ARTE E CERVELLO
LAMBERTO MAFFEI, ADRIANA FIORENTINI
ZANICHELLI EDITORE
Domandarsi quali proprietà e caratteristiche del cervello rientrino nelle valutazioni di un'opera d'arte e nel piacere che essa dà è una curiosità che affascina. Perché certi stimoli visivi sembrano essere più interessanti di altri per il sistema nervoso? Perché questi segni e figure hanno valore emozionale, cioè sono così efficaci nello stimolare i centri dell'emozione? Le nostre conoscenze sul cervello, e in particolare quelle di neurofisiologia e di psicologia, possono essere di aiuto per comprendere certi aspetti formali delle opere pittoriche. Questo libro si propone di guidare il lettore alla conoscenza dei meccanismi che sottostanno alla percezione visiva e di svelare gli aspetti più propriamente psicologici della visione, cioè di quella "psicologia del vedere" che il pittore applica, sia inconsciamente sia volutamente, nella realizzazione della sua opera. Tale conoscenza favorisce nell'osservatore una più consapevole e approfondita comprensione dell'opera d'arte.
Lamberto Maffei è professore di neurobiologia alla Scuola Normale di Pisa e membro dell'Accademia dei Lincei e dell'Accademia Europea. Ha ricevuto diversi premi tra cui il premio Feltrinelli per la medicina. I suoi studi, molti dei quali in collaborazione con Adriana Fiorentini, riguardano la neurofisiologia e la psicologia della visione. Ha pubblicato per Mondadori, in collaborazione con Luciano Mecacci, il volume La visione, dalla neurofisiologia alla psicologia, Adriana Fiorentini, laureata in Fisica all'Università di Firenze, si è dedicata a ricerche di ottica e di psicofisica della visione presso l'Istituto Nazionale di Ottica di Arcetri e successivamente ha svolto attività di ricerca nel campo della psicologia della visione nell'uomo e in quello del comportamento visivo degli animali presso l'Istituto di Neurofisiologia del C.N.R. di Pisa.
NCS20"MAFFEI*ARTE E CERVELLO ISBN 8 8 - 0 8 - 0 9 7 5 2 - 8
7 8 9 0 12 3 4 (36A)
Al pubblico L. 39 000"*
© 1995 Zanichelli Editore S.p.A., via Irnerio 34, 40126 Bologna [9752] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Redazione di Giuliana Gambari Impaginazione e copertina di Roberto Marchetti In copertina: Diego Velàzquez, La toilette di Venere (1648-49). Londra, National Gallery Prima edizione: ottobre 1995 Ristampa:
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Referenze iconografiche © 1995 M.C. Escher/Cordon Art - Baarn - Holland. pagg. 1, 11, 69 © 1995 SIAE pagg. 2 (a), 124, 135, 140, 141, 184, 194, 198, 219 (b), 220 © 1995 Demart Pro Arte B.V. pagg. 8, 43 (b) © 1989 American Psychological Association. pag. 31 Archivio Iconografico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana pag. 24 (a) Alinari pag. 66 (a) A. Dagli Orti pag. 17 H. Daucher pag. 70 (a) J. Hart and Creators Syndicate, Inc. pag. 207 A. Hinz pag. 46 F. Lovera pag. 50 (a) V. Lufinpag. 178 Marka Milano pag. 101 Scala Firenze pagg. 81 (a), 89, 90, 92, 176 (b)
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INTRODUZIONE
Visualizzazione di aree cerebrali attivate durante diverse attività del soggetto, realizzata con la tecnica della tomografia a emissione di positroni (PET), sovrapposta ad un'immagine dell'anatomia del cervello ottenuta con la tecnica della risonanza magnetica. Le aree illuminate indicano tre regioni dell'emisfero sinistro del cervello attive durante un compito linguistico. La regione posteriore si illumina quando il soggetto legge, l'area nel centro, quando parla, e la regione anteriore quando il soggetto pensa al significato di una parola, (da Kandel, Schwartz e Jessel, 1991).
Domandarsi quali proprietà o caratteristiche del cervello rientrino nella valutazione di un'opera d'arte e nel piacere che essa dà è una Curiosità che affascina. Il rapporto del cervello col mondo esterno è certamente un rapporto biunivoco. Il cervello riceve informazioni dall'esterno trapiite i sensi, ma allo stesso tempo offre interpretazioni sul mondo esterno basate sulle informazioni già presenti in memoria e sulle caratteristiche delle sue stesse proprietà strutturali. L'esperienza visiva è lettura cosciente e inconscia dei ricordi delle immagini che si formano nell'occhio, ma è anche una lettura che queste immagini rievocano nel nostro cervello. L'informazione che ci proviene dall'esterno è anche culturale ed è in stretta dipendenza dalla storia di ognuno di noi. La sensazione non fa, in gran parte, che aprire la pagina di un libro già scritto. Anche guardare un quadro è inserire l'esperienza visiva in un contesto cerebrale. Vedere è essenzialmente riconoscere perché consiste almeno in parte, nel risvegliare o rintracciare nel nostro cervello conoscenze già presenti. Così l'osservazione di un quadro può indurre nello studioso della percezione visiva riflessioni e osservazioni che sono legate ai suoi interessi scientifici e alle sue conoscenze e che riguardano il contenuto visivo dell'opera d'arte. Perché certi stimoli visivi sembrano essere più interessanti ed eccitanti di altri per il sistema nervoso? Perché questi segni e figure hanno valore emozionale, cioè sono così efficaci nello stimolare i centri dell'emozione? Che fine conoscitore del funzionamento della mente deve essere il vero artista se riesce a trovare dei paradigmi di forme e colori così universalmente efficaci da coinvolgere l'osservatore! È ovvio che i tentativi di risposta sono nella maggior parte dei casi del
tutto speculativi. Le ricerche della neurofisiologia e della neuropsicologia non offrono soluzioni, ma pongono le basi per avanzare ipotesi e fare congetture per colmare il fossato tra conoscenze scientifiche e arti visive. Tentare di comprendere i legami che uniscono percezione visiva e arte è un'esperienza di grande interesse, perché alla persuasione di poter penetrare il senso profondo dell'opera d'arte unisce la possibilità di apprendere qualche cosa di nuovo sul funzionamento del sistema nervoso. La persona che si occupa di scienza è imbarazzata e intimidita a parlare di arte, anche nel più ristretto campo della percezione visiva delle immagini pittoriche, perché lo scienziato è legato a deduzioni ben precise, che si basano su osservazioni sperimentali ripetute e rigorose: è solo attraverso queste che si possono aumentare le cognizioni sul funzionamento del sistema nervoso; ipotesi e teorie sono valide solo quando rimandano a una verifica, quando possono costituire la base di una nuova ricerca. Ciò non vuole assolutamente dire, però, che il ricercatore più accurato non si lasci andare anche a ipotesi e congetture. È una proprietà irrefrenabile del cervello quella di saltare dalla domanda alla risposta definitiva e alla soluzione più completa del problema. D'altra parte anche l'arte ha le sue sperimentazioni e l'opera finale è sempre frutto di cambiamenti, di prove e riprove. E anche l'arte ha le sue verifiche, i suoi meccanismi correttivi. Esse nel corso degli anni la consacreranno all'immortalità o la condanneranno ad essere dimenticata. Vi sono d'altra parte alcuni artisti, da quelli rinascimentali a quelli moderni, che hanno sentito il fascino della scienza in maniera particolare ed hanno cercato di ispirarsi ad essa per alcuni aspetti delle loro opere. "La pittura è una scienza e dovrebbe essere come un'indagine condotta sulle leggi della natura. Perché allora non considerare la pittura di paesaggio come un ramo della filosofia naturale di cui i quadri sarebbero gli esperimenti?" Così scriveva Constable per una sua lezione alla Royal Institution nel 1836. Il biologo e in particolare il neurobiologo si trovano in una posizone di privilegio per tentare un colloquio con l'immagine pittorica, con l'opera d'arte, perché la biologia è una scienza dove la vita domina con le sue contraddizioni e le sue difficoltà. Scriveva un famoso biologo, Francois Jacob: "La scienza in biologia non si propone di spiegare l'ignoto con ciò che è noto, come in certe dimostrazioni matematiche. Essa mira a giustificare ciò che si osserva con le proprietà di ciò che si immagina, a spiegare il visibile con l'invisibile, ed evolve con l'evoluzione dell'invisibile, con il ricorso a nuove strutture nascoste, a nuove proprietà ipotetiche." Questa attitudine mentale è probabilmente rintracciabile in colui che cerca di capire un'opera d'arte. Capire il visibile con l'invisibile. Dice Roland Barthes in ha chambre claìre che per guardare una fotografia, [ma si potrebbe dire per guardare ogni immagine], bisogna unire due voci,
la voce della banalità {ciò che uno vede e sa] e la voce della singolarità [riempire la banalità con l'élan della emozione che appartiene solo a me stesso]. O, come direbbe Nelson Goodman, occorre superare la nostra resistenza a ridare spazio all'emozione come parte dei processi cognitivi ("the obstacle is our reluctance to reinstate emotion as a part of cognition"). Tutti i tramonti sono belli, ma alcuni lo sono di più. E così per le opere d'arte. Tutte le manifestazioni delle attività umane, per esempio quelle che portano poi a percezioni visive, sono interessanti, ma alcune lo sono molto di più di altre. I ponti tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, sono oggi, forse più che ai tempi in cui lo Snow scriveva il suo libro Le due culture, utili ed auspicabili. Da un lato abbiamo una ricerca scientifica estremamente specialistica e tecnicizzata che richiede un faticoso e continuo aggiornamento. Poco spazio e interessi sono rivolti ad una visione più ampia della stessa ricerca scientifica, e ai suoi risvolti sociali, formativi del pensiero. Dall'altro lato abbiamo la ricerca umanistica, spesso priva di una metodologia rigorosa, e inconsapevole del progresso scientifico e tecnologico che, lo si voglia o meno, cambia rapidamente la nostra maniera di vivere e quindi anche la nostra maniera di pensare. La scienza ricerca gli invarianti in determinati fenomeni fisici o biologici mentre l'arte sembra essere il regno dell'individualità dove non ha senso ricercare regole o leggi perché queste di per sé non fanno parte dell'espressione artistica. Asserto questo non del tutto convincente in quanto è possibile rintracciare invarianti anche nell'espressione artistica. Probabilmente non si \ tratterà di regole o invarianti universali presenti in tutti i tempi e in tutti i ; luoghi, ma piuttosto di invarianti limitate a scuole o all'opera di un singolo artista. La collezione di quadri o una mostra organizzate secondo criteri particolari costituiscono già un approccio scientifico allo studio dell'opera d'arte. Il primo scalino della ricerca scientifica è appunto la raccolta dei dati e la loro organizzazione secondo determinati criteri. Sia la ricerca umanistica che quella scientifica hanno la loro estetica. L'estetica della scienza sta nell'eleganza, nella chiarezza con cui l'idea scientifica viene proposta e poi verificata. La percezione di questa chiarezza e semplicità nel pensiero scientifico spesso suscita emozioni del tutto simili a quelle prodotte da un'opera d'arte. Si tratta, in entrambi i casi, del piacere che nasce dalla scoperta dell'abilità e della bellezza del pensiero dell'uomo. Ma che cosa può differenziare il cervello dello scienziato da quello dell'artista? Per l'anatomico o per il fisiologo gli uomini sono in prima approssimazione tutti uguali. I cervelli dal punto di vista macroscopico ed anche microscopico sono molto simili tra loro. Le proprietà cerebrali che sono proprie degli artisti o degli scienziati non sono verosimilmente da riferirsi a funzioni presenti in un insieme di indivi-
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dui e assenti nell'altro insieme. Si tratta della modulazione in più o in meno delle stesse proprietà, probabilmente determinate su base genetica e affinate e messe in evidenza da esperienze diverse. Il caso, il rumore nelle combinazioni geniche e la variabilità delle esperienze nel corso della vita sono probabilmente importanti nel modellare la struttura e il funzionamento del cervello dell'artista, dello scienziato e anche del genio. Tutti siamo un po' artisti e tutti un po' scienziati e ci differenziamo solo per quel piccolissimo ambito di caratteristiche che circostanze casuali hanno determinato, orientando la nostra interpretazione del mondo e la nostra maniera di vivere. Ma le nostre conoscenze sul cervello e in particolare quelle di neurofisiologia e psicologia della visione, possono essere d'aiuto a comprendere certi aspetti formali delle opere pittoriche? Nel campo degli studiosi dell'arte, la relazione tra percezione visiva e arte figurativa non ha un'interpretazione univoca. Per alcuni è un legame utile e necessario, per altri invece una sovrastruttura quasi artificiale e di scarso interesse. Di fatto anche nei corsi universitari di storia dell'arte, lezioni sulla percezione visiva sono assai rare, anche perché il più delle volte mancano le competenze adeguate. E indubbio però che con l'avanzamento della comprensione dei processi di percezione e di apprendimento, alcune concezioni sulla comunicazione pittorica sono state modificate ed è altrettanto vero che alcune pitture moderne o certi disegni incoerenti di Escher e di Albers hanno avuto implicazioni per ricerche sulla percezione visiva. Vedremo nei capitoli che seguiranno che certe proprietà del cervello da cui dipendono la visione dei contorni, delle forme e dei colori possono essere rilevanti nella comprensione dell'immagine pittorica. La neurofisiologia moderna ha studiato e in parte capito alcune proprietà basilari della visione che indicano che certe informazioni visive sono più importanti di certe altre e subiscono una elaborazione particolare, direi privilegiata nel cervello. Il risultato più attraente nel contesto del nostro discorso è l'esistenza di un cervello visivo, localizzato nel lobo cerebrale destro e quasi contrapposto a quella parte del cervello che presiede al linguaggio e che ha sede nel lobo sinistro. Forse è per questo che è così difficile parlare di arte; perché le attività di un lobo, quello del linguaggio, vogliono interessarsi alle attività di un altro lobo, il destro, il lobo più visivo, che tratta l'informazione in maniera diversa meno analitica, più globale, gestaltica ed anche più emotiva. Forse per capire l'arte bisognerebbe cercare di usare quelle stesse proprietà visive del cervello con le quali l'opera è stata in gran parte creata. La realtà cambia il nostro cervello, che a sua volta cambia la realtà: un cervello diverso deve per forza avere un rapporto diverso con la realtà. In arte ciò può portare alla creazione di nuove realtà percettive che solo in parte dipendono dall'informazione proveniente dai nostri sensi. Forse è per questo che nel corso della storia dell'arte si vedono sorgere continuamente nuovi
INTRODUZIONE
Al
stili per rappresentare gli stessi oggetti. Cervelli storicamente diversi richiedono rappresentazioni diverse. In questo senso l'arte è una forma di estensione della realtà, una via intellettuale ad aprire nuove esperienze. A parziale correzione di quanto affermavano gli empiristi : "Nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu", si può affermare che il cervello non ha bisogno del continuo flusso di informazione dai sensi per avere una rappresentazione del reale. Ne danno testimonianza i sogni, le immagini mentali dei nostri ricordi o addirittura le immagini create dalla nostra mente. Non necessariamente l'artista dipinge ciò che vede, spesso dipinge ciò che ricorda o ciò che immagina. "La bellezza nelle cose esiste nella mente di colui che la contempla" dice il filosofo David Hume nel suo lavoro sulla tragedia. Gli stimoli visivi, reali o evocati dalla memoria, che eccitarono il sistema nervoso dell'artista al momento della creazione dell'opera d'arte, trasformati dalla sua mano in colori e forme, ridiventano efficaci per la stimolazione del sistema nervoso dell'osservatore. In una certa misura l'opera d'arte deve riuscire a suscitare nel cervello dell'osservatore sensazioni ed emozioni che furono presenti nel cervello dell'artista. Questo libro si propone di guidare il lettore alla conoscenza di alcuni aspetti delle funzioni del cervello, e in particolare del sistema visivo, che possono aiutare a meglio comprendere le opere d'arte figurative. Come le notizie biografiche sulle vicende della vita di un artista e la conoscenza della cultura del suo tempo possono favorire la comprensione e l'apprezzamento delle sue opere, così noi riteniamo che anche la conoscenza dei meccanismi cerebrali alla base della percezione visiva aiuti ad accostarsi all'opera d'arte. Il libro tratta di alcuni aspetti della psicologia del "vedere" che sono importanti sia per l'artista, sia per chi guarda l'opera d'arte, per esempio le funzioni visive che riguardano i contorni e la forma degli oggetti, il colore, la profondità dello spazio, e così via. Ogni capitolo contiene degli elementi di scienza del cervello, circa i meccanismi che sottostanno alla percezione e circa gli aspetti più propriamente psicologici. Inoltre mostra come queste proprietà percettive sono applicate dal pittore, sia inconsciamente, sia volutamente, nella realizzazione della sua opera. E infine come la conoscenza di queste proprietà percettive favorisca nell'osservatore una più approfondita comprensione dell'opera d'arte. Il libro fa seguito a corsi di lezioni tenute da uno di noi a studenti di storia dell'arte della Scuola Normale Superiore di Pisa, e ad analoghe lezioni tenute a studenti di biologia e informatica presso l'Ecole Normale Superi eure di Parigi. Riteniamo che questo libro possa essere apprezzato da coloro che amano superare le barriere tra cultura umanistica e cultura scientifica ed essere utile da un lato agli studenti delle scuole d'arte e dei corsi universitari di storia dell'arte, e dall'altro agli studenti di psicologia.
