede è possibile; e lo è perché non si può dubitare dell'esistenza del riposo promesso. Egli lo dimostra con la Scrittura; quando Dio giurò che non sarebbero entrati nel suo riposo, non è che tale riposo non ci fosse ancora stato. Naturale che c'era, perché la creazione del mondo era finita da tanto tempo. E che da questo fatto si tragga a buon diritto questa conclusione, lo dimostra Gen. 2,2, certamente senza che con ciò sia messa in discussione la
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verità di Io. 5,I7. Lo stesso giuramento di Ps. 95,II =Hebr. 3,u prova l'esistenza di questo riposo, perché lo presuppone. Perché, dunque, dubitare? Il diritto della fede al riposo è certo. Ma (l'autore intuisce che stanno per domandarglielo) è tuttora valida? Certamente, rispondono i vv. 6-9. Ritorna l'idea del v. I: senza adempimento la promessa può restare impossibile. Essa non è ancora compiuta. Perché essa ora si compia, le parole di Ps. 95,7 s. =Hebr. 3,7 s., per le quali Davide era servito da strumento, si rivolgono a noi con il loro 'oggi'. Però viene avanzata un'altra obiezione: il popolo è stato portato nella terra promessa da Giosuè. No, si risponde; non si trattava del vero riposo. Altrimenti, come avrebbe potuto Davide parlare in questo modo dopo tanti secoli? Si ritorna allo stesso concetto di prima: il 'riposo' rimane come una promessa non ancora adempiuta per il popolo di Dio, cioè il vero popolo, la comunità cristiana. Ed esso è il vero sabato, il vero riposo del sabato, come dice l'autore con un'espressione conosciuta dall'esegesi giudaica del tempo, per dire la condizione :finale del mondo futuro. Un'ultima preoccupazione viene dissipata nel v. IO: Gen. 2, 2, come il passo del salmo, parla del riposo di Dio, ma non del nostro. Certamente, ci è detto, ma nel riposo di Dio riposa ogni inquietudine umana. Questo genere di dimostrazione, seguito in 4, I-IO, ha qualcosa di estraneo a noi; non perché verità religiose vengano spiegate con parole ed esempi tratti dalla Bibbia. Lo strano per noi è la naturalezza con cui la promessa della terra di Canaan è intesa come la promessa evangelica della salvezza, come se questo ne fosse il vero e proprio significato. Ancora più strano è il modo in cui la validità di questa promessa, o meglio della promessa cristiana, viene dimostrato con parole della Bibbia; specialmente con Gen. 2,2, che in realtà non ha alcun rapporto oggettivo con la promessa stessa. Infatti, che cosa ha a che fare il riposo di Dio dopo i sei giorni della creazione con la pienezza cristiana
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della salvezza? Oggi nessuno si sentirebbe autorizzato a servirsi della Bibbia per questo genere di dimostrazioni. Ma a quei tempi si pensava altrimenti, perché, a causa di una concezione statica dell'ispirazione, si vedeva la Bibbia come qualcosa di assolutamente astorico; cosa che per noi è impossibile. Eppure nemmeno noi possiamo rinunciare a interpretare l'Antico Testamento partendo dal vangelo, e a vedere inoltre nelle sue parole e nei suoi racconti un significato più profondo, allusivo del periodo neotestamentario; solo che noi non prenderemmo mai una parola staccata dal suo contesto come fa l'autore di Hebr., del resto assolutamente in linea con lo spirito del suo tempo, ma faremmo più attenzione alle linee dello sviluppo storico. Ma anche in questo senso, una 'interpretazione in profondità' dell'Antico Testamento è espressione insostituibile del fatto che la fede cristiana nella salvezza è sicura. Cambiano soltanto i modi di portare delle prove, ma l'idea sottostante conserva la sua immutabile verità. 1 1 - 1 3. Se secondo i vv. I - 1 o la promessa ha per noi una piena validità ed un significato attuale, è naturale che nel v. I I ritorni l'ammonimento del v. r. Esso si appoggia su un nuovo richiamo al destino della generazione nel deserto: come è detto letteralmente, «affinché nessuno cada in quell'esempio di disobbedienza», cioè vada in rovina (cfr. 3, I 7). Questo zelo, di cui parla il v. I I, non può essere difficile a chi abbia chiara in mente l'essenza della parola di Dio, sotto l'impressione delle precedenti affermazioni, poiché nel passo citato del salmo si tratta in primo luogo di quella parola. Le caratteristiche però che qui vengono messe in luce valgono solo per essa. Questa parola non è impotente come la parola umana; è come un essere vivente, perché Dio opera in essa. «Come egli dice, così accade». Che sia piena di vita e di forza, Israele l'ha imparato a sue spese: il giuramento si è adempiuto (cfr. 3,19); ma essa pronuncia il suo giudizio in
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base alla sua conoscenza del cuore umano, in quanto vi è di più intimo, come lascia capire la parola del salmista: «sempre errano nel loro cuore». Questa onniscienza della Parola è paragonata ad una spada affilata, addirittura a doppio taglio, che giunge a separare i legamenti più nascosti delle articolazioni del corpo umano, e addirittura della vita personale dell'uomo. Non si può affermare con sicurezza che cosa si intenda in particolare con l'azione della spada, che cosa debba essere separato; tuttavia lo scopo del paragone è chiaro, come è detto subito dopo: per la parola nulla è segreto di noi; essa conosce i punti in cui possiamo essere colpiti a morte. E noi dobbiamo rendere i conti a questo 'critico'! Quanto zelo ci vorrà, dunque, per far sì che non prendano piede nel nostro cuore sentimenti di incredulità e di disobbedienza (cfr. 3,12). A lui nulla sfugge. Parole queste di una gravità solenne, con le quali la fine del nostro brano ritorna al suo inizio. Il modo in cui in 4,12 s. si parla della parola aveva dei punti di collegamento nell'Antico Testamento; già in Is. 49,2 e Sap. 18,14 la parola di Jahvé è paragonata ad una spada tagliente e Ier. 23,29 parlava di essa come di una realtà a sé stante. In Sap. 7 ,22 la mobilità e l'onniscienza della Sapienza, che sostanzialmente non è altro che la parola di Dio ed è autonoma come questa, sono descritte in un modo sotto certi aspetti simile a quello del nostro passo. Inoltre Filone di Alessandria nella sua esegesi di Gen. I 5 ha fatto una prolissa descrizione della forza tagliente, che penetra in ogni cosa, della 'Parola', cioè del 'Logos'; ma egli pensa a funzioni logiche. In realtà Filone, nella migliore delle ipotesi, porta un contributo soltanto formale alla spiegazione del nostro passo. In sé questo passo non ha nulla di speculativo; non intende attribuire alla Parola compiti che possa avere accanto a Dio o che le siano stati commessi da Dio. Pensa soltanto alle parole della Bibbia, che sono appunto parola di Dio. Il parallelo più vicino a questo passo si trova nel modo in cui Paolo parla della Scrittura come di
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una persona che parla autonomamente (cfr. Gal. 3,8.22). Che la parola di Dio è 'viva' è detto anche in Act. 7,38 e I Petr. r,23. Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec (4,14-5,10) 14 Avendo dunque un grande sommo sacerdote, che è penetrato nei cieli, Gesù Figlio di Dio, teniamo ferma la professione di fede. 15 Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa compatire le nostre debolezze, egli che è stato tentato in tutto, a nostra somiglianza, ad eccezione del peccato. 16 Avanziamo dunque con fiducia verso il trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia per un aiuto a tempo opportuno. 1 Infatti ogni sommo sacerdote preso tra gli uomini, è costituito a favore degli uomini per i loro rapporti con Dio, affinché offra doni e sacrifici per i peccati; 2 (come uno) che possa avere commiserazione per coloro che non sanno ed errano, perché anch'egli è immerso nella debolezza. 3 Perciò deve offrire per se stesso sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. 4 Nessuno si attribuisce da sé tale onore se non è chiamato da Dio, come Aronne. 5 Così neppure il Cristo si è attribuito la gloria di diventare sommo sacerdote, ma l'ha ricevuta da colui che gli ha detto: «Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato», 6 come dice anche altrove: «Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Mekhisedee». 7 Egli, che nei giorni della sua carne, offrendo preghiere e suppliche con alte grida e lacrime a colui che poteva salvarlo dalla morte, è stato ascoltato per la sua pietà 8 e, pure essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle sue sofferenze 9 e, reso perfetto, è diventato per tutti coloro che gli obbediscono, principio di 'eterna salvezza', 10 chiamato da Dio sommo sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedee».
Il brano pone due condizioni fondamentali, alle quali il sommo sacerdote deve conformarsi: la capacità di compatire e la vocazione divina. Gesù le soddisfece ambedue. Della sua capacità di compatire era già stata fatta parola in 2,17 s., cui seguiva in 3,1 l'incitamento a comportarsi nello stesso modo. L'autore riprende queste idee (4,14-16), per mostrare in 5 ,1-3 nell'esempio del sommo sacerdote veterotestamentario che si tratta realmente di una condizione fondamentale per l'esercizio del sommo sacerdozio. Ma oltre a
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questa condizione (5,4) ce n'è un'altra, altrettanto importante: la vocazione divina, in contrapposizione ad ogni pretesa umana di esercitare un ministero. Che anche questa seconda condizione sia soddisfatta in Gesù risulta da Ps. 2,7 e Ps. lI0,4(5,5-6). Quanto lontano fosse Gesù da ogni pretesa arrogante all'esercizio del suo ministero lo prova il suo comportamento nella passione; ma proprio attraverso ad essa (cfr. 2,10) «fu reso perfetto» per diventare salvatore sacerdotale, come lo conferma Ps. l lo A ( 5, 7- IO). La formula «sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec», che si trova in questo salmo, offre all'autore lo spunto per esporre la superiorità del sommo sacerdozio di Gesù in confronto a quello levitico nei capp. 7 ss. 4,14-16. Con un 'dunque', come se finora non avesse parlato d'altro, l'autore si volge a ciò che ha detto in 2,17 s. su Gesù il sommo sacerdote, per poi ripetere subito dopo anche la conseguenza che ne aveva tratto in 3,r. Che al nome di Gesù sia aggiunto 'Figlio di Dio' non è tanto per distinguerlo dal Gesù nominato in 4,8 =Giosuè, figlio di Nun, quanto per rafforzare il sentimento di venerazione per la sublimità di questo sommo sacerdote, che proprio per questo è detto 'grande'. È nuova la notazione che egli è 'penetrato nei cieli'; allo stesso modo che il sommo sacerdote attraversa il santuario per giungere al sancta sanctorum, così Gesù attraversa i cieli per giungere al trono di Dio, dove esercita il suo ministero. Infatti la scena dell'azione sacerdotale di Gesù è il cielo. Questa idea è molto importante per il nostro autore (cfr. 6,20; 7,23-26; 8,1; 9,11; lo,12), perché essa è un tratto essenziale della superiorità del sommo sacerdozio di Gesù rispetto a quello levitico. Ma questa sublimità non intimidirà gli uomini? Egli non è troppo lontano da noi? Il v. l 5 risponde a questa preoccupazione: possiamo star saldi in lui; nonostante la sua sublimità egli ci comprende, perché ha assunto sangue e carne (2,14) ed era e-
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sposto a tutte le tentazioni a cui siamo esposti noi; naturalmente con la sola eccezione che non cedette ad esse. Questa osservazione di 4,15 sulle tentazioni subite da Gesù, con l'espressione 'in tutto', va oltre l'allusione di 2,18; non dobbiamo dunque pensare soltanto alle tipiche tentazioni messianiche (cfr. Mt. 16,22 s.; 26,39-44). L'affermazione è unica nel Nuovo Testamento; è vero che nei Vangeli non mancano del tutto allusioni a tentazioni subite da Gesù anche dopo la scena della tentazione all'inizio della sua attività pubblica (cfr. Le. 4,13: il diavolo si allontanò da Gesù «fìno ad un certo tempo»; Le. 22,28: siete rimasti con me «nelle mie tentazioni»), ma non offrono propriamente un motivo per immaginarci Gesù continuamente esposto a tentazioni. Tanto più in rilievo appare il 'senza peccato', anche se non è detto esplicitamente, come ovvio presupposto dell'essere e dell'operare di Gesù (cfr. Mt. 3,14 s. e Mt. 19,16 con la sua variante rispetto a Mc. 10,17). Già Is. 53,9 aveva parlato dell'assenza del peccato nel servo di Dio; che Gesù avesse corrisposto a questa condizione era ferma credenza di tutta la cristianità dei primi tempi. Era questa la base della spiegazione della morte di Gesù in Paolo ( 2 Cor. 5 ,2 l ), in I Petr. ( l,19; 2,22; 3,18), in Io. ( l,29; 8,46; I Io. 3,5) ,e nella stessa Hebr. (7,26; 9,14). Dunque per il nostro autore erano ugualmente importanti tanto l'assenza di peccato in Gesù, a motivo dell'esercizio del suo servizio sacerdotale davanti a Dio, quanto l'essere egli esposto alle tentazioni, a motivo della sua affinità umana a noi. Questa seconda situazione rafforza la fiducia nella sua volontà di salvezza. Ambedue ci consentono di accostarci con tanta maggiore confidenza a Dio, il cui trono - ora che il sommo sacerdote è salito a lui - è un trono della grazia, nel quale riceviamo un perdono misericordioso dei nostri peccati; una grazia che ci dà un aiuto «finché c'è ancora tempo»; lo si può intendere o nel senso dell"oggi' di 3,13 e 4,7 o di un rafforzamento della nostra debolezza di fronte alle tentazioni, cfr. 2,18. A
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Cristo, dunque, siamo debitori della comunione con Dio. Questo concorda interamente con quanto dice Rom. 5,1 s.: per mezzo di Cristo abbiamo la pace con Dio e !"accesso' alla grazia. 5,1-3.L'inizio del cap. 5 è stato inteso da molti come un rie-· pilogo, come se i vv. l-4 volessero riassumere i diversi aspetti caratteristici del sommo sacerdote, la cui presenza in Gesù verrebbe poi dimostrata ai vv. 5-10. Questo è esatto per quel che riguarda la vocazione divina (v. 4). Ma nei vv. l-3 tutto il peso grava sulla capacità di compatire del sommo sacerdote, della quale poi non si parla più (infatti il v. 7 non tratta affatto questa questione, ma esprime soltanto la umana resistenza al dolore; viceversa la capacità di Gesù di compatire è sottolineata in 4,15 con molta forza). Se 5,1 si collega con un 'infatti' a 4,15, evidentemente è perché l'autore ha sentito la necessità di giustificare la forte accentuazione da lui posta sulla capacità di Gesù di compatire; e lo fa indicando in essa uno dei tratti essenziali del sommo sacerdote veterotestamentario, che si deduce dalla sua origine e dai suoi compiti. Egli deve presentare offerte incruente e cruente per gli uomini (cioè per l'annullamento dei loro peccati), quantunque anch'egli non sia che un uomo come loro, 'immerso' nella debolezza (nel senso di 4,15) come loro, e perciò in grado di giudicare con comprensiva moderazione coloro che peccano per ignoranza e per errore. La debolezza appare proprio nel soggiacere della persona all'ignoranza ed all'errore. Solo per i peccati involontari c'era il perdono (cfr. Lev. 4,13; Num. 15,22-31; e al riguardo Act. 3,17). Ma per i peccati «a mani levate», per il rifiuto del comandamento divino, compiuto con chiara capacità di intendere e di volere, non c'era alcuna possibilità di espiazione, ma soltanto lo sterminio di Core; anche la Hebr. lo considera un caso incurabile (cfr. 6,6; 10,26). Che il sommo sacerdote veterotestamentario sia immerso nella debolezza lo conferma l'ordinamento
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sacrificale dell'Antico Testamento, che lo chiama vittima immolata per i suoi peccati. Tutti i particolari esposti in questi tre versetti sono in rapporto subordinato con il 'che possa compatire' (v. 2), che perciò nella nostra traduzione abbiamo messo in rilievo ('come uno'); a giusta ragione (dobbiamo intendere) ciò è stato sottolineato con tanta forza in 4,15. Soltanto di Gesù è detto: «senza peccato»; perciò egli non doveva offrire sacrifici per sé (cfr. 7, 2 7). 4-10. Ma c'è una seconda condizione, anch'essa essenziale; e l'autore passa a considerarla con un semplice 'e', analogamente a quanto fa in 7,23 e 9,15. Questa seconda condizione è, in contrapposizione ad ogni pretesa umana, la vocazione divina, come è confermato in Ex. 28,1 s. riguardo ad Aronne. Il diritto a compiere tale servizio davanti a Dio può essere dato soltanto da Dio stesso. Che l'autore ora passi a trattare di questo argomento, può essergli stato suggerito dal fatto che Cristo non discende da Aronne. Si è forse arrogato il diritto di compiere questo servizio? Contrariamente a quanto fa con il tema della compassione, questa volta l'autore dà la prova che Cristo soddisfa questa regola; è strano però che, a conferma della vocazione divina di Gesù, egli si richiami innanzi tutto a Ps. 2,7 (cfr. 1,5), che non parla affatto di sacerdozio. Ma sembra che l'autore veda indirettamente nel riconoscimento come 'Figlio' un conferimento del sommo sacerdozio a Gesù: come tale, Gesù è fatto idoneo e chiamato ad esercitare questo ministero davanti al trono di Dio. Nella successiva citazione di Ps. IIO, che abbiamo già incontrato nel cap. l come salmo messianico, questa vocazione divina trova espressione anche formale. Benché sia vero che anche qui il Cristo non è chiamato proprio sommo sacerdote, ma semplicemente sacerdote, tuttavia questo sacerdozio è talmente speciale che l'anzidetta differenza può essere considerata senza importanza: infatti esso esiste senza limiti temporali, e per la sua origine non è 'se-
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condo l'ordine' di Aronne, la cui dignità poteva essere trasferita soltanto ai suoi discendenti; esso è al modo del misterioso re-sacerdote Melchisedec (Gen. 14,18) che, dato che era re, se già sacerdote lo si può immaginare soltanto come supremo 'sacerdote dell'altissimo Dio'. Che importanza ha questo sacerdozio secondo 'l'ordine' o 'al modo' di Melchisedec verrà spiegato diffusamente più avanti (cap. 7 ); per il momento è sufficiente il fatto che Dio abbia chiamato così Gesù. Con ciò è detto già che Gesù non ha estorto il posto d'onore; il suo comportamento durante la sua esistenza terrena dimostra, piuttosto, che egli si è opposto con la massima energia al conferimento di questa dignità. Infatti egli elevò con tutti i segni della più profonda commozione (anche questo è una specie di sacrificio) le sue fervide preghiere a colui che solo poteva salvarlo dalla morte, che pure aveva deciso e doveva decidere di «renderlo perfetto attraverso alle sofferenze,> ( 2, ro), cioè di condurlo al sommo sacerdozio. Qui evidentemente si pensa alla scena del Gethsemani (i termini 'gridare' e 'ascoltare' sono di Ps. 22,25). Se nei racconti evangelici non si parla esplicitamente di 'alte grida' e 'lacrime' di Gesù, questi tratti corrispondono all'idea che ci si fa della scena, soprattutto a quella rappresentata in Mc. 14,33. Essa mostra dunque quanto Gesù fosse lontano dall'attribuirsi l"onore' del sommo sacerdozio, che comportava il sacrificio; anzi, egli lo temeva, fu liberato dal timore soltanto nella preghiera (Le. 22,43) e dovette imparare l'obbedienza solamente 'dalle sofferenze'. Certamente egli era 'Figlio' e in quanto tale deciso ad obbedire; ma l'incarico di diventare sacerdote era così gravoso che, nella lotta con il dolore, dovette passo a passo 'imparare' l'obbedienza, conquistarla in ogni momento. Questo atteggiamento di obbedienza giunse al suo culmine nella morte sulla croce. In tal modo alla fine fu reso 'perfetto', espressione che non si riferisce alla sua perfezione morale e neppure alla sua elevazione nella gloria, ma al fatto che soltanto per questa via poteva
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'giungere alla meta' di sommo sacerdote per tutti coloro che lo obbediscono (l'autore nuovamente leva il dito ammonitore), causa di eterna salvezza, come Dio stesso ha riconosciuto in Ps. l I0,4. E così torniamo al tema iniziale, la cui trattazione è per l'autore altrettanto difficile quanto importante. Per questo motivo, prima di affrontare finalmente il tema, egli dedica ancora un brano ad un nuovo ammonimento, fatto con la massima energia: 5,11-6,20. Il brano testé trattato, specialmente 5 ,7 s., ha dato occasione a discussioni sulla evo 1u zio ne mo r a 1e di G e s ù secondo la Hebr. L'esegesi ha già rilevato che il termine 'perfezione' in 5 ,9 in ogni caso non va inteso come conclusione di un'evoluzione 'morale-religiosa', al termine della quale si consegue una personalità matura. Ma, anche se l'obbedienza a Dio come tratto fondamentale del comportamento di Gesù si incontra a sufficienza nel Nuovo Testamento (cfr. specialmente Paolo: Phil. 2,8; Rom. 5,19; ma anche Io. 4,34; ro,18) e anche se Paolo sottolinea in modo particolare l'obbedienza mantenuta nelle sofferenze della morte, in nessun punto del Nuovo Testamento viene espresso con tanta intensità come in Hebr. che anche per Gesù questo atteggiamento non è stato una cosa ovvia; che anzi la persistenza in esso è stata possibile soltanto con una continua tensione morale. E mai, come qui all'infuori della scena del Gethsemani, si sente con tanta forza quanto gli fu difficile rendersi disponibile al sacrificio, superando l'impulso naturale alla vita. Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile ed esortazione a sperare con piena fiducia ( 5,n-6,20) A questo riguardo avremmo molte cose da dirvi, ma difficili da spiegarvi, perché siete diventati tardi a capire. 12 Infatti, mentre con il tempo avreste dovuto diventare dei maestri, avete bisogno che vi si insegnino di nuovo i primi elementi delle parole di Dio, e siete giunti al punto di avere bisogno di latte e non di cibi solidi. 13 E 11
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chi è ancora al latte non può ancora capire nulla del parlare normale, perché è un bambino. 14 I cibi solidi, invece, sono per coloro che sono maturi e, per l'abitudine, hanno i sensi esercitati a discernere il buono dal cattivo. 1 Perciò, lasciando da parte la dottrina elementare su Cristo, tendiamo a ciò che è maturo, senza tornare sull'insegnamento fondamentale del pentimento dalle opere morte e della fede in Dio, 2 della dottrina sui battesimi, dell'imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno. 3 E lo faremo, se Dio lo permetterà. 4 Infatti è impossibile che coloro che sono stati illuminati una volta, che hanno pure gustato il dono celeste e sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo, 5 che hanno assaporato la buona parola di Dio e le forze del mondo venturo, 6 e che tuttavia sono caduti, siano rinnovati un'altra volta a penitenza, giacché crocifiggono di nuovo per conto loro ed espongono al ludibrio il Figlio di Dio. 7 Infatti la terra che beve l'acqua che cade spesso su di essa e che produce piante utili a coloro per i quali è coltivata, partecipa della benedizione di Dio; 8 ma quella che dà 'spine e rovi' è riprovata e prossima a essere 'maledetta', e la sua fine è il fuoco. 9 Quanto a voi, carissimi, anche se vi parliamo cosi, confidiamo che le cose vadano meglio e che siate più prossimi alla salvezza. 10 Infatti Dio non è ingiusto, da dimenticarsi dell'opera vostra e dell'amore di cui avete dato prova verso il suo nome, voi che avete servito e servite i santi. 11 Ma desideriamo ardentemente che ognuno di voi mostri la stessa sollecitudine per il pieno compimento della speranza fino alla fine, 12 per non diventare pigri, ma imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza ereditano le promesse. 13 Poiché quando Dio fece la promessa ad Abramo, non avendo nessuno più grande (di lui) per cui giurare, «giurò per se stesso» 14 dicendo: «certamente io ti colmerò di benedizione e ti moltiplicherò», 15 e così, avendo atteso pazientemente, ha ottenuto il compimento della promessa. 16 Gli uomini giurano per uno più grande di loro, e la garanzia del giuramento pone fine ad ogni controversia fra di loro. 17 Perciò Dio, volendo mostrare agli eredi della promessa l'immutabilità della sua decisione, s'impegnò con giuramento, 18 affinché con due realtà immutabili, nelle quali è impossibile che Dio menta, abbiamo un forte incoraggiamento, noi che abbiamo trovato il nostro rifugio nell'afferrarci alla speranza che ci è offerta. 19 In essa abbiamo come un'ancora dell' anima, sicura e ferma, e che «penetra all'interno del velo», 20 dove è entrato per noi come precursore Gesù, diventato «in eterno» sommo sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedec».
Le due parti in cui si divide questo brano di prassi pasto-
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rale hanno un tono totalmente diverso l'una dall'altra. La prima (5,II-6,8) è piena di accuse e termina con la minaccia di un giudizio severo; la seconda ( 6,9-20) si rinfranca in una gioiosa e fiduciosa speranza. Le accuse sono dovute all'immaturità spirituale in cui i lettori si sono venuti a trovare per loro colpa, e che potrebbe far dubitare se possa servire a qualcosa la spiegazione di ciò che significa il sommo sacerdozio di Gesù secondo l'ordine di Melchisedec ( 5, l r -I4). Ma - ne consegue l'autore - proprio perché si tratta di una condizione, della quale i destinatari della Lettera hanno la colpa, vale la pena di cercare di portarli attraverso alle verità elementari ad una conoscenza matura? ( 6, r. 3 ). Oppure questo ammonimento è già inutile? Perché se uno, nonostante la grazia che gli è stata data, cade, non c'è più nulla da fare; è entrato nelle file dei nemici di Cristo ( 6,4-8 ). Tuttavia l'autore nutre fiducia che questa caduta irreparabile per i lettori non sia avvenuta, né avverrà; la giustizia di Dio non lo consentirà, in considerazione della zelo di carità, di cui hanno dato prova (vv. 9.10). Ma ora allo zelo di carità si deve aggiungere in pari misura un'incrollabile speranza (vv. lr.12). Ciò dovrebbe essere possibile tanto più facilmente in quanto abbiamo in Abramo un provato modello, il massimo appoggio nella parola e nel giuramento di Dio, ed in Gesù un precursore che è un efficace sommo sacerdote per noi nel luogo celeste della compiuta speranza ( vv. l 3-20 ). 5,u-6,8. Ora che è giunto al tema principale della Lettera, l'autore è incerto se debba, o meno, cominciarne la trattazione. Essa non si può esaurire con poche frasi, e lo dimostrerà dedicandole poi tre capitoli e mezzo (7,1-10,18). Inoltre si domanda se riuscirà a spiegare quello che intende dire. Il compito appare difficile; però per lui la difficoltà non consiste tanto nei concetti da spiegare quanto nella condizione dei lettori, che piuttosto bruscamente chiama spiritualmente tardi a capire. Non sempre lo erano stati, ma lo
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sono diventati dopo, e ciò aggrava l'accusa loro rivolta. Già 3,7 ss. prova che per loro era già passato troppo tempo senza che si compisse la salvezza; sono delusi, e perciò diventano indifferenti e sordi. Questo appare specialmente nella discussione del significato della passione e della morte di Gesù, che per loro è motivo di scandalo ( cfr. 2, ro ss.). Ma non è una situazione naturale; già da tempo sono cristiani e dovrebbero aver progredito al punto da poter insegnare ad altri. Questa pretesa dell'autore va molto al di là della capacità (di cui parla I Petr. 3,15; cfr. Col. 4,6) di dare in ogni momento spiegazioni sul fondamento della speranza dei cristiani. Forse la Lettera è diretta ad un gruppo ristretto in una comunità locale, cui si potrebbero avanzare maggiori esigenze? Ma l'autore poteva anche, in uno scritto indirizzato a tutta quanta la comunità, parlare a questo modo, se aveva in mente soprattutto il gruppo di persone chiamate a dirigere la comunità. Comunque sia, i lettori deludono, perché non hanno fatto alcun progresso spirituale; sono come dei principianti nel campo delle conoscenze cristiane, ai quali si debbano dare le nozioni più elementari, elencate in 6,1 s. Peggio ancora, sono ritornati poppanti, ai quali si può dare soltanto latte facilmente digeribile, perché non possono sopportare un'alimentazione solida. Anche nei vv. 13 s. l'autore ripete l'immagine, allora corrente, ma (dato che si tratta di insegnamenti) alla figura del cibo nel v. l 3 sostituisce quella della dottrina (o linguaggio), in quanto ritiene i lettori incapaci di fare 'discorsi normali', come quelli che usano fare gli adulti e li considera incapaci a capire come i bambini. L'espressione che abbiamo tradotto con 'parlare normale' nella traduzione di Lutero è resa alla lettera con 'parola della giustizia'. Alcuni esegeti la interpretano nel senso del vangelo, dato che questo (tanto più secondo Paolo) tratta della giustizia. Ma se l'autore chiama i lettori principianti e bambini, non può voler loro attribuire la capacità di comprendere il vangelo, come Paolo in I Cor. 3,1 ss. la nega ai Corinti.
