GALOT, Jean, CRISTO
CONTESTATO , Roma 1992
PARTE I. CRISTOLOGIE NON CALCEDONIANE Presentando delle indicazioni sulla corrente delle "cristologie non calcedoniane", non abbiamo l'intenzione de fornire una descrizione completa dello sviluppo di queste cristologie, né un'exposizione integrale della dottrina di ciascun autore. Ci limiteremo soltanto a segnalare i tratti caratteristici del pensiero dei alcuni teologi, dai quali emerge maggiormente la distanza presa nei riguardi della cristologia tradizionale. Questa presentazione, forzatamente parziale, ha il vantaggio di mettere in rilievo ciò che costituisce la novità di queste cristologie, con i punti di contatto, le rassomiglianze e le differenze che esse hanno fra di loro. Ci asterremo nondimeno dal procedere a dei paragoni e non cercheremo neppure di determinare le influenze subite da ogni autore. Ma si potranno constatare le idee e le formulazioni che si riproducono in modo analogo o identico e che fanno comprendere le tendenze essenziali del movimento. CAPITOLO I: IL «NUOVO APPROCCIÒ CRISTOLOGICO» IN OLANDA È in Olanda che si è formato il nuovo orientamento cristologico che si e allontanato dal dogma di Calcedonia e considera il Cristo come una persona umana in cui Dio agisce e si rivela. Tratteremo qui di tre teologi cattolici che hanno notevolmente contribuito ad esprimere e diffondere questa tendenza. A) IL CRISTO, PERSONA UMANA UNITA AL VERBO, SECONDO P. SCHOONENBERG 1. Abbandono della cristologia tradizionale « L'avventura della cristologia »1 comincia per Schoonenberg nel 1964 con uno studio pubblicato sull'Uomo-Dio.2 Questo Studio partiva dal convincimento di dover presentare, nella teologia cattolica, considerazioni analoghe a quelle propagate nell'anglicanesimo da J. A. T. Robinson. Costui, influenzato da Bonhöffer, definiva la trascendenza di Cristo non per la preesistenza del Figlio eterno del Padre, ma per la preesistenza di « uomo per gli altri ».3 11 Schoonenberg adotta lo stesso orientamento fondamentale. La sua crescita teologica, dice, è consistita nel passare dalla fede tradizionale in Dio e in Gesù Cristo per una piena accettazione del mondo, ad una piena accettazione del mondo e dell'uomo per passare poi a Dio e al Cristo.4 Vi è in ciò un rovesciamento di prospettive che in cristologia si traduce col mettere l'accento sull'uomo Gesù. La nuova cristologia che ci viene presentata, vuol essere una cristologia senza dualità di natura. Schoonenberg respinge espressamente l'affermazione di due nature fatta dal concilio di Calcedonia. Egli fa delle riserve sull'impiego del termine « natura », che nel linguaggio moderno situa la natura di fronte alla persona, ma che a Calcedonia non avrebbe avuto questo limite, designando piuttosto la realtà totale rispondente all'essere divino e all'essere umano. Critica la cifra due che sembra attribuire lo stesso senso al concetto di natura, per la divinità e l'umanità. Rimproverà ancora, al concetto di natura, di rendere la cristologia essenzialista, troppo poco attenta all'esistenza e troppo separata dalla soteriologia. Inoltre, il modello di Calcedonia non dice nulla sulla posizione di Gesù nella storia della salvezza, e non tiene conto di fasi diverse nell'esistenza del Cristo, come la vita terrena e la vita gloriosa.5 Escludendo le due nature, Schoonenberg esclude in pari tempo una dualità di volontà e di attività. Non si potrebbe attribuire all'uomo Gesù un'attività divina, come quella della creazione del mondo, che sarebbe in contraddizione con la sua attività di creatura umana. In lui non vi è che una volontà umana e un'attività umana, malgrado la dichiarazione del III concilio di Costantinopoli. 6 1
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1 «Het avontuur der christologie». È il titolo di un articolo pubblicato in Tijdschrift voor Theologie 3 (1972) 307-332. 2 Over de Godmens, Bijdragen 25 (1964) 166-186. 3 Ibid. 166. 4 Het avontuur, 307. 5 Ein Gott der Menschen, Einsiedeln 1969, 65-68.
6 Questo concilio non ha voluto condannare il mone che per salvaguardare l'azione e la volontà umana nel Cristo: Ein Gott, 9798.
Al modello delle due nature si deve sostituire un'altra rappresentazione, quella della presenza salvifica, escatologica, di Dio nell'uomo Gesù. Gesù è totalmente penetrato dalla presenza divina, e ciò fin dall'origine, perché in lui non vi è mai stata un'esistenza peccatrice. Tutta la sua azione si trova sotto l'influsso di questa presenza. Secondo Schoonenberg, questa presenza non è quella di una persona divina. Del concilio di Calcedonia Schoonenberg rifiuta non solo le due nature, ma anche l'unica persona divina. Gesù Cristo 12 è una persona, secondo quanto dichiara il concilio; ma è una persona umana, egli ripete con insistenza. La ragione fondamentale di questa affermazione risiede nella pienezza di realtà umana che si deve riconoscere al Cristo. Da questo punto di vista Schoonenberg si richiama al concilio, secondo il quale Gesù è consostanziale a noi nella sua umanità. Se è simile a noi, Gesù ha un essere umano uguale al nostro, « un atto d'essere » umano, e ciò significa una persona umana. Se si negasse questa persona umana, Gesù Cristo non sarebbe più un uomo. Attribuirgli una natura umana anipostatica, senza ipostasi umana, sarebbe rifiutargli la perfezione della sua umanità: « Cosa è un uomo che non è persona, che non prende in mano, come persona, con libere decisioni, la propria condotta, il proprio destino, il proprio essere? ».7 Si nega allora il Gesù che prega il Padre e che è tentato come noi. È impossibile prendere sul serio la realtà umana di Gesù, se invece di una persona umana si trova una persona divina dietro ad essa. Inoltre il principio soteriologico sostenuto dai Padri, trova qui la sua applicazione: « Ciò che non e stato assunto non e stato guarito, salvato ». Senza persona umana, Gesù non avrebbe assunto la condizione umana. Si potrebbe aggiungere: « quello che non e stato assunto non guarisce, non salva ».8 La sostituzione di una persona divina ad una persona umana nel Cristo si opporrebbe d'altronde al principio che sostiene una parte importante nella teologia di Schoonenberg: il principio di nonconcorrenza. Dio non fa concorrenza alle sue creature e non disturba le leggi della creazione della quale e l'autore. Quando si comunica, non intralcia affatto le attività e le perfezioni ontologiche delle sue creature; al contrario, le sviluppa nella misura del possibile. Questo principio di non-concorrenza comporta la messa in dubbio di deroghe alle leggi delta creazione, come ad esempio la concezione verginale o le apparizioni di Gesù risorto.9 Questo comporta, per il problema dell'identità personale di Cristo, che Dio non ha potuto togliere ad una natura umana la persona umana, per prenderne il posto. 10 13 2. Rovesciamento del modello Alla teoria dell'anipostasia, dell'assenza di persona umana in Gesù, Schoonenberg oppone una dottrina dell'anipostasia dell'umanità di Gesù nel Verbo. « lo ho rovesciato il modello: non e l'uomo Gesù che trova U suo centro personale nel Logos, ma il Logos che trova il suo centro personale nell'uomo Gesù ».11 Questo rovesciamento implica una presa di posizione nella dottrina trinitaria. Schoonenberg vorrebbe ritornare ad uno stadio anteriore alla concezione ellenistica della Trinità; infatti egli pensa che l'affermazione dl tre persone non e più possibile secondo il senso moderno di persona, che mette in evidenza coscienza e libertà, aspetti dei quali non si preoccupa la nozione patristica o scolastica di persona.12 Qui egli riprende la critica del concetto di persona, istituita da K. Barth e K. Rahner. Cita particolarmente la proposta di Rahner secondo la quale « la persona » singolare (in Dio) sarebbe Dio in quanto esiste e si presenta nei tre modi distinti, determinati, di sussistenza » .13
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7 Ein Galt 77-78 8 Ein Gott, 78. 9 Ereignis und Geschehen, Z. für Kath. Theol. 90 (1968) 1-21.
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10 Ereignis, 5-7; Ein Gott, 78. 11 Het avontuur, 312. 12 Ein Gott, 83-84.
13 Gods tegenwoordigbeid in Christus, vdortietting van een gedacbtenwisseling, Tijdschrift voor Theologie 9 (1969) 394; cfr. Myst. Sa!. 6, 123.
Ciò che e stato chiamato « persone preesisienti » oggi potrebbe essere concepito come « dei modi di presenza di Dio totale, definitiva, escatologica, nella storia della salvezza, specialmente in Gesù Cristo e nella comunità ». È così che si rifà in senso inverso il cammino seguito dall'ellenismo ipostasiante e che si ritorna ai dati primitivi della Scrittura.14 Noi conosciamo la Trinità unicamente nella sua rivelazione, sottolinea Schoonenberg, e questa rivelazione si produce nel Verbo che e carne, e nello Spirito che e effuso. AI di fuori dl questa rivelazione, non conosciamo la Trinità.15 Qui si ritrova l'assioma fondamentale enunciato da Rahner per la teologia trinitaria, secondo la quale « la Trinità che si manifesta nell'economia della salvezza e la Trinità immanente, e reciprocamente »,16 ma Schoonenberg intende questa identità nel senso che noi non possiamo sapere se Dio, nella sua preesistenza, e già trinitario; Dio e o diventa Trinità. 17 14 È impossibile affermare se egli e Trinità da tutta l'eternità, ma or« lo è: « Dio stesso e Uno e Tre, ma in quest'uomo che e Gesù Cristo e nello Spirito che ci e dato e che rimane nella Chiesa. Così la Trinità e il movimento di Dio verso di noi ».18 In ogni modo il Logos nella sua preesistenza non e una persona: non lo diviene che per l'Incarnazione. È davvero il rovesciamento del modello di Calcedonia: in luogo di una natura umana anipostatica, senza persona umana, e il Verbo divino che e anipostatico, senza persona divina; invece di anipostasia della natura umana nella persona divina del Verbo, vi e anipostasia della natura divina nella persona umana.19 È nella persona umana di Gesù che il Verbo assume la sua personalità. Per precisare il suo pensiero, Schoonenberg aggiunge, in uno Studio ulteriore, che prima di Cristo esisteva già una distinzione fra Dio e il Logos; ma non era ancora una distinzione di due persone, fra il Padre e il Figlio. Lo stesso dicasi dello Spirito che operava già prima di Cristo, ma che non e divenuto il Paraclito, in relazione personale col Padre e il Figlio, se non stando nella Chiesa di Cristo. Prima di Cristo il Logos e lo Spirito potevano essere considerati puramente e semplicemente dei « modi » di Dio. Nel Cristo « il Logos come Figlio fa fronte al Padre, e lo Spirito come Paraclito della Chiesa fa fronte al Padre e al Figlio ».20 Perciò « la persona umana di Gesù Cristo può essere chiamata la seconda persona divina, in quanto Dio, nel suo secondo modo di essere come Logos, e presente in Gesù, e colui che sostiene l'essere umano personale e storico di Gesù ».21 « Gesù Cristo e soste15 nuto da Dio in questo modo di essere, senza essere minimamente diminuito nella sua persona umana. Viceversa in Gesù, questo modo dell'essere di Dio diventa persona ».22 È in questo senso che Schoonenberg dichiara di voler mantenere l'affermazione della divinità o della filiazione divina di Cristo: il Logos in effetti diviene « persona divina nel significato più completo della parola ».23 La presenza di Dio nell'uomo Gesù non e, come tale, un fatto unico. Poiché Dio e presente nella sua creazione, e dunque presente anche in tutti gli uomini. Tuttavia, ciò che rende unico il caso di Gesù e 14
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14 Gods tegertwoordigheid, 3934. 15 Ei« Galt, 87. 16 Myst. Salutis 6, 29. 17 Ein Gott, 87-90.
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18 In Sept problerae! capttaux de l'Eglise Parigi 1969, 151.
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19 Ein Gott, 92.
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20 Trinity - The consummated covenant. Theses on the doctrine of the Trinitarian God, in Studies in Religion-Sciences Religieuses (1975-6) 114. In un articolo piü recente (Spirit chrislology und Logos cbristology, Bijdragfn 29 (1977) 350-377). Schoo« La persona umana di Gesü era pervasa dal Logos e dallo Spirilo coroe estensioni della petsona di Dio, in modo tale ehe il Crisro nella sua realti divina umana e una sola persona» (368). * Possiamo identificart il Crisio preesistente con il Logos e k> Spiriio» (374). G si domanda allora se, in queste condizioni, lo Spirito non sia unito alla persona umana quanto il Vcrbo, tanto piü ehe Schoonenberg ha qualche esitazione nella scelta fra crisiologia dello Spirito e cristologia de! Logos, aSermando: « In Gesü stesso, i due, Logos e Spirito, sono presenti, ma nella sua glorificazione e lo Spirito e non precisamente il Lagos, ehe ci È dato» (374). 21
21 Ibid., 115.
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22 Ibid. 23 Ibid.
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che la presenza divina, senza essere essenzialmente differente da quella che si verifica negli altri, raggiunge in lui un grado superiore, perché essa e definitiva, escatologica; essa costituisce un culmine, un compimento. 24 Schoonenberg nota a questo proposito che l'immanenza del Creatore nella creazione non si deve comprendere solo in termini di causalità: come Creatore, Dio non e semplicemente causa, egli e anche soggetto personale, Deve dunque essere visto come persona o ipostasi della sua creazione; egli si esprime in questa creazione, animandola con la sua trasceridenza: « Di ogni creatura possiamo dire che e portata da Dio come ipostasi ». « Dunque Dio porta ogni creatura col suo Logos, e l'uomo in maniera più alta. Il Logos e l'ipostasi di ogni uomo; ogni uomo è ipostasiato nel Logos ».25 Di conseguenza, l'unicità in Gesù non è neanche la sua enipostasia nel Logos, ma il modo proprio, escatologico, definitivo, di questa enipostasia. Dio porta in lui alla perfezione ciò che in noi si realizza in maniera parziale e transitoria. 3. Fondamento e prolungamento L'elaborazione di una tale teologia, così deliberatamente differente dalla cristologia tradizionale, viene giustificata con un principio di reinterpretazione dei dogmi26. Schoonenberg giudica che l'immutabilità dei dogmi & inseparabile da una necessaria mutabilità: il modo 16 di esprimersi di tutti i dogmi può cambiare e si può avere necessità di ritradurli in un altro linguaggio. Per i dogmi periferici, il contenuto stesso può essere sottoposto a revisione: e così che i dogmi mariani potrebbero ricevere un significato puramente tipologico. Per esempio, si potrebbe interpretare il dogma della Immacolata Concezione come l'affermazione del principio universale che la grazia non solo ei libera ma ci preserva dal peccato; così pure l'Assunzione potrebbe significare che la risurrezione di Cristo e destinata ad estendersi a ogni uomo nella totalità della sua realtà umana.27 Per i dogmi più centrali, la ritraduzione deve tener conto dell'intenzione della definizione: così, per Calcedonia, la definizione vuole condannare il monofisismo e ogni attacco all'essere umano di Cristo. Oggi questo dogma si può dunque esprimere proponendo una cristologia nella quale venga pienamente attribuita a Gesù una persona umana. La cristologia deve sviluppare la verità essenziale della presenza totale di Dio nell'uomo Gesù.28 La necessità di trasposizione non vale solo per le formulazioni dogmatiche: essa si verifica anche per le affermazioni della Scrittura. « Per esempio, l'affermazione iniziale dell'epistola agli Ebrei: "Dopo aver parlato per mezzo dei profeti, Dio oggi ci ha parlato per mezzo di suo Figlio" deve essere, in un certo modo, tradotta in altre parole, per un'altra situazione interamente nuova »,29 Nel campo soteriologico la cristologia della trascendenza umana di Gesù comporta alcune conseguenze.30 Essa non sarebbe compatibile con la spiegazione data da Anselmo all'opera redentrice, che vuole rispondere alla domanda: « Perché l'Uomo-Dio? ». Schoonenberg scarta la teoria della « soddisfazione vicaria », non ammettendo nessuno dei due aspetti, soddisfazione e sostituzione, che la costituiscono: Dio non esige soddisfazione per soccorrere i peccatori; una sostituzione supporrebbe a torto una inclusione dell'umanità nel Cristo, rendendo superflua la nostra opzione personale. Occorre piuttosto cercare l'efficacia della redenzione nell'esempio costituito da Gesù: Dio ci libera tramite Gesù, dandoci in lui un esempio. L'esempio deve essere compreso in senso pieno, non semplicemente un 17 esempio esteriore come lo concepiva Pelagio, ma esempio di atteggiamento intimo che si comunica agli altri.31 Perciò domandandosi quale e l'influsso di Cristo sulla nostra vita, Schoonenberg sottolinea che Cristo non ci fornisce un programma d'azione, ma ci da la libertà e rende l'amore contagioso. « Per quanto concerne il Cristo, tutto e questione di esempio, non solo di un " buon esempio " nel senso morale del termine, ma di un esempio che raggiunge la profondità dell'esistenza e che ha per sorgente un contatto personale ». Il suo amore, che non e mai stato indebolito dal minimo egoismo, né sottomesso alla minima limitazione, e eminentemente contagioso. Inoltre questo esempio e sempre attuale, per il fatto che Gesù non e semplicemente un uomo del passato, ma continua a vivere anche oggi. L'influsso del suo esempio prosegue nella continuità del dono che Gesù fa di se stesso, con la sua presenza nella comunità di fede. Egli e per noi una chiamata personale e l'invito vivente a continuare la sua opera e ad imitare il suo atteggiamento32. B) GESÙ, L'UOMO CHE HA UN'ESPERIENZA UNICA DI Dio, SECONDO A. HULSBOSCH 1. L'unicità di Gesù in un quadro evoluzionista 24 25
Jezus Christus vandaag dezelfde, in Geloof bij kenterend getij, Roermond-Maaseik 1967, 181; Het avontuur, 313-314. 25 Het avontuur, 314.
A. Hulsbosch, seguendo Schoonenberg, si e impegnato nella via di una nuova cristologia, ma ha voluto presentare Cristo in un quadro evoluzionista33. Nell'evoluzione, le dualità apparenti si risolvono in unità. Il dualismo della materia e della vita e superato quando si riconosce nella vita lo svilupparsi della materia inanimata. Parimenti il dualismo della materia e dello spirito non pone più problemi quando si ammette che la vita intellettuale proviene, senza intervento speciale di Dio, dall'evoluzione dell'essere animale. Ugualmente dicasi del dualismo che si e posto nel Cristo, considerandolo come Uomo-Dio. Gesù ha delle prerogative che si possono chiamare divine, perché com31 Christus verlossingsdaad, 478-482. 32 Sept problemes, 155-157. 33 Jezus Christus, gehend als mens, beleden als Zoon Gods, Tijdschrift voor Theologie 6 (1966) 250273. 18 portano una rassomiglianza con Dio. Ma queste prerogative non vengono da un principio divino distinto dalla natura umana, perché un tale principio farebbe di Gesù l'unione di due elementi eterogenei. Esse sono lo sviluppo delle possibilità contenute nella materia. L'unità di Cristo consiste nel fatto di essere uomo. « Gesù non e più il Figlio, uno col Padre nella natura divina. Egli e un uomo eccezionalmente dotato di grazia » M. D'altronde sarebbe impossibile che nella sua coscienza umana, Gesù sapesse di essere il Figlio di Dio: una coscienza umana non può riflettere una soggettività divina, perché non si raggiunge Dio nella sua trascendenza. Se il Cristo si e presentato come Figlio, e nel senso di una relazione filiale che differisce nel grado, ma non assolutamente, da quella che gli altri uomini hanno con Dio. Gesù e chiamato « vero Dio » in quanto e rivelazione di Dio. Ma egli e questa rivelazione in quanto uomo. Hulsbosch ritiene che si possa applicare ad ogni creatura la formula « vero Dio e vera creatura ». Nel caso di Gesù, e il Padre che si rivela in un soggetto umano, senza che questo abbia una persona divina preesistente di Figlio. Hulsbosch spiega le dichiarazioni evangeliche sulla preesistenza del Figlio o del Verbo, discernendovi una proiezione retrospettiva della soggettività dell'uomo Gesù nella sua dignità di Figlio di Dio. Gesù ha avuto l'esperienza umana di essere Figlio del Padre; egli si riconosce come proveniente dal Padre, ed e così che può attribuirsi questa preesistenza. Ma il soggetto di questa preesistenza resta l'uomo Gesù. Così, l'affermazione « il Verbo si e fatto carne » (Gv. l, 14) ha come equivalente: « Gesù Cristo e venuto nella carne » (l Gv. 4, 2). Gesù Cristo e il Verbo; e l'uomo Gesù che e considerato come Figlio di Dio. Il linguaggio corrente può chiarire questo modo di parlare, come nella frase: « Il presidente del tribunale e nato nel 1908 », dove c'e una proiezione retrospettiva della qualità di presidente del tribunale nell'evento della nascita. Nello stesso modo l'uomo Gesù diventa soggetto della preesistenza nel senso che gli si attribuisce una dimensione veramente divina, dunque eterna. Il carattere unico di Gesù e assicurato meglio in questa prospettiva perché non e più posto in una persona divina di Figlio, ma 34 Jezus Christus, 254. 19 nella realtà umana. È in quanto uomo che Gesù e unico, ed e in virtù di questo carattere unico che egli e chiamato il Figlio. In che consiste questa unicità? Gesù ha ricevuto una rivelazione da Dio che lo distingue dagli altri uomini e siccome questa rivelazione e creatrice, Gesù e uomo in una maniera unica, Una nuova creazione si effettua in lui, poiché nella sua coscienza umana egli possiede un'esperienza di Dio essenzialmente differente da quella degli altri uomini. La differenza di essere si manifesta pienamente allorché in qualità di uomo celeste si distingue dall'uomo terreno (l Cor. 15, 45-49). Ma già sulla terra Gesù e uomo in una maniera nuova, nella più grande profondità del suo essere, perché egli conosce Dio in una maniera nuova. Questa differenza e stabilita fin dal primo istante in virtù del concepimento straordinario compiuto dallo Spirito Santo. Hulsbosch reagisce contro coloro che stimano inaccettabile una deroga alle leggi ordinarie della natura; mentre Schoonenberg mette in dubbio la concezione verginale egli l'afferma con forza, sottolineando che la rivelazione eccezionale di Dio in Gesù implica una esistenza eccezionale, dal concepimento alla glorificazione. Egli considera che l'affermazione della concezione di Gesù per opera dello Spirito di Dio concorda con l'affermazione della risurrezione. 2. Gesù nel quadro biblico della Sapienza Hulsbosch ha corretto parzialmente i suoi concetti, in uno studio più recente35, in cui assicura che non era sua intenzione negare la divinità di Cristo. Egli rinuncia a considerare Cristo come frutto 4slJ^oluzione e cerca di situarlo meglio nell'insieme della creazione, per farne emergere la sua unicità. Non è necessario ricorrere ad una «unione ipostatica »; basta attenersi alla dottrina biblica della
Sapienza. In tutta la creazione e presente la Sapienza divina, ma in Cristo e una presenza creatrice che abbraccia tutta l'evoluzione e quindi non e essa stessa Il prodotto dell'evoluzione. Questa Sapienza, dimensione divina di tutto ü creato, appare in Gesù, e solamente in lui, come persona; a questo titolo la personalità di Gesù e unica. Hulsbosch continua a respingere il modello delle due nature, ma 35 Christus, de scheppende wijsheid van God, Tijdschrift voor Theologie 11 (1971) 66-67. 20 ammettendo nella Sapienza una « dimensione divina dell'uomo Gesù » si allontana da quanto aveva affermato prima: «Gesù non e più il Figlio, uno col Padre nella natura divina. È un uomo straordinariamente dotato di grazia » *7 Con la dottrina della Sapienza, la cristologia e riportata sulla linea dell'Antico Testamento. Ora, il principio del Dio unico, senza molteplicità, così chiaramente affermato nel giudaismo, ci interdice di vedere nella Sapienza un soggetto distinto da Dio, una persona divina. La Sapienza non e apparsa come una persona distinta da Dio che nell'uomo Gesù Cristo. « Il soggetto e l'uomo Gesù Cristo; e grazie alla soggettività umana nella quale appare la Sapienza, che essa si rivela come persona. Il fatto di essere Dio per Gesù risale alla Sapienza preesistente, ma il fatto di essere persona per la Sapienza si fa conoscere nella persona umana che e Gesù. Si può dire come Schoonenberg: la natura divina (Sapienza divina) e ipostasiata nella persona umana »37. E dunque sulla base della sua soggettività umana che Gesù e una persona di fronte al Padre. Hulsbosch mantiene l'esistenza nel Cristo di una persona umana. C) I TENTATIVI DI UNA NUOVA CRISTOLOGIA DI E. SCHILLEBEECKX 1. Gesù, presenza assoluta di Dio La pubblicazione dello Studio di Hulsbosch e stata l'occasione per Schillebeeckx d'impegnarsi nella via della nuova cristologia38. Prima aveva espresso le sue idee cristologiche nella linea della tradizione 39. Egli dichiara di approvare al cento per cento il nuovo orientamento preconizzato da Hulsbosch, pur non ammettendo il quadro 36 Christus, 12, n. 12. Egli rifiuta ugualmente l'interpretazione che R. North aveva presentato della sua opinione, parlando di una stretta unità di Dio e dell'uomo nel Cristo, comparabile all'unita dell'anima col corpo nell'uomo (Soul-Body Unity and God-Man Unity, Theological Studies 30 (1969) 27-60). 37 Christus, 73. 38 Persoonlijke openbaringsgestalte van de Vader, Tijdschrift voor Theologie 6 (1966) 274-288. 39 Cfr. p. es. Het bewustzijnsleven van Christus, Tijdschrift voor Theologie l (1961) 227-251; De nieuwe wending in de huidige dogmatiek, Tijdschrift voor Theologie l (1961) 27-30. 21 evoluzionista. Cerca anche di sostenerlo mostrando che la nuova cristologia e7~senza saperlo, nella linea della tradizione, come lo attestano le dichiarazioni di S. Tommaso e di Gaetano. Secondo Tommaso, una natura impersonale non può sussistere; ciò è vero anche per Cristo. Dunque Gesù non ha la natura umana meno la persona umana; ma la persona umana e identica alla persona del Verbo divino. « Il Verbo stesso è personalmente uomo »40. Gaetano interpreta legittimamente Tommaso dicendo che la persona del Verbo e persona umana. per la natura umana di Gesù41. Schillebeeckx ricorda che fin dal 1953 era insorto contro le formule: « Il Cristo e Dio e uomo », « L'uomo Gesù e Dio »42. Bisognerebbe dire: « Gesù, il Cristo è il Figlio di Dio nella sua umanità." Non si deve ricercare la divinità dietro l'uomo Gesù, perché e nel suo essere umano che Dio si rivela. L'uomo Gesù e lui stesso presenza di Dio. Come caratterizzare di più questa presenza? Schillebeeckx assume un atteggiamento critico di fronte alle « ipostasi intra-divino », poiché questa dottrina non s'impone in funzione di una riflessione di fede sull'umanità di Gesù; essa appare come una mitologizzazione; ed una pura ripetizione delle antiche formulazioni evangeliche ci allontanerebbe dal significato profondo della Rivelazione. Il dato essenziale dell'esperienza cristiana primitiva e che l'uomo Gesù e l'assoluta prossimità o presenza di Dio, col suo perdono. Ogni epoca si fa una raffigurazione di questa vicinanza. Già il Nuovo Testamento ha elaborato molte rappresentazioni cristologiche, soprattutto con l'aiuto dell'Antico Testamento. Il dogma di Calcedonia « due nature in una persona » da una nuova interpretazione, più filosofica, della stessa verità essenziale. .Nella nostra epoca può essere necessario staccarsi da questa costruzione concettuale e tentare una nuova raffigurazione, come ha fatto Hulsbosch. 40 «Verbum caro factum est, i. e. homo, quasi ipsum Verbum personaliter sit homo» (De Unione Verbi Incarnati, a. 1). 41 « Hypostasis enim Verb; Dei in quantum est hic homo, per naturam humanam hanc constituitur... Quod est dicere personam Verbi constitui in hoc quod est esse personam humanam, per hanc naturam: hic enim homo personam humanam significat » (In III, q. 2, a. 5, n. 11, ed. leoniana, 35 AB).
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Schillebeeckx richiama ancora S. Tommaso (276): «Et ideo haec est vera: Christus, secundum quod homo, habet gratiam unionis; non tamen ista: Christus, secundum quod homo, est Deus » (S. Th., III, q. 16, a. 11, ad 1). 22 Schillebeeckx tuttavia conserva « l'unità ipostatica ».43. Nel caso di Gesù, la soggettività umana e di Dio, in una maniera unica. Creando questa soggettività, Dio la pone «come propria »44. Dio si mostra personalmente in questa soggettività umana, e così quest'uomo si trova come persona, come un io di fronte ad un Tu, il Padre45. Quest'uomo e Figlio del Padre e rivela il Padre nella sua filiazione umana. La filiazione dunque non esiste al di fuori di quest'uomo. Gesù e la maniera umana di essere Dio: egli e l'uomo della grazia. Egli non e il Figlio di Dio preesistente, ma la forma personale della rivelazione del Padre. Da questo fatto che gli permette di dire « Tu » al Padre, emerge che Cristo ha una consostanzialità col Padre in virtù di una unità ipostatica. È così che lui e la presenza umana di Dio. 2. Il pluralismo delle risposte cristologiche In seguito ad uno studio pubblicato su « Gesù di Nazaret » nel 197246, ci si sarebbe potuto chiedere se Schillebeeckx manteneva l'affermazione dell'unità ipostatica nei termini già da lui espressi. In questo suo studio, sottolinea la diversità delle interpretazioni cristologiche di Gesù, e stima che il fattore costante d'unità in questo pluralismo, e lo stesso movimento cristiano; in effetti Gesù non ha lasciato un kerigma ma un movimento, una comunità vivente di credenti. La cristologia e la risposta della nostra comunità a Gesù di Nazaret che vive nel Pneuma e in mezzo a noi. L'autorità del Nuovo Testamento e relativa alle esperienze della comunità. Ciò che e comune a tutte le risposte cristologiche, e che Gesù e il senso ultimo che determina la liberazione umana. O, ancora, l'essenziale e l'azione salvifica definitiva di Dio in Gesù. L'espressione di questa verità prende dei rivestimenti differenti, delle formulazioni differenti in ogni epoca. 43 Schillebeeclcx preferisce « unità ipostatica» ad «unione ipostatica» perché l'uomo Gesù non e un uomo che per l'unità ipostatica: unione indica troppo due componenti antecedenti (Persoonlijke, 283, n. 14). 44 Persoonlijke, 283. 45 Comprendiamo difficilmente come una soggettività posta da Dio come propria possa costituire un io di fronte ad un tu, il Padre. Se è « propria », non rientra nell'« io » di Dio? Schillebeeckx non spiega molto la questione. Può darsi che si possa chiarire l'affermazione con una considerazione fatta nel 1961: «Il Padre è il centro della coscienza umana di Gesù » (De nieuwe wending, 28). 46 De toegang tot Jezus van Nazaret, Tijdschrift voor Theologie 12 (1972) 28-60. 23 Secondo questi principi sembrerebbe che il carattere relativo della cristologia nell'esperienza della comunità non permetterebbe di garantire, come elemento certo ed immutabile, una dottrina dell'unità ipostatica. Solo l'azione salvifica di Dio in Gesù rimane l'affermazione alla quale non si può rinunciare. 3. Gesù di Nazaret, persona umana e Figlio di Dio Le considerazioni sul pluralismo cristologico sono state integrale in uno Studio più completo su Gesù47. Di questo Studio che forma un volume considerevole, non riterremo che qualche punto saliente sulla definizione dell'identità e della missione di Gesù. L'autore sottolinea non esservi bibbia infallibilmente ispirata, che ei dia come norma una parola diretta di Dio; il fattore costante di unità delle cristologie non consiste d'altronde nella coscienza di Gesù, ne nelle parole e gesti che gli debbono essere attribuiti (ipsissima verba et facta) ma nella salvezza operata da Dio in maniera decisiva in Gesù. Nei testi evangelici Gesù ei appare come una parabola. Ed egli spiega delle parabole, che non indicano un altro mondo superiore, ma una nuova possibilità di questo mondo. Storicamente Gesù ha parlato come un profeta, ma non si e mai definito padrone del sabato. Chiamando Dio « Abbà », ha manifestato l'esperienza che faceva di Dio come Padre, ma non si può dedurre che avesse coscienza di una filiazione trascendente, e meno ancora fondare su di essa una dottrina trinitaria. « Abbà » significa che Gesù compiva non la sua propria volontà, ma quella del Padre. Gesù si e reso conto di andare a morte, ma e solo dopo la Pasqua che la comunità ha riconosciuto nella sua morte un avvenimento soteriologico voluto da Dio. Gesù aveva semplicemente coscienza di abbandonarsi totalmente alla sua missione di solidarietà con gli uomini. Le interpretazioni della sua morte coi motivi di riscatto, di sacrificio espiatorio, di sostituzione, sono posteriori. Gesù non ha istituito l'Eucaristia tale quale ci viene presentata nei racconti della Cena, che hanno un carattere ecclesiale e liturgico; si può considerare come storica la dichiarazione escatologica di MC. 14, 25 e di Lc. 22, 18: « lo non berrò più del frutto della 47 Jezus, het verhad van een levende, Bloemendaal 1974. 24 vite... ». Le parole della consacrazione del pane e del vino, non sembra siano state pronunciate da Gesù.
Dopo la morte di Gesù, i discepoli si sono riuniti in seguito ad una iniziativa storica di Pietro. Pietro fu il primo a fare l'esperienza della conversione, poi i discepoli hanno vissuto anch'essi, come grazia, il perdono dei peccati. Questa esperienza di conversione ha fatto nascere la fede in Gesù risuscitato, poiché solo un vivente poteva dare il perdono dei peccati. Da questa esperienza sorgeva improvvisamente una « visione ». I racconti delle apparizioni del risorto * sono stati redatti secondo un modello classico dei racconti giudaici / di « visione di conversione », come si constata per Paolo ma anche per i discepoli. Tuttavia, non vi e motivo di negare la realtà della risurrezione personale e corporea di Gesù che, dice l'autore in uno sviluppo aggiuntivo dopo la prima edizione dell'opera (p. 528), e ontologicamente preliminare all'esperienza della conversione. L'interpretazione del Gesù risuscitato ha dato luogo alla formazione di quattro credo: si può distinguere la cristologia del Maranatha, quella dell'« uomo divino », quella della Sapienza e quella della Pasqua. Questi diversi credo s'ispirano dal riconoscimento della salvezza nella persona di Gesù e dalla sua identificazione col profeta escatologico, che e il credo fondamentale di tutto il cristianesimo. Dall'interpretazione della comunità deriva anche l'affermazione della nascita verginale, che non ci porta un'affermazione storica, ma semplicemente il risultato di una riflessione teologica. Qual e l'identità reale di Gesù? Nei suo messaggio, Gesù non si preoccupava di chiarire la sua personale identità; si identificava piuttosto con la causa di Dio e con la causa dell'umanità. Sono i cristiani che nella loro cristologia hanno portato l'attenzione sull'identità di Gesù. Conviene ricordare che e impossibile identificare esclusivamente l'essenza del cristianesimo, che ha un significato universale, con una forma di manifestazione storica o con una definizione determinata della fede cristiana. La .cultura cambia ed in ogni epoca il cristianesimo si esprime diversamente nelle sue relazioni con Gesù Cristo. Sin dall'inizio della sua opera, Schillebeeckx afferma con forza che Gesù è una persona umana: verità evidente nei senso umano di questa parola (p. 26). Respinge la « tradizione neo-calcedoniana »' che ha parlato di anipostasia, ossia d'assenza di persona umana nei Cristo, mentre il dogma di Calcedonia non lo ha mai detto. Una 25 tale assenza di persona umana implica una mancanza di vera umanità in Gesù e diminuisce la consostanzialità di Gesù con gli uomini. Ma se la persona di Gesù e umana, come può essere Gesù il Figlio di Dio? Possiamo trovarne il fondamento nello statuto comune della persona umana che e « di Dio », come viene proposto da Schoonenberg nella sua teoria dell'« enipostasia » della persona umana nell'ipostasi di Dio? Ciò e inaccettabile, perché in questo caso l'essere della creatura implicherebbe l'unione ipostatica: una creatura e di Dio ma non e Dio. Gesù e chiamato il Figlio per specificare le sue relazioni di creatura con Dio. Quello che nel linguaggio profano e chiamato persona umana, secondo il linguaggio della fede cristiana e chiamato « Figlio di Dio », in ragione della relazione costitutiva di questo uomo al Padre. Nell'unione di Gesù con Dio non vi sono due componenti, l'umanità e la divinità, ma soltanto due aspetti che hanno un carattere di totalità: L'umanità nella quale si realizza il fatto di « essere di Dio ». Perciò non si può affermare che Gesù, che in se stesso e persona umana, sia assunto nel Logos, poiché la persona umana non e data indipendentemente dal fatto di essere « del Padre ». L'autocomunicazione del Padre, sorgente dell'esperienza dell'« Abbà », e stata chiamata « il Verbo » dall'antica tradizione cristiana. Questo Verbo di Dio e il fondamento di tutta la manifestazione di Gesù. Nella sua umanità Gesù e così intimamente « del Padre » che egli e perciò « Figlio di Dio ». Storicamente la sua ipostasi era la sua relazione al Padre. Gesù e « allocentrico ». In questo senso Gesù e « persona divina ». Egli vive, nei limiti di un modo di essere personale umano, l'essere di una « persona divina », ossia il fatto di essere se stesso in un dono radicale di se all'altro. Egli e il Figlio, il « secondo » della pienezza trinitaria dell'unità divina. Così vi e identificazione ipostatica senza anipostasia. Una identità fra due modi di essere personali finiti sarebbe una contraddizione, ma l'identità fra un modo di essere personale umano e un modo di essere personale divino, infinito, non e contraddittorio, perché la distinzione fra la creatura e Dio non ha il suo fondamento nella perfezione della creatura, ma nella sua finità, mentre tutto ciò che e positivo in essa e completamente preso da Dio. Non si può chiamare Gesù semplicemente una persona umana 26 poiché sarebbe metterlo di fronte al Verbo. Ma d'altra parte l'essere personale di Gesù non esiste al di fuori del suo essere umano. Possiamo dire che il Verbo e divenuto « persona umana ». Non che Dio diventi trinitario nell'Incarnazione di Gesù Cristo, ma noi non possiamo chiamare la Trinità « tre persone divine » che partendo dall'uomo Gesù. 4. « L'uomo di Dio »
In maniera più semplice che nella sua opera Schillebeeckx ha illustrato, in una intervista, il suo pensiero sull'identità di Gesù. Egli osserva che le chiese, nel loro culto, presentano il Cristo con una divinizzazione esagerata. Dichiara di non negare la divinità di Gesù, ma di provare grande pena ad ammettere la brutale identificazione di Gesù con Dio. Il suo studio gli ha permesso di sistemare le cose, e così comprende meglio ciò che la chiesa e soprattutto la Scrittura ha inteso dire: « Ecco l'uomo di Dio, qualcuno che e stato inviato definitivamente da Dio per comunicare la salvezza agli uomini e parimenti a raggiungerla »48. Gesù dunque non e più, a dire il vero, l'uomo Dio. Egli e « l'uomo di Dio »; l'uomo che ha la più alta relazione con Dio al punto da essere chiamato Figlio di Dio e al punto che la sua persona umana può essere chiamata persona divina. È nella sua realtà umana che si trova la sua filiazione. Nello stesso senso si esprime la risposta alla domanda: « Gesù e Dio, si o no? » in un ulteriore articolo: « Gesù e definito nel suo essere umano per la sua relazione al Padre; in altri termini l'esistenza di Gesù, nella sua più profonda realtà, e costituita dal suo legame personale con il Padre. Senza alcun dubbio la nostra relazione di creatura di fronte a Dio e, anch'essa, essenziale alla nostra condizione umana; ma essa non definisce la nostra natura nella sua umanità come tale. Per Gesù va tutto diversamente. Da una parte Dio non potrebbe essere « definito » per così dire, che partendo dai termini che dipendono da Gesù di Nazaret; d'altra parte Gesù non può essere « definito » come uomo, nella pienezza della sua umanità, che nei termini stessi della sua relazione unica a Dio, il Padre. così 48 J. SPITZ, In gesprela met Edward Schillebeeckx over zijn boek: Jezus, Het verbaal van een levende, in Maala een wat verdeeld is (Bestuur St Willibrord Vereniging) 's Hertogenbosch 1974, 10. 27 Dio fa ben parte integrante della definizione dell'uomo Gesù, dicendo chi è e ciò che egli è. Io non so se sia possibile formulare questo teoricamente in maniera ancora più precisa, ed esiterei anche a tentarlo. Quelle che io so e che al di fuori di Gesù, non esiste alcun essere umano, alcun profeta di cui l'umanità stessa sia determinata interiormente ed essenzialmente per la sua relazione di persona a Dio, il Padre. Dio stesso trascende tuttavia la propria rivelazione, sorpassa anche la più alta e la più decisiva che abbia mai fatto di se stesso, cioè l'uomo Gesù. L'essere-umano di Gesù riferisce in conseguenza a Dio » 49. Gesù non e che un essere umano ma avente una relazione unica con Dio. Trattando dell'opera della salvezza e della grazia, Schillebeeckx si attiene a questa distinzione fra l'uomo Gesù e Dio, con una differenza fra l'umano e un Dio che essendo vicinissimo, rimane il tutt'altro. « Come uomo, Gesù era talmente uno con la realtà perfettamente altra, che noi chiamiamo Dio, che questa realtà divina non entra in alcun modo in concorrenza col suo essere umano »50. È su questo fondamento che la tradizione cristiana lo chiama il Figlio unico. La salvezza si opera « da parte di Dio in Gesù », ma sempre con questa distinzione che fa supporre che Gesù non e Dio in senso proprio. Altre spiegazioni fornite ulteriormente confermano questa posizione. Gesù chiamava Dio « suo Creatore e Padre » 50b; dunque non e che una creatura. Secondo la fede cristiana, egli e « la rivelazione decisiva e definitiva di Dio ». L'uomo Gesù ha una relazione con l'essere di Dio, ma coloro che ne volessero dire di più rischierebbero d'offrirci delle leggende e delle parabole. Nell'uomo Gesù, in una sola e medesima persona, « si ricongiungono perfettamente la manifestazione del divino e la rivelazione della realtà umana vera, buona e davvero felice ». Ecco che cosa ha trovato a Nicea e Calcedonia un'espressione adattata ma tributaria di concetti antichi50c. 49 Jesus de Nazareth, le récit d'un vivant, Lumiere et Vie 134 (1977) 44. 50 Gerechtigheid en liefde. Genade ett bevrijding, Bloemendaal 1977, 768. sob Tussentijds verbaal over twee Jezus-boeken, Bloemendaal 1978, 143. 500 Ibid., 143-144. 28 D) L'ESTENSIONE DELLA CORRENTE TEOLOGICA La corrente teologica di lingua olandese che rinuncia all'affermazione della persona divina di Gesù, non si limita ai soli autori menzionati. Un certo numero di altri seguono la stessa via. L. Grollenberg interpreta la qualità di Figlio di Dio come significante « Messia di una intimità unica con Dio ». Egli e del parere che la Bibbia non insegni una dottrina determinata e specialmente che non comporti una cristologia unica che possa imporsi5I. Trova spiacevole che molti cristiani serbino la raffigurazione di un « Uomo-Dio », di un Gesù che ha cambiato 600 litri di acqua in vino senza dire una parola, che ha guarito dei malati col semplice tocco o anche a distanza, che ha risuscitato dei morti, e che e risuscitato come aveva predetto. Questo non e il Gesù, egli dice, del quale hanno fatto l'esperienza quelli che vivevano con lui52. Tuttavia attribuisce ai discepoli la formazione delle idee di preesistenza e di filiazione divina trascendente, che in seguito verranno applicate a Gesù. Questo autore racconta come e uscito dal mondo delle « certezze divine » nel quale era cresciuto, e come ha abbandonato le « verità » su Dio e sulla Trinità, sul Cristo, Uomo-Dio, sui mezzi della grazia,
l'autorità infallibile, l'ispirazione della Bibbia. Le nuove posizioni in cristologia sono dunque solidali con tutta una serie di abbandoni53. R. Michaels osserva che il catechismo olandese non parla più delle tre persone divine, riconoscendovi una valida intuizione, perché nella nostra epoca diventa faticoso parlare ancora di tre persone in Dio M. In cristologia egli segue la linea del pensiero non calcedoniano di Schoonenberg. Mentre prima l'accento veniva posto su Gesù uomo e Dio, ai nostri giorni, si considera sempre più il Cristo come « l'uomo in cui Dio e stato presente per noi in maniera unica ». Dio lavora e parla sempre negli uomini e attraverso gli uomini; prima in un modo unico ed incomparabile nell'uomo Gesù, ed in seguito attraverso tutti gli uomini55. Nella sua risurrezione Gesù non e di51 Modern Bijbellezen, Baarn 1971. 52 Jezus weg naar hoopvol samen leven, Baarn 1974, 48. 53 Ibid., 127. 54 Incarnation. Le rapport entre la foi en Dieu et sa revelation dans le Christ, Lumen Vitae 25 (1970) 467. 29 ventato Dio, perché l'uomo resta uomo, ma si e divinizzato nel senso che essendo in relazione unica con Dio, Gesù uomo supera il suo essere umano e vive come uomo nella comunità di Dio56. Siccome l'umanità di Gesù fu divinizzata con la risurrezione, « Dio e per noi Gesù », nel senso che Dio si e rivelato definitivamente in lui. così « Gesù e definitivamente l'Uomo per Dio e Dio per l'Uomo » s?. L'affermazione ontologica non e « il Cristo e Dio », ma « il Cristo e di Dio ». Gesù Cristo e la teofania (la parola di Dio) e l'epifania (l'agire di Dio) in una esistenza umana: « egli e per noi la visibilità umana del Dio invisibile », ma non bisogna confondere Gesù con Dio58. A coloro che dubitano della sua ortodossia, Michiels oppone una osservazione di A. Vergote: « Il credo, espressione della nostra fede, e la confessione del Dio di Gesù Cristo, del suo Spirito, della sua Chiesa ». Conclude dicendo che il criterio dell'ortodossia si trova « in una uscita da se stesso verso Dio, del quale Cristo e la via », e ricorda di essersi fatto sacerdote perché la sua attenzione si era portata « su Gesù Cristo, come sulla più alta rivelazione di Dio per noi »59. M. Veldhuis ha presentato un commento del credo di Nicea-Costantinopoli, commento che non mira affatto a studiarne il significato originale, ma a proporne un'interpretazione in linguaggio moderno. Definisce l'essere di Yahwé come Promessa e Chiamata. E come Gesù e per noi la Promessa e la Chiamata, egli e la perfetta immagine, il secondo volto di Yahwé. così si spiega la formula « consostanziale al Padre »60. Tuttavia Gesù non e uguale al Padre, sebbene intervenga nella creazione; egli non e il Creatore, e non e onnipotente, onnisciente, eterno e onnipresente in modo assoluto, come si dice per Yahwé. Lo e in un'altra maniera, in virtù della sua obbedienza al Padre vittoriosa della morte. La consostanzialità col Padre esiste in Gesù « per la grazia del suo totale abbandono a questo Padre »61. 55 Jesus-Christ, hier, aujourd'hui, demain, Tournai 1971, 88. 56 Ibid., 104. 57 Ibid., 105. 58 Incarnation, 485. 59 Jesus-Christ, 138. 60 Over Jezus gesproken. Een oud verhaal dat verder gaat, Hilversum 1974, 57. 61 Ibid., 61-62. 30 Gesù è nato dal Padre « prima di tutti i secoli », perché fin dalla creazione Yahwé è un Dio che si esprime completamente nell'uomo Gesù. Veldhuis non crede « che prima di tutti i secoli, indipendentemente dall'uomo Gesù, un Figlio divino fosse presso il Padre, che in seguito, ad un certo momento, ha preso accanto al suo essere divino, un essere umano »62. Egli riprende il rimprovero di triteismo formulato da Schoonenberg contro questa concezione tradizionale. « Colui che, indipendentemente dall'uomo Gesù, mette da tutta l'eternità a fianco del Padre un Figlio come un secondo lo libero e cosciente, arriva ad affermare tre dii in luogo del Dio uno e trino »63. Malgrado il ripristino di formule tradizionali del credo, Gesù e definito in realtà come l'uomo totalmente obbediente a Dio. Una delle conseguenze di questo modo di vedere concerne la preghiera: « pregare Gesù non e necessario »; questo non e che un fenomeno marginale, se lo si paragona col pregare Dio64. Veldhuis ha impiegato in maniera sistematica il procedimento consistente nel riprendere delle formule di fede tradizionali e dar loro un contenuto nuovo; in questo modo l'allontanamento nei riguardi della fede della Chiesa diventa meno appariscente. Altri, al contrario, insistono sulla necessità di un linguaggio più moderno, e invece di conservare i vecchi credo, ne propongono di nuovi. così P. Smulders ha presentato una professione di fede per-
sonale con termini che vogliono esprimere il nucleo centrale del dogma. Ecco l'inizio: « lo credo in Dio Padre, che regge tutto nelle sue mani. La mia esistenza e dono di Qualcuno che e amore e sollecitudine. lo credo nell'uomo Gesù che e nato da Maria ed e il dono di Dio a noi, nel quale appaiono la sollecitudine di Dio per tutti, il suo invito all'amore e la sua pazienza per noi peccatori. Questo Gesù vive, e davanti a lui e a suo Padre, noi siamo finalmente responsabili di ciò che noi stessi siamo e di quello che facciamo al nostro prossimo. lo credo allo Spirito Santo: il bene che desideriamo e facciamo 62 Ibid., 63-64. 63 Ibid., 21. 64 Ibid., 82-83. 31 e grazia, e perciò più forte della nostra debolezza, della nostra colpa, della nostra impotenza » 65. Si può constatare la distanza tra questo credo e le professioni di fede di Nicea e di Calcedonia. Gesù e visto semplicemente come un uomo; non si dice che e nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo, ma unicamente che e nato da Maria. Non e chiamato Figlio di Dio, ne vero Dio; egli e il dono di Dio. Non si afferma che egli si e consegnato alla morte con lo scopo di salvare l'umanità. Non si dice neanche che e risuscitato. Si limita ad assicurare che vive. Quanto allo Spirito Santo, la spiegazione che ne e data sembra farlo consistere semplicemente nella grazia che ci fa compiere il bene. In breve, senza che vi sia nessuna negazione esplicita, le indicazioni ed i silenzi del credo sembrano eliminare il mistero dell'Incarnazione, il sacrificio redentore e l'avvenimento della resurrezione, la venuta personale dello Spirito Santo, e perciò stesso la Trinità. In questo credo proposto fin dal 1968 nell'assemblea dei vescovi e dei preti d'Olanda, si esprime la fede nuova quale la concepisce la cristologia che abbandona le definizioni conciliari e si rifiuta di affermare in Gesù una persona divina. La teologia moderna, dice J. Haarsma per qualificare questa tendenza, parla della trascendenza umana di Cristo. Quando essa considera Gesù come Figlio di Dio, lo fa per discernere in lui l'uomo nel quale Dio e presente nella maniera più intima. L'essere umano di Cristo non differisce essenzialmente dal nostro; la differenza e essenzialmente escatologica, perché in lui si realizza la manifestazione escatologica o definitiva di Dio66. 65 Het priesterberaad in Noordwijkerbout. Inleiding en Slotbeschouwing, in Theologie en Pastoraat 64 (1968) 330. 66 Ontwikkelingen in de rooms-katbolieke theologie in Nederland, De nieuive mens 20 (1968) 55. 32 CAPITOLO II SAGGI CRISTOLOGICI DI LINGUA FRANCESE A) GESÙ, UOMO LIBERO, SECONDO CHRISTIAN DUQUOC 1. La lotta di Gesù e il mistero pasquale Nel primo volume della sua Cristologia, intitolato L'uomo Gesù1, Christian Duquoc, pur insistendo sull'umanità di Gesù, voleva rimanere fedele all'affermazione della trascendenza divina del Figlio di Dio, secondo l'annunciò del concilio di Calcedonia. Egli reagiva particolarmente alla teologia americana della morte di Dio. Nel secondo volume2, vuole esprimere il mistero pasquale secondo la teologia post-bultmanniana, e le sue posizioni manifestano una notevole evoluzione. Una mentalità di demitizzazione ispira il suo modo di abbordare i testi evangelici: « Il prodigio, o il miracolo, non può essere che un lusso metafisico del quale non vi e alcun bisogno che ci preoccupiamo per vivere cristianamente. I dati « prodigiosi » del Nuovo Testamento provengono da mentalità a noi estranee ». Duquoc li accusa di essere una sottile negazione della vera umanità di Gesù3. Nel mistero pasquale, Gesù è visto semplicemente come un uomo, uomo distinto da Dio. Duquoc reagisce contro l'interpretazione teologica tradizionale della croce: la croce « è un prodotto della nostra storia, non è un prodotto di Dio », « Gesù crocifisso 1 Christologie. Essai dogmatique, I, L'Homme Jesus, Parigi 1968. 2 II, Le Messie, Parigi 1972. 3 Ibid., 22. 33 non è altro che Gesù condannato dai poteri civili e religiosi »4. La condanna mette in piena luce la perversione di questi poteri; il crocifisso ci chiama a « lottare contro la perversione dei poteri che si proclamano norme ultime »5. Così appare il senso che Gesù da alla sua vita storica: una lotta per la giustizia. Con questa lotta si definisce il suo profetismo messianico. Gesù « è stato rifiutato perché, profeta, le sue parole ed i suoi atteggiamenti hanno sconvolto il piano sociale e religioso »6. Per analizzare la Risurrezione, Duquoc si riferisce alle interpretazioni di R. Bultmann, di K. Barth, di W. Marxsen, di W. Pannenberg e di J. Moltmann. Critica l'opinione di Pannenberg, secondo cui
l'avvenimento della Risurrezione dimostra la sua oggettività nel fatto della tomba vuota e nelle apparizioni agli apostoli; gli rimprovera di non aver tenuto sufficientemente conto « dell'ambiguità di ogni testimonianza » e dei « carattere interpellativo e dunque esistenziale della predicazione apostolica »7. Si pronuncia in favore di Moltmann, che respinge una Risurrezione epifanica, compimento della Promessa, per ammettere una Risurrezione che sia Promessa. Conclude dicendo che « la " Risurrezione " non potrebbe essere annunciata come un fatto positive, un prodigio. Essa non è una informazione su un destino particolare »8. Essa significa una liberazione, poiché « affermare Gesù vivente, vuol dire presentarlo libero nei confronti della morte, e dunque capace di comunicare con gli uomini, libero nei riguardi della materia, non respingendola ma assumendola »9. La rappresentazione della « risurrezione » deve essere integrata al divenire reale di Cristo; essa rivela la liberazione dell'uomo che consiste « non in una sopravvivenza o una immortalità che nega la prima creazione di Dio », « ma in una vita che libera tutte le sue virtualità ed energie » 10. Nella spiegazione dei valore redentore della morte di Gesù, l'autore respinge le teorie della sostituzione penale e della riparazione morale. Gesù non da alla sua morte « un significato dei tutto 4 Ibid., 32. 5 Ibid., 33. 6 Ibid.,. 68-69. 7 Ibid., 163. 8 Ibid., 164. 9 Ibid., 166. 10 Ibid., 168. 34 identico a quello che gli riconosce san Paolo » 11. L'interpretazione che si ritiene più conforme alla prima idea della comunità cristiana, s'ispira all'analogia con i profeti martiri. Gesù è un profeta la cui libertà di linguaggio inquieta; il suo destino storico «è analogo a quello di molti uomini giusti che hanno voluto cambiare i rapporti sociali in un modo diverso dall'imposizione della forza »12. La sua morte svela il potere dei male e in pari tempo apre ad una speranza, suscitando lo stesso sforzo di liberta negli altri uomini. La sua morte è pienamente umana e non differisce dalla morte dell'uomo « giusto ». Non bisognerebbe strappare la morte di Gesù alla storia reale, dichiarandola imposta da un decreto divino. Se ne farebbe allora un avvenimento divino-cosmico, come nella teologia di sant'Anselmo che stabilisce la logica intra-divina della Redenzione partendo dalla soddisfazione: « la storia di Gesù allora è svuotata dal suo significato apparente, a profitto di una lotta cosmica fra due entità « spirituali »13. La morte di Gesù non proviene da un mito cosmico: essa è banale e non si può situarla al di sopra della morte dei giusti e dei profeti. Non le si può attribuire una così notevole originalità da poter dire soltanto di Gesù: « È morto per i nostri peccati ». È vero che Gesù è il Messia, ma di un messianismo che rifiuta di creare un regno potente e che per questo riveste una forma paradossale. Gesù non compie niente di più dell'uomo giusto o dei profeta sofferente o morente per la giustizia. Egli è il Servo. Tuttavia quello che da alla sua morte un valore unico ed originale, è la Risurrezione. Nella sua morte Gesù perdona ai nemici e invoca per essi il perdono di Dio. Con la Risurrezione Dio ratifica il perdono di Gesù e accredita la sua speranza14. La soddisfazione non deve essere concepita come una compensazione: essa tende a « reintegrare nell'amore divino, degli atti che furono degli insuccessi per la gloria di Dio » 15. « La giustizia di Dio nella « Redenzione » non consiste nell'esigere quanto dovuto come riparazione dell'offesa, ma nel lasciare all'uomo di essere l'artefice della sua libertà » 16. 11 Ibid., 190. 12 Ibid., 199. 13 Ibid., 200. 14 Ibid., 205. 15 Ibid., 215. 16 Ibid., 216. 35 Il legame fra la croce e la Risurrezione è identificabile al senso che Gesù da alla sua vita storica, ossia alla lotta per la giustizia. Si tratta della giustizia escatologica, frutto dello Spirito. Gesù non propone un'organizzazione legale o sociale, ma la giustizia per la quale lotta, deve realizzarsi quaggiù. Questa giustizia non si era realizzata, come lo dimostrava la miserevole situazione della maggior parte del popolo. La Risurrezione è la Promessa di questa giustizia. « Lo schema biblico della Risurrezione impone null'altro che questa affermazione: Dio con la sua potenza fa accedere l'essere umano ad una nuova relazione con il " cosmo " e gli altri, in modo tale che la prima forma d'esistenza non sia negata
ma esaltata » 17. Creato ad immagine del Dio vivente e libero, l'uomo potrà allargare in questo mondo la sua vita e la sua libertà. Gli evangelisti hanno voluto descrivere la nuova condizione di Cristo e non il suo corpo risorto. « Essi hanno voluto manifestare la libertà di Gesù per l'iniziativa assoluta che gli spetta e per il suo potere di comunicazione. Egli è vincitore della morte perché, precisamente, agisce in questo mondo come vuole... e comunica con chi vuole. I morti non possono né agire, né comunicare: essi sono prigionieri. Gesù è libero » 18. Un'importanza fondamentale è attribuita alla Parusia. « La Risurrezione è storica nel kerigma, non è storica in se stessa », pur essendo realtà oggettiva; « non si potrebbe dunque riconoscerle un carattere di avvenimento in se stessa » 19. Essa richiede una verifica universale d'ordine avvenimenziale diverso da quello della predicazione. Questo avvenimento è la Parusia. Essa « svela l'identità fra la causa storica della giustizia, l'amore altrui e la causa di Dio » 20. Essa è prodotto della storia e fine della storia. Bisogna sottolineare il suo carattere avvenimenziale. Essa è il giudizio, « l'atto col quale il Messia manifesta con evidenza la sua Signoria dimostrando agli occhi di tutti l'identità fra la causa dell'uomo e quella di Dio, compiendo la liberazione definitiva nei riguardi di ciò che simbolizza destino e fatalità: la morte »21. 17 Ibid., 253. 18 Ibid., 260. 19 Ibid., 309 20 Ibid., 312.' 21 Ibid., 316-317. 36 2. La filiazione divina Rompendo con le raffigurazioni messianiche correnti ed apparendo come l'anti-messia, Gesù reinterpreta la trascendenza che rivela il suo senso nella nostra liberazione. La chiamata alla libertà si articola nella nomina di Dio Padre e nella coscienza filiale di Gesù. « Gesù invoca Dio come Padre non per il riconoscimento di una trascendenza che bloccherebbe la storia, ma per il convincimento che una libertà ed un amore primieri ci chiamano a liberarci. Dio è Padre per colui che fa la sua volontà, ossia per colui che agisce in modo tale che, rendendosi libero, rende libero » 22 Così si definisce la filiazione: « è figlio colui che, libero, rende libero, perché la volontà del Padre è questa libertà. È figlio colui che ama suo fratello e che lotta per la giustizia, perché la volontà del Padre è questo amore è questa giustizia ». « Gesù è Figlio poiché la sua azione e il suo atteggiamento sono l'immagine dell'azione e dell'atteggiamento di Dio »23. La filiazione dunque è concepita in modo funzionale. .Lo stesso dicasi della paternità: « Dio è Padre nella misura in cui l'uomo Gesù lo chiama tale, e non lo chiama tale che in funzione del suo atteggiamento e della sua azione simbolicamente trasferite nelle parabole e così attribuite a Dio ». Tuttavia « l'unità esistenziale e pratica fra l'annunciò del Padre tramite Gesù e il suo atteggiamento personale ha incitato la comunità primitiva a confessare fra il Padre e il Figlio una identità di essere e non soltanto di funzione ». Nel Nuovo Testamento il procedimento si abbozza, ma rimanendo legato alla coscienza filiale. In seguito si è ceduto alla tentazione di « separare i simboli della paternità e della filiazione, dalla storia della loro rivelazione »24. « L'interpretazione ontologica rischia di nascondere i veri motivi della nomina paterna di Dio e dell'atteggiamento filiale di Gesù » 25. Duquoc incrimina particolarmente l'imperialismo del fantasma paterno, che descrive riprendendo la rappresentazione freudiana della religione. Con il suo antimessianismo, Gesù ci libera dal fantasma dell'onnipotenza paterna, frutto del nostro desiderio. Egli ci rende 22 Ibid., 324. 23 Ibid., 325. 24 Ibid., 325-326. 25 Ibid., 327. 37 liberi. La sua obbedienza non è un omaggio a questa onnipotenza, ma è fedeltà alla missione di rivelare la libertà filiale. Vi è una certa rinuncia al padre che si deve realizzare nella religione, non negando che Dio sia il padre, ma rinunciando « a fare di Dio un padre di cui il desiderio dell'uomo ha bisogno », ossia rinunciando all'oggetto del desiderio26. La critica freudiana del fantasma paterno permette di giungere alla necessita di rinunciare a Dio padre come oggetto del desiderio. Nominare Dio Padre può essere un'astuzia del desiderio e un'operazione avente lo scopo di rifiutare la realtà, una manifestazione della megalomania infantile del desiderio. « La nomina di Dio Padre richiede come una necessità della sua verità, la conversione al finito: Dio non può essere padre che di colui che è uomo »27. Perciò Gesù non è figlio malgrado la sua condizione terrena, « è autenticamente il figlio perché non
rifiuta la finitudine della nostra esistenza ». « Gesù è uomo, il Padre e più grande di lui. Egli è il Servo. Nel linguaggio moderno diciamo che Gesù si converte al finito. Gesù uomo accetta la finitudine dell'uomo e rifiuta di utilizzare l'onnipotenza del Padre per forzare la realtà. Non desidera questa onnipotenza e non la richiede nelle sue preghiere. Questo rifiuto lo costituisce « umano » e pone la condizione della rivelazione autentica del Figlio e del Padre »28. La conversione di Gesù al finito è esemplare: « il cristiano diviene figlio di Dio nel modo in cui Gesù uomo ha vissuto la sua filiazione. Non è l'onnipotenza della Divinità, fondata sull'unità ontologica fra Gesù e Dio, che regola la nostra filiazione, ma il modo con cui l'uomo Gesù l'ha vissuta storicamente » e l'unità ontologica è stata affermata dal concilio di Nicea, ma non si può dedurre, dalla filiazione ontologica, l'antimessianismo di Gesù, perché per il Figlio che è di Dio, nel suo essere divino, la conversione al finito sarebbe privata di senso. « Il cristianesimo non rifiuta la figura paterna, ma l'assume nella misura in cui significa che l'essere umano accede alla libertà partendo da un altro »30. « Se essere uomo significa accedere alla realtà 26 Ibid., 338. 27 Ibid., 339-340. 28 Ibid., 341. 29 Ibid., 342. 30 Ibid., 345. 38 con il libero riconoscimento di non essere il Padre, essere figlio non è altro che accettare il Padre come colui che concede di essere liberamente uomo » 31. La filiazione è presentata nel suo valore di libertà, come pure di fraternità universale. « Dio ci ha amati fino al punto di non volere altra cosa per noi che la nostra libertà » 32. 3. Reazione alla cristologia tradizionale Vi è un legame irriducibile fra Gesù e Dio. « Qualunque sia il modo con cui lo intende, ogni credente cristiano accetta questo legame ». L'affermazione di questo legame basta per costituire la fede cristiana? Duquoc e reticente davanti alle definizioni conciliari: « I concilii di Nicea e di Calcedonia hanno delimitato in maniera precisa il contenuto (di questo legame): Gesù è il Figlio di Dio, pensando così di fondare l'universalità della sua opera redentrice. Egli è l'unico Mediatore, e nessun altro salva. Queste affermazioni non tolgono gli ostacoli costantemente sollevati nel corso della storia dalla particolarità di Colui che e il Mediatore. Essi sono oggi più evidenti che mai. La « particolarità » rimane nella Risurrezione: « è l'uomo Gesù, il Servo, crocifisso sotto Ponzio Pilato, nato da Maria, che è il Vivente » 33. Nell'opera di divulgazione, « Gesù uomo libero », Duquoc commenta i versetti di Mt. 11, 25-27, nei quali è enunciata la conoscenza reciproca del Figlio e del Padre e solo il lettore disattento a giudicare che Gesù, in questo testo, rivela la sua identità, tale quale più tardi verrà confessata dalla Chiesa: « Infatti non è così: Gesù afferma indirettamente di avere una relazione unica con Dio, perché egli ha un compito unico: quello d'annunciare il suo Regno... Anche se bisogna ammettere che Gesù abbia fatto una distinzione fra suo Padre e nostro Padre, niente suggerisce che, con questa differenza, abbia voluto significare più del carattere unico della sua funzione: quella di annunciatore del Regno di Dio»34. Gesù dunque non avrebbe manifestato la coscienza di essere Figlio di Dio nel senso ontologico dell'espressione. Altrove Duquoc rimprovera alla teologia classica d'aver com31 Ibid., 347. 32 Ibid., 352. 33 Ibid., 350. 34 Jésus, homme libre, Parigi 1973, 118. 39 preso la filiazione divina di Gesù in un quadro prestabilito, quello della cultura biblica e della cultura greca35. Pur salvaguardando ciò di cui vive la fede, Gesù come volto filiale e umano di Dio, bisognerebbe evitare di proiettare nei testi evangelici le determinazioni susseguenti, ciò che permetterebbe di riscoprire il Figlio « nella sua realtà semplice d'uomo di Galilea e nella sua grandezza di risuscitato »36. In un articolo sulla cristologia di Nicea ed i saggi moderni di cristologia37, Duquoc definisce le condizioni che deve verificare una teologia per essere moderna: essa deve integrare la rottura fra ragione e rivelazione; deve rinunciare allo strumento metafisico; deve rinunciare alla pretesa di essere una sintesi di sapere o un'ultima istanza critica; deve assumere la storicità della ragione, visto che non vi sono certezze e verità che sfuggano al divenire della cultura e alla critica delle scienze; deve riconoscere l'autonomia delle scienze, della morale e della politica in rapporto alle chiese, ai dogmatismi e alle metafisiche 38. Due moderni saggi di cristologia che rispondono a queste condizioni,
sono presi in considerazione: quello di Paul van Buren, teologo della morte di Dio, e quello di Schoonenberg. Da questi due saggi si possono dedurre delle conseguenze per l'interpretazione del concilio di Nicea: il concilio deve essere liberato dal suo sottofondo ontologico ed essere compreso in un senso economico, come esprimente l'unità del Rivelatore e del Rivelato al cuore dell'uomo. É solo accettando la « modernità » che si toglie a questo concilio l'accusa di difendere delle formule di contenuto mitico. Le formule conciliari non costituiscono dei principi di fondo in teologia, ma semplici condizioni di possibilità, storicamente situate, delle interpretazioni del Nuovo Testamento. Si dovrebbero scrutare le antiche formule seguendo il criterio proposto da Habermas: « La verità di un enunciato ha il suo fondamento nella riuscita di una via già sicura ». Questo criterio avvolge l'escatologia. « La funzione delle formule in seno ad una nuova cultura, potrebbe riacquistare vigore ove si ammetta come certo che un concilio non ha altra finalità che quella di attestare l'efficacia sempre attuale della Pasqua ' 35 Le Dieu de Jésus, Lumière et Vie, n. 122, 24 (1975) 77-88. 36 Jesus komme et Dieu, Assemblees du Seigneur, n, 9, Parigi 1974, 33-45. 37 La cristologia de Nicea y los ensayos modernos de cristologia, in Cristo ayer y hoy, Semanas de Estudios Trinitarios. 8, Salamanca 1974, 135-144. 38 Ibid., 138-139. 40 e non di informare scientificamente su delle realtà al di fuori della nostra portata »39. La reazione contro il Dio metafisico si esprime nell'atteggiamento dei teologi secolari e nella critica dei gruppi contestatori o marginali. Duquoc definisce la loro posizione: « Sì a Gesù, no a Dio e alla Chiesa ». Egli ritiene che in ciò vi sia una valida intuizione: « Il Dio rifiutato è il Dio ormai respinto come " metafisico ". Il rifiuto, per ragioni storiche o politiche, nasconde un'intuizione più radicale: prendere l'atteggiamento di Gesù sul serio, come ultimo determinante della fede cristiana, significa non poter più accettare simultaneamente l'immagine di un Dio condotto dalla cosiddetta tradizione metafisica, molto sostenuta dalle Chiese. Si vuole indicare così che Dio è certamente diverso da quello che egli è stato costantemente presentato, ma di questo Dio attualmente non si può dire niente, se non la sua manifestazione in Gesù » 40. Questa adesione a Gesù nel rifiuto di Dio ha come conseguenza « il rigetto di una Chiesa giudicata infedele al vangelo ». Il rifiuto di Dio è giusto nella misura in cui Gesù libera da un'immagine oppressiva di Dio. Ma non si può sopprimere il rapporto di Gesù con Dio: bisogna riproporre « la questione del Dio di Gesù », Dio che è sorgente di libertà e che rende Gesù libero nei riguardi della morte »41. La questione di Dio viene più ampiamente ripresa e trattata nell'opera « Dio differente ». Duquoc vi presenta una dottrina del simbolismo trinitario. Simbolo non deve essere opposto a realtà, ma il suo valore reale, nel caso di Dio, è determinato in funzione del nostro comportamento umano: « I " simboli " Padre, Figlio o Spirito, non affermano e non negano la realtà di queste differenze in Dio stesso: essi significano che Dio è riconosciuto da noi in una pratica o in un atteggiamento che essi comandano. Così Dio è conosciuto come il Dio di Gesù là ove il suo volto paterno suscita un atteggiamento filiale per colui che si lascia svegliare dal soffio (Spirito). I " simboli " esprimono le implicazioni concrete del rapporto degli uomini a Dio »41a. 39 Ibid., 144. 40 Oui a Jesus, non à Dieu et a l'Eglise, Analyse d'une Situation actuche, Loncilium 93 (1974) 21-22. 41 Ibid., 22-24. 41a Dieu different, Parigi 1977, 82. 41 La dottrina delle tre persone divine è vista come un'interpretazione tradizionale, nei riguardi della quale l'autore pone delle riserve41b. Più specialmente l'affermazione del concilio di Nicea è giudicata non esente da malintesi41c. Duquoc vuole allontanare un Gesù che si sostituirebbe « all'Assoluto rappresentato, nel nostro linguaggio, dal simbolo di Dio », o che sarebbe un'idolatria. Infatti, Gesù è sempre considerato come un uomo in relazione con Dio, ma che non può essere identificato con Dio. Il Gesù storico non ha avuto pretese divine; i passaggi evangelici che indicano questa pretesa, vengono dalla comunità cristiana41d. Anche il vocabolo « Padre » applicato da Gesù a Dio, non era, come tale, originale; ciò che è nuovo è che Gesù l'invoca come Padre sulla base di un'azione di liberazione, considerando Dio come colui che infrange ogni oppressione41e. Duquoc reagisce soprattutto contro la pretesa della Chiesa di possedere la verità assoluta; respinge vivacemente quello che chiama « l'ideologia unitaria » della Chiesa, la concezione secondo cui « tramite i suoi mandanti, le Chiese, Dio impone dei dogmi, precisa le norme morali... »41f. Favorisce l'accettazione positiva delle altre religioni in nome della legittimità della differenza fondata sulla
differenza di Dio, espressa dal simbolo trinitario41i. « Rivelandosi in Gesù, Dio non assolutizza una particolarità »; « nessuna particolarità storica è assoluta »41h. E, per finire, la sua dissidenza in rapporto alle posizioni tradizionali della Chiesa, l'autore la giustifica con il fatto che « il Dio di Gesù è un Dio dissidente »41i. Si vede emergere meglio il principio soggiacente alla teologia di Duquoc: il Gesù storico non può essere assolutizzato, e nemmeno la Chiesa può essere portatrice dell'Assoluto. La contestazione della Chiesa è legata alla contestazione dell'incarnazione dell'Assoluto in Gesù. 41b Ibid., 119-120. 41c Ibid., 32; cfr. 37-38. 41d Ibid., 13; 25. 41e Ibid., 45-47. 41f Ibid., 57-58. 41g Ibid., 139-141. 41h Ibid., 143. 41i Ibid., 148. 42 B) IL MOVIMENTO VERSO UN'ALTRA CRISTOLOGIA Altre recenti pubblicazioni sembrerebbero indicare che la corrente di pensiero che vuol modificare l'immagine tradizionale di Gesù, estende la sua influenza. 1. «Iniziazione teologica » al Cristo Salvatore Due quaderni, nel quadro di una « iniziazione teologica » ci presentano la risposta alla domanda: « Chi è Gesù, il Cristo, il Salvatore? »c. L'autore ci avverte che, nel primo quaderno, ha deliberatamente scelto di considerare Gesù soltanto sotto l'aspetto della sua umanità: « Non ci è possibile, dice, considerare nello stesso momento le due facce di una moneta ». Come pure « non è possibile nello stesso discorso, perlomeno in un primo tempo, parlare di Gesù come uomo e come Dio, abbracciare il mistero di Gesù sotto un solo sguardo »43. L'autore si limita dunque a presentare Gesù come uomo, sperando che la sua ricerca non appaia « come un'operazione riduttrice »44. Tuttavia la rapida interpretazione che ci offre dei dati evangelici, riduce le dimensioni del Gesù della fede tradizionale. È un Gesù che si e sbagliato sulla propria sorte, perché secondo ogni . verosimiglianza attendeva di essere lapidato, non pensando alla crocefissione, ossia ad un intervento del potere politico romano. Inoltre aveva pensato che i suoi discepoli sarebbero precipitati con lui nella sua Passione45. I fatti hanno smentito il suo modo di vedere. All'inizio del suo ministero, il profeta galileo chiamato Yesciu aveva conosciuto un periodo di euforia: credeva che gli ultimi tempi fossero prossimi e che con questa venuta del Regno, egli sarebbe stato esaltato nella gloria. Sperava in una conversione in massa delle folle. Ma dopo qualche tempo aveva dovuto arrendersi all'evidenza e convincersi che la sua predicazione era stata un fallimento: il popolo non si convertiva46. Alla luce della persecuzione dei profeti, si rese conto che anche lui sarebbe stato un profeta martire. 42 Jesus Sauveur, Cahiers de la Tourette, serie blu, 6 e 7, 2ª edizione, L'Arbresle. 43 Cahier 6, 2. 44 Ibid., 30. 45 Ibid., 11 e 28. 46 Ibid., 18-21. 43 Gesù dunque è stato superato, dall'inizio alla fine, dagli avvenimenti. Gli annunci della Passione che si trovano nei vangeli sono il risultato del lavoro della Chiesa primitiva. Aveva almeno coscienza del valore redentore della sua morte? Non è certo, ma si presume fortemente che egli si sia riconosciuto nella figura del Servo sofferente ed abbia visto la sua Passione come destinata a guarire la moltitudine degli uomini 47. D'altra parte egli credeva certamente che Dio gli avrebbe accordato la sorte felice promessa in modo speciale ai giusti martiri e ai profeti. Non si può provare di più, benché si possa dire, con una certa verosimiglianza, che, invitando i suoi discepoli a riunirsi dopo la sua morte, Gesù annunciasse che Dio lo avrebbe risuscitato prima della fine del mondo48. Nella sua predicazione, cosa esige per la conversione? Una cosa sola: « la fede, ossia la fiducia in Dio »49. Non si tratta, notiamolo, di fede in lui stesso. Quanto all'invocazione « Abbà », essa è originale, ma cosa significa? Che Gesù si sapesse mandato per comunicare la rivelazione di Dio, perché Dio si era fatto conoscere a lui come Padre. Non si può attribuire all'invocazione un significato propriamente dogmatico, sottolinea l'autore, citando J. Jeremias, secondo cui il tono familiare e quotidiano del termine Abbà interdice di dedurne una cristologia del Figlio di Dio50. Non meno riduttrice è l'interpretazione della dichiarazione di Gesù: « Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica può essere paragonato ad un uomo accorto che ha costruito la sua casa sulla roccia » (Mt. 7, 24). L'espressione « mie parole » impiegata di preferenza a «
parole della legge », indica l'autorità di Gesù. Ma questa autorità, l'autore la riferisce ad un aspetto strutturale comune a tutti i gruppi battisti51. Anche l'opposizione al Tempio sarebbe dipendente dai movimenti battisti. La parola di Gesù subisce una riduzione: in funzione delle correnti battiste e profetiche, è verosimile che il profeta di Nazaret si sia limitato a dire: « lo distruggerò questo Tempio » senza parlare di ricostruzione52. L'autore parla spesso di rigore esegetico, ma si ha l'impressione 47 Ibid., 24. 48 Ibid., 25-27. 49 Ibid., 14. 50 Ibid., U e 18. 51 Ibid., 29. 52 Ibid., 20. 44 che sia un rigore fortemente orientato, che scarta i testi dai quali emerge la coscienza che Gesù possiede della sua identità divina. Così egli ritiene che non vi sia stato processo davanti al Sinedrio53; quindi l'interrogativo posto da Caifà a Gesù sulla sua identità viene semplicemente eliminato. Il secondo quaderno aggrava questa opera riduttrice, giustificandola con una critica alla professione di fede di Calcedonia e con una presentazione dei titoli di Gesù. La formulazione di Calcedonia, due nature e una persona, attualmente c'induce in errore, pretende l'autore, riprendendo i concetti espressi da Schoonenberg e da altri, perché i termini hanno cambiato senso, dall'epoca di Calcedonia alla nostra. Noi abbiamo una definizione moderna, più psicologica, della persona come centro di coscienza e di decisione, mentre il concilio aveva utilizzato una definizione metafisica. La fede di Calcedonia ha dunque bisogno di una nuova formulazione 54. L'esame dei titoli di Messia, di Figlio di Dio, di Figlio dell'uomo, è ingannevole; nessuno di questi titoli sembra riflettere la coscienza oscura che Gesù ha di se stesso e della sua missione55. Alle incertezze di questa coscienza che sono già state evocate precedentemente sul genere di morte e sulla sorte dei discepoli, se ne aggiungono altre: l'attività miracolosa di Gesù « lo stupisce all'inizio e le sue guarigioni possono fallire. L'esperienza dell'insuccesso della sua predicazione alle folle lo sconcerta... Egli attendeva con fiducia la risurrezione promessa al Giusto martire, ma ignorava che questa avrebbe avuto un senso ancor più clamoroso »56. Vi erano anche delle certezze nella sua coscienza, ma secondo le certezze della sua coscienza chiara, si riconosceva semplicemente come uomo libero, Giusto perseguitato, inviato di Dio. « Niente lascia supporre che egli abbia avuto una chiara coscienza della sua filiazione divina, nel senso della confessione di fede. Ma egli era Figlio di Dio in questo senso, come Pasqua lo rivelerà ». D'altronde, « la logica della non-confusione delle nature non obbliga, domanda l'autore, a riconoscere francamente l'impossibilità che abbia avuto la coscienza umana di essere Dio? »57. È la Risurrezione che fa rico53 Ibid., 29. 54 Cahier 7, 3. 55 Cahier 7, 14. 56 Ibid., 15. 57 Ibid. 45 noscere in Gesù il Figlio e il Signore. « Gesù — anche se fosse da tutta l'eternità Signore e Cristo —, ha vissuto questa Incarnazione nel totale incognito della condizione umana, senza averne chiaramente coscienza. Si potrebbe dire ipoteticamente che Gesù di Nazaret, se supponiamo, per impossibile, che avrebbe potuto essere il testimone terrestre della propria risurrezione, avrebbe capito con esattezza questo evento nella maniera in cui l'hanno espresso le confessioni di fede primitive: Dio ha ratificato l'esistenza e la morte del Giusto perseguitato che io sono stato »58. « La Risurrezione ha tolto il velo. Egli non è soltanto l'ultimo dei profeti, il Giusto martire incomparabile, il Figlio di Dio nel senso in cui lo abbiamo definito nella tappa prepasquale, il Figlio dell'uomo sofferente, è Dio egli stesso in quanto suo Figlio unico eterno »59. L'affermazione della filiazione divina trascendente di Gesù conclude dunque i due quaderni. Ma questa affermazione è priva del suo fondamento evangelico, che è la rivelazione che Gesù stesso ha fatto della sua identità di Figlio di Dio. Essa non conserva più come base che la luce apportata dall'avvenimento della Risurrezione. Base fragile quale ci è presentata: come avrebbero potuto i discepoli concludere dalla Risurrezione alla filiazione divina, se Gesù stesso non ne avesse avuto coscienza e non ne avesse dato la testimonianza? Negando ai testi evangelici ogni valore di rivelazione dell'identità del Figlio di Dio nella vita terrena di Gesù, non ci si mette nell'impossibilità di fondare, anche alla luce di Pasqua, l'affermazione di questa identità? Inoltre, se il Gesù terreno non poteva comprendere la Risurrezione che come la ratifica da parte di Dio dell'esistenza e della morte del Giusto perseguitato, i discepoli
avrebbero potuto discernervi di più? Dei due quaderni della « Tourette », il lettore riterrà soprattutto l'esame dei testi e dei titoli, dai quali emerge che non vi sono affermazioni, da parte di Gesù, della sua identità divina. 2. Dossier Gesù Nel « Dossier Gesù »60 un buon numero di contributi ci presentano un Gesù notevolmente differente da quello del Vangelo e 58 Ibid., 18. 59 Ibid., 22. 60 G. BESSIERE, J. P. JOSSUA, A. LION, M. PINCHON, A. ROUSSEAU etc., Dossier Jesus. Recherche; nouvelles, Parigi 1977. 46 della fede cattolica. La concezione verginale è contestata nella sua realtà storica da H. Cousin e da J. Pohier61. Per quanto concerne la divinità di Cristo, Marcel Simon ci dice che l'originalità essenziale del cristianesimo paolino e deutero-paolino risiede nell'Incarnazione del Cristo-Logos62. M. Pinchon si dichiara guarito dall'idolatria di Gesù e afferma che « Gesù è un essere " relativo ", che non si trova come un fine o come un assoluto »". Il titolo scelto da J. P. Jossua è significativo: « Io parlo poco di Gesù »; egli stesso dichiara che vive poco la sua fede come una relazione personale a Gesù e che non la dice parlando di Gesù64. G. Bessiere mette in guardia contro gli equivoci dell'affermazione « Gesù è Dio » 65, e presentando il « Gesù senza uniforme » d'Olivier Rabut, rivela che « l'incertezza sulla fisionomia di Gesù ci aiuta a diventare liberi »66. Un'incertezza di questo genere appare anche nel pensiero di B. Feillet: « Noi parliamo poco di lui insieme, egli è sottinteso: anzi conviene di non discorrere troppo sul suo conto ». Questo metterlo in ombra si accorda col principio che « Gesù non è il termine: è Dio che noi attendiamo » 67. 3. Dimenticare Gesù L'opera di P. M. Beaude, « Gesù dimenticato », reagisce anch'essa contro il volto tradizionale di Cristo. Mette in luce l'errore col quale Gesù, condividendo le idee della sua epoca, ha annunciato una fine imminente dei tempi. È ai primi cristiani che appartenne il compito creatore di sormontare questo errore, organizzando delle comunità nelle quali si manifesta il regno. Ciò facendo si allontanano dall'insegnamento di Gesù: Gesù non annunciava se stesso, ed ecco che diventa colui che è proclamato68. Pasqua segna una rottura fra il messaggio di Gesù e quello dei primi cristiani. « Infatti, dice Beaude, i primi cristiani dovettero creare conti61 H. COUSIN, La conception virginale de Jesus - Approche exegetique, 20-23; J. POHIER, La conception virginale de Jesus. De quoi s'agit-il?, 24-27. Pohier pensa che fra madre-vergine e figliovetgine vi è una certa relazione sessuale (25). 62 M. SIMON, La divinite du Christ, 31. 63 M. PINCHON, Jesus, c'est taute une histoire, 157. 64 J. P. JOSSUA, Je ne parle guere de Jesus, 154. 65 G. BESSIERE, Jesus chiffre ou visage de l'absolu?, 170-173. 66 G. BESSIERE, Le « Jesus sans uniforme » d'Olivier Rabut, 166. 67 B. FEILLET, Les disciples de la rumeur, Etudes, giugno 1977, 835. 68 Jesus oublie. Les évangiles et nous, Parigi 1977, 79. 47 nuamente. Si potrebbe dire, con una sfumatura di paradosso, che la loro fedeltà a Gesù li condannava a non fare come lui, e, in una certa misura, a dimenticarlo ». In questo c'è, più ancora che un paradosso, una legge della vita. Freud non ha forse dimostrato che una delle leggi essenziali alla maturazione dell'uomo e la partenza? « Ora partire è sempre operare una rottura, relegare nel passato il luogo lasciato. Nella sua prima giovinezza, il bambino si assimila al padre che concepisce come un rivale. Dalla tensione che ne risulta deve uscire " l'omicidio " del padre, essenziale alla strutturazione del figlio come figlio »69. « Non è esagerato lasciare intendere che i primi cristiani non hanno esitato a praticare " l'omicidio " del loro padre fondatore: Gesù ». « Essi hanno saputo lasciarlo, praticare la partenza che, sola, li avrebbe instaurati in comunità adulta. La loro epoca non era più quella di Gesù, relegata nel passato »70. Oltre alla « partenza » che costituisce il cambiamento nella visione dell'approssimarsi della fine dei tempi, vi e quello dell'apertura della giovane Chiesa ai pagani. Gesù aveva raccomandato ai suoi discepoli di non prendere la strada dei pagani, ma i discepoli hanno agito in senso contrario, in virtù di una fedeltà creatrice. Che vi sia fedeltà si conferma col fatto che non c'e una partenza assoluta. Il figlio certo deve « uccidere il padre » per conquistare il suo vero statuto di figlio; tuttavia conserva sempre un debito verso di lui. L'immagine del padre torna a visitarlo e a tormentare i suoi sogni. Il padre non è morto; riempie il nostro inconsciò e compie un ruolo permanente nella nostra vita cosciente attuale »71.