M.C. Escher, Sistema transizionale a due figure. (Collezione M. Sachs).
CAPITOLO 1 IL MIRACOLO DEL VEDERE II signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua nascita e quello ben più oscuro dopo la sua morte; cerca d'immaginare il mondo prima degli occhi, prima dì qualsiasi occhio. Italo Calvino, Palomar. L'oggetto esiste qualora se ne abbia un'immagine. Italo Calvino, Le Cosmicomiche.
I
l mondo che ci circonda è per noi il mondo che vediamo. Ci appare così reale che non ci vien fatto di pensare che esso risulti da un processo cerebrale di grande complessità. Un processo tanto complesso e misterioso da apparire anche allo studioso moderno un vero miracolo. E vero che il vedere inizia nell'occhio, sul fondo del quale si formano delle immagini piccole e rovesciate, come avviene in una macchina fotografica; ma questo non è che l'inizio di una catena di eventi che coinvolgono gran parte del nostro cervello per arrivare misteriosamente alle immagini che percepiamo. Già Plinio nella sua Naturalis Historia aveva affermato che l'organo della vista non è l'occhio, ma la mente. Vedere è il risultato di una trasformazione del mondo esterno, fisicamente esistente, in un nostro mondo percettivo, in cui giocano un ruolo importante la nostra precedente conoscenza, la nostra cultura e persino il nostro stato d'animo. D'altra parte, se è vero che al processo del vedere contribuisce l'informazione già depositata nella nostra memoria, è pure vero che vedere è un mezzo per conoscere, per arricchire il nostro pensiero. Non è un caso forse che in greco óida, che è il perfetto del verbo eidéin {vedere), significa "io so", perché ho visto, e che la parola idea {èidos) ha la radice id del verbo eidéin {vedere). Il mondo dell'uomo è principalmente visivo. Questo non è vero per tutti gli animali; anzi, se si escludono i primati, altri sensi e in particolare l'odorato hanno per molti mammiferi un'importanza predominante. Si pensi, ad esempio, al cane, il cui mondo è principalmente olfattivo e uditivo. Come mezzo per comunicare molti animali si servono di segnali acustici, e anche l'uomo ha sviluppato uno strumento di comunicazione acustico altamente specializzato che è il linguaggio. L'uomo ha però creato anche un sistema artificiale di comunicazione basato sulla visione, in cui rientrano la scrittura e la rappresentazione grafica. Si pensa
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Figura 1.1 Saul Steinberg, Bingo in Vertice, California (1953).
comunemente che il linguaggio caratterizzi l'uomo. Ciò è senz'altro in parte vero, ma forse il mezzo di comunicazione più originale (e più nuovo anche nella filogenesi) che l'uomo abbia creato è quello della comunicazione grafica: un linguaggio che non soltanto permette di comunicare in tempo reale, cioè nell'istante in cui il segnale viene generato, ma che supera i limiti temporali per diventare "estensione della memoria e dell'immaginazione", come dice Borges a proposito del libro. Nato dalla collaborazione tra occhio e mano, questo mezzo di comunicazione implica il pensiero, e ne estende le possibilità di espressione fino a divenire strumento per la rappresentazione estetica. Oltre a permettere di superare i limiti del tempo, il linguaggio grafico è superiore al linguaggio verbale anche per la capacità di sintesi, cioè per la possibilità di esprimere, con un piccolo numero di simboli, messaggi di grande complessità come quelli dei sentimenti e delle emozioni. Nel divertente disegno di Bingo in Venice di Steinberg vediamo come pochi tratti suggeriscono non solo i lineamenti di un volto, ma addirittura un'espressione (figura 1.1).
Dalla luce alle, immagini visive
Figura 1.2 Leonardo da Vinci. Schema della formazione delle immagini nell'occhio. Cod. Atlan., fol. 337. Milano, Biblioteca ambrosiana.
La catena degli eventi che portano alla visione comincia dall'energia luminosa che proviene dagli oggetti esterni e dalle immagini, rimpicciolite e rovesciate, che questa forma sul fondo dell'occhio attraversandone le lenti. È questa energia che stimola le cellule della retina sensibili alla luce, i fotorecettori, producendo un segnale elettrico. Questo
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Figura 1.3 Cartesio. Schema dell'esperienza di padre Scheiner e formazione delle immagini nell'occhio. Burndy Library.
segnale ne genera altri nelle cellule nervose che si succedono lungo le vie neurali dall'occhio al cervello, dando luogo a una cascata di eventi che si conclude nella corteccia cerebrale generando l'immagine visiva. Che questa sia la catena degli eventi della visione è conoscenza relativamente recente. Ad esempio presso gli antichi Greci (scuola pitagorica) si riteneva che lo stimolo per la visione non procedesse dagli oggetti verso l'occhio, ma viceversa che l'occhio emanasse raggi che come sottili tentacoli procedevano verso gli oggetti, tastandone la forma. Una teoria alternativa (Leucippo di Mileto) supponeva che dagli oggetti si staccassero delle sottili scorze (éidola) che si dirigevano verso l'occhio, conservando la forma dell'oggetto, ma rimpicciolendosi progressivamente così da poter penetrare nell'occhio attraverso il piccolo foro della pupilla. A lungo incerto e dibattuto è stato anche quale fosse la parte anatomica dell'occhio capace di rispondere alla luce. Per lungo tempo si è creduto che la parte sensibile fosse la lente dell'occhio (cristallino); fu Andrea Vesalio che nel 1543 riconobbe che questa funzione è svolta dalla retina. Anche quando, per paragone con la camera oscura, cominciò ad essere chiaro che le immagini formate sul fondo dell'occhio sono capovolte rispetto agli oggetti, restò difficile spiegare come mai noi vediamo gli oggetti diritti. Molti si proposero di trovare la soluzione teorica di questo problema; Leonardo, ad esempio, pensò che l'immagine fosse invertita due volte all'interno dell'occhio e che la parte sensibile fosse la superficie posteriore della lente (figura 1.2). Per avere una spiegazione corretta di come si formano le immagini nell'occhio bisognerà attendere Keplero, anche se in realtà la sua teoria aveva avuto un notevole precursore in padre Maurolico da Messina (Ronchi, 1983). La conferma sperimentale della teoria di Keplero e della formazione di immagini rovesciate sulla retina fu data da padre Scheiner nel 1625. Egli osservò le immagini formate da un oggetto luminoso sul fondo di un occhio di bue. Per far questo aveva tolto una piccola porzione della parte posteriore dell'occhio, sostituendola con un pezzetto di carta; su questo vide proiettate le immagini capovolte degli oggetti della sua stanza. La figura 1.3 mostra la formazione delle immagini secondo la teoria di Keplero e l'esperimento di padre Scheiner, così come l'ha illustrata Cartesio nella Diottrica. Cartesio, dunque, sostenendo la teoria di Keplero ebbe una concezione corretta della formazione delle immagini nell'occhio, ma ritenne erroneamente che le informazioni sensoriali venissero analizzate dalla ghiandola pineale, anziché dalla corteccia cerebrale. Oggi sappiamo molto sul modo in cui gli stimoli luminosi generano segnali nervosi nella retina e su come questi segnali vengono trasmessi nelle vie ottiche ed elaborati nelle varie stazioni visive fino alla corteccia. Di questo parleremo più a fondo nei prossimi capitoli. Inve-
ce le fasi successive e terminali del processo che si conclude con il miracolo del vedere sono tuttora largamente sconosciute. Esse sono aperte a varie ipotesi e interpretazioni che si basano sull'osservazione di proprietà della visione e che possono essere raggruppate in alcune teorie della percezione, di cui le più note e importanti sono la teoria del costruttivismo e quella della Gestalt. Secondo la prima teoria, l'immagine visiva viene costruita di volta in volta, mentre secondo la teoria della Gestalt esistono schemi innati di organizzazione della percezione.
Le immagini costruite Uno dei modi in cui le immagini visive possono essere costruite è quello suggerito dai filosofi dell'empirismo, secondo i quali la percezione viene costruita da sensazioni elementari mediante un processo di associazione. La teoria empirista è stata ripresa nell'Ottocento da Helmholtz e ai giorni nostri da Gregory. Questi autori hanno precisato che la percezione visiva (costruzione dell'immagine) avviene per confronto dinamico fra l'informazione sensoriale fornita dall'occhio e le immagini precedentemente percepite e conservate in memoria. Secondo questa teoria, quindi, per «vedere» è necessario aver imparato a vedere. Quando si guarda un oggetto, viene formulata un'ipotesi sulla sua natura in base all'informazione in memoria, e questa ipotesi viene sottoposta a verifica confrontandola con l'entrata sensoriale. Quando l'ipotesi è verificata, la percezione conduce al riconoscimento dell'oggetto. Un processo quindi per prove ed errori mediante il quale l'osservatore dà significato alla realtà anche in presenza di una stimolazione ottica non strutturata, come la distribuzione di macchie bianche e nere della figura 1.4. In altre parole, il percetto sarebbe una congettura che aspetta conferma dai sensi, l'informazione dei quali non può che dare origine a un'altra congettura. Una teoria cognitivista, dunque, secondo la quale la responsabilità del percetto è lasciata completamente all'osservatore. Guardiamo ad esempio la figura 1.5a. Per molti osservatori l'ipotesi più probabile è che si tratti di un albero e come tale viene percepito. Appena però si modifica il disegno con l'aggiunta di un piccolo particolare (1.5b), l'ipotesi dell'albero non è più soddisfacente ed essa viene sostituita con un'ipotesi diversa, quella cioè che si tratti di una faccia. Uno stesso oggetto può dare immagini di forma molto diversa sulla retina, a seconda del punto di vista da cui viene osservato. Ad esempio, un cerchio può dare nell'occhio immagini di ellissi più o meno allungate se visto obliquamente. Un'ellisse, vista in un campo non strutturato (figura 1.6a), può venire interpretata sia come un'ellisse che come un cerchio. Secondo la teoria del costruttivismo, l'esperienza preceden-
Figura 1.5 (a) Un albero. (b) Un viso.
te e il contesto in cui l'oggetto si presenta sono essenziali per formulare la congettura sulla forma reale dell'oggetto e sulla sua posizione nello spazio. Così nella figura 1.6b la presenza di un contesto fa scartare l'ipotesi dell'ellisse in favore di quella del cerchio. Anche in un quadro un oggetto di forma circolare può essere rappresentato con una forma ellittica. Se però l'oggetto è riconoscibile, es-
Figura 1.6 La forma che vediamo in (a) è un'ellisse oppure un cerchio? Solo sapendo di che oggetto si tratta possiamo riconoscere un cerchio visto obliquamente (b). (da Gregory, 1966).