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Egli vuol dire soltanto che fa loro difetto la capacità ad una comprensione più profonda, come quella che debbono avere gli adulti (v. 14), intendendo parlare della dottrina del sommo sacerdozio di Cristo. Essa viene paragonata al linguaggio degli adulti, al 'parlare normale', in contrapposizione al balbettio dei bambini piccoli; oppure, tornando all'immagine del cibo, all'alimentazione solida degli adulti. Perché essa la si può dare a questi, e soltanto a questi, lo dice il v. qb. Cibi solidi ce ne sono molti, e non tutti hanno lo stesso valore nutritivo o fanno bene alla salute; chi fa uso di essi deve fare una scelta, cui servono i sensi, che però hanno bisogno di essere tenuti in esercizio; e questo si può avere soltanto quando si è raggiunta l'età necessaria, cioè quando si è 'adulti'. Così si sposta sensibilmente l'idea che dominava :fin qui il paragone tra la dottrina più profonda e il nutrimento con cibi solidi; finora infatti si trattava della difficile digeribilità di ogni cibo solido, ora invece si dice che oltre al nutrimento adatto ce n'è anche di quello nocivo, addirittura di velenoso. Fuori metafora ciò significherebbe: oltre agli insegnamenti che fanno progredire gli uomini che sono giunti alla maturità spirituale, ci sono anche le dottrine eretiche; dunque state bene attenti! Ma questa è manifestamente un'idea che nasce spontaneamente dall'immagine generale, e che non è più discussa, quantunque in 1 3 ,9 si metta in guardia da dottrine non autentiche. Da lungo tempo i lettori dovrebbero essere diventati persone adulte, che sopportano l'alimentazione solida di un insegnamento approfondito. Secondo il tempo che è trascorso, lo sono; ma non lo sono sotto l'aspetto del loro sviluppo spirituale. La conseguenza che ne trae l'autore è sorprendente. Infatti, invece di tener conto del bisogno accertato in 5,12, egli dichiara di voler fare 'perciò' proprio il contrario. 'Perciò', perché per loro colpa non sono ancora pervenuti alla maturità spirituale, egli li esorta a camminare insieme a lui verso questa meta; infatti, abbandonando la forma rude del rimprovero
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in 5, l l- l 4, ora egli include anche se stesso fra coloro che sono oggetto dell'esortazione (cfr. 2,1; 3,6; 4,n-16). Non lascia ancora cadere del tutto l'immagine della contrapposizione tra bambini e adulti, che riecheggia nell'espressione 'maturità' (solitamente tradotta: 'perfezione'); ma nella parola 'tendiamo' appaiono chiari i limiti che ora sono posti all'immagine. Infatti, il fatto di maturare nella natura è condizionato solo organicamente, e non anche moralmente; nella vita personale, e specialmente in quella religiosa, non v'è maturazione senza una decisione personale, cioè morale. La crescita religiosa non è una cosa naturale; donde l'esortazione della Lettera. Per 'maturità' si può intendere secondo il contesto soltanto la matura conoscenza della verità più profonda, quale si conviene ad 'adulti', e soprattutto la dottrina del sommo sacerdozio di Cristo. In contrapposizione ad essa la Lettera enumera le verità elementari, che sono dette con una nuova immagine le fondamenta di un edificio, sulle quali finalmente si può iniziare la costruzione. Questo fondamento è costituito da tre gruppi di due verità ciascuno; le prime due definiscono in senso positivo e negativo il nuovo atteggiamento interiore dell'uomo; le seconde (battesimo e imposizione delle mani) l'avvenimento esteriore con il quale si diventa membri della comunità; le ultime il punto finale escatologico della vita cristiana. L'espressione 'opere morte' non va intesa nel senso della esteriore giustificazione per le opere; anche il giudeo diventato cristiano, nella penitenza non doveva allontanarsi soltanto da esse. In 9,14 la stessa espressione significa genericamente i peccati dai quali dev'essere purificata la coscienza. In 4Bsdr. 7,119 si parla di 'opere della morte' con lo stesso significato. Tutta l'opera dell'uomo è peccatrice, lontana dal 'Dio vivo' e perciò è morta e porta alla morte. 'La dottrina dei battesimi' (al plurale) dovrebbe mettere in rilievo la differenza esistente tra vari battesimi, forse tra quello cristiano e iI battesimo giudaico dei proseliti ed usanze simili in altri culti. L'espressione 'im-
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posizione delle mani' nel testo ongmario grammaticalmente è strettamente unita al battesimo, per cui non si deve pensare all'imposizione delle mani nell' 'ordinazione' (I Tim. 4,r4; 5,22; Act. 6,6; r3,3) o nelle guarigioni (Act. 9,I2), ma a quella che veniva fatta durante il battesimo (Act. 19,5 s.; 8,18). L'autore della Lettera sembra presupporre nei nuovi ammessi alla comunità una solida conoscenza dei principi elementari, fra i quali sopratutto i sei qui elencati. Certamente è strano che in questa elencazione non si parli affatto di Cristo; ma poiché ciò è naturalmente inammissibile, si deve dedurne che l'elemento specificamente 'cristiano' è implicito in tutti e sei i punti elencati. Perciò questa enumerazione non esclude affatto la possibilità che i destinatari della Lettera provenissero dal giudaismo; è vero che i giudei sapevano della fede in Dio, della risurrezione e del giudizio; ma anch'essi, come i pagani, quando diventavano cristiani, avevano bisogno di essere istruiti anche su queste questioni, perché ognuna di esse, dal punto di vista cristiano, assumeva un volto totalmente nuovo. Si rende più facile la comprensione del v. 3 se si mette tra parentesi tutto quanto va da «tendiamo a ciò che è ma turo» al v. l fino alla fine del v. 2 . La possibilità per l'autore di giungere insieme ai suoi lettori alla maturità della conoscenza più profonda della verità non dipende dal suo e loro proposito, ma soltanto «se Dio lo permette». Il fatto che il maestro e pastore, come la comunità alla quale si rivolge, abbia presente questo condizionamento del risultato della sua opera, non diminuisce la coscienza della sua responsabilità, ma al contrario la accresce. Questo permesso di Dio non è così ovvio come si potrebbe pensare; è sperabile che la sua pazienza non si sia ancora esaurita; è sperabile che si sia ancora in tempo. È troppo tardi se si è già caduti, nonostante la ricchezza spirituale ricevuta. I vv. 4 s. hanno lo scopo di descrivere questa ricchezza. Con l' 'illuminazione' non si deve pensare genericamente (si dica lo stesso di ro,32) alla conoscenza cristiana
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della salvezza (cfr. 2 Cor. 4,6; Eph. r,r8; I Petr. 2,9), ma ad un avvenimento irripetibile che era stato particolarmente importante per questa conoscenza, cioè al battesimo, per esprimere il quale l'espressione 'illuminazione' diventò ben presto usuale (si veda per la prima volta in Giustino); a ciò si adatta bene l'accenno, che viene subito dopo, al ricevimento del 'dono celeste' dello Spirito Santo, che secondo gli Atti degli Apostoli avveniva regolarmente durante il battesimo. I cristiani ricevono la prima caparra del futuro mondo celeste (cfr. Rom. 8,23; 2 Cor. r,22; 5,5; Eph. r,14); di questi doni celesti fanno parte anche le forze miracolose operanti nella comunità (cfr. 2 A), per così dire i segni precursori del mondo futuro in quello attuale. La 'buona parola di Dio' è il messaggio salvifico del vangelo, che essi assaporano, insieme a tutte le 'forze' che accompagnano la predicazione, come un cibo gustoso e nutriente. Per chi distoglie lo sguardo da doni tanto ricchi dimostrando di non apprezzarli, non c'è nulla da fare. Non v'è nulla di più alto che potesse essergli offerto; come si potrebbe dunque indurlo a pentirsi? Ciò è tanto meno possibile in quanto con il proprio comportamento esprime la convinzione che il Figlio di Dio sia stato giustamente appeso alla vergogna della croce. Egli prende partito per gli uccisori di Gesù. Quale fine lo aspetti lo dice il paragone con il campo che, per quanto sia stato coltivato e abbia ricevuto la pioggia, dà soltanto spine e cardi: la fine è il fuoco del giudizio. Questo soltanto è il punto di paragone. Invece passa inosservato il fatto che ad essere buttato 'nel fuoco' non sia il campo bagnato dalla pioggia, ma l'inutile sterpaglia che è cresciuta su di esso. Ma non bisogna far troppo caso a questa discordanza; in generale immagini simili non si possono interpretare fin nei particolari. Ciò che l'autore vuol dire è che il dono divino che resta senza frutti, che anzi produce soltanto erbe spinose, si cambia in maledizione. I cristiani che cadono sono perduti. (Nell'espressione «coloro per i quali è coltivata» si vede a quali situazioni agrarie pensi l'au-
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tore: economia latifondista con impiego di masse di schiavi). Per una retta comprensione di questo passo tanto discusso sulla caduta irreparabile, è necessario notare prima di tutto che esso non parla di singoli peccati particolarmente gravi come i cosiddetti peccati mortali della teologia medievale, per i quali la disciplina della chiesa indica la via della penitenza. Non si tratta qui di 'cadere' in singoli peccati, ma della caduta vera e propria, della rinuncia a credere e a comportarsi di conseguenza (con questo non si nega che tale caduta possa manifestarsi nel comportamento anche di fronte a questioni singole, cfr. I Io. 5,16 e comm. a Hebr. ro,26 r2,r6). Questo è il pericolo che corrono i lettori, al quale si oppone tutta la Lettera; anche I Tim. r, r 9 parla di un naufragio nella fede. Cfr. le vergini stolte di Mt. 25,r-r2. C'è ancora modo di tornare indietro? L'autore della Lettera non lo crede, non solo per motivi psicologici ma anche per motivi teologici. L'incapacità soggettiva a una nuova penitenza è un'impossibilità oggettiva della stessa. In essa si compie un giudizio divino ( cfr. Rom. 9 ). Questa è l'ultima conseguenza dell'abbandonarsi ad una ottusa indifferenza. Colpa e giudizio si includono a vicenda e del resto non sono separabili nel peccato umano, cfr. Rom. r. Ma proprio da questo sguardo nell'abisso l'ammonimento dell'autore riceve il carattere di un'estrema, conturbante severità. E proprio questo è il suo scopo. Il passo non ha a che fare con persone agitate da preoccupazioni sul loro destino salvifico, piuttosto mira ad arginare l'ottusità religiosa e la propensione a sottrarsi ad una chiara e ferma decisione riguardo all'esortazione che ora viene fatta, bisogna mettere un freno! Adesso il tono cambia, 'Carissimi' l'autore chiama i lettori, per la prima e l'ultima volta in tutta la Lettera. È l'ansietà dell'amore pastorale (dr. r3,r7) che lo ha indotto ad additare con tanta severità l'enormità del pericolo che corrono. Egli ha voluto infondere loro un salutare spavento. Ma egli è 9-20.
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ancora fiducioso che le cose vadano meglio con essi, cioè la benedizione secondo il v. 7 e non la maledizione secondo il v. 8. Ma questa fiducia non si basa sulla loro capacità di resistenza (che si sa disgraziatamente fin troppo debole), ma sulla giustizia di Dio. L'autore sa che essi con i fatti hanno dato prova di amore verso il nome di Dio, servendo i santi che sono di Dio, cioè i cristiani, e che continuano a farlo. Un esempio di tale servizio è la colletta di Paolo per i 'santi' di Gerusalemme (Rom. 15,31); ma questo è soltanto un esempio e di che cosa qui si tratti non lo sappiamo. L'accento posto sul fatto che il servizio di amore è stato compiuto verso il nome di Dio sta forse ad indicare che i cristiani oggetto di tale servizio si trovavano in difficoltà a causa della loro confessione di Dio, cioè erano perseguitati per tale motivo. In ogni caso dev'essersi trattato di prestazioni particolarmente notevoli (che una comunità così povera come quella di Gerusalemme non sarebbe stata in grado di offrire). Dio non lo può dimenticare. Ciò non va inteso nel senso comune di 'ricompensa'; la 'ricompensa' consiste nel fatto che egli non permette che essi si guastino nel pericolo dell'apostasia. Se guardasse soltanto alla fiacchezza della loro fede e della loro speranza, sarebbe peggio; ma essi sono zelanti delle opere di amore, e Dio vuole venire in loro aiuto. Ciò non ha niente a che fare con la giustificazione per le opere; ma c'è qualcosa di consolante nell'idea generosa che Dio, anche quando la fede e la speranza sono fiacche, attribuisce tanto valore all'esercizio della carità da non abbandonare gli uomini al loro destino (cfr. I Petr. 4,8; I Io. 3,18 s.). Tuttavia questa condizione è sempre imperfetta e non può durare a lungo. Donde l'esigenza che ogni membro della comunità, e non soltanto alcuni di essi, con lo stesso zelo di cui danno prova nelle opere di carità si abbandonino alla gioiosa confidenza della speranza. E questa non dev'essere un passeggero impulso sentimentale, ma dev'essere continua fino alla fine. Se essi non compiono questo sforzo, finiranno per cadere in uno stato di ottusità dello spirito, che li
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porterà alla rovina. Pensate soltanto agli esempi dell'Antico Testamento che mostrano come solo con la fede e la pazienza (questi due concetti per Hebr. sono inseparabili da quello di speranza), ma con esse realmente, 'ereditate la promessa', cioè diventate partecipi del suo adempimento. Il più famoso di questi modelli è Abramo. Il v. 15 prova che egli è citato a conferma della verità del v. 12. La promessa è quella di Gen. 12,1 s.; 15,5; 22,16 s. secondo cui Abramo, benedetto da Dio, deve essere il capostipite di un grande popolo. Passò molto tempo prima che ciò avvenisse, e anche quando finalmente gli nacque Isacco non era stata soddisfatta che la prima condizione della promessa. Ma infine egli ne ottenne il totale adempimento: Israele diventò un grande popolo, non durante i suoi giorni trascorsi sulla terra, è vero, ma egli è presso Dio e vede ciò che avviene sulla terra (cfr. Io. 8,56; Le. 16,22). Ma nel momento in cui nomina Abramo, l'autore si ricorda di una particolare circostanza che rese possibile la perseveranza di Abramo: il giuramento con il quale Dio, dopo l'offerta sacrificale di Isacco, confermò la promessa già fattagli precedentemente (Gen. 22,16 s.). I versetti seguenti si soffermano su questa circostanza, per spiegarla mediante l'analogia dei rapporti umani. Il senso del giuramento (nel quale, contrariamente a Iac. 5,12, l'autore chiaramente non vede motivo di scandalo) è il ricorso ad una, o meglio alla più alta potenza, cioè Dio, quale garante dell'affermazione umana. Su questo punto l'analogia non è del tutto esatta, poiché non c'è una potenza più alta di Dio; tuttavia l'analogia vale nella misura in cui anch'egli si serve del giuramento a garanzia della sua parola, cioè della promessa. Quasi inavvertitamente, ma perciò tanto più significativamente per il modo con cui è utilizzata la Scrittura, con l'espressione 'agli eredi della promessa' (cioè la promessa della benedizione del popolo fatta ad Abramo), in tutta la frase è sottinteso un significato cristiano. Perché questi 'eredi' siamo 'noi', i cristiani, e la promessa è equipara-
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ta alla 'speranza che ci è offerta': quella speranza nella quale i cristiani si devono rifugiare, dopo aver rinunciato a ogni altra cosa. Lo scopo di darci un 'forte incoraggiamento' facendoci balenare davanti agli occhi il bene di questa speranza, Dio poteva conseguirlo tanto più sicuramente in quanto adesso questa assicurazione poggiava su un duplice fondamento: quello della promessa (Gen. 12,1 s.; 15,5) e quello del giuramento (Gen. 2 2) (a prescindere dal fatto che a proposito di Dio non si può parlare né di menzogna né di violazione alla parola data, Num. 23,19). La particolare insistenza sulle 'due cose' dovrebbe ricollegarsi alla disposizione che esigeva come minimo due testimoni per dare credibilità ad una deposizione resa in giudizio (Deut. 19,15, cfr. Mt. 18, l 6; 2 Cor. l 3 ,1; I Tim. 5 ,19 ). Certamente anche questa è una dimostrazione che per molti aspetti ricorda Filone di Alessandria, e ha in sé qualcosa del metodo seguito dai rabbini e dagli scribi, perché in ultima analisi tutto è fondato sulla veracità, o fedeltà alla parola data, di Dio. Ma questa speranza garantita da Dio, in cui il cristiano confida, ha per la sua anima la stessa importanza che ha un'ancora sicura per la nave minacciata da onde tempestose: non si strappa, la corrente non la trascina; essa affonda in un terreno inaccessibile a tutte le tempeste. Anche se la difficoltà e le tempeste della vita possono sballottare qua e là la navicella dell'anima, non possono però averne ragione. Essa, infatti, è 'ancorata' all'interno del velo. L'autore a questo punto abbandona questa immagine icastica, nota anche alla letteratura antica non cristiana e fatta propria dal simbolismo cristiano, per volgersi con un ardito passaggio ad un altro ordine di idee, che gli consente di riprendere il tema del sommo sacerdozio di Gesù. Il santo dei santi di cui parla, è il cielo; là, dietro al velo, è entrato Gesù, e non lo si vede più. Ma al di là del velo egli esercita il suo ministero per noi, come il sommo sacerdote giudaico nel santo dei santi dell'arca dell'alleanza, come dice Ps. l I0,4 «secondo l'ordine di Melchi-
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sedec». Però, definendo Gesù anche come il nostro 'precursore', l'autore va già oltre le idee cultuali veterotestamentarie; infatti a nessun israelita sarebbe potuta venire l'idea di seguire il sommo sacerdote fin nel santo dei santi. Invece, l'effetto del servizio sacerdotale di Cristo è proprio che anche 'noi' possiamo entrare nel santuario celeste, nella comunione di Dio.
PARTE SECONDA ESPOSIZIONE ( 7,r-rn,18)
A La superiorità della posizione di Gesù come sommo sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedec» in confronto al sacerdozio levitico ( 7,r-28)
Infatti questo «Melchisedec, re di Salem, sacerdote del Dio Altissimo, andò incontro ad Abramo, che tornava dalla sconfitta dei re, e lo benedì». 2 E Abramo gli diede «la decima parte di tutto» (quello che aveva preso come bottino). Se si traduce il suo nome, anzitutto egli è re della giustizia, ma poi anche «te di Salem», cioè re della pace. 3 Senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio dei suoi giorni come pure senza fine della sua vita, assimilato al figlio di Dio, egli rimane sacerdote in eterno. 4 Considerate dunque come è grande costui al quale «il patriarca Abramo diede la decima parte del meglio del bottino». 5 Certamente anche quelli fra i discendenti di Levi che assumono il sacerdozio, hanno l'ordine secondo la legge di riscuotere la decima dal popolo, cioè dai loro fratelli, quantunque anche questi siano usciti dai lombi di Abramo. 6 Ma quegli, che secondo la genealogia non è dei loro, ha riscosso la decima da Abramo e ha benedetto colui che aveva la promessa. 7 Ora, nessuno dubita che è l'inferiore ad essere benedetto dal superiore. 8 Inoltre, qui sono uomini mortali che ricevono la decima, là invece uno di cui si attesta che vive. 9 E anche Levi, che riceve la decima, è stato per così dire sottoposto alla decima nella persona di Abramo; 10 infatti era ancora nei lombi del suo antenato quando «Melchisedec gli andò incontro». 11 Se dunque ci fosse stata la perfezione nel sacerdozio levitico (perché per questo scopo il popolo ha ricevuto la legge), che bisogno c'era che si oresentasse un altro sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedec», e· che non fosse detto secondo l'ordine di Aronne? 12 (Di fatto, mutato il sacerdozio, è necessario che ci sia anche un mutamento di legge. 13 Poiché colui al quale si riferiscono queste parole [Ps. II0,4] è di un'altra tribù, di cui nessun membro ha mai servito 1
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all'altare. È noto infatti che nostro Signore discende da Giuda, tribù di cui Mosè non ha detto nulla parlando di sacerdoti. 15 E ciò diventa ancora più evidente se, a somiglianza di Mekhisedec, viene costituito un altro sacerdote 16 che non lo è diventato secondo la legge di una prescrizione (di discendenza) carnale ma secondo la forza di una vita indistruttibile. 17 Di fatto di lui si attesta: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedec». 18 Perciò da un lato è abrogata la precedente prescrizione per la sua debolezza e inutilità - 19 perché la legge non ha portato nulla a perfezione - e dall'altro è introdotta una speranza migliore, per la quale ci avviciniamo a Dio. 20 E poiché ciò non è avvenuto senza giuramento - gli altri infatti sono divenuti sacerdoti senza giuramento, 21 ma questi con giuramento da parte di colui che gli dice: «Il Signore ha giurato e non se ne pentirà: tu sei sacerdote in eterno» - 22 proprio per questo Gesù è divenuto garante di una alleanza migliore. 23 Inoltre gli altri sono divenuti sacerdoti in gran numero perché la morte impediva loro di durare (in carica); 24 ma questi, poiché resta in eterno, ha un sacerdozio imperituro (che non si trasmette mai ad un altro). 25 Perciò può anche salvare per sempre coloro che per mezzo di lui avanzano verso Dio, perché è per sempre vivente per intercedere per essi. 26 Tale infatti è il sommo sacerdote che ci voleva per noi, santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori ed innalzato al di sopra dei cieli, 27 che non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire ogni giorno sacrifici, prima per le sue colpe e poi per quelle del popolo; questo egli lo ha fatto una volta per tutte offrendo se stesso. 28 La legge infatti costituisce sacerdoti uomini soggetti alla debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla legge, costituisce il Figlio, che è perfetto in eterno. 14
Contenuto e articolazione del brano. Nel cap. 7 l'autore si serve del concetto di sommo sacerdozio secondo l'ordine di Melchisedec, sul quale era ritornato in 6,20, per dimostrare l'incomparabile superiorità della posizione di Gesù come sommo sacerdote sul sacerdozio levitico dell'ordinamento cultuale veterotestamentario. Più oltre non va il significato del riferimento a Melchisedec, di cui il cap. 7 non si occuperà più. Più tardi il movimento gnostico si è impadronito anche di questa figura; ma l'influenza di vere e proprie speculazioni gnostiche sulla Lettera agli Ebrei, che non è assolutamente gnostica in tutta la sua problematica religiosa, è
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per il momento troppo improbabile perché si possa servirsene a fini esegetici. La Lettera utilizza soltanto il testo biblico, e l'intera dimostrazione si basa su Ps. l I0,4 e sul riferimento a Gesù del passo, interpretato in senso messianico (cfr. sopra a l,3): la vocazione di Gesù a sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec da parte di Dio ha luogo nel passo del salmo. Ciò non è dimostrato, è dato per ammesso dall'autore. Con l'assoluta sicurezza della sua convinzione cristiana l'autore, qui come dappertutto, mette al suo servizio l'Antico Testamento; inoltre, la dimostrazione data in questo brano, come in quelli che seguono, poggia interamente sulla vitalità della concezione veterotestamentaria del sacerdote. Che cosa significhi in confronto ad essa il sommo sacerdozio secondo l'ordine di Melchisedec è l'oggetto del cap. 7; a tal fine l'autore inizia con l'enumerazione di quei tratti che gli sembrano degni di nota nel racconto di Gen.14,17-20 su Melchisedec, dove quello che è taciuto è per Lui altrettanto importante di ciò che vi è detto (vv. l-3). Quindi egli passa ad esporre ciò che se ne deve dedurre sulla grandezza della posizione di questo enigmatico re-sacerdote in confronto al sacerdozio della tribù di Levi ( vv. 4-ro ). Finora si era parlato soltanto dello stesso Melchisedec; ora l'autore volge la sua attenzione al significato della vocazione di Gesù a sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec. Se infatti (come è avvenuto) in Ps. ll0,4 è costituito un altro sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec, è implicito in questo fatto un giudizio negativo, ma fin troppo giustificato, del sacerdozio levitico e, nel contempo, dell'intero ordinamento della legge veterotestamentaria che si basava su tale sacerdozio, giacché il nuovo sacerdote costituito da Dio è del tutto estraneo a quell'ordinamento (vv. 11-19). La superiorità del nuovo sacerdote appare positivamente nel fatto che, grazie al giuramento con cui fu costituito secondo Ps. II0,4, egli è garante di un nuovo patto, più saldo (vv. 20-22), e che esercita il suo ministero non per un breve periodo di tempo, come
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quei sacerdoti mortali, ma in eterno (vv. 23-25). Ma proprio per questo egli prova la sua attitudine ad essere quel sommo sacerdote di cui noi abbiamo bisogno (vv. 26-28). r-ro. Il re-sacerdote Melchisedec. Le notizie riguardanti Melchisedec provengono da Gen. 14, dove si racconta come Abramo abbia salvato con un colpo di mano suo nipote Lot dalla violenza di Chedorlaomer, re di Elam, e dei suoi alleati. Questo capitolo ha suggerito agli esegeti dell'Antico Testamento di avanzare le ipotesi più contradditorie, ma ciò non ha alcuna importanza ai fini della comprensione di Hebr. Essa infatti si basa semplicemente sul racconto veterotestamentario, trattato secondo le regole esegetiche dc;rlla teologia giudeo-alessandrina, di cui Filone è il rappresentante più significativo. Ciò appare in particolare dall'interpretazione linguistica dei nomi e dall'approfittare della circostanza che nel racconto biblico mancano dati sicuri. L'autore trova giustificato questo procedimento esegetico a motivo del genere particolare del suo concetto di ispirazione che riconduce tutto quanto contenuto nella Scrittura il più possibile direttamente all'intenzione di Dio, ed alla stessa forma che egli vi ha impressa. Partendo da questo concetto, non solo ogni particolare contenuto nel testo doveva avere il suo significato nascosto, ma anche la mancanza di certe notizie, che di per sé ci si potrebbe attendere, doveva essere voluta intenzionalmente. I principi così esposti sono derivati solo apparentemente dall'Antico Testamento, perché il loro elemento fondamentale è la convinzione cristiana, la quale determina tanto la scelta dei passi veterotestamentari, aj quali si applica questo procedimento, quanto il contenuto che ne risulta. Della :figura di Melchisedec vengono messi in particolare risalto quattro tratti caratteristici: r. egli benedice Abramo e ne riscuote la decima; 2. il significato del nome; 3. la mancanza di un albero genealogico; 4.la sua eternità. Quest'ultimo tratto, che per l'autore è il più importante (cfr.
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vv. 8.16.24 s.28 ), secondo lui consegue dal fatto che la Scrittura non dice nulla né della sua nascita né della sua morte; dunque, ne conclude, non se ne doveva parlare. Egli era venuto dall'eternità e vi ritornò, come lo stesso Figlio di Dio. Dio gli aveva dato forma d'un tratto, come mostra il modo di farlo apparire in Gen. 14 che indicava la sua eternità. Anche il suo sacerdozio è eterno; è questa una deduzione che già il poeta di Ps. l 10 sembra abbia tratta da Gen. 14· Perciò non è casuale neppure il fatto che la Scrittura non faccia i nomi del padre e della madre e non parli affatto di genealogia: egli non ne aveva. Eppure era un sacerdote, benché ogni sacerdote levitico debba innanzi tutto provare la sua discendenza sacerdotale. L'autore non vuole naturalmente dire che Melchisedec sia stato una figura storica senza genitori né antenati; soltanto gli è assolutamente indifferente la questione se si tratti di una figura storica nel senso che usualmente si dà a tale espressione. Lo interessa soltanto il modo in cui Dio con le parole della Bibbia, ha disegnato quella figura simbolica. Il secondo dei tratti caratteristici indicati sopra non viene più utilizzato in seguito; ma non si deve dedurre che per l'autore sia meno importante: già in l,8-13 si è vista l'importanza che ha per lui la regalità del Figlio e la legittimità della sua sovranità. Però nel presente contesto, che tratta della superiorità del sacerdozio di Gesù su quello levitico, non se ne poteva dedurre nient'altro. Al contrario, il primo dei tratti caratteristici indicati sopra serve subito nei vv. 4 ss. come punto di partenza per dimostrare la superiorità del sacerdozio di Melchisedec; ma ciò viene provato utilizzando nel contempo anche il terzo ed il quarto dei tratti caratteristici di cui sopra. Secondo il primo, Melchisedec dà la benedizione e riceve la decima, cioè esercita due diritti specificatamente sacerdotali (cfr. Num. 6,24 s.; 18,2 l ). L'importanza della decima riscossa da Melchisedec viene messa in evidenza contrapponendola al diritto del sacerdozio levitico di esigere le decime. Il v. 5 è dominato dalla sen-
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saziane che in sé questo diritto era qualcosa di unico nel suo genere: dei discendenti di Abramo esigono la decima da altri discendenti di Abramo. Tuttavia si trattava di una prerogativa che era stata concessa una volta per tutte alla tribù sacerdotale. Ma qui è addirittura il primo patriarca, e con lui la futura tribù sacerdotale, ad essere assoggettato al pagamento della decima; e per di più da uno totalmente estraneo. (Da questo modo di vedere, che considera valide in ogni tempo le disposizioni della legge riguardo all'accesso al sacerdozio, rimane del tutto fuori il fatto che la tribù di Levi sorse molto più tardi l'epoca di Abramo e che quindi a quei tempi una sua origine da lui non poteva entrare in questione). Ma, come l'esazione della decima, anche la benedizione mostra la grandezza del sacerdozio di Melchisedec. A chi sarebbe potuto venire in mente di benedire Abramo, che già era stato benedetto da Dio con la grande promessa (cfr. Gen. r2,2 s.)? E se cionostante tale benedizione è stata data, quanto eccelso dev'essere stato colui che l'ha impartita. È vero che non si trattava d'un comune sacerdote mortale, ma di uno, del quale Dio attesta la vita eterna mediante il silenzio della Bibbia sulla sua morte. Tutta questa caratterizzazione del sacerdozio di .Melchisedec, apparentemente tratta dal testo veterotestamentario, in realtà è derivata dalle deduzioni (vv. II-r9), che si debbono trarre dall'istituzione di un sommo sacerdote 'secondo l'ordine', vale a dire secondo il modo di Melchisedec, per la validità del sacerdozio levitico. Va notato al riguardo che in questi versetti i concetti di 'sacerdozio', 'legge', e ancora 'alleanza' (vv. 22 ss.) si confondono fra di loro. L'istituzione del sacerdozio è per l'autore il contenuto centrale della legge, che a sua volta costituisce la norma dell' 'alleanza' conclusa tra Dio ed Israele. Perciò il destino della legge dipende interamente da quello del sacerdozio, per cui i due concetti sono intercambiabili ( v. r 2 ). Questa relazione dei concetti di legge e sacerdozio è particolarmente importante per la com-
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prensione della frase, inserita al v. I I, «per questo scopo il popolo ha ricevuto la legge». Si sarebbe potuto dire altrettanto bene e più chiaramente: «soltanto per questo scopo (del compimento) tutto il sacerdozio è stato istituito». La frase giustifica dunque l'importanza attribuita al concetto di 'compimento'. II-12. Tra i vv. IO e II, per integrare il concetto, si deve inserire come spiegazione: secondo l'ordine di questo Melchisedec, cioè nel modo in cui egli è apparso nella storia (in contrapposizione al modo in cui i sacerdoti aronniti hanno ricevuto il loro ministero), è stato costituito, in Gesù, un altro sacerdote: v. Ps. I ro,4. Ma con ciò si dichiara decaduto il sacerdozio levitico e tutta l'organizzazione legale che ruota intorno ad esso, l' 'alleanza' di cui parla il v. 22. E una simile dichiarazione di decadenza aveva i suoi buoni motivi; tale sacerdozio non otteneva lo scopo per cui era stato istituito, come basta a dimostrarlo il fatto che è stato abolito. Lo scopo da raggiungere era il compimento. Questo termine è molto usato in Hebr. e con diversi significati: prima di tutto esso ha un significato puramente formale, cioè «compiere» vuol dire portare qualcosa a buon fine; il che significa che il contenuto del concetto varia a seconda di ciò che ci si prospetta come fine. Per Gesù secondo 2, ro e 5, 9 il fine era il sacerdozio; secondo 7 ,2 8; I I ,40 e I 2 ,2 3 è la salvezza celeste cui giungono i credenti dopo la morte. Nel nostro passo il valore del concetto si ricava da 9,9-ro,I8. Ciò che avrebbe dovuto essere aggiunto dal sacerdozio e dalla sua opera cultuale era il «compimento riguardo alla coscienza», la purificazione della nostra coscienza dalle opere morte, cioè i peccati; in una parola, il perdono, affinché gli uomini possano veramente giungere a Dio. Perché il sacerdozio levitico non abbia potuto ottenere questo fine sarà spiegato soltanto nel cap. 9; qui nel cap. 7 viene solo accertato il fatto, che però doveva essere decisivo per il destino del sa-
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cerdozio levitico, perché nel conseguimento di questo fine consisteva il sacerdozio levitico, o, come dice il v. l l, la legge. La legge, con al centro l'istituzione sacerdotale, doveva ottenere questo perdono, ma fallì completamente allo scopo. Non ha portato nulla alla perfezione; era debole e inutile, come è detto ai vv. 18 s. Non restava altro da fare se non metterla da parte. Questa valutazione della legge si distacca in modo assai particolare da quella paolina. Secondo Paolo, infatti, di per sé la legge mosaica non poteva perseguire lo scopo di 'purificare le coscienze' o di procurare il perdono e di rendere l'uomo capace di avvicinarsi a Dio. Al contrario. Il compito della legge è stato quello di aumentare i peccati; con la legge tutto doveva finire nella miseria del peccato. Essa suscita ira (cfr. Rom. 5,20; Gal. 3,19 ss.; Rom. 4,15). Questa differenza è dovuta al fatto che Paolo, in quanto fariseo, era abituato a vedere nella legge soprattutto l'abbondanza dei comandamenti divini, della cui osservanza doveva preoccuparsi l'uomo fedele. Viceversa l'autore della Lettera agli Ebrei prendeva le mosse dal mondo cultuale: egli vedeva nel culto il nucleo essenziale della legge. Ma il culto era un'istituzione di salvezza e di espiazione, era inteso come un aiuto. Tuttavia Paolo e la Hebr. finiscono per incontrarsi, perché tanto per il primo quanto per la seconda il risultato religioso della legge è stato negativo; e quando Hebr. lo,3 dice che il culto veterotestamentario in ultima analisi non fece altro che richiamare alla memoria il peccato, perché non era riuscito ad eliminarlo, si avvicina molto al modo di pensare di Paolo. La conseguenza è in ambo i casi 'la fine della legge'. l 3-19. Che non ci sia stata esagerazione nell'affermare il cambiamento della legge e del sacerdozio, secondo i vv. 13 s. si ricava già dal fatto che 'nostro Signore' discende da Giuda e non da Levi - l'appellativo di 'nostro Signore', che con l'aggiunta di 'Gesù Cristo' è molto usato da Paolo, in Hebr.