è più specialmente la creatività che si manifesta nella fede nella risurrezione. Già nell'Antico Testamento l'idea di risurrezione era apparsa come « una vera creazione dello spirito credente » 72. La risurrezione di Gesù è « un atto ricreatore del Padre in favore del suo Servitore », ma d'altra parte ponendo questa affermazione, la fede cristiana è creativa; essa dichiara che « ciò che la speranza giudaica pone per la fine dei tempi è già sopravvenuto nella persona del suo profeta crocifisso »73. Beaude, che riprende la critica fatta al concilio di Calcedonia, 69 Ibid., 90. 70 Ibid., 90. 71 Ibid., 93. 72 Ibid., 193. 48 si compiace di opporre il dogmatico e lo storico. Vuole che si ridoni Gesù alla storia, dilungandosi sulle conquiste della critica storica dei vangeli. Tuttavia condanna coloro che vogliono risalire al volto storico di Gesù. Sottolinea la relatività di ogni « ritratto » di Gesù, o di ogni discorso su Gesù, che somiglia sempre al suo autore. Pretende che Gesù stesso abbia voluto essere dimenticato. Ed inoltre è del parere che interessarsi al volto storico di Gesù, è rifiutare quella partenza che ci costituisce figli74. Non bisogna dunque ricercare una stabilità, una sicurezza in un ritratto di Gesù, nella determinazione di ciò che Gesù ha voluto, ha fatto, ha detto. Occorre piuttosto accettare la continua mobilità delle diverse interpretazioni che ei offrono i testi. 4. Suscitare Gesù Cristo e Signore L'opera di J. Pohier « Quando io dico Dio » è contraddistinta da un intellettualismo che vuol essere creatore, e da una riflessione individualista, molto critica nei confronti del pensiero tradizionale della Chiesa. L'autore se la prende specialmente con l'infallibilità pontificia e con la gerarchia sacerdotale; nel suo esposto sull'Eucaristia, afferma che la presenza di Dio-con-noi è assicurata non tanto dal ministro consacrante quanto dalla comunità dei credenti, uomini e donne; e il fatto dei credenti che si nutrono di Cristo con la fede, che assicura questa presenza75. Quanto a Gesù di Nazaret, è descritto come « presenza massimale di Dio con un uomo, di Dio-con-noi gli uomini »76. Gesù è stato un « atto di Dio, una venuta di Dio ». Dio si è reso presente in lui e per mezzo di lui. Come caratterizzare questa presenza? È una presenza per modo di Shekinah, ossia « il modo di presenza più perfetto di Dio in ciò che non è Dio » 77. È un modo di presenza che non abolisce la distanza e che richiede uno spazio aperto per questa distanza »78. Ma questo Gesù è Dio nel senso della fede della Chiesa cattolica? L'autore non afferma che è la persona divina del Figlio. Sem73 Ibid., 196. 74 Ibid., 145-6. 75 Quand je dis Dieu, Parigi 1977, 62. 76 Ibid., 45. 77 Ibid., 192. 78 Ibid., 48. 49 bra conservare la nozione di Dio e della sua presenza tale quale si è rivelata nell'Antico Testamento. Una presenza di Dio per modo di Shekinah nell'uomo Gesù, ricorda il nestorianesimo, che si compiaceva ad affermare la presenza del Verbo in Gesù come in un tempio. Comunque sia, non si tratta, nella teoria elaborata da Pohier, di un'incarnazione della persona del Figlio. L'autore manifesta d'altronde le sue riserve nei riguardi della cristologia di Calcedonia, quella del Gesù vero Dio e vero uomo79. E commentando l'espressione di Nicea « Deum de Deo », la spiega dicendo che Gesù viene da Dio, « il Dio che egli identifica viene da Dio, il Dio per il quale egli s'identifica viene da Dio » nel senso che egli ha proposto un'idea di Dio completamente differente dalle idee umane su Dio80. Rievocando la condizione di Gesù dopo la sua morte, Pohier non esita a dire: « Sono io il segno e l'agente di quello che è stato chiamato la divinità di Gesù. Sono io che faccio Gesù Cristo e Signore in quanto io facciò risorgere quello per mezzo del quale e per il quale Gesù è vissuto, ossia la sua idea di Dio. In quanto la mia fede fa prendere corpo al suo Spirito... »81. Trattando della Risurrezione, l'autore afferma in effetti: « Dio e noi possiamo far risorgere Gesù ». Questo è il titolo di un capitolo82. « Se Gesù deve essere nuovamente suscitato e se davvero egli è stato una figura privilegiata di Dio-con-gli-uomini, allora Dio non basta a suscitarlo di nuovo, e Gesù non sarà risuscitato che là ove l'uomo lo susciterà di nuovo »83. Perché in quanto uomo, « compete a me di suscitare, d'effettuare il Dio-con-noi », poiché si tratta di un incontro. Pohier scrive, non « ressusciter » (risuscitare) e « resurrection » (risurrezione), ma « resusciter » (suscitare di nuovo) e « resurrection » (risurrezione)84. La trilogia Pasqua-Ascensione-Pentecoste è lo sviluppo letterale e simbolico dell'esperienza dei giudei
per i quali Gesù era divenuto quello che era stata la loro celebrazione della Pasqua, la loro attesa del Figlio dell'uomo e del ritorno dello Spirito85. Non è la costatazione di un fatto che ha generato la fede nel 79 Ibid., 223. 80 Ibid., 226. 81 Ibid., 226. 82 Ibid., 191. 83 Ibid., 194. 84 Ibid., 198. 85 Ibid., 199. 50 risorto, ma è il credere in Gesù che, per i discepoli, li fa credete in Gesù risuscitato e fa dire loro che è risuscitato86. Dunque non vi è stato un avvenimento, propriamente detto, di risurrezione. Pohier reagisce ugualmente contro i credenti che da venti secoli hanno deposto sotto la croce tutte le loro sofferenze. La croce, egli dice, non è la capitale del dolore87. D'altra parte egli ritiene che Gesù abbia sofferto poco e che anzi abbia avuto molta fortuna88. Protesta anche contro le interpretazioni redentrici della morte di Gesù. Così né l'Incarnazione del Figlio di Dio, né la Passione redentrice, né la risurrezione di Gesù, sono mantenute in questa « ricostruzione » teologica. 5. Il volto di Gesù in un colloquio di cristologia In un colloquio di cristologia che si è tenuto a Quebec nel 1975 m alcune relazioni erano Orientale verso una cristologia non calcedoniana. Gesù relazione Raymond Bourgault ritiene che « la definizione di Calcedonia non deve essere considerata come un fine, ma come un mezzo d'altri tempi, ancora utile ma non assolutamente necessario. Essa fa parte di un simbolo di fede che fu voluto come un segno di riconoscimento e di accordo in un tempo in cui bisognava conservare l'unità dell'impero contro i Barbari e preservare la comunione fra i cristiani, e nel quale la coppia concettuale Dio-Uomo reggeva per gran parte tanto la pratica politica che la dottrina ecclesiale. Ma è evidente che queste due parole-chiavi oggi non hanno più il senso, o in ogni caso, la portata che avevano nei grandi secoli dell'epoca patristica del Basso Impero ». È difficile, « con i concetti sostanzialisti di divinità e di umanità, di ottenere l'ascolto degli uomini d'oggi che sono più 86 Ibid., 200. 87 Ibid., 175. 88 Ibid., 177-178. 89 Le Christ, hier, aujourd'hui et demain. Colloquio di cristologia tenutosi all'Università Laval (21 e 22 marzo 1975), pubblicato da R. LAFLAMME e M. GERVAIS, Stampe dell'Università Laval, Quebec 1976. 51 influenzati da una mentalità occidentale contemporanea ». « La " teandrologia " calcedoniana ci appare oggi come un linguaggio situato che deve essere relativizzato, ossia messo in rapporto con altre quantità dello spazio-tempo dello spirito »90. Le vecchie categorie potrebbero essere rimpiazzate da quella di relazione: « Un cristiano può pensare che i discorsi tradizionali, teologico e metafisico, esistano sempre e per sempre... Ma può in pari tempo essere sensibile al fatto che, nel discorso che è in via di costituirsi, per tutta una categoria forse profetica di pensatori, sola è intelligibile la relazione. " Dio " è " Uomo " non sono più per essi i dati a partire dai quali lo spirito riflette, ma sono piuttosto ormai oggettivati come delle masse inerti nel campo dei nostri discorsi senza fine. Hanno cessato di essere pensabili per se stessi, non hanno senso, non è più possibile sostenere senz'altro che Gesù è nello stesso tempo Dio ed uomo, si richiede un discorso preliminare che renda pertinente questo linguaggio. Non bisogna pertanto disperare dello spirito. Vi fu l'Essere, vi era la Sostanza, vi può essere la Relazione, che sarebbe la fortuna (" chance ") del nostro pensiero » *. « Ci sembra che nella misura in cui la riflessione cristiana su Gesù imparerà a tornare dal Signore esaltato al Gesù della storia, nel quale già parlava la Parola, che è una luce che brilla nelle tenebre, essa si compiacerà di rappresentarsi una Relazione la cui sussistenza è costantemente minacciata da un Avversario che cerca di divorare gli altri figli della Donna che la grande aquila ha portato nel deserto »92. è nella parola « Signore » che Bourgault coglie la tematizzazione della relazione dei fedeli a Gesù, proponendo una « cristologia orante ». Il profeta escatologico
Nello « sviluppo di un'istantanea cristologica », Andre Myre propone una cristologia centrata su Gesù, profeta escatologico. Egli fa un saggio di « ritraduzione » della « vecchia cristologia neotestamen90 R. BOURGAULT, Pour une christologie priante, operatrice et relationnelle, nel Le Christ, 108. 91 Ibid., 115. 92 Ibid., 116. 52 taria ». « Essendo radicalmente modificate le circostanze, per il passare del tempo e delle civiltà, le realizzazioni dei credenti del passato (in tutti i campi) oggi non sono più trapiantabili tali e quali », ma esse possono servire da modello dinamizzante. Egli riunisce dei dati del Nuovo Testamento per stabilire questa cristologia e conclude: « la cristologia del profeta escatologico porta ancor oggi in se stessa un dinamismo di significato capace di esprimere e di motivare tutta la fede di una Chiesa del ventesimo secolo ». Essa « offre alla fede un approcciò funzionale, una parola profetica incisiva, un'attività sovranamente libera, e un profondo dinamismo di liberazione. A dei cristiani che sono alla ricerca di Gesù Cristo, questa cristologia ha il vantaggio di offrire un quadro concettuale che presenta loro un Gesù Cristo in cui essi si vedono interpellati in termini con i quali si sentano in connaturalità e nel quale ugualmente comprendano teologicamente ciò che cercano di vivere spontaneamente, senza poterlo giustificare » 93. Questa cristologia « è idonea a dare il cambio se la Chiesa lo giudica conveniente »94. Il figlio adottivo Da parte sua Jean Richard considera come preponderante il titolo di « Figlio di Dio »; giudicherebbe dunque insufficiente una cristologia del profeta escatologico. Ma vorrebbe intendere la filiazione divina di Gesù in senso adozionista. La filiazione adottiva non dovrebbe essere compresa nel senso di un modo giuridico di filiazione, ma di un modo spirituale e personalistico: « la filiazione divina di Gesù si realizza con la parola, con la dichiarazione, con la chiamata del Padre » 95. Questa interpretazione adozionista, dice Richard, non si oppone né al fatto della filiazione divina di Gesù da sempre, né al dogma della consustanzialità. In questo senso essa si distingue dall'adozionismo dei primi secoli, per il quale Gesù era uomo, puramente e semplicemente. «Noi intendiamo qui filiazione adottiva nel senso di filiazione per modo di adozione, in opposizione a filiazione per modo 93 A. MYRE, Developpement d'un instantane christologique. Le prophete eschatologique, nel Le Christ, 362. 94 Ibid., 363. 95 J. RICHARD, « Fils de Dieu ». Reconsideration de Interpretation adoptioniste, nel Le Christ, 439. 53 di natura. La realtà ontologica della filiazione divina non è dunque rimessa in questione, ma lo è soltanto il suo modo di rappresentazione »96. Non si tratta più di generazione « fisica » né di filiazione « naturale », ma la paternità di Dio è la filiazione di Gesù non sono pertanto meno reali né meno vere. Non sono una paternità ed una filiazione simboliche97. La filiazione di Gesù si definisce per mezzo della conoscenza del Padre, e dell'obbedienza al Padre. « L'importante per Gesù non è di essere generato da Dio, ma di compiere la sua volontà. Perché è solo per questo che egli è davvero Figlio ». La distinzione radicale fra la filiazione divina di Gesù e la nostra rimane d'altra parte sempre così evidente qui, anche se non si può più esprimere in termini di filiazione naturale e di filiazione adottiva. Essa consiste precisamente nella perfezione assoluta dell'obbedienza di Gesù, nel fatto che lui solo vive l'Alleanza con Dio senza peccato » 98. È così che Richard c'invita ad una conversione radicale nel senso della demitologizzazione: « l'antropologia contemporanea costituisce per noi una occasione favorevole in proposito. Poiché essa stessa ci invita a spezzare la scorza della letteralità dell'immagine ed a passare dal fantasma al vero simbolo del padre. Bultmann in ciò aveva visto giusto, pensando che l'analisi esistenziale avrebbe fornito un eccellente strumento per il progetto cristiano di demitologizzazione » .99 96 Ibid. 97 Ibid., 444. 98 Ibid., 451. 99 Ibid., 464. 54 CAPITOLO III SAGGI CRISTOLOGICI DI LINGUA SPAGNOLA Considereremo innanzi tutto tre saggi che cercano di presentare una nuova figura di Cristo, differente da quella della fede tradizionale, e che tentano di attribuirgli una « divinità antropologica »; in seguito presenteremo brevemente un progetto di nuova orientazione catechetica.
A) L'UMANITÀ NUOVA, SECONDO J. I. GONZÄLEZ FAUS Nella sua opera intitolata « L'umanità nuova », J. I. González Faus definisce Gesù essenzialmente per la sua umanità: « egli è l'uomo Assoluto; e lo è perché è un uomo per gli altri, lo è perché è l'uomo-diDio e per Dio » 1. 1. Dal concilio di Calcedonia al linguaggio moderno L'autore respinge la dualità di natura enunciata del concilio di Calcedonia. Ritiene che quando si parla di umanità e di divinità in Gesù, il solo significato possibile è quello di « umanità di Dio ». Alla formula « Gesù è Dio », bisogna preferire l'affermazione di Paolo: « Il Cristo è di Dio »2. Perché è inammissibile l'affermazione di « due nature »? Perché implica un concetto univoco di natura: ora non si può parlare 1 La Humanidad nueva, Ensayo de cristologia, Madrid 1974, 501. 2 Ibid., 506. 55 di « natura divina » nel senso in cui si parla di << natura umana ». Anche la teoria scolastica dell'analogia non potrebbe rimediare a questa incapacità concettuale, perché nell'analogia la dissomiglianza è molto più grande della somiglianza. Parlare di due nature è misconoscere questa dissomiglianza; infatti la divinità è sempre l'incognita, e non può mai essere oggettivata in Gesù3. Lo stesso dicasi della sussistenza; l'affermazione di Calcedonia di una sussistenza e di due nature ha il torto di supporre in Dio una distinzione fra natura e sussistenza, come esattamente potrebbe essere per l'uomo, mentre essa è radicalmente differente. Inoltre, ciò che nel linguaggio moderno appartiene al mondo della personalità, e di competenza non dell'ipostasi degli antichi, ma della natura quale essi la concepivano. Nel senso moderno Gesù è una persona umana. La sua natura umana non è astratta ma concreta, ed implica una personalità, con l'attività di coscienza, di libertà e di responsabilità. È partendo da questa natura umana che bisogna comprendere la sua divinità. Gesù non è Dio e uomo: è « Dio nel suo essere umano »4. Quello che si chiama unione ipostatica deve essere compreso alla luce della definizione moderna dell'uomo. Gesù è l'uomo fra gli altri, e la sua esistenza umana è la rivelazione di ciò che Dio è per gli uomini, e di ciò che l'uomo, nel più profondo del suo essere, è per Dio5. Come giustifica l'autore le distanze prese dalle definizioni di Calcedonia? Non è più possibile, egli dice, conservare l'affermazione metafisica di quel concilio, in un mondo che ha attraversato la crisi della conoscenza e la crisi del linguaggio. La formula valeva per la cristianità greca, dato il suo ottimismo epistemologico e la sua armonia fra ontologia e salvezza; ma essa non è più valevole per noi oggi. Certamente dobbiamo rimanere in comunione con coloro che hanno espresso la loro fede a Calcedonia, ma questa comunione può coesistere con la disuetudine nella quale è caduta la formula, senza giungere ad una contraddizione formale. Si tratta per noi di ribadire la fede in modo tale che possa essere verità di salvezza6. 3 Ibid., 502-505. 4 Ibid., 506. 5 Ibid., 231, 507. 6 Ibid., 509. 56 2. La coscienza di Gesù Nella sua vita terrena Gesù non ha coscienza di essere Dio: ha una coscienza umana e si vede come uomo. Non pensa di essere Dio: pensa di essere il « Figlio » e che Dio è suo Padre. Egli si considera come procedente totalmente da Dio e come apertura a Dio7. Se avesse avuto coscienza di essere Dio, non avrebbe potuto avere la fede in Dio; ma i vangeli ci mostrano che Gesù ebbe questa fede, che non è soltanto credere nella esistenza di Dio, ma dono totale a lui nella fiducia8. Ciò che caratterizza fondamentalmente la vita di Gesù è « la pretesa avanzata in nome di Dio col quale sa di essere in particolare intimità, di un uomo nuovo, " utopico " »9. Si sa che l'espressione « utopia » è impiegata nelle teologie della liberazione, che si ispirano al marxismo, per designare il progetto ideale di nuova società. L'autore si accosta a questa prospettiva, in una cristologia centrata sull'uomo; all'inizio dell'opera è significativa la citazione di K. Marx sull'emancipazione dell'uomo, che precede la citazione del vangelo di Marco 10. Gesù dunque non ha rivendicato un'identità divina; molto probabilmente non ha avuto neppure coscienza di essere il profeta escatologic11, e per quanto concerne il titolo di Messia, ha respinto positivamente questa designazione12. Ma dopo la Risurrezione gli furono dati alcuni titoli, specialmente quello di Figlio di Dio, e si è arrivati a considerarlo come Dio. 3. La divinità, estensione della possibilità dell'essere umano
L'identificazione tardiva di Gesù con Dio ha un fondamento nella realtà, che l'autore spiega vedendo in essa un'interpretazione 7 Ibid., 118-119. 8 Ibid., 135. 9 Ibid., 661. 10 L'autore espone per inciso il suo parere sul marxismo, comparando il problema che attualmente pone alla Chiesa con quello che aveva posto la critica storica del Nuovo Testamento concernente i titoli cristologici. La reazione e quella del panico. « La Chiesa attende che il marxismo sia cristiano per un effetto magico, per accettarlo in seguito. Ma non si rende conto che il marxismo potrà essere cristiano solo quando vi saranno dei cristiani che siano marxisti » (364). 11 Ibid., 365. 12 Ibid., In appoggio a questa interpretazione, l'autore cita il secondo volume della Christologie di Ch. Duquoc. 57 autentica dell'umanità del Gesù terreno, e proponendo una concezione filosofica dell'uomo che permette di comprendere la divinità di un essere umano. « L'uomo, egli dice, è un essere che non è identico a se stesso, ma che trascende se stesso continuamente e senza limite »13, come hanno contribuito a dimostrarlo il marxismo moderno e l'esistenzialismo. L'essere è dato all'uomo come compito e progetto di se stesso. L'uomo non è pura libertà; ma deve assumere la sua natura nella sua storia personale. Tutti i titoli di Cristo, e la sua divinità, devono essere considerati come una più grande estensione delle possibilità del suo essere umano. Non si tratta di possibilità metafisica, ma di possibilità esistenziale o storica. Questa possibilità è positivamente infinita e non solamente indefinita. La divinità di Gesù non è qualcosa che gli è stata data ad un momento concreto, né qualcosa che paralizzerebbe l'essere umano. Gesù possiede la sua divinità come possibilità del suo essere che deve realizzare. É Figlio di Dio, ma « secondo la carne », ossia nel senso che deve pervenire ad essere Figlio di Dio; lo è per natura, mentre noi non lo siamo che per grazia e partecipazione. Egli consuma il suo essere divenendo Dio. così si spiega la qualità divina che impregna la sua carne dal momento della risurrezione. Questa spiegazione della divinità di Gesù salvaguarda totalmente, più di altre, la sua umanità poiché è nel più intimo della sua umanità che si radica la sua divinità. Per farlo capire meglio, l'analogia migliore sarebbe quella offerta da A. Hulsbosch: come l'uomo, fin dallo stato embrionale, si differenzia essenzialmente dall'animale, così Gesù, fin dall'inizio della sua esistenza, si differenzia da tutti gli altri uomini14. All'obiezione che Dio, essendo l'assoluto è il necessario, non può essere concepito come una possibilità, l'autore risponde che si tratta precisamente di una possibilità non metafisica, ma storica, simile alla nostra possibilità che consiste nell'essere uomini. Ma l'obiezione riemerge: Dio può essere sottomesso all'evoluzione, alla storia? Qui deve intervenire la nozione d'Incarnazione come kenosi; non si può restringere la Rivelazione ad una conferma dell'idea filosofica 13 Ibid., 230. 14 Ibid., 230-231. (Cfr. A. HULSBOSCH, Jezus Christus, gehend als mens, beleden als Zoon Gods, Tijdschrift voor Theologie 6 (1966) 270). 58 di Dio. Infatti questa Rivelazione oltrepassa la ragione, e la teologia deve ammettere la sua « dotta ignoranza » 15. 4. La sussistenza divina Illuminante del pensiero dell'autore e ancora la spiegazione dell'« unità d'ipostasi » affermata da Calcedonia 16. La « sussistenza divina » di Gesù significa che il principio di sussistenza o di realtà dell'uomo Gesù è Dio stesso, nel senso che « Dio riproduce la sua propria identità nel Figlio che è la propria e totale autoespressione ». Questo suppone che in Dio vi è un principio capace di sostenere come suo l'altro, principio che noi chiamiamo la Parola, il Logos o il Figlio. Tale è il senso della pluralità di soggetti in Dio, perché non vi è in lui pluralità di persone, nel senso moderno del termine, visto che non vi è pluralità di coscienze e di centri di decisione. La pluralità dei soggetti forma in Dio una comunità che si prolunga nell'Incarnazione: il Logos è principio di relazione di Gesù al Padre, relazione filiale. La sussistenza indica la maniera con cui l'umano è reale in Gesù: non è reale in modo contingente e limitato come è reale negli altri individui, ma in maniera assoluta. Sussistenza divina significa dunque modo assoluto di realizzazione dell'umano. Essa indica ugualmente, differenziandosi dalla forma autoaffermativa e autopossessiva della realtà umana degli altri uomini, una forma referenziale di ricezione e di dono di se. Contrariamente a P. Schoonenberg17, l'autore non pensa che l'assenza di una sussistenza puramente umana in Gesù implichi una mancanza d'umanità: tutto l'umano esiste in Gesù, ma vi esiste in maniera
non contingente. Affermare la sussistenza divina (che non è sinonimo di « personalità » divina) è negare il sostegno puramente contingente dell'umano, e dare a questo umano un'affermazione ontologica infinita. Negare questa sussistenza divina, sarebbe disumanizzare l'umano, perché la pretesa ad una sussistenza assoluta e una pretesa ontologica dell'essere umano. 15 Ibid., 231-232. 16 Ibid., 497-502. 17 Nella nota 20 della p. 499, l'autore sviluppa le sue critiche concernenti la posizione presa da Schoonenberg nella sua opera Un Dios de los hombres (Ein Gott der Menschen) su Calcedonia, e la formula cristologica proposta, quella della natura divina ipostasiata nella persona di Gesù, in luogo della natura umana ipostasiata nella persona del Logos. 59 Infatti, sperimentarsi come soggetto, è sperimentarsi come unico, e in questo senso come assoluto. Ma oltre questa affermazione assoluta di se, legge della soggettività, vi è una legge della persona o della comunità, secondo la quale l'uomo deve accettare altri soggetti nel dono di se. I due aspetti si verificano in Gesù: l'uomo Gesù possiede una sussistenza divina, quella dell'Assoluto stesso. E siccome Dio è amore, così questa sussistenza è puro riferimento all'altro. In questo modo l'essere umano unisce in Gesù l'affermazione di se è il dono di se. L'unica sussistenza divina non esclude d'altronde che si possa parlare di sussistenza umana di Gesù, nel senso che si tratta della sussistenza della sua umanità, quella che dona alla sua umanità la sua realtà e ne fa un assoluto. Il torto di Calcedonia è stato quello di separare in Gesù una essenza umana operante come umana e la sussistenza del Figlio: il principio di sussistenza degli esseri non può venire isolato dall'essenza, e la distinzione fra natura e sussistenza è incomprensibile. 5. L'opera della salvezza Per quanto concerne l'opera della salvezza, l'autore ammette che Gesù ha visto approssimarsi la sua morte e ha fatto affidamento su di essa. Ma trova che la presentazione della morte fatta dal vangelo di san Giovanni è meno conforme alla storia di quella di Marco, e giudica che « Gesù ha vissuto la sua morte non tanto come dono di se, ma come un insuccesso » 18. Considera molto discutibili le opinioni esegetiche in questo campo. Riduce ad una semplice interpretazione teologica la rappresentazione della morte del Figlio che si abbandona al Padre, e preferisce definire questa morte come quella del profeta, del giusto e del servo. Ciò che la caratterizza è la fede dell'uomo che si abbandona in Dio. Il teologo non ha basi scritturali sufficientemente solide per affermare che Gesù attribuiva alla sua morte un valore redentore 19. L'autore vuol dimostrare che il linguaggio di espiazione del Nuovo Testamento è metaforico, come la nozione di soddisfazione proposta più tardi da sant'Anselmo. Il peccato infatti non può essere chiamato offesa di Dio che per il danno causato all'uomo: « l'infi18 Ibid., 128. 19 Ibid., 131-145. 60 nità» del peccato non è altro che l'irreparabilità di questo danno. La vera soddisfazione dunque non può consistere che nella restaurazione della natura dell'uomo, o in termini ancor più semplici: « la soddisfazione di Dio e la Nuova Umanità »20. Ciò che si può ritenere dalla dottrina della soddisfazione, e che per la realizzazione dell'uomo nuovo il « materiale » impiegato è quello delle conseguenze del dinamismo del male che l'uomo ha impresso nella storia: la morte, la condanna del giusto, e le leggi che vi sono legate. Si comprende meglio che l'autore mantiene ugualmente il merito di Gesù nella sua morte. Questo merito esprime l'esigenza interna dell'opera intrastorica per l'ottenimento della salvezza escatologica. Per il regno escatologico vale l'espressione impiegata per il regno intrastorico: « il socialismo bisogna meritarlo »21. Come nel Cristo non vi sono due piani sovrapposti, uno della divinità e l'altro dell'umanità, così bisogna riconoscere che non vi sono due piani nella storia che è una, la salvezza escatologica e la liberazione umana. Non si accede alla salvezza escatologica che attraverso lo sforzo di liberazione umana22. L'autore che deliberatamente ferma la sua considerazione della tradizione ecclesiale alla Riforma, rifiutando di tener conto della Contro-riforma, testimonia particolarmente quanto apprezzi certi aspetti della reazione di Lutero, che oppone più radicalmente Dio e l'uomo peccatore. Egli pensa che alcune dosi di luteranesimo, ben somministrate, farebbero un gran bene a molti cattolici, e più specialmente ai teologi che elaborano una cristologia in cui è implicata la ratificazione dello statu quo, e dove è esclusa la possibilità del « no » radicale quale l'indirizza al mondo l'attuale teologia dell'America Latina23. B) IL CRISTO, CAMMINO VERSO DIO, SECONDO J. SOBRINO Dal Centro di Riflessione Teologica di San Salvador si presenta a noi una cristologia come prodotto
dell'America Latina, nella linea del movimento teologico segnato dai nomi di Comblin, Gutierrez, 20 Ibid., 543. 21 Ibid., 563. 22 Ibid., 508. 23 Ibid., 617. L'autore critica più particolarmente la cristologia di Schoonenberg per aver ridotto il problema ad entità astratte (Dio e l'uomo) dimenticando l'opposizione irriducibile tra Dio e il peccato: «teologia troppo buona », scrive. 61 Vidales, Assmann, Miranda, L. Boff. La teologia latinoamericana, dice Sobrino, nel vocabolo « liberazione » esprime la coesistenza di due esperienze fondamentali, quella della necessità della liberazione e quella della sua impossibilità storica. La cristologia considera in Gesù la via della liberazione24. 1. La relazione al regno di Dio Il Gesù storico e ridotto a dimensioni assai modeste. « Nella predicazione di Gesù nulla appariva di totalmente nuovo »; vi e semplice radicalizzazione dei dati emessi anteriormente sul regno di Dio. « Bisogna comprendere Gesù, in primo luogo, come un riformatore religiöse che predicava le migliori tradizioni d'Israele ». È stato certamente un « liberale » o un « non-conformista » in rapporto alla realizzazione concreta di queste tradizioni, ma si e primieramente identificato ad esse B. Il regno di Dio che egli predica e liberazione, ed e così che i peccatori ai quali perdona sono il tipo di quelli che sono oppressi nella società. Il perdono dei peccati, i miracoli e tutta l'attività di Gesù non possono essere utilizzati per dimostrare la sua divinità. Indicano il regno di Dio al servizio dei quale si e messo Gesù 26. Dal fatto che Dio esiste in quanto regna, ossia in quanto e libero e crea la solidarietà umana, l'accesso a Dio non e possibile che in una prassi liberatrice al seguito di Gesù27. è a partire dalla relazione al regno di Dio che bisogna comprendere la coscienza di Gesù. L'autore critica la teologia tradizionale secondo la quale l'uomo Gesù, nella sua vita terrena, sapeva di essere Figlio di Dio nel senso stretto e metafisico dei termine. Dopo D. F. Strauss, egli osserva, i testi evangelici sui quali si fondava questa affermazione dogmatica, non sono più considerati come parole autentiche di Gesù (Gv. 10, 30.36.38; Mt. 11, 27). Del pari, ogni dimostrazione di coscienza messianica sulla base dei titoli presentati nei vangeli, sarebbe, dal punto di vista esegetico, molto di 24 J. SOBRINO, Cristologia desde America Latina (Esbozo a partir dei seguimiento dei Jesus histórico], Messico 1976, 41-43. 25 Ibid., 46, cfr. 284. 26 Ibid., 55. 27 Ibid., 63. 62 scutibile28. Gesù aveva semplicemente coscienza che l'approssimarsi dei regno dipendeva dalla sua predicazione. 2. Relazione di Gesù col Padre La relazione di Gesù col Padre e quella della fiducia; e il senso dell'espressione « Abba »29. Quello che vi e di più profondo nella persona di Gesù e la sua fede. Come scrive L. Boff, « Gesù fu uno straordinario credente ed ebbe la fede. La fede fu il modo di esistere di Gesù » x. Lungi dall'escludere la divinità, questa fede ci fa comprendere in che cosa consiste la divinità concreta di Gesù31. Per la comprensione di questa divinità, non si può partire dalla formula di Calcedonia, poiché ha il torto di presupporre i concetti di Dio e di uomo. Inoltre essa identifica Gesù con il Logos, senza indicare la relazione di Gesù col Padre. Bisogna ritornare al Gesù storico, in cui appare questa relazione, con delle menzioni di « Dio » il cui senso sembra essersi evoluto32. Gesù non ha avuto coscienza d'essere il Figlio eterno dei Padre. Conviene ritornare alla definizione della persona fatta da Hegel: l'essenza della persona consiste nel darsi ad un altro. Per sapere chi era Gesù, non bisogna sapere ciò che pensava di se stesso, ma a chi si donava come persona33. I problemi fondamentali della cristologia devono essere riformulati partendo dalla storia della fede di Gesù. Nella cristologia classica, la « divinità » di Cristo si basa sul concetto di natura divina e dell'unione personale della natura umana di Gesù con la persona divina dei Logos. Invece, secondo la storia della fede di Gesù, ciò che costituisce l'essenza della sua persona e la relazionalità con il Padre: quello che Calcedonia affermava in categorie òntiche, si tratta di riformularle in categorie di relazione. « La divinità di Gesù consiste nella sua relazione concreta col Padre. In questa maniera unica, particolare e non reiterabile di mettersi in relazione col Padre, consiste la sua maniera concreta di partecipare alla divinità34. 28 Ibid., 71. 29 Ibid., 74. 30 Ibid., 79-80. (Cfr. L. BOFF, Jesucristo el Liberador, Buenos Aires 1974, 124).
31 Ibid., 81. 32 Ibid., 84-85. 33 Ibid., 292. 34 Ibid., 104; cfr. 270. 63 3. Gesù, rivelazione del cammino verso Dio La relazione col Padre e storia. « In questo senso si può affermare che Gesù si fa Figlio di Dio e non semplicemente che lo e »35. A dire il vero non si può affermare che Gesù rivela il Padre, ne che lui e il « sacramento » del Padre, come se rendesse visibile storicamente il mistero ultimo dell'esistenza e della storia. Ciò che Gesù rivela e il Figlio, o ancor più precisamente, il cammino del Figlio; la via che consiste nel farsi Figlio di Dio. così Gesù non e, in senso stretto, la rivelazione del mistero assoluto, ma la rivelazione della maniera di corrispondere a questo mistero assoluto, nella fiducia e nell'obbedienza alla missione del regno36. Questo ei permette di rivalorizzare una designazione neotestamentaria dimenticata, quella di « primogenito », come fratello maggiore, primo dei credenti. La divinità di Gesù significa fraternità. Quest'affermazione che può sembrare spiacevole, e fundamentale. Per confermarla, l'autore cita un pensiero di K. Rahner che considera la fede nella risurrezione come un « momento interno » della risurrezione stessa di Gesù, e ne conclude che, secondo quest'affermazione, se non vi fosse stata fede nella risurrezione, Gesù non sarebbe risuscitato, perché una risurrezione deve essere rivelazione 37. Si può tradurre ciò in « linguaggio operative »: se la rivelazione del cammino del Figlio fosse stata incapace d'incorporare altre persone in questo cammino, Gesù non sarebbe il Figlio. In questo senso la divinità di Gesù consiste nell'essere il « primogenito », colui che percorre il cammino verso Dio e lo rende possibile ai suoi fratelli. Come definire allora la differenza fra Gesù e gli altri cristiani? Secondo la risposta classica, Gesù possiede per natura ciò che l'uomo possiede per grazia. Riformulando questa differenza in categorie storiche, l'autore dice che Gesù e colui che ha vissuto in pienezza e originariamente la fede, aprendo il cammino della fede e percorrendolo fino alla fine. Del pari ha vissuto in modo assoluto la speranza sperimentando sulla croce il totale abbandono del Padre. 35 Ibid. 36 Ibid., 104-105. Nello stesso senso Sobrino scrive che nel Figlio e apparso il cammino verso il Padre (La oraciòn de Jesus y del cristiano, Christus, luglio 1977, 387). Egli non considera che la preghiera al Padre « come Gesù », e omette di prospettare la preghiera al Cristo. 37 Ibid., 105 (cfr. K. RAHNER-W. THÜSING, Christologie systematisch und exegetisch, FriburgoBasilea-Vienna, 28). 64 La divinità di Gesù si svela storicamente, per il cristiano, nell'esperienza di far la storia congiuntamente con Gesù. In breve, non si può sapere che Gesù e il Figlio, se non quando si e in comunione con lui, seguendo il cammino della sua fede. L'affermazione può sembrare minimalista, ma significa che camminando con Gesù, facendo il regno, verso l'avvenire di Dio, si può comprendere in che consista la sua filiazione divina38. Che significa allora l'affermazione neotestamentaria della fede in Gesù? Evidentemente non si tratta di un'ortodossia nominalista che includerebbe Gesù fra le divinità. La fede si dirige sempre verso l'assoluto di Dio e verso il suo regno. « Fede in Gesù significa accettare che in lui si e rivelato il Figlio, ossia il cammino verso Dio »39. Per giustificare la sua reinterpretazione delle formule dottrinali, l'autore ritiene che il valore positive dei dogmi risiede nell'indicazione dei limiti da rispettare dalla fede cristiana e nelle affermazioni dossologiche, molto simili alle acclamazioni liturgiche40. I dogmi cristologici, impregnati di mentalità ellenica, parlano astrattamente di divinità e d'umanità, mentre concretamente la divinità e Yahwé, il Padre di Gesù, e l'umanità e la persona concreta di Gesù41. 4. L'opera di liberazione La critica rivolta ai dogmi si ritrova a proposito dell'opera compiuta da Cristo. « La concezione metafisica greca dell'essere e della perfezione di Dio rende impossibile una teologia della croce »42. In effetti essa attribuisce a Dio immutabilità e impassibilità. Ma in America Latina sorge spontaneamente l'impressione che Bonhoeffer ha espresso: « Solo un Dio che soffre ei può salvare ». Una teologia storica della liberazione deve pensare la sofferenza come un modo di essere di Dio 43. L'autore critica inoltre, non solo la teoria della soddisfazione proposta da sant'Anselmo, ma la dottrina del sacrificiò della croce, 38 Ibid., 104-105. 39 Ibid., 107.
40 Ibid., 311. 41 Ibid., 311-312. 42 Ibid., 150. 43 Ibid., 150-151. 65 sacrificiò che può essere rappresentato nel culto. Assumendo un aspetto cultuale, la croce corre il gran pericolo di perdere il suo valore storico e il suo scandalo scompare **. Per comprendere meglio il significato dell'opera di Cristo, bisogna notare, secondo l'autore, che Gesù ha voluto smascherare le intenzioni dell'uomo « religiöse »; egli lotta contro il potere religioso, e presenta un Dio in contraddizione con la situazione religiosa, un Dio che non e quello della religione. La religione e una concezione della realtà secondo la quale il senso di tutto e già dato, perché la realtà di Dio e già costituita dall'origine, con la sua onnipotenza, la sua onniscienza e la sua giustizia retributiva45. È la sorgente del legalismo e del moralismo. Ma in realtà Yahwé e « il Dio dell'avvenire e non il Dio dell'origine » *. Gesù e stato condannato come agitatore politico; aveva preso posizione nella politica del suo tempo, benché i vangeli non siano troppo espliciti in questo campo. Egli ha opposto alla concezione della divinità come potere, la concezione della divinità come amore, in conflitto col potere oppressore47. Nella croce il Padre consegna il Figlio abbandonandolo al peccato48. È la risurrezione il punto culminante della cristologia storica. Perö l'autore non prende posizione sulla realtà del fatto storico; quello che e storico e che i discepoli hanno avuto fede in Gesù dopo Pasqua49. Nella risurrezione si realizza l'utopia, il regno di Dio. In essa si rivela la trascendenza di Dio; questa e colta dalla fede non come una spiegazione, ma come una chiamata alla coscienza in vista di sormontare l'ingiustizia e il peccato del mondo50. D'altronde non e che per mezzo della prassi della liberazione che si può cogliere il senso della risurrezione51. Occorre aggiungere che camminando con Gesù, il cristiano che vive la fede, deve anche tener conto delle ignoranze e degli errori di Gesù: Gesù, soprattutto all'inizio della sua predicazione, credeva nella prossima venuta del regno, ed e rimasto passive in questa aspet44 Ibid., 149. 45 Ibid., 225. 46 Ibid., 172. 47 Ibid., 162-167; cfr. 296. 48 Ibid., 176. 49 Ibid., 303. 50 Ibid., 180-182. 51 Ibid., 253. 66 tativa. Davanti al problema sociologico attuale, visto che la parusia non sembra prossima, occorre avere più attività: il cristiano non può imitare la passività di Gesù52. C) LE ORIGINI DI GESÙ, SECONDO X. PlKAZA L'opera pubblicata da X. Pikaza Il non vuol presentare una sintesi dottrinale di cristologia, ma riunisce semplicemente dei saggi di cristologia biblica sulle origini di Gesù. Ci fermiamo sulla posizione adottata dall'autore concernente l'origine umana di Gesù e la sua filiazione divina. 1. L'origine umana e il problema della concezione verginale Senza voler fare un'analisi approfondita dei testi evangelici, e riportando criticamente alcune interpretazioni recenti, l'autore ritiene che non si possano emettere attualmente delle precise conclusioni sull'origine umana di Gesù. Dal punto di vista storico sembra più verosimile che Gesù sia nato dal matrimonio di Maria con Giuseppe; tuttavia non si può scartare la possibilità, d'altronde molto improbabile, che egli sia stato figlio illegittimo di Maria, e non si può neanche trascurare la possibilità di una reale concezione verginale. Dal punto di vista teologico le tre ipotesi sono accettabili, perché una nascita illegittima non contraddirebbe il fatto dell'amore cristiano 54. La teologia non si oppone neppure alla comprensione dell'espressione « fratelli di Gesù » nel senso più normale. È vero che la riflessione della Chiesa ha affermato la verginità perpetua di Maria. Ma esegeticamente, il più probabile e la concezione non verginale di Gesù, con l'esistenza di fratelli autentici; occorrerà ancora che questa opinione s'integri nella vita della Chiesa55. Estremiste sono le posizioni di coloro che suppongono il problema già risolto, in maniera positiva o negativa. Estremista e la posizione di H. Küng, secondo cui la nascita verginale non può 52 Ibid., 131. „ 53 X. PIKAZA, Los orígenes de Jesùs, Ensayos de cristologia bíblica, Salamanca 1976.
54 Ibid., 32. 55 Ibid., 37. 67 essere un avvenimento storico biologico; Küng ha ragione di pensare che nessuno ci può obbligare ad ammettere la concezione verginale come un fatto biologico, ma si spinge troppo avanti affermando che essa non può essere che un simbolo56. Non meno estremista nell'altro senso e l'opinione che per essere figlio di Dio, Gesù non poteva avere sulla terra un padre umano, perché era necessaria la maternità verginale alla rivelazione della filiazione divina57, come pure l'opinione che il principio della vita di Gesù doveva essere l'agape e non l'eros, essendo questo in contraddizione con l'amore di Dio manifestato nel Cristo. Fra queste opinioni estremiste, vi e una via mediana che non e seguita solo da protestanti ma anche da cattolici, come lo testimoniano specialmente P. Schoonenberg e R. E. Brown. L'uomo non fa concorrenza a Dio, ed e possibile che Gesù abbia avuto un padre umano e che sia stato l'espressione dell'eros del matrimonio, sebbene non si possa escludere con tutta certezza, al principio della nuova creazione, un intervento speciale di Dio. Tuttavia, come afferma K. H. Schelkle, affinché la teologia cattolica riesca ad interpretare la concezione verginale come un teologumenon che si e espresso in un mitologumenon, molte cose devono ancora cambiare nella Chiesa; bisogna riformulare il principio dell'infallibilità della Bibbia e del magistero, cambiare la coscienza dei credenti e la stessa dottrina mariologica58. Per teologumenon bisogna intendere un dato esclusivamente teologico, secondo cui il concepimento del bambino, pur essendo il frutto delle relazioni di Maria e di Giuseppe, e stata opera dello Spirito divino che ha fatto di questo bimbo un figlio di Dio59. Certamente tutta la mariologia tradizionale, alla luce della nuova antropologia cristiana, dovrebbe essere revisionata, ivi compresa la dottrina della Immacolata Concezione. Tuttavia la ricerca di nuove basi teologiche deve farsi in modo positivo, evitando lo scandalo 56 Ibid., 104 (cfr. H. KÜNG, Christ sein. Monaco 1974, 447). 57 Ibid. L'autore cita il nostro articolo La conception virginale du Christ (Gregorianum 49 (1968) 658659) come esempio di questa opinione estremista. Noi affermiamo semplicemente che «secondo il piano divino», nell'Incarnazione tale quale si è concretamente realizzata, la filiazione divina doveva manifestarsi con la concezione verginale, e non che una Incarnazione del Figlio di Dio sarebbe stata impossibile senza concezione verginale. 58 Ibid., 306 (K. H. SCHELKLE, Theologie des N T, 2: Gott war in Christus, Düsseldorf 1973, 182). 59 Ibid., 299 68 dei « piccoli » che hanno fiducia in Maria e l'invocano come « vergine ». Per non causare la rovina della loro fede, sarebbe preferibile elaborare una mariologia in cui si passi semplicemente sotto silenzio il fatto della verginità biologica. La trasformazione della teologia non può mancare di riproporre il problema più vasto dell'autorità della Scrittura e della Chiesa60. 2. La filiazione divina Per comprendere il senso della filiazione divina di Gesù, occorre innanzi tutto riferirsi all'esperienza della sua vita terrena. Questa filiazione non significa unita d'essenza, ne che Gesù trascenda i limiti umani. Figlio indica l'uomo che si realizza liberamente in un'apertura totale agli altri, nella lotta contro le potenze del male e l'offerta del regno agli umili, compiendo la legge di Dio sulla terra. A questo titolo può invocare Dio col nome di Padre. Nella morte egli testimonia una fiducia che arriva fino in fondo, nell'abbandono e nella solitudine. La risposta del Padre era necessaria perché fosse costituito il Salvatore e il Figlio: essa e data nell'esperienza di Pasqua. La realtà di Gesù come figlio di Dio vi riceve due nuove prospettive: lui e il Figlio perché trionfa sulla morte e penetra nel mistero del regno (risurrezione come esaltazione) ed e Figlio in quanto verrà per il giudizio finale (risurrezione come parusia). È in questi due sensi che e pienamente Figlio. Non e dunque Figlio in quanto avrebbe un'entità divina. Sono state le comunità cristiane che in seguito hanno interpretato la filiazione divina in termini di preesistenza o di concezione operata dallo Spirito Santo*1. così si e poi formata la tradizione dogmatica che ha trovato la sua espressione nei concilii di Nicea e di Calcedonia, e che identifica Gesù al Logos preesistente che si e incarnato. Cosa pensare di questa tradizione? Innanzi tutto e poco logico parlare di preesistenza, perché la natura divina non appartiene ad un tempo anteriore, ma all'eternità. Perö la tradizione intende la preesistenza nel senso di una esistenza in Dio che ad un dato momento assume una storia umana. Questa posizione dogmatica ha valore come via di avvicinamento al mistero, ma prendendola come un dato obiettivo ed assoluto, si distruggerebbe il senso biblico e teo60 Ibid., 307. 69
logico della preesistenza. Infatti, in questo caso Gesù potrebbe ancora essere chiamato realmente uomo? Se la sua persona preesisteva, la sua realtà umana sarebbe una illusione 62. La preesistenza deve essere intesa in un senso relazionale; essa significa che Gesù e radicato in Dio in modo tale che proviene dal mistero originale: la spiegazione definitiva del suo essere appartiene solamente al divino. Questa preesistenza ci dice qualche cosa di Dio: l'attuazione di Dio in Gesù e principio e norma di tutte le sue manifestazioni. È così che il volto di Gesù si trova alla radice della creazione, e da un senso alla storia. Gesù sorge direttamente dal divino ed e l'espressione di Dio. Non vi e mai stato un Dio distinto da quello che si rivela in Gesù, ne salvezza distinta dalla sua. La preesistenza ci dice ugualmente qualche cosa della storia, perché Gesù e l'espressione dell'apertura dell'uomo al divino; in lui si realizzano tutte le potenzialità dell'essere umano, e la creazione raggiunge la sua unità e la sua pienezza. Perciò la preesistenza si situa all'incrociò di due strade, l'incarnazione di Dio e la consumazione del cosmo. Essa si precisa in protoesistenza. Gesù e la realtà protoesistenziale: e l'espressione definitiva di Dio in modo tale che gli avvenimenti e le persone acquistano in lui il loro significato ö. La cristologia secondo cui il Verbo eterno ha assunto una natura umana, ha perduto la vera dimensione della storia. Secondo il Nuovo Testamento, questa storia prende tutto l'essere di Gesù: Gesù non e un Figlio di Dio che disporrebbe di una natura divina intemporale, superiore a tutti i cambiamenti della nascita, della morte e della risurrezione. È il Figlio perché, nascendo da Dio, rende presente il mistero divino al mondo, in una vita piena d'apertura e di fedeltà al regno, e finalmente perché e stato risuscitato da Dio Padre. La cristologia dei secoli passati ha cessato di essere normativa nel nostro tempo; la nostra riflessione su Dio può, per la prima volta dopo tanto tempo, essere creatrice M. Che significa più precisamente la divinità di Gesù? Essa designa il dono di Dio, la fedeltà con la quale Gesù riceve questo dono, 61 Ibid., 208-211. 62 Ibid., 252-254. Come critica cattolica della preesistenza in nome della personalità umana di Gesù, l'autore cita l'esempio di P. Schoonenberg. 63 Ibid., 255-256. 64 Ibid., 473-475. 70 e la risposta divina nell'evento pasquale. Il dono di Dio, perché bisogna affermare con Rahner che Gesù, logos di Dio, e questo essere che sorge quando Dio si esprime in modo decisivo; la fedeltà e la risposta umana di Gesù al Padre; nell'evento pasquale Dio fa di Gesù il Signore e suo Figlio in senso pieno. Gesù non e Figlio di Dio fin dal principio, ossia dalla nascita umana; lui e Figlio nell'insieme del cammino percorso fino al mattino di Pasqua. Questo implica che « Gesù non e Dio in se »ö. « Non vi e che un solo Dio, ed e il Padre di Gesù », dice l'autore in un altro studio66, aggiungendo d'altronde che « certamente Gesù e divino », in quanto e l'espressione assoluta di Dio per gli uomini o, come dice R. Bultmann, che Gesù e Dio in quanto azione di Dio67. « Gesù e Figlio di Dio (e essere divino) perché Dio esprime in lui la sua profondità, la dispiega, si realizza e si fa distinto da se stesso » ". Il miracolo e che nella persona o realtà umana di Gesù, Dio stesso viene a realizzarsi in lui. Gesù e « Dio per gli uomini » w, o ancora egli e Dio nell'umano perché in lui si esprime l'amore divino70. Per conseguenza si deve dire che Dio e l'unione del Padre (trascendente) e di Gesù (centro del mondo). Cambiando una terminologia antica della Chiesa, si potrebbe affermare che in Dio vi sono due nature e un'unione personale. Queste due nature sono la trascendenza originale di Dio e la realtà umana di Gesù. La loro unione e un'unione dei contrari, l'infinito e il finito. Ma e anche un'unione di persone, perché Dio si dona, suscitando Cristo che e suo Figlio, e il Cristo accetta l'amore del Padre. In questa unione, « Dio e in Gesù » e « Gesù e in Dio »71. Cosa diventa lo Spirito in questa nuova teologia trinitaria? La peculiarità dello Spirito e di essere il campo d'amore in cui si incontrano Dio e il Cristo. È la forza di Dio dalla quale nasce e risuscita il Cristo; contrariamente alla teologia tradizionale, si deve ammettere che il Figlio nasce nello spirito. Lo spirito non ha per65 Ibid., 479. 66 Realidad divina de Jesus en el Nuevo Testamento, in Semanas de Estudios Trinitarios, VIII, Cristo ayer y hoy, Salamanca 1974, 47. 67 Ibid., 47, n. 2 (R. BULTMANN, Das christologische Bekenntnis des Oekumeni-schen Rates, in Glauben und Verstehen II, Tübingen 1965, 252). 68 Los origenes, 479. 69 Realidad, 48. 70 Los orígenes, 480. 71 Ibid., 481-482.