Figura 1.7 Camera di Ames. (a) In questa strana stanza l'uomo sembra enormemenre più grande della donna. La singolarità della stanza consiste nel fatto che, contrariamente all'apparenza, le sue pareti non sono rettangolari, ma trapezoidali. Esiste tuttavia un particolare punto di osservazione, e precisamente quello da cui è stata scattata la fotografia, per il quale le immagini , retiniche delle pareti sono identiche a quelle che sarebbero prodotte da una camera a pareti rettangolari. L'illusione consiste nel fatto che la camera ci appare rettangolare, e quindi la grandezza delle persone risulta distorta. (b) Schema della camera di Ames. Le linee più spesse indicano il reale profilo delle pareti. Se la camera viene vista attraverso il foro praticato nella prima parete a sinistra della figura, le pareti ci appaiono come indicato dalle linee sottili tratteggiate.
Figura 1.8 Figura di Rubin. L'immagine del vaso si alterna con quella di due volti.
so viene interpretato correttamente come un cerchio e l'ellitticità del suo contorno dà l'informazione aggiuntiva circa la sua posizione obliqua nello spazio rappresentato nel quadro. Questa informazione può essere utile per rivelare la posizione del pittore rispetto agli oggetti e di conseguenza indicare all'osservatore una posizione corretta per l'osservazione del quadro stesso. In qualche caso la forma dell'immagine retinica di un oggetto può corrispondere a una congettura così convincente da generare una percezione fallace. Un esempio famoso è la camera di Ames, costruita con pareti, pavimento e soffitto trapezoidali, ma tali da produrre nell'occhio la stessa immagine prodotta da una stanza rettangolare (figura 1.7). La stanza viene vista come se fosse rettangolare e questa percezione fallace è così forte da creare una distorsione dello spazio interno che genera un'errata percezione delle persone che si vi trovano.
Figura 1.9 L'immagine di una donna allo specchio si alterna con quella di un teschio.
Figura 1.10 Figure «impossibili», (da Shepard, 1990).
In altri casi invece una stessa immagine visiva può dar luogo a due possibili congetture entrambe ugualmente valide, ma che si escludono a vicenda. Avviene allora un'alternanza dei due possibili percetti (figure 1.8 e 1.9). Nella figura 1.8 è possibile vedere il profilo bianco di due volti, oppure un calice nero (vaso di Rubin); nella figura 1.9 l'immagine di una donna allo specchio si alterna con quella di un teschio. È possibile anche costruire delle figure che non corrispondono ad alcun oggetto reale in maniera stabile. Queste figure «impossibili» suggeriscono una congettura per la loro somiglianza con oggetti reali. Tuttavia questa congettura non viene confermata e non dà quindi luogo a un percetto stabile. Nelle immagini della figura 1.10, le gambe dell'elefante e le colonne del tempio greco lasciano l'osservatore perplesso.
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Figura 1.11 Salvador Dall', Mercato di schiave con l'apparizione del busto invisibile di Voltaire, particolare (1940). Cleveland, Fondazione Reynolds-Morse.
Anche la visione di un'opera d'arte può suscitare nell'osservatore congetture che influiscono sul modo in cui l'opera viene percepita, tanto da rendere possibili, in diversi osservatori, reazioni estetiche diverse. Questo grado di indeterminazione nella percezione di un dipinto può derivare sia da una certa indeterminazione nel linguaggio espressivo dell'artista, sia da una diversa predisposizione culturale del cervello dell'osservatore. Molti pittori lasciano volutamente una certa ambiguità nelle loro rappresentazioni, cosicché l'osservatore deve completare le figure seguendo sue proprie congetture. Ciò vale in particolare per i pittori moderni, tra cui gli impressionisti, i surrealisti, i cubisti. In altri casi i gradi di libertà lasciati dall'artista sono minori, ma congetture diverse possono nascere per la diversità del cervello di chi guarda, e ciò sia per un diverso grado di competenza specifica, sia per l'appartenenza a un periodo storico diverso. Un esperto cririco d'arte «percepisce» un dipinro in maniera diversa da un osservatore digiuno di pittura. Un cittadino della Siena del Trecento guardava i quadri di Duccio con «occhi» diversi da quelli con cui li guardiamo noi ora. Vi sono infine casi estremi in cui l'artista crea volutamente figure percettivamente instabili che danno luogo a due interpretazioni alternative, oppure che generano percetti impossibili (figura 1.11). Nel campo delle arti figurative, molti storici dell'arte si rifanno alla teoria del costruttivismo nell'interpretazione delle immagini pittoriche. Anche Gombrich si avvicina a questo modo di pensare. L'esperienza predisporrebbe i canali per l'analisi e l'interpretazione dell'informazione visiva. Questa verrebbe elaborata secondo schemi acquisiti, basati su esperienze precedenti, creando ordine nel caos dell'entrata visiva. La storia dell'arte è, per Gombrich, lo studio dello sviluppo degli schemi di rappresentazione usati dagli artisti. Nel raffigurare la realtà il pirtore si avvale di modelli secondo schemi socialmente condivisi e che si modificano con i tempi. Cimabue, ad esempio, nella rappresentazione delle sue Madonne segue uno schema che si rirrova sistematicamente nei suoi dipinti. Questo modello fu superato quando Giotto ne trovò uno più realistico per rappresentare la figura della Madonna: "Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura" (Dante, Purgatorio, xi, 94-96).
Principi innati di organizzazione delle immagini: la Gestalt Secondo la teoria della Gestalt, come descritta originariamente nelle opere fondamentali di Koffka, Wertheimer e Kohler, si percepisce attraverso schemi innati di cui è possibile studiare le proprietà e le leggi
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Figura 1.12 (a) Punti che si organizzano in righe verticali (a sinistra) o orizzontali (a destra) seguendo il principio della prossimità. (b) I cerchietti bianchi e neri si organizzano percettivamente in righe verticali per il principio della somiglianza, nonostante che la distanza tra i cerchietti sia minore lungo la direzione orizzontale, (e) Per il principio della continuazione si vedono due linee che si incrociano. (d) Ciascuna di queste forme è vista come un quadrato.
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di organizzazione. I seguaci della Gestalt rifiutano l'idea che il percetto sia costruito dalle sensazioni e che possa essere suddiviso nelle sue parti costituenti. L'intero è maggiore della somma delle parti, dicono i gestaltisti. La percezione risulta dalla organizzazione delle sensazioni più che dalla loro associazione. Gli psicologi della Gestalt hanno postulato l'esistenza di principi di organizzazione percettiva per rendere ragione del perché certe percezioni sono più probabili di altre. Alcuni di questi principi riguardano il modo in cui si raggruppano gli elementi delle figure, altri la separazione della figura dallo sfondo. Esempi di figure che illustrano i principi della Gestalt sono riportati nella figura 1.12. I puntini neri nella parte sinistra della figura 1.12a si organizzano percettivamente in righe verticali seguendo il principio di prossimità: infatti essi sono più vicini tra loro lungo la verticale che lungo una direzione orizzontale; viceversa, i puntini neri della parte destra formano righe orizzontali per la maggiore prossimità lungo una direzione orizzontale. Nella figura 1.12b, però, i pallini neri e quelli bianchi formano colonne verticali, benché la prossimità tra i punti sia maggiore lungo l'orizzontale; vale qui il principio di somiglianza che prevale su quello della prossimità. Nella figura 1.12c è illustra-
CAPITOLO 1
to il principio di continuazione secondo il quale la continuità delle linee viene preferita ai cambiamenti bruschi; si vedono infatti due linee continue che si incrociano, piuttosto che due forme a v che si toccano nel punto di incontro. Nella figura 1.12d gli elementi simili si raggruppano a formare quadrati e non, ad esempio, croci o altri raggruppamenti possibili; ciò obbedisce al principio di chiusura, secondo cui le forme chiuse sono preferite a quelle aperte. Per i seguaci della Gestalt questo esempio contraddice un'interpretazione costruttivista, poiché in tutte e tre le figure si percepisce un quadrato, nonostante che gli stimoli elementari che le costituiscono siano totalmente diversi. Altri principi della Gestalt riguardano la separazione di una figura dallo sfondo. A parità di altre condizioni verrà percepita come figura una forma simmetrica rispetto agli assi orizzontali e verticali, verrà vista preferenzialmente come figura una superficie più piccola e come sfondo la superficie più grande ecc. Tutto ciò è riassunto dalla cosiddetta legge della pregnanza, secondo la quale tra le varie organizzazioni geometricamente possibili prevale quella che possiede la forma "migliore, più semplice e più stabile". Talvolta si possono tuttavia costruire delle immagini in cui non vi è una chiara prevalenza figura-sfondo. In questi casi si alternano due percetti a seconda che l'una o l'altra porzione venga percepita come figura e la sua complementare come sfondo. Così viene interpretata dalla Gestalt la figura di Rubin (figura 1.8) nella quale il vaso e i due volti si scambiano i ruoli di figura e di sfondo. Così pure la figura di Escher (figura 1.13), dove gli angeli si alternano con i diavoli. La teoria della Gestalt è di particolare valore nelle arti visive, in quanto stabilisce che la verità visiva non è da confondere con la verità fotografica o con la fedeltà all'immagine retinica. In questa luce la prospettiva viene considerata puramente un mezzo tecnico, come altri, per contribuire a dare l'illusione della realtà. La percezione consiste nell'afferrare certe caratteristiche salienti dell'oggetto che contengono l'informazione sulla sua struttura globale, piuttosto che sulla sua completezza o esattezza. La percezione non è un'inferenza probabilistica, un'ipotesi, come asseriscono i costruttivisti, perché si basa su leggi predeterminate mediante le quali è organizzata l'informazione sensoriale. A livello della rappresentazione pittorica questa teoria ha il suo alfiere più noto in Arnheim, il quale pensa che gli stessi schemi percettivi gestaltici si applichino sia alla percezione sia alla rappresentazione pittorica. Per Arnheim l'atto della percezione e l'atto della rappresentazione artistica sono simili, perché entrambi si servono degli stessi principi organizzativi cerebrali. Esistono anche teorie «antropologiche» della percezione, in base alle quali si sostiene che l'immagine è un mezzo espresso da una certa comu-
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Figura 1.13 M.C. Escher, Cerchio limite quarto.
nità per esprimere la realtà. Di per sé l'immagine della realtà, nel senso della sua riproduzione grafica, è un'immagine senza storia e senza significato se non alla luce dei costumi di un determinato popolo e delle tecniche a sua disposizione per costruire quell'immagine. Nessuna immagine è quindi universale sia per le diversità culturali che per la diversità delle tecniche. Questa concezione antropologica e sociologica dell'immagine porta a una relativizzazione dell'interpretazione della natura.
La teoria ecologica di Gibson Una teoria più recente della percezione è quella proposta da J.J. Gibson, secondo il quale la percezione degli oggetti non dovrebbe mai essere considerata separatamente dalla struttura dello sfondo su cui essi si proiettano. Gibson osserva che uno sfondo strutturato, come ad esempio un terreno o un prato, genera un gradiente di densità degli elementi che lo compongono (dimensione dei ciottoli di un selciato, grana di fili d'erba ecc.): gli elementi più vicini sono più distanziati di quelli via via più lontani. È questo gradiente di densità che dà luogo alla percezione di una superficie inclinata che recede dall'osservatore. Un oggetto che si stagli contro uno sfondo come questo non viene per-
v-^-t Figura 1.14 Flusso ottico dell'immagine visiva per: (a) un pilota che atterra con il suo aeroplano, (b) una persona seduta sul tetto di un treno che guarda il binario che recede, (da Bruce e Green, 1985).
cepito isolatamente, come se fosse sospeso nell'aria. Anzi, è proprio la parte di sfondo che l'oggetto nasconde che dà luogo al percetto nella sua complessità, dà informazioni sulle dimensioni dell'oggetto, sulla sua posizione ecc. Ad esempio, un albero verticale in un prato è visto come tale perché nasconde una parte del gradiente di densità del fondo, mentre la microstruttura dell'albero stesso (foglie, grana della corteccia dei rami ecc.) è costante. Si osservi che gli aspetti della scena visiva su cui Gibson concentra la sua attenzione sono quelli che si mantengono invariati con il cambiare del punto di osservazione, come la presenza di un gradiente di densità nello sfondo, la verticalità dell'albero ecc. Per la teoria di Gibson è quindi cruciale considerare come si modifica la scena visiva durante il movimento dell'osservatore, e quali proprietà di questa scena rimarrebbero invariate. Nella rappresentazione pittorica, per l'artista è importante individuare quali siano le proprietà invarianti della scena. Un quadro che invii ai nostri occhi un insieme di raggi luminosi uguale a quello generato dalla scena reale, con i suoi invarianti, dà luogo alla stessa percezione prodotta dalla scena reale. Le modificazioni complessive dell'intera scena visiva durante il movimento dell'osservatore consentono di ricavare, oltre agli invarianti, le informazioni che definiscono la direzione del movimento dell'osserva-
tore. Ad esempio (figura 1.14a), per un pilota che atterra con il suo aeroplano, fissando la pista di atterraggio davanri a sé, la scena visiva si modifica con un movimento radiale di allontanamento di tutti i punti della scena visti lateralmente. Invece, per un osservatore che si trovi sul tetto di un treno e guardi il binario che recede, si ha un movimento radiale dei punti laterali della scena verso il punto fissato (figura l.l4b). Queste osservazioni sono rilevanti per la simulazione del movimento dell'osservatore nel cinematografo e nella televisione.
Vedere e pensare Le due grandi teorie della percezione, quella del cognitivismo in cui rientra il costruttivismo, e quella della Gestalt, assumono due schemi in un certo senso opposti per la comprensione del «vedere» e, per estensione, del «pensare». Mentre nella prima i dati sensoriali sono sottoposti a interpretazione da parte del pensiero, nella seconda la percezione avviene per l'organizzazione dei dati sensoriali secondo schemi innati. I gestaltisti hanno sostenuto che le leggi di organizzazione valide nella percezione agiscono anche nel pensiero.
Figura 1.15 Fenomeno di completamento percettivo: lo scooter allungato, (da Kanizsa, 1991)-
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CAPITOLO 1
Figura 1.16 Canaletto, Pontegbetto della farina, particolare (17'iU). Venezia, Collezione Giustiniani. Il pittore ha ritenuto sufficiente rappresentare un «pettine» per suggerire la presenza di una gondola accostata alla riva.