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ricorre soltanto una seconda volta in 13,20 nella forma 'nostro Signore Gesù' (senza l'aggiunta 'Cristo'). Ma ciò non va inteso nel senso che un sacerdozio tribale debba essere ora sostituito da un altro, perché in tal caso si rimarrebbe nell'ambito del finito e del perituro. Qui è del tutto esclusa l'idea di un comandamento secondo la carne fondato su una discendenza corporale: si tratta di un sacerdote di ordine più alto, perché di vita imperitura. L'abolizione dell'antico sacerdozio e della sua legge è dunque totale e fondamentale. I due ultimi versetti di questa sezione ritornano all'introduzione (v. 1 1 ) con la rinnovata affermazione della legittimità oggettiva e della necessità di questa abrogazione, la cui giustificazione è in fondo vista soltanto nella contemporanea istituzione di qualcosa di meglio. Ci si aspetterebbe qui: un sacerdozio migliore o una legge migliore, con cui si possa raggiungere il fine perseguito invano dall'antico sacerdozio, la 'perfezione'; e che l'autore abbia questo in mente lo mostra l'espressione finale nel v. 1 9: «per la quale ci avviciniamo a Dio», perché questa è la sospirata perfezione. Se poi qui si dice che ci è offerta una 'speranza migliore' non si fa altro che intrecciare all'idea del mezzo migliore (un sacerdozio migliore) quella della meta da tanto tempo sospirata, che ora viene raggiunta proprio con questo mezzo migliore. 20-2 5. Ma che questo nuovo sacerdote giustifichi questa attesa, secondo i vv. 20-25 si deduce da due fatti. Il primo si riferisce alla forma della sua costituzione. Infatti, secondo Ps. 1 I0,4 la sua posizione, contrariamente a ciò che è avvenuto per il sacerdozio levitico, è rafforzata da un giuramento di Dio, per il quale egli è diventato garante di un'alleanza migliore. Il concetto di alleanza, che poi ricorre nei capitoli seguenti, appare in Hebr. per la prima volta qui. Il termine italiano non è del tutto esatto, in quanto fa pensare ad un accordo liberamente concluso fra due o più parti; il concetto biblico, invece, è quello dello stabilirsi di un rapporto che può
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avvenire anche con un atto di volontà unilaterale, come l'emanazione di una legge od una disposizione testamentaria, ed è usato preferibilmente per esprimere lo stabilimento da parte di Dio di un rapporto del genere (cfr. Ex. 19,5; Deut. 5,2; 7,9; 9,II). Nel concetto di una tale alleanza sono incluse, oltre alle esigenti dichiarazioni della volontà di Dio, anche le sue promesse (cfr. 8,6). Nel nostro passo si parla senz'altro di un'alleanza 'migliore', quantunque non si sia mai parlato esplicitamente di un'altra alleanza; ma soltanto esplicitamente, perché l'altro termine di comparazione è l"alleanza' della legislazione del Sinai: sotto tale aspetto la parola 'alleanza' riprende soltanto quella di 'legge' del v. 19. Ma purtroppo questa alleanza stabilita sul Sinai si dimostrò, come abbiamo visto, insufficiente. I suoi istituti (sacerdozio e culto) non bastarono ad assicurare l'adempimento delle promesse, per cui doveva essere abrogata. Ciò non può accadere con l'alleanza di cui Gesù è il garante (e perciò è 'migliore' ossia più forte), perché Gesù è stato confermato nella sua dignità sacerdotale con un giuramento di Dio. Perciò Dio non può lasciarlo decadere, come ha lasciato decadere il sacerdozio 'secondo l'ordine di Aronne'. Ma grazie a questo suo sacerdozio egli garantisce la realizzazione del patto o delle sue promesse, perché egli può veramente eliminare l'ostacolo dei peccati degli uomini. Altrettanto importante di questo «fatto formale» della costituzione a sacerdote mediante un giuramento, è lo speciale contenuto di questo giuramento, in quanto esso afferma esplicitamente l'eternità di questo sacerdozio. I sacerdoti secondo l'ordine di Aronne sono mortali; l'uno succede all'altro, perciò nessuno crea qualcosa di integrale e di definitivo. Non così Gesù: grazie alla sua eternità anche la sua funzione sacerdotale è ininterrotta, ed il suo risultato è una salvezza totale e duratura di coloro che per essa arrivano fino a Dio. La funzione sacerdotale è definita con l'espressione 'per intercedere per essi'. Questo è il compito del sommo sacerdote nel Tempio quando
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nel giorno dell'espiazione entra nel sancta sanctorum con il sangue della vittima; e questo fa Gesù in cielo (dr. 4,14), dove 'si presenta per noi al cospetto di Dio' (9,24) per sempre, in quanto elevato alla gloria della vita celeste. In ciò consiste essenzialmente il suo privilegio, come verrà dimostrato anche più avanti. La meta che verrà così raggiunta è secondo il v. 25 la costituzione della comunione con Dio. Questo è l'aspetto essenziale della salvezza (dr. v. 19 ), certamente con la conseguenza che essa deve avere per tutto l'essere; ma in prima luogo la meta è una meta totalmente e personalmente religiosa: la comunione con Dio, e non un qualsiasi stato di santità. La profonda severità dell'idea di Dio nella nostra Lettera è espressa dal fatto che l'idea della salvezza è dominata dall'attesa di poter essere con Dio; e l'incomparabile successo di Gesù è di essere riuscito ad ottenerlo (la Lettera cerca di chiarire la possibilità e la realtà del successo di Gesù con la contrapposizione, all'ordinamento cultuale israelitico, della realizzazione di Gesù). I mezzi concettuali, di cui si serve Paolo, sono differenti. Ma su questo punto centrale Paolo e la Hebr. sono pienamente concordi; infatti anche per lui ciò che Cristo ha reso possibile è la concordia con Dio, l'accesso a Dio, la comunione con Dio, che egli descrive con espressioni molteplici. 26-28. I versetti conclusivi del capitolo costituiscono un riassunto ed una conferma di quanto è stato detto prima, ma in essi echeggiano già i temi del cap. 8 (il cielo come teatro del servizio sacerdotale di Gesù) e del cap. 9 (il valore universale e imperituro del suo sacrificio). Però, che questi versetti facciano tutt'uno con quelli che li precedono lo dimostra il v. 28 nel quale nella contrapposizione tra legge e giuramento ricorrono idee dei vv. 11-2 2. Il v. 2 6 è determinato da un senso di stupore davanti alla rappresentazione di un sommo sacerdote eterno, che interviene incessantemente al cospetto di Dio nell'intercessione sacerdotale per i pecca-
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tori. Ma, si risponde, per quale motivo allora avremmo avuto bisogno di un altro? Per noi ci voleva un altro sacerdote che potesse adempiere a questa funzione, e che perciò ne soddisfacesse le condizioni necessarie. Un sommo sacerdote che sia anch'egli un peccatore naturalmente non può farlo: i suoi peccati lo tengono irrimediabilmente fra i peccatori; egli non può entrare nel cielo. Come potrebbe venire a Dio un uomo con le labbra impure? Ma in Gesù abbiamo un sacerdote che non è peccatore. L'assenza di peccato nel sommo sacerdote della nuova alleanza non è dimostrata né difesa, ma semplicemente affermata, allo stesso modo che in 4, 1 5, anche se con maggiore energia: egli era al fianco di Dio e non aveva nulla a che fare con i peccati. Proprio per questa ragione egli ha potuto abbandonare la comunità dei peccatori, nella quale era entrato 'per divenire misericordioso' ( 2, r 7 ), ed essere innalzato 'più in alto dei cieli', attraversare i cieli ( 4, I4) fino al trono di Dio ( 8, r ). Inoltre ciò ha avuto delle conseguenze per il compimento del suo sacrificio. Il v. 27 poteva dare l'impressione che l'autore avesse trascurato il fatto che il sommo sacerdote giudaico compiva il doppio sacrificio, di cui qui si parla, non tutti i giorni, ma soltanto una volta all'anno, nel grande giorno dell'espiazione; ma 9,7.25; 10,r.3 mostrano come egli abbia le idee chiare al riguardo; solo che Gesù esercita la sua funzione costantemente, cioè tutti i giorni. Per esercitare questa funzione sacerdotale quotidiana, intende dire l'autore, non ha bisogno di offrire i sacrifici che il sommo sacerdote offriva nella sua funzione annuale; egli non offre sacrifici per i propri peccati, perché non ne ha; ed il sacrificio per il popolo egli l'ha offerto una volta per sempre, offrendo se stesso. Ciò gli ha reso possibile l'ingresso nel santuario celeste, in cui ora si trova, 'per intercedere per essi (i peccatori)'. Per quei sommi sacerdoti, costituiti dalla 'legge' secondo l'ordine di Aronne, il doppio sacrificio sempre rinnovato era necessario, perché essi erano uomini come gli altri, 'soggetti
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alla debolezza', c1oe peccatori e, perciò, mortali. Invece, il giuramento divino in Ps. II0,4 non ha innalzato al sommo sacerdozio un uomo fra i tanti, ma il Figlio; questi, grazie alla sua incarnazione può compatire le nostre debolezze (4, r 5 ), ma non è soggetto ad esse. Perciò è stato 'portato alla meta' perfetto in eterno, cioè 'costituito sacerdote'. Questa è infatti la meta che gli è stata riservata (dr. 2,ro; 5,9).
B La superiorità del culto celeste del sommo sacerdote neotestamentario, che corrisponde alla superiorità della nuova alleanza ( 8, r -1 3 ) 1 Il punto capitale di queste argomentazioni è che abbiamo un sommo sacerdote, che «si è seduto alla destra» del trono della Maestà nei cieli, 2 ministro del santuario e del vero «tabernacolo, che Dio - e non un uomo - ha eretto». 3 Infatti ogni sommo sacerdote viene costituito per offrire doni e sacrifici. Perciò è necessario che egli abbia qualcosa da offrire. 4 Invero, se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, perché già ce ne sono che offrono doni secondo la legge. 5 Questi prestano servizio a un'immagine e a un'ombra del (santuario) celeste, come fu detto a Mosè, quando doveva costruire il tabernacolo: «Vedi», si dice, «farai tutto secondo il modello che ti è stato mostrato sulla montagna». 6 Ma ora egli ha ottenuto un ministero eccellenti, in quanto è garante di una migliore alleanza, che è fondata su migliori promesse. 7 Se infatti la prima fosse stata irreprensibile, non ci sarebbe stata ragione per cercarne una seconda. 8 È, invero, biasimandoli che dice: «Ecco che verranno giorni, dice il Signore, in cui stringerò con la casa d'Israele e la casa di Giuda una nuova alleanza, 9 non come l'alleanza che strinsi con i loro padri, il giorno in cui li presi per mano per trarli fuori dalla terra d'Egitto. Perché essi non rimasero nella mia alleanza; e anch'io li ho trascurati, dice il Signore. 10 Ecco l'alleanza che io stringerò con la casa d'Israele dopo quei giorni, dice il Signore: metterò le mie leggi nella loro mente e le inciderò nel loro cuore, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 11 E nessuno dovrà più istruire il suo concittadino e nessuno il suo fratello, dicendo: 'Conosci il Signore', giacché tutti mi conosceranno, dal piccolo al grande. 12 Perché perdonerò le loro ingiustizie, e non ricorderò più i loro peccati». 13 Dicendo
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Contenuto. Dopo aver mostrato la superiorità della posizione di Gesù come sommo sacerdote (cap. 7) e prima di dimostrarne la superiorità dell'operato (9,1-10,18 ), qui nel cap. 8 l'autore richiama l'attenzione sul luogo dove egli esercita un culto più elevato, cioè celeste; infatti questo servizio può essere apprezzato soltanto nel contesto del santuario, nel quale ha luogo. Prima di tutto si accerta il fatto che il servizio ha luogo nei cieli (vv. l e 2 ); non si potrebbe pensare ad un' altra scena (ci è detto in seguito), perché il servizio terreno è già compiuto dal sacerdozio levitico (vv. 3-6a). La fine dell'alleanza antica, secondo la quale si esercita il sacerdozio levitico, è sigillata con l'affidamento a Gesù di un servizio più elevato nel quadro di un'alleanza migliore, come conferma lo stesso Dio per mezzo di Ier. 31,31 ss. (vv. 6b-13). Questo schema delle due alleanze offre poi, in 9,1-10,18, il quadro entro cui è data la dimostrazione della superiorità dell'attività sacerdotale di Gesù. 1-2. Quanto sia importante per l'autore l'ascesa di Gesù nella gloria dei cieli, è già apparso ripetutamente nei capitoli precedenti e sempre in rapporto con il carattere sacerdotale di Gesù: questo sommo sacerdote ha attraversato i cieli (4,14), è stato elevato più in alto dei cieli (7,26), è entrato, in qualità di nostro precursore, all'interno del velo ( 6 ,19 ), dopo avere dato luogo alla purificazione dai peccati siede alla destra della Maestà di Dio 'nell'alto' (1,3) o 'nei cieli' ( 8,1 ). Ora si dice che questo è addirittura l'elemento principale di tutto il discorso. Già 7 ,2 5 s. aveva accennato al motivo di tale giudizio: egli ha il potere della perfetta salvezza, perché - in quanto è il Glorioso - può sempre intervenire a favore dei peccatori nella sua qualità di sacerdote. La stessa idea qui viene ripetuta, dicendo che colui che siede alla
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destra di Dio è il ministro del santuario e del vero tabernacolo. Qui si pensa al servizio del sommo sacerdote nel giorno della riconciliazione; esso si componeva di due azioni: immolazione dell'animale sull'altare ed offerta del sangue nel santo dei santi del tabernacolo, spargendolo davanti all'arca dell'alleanza. La seconda azione è quella che interessa soprattutto. Allo stesso modo del sommo sacerdote levitico, anche Gesù doveva compiere quest'azione nel tabernacolo; ma non in quello che Israele portava con sé, costruito da uomini e perciò manchevole e temporaneo, ma in quello vero, eretto dallo stesso Dio, che solo merita questo nome; cioè il cielo è il luogo della presenza di Dio, davanti al quale Gesù offre il sangue versato sul Golgotha, davanti al quale fa valere la forza espiatrice della sua morte sacrificale. E lo fa nel luogo che veramente importa, nella 'vera tenda', il vero santuario, in confronto al quale il luogo del culto sulla terra non è che una copia, un'ombra inadeguata. In essa, ne dobbiamo dedurre, naturalmente poteva aver luogo soltanto un culto inadeguato. È degno di nota il fatto che l'autore non parli del Tempio, ma dell'arca dell'alleanza; evidentemente egli parla come uno studioso della Scrittura, e non in base ad un'esperienza viva del culto nel Tempio. La legge mosaica non parlava del Tempio ma solo del tabernacolo, e l'autore, contrapponendo il cielo come il vero tabernacolo a quello utilizzato da Israele, si riallaccia (come mostra il v. 5) a Ex. 2 5, secondo il quale Mosè dovette costruire il tabernacolo e le attrezzature relative secondo un modello mostratogli da Dio sul monte Sinai. Più tardi la teologia giudaica vide in questo passo un'indicazione del fatto che quelle costruzioni avrebbero continuato ad esistere in cielo; la filosofia ellenistico-giudaica, rappresentata da Filone d'Alessandria, vi collegò facilmente la dottrina dell'idealismo platonico, secondo la quale il mondo metafisico delle idee è l'unico veramente valido ed essenziale, mentre il mondo fenomenico dell'esperienza sensoriale ne è soltanto una copia imperfetta, ad un più basso gradino dell'es-
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sere. Questo concetto riecheggia in Hebr., quando definisce il tabernacolo e tutto l'edificio del culto veterotestamentario una copia (8,5), un'ombra (8,5; 10,r), imitazione (9,9) di quello che è essenzialmente vero in cielo, oltre che vero in futuro nella nuova alleanza, che sostituisce quello imperfetto. Per valutare rettamente il rapporto tra questi concetti di Hebr. ed il pensiero filoniano occorre però considerare che tale pensiero è stato adattato ad esprimere il rapporto di una successione di fatti storici fra di loro. La contrapposizione tra l'antico ed il nuovo ordinamento con l'aiuto di questi concetti consente tanto di riconoscere un certo valore all'antico ordinamento quanto di rilevarne l'essenziale inferiorità e provvisorietà temporale. 3-r3. I versetti che seguono intendono dimostrare che il fatto che Gesù compia il suo servizio nel santuario celeste è una necessità oggettiva, partendo da un'esperienza di carattere generale (v. 3). Ma in questo versetto stupisce che non si parli del santuario, in cui sono fatti i sacrifici, ma di sacrifici che vengono offerti. Ciò dovrebbe portare logicamente ad un'indagine sul sacrificio offerto da Gesù, di cui invece si fa parola soltanto in 9,r2 ss.; nel presente passo quest'idea è fuori luogo dal punto di vista logico. Sarebbe piuttosto da aspettarsi nel v. 3 che fosse detto ad esempio che ogni sommo sacerdote (dunque anche Gesù) deve avere un santuario, in cui poter offrire i suoi sacrifici. E come se avesse scritto proprio così, l'autore prosegue nel v. 4 rigettando l'obiezione che Gesù avrebbe potuto compiere il suo servizio sulla terra nel modo consueto, e rispondendo negativamente perché il posto sulla terra è già occupato. Questo v. 4 è il passo di tutta la Lettera che meglio può essere addotto a sostegno dell'ipotesi che la Lettera debba essere stata scritta prima della distruzione del Tempio nell'anno 70 d.C., in quanto sembra presupporre che esistesse ancora il culto nel Tempio. Se il Tempio fosse stato distrutto sembrerebbe ov-
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vio dedurne l'impossibilità che Gesù offrisse sacrifici sulla terra; ma non è questo il ragionamento da fare. L'autore presenta la sua dimostrazione partendo dalla legislazione mosaica, indipendentemente dal fatto che essa sia applicata o meno nel presente; il v. 4 non cesserebbe di essere valido anche se il Tempio fosse stato distrutto e nessun sacerdote vi sacrificasse. Ciò che gli interessa è che, secondo il comandamento divino, nella Legge di Mosè vi devono, o dovrebbero esservi, sulla terra dei sacerdoti che offrono il sacrificio. Dunque, bisogna dedurne, per Gesù restava solo il cielo come luogo del culto. Del resto il santuario terreno non potrebbe essere preso in considerazione da lui, perché secondo Ex. 2 5 ,40 è soltanto un'imitazione inadeguata del 'vero tabernacolo'. Il servizio in quest'ultimo è superiore in quanto è più efficace, o meglio è il solo efficace. Ma ciò non fa che rispondere al compito di Gesù di essere garante di una migliore alleanza. Una alleanza migliore di quella stretta da Mosè sul Sinai, vuol dire l'autore, esige anche un servizio migliore; migliore, perché si compie nel santuario più elevato, quello vero. Il significato della parola garante è certamente quello di 'mediatore', 'intermediario' tra due parti. Ma qui Gesù non svolge un ruolo di un negoziatore che cerchi di stabilire un equilibrio; attraverso alla sua mediazione sorge la Nuova Alleanza, il nuovo ordine, stabilito da Dio, dei suoi rapporti con gli uomini, solo in quanto grazie al suo intervento essa diventa realtà. Egli è 'mediatore' nella misura in cui (con l' efficacia del servizio sacerdotale compiuto in cielo) è garante che l'attuazione di questa alleanza con le sue promesse di salvezza non urterà nell'ostacolo dell'inclinazione dell'uomo al peccato. Perciò la parola 'mediatore' qui assume il significato di 'garante'. Qui viene attribuito a Gesù esattamente lo stesso compito che in 7,22, al quale questo passo va equiparato, anche per il significato della parola 'alleanza'. Ma perché questa Nuova Alleanza è migliore? Secondo 7 ,20.22 lo era perché la condizione di Gesù come sommo sacerdote ga-
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rante è stata assicurata incrollabilmente con un giuramento di Dio. Una migliore garanzia rende migliore l'alleanza. Anche se questo concetto può essere inconsciamente presente nel nostro passo, la superiorità della Nuova Alleanza qui è esplicitamente giustificata soltanto con il fatto che il comando divino l'ha fondata su migliori promesse; in che misura, non è detto, ma lo si può dedurre indirettamente dalla successiva citazione di Geremia. Infatti il fine immediato della citazione, come prova l'introduzione (v. 7) e la conclusione (v. r3), è quello di giustificare l'idea implicita nei vv. 6 e 7 che, con l'osservazione del v. 6b su Gesù come garante di un'alleanza migliore, pronunciano sull'alleanza del Sinai un giudizio di nullità, che è ben giustificato. Ne dà la prova il noto passo di Geremia, perché con l'annuncio di una nuova alleanza indirettamente esprime un'aspra critica dell'antica. Questa critica è rivolta dopo l'inizio del v. 8 al popolo dell'antica alleanza, ma nel v. 7 all'alleanza stessa. Per l'autore non c'è differenza tra l'uno e l'altra, perché l'insufficienza dell'antica alleanza è dimostrata proprio dal fatto che non è riuscita a portare il popolo a quella meta che ora gli promette la nuova alleanza. Dio stesso lo riconosce. La dimostrazione è esattamente dello stesso tipo che in 7, II: l' annuncio divino della nuova alleanza prova la decadenza dell'antica. Però l'autore difficilmente avrebbe citato l'intero passo di Geremia se per lui non avessero avuto una decisiva importanza oggettiva le promesse contenute in questo passo. Sono esse che fanno della nuova una migliore alleanza. La citazione vede (v. 9) la caratteristica dell'antica alleanza anzitutto nel fatto che i suoi risultati sono stati totalmente negativi. Il popolo non obbedisce a Dio, e Dio si allontana da lui: ma questo è avvenuto perché gli ordini della volontà di Dio gli vennero dall'esterno, senza muoverlo interiormente. Da una tale situazione (già intendeva dire la parola profetica profonda di significato, e l'autore non poteva che confermarlo) non poteva sorgere nulla di buono. La
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nuova alleanza pone su una base totalmente diversa la relazione tra Dio e l'uomo. Non si tratta di una nuova etica, giacché i comandamenti di Dio sono immutabili. La nuova base è costituita dal fatto che Dio stesso trasforma interiormente gli uomini in modo tale che la sua volontà domina il loro sentimento più intimo, e che egli riempie ognuno di essi della conoscenza immediata della sua volontà. In tal modo nasce l'autentica comunione con Dio. Ma l'estrema condizione, che rende possibile tutto questo, non è una decisione umana, ma divina, la decisione di perdonare. Così, già in questa parola profetica, unica nel suo genere, la grazia divina del perdono è indicata come il fondamento del rapporto religioso; quella grazia divina del perdono, di cui è garante Gesù, chiamato a sommo sacerdote da Dio stesso. In effetti questa 'alleanza' è fondata su 'migliori promesse'. Per differente che sia la forma con cui queste idee sono presentate, esse concordano totalmente con quelle di Paolo in 2 Cor. 5,19. L'importanza che è venuta ad avere per l'autocomprensione delle comunità cristiane questo passo di Geremia non si può valutare più chiaramente che nel fatto che da esso il Nuovo Testamento ha tratto il suo nome!
c La superiorità del servizio sacerdotale di Gesù ( 9,1-ro,18)
Sguardo d'insieme ed articolazione del brano. Nella grande sezione dottrinale della Lettera, che descrive la superiorità del servizio di Gesù come sommo sacerdote, il luogo del suo culto ed il suo servizio (7,1-10,18), il brano relativo al servizio (9,1-10,18) ne costituisce essenzialmente il nucleo centrale, ed in esso i vv. 9,n-15 contengono nella forma più concisa tutto quanto l'autore vuol dire sulle caratteristiche e sul successo del servizio sacerdotale di Gesù. Ciò che è
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detto qui sull'eterna significazione del sommo sacerdozio di Gesù, sulla sua entrata nella tenda perfetta, sul carattere unico del sacrificio, sul suo successo assoluto, e su Cristo come garante della nuova alleanza, tutto riprende con evidente chiarezza quanto era già stato accennato nei capp. 7 e 8 e ritorna ad ogni momento fino a 10,18. Ma in questi versetti la dottrina di Hebr. sul sommo sacerdozio di Cristo è raccolta come in un compendio. Il quadro dell'esposizione di 9,1-10,18 è offerto dalla contrapposizione dell'antica alla nuova alleanza, che l'autore ha sempre in mente fin dal cap. 7. Perciò il pezzo centrale 9,11-15 è prima (a) preparato in 9,1-10 da un richiamo all'istituzione cultuale dell'antica alleanza e del suo servizio sacrificale. L'autore resiste alla tentazione di interpretarli nel loro senso più profondo e si limita ad indicarne la provvisorietà simbolica; l'antica istituzione cultuale non poteva avere un'efficacia più ampia già a causa dell'esteriorità dei suoi mezzi. Dopo che (b) in 9, l 1-l 5 a questo servizio inadeguato è stato contrapposto il pieno successo del servizio di Cristo, (c) in 9,16-22 dal concetto di alleanza l'autore deduce la necessità della morte cruenta per ottenere tale successo. E cioè, è detto ancora (d), qui, dove si tratta di un fatto essenziale e celeste (in contrapposizione all'alleanza mosaica con le sue istituzioni-ombra), era necessario un sacrificio così prezioso, ma anche irripetibile, come quello del sangue di Cristo (9,23-28). Così (e) in l0,1-4 le idee di 9,6-10 sono integrate da una nuova considerazione, cioè che il culto sacrificale della legge era realmente insufficiente, come dimostra la continua ripetizione del sacrificio. Perciò (f) fu abrogato per espressa volontà di Dio e sostituito dal sacrificio di Cristo una volta per sempre ( 10,5-10 ). Che esso sia stato veramente irripetibile, perché ha conseguito il fine per cui era stato compiuto, si ricava dal fatto (g) che Cristo si è assiso alla destra di Dio, ed è confermato da Ier. 31,33 (10,11-18).
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L'istituzione cultuale del!' antica alleanza
a) L'istituzione cultuale dell'antica alleanza ed il suo servizio sacrificale secondo la loro provvisorietà simbolica ( 9,1-10) Ora, anche la prima alleanza aveva delle istituzioni cultuali ed il santuario, quello di questo mondo. 2 Infatti fu fatta una tenda, quella anteriore, nella quale c'erano il candelabro e la tavola e i pani esposti: essa era detta «il Santo». 3 Poi, dietro il secondo velo una tenda, il cosiddetto «santo dei santi», 4 con l'altare d'oro dei profumi e l'arca dell'alleanza coperta d'oro da ogni lato, nella quale era l'urna d'oro con la manna e la verga di Aronne, che era rifiorita, e le tavole dell'alleanza, 5 e su di essa i Cherubini della gloria che coprivano d'ombra il propiziatorio. Delle quali cose non è il momento di parlare dettagliatamente. 0 Essendo dunque così disposte le cose, i sacerdoti entrano nella prima tenda in ogni momento per compiere il servizio cultuale, 7 ma nella seconda tenda entra una volta all'anno solo il sommo sacerdote, non senza sangue che offre per le sue mancanze e per quelle che il popolo ha commesso senza sapere né volere. 8 In tal modo lo Spirito Santo mostra che non è ancora aperta la via al santuario, finché sussiste ancora la prima tenda. 9 Questa è una figura per il tempo presente; secondo essa vengono offerti doni e sacrifici, che non possono rendere perfetto nella coscienza chi compie il servizio sacrificale; 10 si tratta infatti - oltre (alle prescrizioni relative) agli alimenti, alle bevande e ad abluzioni diverse (letteralmente: 'battesimi') - solo di precetti esteriori di carne che sono stati imposti solo fino al tempo dell'ordinamento autentico. 1
I·IO. Secondo 8,13 la prima alleanza appartiene al passato. Tuttavia essa aveva un suo contenuto particolarmente valido, e cioè il servizio cultuale secondo prescrizioni emanate da Dio stesso e il santuario. L'autore, che giudica con una mentalità ed un sentimento assolutamente sacerdotale, vi vede qualcosa di grande, di solenne e di elevato. Naturalmente ne sono evidenti i limiti: il santuario appartiene al mondo terreno, quello vero è, secondo il cap. 8, nei cieli. Il primo è dunque manchevole e transitorio come ogni cosa terrena. Ciò nonostante l'autore si sofferma in devoto raccoglimento su di esso e sui suoi particolari che enumera secondo Ex. 2 5 s. con un sentimento amoroso. Egli descrive non il Tempio erodiano di Gerusalemme, nel quale non c'era più l'arca dell'alleanza, e neppure quello salomonico, ma (come indica
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già la parola 'tenda') il tabernacolo secondo le indicazioni della legge mosaica. Per lui è particolarmente importante che si tratti di una tenda divisa in due settori; un velo la separava dall'esterno. Soltanto il settore posteriore, separato da un secondo velo, era il luogo della vera e propria presenza di Dio. In esso si trovavano l'arca santa con le tavole della legge, chiusa da un coperchio, e su di esso due figure angeliche che lo coprivano con le loro ali. «E là io mi rivelerò a te e parlerò con te di sul propiziatorio, dal luogo fra i due Cherubini sull'arca della legge ... » è detto inEx.25,22, cfr. Ex. 30,6. Perciò questo luogo è il 'santo dei santi'. Fra le notizie sui vari oggetti ivi contenuti va rilevata quella secondo la quale era d'oro anche l'urna contenente la manna, di cui il testo originario ebraico non sa nulla, ma di cui parlano i LXX. Anche del fatto che l'urna e la verga di Aronne si trovassero nell'arca il testo ebraico non parla, e neppure ne parlano i LXX. In I Reg. 8,9 è detto anzi che soltanto le tavole della legge si trovavano nell'arca. Ma stupisce più di ogni altra la notizia data dall'autore che l'altare dei profumi si trovava nel santo dei santi, quando invece era collocato nella cella anteriore del santuario. Già la chiesa antica aveva rilevato questo errore, e una piccola parte dei manoscritti cercò di correggerlo col semplice spostamento al v. 2 dell'altare dei profumi. Forse questo errore si può spiegare con il fatto che in alcuni passi di Ex. (ad es. 40,5.26) la notizia della collocazione di quell'altare è poco chiara; e a uno studioso della Scrittura che appartenesse al giudaismo della diaspora poteva sfuggire un errore del genere. L'autore non enumera tutti questi oggetti per una pignoleria erudita; tutto è per lui pieno di un profondo simbolismo, ma egli rinuncia a descriverlo per dedicarsi interamente alla questione del culto di cui ha parlato il v. I. In esso i regolari servizi quotidiani dei semplici sacerdoti sono distinti da quello particolare del sommo sacerdote, che deve essere compiuto nel grande giorno della riconciliazione: solo quest'ultimo interessa all'autore. Ai pri-
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mi era espressamente vietato di entrare nel santo dei santi, e lo stesso sommo sacerdote vi entrava soltanto una volta all'anno «per espiare per gli Israeliti tutti i loro peccati», ma soltanto i 'peccati per ignoranza' che non fossero stati commessi per ribellione cosciente ai comandamenti di Dio (cfr. 5 ,2). Al riguardo le disposizioni più precise si trovano in Lev. 16. In quell'occasione dovevano venire immolati due torelli, uno per il sommo sacerdote stesso e l'altro per il popolo; poi il sommo sacerdote doveva spruzzare con il dito il sangue, prima dell'una e poi dell'altra vittima, sul coperchio dell'arca che proprio per questo motivo fu chiamato 'propiziatorio' (Lutero: 'sede della grazia'). Ma perché tutto questo? Riflettendo su questo rito, l'autore vede nelle sue disposizioni una segreta intenzione; bisogna imparare a leggere tra le righe. Non sono disposizioni umane; sono contenute nel canone, i cui scritti sono ispirati dallo Spirito di Dio. Che cosa vuol dire l'autore? Nel v. 8 c'è un doppio senso tutto particolare. Il primo: la sussistenza della tenda anteriore indica che l'accesso 'al santuario', che è ciò che interessa, cioè al santo dei santi, che perciò nel v. 8 è chiamate semplicemente 'il santuario', non è ancora aperto. Ma, in secondo luogo, contrapponendo la tenda anteriore a quella posteriore il primo santuario viene contrapposto a quello futuro, cioè a quello celeste, chiamato per brevità il santuario, e indica così tutto il tabernacolo nella sua provvisorietà. La tenda anteriore diventa un'indicazione simbolica del presente, in quanto esprime la condizione che proprio nel presente, con il servizio sacerdotale di Gesù e soltanto con esso doveva essere compiuta la vera espiazione, consentito l'accesso al vero santuario, il vero accesso a Dio. E come sarebbe potuto essere diversamente? prosegue il v. 9b. Il culto sacrificale esteriore non può rendere perfetto 'nella coscienza' chi offre il sacrificio; non può portarlo alla meta che cerca, cioè comunione con Dio, perdono, rinnovamento nella condizione che il cap. 8 ha descritto con le parole di Ier. 31,
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3 l ss. Questo è il metro critico decisivo di ogni religione che si fonda sul compimento di servizi cultuali, servizi esteriori: esse non conducono l'uomo alla reale meta religiosa. Questa idea del v. 9 è ancora meglio illustrata nel v. 10; le prescrizioni delle quali qui si parla sembra riguardino soltanto i sacerdoti: per 'alimenti' si intendono le prescrizioni relative all'uso da parte dei sacerdoti di determinate parti degli animali sacrificati (cfr. Lev. 10,12 ss.); quanto alle bevande si potrebbe pensare al fatto che il sacerdote, che entrava nel tabernacolo, doveva astenersi dal bere vino (Lev. 10,9 ); quanto infine alle abluzioni basti citare le prescrizioni imposte al sommo sacerdote ed ai suoi assistenti in Lev. 16,24-28. Ma forse l'autore pensa anche alle disposizioni relative al cerimoniale, valide per tutti. Però non è del tutto chiaro il rapporto in cui sono messe queste prescrizioni con le vittime di cui si parla subito prima; infatti è possibile (diversamente dalla nostra traduzione) interpretare il testo greco nel senso che il culto sacrificale cerca di ottenere la perfezione nella coscienza soltanto sulla base di prescrizioni su alimenti, bevande ed abluzioni cerimoniali di vario genere, e considerare queste prescrizioni, in una aggiunta grammaticalmente indipendente, come esteriorità che fanno parte soltanto del!' ambito della carne. Ma a questa interpretazione si oppone, a parte le regole grammaticali, il fatto che l'efficacia del sacrificio non si basa assolutamente su prescrizioni del genere. Queste piuttosto sono qualcosa di indipendente accanto ad esse, anche se non lasciate all'arbitrio del singolo. Probabilmente l'autore ha voluto anche alludere che (alla lettera soltanto il sacrificio, ma a senso anche tutte le restanti prescrizioni) sono 'regole della carne', che, cioè, toccano soltanto l'essenza corporale dell'uomo e non anche il suo intimo, la sua coscienza. L'effetto è soltanto esteriore, e non personale. Il nostro autore non accoglie nessuna idea di una magia sacramentale. Ciò nonostante esse sono state imposte da Dio, ma solo provvisoriamente, finché non sarà introdotto l'ardi-
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namento migliore o autentico. Che importanza avevano in quest'epoca di transizione è accennato in l0,3: tenere costantemente presente alla mente l'insufficienza della prima 'alleanza' con le sue disposizioni. b) Le caratteristiche essenziali ed il successo del servizio di Gesù, sommo sacerdote ( 9, II· 1 5 ) 11 Ma Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso la tenda più grande e più perfetta non fatta da mano d'uomo, cioè che non appartiene a questa creazione, 12 e non per mezzo del sangue di capri e di vitelli, ma per mezzo del suo proprio sangue, entrò una volta per tutte nel santuario, avendovi trovato un'eterna redenzione. 13 Se infattj il sangue di capri e tori e la cenere di una vitella aspersa santifica gli impuri dando loro la purezza del corpo, 14 quanto più il sangue di Cristo, che per uno Spirito eterno si è offerto immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte perché serviamo il Dio vivente. 15 E perciò egli è garante di una nuova alleanza affinché, essendo intervenuta la morte per redimere le trasgressioni della prima alleanza, coloro che sono chiamati ricevano l'eredità eterna promessa.