71 sonalità distinta da Dio Padre. Pur affermando che il Figlio procede dal Padre per mezzo dello spirito, l'autore sostiene che lo spirito proviene dal Padre e dal Figlio. Tra il Figlio e lo spirito vi e una 'mutua causalità 72. D) UN GESÙ DIFFERENTE CON PROGETTO DI CATECHESI J. R. Guerrero ha presentato nella sua opera « l'altro Gesù ». Egli applica il principio secondo il quale « la catechesi deve reinterpretare il vangelo e rielaborare le formulazioni antiche della fede partendo dall'esperienza concreta dell'uomo » ". Questo principio si applica soprattutto alla definizione dell'identità di Cristo: « Se desideriamo spiegare oggi quanto afferma la cristologia antica, diremmo che l'esperienza di fede dei credenti del tempo di Nicea e di Calcedonia era questa: nelle parole di Gesù riguardanti Dio, nella sua vita, la sua sofferenza e la sua risurrezione, Dio si e espresso in modo interamente nuovo, perché e entrato in relazione intima con l'io di Gesù... Gesù e vissuto e conseguentemente ha espresso la realtà che noi chiamiamo " Dio " in tutta la sua pienezza e prossimità, in modo tale che questa realtà si trova solidale con l'esistenza umana di Gesù, dandogli tutto il suo significato »74. Il legame di Dio con Gesù e dunque definito come l'identità personale del Figlio di Dio. Gesù e un uomo che ha un rapporto di intimità con Dio. « L'uomo Gesù e la presenza di Dio fra gli uomini, poiché annunciando il perdono di Dio agli uomini, condannati dagli altri uomini, è stato la manifestazione dell'amore ». Presenza di Dio, egli e Dio, ma in un senso ben particolare che non e quello della fede tradizionale: « Dio e in Gesù così totalmente e così definitivamente da farci affermare che Gesù e Dio, sebbene la sua natura umana impedisca questa identificazione con Dio. Gesù non e il risultato di due componenti: uomo + Dio, l'uno unito 72 Ibid., 492, 504-505. Un ulteriore articolo (En torno a «Los origenes de Jesús», Salmanticensis 24 (1977) 351-361) e l'opera sul Vangelo e il marxismo (Evangelio de Jesús y praxis marxista, Madrid 1977) confermano le posizioni adottate concernenti le « origini » di Gesù. 73 Jose-Ramón GUERRERO, El otro Jesús. Para un anunciò de Jesus de Nazaret, hoy, Salamanca 1976, 220-221. 74 Ibid., 231. 72 all'altro, ma e un uomo del quale il parlare e l'agire sono pienamente ricolmi di Dio fin dalle sue origini e in tutte le dimensioni della sua persona »75. Commentando l'affermazione: « Gesù e il Figlio di Dio », l'autore precisa il senso di questo titolo in due modi: 1) Gesù e « l'autentico Israele eletto di Dio ». 2) Gesù « manifesta Dio »76. Questa manifestazione ha un carattere unico: « Gesù e un uomo in cui e avvenuta la manifestazione piena e non reiterabile di Dio agli uomini, ed in tal senso possiamo affermare che egli e Dio ». « In quanto rivelazione della divinità di Dio, Gesù e il Figlio » 77. La filiazione divina di Gesù differisce da quella degli altri uomini in ragione della sua esperienza di Dio: « Questo Gesù e Figlio di Dio perché nella sua coscienza umana ha un'esperienza di Dio essenzialmente distinta da quella del resto degli uomini; la sua apparizione e talmente nuova e differente in rapporto al resto dell'umanità, che in lui comincia una nuova creazione e un uomo nuovo »78. L'autore presenta in termini caricaturali la fede tradizionale al Cristo-Dio: « Credere in Gesù non e... affermare che fu un personaggio divino davanti al quale noi prendiamo degli atteggiamenti magici, nell'intenzione di manipolarlo (con dei riti) » w. Indica poi un metodo di catechesi su Gesù Cristo da lui impiegato con persone adulte che prima si dichiaravano credenti in Gesù di Nazaret e poi si sottomisero ad una revisione della loro fede. Questo metodo comporta una riflessione sul « Gesù credente ». Gesù vi e considerato come il modello della fede. La considerazione della fede di Gesù fa porre la domanda: « In quale Dio egli credeva? Qual e la sua esperienza di Dio »? La catechesi fa scoprire il Dio di Gesù, come pure Gesù uomo libero. È così che essa cerca di « sbloccare la fede in Gesù » degli adulti, per farli passare dalla fede in un Cristo Dio, alla fede nel Dio del credente e dell'uomo libero Gesù ". è vero che Guerrero continua a parlare di fede in Gesù, ma 75 Ibid., 232. L'autore si riferisce all'opinione di Gonzalez Faus, secondo cui Gesù e un uomo che nella sua umanità e sostenuto da Dio. 76 Ibid., 274-275. 77 Ibid., 276. 78 Ibid., 277.
79 Ibid., 375. 80 Ibid., 327-357. 73 quando spiega cosa significa questa fede, descrive varie disposizioni, nessuna delle quali verifica l'adesione alla persona divina di Cristo: credere in Gesù, e interessarsi alla sua vita e al suo messaggio, accettare come modello la vita di un uomo perseguitato, credere in quello che egli ha creduto, credere nell'amore e nella solidarietà con gli altri uomini, rendersi capaci di liberazione e di salvezza grazie a lui, partecipare al suo impegno, credere che Gesù e l'uomo nuovo, credere in una comunità di credenti. Si apprezza l'ansia per una fede viva e concreta, ma l'essenziale della fede non e forse assente quando si tratta di non credere più al Figlio di Dio fatto uomo? 74 CAPITOLO IV SAGGI CRISTOLOGICI IN ALTRE LINGUE A) GESÙ, INTENDENTE E RAPPRESENTANTE DI DIO, SECONDO HANS KÜNG 1. La reinterpretazione di Calcedonia e l'identità di Gesù In una prima opera di cristologia1, Küng presenta il pensiero di Hegel, esponendo poi alcune riflessioni personal:. Non rinuncia alla dottrina di Calcedonia, sebbene vi scorga un semplice compromesso che da una soluzione problematica, e dubiti della sua conformità con i dati biblici2. Auspica l'elaborazione di una nuova cristologia in cui sia riconosciuto il divenire di Dio, e ritiene che la terminologia della dottrina tradizionale della Trinità e dell'Incarnazione dovrebbe essere disellenizzata per essere adattata al contesto della cultura moderna3. Nella sua opera « Essere cristiani », avanza più arditamente nel senso del distacco nei riguardi della tradizione. Vuole tradurre in linguaggio moderne le dichiarazioni degli antichi concilii, estraendole dai loro contesti socio-culturali ellenistici. Per esprimere la relazione fra Dio e l'uomo Gesù, scrive: « Il vero uomo Gesù di Nazaret 1 Menschwerdung Gottes. Eine Einführung in Hegels theologisches Denken ah Prolegomena zu einer künftiger Christologie, Friburgo 1970; tr. fr. Incarnation de Dieu. Introduction a la pensee theologique de Hegel comme prolegomenes a une christologie future, Parigi 1973. 2 Incarnation de Dieu, 639 s. 3 Ibid., 663. Küng approva il programma di disellenizzazione proposto da L. Dewart. 75 e per la fede la reale rivelazione dell'unico vero Dio »4. Si percepisce subito la differenza fra questo enunciato e quello di Calcedonia, che proclamava Gesù vero uomo e vero Dio. Nondimeno Küng conserva in un certo qual senso l'appellativo di « vero Dio ». Al rimprovero che gli è stato fatto di vedere in Gesù semplicemente « l'ultimo e decisivo inviato di Dio », lui ha risposto che non rinunciava alla qualifica di « vero Dio »5. Ma commentando l'espressione, si guarda bene dal dire che Gesù e Dio: lo chiama l'intendente e il rappresentante di Dio; « per i credenti in Gesù, il Dio amico degli uomini era lui stesso vicino, era all'opera, ha parlato, agito, e si e rivelato in modo definitivo ». Quanto alle dichiarazioni concernenti la filiazione divina, della preesistenza, della mediazione creatrice e dell'Incarnazione, Küng le trova rivestite di forme mitologiche e giudica che esse vogliano indicare, ne più ne meno, l'unicità, l'originalità e l'eccellenza insuperabile del messaggio che si esprime in Gesù6. Vero Dio significa dunque l'uomo in cui Dio parla e agisce; l'espressione ha una portata funzionale. Nel Nuovo Testamento, sottolinea Küng, il valore divino di Gesù e concepito in primo luogo in maniera funzionale e non fisica o metafisica: la persona di Gesù e prospettata non nel senso di una astratta dichiarazione di essere, ma di una dichiarazione di salvezza per noi uomini. Solo più tardi, con l'introduzione di concetti ellenistici, la cristologia funzionale e divenuta una cristologia ontologica7. La definizione dell'identità di Gesù come essere umano si accompagna ad una reinterpretazione della Trinità. L'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito deve essere compresa come l'espressione della relazione di Gesù a Dio e non come l'unita di tre persone. Gesù di Nazaret e il vero uomo che e rivelazione del vero Dio ed e questo per noi, nello Spirito. Lo Spirito e la presenza di Dio e del Cristo glorificato per la comunità dei credenti e per ogni credente individualmente8. Küng si compiace a sottolineare l'unicità di Dio in un senso che non ammette una pluralità di persone divine. Nell'opera che doveva portare dei chiarimenti sul suo pensiero, 4 Christ sein, Monaco 1974, 434. 5 Mein Spiegelbild, risposta a un articolo dello Spiegel, in frankfurter Allgemeine Zeitung, 21 Sett. 1974, 21. 6 Christ sein, 439-440. 7 Ibid., 438. 8 Ibid., 467-468. 76 « Dio esiste? »9, Küng rimane essenzialmente fedele alle sue posizioni. Egli afferma dei vincoli molto
intimi fra Gesù e Dio, ma non dice mai che Gesù e il Figlio incarnato nel senso della fede cattolica tradizionale. Ammette un'unità di Gesù con Dio suo Padre, un'esperienza di Dio e una presenza di Dio in Gesù 10. Impiega il termine « Figlio », ma in un contesto in cui la qualità s'intenda della personalità umana di Gesù. Egli « e in forma umana parola, volontà, figlio di Dio » ". La distinzione fra Gesù e Dio emerge bene malgrado i legami intimi: « Ove e Gesù, vi e anche Dio; ciò che e la volontà di Dio, egli me lo dice; ove Gesù agisce e parla, Dio e al fianco; ove Gesù soffre e muore, Dio e presente in maniera nascosta »12. Quando spiega che per lui Gesù di Nazaret e il Figlio di Dio, conserva questa distinzione: « In Gesù..., il Dio amico degli uomini e lui stesso vicino e all'opera. Per mezzo di lui, Dio stesso ha parlato, ha agito, si e rivelato in modo definitivo ». È in questo senso che Küng osa dire senza esitare: « Credo in Jesum Christum, Filium Dei unigenitum » n. Anche se precisa che non e soltanto in un senso funzionale, che Gesù non agisce solo come Verbo e Figlio di Dio, ma che « lo e in se stesso », egli interpreta nondimeno l'appellativo di Figlio nel senso di una prossimità di Dio che agisce e si rivela in Gesù. 2. Il Gesù evangelico Küng adotta un'esegesi dei testi evangelici che permette una riduzione delle dimensioni del Gesù della storia. Gesù e un giudeo che condivideva le speranze dei suoi contemporanei; predicando la venuta del regno di Dio, lo annunciava per un avvenire molto prossimo, per il tempo della sua generazione. Si e sbagliato su questo punto, ma la sua predicazione che si riferisce all'avvenire assoluto di Dio, conserva un valore attuale per il presente dell'umanità . Gesù non si e mai attribuito dei titoli .messianici; entra solo in 9 Existiert Gott?, Monaco 1978. Ad iniziativa di Küng, e stata pubblicata una documentazione sulla controversia riguardante «Christ sein»: Um Nichts als die Wahrheit. Deutsche Bischofskonferenz contra Hans Küng, edita da W. JENS, Monaco 1978. 10 Existiert Gott?, 744. 11 Ibid., 748. 12 Ibid., 750. 13 Ibid., 751. 14 Christ sein, 206-213. 77 discussione il titolo di Figlio dell'uomo, ed e possibile che Gesù non si sia mal designato con questo titolo, tanto più che questo Figlio dell'uomo non appare identico a lui.15 Gesù non voleva fondare una nuova religione 16. Bisogna evitare di esagerare la sua originalità e specialmente evitare ogni interpretazione eccessiva del termine « Abbà »; bisogna salvaguardare per quanto e possibile le speranze di dialogo attuale con i giudei. Gesù ha respinto lui stesso ogni identificazione con Dio; il suo rapporto con Dio non era quello di un'identità, ma di un'intimità poco ordinaria 17. Si può dubitare che Gesù abbia istituito la cena eucaristica. Ha avuto una cena d'addio con i suoi discepoli, ma non ha voluto fondare una nuova liturgia. Se vi e una frase nel racconto della Cena che risalga a Gesù stesso, non sono certo le parole sul pane e sul vino, ma la dichiarazione escatologica secondo la quale non avrebbe più bevuto del frutto della vite, fino al giorno in cui l'avrebbe bevuto nuovo nel regno di Dio. Senza voler fondare un nuovo rito, Gesù conferisce un senso nuovo ad un rito antico. Ha riferito a se stesso il pane e il vino, almeno secondo Marco: li ha considerati segno profetico della sua morte, del sacrificiò della sua vita, Quanto all'idea di una sostituzione nell'espiazione per la moltitudine, potrebbe trattarsi di una interpretazione post-pasquale 18. La concezione della morte di Gesù come sacrificiò espiatorio dovrebbe essere abbandonata. La morte sulla croce e un evento che si e prodotto per noi, che vive per la sua risonanza, per il suo esempio e per nostro ricordo. Perciò la concezione del « sacrificiò della messa » e problematica. L'Eucaristia e un banchetto e non la ripetizione del sacrificiò della croce ". La risurrezione non e un avvenimento nello spazio umano ne nel tempo umano. La si può chiamare corporea se per corpo s'intende non il corpo fisiologico ma la realtà personale. La risurrezione non segna la continuità del corpo ma quella della persona. I racconti della tomba vuota e delle apparizioni sono formazioni leggendarie del messaggio della risurrezione20. La risurrezione significa la 15 Ibid.. 467-468. 16 Ibid., 279-290. 376. 17 Ibid., 304-306. 18 Ibid., 312-314. 19 Ibid., 414-416. 20 Ibid., 340-341. 78 morte in Dio; essa avviene con la stessa morte21. Il messaggio pasquale significa che Dio non ha
abbandonato Cristo nella morte ma lo ha assunto nella propria vita. Quel che si può affermare come fondo storico del racconto della Pentecoste, e che dopo la morte di Gesù, i discepoli si sono radunati nell'entusiasmo. Può darsi che Luca abbia utilizzato la tradizione di un'estasi di massa operata dallo Spirito nella prima festa di Pentecoste.22 La nascita verginale deve essere compresa non come un avvenimento d'ordine storico e biologico, ma come un simbolo significativo; essa vuole esprimere che con Gesù, che mette fine all'antica alleanza, si opera un nuovo inizio che viene da Dio. Questo nuovo inizio oggi può essere annunciato in modo diverso dalla leggenda di una nascita verginale.23 3. La nota distintiva del cristianesimo In un dibattito con Pinchas Lapide24, autore ebreo di opere su Gesù, Küng cerca d'indicare la divergenza che separa giudaismo e cristianesimo. Si dichiara d'accordo col suo interlocutore per scartare l'identificazione di Gesù con Dio: il Gesù dei sinottici non ha detto: « lo sono il Figlio di Dio », ma ha annunciato il regno di Dio. Küng non riconosce il motivo di bestemmia all'origine della condanna di Gesù da parte dei giudei; come motivo egli cita l'atteggiamento di Gesù nei riguardi della legge che ritiene stabilita in favore dell'uomo, e la preferenza data al servizio degli uomini sul culto di Dio. La differenza decisiva non consiste nei titoli attribuiti a Gesù, ma nel fatto che il giudaismo si regola sulla legge, mentre per i cristiani e Gesù stesso che e determinante.25 21 Ibid., 348. 22 Ibid., 344. 23 Ibid., 447. 24 H. KÜNG-P. LAPIDE, Jesus im Widerstreit. Ein jüdisch-christlicher Dialog, Stoccarda-Monaco 1976. 25 Ibid., 421. 79 B) UN UOMO COMUNE CHE SCOPRE LA SUA FILIAZIONE DIVINA SECONDO ORTENSIO DA SPINETOLI 1. Relativismo delle formulazioni cristologiche Ortensio da Spinetoli adotta il principio del relativismo di tutte le formulazioni della fede: « La verità e assoluta, la sua formulazione o interpretazione e secondaria, condizionata, relativa, lacunosa » 26. La relatività e « una conquista ormai irrinunciabile, irreversibile della cultura moderna »27. Si deve dunque ammettere il valore relativo di tutte le interpretazioni e sintesi cristologiche, già nelle Scritture, ma più specialmente nelle definizioni conciliari. Cosi dicasi di san Giovanni: « Possiamo dire che S. Giovanni e un interprete ufficiale del Cristo, ma sempre un interprete. A noi interessa il Cristo che egli presenta, non la maniera con cui egli lo vede e lo definisce. Il credente e obbligato ad accettare solo la verità divina non le rispettive interpretazioni umane. Gesù e il Figlio di Dio, ma non necessariamente nella maniera con cui un pensatore ebreo e greco del tempo immaginava o intendeva tale filiazione » n. La risposta di Calcedonia « appare troppo comoda, semplicistica; il connubio tra l'umano e il divino e ridato in termini quasi matematici, troppo chiari per essere veri e convincenti ». I concetti di persona, natura, ipostasi hanno subito una profonda evoluzione. « Una natura integra perfetta che non sia personale non e facilmente comprensibile per l'uomo attuale ».29 Il rinnovamento cristologico cerca di riscoprire il vero volto di Cristo, al di là delle presentazioni o incrostazioni culturali dei suoi primi e successivi interpreti. Si tratta di identificare il vero Cristo, non quello dei Padri di Calcedonia, ne quello degli autori evangelici *. 2. Il senso della filiazione divina Affrontando il problema del senso della filiazione divina, l'autore pone in principio che « la cristologia rimane sempre un capitolo 26 Itinerario Spirituale di Cristo, 2, Le scelte di base, Assisi (Cittadella) 1974, 15. 27 La conversione della Chiesa, Assisi (Cittadella) 1975, 130-131. 28 Itinerario, 2, 16. 29 Ibid., 18-19. L'autore si appoggia sulle considerazioni di Schillebeeckx. 30 Ibid., 17. 80 dell'antropologia »: « Gesù, Figlio di Dio non cessa di essere un comune uomo ». Si deve considerare l'uomo Gesù come « il veicolo e la misura della comunicazione divina ». « L'unione ipostatica è una concettualizzazione aristotelica del mistero di Cristo ». «La teologia del Verbo incarnato da la preminenza alla persona divina responsabile dell'elevazione dell'uomo, mentre la ricerca odierna parte dall'umanità del salvatore per scoprire la situazione che essa raggiunge con Dio ». « Non e Dio che chiude la realtà umana di Cristo assumendola in se, ma e piuttosto l'uomo che scopre in se una componente superiore, divina, e conseguentemente una capacità e potenza pari a quella di Dio
»31. L'autore abbandona « l'ipotesi tradizionale » della persona divina del Figlio che entra nella storia. « Un uomo non si trasforma mai in Dio, ma e in grado di far trasparire dalla sua vita e dai suoi comportamenti la santità e bontà dell'essere ultimo. Tutto Dio e in Cristo e tutto Cristo e nello stesso modo Dio, poiché nessuna esperienza ha rasentato il divino quanto quella dell'uomo Gesù. Egli ha agito come Dio avrebbe agito se poteva operare di persona in mezzo agli uomini. Gesù e perciò la vera manifestazione di Dio sulla terra, il figlio perché il figlio e ciò che più si avvicina e ripete il Padre »32. Cosa diventa la Trinità? L'autore prospetta la questione con una facezia: se non diciamo che Dio e uno e trino, può darsi non interessi troppo a Dio, perché sa bene quello che egli é. Poi invoca la prevalenza di una fede viva: « Non è " la convinzione " che l'essere sia uno nella natura e tre nelle persone, o che in Gesù Cristo vi siano due nature in una persona che salva, ma l'intesa, l'accordo, la comunione vitale con loro. Dio non si e manifestato per far conoscere chi egli e (non lo saprà mai nessuno), ma per svelare ciò che egli fa... » u. La filiazione divina e una proprietà che concerne ogni uomo. « La filiazione di Gesù può essere propria, unica, ma appartiene sempre ad un uomo, dunque fondamentalmente ad ognuno dei suoi simili. L'annunciò di Cristo segna la fine della trascendenza e del31 Gesù Cristo, in J. B. BAUER-C. MOLARI, Dizionario Theologico, Assisi (Cittadella) 1974, 283. 32 La conversione della Chiesa, 92-93; questo testo e ripreso come citazione dall'articolo precedente, con qualche modifica. 33 Ibid., 138. 81 l'assoluto di Dio. Se l'essere supremo si manifesta come padre e chiama l'uomo suo figlio, vuol dire che il rapporto fra loro e più stretto e più intimo che si pensi. L'uomo non e prodotto ma generato da Dio. La creazione parte da niente, la generazione e una emanazione del proprio essere »34. L'autore ha definito bene il suo pensiero affermando che la cristologia e un capitolo dell'antropologia. Gesù e ridotto a un uomo. Quest'uomo ha scoperto in se stesso una filiazione divina che appartiene ad ogni uomo, e in lui Dio si e manifestato. Quest'uomo non e Dio, non e il Figlio unico trascendente da Dio che avrebbe assunto una natura umana. In Gesù l'autore vede la fine della trascendenza e dell'assoluto di Dio. Sottolinea l'immanenza del Dio rivelato da Gesù, sebbene non si possa dire che Dio diventa « assolutamente immanente » 35. Significativa e la conclusione dell'opera sull'itinerario spirituale di Cristo: « Bisogna che Dio diminuisca e che l'uomo cresca »36. 3. Le « ombre » del Cristo del Vangelo Come appare l'uomo Gesù? Nel ritratto evangelico di Gesù vi sono delle « ombre »: « L'amore di Cristo per i suoi simili sembra segnare pause ed arresti. La sua mitezza non appare sempre inalterata. I suoi comportamenti non sempre si rivelano dettati dalla carità che egli predica »37. «I suoi comportamenti con gli apostoli, i nemici, la folla non rivelano sempre benevolenza e comprensione. La calma e l'imperturbabilità, che invoca nelle sue esortazioni, sembra essergli a volte mancata. Gli apostoli ascoltano frequentemente rimproveri e critiche più che parole di incoraggiamento e di conforto ».38 Fra gli esempi citati vi e l'atteggiamento verso la Samaritana: la pazienza iniziale si trasforma finalmente « in un improvviso, quasi proditorio attacco ». Alla folla che assiste incerta, e forse divertita, al fallimento della missione apostolica, risponde con un gesto di grave insofferenza: « Fino a quando resterò ancora in mezzo a voi? » (Mt. 17, 17). 34 Gesù Cristo, 284. 35 Itinerario 2, 223. 36 Itinerario, J>, 226. 37 Itinerario, 2, 182. 38 Ibid., 183. 82 Il modo di parlare e ugualmente giudicato con severità. « Il tono del discorso della montagna e in genere degli altri annunci e sempre perentorio, autoritario, incontrovertibile. L'intimazione del Padre nella scena della trasfigurazione " Questi e il mio figlio, ascoltatelo " sembrano coincidere con Patteggiamento abituale di Gesù (Mt. 17, 5). Non sembra che egli parli per aiutare l'uomo a portare avanti la sua ricerca, ma piuttosto per imporre indiscutibilmente le soluzioni dei problemi che egli possiede. È un maestro, ma di stile antico, che non ammette facilmente interlocutori e tanto meno contradittori. Il " dialogo " non sembra un metodo che egli conosca e applichi »39. Gesù non fa neanche dei grandi sforzi per comprendere i suoi nemici: di fronte ad essi la sua violenza non si trattiene. « Se essi l'insultano, l'ingiuriano, egli risponde con altrettanta durezza »40. « La legge del taglione " occhio per occhio dente per dente " che Gesù ha abrogato nel discorso della
montagna (Mt. 5, 39), sembra aver conservato il suo valore nei riferimenti con i suoi oppositori, i responsabili del suo fallimento »41. Le invettive contro le città del lago e contro i nemici tradiscono quasi un desiderio di vendetta, una specie di compiacimento nel castigo. Il messaggio della carità sembra ancora compromesso da ulteriori affermazioni: « Chi non odia suo padre... » (Lc. 14, 26). « Non sono venuto a portare la pace, ma la spada » (Mt. 10, 34). Queste parole sono contrarie all'armonia morale, esse sembrano chiamare il cristiano ad erigersi a giudice della comunità, ad opporsi a tutti, e a rinchiudersi in una segregazione poco favorevole alla costruzione della città secolare. 4. Il vero volto di Cristo Queste « ombre », nota l'autore, provengono da malintesi e da false impressioni. La predicazione apostolica trasmette il Cristo con le preoccupazioni, i problemi, i sentimenti e risentimenti della comunità cristiana. Gesù si e scontrato apertamente col suo ambiente, ma non nel modo descritto nei testi evangelici. Questi testi ci fanno sentire la voce della chiesa alle prese con l'ostilità della sinagoga 39 Ibid., 183-184. 40 Ihid., 184. 41 Ibid., 185. 83 e delle scuole rabbiniche. Ci si può domandare se la maledizione contro le città del lago e contro gli scribi e i farisei, non sia una espressione venuta dai discepoli, e se l'espulsione dei venditori dal .tempio non sia un espediente letterario per dimostrare lo zelo de! Salvatore. I vangeli non conservano sempre la fisionomia originale di Gesù. Gli atteggiamenti che talvolta gli attribuiscono sono troppo in contrasto con altri, per essere considerati autentici: Gesù era caratterizzato dalla sua benevolenza e comprensione, e non ha potuto abbandonarsi al risentimento e alle aspre polemiche. Gesù era un uomo del suo tempo, ma non gli si può attribuire dell'aggressività. « Le ombre che sembrano calare sulla figura di Gesù sono i riflessi che la comunità e gli uomini, che gli sono attorno, hanno gettato sulla sua persona » 42. Con questo l'autore vuol restaurare il vero volto di Cristo. Tuttavia la sua presentazione solleva delle domande. La restaurazione susseguente può cancellare tutto quello che e stato detto delle imperfezioni di Gesù? Oppure, se le cancella, non sarebbe un togliere valore ai testi evangelici? Se per esempio il tono del discorso sulla montagna e degli altri annunci e sempre autoritario, si fa fatica pensare che questo modo di parlare non risalga a Gesù: se si nega che sia così, che cosa rimane di questo discorso e di questi annunci? è solo ammettendo una considerevole deformazione della figura del Maestro ad opera dei suoi discepoli, che si potrebbe discolpare Gesù dai rimproveri che gli vengono indirizzati. Non e cosa grave dare una interpretazione poco favorevole del Cristo del Vangelo, quando e attraverso i testi evangelici che la Chiesa cerca di raggiungere il Gesù nel quale crede? C) GESÙ IL CRISTO: SENSO DELLA COMPRENSIONE CHE L'UOMO HA DI SE STESSO, SECONDO DAVID TRACY In una recente opera in favore del pluralismo, David Tracy ha riservato alla cristologia un capitolo delle sue considerazioni generali sulla religione. Ogni tradizione religiosa specifica, egli scrive, ha il suo punto 42 Ibid., 188. 84 di partenza in una particolare intuizione religiosa43. Si sforza dunque di esprimere l'intuizione alla base della religione cristiana. Egli opta fra due concezioni del cristocentrismo. La prima, che egli chiama « esclusivista », considera che solo la rivelazione speciale di Dio in Gesù Cristo da un senso alla comprensione che l'uomo ha di se stesso. È la teoria che si trova specialmente nella cristologia « sofisticata » di K. Barth. La seconda, « inclusivista », riconosce l'applicabilità universale di Gesù Cristo alla situazione umana, ma non in modo esclusivo. È questa seconda posizione che adotta Tracy, vedendola come implicata nella volontà salvifica universale di Dio44. Si augura d'altronde che oltre alla storia di Gesù, si ascoltino con freschezza di spirito le storie di Budda, di Maometto e di Krishna45. Si erge soprattutto contro ogni interpretazione che attribuisca una realtà metafisica all'affermazione che Gesù e il Cristo, visto che solo la concezione di Dio implica una realtà metafisica: « In termini propri la comprensione di Dio e la comprensione di una realtà metafisica. Perché il concetto di Dio, se e pensato in maniera coerente, e sia necessario sia impossibile. La realtà di Dio per il cristiano e una realtà che tocca necessariamente tutta la nostra esistenza o necessariamente non esiste affatto. Invece la realtà cristologica — la realtà dell'automanifestazione di Dio in Gesù come il Cristo — non e una realtà metafisica, ma un fatto. Non vi era e non vi e stretta necessità per questa azione »46. La formula impiegata da Tracy per definire la religione cristiana: « Gesù e il Cristo» e già significativa.
Egli nota che « Cristo» o « Messia » e un ufficio. Non e un titolo che ha un valore ontologico. In Gesù vi e semplicemente un « fatto », un'azione di Dio che si manifesta. L'esclusione di una realtà metafisica significa un'esclusione dell'lncarnazione tale quale e ammessa dalla fede cristiana tradizionale, perché l'lncarnazione comporta una realtà metafisica, pur essendo libero procedimento di Dio. Se Tracy ammettesse che il Cristo e Dio, dovrebbe ammettere che la realtà del Cristo, non meno della realtà di Dio, tocca tutta la nostra esistenza e ciò necessariamente fin da quando Cristo esiste. Ma egli si guarda bene dal dire che Gesù e Dio. 43 Blessed Rage for Order, The New Pluralism in Theology, New York 1915, 205. 44 Ibid., 206-207. 45 Ibid., 204. 46 Ibid., 205. 85 Gesù « è il rappresentante, la Parola, il Gesto, il vero Destino di Dio stesso. Il Dio rivelato nelle parole, gesti e destino di Gesù il Cristo, e il solo Dio che esiste — un Padre amante, giusto, che promette il potere di una nuova giustizia — »47. Non si tratta di parlare di un « nuovo Dio radicalmente differente dal solo Dio che vive »: proclamare che Gesù e il Cristo significa « rendere più efficace, più rappresentativa, più umana la fede fondamentale nel Dio che e manifestato sempre ed ovunque »48. Il carattere unico della rivelazione di Gesù e la sua differenza radicale con tutte le altre manifestazioni di Dio, sono dunque misconosciute, precisamente perché Gesù non e riconosciuto come il Figlio di Dio incarnato. Il senso del Gesù storico non e « un invito a vivere alla presenza del dio cristiano di fronte ad altri due », ma a vivere alla presenza del solo Dio « manifestato qui come il " Padre " del Signore GesùCristo »49. Il solo Dio e il Padre di Gesù, e non si può fare di Gesù « un dio cristiano ». Per quanto concerne il Gesù storico, l'indagine nella sua coscienza e scartata, poiché ogni ricostruzione dello stato psicologico di una figura storica cozza contro difficoltà insormontabili. Non possiamo dunque concludere che Gesù aveva una coscienza messianica 50. Ma questo problema non e che secondario, perché ciò che importa e il significato esistenziale della proclamazione che Gesù e il Cristo. « Nella confessione di Gesù come il Cristo, nella confessione di Gesù-Cristo come Signore, i cristiani trovano una vera rappresentazione limite delle loro vite, come delle vite la cui fede di base e fondata sull'azione del Dio amante ». I cristiani trovano in questa confessione « non una verità metafisica al di fuori dei tempi », ma « la rappresentazione fattuale, simbolica della verità esistenziale fondamentale dell'esistenza »51. così il senso delle affermazioni cristologiche risiede nel loro valore esistenziale. Il significato esistenziale del simbolo della croce e della risurrezione di Gesù il Cristo non si scopre « giustificando miracoli e profezie, né convalidando storicamente tale o tal'altra interpretazione della fede nella risurrezione, né sviluppando una metafisica che fa emergere le " verità eterne " del senso di questo simbolo, né formulando nuove leggi, né nuove 47 Ibid., 220. 48 Ibid., 222. 49 Ibid., 221. 50 Ibid., 216-218. 51 Ibid., 221. 86 credenze che ricoprano il simbolo e oscurino il suo significato e la sua potenza esistenziale » n. Tutta la cristologia e prospettata così in funzione della situazione esistenziale dell'uomo e come rappresentazione di questa situazione; « il fatto che le nostre vite sono, in realtà, piene di senso; che viviamo realmente nella presenza del Dio amante; che la parola finale sulle nostre vite e quella della grazia e il potere finale e l'amore »53. Le affermazioni cristologiche sono dunque ridotte, in fin dei conti, ad affermazioni esistenziali, antropologiche. è vero che nella situazione esistenziale, la relazione fra Dio e l'uomo e espressamente sottolineata, poiché in Gesù Cristo vi e una rappresentazione di Dio. Ma Gesù non e il Dio che entra in rapporto con noi. Dio agisce in lui, ma non tramite l'Incarnazione; questo Dio e quello che si manifesta al di fuori della rivelazione cristiana. Non essendo Dio, Gesù non e più il solo a dare all'esistenza umana il suo vero senso. Tracy non nega espressamente, in termini chiari, che Gesù sia Dio. Ma leggendo le sue considerazioni cristologiche, si ha l'impressione che voglia, soprattutto, opporsi all'affermazione tradizionale secondo la quale e il Figlio di Dio incarnato: nega ogni valore metafisico al fatto di Gesù Cristo, protesta contro tutto quello che sarebbe « un nuovo Dio », un « dio cristiano », una « nuova credenza » che ricoprirebbe il simbolo. L'affermazione che Gesù e il Signore, significa semplicemente il valore che acquista la nostra vita, per
la presenza del Dio amante. D) UNA PRESENTAZIONE CATECHETICA: GESÙ ESPRESSO CON IMMAGINI E PARADOSSI L'opera « Un catechismo cattolico americano » e collettiva; considereremo qui il capitolo « Cristologia» redatto da Monika K. Hellwig54. Il procedimento usato in questo capitolo consiste nel ricordare le verità affermate tradizionalmente dalla Chiesa, riducen52 Ibid., 222. 53 Ibid., 223. 54 An American Catholic Catecism (ediz. G. J. DTCR), New York (Seabury Press) 1975: M. K. HELLWIG, Christology, 66-77. 87 done in due modi il loro valore e il loro significato: innanzi tutto con la spiegazione minimizzante della loro origine, in seguito con una interpretazione che le riporta ad implicazioni pratiche relative alla vita cristiana. Così per quanto attiene all'affermazione centrale della divinità di Gesù, ci viene detto che essa proviene dalla testimonianza post-pasquale della prima generazione di cristiani e che non possiamo risalire al di là, ne dimostrare che prima della sua morte Gesù abbia rivendicato questa divinitàK. Questa affermazione si situa nel mistero, al di fuori dei limiti del linguaggio umano, e la convinzione di una espressione che non può essere tradotta con dei concetti appropriati. È stata spiegata in tre modi nella storia della Chiesa: con immagini poetiche, con dei paradossi e con negazioni specifiche56. Tra le immagini poetiche vi e questa: « Gesù e il Figlio di Dio per natura e non per adozione; egli e sceso dal cielo e si e fatto uomo; Gesù e il Verbo di Dio, pronunciato nell'eternità come nella storia... ». Quali sono le implicazioni pratiche di questa immagine? « E che per capire a chi somiglia Dio, qual e la promessa di Dio nei nostri riguardi, la sua chiamata e le sue esigenze nella nostra vita, dobbiamo contemplare e meditare la persona, rinsegnamento, la vita e la morte di Gesù... » 57. Gesù e il Figlio che rivela il Padre. Le affermazioni paradossali vertono sulla consustanzialità di Gesù con Dio: la loro implicazione e che Dio e intervenuto nella storia umana, all'interno della libertà dell'uomo, alla quale dona un potere straordinario58. Le negazioni sono le seguenti: l'unione di Dio e dell'uomo in Gesù non .e accidentale ma « sostanziale » nella persona di Gesù. La volontà umana e il pensiero umano di Gesù non sono assorbiti dall'iniziativa divina. L'umanità di Gesù non e semplice apparenza. Praticamente, ciò significa l'esclusione dell'intervento di un « Dio ex machina » che avrebbe semplicemente lasciato all'uomo il ruolo di accettazione riconoscente, di partecipazione rituale e di esecuzione meccanica di un piano prestabilito 59. Ci si domanda se finalmente Gesù e realmente — e non sol55 Ibid., 71-72, n. 23. 56 Ibid., 72, n. 25-26. 57 Ibid., 72-73, n. 27-28. 58 Ibid., 73-74, n. 29-30. 59 Ibid., 74-75, n. 31-32. 88 tanto nelle sue evocazioni poetiche o nelle affermazioni paradossali — la persona divina del Figlio di Dio che si e fatto uomo. Ci si interroga anche davanti alla presentazione del catechismo, sulla realtà della concezione verginale di Gesù,60 la realtà della risurrezione*1. Si constata che la dottrina della redenzione subisce anch'essa una riduzione, perché dicendo che la sofferenza come tale non ha valore redentore e non e stata voluta dal Padre, che solo l'amore ha questo valore, l'autrice omette di riconoscere che l'amore sofferente del Cristo e stato voluto dal Padre e possiede un valore redentore. Le implicazioni pratiche che indicano il senso della dottrina sono riportate alla lotta contro le strutture dell'oppressione62. 60 Ibid., 68, n. 8-9-10. 61 Ibid., 67, n. 4-7. 62 Ibid., 75-77, n. 33-40. 89 CAPITOLO V LINEE ESSENZIALI DELLO SVILUPPO DELLE CRISTOLOGIE NON CALCEDONIANE Dopo aver passato in rassegna le affermazioni particolari di diversi autori, è utile delineare i tratti essenziali che distinguono le cristologie non calcedoniane. Queste cristologie sono troppo differenti le une dalle altre perché si possa condensarle in un apprezzamento sintetico che riproduca il modo col quale ognuna concepisce il Cristo. Vi si manifestano però degli orientamenti fondamentali. A) ORIENTAMENTI DOTTRINALI
1. L'abbandono dell'affermazione della persona divina Le cristologie non calcedoniane negano, o mettono in dubbio, l'affermazione tradizionale della persona divina del Figlio incarnato. Non basterebbe dire che queste cristologie contestano la divinità di Gesù, poiché il termine « divinità » può assumere diversi significati, e si da il caso che alcuni teologi attribuiscano a Gesù una certa divinità nel senso di una presenza e di un'azione divina che si verificano in lui, oppure di una divinizzazione, di un'assolutizzazione della sua umanità, ossia di una « divinità antropologica ». Quello che distingue la teologia non-calcedoniana è che questa non riconosce in Gesù la persona divina del Figlio che si è fatto uomo. La terminologia impiegata potrebbe talvolta suscitare confusione e velare la vera portata della dottrina adottata. così, la stessa espres91 sione di « persona divina » non è sempre esenta da equivoco: Schoonenberg parla di persona divina, ma precisando che si tratta della persona umana di Gesù che si unisce al modo di essere di Dio che è il Logos e che a questo titolo può essere chiamata persona divina.1 Similmente, l'impiego dell'espressione « Figlio di Dio » non basta a garantire l'affermazione della persona divina nel suo valore autentico; questa espressione è stata interpretata sia nel senso evolutivo di cammino verso Dio, secondo Sobrino2, sia nel senso di una relazione filiale dell'uomo con Dio, relazione d'intimità, di fiducia, d'obbedienza o di libertà. In questo caso non si tratta più di una filiazione ontologica, ma affettiva o morale. Anche l'espressione « vero Dio » di cui si serve il concilio di Calcedonia, è stata ripresa da alcune teologie non calcedoniane con una portata differente. Per Hulsbosch significa « rivelazione di Dio »; e così che ogni creatura può essere chiamata « vero Dio », in quanto essa rivela Dio3. Per Küng « vero Dio » vuol dire che Gesù è l'intendente, il rappresentante di Dio, l'uomo nel quale Dio ha parlato ed agito, rivelandosi in una maniera definitiva4. Nelle cristologie non calcedoniane, si evidenzia spesso la cura di mantenere la terminologia tradizionale. L'esempio più caratteristico e quello dell'opera di Veldhuis, che presenta un commento del credo di Nicea-Costantinopoli, mantenendo tutte le formule, ma dando loro un nuovo significato, L'intenzione è di far penetrare più facilmente la nuova concezione del Cristo, come rispondente a quanto era stato detto antecedentemente nella Chiesa. Talvolta non si è voluta mantenere soltanto la terminologia, ma anche una certa concettualizzazione tradizionale, con uno sforzo d'integrazione nel nuovo modo di pensare. così dopo aver affermato come cosa evidente che Gesù è una persona umana, Schillebeeckx manifesta la preoccupazione di rivendicare a se l'affermazione di un Gesù persona divina di Figlio di Dio; con una « identificazione ipostatica », lui fa coincidere questa persona divina con la persona umana di Gesù. In effetti l'identificazione non può essere che apparente, poiché una identità reale fra una persona divina e una persona umana sarebbe una contraddizione. Il pensiero di Schillebeeckx 1 Trinity - The consummated covenant, 115. 2 Cristologia, 104-105. 3 Jezus Christus, 258. 4 Christ sein, 439-440. 92 sembra essere che la personalità appartiene all'essere umano di Gesù è diventa divina per una certa unione a Dio ma non che la persona divina del Figlio si incarna. In altri autori, al contrario, la cura di salvaguardare le apparenze si sente meno, e viene affermata con più chiarezza la modifica delle prospettive e delle credenze. È quanto si verifica allorché Gesù viene definito come il profeta, o il figlio adottivo di Dio, o ancora, nel campo dell'opera redentrice, come il giusto perseguitato. Infine è proprio la qualifica di profeta escatologico che esprime meglio l'essenziale della figura di Gesù, come tendono a concepirla le cristologie non calcedoniane. Gesù è concepito come l'uomo nel quale Dio si rivela e agisce per la salvezza dell'umanità, nella maniera unica e definitiva che caratterizza l'escatologia. 2. L'abbandono della dottrina trinitaria Una volta abbandonata l'affermazione della persona divina del Figlio incarnato, la dottrina trinitaria perde logicamente il suo valore. È così che, staccandosi dal dogma di Calcedonia, Schoonenberg ha adottato una concezione di Dio che non risponde più all'enunciato tradizionale della Trinità. Egli ritiene che non si può sapere se Dio era già Trinità prima della sua rivelazione, ossia prima del fatto di Gesù. Ragiona poi come se in Dio, nell'eternità preesistente, .non vi fosse che una sola persona; su questo argomento si riferisce a quanto propone K. Rahner secondo cui Dio sarebbe una persona singolare in tre modi distinti di sussistenza5. Qualifica il Logos e lo Spirito come modi divinità, o anche delle
estensioni della persona di Dio7. Solo nella persona umana di Gesù il Logos diventa persona, e non è che nella Chiesa che lo Spirito si personalizza. Ma più recentemente Schoonenberg ha manifestato qualche esitazione fra cristologia dello Spirito e cristologia del Logos, dichiarando che si poteva identificare il Cristo preesistente con il Logos e lo Spirito8. Le persone dunque sono ridotte a dei modi divini, e i modi del Logos e dello Spirito si distinguono in una maniera molto mobile ed imprecisa. Anche Hulsbosch pensa che la Sapienza di Dio ha preso la sua 5 Gods tegenwoordigheid in Christus, 394. 6 Trinity - The consummated covenant, 114. 7 Spirit Christology, 368. 8 Ibid., 374. 93 personalità nella « soggettività » o persona umana di Gesù; essa non era, preliminarmente, persona divina. Egli non sviluppa la sua posizione circa la Trinità, ma sembra si attenga al Dio dell'Antico Testamento, concepito come una persona. È anche all'unico Dio dei giudei che si riferisce Küng per reinterpretare la dottrina trinitaria. Egli riconosce, nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito, non l'unità di tre persone, ma una maniera di esprimere Gesù nella sua relazione a Dio: Gesù è il vero uomo che rivela il vero Dio, ed è questo nello Spirito; lo Spirito è presenza di Dio e di Cristo nella comunità e in ogni credente9. Anche la Trinità e implicitamente esclusa da Tracy, quando sottolinea che il solo Dio è il Padre di Gesù e che non si può fare di Gesù « un dio cristiano » 10. Ciò significa che ammettere la persona divina del Figlio, sarebbe affermare parecchi dii. Pikaza opera un rovesciamento nella teoria trinitaria dicendo che Dio è l'unione del Padre (trascendente) e di Gesù (centro del mondo), raccomandando un cambiamento di terminologia: bisognerebbe affermare che in Dio vi sono due nature, la trascendenza originale di Dio e la realtà umana di Gesù, in una unione di persona 11. Quanto allo Spirito, non ha una personalità distinta da Dio Padre, ed è lo Spirito non solo del Padre, ma dell'umanità messianica di Gesù12. 3. L'abbandono della dottrina del sacrificio redentore Dal fatto che Gesù non è più riconosciuto come Figlio di Dio, ne deriva necessariamente una modifica della dottrina della salvezza. In generale le cristologie non calcedoniane si allontanano dalla dottrina tradizionale del sacrificiò redentore, che implica un'efficacia dovuta alla personalità divina del Salvatore. Per Schoonenberg, l'efficacia della redenzione consiste nell'esempio dato da Gesù: « tutto è questione d'esempio »13. Gesù avrebbe agito sull'umanità non con un sacrificio che comporta soddisfazione e sostituzione, ma mediante un esempio contagioso d'amore. Nella sua interpretazione del mistero pasquale, Duquoc si limita 9 Christ sein, 467-468. 10 Blessed Rage for Order, 221-222. 11 Los origenes, 471482. 12 En torno a «Los orígenes de Jesús», 358-359. 13 Sept problemes capitaux, 155. 94 a considerare Gesù come un uomo. Respinge le teorie della sostituzione penale e della riparazione morale, sostenendo una differenza fra il significato attribuito da san Paolo alla morte sul Calvario e quella che Gesù stesso gli riconosce. L'interpretazione più autentica è quella che proviene dalla figura del profeta martire: la morte di Gesù è quella dell'uomo giusto; in se è banale, non superando quella di altri giusti e di altri profeti, ma riceve un carattere unico con la risurrezione. Con questa risurrezione, Dio ratifica il perdono di Gesù e accredita la sua speranza. Per Duquoc il risuscitato è colui che è libero, di quella libertà che Dio vuol dare all'uomo e che svela il senso della filiazione verso il Padre. L'idea d'una soddisfazione offerta al Padre nel sacrificio è ugualmente scartata da Gonzalez Faus, secondo il quale la redenzione consiste unicamente nella restaurazione della natura dell'uomo. Per Sobrino la teoria della soddisfazione e del sacrificio della croce fa posto ad una teologia della liberazione, secondo la quale Gesù e stato condannato come agitatore politico, per aver voluto procurare agli uomini una liberazione politica e sociale. Per questo autore, Gesù non può più essere considerato nemmeno come un modello, dato che non possiamo imitare la passività da lui manifestata di fronte alla situazione sociale del suo tempo, a causa dell'errore che gli faceva attendere una venuta prossima del regno14. Siccome le cristologie non calcedoniane non riconoscono più Gesù come Dio, non possono più discernere in lui il Salvatore divino, autore vero della nostra salvezza. Esse riportano sul Dio distinto da Gesù la qualità di Salvatore secondo la pienezza del significato di questa parola. L'uomo Gesù è colui tramite il quale si è manifestata o si è operata la salvezza, ma questa salvezza viene da un altro, viene da Dio. La formula frequentemente impiegata da Schillebeeckx, « la salvezza
in Gesù da parte di Dio » 15, esprime questo punto di vista. Nella soteriologia tradizionale, Gesù è visto anche come mediatore, ma in qualità di Figlio incarnato che compie la missione affidatagli dal Padre. Il Padre è all'origine di tutto il piano di salvezza. Nelle cristologie non-calcedoniane è Dio l'autore della salvezza, e questa salvezza si effettua tramite l'uomo Gesù, che, non 14 Cristologia, 131. 15 Con questa formula, Schillebeeckx vuole enunciare la realtà essenziale dell'opera salvifica, soecialmente in Gerechtigkeid en liefde. Genade en bevrijdine,. Secondo lui i la verità che si deve ritenere da ognuno degli scritti del Nuovo Testamento. 95 essendo Dio, non può esercitare personalmente l'azione salvatrice, se non in un senso essenzialmente ridotto e non proprio. B) SORGENTI E MODELLI DEL PENSIERO CRISTOLOGICO 1. Contestazione e reinterpretazione dei concili di Nicea e di Calcedonia La negazione della persona del Figlio incarnato si giustifica con l'atteggiamento critico adottato nei riguardi delle definizioni conciliari di Nicea e di Calcedonia. Queste definizioni conciliari sono viste come formulazioni espresse in un contesto culturale oggi sorpassato: il modello di pensiero che vi si esprime non può più imporsi alla teologia contemporanea. Si rimprovera più specialmente al concilio di Calcedonia sia d'aver affermato due nature nel Cristo, sia d'aver eliminato ogni attribuzione di persona umana, ponendo il principio di unità di persona. O ancora si assicura che i concetti impiegati con le formule conciliari, attualmente non possono più avere il senso che era stato dato loro in origine. Si cita specialmente la posizione di K. Rahner, secondo la quale il concetto moderno di persona non corrisponde più a quelle utilizzato nel 451 a Calcedonia, in modo che nell'uomo Gesù si può ammettere l'equivalente d'una persona umana nel senso contemporaneo di centro di attività cosciente e libera. In questo senso, l'affermazione di una sola persona in Gesù, la persona divina del Figlio di Dio, sarebbe sorgente d'errore. La volontà d'innovazione in rapporto alla definizione conciliare e stata spinta da Schoonenberg fino a proporre un rovesciamento del « modello » di Calcedonia: invece di una natura umana personalizzata dal Verbo, bisognerebbe ammettere la personalizzazione del Verbo per mezzo della persona umana di Gesù. Il Logos, modo divino, troverebbe la sua personalità in questa persona umana. Tuttavia, più generalmente, vi è semplice abbandono delle affermazioni di Calcedonia, abbandono motivato dall'evoluzione culturale. Nessun autore si applica ad uno studio approfondito del significato dei termini impiegati dal concilio; sembra evidente che la formula conciliare debba essere « reinterpretata ». Come esempio di reinterpretazione, si può citare quello di Küng. 96 Agli occhi di questo autore, la consustanzialità di Gesù con Dio, proclamata a Nicea, significherebbe semplicemente che non si può reintrodurre il politeismo nella dottrina cristiana e che in Gesù, non è un secondo Dio, né un semi-Dio, ma il vero Dio che è presente.16 Quanto alle « formulazioni paradossali » di Calcedonia, l'intenzione del concilio sarebbe stata semplicemente quella di assicurare che l'umanità di Gesù non fosse sacrificata, per lo meno fondamentalmente, al suo essere divino17. Per conformarsi a quanto voluto dai due concilii, basta dunque affermare che il vero Dio è presente in Gesù e che questi è un vero uomo. La giustificazione del minimalismo dottrinale, che si stacca dalle definizioni conciliari, è stato espresso in maniera significativa da Hulsbosch: la formula di Calcedonia, scrive questo autore, può suscitare molte obiezioni, mentre un'altra formula non può provocare alcuna resistenza: « Dio si rivela nell'uomo Gesù in maniera unica » 18. Vi è dunque un desiderio di rendere la fede più accettabile, liberandola da formulazioni antiche. In certi autori si constata che tutto l'insieme delle formule dogmatiche viene rimesso in questione e che non si tratta più soltanto di esprimere in termini nuovi che cosa è il Cristo, ma di riformulare tutto il contenuto della fede. La mutabilità del dogma è eretta a principio. Affermando il principio di questa mutabilità, Schoonenberg fa una distinzione fra dogmi centrali e dogmi periferici, essendo questi ultimi più suscettibili di essere riveduti nel loro contenuto 19. Tuttavia il dogma centrale dell'unica persona in due nature non è meno sottoposto a trasformazione dei dogmi mariani. La reazione anticalcedoniana s'inquadra così in una prospettiva più universale di relativizzazione delle espressioni di fede enunciate dal magistero della Chiesa. 2. Riduzione del valore della testimonianza evangelica Le cristologie non-calcedoniane, in generale, non sono il risultato di studi esegetici; esse provengono piuttosto da un principio di reinterpretazione della dottrina di fede. Ma esse si appoggiano 16 Christ sein, 438. " Ibid., 439.
18 Jezus Christus, 260. 19 Historiciteit en interpretatie van bet dogma, 301. 97 su una esegesi che sistematicamente riduce il valore dei testi scritturali, soprattutto dei testi evangelici. Manifestano una tendenza a rigettare, come prive d'autenticità storica, le parole o i gesti dei Gesù terreno che testimoniano la sua identità divina. Quello che esprime questa identità viene attribuito alla comunità cristiana primitiva; è essa che ha cambiato il predicatore Gesù in un Cristo predicato, e che lo ha presentato sotto il titolo di Figlio di Dio. L'influsso della corrente di demitizzazione, della quale R. Bultmann è stato il grande protagonista, si fa sentire, ma con sfumature ed in proporzioni diverse. Generalmente le cristologie non calcedoniane ammettono una base più larga di storicità dei testi evangelici di quanto non lo riconosca Bultmann, e talvolta gli autori dichiarano di voler reagire contro il minimalismo bultmanniano. Ma per quanto concerne la testimonianza delle scritture sull'identità divina di Gesù, le posizioni raggiungono, molto spesso, il punto di vista di Bultmann, che fa della comunità la responsabile dell'affermazione di questa identità e dell'elaborazione di una figura mitica di Figlio di Dio incarnato. Non vi è stata dunque in Gesù la coscienza di essere il Figlio di Dio. Qualche autore arriva persino ad affermare l'impossibilità che Gesù abbia avuto la coscienza umana di essere Dio a). Uno afferma inoltre che Gesù è il Figlio unico eterno di Dio, e così conserva un'affermazione che ordinariamente è abbandonata dalle cristologie non calcedoniane, ma ne rimette in causa il fondamento, assicurando che « Gesù — anche se fosse da tutta l'eternità Signore e Cristo — ha vissuto questa Incarnazione nel totale incognito della condizione umana, senza averne chiaramente coscienza »21. Quanto poi alla coscienza messianica, è anch'essa oggetto di reticenze o di negazione. Gesù aveva coscienza di essere un giusto perseguitato o un profeta martire, ma alcuni pensano che non avesse coscienza di dover compiere un ruolo propriamente messianico, e, più generalmente ancora, gli viene negata la coscienza di aver voluto salvare l'umanità con il suo sacrificio. Perciò Gesù non è considerato neppure come colui che ha voluto fondare la Chiesa. Si dice che « sembra non abbia voluto fon20 HULSBOSCH, Jezus Christus, 255; Cahier 7 de la Tourette. Jesus Sauveur, 15. 21 Ibid., 18. 98 dare una nuova religione »22. Küng poi vorrebbe che non venisse esagerata l'originalità di Gesù 23, ed altri tendono anche a considerarlo piuttosto come un « giudeo » che come un « cristiano ». Molti riprendono l'opinione già emessa nel secolo scorso da D. F. Strauss, secondo la quale Gesù si è sbagliato, attendendo per un tempo molto prossimo la venuta dei regno escatologico e la fine dei mondo. A causa di questo errore, egli non avrebbe previsto lo stabilirsi della Chiesa. È proprio su questo punto che i discepoli hanno dovuto sorpassare quello che aveva voluto il Maestro, o secondo l'espressione di Beaude, dimenticarlo, « ucciderlo » nel senso freudiano per cui il figlio, per costituirsi figlio, mette a morte suo padre 24. Quest'ultima espressione è molto forte, ma altri autori, senza ricorrere a immagini così violente, adottano la stessa posizione di fondo: organizzandosi in Chiesa i discepoli hanno oltrepassato ciò che aveva pensato e voluto Gesù. La predicazione di Gesù è spogliata da ogni cristocentrismo; si adotta come principio che Gesù non predicava se stesso, ma che predicava il regno di Dio. Questo principio d'interpretazione permette di giustificare una « decentrazione » che evita di concentrare l'attenzione su Gesù e guarda a Dio, un Dio distinto da lui, come il vero centro. Fra le parole di Gesù, quelle che testimoniano una conoscenza di origine superiore sono in modo particolare considerate non autentiche. Lo stesso dicasi delle predizioni della Passione, interpretate come « vaticinia ex eventu », predizioni inventate a posteriori dai discepoli sulla base degli avvenimenti. L'istituzione dell'eucaristia è riportata al semplice fatto di un pranzo d'addio che si sarebbe arricchito, più tardi, in virtù dell'interpretazione della comunità, di formule secondo le quali il corpo e il sangue erano dati in sacrificio. Nei racconti evangelici le parole alle quali si riconosce una più grande verosimiglianza di autenticità storica sono quelle della dichiarazione escatologica con cui Gesù annuncia che non berrà più vino fino alla sua entrata nel regno. Questa posizione, che risente l'influsso di Marxsen, e in particolare quella di Schillebeeckx25 e di Küng.26 22 H. BOURGEOIS, Liberer Jesus. Cbristologies actuelles, Parigi 1977, 141. L'autore in quest'opera non elabora una cristologia propria, ma si pronuncia in favore di un'apertura universale alle cristologie più diverse. 23 Christ sein, 304-306. 24 Jesus oublie, 90. 25 Jezus, 251-256. 26 Christ sein, 312-314.