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Come osserva Kanizsa nel suo libro Vedere e pensare, queste due teorie sono in un certo senso su due poli opposti per quanto riguarda le relazioni reciproche tra visione e pensiero, e non siamo in grado oggi di decidere quale modello sia migliore. Kanizsa riporta esempi di un particolare fenomeno percettivo, il cosiddetto «completamento amodale», che suggeriscono che sia gli schemi gestaltici sia quelli cognitivisti per le relazioni tra visione e pensiero possono essere validi, e che possono contribuire entrambi, sia pure con pesi variabili, a spiegare i fenomeni percettivi, a seconda delle particolari situazioni sensoriali. I fenomeni di completamento sono quelli che si verificano percettivamente quando una figura è parzialmente coperta da un'altra. Ci sono casi in cui il completamento della figura sembra avvenire soprattutto in base alla nostra conoscenza precedente, e quindi seguendo un modello di tipo cognitivistico, mentre in altri casi il completamento sembra avvenire piuttosto secondo schemi gestaltici, talvolta creando quasi un paradosso rispetto alle nostre conoscenze. Un esempio di quest'ultimo caso è presentato nella figura 1.15: il completamento dà luo-
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Figura 1.17 Andrea Mantegna, Giuditta e Oloferne (1490). Washington, National Gallery. Il piede nudo sul letto è indizio sufficiente a farci immaginare la presenza del corpo che giace all'interno della tenda.
go alla percezione di uno scooter paradossalmente allungato. In molti casi però i due schemi contribuiscono entrambi, oppure prevale quello di tipo cognitivistico. Si osservi ad esempio il quadro di Canaletto (figura 1.16), dove la raffigurazione di un «pettine» suggerisce la presenza di una gondola accostata alla riva. Solo chi sa come è fatta una gondola può dedurre la sua presenza dalla visione di un «pettine». Il quadro di Mantegna, Giuditta e Oloferne, (figura 1.17) rappresenta un piede nudo che sporge dall'apertura della tenda. Il contesto del quadro fa facilmente completare col pensiero il cadavere di Oloferne cui quel piede appartiene, e il modo in cui è dipinto il piede sul letto non contraddice, anzi facilita l'immaginazione.
CAPITOLO 2 DALL'OCCHIO AL CERVELLO, DAL CHIARO-SCURO ALLE FORME Conosciamo dunque la profondità, non come oggetto della vista, per sé et assolutamente, ma per accidente rispetto al chiaro et allo scuro. Galileo Galilei, lettera del 1612 al pittore Cigoli.
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l mondo esterno è solo lo spunto per la creazione delle immagini che noi vediamo. Queste sono il risultato di un processo assai complesso che comprende vari stadi successivi di elaborazione. Innanzitutto le informazioni fornite dall'immagine retinica vengono tradotte in impulsi nervosi; questi vengono trasmessi al cervello ed elaborati in varie parti della corteccia visiva fino a dar luogo alle immagini che percepiamo. Tali processi, pur nella loro peculiarità, sono comuni anche agli altri organi di senso. Bisogna tener presente che ciò che distingue una modalità sensoriale da un'altra (la visione dall'udito o dal tatto ecc.) non è la qualità dello stimolo (luce, suono, pressione o contatto sulla pelle) bensì l'organo sensoriale normalmente destinato a ricevere questo stimolo. L'occhio può essere stimolato anche meccanicamente: un pugno nell'occhio fa vedere le stelle! Diceva un vecchio fisiologo un po' burlone che se si connettesse il nervo acustico con l'occhio e il nervo ottico con l'orecchio, si potrebbero vedere i suoni e udire le luci. La percezione di una data modalità sensoriale si può avere anche in assenza completa dello stimolo al recettore (occhio, orecchio, pelle ecc.);è sufficiente stimolare elettricamente o chimicamente quella parte della corteccia cerebrale che è specifica per quella modalità. Ad esempio, se si stimola elettricamente una piccola area della corteccia visiva, appare una luce in una specifica posizione nel campo visivo; se si stimola in un altro punto la corteccia visiva, la luce appare in una diversa posizione nel campo. Nel secolo scorso, sulla base di deduzioni non propriamente scientifiche tratte da osservazioni della forma del cranio di diversi soggetti, era stato proposto ad opera di Gali che il cervello fosse suddiviso in molte aree, ciascuna con una sua ben precisa funzione, incluse le più stravaganti, come si vede nello schema di figura 2.1. La scienza moderna ha accertato che le cose non stanno così, anche se è pur vero che aree
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CAPITOLO 2
Corteccia motoria Corteccia somatosensoriale
Lobo frontale (movimenti volontari, giudizi, programmazione)
Lobo parietale (pelle e percezione del corpo) Lobo occipitale (processi visivi)
Lobo temporal (uniformazioni uditive e centro del linguaggio
Figura 2.1 (a sinistra) Mappe delle aree cerebrali secondo Gali. Questa mappa, basata sui solchi e sulle sporgenze presenti sulla superficie cranica, rappresenta le funzioni cerebrali superiori secondo l'interpretazione dei frenologi. In questo schema della prima metà del XIX secolo si distinguono e si localizzano in aree distinte della corteccia cerebrale più di 35 facoltà intellettuali ed emotive.
diverse della corteccia cerebrale sono destinate all'analisi di funzioni diverse (figura 2.2). Nel contesto delle arti figurative il nostro interesse è naturalmente rivolto alla parte del sistema nervoso dedicata alla visione. Premettiamo tuttavia alcune nozioni generali sulle cellule nervose e sul loro modo di comunicare.
Figura 2.2 (a destra) Le aree della corteccia cerebrale e le loro funzioni.
I neuroni II sistema nervoso centrale è composto da circa dieci miliardi di cellule nervose {neuroni) che ne costituiscono le unità anatomiche e funzionali. Le cellule nervose possono essere di diverso tipo per struttura anatomica, ma tutte sono caratterizzate da alcune specifiche proprietà: l'eccitabilità e la capacità di condurre impulsi nervosi. In un neurone si distinguono schematicamente tre parti: un corpo cellulare, una lunga fibra o assone, attaccata al corpo cellulare, e molteplici fibre più corte, chiamate dendriti (figura 2.3). L'assone si suddivide in tante piccole diramazioni che prendono contatto con i dendriti o il corpo cellulare del neurone vicino. Questi contatti fra un neurone e l'altro sono chiamati sinapsi. Gli assoni possono essere anche molto lunghi, fino a raggiungere un metro e più, e conducono gli impulsi nervosi.
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F i g u r a 2.3 Schema di un neurone con i suoi d e n d r i t i e il suo corpo cellulare. L'assone p u ò essere o m e n o ricoperto di u n a guaina mielinica, un materiale costituito di grasso che lo isola dai liquidi extracellulari. Le terminazioni dell'assone p r e n d o n o contatto con i dendriti e con il corpo cellulare di un altro neurone.
Yimpulso nervoso, che nasce a livello del corpo cellulare, è un temporaneo cambiamento del potenziale elettrico, che esiste anche in condizioni di riposo, tra l'interno e l'esterno del neurone. Un impulso nervoso dura solo circa un millisecondo e può viaggiare a velocità molto alte, fino a 100 metri al secondo. Alla fine delle terminazioni assoniche l'impulso nervoso causa il rilascio di una piccola quantità di trasmettitore chimico {neurotrasmettitoré), che va ad agire sulla membrana della cellula nervosa vicina. Il neurotrasmettitoré può causare un effetto eccitatorio, che stimola nel neurone ricevente la produzione di impulsi nervosi, oppure un effetto inibitorio che reprime l'attività presente nel neurone. Gli impulsi nervosi generati da uno stesso neurone hanno tutti la stessa ampiezza e durata, ma possono succedersi nel tempo a intervalli più o meno ravvicinati, cioè a frequenza più o meno alta. I neuroni comunicano tra loro tramite la variazione di frequenza degli impulsi nervosi.
Le vie visive L'occhio umano ha un sistema ottico di grande potenza (60 diottrie) formato da una lente esterna, la cornea (che è a contatto internamente con un liquido trasparente molto simile all'acqua), da una lente biconvessa, il cristallino, e da un liquido gelatinoso che riempie tutto il resto
Sclerotica Figura 2.4 (a) Il sistema ottico dell'occhio e la formazione dell'immagine reale di un punto lontano (che invia all'occhio dei raggi paralleli). (b) Formazione dell'immagine capovolta di un oggetto esteso. Un albero alto 30 metri, alla distanza di 100 metri (e visto quindi sotto un angolo a di circa 20 gradi), dà luogo a una immagine capovolta di circa 5 millimetri di altezza sul fondo dell'occhio. (e) Sezione schematica di un occhio umano e di una piccola porzione ingrandita di retina (da Hubel, 1988).
Umor vitreo
Cellula Cellula lare orizzontale
del bulbo. Due terzi circa della potenza complessiva dell'occhio sono dovuti all'insieme della cornea e dei liquidi trasparenti; un terzo circa è attribuibile alla lente. La distanza focale del sistema è di circa 22 millimetri: un punto luminoso lontano, ad esempio una stella, dà luogo a un'immagine reale in un punto della supeficie interna dell'occhio (figura 2.4a). Se il punto è più vicino, la forma della lente si modifica per mantenere l'immagine a fuoco sul fondo dell'occhio (accomodazione). Le immagini di oggetti del mondo esterno formate dal sistema ottico dell'occhio sono capovolte e rimpicciolite (figura 2.4b). Le immagini si formano sulla rètina, una sottile membrana nervosa, propaggine del cervello, che riveste la superficie interna dell'occhio (figura 2.4c). La retina contiene le cellule sensibili, i fotorecettori. Questi sono di due tipi, coni e bastoncelli, così chiamati per la loro forma (figura 2.4c). I coni sono responsabili della visione a livelli di illuminazione abbastanza alti (visione diurna) e della visione dei colori (Capitolo 6). I bastoncelli sono invece deputati alla visione a livelli di illuminazione più bassi. Nella retina vi sono poi altri strati di cellule, attraverso le quali i fotorecettori sono collegati con i neuroni dello strato più interno all'occhio, le cellule gangliari. Da queste partono le fibre nervose {assoni) costituenti il nervo ottico, che portano l'informazione visiva verso le stazioni centrali del cervello. Il numero di questi assoni supera, nell'uomo, il milione (1 300000, tante quante le cellule gangliari) per ciascun occhio. I nervi ottici dei due occhi convergono nel chiasma ottico e da qui gli assoni si ridistribuiscono a formare i tratti ottici. Il tratto ottico sinistro contiene gli assoni che provengono dalle due metà sinistre delle retine e il tratto ottico destro quelli che provengono dalle due semiretine destre (figura 2.5). Poiché sulle semiretine sinistre si formano le immagini della metà destra del campo visivo (figura 2.5) e viceversa, ogni tratto ottico porta l'informazione relativa al campo visivo controlaterale (che ha un'ampiezza di circa 90 gradi nella sua estensione orizzontale). Queste informazioni rimangono separate rispettivamente negli emisferi sinistro e destro del cervello, sia nelle stazioni in cui terminano i tratti ottici {nuclei o corpi genicolati laterali, figura 2.5), sia nelle successive stazioni della corteccia visiva. Ne deriva che la corteccia visiva destra «vede» il mondo del semicampo sinistro e viceversa. A ogni punto del mondo esterno o, meglio, alla sua immagine nel fondo dell'occhio corrisponde una piccola ben determinata porzione della corteccia visiva. Altrettanto succede per gli altri sensi e in particolare per la pelle: la pelle della mano e delle altre parti del corpo è rappresentata in modo ordinato sulla corteccia cerebrale somatosensoriale. Nella corteccia visiva si ha quindi una rappresentazione ordinata della retina, e nella corteccia a cui proiettano i recettori del tatto (corteccia somatosensoriale) una rappresentazione ordinata della pelle.
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Figura 2.6 (a) Lo schema dell'"omunculo motorio" indica le aree corticali dedicate alle funzioni motorie delle varie parti del corpo. (b) Lo schema dell'"omunculo sensoriale" rappresenta la proiezione della sensazione tattile delle varie parti del corpo sulla corteccia parietale nell'uomo. Si noti la notevole estensione della rappresentazione della mano e delle labbra. (e) L'importanza delle varie regioni del corpo per la sensibilità tattile nel coniglio, nel gatto, nella scimmia e nell'uomo, (da Kandel, Schwartz, Jessel, 1991).
Tuttavia questa rappresentazione non è isomorfa, cioè non rispetta l'estensione relativa delle varie aree dell'organo periferico: vi è una distorsione che favorisce le aree sensoriali con maggiore densità di recettori. Facilmente comprensibile è l'esempio della sensibilità tattile. È noto che questa sensibilità è particolarmente sviluppata nei polpastrelli delle dita della mano, nelle labbra e nella lingua rispetto ad altre parti del corpo, come la schiena o gli arti. Nella corteccia deputata alla sensibilità tattile le dita o le labbra sono di gran lunga più rappresentate delle altre parti del corpo (figura 2.6).
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Figura 2.7 Lettere alfabetiche di dimensioni crescenti dal centro della figura verso l'esterno, tali da corrispondere alle variazioni di acuità visiva dalla fovea verso la periferia della retina. Se si fissa il centro della figura da una distanza tale che le lettere più piccole, quelle centrali, risultino appena leggibili, altrettanto risultano le lettere via via più grandi e più periferiche.