II-14. Al culto sacrificale veterotestamentario che, a causa della sua inadeguatezza, è un segno simbolicamente precorritore del futuro, è ora contrapposto Cristo come sommo sacerdote che ha compiuto quello che il primo non era in grado di fare. Perciò si parla anzi tutto di Cristo come il sommo sacerdote dei beni futuri; sono i beni del mondo futuro (2,5), la città futura (13,14), l'eredità eterna promessa (9,15), cioè la pienezza della salvezza. Naturalmente ciò è adesso soltanto qualcosa che ha da venire; ma, di fronte al gioco d'ombre di questo tempo e della scena terrena, questi beni possiedono l'autentica realtà, proprio come l'eterno celeste è l'autentico vero in confronto al terreno transitorio, nonostante ogni apparenza in contrario. Cristo è detto sommo sacerdote di questi beni perché con la sua attività di sommo sacerdote dà e garantisce la partecipazione ad essi. A questo fine egli è apparso sul teatro della storia, e ha potuto
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farlo perché il luogo, i mezzi ed il successo della sua attività sacerdotale rispondevano a tale scopo. Egli è proceduto fin nel santo dei santi; qui, come nei vv. 8 e 24, si parla semplicemente di 'santuario', perché ne è la parte più importante. Ma questa è soltanto un'espressione :figurata della presenza celeste di Dio. Infatti anche Cristo dovette, come il sommo sacerdote aronnitico, attraversare una tenda, la tenda anteriore; ma questa tenda anteriore era il cielo. Un tabernacolo veramente più grande e più perfetto di quello costruito faticosamente dalle mani dell'uomo! Egli non rimase nell'ambito del creato, ma attraversò i cieli (4,r4), giungendo cosi nella 'vera tenda', di cui si è già occupato il cap. 8. Ma vi giunse anche con un mezzo di espiazione incomparabilmente prezioso: quello del suo sangue. Per questo il suo successo è stato totale, come prova l'illimitata efficacia del suo sacrificio, offerto una volta per sempre, e non ogni anno. Egli ha potuto compiere una eterna redenzione, o per meglio dire, un riscatto eterno, come ora si passa a dire con un'immagine tratta da un altro ordine di idee. Ma i vv. r3.r4 vogliono rendere chiaro - con una contrapposizione all'effetto del mezzo cultuale veterotestamentario - che il sangue di Cristo poteva ottenere effettivamente questo successo. Come mezzo di culto veterotestamentario è citata, oltre al sangue degli animali immolati nel giorno della riconciliazione, la cenere della vacca rossa che, secondo Num. 19, serviva a cancellare ogni impurità esteriore dovuta all'aver toccato un morto. Nell'intenzione dell'autore, il fatto di citare proprio questa cenere deve suscitare immediatamente nel lettore l'impressione della insufficienza di un mezzo cosi strano per la purificazione. Ciò nonostante mezzi del genere hanno un effetto: quello di 'santificare', cioè di rendere possibile il rimanere vicino a Dio; soltanto, però, in un rapporto esteriore. L'effetto che deriva dal sangue sacrificale di Cristo è certamente del tutto differente e sostanzialmente incomparabile, perché in questo secondo caso si tratta dell'eliminazione di ostacoli
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alla comunione con Dio, ostacoli interiori, che macchiano la coscienza, dovuti al comportamento peccatore dell'uomo. La coscienza è 'purificata' quando il peccato viene perdonato; però i due effetti sono comparabili nella misura in cui anche qui si tratta di rendere capaci di avanzare verso Dio (4,16), così come il sacerdote è reso capace di avvicinarsi a Dio nel servizio sacrificale. In questo senso, infatti, deve prima di tutto intendersi la parola servizio nel v. I4 ( cfr. 8,5; 9,r.6.9; ro, 2; 13,ro). Si tratta dello stesso successo del quale il v. 13 parla con la parola 'santificare'. Così l'autore - senza tener conto della diversità dell'ostacolo da eliminare - può trarre la conseguenza che un effetto del genere è da aspettarsi dal sangue di Cristo molto più efficacemente che non dagli altri mezzi cultuali. Per rendere chiaro tutto questo, il valore del sangue di Cristo è ancora giustificato con la frase relativa in v. 14, che definisce il sacrificio di Cristo un'altissima azione di carattere personale: egli ha offerto se stesso; la sua morte è stata opera sua. La vittima veterotestamentaria doveva essere senza difetti nel corpo, Cristo era senza peccato (4,15). Questa autoimmolazione fu resa possibile da uno 'Spirito eterno', cioè dallo Spirito di Dio, che determinò il suo atteggiamento, lo innalzò nell'eternità e gli permise di operare una 'redenzione eterna', di diventare un sommo sacerdote in eterno. Secondo questo ragionamento, la pienezza della dedizione di se stesso, che ha tratto la sua forza dalla comunione di natura con Dio, è ciò che dà il suo vero valore al sacrificio di Cristo, cioè al suo sangue. La sua immolazione è di un genere diverso da quelle compiute dal sacerdote veterotestamentario. Muta il concetto di immolazione quando viene applicato alla autoimmolazione di Cristo. Le allusioni del v. 14 escono dunque dal quadro cultualecerimoniale nel quale per il resto si muove l'autore. Il carattere decisivo della sua dimostrazione è dovuto al fatto che per lui restano valide le idee sul valore e sull'efficacia del sacrificio cruento; ma in quest'ordine di idee considerazioni
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etico-personali, come quelle sopra citate, suonano come estranee. Nel momento in cui il concetto di sacrificio materiale cultuale viene applicato alla morte di Cristo, esso diventa superato perché appare tutta la sua inadeguatezza. Ciò prova che la fede in Cristo è precedente alle riflessioni qui presentate dall'autore. La fede non è sorta da quel tipo di considerazioni, ma queste si aggiungono per giustificarla con l'aiuto di idee e concetti veterotestamentari, la cui misura è tuttavia insufficiente allo scopo. Non si poteva accertare che la morte di Cristo aveva tale significato di sacrificio, sulla base di caratteristiche esteriori; ma la fede in Cristo cerca con l'aiuto di questo concetto di rendere comprensibile la morte di Cristo, come significativa e necessaria, e di liberarsi così da un problema molto gravoso. 15. L'idea centrale dei vv. n-14 era che Cristo ha veramente purificato le coscienze, oppure (il che per l'autore è la stessa cosa) che ha reso perfetti secondo la coscienza (v. 9), ha operato l'eterna redenzione ed assicura il raggiungimento dei beni futuri. La stessa idea è espressa nuovamente nel v. l 5, questa volta riprendendo il concetto di Nuova Alleanza da 7,22; 8,6-13. Null'altro che la realtà di questa salvezza (se non per ognuno, per coloro che vi sono chiamati da Dio) era il senso della destinazione di Gesù a garante di questo patto, cui egli era abilitato dalle superiorità di cui si è detto sopra. È caratteristica l'osservazione nuova sulla morte di Gesù, inserita nella frase conclusiva del v. l5h. Quando è detto che la morte ha avuto luogo per redimere le trasgressioni compiute sotto o durante la prima alleanza, cioè per estinguere la colpa che ne è derivata, il concetto che informa queste idee sembra discendere dal pensiero sul sacrificio di riconciliazione compiuto dal sommo sacerdote; ma è strano che ciò nonostante si parli della morte non come di un sacrificio offerto ma di un fatto che ha avuto luogo. Ma ciò dipende dal doppio significato della parola greca per 'alleanza'
La morte di Cristo come sacrificio cruento dell'alleanza
(diatheke), che significa anche 'testamento'. Questo fatto consente in seguito all'autore di dedurre dalla parola la necessità della morte di Gesù sotto un duplice aspetto. Il traduttore può soltanto rendere questo doppio significato traducendo nei vv. 16 e 17 con 'testamento', e poi a partire dal v. 18 nuovamente con 'alleanza'. e) Già dal concetto 'testamento-alleanza' appare quanto fossero necessari morte e sacrificio cruento, come dimostra la consacrazione dell'alleanza mosaica ( 9,16-22) 16 Infatti, dove c'è un testamento è necessario che sia constatata la morte del testatore, 17 perché un testamento è valido solo dopo la morte, poiché non ha effetto finché vive il testatore. 18 Perciò anche la prima alleanza non è stata consacrata senza sangue. 19 Infatti dopo che da Mosè fu proclamato a tutto il popolo ogni comandamento secondo la legge, egli prese il sangue dei vitelli e dei capri, con dell'acqua e lana scarlatta e issopo ed asperse il libro stesso e tutto il popolo 20 dicendo: «Questo è il sangue dell'alleanza che Dio ha prescritto per voi». 21 E allo stesso modo asperse di sangue anche la tenda e tutti gli oggetti del culto. 22 E secondo la legge quasi tutto è purificato con il sangue, e senza effusione di sangue non c'è remissione.
16-22. Il fatto che d'un tratto l'autore dall'idea di 'alleanza' passi a quella di 'testamento' (la stessa parola aveva comunemente questo secondo significato presso i Greci fuori dell'area di influenza della Bibbia) è in certo qual modo preparato dal v. 15, dove - allo stesso modo che in Paolo - la salvezza futura era detta un'eredità. In quanto sono il vero seme di Abramo, i credenti ricevono la promessa fatta al patriarca (cfr. Gal. 3,18.29; Rom. 4,13 s.). Con la sua consueta agilità mentale l'autore ora (sia pure soltanto per un momento, nei vv. 16 e 17) utilizza il significato di 'testamento', per dedurre da tale concetto la necessità della morte di Gesù. Perché un testamento abbia intera la sua efficacia, il testatore deve prima morire; prima di allora egli può revocarlo o apportargli delle modificazioni. Certamente, se si volesse andare più in profondità nell'analisi di questa figura si andreb-
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be incontro alle più grandi difficoltà; infatti Cristo non era il testatario ma il garante di questo 'testamento': dunque, quale sarebbe il bene che ci avrebbe lasciato in eredità, al quale egli avrebbe rinunciato a nostro favore? I beni che Cristo ci trasmette, proprio secondo Hebr. li trasmette in quanto è il Vivente nel cielo. I credenti sono i suoi 'partecipi' (3,14), come secondo Paolo i suoi 'coeredi' (Rom. 8, 17). Ma l'autore trascura tutte queste questioni; a lui interessa soltanto che per rendere valido un 'testamento' è necessaria una morte. Però, certamente a causa di queste difficoltà, egli non insiste su questa idea. Nel v. l 8 si parla nuovamente dell'alleanza. Ma, anche se assume la parola in questo significato, l'autore ne viene a trarre la stessa conseguenza. L'alleanza necessitava di una consacrazione; la consacrazione necessitava del sangue, imponendo così una morte. Lo si vede negli avvenimenti relativi all'istituzione della prima alleanza attraverso a Mosè. Qui si tratta dell'obbligazione di Israele alla legge dell'alleanza di Ex. 24,2-8. È vero che qui si parla soltanto di aspersione del popolo e non anche del libro, della tenda e degli oggetti del culto; inoltre si parla soltanto di aspersione con il sangue dei vitelli immolati in precedenza, senza far parola dell'uso del resto di cui parla il v. 19. Il tabernacolo e i suoi oggetti di culto, secondo Ex. 40,9 e Lev. 8,10-12, vengono consacrati non con sangue ma con unguenti. Invece secondo Lev. 8,15.19 la consacrazione espiatoria dell'altare è compiuta con sangue. Lana purpurea ed issopo vengono usati secondo Lev. 14,4 nella purificazione formale dei lebbrosi, e secondo Num. 19,6 insieme con la cenere della vacca rossa nel rito della purificazione. L'autore ha dunque concentrato con una certa imprecisione diverse prescrizioni, anche per l'influenza di uno sviluppo e di un ampliamento rabbinico di quanto tramandato nel testo biblico. Ciò che lo interessa è il ruolo decisivo che ha avuto il sangue versato nella conclusione dell'alleanza mosaica, come lo stesso Mosè aveva messo in rilievo nelle parole con le quali ave-
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va accompagnato il gesto dell'aspersione. Il lettore ne deve dedurre che naturalmente anche per la costituzione della seconda alleanza era necessario del sangue ed una morte. Ma prima di passare, nel brano successivo, a trattare del suo carattere particolare, l'autore si intrattiene più ampiamente su quel che ha detto circa l'ineluttabilità del sangue, nel senso che principalmente e non solo nella consacrazione di quel1'alleanza secondo la legge pressoché ogni cosa (cfr. però ad es. Lev. 5, II - 1 3 ) è purificata con il sangue, per concludere con l'affermazione categorica che non v'è remissione senza effusione di sangue. Pure in Lev. 17,1 1 è detto che il sangue, per la vita che in esso è contenuta, serve all'espiazione ed a tale scopo è stato dato agli uomini. Da rilevare in questo versetto la naturalezza con cui al v. 22 è fatto entrare il concetto di 'perdono' al posto di quelli di 'purificazione', 'aspersione', 'consacrazione' (v. 18 ). Anche in quegli atti cruenti per il nostro autore si trattava in sostanza di riti espiatori che tendevano ad ottenere il perdono; ma quest'ultimo è un concetto che esce fuori da una concezione puramente rituale, cultuale, per elevarsi ad una sfera etico-personale. d ) Per la consacrazione del santuario celeste della nuova alleanza era sufficiente solo l'autoimmolazione cruenta di Cristo, ma questa doveva essere compiuta, e lo fu, una volta per sempre ( 9,2 3-28) 23 Era dunque necessario che le copie delle realtà celesti fossero purificate con questi mezzi, ma le realtà celesti dovevano esserlo con sacrifici più eccellenti di questi. 24 Infatti Cristo non entrò in un santuario fatto da mano d'uomo, che è soltanto un'immagine di quello vero, ma nel cielo stesso per apparire ora al cospetto di Dio in nostro favore; 25 e neppure per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote una volta all'anno entra nel santuario con un sangue che non è il suo; 26 altrimenti egli avrebbe dovuto soffrire più volte dalla creazione del mondo: ora invece si è manifestato una volta per tutte alla fine dei tempi, per abolire il peccato con il suo sacrificio. rt E come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, e che dopo venga il giudizio, 28 così anche Cristo, dopo essersi offerto una volta «per togliere i peccati di molti», apparirà una seconda volta
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senza peccato a coloro che lo attendono per dare loro la salvezza.
23-28. Le idee dominanti di questa sezione ci sono già note da quanto è stato detto in precedenza. Ad esempio, che la tenda terrena ed il suo santuario sono considerate soltanto delle copie di originali che si trovano in cielo (cfr. 8, 5 ); la contrapposizione tra il santuario 'fatto con le mani' e quello 'vero', nel cielo (cfr. 9,u; 8,2); che Cristo ha attraversato i cieli (cfr. 4,14) o, come è detto qui, è entrato nel cielo e appare davanti a Dio per noi (cfr. 7,25). Anche la irripetibilità del suo sacrificio, in contrapposizione al sacrificio rinnovato ogni anno dal sommo sacerdote aronnitico, è già stata messa in evidenza in 7,27 e 9,12. Ma in questa sezione troviamo due novità: l'effettiva superiorità del sommo sacerdozio di Cristo è trattata fino al v. 15. Ma per una completa conoscenza di un avvenimento non occorre soltanto affermarne il senso, ma vederne anche la necessità. Dunque bisogna chiarire la necessità dell'immolazione di Cristo. Questa è la prima delle due idee nuove contenute in questa sezione. La conclusione di un'alleanza esige del sangue; doveva essere sangue di Cristo, il Figlio di Dio? Che non poteva essere altrimenti è ciò che dev'essere dimostrato. A tal fine l'autore per il momento resta fermo all'idea della consacrazione di un'alleanza e delle sue istituzioni; ora non è pensabile che l'originale istituzione celeste fosse 'purificata' con il sangue di vitelli e capri ecc., perché questi mezzi terreni non hanno alcun potere in cielo. Qui era necessario un mezzo migliore, celeste, il sangue del Figlio di Dio che si è offerto in sacrificio 'per uno Spirito eterno' (9,14). Qui si astrae completamente dal fatto che a rigore non si può assolutamente parlare di una 'purificazione', cioè di una cancellazione dei peccati, del santuario celeste. Soltanto l'idea generale della consacrazione o apertura può costituire l'elemento di comparazione; perciò l'autore abbandona subito quest'idea della consacrazione dell'alleanza per rivolgersi nuovamente al con-
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Per la consacrazione del santuario celeste
fronto con il servizio del sommo sacerdote nel giorno della riconciliazione. Il pensiero quindi si sposta sensibilmente. Ma anche se l'autore si prospetta Cristo come il celeste sommo sacerdote nel santo dei santi in cielo per presentarsi direttamente al cospetto di Dio a favore dei credenti, si ha sempre la stessa impossibiltà di ottenere qualcosa con quei mezzi espiatori terreni: anche così, dunque, non rimane altro che l'autoimmolazione di Cristo. Si aggiunga che questo sacrificio è stato concepito come unico, e anche per questo, allora, doveva essere infinitamente più prezioso del sacrificio ripetuto ogni anno dal sommo sacerdote veterotestamentario. Ed effettivamente lo è stato, perché quelli si presentavano con sangue altrui, con sangue di animali, ma egli si è presentato con il suo sangue. Ma ora l'autore si rende conto di un'obiezione, che porta alla seconda idea di questa sezione; l'autore ha la sensazione che gli chiederanno con quale diritto egli sottolinei tanto l'unicità del sacrificio di Cristo. È stato veramente così prezioso da avere il suo pieno effetto con l'unico sacrificio? L'autore risponde accennando al fatto storico dell'unicità della passione di Cristo; in passato non ce n'è stata nessun'altra e per il futuro non c'è possibilità di una sua ripetizione, perché questa unica passione ha avuto luogo alla fine dei tempi. Soltanto allora il Figlio si è manifestato 'per abolire il peccato con il suo sacrificio'. Cancellazione dei peccati (9,26), assunzione o eliminazione dei peccati (9,28; l0,4), redenzione dai peccati (9,15), purificazione delle coscienze (9,14), santificazione (2,11 cfr. 9,13.14; 10,10), perfezione nei riguardi della coscienza (9,9), perdono (9,22; ro, l 8) sono tutti concetti che esprimono la stessa cosa. Se nel v. 26 il sacrificio è definito unico ed irripetibile, nel v. 27 a spiegazione di questa unicità è portato ancora a confronto il destino generale dell'uomo. Si muore solo una volta e la conclusione finale è il giudizio. Così anche Cristo è morto soltanto una volta; solo che la sua morte non è stata una morte comune, ma (come sappiamo da lungo tempo e come ora viene con-
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fermato con un richiamo al cap. 5 3 di Isaia sul servo di Dio sofferente) è stata un'immolazione per cancellare i peccati di molti. La comune morte degli uomini è il passaggio al giudizio. Questa morte significa la salvezza dal giudizio. Certamente Cristo apparirà ancora una volta, ma 'senza peccato'; e non soltanto come apparve anche la prima volta 'senza peccati' (4,15 ), ma anche, nel senso di 9,15, senza avere nulla a che fare con il peccato. Egli verrà per portare la salvezza dal giudizio a coloro che lo hanno atteso, per realizzare definitivamente la loro salvezza. Così stanno le cose: la colpa è stata riscattata una volta, e ciò vale per sempre. Qui si sente sottintesa l'esortazione: consolatevi; aspettate anche voi. e)
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culto sacrificale secondo la legge si dimostrava insufficiente appunto per la ripetizione dei sacrifici stessi ( rn,r-4)
1 La legge infatti possedendo soltanto l'ombra dei beni futuri e non l'immagine stessa delle cose, con i sacrifici che offre incessantemente ogni anno non può rendere perfetti coloro che vi si accostano. 2 Altrimenti non avrebbero forse cessato di offrirli, dato che i ministri di questo culto, una volta purificati, non avrebbero più avuto coscienza del peccato? 3 Al contrario, con tali sacrifici si richiama ogni anno il ricordo del peccato. 4 Invero è impossibile che il sangue di tori e di capri tolga i peccati.
l-4. La dimostrazione del cap. 9 si basava sull'affermazione dell'inadeguatezza dell'ordinamento cultuale veterotestamentario. Il tabernacolo era la tenda o il santuario eretto da mani d'uomo (9,1 r.24), era soltanto un'imitazione, un'ombra del vero santuario, quello celeste (8,2-5; 9,1r.24), al quale veniva contrapposto. Ora l'autore riprende questa contrapposizione per dedurre dall'ordinamento cultuale istituito dalla legge la sua inadeguatezza. Tale ordinamento era già stato chiamato in 9,8 a testimoniare contro se stesso, in quanto nella disposizione della tenda l'accesso al 'santo dei santi' era sbarrato dalla tenda anteriore, e ne era stato dedotto che di
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Il culto sacrificale secondo la legge era insufficiente
per sé ciò additava una condizione in cui esso non sarebbe più stato necessario. Ora l'autore riprende questo genere di dimostrazione interpretando la ripetizione annua del sacrificio del grande giorno dell'espiazione (Lev. r6) come un'ammissione della sua insufficienza; però non prende in considerazione il fatto che i nuovi sacrifici si riferivano ogni volta ai nuovi peccati dell'anno trascorso. Indipendentemente da ciò, la ripetizione del sacrificio è proprio la prova che non è stata ancora raggiunta una condizione soddisfacente del rapporto religioso, non più minacciata dal peccato dell'uomo. Allo stato di ombra dell'intero ordinamento cultuale veterotestamentario corrispondono anche sacrifici che sono soltanto un'ombra di quello vero, in quanto non possono avere un effetto veramente positivo: quello, cioè, di 'rendere perfetti' coloro 'che vi si accostano', vale a dire di dare loro il perdono, di cancellare i peccati, affinché si liberino dall'ansia della cattiva coscienza e l"accostarsi' non sia soltanto un tentativo, ma che da esso derivi una reale comunione con Dio: un tale effetto non lo hanno e non lo possono avere. Al contrario, in luogo di scaricare la coscienza dei peccati, i sacrifici veterotestamentari li richiamano sempre alla memoria: un effetto dell'ordinamento cultuale fissato dalla legge che, se non raggiunge la severità della visione paolina (secondo la quale la legge persegue addirittura lo scopo di aumentare i peccati e di gettare gli uomini nella profondità della loro miseria), le si accosta molto (cfr. sopra comm. a 7,II). L'affinità tra le due concezioni è molto stretta, come può esserlo soltanto se sj cerca di mettere in chiaro l'importanza della persona e dell'opera di Cristo in contrapposizione all'istituto espiatorio del sacerdozio veterotestamentario. In ultima analisi, certamente, anche questo risultato negativo è, per l'autore di Hebr. esattamente come per Paolo, un risultato positivo nella misura in cui risveglia o tiene sveglio il desiderio della redenzione e la disponibilità a ricevere ciò che Cristo ha portato. Ma con i mezzi del cultù veterotestamentario non si poteva
Hebr.
IO,J-IO
233
assolutamente provocare un risultato direttamente positivo; infatti quei riti cruenti come avrebbero potuto annullare i peccati, portare alla purificazione delle coscienze, al perdono e all'accesso a Dio? Che ciò fosse impossibile dovrebbe secondo l'autore apparire chiaro ad ognuno, e perciò non viene ulteriormente dimostrato. La frase inserita qui con tanta naturalezza significa niente di meno che tutto l'ordinamento cultuale veterotestamentario si fonda su un'illusione; ma l'autore non si sofferma a rispondere alla domanda spontanea di come tale istituzione appaia in una legge ordinata da Dio, e neppure all'altra domanda se questa critica della affermazione fondamentale sull'ordinamento cultuale veterotestamentario in Lev. r 7, rr («la vita del corpo è nel sangue e io ve l'ho dato sopra l'altare affinché le vostre anime siano redente; infatti il sangue è l'espiazione, perché in esso è la vita») non intacchi la logica del procedimento di afferrare la persona ed il successo dell'opera di Cristo valendosi proprio dei mezzi visibili e concettuali offerti da quell'ordinamento cultuale (cfr. sopra comm. a 9,14). f) Perciò, secondo Ps. 40, l'ordinamento sacrificale veterotestamentario conforme alla volontà di Dio è stato abolito per mezzo di Cristo e sostituito con il suo sacrificio una volta per tutte ( 10,5-10) 5 Perciò
entrando nel mondo dice: «Non hai voluto né sacrificio né oblazione, ma mi hai preparato un corpo; 6 non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. 7 Allora io ho detto: Ecco, vengo poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, Dio, la tua volontà». 8 Prima dice: «Non hai voluto né ti sono stati graditi sacrifici ed oblazioni e olocausti e vittime per i peccati», che vengono offerti secondo la legge; 9 poi ha detto: «Ecco, vengo per fare la tua volontà». Egli abolisce il primo per fondare il secondo. 10 Ed è in questa 'volontà' che siamo santificati mediante !"oblazione' del 'corpo' di Gesù Cristo una volta per sempre.
5-ro. Nel cap. 9 era stato detto ampiamente che, in luogo dell'inadeguato ordinamento cultuale veterotestamentario, nella
234
L'ordinamento veterotestamentario abolito da Cristo
nuova alleanza interviene il sacrificio più valido ed. irripetibile di Cristo. Ciò avvenne, dice questa nuova sezione, secondo la volontà di Dio. Questo è l'accento di tutta la sezione. La prova è tratta da Ps. 40,7-9, i cui versetti sono citati come parole di Cristo pronunciate al momento della sua incarnazione. Il Salmo è l'inno di ringraziamento di un fedele, che loda Dio per l'aiuto ricevuto; il testo originario ebraico del v. 5 ( =40,7a) dice: «Non ti piacciono sacrifici ed olocausti; mi hai forato le orecchie», cioè: obbedienza è ciò che vuoi; l'obbedienza è migliore dei sacrifici. Segue poi Hebr. 10,6, e anche questa volta il testo originario di Ps-40,7 c.8 dice: «Allora ho detto; ecco, vengo. Per me è scritto nel libro. È un piacere per me, Dio, fare la tua volontà». La penultima frase sembra voler dire che il fedele può leggere nel libro della legge di Mosè come debba comportarsi per fare la volontà di Dio. In complesso il senso è questo: il fedele promette a Dio, in segno di ringraziamento per l'aiuto ricevuto, gioiosa obbedienza nel senso di fedele adempimento della legge. La traduzione greca dei LXX ha sostituito «mi hai forato le orecchie» con «hai preparato un corpo per me», un'espressione dalla quale nel contesto non si può trarre alcun senso. Ma proprio questa errata traduzione per il nostro autore è l'elemento più prezioso della citazione, perché costituisce una nuova e importante conferma delle osservazioni fatte intorno alle citazioni del cap. r (cfr. sopra pp. 143 ss.). Infatti, come prova il v. ro, l'autore comprende le parole della citazione nel senso che Gesù vede in esse la volontà di Dio, che egli offra in immolazione il suo corpo. Questo era lo scopo per cui Dio gli dette un corpo, lo scopo dell'incarnazione. Il v. 7 è la risposta di Cristo alla volontà di Dio espressa nella preparazione del suo corpo: egli si dichiara pronto a venire nel mondo per adempiere questa volontà di Dio. Naturalmente l'autore poteva trarre dalle parole del salmo questo significato soltanto omettendo le parole finali dell'ultimo periodo della citazione ('è per me un piacere') che pure si trovano anche nei
Hebr. Io,5-Io
235
LXX. Cristo non può e non vuole sottrarsi alla volontà di Dio che egli diventi un uomo e si offra in sacrificio, a quella volontà di Dio che è espressa chiaramente nel rotolo del libro, cioè nelle profezie dell'Antico Testamento. Ciò che Dio vuole, lo vuole anch'egli. Ma la volontà di Dio non è soltanto positiva, ma anche negativa: il culto sacrificale in vigore finora dev'essere abrogato. È vero che ciò è strano, perché il culto viene compiuto secondo la legge che Dio stesso ha dato. Si potrebbe quasi dire che si tratti di un avvenimento rivoluzionario; ma è Dio stesso che lo vuole. Anche se un tempo ha ordinato nella legge il culto sacrificale, quando ha inviato Cristo nel mondo la sua volontà era indirizzata alla redenzione per mezzo di lui e rigettò pertanto il culto sacrificale. Perciò Cristo abroga secondo le parole del salmo 'il primo', cioè questo culto sacrificale, per fondare 'il secondo', la volontà di redimere per mezzo di Cristo. Il contenuto di questa volontà è la nostra santificazione, perciò la nostra elevazione alla comunione con Dio attraverso l'unico sacrificio di Gesù Cristo (dr. 2,11). Per la prima volta (e poi ancora soltanto in 13,8. 2 l) l'autore usa questo doppio nome, che per lui ha qualcosa di solenne. Una volta conseguita la santificazione non c'è più posto per il culto sacrificale di un tempo. Parlando di volontà di Dio viene a perdere ogni significato la stessa domanda, che potrebbe sorgere dal v. 4, se cioè sia possibile cancellare i peccati con il sacrificio cruento di Cristo: era la volontà di Dio, e ciò è sufficiente. Il modo in cui l'autore pone sulle labbra di Cristo queste parole del salmo, senza preoccuparsi minimamente di dare una giustificazione di questo suo procedimento, e il modo con cui le interpreta, è estremamente ardito. Nelle sue mani, le parole del salmo diventano per così dire l'eco di un dramma all'interno di Dio, al cui centro sta la decisione di Dio di procedere alla redenzione per mezzo dell'autoimmolazione di Cristo. Il concetto di Dio dell'autore è di un'ardita vivacità. È il concetto cristiano di Dio.
Il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile
g) Che il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile, perché è stato pienamente efficace, si deduce dal fatto che, secondo Ps. uo,1 egli si è assiso alla destra di Dio, ed è confermato da ler. 31,33 ( 10, II·I8) E mentre ogni sacerdote si presenta ogni giorno e compie il suo servizio e offre ripetutamente gli stessi sacrifici, che non possono mai cancellare i peccati, 12 egli invece ha offerto un solo sacrificio per i peccati e «siede alla destra di Dio» per sempre, 13 attendendo solo «finché i suoi nemici saranno posti a sgabello dei suoi piedi». 14 Infatti con una sola immolazione ha reso per sempre perfetti coloro che ha santificato. 15 Ce lo attesta anche lo Spirito Santo. Infatti dopo aver detto: 16 «Questa è l'alleanza che stabilirò con loro dopo quei giorni, dice il Signore, mettendo le mie leggi nei loro cuori e ponendole nella loro mente» 17 (attesta:) «e dei loro peccati» e delle loro trasgressioni «non serberò più memoria». 18 Ma dove queste cose sono perdonate non c'è più oblazione per il peccato. 11
r 1-18. L'unicità dell'autoimmolazione di Cristo era già stata più volte messa in evidenza nei capp. 8 e 9 (cfr. 7,27; 9,12. 26.28 ). Poteva e doveva essere irripetibile perché aveva avuto un'efficacia assoluta: un'unica redenzione (9,12), una reale cancellazione dei peccati (9,26.28) e proprio per questo anche abolizione del culto finora in vigore ( 10,5-10 ). Dunque l'unicità del sacrificio di Cristo, come il rovescio e la conferma della sua efficacia totale, è per Hebr. un tratto di importanza decisiva. Perciò tutta l'attenzione dell'autore è rivolta ancora una volta al sommo sacerdozio di Cristo in questi versetti conclusivi del grande brano dottrinale che è al centro della nostra Lettera (7,1-10,18). In primo luogo ritornano le idee di l0,1-4, ma estese dal sommo sacerdozio al sacerdozio in generale. L'autore si rappresenta espressivamente il culto veterotestamentario, quale è prescritto dalla legge: i sacerdoti, uno o l'altro che sia, stanno tutti i giorni all'altare, offrendo sacrifici; ma è tutto vano perché i loro mezzi di espiazione sono inadeguati. Il peccato rimane. È già significativo che essi debbano stare in piedi, come schiavi pronti a sempre nuovi sacrifici (cfr. Le. 17,7-10). Già nel
Hebr.
IO,II-I8
237
cap. r l'autore aveva contrapposto al Figlio assiso sul trono della sua maestà nei cieli gli angeli inchinati reverenti o in continuo movimento. Così qui il sacerdote sempre pronto al servizio viene contrapposto a Gesù Cristo assiso all'eterna quiete alla destra di Dio, con le stesse parole di Ps. IIO, utilizzate già nel cap. l. La sua opera è compiuta con il suo unico sacrificio. Ora può attendere fino a quando Dio deporrà incatenati ai suoi piedi coloro che sono e vogliono rimanere i suoi nemici, come ha promesso in Ps. II0,1 programmaticamente messianico. Ma questo è possibile perché con un unico sacrificio ha ottenuto ciò che quelli, con tutti i mezzi a loro disposizione, non hanno ottenuto e non potevano ottenere. Egli ha resi perfetti coloro i quali sono santificati da lui. E qual è questo fine di perfezione? Null'altro che la remissione, come mostra la citazione di Ier. 31,33 s., a conferma definitiva. La citazione è a memoria, e perciò si discosta lievemente da quella di 8,ro; inoltre l'autore, dopo la citazione in IO, l 6, tralascia alcune righe per passare subito al finale sulla remissione (cfr. 8,12). Queste, dunque, sono le parole che gli interessano. Perciò le parole 'dice il Signore', che appartengono alla citazione, non vanno considerate come continuazione di 'dopo che ha detto' del v. 15, mà tale continuazione andrebbe integrata all'inizio del v. 17. Il v. 16 è concepito soltanto come un'introduzione, che deve rammentare l'essenza della nuova alleanza. Lo scopo che doveva essere raggiunto, e che è stato raggiunto grazie al sacrificio di Gesù Cristo, è che Dio non serba più memoria dei peccati, cioè concede il perdono. Che sia così lo ha attestato lo Spirito Santo stesso nelle parole che ha ispirato al profeta. La fine del servizio sacrificale veterotestamentario è dunque la naturale deduzione. Il versetto finale di questa sezione va rilevato perché, collegato al v. 14, mostra chiaramente ancora una volta che, per il nostro autore, santificazione, perfezione (nella misura in cui si tratta dell'effetto del culto sugli uomini), remissione, sono concetti equivalenti (v. sopra comm. a 9,26). Nella pa-
Il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile
rola 'remissione' è compreso tutto; anche Paolo non vuol dire altrimenti quando parla di giustificazione (cfr. specialmente Rom. 4,5-7 ). Il cardine del rapporto religioso è l'interrogativo sul perdono dei peccati, e Gesù vi ha dato risposta.