99 Il valore storico dei racconti dei miracoli è rifiutato o considerato come sospetto, sia sistematicamente con l'incriminazione della mentalità affamata di prodigi che li avrebbe forgiati, sia in gran numero di casi, con una ripugnanza più manifesta per quei miracoli che comportano una deroga alle leggi della natura inanimata: il vino di Cana, la moltiplicazione dei pani, il camminare sulle acque, la tempesta sedata, la trasfigurazione. Il rifiuto d'ammettere un'intrusione dell'azione divina nell'ordine delle causalità naturali, si accorda con la posizione presa nei riguardi dell'Incarnazione stessa. Questa è l'esempio dell'intervento di Dio nell'ordine delle generazioni umane. Coloro che respingono questo intervento, negando che il Figlio di Dio si sia veramente incarnato, sono portati a scartare le altre manifestazioni dell'ingerenza divina soprannaturale nelle realtà visibili dei mondo. L'affermazione della concezione verginale è relegata nell'ombra o sottoposta a reinterpretazione, come significante semplicemente il dono divino che ci viene fatto in Gesù; su questo punto nondimeno si può notare il caso eccezionale costituito da Hulsbosch con la sua adesione formale ed esplicita alla fede nella concezione soprannaturale operata dallo Spirito divino nel seno verginale di Maria. Ma altri autori s'impegnano nel dimostrare che ai giorni nostri non si può più ammettere il significato biologico della concezione verginale, e che in questa idea bisogna riconoscere una creazione della comunità primitiva che voleva sottolineare l'origine divina di Gesù, creazione che appartiene ad un universo mitologico. Quanto poi alla risurrezione, che spesso è vista come il punto di partenza della fede in Cristo, o della trasformazione di « Gesù » in « Cristo », essa non è più concepita come un avvenimento particolare prodottosi in un momento storico, ma piuttosto come l'espressione della convinzione che Gesù continuava a vivere al di là della morte. I discepoli hanno fatto l'esperienza della presenza spirituale di Gesù nella loro vita ed hanno capito che colui che era morto era sempre vivo con loro. L'insistenza sulla realtà obiettiva della risurrezione non significa che vi è stato un evento di risurrezione corporea, ma che l'esperienza dei discepoli è risultata da un fatto obiettivo, quello della vita trionfante di Gesù dopo l'evento della morte. Molte sfumature diverse sono state apportate all'interpretazione dei racconti evangelici, ma si può constatare, in linea generale, una riduzione delle dimensioni del Gesù del vangelo: riduzione nel campo 100 fisico o biologico, per l'atteggiamento negative verso la concezione verginale, verso i miracoli e la tendenza a spiegare la risurrezione come una semplice esperienza spirituale dei discepoli; riduzione nel campo psicologico, con lo sforzo di concepire la coscienza di Gesù sul modello di quella degli altri uomini, senza una coscienza propriamente messianica, senza volontà di fondare la Chiesa ne d'istituire l'eucaristia; riduzione della dottrina predicata, nel suo insieme o su certi punti, agli insegnamenti dei giudaismo. 3. Le strutture filosofiche I concetti filosofici che sembrano aver esercitato il più grande influsso immediato nell'elaborazione delle cristologie non calcedoniane, sono quelli che K. Rahner ha utilizzato in cristologia come pure in teologia trinitaria; abbiamo già sottolineato l'importanza dell'adozione di una nozione moderna di persona che sarebbe differente dalla nozione antica. Questa nozione della persona, centro d'attività cosciente e libera, va a sfociare logicamente nell'affermare una sola persona in Dio, con tre « modi » e ad ammettere nel Cristo una persona umana. Rahner voleva rimanere essenzialmente fedele alla dottrina di fede della Chiesa, e considerava trattarsi più di una nuova terminologia che di un cambiamento profondo nel pensiero. Ma in molte cristologie non-calcedoniane, si tratta effettivamente di nuove posizioni ontologiche. Dio non è che una persona, con eventualmente i modi che sono il Verbo e lo Spirito: il Cristo è semplice persona umana. Alcune cristologie di lingua spagnola sembrano ugualmente influenzate dall'autotrascendenza attribuita all'uomo da Rahner: essa permette di giustificare un processo per il quale l'uomo Gesù è l'uomo assoluto o diviene Figlio di Dio. Già il quadro evoluzionista che Hulsbosch si era tracciato nel suo primo saggio, implicava l'elevazione dell'uomo che avrebbe conquistato possibilità divine. Attraverso queste idee emerge l'influsso esercitato da Heidegger e più fondamentalmente da Hegel. Il principio hegeliano dell'uomo che trascende se stesso, e di una incarnazione che non è che l'immanenza di Dio che si rivela nell'uomo, è servito da punto d'appoggio nella nuova interpretazione della realtà di Cristo. Quanto al quadro evoluzionista adottato da Hulsbosch, secondo la prospettiva di Teilhard de Chardin, ha permesso di concepire un 101 Cristo formato dal basso, come prodotto dell'evoluzione della materia e della vita; ma questo quadro è stato espressamente ripudiato in seguito dallo stesso autore, che ha cercato una spiegazione nell'unione
dell'uomo Gesù con la Sapienza divina che presiede all'evoluzione. 4. La prospettiva antropologica L'intenzione più fondamentale delle cristologie non-calcedoniane è antropologica. Esse infatti sorgono dal desiderio di adattarsi all'uomo contemporaneo. Questa preoccupazione le spinge a « umanizzare » il messaggio della Rivelazione, a fargli prendere dimensioni più a misura dell'uomo che deve riceverlo. La mutabilità delle espressioni dogmatiche e il relativismo delle formulazioni della fede, non solo giustificano lo sforzo di trasposizione dei dogmi cristologici in formule attuali, ma anche la loro traduzione in termini più umani, più orizzontali. È così che tutto quello che nel Cristo manifesta la trascendenza divina, tende ad essere abbassato a livello dell'uomo, in modo che gli uomini ai quali s'indirizza il Vangelo, possano accoglierlo più agevolmente. L'obiettivo antropologico si afferma soprattutto nell'accento posto su ciò che è umano in Gesù. Reagendo contro le tendenze della teologia anteriore, che esaltava innanzi tutto la divinità di Cristo, le teologie non-calcedoniane vogliono mettere in piena luce la sua umanità. È in nome di questa umanità integrale che esse attribuiscono a Gesù una persona umana; verità d'una evidenza massiccia, dichiara Schillebeeckx, il quale aggiunge che nella nostra storia umana non si vedono circolare degli spiriti o dei dii travestiti27. Agli occhi di Schoonenberg non si può prendere sul serio la realtà umana di Gesù, se non si ammette in lui una persona umana28. Vi è talvolta una volontà di dimostrare che Gesù era un uomo totalmente simile agli altri, che la sua morte è definita banale, non avendo nulla più di quella dei giusti e dei profeti.29 Tuttavia, questo livellamento, operato con lo scopo di sottolineare la solidarietà 27 Jezus, 26. 28 Ein Gott der Menschen. 77-78. 29 DUQUOC, Christologie, II, 200. 102 di Gesù con gli altri uomini rendendolo così più accessibile, può diventare talmente eccessivo che l'umanità di Gesù perde quel valore che assumeva per tutta l'umanità: è il caso dei Gesù presentato da Pohier, un Gesù che ha sofferto poco e di cui la croce non dovrebbe servire né da rifugio, né da consolazione per i cristiani che a torto hanno fatto della sua morte la capitale dei dolore.30 Ma indipendentemente da questi saggi di « banalizzazione » della morte di Gesù, occorre notare la tendenza a indicare in quest'uomo un modello dei destino umano; quello che fa scoprire all'uomo il senso della sua esistenza. La verità di Gesù Cristo, dice Schillebeeckx « ci svela le dimensioni più profonde della nostra esistenza, la nostra fiducia pratica di base e la sorgente che è Dio »31. Ma precisamente, in quanto modello d'umanità, Gesù e presentato come distinto da Dio, più particolarmente allorché lo si definisce come l'esempio della fede dell'uomo che crede in Dio. La fede tradizionale in Gesù allora è ricondotta alla fede esemplare di Gesù 2. Si riscontra anche un orientamento a riconoscere in Gesù una rivelazione dell'uomo, più ancora di una rivelazione di Dio, sebbene questa non sia esclusa. La « trascendenza umana », la preesistenza o esistenza per gli altri, definiscono questo Gesù che non è più persona divina. In lui vi è una esaltazione di tutto l'umano che si riflette poi su tutti gli uomini. È questa valorizzazione dell'uomo che polarizza tutta la cristologia. 30 Quand je dis Dieu, 173-181. 31 Godsdienst van voor mensen, Tijdscbrift v. Theologie 17 (1977) 368. 32 Cfr. GUERRERO, El otro Jesús, 315. 103*** PARTE II PRINCIPI METODOLOGICI può giungere fino a modificare l'oggetto della FONDAMENTALI fede? Il teologo può proporre una dottrina radicalmente nuova, dichiarando che quanto è CAPITOLO VI LA CRISTOLOGIA E LA stato professato come fede cristiana nei secoli FEDE passati, oggi può essere concepito in maniera La corrente teologica che vuole staccarsi dalla fondamentalmente differente? Può dire: « La professione di fede tradizionale nel Figlio di Chiesa ha preteso, in passato, la fede nel Figlio Dio incarnato, pone in modo più acuto il di Dio che, essendo vero Dio, è divenuto vero problema della relazione fra la cristologia e la uomo, ma noi possiamo esprimere oggi, in altri fede della Chiesa. La cristologia può costruirsi termini, l'identità di Gesù, uomo nel quale Dio al di fuori della fede ecclesiale, e la si è rivelato in una maniera unica, in vista di conclusione di una ricerca esegetica o annunciare e concedere la salvezza all'umanità teologica, può legittimamente contraddire »? l'affermazione fondamentale che riconosce in In breve, la cristologia, in quanto scienza Gesù il Verbo fatto carne? La reinterpretazione teologica, ha il diritto d'allontanarsi dalla fede delle definizioni conciliari e dei testi scritturali, della comunità ecclesiale? Questo problema
impegna tutta la concezione della cristologia, e della teologia, il legame che esiste fra sapere e ricerca da un lato, e atteggiamento di fede dall'altro. 107 A) LA TEOLOGIA, APPROFONDIMENTO DELLA FEDE Non si può perdere di vista il fatto essenziale che il principio d'elaborazione della cristologia è la fede al Cristo, e che questa fede non è semplicemente individuale, ma che e la fede della Chiesa. Se la cristologia esiste, è perché la comunità che crede in Cristo cerca di esprimere il senso della sua fede. I teologi tentano di approfondire questo senso della fede e le sue motivazioni, esplorando le sorgenti della rivelazione e sforzandosi di comunicare i risultati delle loro ricerche in una sintesi organica. Per la loro investigazione sul Gesù della storia, applicano le regole della ricerca storica; per la loro riflessione sull'ontologia di Gesù, si riferiscono alle nozioni essenziali dell'ontologia filosofica o metafisica; per l'interpretazione dei fatti concernenti la coscienza di Gesù, tengono conto dei principi e delle condizioni della psicologia umana. Ma la loro scienza, la teologia, non è mai totalmente simile alla scienza storica, alla metafisica e alla psicologia, perché essa è dominata da un orientamento di fede. Considerando il problema dei rapporti fra il Cristo della fede e il Gesù storico, e la controversia sulla priorità che conviene attribuire all'uno o all'altro, abbiamo osservato che bisogna riconoscere la priorità obiettiva dell'evento storico: è il Gesù della storia che ha costituito il punto di partenza della fede dei discepoli e della Chiesa, e che a questo titolo deve formare l'oggetto delle ricerche sulla sorgente dei cristianesimo. La fede cristiana è una fede nel Gesù storico, e la cristologia deve cercare di scoprire meglio questo Gesù. Si constata che la priorità oggettiva dei fatto storico, non impedisce affatto la priorità soggettiva della conoscenza di fede. Nel « soggetto » ossia nello spirito dei teologo che intraprende la ricerca cristologica, il Cristo è anzitutto il Cristo della fede. È la preoccupazione di una fede più lucida e più profonda che suscita tutta la cristologia.1 È come dire che la cristologia non ha senso se non come spiegazione della fede, e che non può allontanarsi dalla fede della Chiesa se non rinnegando se stessa. È come dire, ugualmente, che in tutta la sua elaborazione la fede ha un compito di profonda ispirazione essenziale. 1 Cfr. la nostra opera « Chi sei tu, o Cristo? », 26-33. 108
Per evitare ogni equivoco sul ruolo della fede, conviene notare che l'intuizione di fede non pretende affatto, in cristologia, sostituirsi alle indagini storiche, ai ragionamenti metafisici e neanche allo studio psicologico. Essa rispetta le regole delle discipline che utilizza nella sua volontà di approfondimento e di chiarificazione. Le convinzioni di fede non debbono intervenire arbitrariamente per modificare le conclusioni di una ricerca: così, ciò che non è storicamente dimostrabile, non è tenuto dalla fede come storicamente dimostrato; la fede non potrebbe, per se stessa, completare quello che manca alla solidità di una testimonianza o al valore di un testo. D'altronde per un'esigenza che le è inerente, la fede deve rispettare il contributo che apporta all'elaborazione della cristologia l'investigazione d'ordine storico e l'aiuto d'altre branche dei sapere. Infatti la fede è adesione alla verità; più essa è sincera e profonda nei teologi, più è incline alla ricerca di ogni verità, sapendo che la rivelazione non può mai essere in opposizione con la verità. Se il ruolo della fede è essenziale in cristologia, si può dire con C. Duquoc che « il teologo si situa dal lato dei credente che oggi vive la sua fede nell'incertezza e nel dubbio »? 2 Osserviamo anzitutto che colui che è realmente credente non è, come tale, nell'incertezza e nel dubbio. La fede infatti è una certezza che esclude il dubbio. È vero che al credente possono sopraggiungere tentazioni di dubbio, ma esse rimangono sempre tentazioni che la fede respinge; incertezza e dubbio non possono incorporarsi alla vera fede. Il teologo ha il compito di aiutare il credente a superare queste tentazioni, illuminandolo sulla risposta da dare ai problemi che lo tormentano. Lungi dal cedere al dubbio e all'incertezza, deve essere il primo a fortificare la sua fede discernendo meglio, con la ricerca teologica, i motivi di credere. Duquoc precisa il suo pensiero aggiungendo: « Dianzi, confessare Cristo si faceva come naturalmente per coloro che provenivano da famiglie cristiane. Oggi il " ritorno a Gesù ", con la forza di contestazione che caratterizza questo movimento, scuote le convinzioni acquisite e pone di nuovo la questione dell'identità di Colui che le Chiese dichiarano loro " Signore ", e che molti credenti giudicano travestito o tradito da esse »3. Queste linee lasciano l'impressione di un indietreggiamento in rapporto alla fede della Chiesa: non è più la 2 Jesus homme libre, 12. 3 Ibid. 109 Chiesa che viene menzionata, ma le Chiese, e si può essere « credenti » pur giudicando che le
Chiese travestano o tradiscano il Cristo. Così si spiega l'orientamento di una cristologia che si stacca dalle affermazioni tradizionali della Chiesa. Il punto di partenza sembra consistere più nell'incertezza e nel dubbio concernenti la rettitudine della fede della Chiesa, che nella professione di questa fede. Non ci si può stupire che il risultato della ricerca rifletta incertezza e dubbio sul valore delle affermazioni tradizionali concernenti Gesù: il dubbio del punto di partenza si ritrova all'arrivo. Certamente il teologo deve prendere sinceramente in considerazione i dubbi e le incertezze riscontrate fra i suoi contemporanei; e simpatizzando con la loro situazione religiosa e cercando di comprendere i loro problemi, che potrà dedicarsi alla sua ricerca. Ma questa simpatia non significa che debba proprio solidarizzare con i movimenti di contestazione che mettono in questione l'identità di Gesù. Presso alcuni teologi è sorta la tendenza di farsi portavoce di rivendicazioni contestatarie. di mettere sotto accusa la Chiesa e le espressioni tradizionali della sua fede. L'audacia fa scandalo e può assicurare un certo successo di pubblicità. Ma la teologia ci perde in serietà e profondità. Il teologo non può adempiere al suo compito che avendo coscienza di appartenere alla Chiesa e di essere chiamato a esprimere la fede ecclesiale con più lucidità. B) IL RUOLO DELLA FEDE NELLA RICERCA Come si potrebbe precisare il ruolo della fede nella ricerca cristologica? 1. La fede prima della ricerca cristologica Abbiamo già ricordato, circa i rapporti fra fede e ricerca storica, due vantaggi che la fede conferisce anzitutto alla ricerca: una predisposizione e una preintelligenza.4 Riprenderemo ora l'esame di questo problema con più ampiezza. La predisposizione costituita dalla fede è il principio motore della ricerca. È la fede che incita il credente ad investigazioni con4 Cfr. Chi sei tu, o Cristo?, 25. 110 cernenti l'oggetto e il motivo del suo credere. Le domande: « cosa debbo credere »? e « perché debbo credere »? si pongono inevitabilmente a colui che vuol riflettere sulla sua fede, e per rispondervi, la ricerca è necessaria. La fede crea l'interesse per la teologia, e più particolarmente per la cristologia, perché il Cristo e al centro della fede. Essa sviluppa il desiderio di conoscere la vera figura di Gesù e di esplorare le sorgenti delle affermazioni fatte dalla Chiesa nei suoi riguardi. Più la fede è viva più è pronta a
fornire uno sforzo considerevole per intraprendere la ricerca teologica. Inoltre, la predisposizione della fede assicura l'apertura dello spirito, necessaria per allargare senza posa la ricerca ed accoglierne i risultati. Il rifiuto di credere chiude lo spirito al mistero; l'atteggiamento del credente che da principio limita la sua fede personale, non ammettendo che alcune affermazioni della fede ecclesiale, per rigettarne altre, trascina in questa proporzione l'incapacità di accettare certe conclusioni della ricerca. Ogni riduzione deliberata della fede all'inizio dell'investigazione, normalmente implica una grande difficoltà, per non dire impossibilità, di accogliere tutto ciò che risulta dall'indagine nel campo della verità rivelata, e più specialmente tutto quello che appartiene alla testimonianza che Gesù ha dato di se stesso. La fede comporta ugualmente una preintelligenza della ricerca teologica per il fatto che implica in se stessa tutto un piano d'investigazione, possedendo gli orientamenti essenziali che dovrà seguire il lavoro d'approfondimento intellettuale. La fede conosce in anticipo non i risultati che otterrà la ricerca, ma la direzione nella quale questa ricerca dovrà svolgersi. Questa preintelligenza è formata dalla fede stessa. Non si deve identificare con la precomprensione che alcuni teologi, come Bultmann, hanno posto come principio preliminare per l'accoglimento del messaggio cristiano. La precomprensione consiste in un'antropologia esistenziale conforme ai concetti di Heidegger, che diventa il criterio più fondamentale dell'interpretazione del messaggio5. Il fatto cristiano è così ridotto ai limiti della posizione adottata concernente l'esistenza e il destino umano. Sono le convinzioni filosofiche o la 5 Cfr. L. MALEVEZ, Histoire du salut et Philosophie, Parigi 1971, 23. «Riassumendo, la regola bultmanniana dell'ermeneutica biblica sembra presentare due aspetti: bisogna affrontare il libro con una certa intelligenza naturale della condizione umana davanti a Dio (aspetto psicologico) e conservare del messaggio solo quegli elementi che possono aiutarci ad approfondire questa intelligenza primera (aspetto critico)». 111 coscienza della situazione esistenziale dell'uomo che allora determinano ciò che deve essere ammesso e ritenuto come valido nel contenuto della fede. In questo caso non si tratta più di una preintelligenza della fede in vista della ricerca teologica, ma di una preintelligenza d'ordine filosofico o psicologico in rapporto alla fede stessa,
preintelligenza che opera una selezione in quello che offrono le sorgenti come oggetto della fede. L'applicazione di un quadro intellettuale preliminare alla verità di fede, restringe arbitrariamente questa verità. Essa appartiene all'atteggiamento ricordato più sopra e che consiste nel limitare la fede prima ancora d'intraprendere la ricerca. Essa restringe l'apertura alla verità rivelata. Al contrario, l'autentica preintelligenza che risulta dalla fede, si caratterizza per l'apertura totale al mistero della rivelazione. Gli orientamenti che essa imprime alla ricerca non vanno nel senso di, una riduzione ne di una selezione dell'oggetto della fede, ma di un'assunzione più ampia di tutta la verità rivelata. Questa preintelligenza s'interdice, per principio, ogni modello preconcetto che non venga dalla stessa fede e che sia improntato ad un sistema filosofico particolare, a un progetto di esistenza individuale o di società. La ricerca cristologica non ha per obiettivo di fissare i tratti di un Cristo sottomesso all'analisi esistenziale, né di presentare un Cristo immagine della rivoluzione sociale. Essa tende semplicemente a scoprire, sotto ogni aspetto, il Cristo quale è autenticamente rivelato dalla fede. 2. La fede nella ricerca cristologica Predisposizione e preintelligenza della fede hanno il loro effetto concreto in tutti i procedimenti della ricerca cristologica. In primo luogo la fede rende il teologo atto a raccogliere i fatti, gli elementi oggettivi forniti dalle testimonianze della Scrittura e le professioni di fede conciliari. Si tratta di elementi oggettivi ma che potrebbero essere rifiutati in virtù di disposizioni soggettive poco favorevoli. Prendiamo un esempio: il fatto di Gesù che cammina sulle acque del lago, attestato da Marco (6, 45-52), Matteo (14, 22-33), Giovanni (6, 16-21). Questo fatto suscita subito lo scetticismo o la negazione in coloro che non credono nella divinità di Gesù: non potrebbe trattarsi che di un racconto leggendario o dell'interpretazione 112 ampliata del fatto che i discepoli hanno visto Gesù sulla riva, nell'ombra della notte. Questo fatto provoca ugualmente la resistenza di coloro che per principio contestano i miracoli ove si manifesta il potere sulle forze della natura, ossia di coloro che non sono disposti a credere che ad una certa forma d'Incarnazione o di rivelazione. Per accettare di credere che Gesù ha camminato sulle acque, bisogna essere animati dalla fede nel potere divino di Gesù, e
di una fede che non pretende di mettere preliminarmente alcuna restrizione alle manifestazioni di questo potere. Questa fede non dispensa il teologo dall'esame dei motivi che portano ad ammettere l'oggettività storica del fatto, ma essa gli permette di accogliere questa oggettività tale quale risulta dall'analisi critica della testimonianza. Anche l'espressione « vero Dio » impiegata dai concilii di Nicea e di Calcedonia, non è accettata nel significato ben preciso che possiede, da coloro che vogliono scorgere in Gesù un semplice uomo. Ciò che è sottinteso e che non è possibile accogliere simile affermazione nel suo contenuto letterale. Per Hulsbosch « vero Dio » significa « manifestazione di Dio »6; per Küng, intendente o rappresentante di Dio7. La fede poi conferisce una capacità di cogliere il valore degli elementi raccolti con la ricerca. Come per gli elementi stessi, noi parliamo di valore oggettivo, valore che emerge da una ricerca diligentemente eseguita. Così la parola « Abbà » che deve essere riconosciuta come una delle più significative fra le parole autenticamente pronunciate da Gesù, ha un valore unico nella rivelazione dell'identità del Figlio. Con questo modo di rivolgersi al Padre, Gesù dimostra i legami d'intimità che l'uniscono a lui, una familiarità che caratterizza i rapporti del figlio con suo padre. Egli si rivela come figlio del Padre, nel senso pieno della filiazione. Ma gli esegeti ed i teologi che non credono nella divinità di Gesù non riconoscono al termine « Abbà » questo valore d'espressione e di rivelazione. Essi interpretano « Abbà » come significante non la coscienza dell'identità di Figlio di Dio, ma la qualità di messaggero di Dio8, la fede o la fiducia9, l'obbedienza 6 Jezus Christus, 254 s. 7 Christ sein, 439-440. 8 Jesus Sauveur, Cahiers de la Tourette, 6, 1118. 9 SOBRINO, Cristologia, 74-80. 113*** filiale10, o l'affermazione della libertà umana ", Mettendo in guardia contro un'eccessiva interpretazione del termine, Küng vorrebbe comprendere « Abbà » nella luce del pensiero giudaico, escludendo ogni allusione ad una vera identità divina di Figli.11 Afferrare il valore di una parola dipende dal valore attribuito alla persona che parla. Colui che crede in Cristo Figlio di Dio è più pronto ad accogliere le sue parole, riconoscendo ad esse un valore plenario: nell'espressione « Abbà », egli coglierà l'intenzione profonda di svelare la familiarità del Figlio con il Padre, ossia la filiazione divina implicata
nell'appellativo di « papa ». Colui che non crede nel Figlio di Dio giudicherà inverosimile che l'uomo Gesù abbia potuto, con questa denominazione così banale, rivendicare un'identità divina e preferirà ridurre il valore dell'espressione ai limiti ch'essa comporta quando viene pronunciata da chiunque altro non sia Gesù. Egli lo farà malgrado le indicazioni oggettive dell'impiego del termine da parte di Gesù, specialmente della novità inaudita di « Abbà » nelle relazioni con Dio, perché in virtù di un presupposto non può ammettere il valore del termine come espressione di una filiazione trascendente. Infine, la fede rende il teologo più atto a fare la sintesi degli elementi raccolti nella ricerca. Questa sintesi e particolarmente importante per le testimonianze scritturali: l'identità di Gesù vi si disvela per una convergenza d'indizi. La fede che implica una unità profonda del pensiero cristologico, sveglia lo spirito portandolo a riconoscere le relazioni fra le varie indicazioni dei testi. E qui notiamo ancora che non si tratta di edificare soggettivamente e artificiosamente una sintesi, ma di percepire le convergenze oggettive manifestate dalle diverse indicazioni. La fede non apporta un'unificazione arbitraria dei dati raccolti; essa mette l'intelligenza in condizione di cogliere l'unità che si trova nella verità rivelata, più specialmente l'unità delle parole e dei gesti che illuminano l'identità di Gesù. Colui che non crede al Figlio di Dio incarnato, ma semplicemente all'uomo Gesù, tende inevitabilmente a disarticolare le testimonianze, frammentandole per ridurle a semplici parole umane, riducendo ogni indicazione ad elementi redazionali, in modo tale che 10 DUQUOC, Christologie II, 324. 11 SCHILLEBEECKX, Jezus, 215. 12 Christ sein, 306-307. 114 scompare l'intenzione unificante di Gesù che anima ciascuna delle sue parole illuminando le une con le altre. Non potendo ammettere questa coscienza superiore nell'uomo di Nazaret, si mette nell'impossibilità di raccogliere le convergenze dei segni apportati da Cristo alla rivelazione della sua trascendenza. C) IL METODO TEOLOGICO E LA FEDE Poiché il senso della teologia e la ricerca e l'approfondimento del senso della fede, il metodo teologico non può consistere nel fare « tabula rasa » delle convinzioni di fede. Per intraprendere la sua indagine, il teologo non può partire dal punto zero, per quanto concerne la fede. La fede e un atteggiamento
essenziale alla vita del cristiano e il teologo non potrebbe metterla in penombra, poiché la sua vita cristiana non si ferma quando egli fa della teologia: al contrario, questa vita dovrebbe essere più intensa nello svolgimento del suo compito, e più vigorosa la fede che lo spinge alla ricerca. Una visione superficiale potrebbe far pensare che per essere obiettiva la ricerca teologica debba essere spogliata da ogni presa di posizione personale, e che il teologo dunque dovrebbe fare deliberatamente astrazione dalla sua fede. Ma abbiamo già notato che, lungi dal nuocere all'obiettività della ricerca, la fede la favorisce per il fatto che essa e adesione alla verità: la volontà di cercare il vero, implicata nella fede, e la migliore garanzia di uno Studio obiettivo, e la migliore protezione contro interferenze arbitrarie che falserebbero lo sviluppo o le conclusioni dell'investigazione teologica. La pretesa di non abbordare la cristologia che liberandosi da ogni opinione preliminare nell'ordine della fede sarebbe d'altronde illusoria. Se non si affronta con disposizioni di fede, si affronterebbe con disposizioni di dubbio o d'incredulità che non mancherebbero d'influire sulla ricerca. Se si mantiene solo una fede parziale, un minimo di fede che ognuno dovrebbe fissarsi, anche questo atteggiamento si farebbe sentire nel modo di svolgere l'inchiesta cristologica e nel definirne i risultati. Infatti, constatiamo che le diverse cristologie moderne sono dirette da atteggiamenti fondamentali di fede. Le differenze fra le cristologie protestanti e le cristologie cattoliche si spiegano prima di 115 tutto con una differenza primordiale fra la fede delle Chiese protestanti e quella della Chiesa cattolica. La varietà delle cristologie protestanti risulta, in gran parte, da una varietà nelle convinzioni di fede. Se nella Chiesa cattolica si e formato un movimento che si allontana dalla fede nel Figlio di Dio incarnato, e perché certi teologi cattolici tentano d'introdurre un liberalismo di posizioni di fede, analoge a quello che si trova fra i protestanti. l Il teologo dunque non può mettere la sua fede nell'ombra per il suo lavoro teologico. Certo non può sostituire, con le convinzioni della sua fede, le conclusioni che deve dedurre dalla sua ricerca; deve sempre stare attento a rispettare in tutta sincerità il metodo proprio alla scienza teologica. Ma non può neanche velare la sua fede, vergognarsene o comportarsi come se la sua ricerca fosse simile a qualunque altra
ricerca d'ordine scientifico. La teologia e una scienza che esige un metodo rigoroso, ma che riveste un carattere unico, eccezionale, per il fatto di basarsi sulle attestazioni della verità rivelata. In passato si e verificato che l'ansia di dimostrazione apologetica abbia condotto il teologo a ricercare sopra ogni cosa delle argomentazioni che fossero costringenti per coloro che non avevano la fede, o che criticavano il valore delle testimonianze sulle quali poggia la fede della Chiesa. Tuttavia non può dimenticare che la scienza teologica non può esigere un'adesione della semplice ragione, come per le altre scienze. La verità rivelata s'indirizza alla fede. Studiando questa verità e sforzandosi di precisare il suo significato, il teologo offre il risultato del suo lavoro a coloro che, in virtù della grazia della chiamata alla fede, sono suscettibili d'accoglierlo. Quando Gesù ha presentato agli uomini il suo messaggio con la rivelazione della sua persona, si e proposto all'opzione di fede di coloro ai quali si rivolgeva. Sebbene abbia confutato vittoriosamente le critiche dei suoi avversari, non si e lanciato in dimostrazioni d'ordine intellettuale. A coloro che volevano credere, ha offerto argomenti sufficienti di convinzione. Lungi dal voler costringere l'intelligenza dei suoi uditori a sottomettersi, ha desiderato suscitare una libera adesione, in cui esprimere ed impiegare la personalità. Illustrando questa presentazione fatta da Gesù stesso, la cristologia non può voler farsi costringente. Essa e l'opera di un credente che si rivolge ad altri credenti o perlomeno a persone disposte ad aprirsi alla fede. 116 l D) FEDE E RIFLESSIONE CREATRICE La volontà d'istituire una riflessione creatrice13 non potrebbe opporsi alla fedeltà del teologo e alla fede della Chiesa. Si comprende particolarmente il desiderio dei teologi cattolici di poter disporre, per la loro ricerca, della più grande libertà nell'esplorazione del mistero della fede. Questa libertà e conforme alla situazione dottrinale determinata da Cristo, che ha proposto il mistero di salvezza in un modo non sistematico, spesso velato, ed ha richiesto uno sforzo di comprensione e di espressione del suo messaggio. In questo senso Gesù stesso ha voluto una riflessione creatrice; ha desiderato la collaborazione attiva di tutti, alla sua opera di rivelazione. La riflessione e creatrice perché scrutando il mistero, essa apporta al pensiero della fede quanto ha di nuovo e di originale la personalità
d'ognuno. così e ben vero che l'ideale della teologia non può consistere nel ripetere se stessa: talvolta ha seguito troppo la via facile della ripetizione. La tradizione non può essere immobilismo, essa e sviluppo e scoperta nuova, in ogni epoca e in ogni pensatore, di aspetti ancora troppo poco illuminati del messaggio cristiano. Cosi, la cristologia non può limitarsi a ridire quello che hanno dichiarato i primi concilii e particolarmente quello di Calcedonia. Se essa si contentasse di definire Cristo come una persona e due nature, non assolverebbe al suo compito che consiste invece nel mettere in luce tutte le ricchezze dei dati scritturali, nell'approfondire il senso delle interpretazioni che ha ricevuto nella tradizione, e a cercare un modo più adeguato di concepirlo e di presentarlo. Lo sforzo d'analisi e lo sforzo di sintesi debbono essere continuamente ripresi; essi fanno continuamente apparire il nuovo. La riflessione teologica, più di ogni altra riflessione, può essere creatrice, coincidendo più intimamente con l'opera della « nuova creazione »; essa si sforza di raggiungere lo sviluppo di tutta l'opera di salvezza, suprema creazione effettuata da Dio. Perciò il movimento che essa comporta e in pari tempo novità sorta da Dio, inesauribile nei suoi molteplici aspetti, e novità del pensiero umano che alimenta il suo ardimento e la sua forza di penetrazione alla sorgente 13 Cfr. PIKAZA, Los orígenes de Jesús, 475. 117 della rivelazione. Non vi è nulla di più profondamente esaltante per l'intelligenza che la meditazione del mistero di Cristo. Quando la riflessione si allontana dalla sorgente e cessa di ritenere validi i dati essenziali del mistero rivelato, come potrebbe essere ancora creatrice? Essa perde il contatto sul quale fonda la sua attività. Certo, può darsi una qualche illusione di creatività. Pensare che, per la prima volta dopo tanto tempo, la nostra riflessione su Dio può essere creatrice 14, significa ritenere che le definizioni conciliari avevano intralciato per tanti secoli una tale riflessione e che, abbandonandole, si favorirebbe la creazione intellettuale. Ma se questa « creazione » esce dal campo della rivelazione, e se la riflessione non si esercita più sul mistero quale ci e presentato, ma su un oggetto rimaneggiato a nostra misura, esse rinunciano al loro proprio valore. La riflessione creatrice consiste allora nell'immaginare un altro Cristo, un Cristo « rifatto » sulle dimensioni di certi concetti odierni. Una simile riflessione creatrice significa un ritorno al mito. Prima della Rivelazione, o al di
fuori di essa, l'uomo si era dato da se delle rappresentazioni della divinità; l'universo religiöse era un universo mitico. La venuta di Cristo mette fine a questo regime; essa e l'entrata personale di Dio nella storia dell'umanità. Dio da di se stesso un'immagine che e storia concreta e che tende a rimpiazzare tutte le immagini prodotte dall'immaginazione o dal pensiero umano. La teologia e accoglimento di questa rivelazione storica affidata alla Chiesa. Volersi staccare da questa rivelazione, e per essa ritornare a produzioni umane, al mito di un Figlio di Dio determinato dal pensiero del teologo, o adattato a certe idee contemporanee. Al di fuori della via autentica della Rivelazione, non vi è che una pseudocreazione teologica. Spesso la riflessione che si presume creatrice di una nuova cristologia, non offre molta novità ne originalità. A volte si ispira a posizioni di esegeti o teologi protestanti, specialmente ad una certa corrente di liberalismo che ha rimesso in questione le affermazioni essenziali della fede cristiana. L'idea fondamentale secondo la quale ' Cristo non e Dio nella sua persona, ma un uomo nel quale Dio si manifesta, proviene da questa corrente. Essa e nuova fra i teologi 14 Pikaza parla della possibilità attuale di una riflessione creatrice dopo aver affermato che la cristologia ontologica, legata al mistero della Trinità, ha cessato di essere normativa per il nostro tempo (Los orígenes, 475). 118 cattolici contemporanei, perché finora essi l'avevano respinta come contraria alla fede. Ma non e così dal lato protestante, e vi si potrebbero scorgere dei precedenti in alcune eresie dei primi secoli. Ciò che soprattutto dimostra che questa riflessione « creatrice » non ottiene la fecondità che pretende di avere, e l'immagine del Cristo che essa ci presenta. Questa immagine sarebbe più ricca, più densa di significato di quella della fede tradizionale? Gesù appare singolarmente impoverito, precisamente perché non e che un uomo. La statura trascendente che gli da la persona divina scompare. Non e più Figlio di Dio se non in un senso diminuito. Non essendo più, in senso proprio, « vero Dio », perde quanto aveva di unico per l'umanità; la meraviglia dell'Incarnazione e soppressa. Uscendo dal quadro della rivelazione, la riflessione teologica contribuisce a distruggere il suo proprio soggetto. Lungi dall'essere realmente creatrice, essa disfa quanto dovrebbe elaborare. Sottolineiamo che per aver perduto la sua personalità divina di Figlio, Gesù non ci viene presentato con una umanità più consistente. AI
contrario, nella sua coscienza umana e nei suoi atteggiamenti umani, più particolarmente nel compimento della sua missione di salvezza, egli e più sprovveduto. La sua coscienza messianica o la sua intenzione di affrontare la morte come supremo dono di se, sono contestati o negati. L'esperienza di queste cristologie conferma che, lungi dall'essere positiva, la riflessione teologica che si allontana dalla fede diminuisce la fisionomia di Cristo. La cristologia non può validamente costruire se non quando si edifica nell'autentica fede che è quella della Chiesa. 119 CAPITOLO VII LA CRISTOLOGIA E IL DATO SCRITTURALE La corrente cristologica che ha abbandonato l'affermazione del Figlio di Dio incarnato, pone inevitabilmente il problema delle relazioni fra la cristologia dottrinale e la testimonianza scritturale. Questa testimonianza comporta in effetti la presentazione di Gesù come Figlio di Dio incarnato. Se questa testimonianza non e più riconosciuta come l'espressione della verità rivelata nelle sue affermazioni essenziali, significa che subisce un'interpretazione o una reinterpretazione che tende a ridurre queste affermazioni ad un quadro predeterminato. Il principio adottato da Hulsbosch delimita bene questo quadro essenziale, nel quale la persona di Gesù viene considerata: « Dio si rivela nell'uomo Gesù in maniera unica »1. Questo autore precisa che la realtà umana e la misura e la maniera della manifestazione di Dio: « Il Cristo e perfettamente uno, perché non e altro che un uomo, ma come tale e giustamente la manifestazione di Dio »2. Si comprende allora come in virtù di questo principio, la dichiarazione giovannea: «Il Verbo si e fatto carne » (Gv. l, 14) sia interpretata nel senso dell'uomo Gesù, al quale e attribuita una dimensione divina ed eterna, ma semplicemente in quanto egli e uomo3. Dobbiamo dunque considerare il problema dei rapporti fra la dottrina cristologica e l'analisi dei testi biblici. 1 HULSBOSCH, Jezus Christus, 260. 2 Ibid., 257. 3 Ibid., 266. 121 A) IL PROBLEMA DELLA PRIORITÀ PER ESEGESI E DOTTRINA l. Saggio di priorità dottrinale: la « cristologia trascendentale » di K. Rahner Si potrebbero stabilire, prima dell'esame del dato scritturale, le linee essenziali della dottrina cristologica? è quanto propone la cristologia trascendentale di K. Rahner. Questo autore distingue due
momenti della teologia cristiana: il primo consiste in una « teologia trascendentale essenziale, ontologico-esistenziale che deve delineare una dottrina apriorica del Dio-uomo nell'ambito di un'ontologia e antropologia generale »: essa « cerca di costituire prima di tutto le condizioni della possibilità di un genuino poter-udire e di un'intelligenza del dover-udire il messaggio storico che parla di Gesù il Cristo ». Il secondo momento e la « semplice attestazione storica di ciò che si e verificato in Gesù, nella sua morte e nella sua risurrezione »; e essa che offre al cristiano il terreno della sua esistenza e l'evento della salvezza4. La cristologia trascendentale e dunque dottrina apriorica; ma questo apriorismo non vuol dire che tale dottrina possa svilupparsi storicamente prima dell'effettivo incontro con il Dio uomo. La riflessione si porta sulle condizioni di possibilità di una realtà che si e già incontrata5. Siccome si tratta di condizioni di possibilità, la cristologia trascendentale si elabora preliminarmente alla cristologia scritturale. Rahner d'altronde ha pubblicato un volume in collaborazione con Thüsing, in cui una « cristologia sistematica » precede la « cristologia esegetica »6. I tratti dottrinali essenziali della cristologia vi sono determinati, prima di ogni Studio della Scrittura. La cristologia trascendentale considera l'uomo in ciò che appartiene necessariamente alla sua esistenza, secondo il punto di vista metafisico di Heidegger. Come si possono enunciare le condizioni di possibilità che permettono a qualunque uomo di prendere sul serio il Dio uomo? 4 K. RAHNER, Grundkurs des Glaubens. Einführung in den Begriff des Christentums, Friburgo-Basilea-Vienna 1976, 178-179; trad. ital. Corso fundamentale sulla Fede. Ed. Paoline 1977, 236. 5 Ibid.. Corso, 236. 6 K. RAHNER - THÜSING, Christologie systematisch und exegetisch, Friburgo-BasileaVienna, 1972. 122 Rahner parte dalla rappresentazione del mondo in evoluzione, senza solidarizzare pertanto con Teilhard de Chardin. Il divenire dell'evoluzione, dove lo spirito emerge dalla materia, può essere definito come « autotrascendenza attiva ». L'uomo e l'esistente nel quale la tendenza fondamentale della materia di trovare se stessa nello spirito, perviene ad uno stadio definitive. L'essere dell'uomo cerca, con una piena autotrascendenza il suo compiersi supremo in Dio; attende questo compimento
dall'autocomunicazione gratuita di Dio, quella che si produce nella grazia e nella gloria. Ciò che si chiama « unione ipostatica » forma l'inizio durevole e la garanzia assoluta della riuscita di questa autotrascendenza: il Dio uomo inaugura questa riuscita, garantendo il compiersi del « movimento di autotrascendenza del mondo, verso l'intimità assoluta con il mistero di Dio ». Perciò, l'unione ipostatica non deve essere considerata come ciò che distingue Gesù da noi, ma ciò che deve arrivare al momento unico nel quale il mondo comincia ad entrare nella sua fase ultima, quella della sua divinizzazione 7. Gesù « e un uomo che — nella sua soggettività spirituale umana e finita — al pari di noi e ricettore di quell'autocomunicazione di Dio per grazia che noi affermiamo destinata a tutti gli uomini e al cosmo, come punto culminante dell'evoluzione in cui il mondo perviene in modo assoluto a se stesso e alla vicinanza immediata con Dio »8. L'Incarnazione e così situata nel quadro dell'universo e dell'umanità, ed e definita in funzione del nostro destino comune. La cristologia trascendentale giustifica la sua necessità e la sua importanza con l'esistenza di un'antropologia trascendentale nella nostra epoca. Quando questa manca, fa correre il rischio di considerare le enunciazioni della teologia tradizionale come iperboli mitologiche di avvenimenti storici e di non poter usare di un criterio che permetta di distinguere la realtà autentica della fede dalla sua interpretazione'. Nell'uomo concepito come l'essere necessariamente trascendentale, che e progettato al di là di se stesso verso il mistero di Dio, si trova ciò che e stato chiamato il desiderio naturale della visione beatifica, ma senza che vogliamo esaminare se provenga dalla sola natura o dalla natura elevata dalla grazia. Stante la minaccia di « pec7 Grundkurs, 182-183; Corso, 239-248. 8 Grundkurs, 196; Corso, 258. 9 Grundkurs, 207; Corso, 272-273. 123 caminosità », questo desiderio comporta la speranza di un Salvatore assoluto, frutto della libera promessa di Dio. Questo Salvatore deve essere una persona che storicamente abbandona alla morte ogni avvenire intramondano e che con questa accettazione della morte si presenta come definitivamente accettato da Dio. Egli può essere legittimamente definito con le formule della cristologia classica (calcedoniana); l'accettazione di Dio potrà assumere la forma storica della risurrezione. Questo Salvatore assoluto possiede la causalità soteriologica che
la dottrina della Chiesa attribuisce al destino di Gesù, a condizione che questa redenzione non sia concepita in modo mitologico, come un'influenza su Dio allo scopo di fargli cambiare idea. Questa cristologia trascendentale non può attribuirsi la competenza di dire che questo Salvatore esiste già e se, si identifica a Gesù di Nazaret. Una tale verifica appartiene all'esperienza della storia. Oggi tuttavia saremmo ciechi davanti a questa storia, se non l'affrontassimo con la speranza della salvezza che si riflette nella cristologia trascendentale 10. Questa cristologia permette ugualmente di determinare il minimo di presupposti storici per una cristologia ortodossa. Rahner espone questo minimo in due tesi. La prima e che Gesù non si e considerato semplicemente come uno dei numerosi profeti, ma come il profeta escatologico, il Salvatore assoluto e definitive. La seconda concerne l'evento della risurrezione che pone il Salvatore nella sua realtà totale ". Non e necessario che il Salvatore abbia avuto coscienza, durante la sua vita terrena, del valore redentore della sua morte !2. La questione di sapere se Gesù ha interpretato la sua morte come sacrificiò espiatorio o se l'ha vista come un atto necessario di obbedienza al Padre, nel « senso della morte di un giusto », può restare aperta dal punto di vista storico u. Rahner rivendica un pluralismo in cristologia quando scrive: « Possiamo esprimere come vogliamo l'unicità del rapporto tra Dio e Gesù. La cristologia ecclesiale classica e una di queste maniere, forse la più chiara e la più facilmente maneggevole nella vita ecclesiale comune, vera d'altronde in quello che vuol dire e dice. Ma non 10 Grundkurs, 208-211, 291-292; Corso, 274277; 383-385 (p. 277, trad. it. da correggere: « vada trovato nella storia e che sia gia stato trovato proprio in Gesù di Nazaret »). 11 Grundkurs, 243; Corso, 319. 12 Christologie, 33-34. 13 Grundkurs, 251, 277; Corso, 330-365. 124 va considerata a priori come la sola possibile » M. Più particolarmente egli propone, a fianco della cristologia classica, una « nuova cristologia ortodossa »: una « cristologia della coscienza », cristologia ontologica, mentre la cristologia classica e una cristologia ontica, fatta con concetti presi dalla realtà delle cose. Questa cristologia della coscienza potrebbe presentare l'uomo Gesù come stante in una unità di volontà col Padre, in un'obbedienza dalla quale riceve tutta la sua realtà: egli e colui che riceve continuamente se stesso dal Padre, il che implica una unità originale
d'essere e di coscienza K. Per quanto attiene alla preesistenza, la cristologia trascendentale può lasciare agli esegeti la libertà di discutere se ciò che Gesù intende quando si chiama « Figlio » del Padre e identico col Dio che esprime nel tempo, e dunque preesistente, o se non e identico a Dio e, di conseguenza, non preesistente. Ma la seconda possibilità non esclude che il soggetto divino espresso in Gesù sia preesistente 16. 2. Priorità dello Studio scritturale || Il vantaggio della cristologia trascendentale risiede in un metodo che permette al teologo d'elaborare i tratti essenziali della cristologia senza dover ricorrere ad alcuna investigazione nelle testimonianze della Scrittura e della Tradizione. Basta scrutare l'antropologia per desumerne tutta la dottrina del Dio uomo, Salvatore assoluto. Questa dottrina e stabilita a priori, ma parte da un dato esistenziale, per cui Rahner può presentare la sua cristologia come essendo « dal basso ». Essa si fonda sull'esperienza fondamentale dell'uomo, e così sfugge alle critiche rivolte ad alcune teorie costruite su un apriorismo che fa astrazione dall'esistenza concreta dell'uomo. Tuttavia pur facilitando il compito del teologo che può, sia pure in un primo tempo e per l'essenziale della dottrina, astenersi dal considerare gli studi esegetici, questo metodo non sembra assicurare alla cristologia il fondamento del quale ha bisogno. Per approfondire il senso della fede, la teologia deve ricorrere alle sorgenti della Rivelazione, e questa necessariamente deve risalire alla testimonianza della Scrittura. L'uomo non può pretendere di trovare in se stesso, nella 14 Grundkurs, 275; Corso, 362. 15 Grundkurs, 295-6; Corso. 389-390. 16 Grundkurs, 297; Corso, 391. 125 propria esperienza, gli elementi essenziali della verità rivelata. La Rivelazione viene dall'alto e dall'esterno, nell'oggettività storica che caratterizza la venuta di Cristo; non ci si può limitare a percepirla nell'esperienza intima. Ogni cristologia deve poggiare su una base scritturale; non la si può concepire come stabilità, in primo luogo, su di una base antropologica e destinata a cercare in seguito una verifica nella Scrittura. L'opera di cristologia pubblicata da Rahner in collaborazione con Thüsing conferma d'altronde questa necessita di una base scritturale. L'analisi esegetica instaurata da Thüsing si prolunga con una sistemazione dottrinale notevolmente differente da quella che era stata stabilita a priori da Rahner. Ciò
significa che dopo lo studio esegetico l'elaborazione dottrinale intrapresa a priori deve essere rifatta a posteriori". Il fondamento adottato per l'elaborazione della cristologia trascendentale, comporta il pericolo di una riduzione antropologica. La maniera di concepire l'unione ipostatica come il punto culminante dell'autotrascendenza dell'evoluzione, sembra voler misurare l'Incarnazione con la forza delle tendenze dell'umanità. Dire che Gesù e l'uomo che riceve come noi l'autocomunicazione di Dio per mezzo della grazia, e assimilare il caso personale di Gesù alla nostra situazione umana universale. Con questo non viene sufficientemente riconosciuto tutto quello che Gesù ha di unico e di trascendente. Potrebbe ugualmente essere messo in questione il valore della deduzione fondata sull'antropologia esistenziale. A guardare la situazione concreta dell'uomo, e così facile dimostrare il desiderio della visione beatifica, o la speranza di un Salvatore assoluto, i cui tratti 17 La sistemazione dottrinale proposta da Thüsing sembra molto contestabile. Le dichiarazioni sulla preesistenza sono riferite alla mentalità ellenistica: il titolo di Figlio impiegato da Gesù. secondo J. B. Metz, deve essere interpretato nel senso di liberta; il « Logos » del Prologo giovanneo non designerebbe ne una persona divina ne. nel linguaggio rahneriano, un «modo di sussistenza»; la comunicazione degli idiomi è scartata per il motivo che l'affermazione della divinità di Gesù non appartiene alla struttura dottrinale del Nuovo Testamento. Alla cristologia classica Thüsing vorrebbe sostituire una cristologia paolina del pneuma, legata alla nuova dottrina della Trinità. Basandosi sull'evidenza che non vi sarebbero che due persone, nel senso moderno della parola, il Dio Padre e l'uomo Gesù, egli tenta di soleggiare l'esistenza di due « modi di sussistenza » con due linee che vanno dal Dio Padre al Gesù terrestre e al Signore glorioso, e che risultano dal pneuma, potenza personale del Dio Padre. Questa costruzione speculativa, rapida e fragile, non si accorda con la fede trinitaria della Chiesa. 126 distintivi corrispondano a quelli affermati dal concilio di Calcedonia nella sua professione di fede? Se non conoscessimo il Gesù della Scrittura, potremmo procedere a una tale deduzione a partire dal desiderio o dalla speranza dell'uomo? Una volta che si pervenga a conoscere Cristo, si può dimostrare come egli
risponda ai bisogni più profondi dell'essere umano che si trova sotto l'influsso della grazia. Ma volere scorgere, delineare nell'oscurità del cuore umano l'immagine del Salvatore quale si e presentato a noi, facendo astrazione della sua realtà storica, e un'impresa che sembra molto azzardata. I giudei che erano stati preparati in modo speciale alla venuta del Messia e che dunque possedevano la speranza più sviluppata, hanno rifiutato a maggioranza di riconoscere Gesù, perché trascendeva le loro speranze. Il Cristo e l'invenzione più sublime di Dio; la cristologia e teologia prima di essere antropologia. Il mistero della rivelazione del Figlio di Dio fatto uomo ci e stato consegnato nelle testimonianze della Scrittura, raccolta dalla Chiesa, e non si può scrutare questo mistero indipendentemente dalla Scrittura. Accanto alla cristologia tradizionale, che si basa sulla Scrittura, non si può elaborare una nuova cristologia su un'altra base, quella dell'antropologia esistenziale. Quanto a volere, in nome della cristologia trascendentale, determinare il minimo storico che deve verificarsi nella Scrittura, sarebbe attribuire all'antropologia trascendentale il valore di criterio supremo nel campo della ricerca esegetica. Il valore storico della testimonianza scritturale deve essere ricercato secondo i criteri della sana esegesi e non in funzione di un minimo determinate a priori. B) VALORE BELLA SORGENTE SCRITTURALE PER LA CRISTOLOGIA DOTTRINALE 1. Il teologo di fronte agli studi esegetici: scelta, sintesi e sistemazione più ampia Lungi dal poter elaborare la cristologia preliminarmente allo studio scritturale, o facendo astrazione da esso, il teologo deve sempre procedere prendendo come punto di partenza le indicazioni fornite dalla testimonianza della Scrittura. Ogni cristologia, per essere valida, deve poggiarsi sull'esplorazione del Nuovo Testamento. 127 Da questo punto di vista, data la molteplicità di studi esegetici, il compito del teologo è particolarmente difficile. Egli si trova di fronte ad un cumulo di lavori di cui deve tener conto. Certo si potrebbe dire altrettanto degli studi sullo sviluppo della cristologia nella tradizione, i Padri della Chiesa, i concilii, i teologi scolastici; il teologo deve sforzarsi di conoscere i risultati di questi studi che sono anch'essi molteplici. Ma per l'esegesi, attualmente emerge una difficolta supplementare; la diversità delle opinioni e interpretazioni è più considerevole in questo campo di ricerca. Colui che vuol raccogliere il
frutto degli studi esegetici deve fare dunque una scelta, accogliendo I'interpretazione che gli sembra più verosimile. Più questi studi sono approfonditi e diversificati, più il giudizio sul valore delle conclusioni è complesso. Il teologo non può sottrarsi a questa scelta che deve effettuare riunendo tutte le informazioni possibili. Deve saper distinguere fra ipotesi che possono rivestire la seduzione della novità, e conclusioni più solidamente stabilite. Deve ugualmente evitare l'arbitrio di una informazione esegetica unilaterale. Si resta perplessi constatando che dei teologi cattolici, specialmente alcuni di quelli appartenenti alla corrente della cristologia non calcedoniana, cercano di conoscere solo le posizioni di esegeti protestanti18. Prima di scegliere l'interpretazione che gli sembra più fondata, il teologo non deve diventare il servo di una teoria esegetica particolare, ne prendere come dichiarazione dogmatica l'opinione professata da un esegeta ". Pur sforzandosi di raccogliere gli ultimi sviluppi dell'esegesi, egli deve apprezzarne quanto più e possibile la validità. In esegesi come in altri campi, vi sono delle correnti, delle teorie alla moda, che illuminano un aspetto dei problemi e meri18 Così Duquoc, nel secondo volume della sua cristologia, non considera che le teorie interpretative proposte dai protestanti concernenti la risurrezione: Bultmann, Earth. Marxsen, Pannenberg, Moltmann; Le Messie. 93-162. 19 Caratteristico è l'articoletto pubblicato da J. Pohier in Dossier Jesus, 46: « Gesù. sembra, non era sposato ». Questa frase di J. Jeremias (Theologie du Nouveau Testament. I, Parigi 1973. 219) e "ripresa come fondamento di una serie di considerazioni. Dal « sembra » Pohier deduce subito che « niente dice che Gesù sia stato sposato, ma nulla dice neanche che non lo fosse stato». E conclude diminuendo il valore del celibato volontario. In realtà quel « sembra» non appartiene nemmeno al testo di Jeremias. che dice semolicemente: «Gesù non è sposato» (Jesus ist unverheiratet) nell'edizione tedesca (Neutestamentliche Tbeologie, I, Gutersloh 1971. 171). È la traduzione francese che ha aggiunto «sembra». In altra parte, Jeremias riprende la stessa affermazione: «Gesù, come il Battista, non era sposato» (p. 214; trad, fr., p. 278). 128 tano di essere prese in considerazione, ma che non possono essere assolutizzate e delle quali occorre riconoscere i limiti. Lo stesso dicasi per i recenti movimenti esegetici che hanno tentato di spiegare i testi con « la storia delle forme » e poi con « la storia della redazione ».
La parte di veritaà che contengono queste spiegazioni rimane una conquista della scienza esegetica, ma ne la storia delle forme ne la storia della redazione costituiscono il tutto dell'esegesi. In rapporto agli studi esegetici, il teologo prende necessariamente una distanza, perché deve elaborare una dottrina più sintetica della verità rivelata. L'esegeta può manifestare delle reticenze di fronte ai tentativi di presentare in sintesi i tratti biblici di Cristo; si attaccherà piuttosto all'analisi dei testi particolari e più spesso limiterà il suo sforzo di sintesi al pensiero di un autore su Gesù. Il teologo deve necessariamente andare più lontano; non si può accontentare di giustapporre ciò che i diversi autori del Nuovo Testamento hanno presentato come figura di Gesù. Precisare 51 modo con cui Marco, Matteo, Luca e Giovanni si rappresentavano Gesù, e un compito necessario, ma per il teologo non e che una tappa verso una conoscenza più essenziale: si tratta di sapere, raccogliendo queste diverse rappresentazioni, ciò che è stato Gesù nella sua realtà storica, e com'è possibile scoprire più completamente il suo volto autentico, grazie alla molteplicità degli aspetti messi in luce dagli evangelisti. Questo sforzo di sintesi non si fonda solo sul fatto che gli evangelisti ci offrono delle testimonianze su uno stesso avvenimento della storia e che, dal punto di vista umano, per conoscere questo avvenimento, occorre collazionare tali testimonianze. Esso si appoggia sull'intenzione rivelatrice dello Spirito Santo che, ispirando questi autori, ha voluto, con la diversità delle attestazioni e rappresentazioni, fornire all'umanità un'immagine profondamente unica del Salvatore. Per giustificare il pluralismo della cristologia dottrinale, K. Rahner scrive che il Nuovo Testamento comporta delle cristologie che non sono stabilite sul medesimo modello fondamentale20. Ma cosa s'intende per modello? Se si tratta di una diversita di punti di vista espressi con diversita di concetti, il pluralismo e evidente. Dire che Gesù e il Signore e dire che e il Verbo fatto carne, o il Figlio di Dio, non e enunciare esattamente la stessa affermazione: gli aspetti che 20 Grundkurs, 275; Corso, 363. 129 si vogliono sottolineare sono differenti. Ma sotto questa diversità d'espressione vi e l'unità di modello costituito da Gesù con la sua realtà personale. Le diverse presentazioni non si oppongono le une alle altre, perché sono complementari. Il pluralismo dunque non impedisce una sintesi superiore, ove si
articolano organicamente gli elementi forniti dai diversi autori. Esso reclama anzi questa sintesi, come esigenza dell'unica identità posseduta da Gesù. Non si può in particolare pretendere che le cristologie del Nuovo Testamento siano irriconciliabili, per il fatto che alcune concepiscono Gesù come uomo, uomo specialmente unito a Dio, e che altre, specialmente quelle del Prologo giovanneo, discernono in lui il Verbo o il Figlio che viene a manifestarsi nella vita umana. Infatti tutte le cristologie neotestamentarie s'accordano per presentare un uomo che si rivela come Figlio di Dio. Vi e unità su questa indicazione essenziale concernente l'identità di Gesù. Se vi e un Cristo biblico, occorre notare che la cristologia dottrinale non si confonde con la cristologia biblica. Essa tende in effetti a integrare nella sua elaborazione tutto lo sforzo di riflessione della tradizione, sul Cristo della Scrittura. Go che cerca di dimostrare e quello che la Chiesa afferma nella sua professione di fede al Cristo. Inoltre, la cristologia dottrinale tenta di determinare meglio l'ontologia del Cristo con una indagine d'ordine filosofico e a scoprire meglio i suoi stati di coscienza grazie alle indicazioni della psicologia. La sintesi va dunque ben al di la del contenuto delle testimonianze scritturali. Ma queste testimonianze rimangono sempre un punto di partenza e un punto di riferimento; sono la sorgente alla quale lo sforzo dottrinale deve continuamente alimentarsi per rispondere alla verità rivelata. 2. La tentazione del minimalismo Il massimalismo d'un tempo forzava il senso del testo attribuendogli un valore dottrinale che non possedeva ma che era giudicato necessario per la dimostrazione di una tesi. O, ancora, riconosceva un valore assoluto di fedeltà storica ai testi scritturali nella loro espressione letterale. Attualmente, all'estremo opposto, e sorto un minimalismo che tende a ridurre considerevolmente il valore sto130 rico delle testimonianze evangeliche e fa sentire la sua diffidenza nei riguardi della portata dottrinale dei testi. a) Saggi di « tabula rasa » Un metodo di « tabula rasa » e stato proposto e sistematicamente applicato da certi autori. È così che i quaderni della « Tourette », su Gesù Salvatore, vogliono evitare al cristiano « la posizione dolorosa di qualcuno che a poco a poco vede sgretolarsi il muro sul quale si appoggia », ossia il valore storico dei testi evangelici. Essi adottano un metodo differente: « Come ogni scienziato, l'esegeta e portato dal
rigore metodologico a fare « tabula rasa »; in un certo modo comincia col sospettare radicalmente la solidità del muro. Fare « tabula rasa » e supporre a priori che il vangelo di Marco, per esempio, non c'insegni niente di strettamente storico su Gesù di Nazaret. Ma mettendosi al lavoro l'esegeta si vede costretto a verificare, a cercare di ricostruire il muro, mattone dopo mattone. Egli constata che il tale e tal altro versetto di Marco non possono in alcun caso provenire da]la comunità apostolica; sono proprio parole di Gesù. così, a poco a poco, ai suoi occhi si delineano un certo numero di quei tratti che furono quelli di Gesù di Nazaret. Capirete allora perché l'esegeta credente, lungi dall'avere la penosa impressione che « tutto crolla », prova molto spesso una gran gioia nel suo lavoro: il muro riprende forma »21. Se si trattasse semplicemente di procurare a un esegeta la gioia di ricostruire in parte il muro che prima ha gettato a terra, il metodo sarebbe comprensibile. Ma ha il diritto di radere al suolo il muro? Può, specialmente all'inizio, supporre a priori che niente sia storico nel vangelo di Marco? Non si tratta di negare che l'esegeta abbia il compito di verificare la storicità dei testi evangelici. Ma questa verifica o questa ricerca sulla storicità non implica affatto che si supponga anzitutto che nulla e storico nei testi. Una tale supposizione indicherebbe un pregiudizio contrario al valore della testimonianza dell'evangelista. Lungi dal supporre per principio, all'inizio, che questo valore e nullo, l'esegeta deve ammettere che questa testimonianza, nelle condizioni in cui si presenta, possiede un gran valore, e che nell'esame della storicità di ogni testo particolare, che 21 Jesus Sauveur, I, Cahier 6, 2. 131 deve essere condotto con sano rigore, il valore generale della testimonianza non può essere trascurato. Supporre a priori che niente e storico nel vangelo di Marco, e mettersi nell'impossibilità di saper raccogliere tutto quello che i testi offrono di valido. L'autore del quaderno riconosce che il risultato e minimalista: « Un tale procedimento scientifico ha certamente un grande inconveniente, esso non svela che i tratti minima di Gesù » 22. Si può anche dubitare che questi tratti minima siano salvaguardati, poiché l'atteggiamento negative, adottato per principio, impedisce di riconoscere la validità dei tratti autentici di Gesù. Infatti, il quaderno lo dimostra bene, poiché ci presenta una riduzione sistematica delle dimensioni di Gesù; così il metodo scelto manifesta, all'esperienza, i suoi frutti negativi.