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Nell'occhio vi è una piccola zona centrale della retina, la fòvea, che, come le dita nel caso del tatto, ha la massima densità di recettori. Infatti è questa l'area in cui è massima la capacità di distinguere i fini dettagli dell'immagine, cioè in cui è massima l'acuità visiva. La fovea ha un diametro di meno di mezzo millimetro (che corrisponde a un angolo visivo di un grado). In questa regione i fotorecettori sono solo coni. Nelle zone della retina via via più eccentriche l'acuità visiva diminuisce progressivamente. Nelle immagini che si formano sulla fovea sono distinguibili anche dei particolari fini e si possono leggere lettere di piccole dimensioni. Invece, nelle immagini che si formano a distanza crescente dalla fovea i dettagli fini non sono visibili: ad esempio, le lettere devono essere di dimensioni più grandi per poter essere lette (figura 2.7). Nella corteccia visiva la proiezione della fovea è ingigantita rispetto a quella delle aree periferiche. Si noti nella figura 2.8 come una distribuzione uniforme di macchioline bianche e nere (b) dia luogo nella sua proiezione corticale a una rappresentazione inomogenea, dove alle macchioline la cui immagine si forma sulla fovea è dedicata una zona corticale più grande (e). Analogamente, ogni volta che si guarda un oggetto fissandone un punto (l'immagine del punto di fissazione cade
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(a)
Figura 2.8 (a) Schema della superficie laterale della corteccia cerebrale della scimmia. L'area tratteggiata nella porzione posteriore della corteccia rappresenta l'area visiva primaria. (b) Stimolo visivo costituito da una distribuzione casuale di macchioline bianche e nere (rumore visivo), (e) Proiezione dello stimolo B sulle cortecce visive primarie dei due emisferi del cervello della scimmia. Nell'area della corteccia sulla quale proietta la fovea le macchioline sono rappresentate con un forte ingrandimento. Nella proiezione corticale l'ingrandimento diminuisce progressivamente andando dalla proiezione del centro a quelle delle zone via via più periferiche della retina, (da D.H. Kelley, Human Vision and Electronic Imaging: Models, Methods and Applications, SPIE voi. 1249, Bellingham 1990).
Figura 2.9 (a) Caravaggio, Bacco, particolare (1593-94). Firenze, Galleria degli Uffizi. (b) L'immagine del Bacco suddivisa in aree (pixels) che aumentano di dimensioni in telazione inversa alla variazione di acuità visiva, dalla fovea (corrispondente al centro della figura) alla periferia della retina (v. figura 2.7). (e) Proiezione del Bacco sulla corteccia visiva destra e sinistra, con la deformazione che risulta dal diverso ingrandimento corticale delle aree centrali e periferiche della retina; v. figura 2.8c. (a)
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sulla fovea) l'area di corteccia attivata è paradossalmente deformata rispetto all'immagine retinica. Così accade anche quando si guarda un quadro (figura 2.9). Questo fattore di ingrandimento corticale della fovea è importante per comprendere la ricchezza di dettagli visibili della piccola area che noi fissiamo (corrispondente a un angolo visivo di circa un grado), in confronto alla visione assai meno definita nelle regioni più periferiche del campo visivo. Le figure riportate non devono trarre in errore e far pensare che sulla corteccia si formino delle immagini: si tratta di una distribuzione spaziale di attività nervosa. (e)
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Già a partire dalla retina l'informazione contenuta nell'immagine ottica viene codificata in impulsi nervosi. In che modo la distribuzione di impulsi nervosi a livello della corteccia e nei successivi stadi di elaborazione venga poi decodificata non è noto. Non deve sorprendere che l'immagine del mondo esterno come noi lo vediamo non sia né capovolta come le immagini sulla retina, né distorta come le immagini corticali: infatti né queste né quelle vengono «viste», bensì danno luogo a messaggi in codice. Per quanto riguarda la codificazione in impulsi nervosi dell'informazione contenuta nelle immagini retiniche, possiamo trovare una similitudine nella televisione o nel telefax, in cui l'immagine ottica viene codificata in impulsi elettrici che ne consentono la trasmissione a distanza.
Effetti di contrasto
Figura 2.10 Contrasto simultaneo. I quattro quadratini sono fisicamente uguali, tuttavia quelli circondati da uno sfondo più scuro appaiono più chiari di quelli circondati da uno sfondo più chiaro.
Quanto chiaro o quanto scuro vediamo in una regione del campo visivo non dipende solo dall'intensità dello stimolo fisico, ma anche dal contesto. Ad esempio, due aree fisicamente uguali possono apparire l'una più chiara e l'altra più scura se circondate rispettivamente da uno sfondo più scuro o più chiaro (figura 2.10). Questi fenomeni di contrasto sono tutt'altro che irrilevanti per la visione in ambienti naturali. Sono sempre i valori relativi degli stimoli fisici provenienti da diverse zone del campo visivo che determinano quanto chiaro o scuro esse appaiono, più che i valori assoluti di questi stimoli. Quando guardiamo un mucchio di carbone sulla neve illuminata dal sole a mezzogiorno, il nostro occhio riceve dal carbone uno stimolo molto più intenso di quanto non riceverebbe dalla neve se guardassimo la stessa scena di notte alla luce delle stelle. Eppure, in entrambi i casi, il carbone ci apparirà nero e la neve bianca poiché sono rispettivamente lo stimolo più debole tra quelli presenti alla luce del sole e lo stimolo più intenso tra quelli visibili nella notte. È proprio dall'accostameno di due oggetti o superfici che riflettono in quantità molto diverse la luce che cade su di essi che vengono accentuate le differenze di luminosità apparente e si esaltano i contrasti. Così avviene per il carbone, che riflette pochissima luce, e per la neve, che riflette quasi totalmente la luce incidente. Queste proprietà della nostra.visione sono così generali e così largamente indipendenti dalle condizioni di illuminazione dell'ambiente che per noi la neve è bianca e il carbone è nero. Tali fenomeni di contrasto, tanto importanti per la visione, sembrano riflettere proprietà basilari del sistema visivo. Nel processo di codificazione dell'immagine retinica in impulsi nervosi vengono privile-
Figura 2.11 Campo recettivo di una cellula gangliare della retina. A sinistra: rappresentazione di uno stimolo luminoso di piccole dimensioni, tali da coprire solo la porzione centrale del campo recettivo (in alto), uno stimolo che copre tutta l'area del campo recettivo (al centro) e uno stimolo_ luminoso che copre solo la porzione periferica del campo recettivo (in basso). A destra (dall'alto in basso): le risposte della cellula in assenza di stimolazione e in risposta ai tre diversi stimoli luminosi. La serie di barrette verticali indica gli impulsi nervosi della cellula, che si succedono nel tempo (da sinistra a destra) quando nessuno stimolo è presente nel campo recettivo (in alto) oppure quando viene presentato uno degli stimoli indicati a sinistra. La barretta orizzontale in basso indica la durata dello stimolo, dall'inizio (on) alla fine (off). Si noti come lo stimolo di piccole dimensioni dia luogo a una scarica di impulsi molto più frequenti che non lo stimolo di grandi dimensioni. L'anello che copre la parte periferica del campo recettivo inibisce la scarica della cellula, (da Hubel, 1988)
Stimolo: on
off
giate ed esaltate le informazioni relative alle differenze tra chiaro e scuro piuttosto che il valore assoluto dello stimolo. I neuroni della retina che inviano i messaggi al cervello lungo il nervo ottico sono le cellule gangliari. Ciascuno di questi neuroni «vede» solo una piccola area del campo visivo, cioè codifica in impulsi nervosi solo stimoli che cadono dentro quell'area che è chiamata il campo recettivo della cellula nervosa. Il campo recettivo non è uniforme, ma è organizzato funzionalmente in modo che il neurone risponda in misuraottimale a stimoli luminosi limitati alla porzione più centrale del campo stesso e circondati da uno sfondo più scuro (o viceversa). Stimoli che illuminano uniformemente il campo recettivo risultano meno efficaci (figura 2.11). Quali siano le distribuzioni di chiaro scuro atte ad esaltare le risposte visive di contrasto era stato intuito da Paul Klee nel 1924 nelle sue lezioni al Bauhaus. Gli effetti percettivi di contrasto dipendono anche da quanto è netto il contorno tra un'area chiara e una scura. Contorni fortemente sfumati come quelli delle penombre possono rendere meno vistoso il contrasto. Quasi a compensare la mancanza di nettezza di un contorno sfumato si verifica un altro fenomeno soggettivo, le cosiddette righe di Mach, che sono righe chiare e scure che si percepiscono lungo i bordi di una penombra (figura 2.12). Le righe di Mach rendono più appariscente la separazione tra regione chiara e scura, creando un contorno là dove fisicamente questo contorno non esiste. Ciò è accompagnato da una esaltazione delle differenze di luminanza tra le zone vicine.
Figura 2.12 Righe di Mach. Nella fotografia (a) la luminanza è costante lungo una direzione verticale, mentre da sinistra a destra varia come indicato nel diagramma (b). La linea luminosa e la linea scura (righe di Mach), che appaiono nelle posizioni a e (5 indicate dalle frecce, non sono fisicamente presenti ma sono un fenomeno puramente soggettivo. Il profilo di chiaro-scuro percepito soggettivamente corrisponde quindi al diagramma (e).
3
(b)
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distanza
Si può addirittura creare una differenza illusoria di luminosità tra due aree fisicamente uguali introducendo a separarle un sottile contorno il cui profilo simuli quello delle righe di Mach (figura 2.13). Anche le righe di Mach possono trovare una spiegazione nell'organizzazione funzionale dei campi recettivi visivi.
Chiaro-scuro nell'arte
Figura 2.13 I due dischi hanno la stessa luminanza, tuttavia il bordo sfumato scuro fa apparire il disco in basso più chiaro, e il bordo sfumato chiaro fa apparire il disco in alto più scuro (illusione di Cornsweet).
Scriveva Leonardo: "Quel riflesso sarà di più spedita evidenza, il quale è veduto in campo di maggior oscurità, e quel fia meno sensibile, che si vedrà in campo più chiaro: e questo nasce che le cose di varie oscurità poste in contrasto, la meno oscura fa parere tenebrosa quella che è più oscura, e le cose di varie bianchezze poste in contrasto, la più bianca fa parere l'altra meno bianca che non è". Leonardo, quindi, era già consapevole dell'efficacia che si ha nell'accostare zone chiare e zone scure per far risaltare la figura dallo sfondo mediante un effetto di contrasto. Questo espediente è usato praticamente da tutti i pittori per esaltare alcune parti del quadro rispetto ad altre, creando zone di luminosità illusoria. Si pensi ad esempio ai quadri di Rembrandt o di Georges de La Tour, dove i giochi d^ luce servono a far risaltare un personaggio o alcune parti del suo corpo rispetto al resto del quadro. È solo con questi effetti di contrasto che il pittore può creare l'illusione di una sorgente luminosa: il sole, una lampada, una finestra da cui entra la luce (figura 2.14).
Figura 2.14 Rembrandt, Il giuramento dei Batavi (1661). Stoccolma, Nationalmuseum.
Un espediente ancora più ingegnoso è stato trovato dall'artista che ha dipinto il vaso coreano del XVIII secolo rappresentato in figura 2.15. Qui viene creata l'illusione di un disco della luna più luminoso dello sfondo introducendo un sottile bordo scuro a separarlo dal cielo. Se si maschera questo sottile bordo scompare ogni differenza di luminosità tra la luna e il cielo. In pittori di diverse epoche si trovano esempi evidenti di profili tra ombra e luce che simulano le righe di Mach. Ricordiamo, tra molti altri, la stella cometa nell'Adorazione dei Magi di Mantegna, i profili del volto e delle penombre in Le petit déjeuner di Signac o in Le nwud noir di Seurat (figura 2.16).
La forma creata dalle ombre Mentre l'accostamento di aree chiare e scure serve soprattutto ad esaltare le differenze di luminosità, come ben descritto da Leonardo, le ombreggiature, con il passaggio sfumato di luminosità, possono creare il miracolo di far nascere una forma solida. Questo trucco di creare la forma con le ombre è ben noto al pittore. Ad esempio, un disco con una variazione graduale di luminosità dall'alto verso il basso ci appare come una semisfera convessa se la parte più alta è quella più luminosa;
Figura 2.15 Questo vaso coreano del xvm secolo fornisce un esempio dell'uso di un sottile bordo scuro per creare l'illusione di una luna più luminosa del cielo, (da «Le Scienze», 49, 1972).
Figura 2.16 Georges Seurat, Le nwud noir (1882). Parigi, proprietà privata. Notare i forti effetti di contrasto lungo il contorno della figura e in particolare lungo il profilo del nodo.
se, viceversa, la parte più luminosa è in basso, ci appare come una semisfera concava (figura 2.17). Si noti che nella figura appaiono contemporaneamente delle sfere apparentemente convesse e altre concave; ciò indica che il nostro sistema visivo interpreta le ombreggiature nei cerchi come se fossero quelle prodotte su superfici sferiche illuminate da un'unica sorgente posta in alto. Quando le ombreggiature creano una variazione di luminosità lungo la verticale, l'effetto è sempre in questo senso, cioè la parte più chiara in alto dà luogo alla convessità. Si può constatare come questo sia vero, ruotando il libro di 180 gradi: i dischi che prima apparivano convessi ora appaiono concavi.
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Figura 2.17 Ombreggiature e forma. Nei dischi in cui l'ombreggiatura determina una variazione di luminosità in senso verticale (a), quelli che sono più chiari nella parte alta appaiono convessi, gli altri concavi. Se si inverte la figura, le apparenze si scambiano. Nei dischi ombreggiati lungo l'orizzontale (b), la percezione è ambigua: o le sfere superiori o quelle inferiori possono apparire convesse e le altre concave, ma non accade mai che appaiano contemporaneamente tutte convesse o tutte concave, (da Ramachandran, 1988).