PARTE TERZA DEDUZIONI ( ro,r9-r 2,29)
Ordinamento ed articolazione. Il tema del sommo sacerdozio di Gesù era apparso per la prima volta in 2,9.17 s. Dopo un'ampia esortazione di carattere pastorale, era ritornato in 4,14 ss., per essere ancora una volta interrotto, allo scopo di dare il passo ad una nuova esortazione in 5, rr-6 ,2 o. Infine da 7,1 a ro,18 esso è trattato in tutte le direzioni; questi capitoli costituiscono così la vera e propria parte teoreticodottrinale della Lettera. Ma tutte le affermazioni teoreticodottrinali che hanno per oggetto la superiorità di Cristo sulle istituzioni salvifiche dell'Antico Testamento, in realtà sono estremamente pratiche; tutte servono soltanto al fine pastorale di dare ai destinatari della Lettera una rinnovata fiducia nella verità cristiana della salvezza, e di mantenerli nella comunità cristiana. Perciò è naturale che l'autore, dopo aver accuratamente posto le basi conoscitive della convinzione cristiana, si dedichi ora al compito pastorale: ora che per mezzo di questo sommo sacerdote è aperto l'accesso al vero santuario, entriamo in esso con fede gioiosa e atteniamoci senza incertezze alla professione della speranza. Le esortazioni pastorali della prima parte hanno il loro coronamento in questi capitoli. Da essi si distacca così chiaramente la grande catena di esempi della fede nel cap. l l, che ne deriva una tripartizione chiara di questa terza parte. Nel resto del cap. ro troviamo innanzi tutto (unito molto consequenzialmente a quanto precede) l'incitamento ad «attenersi alla professione
Ora atteniamoci alla professione della speranza
della speranza» e a restare fedeli alla comunità (10,19-25). E ciò tanto più in quanto l'apostata è minacciato dalla tremenda severità del giudizio divino ( 10,26-3 l ). Incitamento e messa in guardia si appoggiano ad uno sguardo al passato e ad uno al futuro: all'esemplare condotta dei lettori durante un periodo di persecuzioni in un tempo precedente ( 10,32-34) e alla ricompensa promessa alla fede perseverante ( lo, 3 5-3 9). Nel cap. l l, poi si presenta una 'nuvola di testimoni' di questa fede vista come l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli di tutti i tempi. Essi particolarmente hanno conservato la fede nonostante innumerevoli persecuzioni dolorose. Perciò l'autore in 12,1-1 l si rivolge nuovamente ai lettori invitandoli a non lasciarsi confondere nella loro fede dalle sofferenze, attraverso alle quali essi vengono guidati (certo con la migliore intenzione del loro Padre celeste), per poi in 12,12-29 concludere efficacemente questa parte con una rinnovata messa in guardia dalla caduta irreparabile. Ora atteniamoci alla professione della speranza e restiamo fedeli alla comunità ( 10,19-25) Avendo dunque fiducia, fratelli, di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Cristo, 20 su una via nuova e vivente, che egli ci ha aperto attraverso al velo, cioè la sua carne, 21 e poiché abbiamo un grande sacerdote 'a capo della casa di Dio', 22 entriamo con cuore sincero nella pienezza della fede. Infatti i nostri cuori sono purificati dalla cattiva coscienza e il nostro corpo è lavato in acqua pura. 23 Atteniamoci senza esitare alla professione della speranza, perché è fedele colui che ha fatto la promessa. 24 E facciamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci alla carità e alle opere buone, 25 e non disertiamo la nostra assemblea, come è abitudine di qualcuno, ma incoraggiamoci (a vicenda), quanto più vedete che 'il giorno' si approssima. 19
19-25.Per la seconda volta dopo 3,12 l'autore si rivolge ai suoi lettori con l'appellativo di fratelli, per esporre loro nei vv. 19-21, come punto di partenza per la successiva esorta-
Hebr. Io,19-25
zione, l'importanza oggettiva del possesso religioso che debbono a Gesù. I versetti non sono che il riassunto estremamente conciso delle considerazioni svolte finora. Un tempo, sotto la prima alleanza, non c'era alcuna possibilità di accedere al santuario (cfr. 9 ,8); ora abbiamo la possibilità di accedervi con gioiosa fiducia. Non che l'autore voglia dire che ognuno ha questa fiducia, giacché deve continuamente incoraggiarli ad averla (cfr. 3,6; 4,16; rn,22); ma ognuno potrebbe e dovrebbe averla in base all'efficace mezzo di espiazione che è il sangue di Gesù. Con il sangue degli animali (il mezzo di espiazione di cui disponeva) il sommo sacerdote poteva entrare nell'ombra del santo dei santi terreno; con il sangue di Cristo essi entrano (esercitando i diritti di un sommo sacerdote) nel vero santuario, giungono alla comunione di Dio. Lo stesso concetto è trattato al v. 20 con un lieve cambiamento dell'immagine, in quanto ora non si parla più dell'accesso, cioè del diritto di accedere, ma della possibilità concreta di entrare nel santuario. Si tratta di una via che finora non esisteva, che ha aperto Gesù. L'insolita definizione della via come vivente non può riferirsi al fatto che porta alla vita, giacché questa definizione del fine della salvezza, cara in modo particolare a Giovanni, non è usuale nella Lettera, nonostante lo,38 e 12,9. Non vuol dire neppure che essa è imperitura, perché l'autore avrebbe espresso questa idea con il termine per lui solito di 'eterna'. Piuttosto la via è chiamata così perché è aperta da uno che è sacerdote «secondo la forza di una vita indistruttibile» (cfr. 7,16), che in ultima analisi è egli stesso la via. Ma il modo di esprimersi dell'autore non è molto chiaro, e ciò vale ancora di più per quel che segue. Se è chiara l'osservazione che la via conduce 'attraverso al velo', cioè al santo dei santi che era separato dalla tenda anteriore da un velo, è invece molto strano ciò che l'autore dice subito dopo, e cioè che il velo, attraverso il quale Cristo ha aperto la via, è la sua carne. Forse vuol dire che Gesù, fintantoché era nella carne, non godeva ancora della di-
242
Ora atteniamoci alla professione della speranza
retta vicinanza di Dio; che la forza esistenziale umana costituiva per il suo diretto rapporto con Dio un ostacolo paragonabile al velo del santuario interno, che egli superò con la sua morte. Ma qui si dice qualcosa di ben diverso, e cioè che egli ci ha aperto la via attraverso la sua carne; infatti non si deve affatto intendere che Gesù ci ha aperto la via per mezzo della sua carne, cioè con l'offerta del corpo (cfr. lo, IO), con la sua immolazione; l"attraverso' alla sua carne va inteso nello stesso senso dell"attraverso' il velo, cioè come l'ostacolo da superare lungo la via di accesso al santuario. L'espressione rimane oscura. Se comunque il v. 20 in sostanza non dice nulla di nuovo, viceversa è importante che Gesù non soltanto abbia versato il sangue dell'espiazione (v. 19), ma piuttosto che noi abbiamo in lui un 'grande' sacerdote, cioè eminente, perché entrato nei cieli (cfr. 4,14) ed è assiso in trono alla destra di Dio; un sacerdote che è posto alla testa della casa di Dio, vale a dire della comunità che gli si è mantenuta fedele (cfr. 3,6), e che interviene presso Dio ad intercedere per essa (cfr. 7,25; 9,24). Da questi presupposti ora è il momento di trarre le deduzioni necessarie. Nei vv. 22-25 troviaJ> mo una triplice esortazione (fra i destinatari della quale l'autore mette anche se stesso), fondata sui tre motivi di fede, speranza e carità. Prima di tutto si tratta di fare uso del nuovo accesso a Dio e di avvicinarsi 'al trono della grazia', come dice 4,16, 'con cuore sincero', che si dona interamente, senza secondi fini o riserve, e con la piena coscienza della fede. Ciò che questo significa verrà ampiamente trattato nel cap. l r. Per giustificare ancora di più questa esortazione, inoltre, è messo in rilievo che ciò che oggettivamente è stato procurato dall'opera di Cristo è anche soggettivamente dedicato ai lettori; e ciò è descritto paragonando ancora una volta i lettori ai sacerdoti veterotestamentari. Questi venivano consacrati con aspersione di sangue ed un bagno nell'acqua (Lev.8,6.30; r 6,4 ). Quando i lettori diventarono cristiani, vennero a trovarsi sotto l'efficacia del sangue di Cristo; 'aspersi' con esso
Hebr. ro,r9-2J
243
vennero interiormente resi liberi dalla cattiva coscienza, vale a dire che ricevettero il perdono; a ciò si aggiunge il battesimo corporale. Del rapporto reciproco in cui stanno l'avvenimento interiore e quello esteriore l'autore non parla; egli non prende neppure in considerazione la possibilità di ricevere l'uno senza dell'altro. Egli non concepisce il battesimo 'misticamente' (come Paolo) ma, conforme a tutto il suo pensiero, come un'azione cultuale, al modo delle purificazioni veterotestamentarie. La seconda esortazione, che succede immediatamente alla prima, è di attenersi alla professione della speranza. Dato che subito prima si era parlato del battesimo, e che è da pensare che fin dai primissimi tempi esso fosse collegato, sia pure minimamente, ad una qualche 'professione', si potrebbe vedere nell'espressione del v. 23 una qualche forma di professione cristiana. Ma la sua definizione come professione della speranza sarebbe strana, in quanto ci si attenderebbe che il contenuto essenziale di una tale professione fosse l'espressione della fede nella rivelazione e nella redenzione operata da Gesù (cfr. I Tim. 3,r6), e non proprio la speranza in sé e per sé. Perciò si dovrà interpretare la nostra espressione sulla scorta di I Petr.3,r5, cioè nel senso che i lettori non devono mai cessare di professare la speranza nella salvezza cristiana (cfr. 2,6b; 3,r); e possono farlo tanto più fermamente in quanto è ferma la fedeltà di Dio, che ha fatto la promessa (cfr. 6,r2 ss.). Ma l'autore non vede i suoi lettori come singole persone; essi stanno in una comunità, che lega tutti con la forza obbligante della responsabilità reciproca. Anche qui, come in 4,r2 s., l'autore vuole inculcare questo concetto. Tra gli elementi caratteristici di questa comunità sono l'amore e le 'buone opere': un concetto sintetico per esprimere le azioni moralmente valide che appaiono al di fuori dell'uomo che le compie, e che sono inseparabili da un amore che meriti questo nome. Esso è l'anima della comunità cristiana. Ciò nonostante, il pastore d'anime esperto sa che c'è bisogno di incitare continuamente ad esso i credenti. Per prestarsi recipro-
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La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati
camente questo servizio i lettori debbono fare attenzione l'uno all'altro. Il luogo di questo incitamento è l'assemblea della comunità; perciò segue, in strettissima relazione grammaticale, l'esortazione a non disertarla, ma a frequentarla e (questa è l'idea dell'autore) a non sottrarsi in essa al dovere della reciproca promozione interiore. Un'ultima forte spinta morale, come in generale nel Nuovo Testamento, è data dal richiamo al 'giorno', il giorno del Signore, di cui già aveva parlato la profezia veterotestamentaria; quel giorno, che sarà il giorno del giudizio, del cui approssimarsi i lettori vedono molti segni, se tengono gli occhi aperti. Nel versetto pulsa l'estrema tensione dell'attesa escatologica dei primi tempi cristiani. L'astensione dalla regolare liturgia comunitaria che, come l'autore constata con dispiacere, per alcuni si è già fatta un'abitudine, va attribuita non tanto all'inclinazione ad estraniarsi settariamente quanto all'indifferenza intima per ciò che la comunità cristiana ha ed è. In tal caso le prospettive sono brutte; incombe la minaccia della caduta irreparabile. La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati ( 10,26-31) Perché se noi pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non c'è più sacrificio per i peccati, TI ma solo un'attesa terribile del giudizio e dell' «ardore del fuoco» che « distruggerà i ribelli». 28 Chi viola la legge di Mosè deve senza misericordia «morire per la deposizione di due o tre testimoni». 29 E di qual supplizio più atroce, pensate voi, non sarà degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e avrà stimato volgare ~
26-3 r. Il v. 26 è unito a quanto precede a modo di sua giustificazione. Ne consegue che per 'peccato volontario' non
Hebr. Io,2G-3I
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s'intende una qualche ingiustizia compiuta nonostante la migliore volontà, ma l'indifferenza con cui ci si separa dalla comunione cristiana e dal suo intimo possesso, cioè la rinuncia all'atteggiamento cristiano essenziale, il distacco dalla fede. Ciò appare del tutto chiaro nel v. 29, giacché la prova addotta nei vv. 28 s. per giustificare il giudizio, che è da aspettarsi secondo il v. 2 7, è convincente soltanto se il comportamento descritto al v. 29 ha lo stesso significato del 'peccare volontariamente' del v. 26. Quest'ultima espressione si ricollega alla prescrizione di Num.15,30, per la quale i peccati compiuti deliberatamente sono assolutamente imperdonabili (cfr. sopra comm. a 5 ,2 ). Ma un simile peccato, 'con piena capacità d'intendere e di volere', è l'apostasia. Infatti colui che si distacca dalla fede ha già prima ricevuto la 'conoscenza della verità' (il concetto di 'verità', così frequente in Paolo e in Giovanni, nella nostra Lettera si trova soltanto qui). Egli sa che cosa significhino Cristo e la sua opera, ma ciò nonostante non ne vuol sapere. Chi si lascia andare a tanto (ammonisce l'autore) deve aver chiaro che per questo peccato non si può più disporre di alcun sacrificio espiatorio. Cristo è stata l'ultima vittima. Per la colpevole, perché cosciente, rinuncia a questa vittima non c'è più possibilità di espiazione; rimane soltanto la tremenda prospettiva del giudizio di Dio, che viene descritto in modi veterotestamentari come un fuoco vorace e divoratore. L'impossibilità di salvarsi in questo caso non è derivata dall'incapacità soggettiva di una nuova conversione, ma oggettivamente (in conformità al tipo cultuale delle considerazioni dell'autore) con il carattere definitivo del sacrificio di Cristo. Che anzitutto secondo il v. 27 in tal caso non ci si possa aspettare altro che il giudizio, è soltanto una constatazione di fatto; ma che questa conseguenza sia ben giustificata lo si ricava da un confronto con 2,2 dove è detto che già l'infrazione volontaria della legge mosaica comportava la pena di morte (cfr. ad es. Deut. 17,2-6). Ma qui è più di Mosè, come abbiamo veduto in 3,1-6; si tratta
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La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati
del Figlio di Dio, che l'apostata calpesta. Questi vede il sangue del Figlio di Dio, per mezzo del quale aveva conseguito la capacità di entrare in comunione con Dio, come un sangue comune, inutile. Non c'è alcun motivo di pensare qui all'eucarestia. La 'santificazione' è avvenuta attraverso al sacrificio di Cristo, ma l'apostata non ha che derisione per il dono dello Spirito, che come in Zach. 12,10 è chiamato Spirito della grazia. Ai lettori dev'essere messo assolutamente in chiaro che in questo caso la pena di morte corporale non è sufficiente, anche se l'autore non dice esplicitamente che cosa ci sia da aspettarsi, ma si limita, con due citazioni della Scrittura, a dire che Dio sarà il giudice. Questo è sufficiente! È il motivo dell'errore, cui accenna il v. 31, senza descriverlo nei particolari. Entrambi i detti scritturali del v. 30 provengono da Deut. 32; il secondo si trova anche in Ps. 135,14. Non manca di colpire il fatto che la prima citazione, quantunque diverga dal testo dei LXX, concorda con Rom. 12,19; non è detto però per questo che l'autore della nostra Lettera sia debitore alla Lettera ai Romani di Paolo. Nella seconda citazione va rilevato che oggetto del giudizio è lo stesso popolo di Dio cioè, nella mente dell'autore, la comunità cristiana (cfr. r Petr. 4,17; inoltre Mt. 10,28; Gal. 6,7). Questa sezione, dopo 6,4 ss., è il secondo punto della Lettera in cui si parla della caduta irreparabile. In ambedue i punti le affermazioni si corrispondono; non si tratta di singoli peccati del cristiano, sia pure di una certa gravità. Non si tratta, perciò, neppure della possibilità od impossibilità di una 'seconda penitenza' nel senso della disciplina penitenziale cristiana. È molto più appropriato parlare dell'impossibilità di una seconda conversione. Nel cap. 6 si diceva che essa è impossibile perché il possesso religioso originario del cristiano non può più essere ricostituito, ed il fatto di disprezzarlo, in particolare la profanazione del Figlio di Dio, porta con sé il giudizio di condanna. In 10,26-31 gli stessi punti di vista ritornano in altra forma. Tuttavia c'è una differenza: nel
Hebr. Io,32-39
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cap. 6 v'è anche l'idea dell'impossibilità, in cui viene a trovarsi l'anima, di convertirsi una seconda volta, mentre nel cap. ro si parla di un'impossibilità radicata nella situazione oggettiva. Ma le due idee non si escludono, anzi si integrano a vicenda. Sguardo all'indietro e in avanti per rafforzare l'appello rivolto ( 10,32-39)
Ricordatevi di quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illuminati, avete sostenuto una dura lotta dolorosa, 33 ora esposti pubblicamente ad obbrobri e tribolazioni, ora compagni di coloro che erano trattati a questo modo. 34 Infatti avete preso parte alle sofferenze dei prigionieri, e avete accettato con gioia la rapina dei vostri beni, sapendo di avere una proprietà migliore e duratura. 35 Non perdete dunque la vostra fiducia alla quale è riservata una grande ricompensa. 36 Vi è necessaria la costanza, per compiere la volontà di Dio e conseguire la promessa. 37 Infatti «ancora un poco, ben poco tempo: colui che deve venire verrà e non tarderà. 38 Ma il mio giusto avrà la vita per la fede. Se invece si tira indietro, la mia anima non si compiace in lui». 39 Noi però non apparteniamo a coloro che si 'tirano indietro' e periscono, ma a coloro che 'credono' e salvano l'anima. 32
32-39. Con lo sguardo minaccioso rivolto alle conseguenze future e con solenne severità l'autore ha messo in guardia dalla caduta irreparabile. Ma potrebbero i lettori intendere realmente questo sviluppo? Come avevano iniziato felicemente, anzi eroicamente, al tempo della loro conversione, quando era stata appena data loro la luce della conoscenza cristiana! Con la parola 'illuminazione' come in 6,4 è forse inteso direttamente il battesimo. Certo che è passato molto tempo da allora. Quanto non si può dire: tuttavia tutto sembra indicare un periodo non troppo vicino. Com'era stato promettente questo inizio! Esteriormente, per loro le cose si erano messe male, perché erano tempi di gravi persecuzioni, le cui vittime erano state esposte pubblicamente fra dileggi e maltrat-
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tamenti al divertimento della folla avida di spettacoli. A questo riguardo non ci si può sottrarre al ricordo delle crudeli rappresentazioni nei giardini imperiali al tempo della persecuzione neroniana (fine luglio 64); solo che in tal caso sarebbe da attendersi un accenno chiaro ai sanguinosi martiri in quelle occasioni. Ma non ci sarebbe nulla da obiettare a questo riferimento del passo alla persecuzione neroniana, con le sue sofferenze e i suoi eroismi, perché l'accenno ai martiri può essere contenuto in questo passo, a meno che non si voglia arbitrariamente mitigare in modo inammissibile il suo significato. Del resto anche 13,7 potrebbe accennare a martiri del genere. Naturalmente i destinatari della Lettera non erano fra quelle vittime, che avevano dovuto sopportare prove tanto severe; tuttavia l'autore poteva benissimo esprimersi in questa forma, perché egli sottolinea ad ogni momento gli strettissimi legami interiori fra il singolo credente e la comunità, per cui esperienze simili fatte dalla comunità toccano tutti i suoi membri. Ma coloro che personalmente non vi erano stati destinati, non si sono tuttavia sottratti ai doveri della comunione fraterna, con i quali si devono. intendere aiuti di ogni genere, ed in modo del tutto particolare l'assistenza dei carcerati. La gravità della persecuzione è sottolineata anche dall'accenno alla confisca del patrimonio, che i cristiani dovettero subire, perché non si può trattare di rapine ad opera di singole persone o di saccheggi di massa. Tutto questo essi lo accettarono con gioia; volontariamente rinunciarono al tempo nella certezza dell'eternità, alle ombre di beni per beni migliori e reali. Con un caldo sentimento, dal quale però traspare un senso di dolore per la differenza tra quei tempi e quelli presenti, l'autore rivolge la memoria a quei tempi eroici della comunità, alla gioiosa confidenza ed alla fermezza di cui i lettori allora avevano dato prova. Adesso vogliono veramente rinnegare questo loro passato? Vogliono abbandonare la loro fiducia come un oggetto diventato inutile? Ciò non può e non deve essere. Insieme al
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passato rinuncerebbero al futuro, la certa speranza del quale ne fece allora degli eroi. Come è grande la 'ricompensa' che essi riceveranno, il ricco compenso per tutto quanto hanno sofferto in passato (cfr. Rom. 8,18 s.). Naturalmente, per poter considerare il bene promesso come cosa propria, è necessario resistere e compiere la volontà di Dio che esige fedeltà. Ma non è poi così difficile; siamo giunti già quasi alla meta. Lo conferma (come pure che tutto dipende dalla costanza) la parola profetica che ora segue, citata come sempre in base ai LXX, ma in forma riassuntiva. La parte principale proviene da Abac. 2. Nel testo originario l'annuncio della venuta imminente si riferisce ad una visione del profeta, che si adempirà ben presto. A quanto pare già i LXX hanno riferito al Messia l'espressione 'colui che deve venire'. Così lo intende anche l'autore della nostra Lettera, per il quale Abac. 2,3, senza tener conto del contesto originario, è senz'altro una promessa del prossimo ritorno di Cristo. L'accento posto sulla vicinanza del giorno di tale ritorno è ancora rafforzato dalle parole 'ben poco tempo', che provengono da Is. 26,20 LXX e sono anch'esse usate dall'autore senza preoccuparsi del loro contesto e significato originari. Ma con straordinaria libertà egli tratta anche il resto della citazione, che è di Abac. 2,4. Prima di tutto anche qui non è determinante per lui il significato, del resto oscuro, del testo originario. Poi egli ha invertito l'ordine delle due frasi del v. 38, ma soltanto così ottiene che, contrariamente ai LXX, il 'tirarsi indietro' della seconda frase si riferisca al giusto, e possa così essere utilizzato a fini pastorali. Infine nel testo citato non si parla del 'mio' giusto, ma soltanto del 'giusto', e viceversa della fede 'in me'. Ma ciò che l'autore vuol mettere in rilievo non è l'oggetto della fede ma la fede come atteggiamento personale. Il concetto qui corrisponde a quello della costanza, dell'incrollabile fermezza del v. 36. Si avvicina anche al concetto di fedeltà, di quella fedeltà, però, di cui si dà prova a Dio e alla sua promessa, attenendosi ad essa e facendosi determinare da essa
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nel proprio comportamento. In tal modo nel concetto sono compresi i due aspetti: la risposta affermativa alla promessa divina e la fermezza con cui questa risposta è mantenuta intatta, nella sicurezza del futuro. Il forte accento su questo secondo momento è caratteristico della particolarità del concetto di fede nella Lettera agli Ebrei. La si potrebbe chiarire ulteriormente con un confronto con Paolo, tanto più che anche questi si richiama addirittura due volte (Rom. l,17; Gal. 3, II) allo stesso passo di Abacuc; ma a quale scopo? Egli lo utilizza come prova a favore della sua predicazione della giustificazione per la fede; invece il nostro autore non attribuisce alcuna particolare importanza alla parola 'giusto', che potrebbe essere sostituito altrettanto bene da 'fedele'. Per Paolo il concetto di fede sta in contrapposizione a quello di giustificazione per le opere; invece che ai suoi atti morali, che sono pur sempre opere manchevoli, l'uomo si affida alla grazia di Dio, cui egli si dona con fiducia. Per l'autore di Hebr. il contrapposto della fede è quell'atteggiamento che arretra davanti alle difficoltà che gli si frappongono. Però la differenza tra Paolo e l'autore di Hebr. non va vista-come una contraddizione reciproca. Non è assolutamente il caso di parlarne. Infatti, in Hebr., la prova dell'inadeguatezza della giustizia giudaica attraverso il culto, è soltanto un parallelo della critica paolina alla giustizia attraverso le opere. E per Paolo una fede che non resiste nei tempi difficili rìon sarebbe degna di questo nome. È uno stesso atteggiamento interiore che viene illustrato da lati diversi in Hebr. e in Paolo. Questa diversità era la conseguenza della diversa problematica, in base alla quale scrivevano Paolo e l'autore di Hebr. Paolo deve scontrarsi con il farisaismo, il nostro autore deve dare forza a 'ginocchia tremanti'. Il suo compito è di ottenere che i suoi lettori si comportino in modo da resistere, come un tempo, alle pressioni della loro epoca, e da non 'arretrare'. Perché una fede mantenuta fermamente è la condizione perché il giusto 'vivrà' che significa la stessa cosa di 'beneficiare del-
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la promessa' (v. 36) e 'salvezza dell'anima' (v. 39). Chi invece non riesce a conservare questa ferma pazienza sarà respinto da Dio. No, conclude l'autore, non è questo che vogliamo. Egli finora ha cercato di convincere i lettori con calda insistenza; ora lo seguiranno. Si unisce ad essi, o piuttosto unisce essi a sé, nella professione che non è da noi tirarci indietro per debolezza d'animo (con la prospettiva certa della perdizione eterna) ma credere, con l'altrettanto sicura prospettiva dell'eterna salvezza. Questa sezione finale del cap. ro è tutta percorsa dal solenne entusiasmo, dalla gioiosa prontezza a morire, dalla trionfante fiducia della chiesa dei martiri. Questa fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli di tutti i tempi ( n,1-40) Ora la fede è un restare con fìducia in ciò in cui si spera, una certezza di cose che non si vedono. 2 Sul fondamento di questa fede gli antichi hanno ottenuto (da Dio) la loro testimonianza. 3 Per la fede noi sappiamo che i mondi sono stati creati da una parola di Dio, affinché dalle cose non percepibili provengano quelle visibili. 4 Per la fede Abele offrì a Dio un sacrifìcio più pregevole di quello di Caino, e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo «Dio» reso testimonianza «ai suoi doni», e per essa, benché morto, parla ancora. 5 Per la fede Enoc fu rapito perché non vedesse la morte e «non lo si trovò più perché Dio l'aveva rapito»; infatti prima di essere rapito ebbe testimonianza «di essere piaciuto a Dio». 6 Senza fede, dunque, è impossibile piacergli, perché chi viene a Dio deve credere che egli è e che ricompensa coloro che lo cercano. 7 Per la fede Noè, avvisato di ciò che ancora non si vedeva, pieno di timore costruì un'arca per la salvezza della sua famiglia. Per la fede egli condannò il mondo e fu costituito erede della giustizia rispondente alla fede. 8 Per la fede Abramo obbedì all'appello di «partire» verso un paese che doveva ricevere in eredità, e «partì» senza sapere dove andava. 9 Per la fede egli «soggiornò come straniero» nella terra della promessa come in un paese straniero, abitando in tende con Isacco e Giacobbe coeredi della stessa promessa; 10 aspettava infatti quella città ben fondata, di cui l'architetto e il costruttore è Dio. 11 Per la fede anche Sara, nonostante la sua età, ricevette la forza di produrre discendenza, perché credette fe1
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dele colui che aveva fatto la promessa. 12 Perciò da un solo uomo e sul punto di morire nacquero discendenti «numerosi come le stelle del cielo e come la sabbia sulla riva del mare, che nessuno può contare». 13 Nella fede sono morti tutti costoro, senza aver ricevuto l'oggetto delle promesse, ma l'hanno veduto da lontano e l'hanno salutato, confessando che erano «stranieri e ospiti sulla terra». 14 Infatti coloro che parlano così mostrano di cercare una patria. 15 E se avessero pensato a quella di dove erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi. 16 Ma ora aspirano ad una migliore, quella nel cielo; perciò Dio non si vergogna di chiamarsi loro Dio: infatti ha preparato loro una città. 17 Per la fede «Abramo, messo alla prova, offrì Isacco», e offriva «l'unigenito», egli che aveva ricevuto le promesse, 18 cui era stato detto: «In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome», 19 perché pensava che Dio può anche risuscitare dai morti. Percui lo riebbe anche come un simbolo. 20 Per la fede Isacco benedisse Giacobbe e Esaù perfino riguardo al futuro. 21 Per la fede Giacobbe morente benedisse ognuno dei figli di Giuseppe e si prosternò appoggiato alla punta del suo «bastone». 22 Per la fede Giuseppe in fin di vita evocò l'esodo dei figli d'Israele e diede istruzioni riguard0 alle sue ossa. 23 Per la fede Mosè, dopo la sua nascita, «fu tenuto nascosto per tre mesi» dai suoi genitori, perché «videro» che il bambino era «bello», e non ebbero timore dell'ordine del re. 24 Per la fede «Mosè, divenuto grande», rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del Faraone, 25 preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che conoscere le gioie passeggere del peccato, 26 considerando una ricchezza maggiore dei tesori dell'Egitto <:
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la risurrezione. Altri invece subirono la tortura, rifìutando la liberazione, per avere una migliore risurrezione. 36 Altri ancora subirono la prova delle derisioni e delle battiture, e perfìno delle catene e del carcere; 37 furono lapidati, segati, uccisi di spada; vagarono raminghi coperti di pelli di capre e di montoni, bisognosi, oppressi, maltrattati; 38 essi, di cui il mondo non era degno, erranti per i deserti, le montagne, le caverne e gli antri della terra. 39 E tutti costoro, benché avessero ricevuto una buona testimonianza per la loro fede, non ottennero i beni promessi, 40 perché Dio aveva previsto una sorte migliore per noi: essi non dovevano giungere alla perfezione senza di noi.