In realtà il cristiano non deve temere di trovarsi nome del principio secondo cui tutta la nella posizione dolorosa di vedere disgregarsi, rivelazione di Dio si e compiuta in Gesù nella poco a poco, il muro sul quale si appoggia. sua umanità, in maniera umana. Non e Egli sa che il fondamento della sua fede e possibile, hanno detto, ammettere due piani in valido. Può essergli doloroso il dover rivedere Gesù, quello della divinità e quello alcune interpretazioni, di perdere certi sostegni dell'umanità: non si può scoprire la divinità di testi particolari. Ma la ricerca esegetica ha dietro l'umanità di Gesù o al di sopra di essa, dimostrato finora che il muro e più solido di perché non si opera nessuna rivelazione al di quanto si pensasse; essa fa scoprire altre fuori dell'umano. ragioni di questa solidità e una maniera più Il principio della rivelazione di Dio nel e approfondita di giustificare il valore dei testi. attraverso l'umano e cosa certa, ma le b) Il metodo della riduzione all'umano conseguenze che se ne deducono sono Un altro a priori imposto alla ricerca esegetica contestabili. È vero che e nel suo volto umano, e all'accoglimento dei suoi risultati, nelle sue parole e nei suoi gesti umani che consisterebbe nel voler riportare ad un livello Gesù ci fa vedere il Padre e che si e puramente umano le parole di Gesù e tutta la manifestato presentazione che ci fa della sua persona. 22 Ibid. Questa riduzione all'umano e stata proposta in 132*** a noi come Figlio. Ma ciò non significa che tutto sia umano in lui. Non si può, con Schillebeeckx, porre all'inizio della ricerca esegetica l'affermazione che Gesù e una persona umana, ne dare quest'affermazione come un'evidenza che s'impone immediatamente.23 Non si tratta ne di costituire due piani, ne di distinguere in Gesù un'apparenza umana e \mo sfondo divino, ma di riconoscere in Gesù ciò che, nell'uomo che e stato, sorpassa l'uomo. La scoperta di Dio si opera nell'umanità di Gesù, ma e davvero una scoperta di Dio, e non solamente la scoperta d'un uomo unico, eccezionale, ma che, in fin dei conti, non sarebbe che un uomo, pur avendo dei rapporti intimi con Dio. Non si può affrontare la testimonianza evangelica col presupposto che Gesù e una persona umana. Colui che elabora la cristologia deve rimanere aperto e sensibile a ciò che, nella testimonianza, conferisce una dimensione trascendente alla persona di Gesù. Nell'esame dei testi, non ci si può neanche limitare, in una prima tappa, a rilevare ciò che e semplicemente umano in Gesù, in virtù di una pedagogia che vorrebbe concentrarsi su questo aspetto, più accessibile e più facile da comprendere. Il metodo che si applica a guardare per un momento Gesù unicamente come uomo, amputa la ricerca esegetica di una dimensione che gli e essenziale e rischia di falsarne tutte le conclusioni. Il paragone con le due facce di una moneta o di una medaglia non ha nulla di probante24, poiché quando si afferma che Gesù è vero Dio e vero uomo, non è per attribuirgli due facce opposte, quella della divinità e quella dell'umanità. Ben al contrario, la divinità di Gesù si rivela attraverso la sua umanità. Non vi e che una sola « faccia » in Gesù, un volto umano in cui traspare la persona divina del Figlio. Voler vedere solo l'uomo in Gesù, e volersi interdire per principio di riconoscere in lui i segni e le manifestazioni della sua trascendenza divina. Anche se proposto come limitato a un primo tempo o a un primo sguardo e destinato ad essere completato in seguito, il metodo e inaccettabile perché allontana arbitrariamente degli elementi contenuti nei testi. Anzitutto esso fa una selezione di ciò che considererà o rifiuterà di considerare in quello che riportano gli evangelisti. Esso suppone una dicotomia in Gesù come se si potesse 23 Jezus, 26. 24 Cahier de la Tourette, Jésus Sauveur, I, 2. 133 legittimamente guardarlo come un semplice uomo, astrazione fatta dalla sua divinità. L'applicazione del metodo nei quaderni su Gesù Salvatore sfocia al risultato che Gesù non ha mai avuto coscienza d'essere Figlio di Dio, ma che e stato proclamato Figlio di Dio dai discepoli dopo la sua risurrezione. Egli era realmente Figlio di Dio, dicono in conclusione, ma non ne ha mai saputo nulla nel corso della sua vita terrena. Di fronte ad ogni tentativo di riduzione di Gesù all'umano, la cristologia, nel suo modo di considerare i testi biblici, deve salvaguardare il principio dell'apertura al trascendente. Non si tratta di passare all'eccesso contrario e di voler riportare tutto al divino in Gesù. Si tratta di accettare, di ricevere il Cristo come ci e presentato nella Scrittura, con la sua umanità autentica e il mistero divino che vi si svela. 3. La ricerca dell'autenticità Come si può, nei testi scritturali, risalire alle parole e alle azioni di Gesù? Poiché la cristologia ha il compito essenziale di studiare il Gesù storico e non semplicemente il Cristo della predicazione, e
dominata dalla preoccupazione di appoggiarsi su ciò che Gesù e stato realmente, su ciò che ha detto e fatto. Essa ricerca dunque gli ipsissima verba e gli ipsissima facta di Gesù, le parole e i gesti rigorosamente, letteralmente autentici. In modo particolare, per quanto riguarda le parole, essa non limita i suoi punti di riferimento alle sole parole delle quali si può dimostrare l'autenticità letterale; vi sono delle parole di Gesù che sono state trasmesse con termini equivalenti, ma bisogna assicurarsi allora che l'equivalenza sia sufficiente e che la testimonianza riporti con fedeltà il suo pensiero. Un gran progresso si e compiuto nell'esegesi contemporanea con lo studio sistematico degli elementi redazionali. Gli esegeti hanno spinta sempre più lontano l'analisi delle caratteristiche del pensiero e dello stile di ogni autore. Quest'analisi permette loro di attribuire con più precisione ciò che appartiene personalmente agli autori, nell'espressione della loro testimonianza, e ciò che hanno ricevuto dalla tradizione o dai testimoni. Per alcuni esegeti la concentrazione degli sforzi per scoprire la parte redazionale, ha portato ad una esagerazione: tutto, nel testo, 134 sembra loro redazionale, tutto diventa il prodotto della personalità dei redattori. Nell'apprezzamento degli studi esegetici importa tener conto della propensione ad allargare il redazionale, propensione normale di fronte alla quale lo stesso esegeta deve stare in guardia. Malgrado gli eccessi ai quali e esposto, lo studio degli elementi redazionali apporta determinazioni molto preziose per l'interpretazione delle testimonianze evangeliche; esso e fondamentale per la ricerca più esatta di ciò che Gesù ha detto o fatto. Vorremmo sottolineare due tratti caratteristici della personalità dei redattori delle testimonianze evangeliche. Gli evangelisti erano animati dall'intenzione di riferire fedelmente ciò che era stato loro trasmesso. Si ha tendenza a sottolineare l'influsso del loro pensiero personale, della loro « teologia » nella redazione dei testi; meno spesso si stima nel suo valore, la forza della loro intenzione di fedeltà, che nondimeno è essenziale. Inoltre, gli evangelisti hanno coscienza di riferire la testimonianza di un mistero. Si concepiscono talvolta come se essi dominassero col loro proprio pensiero quanto riportano. In effetti, pero, essi non comprendono sempre tutto quello che ci trasmettono delle parole e dei gesti del Cristo. Un esempio di questo mistero ci e dato nel discorso escatologico: « Che colui che legge, comprenda! » dicono Marco (13, 14) e Matteo (24, 15). Qui ancora bisogna osservare che non si possono trattare i redattori dei vangeli allo stesso modo di altri autori. Anche facendo astrazione dai carisma d'ispirazione che li anima nella loro opera, essi si trovano in una situazione eccezionale di scrivani: sanno che soprattutto debbono essere fedeli a ciò che e realmente avvenuto, a ciò che Gesù e stato storicamente, e d'altra parte si sentono dominati da questa storia che per essi comporta molti aspetti misteriosi. Parallelamente allo studio della formazione redazionale dei testi si e sviluppata la determinazione dei criteri d'autenticità delle parole di Gesù.25 Si e cercato .di specificare quello che era proprio al suo stile e al suo pensiero. Fra le qualità riconosciute al suo linguaggio, sembra che si debbano ritenere soprattutto la semplicità e la profon25 Cfr. R. LATOURELLE, Critères d'authenticité historique des Evangiles, Gregorianum 55 (1974) 609-638. 135 dità: Gesù si esprime nel modo più semplice, e la sua semplicità e tale che talvolta si sarebbe tentati di raccogliere unicamente il primo senso, il più ovvio o il più superficiale, della sua parola. 'Ma in realtà, in questa semplicità si nasconde una grande profondità di pensiero e d'intenzione, che è lasciata al nostro sforzo di scoperta. Più che le qualità proprie al linguaggio di Gesù, gli esegeti si sono impegnati a precisare i segni dai quali si possono riconoscere le parole che provengono effettivamente da lui e non dai redattori. Fra i criteri adottati, occorre soprattutto prenderne due in considerazione, un criterio di continuità o di conformità, e un criterio di discontinuità o di differenza. Essi corrispondono effettivamente alle caratteristiche fondamentali delle parole di Gesù. Da una parte, queste parole debbono essere conformi all'ambiente palestinese nel quale vennero pronunciate, alla forma semitica della lingua, a tutto il contesto culturale dell'epoca, e più specialmente ai rapporti di Gesù con i suoi interlocutori, discepoli o avversari. D'altra parte, quando una parola manifesta discontinuità in rapporto al pensiero giudaico o in rapporto al linguaggio della prima comunità cristiana, essa si presenta con un segno d'autenticità: il pensiero espresso non ha potuto essere il prodotto del giudaismo contemporaneo e nemmeno invenzione o interpretazione forgiata dalla comunità. Tuttavia non si può affermare che le parole autentiche di Gesù siano unicamente quelle in cui possiamo riscontrare una discontinuità. Il senso di questo criterio e che quando in una parola si discerne la discontinuità, la parola deve essere considerata come autentica, e non che si dovrebbe escludere come
inautentica quella in cui non appare la discontinuità. L'impiego dei due criteri e molto delicate, dato che sembrano opposti l'uno all'altro. Rilevando questa difficoltà in maniera critica, Morna D. Hooker constata: « Per essere accettabile come autentica, una parola di Gesù deve essere in pari tempo « dissimile » dai giudaismo contemporaneo, e tuttavia servirsi delle sue categorie, riflettere la lingua e lo stile aramaico... È difficile saper applicare simultaneamente questi criteri apparentemente contraddittori. Quando Norman Perrin, per esempio, pretende che Gesù non ha potuto impiegare « il Figlio dell'uomo » come titolo, perché non esisteva nel giudaismo dell'epoca, fa apparentemente uso del secondo criterio; ma se il titolo 136 fosse esistito (nella sua opinione), l'avrebbe probabilmente eliminate applicando il criterio della dissomiglianza »26. Bisogna concludere che questi criteri formano un « cattivo strumento » di lavoro? Z!. Non e lo strumento che e cattivo, ma l'uso che se ne fa quando e arbitrariamente comandato da opzioni esegetiche preliminari. In realtà lo strumento si può giustificare pienamente dai punto di vista teorico, perché e normale che Gesù si sia espresso alla maniera usata nell'ambiente in cui viveva, e che si dimostri l'autenticità delle sue parole non solo per questa conformità, ma per l'originalità personale che manifesta all'interno del suo ambiente e per le differenze che lo separano dai modi di esprimersi della comunità cristiana. 4. Parole autentiche di Gesù a testimonianza della sua identità personale Fra le parole di Gesù più atte a dimostrarne l'autenticità, consideriamo le tre espressioni caratteristiche che testimoniano la sua identità personale: « Abbà »; « sono io »; « il Figlio dell'uomo ». I criteri di continuità e di discontinuità vi si evidenziano, facendo emergere chiaramente come Gesù abbia espresso la coscienza che aveva di se stesso con una terminologia differente da quella impiegata dalla comunità cristiana per formulare la propria fede. a) « Abbà » La parola « Abbà » verifica il criterio di conformità: e la parola aramaica usata dai bambini giudei per chiamare il loro padre con la formula più familiare: « Papà ». Noi abbiamo la certezza ch'essa fu impiegata da Gesù, essendoci stata conservata tale quale nella preghiera al Getsemani, come riporta Marco (14, 36). Ma ricordiamo inoltre che si e potuto dimostrare come questo termine fosse abituale nella preghiera di Gesù28. 26 M. D. HOOKER, On using, the Wrong Tool, Theology 75 (1972) 570; citato da E. MASCALL, Theology and the Gospel of Christ. An Essay in Reorientation, Londra 1977, 93. 27 È la qualifica impiegata da Hooker nel titolo del suo articolo. Ma nella conclusione, l'autore riconosce che bisogna pur impiegare questo strumento poiché non ve ne sono altri, ne vi e speranza di scoprirne uno migliore. 28 Cfr. W. MARCHEL, Abbà, Pere! La priere du Christ et des chretiens, Roma 1968, 132-138. 137 Tuttavia vi si verifica ugualmente il criterio di discontinuità, perché a questo appellativo usuale, Gesù da un senso profondamente nuovo. Per la prima volta, « Abbà » viene applicato a Dio. Mai per l'innanzi tale parola aveva avuto questa destinazione. Un appellativo così familiare nei rapporti con Dio sarebbe stato inconcepibile per la mentalità religiosa giudaica. La discontinuità manifesta in pari tempo il vigore dell'intenzione: se Gesù ha impiegato il termine in maniera nuova fin li inaudita, vuol dire che la trovava atta a significare la natura dei suoi rapporti col Padre celeste, e voleva quindi imprimergli tutto il suo significato29. Egli aveva coscienza di rivolgersi al Padre nella maniera con cui un bambino parla al padre suo, ossia in qualità di figlio, con la familiarità e l'uguaglianza di livello che caratterizza la posizione di un figlio di fronte al padre. è certamente vero che il vocabolo « Abbà » conserva la sua semplicità e che Gesù stesso non l'ha espressamente commentate. Tuttavia, con altre parole, ha contribuito a dimostrare che questo appellativo aveva una pienezza di significato al quale non possiamo arbitrariamente mettere dei limiti. Solo l'apertura al trascendente permette di cogliere l'intenzione nascosta da Gesù in un termine così semplice. L'impiego del vocabolo indica la maniera con cui Gesù rivela la sua identità. Non fa dichiarazioni teoriche sulla sua identità filiale, ma vive umanamente questa filiazione; non e un case che il termine « Abbà » sia stato riportato nell'episodio del Getsemani, perché al momento dell'imminente Passione l'invocazione « Papa » doveva rivestire un'intensità tale da colpire i discepoli. L'ontologia di Cristo si esprime nello storicamente vissuto. b) « Sono Io » L'affermazione « sono io » viene anch'essa dal linguaggio ordinario; e l'espressione più normale con la quale una persona si presenta. La formula greca ego eimi corrisponde verosimilmente al semitico anihû. Quando, avvicinandosi ai discepoli sulle acque del lago, Gesù dice: « sono io, non temete » (Mt,
14, 27; Mc. 6, 50; Gv. 6, 20), pronuncia le parole più semplici con le quali un uomo vuol 29 Questo contrariamente all'interpretazione minimizzante proposta da J. JEREMIAS, Theologie du Nouveau Testament, I, La predication de Jesus, Parigi 1973, 88. 138 farsi riconoscere dai suoi amici, e in pari tempo vuole rassicurarli. Ma pur indicando una conformità al linguaggio abituale, l'espressione comporta una novità: l'allusione al « sono io » di Yahwé che si trova più particolarmente nel Deutero-Isaia, e al nome divino « Io sono » rivelato nell'Esodo (3, 14; cfr. Gv. 8, 24.28.58; 13, 19). Mai un uomo aveva applicato a se il « sono io » o il « Io sono » divino. Troviamo dunque in questa espressione la conformità al linguaggio corrente, e la discontinuità dovuta al significato superiore che risulta dal contesto. Da una parte l'affermazione « sono io » e quella richiesta dalle situazioni concrete ove e stata pronunciata, specialmente al momento dell'arresto (Gv. 18, 5.6.8), durante il processo (Me. 14, 62; Lc. 22, 70) e al momento della risurrezione (Lc. 24, 39). D'altra parte essa assume un valore trascendente: il camminare sulle acque, per esempio, insinua questo valore attraverso la familiarità del « sono io ». Anche il « sono io » detto alla Samaritana designa colui che ha promesso l'acqua viva, la vita eterna (Gv. 4, 26). Di fronte al « sono io », quelli che vengono ad arrestare Gesù cadono a terra e la risposta al gran sacerdote « sono io » si unisce all'annunciò della venuta del Figlio dell'uomo. Il « sono io » del risuscitato implica la vittoria sulla morte, il trionfo della vita divina nell'uomo. Questa maniera così semplice e così profonda di rivelare la sua identità non ha potuto essere inventata dalla comunità. Essa scaturisce dal contesto ben concrete della vita di Gesù. Essa era inconcepibile per l'ambiente religiose giudaico, come l'attesta l'accusa di bestemmia in reazione al « sono io », nel processo davanti al Sinedrio. Era inammissibile che un uomo osasse appropriarsi il « sono io » di Yahwé. c) « Il Figlio dell'uomo » L'espressione « il Figlio dell'uomo » e conforme al linguaggio semitico e al linguaggio biblico. Essa ha in se un senso semplicissimo, equivalendo a «l'uomo » considerate sia nella sua dignità sia nella sua debolezza. Quello che e nuovo e che Gesù designa se stesso, in maniera abituale, con questa espressione. Possediamo qui un criterio d'autenticità specifica, perché secondo le testimonianze evangeliche l'espres139 sione si trova solo sulla bocca di Gesù, con qualche eccezione puramente apparente. Ne gl'interlocutori di Gesù, ne gli evangelisti si servono dell'espressione per designate Gesù; la folla chiede spiegazioni perché l'espressione le sembra misteriosa. « Chi e questo Figlio dell'uomo? » (Gv. 12, 34). Inoltre, la comunità cristiana non conserverà l'espressione fra i titoli caratteristici di Gesù. è così vero che notiamo la tendenza, nella trasmissione dei ricordi evangelici, a sostituire la formula « il Figlio dell'uomo » giudicata troppo oscura o troppo poco espressiva, con espressioni più chiare o più dirette: « io », perché si tratta di un'autodesignazione; « il Figlio di Dio », perché effettivamente l'espressione di Figlio dell'uomo contiene l'insinuazione della filiazione divina; « il Figlio », per il fatto che l'espressione e talvolta impiegata in parallelo o in relazione con la menzione del Padre.30 Dalle sostituzioni che sono state fatte dagli evangelisti o dalle loro fonti, concludiamo che l'espressione e stata più frequentemente impiegata da Gesù di quanto non appaia dai testi. Vi e stata una tendenza a far scomparire questa locuzione misteriosa, a trascurarla nel linguaggio della comunità. « Il Figlio dell'uomo » non può dunque essere ritenuto un titolo applicato a Gesù dalla comunità; e stata solo un'autodesignazione utilizzata personalmente da Gesù. L'unico oracolo biblico a! quale si riferisce l'espressione e quello di Daniele (7, 13-14), in cui un personaggio celeste appare presso Dio per ricevere ogni potere. Mentre nell'oracolo questo personaggio non aveva che un'apparenza di figlio d'uomo, con l'espressione Gesù sottolinea la realtà della sua umanità. Indica anche la preesistenza, affermando che « il Figlio dell'uomo e venuto »; sottolinea soprattutto i poteri divini del Figlio dell'uomo: potere di giudicare, di rimettere i peccati, di disporre del sabato, di dare la vita, di richiedere la fede, di chiamare ad una adesione assoluta pronta a subire ogni persecuzione. è importante notare che servendosi dell'immagine danielica di « Figlio dell'uomo », Gesù segna il passaggio dal mito alla storia. Il Figlio dell'uomo non e più il personaggio di una rappresentazione apocalittica, ma un uomo vero, inserito nella storia umana. Gesù e stato il primo a demitizzare le immagini escatologiche. Anche per la venuta futura del Figlio dell'uomo, egli mira ad una venuta nella storia umana: con la venuta « sulle nubi », intende la venuta che si 30 Cfr. la nostra opera La coscienza di Gesù, Assisi 1971, 16-25. 140 produrrà in maniera divina, per opera dello Spirito Santo, che si manifesterà nello sviluppo storico della
Chiesa. Aveva insistito sul fatto che l'escatologia si realizzava « adesso », e che fin d'ora (Mt. 26, 64; Lc. 22, 69) si produrrebbe la venuta del Figlio dell'uomo glorioso. Nell'uso dell'espressione « Figlio dell'uomo » e di tutto il contesto escatologico che gli e legato, possiamo cogliere in pari tempo la conformità al quadro del pensiero apocalittico che si era imposto nella sua epoca e la discontinuità con la quale traduce in storia attuale e futura quello che era stato progettato in un avvenire celeste. d) Differenza con le espressioni di fede della comunità Quando la comunità primitiva ha voluto esprimere la sua fede, ha affermato che « Gesù e il Signore » (Rom. 10, 1; 1 Cor. 12, 3). Questa professione di fede corrisponde all'invocazione Maranatha: « Nostro Signore, vieni! » (1 Cor. 16, 22). Il titolo « Signore » permette di professare l'identità divina di Gesù, senza pero confonderla semplicemente con quella del Dio dell'Antica Alleanza. L'altra affermazione essenziale della comunità usa il titolo di Figlio di Dio. Noi la troviamo specialmente all'inizio del vangelo di Marco e nella conclusione del vangelo di Giovanni; secondo quest'ultimo vangelo, la fede consiste nel credere che « Gesù e il Cristo, il Figlio di Dio » (Gv. 20, 30). Anche questo titolo permette d'affermare la divinità di Gesù, sempre distinguendo la sua persona da quella del Padre. Gesù non si e servito di nessuno di questi due titoli per rivelare la sua identità; non e da lui che proviene la formulazione della fede della Chiesa primitiva. Egli ha rivelato chi era, dicendo « Abbà », « sono io », « il Figlio dell'uomo », espressioni che non si sarebbero potute riprendere nelle professioni di fede, essendo piuttosto espressioni della propria coscienza. Di per se, nessuna di queste espressioni indica esplicitamente un'identità divina; e il contesto umano concrete di parole, di gesti e situazioni che facevano apparire il loro significato trascendente. Una professione di fede deve impiegare delle formule più esplicite, più precise. Qui si discerne la maniera di rivelazione scelta da Gesù: egli non detta delle formule ma offre un mistero in modo da suscitare la fede. Il Maestro ha lasciato ai discepoli la cura d'esprimere essi stessi la loro fede, alla loro maniera. È la conseguenza della domanda 141 che lui aveva posto sulla via di Cesarea: « Voi, chi dite che io sia? » (Mt. 16, 15; Me. 8, 29; Lc. 9, 20). La comunità dunque non ha ricevuto da Gesù le formule della «sua fede. Essa ha dovuto forgiarsele da sola, cercando di esprimere quanto risultava dalla testimonianza portata da Gesù sulla sua persona. è questo che ci permette di distinguere con più certezza le parole autentiche di Gesù. Se la comunità avesse voluto attribuire alle parole di Gesù i titoli dei quali si serviva nella sua professione di fede. avrebbe fatto dire a Gesù che egli era il Signore, il Figlio di Dio. Essa ci riporta invece che Gesù si e comportato diversamente: la discontinuità o differenza e segno d'autenticità. Spesso gli esegeti contemporanei definiscono i racconti evangelici come una testimonianza della fede della comunità. L'affermazione e vera nel senso che gli autori dei racconti sono stati indotti dalla loro fede; essi hanno riferito i ricordi sulla vita di Gesù in modo da comunicare la loro fede ed indicare meglio il fondamento della fede cristiana. Ma la loro stessa fede esigeva il rispetto della realtà oggettiva di ciò che Gesù aveva detto e fatto. Constatiamo che essi hanno trasmesso la presentazione che Gesù aveva fatto di se stesso e che era differente dall'espressione della fede adottata in seguito dalla comunità. 5. Gesti autentici di Gesù Il problema del discernimento dei gesti autentici e legato a quello delle parole autentiche. Concerne particolarmente i miracoli31. Lo scetticismo o la negazione a questo riguardo, hanno assunto varie dimensioni: o tutti i miracoli diventano sospetti, o certe categorie di miracoli sono eliminate. a) La realtà dei miracoli Agli occhi di taluni e il miracolo in se stesso che viene messo in questione. Abbiamo citato l'opinione di Ch. Duquoc, secondo cui il miracolo non e che un lusso metafisico, e i dati prodigiosi del Nuovo Testamento provengono da mentalità che ci sono estranee 32. Il principio di non-concorrenza enunciate da P. Schoonenberg, se31 Cfr. la nostra opera Chi sei tu, o Cristo?, Firenze 1977, 142-153. 32 Cbristologie II, 22. 142 condo cui Dio non fa concorrenza alle creature e rispetta le leggi della creazione, non provoca soltanto dei dubbi sulla concezione verginale e le apparizioni di Gesù risuscitato 33; sembra sbarrare la strada a ogni miracolo. Questi atteggiamenti non manifestano certo l'apertura al trascendente, così importante per l'accoglienza delle testimonianze evangeliche. Esse limitano in anticipo, a priori, l'estensione dell'azione divina che si e prodotta in Gesù, come se quest'azione non avesse potuto esprimere una padronanza sulle leggi della natura. Il principio della non-concorrenza tende ad escludere l'Incarnazione stessa, che consiste
nell'inserzione di una persona divina nella creazione, implicando così una deroga eccezionale alle condizioni ordinarie per la formazione di un essere umano. Facendosi uomo, il Figlio di Dio entra con una natura umana nelle relazioni intersoggettive delle persone umane: la sua sola presenza a livello della comunità umana e in se un prodigio, e la sua azione umana di persona divina sconvolge le leggi ordinarie della creazione. Non si possono ricusare tutti i miracoli col pretesto che i prodigi sarebbero legati alla mentalità mitologica o all'immaginazione popolare. Nei racconti evangelici i miracoli non si presentano come dei prodigi destinati ad attrarre l'attenzione su se stessi, suscitando un entusiasmo pieno d'ammirazione, ma come dei segni di un'azione d'ordine superiore, spirituale. Quando, prima di guarire il paralitico, Gesù pronuncia la remissione dei suoi peccati (Me. 2, 5), egli indica l'obiettivo essenziale della sua missione; il miracolo non sopravviene che per convalidare la dimostrazione del suo potere di rimettere i peccati, e la guarigione corporale non si compie che per certificate la guarigione spirituale. Lungi dal voler creare un movimento d'entusiasmo popolare per i miracoli, Gesù agisce con discrezione, raccomanda il silenzio ai beneficati; non vuole una religione in cui il prodigio occupi il posto principale, divenendo l'elemento determinante della fede. Siccome i miracoli non sono che dei segni che non debbono velare ma simbolizzare una realtà più essenziale, le deroghe alle leggi della natura assumono tutto il loro valore; esse indicano il soprannaturale nell'opera di salvezza. La salvezza che Gesù apporta all'umanità supera le forze della natura: Dio interviene direttamente non 33 Ereignis und Geschehen, ZKT 90 (1968) 1-21. 143 per far concorrenza alle energie delle creature, ma per salvarle e trasformarle secondo un destino soprannaturale. I miracoli dunque debbono essere sempre considerati nell'insieme della missione di Gesù; non sono casi fortuiti ne episodi isolati. Appartengono al corso ordinario della vita pubblica di Gesù come manifestazione del senso della sua missione. Da questo punto di vista occorre osservare quel che vi e di unico in Gesù. Anzitutto non vi e mai stato nella storia un personaggio che abbia compiuto una tale moltitudine di miracoli: Gesù li ha seminati sulla sua strada. Poi, tutti questi miracoli sono l'espressione di una missione unica, il cui fine e la salvezza dell'umanità; la guarigione, per esempio, non è voluta semplicemente per se stessa ma e posta nella prospettiva di un'opera superiore che richiede la fede. Infine bisogna sottolineare che Gesù opera i miracoli nel suo nome, con la propria autorità: fatto unico che implica la rivendicazione di un potere divino personale. I miracoli dell'Antico Testamento erano operati in nome di Dio, e nella Chiesa primitiva i miracoli erano compiuti dagli apostoli che invocavano il nome di Gesù (At. 3, 6; 9, 34). I miracoli di Gesù dunque sono differenti da tutti gli altri sotto questo aspetto: vi si può riconoscere la discontinuità, criterio d'autenticità 34. Non si può neanche misconoscere l'attestazione unanime fornita dai vangeli riguardo ai miracoli: « Egli guariva molti malati afflitti da diversi mali », scrive Marco (1, 34), raccontando il soggiorno di Gesù a Cafarnao; la scena si e talmente ripetuta altrove che i pochi miracoli raccontati in modo più particolare nei vangeli non sono che una minima parte di quelli compiuti35. I racconti più circostanziati 34 Cfr. R. LATOURELLE, Authenticite historique des miracles de Jesus, Essai de critériologie, Gregor. 54 (1973) 244. 35 W. Kasper parla di una tendenza ad ampliare i miracoli (Jesus der Christus, Magonza 1974, 105), ma i motivi che evidenzia non sono troppo convincenti. Dal « molti » di Mc. 1, 34, al « tutti » di Mt. 8, 16, non vi sono amplificazioni, perché si sa che l'espressione semitica «molti» ha un senso universale e può tradursi « tutti ». Se la figlia di Giairo è malata in Mc 5, 23 e morta in Mt 9, 18, la sua morte e ugualmente attestata in Mc 1, 35, e la differenza e dovuta alla semplificazione del racconto di Matteo. Le altre difierenze addotte, come quella di 4.000 o 5.000 uomini per la moltiplicazione dei pani (Mt. 14, 13-21; 15, 32-39) sono poco importanti e sembrano avere un'altra spiegazione che un desiderio d'amplificazione. Ciò non significa che non vi sia stata alcuna amplificazione, ma una verifica seria è necessaria. Quello che colpisce maggiormente è la discrezione dei racconti evangelici che, malgrado l'abbondanza dei miracoli operati da Gesù, non ne hanno riportati che alcuni in dettaglio. Essi riflettono l'atteggiamento modesto e umile di Gesù nel compiere i miracoli. 144 comportano dei dettagli che confermano il loro valore storico, e le affermazioni generali della guarigione di molti malati hanno ugualmente il loro valore, poiché rimandano a dei fatti che dovevano essere ben conosciuti dalle popolazioni locali e non avrebbero potuto essere enunciate senza correre il rischio di contraddizioni e contestazioni, se non fossero state conformi alla realtà. Sappiamo che gli avversari di Gesù non hanno contestato i miracoli ma le conclusioni che se ne potevano dedurre. Essi pretendevano che Gesù cacciasse i demoni in nome di Beelzebul (Me. 3, 22
par); ammettevano dunque il fatto in se stesso, malgrado il loro desiderio di opporsi alle pretese di colui che rivelava un potere di dominio sul male. b) I miracoli più contestati Fra i miracoli più contestati vi e la categoria di quelli che rivelano un potere sulla natura inanimata: il vino di Cana, la pesca miracolosa, la moltiplicazione dei pani, il camminare sulle acque, la tempesta sedata, la trasfigurazione. Conviene aggiungervi le risurrezioni. Certuni hanno creduto discernervi una retroproiezione della fede pasquale sugli avvenimenti della vita terrena d' Gesù.36 Altri insistono su dei prestiti da leggende estranee al cristianesimo 37. Tuttavia, di questa interpretazione non ci e fornita nessuna dimostrazione. Non si vede perché la fede pasquale avrebbe portato i discepoli a inventare dei prodigi durante la vita terrena di Gesù: la risurrezione del Salvatore era il grande miracolo che rendeva tutti gli altri di molto secondari. Quanto a dei paralleli leggendari, si invocano spesso in modo vago e generale, senza analisi circostanziata. Nessun parallelo ci fornisce un insieme analogo ai miracoli di Gesù, che hanno tutti un senso determinato in rapporto con la sua missione: il vino di Cana e la moltiplicazione dei pani annunciano l'Eucaristia; la pesca miracolosa e il simbolo della meravigliosa fecondità promessa all'attività dei discepoli; il camminare sulle acque compie 36 è l'opinione ripresa da Kasper, Jesus, 106, come risultato degli studi della Formzeschichte. 37 Cfr. S. LEGASSE, L'historien en auête de l'événement. in Les miracles de Jesus selon le Nouveau Testament (X. LEON-DuFOUR). Parigi 1977, 119: «è inutile enumerare tutti i paralleli per constatare che la tradizione cristiana non ha trovato indecoroso attingere in un lotto comune a tanti settori dell'umanità. La finzione leggendaria qui viene a servire il messaggio religiose ». 145 concretamente il cammino di Yahwé « sul mare », celebrate a proposito del passaggio del Mar Rosso (Sal. 77, 20) e significa il cammino onnipotente del Salvatore nell'opera liberatrice; la tempesta sedata attesta il potere di Cristo su tutte le tempeste che minacceranno la barca della Chiesa; la trasfigurazione e una visione momentanea che da ai discepoli la sicurezza del trionfo della risurrezione già prima del dramma che sta per prodursi. Questi miracoli si accordano con rinsegnamento di Gesù e con lo sviluppo del suo compito di Salvatore. Per metterli in dubbio, bisognerebbe basarsi su motivi plausibili che ne indicassero le incoerenze o le inverosimiglianze. I testi che li riportano si presentano come testimonianze di buona qualità; sono descritti con dei dettagli che appartengono agli avvenimenti concretamente vissuti. Essi non ci mettono davanti sogni apocalittici ne elucubrazioni leggendarie, ma raccontano dei fatti avvenuti. Il contrasto con i prodigi riportati dai vangeli apocrifi e sufficientemente significative. Inoltre taluni di questi miracoli sono legati a degli sviluppi che senza di essi sarebbero molto meno comprensibili. così la promessa dell'Eucaristia con la professione di fede richiesta in questa occasione da Gesù, si spiega con la rivelazione del vero significato della moltiplicazione dei pani (Gv. 6, 26-70). La risurrezione di Lazzaro spiega l'unzione di Betania e l'evoluzione accelerata dell'ostilità nei confronti di Gesù, che doveva portare alla condanna. c) Testi sospetti Il valore generale delle testimonianze evangeliche non dispensa dall'esame di ogni racconto di miracolo; una « verifica storica » è necessaria in ogni caso, nella misura in cui è possibile. Non si tratta dunque d'ammettere, senza analisi critica, tutto quello che e riportato nei testi. Ci limiteremo qui a segnalare brevemente qualche caso in cui appaiono dei motivi seri di inverosimiglianza. Il racconto della mandria di duemila porci nei quali Gesù avrebbe mandate dei demoni per precipitarli in mare (Me. 5. 12-13; Mt. 8, 30-32; Lc. 8, 32-33), non lascia solo il lettore a disagio, per l'aspetto fantastico e grottesco del prodigio. Si constata che si ricollega al racconto della guarigione di un ossesso mediante una incoerenza, dato 146 che Gesù si rivolge allo spirito che ha cacciato, come se fosse ancora presente. E soprattutto e contrario a un principio essenziale dei miracoli di Gesù, che sono tutti miracoli di benevolenza; Gesù non ha usato del suo potere per distruggere, ne per far torto a chicchessia. Si può pensare che questo breve racconto sia stato ispirato dall'avversione che provocava l'allevamento di porci in quella regione. Il castigo del fico osservato all'istante, secondo Matteo (21, 18 s), costatato il giorno seguente, secondo Marco (11, 20 s), e anch'esso sospetto come prodigio di distruzione. Nella versione di Luca si tratta semplicemente di una parabola in cui il fico sterile e presentato come figura d'lsraele. La parabola ha potuto essere pronunciata in occasione di un fico incontrato sulla strada, ma non si immagina davvero che un fico abbia potuto essere punito. L'ingiunzione fatta a Pietro di prendere dalla bocca del primo pesce pescato lo statere necessario al pagamento dell'imposta (Mt. 17-27) e ugualmente incompatibile con i principi d'azione di Gesù: egli
non opera miracoli per se stesso, ne per ottenere denaro, e non impiega mezzi analoghi ad un procedimento magico. Il racconto evangelico non ricorda che Pietro abbia agito in conseguenza. L'ingiunzione sembra essere la materializzazione dell'intenzione espressa da Gesù di pagare l'imposta con il ricavato della pesca effettuata dal discepolo. I casi in cui il racconto di un miracolo operate da Gesù debba essere ritenuto sospetto non sono numerosi. I criteri impiegati per eliminarli tendono d'altronde a confermare il valore d'autenticità degli altri miracoli. d) L'interpretazione dei miracoli Una volta ammesso il fatto dei miracoli, resta da analizzare il genere di potere che implicano da parte di Gesù. In particolare ci si può domandare in quale misura vi e deroga alle leggi della natura. Si potrebbe porre la questione per una guarigione, come quella della suocera di Pietro. Se il vangelo riportasse solo questo racconto di guarigione, si potrebbe dubitare che vi sia stato un vero miracolo, perché il semplice fatto di stare a letto con la febbre non sembra indicare una malattia molto grave. Ma questa guarigione appartiene ad un insieme di numerose guarigioni straordinarie e perciò una certa deroga alle leggi della natura e più verosimile. 147 All'apprezzamento di questa deroga e legato il problema di determinare le reali possibilità della natura. A questo proposito possono sorgere molte discussioni. Tuttavia quale che sia la misura che si voglia riconoscere a queste possibilità, è certo che i miracoli di risurrezione manifestano un superamento dei limiti di qualunque potere umano; nessun uomo trova in se stesso, ne nelle energie della natura, la possibilità di riportare un morto alla vita. La distanza dalla morte alla vita rimane invalicabile. Risuscitando dei defunti e specialmente Lazzaro deposto nella tomba da tre giorni, Gesù ha dimostrato una potenza trascendente. Inoltre, la varietà delle guarigioni e degli altri miracoli operati da Gesù, conferma questa trascendenza del suo potere. Essa dimostra che in lui vi era un potere sulla vita umana e sulle forze della natura. In taluni casi ci si può ancora chiedere se delle guarigioni d'invasati concernevano davvero dei casi di possesso diabolico o semplici malattie nelle quali l'interpretazione popolare riconosceva l'azione di uno spirito maligno. Ma in ogni caso la guarigione avveniva, e siccome la guarigione corporale era sempre nell'intenzione di Gesù il segno della guarigione spirituale che voleva concedere, l'espulsione dello spirito del male costituiva il gesto significative di questa intenzione. Infine, non bisogna mai perdere di vista che i miracoli particolari di Gesù devono sempre essere interpretati come l'espressione del miracolo fondamentale dell'Incarnazione: il miracolo che sorpassa tutte le forze della natura e che e il segno decisive della salvezza e la presenza del Figlio di Dio in mezzo agli uomini. Il miracolo della risurrezione forma un prolungamento di questa Incarnazione, ma gia nell'accesso alla vita gloriosa, celeste. Nella sua vita terrena Gesù e stato in mezzo agli uomini il miracolo permanente, essendo il Verbo fatto carne, miracolo nascosto e rivelato nell'oscurità di un'esistenza umana simile alle altre. 148 CAPITOLO VIII LE DEFINIZIONI CONCILIARI E IL PROBLEMA ERMENEUTICO Le obiezioni fatte al concilio di Calcedonia dalle cristologie che non ammettono più il Figlio di Dio incarnate si situano a parecchi livelli. Anzitutto a livello della concettualizzazione e dell'espressione; il concilio di Calcedonia, come quello di Nicea, e accusato di aver ellenizzato il dogma pensandolo in funzione della filosofia greca dell'epoca. Inoltre il contenuto della definizione di Calcedonia e sottoposto alla critica, principalmente per l'affermazione delle due nature, ma anche per delle insufficienze nella maniera di spiegare che cosa è il Cristo. Infine, alcuni teologi insistono sulla necessita di reinterpretare, in generale, tutte le dichiarazioni conciliari, onde presentarle all'uomo contemporaneo con termini più accettabili. Il problema ermeneutico si pone per tutta la Tradizione come per la Scrittura stessa: si tratta di ritradurre in linguaggio moderno quello che era stato espresso con formule giudicate sorpassate. A) I CONCILI DI NlCEA E DI CALCEDONIA 1. Ellenizzazione o disellenizzazione A proposito dell'accusa di ellenizzazione del dogma occorre anzi tutto notare che non si può rimproverare ai concili di Nicea e di Calcedonia d'aver espresso il dogma cristologico con termini di lin149 gua greca. Era la lingua più diffusa in Oriente, quella usata dagli autori del Nuovo Testamento e che era impiegata nelle controversie cristologiche dei primi secoli. Era una lingua che possedeva una vera
universalità culturale, e che offriva dei concetti ben elaborati, suscettibili di enunciare le verità metafisiche. Essa offriva incontestabilmente ai Padri dei primi concili il migliore strumento per formulare il contenuto della fede cristiana e, più specialmente, il contenuto dell'identità misteriosa di Cristo. Il problema non concerne dunque l'impiego dei concetti greci, ma e di sapere se i concili di Nicea e di Calcedonia hanno fatto deviare il senso della verità rivelata, comprendendola e interpretandola secondo nozioni tratte da una determinata filosofia greca. Esaminando questo problema, A. Grillmeier ha dimostrato chiaramente che i due concilii, invece di spingere il dogma sulla via dell'ellenizzazione, hanno al contrario resistito alle tentazioni d'assimilare la verità cristiana a delle concezioni filosofiche '. Effettivamente, prima di Nicea, erano gli Ariani che interpretavano il dogma secondo le nozioni del platonismo di quel tempo: innanzi alla dottrina del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, proponevano la gerarchia platonica della monade (il Padre) al disopra del Nous (Logos) e dell'anima del mondo. Sulle rappresentazioni elleniche di Ario, il concilio di Nicea ha fatto prevalere la dottrina biblica. Anche per Calcedonia la difficoltà è stata quella di sormontare il monofisismo derivante da Apollinare, che aveva ellenizzato il dogma adottando come formula cristologica: « una natura fatta carne del Logos divino ». Questa formula esprimeva la fusione del Logos e della carne in una sola natura. Con la distinzione delle due nature, il concilio si oppone all'ellenizzazione. In conclusione, si deve parlare di una « disellenizzazione » operata dai concili di Nicea e di Calcedonia, al fine di preservare il senso autentico della verità biblica. Per quanto riguarda più precisamente la distinzione della persona e della natura, così fortemente marcata nella definizione di Calcedonia, si deve osservare che essa e stata imposta dalla necessità di esprimere quello che era il Cristo, secondo la rivelazione biblica. Questa distinzione non viene da una filosofia: i sistemi filosofici greci l'ignoravano semplicemente. Essa e sorta per rispondere a un pro1 Mit ihm und in ihm. Christologiscbe Forschungen und Perspektiven, Friburgo-Basilea-Vienna 1975, 532-548. 150 blema teologico e non può essere vista come dipendente da alcuna metafisica particolare. Lungi dall'aver sacrificato la verità rivelata a dei modi di pensare ellenici, il concilio di Calcedonia ha manifestato la sua indipendenza di fronte alle filosofie del tempo. Ha voluto soprattutto essere fedele al Cristo della Scrittura, ed ha impiegato i termini necessari per mantenere l'attestazione biblica della vera identità di Gesù. È per questo motivo che ha enunciate l'unita di persona e la dualità di nature di colui che era vero Dio e vero uomo. 2. Valor e del concilio di Nicea Le cristologie dette non calcedoniane appaiono in pari tempo come cristologie non niceane. Se il concilio di Calcedonia viene contestato con più vigore o « reinterpretato » in maniera più radicale, e perché esprime con maggiore precisione l'identità divina del Verbo incarnato. Ma questa identità era gia stata enunciata con molta chiarezza dal concilio di Nicea. Anzi le cristologie che si allontanano dall'affermazione di questa identità fanno capire meglio, per contrasto, il valore attuale della definizione del primo concilio ecumenico2. Ricordiamo qualche elemento essenziale di questa definizione: « Noi crediamo in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio,... Dio (nato) da Dio,... vero Dio (nato) dal vero Dio, generate e non creato, consostanziale al Padre » 3. Il termine « consostanziale » vuole formalmente esprimere l'uguaglianza di sostanza. È vero che l'intenzione del concilio non era quella d'affermare esplicitamente l'identità numerica di sostanza in Dio4, ma questa identità e implicata logicamente nell'uguaglianza, poiché la natura divina non può essere che unica. Se questa identità non e stata espressa, vuol dire che il concilio voleva combattere non un errore triteista, che avrebbe ammesso una pluralità di Dii, ma l'errore ariano che negava la divinità del Verbo. Ancor oggi il pericolo non e quello di ripiombare nel triteismo; la tentazione più peri2 In occasione del 1650° anno trascorso dal concilio di Nicea, la Conferenza episcopale tedesca ha pubblicato un documento per affermare, in risposta alle posizioni adottate da Küng, che la professione di fede di Nicea, come d'altronde quella di Calcedonia, è una « espressione obbligatoria della fede in Gesù Cristo ». Das Christus-bekenntnis von Nizäa. Eine Erklärung der Deutschen Biscbofskonferenz, in Herder-korrespondenz, 29 (1975) 3, 558. 3 DS 125. 4 Cfr. I. ORTIZ DE URBINA, Nicée et Constantinople, Parigi 1962, 85. 151 colosa e di ridurre il Cristo allo stato di semplice creatura. Nicea afferma che Gesù non e meno Dio del Padre: e Dio nato da Dio.
Incontestabilmente il concilio insiste sull'affermazione che Gesù è Dio. Sapendo che e un'affermazione di portata considerevole e volendo evitare che con un certo sotterfugio si possa chiamare Gesù « Dio » in un senso diminuito, non si limita a dire « Dio nato da Dio », ma aggiunge « vero Dio nato da vero Dio »3. Atanasio aveva rimproverato a Ario di dichiarare che Cristo non era vero Dio, ma che si chiamava Dio per partecipazione6. Inoltre il concilio sottolinea che la generazione del Figlio non può essere assimilata a una creazione: qui, colui che e stato generate, non e stato create, poiché è l'unico generate dal Padre, generate « dalla sostanza del Padre ». Si tratta di una filiazione eterna e come tale preesistente all'uomo Gesù. La consostanzialità non potrebbe essere ridotta alla similitudine d'essere per la quale l'uomo Gesù, prossimità assoluta di Dio, dice: « tu » al Padre, essendo la forma personale di rivelazione del Padre 7. Essa non potrebbe neanche consistere semplicemente nella qualità di perfetta immagine posseduta da Gesù, che essendo per noi la Promessa e la Chiamata, e il secondo volto di Yahwé 8. Essa potrebbe ancor meno essere interpretata come l'unica intenzione d'escludere un secondo Dio o un semi-Dio, come se il concilio di Nicea si fosse limitato a definire l'unicità di Dio, e non volesse affermare null'altro che la presenza di questo Dio unico in Gesù 9. La consostanzialità definita a Nicea e quella che appartiene al Figlio di Dio, come Dio da Dio in virtù della generazione eterna !0, ed esprime l'uguaglianza del Figlio col Padre nel possesso della natura divina. Importa ricordare che questa consostanzialità non fa che esplicitare quanto era gia stato detto nel vangelo di Giovanni: « Il Verbo era Dio » (1, 1), « io e il Padre siamo uno (una cosa, un essere) » 5 Per il commento di questa formula, cfr. E. BOULARAND, L'hérésie d'Arius et la foi de Nicée, II, Parigi 1972, 321-325. 6 Epistola ad episcopos Aegypti et Libyae, 12, PG 25, 564 C; I Oratio contra Arianos. 6, PG 26, 24 A. 7 Cfr. SCHILLEBEECKX. Persoonlijke, 285, che parla di homoousia. 8 Cfr. VELDHUIS, Over Jezus, 57. 9 Cfr. KÜNG, Christ sein, 438. Fra fdi studi critici sull'opera di Küng, cfr. G. B. SALA, Essere cristiani ed essere nella Chiesa. Il problema di fondo in un recente libro di Hans Küng, Alba (Ed. Paoline) 1975; L. JAMMARONE, Hans Küng eretico, Brescia (Ed. Civiltà) 1977. 10 Cfr. BOULARAND, L'heresie d'Arius et la «foi» de Nicée, II, 335-337.
152 (10, 30; Cfr. 17, 22). Per questo motive una cristologia che abbandona la professione di fede di Nicea si stacca necessariamente dalle affermazioni giovannee. 3. Valore del concilio di Calcedonia Il valore attuale del concilio di Calcedonia è stato contestato per diverse ragioni. a) Il concetto di natura Anzitutto si afferma spesso che i concetti impiegati nella definizione, oggi non hanno più il senso che avevano a quell'epoca. Per quanto riguarda il concetto di persona analizzeremo in seguito l'opinione di K. Rahner, che e stata ripresa dai partigiani di una cristologia non calcedoniana. Per il concetto di natura, abbiamo ricordato la posizione di Schoonenberg, secondo cui nel linguaggio moderno la natura si distingue dalla persona, mentre all'epoca patristica il termine « natura » non aveva ancora avuto questa limitazione di senso e avrebbe designato la realtà di un essere11. A Calcedonia, dunque, la natura avrebbe significato la realtà totale. La conseguenza segue logicamente: la natura umana, enunciata a Calcedonia, comporta una persona umana, poiché essa e realtà umana totale. Questa conseguenza e formulata specialmente da Gonzalez Faus: visto che il mondo della personalità appartiene alla natura tale quale e stata concepita dagli antichi, e che in Gesù vi e una natura umana, questo Gesù e, nel senso moderno, una persona umana. « Essere uomo, non e possedere astrattamente una natura umana, e essere una persona umana » 12. è vero che prima del concilio di Calcedonia, i termini di « natura » e di « ipostasi » erano stati impiegati in maniera più imprecisa. Ma la distinzione dei due termini per designare la natura e la persona e giustamente la novità che da all'affermazione conciliare tutto il suo valore e fa comprendere il progresso compiuto nell'intelligenza del dogma cristologico. Al concilio di Calcedonia il termine « phusis », « natura » significa certamente una natura concreta, non semplicemente astratta, ma non significa la realtà totale dell'in11 Ein Gott der Menschen, 65. 12 Humanidad nueva, 502. 153 dividuo, perché si distingue dalla persona. Natura umana non implica dunque persona umana. La distinzione conserva tutto il suo valore anche attualmente e non si potrebbe ammettere un cambiamento di senso: il termine « natura » conserva oggi il significato essenziale che aveva a Calcedonia, indicando ciò che e una cosa o un essere. Esso risponde alla domanda: « Che cosa e? », mentre la persona risponde alla domanda: « Chi e? ». b) La dualità L'affermazione di « due nature » e stata ugualmente oggetto di critiche. Alcune sopportano male questa
dualità che sembra compromettere la vera unita di Cristo: Hulsbosch, per esempio, avrebbe voluto sorpassare la dualità riducendola all'unita u. All'espressione calcedoniana si rimprovera anche di applicare lo stesso termine « natura » a due realtà assolutamente differenti, Dio e l'uomo 14. Il concetto di « natura » divina non potrebbe essere impiegato nel senso in cui si parla di natura umana, essendo la dissimiglianza di gran lunga superiore alla similitudine. Tuttavia, malgrado queste obiezioni, la dualità di natura non ha perduto nulla del suo valore e rimane affermazione fondamentale in cristologia. La dualità non può essere cancellata se si vuol rimanere fedeli alla verità di Cristo, perché si deve riconoscere in lui il vero uomo e il vero Dio. Si può osservare che Schoonenberg, che ha voluto costruire una cristologia senza dualità, è tornato suo malgrado, nelle sue spiegazioni dottrinali, a una dualità, ammettendo in Gesù una unione del Verbo, modo divino, e di una persona umana; anche Hulsbosch ha finalmente proposto la dottrina della persona umana di Gesù unita alla Sapienza divina. Essi hanno reintrodotto una dualità e in un senso che rende l'unita più difficile da salvare. Ogni accoglienza del Gesù del Vangelo implica l'accoglienza della dualità di natura, a meno di voler eliminare sia la divinità di Cristo, sia la sua umanità, riducendola a una pura apparenza. Si comprende l'ansia dell'intelligenza umana nel ricercare l'unita in questa dualità: ora, giustamente, il concilio di Calcedonia afferma inseparabilmente 13 Jezus Christ us, gekend als mens, beleden als Zoon Gods, 253-254. 14 SCHOONENBERG, Bin Gott der Menscben, 65-66; GONZALEZ FAUS, Humanidad Nueva, 502505. 154 la dualità di nature e l'unita di persona. L'unita non può essere ricercata che nella persona. L'intenzione primordiale del concilio era quella di respingere il monofisismo che, affermando una sola natura nel Cristo, era portato ad ammettere l'assorbimento della natura umana nella natura divina. Sottolineando la dualità di nature, Calcedonia ci porta a scoprire, nella realtà dell'Incarnazione, il rispetto della natura umana da parte del Figlio di Dio che diventa uomo. La natura umana e destinata a una trasformazione che la divinizza, ma deve rimanere propriamente umana. Nel Cristo essa e unita alla natura divina, ma senza confusione, senza alterazione. L'affermazione delle due nature garantisce la presenza di una natura umana integrale. Non si può rimprovevare a quest'affermazione di riunire sotto il medesimo concetto di « natura » due realtà che sarebbero totalmente differenti, Dio e l'uomo. Perché Dio e l'uomo non sono totalmente dissimili: l'uomo e stato create ad immagine di Dio. La natura umana porta nel più profondo di se stessa la somiglianza con la natura divina. così il concetto di « natura » e applicato a Dio e all'uomo in un senso analogico, con una somiglianza essenziale che non sopprimano le differenze tra l'infinito e il finito. c) Essenzialismo o definizione ontologica? Il concetto calcedoniano di natura, secondo alcuni critici, avrebbe avuto anche l'inconveniente di rendere la cristologia essenzialista 15. Tutto l'aspetto esistenziale di Cristo, che ha una così grande importanza per l'uomo d'oggi, e lasciato nell'ombra, tanto più che il concilio non dice nulla della posizione di Gesù nella storia della salvezza e ignora la successione delle diverse fasi, terrena e gloriosa, dell'esistenza di Gesù 16. Quello che e vero, e che il concilio di Calcedonia si e limitato a rispondere al problema che si poneva in quel momento alla fede cristiana: questo problema concerneva l'ontologia di Cristo. Non si potrebbe ridurre l'affermazione di quest'ontologia a una affermazione puramente essenzialista, perché le due nature sono attribuite a Cristo non come delle essenze astratte ma come delle realtà concrete. Resta pero il fatto che il concilio non ha considerate lo sviluppo 15 SCHOONENBERG, Bin Gott der Menscben, 66. 16 Ibid., 66-67. 155 della vita di Gesù, ne il passaggio dalla Passione alla Risurrezione, e che ha fatto solo una modesta allusione alla missione salvatrice. Tuttavia non ci si può aspettare che un concilio affronti tutti i problemi, tutti gli aspetti della persona e dell'opera di Cristo, ancor meno che elabori una sintesi dottrinale della cristologia. Il concilio non deve assumere il compito che incombe ai teologi. Il concilio di Calcedonia si e limitato a definire la verità di fede che era stata oggetto di controversie, ed ha così portato a termine la missione per la quale era stato convocato. Non bisogna dunque cercare nella definizione conciliare un riassunto di cristologia. I teologi che hanno voluto edificare tutta la cristologia su questa definizione, hanno avuto il torto di prendere una base dottrinale troppo stretta. Ma in ciò vi e una responsabilità propria dei teologi e non si può accusare il concilio di questa ristrettezza di vedute, perché questa e imputabile a coloro che hanno voluto limitare i
loro orizzonti ad un'affermazione che il concilio non presentava come una sintesi di tutta la dottrina rivelata 17. Sul problema ontologico, il concilio ha davvero enunciate un'affermazione fondamentale definendo l'identità di Cristo. Ogni cristologia che si allontana dall'affermazione dell'unica persona e di due nature, si orienta verso l'errore. D'altra parte Calcedonia non ha preso in considerazione il dinamismo dell'atto dell'Incarnazione. Si e messo da un punto di vista statico, dichiarando che le due nature confluivano in una sola persona e una sola ipostasi.18 Appartiene ai teologi di elaborare una dottrina più completa cercando di esprimere tutto il senso dell'Incarnazione, ma attenendosi sempre alla luce che viene dalla definizione conciliare. 17 Non diremo che la lacuna del concilio nella menzione della dimensione storica propria a Gesù « falsa le prospettive» (B. SESBOUE, Le proces contemporain de Chalcedoine, Rech. S.R. 65 (1977) 66). Il concilio non ha voluto esprimere tutta la cristologia; quel che falsa le prospettive e la condotta dei teologi che vorrebbero trovare nella definizione conciliare un enunciato integrale della dottrina cristologica. Sesboüé respinge d'altra parte altre critiche fatte al concilio di Calcedonia. 18 DS 302. 156 B) VALORE DELLE DEFINIZIONI CONCILIARI 1. Valore definitive Le definizioni dei concili ecumenici non possono essere considerate come la semplice espressione della verità rivelata, relativa ad un'epoca e marcata da un contesto culturale superato w. Nella Tradizione della Chiesa esse sono ritenute come affermazioni che hanno un valore definitive. In esse si esercita il potere dell'autorità pastorale di pronunciarsi in maniera infallibile sul contenuto della Rivelazione cristiana. Non appartiene a noi trattare qui dell'esercizio infallibile della missione d'insegnamento. Limitiamoci a constatare che esso si situa nel prolungamento dell'Incarnazione, caratterizzato dalla rivelazione dell'Assoluto nel tessuto contingente delle parole e dei gesti umani. L'Assoluto si e espresso attraverso il relative: e questo che conferisce alla rivelazione di Gesù il suo carattere unico e definitive. Il potere di trasmettere questo insegnamento e stato affidato ai pastori della Chiesa. Da ciò deriva che taluni enunciati della fede, opera del magistero supremo, hanno un valore assoluto che s'impone all'universalità dei cristiani. Si comprende allora perché i teologi che non ammettono più l'Incarnazione del Figlio di Dio, rifiutano ugualmente di riconoscere il valore definitive delle definizioni di fede espresse dall'autorità della Chiesa. O ancora, non sorprende che il dubbio concernente il valore delle definizioni si estenda anche alla verità dell'Incarnazione. Esiste una solidarietà fra queste due manifestazioni dell'Assoluto nel contesto umano. Cosi la professione di fede dei concilii di Nicea e di Calcedonia può essere difficilmente contestata senza che sia in pari tempo contestata l'identità della persona divina del Figlio incarnate. « Liberare il Cristo » dal dogma di Calcedonia, e generalmente, spogliarlo della sua persona divina. Si conferma così che la fede nel Cristo e fede di Chiesa. Parlare del « modello » o della « formula » di Cal19 Il valore permanente delle definizioni conciliari nel campo della cristologia e della dottrina trinitaria, è stata vivamente sottolineata con un documento della Congregazione per la dottrina della fede: « Declaratio ad fidem tuendam in mysteria Incarnationis et Sanctissimae Trinitatis a quibusdam recentibus erroribus; Acta Apostolicae Sedis 64 (1972) 237-241. Noi l'abbiamo commentate in alcuni recenti errori sui misteri dell'Incarnazione e della Trinità, Civiltà Cattolica 123 (1972) II, 41-46. 157 cedonia può essere una maniera d'attribuire un valore semplicemente formale alla definizione conciliare, un modo di pensare e di esprimersi che non e necessariamente legato al contenuto stesso della fede. A Calcedonia come a Nicea, la definizione cristologica si presenta non come una semplice formula, ma come una professione di fede, fede nella quale s'impegna a fondo la Chiesa. È una professione nella quale la fede ecclesiale, dopo tante controversie, e riuscita ad esprimere con più precisione ciò che e Gesù Cristo. Le definizioni conciliari debbono essere ammesse per quello che sono realmente: espressione definitiva della verità rivelata, elaborata in un momento della vita della Chiesa non per enunciare una teoria o una semplice rappresentazione intellettuale, ma la fede. Per determinare meglio questo valore definitive, conviene distinguere la formula e il senso, come lo fa la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, nel 1973 20. Le formule dogmatiche del Magistero, osserva questa dichiarazione, sono atte a comunicare fin dall'origine la verità rivelata, e resteranno sempre atte a comunicarla a coloro che le interpretano correttamente. Tuttavia, non tutte hanno la stessa attitudine e può accadere che vi si aggiungano nuove precisazioni o nuovi enunciati,
che possono entrare nell'uso ordinario della Chiesa, al fine di fame emergere meglio il senso. Ma il significato stesso delle formule dogmatiche rimane sempre vero, in maniera costante, anche quando lo si spiega e lo si comprende maggiormente. Non si può dunque attribuire alle formule dogmatiche un semplice valore d'approssimazioni soggette a cambiamento che deformerebbero in qualche modo la verità rivelata e non potrebbero significarla in maniera determinata. Vi e un senso della verità rivelata, espresso da queste formule, che conserva sempre il suo valore 21. E quanto era stato affermato dal concilio Vaticano I, per una sana comprensione del progresso dottrinale nella Chiesa: « Bisogna ritenere in perpetuo il senso dei dogmi sacri, quale l'ha dichiarato una volta per tutte la santa madre Chiesa, e non ci si può allontanare mai da questo senso, sotto pretesto e in nome di un'intelli20 Declaratio circa Catholicam Doctrinam de Ecclesia contra nonnullos errores hodiernos tuendam, 246-1973, in Acta Apostolicae Sedis 65 (1973) 396-408, trad. it. in Civiltà Cattolica 124 (1973) III, 139150. Cfr. il commento di M. FLICK, Chiesa permissive e Chiesa repressive?, Civiltà Cattolica 124 (1973) III, 455-466. 21 Declaratio, n. 5, AAS 1973, 403-404, Civiltà Cattolica, 1973, III, 146-7. 158 genza che ne sia più profonda »22. Il senso attribuito al termine « consostanziale » dal concilio di Nicea, che riconosce la natura divina di Cristo, come il senso dell'unica persona e di due nature nella formula di Calcedonia, rimarranno sempre validi. Non si può. a partire dalle enunciazioni conciliari, forgiare un nuovo senso dovuto a considerazioni ritenute come più moderne o più perspicaci M. Inoltre, le formule impiegate rimangono, anche nel nostro tempo, atte a comunicare la verità rivelata; non si può affermare che siano divenute incapaci d'esprimere l'ontologia di Cristo. Lo dimostreremo specialmente per ciò che concerne l'affermazione dell'unità di persona, che non solo conserva tutta la sua forza nel linguaggio di oggi, ma può essere pienamente messa in valore nella sua ricchezza di significato. 2. Vincolo con la Scrittura Il valore definitive posseduto dalle definizioni conciliari non implica che si debbano prendere per la totalità della verità rivelata, ne come la sua primaria espressione. Elaborate in un determinate momento della vita della Chiesa, queste definizioni non possono essere adottate come la sorgente, o il primo fondamento, della cristologia. La sorgente primordiale rimane sempre la Scrittura. Le dichiarazioni dogmatiche del magistero non possono essere affrontate che come espressioni che riflettono e esplicitano, secondo il loro senso autentico, la verità enunciata nei testi scritturali. La cristologia perciò non può costruirsi prendendo semplicemente come base l'esistenza di due nature e di una persona nel Cristo; essa deve cercare il suo primo fondamento nella Scrittura e non assumere la definizione di Calcedonia che come la via giusta, indispensabile, per comprendere e interpretare i dati della testimonianza scritturale. 22 De fide et ratione, DS 3020. 23 La Commissione Teologica Internazionale si e espressa sul valore delle formule dogmatiche in alcune proposte concernenti l'unità della fede e il pluralismo teologico (11-10-1972). Cfr. Documentation Catholique 70 (1973) 459-460, con il commento di M. J. LE GUILLOU, 460-461 e di J. MEDINA, 526-529; Civiltà Cattolica 124 (1973) II, 367-369 con commento di J. MEDINA, 370375. La stessa Commissione ha toccato ancora il problema nelle tesi sulla relazione fra Magistero e Teologia, Theses de Magisterii Ecclesiastici et Theologiae ad invicem relatione (6-6-1976). Cfr. Gregorianum 57 (1976) 549-563, e il rapporto di J. ALFARO, Problema theologicum de munere Theologiae respectu Magisterii, Gr 57 (1976) 39-79. 159 Questo punto di vista non e stato sempre bene percepito, e in passato si e verificata una tendenza ad elaborare il trattato dell'Incarnazione in maniera troppo formale, fondandolo esclusivamente sulle definizioni conciliari. Non si può far ricadere sul concilio di Calcedonia stesso, l'impegno di un metodo troppo stretto e troppo astratto: i Padri del concilio nella loro professione di fede non hanno voluto che chiarire il senso del messaggio evangelico sulla persona di Gesù, ed e sempre a questo messaggio che essi c'invitano a riportarci. Il ritorno incessante alla sorgente biblica e necessario affinché la cristologia non si abbandoni ad un intellettualismo disseccante. Senza il contesto del 'Vangelo, la consostanzialità del Verbo, Tunica persona e le due nature rischiano di diventare le pedine di una scacchiera concettuale. La rivelazione allora sembra ridotta a degli enunciati formali e l'Incarnazione si perde in una elucubrazione metafisica. Il concrete dei racconti evangelici, che mette sotto gli occhi la figura di Gesù facendo scoprire in pari tempo la sua umanità e la sua divinità, resta fondamentale per ogni cristologia. 3. Principio di un'ulteriore ricerca Come le definizioni conciliari non sono la prima origine, così non pretendono neanche di essere il
termine ultimo dello sviluppo della fede. Se esse costituiscono un'acquisizione definitiva, e in vista di un ulteriore approfondimento e nuovi progressi nella comprensione della verità rivelata. Il concilio di Calcedonia non e stato dunque l'ultima parola in cristologia, sebbene le parole ivi pronunciate valgano per sempre. L'affermazione di una persona e di due nature apre la strada a nuove ricerche per precisare l'identità e la missione di Gesù. Concludendo una controversia essa permette alla cristologia di assicurare meglio i suoi orientamenti e affrontare con più sicurezza altri problemi. Le definizioni conciliari debbono essere ricevute sempre come un'espressione privilegiata del dinamismo della fede della Chiesa; lungi dall'intralciare il dinamismo di questa fede e di voler segnare un tempo d'arresto, esse sono destinate a rinforzarlo. La cristologia dunque deve cercare di andare al di la di ciò che e stato affermato a Nicea e a Calcedonia. Essa non può aggrapparsi al passato e rimanere statica: deve proseguire il suo cammino in avanti. Ma essa non può abbandonare le affermazioni conciliari senza allon160 tanarsi dalla fede stessa; Il teologo non può rimettere in questione queste affermazioni, ne reinterpretarle per dar loro un senso diverse da quello che esse possiedono secondo l'intenzione dei Padri dei concilii. La conformità della cristologia alle definizioni conciliari non e soltanto un'esigenza di fedeltà, e una condizione di fecondità. Allontanarsi da queste definizioni significa tornare indietro, ad uno stadio di sviluppo anteriore ai primi concilii, e condannarsi alla sterilità. Alcune cristologie che vogliono presentarsi come moderne, all'apice del progresso teologico, in realtà sono retrograde. Tornano infatti a forme d'arianesimo, d'adozionismo o di ebionismo. Certe mirano a riabilitare delle forme di nestorianesimo. Tendono a ridestare dispute che sono gia state risolte. Vi e in ciò una perdita d'energia per seguire delle strade che la storia antica ha dimostrato essere senza uscita. Questo ritorno alle antiche controversie impedisce alla cristologia di consacrarsi a dei compiti più attuali. E appoggiandosi sui risultati definitivamente acquisiti nella riflessione teologica della Chiesa, che la cristologia è capace di nuovi progressi. 4. L'unica via L'esempio delle cristologie non calcedoniane conferma per contrasto il valore della definizione di Calcedonia. Infatti quelle cristologie non sono riuscite a presentare « una soluzione di sostituzione ». Nessuno ci offre una concezione valida dell'ontologia di Cristo. Le spiegazioni date da Schoonenberg sul Verbo come modo divino che si unisce alla persona umana di Gesù, arrivano alla conclusione che una persona umana da la propria personalità al Verbo: per aver rovesciato ciò che egli chiama il modello di Calcedonia, questo autore non può proporre che una rappresentazione inaccettabile dell'identità di Cristo, rappresentazione che da una parte cede al modalismo per la concezione del Verbo, e dall'altra accorda a un uomo il potere di personalizzare un modo divino 24. L'analoga soluzione presentata da Hulsbosch nel suo ultimo studio, soffre del medesimo vizio fondamentale, poiché si tratta della Sapienza divina che non e una persona divina, ma che prende la sua personalità nella soggettività umana di Gesù25. Quanto a Schillebeeckx, abbiamo constatato la contraddizione 24 P. SCHOONENBERG, Trinity, 114-115. 25 A. HULSBOSCH, Christus, de scbeppende Wijsheid, 73. 161 nella quale s'impegna ricorrendo a una identificazione della persona umana di Gesù con una persona divina, e in fin dei conti sembra ammettere che la filiazione divina designa la relazione unica della persona umana di Gesù con Dio.26 Considerare Dio come la possibilità infinita dell'essere umano in modo tale che l'uomo Gesù, realizzandosi, divenga Dio e meriti il titolo di uomo Assoluto, significa far scomparire la trascendenza divina. González Faus si sforza di giustificare questa posizione parlando di possibilità non metafisica, ma storica;27 l'attribuzione pero di una realtà assoluta all'uomo Gesù che diviene Dio, rimane incoerente, perché non rispetta ne il vero assoluto di Dio, ne la realtà profondamente contingente della creatura. Essa sembra fare di Dio il complemento che apporta la perfezione alla natura umana. Si constata così il fallimento dei tentativi di salvare una realtà che corrisponda, sulla tastiera non calcedoniana, all'unione ipostatica affermata dalla cristologia tradizionale. Altre cristologie non calcedoniane non cercano neppure una sostituzione di questo genere, limitandosi a vedere in Gesù l'uomo che ha una relazione filiale con Dio e a questo titolo e chiamato Figlio di Dio. Non si può dimenticare che la soluzione professata dal concilio di Calcedonia e frutto di lunghe ricerche stimolate dai dibattiti cristologici; essa riprende in una notevole sintesi, le posizioni adottate dalla fede cristiana contro i diversi errori dei primi secoli. Di fronte a questa soluzione i differenti saggi presentati da certi teologi moderni sembrano poco coerenti e soggetti a manifeste difficoltà.
5. Valore per la cultura d'oggi Quelli che vogliono proporre una reinterpretazione delle definizioni conciliari, giustificano spesso le loro proposte assicurando che quelle definizioni sono inintelligibili per l'uomo d'oggi, perché appartengono ad un'altra cultura. Questo giudizio e fondato? Osserviamo anzitutto che per i teologi che studiano il senso della Rivelazione, queste definizioni non sono affatto inintelligibili. Certamente e sempre richiesto uno sforzo di ricerca da parte del teologo, per comprendere le affermazioni dei concili secondo le intenzioni e la mentalità di quelli che le hanno 26 E, SCHILLEBEECKX, Jezus, 522-544; Jesus de Nazareth, LV, 134, 44. 27 J. I. GONZÁLEZ FAUS, La humanidad nueva, 230-231. 162 elaborate: sforzo sempre necessario anche per i testi conciliari più recenti, come quelli del Vaticano Il[La teologia e una scienza che cerca di precisare il senso della .Rivelazione e deve seguire un metodo sistematico per determinare la portata degli insegnamenti del magistero, espressione della Tradizione della Chiesa. Vi sono state delle controversie teologiche che sono state risolte dai concili; questi concili per respingere certi errori e definire di fronte ad essi la verità rivelata, hanno dovuto impiegare delle nozioni che erano state implicate nei dibattiti e che appartenevano alla riflessione teologica piuttosto che alla semplice predicazione. Le definizioni conciliari sono destinate prima di tutto ad indicare alla teologia dei punti dottrinali essenziali che non possono essere abbandonati. Non si può esigere dai concili che i loro document! siano immediatamente accessibili a tutti i cristiani, ne che siano loro offerti come una forma di predicazione o di catechesi. I concili non adempirebbero il loro compito, almeno in alcune circostanze, se non entrassero in considerazioni più astratte di scienza teologica, al fine d'indicare quello che è richiesto per un'autentica espressione della fede. I cristiani che non si dedicano agli studi teologici, sarebbero perciò privati dell'apporto delle definizioni conciliari? In effetti non ne sono privati, perché queste definizioni possono essere tradotte in un linguaggio più semplice. É precisamente l'opera dei catechisti e dei predicatori che debbono adattare al loro uditorio l'insegnamento della verità cristiana. Non si possono addebitare al linguaggio conciliare i rimproveri che meriterebbero certi predicatori che si servono di un frasario troppo astratto o troppo filosofico. Le affermazioni essenziali dei concili di Nicea e di Calcedonia possono essere agevolmente espresse in termini più semplici nella predicazione. Il termine niceno « consostanziale » può essere reso chiaro dicendo che il Figlio e Dio come il Padre; gia la traduzione impiegata nel credo; «... della stessa natura del Padre » e più comprensibile dell'espressione tecnica « consostanziale ». Anche per rendere più chiara la definizione calcedoniana di una persona in due nature, basta affermare che il solo e stesso Gesù e vero Dio e vero uomo. Si potrebbe aggiungere che i teologi che pretendono di adattarsi alla cultura attuale, allontanandosi dai concili di Nicea e di Calcedonia, impiegano spesso un linguaggio che, lungi dall'essere accessibile a tutti, e talvolta più astratto e più complesso di quello 163 impiegato dalle definizioni conciliari. Le spiegazioni secondo le quali il Logos, modo divino, e ipostasiato nell'uomo Gesù, per esempio, non possono essere comprese da tutti e non si vede perché esse corrispondano meglio alla cultura di oggi. Anche le interpretazioni dell'affermazione « Gesù e Dio » che si sforzano d'attribuire al verbo « è » un senso diverse da quello normale d'identità personale, e lo si vuole sostituire con delle parafrasi più o meno contorte, non fanno che accentuare la distanza fra gli enunciati dottrinali della cristologia e la cultura intellettuale contemporanea. Infine, bisogna evitare di esagerare la mutabilità della cultura umana. La cultura si evolve, progredisce, ma l'uomo rimane profondamente identico ed ha la capacità di pensare in una maniera universale; e quello che permette agli uomini di razze diverse e di varie lingue di comprendersi vicendevolmente, e alle generazioni attuali di comprendere quanto hanno detto le generazioni passate. così, quando il concilio di Calcedonia afferma una persona e due nature nel Cristo, si serve di concetti che hanno un valore universale. Ogni uomo fa l'esperienza del suo essere personale e della sua natura, nel confronto con le altre persone e con la natura delle cose che lo circondano. Questa esperienza umana fondamentale s'esprime con delle nozioni che non sono affatto limitate a una cultura particolare. Anche se le nozioni di persona e di natura possono, in certi contesti culturali, ricevere una definizione più precisa con la riflessione psicologica e filosofica, esse si riferiscono essenzialmente a ciò che e comune all'esistenza e al pensiero di tutti gli uomini. È d'altronde questa universalità che permette il progresso della cultura umana. Se le espressioni di questa cultura fossero totalmente relative ad un ambiente, alle condizioni di luogo e d'epoca, esse sarebbero chiamate a cambiare nella loro totalità, e non potrebbero dare nulla delle loro acquisizioni ad altri ambienti e ad altre epoche. In questa ipotesi di mutabilità assoluta, la storia della cultura si
caratterizzerebbe con delle continue rotture che abolirebbero la sua unità ed ogni vero sviluppo. I rappresentanti della cultura odierna dovrebbero rinnegare le acquisizioni della cultura di ieri ed inventare una cultura interamente nuova; e gli esponenti della cultura di domani dovrebbero dimenticare o ripudiare ciò che e messo in valore nella cultura d'oggi. Il presente dunque non potrebbe più nutrirsi del passato e il vero progresso culturale sarebbe impossibile. Ogni generazione do164 vrebbe ricominciare da zero il suo sforzo culturale. Al contrario il progresso e possibile perché l'umanità beneficia a ogni epoca di ciò che e stato acquisito dalla generazione anteriore. Anche quando una generazione reagisce contro le insufficienze o contro certe tendenze della cultura della generazione che l'ha preceduta, essa non può realizzare un progresso che incorporando i valori autentici del passato. Per fare un passo avanti sulla via della cultura, occorre evitare di voler tornare indietro sopprimendo il tragitto gia percorso. In cristologia si verifica ciò che avviene per la generalità della cultura umana: non può svilupparsi che accettando i] suo passato e incorporandolo nel suo pensiero. Essa ha un motivo supplementare per accogliere questa legge del suo sviluppo: ed e che in virtù dell'assistenza dello Spirito Santo, certe espressioni della verità rivelata hanno un valore definitive. Ciò significa che in virtù di questa stessa assistenza, le definizioni infallibili dei concili sono atte ad illuminate la cultura di ogni epoca e a fecondarla. 165 CAPITOLO IX VALORE DELLA NOZIONE DI PERSONA L'affermazione dell'unica persona divina di Cristo è stata rimessa in questione da alcune osservazioni critiche che chiedono un cambiamento del significato del termine « persona »: il concetto antico, utilizzato a Calcedonia, sarebbe differente dal concetto moderno e potrebbe condurci a false conclusioni se non tenessimo conto della divergenza. In nome di questa evoluzione semantica taluni, secondo il linguaggio moderno, sarebbero pronti ad ammettere in Gesù l'equivalente di una persona umana. Nella teologia trinitaria, l'applicazione del termine moderno al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, e stata contestata. Considereremo queste critiche nella misura in cui esse hanno una ripercussione in cristologia, e cercheremo di chiarire il valore del concetto di persona, nel senso antico e nel senso moderno, nella sua applicazione a Cristo. A) LA CRITICA GENERALE DELLA NOZIONE DI PERSONA 1. La critica di K. Barth: « maniera d'essere » piuttosto che « persona » Trattando della triplicità di Dio nell'unità, Karl Barth evita il più possibile l'impiego del termine « persona » non stimandola adeguata a designare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo '. Parlare di 1 « Il significato di questo termine non era sufficientemente chiaro nel momento in cui fu introdotto nel linguaggio ecclesiastico: inoltre, l'interpretazione che gli è stata data ulteriormente, e che è rimasta nella scolastica del medioevo fin dopo la Riforma, non ha contribuito a precisarlo; e ancor meno vi ha contribuito l'introduzione nel dibattito, del concetto moderno di « personalità » (Dogmatique, I, 1, 2. Ginevra 1953, 58). 169 tre persone in Dio. significa correre il rischio di ammettere una pluralità d'essenze divine ed esporsi al pericolo del triteismo: l'inconveniente è stato ben percepito da Agostino, da Anselmo, e la precisazione aggiunta da Tommaso d'Aquino, secondo cui le tre persone sono « cose sussistenti nella natura divina » non può rimediare completamente alla difficoltà. Calvino mette in guardia contro l'affermazione di tre persone alla maniera di tre uomini e attribuisce alla parola « personale » il senso di « proprietà che sono nell'essenza di Dio ». Barth ritiene con maggiore insistenza, contro la parola « persona », il cambiamento di linguaggio che nel XIX secolo da al concetto di « personalità » un senso differente da quello di « persona » dell'antica Chiesa e del medioevo: ciò che caratterizza la personalità e la coscienza di se. A. Günther ha tentato di spiegare con questo nuovo concetto le persone divine vedendovi tre soggetti che pensano e vogliono se stessi, tre sostanze particolari; la sua dottrina, sospetta di triteismo, è stata condannata nel 1857. La soluzione adottata dalla teologia cattolica non e soddisfacente: essa continua a parlare delle « persone » di Dio, come se il concetto moderno di personalità non esistesse 2. Barth non si pronuncia per l'eliminazione del concetto di persona. Questo concetto può conservare il suo posto nella dottrina più generale di Dio, nel senso che il Dio unico « non e lo spirito assoluto, ma una persona, un " lo " che esiste in se e per se, dotato di un pensiero e di una volontà propri » 3. Per
contro il concetto non conviene per spiegare la triplicità divina. Nel campo della teologia trinitaria, non si può impiegare che come un'abbreviazione praticamente utile, e per riguardo alla continuità storica. Come spiegare la triplicità divina? Al posto di concetto di persona, Barth propone quello di « maniera d'essere »; così lui afferma che « Dio e uno in tre maniere d'essere, il Padre, il Figlio e lo Spirito »4. Egli pensa di ritrovare questo concetto in quello di « ipostasi » o « sussistenza », e nelle espressioni impiegate da certi teo2 Dogmatique, I, 1, 2, 58-61 3 Ibid., 61. 4 Ibid., 62. 170 logi, che parlano delle differenti maniere di possedere la sostanza o l'essenza divina, di « modi d'essere » o di « modi di sussistere ». così, specialmente per Calvino, la persona divina e « sussistenza nell'essenza di Dio », e per Scheeben è una modalità essenzialmente presente nell'individualità della sostanza divina. Le tre maniere d'essere divine sono una particolarità assolutamente irriducibile e irreversibile. Secondo la dottrina di san Tommaso d'Aquino, ripresa da Calvino, le persone si definiscono per una proprietà incomunicabile. La riserva che fa Barth circa la definizione della persona divina nella Confessione di Augusta, e significativa. Secondo questa confessione, la persona e ciò che sussiste in proprio. Bisogna mettere « ciò che » (quod) fra parentesi, dice Barth, poiché ciò che sussiste in proprio non e la persona in quanto tale, ma Dio nelle sue tre persone, ossia Dio triplicemente sussistente in proprio s. La differenza propria alle tre maniere d'essere di Dio non implica alcuna ineguaglianza d'essenza e di dignità, ma proviene da ineguali rapporti d'origine: qualche cosa d'analogo alla paternità e alla filialità, e una terza realtà , un'operazione che proviene congiuntamente dal generatore e dal generate. Le particolarità formali delle tre maniere d'essere di Dio possono essere desunte dalla nozione di rivelazione. Vi sono in effetti tre categorie: rivelazione, rivelatore e rivelato; « e unicamente perché vi e un Dio nascosto che vi e un Dio che si rivela; ed e unicamente perché questo Dio nascosto si rivela che vi può essere una comunicazione di Dio »6. Questa triplice distinzione non e la sola possibile; altre possono essere enunciate. « La Scrittura ci mostra Dio nella sua azione come il rivelatore, la rivelazione e il rivelato; o ancora come il Creatore, il Riconciliatore e il Redentore; o come la santità, la misericordia e la bontà. In queste distinzioni appaiono le distinzioni delle maniere d'essere divine nella loro verità appropriata e adattata alla nostra comprensione »7. E qui che interviene l'antica dottrina delle appropriazioni, che affermava il rapporto d'analogia tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nell'azione di Dio e la Trinità dell'essere di Dio. Dio è e si manifesta in relazione di se stesso a se stesso. « Egli si possiede come il Padre, come colui che e puramente donatore, come il Figlio, ossia come recettore e donatore, come lo Spirito, 5 Ibid., 63. 6 Ibid., 64. 7 Ibid., 73. 171 ossia come puro recettore »8. Barth riprende la dottrina tradizionale delle relazioni come elementi costitutivi delle tre maniere d'essere. Si rende conto che il cambiamento che propone non supera affatto la terminologia: « Noi abbiamo provato a trovare una risposta relativamente migliore di quella che contiene il concetto di " persona ". Il semplice fatto che non abbiamo potuto far altro che riprendere le indicazioni suggerite da quell'antico concetto, per raggrupparle sotto la nozione, secondo noi, più adeguata di maniera d'essere, ci deve rendere perfettamente umile e cosciente dei nostri limiti. Un semplice cambiamento di terminologia non e sufficiente a risolvere i problemi di fondo »9. 2. La critica di K. Rahner: « modo distinto di sussistenza » piuttosto che « persona » La critica rivolta da Barth alla nozione di persona e stata ripresa da K. Rahner. Questi, come il teologo protestante, ha voluto guardarsi dal pericolo di triteismo. Anch'egli pensa che il concetto di persona abbia evoluto; prima evocava direttamente solo la condizione di un essere sussistente in modo distinto, ma dopo la svolta antropocentrica dei tempi moderni, « persona » designa più direttamente un soggetto di coscienza. Parlare di tre persone in Dio, significa presumere che vi sono tre centri di coscienza e d'azione, tre soggettività, tre libertà; e mettersi sul cammino dell'eresia, lasciar pensare che vi siano tre Dii. Non vi sono tre coscienze in Dio, non ve n'e che una. E poiché non si può parlare di tre soggettività, non si può neanche ammettere, in seno alla Trinità, una reciprocità di « Tu ». Il Figlio e l'espressione che il Padre da a se stesso, ma questa non potrebbe essere concepita come « dicente » a sua volta qualche cosa; lo Spirito e il « dono », ma questo dono a sua volta non potrebbe donare. Non si possono interpretare in senso contrario i testi (Gv. 17, 21; Ga. 4, 6; Rom. 8, 15) che fanno dire al Figlio e allo
Spirito « tu » indirizzandosi al Padre, perché essi partono da una situazione d'ordine creato 10. 8 ibid., 66. 9 Ibid., 69. 10 Dieu Trinité, fondement transcendant de l'bistoire du salut, in Mysterium Salutis, trad, fr., 6, Parigi 1971, 50-53, 86. 172 Quanto al concetto di relazione impiegato per la distinzione delle persone divine, anzitutto vi si deve scorgere una spiegazione logica e non ontologica. Il suo uso mira ad allontanare gli errori triteista e modalista; non si tratta di un concetto ontologico che faciliterebbe l'intelligenza della Trinità.11 è vero che tradizionalmente la dottrina della Chiesa parla di tre ipostasi o di tre persone. Si potrebbe d'altronde far valere il fatto che essa applica a Dio, con molta precauzione, il concetto di persona, in modo che non include una distinzione di « personalità » nel senso moderno della parola. Tuttavia, risponde Rahner, la Chiesa non può manipolare a suo piacimento un concetto di questo genere per fargli dire quello che essa vuole. La Chiesa deve tener conto del senso che questo concetto riveste per gli uomini della nostra epoca; deve dunque trovare altri concetti esplicativi.12 Rahner aggiunge delle obiezioni ancor più radicali all'affermazione di tre persone divine. Dopo aver osservato che questo concetto, che non si trova ne nel Nuovo Testamento, ne nella patristica antica, non entra a titolo costitutivo nella scienza di fede del mistero trinitario, gli nega il diritto di applicarsi al Padre, al Figlio e allo Spirito. Sarebbe supporre che i Tre abbiano in comune il fatto di essere persone; ora la sola cosa comune al Padre, al Figlio e allo Spirito e Tunica essenza divina, e non esiste « genere » superiore nel quale si possano sistemare i Tre in quanto Padre, Figlio e Spirito. Inoltre, il concetto di « persona », a differenza di quello di « personalità » (subsistentia), possiede un carattere concrete e designa non formalmente la differenza dei soggetti fra loro, ma i soggetti che differiscono. Parlando di tre persone, si sembrerebbe designare tre individui aventi ognuno la loro essenza propria 13. 11 Ibid., 79-80. 12 Ibid., 121-122. Rahner dichiara nondimeno di adottare una posizione meno radicale di Barth: «Non diciamo con Karl Barth che lo stesso termine di " persona " non e indicate per esprimere la realtà che si intende significare, e che la Chiesa farebbe bene a sostituire con un'altra parola meno pesante di possibilità di errore». Egli opta dunque per la conservazione del termine: «La parola " persona " è là. È sanzionata da un uso di più di quindici volte secolare, e noi non ne abbiamo di migliore, di più intellegibile alla massa degli uomini, di meno soggetta ai malintesi. Bisogna dunque conservarla, ma pur sapendo che ha la sua storia e che, parlando assolutamente, non si presta sotto tutti i rapporti ad esprimere pienamente ciò che intende significare, e non ha solo dei vantaggi » (Ibid., 52). Tuttavia, nell'elaborazione della teologia trinitaria, Rahner tende ad eliminare il concetto di persona per la designazione del Padre, del Figlio e dello Spirito. 13 Ibid., 118. 173 Inspirandosi al cambiamento di linguaggio proposto da Barth, ma volendo migliorarlo, Rahner parla di « tre modi distinti di sussistenza ». Tale sarebbe la nozione illuminante per designare i Tre, mentre la « persona » singolare in Dio, sarebbe Dio in quanto egli esiste e si da secondo questo o quel modo di sussistere determinato e distinto 14. Cosa bisogna intendere per « sussistenza »? Non ci si può che riportare al focolare della propria esistenza, « questo punto concrete, irriducibile, immutabile ed insostituibile del campo della nostra esperienza interiore, da dove parte e ove arriva tutto ciò che avviene in noi » !5. Il fatto di sussistere in tal modo piuttosto che in un altro, costituisce il dato primo ed ultimo dell'esperienza che abbiamo di noi stessi. Nella Trinità esso implica una relazione essenziale all'altro, ma questo « qualcuno » e lo stesso Dio che esiste sotto un c,erto volto. L'espressione « modo distinto di sussistenza » ha il vantaggio, su quella di persona, di lasciar intravedere che la tripersonalità implica l'unità di Dio: parlando di tre persone, non si dice nulla dell'unità, mentre parlando di tre modi ci si riferisce a questa unità. Si deve riconoscere, dice Rahner stesso, che il concetto « modo distinto di sussistenza » e abbastanza formalista. Ma e la stessa cosa per il concetto di relazione, e anche per quello di persona se si allontana da esso l'idea moderna di una soggettività. Il termine « modo » d'altronde non va compreso nel senso di modalità, d'aspetto secondario di cui Dio potrebbe fame a meno senza che sia colpita la sua realtà sostanziale 16. Rahner ritiene che il primo significato dell'espressione, mettendo la parola « modo » fra parentesi, e ciò che san Tommaso intende per « sussistente distinto » quando definisce con ciò la persona; e questa coincide egualmente con il termine greco ipostasi.17 Infine, l'espressione non implica una concezione specificamente latina della Trinità, perché i « modi
distinti di sussistenza » sono relativi l'uno all'altro e costituiscono un ordine, dove il primo modo pone fin dall'inizio, Dio come Padre, come origine dell'autocomuni14 Ibid., 123. 15 Ibid., 124. 16 Ibid., 125-126. 17 Ibid., 124. 174 cazione divina, senza che si debba concepire un Dio anteriore a questa sussistenza distinta 18. 3. Riflessioni sui sostituti del termine « persona » Prima di passare alla cristologia, ci sembra utile, nell'orizzonte trinitario, di notare qualche riflessione sulle critiche al concetto di « persona ». Affronteremo più tardi l'analisi dello sviluppo di questo concetto, ma possiamo fin d'ora reagire alle proposte di sostituirvi un altro concetto, quello di « maniera d'essere » o « modo distinto di sussistenza ». Queste espressioni non potrebbero certamente contribuire all'attualizzazione del linguaggio teologico. Se ci si lamenta del fossato che si e aperto fra questo linguaggio e la maniera corrente di esprimersi nella cultura contemporanea, non si può sperare di colmarlo con tali espressioni che, piuttosto, lo approfondiscono. Il termine « persona » possiede una gran ricchezza di significato e d'evocazione, e può fare oggetto, sia in cristologia che nella teologia trinitaria, di considerazioni feconde, adatte alla mentalità odierna. Per contro, l'espressione « modo distinto di sussistenza » appartiene ad un vocabolario tecnico, che non mancherebbe di repugnare a quelli che non hanno specializzazione teologica. Esso mal converrebbe ad una teologia che si ritenesse kerigmatica. Nella predicazione si può parlare della persona del Figlio di Dio che e entrato nella comunità umana; ma chi penserebbe di parlare di un « modo distinto di sussistenza » in Dio, per designare il Verbo che si e fatto carne? Simile espressione, complessa e astratta, d'apparenza artificiale, non riuscirà certamente a rendere la teologia della Trinità più accessibile al pensiero contemporaneo. Prima di sostituire l'affermazione di tre persone divine con quella di tre modi distinti di sussistenza, bisognerebbe dunque assicurarsi che l'esattezza teologica lo richieda, o che ne sia evidente il vantaggio per il pensiero teologico. Ora, anche da questo punto di vista, sorgono dei dubbi. Il termine « modo », che lo si voglia o no, evoca il modalismo, e non basta sottolineare la differenza fra « modo » e « modalità » per dimostrare che il pericolo e scongiurato. Applicare a Dio, nella sua unità o 18 Ibid., 126. Su questo punto particolare la teoria di Rahner e stata oggetto di una critica sistematica da parte di G. LAFONT, Peut-on connaître Dieu en Jesus-Christ?, Parigi 1969, 198 s. 175 nella sua totalità, la parola « persona » e dire che Dio e un « lo », una persona, riducendo il Padre, il Figlio e lo Spirito a non essere che dei « modi » o maniere d'essere, che si cerca di precisare mediante diversi aspetti dell'azione divina, vuol dire proporre una concezione di Dio che si apparenta molto al Dio unipersonale del modalismo. Barth ha voluto reagire contro il triteismo, ma il pericolo di ammettere tre Dii e così importante? Lui stesso riconosce che quasi tutta la teologia del neoprotestantesimo ha creduto di doversi rifugiare nel sabellianismo.19 Il pericolo del modalismo era stato più minaccioso nei primi secoli di quello del triteismo, come 10 dimostra la storia del monarchianismo e del sabellianismo, ed attualmente e ancora questo modalismo che permea il pensiero di certi teologi, presso i quali il Dio unico cancella in gran parte il Dio trinitario. Vi e dunque motivo di temere il modalismo più del triteismo. Parlare di « maniere d'essere » o di « modi di sussistenza » e indebolire indebitamente il valore proprio al Padre, al Figlio e allo Spirito, valore sottolineato dalla parola « persona ». Con una bella onestà intellettuale, Barth riconosce d'aver fatto solo un semplice cambiamento di terminologia, in cui per dare maggior consistenza alla nozione di « maniera d'essere », non ha potuto far altro che riprendere le indicazioni suggerite dal concetto di persona20. Ci si domanda perciò se un tale cambiamento s'impone, dato che non apporta nulla di positive, impedendo negativamente l'applicazione della ricchezza concettuale del termine « persona ». Senza dubbio Rahner ritiene eccessiva questa ricchezza nel caso presente, poiché l'espressione « tre persone » gli sembra designare tre individui aventi la loro propria essenza. Ma il dogma della Trinità si enuncia precisamente con l'affermazione di tre persone e una natura: come dire chiaramente che queste tre persone non hanno ciascuna la loro propria essenza. Per sottolineare l'unità di natura saremmo in diritto di togliere l'affermazione delle tre persone? Quanto all'argomentazione secondo cui i tre non potrebbero essere chiamati persone perché in Dio la sola essenza e comune e nessun genere comune può, all'infuori dell'essenza, caratterizzare 11 Padre, il Figlio e lo Spirito, essa varrebbe ugualmente contro il concetto di « modo distinto di sussistenza », che non potrebbe essere 19 Dogmatique, I, 1, 2, 60.