•
I |
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%
|
|b|
Se invece l'ombreggiatura produce una variazione di luminosità in senso orizzontale, la percezione di concavità o convessità diventa ambigua. Ad esempio, nella figura 2.17b i dischi della riga superiore possono apparire convessi e quelli della riga inferiore concavi, oppure viceversa. Le due percezioni possono alternarsi, ma non si vedono mai superfici tutte concave o tutte convesse nello stesso momento. Evidentemente il cervello assume che la sorgente di luce sia una sola, forse perché si è evoluto in un sistema dove vi è un unico sole. Anche il passaggio netto da zone chiare a zone scure in una stessa figura può creare l'apparenza di una forma solida, se le zone scure vengono interpretate come ombre. Nelle fotografie e nei disegni vi può essere ambiguità nell'interpretazione di zone scure: può trattarsi di ombre, oppure di parti realmente scure degli oggetti rappresentati. Il sistema visivo deve fare delle ipotesi per scegliere l'una o l'altra interpretazione, in base alla sua esperienza. Ad esempio, nella figura 2.18a le strisce scure sulla neve vengono interpretate come ombre degli alberi, anche se non tutti questi sono visibili nella fotografia. Nella figura 2.18b le aree nere all'interno di quelle bianche vengono interpretate come ombre; l'apparente solidità del busto del cavallo deriva solo da questo. L'ambiguità nell'interpretazione delle aree scure può essere sfruttata per creare figure ambigue, come nel quadro di Salvador Dali Mercato di schiave con l'apparizione del busto invisibile di Voltaire (figura 2.18c): certe aree scure, se interpretate come capelli e vestiti delle donne, fanno apparire delle dame in abiti bianchi e neri, se invece interpretate come ombre, fanno apparire i lineamenti della faccia di Voltaire. Nelle figure più semplici, generalmente l'interpretazione delle aree scure come ombre è preferita. Così, nella figura 2.18d, le strisce nere non vengono preferenzialmente viste come tali, ma più facilmente come ombre di una figura solida.
Figura 2.18 Ombre e forma. (a) Le strisce nere sulla neve vengono interpretate come ombre degli alberi. (b) Le macchie nere all'interno della figura vengono interpretate come ombre dando la percezione di solidità alla testa del cavallo. (e) Nel Menato dì schiave con l'apparizione del busto invisibile di Voltaire di Salvador Dall', le macchie nere possono guidare l'interpretazione di una figuta o dell'altra, a seconda che vengano interpretate come parti nete dei vestiti delle donne o come ombre del viso di Voltaire. (d) Le strisce nere vengono preferenzialmente interpretate come ombre, dando luogo alla percezione di una figura solida.
(a)
(b)
(e)
(d)
Un altro fenomeno percettivo importante per la rappresentazione pittorica è l'effetto che una zona scura può avere sulla percezione della forma e della posizione di un oggetto, se essa viene interpretata come ombra proiettata dall'oggetto su uno sfondo. Due esempi sono mostrati in figura 2.19Il cervello ha a sua disposizione anche altre risorse per far nascere forme da opportune distribuzioni spaziali di aree chiare e scure. Queste forme possono risultare da contorni «illusori», come nel ben noto Figura 2.19 La macchia nera interpretata come ombra può influenzare la posizione apparente dell'oggetto (a sinistra) o della fotma (a destra), (da Cavanagh e Ledere, 1989).
triangolo di Kanizsa (figura 2.20): qui i lati dei settori dei dischi neri vengono soggettivamente prolungati così da dar luogo ai lati di un triangolo che emerge dallo sfondo, e appare anche più chiaro. Nella figura 2.21 le gambe della donna non sono raffigurate, ma le scarpe sono sufficienti a suggerirle. Un esempio di completamento percettivo di forme con contorni parzialmente illusori è offerto dall'opera pittorica di Vasarely, nell'ambito della Op Art.
Le o m b r e sulla Luna: arte e scienza in Galileo Galilei Figura 2.20 Triangolo di Kanizsa, con contorni illusori.
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Figura 2.21 Esempio di completamento percettivo di forme: la donna è senza gambe? (da Schober e Rentschler, 1972).
Un evento di grande importanza nella storia della cultura è l'interpretazione da parte di Galileo delle ombre nelle immagini della Luna viste al telescopio. Come afferma nel Sidereus Nuncius (1610), egli fu il primo a puntare sulla Luna un telescopio capace di dare immagini di grande nitidezza. In queste immagini viste per la prima volta da un occhio umano, egli scorse delle ombre che interpretò correttamente come segni di asperità della superficie lunare, rispettivamente come monti o crateri: "altissima montium iuga" o "cavitates". Nel Sidereus Nuncius Galileo accompagna il resoconto delle sue osservazioni astronomiche con bellissimi disegni. In queste illustrazioni, e in particolare in quelle del primo e ultimo quarto di Luna (figura 2.22a), il contorno tra le regioni luminose e quelle scure appare molto irregolare, come se la superficie stessa della Luna fosse accidentata. Galileo distinse correttamente tra irregolarità concave e convesse della superficie della Luna a seconda delle ombreggiature che esse presentavano, e della posizione delle zone più chiare e più scure rispetto alla direzione di provenienza della luce del Sole. Ad esempio, egli descrisse la macula circolare in basso nella figura 2.22a come una cavità, perché il crescente luminoso appariva dalla parte opposta al Sole: "pars solis aversa splendens". La sicurezza con cui Galileo interpretò le ombreggiature nelle immagini telescopiche della Luna come evidenza di crateri e di montagne appare tanto più sorprendente se si pensa che ai suoi tempi si riteneva che la superficie della Luna fosse perfettamente liscia e levigata. Da cosa veniva questa capacità di Galileo di vedere nelle ombre la solidità delle forme? Probabilmente questa gli derivò dall'essere un pittore dilettante (Panofsky, 1954) e dal conoscere quindi gli effetti che si possono ottenere con le distribuzioni di chiaro e scuro. Scriveva infatti al suo amico, il pittore Ludovico Cigoli in una lettera del 26 giugno 1612: "Conosciamo dunque la profondità, non come oggetto della vista, per sé et assolutamente, ma per accidente rispetto al chiaro et allo scuro". In questa lettera Galileo affermava anche che un oggetto tridi-
Figura 2.22 (a) Disegno originale di Galileo dell'ultimo quarto di Luna, dalla prima edizione del Sidereus Nuncius. (b) Una recente immagine telescopica della Luna. Si noti come il cratere disegnato da Galileo al bordo tra zona illuminata e zona in ombra sia molto ingrandito rispetto alle dimensioni dello stesso cratere in fotografia.
:
(a)
mensionale, come una statua, se illuminato da una sorgente di luce viene percepito in rilievo come conseguenza del fatto che alcune parti appaiono luminose e altre scure. Galileo sosteneva inoltre che, se si pirturassero le parti illuminate con vernice scura, così da far apparire la superficie della statua uniformenente scura, sarebbe possibile sopprimere completamente la percezione del rilievo. Mentre gli uomini di cultura del tempo di Galileo rifiutavano di accettare che le immagini da lui viste al telescopio rappresentassero realmente la superficie della Luna, il suo amico Cigoli non ebbe alcuna difficoltà a condividere l'interpretazione da lui data delle ombre lunari, perché essendo un pittore sapeva che la luce e le ombre possono essere usate per creare l'illusione della profondità. Il Cigoli era così convinto dell'esattezza delle osservazioni astronomiche di Galileo, da lui stesso sperimentate, che nel suo dipinto in Santa Maria Maggiore a Roma (figura 2.23) rappresentò la Luna ai piedi della Santa Vergine così come è vista al telescopio "con le divisioni merlate e le sue isolette" (lettera di Federico Cesi a Galileo del 23 dicembre 1612). Indubbiamente quello che Galileo vide puntando il telescopio sulla Luna fu influenzato dal suo cervello e dalle sue conoscenze nel campo dell'arte. È significativo che le osservazioni astronomiche di Galileo e la loro interpretazione, che diedero origine a una svolta epocale nelle conoscenze dell'uomo, furono rese possibili dall'incontro delle due culture, umanistica e scientifica, in un uomo di grande ingegno. Figura 2.23 Ludovico Cigoli, L'Assunzione (1612). Roma, Santa Maria Maggiore.
CAPITOLO 3 LA FINESTRA SUL MONDO E IL LINGUAGGIO DEL SEGNO Alice once remarked, "I see nobody on the road" and the King replied in a fretful tone, "I only wish I had such eyes, to be able to see Nobody and at that distance too". Lewis Carrol, Through the Looking-Glass.
I
La Gioconda di Leonardo è stata qui riprodotta con un reticolo di 609 quadrati, ciascuno dei quali ha tonalità e luminosità uniformi. La trasformazione è stata compiuta a partire da una copia fotografica del quadro di Leonardo. Il riconoscimento può essere facilitato osservando la figura obliquamenre o guardandola da u na distanza di circa tre metri, (modificata da Harmon L.D., «Le Scienze», 66, 1974).
mmaginate di essere sdraiati su un prato in una notte di primavera, attratti romanticamente dal cielo stellato. Tutta la volta del cielo è punteggiata da miriadi di luci. Voi, incantati, guardate ad occhi spalancati. In mezzo al cielo splende la luna piena. Il vostro campo visivo è limitato solo dall'orizzonte. Si estende per 180 gradi o poco meno in tutte le direzioni. La luna di fronte a voi sottende circa mezzo grado. Sul diametro della luna si possono scrivere al massimo 15 caratteri alfanumerici (lettere o numeri) di dimensioni tali da essere leggibili. Se uno volesse riempire tutto il cielo con questi caratteri potrebbe scrivervi circa un milione di lettere. Queste rientrerebbero tutte nel campo visivo dei due occhi del nostro romantico osservatore. Eppure l'osservatore non si sogna nemmeno di poter leggere tutti questi caratteri contemporaneamente. La quantità di informazioni che può recepire in un singolo sguardo è dell'ordine di sei o sette caratteri. Per descrivere la limitata capacità di elaborare l'informazione da parte del sistema visivo, uno dei primi cibernetici, Kenneth Craig, soleva portare l'esempio del setaccio, che lascia passare solo certi grani e non altri. Il sistema visivo quindi si comporta come un filtro: lascia passare solo una certa quantità e un certo tipo di informazioni, e non altre. Così del resto fanno tutti gli altri sistemi sensoriali. È come se non vedessimo il mondo così com'è, ma attraverso una finestra. Il nostro sistema visivo è la finestra sul mondo. Così non possiamo vedere i batteri senza l'aiuto del microscopio ottico, né i virus se non con il microscopio elettronico. Gli strumenti ottici, come il microscopio, hanno l'effetto di ingrandire l'immagine retinica dell'oggetto osservato. Un'immagine visiva più grande equivale a vedere l'oggetto sotto un angolo visivo più grande. Quando l'immagine retinica è più piccola di una certa dimensione,
30
L A K l 1 U L U t>
F i g u r a 3-1 Angolo visivo (u) sotto cui si vede l'oggetto di altezza y alla distanza x dall'occhio e al quale corrisponde l ' i m m a g i n e retinica di altezza y'. Q u a n d o l'oggetto di altezza y è il p i ù piccolo visibile, il corrispondente angolo u si dice angolo limite.
Acuità 150
visiva 50/10
aquila
100 50
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uomo -scimmia (Macaco)
20/10
^> 10/10
20 5/10 10
-scimmia notturna (Aotus)-
5
lince gatto — coniglio — — pesce rosso •
1/10
2
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0,5/10
2/10
1 - ratto 0,5
-ratto albino0,1/10
T a b e l l a 3.1 Acuità visiva d e l l ' u o m o confrontata con quella di altri animali. A destra l'acuita è indicata secondo la scala convenzionale usata in oculistica, dove 10/10 indica l'acuità corrispondente all'angolo l i m i t e di un m i n u t o p r i m o . A sinistra è indicata la massima frequenza spaziale (in cicli/grado) che l'occhio è in grado di risolvere.
non riusciamo più a distinguere ciò che essa contiene. Questa dimensione limite dell'immagine retinica determina un angolo visivo (figura 3.1) detto angolo limite, cui corrisponde il più piccolo oggetto visibile. Se si considerano due punri, ad esempio la base e l'apice della freccia y in figura 3.1, c'è una minima distanza tra i due punti che consente di vederli separati. Tanto più piccola è questa distanza e il corrispondente angolo visivo, tanta più alta si dice essere Vacuità visiva. La grandezza del più piccolo oggetto visibile dipende dalla distanza da cui si guarda, perché all'allontanarsi dell'oggetto diminuisce l'angolo sotto cui esso è visto e quindi la sua immagine retinica; altrettanto vale per la minima distanza discriminabile. Non tutti gli animali hanno la stessa finestra sul mondo (filtro visivo): per alcuni animali, i più piccoli oggetti visibili sono assai più piccoli che non per noi, altri non arrivano a vedere le cose che noi vediamo. Ad esempio, l'aquila può scorgere la sua preda da grandi distanze, perché ha una acuità visiva tre o quattro volte superiore all'uomo (v. tabella 3.1). Il gatto, invece, non arriva a distinguere particolari così fini come quelli che possiamo vedere noi; in compenso, ha una sensibilità migliore della nostra nella visione notturna. Anche nel campo del colore la finestra può imporre i suoi limiti, diversi da una specie animale all'altra. Vi sono animali che hanno una visione cromatica più povera della nostra, come il cane e il gatto, altri che hanno una visione più ricca, come certi pesci o uccelli; le api hanno una sensibilità che si spinge fino al regno, per noi invisibile, dell'ultravioletto. Una descrizione del nostro «filtro», relativo alle dimensioni degli oggetti visibili, si può ricavare dalla figura 3.2. Questa fotografia presenta delle sbarre alternativamente chiare e scure, che si succedono in grandezza decrescente da sinistra verso destra. Invece dal basso verso l'alto le sbarre divengono progressivamente più tenui in contrasto, cioè la differenza tra chiaro e scuro diminuisce. Sull'estrema destra si può apprezzare il limite della nostra capacità di distinguere oggetti fini, perché le sbarre divengono così fini, anche se di massimo contrasto, da essere invisibili al di là di un certo punto. Procedendo dal basso verso l'alto, le sbarre divengono invisibili al di sopra di una certa altezza, là dove il contrasto diventa troppo tenue. Non farà meraviglia che le
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Figura 3.2 In questa fotografia si alternano sbarre chiare e scure, la cui larghezza decresce da sinistra verso destra e il cui contrasto decresce dal basso verso l'alto. Si noti che le sbarre di larghezza intermedia sono visibili anche nella parte più alta della figura, là dove le sbarre più larghe e quelle più fini non sono più visibili.