rn.2. Il capitolo comincia con una definizione dell'essenza della fede, che però non ha lo scopo di abbracciarne tutte le caratteristiche concettuali. Perciò non è consigliabile parlare di una 'definizione' nel senso usato dalla logica. Una 'definizione' presuppone l'accertamento di tutti i caratteri di un concetto. Ora, dato che qui si parla della fede nel suo senso biblico, non potrebbe mancare l'indicazione del suo oggetto; invece si ha di mira soltanto l'atteggiamento spirituale della fede, che è descritta mediante due formule, che non sono affatto equivalenti. La prima (v. ra) riprende in una forma estremamente concisa un'idea che sembra voler rispondere ad una certa riserva che potrebbe essere avanzata dai lettori. Questi erano stati più e più volte esortati ad una fede da conservare nella ferma speranza nella promessa divina; forse i lettori risponderebbbero con un sospiro: ma fino a quando? Essi hanno sperato e sperato, e quanto hanno sofferto! Sempre invano. Ma, dice ora l'autore, questa fede che si afferra con ferma fiducia alla speranza della pienezza della salvezza, che la promessa divina ci apre, e diventa la base del comportamento, è di fatto l'atteggiamento decisivo del fedele, da cui dipende tutto. Questo è l'atteggiamento che Dio vuole e che approva con la sua testimonianza. Osservando soltanto tutte le figure venerabili della storia primitiva dell'umanità e della storia d'Israele, quali ce le descrive la Bibbia, si vede che questa fede è sempre l'anima del loro
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comportamento; di esse Dio testimoniò il suo compiacimento, sia esplicitamente in parole, sia nei loro destini. Più avanti, nel cap. 12, come ultimo esempio, il più eccelso, la figura di Cristo coronerà l'elenco. Si tratta dunque di questa fede; unitevi a questo coro! 1b.3. Ma la prima formula non era sufficiente per tutti gli esempi addotti, più precisamente non per quello che doveva aprire la serie. Non sempre si tratta di certezza della fede nel futuro, e non sempre in quello sperato. Perciò l'autore aggiunge la seconda condizione, nella quale stupisce il carattere oggettivo dell'espressione scelta che propriamente significa dimostrazione, prova. Ora la fede non può essere una prova, una garanzia della realtà di ciò che si crede. L'espressione è stata scelta per dire che la fede possiede una intima certezza o sicurezza, dipendente da una necessità obiettiva. La seconda formula estende di molto l'ambito della prima; infatti tutto ciò che è soltanto sperato è naturalmente non ancora visibile, ma viceversa non tutto quello che non è visibile è anche sperato. Perciò in certo qual modo tutti gli esempi che seguono si possono ricondurre sotto la prima condizione del v. r, ma non quello del v. 3. Qui si tratta infatti di un fatto del passato, anch'esso però conoscibile soltanto dagli occhi della fede. Sembra pertanto che la formula ampliata del v. rb sia stata aggiunta soprattutto per questo esempio che anche sotto altri aspetti esce fuori dal quadro entro cui sono contenuti gli altri esempi. Esso infatti è l'unico volto non al comportamento del credente ma al contenuto di ciò che è creduto, non alla conservazione della fede ma alla verità di fede. Questa differenza certamente è voluta e non puramente casuale, come si può riconoscere nella proposizione finale in 3b. Quando Dio creò il mondo con la sua parola doveva essere dimostrato che non ciò che è percepibile dai sensi, ma l'invisibile è propriamente vero, cioè che il visibile deve ad esso la sua esistenza. La creazione del mondo
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con la parola di Dio è citata qui in primo piano non soltanto e neppure perché è conoscibile soltanto alla fede, ma soprattutto perché è la maggior dimostrazione del diritto della fede nella realtà dell'invisibile, cioè nell'opera della parola divina. Pertanto questo esempio, proprio nella misura in cui si distacca chiaramente da tutti gli altri, ne costituisce un'appropriata introduzione. La serie di esempi, che ora vengono elencati, segue fino al v. 32 l'ordine cronologico; dopo di quel versetto quest'ordine non è più osservato strettamente. Essa va dagli inizi del genere umano fino ai tempi dei Maccabei (dopo il r 70 a.C. ). Abbiamo tre esempi tratti dalla prima era del mondo (vv. 47 ); poi otto della storia dei patriarchi da Abramo a Giuseppe (vv. 8-22 ); sette ancora del tempo di Mosè (vv. 23-31 ), ed infine un cenno sulla moltitudine degli eroi della fede dal periodo dei Giudici al tempo della persecuzione religiosa siriaca con i suoi martiri (vv. 32-38). Una frase conclusiva, che mette il destino delle persone fino allora nominate in rapporto con la comunità cristiana, prepara la strada ad un nuovo appello ai lettori (vv. 39.40). L'autore non ha avuto in mente nessuno schema numerico. Stupisce in questa sezione che l'Antico Testamento non dica affatto che le persone nominate abbiano dato prova di fede nelle situazioni qui indicate; viceversa il famoso passo di Paolo sulla fede di Abramo (Gen. 15,6) non è utilizzato dall'autore. La fede di queste persone l'autore la deduce dai giudizi pronunciati su di loro, dal loro comportamento, dai loro successi, ma anche dalla fermezza con cui sopportarono i loro dolori. In parte le notizie date dall'autore provengono dalla tradizione extra-biblica. 4-7. Gli esempi dei primi tempi del mondo riguardano Abele, Enoc e Noè. Per nessuno di essi l'Antico Testamento parla di fede. Ad Abele, però, Dio rese testimonianza, in quanto secondo Gen. 4A guardava con compiacimento i sacrifici che
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gli offriva, e indirettamente, attraverso le parole rivolte a Caino in Gen. 4,7, affermò che era giusto. Ma allora, ne deduce l'autore, egli deve avere avuto fede, conforme al principio espresso esplicitamente nel v. 6. È stata proprio la fede, dunque, che diede al suo sacrificio un maggiore valore e che fece sì che piacque a Dio; e Dio lo dimostrò inoltre con il fatto che, secondo Gen. 4,10, il suo sangue, anche dopo la sua morte, continua a gridare a Dio, come, secondo Apoc. 6,9 s., le anime dei martiri gridano vendetta a Dio. Infatti tale grido presuppone la fede, cioè la fiduciosa speranza, o convinzione, che Dio udirà il grido ed esaudirà la preghiera. Come la fede di Abele è dedotta dal fatto che Dio gli attesta che egli è giusto, così quella di Enoc dal fatto che (non nel testo originario ma in quello dei LXX) si afferma che è piaciuto a Dio (Gen. 5,22.24). Fu questa la condizione per il suo rapimento; ma questo era già di per sé una prova della sua fede, perché esso gli aveva dato la possibilità di venire a Dio. Così l'autore interpreta il rapimento. Chi vuole venire a Dio dimostra già di credere all'esistenza di Dio e che egli, per coloro che lo cercano, sarà il compensatore di tutto quanto hanno sopportato, o a cui avranno rinunciato, per lui, cioè per piacere a lui. E Dio tira a sé soltanto uomini così. Dunque il suo rapimento, tanto dal punto di vista di Dio quanto da quello degli uomini, fu possibile soltanto per la sua fede. Il terzo esempio è quello di Noè. Egli dimostrò la sua fede con il fatto che, dopo l'annuncio del diluvio, costruì l'arca della salvezza. Egli era dunque convinto che il diluvio sarebbe avvenuto: la sua fede era sì in un evento futuro, ma non tanto sperato quanto piuttosto temuto, ma comunque non ancora visibile (sperato solo indirettamente, in quanto egli attendeva la sua salvezza). Perciò il v. 7 si accosta alla formulazione del v. rb. Questa fede nel prossimo diluvio e la conseguente costruzione dell'arca significa che egli considerava il mondo, che con la sua solita leggerezza continuava la sua solita vita, come condannato al giudizio. Questa fede era tanto
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salda che egli non rifiutò di porsi in radicale opposizione al mondo. Questo è un elemento essenziale dell'autentica fede, perciò anche Noè ebbe la testimonianza che gli competeva. Questa viene espressa con le parole che egli divenne erede della giustizia rispondente alla fede. La parola 'giustizia' richiama immediatamente alla memoria Paolo, ma il significato è totalmente diverso da quello di Paolo allorché parla di giustificazione per la fede. Questa infatti significa la grazia del perdono, per Hebr. invece equivale ad una condizione effettiva di giustizia presente in tutta la condotta di vita, uno degli aspetti essenziali della quale è di credere. È vero che la Scrittura si limita a dire che Noè era giusto e perfetto, e perciò piacque a Dio (Gen. 6,9 LXX) e che gli fu preannunciato il diluvio perché potesse salvarsi. Il giudizio di giusto era dunque già pronunciato su di lui prima che egli avesse avuto l'occasione, citata da Hebr., di dimostrare la sua fede; ma per il nostro autore secondo i vv. 4 e 6 il riconoscimento della sua giustizia includeva già la sua fede. Egli è chiamato erede di questa giustizia perché già il suo antenato Enoc l'aveva avuta. 8-12. Mentre nei tre esempi precedenti, oltre al comportamento nel quale appare la fede, ogni volta, secondo il v. 2, è fatta indicazione anche della testimonianza che le tre persone hanno ricevuto da Dio nella Scrittura, nei successivi esempi l'autore si limita a dimostrare la fede dei personaggi citati come si ricava dal loro comportamento, salvo a dire nel v. 39 che anche ad essi non mancò una buona testimonianza. Abramo dimostrò la sua fede prima di tutto obbedendo ciecamente all'ordine di abbandonare la patria, nella certezza che Dio avrebbe realizzato la promessa di dargli una nuova patria. Egli non si lasciò sviare neppure dalla vita insicura che dovette condurre nella terra promessa, come uno straniero che non ha alcun diritto sulla terra; e neppure dal fatto che anche a suo figlio ed al figlio di suo figlio le cose
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non andarono meglio. Egli non avrebbe potuto, pensa l'autore, tenere questo atteggiamento se non avesse avuto una certezza del futuro, che gli consentiva di considerare senza importanza le cose terrene. Egli non aspettava una città provveduta di fondamenta, un insediamento definitivo e non come fino allora una vita di nomadi, ma la città con le fondamenta, l'unica che meriti questo nome. Le città terrene, anche se fossero così saldamente costruite, in fondo non sono altro che un accampamento di tende. Tutt'altra cosa è la Gerusalemme celeste, la città futura, duratura (cfr. 13,14 s.). Il suo costruttore è Dio, perciò è imperitura. Nello stesso rapporto sta anche il santuario celeste eretto da Dio, come il vero santuario, con quello costruito da mani d'uomo (cfr. 8,2; 9,II ). È vero che l'Antico Testamento non fa parola di tali pensieri di Abramo; ma, pensa l'autore, il suo comportamento non si può affatto comprendere se non come una fiducia assoluta nelle cose sperate. Ancora più ardite di tali considerazioni sulla fede di Abramo sono quelle sulla fede di Sara. Infatti secondo Gen. 18,10-15, quando già vecchia le fu promesso un figlio, essa rise incredula. Ma ella ebbe un figlio come Dio le aveva promesso (Gen. 21,1 s.), e semplicemente da questo fatto l'autore consegue che deve aver creduto. Infatti, pensa l'autore, altrimenti come avrebbe potuto Dio far avvenire questo inaudito miracolo: una coppia di sposi che, secondo il decorso normale della vita da lungo tempo avevano perduto la capacità di procreare, avesse ancora un figlio e attraverso a lui una discendenza innumerevole? Tanta vita straripante dalla morte può riceverla soltanto una fede che accoglie con totale confidenza la promessa divina. r yi:6. Interrompendo la enumerazione ma, per quel si riferisce alla serie fino a Giuseppe, preparandola, l'autore introduce adesso un'osservazione generale sui patriarchi, che richiama i vv. 9. lo: non solo la loro vita era stata conforme alla fede, ma anche la loro morte. Infatti, anche quando mori-
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rono continuarono ancora a mostrare di porre la loro fiducia nelle cose sperate. Essi non videro l'adempimento delle promesse; soltanto da lontano salutarono, come l'emigrante, la loro meta indistinta. Ma proprio per questo rimasero fermi nella loro fede. Che essi concepissero così la loro situazione trova espressione nel fatto che parlavano di sé come di stranieri e di ospiti sulla terra; così Abramo, dopo la morte di Sara, aveva detto agli Ittiti che si considerava come ospite forestiero in mezzo a loro ( Gen. 2 3 A) ed anche Giacobbe aveva detto al Faraone che la sua vita era stata quella di un pellegrino (Gen. 4 7 ,9 ). Il nostro autore non vede la cosa sotto l'aspetto giuridico, ma in un senso più profondo: ognuno, questo è il suo pensiero, parla soltanto di sé, in cui è vivace la nostalgia di una patria al di là di questo mondo visibile; se, infatti, avessero avuto in mente una patria nel senso naturale della parola, sarebbero certamente ritornati in Caldea, di dove era venuto Abramo (Gen. l l ,28; 12,1-4). Ma essi pensavano alla città che Dio aveva loro preparato; là, con Dio, essi vedevano la loro vera patria, il luogo al quale appartenevano. E Dio lo ha riconosciuto, chiamando se stesso nella rivelazione a Mosè sull'Oreb il Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe (Ex. 3,15 s.). Essi debbono entrare nella patria celeste e vi entreranno, perché Dio non deluderà la loro fede. 17-22. Le osservazioni dei vv. 13-16 sostanzialmente non fanno che esprimere con altre parole ciò che era già stato detto ai vv. 9 s. sulla vita dei tre patriarchi. Però era stato affermato, ma non provato, che essi morirono in modo conforme alla loro fede; e questo sembra ora essere l'idea comune, che lega i tre patriarchi fra di loro: che tutti e tre sostennero la loro fede con i fatti al cospetto della morte. Ciò è del tutto evidente negli esempi di Isacco, Giacobbe e Giuseppe; quanto ad Abramo non si tratta della sua morte, ma del fatto che egli ha conservato la fede di fronte alla morte del figlio Isacco. Infatti la prontezza a sacrificare il figlio, sotto questo punto
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di vista è guardata come l'estrema e migliore dimostrazione della fede di Abramo: tutte le speranze di Abramo erano riposte nel figlio; Dio aveva promesso ad Abramo una grande discendenza, che questi poteva avere soltanto attraverso a Isacco, il suo unico figlio. Eppure lo portò egli stesso al sacrificio (Gen. 22). Come fu possibile? Forse che rinunciava al compimento della promessa? Aveva perduto la speranza? L'autore esclude assolutamente questa ipotesi; il fatto che Abramo abbia compiuto l'atto di obbedienza a Dio dev'essere spiegato nel senso che la sua fiducia nel compimento della speranza, alimentata in lui dalla promessa di Dio, lo aiutò a superare anche questo ostacolo quasi insuperabile: Dio avrebbe ben richiamato in vita quel figlio che gli aveva sacrificato. E così lo riebbe, come un simbolo della reale risurrezione futura. Isacco, Giacobbe e Giuseppe morirono nella fede perché le benedizioni e le raccomandazioni che impartirono prima di morire non avrebbero avuto alcun senso se non fossero state sorrette dalla sicura fiducia nelle cose sperate, cioè in quello che era annunciato nelle benedizioni. È vero che la morte di Isacco è raccontata in Gen. 35,29 alcuni capitoli dopo quello che parla della benedizione dei suoi due figli (Gen. 27); ma secondo Gen. 27,1 anche la benedizione fu data quando egli era ormai vecchissimo e la sua vista si era già oscurata. Quanto a Giacobbe è strano che non si parli della benedizione dei suoi dodici figli ( Gen. 49 ), ma di quella dei figli di suo figlio Giuseppe. L'espressione del v. 2 l b è dovuta ad un'errata lettura da parte dei LXX del testo ebraico, e non si trova neppure nella scena della benedizione ( Gen. 48) ma prima di essa (Gen. 47,31); apparentemente non vi dobbiamo vedere un segno di debolezza fisica ma un'espressione di preghiera di fede. L'osservazione relativa a Giuseppe si basa su Gen. 50,24 s.: i suoi fratelli dovettero giurargli di portare a suo tempo le ossa nella terra della promessa. Tanto certo egli era del suo compimento. Egli «la vide da lontano e la salutò».
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23-31. Come la vita di Abramo, anche quella di Mosè fu interamente sotto il segno della forza della fede. Lo si vide già subito dopo la sua nascita: secondo Ex. 2,2 sua madre lo tenne nascosto tre mesi, perché aveva veduto che era bello. Come avrebbero potuto i suoi genitori, si domanda l'autore, osare minimamente di sfidare l'ordine del re (Ex. l,22)? Ciò fu possibile soltanto per la fede. Da Ex. 2,2 l'autore deduce che dalla figura del fanciullo i genitori avevano tratto la convinzione che Dio si proponeva qualcosa di particolare per mezzo di lui, e si lasciarono guidare da questa fede, che era anche certezza dell'aiuto divino. E Mosè più tardi, come supposto figlio della figlia del Faraone avrebbe potuto avere alla corte egiziana una vita comoda di piaceri (Ex. 2, IO); ma questo sarebbe stato un peccato di rinnegamento del suo popolo e di tradimento del suo incarico. Mosè respinse la tentazione e scelse la parte del suo popolo maltrattato dagli Egiziani. Anche questa decisione di Mosè, afferma ancora l'autore, fu possibile soltanto per la fede, e cioè la fiduciosa certezza che Dio ricompenserebbe questa sua condotta con la salvezza eterna (cfr. rn,34 s.). È strano che le tribolazioni che Mosè prese su di sé siano chiamate l'obbrobrio di Cristo; che l'obbrobrio che il cristiano deve sopportare sia concepito come obbrobrio di Cristo è comprensibile e se ne hanno echi nel Nuovo Testamento (ad es. Hebr. 13,13; Act. 5,41; Rom. 15, 3; 2 Cor. l,5; Col. l,24; I Petr. 4,13); ma Cristo era anche la guida segreta della storia veterotestamentaria. È questa per il nostro autore una convinzione ovvia; e perciò poteva chiamare obbrobrio di Cristo l'obbrobrio cui erano soggetti coloro che si ponevano al servizio della causa di Dio, tanto più che a questa idea sembra già alludere Ps. 89,51 s. Inoltre anche i grandi atti compiuti da Mosè: l'abbandono dell'Egitto con il popolo, senza preoccuparsi dell'ira del Faraone (Ex. l 2 ,5 l ), l'istituzione della pasqua con i suoi riti cruenti apparentemente senza significato per salvare i primogeniti degli Israeliti dall'angelo sterminatore che doveva annientare tutta
La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli
la primogenitura dell'Egitto (Ex. 12,12 s.), ma soprattutto l'attraversamento del Mar Rosso (Ex. 14,16.21 s.); tutti questi atti furono possibili soltanto con una fede che, come se vedesse davanti a sé con gli occhi del corpo ciò che nessuno può vedere, si abbandonasse con incondizionata fiducia all'aiuto promesso da Dio. Chi senza fede avesse osato cose simili, come dimostra il destino che attendeva gli inseguitori egiziani, doveva invitabilmente perire. E quando, all'inizio della conquista della Palestina, Giosuè con le milizie israelitiche per sette giorni girò intorno alle mura della fortezza di Gerico, certamente questo atto dovette apparire come un inizio pazzesco (Ios. 6,1 ss.). Ma Giosuè sapeva quello che faceva: egli costruiva sulla promessa di Dio e ne vide il compimento. Gerico fu annientata. Restò soltanto una povera prostituta pagana; indubbiamente Raab era una donna disprezzata da tutti, ma aveva un vantaggio su tutti gli altri: aveva dato prova di fede, cioè fede che Dio aveva dato la terra a Israele (Ios. 2,9). Soltanto per questo motivo aveva accolto in casa sua pacificamente, cioè senza tradirli anzi tenendoli nascosti, gli esploratori d'Israele. Questa fede fu la sua salvezza. 32-40. Qui l'autore si interrompe: se egli continuasse in questa elencazione, non finirebbe più. Con sguardo fuggevole egli quasi scivola sugli atti eroici del tempo dei Giudici e dei Re, e anche dei profeti come Elia ed Eliseo (v. 35 inizio: cfr. I Reg. n,23; 2 Reg. 4,36), servendosi pure delle notizie contenute nel Libro di Daniele (v. 33 fine, 34 inizio; cfr. Dan. 6,23; 3,23-25). L'annotazione del v. 33 sull'esercizio della giustizia potrebbe richiamarsi a 2 Sam. 8,15: Davide esercitò il giudizio e la giustizia su tutto il suo popolo; quella sul riacquisto delle forze dopo un periodo di debolezza (v. 34) forse ricorda Sansone (Iud. 16). Tutto quanto di notevole la tradizione biblica narra a proposito di queste figure, esse lo hanno compiuto per la fede ( v. 3 3 inizio). L'autore lascia al lettore
Hebr. n,r-40
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che conosce la Bibbia (questo è implicito) di vedere nei singoli casi, come egli ha fatto negli esempi che ha portato, in quale misura ci sia stato un atteggiamento di fede secondo l l, l. Ma mentre negli esempi precedenti si trattava sempre di azioni positive o di esperienze di salvezza, dalle quali si può ricavare la fede degli attori, a partire dal v. 35 b il carattere dell'elencazione cambia totalmente. Da ora in poi si tratterà soltanto di martiri e di persecuzioni; non sono fatti nomi, tuttavia i vv. 35 b.36 alludono evidentemente al martirio di Eleazaro e dei sette fratelli con la loro madre al tempo dei Maccabei (2 Mach. 6,18-7,42). Il destino finale di Zaccaria è stato di essere lapidato ( 2 Chron. 24,2 l ), quello di Isaia, secondo la leggenda giudaica, di essere segato (mart. Is. cap. 5 ); l'uccisione dei profeti con la spada dovrebbe richiamarsi alla ferocia di Acab e di Gezabele (I Reg. l 9, ro). Le osservazioni sulla vita instabile e dolorosa dei fuggiaschi potrebbero riferirsi ad es. ad Elia (2 Reg. l,8; I Reg. 17,2; 18,4; 19,8) ma anche ad avvenimenti del tempo dei Maccabei (I Mach. 2,29 ss.; 2 Mach. 5,27). Trattando in tal modo questi giusti, aggiunge l'autore non senza amarezza, il mondo pronunciò da solo la sua condanna; ma essi attinsero la forza per sopportare tanto soltanto dalla fede, cioè dalla fiduciosa speranza nella promessa salvifica di Dio, nella 'ricompensa' (v. 26). Ritornando ora sull'intero capitolo l'autore dichiara ancora una volta, come all'inizio (v. 2), che Dio non ha negato ad un simile atteggiamento il suo riconoscimento ed il suo elogio (anche se non è stata dimostrata la concessione di tale testimonianza in ogni singolo caso, perché ciò è apparso superfluo). Che tale atteggiamento sia lodato da Dio è naturale; tuttavia quegli eroi della fede una cosa non hanno avuto: il compimento della promessa. Ma non perché la loro fede sia stata un'illusione, bensì per un'intenzionale grazia di Dio nei nostri confronti. Il compimento fu rimandato affinché anche noi, i cristiani, ne partecipassimo. Il compipimento significa la conclusione della storia terrena. Se il
Lottiamo tenacemente seguendo la guida di Gesù verso la meta
compimento della salvezza fosse già avvenuto in un tempo anteriore, ne sarebbero stati esclusi gli uomini nati successivamente. E Dio non lo voleva. Egli aveva previsto per noi una sorte migliore di quella che altrimenti avremmo avuta; ma anche di quella che gli antichi ( v. 2) hanno avuta: cfr. 8, 1-10,18. Per questa ragione hanno dovuto aspettare; ma dunque debbono averci aspettato invano? Lottiamo tenacemente, seguendo la guida di Gesù verso la meta. Non lasciamoci confondere, ma sollecitare, dalle sofferenze ( 12,1-II) Poiché dunque siamo circondati da una tale nube di testimoni, deponiamo anche noi ogni peso ed il peccato che ci assedia, e corriamo con tenacia la gara che ci è proposta, 2 con lo sguardo rivolto al capo della fede, Gesù, che la porta a compimento e che, in luogo della gioia che gli era proposta, sostenne il peso della croce, disprezzando la vergogna, e «ora è seduto alla destra» del trono di Dio. 3 Pensate a colui che ha sopportato «contro di sé» una simile opposizione «da parte dei peccatori», affinché non veniate a mancare per stanchezza delle anime vostre. 4 Giacché non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato 5 e vi siete dimenticati dell'esortazione rivolta a voi· come a dei figli: «Figlio mio, non trascurare la correzione del Signore e non scoraggiarti quando ti riprende. ti Perché il Signore corregge colui che ama e percuote chiunque riceve per figlio». 7 È per la vostra «correzione» che voi soffrite. Dio si comporta con voi come con dei «figli»: qual è infatti il «figlio» che il padre non «corregga»? 8 Se siete esenti da questa correzione, di cui tutti sono partecipi, siete bastardi e non «figli». 9 Del resto, se siamo stati sotto la disciplina dei nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati, non ci sottometteremo forse molto di più al Padre degli spiriti per avere la vita? 10 Essi infatti ci correggevano per pochi giorni a loro giudizio; ma egli lo fa per il nostro bene, per aver parte alla sua santità. 11 Ogni correzione sul momento non è un motivo di gioia, ma di tristezza; ma più tardi porta a coloro che sono stati educati da essa un frutto di pace e di giustizia. 1
l·l r. Già in l l ,40 era riapparso lo scopo pratico, che vuol perseguire anche la dottrina teologica del cap. l r. Tale scopo lo abbiamo già conosciuto in ro,35-39. Ora l'autore torna interamente ad esso. Egli si serve, come anche Paolo aveva ca-
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ro, di un'immagine della vita sportiva dei suoi tempi. Insieme ai suoi lettori egli si presenta come un corridore che partecipa ad una gara di corsa della cui partecipazione, però, non è dato loro di decidere a loro piacimento. Essi devono farlo, perché Dio ha dato loro un compito da adempiere: una schiera compatta, addirittura una nube di spettatori è intorno a loro. Tutti i giusti, di cui ha parlato il cap. r r, che hanno la prova della loro fede, i giusti perfetti ( 12 ,2 3 ), sono testimoni del loro sforzo e attendono il risultato con molta tensione. Un quadro veramente grandioso, simile a quello che troviamo in Paolo (dr. I Cor. 4,9 ). Come deve incitare tutti l'idea di questi spettatori! Perché essi vogliono veramente conseguire la vittoria. Il corridore si veste il più leggermente possibile; niente pesi di cui si possa fare a meno; niente abiti che si avvolgono intorno alle membra e ne ostacolano il libero movimento; via tutto quanto trattiene e pesa. In sostanza tutto questo è il peccato, cioè quanto si oppone a Dio. Esso va eliminato. Ma non tutto dipende da una buona partenza; questa è avvenuta ( ro,32 ). Ora è necessaria la resistenza e la coscienza della meta. Il corridore non guarda a destra e a sinistra, ma a colui che è in testa, per emularlo. La nostra guida è Gesù. Egli è corso avanti a tutti con una fede che ha superato ogni ostacolo, e con questa fede ha raggiunto il traguardo. Perciò è necessario avere fiducia 'fino alla meta' ( 3, r 4 ), come egli ha fatto. Egli ha sopportato la vergogna e il tormento della croce; e ha potuto farlo, perché ha creduto. Egli mirava alla gioia celeste che Dio gli avrebbe dato; e gli è stata data. Siede alla destra di Dio, come era stato detto in Ps. r ro,r. Questo intende dire l'autore quando chiama Gesù 'colui che porta a compimento la fede'. La sua prova è stata più difficile di quella di qualsiasi altro; non la sofferenza fisica era la cosa peggiore, ma l'opposizione dei peccatori, che respinsero (finendo per rovinarsi in questa perfezione del loro odio) il Figlio di Dio, l'Immacolato, il Misericordioso, che era venuto ad aiutarli. Ma anche il suo premio era più grandioso
Lottiamo tenacemente seguendo la guida di Gesù verso la meta
di quello di qualsiasi altro: il posto alla destra di Dio. A questo dovete pensare; allora non rinuncerete a correre 'per la stanchezza delle anime vostre'. Infatti in questa gara tutto dipende dall'atteggiamento interiore. L'immagine si sposta dalla gara ad una lotta mortale con il peccato. È il peccato che vi vuole distogliere da quella che è la volontà di Dio; che vi vuole indurre a rinunciare alla professione della speranza (IO, 2 3 ), alla professione per Gesù ( 3, r ; 4, r 4), che vi spinge a cadere. È necessario resistergli, se necessario 'fino al sangue', cioè dando la vita fisica. Gesù l'ha fatto. Però i lettori sono stati finora esentati da questa prova estrema; finora non è stato chiesto loro il martirio cruento. Questa affermazione non contraddice ro,32-34, anche se in quell'occasione ci sono stati casi di martiri cruenti; si tratta infatti di avvenimenti molto lontani nel tempo, ai quali purtroppo il comportamento presente dei lettori corrisponde troppo poco. Certo, per la loro fede debbono sopportare alcune cose spiacevoli; ma ciò che si esige da loro è ancora sopportabile. Eppure non viene loro in mente di valutare positivamente con Prov. 3,rr s. le loro sofferenze, come aiuti di Dio per promuovere il loro perfezionamento interiore. Un atteggiamento insoddisfatto di rifiuto e di scoraggiamento toglie alle sofferenze i loro frutti. Esse diventano fruttuose se le consideriamo come mezzi divini della nostra educazione, che ci pongono determinate esigenze; viste sotto questo aspetto esse diventano addirittura una dimostrazione dell'amore paterno di Dio. La stessa correzione che un padre terreno impartisce a suo figlio (e in quanto siamo uomini, nessun padre, che prenda sul serio i suoi doveri di educare i figli, se ne potrà esimere), giustamente intesa, non è altro che una conferma del suo amore per il figlio, nel quale riconosce un vero figlio in questa cura di educarlo, senza preoccuparsi d'altro o d'altri. Lo sappiamo tutti per esperienza diretta, e perciò ci siamo comportati davanti ai nostri padri con l'attenzione riverente che loro spetta, quantunque essi intendessero educarci a diventare uomini ca-
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paci per il breve tempo della nostra vita sulla terra, e quantunque certamente qualche volta si sbagliassero. E non vogliamo trarne le conseguenze per il comportamento da tenere verso colui al quale non soltanto siamo debitori dell'esistenza corporale, come ai 'padri secondo la carne', ma che è anche il 'padre degli spiriti', vale a dire l'origine ultima del nostro essere spirituale, delle nostre anime? che non si sbaglia nella scelta dei mezzi per educarci, ma opera veramente per il nostro meglio, in quanto persegue il fìne di renderci partecipi della sua santità e di 'vivere', nel senso che questa parola merita veramente di essere chiamata così, nel senso cioè della vita eterna? Perché, se i cristiani sono stati già 'santifìcati' con il sacrifìcio di Cristo ( 10,14.29 ), non lo sono stati per rimanere fermi nel loro comportamento morale, come erano prima, ma anche praticamente per rimuovere i loro peccati e diventare santi come è santo Dio. E se Dio si serve a tal :fine del mezzo educativo delle sofferenze, ciò è certamente molto scomodo per gli uomini, come lo è l'applicazione di ogni mezzo educativo, in quanto anche per i cristiani le sofferenze restano tali; ma essi sanno anche apprezzarne il valore positivo: esse sono il mezzo per portarci sempre più (come i frutti che maturano a poco a poco) a corrispondere alle esigenze di Dio. Questo è un frutto 'di pace'. La gioia interiore delFuomo aumenta quanto più egli trova nel suo comportamento volitivo la concordanza con la volontà di Dio. Queste osservazioni sulle sofferenze dei lettori si riferiscono in primo luogo alle sofferenze causate dalle persecuzioni alle quali sono sottoposti e che li demoralizzano; e tenendo conto di questo fatto già l'elencazione del cap. l r termina con dei martiri sensazionali. E anche per questo motivo il cap. 12 comincia con l'accenno all'esempio sublime di Cristo. Ma queste osservazioni sono anche piene di profonda saggezza e verità per ogni sofferenza umana; infatti per i cristiani in ultima analisi tutto è sofferenza, anche ciò che non è occasionato da un'umana ostilità religiosa, ed è una prova della
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia
loro fede. Perciò per essa vale sempre ciò che l'autore ha scritto in principio: volgete lo sguardo a colui che ci ha preceduti come guida della fede e l'ha sostenuta fìno alla meta: Gesù. State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia. Ultimi ammonimenti sulla caduta irreparabile e sulle conseguenze fatali ( 12,12-29) 12 Perciò «rafforzate le mani cadenti e raddrizzate le ginocchia vacillanti» e 13<
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12-29. Ora è il momento di trarre le conseguenze di quanto
è stato esposto nella sezione precedente. Ci si aspetterebbe che l'autore a questo punto dicesse all'incirca: «Dunque soffrite volontariamente. Credete e resistete con tanto maggiore fiducia». Invece egli richiama i suoi lettori alla loro responsabilità per i membri della comunità che sono in pericolo. La forte accentuazione di questo motivo è uno degli aspetti peculiari alla nostra Lettera (cfr. 3,12 s.; 10,23-25). L'autore sa bene che l'incitamento a raccogliere tutte le proprie forze interiori non può essere giustificato più efficacemente se non con la responsabilità per gli altri. Così, appoggiandosi ad un'espressione figurata del profeta Isaia, che si adatta all'immagine della gara di corsa (vv. I. 2), esorta i lettori a incoraggiare coloro ai quali le forze stanno per mancare, e a comportarsi come chi segue per così dire la pista in un terreno sconosciuto, non volgendosi ora a destra ora a sinistra, ma prendendo una retta direzione fino alla meta; altrimenti, chi già li segue con difficoltà smarrirebbe la strada. Invece, una comunità che marcia in avanti avendo chiara la meta da raggiungere può dar forza anche al debole che cammina in mezzo ad essa. Il v. l 4 che esorta a cercare la pace e la santificazione sembra allontanarsi dalla strada seguita nei due precedenti versetti. Ma sembra soltanto, perché il collegamento grammaticale tra il v. l 4 e il v. l 5 mostra che il primo indica due condizioni che debbono essere soddisfatte se si vuole che abbia successo la vigilanza alla quale i lettori sono incitati nel v. 15. Se esercitata in modo rissoso e senza mantenere se stessi in una severa autodisciplina, questa vigilanza su altri sarebbe vana, senza pensare che anche la propria salvezza personale non è possibile senza tale disciplina. Il dovere di rispondere per gli altri membri della comunità viene affermato con una nuova espressione biblica. Prima era stato detto: nessuno si lasci andare; poi: nessuno devii dalla retta strada; e ora: nessuno rimanga indietro, perché il risultato finale sarebbe quello di non poter ottenere la grazia di Dio. Ma (ora
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia
viene abbandonata l'immagine della marcia comune) incombe un pericolo ancora peggiore. La comunità è un giardino; vigilate perché non spunti un germoglio amaro (secondo il testo ebraico addirittura velenoso) arrecando danni (il te-· sto originario ebraico, qui come nel v. 13, è alterato dalla traduzione greca usata dall'autore), così che (ora l'autore non dice: tutto il giardino ne sia infestato e reso inutilizzabile, ma cambia ancora una volta l'immagine) non sorga il pericolo di una contaminazione non solo dei singoli membri ma dell'intera comunità. A che cosa pensa l'autore lo mostra il richiamo all'esempio di Esaù: per soddisfare la voglia della gola egli vendette il suo diritto di primogenitura, cioè il diritto alla benedizione che Isacco avrebbe dato al suo primogenito. L'autore considera la perdita della benedizione come una conseguenza diretta della perdita della primogenitura. Egli passa sopra all'importanza che ebbe nel fatto l'astuzia di Giacobbe; la benedizione è stata ottenuta per concessione di Dio e, dal fatto che Esaù abbia potuto comportarsi in tal modo, appare che egli era un frivolo uomo del mondo, che non si preoccupava di Dio. Per la tarda tradizione giudaica Esaù valeva come esempio di grossolana impudicizia, ma l'Antico Testamento non ne parla. Forse l'autore, quando chiama Esaù anche 'fornicatore', intende questa parola nel senso figurato biblico (di Osea ad esempio), che esprime l'infedeltà a Dio. In tal caso si avvicinerebbe molto alla seconda parola, cioè 'profanatore'. A voler invece spiegare letteralmente la parola fornicatore si ottiene un ammonimento isolato, che esce del tutto fuori dal contesto della frase, che vuole mettere in guardia i lettori dal rinunciare al loro sublime possesso religioso in cambio di vantaggi terreni: infatti la perdita sarebbe irrecuperabile. Questo concetto è espresso in primo luogo con l'esempio di Esaù: egli aveva barattato il suo diritto di primogenitura, però dopo avrebbe ancora voluto la benedizione. Ma la sua richiesta fu respinta, non, o non soltanto, da Isacco, ma da Dio. Il suo desiderio rimase insoddisfatto, «perché
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non trovò luogo per il cambiamento di decisione»; non il cambiamento della decisione di Isacco, nel senso che questi si fosse infine deciso a benedirlo, ma della sua decisione. L'autore intende dare un esempio ammonitore di caduta irreparabile, motivata non da Isacco ma da Esaù. La frase finale del verso può essere: «quantunque avesse cercato la benedizione con lacrime» (in tal caso l'accenno alla penitenza costituirebbe un elemento eterogeneo) oppure: quantunque avesse cercato «il cambiamento di decisione con lacrime». Questa seconda interpretazione corrisponde al pensiero dell'autore. Certo, Esaù diede prova di un certo 'cambiamento di decisione', come provano le sue lacrime; e perciò l'autore non disse: «egli non trovò alcun cambiamento di decisione», ma: egli non trovò nessun spazio per esso, cioè nessuna possibilità di mutare con esso il suo destino. Dio non si lasciò più convincere dalle lacrime. Chi, come Esaù, si allontana con indifferenza da lui e dalla sua benedizione per un godimento mondano, non ha più accesso a Dio. L'osservazione, dunque, non si fonda su una impossibilità psicologica, ma sull'impossibilità obiettiva, cioè sull'inutilità, per volontà di Dio, di un cambiamento di decisione. Quel che segue è consequenziale a questa annotazione; infatti la seria minaccia del pericolo che incombe sui lettori è illustrata in un modo che corrisponde assolutamente a quello che è stato detto in 2,r-4; ro,28 s., contrapponendo cioè il tipo della rivelazione mosaica alla pienezza salvifica di quella cristiana. Ciò che quest'ultima offre è incomparabilmente migliore, addirittura insuperabile; perciò non c'è più salvezza per chi la respinge. Là un monte sulla terra, che si sarebbe potuto toccare con le mani (Ex. r9,r3); ma chi avrebbe osato farlo! Sopra di esso si scatenavano spaventosi fenomeni naturali, e in mezzo ad essi la paurosa voce di Dio. Perfino Mosè tremò, per non parlare della massa del popolo israelitico, che indietreggiò piena di timore «Dio non parli con noi, ché non abbiamo a morire» (Deut. 5,23; Ex. 20,19). Qui ancora un monte, ma il monte Sion, il luogo della presenza della gra-
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia
zia di Dio e della salvezza (cfr. Is. 2); non dunque una zona del terrore, ma una città accogliente, Gerusalemme, che lo stesso Dio vivo ha edificato ( cfr. r r ,10 ), naturalmente nel senso traslato di salvezza celeste (cfr. Gal. 4,26). Degli abitanti della città celeste fanno parte le schiere festose degli angeli (sul Sinai esse aumentavano ancora la paura, Deut. 33, 2 ); poi, anche se ancora in vita sulla terra ma già iscritti nei libri del cielo come suoi abitanti (cfr. Le. l0,20; Phil. 4,3; Apoc. 3,5; 20,12 ), tutti coloro che hanno ottenuto la primogenitura in quanto membri della comunità cristiana; poi Dio stesso che con potere di giudice rende giustizia a tutti gli oppressi (cfr. Ps. 68,6; Is. 30,18); e ancora le anime dei giusti che sono già giunti alla meta, dei fedeli morti dell'epoca precristiana (cfr.cap. II) e di quella cristiana; ma soprattutto colui che li ha guidati alla meta (cfr. 10,14), il garante della Nuova Alleanza, con il suo sangue destinato all'aspersione espiatoria, con il quale è entrato nel santuario celeste per esercitarvi il suo mandato di sommo sacerdote (cfr. 9,1226). E questo sangue parla 'meglio' di quello di Abele. Quello di Abele gridava vendetta ( cfr. r r ,4); il sangue di Gesù, invece, grida perdono! Ma ora tutto dipende da come ci si pone di fronte alla rivelazione, alla pienezza della salvezza cristiana. Come si comportarono gli Israeliti? L'autore spiega il ritirarsi timoroso del popolo come un segno di disobbedienza, quantunque essi avessero detto a Mosè: «Parla tu con noi, che ti ascolteremo; ma Dio non ci parli, ché non abbiamo a morire» (Ex. 20,19 ). La conseguenza di questo rifiuto di Dio fu il tramonto nel deserto di quella generazione ( cfr. 3,7-19); eppure allora si trattava soltanto di una manifestazione di Dio sulla terra, sul Sinai. Ma adesso egli parla dal cielo, per mezzo del Figlio, che ci ha mandato di lassù (cfr. r, 2 ). Sarà quindi minore per noi la possibilità di evitare la punizione, se ci rifiutiamo di dargli scolta? Ciò che è in gioco qui è il 'regno incrollabile', della cui venuta Dio stesso ha parlato attraverso al profeta Aggeo. Quella parola è detta una
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promessa, quantunque l'autore l'interpreti come annuncio della catastrofe cosmica della fine dei tempi, la cui misura supera di gran lunga il terrore sul Sinai perché si estenderà anche al cielo (cfr. r,rr s.). Ma Dio dice (e questo è decisivo per l'autore) che ciò avverrà ancora una volta soltanto; ed è questo il segno del regno incrollabile, del regno celeste della pienezza che non passerà (cfr. Dan. 7,13), e che noi 'riceviamo'. L'uso del presente da parte dell'autore serve ad esprimere il fatto che tale ricevimento è già sicuro, anche se futuro. Ma questa prospettiva ci impegna alla gratitudine, che sola ci consente di servire Dio come a lui è gradito. Tutte le esortazioni che si possono fare ai cristiani si riassumono in questa: siate riconoscenti. L'etica della Lettera agli Ebrei ha un titolo: «Della gratitudine». Essa naturalmente non significa confidenza, che anzi non si addice di fronte alla santità maiestatica, che è uno dei caratteri essenziali del concetto di Dio, tanto di quello cristiano quanto di quello veterotestamentario (cfr. Deut. 4,24). La coscienza di ciò pervade tutte le esortazioni della nostra Lettera, cui conferisce la loro solenne severità.