20 Ibid., 69. 176 comune ai tre. Si potrebbe appena parlare ancora di « tre », poiché la cifra stessa implica una certa realtà comune. Infatti tutto e comune in Dio, salvo ciò che costituisce in proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito; i tre hanno in comune di essere persone, senza che questa rassomiglianza porti alcun intralciò all'intera appartenenza della natura divina ai tre. Non si potrebbe conferire all'affermazione tradizionale del principio « tutto è comune in Dio » un senso eccessivo che escluderebbe l'esistenza di tre persone; questo principio e stato giustamente enunciate per dimostrare che « le tre persone sono un solo Dio »21. Attenendosi a considerazioni di linguaggio, bisogna riconoscere che dei nomi come « Padre » e « Figlio » indicano che si tratta di « persone ». Per spiegare ciò che e il Padre e il Figlio, ci si accontenterebbe difficilmente di un concetto che significasse semplicemente un modo d'essere o di sussistere. Solo una dualità di persone può rendere conto della relazione del Padre con suo Figlio. In conclusione, sembra che le espressioni proposte: « maniera d'essere », « modo distinto di sussistenza » siano troppo deboli per designare il Padre, il Figlio e lo Spirito, e comportino il pericolo di una interpretazione modalista. Esse sono meno evocatrici e meno accessibili, più formaliste ed astratte della nozione di persona. È ben piuttosto questa nozione di persona che meriterebbe di essere rimessa in valore, perché permette alla teologia di parlare un linguaggio di forte risonanza nel pensiero contemporaneo. B) VALORE DEL CONCETTO DI PERSONA IN CRISTOLOGIA 1. La critica della nozione di persona in cristologia secondo K. Rahner Passando dalla Trinità al « caso » dell'Incarnazione, K. Rahner solleva un dubbio sull'equivalenza di senso del concetto di persona nei due campi. Non si può supporre troppo facilmente, egli ritiene, che « il concetto di " persona " quando lo si impiega in cristologia, significhi puramente e semplicemente la stessa cosa che nel trattato 21 Concilio di Firenze, Decreto per i Giacobiti, DS 1330: « Hae tres personae sunt unus Deus, et non tres dii: quia trium est una substantia, una essentia, una natura, una divinitas, una immensitas, una aeternitas, omniaque sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio». 177 della Trinità. Non bisognerebbe sottomettere ad una riflessione più precisa la differenza d'origine esistente fra i due concetti di persona (in un caso, fattore di distinzione, nell'altro, principio d'unione; in un caso, relazione in seno ad una stessa natura, nell'altro, relazione fra due nature}? »n. Ma poi non si dilunga molto su questa osservazione, e il modo in cui concepisce l'Incarnazione sembra strettamente legato alla posizione adottata nei riguardi della persona nella dottrina trinitaria. Sottolinea la distanza fra il senso antico e il senso moderno di « persona ». Nel senso antico, il tratto specifico della persona o ipostasi e la « sussistenza », « ossia la particolarità che fa si che una natura spirituale concreta non appartenga che a se stessa, in una immediatezza ultima; per il fatto di sussistere in se stessa totalmente, di portare e di rappresentare questa natura in modo esclusivo, non intercambiabile ».23 Poiché la realtà umana di Gesù e interamente quella del Verbo, il Verbo e la « persona », colui che porta e fa sussistere questa natura umana; questa natura non e in se stessa una « persona », secondo il significato scolastico della parola. Nel senso moderno persona significa centro d'attività, di coscienza di se finita e di liberta creata. Si deve attribuire un tale centro all'umanità di Cristo considerata in se stessa. Se non fosse così, si cadrebbe nel monofisismo, nel monotelismo, perché la realtà umana di Gesù, in queste condizioni, non sarebbe più che un organo passivo manovrato dal Verbo e non disporrebbe più di una libera volontà. Ora siccome la libertà della creatura si completa nella sua appropriazione senza riserva a Dio, la natura umana di Cristo e, già nella propria dimensione umana, la più libera e la più personale, nell'orizzonte di una « personalità » nel senso moderno. Il centro d'attività esistenziale della realtà umana e assolutamente distinto da Dio, si situa di fronte a lui con l'adorazione, l'obbedienza, la libera opzione. Solo questa affermazione permette di evitare una concezione mitologica dell'Incarnazione 24. Rahner considera così il Cristo come il caso ideale di realizza22 Myst. sal. 6, 34. Rahner aggiunge: «Tanto più che. nel caso dell'Incarnazione, non vi è che una distinzione verbale fra l'ipostasi e la funzione ipostatica », 23 K. RAHNER-H, VORGRIMLER, Petit dictionnaire de theologie catholique, trad, fr., Parigi 1970, 158: 24 Cfr. specialmente Sacramentum Mundi, II, 948; Christologie systematisch, 57-58. 178 zione della personalità; questo modo di vedere risponde ad una dottrina più generale secondo la quale l'Incarnazione verifica l'orientamento più fondamentale della creatura umana: « Gesù come uomo e ciò
che avviene quando Dio vuole esprimersi e comunicarsi all'esterno. L'autoespressione di Dio (come contenuto) e l'uomo Gesù, l'autoespressione (come processo) e l'unione ipostatica. La cristologia e l'antropologia più radicale (effettuata dalla libera grazia di Dio) »25. La personalità si realizza pienamente, in modo unico, in Gesù, per la sua unione al Verbo. « Nella misura in cui il carattere personale (nel senso attuale del termine) significa questa maniera di coincidere con se stesso (o il fondamento ontologico di questa coincidenza) che fa che una realtà sia necessariamente (essenzialmente ed esistenzialmente) relativa ad un " Tu " e a Dio, la " sussistenza " della realtà umana di Gesù nel Verbo costituisce giustamente la realizzazione più alta, la realizzazione trascendente di ciò che vuol dire " personalità " » 26. Se consideriamo gli altri uomini, la loro persona comporta un elemento negative per il fatto di non essere riferita a Dio ontologicamente e coscientemente, in maniera assoluta. Questo difetto non esiste nel Cristo, in cui il concetto moderno ed il concetto tradizionale di persona si ricongiungono sotto questo aspetto: « La trascendenza spirituale dell'essere-in-se che nella sua estasi ricade sempre su se stessa e l'ipostasia in se stessa (divenendo così una " persona " nel senso moderno del termine e comportando un riconoscimento esplicito del carattere finite di ciò che è personale come tale), diventa, in Gesù Cristo, la realizzazione totale ed assoluta di questa " uscita da se " (ontologica e cosciente) che è opera di Dio, a-ipostatica in se stessa (dunque pura " natura ", ma per l'appunto compiuta secondo l'esigenza della " personalità ") ed en-ipostatica nel Verbo di Dio »27. Quest'ultima considerazione sembra far apparire una certa ambiguità nel pensiero di Rahner. Quel che fa che l'umanità di Gesù sia « persona » nel senso moderno della parola, viene dalla ricchezza della sua natura umana o dall'ipostasi divina che personalizza mediante l'estasi, l'uscita da se? Sembrerebbe, secondo quanto si e detto, che sia l'ipostasi divina a dare alla natura umana la realizza25 Sacramentum mundi, II, 952-953. 26 RAHNER-VORGRIMLER, Petit dictionnaire de theologie catholique, 359. 27 Ibid., 359. 179 zione più alta 'della personalità, ma altrove incontriamo l'insistenza sul centro d'attività che di per se costituisce l'umanità di Gesù. Secondo il primo orientamento, quello che sottolinea il ruolo della ipostasi divina, Rahner afferma che Gesù e l'autoespressione di Dio. Guardiamo più da vicino che cosa questo significa. Come Barth, anche Rahner parte dal principio che il Logos e il Rivelatore della Trinità divina, e Dio nel modo di sussistenza col quale si rivela. Come conseguenza ne deduce che solo il Logos poteva incarnarsi; egli non e un rivelatore fra altri possibili, e il solo a poter esprimere o rivelare Dio. Rahner sviluppa ancora questa necessità affermando che nel caso in cui il Logos si esprimesse in una realtà che non fosse Dio, lo farebbe in una natura umana. « Il Logos e, per definizione, l'esprimibile, al punto da poter trovare la sua espressione fino in una realtà che non e Dio ». « Se ciò si produce, si ha quello che noi giustamente chiamiamo una natura umana ». Per dirlo in altri termini, la natura umana, lungi dall'essere un involucro (il prosopon) che il Verbo avrebbe preso dall'esterno, una livrea sotto la quale si nasconderebbe per poter compiere dei gesti umani, e, nella sua sorgente profonda, il simbolo costitutivo reale del Logos stesso, cosicché guardando il fondo delle cose, su piano metafisico, si può e si deve dire che ciò che rende possibile l'uomo, e la possibilità che ha il Verbo di uscire da se stesso per esprimersi in una creatura 28. Rahner non afferma qui la necessità dell'Incarnazione, ma ritiene che se Dio comunica se stesso, non può essere che per l'lncarnazione del Logos. « Se, per avventura, Dio esce da se stesso per mezzo di un atto libero che e una vera comunicazione di se stesso (e non per un sorgimento uscito da un atto creatore d'una realtà distinta da lui), questo e, e non può essere che il Figlio che appare sulla scena della storia come un uomo rivestito della nostra carne, questo e, e non può essere che lo Spirito che opera l'accettazione, nella fede, la speranza e l'amore dalla parte del mondo, di questa autocomunicazione di Dio »K. Questa autocomunicazione e libera, ma non può effettuarsi che secondo questi due aspetti complementari. Solo la persona del Verbo può incarnarsi. Sembrerebbe che l'umanità di Gesù si riduca perciò ad essere l'espressione che il Verbo da a se stesso, come comunicazione di Dio 28 Myst. Sal. 6, 40. 29 Ibid., 98. 180 all'esterno. Questo sarebbe abbastanza conforme alla tendenza della Dogmatica di Barth, secondo cui il Verbo fatto di carne si rivela in una carne in qualche modo unicamente trasparente alla manifestazione divina, in una carne che non sostiene affatto un ruolo proprio e non apporta il suo contributo all'opera del Verbo. Ma questo non va nel senso della cristologia che vuol costruire Rahner e che si vuole essenzialmente antropologica. Nella sua opera di cristologia sistematica, l'accento e messo soprattutto sul principio che l'ipostasi che fa l'unità di Cristo, non può essere compresa nel senso moderno della
parola persona, e che nella realtà umana di Gesù, bisogna riconoscere ciò che esprime questo concetto, un centro d'attività che situa l'uomo Gesù di fronte a Dio.30 Ma allora se e psicologicamente situate di fronte a Dio, come può ancora quest'uomo essere autoespressione di Dio ed avere come unica ipostasi quella del Verbo? è il problema che a noi sembra rimanere nella coerenza di questa cristologia. Infine l'accento e posto sull'autonomia della realtà umana di Cristo, più che sul suo carattere di autoespressione del Verbo. Rahner insiste sul fatto che Gesù possiede un centro soggettivo d'attività umana che lo ha trascinato in tutte le esperienze che noi facciamo nelle nostre relazioni con Dio: ha tremato davanti all'incomprensibilità di Dio, è stato radicalmente scosso nella sua personale impotenza di creatura, e spinto all'adorazione; ha affrontato un destino oscuro. Questo centro soggettivo umano esclude nel Cristo il « monosoggettivismo » che sarebbe il nome moderno del mononsismo e del monotelismo 31. L'esclusione del monosoggettivismo si traduce specialmente con l'atteggiamento critico adottato di fronte all'affermazione che « Gesù e Dio, Figlio di Dio, il Verbo » o ad affermazioni come « Dio e uomo », « il Dio che s'e fatto uomo e concretamente Gesù Cristo » 32. Il senso di e, per Rahner, non può essere quello di una identità reale fra soggetto e predicate, come nella frase: « Pietro e un uomo ». « Gesù, nella e secondo la sua umanità, non " e " Dio, e Dio, nella e secondo la sua divinità, non " e " uomo »33. Nel caso di Gesù il 30 Christologie systematisch, 58. 31 Kirchliche Christologie zwischen Exegese und Dogmatik, Schriften zur Theologie II, Einsiedeln 1970, 210-211. 32 Ibid., Sacr. Mundi II, 927-929; Christologie systematisch, 55-57. 33 Sacr. Mundi II, 927. 181 verbo « e » esprime l'unità permanente di due realtà differenti « senza separazione » ma anche « senza confusione » come lo dice Calcedonia. Ogni identificazione reale implicherebbe mitologia e monofisismo. 2. Il confronto del concetti di persona Il concetto moderno di « persona » differisce dal concetto antico impiegato dal concilio di Calcedonia e sviluppato in seguito nella teologia del Verbo incarnate? E ne differisce così radicalmente che non possiamo più affermare che nel Cristo vi e una sola persona nel senso moderno della parola? a) La nozione calcedoniana di persona Il concilio di Calcedonia non ha definite nessuno dei due termini greci impiegati per dire « persona »: prosopon, hupostasis. Si e servito di due termini e non di uno solo, perché voleva sottolineare la portata ontologica della sua affermazione. La parola prosopon avrebbe potuto essere compresa nel senso di quello che da l'apparenza esteriore di una persona; il termine hupostasis attira l'attenzione sulla realtà intima soggiacente all'apparenza. Sostanzialmente, a qualsiasi grado di realtà si discenda, non vi e che una persona nel Cristo. Ma questa intenzione di dichiarare l'unità ontologica di persona, non e accompagnata da una definizione, ne da una descrizione di ciò che e l'« ipostasi ». Il termine aveva ricevuto, poco prima, con il patriarca Proclo di Costantinopoli, il senso di persona distinta dalla natura.34 La teologia non aveva ancora avuto il tempo d'esplorare il suo contenuto e cercare di precisarlo. Non si poteva attendere alcuna definizione di questa nozione da parte del concilio, che si limitava a dichiarare quello che si trovava in modo certo nella fede della Chiesa, senza voler parteggiare per una filosofia particolare della persona, ne per un significato tecnico speciale che si sarebbe potuto dare al termine « ipostasi ». Siccome il termine « ipostasi » aveva avuto in precedenza, nella 34 Cfr. M. RICHARD, L'introduction du mot «bypostase» dans la théologie de l'Incarnation, Melanges de Science Religieuse 2 (1945), 259-263; A. GRILLMEIER, Christ in Christian Tradition, Londra 1965, 455-456. 182 formulazione della cristologia, un significato che non io distingueva sufficientemente dalla natura, ma che si era poi determinate sotto l'effetto della controversia cristologica, poco prima della sua introduzione nella formula di Calcedonia, non si può ritenere che il contenuto della nozione sia stato preso da qualche sistema di pensiero ellenico. La distinzione fra persona e natura si e imposta teologicamente; si può dire che l'affermazione « una sola ipostasi » è una creazione teologica. Non si tratta di un elemento di filosofia che si sarebbe introdotto, col suo valore autonomo, nell'espressione del dogma. D'altra parte, l'impiego della formula « una sola ipostasi » non e un semplice accidente, come potrebbe
suggerirlo il fatto che aveva cominciato ad imporsi, secondo il suo senso definitive, solo poco prima di Calcedonia. In realtà risultava da tutto uno sviluppo di pensiero e di vocabolario nella teologia orientale, e corrispondeva alla formula proposta dal Papa S. Leone nel suo Tomo a Flaviano, il quale affermava che le proprietà di ogni natura confluivano in una sola persona.35 Questa formula latina aveva già avuto un precedente in Tertulliano che, nel 213, aveva parlato di un « doppio stato senza confusione ma congiunto in una sola persona »36. Più di due secoli prima di Calcedonia, la formula « una sola persona » era stata dunque pronunciata nella teologia latina. Se i Padri del concilio non hanno enunciate una definizione dei termini impiegati, avevano nondimeno in animo una nozione della persona. Per essi non si trattava di un concetto astratto; il termine « prosopon » vuole farci comprendere che si tratta di una persona ben concreta. Esso dimostra che Tunica persona di Cristo viene affermata in riferimento alle persone umane. L'uomo fa l'esperienza della sua propria persona e dell'incontro con altre persone: grazie a questa esperienza noi sappiamo che cosa e una persona, anche se non siamo capaci di definirla nozionalmente. Tenuto conto di questa esperienza comune all'esistenza umana, dobbiamo dire che nel Cristo, vero Dio e vero uomo, non vi sono due persone, ma una sola. Il concilio si riferisce dunque non ad una teoria della persona, ma ad una esperienza indissolubilmente legata alla vita di ogni uomo e che, nel suo fondo, rimane identica in qualunque periodo storico e in qualsiasi cultura intellettuale. I termini prosopon e ipostasi appartengono ad 35 Tomus ad Flav., v. 54-55; DS 293. 36 Adv. Praxean, 27, 11, CCL 2, 1199. 183 una lingua e ad una cultura, ma l'esperienza sulla quale si fondano e che esprimono, e costante ed universale. Più tardi teologi e filosofi si sforzeranno di determinare ciò che fa che un essere sia una persona, cioè il costitutivo formale della personalità. Essi si divideranno in diverse opinioni. Niente di questa ricerca e presupposto direttamente dall'affermazione del concilio, che si attiene ad una esperienza fondamentalmente irrecusabile. Una precisazione della nozione di persona, che risulta necessariamente dall'affermazione conciliare, e la sua distinzione con la natura. Nemmeno il termine « natura » e definite. Esso ha un significato concrete come la persona: le due nature designano il Cristo come vero Dio e come vero uomo. Esso e impiegato ugualmente in riferimento all'esperienza umana, e, come l'abbiamo notato, risponde alla domanda: « che cosa e? » mentre la persona risponde alla domanda: « chi e? ». Il valore concrete dell'affermazione « una sola persona » e confermato dall'intenzione del concilio di esprimere con ciò, in termini più espliciti, quello che aveva detto prima: Gesù Cristo è « uno solo e lo stesso ». L'espressione appare all'inizio della professione di fede37, come per far capire che e l'asserzione primordiale ed in seguito riappare per introdurre la seconda parte della professione, prima di enunciare le due nature. Era una antica espressione che si ritrova gia presso Ireneo 38, e della quale si può reperire l'origine in Ignazio di Antiochia (« uno solo »)39 e in Melitone di Sardi (« lo stesso »).40 Diciamo che essa ha un valore concrete, esistenziale, e che esprime più direttamente e più semplicemente ciò che risulta dalla testimonianza evangelica concernente Gesù: Gesù non e due ma uno. Attenendoci a questa espressione « uno solo e le stesso », come fondamento dell'affermazione « una sola persona », possiamo gia dire che il concilio di Calcedonia non ha voluto affatto escludere il monosoggettivismo, e questo non può essere considerato come la traduzione moderna del monofisismo. Al contrario, ha voluto affer37 DS 301. Queste sono le prime parole: « Confessare, come un solo e lo stesso, il Figlio nostro Signore Gesù Cristo... ». 38 Her. I, 9, 2; III, 16, 2; SC 34, 280. 39 Efes. 1,2. 40 ANASTAS. SIN. Viae dux 13; PG 89, 229 B: «Essendo Dio e anche uomo perfetto lui stesso, ci ha manifestato le sue due essenze ». 184 mare che nel Cristo vi e un solo soggetto41: pur essendo Dio ed uomo, Gesù e uno solo e lo stesso, ossia un solo soggetto. Il concilio esclude il monofisismo ed enuncia il monoseggettivismo. Fu precisamente questa la difficoltà: arrivare a distinguerli nettamente l'uno dall'altro, puntualizzando la differenza fra le due espressioni, che per Cirillo d'Alessandria avevano un significato più o meno equivalente, « una natura » e « una ipostasi ». Il concilio ripudia definitivamente l'affermazione di una natura e, per contro, afferma una ipostasi. Lungi dall'essere identici l'uno all'altro, monofisismo e monosoggettivismo sono direttamente opposti.
Inoltre, se seguiamo la professione di fede del concilio, dobbiamo dire che Gesù e Dio. Egli e infatti « uno solo e lo stesso, lo stesso perfetto in divinità e lo stesso perfetto in umanità, veramente Dio e veramente uomo ». Pur distinguendo le due nature, che non si potrebbero identificare l'un l'altra, si deve affermare che Gesù uomo è Dio. Lungi dall'accordare un senso affievolito a questa affermazione, il concilio sottolinea che Gesù e « veramente Dio », e che e lo stesso nella sua divinità e nella sua umanità. Vi e identità reale, ma identità dovuta all'unità di soggetto o di persona. Non indietreggiando affatto dinanzi alla frase « Gesù e Dio », si deve considerarla come un'espressione autentica della fede. « Veramente » egli e Dio; e colui che e Dio non e diverse da colui che e uomo: e « uno solo e lo stesso ». Si deve dunque insistere sull'«.< e », sulla sua forza d'identità che gli viene dall'unico soggetto o persona. b) La persona, soggetto di coscienza e di liberta In quale posizione si trova la « persona » nei riguardi della coscienza e della liberta? Bisogna cercare di rispondere a questa domanda per peter giudicare meglio la teoria che invoca una differenza notevole fra il concetto calcedoniano, caratterizzato dalla sussistenza, e il concetto moderno della persona concepita come centro di coscienza e di liberta. La distinzione fra persona e spirito La prima volta che all'epoca patristica venne affermata « una 41 A proposito dell'origine di « uno solo e lo stesso », Grillmeier ricorda la formula cristologica di Ignazio d'Antiochia (Ef. 7, 2) «costruita in modo da predicate il divino e l'umano di un solo e medesimo soggetto» (Christ, 483). 185 persona » nel Cristo, fu nel senso che la persona divina del Verbo avrebbe svolto essa stessa tutte le funzioni devolute allo spirito umano, e per conseguenza le funzioni di conoscenza e di attività volontarie. Il primo ad impiegare la formula « una persona » nei riguardi di Cristo, fu in effetti Apollinare di Laodicea 42. Egli negava l'esistenza di uno spirito umano e attribuiva il ruolo di quest'ultimo all'ipostasi unica del Verbo unito alla carne 43. Perché la negazione dello spirito umano nel Cristo? Perché, secondo la dottrina apollinarista l'uomo e una ipostasi in virtù del suo spirito (nous). Se il Verbo avesse assunto uno spirito umano, nel Cristo vi sarebbero state due ipostasi44. Per assicurare l'unità d'ipostasi, si doveva dunque escludere uno spirito umano e ammettere che il Verbo, spirito divino, e lui solo, svolgesse le funzioni dello spirito nel Cristo. L'argomento invocato nell'apollinarismo per sostenere l'affermazione dell'unità d'ipostasi, consiste dunque in ciò che si potrebbe chiamare, con linguaggio tecnico più moderno, il costitutivo formale della personalità: e lo spirito che fa la persona45. Si trova qui ciò che Barth vedeva come la concezione moderna della personalità, adottata specialmente da Günther 46: vi e persona la ove vi è coscienza è libera determinazione di se stesso con la volontà. E vero che Apollinare non parla espressamente di coscienza di se, ma la coscienza e una nota caratteristica dell'attività dello spirito. Il termine intelletto (nous), che esso impiega, indica sufficientemente un'attivita intellettuale cosciente. Inoltre, ai suoi occhi, lo spirito si caratterizza ancor più fondamentalmente col potere di autodetermina42 Cfr. M. RICHARD, L'introduction du mot « hypostase», 6, 12. 43 Non entreremo nei dettagli delle interpretazioni della dottrina di Apollinare. Circa la tesi di E. MUHLENBERG (Apollinaris van Laodicea, Göttingen 1969), si possono consultare le osservazioni critiche di C. KANNENGIESSER, Une nouvelle interpretation de la christologie d'Apollinaire, Recherches de Sc. Rel. 59 (1971) 27-36. 44 L'argomento può essere dedotto dal rifiuto fatto da Epifanio (Ancoratus 11, PG 43, 161 B) attraverso il quale Richard ha potuto precisare il sense dell'argomentazione apollinarista (art. cit., 9-12). Cfr. ugualmente GRILLMEIER, Christ, 232 s. 45 Richard commenta l'argomentazione di Epifanio contro gli apollinaristi dicendo: « Il gran principio di questi eretici era che ogni natura spirituale, ogni spirito, e necessariamente un'ipostasi: da cui l'impossibilità di far coesistere nel Cristo il Verbo, spirito divino, ed il nous, spirito umano, sotto pena di attribuirgli due ipostasi » (L'introduction, 11). 46 Dogmatique I, 1, 2, 60. 186 zione47, ciò che implica in pari tempo coscienza di se e libertà. Spirito e persona sono dunque identici secondo questo modo di vedere. Apollinare concepisce l'uomo come « spirito nella carne » 48. Poiché nel Cristo non può esserci che un'ipostasi, non vi e dunque che il pneuma o spirito divino, e non uno spirito umano. È lo spirito divino che anima, vivifica la carne. Esso e il solo principio vitale. Per il fatto che lo spirito divino e il solo principio di vita e di movimento, nel Cristo non vi e un'ipostasi composta dal Verbo e dalla carne49. La sola ipostasi e quella del Verbo. Animando la carne, essa
costituisce « una sola natura »50. L'assenza di spirito umano permette dunque non solo l'unità d'ipostasi, ma l'unità di natura: « Lo stesso e una natura, un'ipostasi, un'energia, una persona, pienamente Dio e pienamente uomo »51. L'unità d'ipostasi non e dunque concepita nella maniera in cui lo sarà nella professione di fede di Calcedonia. Per pervenire a questa professione di fede bisognerà distinguere ipostasi e natura, e arrivare all'affermazione di una persona e di due nature. Occorrerà sormontare l'ostacolo dell'identificazione dello spirito e della persona. Finche si ritiene giusto il principio che lo spirito e una persona, e impossibile ammettere una sola persona nel Cristo. Se traduciamo quest'ostacolo in termini attuali, dobbiamo dire che rappresenta equivalentemente l'identificazione della persona o della personalità con la coscienza di se e la libera autodeterminazione. Se si fa consistere la persona semplicemente nella coscienza e nella libertà, si e posti davanti ad un dilemma: o ammettere nel Cristo due persone, riconoscendo in lui coscienza divina e coscienza umana, libertà divina e libertà umana, o conservare l'affermazione di una sola persona, sia persona divina, sia persona umana, escludendo una 47 « Ogni spirito e padrone di se. movendosi di sua propria volontà secondo la natura... » (Framm. 150). Cfr. MUHLENBERG, Apollinaris, 158. H. de Riedmatten osserva che il nous, identificato da Apollinare al pneuma e lo spirito «caratterizato anzitutto dal potere di autodeterminazione» (La christologie d'Apollinaire de Laodicée, Studia Patristica II, TU 64, Berlino 1957, 223). 48 Cfr. de RIEDMATTEN, La christologie d'Apollinaire, 223, e MUHLENBERG, Apollinaris. 165 s. 49 Richard lo sottolinea premunendo contro la possibilità di errori che potrebbero comportare certe espressioni apollinariste come « ipostasi composta » (L'introduction. 11). 50 L'uomo Dio, dice Grillmeier (Christ, 228). È una natura, una essenza. « perchè il solo potere che da la vita, penetrando completamente la carne, viene dal Logos, ed unisce i due in una unità viva e funzionale». 51 APOLLINARE, De fide et incarn., 6; ed. LIETZMANN, 198-199. 187 dualità di coscienza e di libertà. Apollinare aveva scelto la sola soluzione che gli sembrava compatible con l'affermazione della Scrittura e della Tradizione. Poiché il Cristo e il Verbo fatto carne, gli si deve attribuire una persona divina, quella del Verbo; e siccome questa persona deve essere unica, deve fornire da sola, conoscenze e volontà libera, con l'esclusione di uno spirito umano. Se si volessero identificare oggi persona e coscienza, ci si ritroverebbe di fronte alla stessa difficoltà. Ma siccome nella nostra epoca non si consentirebbe più a private il Cristo di coscienza umana e di libertà umana, si potrebbe disporre solo di due vie: o affermare due persone, ciò che porrebbe un problema molto grave d'unità, o attribuire a Gesù unicamente una persona umana. Logicamente si sarebbe portati piuttosto a questa seconda soluzione, perché l'identificazione persona-coscienza finisce con l'attribuire una sola persona o personalità a Dio, non essendovi in lui che una sola coscienza; per conseguenza il Verbo non avrebbe personalità propria e il Cristo non potrebbe essere chiamato, in termini esatti, la persona divina del Figlio. Invece la coscienza e la libertà umana di Gesù costituirebbero in lui la sua persona umana. Non vi sarebbe dunque persona divina, bensì una persona umana in Gesù. Simile soluzione contraddirebbe il messaggio del Nuovo Testamento e la sua interpretazione fatta dalla Chiesa. L'ostacolo e stato superato dal concilio di Calcedonia seguendo un'altra via. La sorgente dell'errore si trova nell'identità di persona e di spirito; e questa identità che deve essere contestata. Il concilio afferma nel Cristo uno spirito umano senza persona umana. Gesù Cristo, infatti, possiede, come vero uomo, un'anima razionale: « lo stesso perfetto in divinità, lo stesso perfetto in umanità, veramente Dio e veramente uomo, formato di un'anima razionale e di un corpo ». È così che e « consostanziale » a noi ". E tuttavia, non vi e che una persona e un'ipostasi, quella del Figlio unico di Dio, del Verbo divino. L'anima razionale appartiene alla natura umana; essa non e dunque ciò che costituisce la personalità. L'identità persona-spirito sulla quale si fondava l'apollinarismo, perde il suo valore perché l'anima razionale e nell'ordine della natura e non in quello della persona. La persona divina può essere l'unica persona senza alcuna soppressione ne riduzione dello spirito umano. La na52 DS 301. 188 tura umana è perfetta: essa comporta; per l'anima razionale, tutta la coscienza e tutta la libertà che sono caratteristiche dell'uomo. In Gesù lo spirito umano ha tutte le sue proprietà; egli le possiede alla perfezione. La distinzione fra natura e ipostasi permette al concilio d'insistere tanto sull'unità d'ipostasi quanto sulla dualità di natura. La natura umana non deve essere diminuita per assicurare l'unità personale di Cristo. Gesù non ha nulla di meno di un altro uomo nella sua coscienza e nella sua libertà umane e tuttavia egli e una sola persona, la persona divina del Figlio di Dio.
La persona, principio di attività spirituale Vuol dire che vi e una rottura o totale estraneità tra il concetto dell'ipostasi adottato dal concilio di Calcedonia e il concetto di persona, definite in funzione della coscienza e della libertà? Il concilio non ha espressamente trattato la questione, ma la professione di fede che ha adottato contiene delle indicazioni implicite al riguardo. L'unica ipostasi vi e presentata come il soggetto di tutte le proprietà di ognuna delle due nature. È « lo stesso » che, Dio perfetto e uomo perfetto, possiede un'anima razionale. Perciò l'ipostasi non e tagliata dalla coscienza e dalla liberta: essa ne è il soggetto, ossia il primo e supremo principio. Per conseguenza, dobbiamo distinguere fra coscienza e libertà da una parte e dall'altra parte il soggetto di questa coscienza e di questa liberta. La coscienza e la libertà sono umane, ma il loro soggetto e divino. È così che il concetto di persona, del quale si serve il concilio, si armonizza con il concetto attuale di persona, che mette particolarmente l'accento sulla coscienza e sulla liberta. L'ipostasi non si confonde con la coscienza e la libertà, ma essa ne e il primo principio. Notiamo che parlando di « soggetto » non si potrebbe intendere semplicemente un soggetto logico d'attribuzione, come si farebbe domandandosi se la logica del linguaggio permette d'attribuire coscienza umana e libertà umana al Figlio di Dio. Si sa che il problema della « comunione delle proprietà » (communicatio idiomatum) spesso e stato posto, dal punto di vista logico e grammaticale, secondo i rapporti fra predicate e soggetto. S. Leone Magno, per esempio, si riporta al problema nel « Tomo a Flaviano », quando 189 giustifica il linguaggio del Credo secondo il quale « il Figlio unico di Dio fu crocifisso e sepolto »53. Logicamente si deve parlare così, perché le proprietà di ogni natura appartengono alla persona e debbono esserle attribuite. Al Figlio di Dio deve essere riferito tutto do che e umano in Gesù: così il Figlio di Dio e nato dalla Vergine Maria, ha sofferto ed e morto. Ma vi e in ciò più di un soggetto logico d'attribuzione; quando Leone afferma la comunione delle proprietà si fonda su di una unità di persona che non e solamente un principle di logica e di linguaggio: e una unità che « esiste nelle due nature » 54, un'unità ontologica. Il concilio afferma questa unità ontologica parlando di una sola ipostasi. L'ipostasi e così principio ontologico di tutta l'attività spirituale umana, dunque della conoscenza e della libera volontà; tutta questa attività e del Figlio unico di Dio. Tuttavia, la questione e ancora più complessa, perché la natura umana e ugualmente, in un certo senso, principio dell'attività di coscienza e di liberta. Si può qui ricordare il principio enunciate da Leone: « Ciascuna delle due nature compie in comunione con l'altra, ciò che le e proprio » K. La natura umana agisce secondo la sua proprietà; essa determina dunque, da questo punto di vista, la conoscenza e l'azione. Il concilio di Calcedonia non ha ripreso la considerazione di Leone su questo punto, e bisognerà attendere la crisi del monotelismo, il concilio del Laterano e il 3° concilio di Costantinopoli per una definizione della dualità d'attività56. Il principio, nondimeno, e posto nella dichiarazione di Calcedonia sulla preservazione delle proprietà di ogni natura. Ma se la natura e principio dell'attività spirituale, come si può distinguere il ruolo dei due principi, l'ipostasi e la natura? Si sa che più tardi la teologia scolastica farà la distinzione fra la persona, principium quod dell'attività, e la natura, principium quo. Se ritorniamo alla dottrina di Leone e del concilio di Calcedonia, dobbiamo limitarci a dire che l'ipostasi designa colui che agisce mentre la natura si riferisce a quello che 53 Tomus ad Flavianum, vv. 126-32. 54 Ibid., V.-126. 55 Ibid., v. 94: «Agit enim utraque forma cum alterius communione quod proprium est». Quanto segue è meno felice dal punto di vista dell'espressione: «Verbo scilicet operante quod Verbi est et carne exsequente quod carnis est». Il Verbo designa la persona, mentre si tratta di due nature; la « carne », nel senso latino della parola, non designa che una parte della natura umana. 56 DS 511; 557. 190 agisce. Il principio primo o dominante è la persona, che fa l'unica delle due nature. Ma questo principio prime rispetta ciò che è proprio alla natura umana, e per conseguenza colui che agisce lo fa attraverso quello che agisce. Ci avviciniamo così alla distinzione scolastica « principio che » e « principio per il quale », ma evitando l'inconveniente di concepire la natura come semplice mezzo o strumento per la persona. Non possiamo chiedere al concilio di Calcedonia molta precisione sulla nozione di persona; non troviamo, particolarmente, alcuna considerazione sulla psicologia di Cristo. Ma quel minimo che e stato detto basta a dimostrare che l'ipostasi e soggetto di tutte le attività umane, dunque soggetto di coscienza e di liberta; non si potrebbe opporla ad una nozione più moderna della persona. E si deve
continuare a beneficiare del progresso intellettuale che ha segnato la distinzione fatta, fra persona e natura, e per conseguenza fra persona e spirito. Nel Cristo persona non si confonde con spirito ne con coscienza. La persona e il soggetto che essendo perfettamente Dio, possiede la natura spirituale di Dio e che essendo perfettamente uomo possiede un'anima razionale umana. Come soggetto delle attività spiritual) umane. Tunica ipostasi si esprime nell'attività cosciente e libera. Si raggiunge, in accordo con Calcedonia, l'accento posto dalla psicologia moderna sulla coscienza e la liberta: e la persona che si esprime per mezzo della coscienza e della facoltà di autodeterminazione. E essa che mette in movimento l'intelligenza e la volontà, che rivela ciò che e nella coscienza e ciò che vuole nella liberta. Se si parla di « centro » d'attività umana nel Cristo, per questo centro si può intendere la natura, nel senso che la natura e, in un certo modo, principio dell'attività umana, essa e ciò che agisce. Ma bisogna subito aggiungere che vi e un principio d'attività che comanda e domina la natura stessa, e in questo senso il primo centro d'attività cosciente e libera e la persona. Nel Cristo e la persona del Figlio di Dio che costituisce questo centro primordiale, questa sorgente di ogni azione umana. Poiché questa ipostasi e l'unico soggetto, non si può parlare propriamente di un centro umano d'attività che metterebbe l'uomo Gesù di fronte a Dio. L'uomo Gesù non e di fronte al Verbo; e il Verbo che si trova di fronte al Padre, in dialogo con lui. Se trema di spavento al Getsemani, è il Figlio di Dio che nei suoi sentimenti 191
umani prova questo spavento davanti alla prospettiva dell'imminente sofferenza, e che prega il Padre di preservarlo da quel calice. La natura umana dimostra bene quello che è, con la sua debolezza; ma questa natura è quella della persona divina del Figlio, ed è perciò che il dramma del Getsemani è un dramma filiale, piuttosto di quello d'una creatura alle prese con il suo Creatore. L'unità d'ipostasi esclude in Gesù una persona umana. Questa esclusione non si deve comprendere come una rinuncia, una specie d'estasi in cui si esprimerebbe il dono assoluto dell'uomo a Dio. Non si potrebbe vedere l'assenza di persona umana come il compimento supremo della personalità, che realizza il suo destino con il suo abbandono nelle mani di Dio. La natura umana del Cristo non è soggetto di un dono né di una rinuncia, e per questo motivo non si tratta per l'uomo Gesù di rinunciare ad una personalità umana. Il solo soggetto di dono e d'amore è l'ipostasi del Verbo. La persona del Figlio ama e si dona nella sua natura umana; il Figlio di Dio si rimette umanamente fra le mani del Padre. L'assenza di persona umana non è il frutto di un comportamento ascetico né di un'estasi; essa appartiene alla costituzione ontologica del Cristo. È l'aspetto negativo dell'affermazione dell'unità di persona. Tuttavia, sottolineiamo: l'assenza di persona umana non impedisce affatto le espressioni umane di personalità in Gesù. La personalità del Figlio si esprime umanamente in pensieri umani, in sentimenti umani, in decisioni umane. Nulla gli è sottratto della ricchezza della psicologia umana. Questa psicologia fruisce di un'autonomia simile a quella che si trova negli altri uomini, nel senso che si conforma alle leggi della natura umana. La differenza risiede nel fatto che invece di essere condotto da una persona umana, il suo sviluppo è diretto da una persona divina. Per questo aspetto fondamentale la psicologia di Cristo sboccia in un mistero; nondimeno essa rimane profondamente umana, essenzialmente simile alla psicologia di qualsiasi altro essere umano. e) La persona in dottrina trinitario e in cristologia Non si potrebbero ammettere due nozioni differenti di « persona » a seconda che si impieghi la parola in dottrina trinitaria o in cristologia. È vero che in dottrina trinitaria la persona appare come fattore di distinzione, mentre in cristologia è principio d'unione. 192 Ma, giustamente, bisogna dare al termine « persona » un senso tale che nella Trinità spieghi la distinzione del Padre, del Figlio e dello Spirito, e che in cristologia fondi l'unità delle due nature, divina e umana. Nella storia dei dogma, il concetto d'ipostasi venne impiegato dapprima per la Trinità, ed in seguito ne è stata fatta la nuova applicazione in cristologia. Nel suo uso cristologia) non ha affatto cambiato di significato. In cristologia, come nella
dottrina trinitaria, è stato impiegato per sottolineare la differenza fra persona e natura, e con l'intenzione d'esprimere una realtà ontologica. Il fatto che nella Trinità vi siano tre persone in una sola natura, aiuta a comprendere come nel Cristo vi possa essere una persona in due nature. Non si potrebbe indebolire l'affermazione della teologia trinitaria cercando di spiegarla, come ha tentato Barth, con tre categorie dell'ordine della rivelazione: rivelatore, rivelazione e rivelato57. Non si tratta soltanto di punti di vista differenti di un medesimo atto, né di modi o maniere d'essere. Si tratta di tre soggetti, perché importa dare al termine « persona » il suo valore normale. Non è inutile ricordare che fin dall'origine della teologia latina, il termine « persona » venne applicato alla Trinità. Infatti, Tertulliano parla già di tre persone divine e di una sostanza.58 Non si potrebbe dunque affermare che il termine sia d'introduzione tardiva nella patristica; molto presto è servito ad esprimere la fede trinitaria. Affermare tre persone in Dio è affermare tre soggettività. Su questo punto la dottrina trinitaria è in armonia con la cristologia. Nel Cristo non vi sono due soggettività, ma una sola, quella del Figlio di Dio; il monosoggettivismo solo è conforme all'unità ipostatica. Nella Trinità non v'è una soggettività; ve ne sono tre. Il termine « soggettività » traduce bene il termine « ipostasi », « sussistenza ». Non si può neanche negare la reciprocità « io-tu » fra le persone divine: già il Prologo di Giovanni presenta l'atteggiamento eterno del Verbo, rivolto verso il Padre: « il Verbo era verso Dio ». Le parole indirizzate da Gesù al Padre nel Vangelo, manifestano il dialogo eterno del Figlio col Padre; sarebbe penoso pensare che per parlare » al Padre, il Figlio avesse dovuto disporre di una voce umana, e che il dialogo non avrebbe avuto inizio che con la vita terrena. In questa vita, il Figlio non ha forse rivelato ciò che era da sempre? 57
Dogmatice, I, 1, 2, 66. 58 Adv. Praxean, 12, 3-7; CCL 2, U7>.
193 In Dio vi sono tre persone nel senso forte della parola, tre soggetti d'attività cosciente e libera. La difficoltà è di capire come questa attività sia una e identica, come non vi sia che una sola coscienza e un solo amore per i tre. Qui appaiono le teorie interpretative del mistero trinitario e specialmente la teoria psicologica di S. Agostino, che invoca lo spirito dell'uomo con la memoria, l'intelligenza e l'amore, come immagine della Trinità: si può spiegare così che il Verbo e generate dal Padre per modo di pensiero e che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio per via d'amore. Qui soprattutto interviene la teoria delle relazioni, che distingue la natura e le persone, riconoscendo nella natura l'essere assoluto e nelle persone delle relazioni eterne e immutabili.59 La teoria delle relazioni non fornisce semplicemente una spiegazione logica, destinata ad evitare il triteismo e il modalismo. È un concetto ontologico di relazione che essa presenta, per rendere conto della realtà ontologica delle persone e della distinzione reale del Padre, del Figlio e dello Spirito. Lungi dall'escludere la reciprocità, la triplicità dei soggetti la implica. I tre soggetti sono profondamente relativi l'uno all'altro, al punto che tutta la loro esistenza personale proviene dalle loro mutue relazioni: così il Padre e il Padre in virtù della sua relazione al Figlio e il Figlio e Figlio in virtù della sua relazione al Padre. Per le mutue relazioni, che sono comunicazioni, ognuna delle persone possiede l'essere assoluto come le altre due. Perció, ogni persona e in possesso di tutta la conoscenza divina e di tutto l'amore divino. Ognuna e soggetto di coscienza e di liberta. A nessuna di esse manca alcunchè dell'intelligenza e della volontà divine. Il concetto moderno di persona, soggetto di coscienza e di libertà, si verifica pienamente nelle persone divine. Vi si verifica in una analogia che tiene conto della differenza fra la situazione umana, in cui ogni persona possiede la sua natura, e la situazione divina, in cui una sola natura comune e posseduta da tre persone. L'analogia non indebolisce affatto il valore della nozione di persona applicata alla Trinità, poiché per il fatto che sono tre a possedere la stessa 59 Non si potrebbe concludere con L. Scheffczyk, che per Agostino il primo a presentare in maniera sistematica la teoria delle relazioni « il concetto di persona applicato alla Trinità era vuoto di senso » (Histoire du dogme de la Trinité, Mysterium Salutis, trad. fr. 5, Parigi 1970, 281). La dottrina di Agostino dimostra, al contrario, tutto il valore riconosciuto al concetto di persona. 194 natura, le persone divine non la possiedono meno di quanto una persona umana possiede la sua natura individuale. Ciascuna e, in pienezza, soggetto di conoscenza infinita e d'amore infinito.
Aggiungiamo che il concetto di « personalità », così frequente nel linguaggio moderno, non e neanche da opporre alla nozione tradizionale delle « persone » o « ipostasi » in Dio. Parlando di personalità, si cerca di sottolineare l'originalità e la ricchezza intima della persona, le caratteristiche che la differenziano da tutte le altre, conferendole un volto unico. Ognuna, in quanto persona, e interamente differente dalle altre due, e possiede una completa originalita. Il Padre è interamente Padre, e come tale perfettamente diffeiente dal Figlio, come lo Spirito Santo non contiene nulla nella sua persona che sia una riedizione delle altre due. In Dio vi sono le tre personalità più originali, le più vigorose e le più distinte che si possono trovare. Una conseguenza ne deriva per la cristologia. Il Cristo non è semplicemente il Dio fatto uomo, l'UomoDio. Egli è la persona del Figlio e tutta la sua vita umana è marcata dalla sua personalità filiale. A considerare il caso puramente ipotetico dell'Incarnazione di un'altra persona divina, il volto del Salvatore sarebbe stato tutt'altro. Nell'Incarnazione, quale si e prodotta, e un volto di Figlio che si e incarnato. Gli atteggiamenti, parole e gesti di Gesù, sono essenzialmente quelli di un Figlio. Per la cristologia, come per la dottrina trinitaria, il riconoscimento del valore della persona divina e dunque di suprema importanza. Si deve attribuire alla personalità del figlio una pienezza di significato se si vuol comprendere il Cristo. Lungi dal dover mettere in ombra i concetti di persona e di personalità, la cristologia ne ha bisogno per esprimere il mistero dell'identità di Gesù. 195 CAPITOLO X VALORE DELLA DUALITÀ DI NATURA NELL'UNITÀ DI PERSONA A) IL VALORE DELL'UNITÀ DI PERSONA Perché il Cristo non possiede una persona umana? È contro l'assenza di persona umana che protestano, l'abbiamo visto, certi autori contemporanei. In effetti ad essi sembra che questa assenza renda il Cristo meno uomo. Per essere pienamente uomo, nel modo in cui lo siamo noi, non dovrebbe essere una persona umana? L'« ani-postasia » sarebbe contraria all'integrità ontologica dell'uomo Gesù. Sforziamoci un istante di considerare che cosa avrebbe potuto essere l'Incarnazione nel caso in cui Cristo avesse avuto una persona umana. Soffermiamoci soltanto sull'ipotesi di una vera incarnazione, quella in cui una persona divina diventa uomo. Perché la negazione della persona divina nel Cristo farebbe scomparire l'Incarnazione stessa. Non resterebbe altro che ammettere una doppia personalità nel Cristo, una persona divina e una persona umana. Una simile unione non sarebbe impossibile; non possiamo apprezzare tutte le possibilità esistenti per il disegno di Dio, al di fuori del progetto d'Incarnazione che ha effettivamente realizzato. Ma anche se l'unione in un solo essere di una persona divina e di una persona umana non e contraddittorio e irrealizzabile, avrebbe sempre posto il Cristo in una situazione ibrida, difficilmente coerente, e soprattutto non avrebbe adempiuto lo scopo essenziale dell'Incarnazione. 197 Avrebbe messo il Salvatore in una situazione personale delle più difficili, perché come può vivere un essere con due persone? In questo caso, si sarebbe potuto parlare di due Cristi anziché di uno solo. L'unità avrebbe mancato di profondità ontologica; non vi sarebbe stata che un'unione esteriore, superficiale, o una unione morale. Si stenta ad immaginare due soggetti che agiscono ognuno in maniera autonoma di persona, aventi ciascuna la loro natura e nondimeno integrate nel tutto di un Uomo-Dio. Una dualità di persone non avrebbe permesso di raggiungere l'obiettivo dell'Incarnazione, l'unione più intima della divinità e dell'umanità. Natura divina e natura umana sarebbero l'una davanti all'altra, con le due persone che necessariamente dovrebbero essere l'una di fronte all'altra'. L'una e l'altra rimarrebbero in qualche modo sulla loro posizione, senza entrare in una unità che le legherebbe ontologicamente. Per questa via il disegno dell'amore divino non avrebbe potuto operate quel massimo avvicinamento che desiderava. Solo l'unità di persona può realizzare questo avvicinamento, perché nella persona divina del Figlio, divinità e umanità hanno un solo e medesimo principio che le orienta in una stessa direzione e comanda, con una perfetta armonia, le due attività, divina e umana. Se vi fosse una sola persona, questa non potrebbe essere una persona umana, perché e impossibile ad una persona umana « personalizzare » la natura divina, comandare ed animate, come principio operative, l'attività divina2. Inoltre, l'unità di persona deve inau1 Questa situazione di confronto corrisponde a quella già proposta da Deodat de Basly (La Christiade Franfaise, Parigi 1927, e diversi articoli in France Franciscaine, dal 1928 al 1938). Questo autore mette in presenza due individui autonomi, il Die Trino e l'Assumptus Homo, cosicché l'uomo Gesù si trova dinnanzi al Verbo. Ma con questo considera che il Verbo e l'uomo non formano
che un tutto eterogeneo, e vorrebbe sopprimere la nozione d'Incarnazione, negando che si possano attribuire direttamente al Verbo le attività umane di Gesù. 2 Il « rovesciamento » del modello di Calcedonia, preconizzato da Schoonenberg, consiste nell'affermare, in luogo di una persona divina che s'incarna prendendo una natura umana, una persona umana nella quale il Verbo, modo di Dio, si «enipostasia», ossia prende una personalità. È l'uomo Gesù che personalizza il Verbo, che gli conferisce la sua personalità. L'affermazione appare talmente inaccettabile che Schoonenberg si e sforzato di addolcirla; egli critica coloro che gli fanno dire che una persona umana e principio d'attuazione per l'essere infinite, ma in realtà l'ammette implicitamente. Quando dice che «al contrario è attuando e sostenendo attivamente la persona umana di Gesù (in tutta la sua realtà, dunque fin dall'inizio) che il Logos diviene la seconda persona » (Lettera indirizzata al Theology Digest 23 (1975) 225), egli suppone che il Logos prende dall'uomo Gesù la sua personalità e che, per conseguenza, è la persona umana che personalizza il Verbo divino. È la che appare più vivamente la prevalenza data all'uomo nella cristologia, prevalenza spinta al punto estremo, poiché è dall'uomo che il Verbo riceve la sua personalità e è in virtù dell'uomo che Dio comincia a divenire Trinità.
198 gurare un'opera di trasformazione che non consiste nell'umanizzazione della divinità, ma nella divinizzazione dell'umanità. Non è la natura divina che è destinata a modificarsi; è la natura umana che deve ricevere l'influsso della vita divina. Pertanto l'unica persona non può essere che una persona divina. La finalità che abbiamo ricordato e essenziale all'Incarnazione. Se un Dio diventa uomo, non e per lasciare l'uomo tale quale e, ma per comunicare all'umanità la ricchezza divina ed elevare questa umanità ad un livello divino. In questa prospettiva, si comprende meglio che la natura umana di Gesù appartiene non ad una persona umana, ma ad una persona divina. Il termine di « anipostasia » non esprime che l'aspetto negative dell'unità di persona e non deve respingere nell'ombra il senso positivo di questa unità. Il Cristo uomo non e sprovvisto di personalità; non ha persona umana, ma la sua persona divina personalizza nel modo più complete e più alto la sua natura umana. Da questo punto di vista si deve affermare una vera personalizzazione umana nel Cristo. La persona e unicamente, esclusivamente divina, ma essa agisce nella natura umana, per essa e attraverso essa; e così che la personalizza. Essa da all'uomo Gesù un volto personale di Figlio di Dio e di Verbo di Dio. Quest'uomo non e meno personale di un altro. I testi evangelici mostrano come in tutto il suo comportamento umano Gesù manifesti la sua personalità di Figlio di Dio e di Rivelatore del Padre. Questa personalizzazione umana dovuta al Verbo giustifica l'affermazione di Tommaso d'Aquino: « Il Verbo stesso e personalmente uomo »3. Non si potrebbe interpretare questa frase nel senso di una soggettività o persona umana che diverrebbe la persona del Verbo divino. Essa vuol dire il contrario: non e un uomo che personalmente diventa il Verbo, ma il Verbo che diventa personalmente uomo. Quando san Tommaso dice che nel Cristo la natura umana e persona del Figlio di Dio, precisa anzitutto che essa e stata assunta: « La natura umana e stata assunta in modo tale da essere persona del 3 De unione Verbi incarnati, a. 1. Testo invocato da Schillebeeckx (Persoonlijke, T.v.T. 1966, 278). 199 Figlio di Dio »4. E altrove lui nota che « l'ipostasi del Verbo non è costituita semplicemente per mezzo della natura umana, in modo da esistere per essa; ma per essa il Verbo ha soltanto che e uomo »5. Non vi e dunque che una sola persona, l'ipostasi del Verbo, ma questa comunica la sua personalità alla natura umana. Quando Gaetano impiega l'espressione « persona umana » nel suo commentario di Tommaso, non lascia alcun dubbio sul senso che gli attribuisce; non si tratta di una « nuova persona umana », formata da un'anima unità ad un corpo, ma dall'ipostasi del Verbo di Dio, « antica persona » che per la natura umana diventa persona umana6. L'espressione non e felice, per il suo carattere equivoco, e d'altronde essa costituisce una eccezione nel linguaggio della teologia scolastica. Ma il pensiero di Gaetano non desta nessun dubbio. Egli intende affermare, con Tommaso, la personalizzazione della natura umana effettuata dalla persona del Verbo 7. Conviene dunque sottolineare che l'anipostasia, assenza di persona umana nel Cristo, non significa assenza di persona nella natura umana. La persona divina del Figlio diventa uomo, ed esercita pienamente sulla natura umana il dominio che negli altri uomini appartiene alla persona umana. In ragione della potenza della persona divina, si deve anche dire che questo dominio e più completo e che nessuna natura umana e stata così profondamente personalizzata come quella di Gesù. L'unità di persona deve essere compresa in modo dinamico. La persona divina non e comparabile ad una realtà semplicemente sovrapposta alla natura umana. La rappresentazione di due nature e di una persona potrebbe essere statica e far pensare alla presenza di una persona a fianco di due nature, mentre in realtà la natura umana di Cristo e interamente penetrata dall'essere personale del Verbo. L'ipostasi divina e presente come un dinamismo che anima dall'interno tutta la realtà umana di Gesù. Dal punto di vista del vocabolario, sarebbe preferibile parlare 4 S. Th. Ill, q. 2, a. 10 c.
5 Contra G. IV, XLIX, ad 6. 6 In IIIam partem, q. 2, a. 5, n. 11. 7 Non si può dunque assicurare, come fa Schillebeeckx (Persoonlijke, 277-279), che la posizione adottata da Hulsbosch sia nella linea di pensiero di Tommaso e di Gaetano; essa e diametralmente opposta a tal pensiero, affermando una persona umana simile a quella degli altri uomini e non una persona divina, quella del Verbo, che si fa umana nella natura umana. 200 di unità ipostatica piuttosto che di unione ipostatica, precisamente per esprimere l'unità di persona. Questa unità non e il risultato dell'unione delle due nature, ma piuttosto il suo principio: e una persona, quella del Verbo, che assume una natura umana e la fa sua, unendola così alla divinità. L'espressione « unione ipostatica » considera anzitutto le due nature, mentre se si vuol seguire il procedimento dell'Incarnazione dal punto di vista ontologico, si deve guardare anzitutto all'unità di persona e parlare di « unità ipostatica »8. B) IL VALORE DELLA DUALITÀ DI NATURA L'unità di persona non elimina ogni dualità: le due nature rimangono in una dualità che, pur essendo unificata al piano della persona, resta irriducibile a livello della natura. Volere una cristologia senza dualità, sarebbe volere una cristologia monofisita, in cui sussisterebbe una sola natura; sia che la natura divina assorba la natura umana, sia che vi sia unicamente la natura umana come rivelazione dell'essere divino. Ora, il monofisismo toglie all'Incarnazione il suo senso, e a Cristo la sua ricchezza. Si comprende certamente l'ansia della teologia di affermare l'unità di Cristo, e di sottolineare tutta la forza di questa unita. Tale preoccupazione risponde ad una tendenza più generale dello spirito umano, che cerca in ciò che studia il principio d'unita. Quando si tratta di una persona, come nel caso di Cristo, l'unità deve essere messa pienamente in luce. Ma vi e un rafforzamento dell'unità che può diventare impoverimento, quando si misconoscano le diversità degli elementi e degli aspetti che entrano nell'unità. L'unità ricca e quella in cui rimane la complessità con degli elementi che, a prima vista, potrebbero sembrare opposti l'uno all'altro, ma che pervengono ad armonizzarsi. 8 L'espressione d'unità ipostatica premunisce di più contro il pericolo di concepire la persona di Cristo come risultante dall'unione delle due nature. Anche Lutero non e sfuggito completamente a questo pericolo: « Presso Lutero, osserva Congar, — e sembra proprio che tale sia la sua posizione abituale — la " persona " è il tutto concreto costituito dall'unione della natura divina e della natura umana». Egli la concepisce come il tutto concreto e completo, un tutto integrale, nella maniera con cui l'anima e il corpo fanno nell'uomo un'unica persona. (Y. M. J. CONGAR, Regards et reflexions sur la christologie de Luther, in A. GRILLMEIER-H. BACHT, Das Konzil con Chalcedon, Würzburg 1954, III, 478-9). 201 La ricchezza di Cristo e di possedere insieme la natura divina e la natura umana. Più particolarmente poi consiste nel possedere queste due nature senza mescolanza ne confusione, come lo dichiara Calcedonia. Se ci fosse stata confusione delle due nature, l'amalgama avrebbe avuto per risultato che il Cristo non sarebbe state più né consostanziale a Dio, né consostanziale all'uomo. Non si troverebbe più in lui ne il Dio vero, ne l'uomo vero. Ora il suo valore si trova appunto nel fatto che egli e Dio ed uomo, che in lui e nascosta tutta la ricchezza ontologica di Dio, come sono presenti, in pan tempo, tutte le proprietà dell'essere umano. Il significato dell'Incarnazione, l'abbiamo gia notato, e quello di unire le due nature con il legame più intimo. Unirle non e farle sparire sopprimendo la loro dualità. Si tratta, al contrario, di assicurare che la divinità e l'umanità rimangano integralmente esse stesse, e che la loro alleanza non faccia perdere nulla della loro qualità d'essere. Qui cogliamo un principio essenziale dell'opera di salvezza: il rispetto della creatura da salvare e da divinizzare. Volendo liberare l'umanità dal male ed elevarla alla partecipazione della vita divina, Dio la rispetta nella sua realtà propria. Evita di toglierle checchessia d'umano. Perciò nell'Incarnazione la natura umana di Cristo non e differente dalla nostra, e forma con la natura divina una dualità che rimane irriducibile. La dualità e così l'attestazione definitiva del valore della natura umana. Per infinitamente superiore che sia la natura divina, la natura umana conserva il suo diritto all'esistenza e allo sviluppo. Essa e chiamata a sussistere nella sua integrità. Con le sue semplici proprietà umane, fornisce una via d'espressione e di dispiegamento alla persona divina del Figlio. Quando la natura umana e assunta dalla persona divina del Figlio, testimonia una possibilità superiore, quella di diventare autentica espressione del pensiero e dell'azione di Dio. Tutto l'interesse della Rivelazione compiuta da Cristo risiede nel fatto che una persona divina ha trovato, in una vita umana, la possibilità di manifestare autenticamente Dio. Un semplice sguardo umano di Gesù
rivela lo sguardo d'amore del Padre, un gesto di soccorso dimostra la sollecitudine divina. I più piccoli dettagli di un'esistenza umana diventano dei segni di rivelazione. La dualità di natura in una sola persona indica che non c'e 202 alcuna contraddizione fra Creatore e creatura9. Come Dio, il Cristo e Creatore e continua a creare il mondo, ma come uomo, esercita un'attività di creatura; lungi dall'essere in opposizione, le due attività hanno un'affinità fra loro 10, perché l'intenzione della creazione è stata quella di fare dell'uomo colui che coopera all'azione creatrice. Anche l'onniscienza, posseduta da Cristo nella sua divinità, non gli impedisce di acquisire delle conoscenze nella sua esperienza umana; malgrado tutti i suoi limiti, la conoscenza umana e ad immagine della scienza divina. La realtà dell'attività creatrice e dell'onniscienza divina nel Cristo non portano affatto a dedurre che l'attività di creatura e la conoscenza umana siano ridotte a delle apparenze. L'esperienza umana ha la sua realtà propria e il suo valore proprio: e una esperienza realmente fatta dal Figlio di Dio, esperienza che la sua sola divinità non gli avrebbe permesso di fare. Tale è l'importanza dell'affermazione delle due nature. Inoltre, e rispettando la natura umana che il mistero dell'Incarnazione redentrice la può trasformare. L'opera della salvezza non consiste nel rovesciare tutto per poi risollevare tutto, ne nell'annientare al fine di fare del nuovo. Essa non disprezza nulla di ciò che esiste, ed e al cuore della realtà esistente che essa opera di nuovo. Il Verbo dunque prende la condizione umana con tutto ciò che essa comporta; egli si fa carne, ossia prende la natura d'uomo con la realtà carnale che sembrava la più lontana da "Dio. È così che apre a questa realtà carnale la via della salvezza e della divinizzazione. Ritroviamo qui il principio così spesso affermato nella tradizione patristica: « ciò che non e stato assunto non e stato salvato ». Ma lo ritroviamo sotto l'angolo del rispetto che questa assunzione implica, per il Figlio di Dio, nei riguardi della natura umana. Dio non ha voluto salvare e divinizzare che rispettando ciò che salvava e di9 È in nome di questa contraddizione che Schoonenberg respinge la dualità d'operazione affermata dal III concilio di Costantinopoli: Ein Gott, 97-98. 10 Si è notato che in Lutero vi era un dualismo che opponeva radicalmente l'ordine di Dio e l'ordine dell'uomo, e che questa opposizione colpiva il Cristo stesso, anche se l'affermazione religiosa della salvezza come atto di Dio, introduceva nella sua cristologia, con il ripiego della soteriologia. un sapore monofisita (cfr. CONGAR, Regards et reflexions sur la christologie de Luther, 484-5). Ugualmente in Calvino si constata l'accento sulla distanza fra Dio e l'uomo: « Il fondamento della cristologia di Calvino risiede nell'assoluta differenza d'essere fra Dio e l'uomo, l'allontanamento infinite fra Dio e la creatura, particolarmente la creatura peccatrice » (J. L. WITTE, Die Christologie Calvins, ibid., 524). In maniera generale l'insistenza eccessiva su Dio come il Tutt'Altro tende a dislocare l'Incarnazione. 203 vinizzava; e l'ha rispettato al punto da appropriarselo nella persona del Figlio. Dualità di natura significa dunque, essenzialmente, valore inalienabile della natura umana espressamente riconosciuto da Dio. La dualità e voluta a questo titolo dal disegno divino. Il teologo dunque non dovrebbe sentire ne disagio, ne vergogna di affermare questa dualità. La formula di Calcedonia « in due nature » non e di quelle che dovrebbero suscitare un malessere. Essa esprime l'intenzione fondamentale di Dio, di mettere pienamente in valore la natura umana nella sua più umile realtà . Come l'affermazione di un'unica persona, essa ha un senso positive. La dualità rimane irriducibile, abbiamo detto, ma resta il fatto che non si può mai separare dal principio d'unità che si trova nella persona e che fa si che il Cristo sia veramente uno nella sua divinità e nella sua umanità. C) IL RAPPPORTO D'ESPRESSIONE FRA NATURA DIVINA E NATURA UMANA 1. L'umanità di Gesù, immagine o espressione Se le due nature sono in pari tempo distinte e unite, rimane da qualificare con più precisione il rapporto che hanno fra loro. Evidentemente il problema non si può risolvere in maniera astratta. Il rapporto fra natura divina e natura umana non può essere definite che sulla base delle indicazioni evangeliche. Ritorniamo alle parole di Gesù che illuminano tutto il senso della sua rivelazione: « Chi ha veduto me, ha veduto il Padre » (Gv. 14, 9). Queste parole enunciano il rapporto che esiste fra la persona di Gesù e quella del Padre, e non propriamente un rapporto fra natura umana e natura divina. Nondimeno, esse implicano quest'ultimo rapporto. In effetti l'identità e affermata fra il fatto di ve11 La vita corporale rappresenta qui « uno dei numerosi casi in cui un termine giovanneo deve comprendersi simultaneamente sul piano dell'esperienza sensibile e su quello delle realtà spirituali » (I.