0,05 0,1
Frequenza spaziale (cicli per grado) Figura 3.3 La curva di sensibilità al contrasto descrive il filtro visivo dell'uomo. Sulla scala di destra è rappresentato il minimo contrasto percettibile (soglia di contrasto), su quella di sinistra la sensibilità al contrasto che è inversamente proporzionale alla soglia di contrasto. Il nostro mondo visivo è limitato alla regione chiara al di sotto della curva.
sbarre fini siano visibili solo per un breve tratto, cioè solo per contrasti elevati; il lettore però potrà essere sorpreso dal fatto che anche le sbarre molto larghe, sull'estrema sinistra, sono visibili solo per un tratto limitato, mentre quelle di larghezza intermedia sono visibili anche nella parte alta della figura, dove i chiari-scuri sono molto tenui. E come se il nostro setaccio avesse una marcata preferenza per i grani di una certa grossezza e li lasciasse passare più volentieri che non quelli più fini o più grossi. Sulla figura 3.2 l'osservatore può idealmente tracciare una curva che congiunge i punti dove le sbarre cessano di essere visibili. Questa curva a campana è rappresentata in figura 3.3. Sull'asse orizzontale è indicata una scala di frequenza spaziale, che è una grandezza inversamente proporzionale allo spessore delle sbarre: più fini sono le sbarre e più alta è la frequenza spaziale e viceversa. Precisamente, la frequenza spaziale si definisce come il numero di coppie di sbarre chiare e scure contenute nell'angolo visivo di un grado e si esprime in cicli per grado. La curva di figura 3.3 indica il confine tra ciò che è visibile e ciò che non lo è; essa rappresenta il filtro visivo dell'uomo. Sotto la curva sta tutto ciò che può essere visto; tutto ciò che è al di sopra o al di là della curva è o troppo fine o troppo tenue in contrasto per essere visibile. Ci possiamo domandare che cosa impone questo contorno alla nostra finestra sul mondo. Ogni sistema ottico, come i microscopi, i telescopi ecc., sia esso costituito da lenti o da specchi, ha un suo limite di
CAPITOLO 3
risoluzione. Anche il sistema ottico dell'occhio, quindi, ha un suo limite di risoluzione. A questo si accompagna però anche il limite imposto dalle proprietà delle strutture nervose. Sia la componente ottica sia la componente nervosa del sistema visivo possono imporre dei limiti più severi del normale quando sono alterate. Questo avviene per la componente ottica in presenza di difetti, quali la miopia, la presbiopia, l'ipermetropia e l'astigmatismo, oppure la cataratta (un'opacizzazione del cristallino che avviene per lo più in età senile); per la componente nervosa avviene a causa di patologie del sistema visivo, sia a livello retinico che corticale. L'effetto della miopia o di altri difetti visivi, che impediscono di mettere a fuoco correttamente le immagini ottiche sulla retina, è principalmente quello di deteriorare l'acuità visiva e di rendere meno nitidi i contorni degli oggetti. Tutto appare più confuso, meno contrastato, come nelle fotografìe sfuocate. La finestra sul mondo del miope è più stretta del normale: non passano le informazioni sui particolari fini degli oggetti.
La finestra sul m o n d o nella pittura Nella rappresentazione pittorica l'artista non porta sulla tela l'intero contenuto di informazione visiva che può percepire attraverso la sua finestra visiva. Il pittore opera un ulteriore filtraggio della realtà nel quale gioca la sua scelta di artista, oltre ad eventuali limiti tecnici o manuali. Come artista egli può optare per una ricchezza di dettagli della scena visiva, come ad esempio nella pittura fiamminga, oppure per una rappresentazione più sfumata, senza contorni netti, come in certi quadri degli impressionisti. Nel corso della vita del pittore il filtro della rappresentazione artistica si può modificare sia per un'evoluzione dell'artista verso scelte pittoriche diverse, sia per il subentrare di limiti o altre alterazioni dovute a malattia o senescenza del sistema nervoso. Un esempio ben noto è quello di Monet (1840-1926). Nel 1978 « fu un'interessante mostra al Metropolitan Museum di New York che presentava le sue opere tarde, dipinte a Giverny negli ultimi 10 anni di vita. In quegli anni la vista del pittore era molto deteriorata dall'avanzare della cataratta bilaterale che si era manifestata già da tempoNel 1923 il pittore fu operato di cataratta e, benché molto avanti negli anni, ritornò a dipingere. Le opere della mostra al Metropolitan Museum erano divise in quadri fatti prima dell'operazione e quadri successivi ad essa. La differenza tra gli uni e gli altri era molto vistosa. Nei nrimi le forme sono auasi irriconoscibili, mancano completamente 1
Figura 3.4 (a sinisrra) Viale delle rose, dipinto da Claude Monet a Giverny tra il 1922 e il 1923, prima dell'operazione di cataratta. Parigi, Musée Marmottan.
Figura 3.5 (a desrta) La Casa tra le rose di Claude Monet, nella versione del 1924 dipinta dopo l'operazione di cataratta. Si confronti questo dipinto con quello di figura 3.4 e si noti qui la maggior nitidezza dei contotni e il diverso uso dei colori. Parigi, Musée Marmottan.
particolari, dominano le macchie diffuse di colore rosso e giallo, come è evidente nell'esempio riportato nella figura 3.4. Nei secondi, dopo l'operazione, riappaiono colori più vari, la gamma dei verdi e dei blu, e le forme diventano più riconoscibili (figura 3.5). Queste alterazioni nella rappresentazione pittorica di Monet sono attribuibili agli effetti dell'opacità del cristallino nella cataratta avanzata. La trasformazione della lente da trasparente a lattiginosa produce un'alterazione del filtro visivo sia rendendo meno nette o addirittura confuse le immagini, sia alterando la trasmissione della luce a scapito soprattutto delle lunghezze d'onda più corte, cui corrispondono i colori azzurri e viola. Alterazioni della visione possono verificarsi fisiologicamente nella vecchiaia anche in assenza di patologie specifiche. Le alterazioni più comuni sono una progressiva diminuzione dell'acuità visiva col progredire dell'età e una decrescente sensibilità alle lunghezze d'onda corte, corrispondenti all'azzurro e al viola, con conseguente spostamento della percezione cromatica in favore dei colori giallo e rosso. Bisogna anche tener presente che nella vecchiaia si possono verificare alterazioni del sistema nervoso non propriamente visive, come alterazioni delle facoltà mentali e soprattutto un parziale deterioramento del controllo dei movimenti, che ha come conseguenza una minore stabilità e agilità della mano. Accenneremo ad alcuni casi nel Capitolo 10. Queste alterazioni fisiologiche possono modificare apprezzabilmente la maniera di dipingere introducendo, ad esempio, una variazione della
(a) Figura 3.6 (a) Tiziano Vecellio, Flora (1514). Firenze, Galleria degli Uffizi. (b) Tiziano Vecellio, Tarquinia e Lucrezia, particolare (1570). Vienna, Gemaldegalerie der Akademie der Bildenden Kiinste. Opera realizzata in tarda età.
(b)
gamma cromatica e una minore accuratezza dei dettagli: i contorni si fanno più sfumati, il profilo delle figure meno deciso, i contrasti divengono più tenui. Molti degli artisti che hanno dipinto fino alla vecchiaia presentano queste caratteristiche nelle opere più tarde. Un esempio noto è quello di Tiziano, la cui espressione pittorica si è notevolmente modificata nell'ultimo periodo della sua lunga vita rispetto alle opere giovanili e della maturità (figura 3.6).
Immagini filtrate e grana visiva Abbiamo parlato precedentemente delle unità neurali e dei loro campi recettivi, che già a livello della retina analizzano l'immagine come se fosse divisa in tante tessere di un mosaico. La tessera biologica è il campo recettivo che copre solo una piccola parte dell'immagine. Occorre qui precisare che in ogni zona della retina sono sovrapposti campi recettivi che hanno dimensioni diverse. In ogni regione i campi recettivi più piccoli sono deputati a «vedere» oggetti più piccoli; i campi più grandi, oggetti più grandi. Quando siamo di fronte a un'immagine costituita da un insieme di oggetti
Figura 3.7 Fotografia di Humphrey Bogart e Laureen Bacali (a) e tre figure ottenute sottoponendo la foto originale a tre diversi tipi di filtraggio, in modo da conservare solo le macchie di chiaro-scuro più grosse (b) o anche quelle via via più fini (e), (d). (da Rentschler, Herzberger e Epstein,1988).
approssimativamente delle stesse dimensioni, come l'acciottolato di una strada o l'erba di un prato, si può pensare che questo coinvolga specificamente una classe di campi recettivi di dimensioni corrispondenti agli elementi dell'immagine: campi recettivi più grossi per l'acciottolato, campi recettivi più piccoli per l'erba. Nel caso più generale di un'immagine qualunque, si può pensare che vengano contemporaneamente attivate classi di campi recettivi più grossi e più fini, responsabili di analizzare contemporaneamente le componenti della figura di «grana» più grossa e più fine. Questo processo può essere simulato filtrando artificialmente un'immagine, così da isolarne le varie componenti di grana grossa e via via più fine. Un esempio di questo filtraggio è quello attuato sulla fotografia di due famosi attori (figura 3.7a). Le figure 3.7b-d rappresentano il risultato del filtraggio della fotografia in modo da mettere in evidenza tre diverse componenti di grana progressivamente più fine. Si noti che in b sono visibili solo le grandi zone di luce e di ombra della foto originale. In e queste si perdono, ma affiorano le aree chiare e scure di grandezza intermedia corrispondenti ai principali lineamenti dei visi. Infine in evengono isolati i contorni delle figure.
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Figura 3.8 Vedute della facciata della cattedrale di Rouen. (a) Fotografia originale della cattedrale. (b) Versione ottenuta sottoponendo a un filtraggio che elimina le componenti di grana fina, la fotografia mostrata in (a). (e) La cattedrale dipinta da Claude Monet (Cathédrale de Rouen, Temps Gris, 1894. Parigi, Musée d'Orsay).
È sorprendente notare come in alcuni casi l'opera d'arte sia molto vicina al risultato dell'operazione di filtraggio. Si pensi ad esempio alle numerose rappresentazioni di Monet della cattedrale di Rouen in varie ore del giorno. Una di queste è riprodotta nella figura 3-8c. La cattedrale si presenta con contorni sfumati, priva di particolari dettagliati. Questa apparenza sfumata del quadro appare più evidente se la si confronta con la fotografia della cattedrale riportata in a. Se sull'immagine reale della cattedrale si opera un filtraggio al calcolatore che simuli un processo di sfocatura ottica, si ottiene l'immagine riportata in b, che mostra una sorprendente somiglianza con la cattedrale di Monet. Si può supporre che la fantasia del pittore abbia innescato un processo cerebrale simile a quello del calcolatore. La fantasia di un artista può inventare giochi ancora più stravaganti mettendo in atto processi cerebrali di filtraggio più complessi, come quelli che mascherano con una struttura a blocchi un'immagine fotografica (figura 3-9). Un esempio suggestivo e del tutto singolare e quello ideato da Salvador Dalf nel quadro rappresentato nella figura 3.10. Al primo sguardo appare la figura di una giovane donna alla finestra; se però ci si allontana dalla figura quanto basta per filtrare 1 dettagli più fini, l'immagine si trasforma in modo del tutto inatteso nel ritratto di Abramo Lincoln. Questa figura è stata costruita dal pittore in maniera artificiale, veicolando informazioni del tutto diverse nella gamma dei dettagli fini (giovane donna) e in quella della grana più grossa (Lincoln), cosicché, quando sono presenti contemporaneamente, le prime impediscono di vedere le seconde. Si pensa che questo sia dovuto a un processo nervoso di «mascheramento».
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Figura 3.9 Versione digitalizzata a blocchi della fotografia dei due attori di figura 3-7a. Per riconoscere gli attori osservate la figura da una distanza di tre o quattro metri, (da Rentschler, Herzberger e Epstein,1988).
Figura 3.10 Salvador Dall', Gala che guarda il mar Mediterraneo (1974). Tokyo, Minami Art Museum. Osservando la figura da quattro o cinque metri appare il ritratto di Abramo Lincoln.
Guardare un q u a d r o da vicino o da lontano È esperienza comune che per vedere i dettagli di un oggetto occorre guardarlo da vicino. Ed è vero d'altronde che allontanandosi da esso diventano via via impercettibili i particolari più fini. Questo vale anche per l'osservazione di un quadro, dove ad esempio le scabrosità delle pennellate e le piccole irregolarità del segno sono visibili solo a distanza ravvici-
Figura 3.11 Claude Monet, Signore tra ì fiorì (1875). Praga, Galleria Nazionale. Particolare riprodotto in due dimensioni diverse.
nata. Ogni dipinto è stato creato per una distanza ottimale di osservazione che è suggerita sia dalla grandezza del quadro sia dalla grana pittorica. Nel mosaico la grana è imposta dalle dimensioni delle tessere; queste, di norma, vengono adeguate alla presunta distanza di osservazione, in modo che da questa distanza i limiti tra le tessere risultino pressoché impercettibili. Così nella basilica di San Marco a Venezia i mosaici che rivestono le pareti interne, e che sono destinati ad essere visti da chi sale le scale verso il matroneo, hanno tessere via via più fini a seconda della distanza da cui si presume vengano osservati. In molti quadri la grana è così fine che non costituisce un elemento di disturbo e una visione anche ravvicinata può essere vantaggiosa per cogliere importanti particolari del dipinto che altrimenti potrebbero passare inosservati. Se questo è vero per la maggioranza dei dipinti, in alcuni casi una variazione della distanza di osservazione crea fenomeni inaspettati, forse nemmeno previsti dall'artista. È questo un caso frequente nella pittura impressionistica dove gli effetti ricercati dal pittore si attenuano a distanze relativamente grandi di osservazione, suscitando nell'osservatore l'impressione di un'immagine molto più realistica.
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Figura 3.12 Claude Monet, Il Parlamento di Londra (1904), riprodotto in due dimensioni diverse. Parigi, Musée d'Orsay.