EPILOGO ESORTAZIONI PARTICOLARI E CONCLUSIONE PERSONALE (cap. 13)
Esortazioni particolari ( l 3,1-17) 1 Rimanga l'amore fraterno. 2 Non dimenticate l'ospitalità; infatti, grazie ad essa alcuni senza saperlo hanno ospitato degli angeli. 3 Ricordatevi dei carcerati, come se foste carcerati con loro, e di coloro che sono maltrattati, essendo anche voi ancora in un corpo. 4 Il matrimonio sia onorato da tutti e il letto coniugale sia senza macchia. Dio giudicherà fornicatori e adulteri. 5 La vostra condotta sia senza avarizia, contentandovi di ciò che avete oggi: egli stesso infatti ha detto: «Non ti lascerò né ti abbandonerò». 6 Onde possiamo dire fiduciosi: «li Signore è il mio aiuto; non avrò timore. Cosa potrà farmi un uomo?». 7 Ricordatevi dei vostri capi che vi hanno esposto la parola di Dio, e considerando l'esito della loro condotta imitatene la fede. 8 Gesù Cristo è lo stesso ieri ed oggi e in eterno. 9 Non lasciatevi sedurre da dottrine varie e strane. È ottima cosa infatti che il cuore sia reso forte dalla grazia, e non da alimenti, che non sono stati di alcuna utilità a coloro i quali ne hanno fatto uso. 10 Abbiamo un altare del quale non hanno diritto di mangiare coloro che servono nella tenda. 11 Infatti i corpi degli animali, il cui «sangue» è portato dal sommo sacerdote «nel santuario per l'espiazione dei peccati, sono bruciati fuori dell'accampamento». 12 Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il suo sangue, ha sofferto fuori della porta. 13 Usciamo dunque «dall'accampamento» incontro a lui, portando il suo obbrobrio. 14 Perché qui non abbiamo una città stabile, ma cerchiamo quella futura. 15 Per mezzo di lui, dunque, offriamo continuamente a Dio «un sacrificio di lode», cioè «il frutto di labbra» che confessano il suo nome. 16 Ma non dimenticate la beneficenza e la comunione dei beni, perché Dio si compiace di tali sacrifici. 17 Obbedite ai vostri capi e seguiteli, perché essi vegliano sulle anime vostre come chi ha da renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non con lamenti, cosa che non vi sarebbe di alcun vantaggio.
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I-6. Questa sezione, dedicata ad esortazioni, si occupa nella prima parte (vv. l-6) del comportamento morale, e nella seconda (vv. 7-17) del comportamento religioso dei lettori. Prima di tutto come regola fondamentale della vita delle comunità cristiane, è posto l'amore fraterno (cfr. I Thess. 4,9; Rom. 12,10; I Petr. l,22; 2,17; I Io. 3,23; 4,7; 5,1 s.). In 6,10 era stato esplicitamente riconosciuto che i destinatari della Lettera avevano praticato in passato, e praticavano ancora l'amore fraterno; ma non è superfluo che essi vengano esortati a continuare a praticarlo. Al riguardo sono messi in evidenza due settori in cui esercitarlo: l'ospitalità e l'assistenza ai perseguitati. In 10,32-34 si volgeva lo sguardo ad un periodo passato di persecuzioni; ma anche adesso ci sono fratelli carcerati e maltrattati. Naturalmente vengono gettati in carcere e maltrattati per la loro fede. I lettori si debbono comportare con essi secondo la 'regola aurea' (Mt. 7 ,12 ): «Fate agli uomini tutto quello che volete che essi facciano a voi». Mettetevi nella loro situazione, nella quale, del resto, potete venirvi a trovare in ogni momento; saprete così che cosa dovrete fare. L'esercizio dell'ospitalità non era certo limitato a coloro che erano costretti a fuggire a causa della loro fede, ma per essi era importante in modo tutto particolare. Inoltre, se Abramo e Lot non fossero stati ospitali, non si sarebbero trovati nell'occasione di dare ospitalità a personaggi celesti (cfr. Gen.18,3; 19,2 s.). Anche oggi vanno in giro per il mondo dei messaggeri celesti, anche se nella forma meno appariscente possibile. Questo è uno dei motivi dell'ospitalità, cui può essere superiore soltanto quello di Mt. I0,40 (dr. 25,35. 38). L'etica della cristianità dei primi tempi ha poi considerato con buoni motivi particolarmente pericolosi due settori: il rapporto fra i due sessi ed il rapporto con la proprietà. A questi due generi di rapporti è rivolta l'esortazione del v. 4. Il matrimonio deve essere in onore di tutti, anche dunque dei non sposati. Dove l'esortazione è tenuta in seria considerazione è evitato ogni disordine nel campo della vita sessuale: non
Esortazioni particolari
soltanto l'adulterio, ma anche ogni altra impudicizia, come chiarisce la minaccia aggiunta all'esortazione. Da essa appare anche come sia rivolta non contro un disprezzo monastico del matrimonio, ma contro la dissolutezza. Accanto ad essa (come ICor. 5,10; 6,9s.; Eph. 5,5) sta l'ammonimento a guardarsi dall'avarizia. Essa era per il cristianesimo dei primi tempi 'la radice di tutti i mali' (I Tim. 6,ro, dr. Mt. 6,19 ss.; 19, r 6 ss.); l'avarizia non si mostra soltanto nel tenace attaccamento a ciò che si ha, ma anche nel desiderio del di più, che deriva dalla preoccupazione per i bisogni materiali del!'esistenza. Perciò i lettori sono esortati ad accontentarsi di quello che hanno e a combattere quella preoccupazione con il ricordo dell'assistenza promessa da Dio. Le parole della Scrittura, citate qui, non sono letteralmente quelle dell'Antico Testamento (ma una volta si trovano in Filone); la citazione dev'essere il risultato dell'unione dei due passi citati nella traduzione. Sulla fiducia in quelle parole si sviluppa il superamento da parte dei cristiani delle preoccupazioni per la vita materiale; l'autore esprime questo pensiero con le parole di Ps. l l 8 ,6. Risulta inoltre che preoccupazioni del genere non sono originate tanto da difficoltà obiettive quanto da ciò che gli uomini si fanno l'uno contro l'altro. La sobrietà del giudizio biblico è naturalmente ben lontana da ogni fanatismo. Il superamento delle preoccupazioni per la vita, fondato sulla fiducia nell'assistenza di Dio, libererà per conseguenza il cristiano da ogni spirito di avarizia e di cupidigia. 7-17. La parte che si occupa del comportamento religioso dei lettori incomincia col richiamare alla memoria i capi di un tempo, e soprattutto la loro fine, e si conclude con un'esortazione a seguire quelli di oggi (v. 17). Si tratta (secondo l'espressione usata nel testo originario che non significa un ministero) di uomini stimati e in una posizione direttiva, che in sé può essere di vari generi, molto diversi l'uno dall'altro, ma che dovrebbe includere, secondo i vv. 7 e 17, soprattutto la
Hebr.r3,x-r7
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predicazione e la pastorale. Se essi vengono additati, soprattutto per loro morte, modello di fede, dovrebbe trattarsi di martiri, forse durante la persecuzione neroniana (v. comm. a l0,32-34). In quell'occasione essi, come i testimoni del cap. II, hanno mostrato una fede che nulla poteva abbattere; ma tale fede non faceva che rispondere all'immutabilità del suo oggetto, Gesù Cristo, nel passato, nel presente e nel futuro. I capi cambiano, il capo resta (dr. I Cor. 3,u; Apoc. l,17). La solenne espressione liturgica è un'eco delle parole con le quali Dio si fece conoscere a Mosè in Ex. 3,14. A questa immutabilità di Gesù Cristo, però, deve corrispondere la fermezza dei lettori. Perciò essi sono ammoniti a non lasciarsi portare fuori strada da dottrine, che non hanno altro che una facciata variopinta, e la cui stranezza dovrebbe preoccupare più che attrarre. Non si tratta di un'esortazione generica senza motivo; ce lo fa pensare la motivazione di essa nel v. 9 b, secondo la quale sembra che chi insegnava quelle dottrine si proponesse il fine di ottenere un cuore fermo, cioè un atteggiamento sicuro. Il fine è approvato dall'autore, ma non i mezzi proposti per raggiungerlo; egli conosce soltanto un mezzo: la grazia di Dio. Essa soltanto toglie l'inquietudine del cuore e lo rende 'fermo'; su di essa si sviluppa l'atteggiamento sicuro della personalità cristiana. Invece sembra che quei maestri volessero ottenerla con dei 'cibi'. Con cibi che si mangiano? In tal caso si tratterebbe di pasti sacramentali, che potrebbero essere in rapporto con sacrifici. Oppure con cibi che non si mangiano? Allora si tratterebbe di prescrizioni sull'astinenza dà certi cibi, ascetiche o puramente legalistiche. L'esortazione che segue a sciogliersi dalla religiosità giudaica farebbe pensare anche in 9 ha influenze esercitate dalla sinagoga. La parola 'cibi' sembra indicare pasti cultuali; ma il cibarsi in comune di carni immolate non era conosciuto dalle comunità fuori della Palestina. Inoltre non si mangiavano affatto le carni degli animali immolati il giorno della riconciliazione, a cui pensa l'autore. Dunque dovrebbe trattarsi di proi-
Esortazioni particolari
bizioni di certi cibi, come ne contiene la legge mosaica, o come le ha trasformate l'uso giudaico rendendole forme esteriori, in collegamento con inclinazioni ascetiche (cfr. I Tim. 4,3; Col. 2,21) per respingere il contatto con il mondo pagano (Rom. 14). Un comportamento il più possibile severo in queste cose sembrava una prova di fermezza interiore (il versetto si adatta perfettamente ai Lettori se essi propendono per la religione giudaica, impressione che del resto si ricava dalla argomentazione della Lettera); ma l'autore respinge fermamente questa idea. Simili atti non hanno il minimo valore religioso; essi non aiutano a compiere nessun progresso. Perché dunque i lettori vogliono prestare ascolto a dottrine che insegnano loro cose simili? Ciò che importa è la grazia, che abbiamo nel sacrificio di Cristo. Naturalmente, per poter partecipare ad esso, è necessario rompere i ponti con il giudaismo. Questo concetto è illustrato con un'interpretazione del sacrificio nel giorno della riconciliazione, che vede in esso una rappresentazione simbolica del sacrificio di Cristo. Il Golgotha è per così dire l'altare della comunità cristiana, del quale essa mangia secondo il diritto sacerdotale. Questa espressione della partecipazione al bene cristiano della salvezza dovrebbe essere stata suggerita dall'usanza della celebrazione eucaristica. Chi invece serve nella tenda, cioè secondo il culto veterotestamentario, non partecipa affatto a tale bene. Infatti il sacrificio di Cristo corrisponde al sacrificio nel giorno della riconciliazione, il cui sangue è portato nel santo dei santi. Ma ora l'autore. si ricorda che i corpi delle vittime secondo Lev. 16,27 erano portati fuori dell'accampamento per essere distrutti, e così anche Gesù è morto fuori della porta. Infatti il Golgotha (dove oggi si trova la chiesa del Santo Sepolcro) era situato fuori le mura della città di allora. La comunità giudaica espulse Gesù dal suo seno. Allo stesso modo che i sacerdoti non potevano mangiare delle carni immolate il giorno della riconciliazione, che venivano bruciate fuori della città, così la comunità cultuale giudaica
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non può aver parte con Gesù; nella storia della salvezza il suo culto è stato sostituito dal sacrificio di Gesù. Il paragone non è naturalmente del tutto esatto; gli animali destinati al sacrificio erano immolati nel Tempio, ed il loro sangue vi era sparso ad espiazione. Soltanto le carni degli animali morti erano buttate fuori. Al contrario Gesù ha patito ed è morto 'fuori dalla porta'. Inoltre il parallelo non è esatto anche perché nessuno poteva mangiare delle carni sacrificate nel giorno dell'espiazione, mentre qui è dato per ammesso che i cristiani 'mangiano di questo altare'. Ma l'autore passa sopra a queste inesattezze, proprie di ogni paragone; a lui interessa soltanto un punto: che il luogo del supplizio di Gesù è situato fuori della porta (cfr. Io. 19,20; Mt. 21,39); coloro i quali servono nella tenda, vale a dire la comunità cultuale giudaica, con questo atto hanno mostrato che tra loro e la vittima espiatrice del Nuovo Testamento non c'è alcuna comunione. L'invito a 'uscire dall'accampamento incontro a lui' non può perciò significare altro che dev'essere compiuta la separazione dalla comunità cultuale giudaica, le sue idee e le sue forme religiose di vita. Il pericolo che viene alla comunità cristiana dal giudaismo definisce la concreta situazione pastorale della Lettera; la separazione dev'essere netta e chiara. Se poi si è irrisi, ci si fa partecipi dell'obbrobrio di Cristo, come l'ha già fatto Mosè (cfr. u,26). Ma che importa? Su questa terra i cristiani sono pellegrini senza patria, come i patriarchi dell'Antica Alleanza ( cfr. l l ,9-14) e come i patriarchi indirizzano la loro attesa alla città futura, alla Gerusalemme che è in alto (Gal. 4,26). Ma se debbono separarsi dalla comunità cultuale giudaica, hanno però anche la possibilità e il dovere di offrire sacrifici a Dio; e l'autore sprona a farlo anche se stesso, insieme ai suoi lettori. Questo sacrificio cristiano è di due generi. Anzi tutto si tratta di un 'sacrificio di lode', che non consiste però, come il sacrificio di lode del culto veterotestamentario, in doni commestibili (Lev. 7 ,II ss.), bensì nella lode del suo nome, che già Osea ( 14,3 LXX) chia-
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Conclusione personale
mava in maniera figurata il frutto delle labbra; e neppure va compiuto ogni tanto, ma senza interruzione. Comunque tale lode avviene per la mediazione di Gesù, che con la sua autoimmolazione ha creato il presupposto di questa manifestazione ininterrotta di gioia. Accanto a questo sacrificio di lode adorante ecco l'esercizio pratico dell'amore, che anche Phil. 4,18 chiama sacrificio accetto e gradito a Dio. La spiritualizzazione del culto, alla quale già tendeva il profetismo veterotestamentario, diventa realtà nella comunità cristiana (cfr. Is. l,ro-17; Ier. 7,3-7; Mich. 6,6-8; Am. 5,21-25; Ps. 40,7 s.; 50,8-15; 51,17 s.; Deut. lo,12-20; I Sam. 15,22). Un simile atteggiamento di fede l'hanno già avuto i capi defunti della comunità, e ad esso esortano quelli che oggi sono ancora in vita. Perciò questa sezione si chiude con l'esortazione a seguirli. Essi faticano notte e giorno unicamente al fine di salvare le anime di coloro che sono stati loro affidati. Ma questa cura d'anime è della massima responsabilità, perché Dio esige una resa dei conti. Questo non è detto per accentuare la serietà del compito di questi capi; il pericolo l'autore non lo vede in essi, ma nella comunità. Quale sarà il suo destino se un giorno i loro capi dovranno confessare singhiozzando a Dio, come Gesù per Gerusalemme e, prima ancora, Geremia: «Non hanno voluto» (Mt. 23,37; Ier. 6,10)? In tal modo, riecheggia per l'ultima volta, sia pure in sordina, quel tono minaccioso e severo, che l'autore aveva già lasciato risuonare con forza in 6,4-8; lo,26-31; l2,14ss. Conclusione personale (I 3,18-21;) 18 Pregate per noi. Infatti siamo persuasi di avere una buona coscienza, sforzandoci di comportarci bene in ogni cosa. 19 Ma tanto più vi scongiuro di farlo, affinché vi possa essere restituito al più presto. 2°Che il Dio della pace, «che ha tratto dai morti colui che mediante il sangue di un'eterna alleanza è il grande pastore delle pecore», il Signore nostro Gesù, 21 vi renda perfetti in ogni bene, affinché compiate la sua volontà, operando in noi ciò che gli è gradito per
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mezzo di Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. Vi prego, fratelli, fate buona accoglienza a questa parola di esortazione. Vi ho scritto infatti in breve. 23 Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato liberato. Se arriverà abbastanza presto, verrò da voi insieme a lui. 24 Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli d'Italia. 25 La grazia sia con tutti voi. 22
r 8-2 I. Anche l'autore di questa Lettera fa parte dei capi, che si danno da fare per la comunità con la predicazione e l'attività pastorale. Tutto lo scritto dimostra come egli si consideri tale; perciò non stupisce che, collegandosi direttamente all'ammonimento del v. 17, egli chieda per sé le preghiere dei lettori, come Paolo fa ripetute volte (ad es., Rom. 15,30; I T hess. 5 ,2 5 ). È vero che egli dice 'per noi'; ma poiché subito dopo nel v. l 9 continua con il singolare, si deve pensare che egli parli soltanto di sé. La giustificazione di questo invito con l'assicurazione della sua buona coscienza si spiega con insinuazioni e sospetti, che potrebbero essere stati sollevati su di lui. Nell'espressione «siamo convinti ... » c'è una punta di riserbo; l'autore non parla alla leggera, perché anche dopo un severo esame di coscienza egli giunge alla stessa conclusione. Altrimenti non gli sarebbe possibile chiedere ai lettori le loro preghiere. L'oggetto principale di questa preghiera dev'essere il pronto ritorno dell'autore fra i destinatari della Lettera; dunque, già prima è stato attivo in mezzo ad essi. Ci sono delle difficoltà che sono indipendenti dalla sua volontà; di che genere siano, non possiamo saperlo: forse c'erano a quel tempo delle persecuzioni. Per quale motivo egli desideri tanto ritornare da loro lo dice l'augurio che segue. Lo muove la cura per il loro progresso spirituale, che ci sia in essi ogni cosa buona nell'adempimento attivo della volontà di Dio. Ma egli non ripone la speranza nei proponimenti e negli sforzi degli uomini ma nell'opera di Dio tra gli uomini. Infatti, come Paolo, egli è dell'opinione che la volontà di compiere il bene e l'azione volta a tale scopo in ultima analisi non sono che l' opera di Dio in noi (cfr. Phil. 2,13; IThess. 2,13; I Petr. 5,10).
Conclusione personale
Naturalmente 'per Gesù Cristo', al quale siamo debitori della salvezza, e che può edificare su quest'opera di Dio. Dio, infatti, è il Dio della pace, un'espressione usata anche da Paolo per definire Dio nella sua totale volontà di salvezza (I T hess. 5 ,2 3 ). Egli lo ha dimostrato traendo dai morti 'nostro Signore Gesù (come è detto con un chiaro tono di calore) con il sangue della Nuova Alleanza', cioè nel santuario celeste, dove senza questo sangue non avrebbe potuto entrare e dove ora esercita il suo ministero sacerdotale di espiazione (cfr. 9,1l-ro,18 ). Questo è l'unico passo di tutta la Lettera in cui si parla esplicitamente della risurrezione di Gesù, e se ne parla soltanto come dell'ovvia condizione previa della glorificazione; altre deduzioni, di più ampia portata, non se ne possono trarre. In questo versetto echeggia ancora una volta ìl concetto fondamentale che informa questa Lettera; ma proprio per questo Gesù è la 'guida della nostra salvezza' ( 2,ro ), o, come è detto qui, il 'grande pastore delle pecore'. Is. 63,11 aveva presentato Mosè come un pastore, che insieme al suo gregge è salvato dalle onde del Mar Rosso; la sua controfigura è Gesù in quanto 'grande' pastore, allo stesso modo che in 4,14 era chiamato il 'grande' sommo sacerdote. Dio lo ha innalzato nella gloria celeste come pastore alla testa di un grande gregge, per il quale egli ha dato la vita per fedeltà al suo servizio pastorale (cfr. Io. 10,15), ma continua ancora a prendersi cura di esso. Se Dio lo ha fatto con l'intenzione di 'portare molti figli alla gloria' (2,ro), perfezionerà l'opera che ha iniziato (questo è il fondamento della fiduciosa preghiera dell'autore). È del tutto naturale, allora, che la preghiera sfoci in una lode: a Dio o a Cristo, ciò non ha importanza. 22-25. L'autore è giunto alla fine della sua 'parola di esortazione', come chiama giustamente la sua Lettera; infatti anche le parti dottrinali non intendono insegnare all'intelletto ma influire sulla volontà dei lettori. Ma essi apriranno il cuore
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alle sue parole? L'autore li prega di farlo, anche se (tenuto conto dell'oggetto della Lettera) ha cercato di non dilungarsi troppo (cfr. I Petr. 5,12). Segue una breve notizia su Timoteo, che evidentemente i lettori conoscono bene. Non si può dire con certezza se qui si parla della liberazione di Timoteo dal carcere o della sua 'partenza'; dal punto di vista grammaticale è possibile anche la seconda ipotesi (dr. Act. l 3 ,3; l 5, 30.33; 16,36). In tal caso egli dovrebbe trovarsi in un'altra località dalla quale si dirigerebbe verso l'autore non per la strada più breve, e quest'ultimo nel frattempo ne avrebbe avuto notizia a mezzo di messaggeri giunti direttamente da lui. Ma ci si domanda se questo sarebbe stato un avvenimento tanto importante da meritare che i lettori della Lettera ne fossero informati. La notizia, riferita ad una precedente detenzione in tempi di persecuzione, sarebbe più naturale. La stretta relazione che lega l'autore a Timoteo mostra come anche l'autore della nostra Lettera sia vicino al gruppo paolino. La definizione dei cristiani come 'santi', cioè consacrati da Dio e accolti nella sua comunione, è corrente in Paolo. In Dan. 7,18 ss. la parola è applicata alla comunità escatologica di salvezza di Dio. I saluti da quelli d'Italia vanno intesi come saluti di un gruppo di appartenenti ad una colonia italiana fuori della penisola a conoscenti in patria. La Lettera si conclude con un augurio di grazia, come nelle Lettere paoline; soltanto che in queste ultime la formula è più completa. La forma concisa di Hebr. 13,25 è identica a quella della fine della Lettera a Tito. Si dice 'la grazia' senza ulteriori determinazioni. Ce n'è solo una, quella che si trova 'sul trono della grazia', che dà fermezza ai cuori; e lo scopo della Lettera è di mettere in guardia contro il pericolo di perderla ( 4, l 6; l 3 ,9; 12,15).
Il tono di questo finale personale diverge da quello del resto della Lettera. Esso ha veramente le caratteristiche di una 'lettera', cosa che non si può dire di tutto quanto lo precede. Ma ciò non autorizza ad operazioni di critica letteraria. Anche
Conclusione personale
questa conclusione è fermamente collegata dal v. 20 a quanto precede; la definizione della Lettera al v. 2 2 come parola di esortazione è senz'altro ragionevole. L'espressione, per nulla affatto comune, 'capi' collega anche il v. 24 con 13,7.17. Non si vede perciò perché si dovrebbe considerare la conclusione finale, o parti di essa, come aggiunta di un successivo redattore. Se questi, come si è sostenuto, avesse voluto, magari con un'annotazione come quella su Timoteo, dare alla Lettera una colorazione paolina, non si vede perché non avrebbe fatto un'aggiunta dello stesso genere anche all'inizio della Lettera.