de la POTTERIE, La verite dans saint Jean, Roma 1977, I, 77). Si tratta di uno sguardo animate dalla fede, di uno scuardo che percepisce il trascendente attraverso ciò che è materialmente visibile. Ciò che soprattutto occorre ritenere del verbo «vedere» è l'obiettivita di ciò che è colto dallo sguardo. Non si tratta di una stima soggettiva, ma di un oggetto che s'impone alla vista, sebbene la sua percezione in profondità implichi la disposizione soggettiva di fede. 204 dere visibilmente Gesù e il fatto di vedere il Padre invisibile. Questo significa che vedere l'uomo Gesù e identicamente vedere Dio ", e che per conseguenza la natura umana di Gesù esprime visibilmente la realtà invisibile della natura divina. È così che Gesù è l'« immagine del Dio invisibile » (Col. 1, 15). 11 rapporto fra le due nature appare dunque come un rapporto d'espressione o di manifestazione visibile. Suppone che la natura umana sia capace di tradurre, in linguaggio e gesti umani, la realtà divina. L'espressione comporta una certa esteriorizzazione; quando si produce a semplice livello dell'attività umana, essa esprime, attraverso la realtà esteriore del corpo, la realtà più interiore dello spirito. Il linguaggio, i gesti, gli atteggiamenti, rivelano il pensiero e i sentimenti. Nel caso singolare di Cristo vi e, oltre l'espressione umana che si trova in ogni uomo in virtù dei rapporti del corpo e dello spirito, un'espressione a livello più fondamentale. Tutto ciò che e umano in Gesù, anima e carne, esprime la realtà nascosta di Dio: non solo il suo linguaggio umano esprime il suo pensiero umano, ma questo esprime il pensiero divino; anche le sue emozioni e sentimenti umani esprimono gli affetti di Dio stesso. è quest'espressione che costituisce la rivelazione apportata da Cristo all'umanità. La rivelazione non si opera al di fuori di questa espressione. Non vi sono nel Cristo quelli che si potrebbero chiamare due piani di rivelazione, uno che sarebbe quello della sua natura umana, e l'altro quello della natura divina 12. Questa natura divina non appare direttamente al di fuori della sua espressione nella natura umana. Così la coscienza divina non appare direttamente nelle parole di Gesù, nemmeno nel suo « lo^sono » 13; essa non si rivela che con 12 Questa esclusione di « due piani » e stata fatta con ragione da teologi non calcedoniani, ma essi ne hanno concluso, in modo inaccettabile, una negazione delle due nature. Citiamo Schoonenberg: «Noi non possiamo indicare in Gesù qualche cosa di divino che non sarebbe realizzato nell'uomo e (tratto) dall'umano» (Jezus Christus vandaag dezelfde, in Geloof bij kenterend Getij, 178). È vero che nel Cristo non vi sono due rivelazioni sovrapposte, l'una propria alla natura divina, l'altra alla natura umana. La natura divina non si rivela che esprimendosi nella natura umana. Ma non si può ridurre la realtà divina di Gesù alla sua realtà umana. 13 Bisogna sottolineare la differenza fra coscienza divina e coscienza dell'identità divina. L'espressione «coscienza divina», con la quale certi autori designano la coscienza umana della persona divina (cfr. V. TAYLOR, La personne du Christ dans le Nouveau Testament, Parigi 1969, 155) non è esatta ed espone a degli equivoci. 205 la mediazione della coscienza umana. L'amore divino non si dona immediatamente nei gesti di Gesù; questi esprimono un amore umano che e espressione e rivelazione dell'amore di Dio. Se la natura umana e atta ad esprimere la natura divina e a rivelarla, e in ragione di una somiglianza fondamentale. Questa somiglianza e affermata nei racconto biblico della creazione: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, come nostra somiglianza » (Gn. 1, 26). È degno di nota che la somiglianza non sia attribuita che all'uomo 14: le altre creature non ricevono questa qualifica, sebbene anch'esse abbiano una certa similitudine con colui che le ha create. Per l'uomo la somiglianza e più caratteristica; l'uomo e immagine, riflesso del Creatore,'al punto che si riconoscano in lui i tratti distintivi di Dio. È destinato a dominare il mondo create, perché ha ricevuto intelligenza e volontà. E grazie al suo spirito che porta l'immagine più somigliante di Dio. In ragione di questa somiglianza la natura umana di Gesù ha la capacita d'esprimere, nelle attività e manifestazioni dell'esistenza terrena, ciò che e nascosto in Dio. Non si può voler esaltare l'uomo Gesù rifiutandogli l'attribuzione della natura divina, come se questa natura divina implicasse necessariamente una diminuzione dell'umano. Sarebbe supporre che la natura divina, per agire e svilupparsi, non potesse esprimersi in una natura umana integrale, che la comprimerebbe o la soffocherebbe. Infatti non vi e alcuna incompatibilità, alcuna mancanza d'armonia; tutto ciò che e umano in Gesù e portatore di rivelazione. Escludere da Gesù la natura divina sarebbe togliere alla sua natura umana il più alto valore che possiede, quello di esprimere il divino in una persona che e nello stesso tempo Dio ed uomo. 2. Il Figlio dell'uomo Per illuminare maggiormente il rapporto d'espressione fra natura divina e natura umana, si può notare che la somiglianza enun-
14 Sul contenuto precise di questa somiglianza, le interpretazioni sono state diverse. Ma il fatto stesso della somiglianza con Dio, e il suo legame con il dominio sul resto della creazione, sono incontestabili. Cfr. C. WESTERMANN, Genesis, I (Biblischer Kommentar. Altes Testament, I, 1), Neukirchen-Vluyn 1974. 203-222. Alcuni esegeti hanno insistito sulla qualità di rispondente conferita da Dio all'uomo, creatura con la quale può dialogare. Questa qualità testimonia l'eccellenza della somiglianza che permette il dialogo. 206 data nei racconto biblico della creazione si imparenta alla somiglianza che risulta dalla generazione. Nell'uomo si discerne il volto di Dio, come in un figlio si discernono i tratti del padre che l'hanno generate. L'autore del Genesi riporta che Adamo « genero un figlio a sua somiglianza, come la sua immagine » (Gn. 5, 3). Quando Luca presenta la genealogia di Gesù, risale fino all'origine dell'umanità per giungere, attraverso le generazioni umane, fino a Gesù che e figlio « d'Adamo, di Dio » (3, 38) K. Egli porta la somiglianza di tutti gli uomini che sono suoi antenati, e questa somiglianza prodotta dalla generazione umana ha per prima origine la somiglianza con Dio operata dalla creazione. Essendo figlio d'Adamo, ossia figlio dell'uomo, egli e figlio di Dio. Lo e in un senso eccezionale, unico, che ha evocato lui stesso quando si e designate come il « Figlio dell'uomo ». Questa autodesignazione presuppone giustamente una somiglianza fondamentale fra l'uomo e Dio, di modo che « Figlio dell'uomo » possa essere l'espressione umana di « Figlio di Dio ». Nella visione inaugurale di Ezechiele, l'apparizione di Dio e descritta sotto la forma di una « sembianza d'uomo », che siede su di una somiglianza di trono (1, 26). Questa figura era stata preceduta dall'apparizione di animali: questi non erano che una rappresentazione preliminare, una introduzione alla manifestazione suprema dell'apparenza d'uomo che li dominava dall'alto e che è identificata alla gloria di Yahwé. La rappresentazione dell'essere misterioso di Dio e riservata all'uomo, che solo ne e la degna immagine. Un procedimento analogo si trova nella visione apocalittica di Daniele: dopo l'apparizione di quattro bestie che simbolizzano quattro re, si produce l'apparizione di Dio stesso sotto la figura di un vegliardo, l'Anziano dei giorni, e la venuta sulle nubi del cielo di colui che e descritto « come il Figlio dell'uomo » (7, 9-14). Questo Figlio dell'uomo si avvicina all'Anziano come un figlio si avvicina a suo padre. La teofania propriamente detta si fa sotto forma umana. Se la figura dell'uomo e specialmente destinata a rappresentare Dio, la figura del « Figlio dell'uomo » sembra indicare colui che e Figlio di Dio. È quello che e ancor più manifesto nei libro di Enoch, in cui 15 Osservando l'universalismo della genealogia di Luca, paragonata con il particolarismo di quella di Matteo, J. Ernst osserva: « Il titolo così significative per i sinottici " il Figlio dell'uomo " si riflette nella genealogia di Luca » (Das Evangelium nach Lukas, Regensburg 1976, 157). 207 il personaggio del Figlio dell'uomo è presentato nella situazione di Figlio trascendente che condivide i poteri del Signore degli spiriti, ossia di Dio. Alla base di queste rappresentazioni si trova dunque la convinzione della similitudine essenziale che esiste fra Dio e l'uomo: e questo che autorizza la rappresentazione specifica di Dio sotto l'apparenza di un uomo, e quella del Figlio di Dio sotto i tratti di un figlio d'uomo. Quando Gesù si chiama « il Figlio dell'uomo », impiega dunque un vocabolo che, in virtù della somiglianza fondamentale fra Dio e l'uomo, e particolarmente atto a designate il Figlio di Dio. A differenza dell'uso del vocabolo nell'Antico Testamento, non si tratta più di una semplice apparenza umana. Il Figlio dell'uomo non e più soltanto figura ma realtà umana.16 La scelta dell'espressione « Figlio dell'uomo » manifesta l'intenzione di sottolineare la realtà di figlio d'uomo come espressione della realtà invisibile di Figlio di Dio. 3. La concezione verginale, espressione dell'Incarnazione Il rapporto d'espressione fra divinità e umanità e messo in luce, sotto l'aspetto della generazione, dalla nascita verginale. La concezione di Gesù, operata dallo Spirito Santo nel seno della Vergine Maria, e un'espressione umana singolare della generazione divina del Figlio. Essa fa percepire meglio come nella sua origine Gesù e figlio dell'uomo essendo Figlio di Dio. Essa e concretamente la congiunzione di una filiazione divina e di una filiazione umana, essendo Gesù nato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine. Il racconto dell'annunciazione sottolinea la qualità di Figlio di Dio che deve appartenere al bambino in virtù di questa concezione: « Perciò il bambino sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio » (Lc. 1, 35}. In se, « Figlio di Dio » qui non designa la filiazione divina eterna che sarà affermata nella fede della Chiesa; l'espressione si riferisce alla filiazione che risulta dall'intervento dello Spirito Santo,
16 In Ezechiele Dio appare sotto la forma di una somiglianza d'uomo (« per evitare dei termini antropomorfici », osserva J. W. Wevers, Ezekiel, Aylesbury 1969, 49). La somiglianza fa comprendere che rimane uno scarto tra la forma visibile e la realtà di Dio. In Daniele il personaggio e descritto ugualmente « come » il Figlio d'uomo. È solo in Gesù che la distanza e superata. Non e più un « come » né una semplice somiglianza; egli è realmente uomo pur essendo Dio. 208 ossia la filiazione divina temporale, che concerne l'umanità di Gesù ". Ma senza dubbio Luca, parlando del nome di Figlio di Dio dato al bimbo, vedeva nella generazione temporale un segno della filiazione trascendente del Figlio. In ogni modo, e quello che la fede della Chiesa ha riconosciuto nella concezione verginale. La generazione temporale di un bambino che, avendo una madre vergine non aveva che Dio per padre, e stata ritenuta come il segno, l'espressione della generazione eterna del Figlio, Figlio nato da Dio solo 18. è questo rapporto d'espressione che non ha sufficientemente considerate Pannenberg quando ha posto una contraddizione fra il racconto della nascita verginale e la preesistenza divina del Figlio: « La leggenda della nascita verginale presenta fondamentalmente una contraddizione insolubile con la cristologia del Figlio di Dio preesistente, che si trova in Paolo e in Giovanni ». Egli precisa: « La filiazione divina non può nello stesso tempo sussistere nella preesistenza e aver la sua origine solo nella procreazione divina di Gesù nato da Maria » w. Cos! si oppone all'opinione espressa da Barth, che considera la nascita verginale come segno dell'Incarnazione.20 è vero che se la filiazione divina derivasse unicamente dalla concezione operata dallo Spirito Santo, sarebbe in contraddizione con la preesistenza. Ma ne il significato, ne l'intenzione dei racconti della concezione verginale sono stati quelli di presentare un Gesù la cui filiazione divina comincerebbe unicamente in quell'istante limitandosi ad una filiazione temporale. Il nome Emmanuele, « Dio con noi », applicato al bambino da Matteo (1, 23), indica piuttosto il contrario. Infatti, la generazione verginale operata dallo Spirito Santo o « la Potenza dell'Altissimo » e l'espressione, nel tempo e nella carne, della generazione divina del Figlio. Lungi dall'esservi opposizione, vi e armonia e somiglianza. Certo, vi sono differenze che la teologia susseguente noterà, in particolare l'intervento dello Spirito Santo nella generazione temporale, mentre la generazione eterna è unicamente opera del Padre. Ma la realtà essenziale di un Figlio che non ha che Dio per Padre, realtà divina, s'esprime e si manifesta nell'umanità con la generazione verginale. 17 Cfr. J. MUNOZ IGLESIAS, Lucas 1, 35 b, Estudios Bíblicos 28 (1969) 275-299. 18 Abbiamo gia analizzato questo significato della filiazione umana di Gesù in La conception virginale du Christ, Gr 49 (1968) 657-660. 19 Esquisse d'une christologie, Parigi 1971, 173. 20 Dogmatique, I, 2, 1, - 15, 3: « Le miracle de Noël», 159-189. 209 È quello che ha sottolineato la cristologia neotestamentaria più esplicita sulla preesistenza, quella di Giovanni. Nel Prologo, il Verbo che era Dio fin dall'inizio, e che e « Dio Figlio unico » (1, 18) e anche « colui che e nato non dal sangue ne dalla volontà della carne, ne dalla volontà dell'uomo, ma da Dio »21. Il Figlio unico di Dio ha manifestato la sua filiazione divina con una generazione verginale. Questo legame d'espressione fra filiazione divina e filiazione verginale riceve una conferma dal fatto che spesso coloro che non ammettono più la filiazione divina, abbandonano ugualmente l'affermazione della concezione verginale. Non vi e, certo, un'implicazione necessaria delle due affermazioni o delle due negazioni; si può ricordare la posizione di Hulsbosch che pur cessando di ammettere la filiazione eterna, ha perseverato nell'affermazione della concezione verginale come creazione eccezionale dell'uomo Gesù 22. D'altra parte, abbiamo notato l'opinione di Pannenberg, che afferma Gesù come Figlio di Dio ma parla della concezione verginale come di una leggenda. Le due negazioni non sono dunque assolutamente solidali. Ma nella cristologia non calcedoniana che abbandona la filiazione divina eterna di Cristo, si osserva una tendenza a non accogliere il racconto della concezione verginale che come un « teologumenon », un'interpretazione teologica, e non come la trasmissione di un fatto storico. La ripugnanza si concentra soprattutto sul realismo biologico della concezione verginale, che e giudicato caratteristico di un mito. Ora, questo realismo fisico appartiene all'Incarnazione, che e tutto il contrario di un mito. Esso dimostra come la venuta del Figlio dell'uomo esca dal quadro delle rappresentazioni apocalittiche. La realtà biologica della concezione verginale e l'espressione biologica della stessa Incarnazione. Si deve aggiungere che il ruolo d'espressione della filiazione divina nella generazione umana e assicurato dallo Spirito Santo. Go che fa l'originalità della concezione di Gesù, non e solo il suo carattere verginale, ma e anzitutto l'intervento eccezionale dello Spi21 Per la dimostrazione del singolare, cfr. la nostra opera Etre né de Dieu, Jean 1, 13, Analecta Biblica
37, Roma 1969. Le indicazioni dei testi giovannei sull'origine umana di Gesù e la concezione verginale, sono state analizzate da I. de la Potterie in La Mère de Jesus et la conception virginale du Fils de Dieu, Marianum 40 (1978). 22 Jezus Christus, 270 s. 210 rito Santo. Solo un'azione divina poteva far esprimere, con la concezione verginale, la filiazione divina23. È vero che da questo punto di vista si sarebbe potuto attendere un'attribuzione più diretta dell'azione generatrice alla persona del Padre. Se quest'azione e attribuita allo Spirito Santo, e perché essa non e la semplice ripetizione, nel piano umano e temporale, della generazione eterna in cui il Padre genera il Figlio. La generazione umana del Figlio si fa con un concorso umano, quello della Vergine Maria; il contatto dell'azione divina con la cooperazione umana, e più immediatamente compiuto dallo Spirito Santo. Più fondamentalmente ancora, la generazione deve esprimere il disegno d'amore divino sull'umanità da salvare, ed è lo Spirito che, essendo in Dio l'amore costituito in persona, ha la missione d'esprimere l'amore verso gli uomini nell'atto dell'Incarnazione. Sotto due aspetti dunque, lo Spirito Santo esprime l'amore divino nella concezione verginale: questo amore comanda il gesto dell'Incarnazione del Figlio e vuole realizzare la filiazione umana con un concorso umano. La persona che e comunione del Padre e del Figlio opera con l'Incarnazione la comunione di Dio con l'umanità. 4. Vertice della creazione Se si considera il valore d'espressione della natura umana di Gesù, si e portati a riconoscere in essa, ad un titolo unico ed eccezionale, il compimento della finalità della creazione. L'uomo, in Gesù, porta all'estremo limite la somiglianza con Dio che era stata voluta nell'atto creatore. In lui, per conseguenza, la creazione raggiunge il suo culmine. Gesù e l'immagine perfetta di Dio essendo egli stesso il Figlio di Dio che esprime la divinità nella sua vita umana. In lui, l'uomo e ricreato nella sua integralità. Non solo non vi e in lui nessun ostacolo alla somiglianza, per il fatto che e esente dal peccato; il male non può raggiungerlo, ne scavare una distanza fra Dio e la sua immagine umana. Ma sopra ogni cosa, la sua persona, 23 La venuta dello Spirito «da all'uomo capacità di fare delle azioni, senza esso, impossibili (Ez. 36, 27), facendo della maternità di Maria una maternità non più solamente umana, ma divina: ciò che diviene in lei sarà chiamato Figlio di Dio » (H. CAZELLES, L'Esprit Saint et l'Incarnation d'après le développement de la révélation biblique, in Le Saint Esprit et Marie, II, Bible et Spiritualités, Parigi 1969, 18). 211 unendo natura divina e natura umana, può fare della sua vita umana la più alta espressione creata della divinità. Affermando che in lui la creazione raggiunge il culmine, non dimentichiamo che questo culmine sorpassa tutto ciò che il solo atto creatore, in se stesso, voleva realizzare. L'umanità di Gesù si situa nel prolungamento della finalità della creazione, ma un prolungamento talmente superiore, che e interamente dovuto ad un dono gratuito. La creazione non esige Gesù. Ma la creazione s'inserisce in un disegno di grazia che fa arrivare l'atto creatore all'uomo in cui la somiglianza divina si realizza e si rivela in modo perfetto. Questa somiglianza e presente in tutti i dettagli e in tutti i momenti dell'esistenza umana di Gesù. Non vi sono circostanze in cui l'uomo esprima meno bene la divinità, nel corso di questa esistenza. Talvolta e stato detto che la passione nasconde la divinità di Gesù. È vero che la divinità vi e nascosta, come in tutta la vita umana di Gesù, ma essa vi si esprime bene pur nascondendosi. L'espressione della natura divina per mezzo della natura umana non consiste dunque in un irraggiamento di pur a luce, in uno splendore glorioso. Essa si esprime come un mistero che si rivela, comportando necessariamente un aspetto d'oscurità. L'immagine umana e sempre inferiore alla realtà che essa riflette ed esprime. Ma in Gesù questa immagine esprime, per quanto possa farlo una vita umana nella sua condizione terrestre ed ordinaria, il mistero trascendente di Dio. Nella sua sofferenza il Cristo non e meno immagine di Dio di quanto non lo sia nel resto della sua esistenza. Al momento della sua passione, noi percepiamo più vivamente a qual punto egli sia uomo, sottomesso alle prove che segnano ogni vita umana. E anche quando la sua sofferenza raggiunge un grado estremo, constatiamo che la sua divinità non gli ha valso nessun privilegio di sottrazione al dolore, nessuna « dispensa » o attenuazione del dramma esteriore ed intimo. La parola di Pilato: « Ecco l'uomo » (Gv. 19, 5), sottolineando la debolezza e l'impotenza di Gesù, ha il vantaggio di mettere in luce il volto dell'umanità affranto dalla prova. Ora, nel momento in cui vive tutta la profondità dell'esistenza umana nella sofferenza, Gesù e più
particolarmente l'immagine di Dio. La parola: « Ecco l'uomo » si deve intendere secondo il disegno divino: « Ecco colui che e la somiglianza di Dio ». Nell'accusato che si schernisce, appare il volto di Dio che subisce le accuse degli 212 uomini, che e messo in ridicolo e che tace astenendosi dal rispondere agli oltraggi M. 5. Pienezza umana di Gesù nell'espressione Il ruolo d'espressione non significa, sottolineiamolo, che la natura umana sia divenuta in Gesù una specie di strumento della natura divina. Uno strumento e impiegato per ottenere un risultato che gli e esteriore, ed e abbandonato dopo l'uso. Ora la natura umana appartiene definitivamente alla persona del Figlio di Dio; essa non e un mezzo in vista d'altro25. L'uomo non e una realtà attraverso la quale passerebbe il movimento dell'Incarnazione per arrivare ad una tappa ulteriore: esso costituisce lo scopo dell'Incarnazione. Essendo ]'espressione del divino, l'umanità di Gesù non si lascia strumentalizzare; essa acquista la pienezza del destino umano. È l'uomo ideale che essa realizza in maniera concreta. Perciò il rapporto d'espressione non significa nemmeno che l'umanità di Gesù sarebbe semplice trasparenza nella rivelazione della sua divinità. È in quanto uomo vero che Gesù rivela il Dio vero. I suoi atteggiamenti visibili prendono dunque tutta la loro consistenza nella loro densità propriamente umana. Cosi, per esprimere l'amore divino che va incontro agli uomini e vuole salvarli, Gesù manifesta un amore umano che si colora delle 24 C. K. Barren nota che la dichiarazione di Pilato implica dei contrasti sorprendenti: 1 - Gesù e vestito da re e annunciate come l'uomo. 2 - Al v. 7 la sua pretesa d'essere il Figlio di Dio è menzionata. 3 L'uomo annunciate da Pilato, con pietà e disprezzo, era per i lettori del Vangelo, il loro Signore e il loro Dio (The Gospel according to St John, Londra 1962, 450). Tuttavia, se Giovanni riporta questa parola di Pilato, è perché, per lui, questa parola c'introduce nella rivelazione di Gesù. Non vi sono solo i contrasti, vi è il fatto più essenziale, che quest'uomo ci mostra ciò che è Dio. Perciò l'« uomo » ha tutto il senso terrestre umano (e non l'« uomo celeste ». come suggerisce Barren), ma attraverso l'uomo si esprime la divinità. R. Schnackenburg ritiene che per Pilato, la parola significava semplicemente « l'uomo», « quest'uomo pietoso», ma che per Giovanni tutto l'episodio aveva un senso più profondo (Das Johannesevangelium, III, Friburgo 1975, 296). Infatti, i contrasti ci fanno comprendere meglio quanto sia sorprendente questa rivelazione di Dio in Gesù. 25 Il contrasto fra espressione e strumento è stato sottolineato da H. Urs von Balthasar. Questo autore rimproverà alla nozione di causalità strumentale, applicata all'umanità di Gesù, il suo carattere di esteriorità (cfr. G. MARCHESI, La cristologia di Bans Urs von Balthasar, Roma 1977, 204-205). La nostra critica verte su un altro aspetto, quello della finalità: strumento indica mezzo in vista di un fine; e l'umanità di Gesù non è un mezzo. 213 circostanze della sua esistenza umana. Non si serve semplicemente di queste circostanze, ma risponde all'ambiente reale della sua vita, ai problemi posti dalle persone che lo circondano. Quando protegge la donna adultera, rivela l'amore misericordioso di Dio per i peccatori, ma la presenza di questa donna non e per lui una semplice occasione di rivelazione. Vuole agire nel contesto umano in cui l'hanno posto coloro che gli hanno condotto la donna, e portare una soluzione di principio al caso individuale che gli si offre. Ugualmente, l'emozione provata da Gesù davanti al dolore di coloro che piangono Lazzaro non ha nulla di preparato; la sua spontaneità e stata ben notata dall'evangelista: « Quando vide Maria singhiozzare e singhiozzare anche i giudei che l'accompagnavano, Gesù fremette interiormente e si turbo » (Gv. 11, 33)26. Questo turbamento all'inizio e discrete, ma poi Gesù non può più trattenere le lacrime. Non vi e soltanto una dimostrazione esteriore: il dolore testimonia la compassione per il dolore altrui e l'amicizia profonda che lega Gesù a Lazzaro. È così che la sua emozione e stata interpretata da coloro che la constatavano: « Come l'amava! » (Gv. 11, 36). Ora, con quest'amore, Gesù voleva esprimere il mistero dell'amore divino che 26 Il verbo greco, che nelle antiche versioni e stato tradotto: « egli fremette», e interpretato dalla maggioranza dei commentatori moderni, seguendo Origene e i Padri greci, come significante « fu preso da collera ». così per esempio, Schnackenburg afferma che e inutile prendere delle deviazioni per evitare questo senso (Das Johannesevangdium, II, Friburgo 1971, 420). Tuttavia, questi commentatori sono molto imbarazzati quando si tratta di precisare il motivo della collera di Gesù. Taluni parlano di una rivolta di Gesù contro questo spettacolo di dolore; Schnackenburg giudica più verosimilmente che Gesù si irriti per la mancanza di fede di coloro che gli sono attorno. Ma non si capirebbe come mai Gesù si irriti davanti al dolore altrui quando lui stesso si mette a piangere; non si vede nemmeno che si tratti di collera di fronte alla mancanza di fede, perché il testo qui non parla di mancanza di fede; quello
che ha fatto impressione su Gesù e il pianto di Maria e degli altri. Infatti il verbo significa esattamente borbottare, aveva notato M. J. Lagrange (Evangile selon saint Jean, Parigi 1925, 304), che reagiva contro l'interpretazione più corrente. Il borbottio esprime spesso la collera, ma può anche esprimere altri sentimenti interior!. Secondo il contesto, il borbottio manifesta la resistenza che Gesù ha voluto opporre al contagio del dolore, ma una resistenza che si sente sommersa da questo spettacolo troppo struggente. È così che Gesù e pervaso dal turbamento. Meno accettabile in questo commento di Lagrange e l'osservazione: «Che questo turbamento sia stato volontario, come tutte le emozioni di Cristo, la teologia lo insegna», senza d'altronde che questo sia stato espresso da Giovanni (ibid., 305). Sarebbe un errore pensare che tutte le emozioni di Gesù fossero scattate dalla sua volontà. Essendo uomo, Gesù era spontaneamente commosso come gli altri. Non ha voluto essere turbato; e stato turbato suo malgrado e malgrado uno sforzo per dominarsi: questo turbamento dimostra a qual punto egli faccia esperienza della debolezza umana. Ha provato la forza delle emozioni inerenti alla sua natura umana. 214 si avvicina alle sofferenze umane, se ne commuove e si propone di trasformarle in gioia. Quest'amore sovrano e compassionevole di Dio, egli lo rivela con dei sentimenti profondamente umani. Le sue lacrime sono l'espressione umana di ciò che si può chiamare la sensibilità di Dio di fronte alle disgrazie degli uomini27. Pure umana e la reazione di collera di cui è animate davanti all'ostilità insidiosa dei suoi avversari che cercano di servirsi dei miracoli di guarigione per metterlo sotto accusa. Si sa che soltanto Marco ha notato questa collera; gli altri evangelisti hanno omesso di menzionarla, probabilmente perché la giudicavano un sentimento indegno di Gesù. « Giro su di essi uno sguardo di collera, accorato per l'indurimento del loro cuore » (Mc 3, 5). Questa disposizione di collera dimostra fino a qual punto Gesù sia umano28; ma esprime in pari tempo la collera di Dio davanti all'indurimento di quelli che gli si oppongono. Essa rivela il significato finale di questa collera, quello di un amore compassionevole che si rattrista per l'ostinazione degli avversari. Quello che effettivamente suscita in Gesù l'indurimento del quale è testimone, è una tristezza ispirata dalla simpatia. Egli rivela la simpatia divina nei riguardi dei peccatori, simpatia che si rattrista di trovare degli ostacoli ad una bontà che vorrebbe effondersi.29 Noi verifichiamo così il principio che caratterizza il rapporto d'espressione. Gesù non deve essere meno uomo per fare emergere la sua divinità; più si comporta da uomo vero, più manifesta Dio. La rivelazione della divinità non deve essere ricercata in contrasto con l'umanità di Gesù, ma in questa umanità stessa. Gesù esprime Dio con tutto il suo essere umano; esprime la parola di Dio col suo linguaggio umano e compie i gesti di Dio col suo comportamento d'uomo. 27 Il punto essenziale della rivelazione apportata qui da Gcsù e che Dio non e insensibile, e che il dolore umano lo tocca nel suo amore. Nell'emozione manifestata per la morte di Lazzaro, appare la simpatia che anima profondamente Dio nei riguardi degli uomini che soffrono. 28 La menzione della collera e assente dai paralleli di Matteo e di Luca; essa attesta il carattere primitive del racconto di Marco (cfr. TAYLOR, Mark, 223). 29 Si deve notare questa rivelazione dal fondo stesso della reazione di Dio davanti al peccatore: la collera non e che la forma più vigorosa che prende un amore che, rattristato davanti all'ostilità, accentua la sua simpatia e vorrebbe provocare un cambiamento d'atteggiamento, una conversione. È questo che lo sguardo umano di Gesù fa comprendere, come viene descritto dall'evangelista. 215 D) L'lMPEGNO DELLA PERSONA DIVINA NELLA VITA UMANA 1. Impegno delta persona divina ed espressione Se il rapporto fra le due nature e un rapporto d'espressione, il rapporto fra la persona divina e la natura umana e un rapporto d'impegno. Osserviamo anzitutto che il rapporto d'espressione fra le due nature implica questo impegno della persona. In effetti non e direttamente la natura divina, come tale, che si esprime nell'umanità di Gesù. È la persona del Figlio che, avendo una natura divina, esprime la sua divinità nella sua umanità. L'espressione e opera della persona. Il soggetto che esprime non e la natura ma la persona. La natura non si esprime dunque che con l'impegno della persona. Questo non comporta che la natura divina sia unicamente oggetto dell'espressione. Questa natura non e passiva; essa agisce nell'espressione, né è un principio. Ma essa non agisce che in virtù dell'impulso del soggetto personale che è il Figlio. Solo il Figlio si e incarnato e solo lui ha personalmente rivelato la sua divinità esprimendola in una vita umana. Quindi e in funzione dell'impegno della persona che si giustifica il rapporto d'espressione fra natura divina e natura umana. Quest'espressione riveste una modalità essenzialmente filiale. Quando si dice
che l'uomo Gesù e l'immagine visibile del Dio invisibile, si deve aggiungere che è un'immagine filiale, perché il Dio che si esprime in lui e Dio il Figlio. Non e il Padre che si esprime direttamente nell'umanità di Gesù. Non si può dimenticare la parola fondamentale gia commentata: « Chi ha veduto me, ha veduto il Padre » (Gv. 14, 9). Essa c'illumina sulla portata rivelatrice della vita umana di Gesù. Ma essa deve essere ben compresa: quando si vede il Padre in Gesù, come si riconosce un padre in suo figlio, e in virtù di una somiglianza essenziale che non cancella la differenza fra paternità e filiazione, fra l'identità personale del Padre e l'identità personale del Figlio. In Gesù si vede anzitutto e direttamente il Figlio agire umanamente, poi in questo Figlio si riconosce il volto del Padre. Gesù ha assunto degli atteggiamenti filiali caratteristici, che non potrebbero essere considerati, nella loro qualità specificamente filiale, come espressioni del Padre. L'invocazione « Abbà » manifesta 216 il suo amore filiale; in questo appellativo umano familiare, bisogna osservare tutta la forza del suo amore umano verso il Padre: quest'amore rivela l'amore divino pur rimanendo strettamente l'espressione dell'atteggiamento divino del Figlio. La coscienza di essere venuto dal Padre e di andare verso di lui, illumina tutta la sua esistenza ponendola in una prospettiva filiale. Gesù si comporta come colui che riceve tutto dal Padre e vuol ricevere tutto da lui; egli vive in una continua disposizione di fiducia nei suoi riguardi che si accompagna ad una libertà interiore e ad una profonda serenità. D'altra parte la sua personalità filiale si esprime nell'obbedienza alla volontà del Padre, ai suoi precetti, obbedienza che e stata provata più dolorosamente nell'angoscia del Getsemani, ma che ha trovato la sua ultima manifestazione nell'abbandono del suo spirito fra le mani del Padre, nell'istante della morte. è questa disposizione propriamente filiale che fa dell'uomo Gesù, del « Figlio dell'uomo », il modello di tutti gli uomini nelle relazioni filiali che sono destinati a sviluppare nei riguardi del Padre. Gesù ha potuto essere esempio dell'atteggiamento religiose più fondamentale dell'umanità perché era il Figlio e si esprimeva come Figlio in tutto il suo comportamento umano30. Rivelando il Padre, Gesù rivela dunque agli uomini la maniera di comportarsi verso di lui; egli esprime ciò che deve essere una vita filiale. Quest'espressione filiale sarà fondamento e modello di un nuovo atteggiamento dell'uomo verso Dio, di una religione volta verso il Padre. 2. Valore dell'impegno personale del Figlio è più particolarmente dal punto di vista dell'impegno di Dio che appaiono le deficienze della cristologia non calcedoniana. Ciò che caratterizza la rivelazione di Cristo nella differenza con la rivelazione dell'antica alleanza, e che essa non consiste più nella semplice manifestazione che Dio fa ad un uomo, profeta o mediatore, del suo pensiero e della sua volontà; essa è l'impegno del Figlio 30 Si osservi la differenza di ottica con le cristologie non calcedoniane. Diversi autori vi hanno sottolineato il valore dell'obbedienza o della libertà di Gesù, ma attribuendo a quest'atteggiamento umano un valore costitutivo di filiazione: Gesù meriterebbe di essere chiamato il Figlio di Dio in ragione della sua obbedienza o della sua libertà, di cui e un modello. Tuttavia. non ammettendo che questa filiazione umana, essi abbassano considerevolmente il valore dell'obbedienza e della libertà di Gesù: questo valore risulta dal fatto che obbedienza e libertà sono quelle del Figlio di Dio che esprime la sua relazione filiale col Padre nella sua vita umana. 217 di Dio che rivela la sua persona divina con la sua presenza nell'ambiente degli uomini e che apporta in maniera più immediata all'umanità la parola divina. Questa differenza era gia stata giudicata essenziale dall'autore della lettera agli Ebrei: « Dio, dopo aver parlato, molte volte e in diversi modi, nei tempi antichi, ai padri per mezzo dei profeti, ora alla fine dei giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio»(l, 1-2)31. La formula che definisce la posizione delle cristologie che si vogliono più antropologiche: « Gesù e l'uomo nel quale Dio agisce e si rivela » segna un ritorno al tipo di rivelazione del giudaismo. Ciò che fa il valore unico e ineguagliabile della rivelazione cristiana, l'impegno personale di colui che e Dio, viene misconosciuto. Se Gesù non e più il Figlio di Dio, la rivelazione che ci apporta il Vangelo perde ciò che ne fa il suo pregio, la persona divina del Figlio che vivendo fra gli uomini mostra loro che cosa e Dio. L'affermazione, così spesso ripresa da diversi autori, che Gesù non predicava se stesso, ma che predicava il regno di Dio, si comprende più particolarmente da parte di coloro che non riconoscono in lui il Figlio di Dio. Se non fosse state che un uomo, Gesù non avrebbe potuto mettersi al centro della sua predicazione. Invece, e proprio un posto centrale che ha voluto occupare nel suo messaggio. La venuta del regno coincideva con la sua venuta, e la nuova fede che richiedeva era una fede nella sua persona. L'essenziale della sua rivelazione è stata la sua persona di Figlio di Dio, venuto per salvare l'umanità.
Lo stabilirsi del regno di Dio si e operate per l'impegno della persona divina del Figlio nella vita del mondo. Questo impegno non si limita all'attività d'espressione, di rivelazione. Esso manifesta l'amore divino del quale fa scoprire l'intenzione di benevolenza e di prossimità, ma fa più che manifestarlo; egli compie lo scopo supremo 31 «Da un lato, tutti gli ispirati e messaggeri di Dio nell'antica alleanza, dall'altro il suo proprio Figlio», commenta C. Spicq. L'espressione impiegata, egli aggiunge, « non sottolinea tanto l'identità del Rivelatore che la preesistenza celeste di Gesù, la sua relazione assolutamente unica a Dio suo Padre ». Secondo la parafrasi di Westcott, si potrebbe tradurre: «Qualcuno che e Figlio» (L'epître aux Hebreux, Parigi 1953, I, 4). È la sua qualità di Figlio che rende la sua rivelazione incomparabilmente superiore a quella che era venuta prima dalla molteplicità dei profeti. 218 di questo amore, con il dono di se nel sacrificio redentore. La finalità dell'Incarnazione non e semplicemente quella di far conoscere Dio all'umanità, ma di comunicare a questa umanità la vita divina liberandola dal peccato ed aprendole un nuovo destino. Quelli che riducono Gesù alla statura d'uomo, negandogli una personalità divina, tolgono all'opera redentrice il suo valore più profondo. Tutte le descrizioni che allora si possono fare per rappresentare Gesù nella sua vita e nella sua morte, restringono :' suo impegno a quello di un uomo. Da ciò deriva che le dimensioni dell'opera di salvezza compiuta da Gesù sono considerevolmente diminuite. Anche se si sottolinea la grandezza delle qualità umane di Gesù e l'eroismo del suo comportamento, non si tratta che di un uomo. Rimane da considerare che in queste condizioni Dio non impegno se stesso nell'opera redentrice; impegna qualcun altro. Non si può più vedere nella presenza di Cristo il massimo impegno dell'amore divino. Non si può più riconoscere il Padre che da il suo unico Figlio agli uomini, ne il Figlio che dona se stesso. Solo l'impegno della persona divina in una vita umana conferisce alla missione di salvezza la sua vera portata. Solo questo impegno realizza il dono supremo di Dio, spingendo fino in fondo l'amore portato al mondo. Solo esso assicura all'opera compiuta da Gesù un'efficacia che supera le possibilità umane, efficacia divina che consiste in una nuova creazione e in una divinizzazione dell'umanità. 3. La croce, termine ultimo dell'impegno e dell'espressione Se e vero che tutti i momenti della vita di Gesù hanno avuto un valore d'impegno della sua persona di Figlio e d'espressione della sua divinità, e che non vi e mai stato da parte sua ne una parola ne un gesto che non fosse portatore di rivelazione, e la croce che ha segnato il momento dell'impegno più intense e dell'espressione più completa. La croce non e stata un accidente, ne la semplice interruzione della vita umana di Gesù; essa e stata il culmine verso il quale si orientava tutta la sua vita. Gesù stesso ne aveva coscienza, come lo mette in luce una frase pronunciata in un istante di turbamento, ossia nel momento in cui avrebbe potuto semplicemente cercare di sottrarsi alla sorte dolorosa che egli intravedeva: « Ma t per questo 219 che sono venuto, in vista di quest'ora » (Gv. 12, 27)32. Egli considerava l'ora della sua passione come quella del pieno impegno della sua venuta. La considerava ugualmente come l'ora della piena espressione di quello che era: « Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che lo sono » (Gv. 8, 28). Certo, ai suoi occhi, dietro l'elevazione sulla croce, si profila già l'elevazione gloriosa; ma il primo senso dell'elevazione e quello della croce che molto presto verrà drizzata: « Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo... ». È in quel momento che l'« lo sono » o il « Sono io » si farà conoscere. La personalità divina si rivelerà in quest'ora privilegiata. Questa rivelazione, sottolineiamolo, non si produrrà solo in virtù della risurrezione che manifesterà la vita divina di Gesù. Essa e gia attribuita alla passione e alla morte. Qui risiede il paradosso: quello che sembra più debole nell'uomo, più caratteristico dei limiti dell'essere umano, della sua fragilità e della sua mutabilità, e ciò che fa apparire la divinità. Come e possibile questa rivelazione? Colui che e Dio rivela la sua divinità nel dramma della croce, perché dimostra come nella sofferenza, l'amore divino s'impegna fino in fondo. È l'impegno personale del Figlio di Dio nel dolore che fa comprendere fino a che punto Dio è amore. La scoperta di quest'impegno affiora nelle parole del centurione: « Veramente quest'uomo era figlio di Dio » M. La verità che emerge nella passione e nella morte, e quella del32 La traduzione più abituale: «e per questo che sono arrivato a quest'ora» indebolisce il testo, che qui esprime lo scope della venuta, ossia dell'Incarnazione. Il « per questo » si determina, come in 18, 37, con quel che segue; « verso quest'ora » che chiarisce il « per questo », indica una finalità e non semplicemente una scadenza cronologica. L'aoristo «io sono venuto» si presta più specialmente ad indicate questa finalità della venuta. Si tratta dello scopo finale della missione, come lo nota I. de la Potterie (La verité dans saint ]ean, I, 101); questo scopo coincide con l'ora. Sembra d'altronde che
coincida anche con la testimonianza resa alla verità menzionata in 18, 37, poiché questa testimonianza, secondo il contesto del processo in cui Gesù sa che sarà condannato a morte, consiste essenzialmente nel suo sacrificio. 33 Me. 15, 39. Nella versione di Marco, «quest'uomo» mette l'accento sull'uomo inchiodato alla croce. Il centurione pronuncia queste parole dopo aver visto la maniera in cui Gesù e spirato (a differenza della versione di Matteo che parla di spavento davanti al sisma). È nell'uomo Gesù che percepisce la qualità di figlio di Dio, e più specialmente nella sua morte, con il grido lanciato verso il Padre. Non si tratta di una professione di fede cristiana come attesta l'imperfetto « era»; la prospettiva della risurrezione e assente, nota R. PESCH (Das Markusevangelium, Friburgo 1977, II, 500). 220 l'amore di Dio che soffre per l'umanità M. Un Dio che soffre ci sorprende, ma non si può indebolire il senso di questo mistero. Il sacrificio eroico della croce erge sotto gli occhi degli uomini l'« Io sono » di Gesù. Esso e l'espressione più sconvolgente, ma anche più profonda, di un Dio che avremmo troppo facilmente ritenuto incapace di ogni dolore, ma che e sempre differente da quello che avremmo immaginato. La croce diviene così il supremo insegnamento su Dio. In Gesù e un Dio che soffre e muore; e il Figlio che esprime fin dove giunge l'amore divino. Non solo dimostra che Dio e amore, ma attesta che questo amore arriva fino in fondo, senza risparmiare a se stesso la sofferenza. La parola « Tutto e consumato », riportata da Giovanni (19, 30), indica la conclusione della missione nell'abbandono della morte. Questa conclusione umana dell'amore che si dona, esprime il compimento del dono divino all'umanità. La pienezza dell'impegno umano, nella debolezza della morte e l'espressione della pienezza dell'impegno divino. Si tratta dell'impegno divino del Figlio, che si dona al massimo; ma questo stesso impegno e legato a quello del Padre, poiché l'amore consiste nel fatto che « Dio ci ha amati ed ha inviato suo Figlio in propiziazione per i nostri peccati » (1 Gv. 4, 10). 34 Su questo soggetto si conosce l'opera di J. MOLTMANN, Der gekreuzigte Gott, Monaco 1972. Prima, un teologo luterano giapponese aveva attirato l'attenzione sulla relazione dell'amore e della sofferenza in Dio: K. KITAMORI, Theology of the Pain of God, Richmond 1965 (traduzione dell'originale giapponese apparsa nel 1958). Noi abbiamo trattato del problema nell'opera: Il mistero della sofferenza di Dio, Assisi 1975. 221 Di fronte al dibattito cristologico contemporaneo, che cosa si può sperare nell'elaborazione di una cristologia che approfondisca la fede della Chiesa? Questa cristologia, come abbiamo sottolineato, non può limitarsi a ripetere quanto hanno detto gli antichi concilii; deve spingere in avanti la sua ricerca prendendo dalla Scrittura la sorgente viva delle sue considerazioni, e pur basandosi sulle definizioni infallibili in cui si e espressa la fede della comunità cristiana, deve andare oltre, scavando i problemi che pone il mistero di Cristo. Invece di contestare l'affermazione dell'unica persona divina, la cristologia e chiamata a scrutare più attentamente ciò che significa questa unità e in che cosa consiste la realtà della persona. Lungi dall'impoverire la coscienza di Gesù negando che sia stata coscienza dell'identità divina e della missione redentrice, essa cerca di comprendere meglio come Gesù abbia potuto prendere coscienza della sua identità e in qual modo si sia sviluppata in lui la coscienza della sua missione. Non deve limitarsi ad un'analisi d'essenze o di nature e dei loro rapporti, ma deve sforzarsi di scoprire tutto quanto implica l'atto dell'Incarnazione con gli aspetti dell'impegno di Dio nel mondo che questo atto comporta. Questi dunque sono i problemi dell'ontologia di Cristo, della sua psicologia, dell'opera divina di salvezza che si offrono a investigazioni sempre più profonde. Non vogliamo studiare qui questi problemi che già abbiamo considerate altrove, ma determinare i tratti caratteristici dell'elaborazione della cristologia nell'accostamento di questi problemi. Secondo quali orientamenti fondamentali si deve edificare oggi la cristologia? Infatti sono degli orientamenti permanenti, ma dei quali la nostra epoca prende più vivamente coscienza tramite le controversie. Cercheremo dunque di determinarli in maniera sintetica, come risultato di una riflessione globale in cui i temi più essenziali vengono passati in rassegna. 225 CAPITOLO XI ORIENTAMENTI ESSENZIALI A) CRISTOLOGIA ESISTENZIALE 1. Incontro esistenziale di Cristo La cristologia è e deve essere esistenziale perché essa consiste nell'incontro di Cristo con l'uomo che cerca d'approfondire la sua fede. Di per se la cristologia e una scienza; e uno sforzo dell'intelligenza che applica la sua attenzione al Cristo, studia quello che e stato e quello che ha fatto. Non vi è nessun'altra scienza che nella sua ricerca
impegni a questo punto tutta la personalità umana, perché essa vuole esplorare il senso dell'atteggiamento di fede cristiano, atteggiamento in cui tutte le forze dell'individuo sono interessate. Tutto l'uomo, secondo il suo destino più profondo, si sente implicate in una tale ricerca. Per questo motive, l'incontro di Cristo non è solo l'incontro di un'intelligenza con l'oggetto centro dello studio. È l'incontro di tutta la persona umana con colui al quale aderisce, incontro che si opera con un esperimento di percezione in cui l'orientamento di tutto il destino umano è messo in causa. A questo titolo si tratta di un incontro esistenziale, poiché si svolge nel cuore dell'esistenza umana. Sarebbe un disseccarla in maniera in tollerabile riducendola ad un'analisi astratta di concetti o d'essenze. La reazione contro un essenzialismo eccessivo che in certi periodi ha caratterizzato la teologia, ha il vantaggio di farci compren227 dere meglio la necessità di sviluppare una cristologia veramente esistenziale. Il Gesù presentato nei vangeli ci aiuta a non accontentarci di enunciati concettuali, ma a ricercare incessantemente quei tratti concreti della figura di Cristo che stimolano l'incontro. Tutta la cristologia tende ad incontrare il vero Cristo, e non alla ricostruzione di un Cristo che sarebbe rifatto su un modello prestabilito. Parlando di cristologia esistenziale non vogliamo affatto porre preliminarmente un modello d'uomo che sarebbe presentato da una filosofia esistenzialista e attraverso il quale bisognerebbe comprendere Gesù. Certi teologi hanno preso come base di partenza per la cristologia la concezione dell'uomo proposta dall'esistenzialismo di Heidegger.1 Ma la cristologia non può accettare un preliminare filosofico che imporrebbe i suoi limiti all'accoglimento dei dati della Rivelazione; essa non può avere per ideale di voler conformare il volto di Gesù ad un modello elaborato al di fuori di questi dati2. La stessa osservazione varrebbe, al di fuori di prospettive propriamente filosofiche, per altri modelli ripresi dall'esperienza umana e sociale, che si vorrebbero imporre alla ricerca cristologica: un Gesù campione della giustizia, un Gesù riformatore sociale, un Gesù rivoluzionario 3. Non si potrebbe neanche rinchiudere la persona di Gesù in una categoria del mondo religiose giudaico, come quella di profeta o di rabbino4. Il modello più generale dell'uomo contemporaneo non sarebbe maggiormente un modello accettabile per la comprensione di Gesù. Preconizzando una cristologia esistenziale vogliamo allontanare 1 Abbiamo discusso prima il modello trascendentale proposto da una cristologia sistematica elaborata indipendentemente dalla Scrittura, da K. Rahner (RAHNER-THUSING, Christologie systematish und exegetisch). 2 Un esempio di modello a priori ripreso dal materialismo storico di Marx è dato nell'opera di F. BELO, Lecture materialiste de l'evangile de Marc, Parigi 1974. 3 La figura di Gesù è stata abbondantemente utilizzata in politica: cfr. specialmente F. P. BOWMAN, Le Christ romantique, Ginevra 1973. Lo hanno chiamato, per esempio, il «sublime Repubblicano» (p. 101). Presentando i Christs utopiques di Claude-Henri de Saint-Simon, d'Etienne Cabet e di Charles Fourier, A. Lion conclude che questi autori facevano di Gesù un garante prestigioso delle nuove idee: « è in questo senso che Saint-Simon ritrova un Gesù già san-simoniano, Cabet un Gesù comunista e Fourier un Gesù portante in se il segreto dell'Armonia. Da cui una ricetta da conservare: perché Gesù possa davvero servirvi, cominciate col rifarlo a vostra immagine » (Dossier Jesus, 57). 4 Schoonenberg ha citato la parola di David Flusser: «Noi possiamo leggere tutto il vangelo nei profeti e nei rabbini » (Jezus Christus vandaag dezelfde, in Geloof bij kenterend Getij, 178). È soprattutto la qualità di profeta che, in certe cristologie non calcedoniane, serve a definire Gesù. 228 tutti i modelli che vorrebbero limitare o preorientare l'incontro col Cristo reale, tutte le rappresentazioni soggettive a priori, che impedirebbero di accedere alla realtà di Gesù. È con questa realtà concreta che la nostra esistenza deve essere messa in contatto. 2. Incontrare, con la Chiesa, il Cristo trascendente Il Cristo vero e quello che la Chiesa contempla nella sua fede e che cerca di scoprire sempre più chiaramente attraverso la testimonianza della Scrittura. L'incontro col Cristo e dunque esistenziale nei senso che si produce non solo nell'esistenza individuale del teologo, ma nell'esistenza comunitaria della Chiesa. Certamente l'incontro ha sempre un carattere profondamente personale; e la personalità del teologo, con le sue qualità particolari e i tratti propri della sua intelligenza, con la sua preparazione culturale, che entra in contatto con il Gesù della rivelazione. Ma l'incontro personale non può raggiungere il Cristo autentico se non si integra nell'incontro di tutta la Chiesa. È alla Chiesa che Gesù ha affidato il suo messaggio come pure la rivelazione della sua persona 5. La Chiesa porta in se questa rivelazione e di essa ne vive: l'elaborazione della cristologia e una partecipazione a questa vita. Non ci si può dunque impegnare nella cristologia con l'intenzione di sviluppare un pensiero personale dissociandolo dal pensiero della Chiesa. Questa dissociazione si e manifestata nei teologi che hanno
abbandonato — o rovesciato — l'enunciato di fede di Calcedonia. Per alcuni di essi la maniera di parlare delle Chiese indica più vivamente un atteggiamento di profondo distacco nei riguardi della Chiesa cattolica 6. Il problema non e soltanto quello di una confor5 Schillebeeckx insiste a buon diritto sull'esperienza, sull'incontro che suscita la cristologia. Ma egli la stacca dalla sua sorgente misconoscendo il valore della tradizione cristologica della Chiesa. Egli vuole una cristologia fondata su nuove esperienze; queste si riferiscono ad esperienze anteriori, quelle che sono annunciate nei Nuovo Testamento, ma criticandole. Il Nuovo Testamento è una interpretazione particolare dell'esperienza religiosa, i cui concetti non sono più validi nell'ora attuale, sicché si deve fare una nuova interpretazione secondo le nostre proprie esperienze (Gerechtigheid en liefde, 25-69). Questa maniera di concepire il ruolo dell'esperienza attuale in rapporto a quello che è considerate come interpretazione criticabile dell'esperienza originale. autorizza tutte le modifiche apportate al messaggio biblico della rivelazione e alla sua espressione nella tradizione della Chiesa. 6 Si da il caso che la posizione di principio di questo distacco sia chiaramente enunciata. Così A. Lion presenta la Chiesa come privata del suo privilegio di maestra del sapere: « sulle realtà della fede, il suo dominio proprio, sembra, e oggi proferire una parola fra altre parole ». Egli vede nei crollo del monopolio «la storia dell'emancipazione progressiva di un sapere più libero »... Ma la fede che egli afferma sembra molto ridotta: « Quello che io credo: " (il Cristo) è colui che ha fracassato le muraglie accerchianti il nostro vecchio mondo e aperta la breccia perché sgorghi la vita e la luce. Fa balzare, nello scorrimento di un'esistenza nuova, quelli che sanno vedere e strapparsi, in rottura creatrice, alle forze della morte " (Mieux vaut une obscure nuict de la foi pour y voir clair, qu'un plein jour de science humaine qui esblouyt », in Dossier Jesus, 150). 229 mità esteriore del pensiero o delle formule alle definizioni conciliari, ma quello di un impegno esistenziale nel pensiero e nella vita della Chiesa con la fede. La cristologia deve procedere dalla volontà di vivere a fondo l'esperienza di fede della Chiesa, tendendo ad un approfondimento intellettuale di questa fede. Si tratta veramente di un'esperienza, della quale occorre riconoscerne l'ampiezza. Da questo punto di vista conviene notare le ambiguità che possono comportare certe maniere di concepire la cristologia basata sull'esperienza. Oltre al pericolo di ridurla a delle interpretazioni soggettive ed a vaghi orientamenti dottrinali, esiste la tentazione di livellarla all'umanità: si limita l'incontro all'uomo Gesù, eliminando, come elemento aggiunto dal di fuori, tutto ciò che sorpassa la semplice natura umana. La concentrazione sulla dimensione antropologica della cristologia può significare una restrizione sistematicamente apportata all'esperienza della fede, in modo da non percepire in Gesù che la sua umanità. La preoccupazione di sottolineare l'umano conduce ad escludere il divino, come se questo facesse necessariamente concorrenza all'umano, impedendogli di dispiegarsi. In effetti, non si può ridurre l'esperienza dell'incontro con il Cristo ad una esperienza di presa di coscienza di ciò che e l'uomo7. 1 Tutta una corrente di pensiero mira a prendere per obiettivo principale, nella religione e nella teologia, la manifestazione di ciò che e l'uomo. La tendenza si afferma specialmente in P. Tillich, per cui la religione è « la preoccupazione ultima che si manifesta in tutte le funzioni creatrici dello spirito umano», « la dimensione della profondità di ognuna di esse » (Theology of Culture, Oxford 1959, 45). « Per Tillich come per Schleiermacher, osserva M. Michel, la " vera " religione e questa dimensione inerente e necessaria allo spirito umano, trascendente ogni realtà e ogni attività particolari senza tuttavia distaccarsene mai» (Tillich, critique el héritier de Schleiermacher, in Revue d'Histoire et de Philosophie Religieuse 58 (1978) 33). Si ritrova una tendenza analoga in Schillebeeckx: « Ciò che c'interpella in Gesù, è il suo essere umano come aprenteci le nostre proprie possibilità di vivere più profonde, e in ciò Dio ci parla. La rivelazione divina come si è compiuta in Gesù, c'indica il mistero dell'uomo» (Gerechtigheid en liefde, 66). «Nella religione cristiana il racconto di Gesù Cristo è sperimentato come il simbolo illuminante e trasformante che svela alla nostra intelligenza la dimensione della profondità religiosa del nostro essere finite » (Godsdienst van en voor mensen, Tijdschrift voor Tbeologie 17 (1977) 367). La cristologia è concepita come rivelazione dell'uomo. 230 Talvolta l'influenza di certe investigazioni psicologiche o più generalmente le tendenze all'egocentrismo umano sono sfociate in una ricerca cristologica il cui scopo essenziale e di scoprire se stesso piuttosto che di cogliere il Cristo in ciò che ha di più personale o di differente. È caratteristica la risposta data, in una riunione di cristiani, alla domanda: « Che cos'e il Cristo? ». « Il Cristo, e noi », aveva opinato qualcuno e la sua opinione era stata bene accolta. È vero che il Cristo ci aiuta a scoprire noi stessi, ma fare l'esperienza di Cristo e fare l'esperienza dell'incontro con qualcuno che e unico e che
sorpassa il nostro livello umano. La cristologia e esperienza del trascendente. Il fatto che questo trascendente sia incarnate non toglie nulla alla sua trascendenza. E questo trascendente non e semplicemente quello che viene riconosciuto al Cristo della fede e della predicazione, ma quello che appartiene al Gesù della storia. La disgiunzione fra il Gesù della storia e il Cristo della fede non e accettabile; e il Gesù storico che e afferrato dalla percezione di fede della Chiesa s. Non vi e sdoppiamento di personalità e quelli che hanno voluto separare il Cristo da Gesù, hanno misconosciuta una identità profonda; non vi e nemmeno un rivestimento del Gesù storico con degli attributi che gli sarebbero stati assegnati dalla fede cristiana ma che egli non avrebbe posseduto per se stesso. Con la sua fede, la Chiesa e in contatto d'adesione con l'unico Gesù riconosciuto come Cristo e Figlio di Dio. L'esperienza e quella di una personalità reale e non idealizzata a posteriori. D'altra parte la cristologia esistenziale non potrebbe limitarsi ad una dottrina vaga o globale, quella che corrisponderebbe a un sentimento confuso di ciò che e la figura di Gesù: l'esperienza non potrebbe giustificare un minimalismo dottrinale, ne una riduzione dell'ortodossia all'ortoprassi. Non basta affermare che Gesù sostiene una parte nella salvezza concessaci da Dio, come se la definizione della sua identità personale importasse poco e che l'essenziale si trovasse semplicemente nel regno o nella salvezza di cui egli e il pro8 La distanza messa da taluni fra Gesù e il Cristo non può giustificarsi neanche con i testi evangelici. È a Gesù che Pietro, nella sua professione di fede, ha detto: «Tu sei il Cristo» (Mc. 8, 29). Ironizzando sui teologi che « in termini galanti » definiscono Gesù come il Figlio di Dio, B. Lauret scrive: « I teologi non amano Gesù. Apparentemente gli preferiscono Gesù Cristo » (Quand des theologiens parlent de Jesus, Dossier Jesus, 139). Alia facezia si può rispondere che la sola maniera d'amare Gesù, il vero Gesù, è di riconoscere in lui il Cristo e il Figlio di Dio. 231 motore. Taluni hanno avuto la tendenza a considerate che le controversie sull'identità di Cristo vertevano su di un campo astratto, lontano dalla vita attuale dell'umanità, e quindi non potevano interessare i nostri contemporanei. Ma l'esperienza dell'incontro di Gesù prende il suo valore da ciò che e la sua persona: il problema della sua identità e dunque capitale per gli uomini di tutti i tempi. La dottrina che enuncia chi e il Cristo ha un'importanza di prim'ordine nell'esperienza di fede della Chiesa. è quanto dire che la cristologia esistenziale non può essere riportata ad una cristologia esclusivamente funzionale. Essa si unisce necessariamente alla scoperta dell'ontologia di Cristo. La funzione esercitata dal Cristo porta il sigillo del suo essere. È la sua realtà ontologica che e il fondamento della sua missione, che ne determina il valore e l'efficacia. Inoltre, questa cristologia esistenziale, legata alla scoperta di Cristo, si trova nel prolungamento di quella che si era cominciato ad elaborare nella professione di fede dei primi discepoli, in risposta alla domanda di Gesù: « Voi, chi dite che io sia? » (Mt. 16, 15 par.). I discepoli avevano fatto l'esperienza dell'incontro con Gesù, ed erano stati invitati ad esprimere il frutto di quest'incontro con una dichiarazione sull'identità personale del loro Maestro. L'incontro attuale, vissuto nell'esperienza di fede della Chiesa, continua ed approfondisce questo primo incontro con la stessa domanda essenziale e con la stessa risposta data da Pietro a nome della Chiesa: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt. 16, 16), ma anche con una penetrazione sempre più accentuata nel mistero. B) CRISTOLOGIA DINAMICA Si e rimproverato alla cristologia scolastica di essere troppo statica, e il rimprovero non e senza fondamento. Questo carattere statico appariva in due maniere. Da una parte la cristologia, come l'insieme della teologia, si sviluppava in affermazioni formali in cui la concettualizzazione sembrava avere il sopravvento sul movimento profondo del pensiero, e in connessioni logiche che facevano trascurare lo sforzo di raggiungere la realtà vivente. D'altra parte, l'Incarnazione era soprattutto considerata nel suo aspetto statico, come l'unione di due nature in una persona; non si notava abbastanza la 232 preoccupazione di raggiungere il movimento con il quale il Verbo si e fatto carne9. Infatti, la cristologia deve dimostrare il suo dinamismo sia nella sua maniera di pensare che nella valorizzazione dell'atto dell'Incarnazione. 1. Dinamismo delta maniera di pensare Nella maniera di pensare la cristologia deve affermarsi come impegno di fede. È l'ardore della fede che provoca la ricerca cristologica comunicandogli un dinamismo che deve farsi sentire nello sviluppo degli enunciati concettuali. La cristologia non può mai consistere in un semplice esercizio di composizione logica, ne di raffinamento di concetti, e d'altronde non può neanche essere la semplice occasione di brillanti elucubrazioni ove si manifesta sia la sottigliezza, sia l'originalità di uno spirito. Anche nello sforzo intellettuale bisogna far sentire che l'attenzione si dirige verso colui che attira tutti
gli uomini alla fede e non verso la sola presentazione seducente o convincente di un pensiero 10. Si e dato il caso che talune cristologie non calcedoniane diano l'impressione di un disimpegno nel campo della fede, di un atteggiamento che mira a ridurre l'ampiezza e l'audacia di questa fede, ma che per contro mette in rilievo l'audacia del pensiero personale. Certi autori sembrano volersi affermare in nuove speculazioni a spese della fede della Chiesa. La cristologia, in queste condizioni, non e più animata dal dinamismo che dovrebbe spingerla in avanti, ma piuttosto si ribella contro questo dinamismo. Il disimpegno si esprime ancora con una timidezza che non osa più proporre agli uomini di oggi la verità del Cristo Figlio di Dio, come se la fede tradizionale fosse sorpassata dalla cultura attuale. Vi e il timore di sembrare tradizionalisti, e più particolarmente ancora si ha una certa vergogna della fede. Lungi dal voler adottare questo cammino all'indietro, la cristologia deve assumere con si9 Cfr. J. GALOT, Alla ricerca di una nuova cristologia, Assisi 1971, 45-72. 10 Da questo punto di vista il titolo dell'opera di J. Pohier sembra caratteristico: « Quando io dico Dio », come le parole della prefazione: « Oggi dico su Dio quello che ho voglia di dire. E come desidero dirlo» (p. 10). Affermando che lui non è obbligato a dire tutto quello che crede o non crede, né di spiegare perché lo crede o non lo crede, l'autore sembra mettere l'accento sulla libertà del suo pensiero personale, piuttosto che sulle esigenze oggettive della verità concernente Gesù. 233 curezza il dinamismo della fede ed esporre una verità che, pur superando la ragione e l'ordine della natura, e destinata a conquistare le intelligenze umane. Invece di lasciarsi ossessionare dal timore di reazioni negative d'incredulità, essa deve nutrirsi della convinzione che il Cristo con la sua dimensione trascendente e divina risponde all'attesa profonda, a tutta la speranza dell'uomo ". Il dinamismo della cristologia non e a questo riguardo che la traduzione, nello sforzo intellettuale, dell'attrazione che Cristo esercita sugli uomini. Questa attrazione deve rivelare la sua potenza di fascino nella ricerca; il teologo che subisce questa attrattiva, deve prenderne coscienza e agire da testimone di questo potere sovrano di Gesù. Il suo dinamismo non è fatto di un attaccamento al suo pensiero né d'un'ambizione che lo chiuderebbe nell'egocentrismo; ma e l'espressione di un'adesione incondizionata a Gesù, che richieda tutte le sue forze. è così che l'adesione alla persona di Cristo deve permeare l'elaborazione dottrinale, ed evitare ogni assorbimento nel solo universo dei concetti e dei collegamenti logici. 2. Dinamismo dett'Incarnazione Non meno importante e il dinamismo che deve caratterizzare la cristologia nel suo modo di considerare il movimento dell'Incarnazione. Essa non può limitarsi a scrutare l'identità personale di Gesù; deve risalire all'origine del procedimento col quale il Figlio di Dio e diventato uomo, e seguire questo cammino nelle sue implicazioni. Ciò significa che deve applicarsi a cogliere il dinamismo divino che si rivela nella venuta di Cristo in mezzo agli uomini. è evidente che questo dinamismo non può essere percepito che dai teologi che affermano in Gesù la persona divina del Figlio incarnato. Le cristologie non calcedoniane che scartano quest'affermazione, non possono fermarsi alla considerazione dell'atto dell'Incarnazione, poiché nella loro prospettiva non vi è una vera Incarnazione del Figlio preesistente. Quelli che optano per la cristologia « dal basso », reagendo 11 La risposta di Cristo alla speranza dell'uomo e la verità che la cristologia sistematica di K. Rahner ha considerate a buon diritto come fondamentale. Qui, noi sottolineiamo che e proprio il Cristo della fede tradizionale della Chiesa che costituisce questa risposta. 234 contro la cristologia « dall'alto », sono ugualmente portati ad omettere questa considerazione. Infatti, per percepire il dinamismo dell'Incarnazione, occorre partire dall'alto e riconoscere il movimento discendente che va da Dio all'uomo. Tuttavia, non ci si può lasciar chiudere nel dilemma fra cristologia dal basso e dall'alto, ne accettare di sacrificare l'una a profitto dell'altra.12 Molto spesso nell'orientamento della cristologia sono state prese delle opzioni troppo semplicistiche, con dei falsi dilemmi. così, l'opzione per la cristologia antropologica, che ai nostri tempi si è imposta allo spirito di molti, e stata compresa in maniera troppo esclusiva al punto di voler spiegare il tutto di Gesù con la sua umanità; in realtà non si deve scegliere fra la divinità e l'umanità di Gesù. Le due realtà devono essere sempre ammesse nella loro pienezza di senso, e una cristologia che si vuole antropologica non può mai cessare di essere teologica. Conviene parimenti associare la cristologia dall'alto alla cristologia dal basso. è vero che la cristologia deve essere dal basso nel senso che e nell'umanità del Gesù della storia che bisogna scoprire la sua divinità. Non vi e stata rivelazione della divinità di Cristo sovrapposta alla sua umanità; tutto quello che era nella sua persona divina si e rivelato attraverso le sue parole e i suoi gesti
d'uomo. Ma una volta che si coglie nel suo volto umano la sua identità di Figlio di Dio, si e necessariamente indotti a portare uno sguardo scrutatore sull'azione con la quale il Figlio di Dio e penetrato nel nostro universo per condurvi una vita umana. Il linguaggio di Gesù c'invita a percepire questo dinamismo che viene dall'alto quando impiega l'espressione: « Il Figlio dell'uomo e venuto... » (Me. 10, 45 ecc.). Invece di parlare semplicemente della sua esistenza sulla terra, enuncia il suo soggiorno in questo mondo come una venuta, ciò che suppone una preesistenza. Solo per essa, questa maniera di parlare di Gesù giustificherebbe la necessita di una cristologia « dall'alto ». 12 B. Laurel descrive la rottura profonda nel modo di pensare: «Mentre le cristologie dette classiche partivano " dall'alto ", ossia dal Verbo eterno, seconda persona della Trinità, che s'incarna, le cristologie moderne partono sempre più " dal basso ", ossia dall'uomo Gesù che si rivela essere, col suo messaggio, la sua vita e la sua Pasqua, il Figlio di Dio» (Quand les theologiens parlent de ]esus, 141). L'autore collega questo rovesciamento decisive ad una serie di rotture culturali. Ma in realtà non vi sono rotture che nell'intenzione di quelli che vogliono escludere la cristologia dall'alto. È questa esclusione che e criticabile, perché i due punti di vista, « dal basso » e « dall'alto », sono necessari alla elaborazione della cristologia. 235 Fin dall'inizio del suo sviluppo, la fede della comunità cristiana ha portato il suo sguardo sul mistero dell'atto dell'Incarnazione. L'inno cristologico della lettera ai Filippesi mette in rilievo l'iniziativa di colui che, sussistendo nella condizione di Dio, si e annientato divenendo simile agli uomini (2, 6-7). Il prologo giovanneo, dopo aver sottolineato l'essere eterno del Verbo descrive l'entrata di questo Verbo nel di venire umano: « Il Verbo divenne carne » (1, 14). Questi due inni, l'uno ripreso da Paolo e l'altro da Giovanni, mostrano che molto presto dei cristiani avevano compreso che non si poteva celebrare il Cristo senza contemplare il procedimento divino che va dall'eternità al tempo e dalle altezze di Dio alla debolezza della carne. Sono due professioni di fede liturgiche; non si tratta di una investigazione metafisica a scopo filosofico, ma di una semplice spiegazione, di un semplice enunciate dell'Incarnazione. Non si può dunque scoprire Gesù che scoprendo il dinamismo della sua venuta in questo mondo u. Con questo la cristologia e chiamata a discernere quello che significa l'impegno divino di cui Cristo e l'espressione. Una concezione troppo rigida dell'immutabilità di Dio ha impedito, in passato, alla teologia di riconoscere questo impegno in tutto il suo valore. Per preservare questa immutabilità, si diceva che la novità, il cambiamento implicate nell'Incarnazione si trovano unicamente nella natura umana assunta dal Verbo 14. Non si prendeva sufficientemente sul serio l'affermazione giovannea che il Verbo stesso e divenuto carne, ne l'affermazione paolina che colui che sussisteva nella condizione di Dio si e spogliato divenendo simile agli uomini. Se vi e una novità nell'Incarnazione, essa appartiene anzitutto al Verbo che diventa uomo. La decisione di « spogliarsi » per diventare simile a noi, e una decisione liberamente presa dal Figlio di Dio e che costituisce una certa novità in rapporto all'essere eterno di Dio. È la novità di un impegno personale, interamente gratuito, che non porta dunque 13 è una lacuna profonda delle cristologie non calcedoniane misconoscere questo dinamismo divino che si esprime in Gesù: da una parte esse rimangono alla superficie del Gesù umano, e dall'altra parte, quando conservano l'affermazione di un Dio trascendente, esse restano alla concezione di un Dio troppo statico, che non è impegnato personalmente nell'Incarnazione. 14 E ancora la spiegazione proposta da W. Maas (Unveranderlichkeit Gottes, Monaco-PaderbornVienna 1974). La cristologia diventa allora «cristologia d'addizione » (p. 176). 236 in se la necessità che caratterizza la natura divina e che non può nulla aggiungere o levare alla perfezione di questa natura. Attraverso l'impegno del Figlio si rivela anche l'impegno del Padre e dello Spirito Santo. Secondo le affermazioni del Nuovo Testamento e più particolarmente la testimonianza di Gesù, e il Padre che ha inviato suo Figlio; la prima iniziativa dell'Incarnazione gli appartiene. E d'altra parte l'Incarnazione si e compiuta per l'intervento dello Spirito Santo, al quale e attribuita la concezione miracolosa del bambino. Tutta la Trinità s'impegna dunque nella venuta del Salvatore sulla terra, avendo ognuna delle persone divine il proprio modo d'agire. Quello che e proprio al Figlio, e che egli diventa uomo. È la sola persona divina ad incarnarsi, a vivere una vita umana. È lui che fa scoprire il dinamismo divino e che c'impone una nuova concezione di Dio, determinata da questo volto dinamico. Taluni hanno rimesso in causa l'immutabilità metafisica di Dio in modo d'accettare più agevolmente il cambiamento inerente all'Incarnazione; hanno tentato di ridurre l'immutabilità divina ad una fedeltà nel dono e nell'amore o al mantenimento inconcusso dell'alleanza 15. Non vi sarebbe allora che una
immutabilità morale, e Dio non sarebbe esente da cambiamenti che nella costanza della sua volontà benevola. Ma qui ancora, si avrebbe torto di praticare una opzione esclusiva, perché sarebbe un falso dilemma che costringerebbe a scegliere tra l'immutabilità ontologica e un impegno che comporta una novità. Il Verbo rimane ontologicamente immutabile; quando si fa carne, non perde ciò che era: egli « era Dio » dal principio e tale resta. Quello che da valore al suo divenire e che l'immutabile s'impegna. Nel dinamismo dell'Incarnazione, Dio non perde niente del suo essere divino. Come non si può sacrificare il dinamismo all'immutabilità, non considerando che uno stato divino senza possibilità di novità, così non si può sacrificare l'immutabilità al dinamismo, guardando Dio come se non avesse più la perfezione totale del suo essere, trascendente a tutti i cambiamenti del mondo, e at15 Cfr. H. MÜHLEN, Die Veranderlichkeit Gottes als Horizont einer zukünftigen Christologie. Auf dent Weg zu einer Kreuzestheologie in Auseinamdersetzung mil der altkircklicben Christologie, Münster 1969; H. KUNG, Menschiverdung Gottes. Eine Einfuhrung in Hegels tbeologisches Denken als Prolegomena zu einer kunftigen Christologie, Friburgo 1970. 237 tribuendogli una mutabilità troppo simile a quella delle creature16. La cristologia ha spiegato almeno implicitamente questa immutabilità dicendo che Gesù e vero Dio e vero uomo. Egli e vero Dio nel senso che tutto quello che appartiene all'essere di Dio si trova in lui e che incarnandosi il Figlio non ha abbandonato nulla della perfezione divina. Ma e ugualmente vero uomo, ed e in questa verità che bisogna riconoscere la manifestazione del dinamismo divino. Nel dinamismo che sorge liberamente da Dio per compiere l'opera di salvezza con l'Incarnazione, si coglie l'aspetto più fondamentale del mistero di Cristo. C) CRISTOLOGIA PERSONALISTA 1. Persona e personalizzazione Alcuni autori di cristologie non calcedoniane hanno rimproverato alla cristologia tradizionale d'avere « cosificato » il suo oggetto, di aver parlato della realtà vivente nel modo con cui si parla di « cose ». La repulsione ad ammettere due nature nel Cristo può provenire da una identificazione fra queste due nature e due cose. Non si può negare che vi sia un pericolo di « cosificazione »; il teologo non può maneggiare i concetti come se disegnassero semplicemente delle cose. Dietro la formula delle due nature, si deve considerare sempre la persona di Gesù vero Dio e vero uomo. Affermando l'unità di persona, il concilio di Calcedonia orienta la cristologia verso il personalismo, indicando con chiarezza che il solo modo di comprendere l'unità del Cristo e di considerare in lui la persona. Ogni sintesi su Gesù deve illuminarsi con una percezione più profonda di ciò che significa la persona del Figlio di Dio incarnate. L'allontanamento delle cristologie non calcedoniane in rapporto 16 Certi teologi della morte di Dio hanno dato una forma estrema all'idea del cambiamento di Dio nell'Incarnazione. così Th. Altizer ha affermato che Dio ha perso la sua trascendenza in Gesù, e si e immerso nel mondo (The Gospel of Christian Atheism, Filadelfia 1966). Ossia che Dio sparisce come Dio. Ma così anche l'Incarnazione sparisce, perché per esservi una vera Incarnazione, bisogna che il Figlio di Dio resti davvero Dio diventando uomo. L'Incarnazione implica in pari tempo il divenire uomo e l'immutabilità divina della persona che s'incarna. Questo principio vale ugualmente contro tutte le concezioni della kenosi che non manterrebbero più l'immutabilità della natura divina. 238 alla fede della Chiesa si situa nella posizione adottata concernente la persona. Queste cristologie rifiutano di attribuire a Cristo una persona divina perché con l'assenza di persona umana sembra loro un rendere Gesù meno uomo.17 I loro autori non pensano che la natura umana possa essere personalizzata da una persona divina, senza perdere qualche cosa della sua umanità. Perciò non vogliono riconoscere in Gesù che una persona umana, pur aggiungendo che questa persona umana fruisce di una intimità unica, eccezionale, con Dio. Affermando una persona divina in colui che e veramente uomo, il concilio di Calcedonia invita a discernere in Gesù una personalizzazione della natura umana con la persona del Figlio di Dio senza che questa natura sia minimamente diminuita. Si deve pure constatare che la natura umana e messa in valore in maniera unica grazie a questa personalizzazione; essa esprime in tutta la densità della sua realtà umana la personalità del Figlio. Non si e mai avuto un uomo così fortemente personalizzato come Gesù, e non si e mai avuto chi abbia potuto essere così integralmente umano, perché la sua persona divina di Figlio faceva dischiudere tutto l'uomo per dispiegare in esso il suo impegno e rivelarvisi.18 Per studiare che cosa e il Cristo, conviene scrutare questa personalizzazione di un genere così eccezionale, che assicura una pienezza umana. La personalizzazione non può essere illuminata che da un'analisi di ciò che e la persona, senza voler mettere in ombra questo termine con il motivo che
avrebbe cambiato di senso. Abbiamo mostrato che il senso di « persona », nella definizione di Calcedonia, non è differente dal suo senso moderno. Se la psicologia ha messo in luce le proprietà dell'attività di coscienza e della libera autodeterminazione e se ci aiuta a penetrare meglio le profondità della persona, si deve dire che gia a Calcedonia la persona significava un soggetto d'attività cosciente e volontario, e che nel corso dei secoli il concetto di persona, che risponde a un'esperienza fondamentale 17 L'iniziatore del movimento, Schoonenberg, ha utilizzato con vigore l'argomento: una natura umana anipostatica, senza persona umana, non può avere la perfezione dell'umanità (Bin Gott der Menschen, 77-78). Altri hanno ragionato in maniera analoga e si può dire che questo e il motivo fondamentale nella prospettiva di una cristologia che vuol mettere l'uomo in pieno valore. 18 Questo dischiudersi dell'umano sotto l'influenza della persona del Figlio costituisce la risposta all'obiezione secondo la quale la persona divina toglierebbe a Gesù qualcosa della sua umanità. Non soltanto l'umano è salvaguardato, ma può svilupparsi al massimo in virtù di questa personalizzazione di un genere unico. 239 dell'uomo, e rimasto essenzialmente identico. È senza nessun timore ne esitazione che si può applicare alla persona di Cristo tutta la luce che viene dagli studi più recenti sulla personalità e la personalizzazione nell'uomo. La persona divina è il soggetto o il centro d'attività psicologica umana. Non si può porre in Cristo un altro centro o un altro soggetto di questa attività. È il Figlio di Dio che, nella e con la sua natura umana, prende umanamente coscienza di se stesso; e lui che esercita la sua volontà umana, essendo responsabile delle sue libere decisioni e di tutto il suo comportamento morale. È lui, il Figlio, che offre al Padre l'omaggio umano della sua obbedienza. È ancora lui che sulla croce si e sentito abbandonato dal Padre w, rimettendo poi il suo spirito fra le sue mani. Tutte le azioni di Gesù assumono il loro significato più alto nella qualità filiale che conferisce loro la personalità del Figlio. Buon numero di esegeti o di teologi hanno parlato di rapporti di preghiera o d'obbedienza fra Gesù e Dio20. Ora Gesù stesso non si comporta come un uomo di fronte a Dio, ma .come Figlio davanti al Padre; e il Padre che egli invoca nella sua preghiera, ed e al Padre che obbedisce. Come uomo, Gesù non e di fronte a Dio perché egli stesso e Dio e lo rivela specialmente con l'affermazione « lo sono ». Egli e sempre in una posizione di Figlio nei riguardi del Padre; tutta la sua psicologia umana e tutte le sue azioni sono filiali. Volerlo presentare come un uomo in relazione con Dio sarebbe non considerare in lui che la natura umana mentre si definisce nella sua identità con la sua personalità divina di Figlio. 19 Non si può mettere fra parentesi l'episodio della derelizione, come se si trattasse semplicemente dell'abbandono di un uomo da patte di Dio. J Moltmann ha attirato l'attenzione sull'aspetto intratrinitario di questo episodio in cui il Figlio sta di fronte al Padre. Anche se vi e qualche eccesso nell'interpretazione di Moltmann che inclina troppo verso un evoluzionismo trinitario e parla anche di una morte della paternità (Der gekreuzigte Gott, Monaco 1972, 230), l'episodio evangelico deve essere letto nel quadro dei rapporti fra il Figlio e il Padre, come apporto alla rivelazione della Trinità. 20 Nella maniera di parlare delle relazioni fra Gesù e Dio, vi può essere l'intenzione, negli autori di cristologie non calcedoniane, di vedere Gesù come un uomo che non e Dio. Presso altri, questo linguaggio si spiega con le espressioni del Nuovo Testamento che designano il Padre sotto il nome di Dio; sono delle espressioni arcaiche che testimoniano la difficoltà che hanno avuto i primi cristiani a disimpegnarsi della terminologia giudaica ed a trovare un vocabolario adatto al mistero trinitario. Si sa come san Paolo, pur riservando il nome di Dio al Padre, affermava la divinità del Figlio chiamandolo Signore; e come san Giovanni distingueva « il Dio » per designare il Padre e «Dio» per qualificare il Verbo (1, 1). Oggi e augurabile non venga più adottata la terminologia arcaica. 240 2. La coscienza filiale La personalizzazione di tutta la vita umana di Gesù con la persona del Figlio non ha intralciato lo svilupparsi progressivo della sua coscienza, sviluppo analogo a quello che si produce in ogni psicologia umana. Negli altri uomini la persona si afferma sempre più con una presa di coscienza che si allarga e con un esercizio sempre più libero e responsabile dell'attività volontaria. In Gesù, la persona divina non ha ne frenato ne accelerato questo sviluppo inerente alla stessa natura umana21. Gesù ha vissuto il risveglio della sua coscienza, con la differenza che in lui era l'io divino che si percepiva alla luce di una conoscenza e di una coscienza umana. L'indicazione che ci e fornita dal testo evangelico su questa presa di coscienza, riportando l'espressione « Abbà » (Me. 14, 36), ci aiuta ad intravedere come si e operate questo sviluppo: fin dall'infanzia, Gesù ha stretto i rapporti più intimi col Padre, comprendendo, per la luce che riceveva dall'alto, che il Padre era il suo proprio Padre e che lui era suo Figlio nel pieno significato del termine. Quello che i mistici hanno provato nei loro contatti con Dio, un
sentimento di presenza e talvolta di fusione o d'immersione, o quello che i cristiani possono percepire nel profondo della loro anima vivendo della grazia, un sentimento di pacato accordo con la presenza divina, Gesù l'ha sentito, ma alla sua maniera, che e unica: era una mistica filiale, il contatto del Figlio con suo Padre al quale era profondamente unito. Sentendosi Figlio del Padre, Gesù ha preso coscienza di essere personalmente Dio. Il Figlio e colui che riceve tutto dal Padre, anche il suo essere più profondo. È la convinzione di essere pienamente Figlio senza alcuna restrizione alla sua identità filiale che gli permette di rivolgersi al Padre nella maniera più familiare chiamandolo « papa » (Abbà). La cristologia cerca di penetrare il più profondamente possibile nel mistero dell'intimità personale di Gesù col Padre, e di cogliere lo sviluppo di una psicologia essenzialmente filiale. Essa scruta l'interno della coscienza di Cristo; sebbene i vangeli non siano stati redatti dal punto di vista di una descrizione ne di una investiga21 Il rispetto per lo sviluppo umano impedisce d'ammettere che la coscienza di essere Figlio abbia cominciato fin dal primo momento dell'esistenza umana, come l'affermava la teoria scolastica della visione beatifica di Gesù. 241 zione psicologica, offrono ugualmente molti punti d'appoggio per far comprendere i suoi stati di coscienza. In precedenza sono stati fatti dei saggi per spiegare il fondo della coscienza di Gesù con l'intervento di elementi psicologici che avrebbero corretto dal di fuori le proprie percezioni. La cristologia medievale ha attribuito a Gesù la scienza beatifica per giustificare la conoscenza che aveva della sua divinità: una visione simile a quella degli eletti avrebbe impedito a Gesù di pensare che era persona umana come gli altri uomini. Recentemente alcuni autori hanno emesso l'ipotesi che Gesù avesse appreso dal di fuori la sua identità: la voce intesa al momento del battesimo: « Tu sei il mio figlio prediletto... » (Me. 1, 11; Lc. 4, 22), gli avrebbe rivelato subito la sua vera personalità. Né l'una, né l'altra di queste spiegazioni sembra legittima. L'attribuzione di una visione beatifica a Gesù durante la sua vita terrena, non solamente non e attestata dai vangeli, ma e contraria a tutto quello che ci e detto di una vita simile a quella degli altri uomini e segnata dalla sofferenza.22 Quanto alla voce celeste che si fa sentire nel battesimo, essa pone un problema d'interpretazione del racconto; se si ammette che ha avuto una risonanza esteriore ed e stata percepita da testimoni, essa doveva essere destinata a far sapere a questi testimoni la vera identità di Gesù piuttosto che rivelarla a lui stesso.23 Gesù avrebbe avuto una psicologia del tutto anormale se avesse dovuto attendere trent'anni per sapere chi era; non è a costo di una rottura sconvolgente che ha dovuto esserne informato. La sua psicologia non ha avuto bisogno d'essere corretta dal di fuori; essa ha dovuto svilupparsi normalmente nella linea della verità del suo essere. Nella sua infanzia e nella sua giovinezza, e del suo io divino di Figlio che ha preso coscienza. La sua ontologia si e espressa nella sua psicologia. Non si potrebbe ammettere che lui, il Rivelatore, sia stato per un certo tempo nell'ignoranza della propria personalità e che si sia fatto illusione su se stesso. Ancor più inaccettabile l'ipotesi 22 Inoltre la teoria della visione beatifica non spiegherebbe in Gesù la coscienza di essere il Figlio di Dio. Quando gli scolastici dicono che l'anima di Gesù vede il Verbo, essi distinguono fra l'anima che vede e il Verbo che è oggetto di visione, mentre in realtà è il Verbo che prende umanamente coscienza di se stesso. Cfr, S. TOMMASO, S. Th. III, Q. 10, a. 4: « Utrum anima Christi videat Verbum, seu divinam essentiam clarius qualibet alia creatura ». 23 La versione di Matteo esprime più direttamente la destinazione della dichiarazione ai testimoni: « Questi è mio figlio diletto » (3, 17). 242 di un Gesù che avrebbe vissuto durante tutta la sua via terrena nell'incognito della sua identità e della sua Incarnazione;24 essa implicherebbe una specie di falsificazione della coscienza di Gesù e contraddirebbe d'altronde tutte le parole riportate dagli evangeli, in cui Gesù rivela la sua identità divina. Lungi dal voler staccare dalla persona divina la psicologia umana di Gesù, importa riconoscere l'influenza dell'io del Figlio su tutta la sua attività cosciente. La coscienza che Gesù aveva della sua identità divina e fondamentale non solo per il funzionamento normale di una psicologia che non può mai disinteressarsi ne staccarsi dall'io reale, ma anche per la missione di rivelazione. Tutto il movimento di fede dei discepoli e della Chiesa e fondato sulla rivelazione che il Cristo ha fatto di se stesso e che si trova registrata nei vangeli. Gesù si e espresso in maniera spesso oscura o implicita sulla sua personalità divina, ma l'ha continuamente indicata o suggerita. Se non avesse avuto coscienza del suo io divino di Figlio, non avrebbe potuto richiedere ai suoi discepoli la fede nella sua divinità. Tutte le professioni di fede in Gesù Salvatore, Signore e Figlio di Dio, sono fondate, in ultima analisi, sulla coscienza che Gesù aveva di se stesso, e sulla rivelazione
che ne ha fatta usando termini differenti da quelli delle professioni ulteriori di fede, ma svelando davvero il mistero della sua persona divina. 3. Determinazione della realtà profonda della persona. Un'altra ricerca, ancor più profonda, s'impone alla cristologia: determinare la realtà della persona nella sua distinzione con la natura 25. La filosofia greca non aveva proposto un concetto di persona distinto da quello di natura, e il concilio di Calcedonia si e riferito all'esperienza umana comune, senza voler definire ne la persona ne la natura. Ma l'affermazione di una natura umana in Gesù, senza persona umana, sottolinea che esiste in ogni uomo una distinzione reale fra la natura e la persona poiché l'una può esistere senza l'altra. Ci si pone necessariamente la questione di sapere ove si situa questa distinzione e con quale genere di essere o di realtà bisogna caratterizzare la persona. 24 Opinione espressa in Jesus Sauveur, Cahier de la Tourette, 7, p. 18. 25 Noi abbiamo trattato più a lungo questo problema nell'opera La persona di Cristo, Assisi 1970. 243 Si può notare che la cristologia pone così un problema di antropologia generale. Il fatto del Cristo obbliga a riflettere sulla consistenza di ogni persona umana, evitando di confonderla con la semplice natura. Gesù aiuta gli uomini a scoprire il valore della loro persona. Ritornando all'identità di natura umana e di persona umana, le cristologie non calcedoniane hanno eluso il problema, e cercato di privare la cristologia di una riflessione più approfondita sull'essere personale 26. Per determinare la realtà costitutiva della persona, ci sembra che la cristologia non possa ignorare la soluzione data dalla dottrina trinitaria al problema della distinzione fra persona e natura in Dio. In cristologia la difficoltà e di mostrare come, senza essere persona umana, Gesù e perfettamente uomo; nella teologia della Trinità s'incontra una difficoltà simile perché si tratta di spiegare come ogni persona divina abbia una perfezione identica alle altre due, pur avendo la propria realtà di persona differente da quella delle altre. Nei due casi importa trovare una distinzione fra persona e natura come se la persona non appartenesse alla perfezione della natura. In dottrina trinitaria il problema e risolto dalla nozione di relazione sussistente; ciò che caratterizza la persona divina e la relazione. La realtà della persona non comporta così alcuna perfezione assoluta, che verrebbe ad arricchire la natura e renderebbe una persona più o meno perfetta dell'altra. In cristologia il problema non e assolutamente identico, perché si tratta di definire che cosa e una persona umana. Ma in ragione dell'analogia che esiste fra le persone divine e le persone umane, si e portati a pensare che la nota caratteristica di una persona umana sia ugualmente l'essere relazionale. Nell'analogia vi sono certamente delle differenze ma esiste anche una rassomiglianza fondamentale: le persone umane sono create ad immagine delle persone divine. Anche il racconto biblico della creazione accenna alla caratteristica relazionale della persona, poiché e una coppia di esseri complementari, uomo e donna, che e creata a somiglianza di Dio. 26 I teologi secondo i quali Gesù deve essere persona umana per essere uomo, seguono il cammino inverse di quello che deve prendere la cristologia: essi pongono l'identità di natura umana e di persona umana e l'applicano a Gesù, mentre il dato della rivelazione e quello di un Gesù che e persona divina e da ciò deriva la necessita di distinguere natura e persona. Dire, con Schillebeeckx (Jezus, 26), che con ogni evidenza Gesù e una persona umana, e considerare come una evidenza che un uomo non può essere che persona umana, in virtù dell'identità fra natura e persona. 244 Un'analisi dell'esperienza psicologica umana conferma questa definizione della persona. Nell'attività intellettuale l'io appare come profondamente relazionale, perché anche per prendere coscienza di se stesso ha bisogno di un contatto con il tu di altre persone. È nella relazione con gli altri che egli si afferma come « io ». Con l'attività affettiva e volontaria, la persona si completa amando e donandosi; il suo destino si realizza dunque nella relazione. La definizione della persona come essere relazionale illumina l'autonomia di Cristo. La natura umana di Gesù e perfetta in se stessa; non manca niente della perfezione che le e propria. Ma il soggetto che la personalizza non e un essere relazionale umano. È l'essere relazionale divino del Figlio che la muove nella sua attività.27 Questo essere relazionale divino che sorge, con l'Incarnazione, in mezzo a persone umane e stabilisce con esse delle relazioni, le mette in contatto con le persone divine. Egli viene a collegare. la comunità umana alla comunità divina della Trinità. È per questo che il Cristo può chiamarsi lui stesso l'alleanza perché e in lui che si realizza il contatto d'amore fra Dio e gli uomini.28 L'essere relazionale del Verbo, divenendo essere relazionale di un uomo, trasforma tutto l'universo delle persone umane rialzandole al livello divino. L'« io » divino di Cristo e definitivamente presente nell'umanità come principio d'amore, attraverso l'« io » dei suoi discepoli, secondo il nuovo precetto della carità (Gv. 13, 34; 15, 12); ed è ugualmente, come « tu » divino di fronte ad ogni uomo, il termine
di tutti gli atti d'amore indirizzati al prossimo, secondo la descrizione del giudizio universale (Mt. 25, 40). Egli mette fra gli uomini il legame più forte che ci sia, un legame divino che li riunisce, poiché la ove due o tre sono riuniti in suo nome, egli e in 27 Quando parliamo dell'essere relazionale divino del Figlio, questa relazionalità deve essere intesa nella sua realtà costitutiva di persona divina preesistente. J. Sobrino ha proposto una concezione relazionale della divinità di Gesù affermando che questa divinità consiste nella relazione concreta e dinamica con la quale Gesù si e fatto Figlio di Dio. Questa relazione e anche chiamata cammino verso il Padre (Cristologia, 104-106). Non si tratterebbe in questo caso che di una relazionalità umana che si forma progressivamente nella vita di Gesù. La persona divina del Figlio incarnato implica ben più di questo: un essere relazionale divino che preesiste alla vita umana di Gesù. È questo essere che evoca il Prologo di Giovanni dicendo: « Il Verbo era verso Dio » (1, 1). 28 Il fatto che Gesù non stabilisce solamente l'alleanza ma che egli e l'alleanza, indica il legame fra il funzionale e l'ontologico. L'essere relazionale della persona fa comprendere come l'ontologico si traduce nel funzionale, poiché designa una realtà ontologica dinamica, avente una capacità di missione o di funzione. 245 mezzo ad essi (Mt. 18, 20). Il « noi » della comunità e fondato sul suo essere relazionale incarnate. è proprio questo essere relazionale che mette in evidenza la psicologia umana filiale di Gesù: invece di appoggiarsi sull'assoluto divino che e in lui, per agire in tutta indipendenza ed unicamente secondo la sua propria sovranità, il Cristo agisce sempre in una relazione di dipendenza, di sottomissione verso il Padre. Riferisce alla dottrina del Padre tutto quello che egli insegna, e chiama i miracoli da lui compiuti, opera del Padre. Considerandosi come venuto dal Padre e ritornando verso di lui, manifesta la relazionalità profonda della sua persona. Insegna agli uomini a rendersi conto del carattere relazionale della loro persona. Mentre la persona e stata definita da taluni come l'essere dotato di assoluta indipendenza, come la totalità di un essere che basta a se stesso, o come l'essere nel pieno possesso di se, il Cristo rivela la sua persona divina come essere relazionale, in una relazionalità che invece di cercare di isolarsi e rinchiudersi in se, e apertura ed orientamento verso la comunione. Egli fa capire agli uomini il valore relazionale della loro persona, che non può svilupparsi che nell'amore e in rapporti comunitari. D) CRISTOLOGIA PASQUALE 1. Mistero pasquale e ontologia del Cristo La cristologia deve riconoscere al mistero pasquale il posto essenziale che gli compete nell'opera della salvezza: la croce e la risurrezione costituiscono degli avvenimenti centrali in quest'opera, ed ogni studio cristologico deve applicarsi a scoprirne il senso e il valore. Per questa ragione, la cristologia deve essere pasquale. Il concilio di Calcedonia, nella sua definizione, non ha espressamente considerate il mistero pasquale, perché la controversia che voleva risolvere non verteva su questo punto. Abbiamo gia osservato che non si può considerare la definizione conciliare come un riassunto della cristologia, perché il concilio non ha avuto per obiettivo che di enunciare la verità rivelata sotto gli aspetti che erano stati negati o contestati, e non ha preteso di fornire una sintesi dottrinale. La teologia dunque non può limitarsi a quanto e stato dichiarato da 246 Calcedonia; sarebbe prendere la parte per il tutto. Lungi dal dispensarsi dalla considerazione del mistero pasquale, la cristologia deve riconoscergli tutta l'importanza che riveste nelle testimonianze del Nuovo Testamento. Si deve forse dire che bisogna operare un ricentramento della cristologia, abbandonando il centra che costituiva la riflessione sulla persona divina di Cristo e le due nature, appoggiando ormai tutta l'elaborazione dottrinale sulla croce e la risurrezione? Certuni hanno proposto uno spostamento di questo genere. Nell'ottica delle cristologie non calcedoniane, un cambiamento di centro è inevitabile, poiché la persona divina del Figlio non è più ammessa. Alcuni hanno volute sostituire l'affermazione della divinità di Gesù con l'affermazione della sua risurrezione, o ancora ridurre la prima alla seconda. Ciò che è essenziale in questo modo di vedere, è d'affermare Gesù risuscitato; sarebbe la risurrezione che avrebbe sferrato il movimento della fede cristiana esprimendone tutto il contenuto. Notiamo anzitutto che, secondo le testimonianze evangeliche, la fede in Gesù si era gia sviluppata nei discepoli prima della risurrezione. È nel corso della sua vita terrena che il Maestro aveva posto la domanda ai discepoli: « E voi, chi dite che io sia? » (Me. 8, 29 par.). Non ha atteso la sua risurrezione per chiedere loro una professione di fede. Prima della sua passione prega perché la fede di Pietro possa sormontare la crisi che dovrà attraversare, ed incarica questo discepolo di confermare la fede dei suoi compagni (Lc. 22, 31-32). La risurrezione avrà per effetto non di far nascere la fede nei suoi discepoli,
ma di confermarla e di farla pervenire a maturità.29 Inoltre, non si potrebbe trascurare il problema dell'identità di Gesù, che resta sempre centrale in cristologia, per concentrare tutto lo sforzo di riflessione sulla croce e la risurrezione. La passione e la risurrezione, in effetti, prendono il loro significato alla luce del mistero dell'Incarnazione. La morte sul Calvario avrebbe molto meno valore se non fosse stata la morte del Figlio incarnate; non si può apprezzare il valore del sacrificio redentore se non si tiene conto della persona divina del crocifisso. È la persona divina che conferi29 Notiamo questa reazione contro un privilegio troppo esclusivo accordato alla risurrezione: «Non e gia all'interno degli stretti limiti della sua vita mortale che Gesù chiedeva con insistenza che si credesse in lui (e non solamente nei suoi insegnamenti)? Ed il giorno di Pasqua il risuscitato non sarà veduto che da quelli che avevano creduto in lui durante il tempo dei limiti della sua vita mortale» (P. AUBIN, La dynamique du Credo, Christus 98 (1978) 188-189). 247 sce un valore infinite all'offerta e rende l'uomo Gesù capace di salvare e divinizzare l'universalità degli uomini di tutti i tempi. L'interpretazione che si limitasse a ricordare l'aspetto umano del dramma, riconoscendovi la fedeltà del giusto perseguitato, eroico fino all'accettazione della morte, non raggiungerebbe il senso più fondamentale dell'evento. La stessa cosa dicasi per l'interpretazione che ricorresse semplicemente a delle immagini del mondo religiose giudaico come quella del profeta martire.30 Anche la risurrezione non basterebbe a conferire alla morte di Gesù le sue vere dimensioni. Essa non e, in se, che la rianimazione del corpo nel quale sorge e trionfa la vita divina. Riceve la sua grandezza dalla persona divina del Figlio, che manifesta ormai la pienezza della forza della sua Incarnazione. Tutto il mistero pasquale misura dunque il suo senso e il suo valore con la trascendenza dell'ontologia di Cristo. Questa conserva la sua importanza fondamentale in cristologia. Ma, d'altra parte, e vero che il mistero pasquale e centrale nell'opera divina della salvezza e che l'Incarnazione si e prodotta in vista del sacrificio redentore e della risurrezione. La salvezza non e il diretto risultato della venuta del Figlio di Dio in questo mondo e della sua permanenza fra gli uomini; e stata meritata dalle sofferenze e dalla morte del Salvatore, ed e stata comunicata in virtù della potenza trionfante del risuscitato. Gia nella prospettiva dell'inno cristologico della lettera ai Filippesi (2, 6-11), la morte e il trionfo glorioso erano stati considerati come il compimento dell'opera dell'Incarnazione. Questa e consistita in uno spogliamento che ha assunto la sua forma più estrema nell'obbedienza della croce, sorgente dell'elevazione celeste del Signore. Non si può dunque capire il dinamismo dell'Incarnazione che guardando il dramma finale. 2. Rivelazione di Dio nella sofferenza è proprio solo nella passione e morte di Gesù che si può cogliere ciò che Dio ha voluto rivelare di se stesso. La rivelazione della sofferenza di Dio e inseparabile dalla rivelazione del suo amore. L'affermazione « Dio ha sofferto » appartiene alla tradizione come affermazione dell'unita di persona: colui che ha sofferto sulla croce e 30 Cfr. tra gli autori: H. COUSIN, Jesus prophete martyr, in Dossier Jèsus, 11-14, e l'opera dello stesso autore Le Prophete assassine, Parigi 1977. 248 personalmente Dio. Ma essa non è stata sempre compresa nel suo valore, perché agli occhi di molti non esprimeva che una specie d'attribuzione logica della sofferenza del Figlio di Dio, senza che vi sia assunzione reale dalla sua persona. Il principio dell'immutabilità divina, che suscitava l'avversione ad ammettere l'impegno di Dio nell'Incarnazione, svia maggiormente da ogni reale impegno di Dio nella sofferenza. Ma il Figlio di Dio, che si è pienamente impegnato nella vita umana, non ha esitato ad impegnarsi nella sofferenza. Vi e stata un'autentica sofferenza di Dio nella passione. Certo, la crocefissione non è che una sofferenza umana che colpisce il Figlio di Dio. Ma per il fatto che tocca la persona divina essa ci fa intravedere una realtà della sofferenza di Dio che non si limita al dolore della natura umana. Il problema assume tutta la sua estensione quando ci si domanda quale e stata la partecipazione del Padre al dramma della croce. Gesù stesso c'invita a vedete nella sua sofferenza di crocifisso una rivelazione della sofferenza misteriosa del Padre: « Chi ha veduto me, ha veduto il Padre » (Gv. 14, 9). Egli pronuncia tali parole sulla sua intimità col Padre, intimità di mutua appartenenza, di immanenza reciproca, d'unione permanente, che difficilmente si potrebbe pensare che il dramma della passione non sia stato vissuto dal Figlio in comunione col Padre31. Inoltre, san Paolo e san Giovanni vedono come suprema manifestazione dell'amore del Padre per l'umanità, l'invio dell'unico Figlio alla morte, facendo eco su questo punto a quanto Gesù stesso aveva brevemente descritto con la parabola dei vignaioli omicidi. Paolo più particolarmente fa allusione al sacrificio d'Isacco, ricordando come il Padre « non ha risparmiato il proprio Figlio » (Rom. 8, 32); e indica così
che l'atto decisive d'amore del Padre consiste nel sacrificare il proprio amore paterno. Il Padre, che e all'origine di tutto il piano della salvezza, e stato il primo ad impegnarsi liberamente e volontariamente nella sofferenza. Sebbene la sofferenza di Dio vada intesa in un senso analogico come tutto quello che si dice di Dio, essa nondimeno e reale. La rivelazione dell'amore sofferente di Dio nella passione e 31 La reazione contro il patripassianismo ha spesso impedito di prendere in considerazione il problema della sofferenza del Padre nella Passione. Il patripassianismo afferma la sofferenza del Padre in ragione della identità di persona fra Gesù e il Padre. E questa identità che non si può ammettere. Il problema concerne la sofferenza del Padre come persona distinta dal Figlio, ma in comunione con lui. 249 illuminante per il significato della sofferenza umana. Non solo questa e destinata a dispiegare l'amore ad un grado supremo ma e sicura di avere tutta la « simpatia » divina: se il Padre ha compatito col dolore di suo Figlio crocifisso, compatisce anche la sofferenza di tutti quelli che considera come suoi figli nel Figlio suo prediletto. Questo aspetto dell'amore discendente di Dio verso gli uomini non può far dimenticare l'altra faccia della morte di Gesù, quella dell'amore che sale dall'umanità verso il Padre. Quest'amore assume sulla croce la forma di un sacrificio espiatorio offerto per i peccati degli uomini. Nelle cristologie non calcedoniane, la nozione di un sacrificio d'espiazione, con la sostituzione implicata nel fatto che l'innocente si offre per i colpevoli, e stata spesso rigettata. Ma il valore d'espiazione del sacrificio e la sostituzione del giusto ai peccatori erano stati indicati da Gesù stesso quando aveva detto: « Il Figlio dell'uomo e venuto... dare la sua vita in riscatto per la moltitudine » (Me. 10, 45; Mt. 20, 28), riferendosi così alla profezia del servo sofferente che, pur essendo giusto, dava la sua vita in sacrificio per la salvezza della moltitudine. Nel Cristo, che e l'alleanza, avviene l'incontro dell'amore che dal Padre va verso l'umanità e dell'amore che si eleva in offerta perfetta verso il Padre, a nome degli uomini peccatori. Non si può disconoscere in lui ne l'espressione dell'amore divino, nel'omaggio umano d'obbedienza al Padre. Il Padre stesso ha inviato suo Figlio come « vittima di propiziazione ». Ha voluto questo sacrificio espiatorio affinché l'umanità potesse collaborare alla riparazione delle colpe e all'opera della salvezza 32. J>. Risurrezione e glorificazione di Cristo Prima di tutto e importante riconoscere la realtà dell'avvenimento della risurrezione. Questa realtà forma un oggetto essenziale della fede, al punto che Paolo può dire che se il Cristo non fosse risorto la nostra fede sarebbe vana (1 Cor. 15, 14-17). Ora anche quelli che vedono nella risurrezione il punto di partenza della fede, talvolta sono portati a ridurre la realtà del32 Espiazione e sostituzione debbono intendersi in modo analogico; l'espiazione è offerta da un innocente, non da un colpevole; la sostituzione non vuol dire che gli uomini sono dispensati da ogni riparazione, ma che sono invitati ad una collaborazione alla redenzione sul fondamento dell'opera compiuta dal Salvatore. 250 l'evento; nelle cristologie non calcedoniane la risurrezione è spesso interpretata come il semplice fatto della vita di Cristo dopo la morte e della sua presenza spirituale presso i suoi discepoli. Essa non e più l'avvenimento per cui il corpo messo nella tomba ha ripreso vita, godendo ormai di una condizione superiore a quella della vita terrena, essendo pieno della potenza divina dello Spirito. Essa non e neanche più un avvenimento oggettivo, ma soltanto uno stato di Gesù. Le apparizioni del risorto sono considerate come dei racconti che non descrivono fatti storici, ma rappresentazioni con le quali l'immaginazione dei discepoli ha voluto esprimere delle esperienze interiori di conversione o di vita con Gesù33. Questo modo di vedere, che non risponde alla testimonianza dei testi evangelici, toglie alla risurrezione quella realtà che le riconoscono san Paolo e i primi discepoli; realtà corporale di un avvenimento che si e prodotto il terzo giorno dopo la morte. La risurrezione perde il suo valore d'incarnazione. Contro questa riduzione, la cristologia deve accogliere l'avvenimento che si e prodotto in un momento della storia e che non ha trasceso questa storia che inserendovisi; essa deve ammettere anche una risurrezione propriamente corporale, secondo l'attestazione: « Guardate le mie mani ed i miei piedi: sono proprio io! » (Lc. 24, 39). E così che la risurrezione appare come la creazione di una umanità nuova, il cui modello definitivo si è realizzato nella carne. Nel Cristo risuscitato si manifesta la vita divina destinata a divinizzare l'umanità nella sua condizione carnale; divinizzazione di cui l'ultimo effetto sarà la risurrezione della carne alla
fine dei tempi. Questa vita divina porta il sigillo speciale della persona di Gesù, poiché e una vita filiale: il risorto condivide con i suoi discepoli la sua filiazione divina, in modo tale da chiamarli suoi fratelli, e suo Padre diviene loro Padre (Gv. 20, 17). Il principio dell'incarnazione, che si verifica nel trionfo glorioso di Cristo dopo la morte, fa anche comprendere come questo trionfo si sviluppi progressivamente, in tappe successive, e non consista 33 Spesso la via presa per giustificare questa interpretazione dei racconti delle apparizioni del risuscitato adotta, come punto essenziale di riferimento, il racconto della conversione di Paolo; così Schillebeeckx pensa che « la visione della conversione » riportata negli Atti degli Apostoli, dia il modello secondo cui si sono sviluppati i racconti delle apparizioni di Cristo agli apostoli (Jezus, 310). La differenza e grande fra i racconti in cui Gesù appare col suo corpo visibile ai discepoli, e quello in cui, senza farsi vedere, ferma Paolo sulla strada di Damasco. 251 unicamente nell'avvenimento della risurrezione. Sarebbe una semplificazione che impoverisce, l'identificare glorificazione di Cristo e risurrezione. Vi e stata anzitutto una glorificazione dell'anima di Gesù, nel momento della morte; questa glorificazione spirituale, secondo il racconto simbolico della discesa agl'inferi, e stata il principio della comunicazione ai defunti della buona novella della salvezza, ossia della beatitudine eterna. Poi vengono la risurrezione e l'ascensione, due tappe della glorificazione corporale di Gesù. La risurrezione e mistero del sorgimento della vita divina nella carne, e l'ascensione, espressa simbolicamente con l'assidersi alla destra del Padre, e il mistero del potere nel quale Gesù e ormai stabilito come sovrano dell'umanità. Egli esercita questo potere inviando lo Spirito Santo per formare e sviluppare la Chiesa, che e il suo regno; l'avvenimento della Pentecoste e l'ultima manifestazione del suo trionfo glorioso, quella che e destinata a prolungarsi fino alla fine del mondo. Se vi è stata una successione di avvenimenti per compiere e far conoscere, sotto i suoi diversi aspetti, la glorificazione di Cristo dopo la morte, vuol dire che l'Incarnazione richiedeva questo sviluppo visibile nel ritmo della storia umana 34. È compito della cristologia cercare di discernerli, nella loro distinzione e concatenamento, evitando di confonderli o di concepirli in maniera troppo vaga, in una visione globale. Lo sviluppo progressivo fa scoprire la ricchezza dell'opera di salvezza personificata nel Cristo. E) CRISTOLOGIA SOTERIOLOGICA D'ORIZZONTE SOCIALE E COSMICO 1. Cristologia soteriologica La cristologia non può mai essere separata dalla soteriologia, perché il Figlio di Dio si e incarnato per la salvezza dell'umanità. La formula impiegata a Nicea e ripresa a Calcedonia: « per noi e per la nostra salvezza », indica questo orientamento soteriologico35. Fin dai primi secoli, le interrogazioni sulla persona di Gesù hanno rice34 Quando la risurrezione non è più riconosciuta come avvenimento, va da se che si manifesti ugualmente la tendenza riduzionista sia per l'Ascensione che per la Pentecoste che perdono il loro carattere di eventi e non sono più che degli aspetti della condizione di Gesù dopo la morte (p. es. SCHILLEBEECKX, Jezus, 436-445). DS 125; 301. 252 vuto una risposta che si basava sull'opera della salvezza: Gesù e Dio perché divinizza l'umanità; egli possiede un'anima umana perché salva le anime secondo il principio che ciò che non è assunto dalla sua persona non è salvato. Già sant'Ireneo sottolineava che Gesù è vero Dio e vero uomo, perché Dio solo può procurare efficacemente la salvezza e restaurare l'unione con gli uomini.36 Anche la ricerca che si applica a definire l'ontologia di Cristo non può dunque mai perdere di vista le esigenze dell'opera della salvezza. Ogni impoverimento ontologico si traduce in un impoverimento soteriologico. Se non si guarda più a Gesù come al Figlio di Dio incarnato, il destino di tutta l'umanità ne subisce il contraccolpo: logicamente non si può più ammettere la divinizzazione che opera il Figlio comunicando la sua vita divina. Certe cristologie rovesciano d'altronde il senso della missione di Cristo assegnando, come fine e scopo della sua azione, non la divinizzazione dell'uomo, ma la sua umanizzazione. È vero che vi e una umanizzazione prodotta da Cristo, che rende l'uomo a se stesso, e gli permette, liberandolo, di dispiegare tutte le sue virtualità umane. Ma questa umanizzazione si opera in una trasformazione che vuole elevare la vita umana ad un livello superiore con il dono della vita divina. Se la divinizzazione offerta da Gesù all'umanità e misconosciuta, il valore più alto della sua opera scompare. L'uomo si ritroverebbe considerevolmente più povero se Gesù non fosse il Figlio di Dio incarnato: e sarebbe lasciato, così, semplicemente, ai suoi limiti umani. Non avrebbe beneficiato della solidarietà per la quale colui che e Dio vive una vita umana simile alla nostra conferendo una nobiltà trascendente a tutte le azioni umane anche le più banali. Non sarebbe stato elevato al livello di Dio; non si potrebbe
più accogliere la parola di Clemente d'Alessandria sul « Verbo di Dio, divenuto uomo, affinché tu apprenda ancora da un uomo come un uomo può divenire Dio »37. Se il Cristo non fosse più il Figlio capace di farci entrare nella sua filiazione divina, l'ambizione dell'opera della salvezza sarebbe incomparabilmente più modesta. La concessione della salvezza per mezzo di Cristo sarebbe di per se difficilmente spiegabile. Un Gesù che fosse un semplice uomo 36 Haer. 4, 6, 7, SC 100, 452; 3, 187, SC 211, 365-7; 3, 33, 4, SC 100, 811. 37 Protreptico, I, 8, 4; PG 8, 64 D; cfr. J. M. GROSS, La divinisation du chrétien d'après les Pères grecs, Parigi 1938, 163. 253 non potrebbe agire sull'umanità che con mezzi umani. Lo hanno presentato come un esempio38, come colui che realizza alla perfezione il piano di Dio sulla vita umana o come colui che rivela la grandezza dell'amore. Ma non essendo che un uomo, non potrebbe raggiungere che le persone umane alle quali viene riportato il suo esempio ossia una minoranza dell'umanità. La corrente d'amore che lui ha suscitato nei contatti con i suoi discepoli e che si prolunga nella vita della Chiesa, e anch'essa limitata a certi ambienti umani. Il Cristo non sarebbe più il Salvatore universale, colui che ha apportato la salvezza all'umanità tutta intera. Non sarebbe più colui che ha operato la liberazione interiore dell'uomo assicurandogli la vittoria della grazia sul peccato. Coloro che attirano l'attenzione sulla necessita di considerare la situazione dell'uomo attuale nella elaborazione della cristologia, non hanno torto. Conviene anche allargare questa preoccupazione, considerando la sorte degli uomini di tutti i tempi. Ma volendo ridurre Gesù alla dimensione di un uomo, si toglie all'uomo attuale ciò che costituisce il valore del suo destino, l'accesso ad una vita filiale e la dignità trascendente conferita a tutta la sua esistenza umana. È il Figlio di Dio incarnate che da il suo senso a tutto quello che vi e di umile e di oscuro nella nostra vita. 2. L'orizzonte sociale Se l'orientamento soteriologico deve essere presente in tutta la cristologia, il suo aspetto sociale deve ugualmente essere evidenziato: non sono solo degli individui, ma la società come tale che il Cristo e venuto a salvare. Recentemente, molti hanno voluto spingere la cristologia sulla via di una soluzione da dare, teoricamente e praticamente, ai problemi sociali che si pongono con urgenza nel mondo. La liberazione compiuta da Cristo e stata interpretata nel senso di una liberazione d'ordine politico e sociale, o per lo meno nel senso di una liberazione che non poteva raggiungere il suo obiettivo essenziale se non liberando i popoli dalla loro situazione di dipendenza, mettendo fine all'oppressione delle classi sociali che sono vittime dello sfruttamento. 38 Reagendo alla dottrina della soddisfazione e della sostituzione, Schoonenberg ha tentato di spiegare con un esempio l'influenza di Gesù sull'umanità: Christus verlossingsdaad, Bijdragen 1966, 468-484, in Sept problemes capitaux, 155-158. 254 In questa prospettiva, la salvezza è identificata all'instaurazione della giustizia sociale. Oltre alla convinzione che tutta la società e salvata da Cristo, si deve apprezzare, in questa elaborazione cristologica, la preoccupazione di assicurare, nella vita concreta della società, le conseguenze derivanti dalla liberazione nel campo delle relazioni sociali. In effetti, e in tutti gli aspetti dell'esistenza umana, in tutti i comportamenti psicologici e morali, ed in tutta l'organizzazione delle strutture sociali, che la salvezza di Cristo deve far sentire la sua influenza trasformante. Tuttavia non si può spostare l'obiettivo essenziale dell'opera della salvezza, obiettivo di natura spirituale e religiosa. Gesù non può essere assimilate a qualcuno che avrebbe voluto reagire, anzitutto, contro le ingiustizie o contro lo sfruttamento di una classe. Non e venuto a portare un programma di rivendicazioni sociali e anche nella « carta » delle beatitudini, non ha esitato a proclamare la felicita dei poveri.39 Ha posto la sua azione liberatrice nel quadro delle relazioni dell'uomo con Dio: la servitù o l'oppressione da cui voleva liberare l'umanità era quella che riguardava l'interno dell'uomo, abbandonato per il peccato alle proprie brame. Questa liberazione, il Cristo l'ha operata una volta per tutte con il suo sacrificio: questo fatto ha reso agli uomini la capacita di formare una società più giusta; ha permesso loro di dominare il proprio egoismo e di sviluppare fra essi relazioni non solo di giustizia ma d'amore. È ai cristiani che appartiene applicare al loro comportamento politico e sociale il precetto fondamentale del mutuo amore, con le sue esigenze di rispetto dei diritti altrui e di cooperazione al bene comune. È pure ad essi che incombe il compito di stabilire le strutture atte a favorire il più possibile l'equa ripartizione dei beni e l'armonia sociale. La teologia e la cristologia, in questo campo, non possono dare che degli orientamenti e dei principi; non e di loro competenza determinare dei programmi d'azione politica e sociale40. 39 G. Gutierrez si e sforzato d'interpretare la beatitudine in un modo che ne attenua la portata: i poveri
sono felici, commenta, «perché l'avvento del Regno metterà fine alla loro povertà creando un mondo fraterno » (Theologie de la Liberation, tr. fr. Bruxelles 1974, 296). Questo significherebbe che i poveri saranno felici in ragione della soppressione della povertà materiale, mentre invece questa povertà è apprezzata da Gesù per il suo valore d'ordine religiose nel possesso del regno spirituale. 40 Per il fatto che il Cristo ed il suo insegnamento debbono influire su tutta la vita umana, la cristologia non deve essere concepita come una scienza universale 255 Non si può neanche dimenticare che l'orizzonte sociale più essenziale alla cristologia e quello della Chiesa. Gesù ha fondato una società a sua immagine, società alla quale ha affidato tutta la sua rivelazione e tramite la quale ha voluto diffondere nel mondo il suo messaggio e la sua vita divina. In questa società, assicura la realizzazione dell'ideale d'amore che deve unire gli uomini a lui stesso e fra di loro. È vero che questa realizzazione spesso e velata dalle imperfezioni e colpe dei cristiani ma, malgrado questi ostacoli, essa si mantiene e si sviluppa in virtù dell'azione di Cristo che opera per lo Spirito e conduce la vita della Chiesa promuovendone la santità e l'unità. I teologi che hanno abbandonato l'affermazione dell'identità divina di Gesù hanno anche manifestato la tendenza a staccarsi dalla Chiesa. Le critiche che possono essere fatte alla condotta dei membri della Chiesa non giustificano un disimpegno di fronte alla Chiesa stessa. In questa Chiesa si ritrovano dei tratti identici del volto di Cristo. Non vi e nessuna società al mondo che sia così universale, così una nelle disposizioni profonde dei suoi membri, né che porti in se tanto amore, tanto servizio e dedizione a beneficio di tutti. I valori positivi della Chiesa riflettono quelli che sono rivelati nel Gesù dei vangeli. 3. L'orizzonte cosmico Nell'orientamento soteriologico, l'universo materiale appare come solidale con il destino umano. L'orizzonte cosmico della cristologia deriva dal senso stesso dell'Incarnazione: se il Verbo si e fatto carne, la materia e stata assunta dal Figlio di Dio e conglobata nell'opera di divinizzazione. Occorre dimostrare come il Cristo ha trasformato la sorte dell'universo. Gli sforzi della scienza per conoscere meglio la materia, e quelli della tecnica per dominarla e farla servire al bene dell'umanità, indicano fino a che punto il mondo materiale sia importante per che determina tutte le conseguenze psicologiche, sociologiche o politiche che conviene estrarre dal Vangelo in ogni situazione umana e sociale. Essa si limita a studiare ciò che e stato il Cristo e ciò che ha fatto. Non si deve identificare il Vangelo con una opzione sociale o politica particolare. Il Sinodo episcopale del 1971 notava, circa la distanza che il prete deve osservare di fronte agli impegni politici: « le scelte politiche, di per se, sono contingenti e non interpretano mai in forma del tutto adeguata e perenne il Vangelo" (il sacerdozio ministeriale, Vaticano 1971, p. 21). 256 l'intelligenza e l'azione dell'uomo. In virtù della solidarietà del destino dell'uomo e del mondo, san Paolo ha affermato la partecipazione di tutta la creazione al dramma del peccato e della redenzione. L'alienazione che l'uomo provoca con. il peccato nella sua esistenza personale si ripercuote in una servitù imposta alle cose che sono deviate dal loro proprio destino. L'universo materiale e trascinato nella speranza della redenzione corporale (Rom. 8, 19-23). Il piano divino consiste nel « ricapitolare » tutto nel Cristo, tutto quello che e in cielo e tutto quello che e sulla terra (Ef. 1, 10). Il Cristo dunque apporta la salvezza al cosmo41. Tuttavia non si potrebbe interpretare questa efficacia cosmica della redenzione nel senso di un'opera liberatrice che colpirebbe nello stesso modo tutto l'insieme della realtà del mondo. Il Cristo non e venuto a salvare direttamente la materia per se stessa. La fa semplicemente partecipare ad un'opera di salvezza che mira a liberare le persone umane ed a comunicare loro la filiazione divina. È solo indirettamente, in ragione della solidarietà con la sorte dell'uomo, che gli esseri materiali beneficiano della salvezza. Paolo stesso lo 'ascia capire, scrivendo che la creazione aspira ad « entrare nella liberta della gloria dei figli di Dio » (Rom. 8, 21). La liberta dei figli di Dio rimane l'obiettivo essenziale della redenzione, ma si accompagna ad una liberazione dell'universo, associate all'elevazione divina concessa all'uomo42. Non si può fare astrazione da questa risonanza cosmica dell'opera di Gesù. Si tratta d'integrare questa verità nel modo di conoscere l'universo. L'espansione dell'universo materiale e l'evoluzione della vita sono assunti in un disegno superiore di salvezza e di divinizzazione; l'energia dispiegata nella creazione riceve da Cristo una nuova destinazione infinitamente più alta. Il Figlio di Dio incarnato conduce la materia e la vita ad un termine finale, che permetterà loro di partecipare pienamente al destino celeste dell'uomo; questo termine, segnato dalla risurrezione della carne e la trasformazione del mondo temporale in mondo dell'eternità, rimane misterioso. Ma la carne risuscitata del Verbo ne contiene la sicurezza. Essa è la base della divinizzazione del cosmo e conferisce alla materia la sua suprema dignità. 41 La centralità di Cristo nel cosmo è stata messa in luce dalle opere di Teilhard de Chardin. Un
esposto sintetico dei rapporti di Cristo con il cosmo quale emerge alla luce della Scrittura, della Tradizione e della riflessione teologica e stato pubblicato da W. Beinert, Christus und der Kosmos. Perspektiven zu finer Theologie der Schopfung, Friburgo-Basilea-Vienna 1974. 42 La partecipazione del mondo al destino « dei figli di Dio » attesta l'importanza della filiazione divina di Cristo nell'opera di redenzione dell'universo. È la qualità di Figlio di Dio che è la realtà decisiva. 258 INDICE DEGLI AUTORI Agostino, 170, 194. Alfaro J., 159. Altizer Th., 238. Anastasio il Sinaitico, 184. Anselmo, 17, 60, 65, 170. Apollinare, 150, 186, 187, 188. Ario, 152. Assmann H., 62. Atanasio, 152. Aubin P, 247. : Bacht H, 201. Barren C. K., 213. Barth K., 14, 34, 85, 128, 169-172, 176, 180, 181, 186, 193. Bauer J. B., 81. Beaude P. M., 47-49, 99. Beinert W, 257. Belo R, 228. Bessiere G., 46, 47. Boff L, 62, 63. Bonhoffer D., 11, 65. Boularand E., 152. Bourgault R., 51-52. Bourgeois H., 99. Bowman F. P., 228. Brown R. E., 68. Bultmann R., 34, 54, 71, 98, 111, 128. Cabet E., 228. Calvino J., 170, 171, 203. Gazelles H., 211. Cirillo d'Alessandria, 185. Clemente d'Alessandria, 253. Comblin J., 61. Congar Y. M. J., 201, 203. Cousin H., 47, 248. Deodat de Basly, 198. Dewart L., 75. Duquoc Ch, 33-42, 57, 94, 95, 102, 109, 114, 128, 142. Epifanio, 186. Ernst, J., 207. Feillet B., 47. Flicla M, 158. Flusser D., 228. Fourier C, 228. Freud S, 48. Gaetano, 22, 200. Galot J, 108, 110, 140, 142, 209, 210, 233. Gervais M, 51. Gonzalez Faus J. L, 55-61, 73, 95, 153, 154, 162. Grillmeier A, 150, 182, 185, 186, 187, 201. Grollenberg L, 29. Gross J. M., 253. Günther A., 170, 186.
Guerrero J. R., 72-74, 103. Gutiérrez G., 61, 255. Haarsma J., 32. Habermas J., 40. Hegel G. W. F., 63, 75, 101. Heidegger M., 101, 111, 122. Hellwig M. K., 87-89. Hooker M. D., 136, 137. Hulsbosch A, 18-22, 58, 92, 93, 97, 98, 100, 101, 113, 121, 154, 161, 200, 210. Ignazio d'Antiochia, 184, 185. Ireneo, 184, 253. Jammarone L., 152. Jeremias J., 44, 128, 138. Jossua J. P., 46, 47. Kannengiesset C., 186. Kasper W., 144, 145. Kitatnori K., 221. Küng H., 67, 68, 75-79, 92, 94, 96, 99, 113, 114,'151, 152, 237. Laflamme R., 51. Lafont G., 175. Lagrange M. J., 214. Lapide P., 79. Latourelle R., 135, 144. Lauret B., 231, 235. Legasse S., 145. Le Guillou M. J., 159. Leon-Dufour X., 145. Leone (Papa), 183, 189, 190. Lion A., 46, 228, 229. Lutero M., 61, 201, 203. Maas W., 236. Malevez L., 111. Marchel W., 137. Marchesi G., 213. Marx K., 57. Marxsen W., 34, 99, 128. Mascall E., 137. Medina J., 159. Melitone di Sardi, 184. Metz J. B., 126. Michel M., 230. Michiels R., 29, 30. Miranda M., 62. Molari C., 81. Moltmann J., 34, 128, 221, 240. Miihlen H., 237. Miihlenberg E, 186, 187. Munoz Iglesias J., 209. Myre A., 52-53. North R., 21. Origene, 214. Ortensio da Spinetoli, 80-84. Ortiz de Urbina I., 151. Pannenberg W., 34, 128, 209, 210. Pelagio, 18. Perrin N., 136. Pesch R., 220. Pikaza X., 67-72, 94, 117, 118. Pinchon M., 46, 47. Pohier J., 46, 47, 49-51, 103, 128, 233.
Potterie (de la) I., 204, 210, 220. Proclo di Costantinopoli, 182. Rabut O., 47. Rahner K., 14, 64, 71, 93, 96, 101, 122-125, 126, 129, 153, 172-175, 177-182, 228, 234. Richard J., 53-54. Richard M., 182, 186, 187. Riedmatten (de) H., 187. Robinson J. A. T., 11. Rousseau A., 46. Saint-Simon (de) Cl.-H., 228. Sala G. B., 152. Scheeben M. J., 171. Scheffczyla L., 194. Schelkle K. H., 68. Schillebeeckx E., 21-28, 80, 92, 95, 99, 102, 103, 114, 133, 152, 161, 162, 199, 200, 229, 230, 244, 251, 252. Scnleiermacher F. S., 230. Schnackenburg R., 213, 214. Schoonenberg P., 11-18, 21, 26, 29, 31, 40, 45, 59, 61, 68, 70, 92, 93, 94, 96, 97, 102, 142, 153, 154, 155, 161, 198, 203, 205, 228, 239, 254. Sesboüe B., 156. Simon M., 47. Smulders P., 31. Sobrino J., 61-67, 92, 95, 113, 245. Spicq C., 218. Spitz J., 27. Strauss D. F, 62, 199. Taylor V., 205, 215. Teilhard de Chardin, 101, 123, 257. Tertulliano, 183, 193. Thusing W., 64, 122, 126, 228. Tillich P., 230. Tomrnaso d'Aquino, 22, 170, 171, 174, 199, 200, 242. Tracy D., 84-87, 94. Urs von Balthasar H., 213. Van Buren P., 40. Veldhuis M., 30, 31, 92, 152. Vergote A., 30. Vidales R., 62. Vorgrimler H, 178, 179. Westcott B. F., 218. Westermann C., 206. Wevers J. W., 208. Witte J. L., 203. 260 INDICE DELLE MATERIE Introduzione ........... pag. 5 PARTE I CRISTOLOGIE NON CALCEDONIANE CAPITOLO I - IL « NUOVO APPROCCIÒ CRISTOLOGICO » IN OLANDA ........... 11 A. Il Cristo, persona umana unita al Verbo, secondo P. Schoonenberg .......... 11 1. Abbandono delta cristologia tradizionale » 11 2. Rovesciamento del modello ....... 14 3. Fondamento e prolungamento ....... 16 B. Gesù, l'uomo che ha un'esperienza unica di Dio, secondo A. Hulsbosch ........... 18 1. L'unicità di Gesù in un quadra evoluzionista . . . » 18 2. Gesù nel quadra biblico della Sapienza . . . . » 20 C. I tentativi di una nuova cristologia di E. Schillebeeckx . » 21 1. Gesù, presenza assoluta di Dio . . . . . . » 21 2. Il pluralismo delle risposte cristologiche . . . . » 23
3. Gesù di Nazaret, persona umana e Figlio di Dio . . » 4. « L'uomo di Dio ........... D. L'estensione della corrente teologica ....... 263
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CAPITOLO II - SAGGI CRISTOLOGICI DI LINGUA FRANCESE .......... pag. 33 A. Gesù, uomo libero, secondo Christian Duquoc ...» 33 1. La lotta di Gesù e il mistero pasquale . . . . » 33 2. La filiazione divina .......... 37 3. Reazione alla cristologia tradizionale ...... 39 B. Il movimento verso un'altra cristologia ...... 43 1. « Iniziazione teologica » al Cristo Salvatore ...» 43 2. Dossier Gesù ........... 46 3. Dimenticare Gesù .......... 47 4. Suscitare Gesù Cristo e Signore ....... 49 5. 77 volto di Gesù in un colloquio di cristologia . . » 51 Gesù relazione ........... 51 Il profeta escatologico ......... 52 Il figlio adottivo .......... 53 CAPITOLO III SAGGI CRISTOLOGICI DI LINGUA SPAGNOLA ...
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A. L'umanità nuova, secondo J. I. Gonzàlez Faus ...» 1. Dal concilio di Calcedonia al linguaggio moderno» 2. La coscienza di Gesù .......... 3. La divinità, estensione della possibilità dell'essere umano ........ 4. La sussistenza divina ......... 5. L'opera della salvezza ........ »
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B. Cristo, cammino verso Dio, secondo J. Sobrino ...» 1. La relazione al regno di Dio ....... 2. Relazione di Gesù col Padre ....... 3. Gesù, rivelazione del cammino verso Dio ...» 4. L'opera di liberazione .........
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C. Le origini di Gesù, secondo X. Pikaza ...... 67 1. L'origine umana e il problema della concezione verginale •-..........» 67 2. La filiazione divina .......... 69 D. Un Gesù differente con progetto di catechesi
...»
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CAPITOLO IV - SAGGI CRISTOLOGICI IN ALTRE LINGUE .. pag. A. Gesù, intendente e rappresentante di Dio, secondo Hans Küng ... 1. La reinterpretazione di Calcedonia e l'identità di Gesù . » 2. Il Gesù evangelico .......... 3. La nota distintiva del cristianesimo ......
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B. Un uomo comune che scopre la sua filiazione divina, secondo Ortensie da Spinetoli ... 80 1. Relativismo delle formulazioni cristologiche ...» 80 2. Il senso della filiazione divina ....... 80 3. Le « ombre » del Cristo del Vangelo ...... 82 4. Il vero volto di Cristo ......... 83 C. Gesù il Cristo: senso della comprensione che l'uomo ha di se stesso, secondo David Tracy .84 D. Una presentazione catechetica: Gesù espresso con immagini e paradossi ..87 CAPITOLO V - Linee Essenziali Dello Sviluppo Delle Cristologie Non Calcedoniane 91 A. Orientamenti dottrinali . .......-» 91 1. L'abbandono dell'affermazione della persona divina . » 91 2. L'abbandono della dottrina trinitario » 93
3. L'abbandono della dottrina del sacrificiò redentore . » 94 B. Sorgenti e modelli del pensiero cristologico » 96 1. Contestazione e reinterpretazione dei concili di Nicea e di Calcedonia .. 96 2. Riduzione del valore della testimonianza evangelica . » 97 3. Le strutture filosofiche . . . . . . . . » 101 4. La prospettiva antropologica ....... 102 PARTE II PRINCIPI METODOLOCIGI FONDAMENTALI CAPITOLO VI - LA CRISTOLOGIA E LA FEDE . . . pag. 107 A. La teologia approfondimento della fede . . . . . » 108 B. Il ruolo della fede nella ricerca . . . . . . . » 110 1. La fede prima della ricerca cristologica . . . . » 110 2. La fede nella ricerca cristologica . . . . . » 112 C. Il metodo teologico e la fede . . . . . . . » 115 D. Fede e riflessione creatrice . . . . . . . . » 117 CAPITOLO VII - LA CRISTOLOGIA E IL DATO SCRITTURALE ............ 121 A. Il problema della priorità per esegesi e dottrina ...» 122 1. Saggio di priorità dottrinale: la « cristologia trascendentale » di K. Rahner ..... 122 2. Priorità dello studio scritturale . . . . . . » 125 B. Valore della sorgente scritturale per la cristologia dottrinale ............. 127 1. Il teologo di fronte agli studi esegetici: scelta, sintesi e sistemazione più ampia .... 127 2. La tentazione del minimalismo ....... 130 a) Saggi di « tabula rasa » ........ 131 b) Il metodo della riduzione all'umano . . . . » 132 3. La ricerca dell'autenticità ........ 134 4. Parole autentiche di Gesù a testimonianza della sua identità personale . 137 a) « Abbà »,.........» 137 b) «Sono io» . . . . . . . . . . » 138 c) « Il Figlio dell'uomo ».......» 139 d) Differenza con le espressioni di fede della comunità . » 141 266 5. Gesti autentici di Gesù ........ pag. 142 a) La realtà dei miracoli ........ 142 b) I miracoli più contestati ........ 145 c) Testi sospetti .......... 146 d) L'interpretazione dei miracoli ....... 147 CAPITOLO VIII - LE DEFINIZIONI CONCILIARI E IL PROBLEMA ERMENEUTICO ....... 149 A. I concili di Nicea e di Calcedonia . . . . . . » 149 1. Ellenizzazione e disellenizzazione . . . . . . » 149 2. Valore del concilio di Nicea . . . . . . » 151 3. Valore del concilio di Calcedonia . . . . . » 153 a) Il concetto di natura ......... 153 b) La dualità ........... 154 c) Essenzialismo o definizione ontologica? ...» 155 B. Valore delle definizioni conciliari ....... 157 1. Valore definitive .......... 157 2. Vincolo con la Scrittura . . . . . . . . » 159 3. Principio di un'ulteriore ricerca ....... 160 4. L'unica via ........... 161 5. Valore per la cultura d'oggi . . . . . . » 162 PARTE III L'UNICA PERSONA DI CRISTO CAPITOLO IX - VALORE DELLA NOZIONE DI PERSONA » 169 A. La critica generale della nozione di persona . . . . » 169 1. La critica di K. Barth: « maniera d'essere » piuttosto che « persona .... 169 2. La critica di K. Rahner: «modo distinto di sussistenza» piuttosto che «persona» . . » 172 3. Riflessioni sui sostituti del termine « persona » . . » 175 B. Valore del concetto di persona in cristologia . . . . » 177 1. La critica della nozione di persona in cristologia, secondo K. Rahner .. 177 267
2. Il confronto dei concetti di persona ..... pag. 182 a) La nozione calcedoniana di persona . . . . » 182 b) La persona, soggetto di coscienza e di libertà . . » 185 La distinzione fra persona e spirito . . . . » 185 La persona, principle di attività spirituale ...» 189 c) La persona in dottrina trinitaria e in cristologia . » 192 CAPITOLO X - VALORE DELLA DUALITÀ DI NATURA NELL'UNITA DI PERSONA ...197 A. Il valore dell'unità di persona ....... » 197 B. Il valore della dualità di natura ....... 201 C. Il rapporto d'espressione fra natura divina e natura umana » 204 1. L'umanità di Gesù, immagine o espressione ...» 204 2. Il Figlio dell'uomo .......... 206 3. La concezione verginale, espressione dell'Incarnazione . » 208 4. Vertice della creazione . . . . . . . . » 211 5. Pienezza umana di Gesù nell'espressione . . . . » 213 D. L'impegno della persona divina nella vita umana . . . » 216 1. Impegno della persona divina ed espressione . . . » 216 2. Valore dell'impegno personale del Figlio . . . . » 217 3. La croce, termine ultimo dell'impegno e dell'espressione ............. 219 PARTE IV VERO VOLTO DELLA CRISTOLOGIA CAPITOLO XI - ORIENTAMENTI ESSENZIALI ...» 227 A. Cristologia esistenziale .......... 227 1. Incontro esistenziale di Cristo ....... 227 2. Incontrare, con la Chiesa, il Cristo trascendente . . » 229 B. Cristologia dinamica .......... 232 1. Dinamismo della maniera di pensare . . . . » 233 2. Dinamismo dell'Incarnazione ....... 234 268 C. Cristologia personalista ......... pag. 238 1. Persona e personalizzazione ........ 238 2. La coscienza filiale ..,......» 241 3. Determinazione della realtà profonda della persona . » 243 D. Cristologia pasquale .......... 246 1. Mistero pasquale e ontologia di Cristo . . . . » 246 2. Rivelazione di Dio nella sofferenza ...... 248 3. Risurrezione e glorificazione di Cristo . . . . » 250 E. Cristologia soteriologica d'orizzonte sociale e cosmico . . » 252 1. Cristologia soteriologica ........ 252 2. L'orizzonte sociale .......... 254 3. L'orizzonte cosmico ......... 256 Indice degli autori ........... 259 Indice delle materie ........... 261 269 ERRATA CORRIGE pag. 15, riga 7: di una natura umana anipostatica senza persona uma.no. pag. 36, riga 30: manifesta con evidenza la sua Signoria dimostrando agli occhi di tutti pag. 55, riga 8: 10 e perché e un uomo per gli altri. pag. 55, nota 2: Ibid., 506. pag. 67, nota 53: Los origines pag 68, riga 6: un padre umano pag. 101, riga 19: di un cambiamento profondo nel pensiero. pag. 134:
[I'ultima riga va inserita dopo la riga 25] pag 147, riga 3: benevolenza; pag. 152, nota 5: Parigi, 1972, 327-325. pag. 193, riga 26: 11 monosoggettivismo 50/0 e conforme all'unita ipostatica. pag. 211, riga 23: finalita della creazione. pag. 260, riga 21: Lafont G.