INDICE ANALITICO
Poiché i termini e i concetti caratteristici del testo biblico possono essere ricercati facilmente negli strumenti più comuni dell'esegesi biblica (concordanze, ecc.), si sono riportati in questo indice analitico solo quelle voci su cui si è insistito particolarmente nella spiegazione del testo. I numeri rimandano perciò alt' esegesi dei passi corrispondenti. Per evitare ripetizioni e per dare la possibilità di rintracciare le connessioni che esistono tra i singoli concetti, vengono fatti richiami alle voci affini {~ ~). Le parole seri tte tra virgolette si riferiscono agli excursus, di cui v. l'indice a p. 29I. Abramo: Hebr. 6,13 ss.; 7,1-IO; u,8 ss. 17-19 alleanza, antica e nuova: Hebr. 7,7.8.20 ss.; 8,6 ss.; 9,I0.15.16 ss. 23 ss.; IO, 15-18; 13,21 amore: I Tim. 6,u, 2 Tim. 2,23 s.; Hebr. I0,24. - per i fratelli: I Tim. 6,2; 13,I. - di Gesù (Cristo): Hebr. 2,u.16-18 angeli [dottrina sugli]: Hebr. 1,3.5-14. 5b.6.14; 2,1 ss. 5.16-18 anziani, gli (designazione di età e di ministero): I Tim. 5,17-25; 5,17 ss.; Tit. 1,5 apostasia dalla fede: I Tim. 4,1 s.; 6,3 ss. IO; 2 Tim. 2,12; Hebr. 3,I0.1I.12. 15-19; 6,4.6 ss.; I0,26 ss.; 12.4-12 ss. apparizione di Gesù Cristo: 2 Tim. 1,9 ascesi: I Tim. 4,2 ss. 7 ss. attesa della fine [giudizio universale]: I Tim. 4,1; 6,14 s.; 2 Tim. l,IO «Gesù Cristo, nostro Salvatore»; 2,IO; 3,1 ss.; Hebr. l,I.2a; I0,25; 12,26.27 autorità~ Stato avarizia: Hebr. 13,5
Barnaba: Intr. Hebr. battesimo: I Tim. 4,4; 2 Tim. 2,u.18; Tit. 2,12; 3,5 ss.; Hebr. 6,I.2.4; IO, 22.32 benedizione [augurio di] (triplice): I Tim. 1,2; 2 Tim. l,16-18 I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo'; Hebr. 2,14.15 casa ( = comunità): Hebr. 3,3 ss.14; IO,
Carne:
21 chiesa, disciplina della - : I Tim. 1, 20; 5,19 ss.; Tit. 3,19. guida ddla - : Intr. I Tim. 4,12-6,2 città, futura: Hebr. II,IO compimento: Intr. Hebr.; Hebr. 7,7.8. 11,12.18.19. - del mondo: I Tim. 1, I.17 comunità (di Dio): I Tim. 5,1.2; Hebr. 4,9. assemblea della - : Hebr. IO, 25. esclusione dalla ,.., : I Tim. 1,20; Tit. 3,IO. guida della - : I Tim. 3,17; 3,1 ss.; Tit. l,5 ss. ordinamento della ,.., : Intr. Tim. e Tit. nr. 5; Intr. r Tim. 2,1-3,16; I Tim. 3,15
Indice analitico
286 confessione (~ fede): I Tim. 2,5; 3, 16 'L'inno a Cristo'; 6,13 s.; Hebr. 10,23; 12,4. - di Cristo: 2 Tim. r, 7 s.; 2,1 ss. 8; Intr. Hebr. 3,1 conversione: Hebr. 10,30.32 coscienza: I Tim. 1,19; 2 Tim. 2,22 costanza: Hebr. 10,35.38 s. creazione [ordine della]: I Tim. 4,3 s.; Hebr. 3,3.4; n,rb.3 cristologia: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo' croce di Cristo: 2 Tim. 2,18; Hebr. 12, 2; 13,10
culto ~ liturgia sacrificale. - dell'imperatore (~ imperatore). del Tempio (~ Tempio) cupidigia: 2 Tim. 2,22; Tit. 2,12; 3,3 Decima (riscossione della - , diritto alla - ): Hebr. 7,5 demoni: I Tim. 4,1 s. denaro [avidità di]: r Tim. 6,6 ss. 17 diacono (ministero diaconale): I Tim. 3,8 ss.; 5,3 donne (nel servizio liturgico): I Tim. 2,9 ss.; 3,n; Tit. 2,3 ss. dualismo, ellenistico: I Tim. 4A Eresia [eretici]: I Tim. l,3 ss. n; 2, 15; Intr. 4,1-n; 4,r ss. 7; 5,23; 6,3 ss. 20 s.; 2 Tim. 2,14 ss. 26; 3,6 ss.; 4,3.4; Tit. l,10 ss.; 3,9 ss. espiazione (mezzo di - , sacrificio di - ): r Tim. 2,6; Intr. Hebr.; Hebr. 9,7 ss. rrb.12.22; 10,19.26 etica, cristiano: Tit. 2,12 Favole: I Tim. I,4; 4,7 fede: Intr. Tim. e Tit. nr. 6; I Tim. 1,19; 6,n; 2 Tim. l,5; 3,15; Hebr. 4,1 ss.; 6,r.2.12; lo,22 s. 38 s.; II,I ss.; r2 . 2. battaglia della - : I Tim. 6.12. confess'one della - : 2 Tim. 4,1; l-lebr.3,1 fedeltà di Dio e di Cristo: 2 Tim. 2,13; l-lebr. 10.23 fiducia: Hebr. n,ra.2 Figlio dell'uomo: Hebr. 2,6. - di Dio
(=Cristo): Hebr. l,r.2a.5-14.5 ss. 14; 2,1ss.5ss.8c; 3,5; 5,4.8; 7,28; 10,29 Filone di Alessandria: I Tim. l,4; Hebr. l,3; 4,13; 6,16-18; 7,1-10; Hebr. 8,5 futuro (attesa del) ~ attesa della fine Gara (corsa): Hebr. 12,1ss.12.13 garante: Hebr. 8,6 genealogie (elenco delle generazioni): I Tim. 1,4 Gerusalemme: Hebr. n,10; 12,22. celeste: Hebr. 13,14 giudizio di Dio: Hebr. 6,1.2.7.8; ro, 25.26 ss. - universale~ attesa della fine giuramento: Hebr. 6,13 ss.; 7,23-25; 8,6 giustificazione: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo'; Hebr. 10,38 giustlZla: 2 Tim. 4,8; Tit. 3,7; Hebr. n,7. - di Dio: Hebr. 6,10 gloria: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo'; Hebr. 2,9 glorificazione: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo'; Hebr. l,2b.3. - di Gesù: Hebr. r,8.9; 2,9; 8,r.2; 9,23 ss.; 12, 2; 13,21 gnosi, gnostici: I Tim. 4,;; 6,20 s.; 2 Tim. 2,16 ss. 26; 3,6 ss.; 4,3.4; Tit. 1,14 ss.; 3,9 ss.; Intr. Hebr. 7,1 ss. Golgotha: Hebr. 13,12 gratitudine: Hebr. 12,28 grazia: I Tim. 6,21; 2 Tim. 2,r; Hebr. 4,16; 13,25. - di Dio: 2 Tim. 1,9; Tit. 2,rr ss.; 3,3; Hebr. 2,9; 13,9. ,._, e peccato~ Imperatore (culto dell'): 2 Tim. l,IO 'Gesù Cristo, nostro Salvatore' impudicizia: Hebr. 13,4 incredulità: Hebr. 3,12.15-19 inno: r Tim. 3,16 'L'inno a Cristo'; 6, 15 s. insegnamento, istruzione: I Tim. 4,13 inte-_·cessione:
I Ti111. 2,1
ss.; 4,14 'L'or-
Indice analitico
dinazione nei primi tempi del cristianesimo'; 2 Tim. r,3; Hebr. r3,r8 ss. intronizzazione (riti di ...., = inno di ...., ): r Tim. 3,r6 'L'inno a Cristo' ira di Dio: Hebr. 3,IO.rr.r5-r9 ispirazione: 2 Tim. 3,r5-q 'Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T.'; Hebr. 4,IO; 7,I-IO
Israele: Hebr. r,r.2a; 2,r6-r8; 3,7 ss. Legge (di Mosè [ ~ ]): r Tim. 1,7 ss.; Hebr. 2,rs.; Intr. 7,r ss.; 7,7.8.u. r2 ss. 20-22; 8,4; I0,3. dottori della ...., : r Tim. r,7 ss. fine della ...., ad opera di Cristo: Intr. Hebr. ...., e vangelo: I Tim. r,7 ss . ...., e peccato: Hebr. 7,1r.r2 Lettera agli Ebrei: Intr. Hebr.; Intr. l,r-r4; 2,3b.9; 5,rr ss.; 6,3; 8,4; r3, 18.23. rapporti della ...., con Paolo: Intr. Hebr.; Hebr. 7,n.12.23-25; IO, 3.38; lr.7; 12,l Lettera a Tito (~ Lettere pastorali): Intr. Tim. e Tit. nr. 2.34.5.6; Intr. Tit.; Tit. 3'4 Lettere a Timoteo: Intr. Tim. e Tit. nr. 2.3+5.6; I Tim. l,2.n; 2 Tim. 2, 14; 4,21 Lettere pastorali (~ Lettere a Timoteo,~ Lettera a Tito): Intr. Tim. e Tit. nr. l-8; Intr. I Tim. 3,1-13; I Tim. 5,17-25; 2 Tim. 2,18; 4,6-21 liturgia: Intr. Tim. e Tit. nr. 5; I Tim. 2,2.8.9 ss.; 4,13 . ...., sacrificale (culto veterotestamentario): Hebr. 7,27; Intr. 8,1 ss.; 8,r.2+5; Intr. 9,1-IO, 18; 9,1 SS. II S. 25; lO,l SS. 5 SS. II ss.; 13,IO ss . ...., di Gesù: Hebr. IO, 5 ss. 29; 12,9.IO; 13,10 ss. ...., cristiana: Hebr. 13,15 logos: Hebr. 4,13 Mani [imposizione delle]: r Tim. 4,14 'L'ordinazione nei primi tempi del cristianesimo'; 5,22; 2 Tim. l,6; Hebr. 6,r.2
martirio ~ sofferenze matrimonio: Hebr. 13,4. proibizione del ...., : I Tim. 4,3 maturità [perfezione] dei cristiani: Hebr. 6,r.2.3 mediatore: Hebr. 8,6 Melchisedec: Hebr. 5,6; Intr. 7,1 ss.; 7,1-10 Messia [attesa messianica]: 2 Tim. l, IO 'Gesù Cristo, nostro Salvatore'; Hebr. 1,5 ss.; I0,37 ministero, ministri: Intr. Tim. e Tit. nr. 5; Intr. I Tim. 3,1-13; I Tim. 3, 7.8 ss.; 4,r4 s.; 5,22 ss.; 2 Tim. 4,2 ss. q; Tit. 1,6 s. ...., apostolico: I Tim. l,r.12; 2,7; Tit. l,r. ...., della predicazione: 2 Tim. 4,5; Tit. 1,3. grazia del ...., : r Tim. 4,14 s.; 4,14 'L'ordinazione nei primi tempi del cristianesimo'; 2 Tim. l,6 miracolo e segno ~ misericordia di Dio: I Tim. l,13 s. mito: r Tim. 1,4 morte: Hebr. 2,14.15 . ...., come punizione: Hebr. I0,28 s. ...., di Gesù Cristo: r Tim. 2,6; 2 Tim. 2,18; Tit. 2,14; 3,4.7; Hebr. l,3; 2,8c.9.14.r5; 9,14 s. 16.17; lo,20; 13,12 . ...., sacrificale di Gesù: Hebr. 5,7 s. IO; 7,27; 8,r.2; Intr. 9,1-10,18; 9,rr ss. 23 ss. Mosè (~ Legge): 2 Tim. 3,8; Hebr. 3, 2 ss.; rr,23 ss.; 12,18-21 Obbedienza (di Gesù): Hebr. 2,q s.; 5,8.IO; I0,5 onore: Hebr. 2,9 opere, buone: Hebr. I0,24. ...., di carità: Intr. Tim. e Tit. nr. 6; I Tim. 5,IO; 5,IO 'L'opera di misericordia'; 6,18 s.; Tit. 2,14; 3,8a; 3,14; Hebr. 6,IO; 13,16 ordinazione: I Tim. 4,14 'L'ordinazione nei primi tempi del cristianesimo'; 5,22; 6,12; 2 Tim. l,6 ospitalità: Hebr. 13,2.3 Pace (cercare la ...., ): Hebr. 12,14
288 Paolo, apostolo: Intr. Tim. e Tit. nr. 1.3+5.6; r Tim. l,12 ss.; 4,12; 2 Tim. l,I.2.3.15 ss.; 3,10 ss.; 4,9 ss. 21; Tit. l,r.5; 3,12. predicazione di - : I Tim. l,1; 2 Tim. l,II s.; 4,17 s. sofferenze, prigionia, martirio di - : Intr. Tim. e Tit. nr. 3.6; 2 Tim. 2,9 ss.; 3,n; 4,6-8.9 ss. relazione di - con Timoteo: r Tim. l,2.18; 2 Tim. l,3.14.15; 3,10 ss.; 4,r.9 ss. 21; 4,6-2r. - autore delle Lettere pastorali: lntr. Tim. e Tit. nr. 2.6 parola di Dio: Hebr. 4,12 s.; 6,5; II, lb.3 pazienza: I Tim. 6,n; Hebr. 6,12 peccato: Hebr. 2,14.15.16-18; 3,13; 6, 7.8; 7,lI.12; 9,26; l0,26; 12,l SS. - e grazia: I Tim. l ,16. - e legge~. - e punizione: r Tim. 5,2r. - imperdonabile: Hebr. 5,r. assenza di - (in Gesù): Hebr. 4,15; 5,3; 7,26; 9,14. remissione del - (~ perdono): Hebr. 4,16; 5,1; 7,1r.12; 8,12; 9,14; 10,1 ss. l0.15-18.22.26. elenco dei peccati: r Tim. l,9.10; 2 Tim. 3, 2-5
penitenza: 2 Tim. 2,26; Hebr. 6,r.2.7. 8; l0,30; 12,17 perdono (~ remissione del peccato): I Tim. 2,8; Hebr. 9,22.26 perfezione: Hebr. 6,r.2.3 persecuzione dei cristiani (dei discepoli): 2 Tim. l,8; 3,12; 4,21; lntr. Hebr.; Hebr. 10,32 ss.; 13,7 popolo di Dio: Hebr. 4.9 possesso: I Tim. 6,17; Hebr. 13,4 preesistenza di Cristo: 2 Tim. 1,9 preghiera (formule di - , consuetudine alla - ): I Tim. l,17; 2,1 ss. 8. - sulla mensa: I Tim. 4A presbitero ~ anziani, gli prescrizioni sui cibi e sulle purificazioni: r Tim. 4,3 s.; Hebr. 9,10; 13,9 professione di fede ~ fede promesse di Dio: Hebr. 6,13 ss.; 7,2022; 11,ra.2
purificazione dai peccati: Hebr. l,3; 9,
Indice analitico 22.26; 10,l
SS.
Redentore, redenzione (ad opera di Cristo): I Tim. 4,3 s.; 2 Tim. l,9.10 'Gesù Cristo, nostro Salvatore'; 2,18; Tit. l,2; 2,14; Hebr. l,2b.3; 9,14 s. 28; 10,9.23 rendimento di grazie: r Tim. 4'4 ricchezza: r Tim. 6,17. - spirituale: Hebr. 6,4 rimunerazione [concetto di]: Hebr. 6, 10; 10,35 rinascita: Tit. 3,5 s. riposo [del sabato]: Hebr. 3,10.1r.14; 4,1 ss. risurrezione [dottrina sulla]: r Tim. 3, 16 'L'inno a Cristo'; 2 Tim. 2,18; Hebr. 6,r.2. - di Gesù Cristo: 2 Tim. 2,18; Hebr. ra; 13,21 ritorno di Cristo: 2 Tim. 4,18; Tit. 2, 13; Hebr. l,6; 9,28; 10,37 rivelazione di Dio (in Cristo): r Tim. 3,16: 'L'inno a Cristo'; Tit. l,3; Hebr. l,I.2a.14; lo,23; 12,25 Sacerdote, sacerdozio [sommo] di Gesù: Intr. Hebr.; Hebr. 2,8c.9.16-18; 3,1 ss.; 4,14 ss.; 5,1 ss.; 6,19; Intr. 7,1 ss. lr.12.20 ss.; 8,1 ss.; Intr. 9,110,18; 9,9.11 ss.; 10,3.11 ss. 20; 12, 24; l3,2r. - levitico Hebr. l,5b; 4, 14 ss.; 5,1 ss.; 6,20; Intr. 7,1 ss.; 7,13.4 ss. 7.8.II ss. 20SS. 26ss.; 8,1.2; 9, 6 s. 23 ss.; 10,3.II ss. Sacra Scrittura ~ Scrittura, sacra sacrificio (~ Liturgia): Hebr. 5,5; 9, 26. - di lode: Hebr. 13,15 saluto [formula di]: lntr. Tirn. e Tit. nr. 2; r Tim. l,2; 2 Tim. l,16-18 salvatore: 2 Tim. l,10 'Gesù Cristo, nostro Salvatore'; Hebr. 2,10;9,28 salvezza in Cristo (messaggio di - , attesa della - , fede nella - , piano di - ): I Tim. 4,2; 2 Tim. l,9; 3,8; Hebr. 2a.5.9; 4,10; 6,5; 10,39; II, Ia.2; 13,20 S. sangue: Hebr. II,4. - nel sacrificio:
Indice analitico Hebr. 9,18 ss. 25; 10,4. - di Gesù (Cristo): Intr. Hebr. 9,1-10,18; Hebr. 9,nb.12.23 ss.; 10,19 s.22.29; 12,24; 13,21 santi, i ( = cristiani): I Tim. 5,10; Hebr. 13,24. - in Gerusalemme: Hebr. 6,10 santificazione: 2 Tim. l,9; 3,16; 3,1517 'Il giudizio dell'Apostolo sul1'A.T.'; Tit. 2,13; Hebr. 2,u; 10,10. 29; 12,9.10.14 santità di Dio: Hebr. 2,n santuario ( = santo dei santi): Hebr. 9,8.ub.12.23 ss.; 10,1 ss.; u,10; 12, 24. accesso al - : Intr. Hebr.; Hebr. lo,19 Satana: I Tim. l,20; 4,1; Hebr. 2,14. 15 schiavi: I Tim. 6,1 s.; Tit. 2,9.IO Scrittura, sacra [A.T. e N.T.]: 2 Tim. 3,15; 3,15-17 'Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T.'; Hebr. l,5-14; 4,10; Intr. 7,1 ss.; 7,1-10. esegesi della (prova scritturistica): I Tim. l,4.7; 2,r3 s.; 2 Tim. 3,15-17 'Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T.; Hebr. 1,5r4,5a; 3,7; 4,10; 6,16-18; Intr. 7,1 ss.; 7,1-10; 10,5.10. lettura della - : I Tim. 4,13 segno e miracolo: Hebr. 2,4 sequela di Gesù: 2 Tim. 3,12 Sinai: Hebr. 12,18-21 Sion: Hebr. 12,22 sofferenze: 2 Tim. 4,6.18. - di Gesù Cristo (vicarie): 2 Tim. 2,8 ss.; Hebr. 2,8c.9 ss. 16-18; 5,7 s.; 9,26; u,2426; 13,12. - dei cristiani: 2 Tim. r,8; 2,1 ss. 8 ss.; 3,10 s.; Hebr. Io, 32 ss.; II,4.35b-38; I2,4-5 ss. II; 13, 7 sostentamento (dovere di - da parte delle comunità): I Tim. 5,18
speranza: Hebr. 6,10 ss. 16-18.19; rn, 23; II,Ia.2 Spirito di Dio: 2 Tim. 1,7; 3,16; 3,16 'Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T.'; Hebr. 9,14. - santo: Tit. 3,5 s.; Hebr. 3,7; 10,15-18. disciplina dello - : .r Tim. 4,7 ss. doni dello - : Hebr. 2,4 Stato e autorità: .r Tim. 2,1 s.; Tit. 3, I S.
Tabernacolo: Hebr. 8,5; 9,2-5.8.ub. 12.23 ss.; 10,I ss. 20 Tempio: Hebr. 9,2-5. culto del - : Hebr. 8,4 tentazione: Hebr. 2,16-18; 4,15 testamento ( ~ Alleanza): Hebr. 9,15. 16 ss. - Antico e Nuovo ~ Scrit: tura, sacra Timoteo: Intr. Tim. e Tit. nr. 1; I Tim. l,1 s.; 1,3.18; 4,12; 2 Tim. 1,6 ss.; 2,1 ss. 22; 3,10 ss.; Tit. 2,15; Hebr. 13,22 s. Tito: Intr. Tim. e Tit. nr. 1; Tit. l,4. 5; 3,12 Umiliazione di Gesù: Hebr. 2,7.8c.14. 15.16-18 uomo, uomini (nella liturgia): .r Tim. 2,8.13 ss.; Tit. 2,2 Vangelo: 2 Tim. 1,10. - di Gesù Cristo: Tit. r,3. - e legge ~ vanità: r Tim. 6,4 s. vedove [ministero delle]: r Tim. 3,8; 5,3 ss. 9 ss. velo: Hebr. 6,19; 10,20 verità: Hebr. 10,26 via, vivente: Hebr. 10,20 volontà di Dio (fare la - ): Hebr. 10, 7 ss. 36
INDICE DEGLI EXCURSUS
L'inno a Cristo (I Tim. 3,16) L'ordinazione dei primi tempi cristiani (I Tim. 4,14) Le opere di carità (I Tim. 5,10) .... Gesù Cristo nostro salvatore (2 Tim. 1,16) Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T. (2 Tim. 3,15-17) ......... .
INDICE GENERALE
LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO Introduzione
II
Indicazioni bibliografiche LA PRIMA LETTERA A TIMOTEO
I saluti ( 1,1-2) Parte prima Difesa dai dottori della legge (1,3-20)
Timoteo deve affrontare gli eretici dottori della legge (1,3-u) 2. L'esaltazione della misericordia di Gesù Cristo (r,12-17) 3. Combatti la buona battaglia (r,18-20) ............ r.
29 32 35
Parte seconda L'ordinamento della comunità (2,1-3,16)
r.
Il retto svolgimento del servizio liturgico (2,1-15)
a) Le preghiere (2,1-7) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . b) Il giusto servizio liturgico degli uomini (2,8) . . . . . . . . . . . c) Il corretto contegno delle donne durante il servizio liturgico (2,9-15) . . . . . . . . . . . . . . . . . .......... 2. I ministri della comunità (3,1-13) . ......... a) I capi della comunità (3,1-7) .............. b) I diaconi (3,8-13) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La conclusione dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo (3,14-16) ...................... Parte terza La lotta contro le pretese ascetiche degli eretici (4,I-II) I.
2.
Le pretese ascetiche dei settari (4, 1 -5) La retta pratica cristiana (4,6-II) ..................... .
38 38 41 41 43 44 47
49
Indice generale
294 Parte quarta
Istruzioni a Timoteo per la guida della chiesa (4,12-6,2) l.
Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età
(4,12-16) ............... .......... 2. Il modo corretto di trattate le persone secondo l'età (5,r-2) 3. Le vedove della comunità (5,3-16) a) Il loro sostentamento (5,3-8) b) La loro scelta (5,9-16) 4. Gli anziani (5,17-25) ........... 5. Gli schiavi (6,1-2) . . . . . . . . . .
61 63 65 65 68 72 76
Parte quinta
L'errato e il giusto atteggiamento verso il denaro (6,3-19)
r. L'atteggiamento errato (6,3-10) .. 2. Appello a Timoteo e dossologia ( 6,1 r-16) 3. Il buon uso dei beni del mondo ( 6, r 7-19)
La conclusione della Lettera (6,20-21) LA SECONDA LETTERA A TIMOTEO
L'indirizzo (1,1-2)
85
I. Esortazione a professare impavidamente la fede (r,3-2,13) I. Rendimento di grazie (r,3-5) . . . . . ............ 2. Si deve rendere testimonianza senza paura ( r ,6-14) 3. Dolorose esperienze dell'Apostolo, ma anche una esperienza di fedeltà ( I 'I 5- I 8 ) ....... 4. Sii mio compagno nel dolore (z,r-7) 5. La comunione con Cristo nel dolore (2,8-13)
85 85 85 9I
92 93
II. I settari (2,14-4,8) 96 r. Nessuna discussione inutile ( 2, 14-2 r) ........ 96 100 2. La via giusta per la conversione degli erranti (2,22-26) 3. La degenerazione degli ultimi giorni (3,1-9) . . . . . . . . 101 4. La retta via nella sequela dell'Apostolo (3,10-17) .......... 104 5. Esercita fedelmente il tuo ministero: il mio tempo sta per finire (4,l-8)
....................
.......
III. La situazione personale dell'Apostolo (4,9-r8) Finale della lettera (4,19-22) . . . . . . . . . . . . . . . . .
107 109 l r3
Indice generale
295 LA LETTERA A TITO
L'indirizzo (r,r-4) .... I. Il ministero comunitario e il settarismo (1,5-16) ........ . I. Insediamento dei capi delle comunità (r,5-9) ...... . 2. La lotta agli eretici ( r, ro-r 6) ................ . II. Le regole della condotta di vita cristiana (2,r-3,r r) ....... . r. Le varie categorie della comunità (2,r-10) . . . . . ...... . 2. Perché è tanto importante la santificazione della vita quotidiana (2,11-15) ........................................ . 3. L'atteggiamento verso l'autorità e il prossimo (3,1-8a) .. 4. La disciplina ecclesiastica nei confronti degli eretici (3,8b-u) Conclusione della lettera (3,12-15)
rr5 rr6 116 118
120 120 121 123 126
................ . 127
LA LETTERA AGLI EBREI . . . . . . . . . . . . . . 131
Introduzione .. Parte prima
Introduzione (capp. 1-6)
La superiorità del Figlio sugli angeli (r,1-14) ................ Conseguenza: non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza (2,r-8b) L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio (2,8c-r8) ......................................... Gesù superiore a Mosè (3,r-6) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ammonimento a non perdere la promessa, come avvenne per la generazione d'Israele nel deserto (3,7-4,13) .............. Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec (4,14-5,ro) .... Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile ed esortazione a sperare con piena fiducia (5,rr-6,20) ................
141 152 157 166 169 179 185
Parte seconda Esposizione (7,1-10,18)
A. La superiorità della posizione di Gesù come sommo sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedec» in confronto al sacerdozio levitico (7,r-28) .......................... 198 B. La superiorità del culto celeste del sommo sacerdote neotestamentario, che corrisponde alla superiorità della nuova alleanza (8,r-13) ....... 210
Indice generale
C. La superiorità del servizio sacerdotale di Gesù (9,r-ro,r8) a) L'istituzione cultuale dell'antica alleanza (9,1-ro) . . . . b) Le caratteristiche essenziali ed il successo del servizio di Gesù (9,II-15) . . . . . . . . . ........................... c) La morte di Cristo come sacrificio cruento dell'alleanza (9,16-22) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ......... d) Per la consacrazione del santuario celeste della nuova alleanza era sufficiente l'autoimmolazione di Cristo (9,23-28) e) Il culto sacrificale secondo la legge è insufficiente appunto per la ripetizione del sacrificio stesso ( ro, l-4) . . . . . . . . . . . f) L'ordinamento sacrificale veterotestamentario sostituito dal sacrificio di Cristo una volta per tutte ( ro,5-ro) . . . . . . . . g) Il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile ( ro, II- l 8)
216 218
222 226 228 23 l 233 2 36
Parte terza Deduzioni (ro,r9-r2,29)
Ora atteniamoci alla professione della speranza (ro,19-25) La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati ( ro,26-3 l) Sguardo all'indietro e in avanti ( ro,32-39) . . . . . . . La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli (u,1-40) ............. .............. Lottiamo tenacemente seguendo la guida di Gesù verso la meta (12,1-11) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia ( 12,12-29)
240 244 247 251 264 268
Epilogo Esortazioni particolari e conclusione personale (cap. 13)
Esortazioni particolari (13,r-17) ... Conclusione personale (13,18-25) Indice analitico .... Indice degli excursus
274 280
ABBREVIAZIONI DEI LIBRI BIBLICI
ANTICO TESTAMENTO
Genesis Exodus Leviticus Numeri Deuteronomium Io sue Iudices Ruth (=LXX r,2 Regnorum; Vg. 1,2 Regum) 1,2 Reg. (=LXX 3'4 Regnorum; Vg. 3,4 Regnum) 1,2 Chron.( = Vulg. r,2 Paral.) 1,2 Par. r,2 Paralipomenon I,3 Esdr. r,3 Esdrae ( = Vulg. 3 Esdr. [apocr.], Esdr. 1+n [= T. Mas. Esdr., c. r-ro; Neem. c. rr-23]) Tob. Tobias Iudith Iudith Esth. Esther Gen. Ex. Lev. Num. Deut. Ios. Iud. l{uth 1,2 Sam.
Iob Ps. Prov. Eccl.
Iob Psalmi Proverbia Ecclesiastes (hebr. Qohelet)
Cant. Sap. Ecclus Is. Ier. Bar. Lam. Ep. Ier.
Canticum Canticorum Sapientia Salomonis Ecclesiasticus (LXX Sir.) Isaias Ieremias Baruch Lamentationes Epistula Ieremiae (Vg. Bar. c. 6) Daniel (Vg. c. 13 = Su, sanna; 14 =Bel et Draco) Ezech. Ezechiel Dan. Daniel Mal. Malachias Os. Oseas Am. Amos Mich. Michaeas Ioel Ioel Abd. Abdias Ion. Ionas Nah. Nahum Abacuc Abac. Soph. Sophonias Ag. Aggaeus Zach. Zacharias I,4 Mach. I,4 Machabaeorum
Abbreviazioni dei libri biblici
NUOVO TESTAMENTO
Mt. Mc. Le. Io. Act. Rom. I,2 Cor. Gal. Eph. Phil. Col.
Evangelium Matthaei Evangelium Marci Evangelium Lucae Evangelium Ioannis Actus Apostolorum Epistula ad Romanos Epistulae ad Corinthios r,2 Epistula ad Galatas Epistula ad Ephesios Epistula ad Philippenses Epistula ad Colossenses
Thess. Ep. ad Thessalonicenses r,2 Tim. Epistulae ad Timotheum 1,2 Tit. Epistula ad Titum Philm. Epistula ad Philemonem Hebr. Epistula ad Hebraeos Iac. Epistula Iacobi Epistulae Ioannis l ,3 1,3 Io. 1,2 Petr. Epistulae Petri l ,2 Epistula Iudae Iudae Apoc. Apocalypsis Ioannis 1,2 1,2
STUDI BIBLICI Lino Randellini, La Chiesa dei Giudeo-cristiani, pp. 80, L. 700 2. Norbert Lohfìnk, Ascolta, Israele. Esegesi di testi del Deuteronomio, pp. 144, L. I.
r.300
3. Pierre Grelot, Riflessioni sul problema del peccato originale, pp. q4, L. r.300 4. Gerhard Lohfìnk, La conversione di San Paolo, pp. 120, L. l.000 5. J osef Blinzler, Giovanni e i Sinottici, pp. 128, L. r.200 6. Franz Mussner, Morte e resurrezione, pp. 72, L. 800 7. Philipp Seidensticker, Paolo l'apostolo perseguitato di Gesù Cristo, pp. 144, L. 1 .200 8. Rudolf Pesch, La visione di Stefano, pp. 88, L. 800 9. Charles Harold Dodd, Attualità di San Paolo, pp. 176, L.
O.Semmelroth e M.Zerwick, Il \faticano II e la parola di Dio, pp. 80, L. 800 15. Charles Fr. D. Moule, Le origini del Nuovo Testamento, pp. 336, L. 3.000 16. Charles Harold Dodd, Secondo le Scritture. Struttura fondamentale della teologia del N.T., pp. 160, L. r.700 17· Siegfried Herrmann, Il soggiorno d'Israele in Egitto, pp. 144, L. r.300 18. Ernst Kasemann, Prospettive paoline, pp. 240, L. 2.500 19. Giuseppe Ghiberti, I racconti pasquali del cap. 20 di Giovanni, pp. 176, L. r.800 20. Ferdinand Hahn, Il servizio liturgico nel cristianesimo pri·· mitivo, pp. 130, L. r.500 21. Charles Harold Dodd, La predicazione apostolica e il suo sviluppo, pp. 120, L. 14.
r.700
ro. Charles Harold Dodd, Le parabole del regno, pp. 208, L. 2.000
Jacques Dupont, Le tentazioni di Gesù nel deserto, pp. 160, L. r.700 12. Alkuin Heising, La moltiplicazione dei pani, pp. uo, L. rr.
I.000 13.
Marco Adinolfì, La Turchia greco-islamica di Paolo e Giovanni, pp. 168, L. r.500
r.300
R. M. Grant, La formazione del Nuovo Testamento, pp. 208, L. 2.200 23. Giovanni Rinaldi, I canti di Adonaj. Introduzione storicoreligiosa ai Salmi, pp. 160, L. 2.000 24. Wolfhart Pannenberg, Cristianesimo e mito. Nuove prospettive del mito nella tradizione biblica e cristiana, pp. 120, L. r.500 22.
BIBLIOTECA DI CULTURA RELIGIOSA r. Karl Priimm Il messaggio della lettera ai Romani pp. 214, L. r.500 2.
J oachim J eremias Gli agrapha di Gesù Esaurito
3. Joachim Jeremias Le parabole di Gesù seconda edizione italiana riveduta pp. 304, L. 3.500
4.
J. Schildenberger Realtà storica e generi letterari nell' A. T. pp.
220,
L.
2.000
5. Pietro Dacquino
Bibbia e tradizione pp.
80,
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500
6. Tosef Blinzler Il processo di Gesù pp. 480, L.
5.000
7. Luis Alonso Schokel
La parola ispirata Esaurito
8. José S. Lasso De La Vega
Eroe greco e santo cristiano pp.
104,
L.
I.200
9. Hugo Rahner L'homo ludens pp. 96, L. 10.
I.000
W. Knevels Dio è realtà pp.
308,
L.
3.000
r r. Hans von Campenhausen I padri greci pp.
224,
L.
2.000
12.
Josef Rupert Geiselmann Gesù il Cristo I. Il Gesù storico pp. 224, L. 2.000
13. James M. Robinson-Ernst Fuchs
La nuova ermeneutica pp. 144, L. r.500
14. J. Alberto Soggin
Introduzione all'Antico Testamento, vol. I Esaurito (in prep. la seconda ed.)
15. R. J. Ehrlich
Teologia protestante e teologia cattolica pp. 302, L. 3.000 l
6. J. Alberto Soggin Introduzione all'Antico Testamento, val. II
l
7. Heinrich Schlier
Esaurito (in prep. la seconda ed.)
Ri-flessioni sul Nuovo Testamento pp. 496, L. 5.000
r 8. O. Cullmann e altri Il dialogo è aperto pp. 368, L. 3.000
r 9. Luis Alonso Schokel Il dinamismo della tradizione pp. 285, L. 2.500 20.
Valdo Vinay La riforma protestante
2r.
C. Harold Dodd L'Autorità della Bibbia
pp. 488, L. 4.000
pp. 304, L. 2.500 22.
Autori vari Rivelazione e morale pp. 176, L. 2.000
2 3 . J oachim
J eremias Le parole dell'ultima cena
pp. 368, L. 5.000
28. Valdo Vinay Ecclesiologia ed etica politica in Giovanni Calvino pp. 208, L. 2.000
Joachim Jeremias
NOVITÀ
Le parole dell'ultima cena pp. 368, Lire
5.000
L'opera è - come si sa - ormai classica nella disciplina ed è giunta in Germania alla 5a edizione: lo Jeremias illustra l'origine e il valore della Pasqua cristiana con rigore scientifico, esposizione affascinante, profondo senso religioso.
Heinrich Schlier
La lettera agli Efesini traduzione di O. Soffritti seconda edizione riveduta pp. 520, L. 7.000 Come protestante ho letto con gioia e insieme con dispiacere il commento di Heinrich Schlier alla Lettera agli Efesini, commento originariamente destinato alla collana del Commentario (protestante) del Meyer. Frutto di un lavoro decennale, esso va senza dubbio annoverato fra i più importanti commenti del nostro secolo e anche per i futuri esegeti della Lettera agli Ef esini costituirà un limite non facilmente ERNST Kii.SEMANN superabile. « Theologische Literaturzeitung»
Joachim Jeremias Le parabole di Gesù seconda edizione italiana riveduta pp. 304, L. 3.500 Rielaborazione accurata di un'opera che è già alla sua sesta edizione. E davvero essa meritava il successo: tanto è illuminante la descrizione del contesto cultuale e religioso da cui le parabole evangeliche si deducono; tanto è sicura l'interpretazione del loro messaggio. «Il Regno», maggio 1967
PAIDEIA EDITRICE BRESCIA
Finito di stampare dalla tipografia Paideia Brescia, settembre 1973