Ancora una volta scegliamo esempi dalla pittura di Monet, dove questo fenomeno è più frequente. Nella figura 3.11 abbiamo riportato un particolare delle Signore tra i fiori e accanto una riproduzione rimpicciolita per simulare l'effetto di una maggiore distanza di osservazione. Si noti come la figura della donna risalti in modo molto più pregnante nell'immagine più piccola. Altrettanto accade per i dipinti degli edifici londinesi e delle cattedrali di Rouen che, visti da una decina di metri di distanza, perdono lo sfarfallio di luce, ombre e colori tipico dell'impressionismo e si stagliano più solidi e compatti sullo sfondo del quadro. Per simulare l'effetto percettivo del guardare un quadro da diverse distanze, presentiamo nella figura 3.12 due riproduzioni del Parlamento di Londra di Monet, ottenute con due diversi ingrandimenti. Nell'immagine più piccola non solo scompare praticamente la grana delle pennellate, ma i contorni appaiono netti come in realtà nel quadro non sono. Questo fenomeno percettivo è probabilmente dovuto a un processo di compensazione nell'elaborazione cerebrale dell'immagine visiva, mediante il quale i contorni che al crescere della distanza di osserva-
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zione tenderebbero a divenire più sfumati, meno precisi, vengono modificati così da continuare ad apparire netti e contrastati. Ritroviamo qui l'importanza del contorno come elemento essenziale della percezione visiva. Nelle prossime pagine ci soffermeremo a illu_ strare come i contorni siano uno stimolo del tutto privilegiato per l e cellule nervose della corteccia cerebrale visiva e quale ruolo e significato possa avere il «segno» nella rappresentazione pittorica.
Il linguaggio del segno Perché l'uomo primitivo, ritornando dalla caccia, rinchiuse con il segno di una pietra appuntita una superficie della parete della sua grotta per rappresentare l'animale che aveva visto nella foresta? E perché i suoi compagni capirono che quella linea variamente ricurva era un bisonte (figura 3.13)? Come fece il cacciatore a spiegare loro, in assenza del linguaggio, a cosa mai si riferisse quel disegno? Come può una linea richiamare alla memoria visiva dell'osservatore la figura complessa Figura 3.13 Bisonte sventrato, uomo disteso e uccello. Dipinti preistorici delle grotte di Lascaux (30000 a.C. circa).
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Figura 5.13 Ambrogio Lorenzetti. // Buon Governo (1339). Siena, Palazzo comunale. Si notino le tre direzioni di movimento che irradiano dal centro verso l'interno della città e verso le porte ai lati.
donne" che entrano dalla porta della città sulla destra. Tutti gli edifici sono posti in obliquo e tutti riferiti all'unico punto centrale. Nel Cattivo Governo, dipinto nella parete di fronte, tutti gli edifici sono in proiezione frontale, come se l'occhio non volesse entrare nella città e fuggisse. Nella Presentazione di Ambrogio Lorenzetti del 1344, alla Galleria degli Uffizi, si vedono già le mattonelle del pavimento che scorciano correttamente verso un unico punto di fuga. Tra gli indizi della profondità usati dai Lorenzetti uno sembra particolarmente degno di nota. In un particolare di un affresco di Pietro Lorenzetti si nota un bicchiere pieno d'acqua, posato sull'orlo di un pozzo. L'acqua è trasparente e attraverso il bicchiere si vede l'altra parete del pozzo. E qui realizzato uno degli indizi pittorici di profondità, la trasparenza, che è assai raramente usato dai pittori.
La prospettiva nel Rinascimento La prospettiva, nel pieno significato del termine, fu scoperta o forse solo riscoperta nel Rinascimento. Per mostrare la possibilità di simulare la percezione della profondità mediante la prospettiva il Brunelleschi, nei primi anni del Quattrocento, dipinse su una tavola una veduta della piazza della Signoria di Firenze, poi andata smarrita, secondo le regole prospettiche della proiezione centrale indicate nella figura 5.7.
Figura 5.14 Il principio della prospettiva lineare. La piramide visiva relativa all'oggetto ABCDE e al centro di rotazione O dell'occhio dell'osservatore (che tiene chiuso l'altro occhio), è intersecata dalla superficie FGHI, e forma così la proiezione abcde, in prospettiva lineare. Se la superficie FGHI è un vetro trasparente (finestra di Leonardo) l'occhio vede questa proiezione prospettica coprire esattamente l'oggetto reale, (da Pirenne, 1970).
Il dipinto doveva essere guardato con un occhio solo attraverso un forellino posto in una ben precisa posizione rispetto al quadro: era questa la posizione del centro di proiezione, dal quale era stata disegnata la figura della piazza. Si otteneva così una sensazione di profondità della piazza e dei monumenti molto vicina a quella prodotta dalla scena reale. Questo esperimento del Brunelleschi si basava sul principio della proiezione centrale, su un piano, di oggetti solidi a varia distanza, in cui il centro di proiezione coincide con l'occhio dell'osservatore. La figura 5.14 illustra la cosiddetta «piramide visiva» a cui fa riferimento l'esperimento del Brunelleschi. La prospettiva rinascimentale era entrata nella pittura nel 1426, con l'affresco della Trinità del Masaccio in Santa Maria Novella. Le rette che formano la piramide visiva definiscono gli angoli visivi; questi angoli sono ovviamente gli stessi per gli oggetti reali e per la loro rappresentazione prospettica. Quindi la prospettiva naturale della figura costruita sulla superficie di proiezione è esattamente la stessa della prospettiva naturale della scena rappresentata. A rigore questa corrispondenza si verifica solo quando l'osservatore guarda la figura proiettata con un occhio solo posto esattamente nel vertice della piramide. Si osservi il quadro della Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca (figura 5.15a). La figura 5.15b illustra il rigore prospettico con cui è costruito il quadro e indica in quale posizione va posto l'occhio per guardarlo, in modo da coincidere con il vertice della piramide visiva, così da ottenere il massimo effetto prospettico. Il punto si trova in direzione del prolungamento del bordo interno della lastra bianca centrale del pavimento. Guardando la fotografia del quadro (figura 5.15a) da questa direzione con un occhio solo, si noterà il forte aumento del senso di profondità. Le figure sulla sinistra sembrano sprofondare in lontananza. In questo famoso quadro vi è un'altra cosa da notare a proposito degli indizi pittorici di distanza: le ombre proiettate sul pavimento dalle figure in primo piano indicano che la sorgente di luce si trova sulla sinistra. Il gioco delle luci e delle ombre sui loro abiti contribuisce anche a dare solidità alle figure stesse. Ma per le figure nello sfondo è chiaramente presente un'altra sorgente che crea tra l'altro riflessi luminosi sulla statua sopra la colonna e la cui posizione sembra coincidere con il punto dello spazio verso cui si dirige lo sguardo del Cristo. Quindi a questa sorgente potrebbe essere attribuito un significato spirituale. Nel Quattrocento la teoria della prospettiva viene codificata in trattati scritti dagli stessi artisti e trova rigorosa applicazione in numerose opere, sia di scultura che di pittura. Si ricordino i bassorilievi di Donatello, o in pittura, le opere di Paolo Uccello o di Piero della Francesca.
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Figura 5.15 (a) Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo. Urbino, Palazzo Ducale. (b) Pianta e alzato della scena rappresentata in (a). Le linee divergenti dal punto che rappresenta l'occhio dell'osservatore indicano le sezioni della piramide visiva in pianta e in alzato. La parte ombreggiata nella pianta è quella rappresentata nel dipinto. Sulla pianta sono anche indicate le posizioni dei personaggi e le basi delle colonne. Si noti il vertice della piramide visiva (punto di osservazione) che si trova in direzione del prolungamento del bordo interno della lastra bianca centrale del pavimento, (da S. Bersi, P. Bersi, C. Ricci, L'educazione artìstica, Zanichelli, Bologna 1988).
Punto di vista
Figura 5.16 Raffaello Sanzio, ha Scuola di Atene. Roma, Palazzo Vaticano, "Stanza della Segnatura". In questo grande quadro, destinato ad un ambiente non molto grande, le strutture architettoniche sono disegnate secondo le regole prospettiche, ma queste regole vengono parzialmente modificate nella rappresentazione dei gruppi di figure in primo piano. Questo è ben esemplificato dalle sfere sorrette dai personaggi sull'estrema destra, che hanno contorno circolare e non ellittico, come se l'osservatore si fosse girato per guardare questa parte laterale del quadro, così da vederla di fronte.
Con Leonardo viene attribuito un ruolo importante alla prospettiva aerea per la rappresentazione della distanza nelle scene all'aperto. Ed è pure Leonardo a suggerire una tecnica semplice per la rappresentazione su un piano di scene tridimensionali. Secondo Leonardo dipingere in prospettiva equivale a vedere una scena o degli oggetti solidi che si trovano dietro una lastra di vetro trasparente, e a disegnare gli oggetti sul vetro, così come si vedono attraverso di esso. Leonardo fa specifico riferimento alla piramide visiva formata da linee rette, che da ogni punto degli oggetti convergono su un singolo punto nell'occhio dell'osservatore. Questa finestra di Leonardo (figura 5.14) troverà poi applicazione per disegnare scene complesse o arditi scorci di figure umane. Dopo alcuni decenni si cominciarono a notare anche i limiti della prospettiva, sui quali ritorneremo, e grandi artisti come Michelangelo e Raffaello, pur applicandola largamente per la rappresentazione di edifici (figura 5.5) ne elusero spesso il rigore, o usando più punti di vista o correggendo certe deformazioni introdotte dalla prospettiva e non corrispondenti a ciò che si vede.
Nella Scuola di Atene che Raffaello dipinse nelle Stanze Vaticane (figura 5.16), la struttura architettonica occupa la maggior parte del grande quadro secondo una rigorosa proiezione prospettica da un unico centro di proiezione. Ma le figure umane in primo piano a destra e a sinistra Raffaello non le disegnò secondo una proiezione da questo punto, bensì da altri centri di proiezione sussidiari, come se l'osservatore le guardasse da posizioni diverse. Ciò è particolarmente evidente nelle due sfere dipinte nel gruppo di destra, che hanno contorno circolare. Secondo una rigorosa proiezione centrale esse dovrebbero avere un contorno ellittico.
Trompe-l'ceil Gli indizi pittorici di profondità possono essere usati specificatamente per creare effetti illusori di profondità con particolare pregnanza. Spesso si tratta di opere con significato più decorativo che propriamente artistico. Nei cosiddetti «trompe-rceil» dei pittori del Sei-Settecento si tratta sempre di scene con piccolissima profondità, ad esempio di oggetti appesi ad una tavola verticale, come lettere, francobolli o altre cose di piccolo spessore che darebbero comunque una trascurabile parallasse. Questi effetti illusori era noti anche ai pittori dell'antichità. Plinio narra un aneddoto di cui furono protagonisti due pittori rivali. Zeusi aveva dipinto dei grappoli d'uva così simili al vero che gli uccelli tentavano di beccarne gli acini. Parrasio, di rimando, invitò il rivale a vedere i suoi quadri. Quando Zeusi tentò di sollevare la tenda che copriva uno dei quadri e si accorse che questa non era reale, ma dipinta, diede la palma della vittoria a Parrasio. Anche il Vasari racconta come Giotto apprendista ingannasse Cimabue dipingendo una mosca sul naso di una figura a cui il maestro stava lavorando. Effetti illusori di notevole profondità possono essere ottenuti anche con oggetti o scene di apprezzabile spessore purché i dipinti siano destinati ad essere visti da grande distanza e da un ben determinato punto di osservazione. Un esempio eclatante di questi trompe-l'eeil prospettici è quello dipinto da Pozzo sulla volta della chiesa di S. Ignazio, a Roma (figura 5.17). Sul soffitto semicilindrico della navata principale il pittore ha disegnato degli elementi architettonici che simulano il proseguimento delle reali architetture delle pareti della chiesa. Se si guarda il dipinto dalla posizione indicata sul pavimento da un disco di marmo si vedono archi e colonne estendersi verso l'alto, popolati da figure di angeli e di santi che si librano nel cielo aperto ad una altezza apparente enormemente maggiore di quella del soffitto su cui sono di-
Figura 5.17 Andrea Pozzo, soffitto della chiesa di S. Ignazio a Roma (1691-1694). La superficie del soffitto è un semicilindro. Qui è fotografata da un punto del pavimento della chiesa segnato con un disco di marmo, che indica il punto di osservazione richiesto per ottenere l'effetto prospettico desiderato.
pinti. Questa impressione di enorme profondità si modifica però grandemente e dà luogo a notevoli distorsioni se il punto di osservazione non è quello indicato sul pavimento.
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Anamorfosi Anamorfosi è un termine che appare nel Seicento ad indicare delle immagini deformate tanto da essere indecifrabili, ma che viste da un certo punto dello spazio 0 riflesse da specchi curvilinei si ricompongono svelando la figura nelle sue normali proporzioni. Le immagini ana-
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morfiche ebbero per molti secoli un significato magico o di intrattenimento. Assunsero però un valore diverso e furono meglio comprese con lo sviluppo della prospettiva nel Cinquecento. Leonardo fu il primo a rendersi conto delle difficoltà che sorgono nella prospettiva a grande angolo, quando cioè si debba rappresentare una figura destinata ad essere vista di scorcio su una porzione di superficie piana fortemente inclinata rispetto alla direzione di osservazione. Ci rimangono un testo e due disegni a conferma di questa sua attenzione al problema (figura 5.18). Leonardo descrive il meccanismo degli scorci progressivi che si hanno via via che la visione diventa più obliqua: per rendere apparentemente uguali degli intervalli di distanza, occorre disegnarli progressivamente più lunghi. Naturalmente queste immagini appaiono deformate quando non siano viste di scorcio, o quando l'osservatore sia libero di muoversi davanti alla parete del dipinto. Infatti Leonardo nota: "E se dipingerai ciò su un muro davanti al quale potrai spostarti liberamente, ti sembrerebbe sproporzionato". I due disegni allungati di un viso di un bambino e di un occhio conservati nel Codice Atlantico di Leonardo, con i segni appena percettibili delle linee di proiezione gradualmente distanziate, se osservati obliquamente dalla destra, appaiono nelle normali proporzioni, come il lettore potrà constatare osservando così la figura 5.18. È questa la più antica rappresentazione anamorfica che ci sia pervenuta. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo cominciano ad apparire dei trattati di tecnica delle anamorfosi. In particolare Jean Francois Niceron nel suo Thaumaturgus Opticus (1646) dà un'ampia trattazione delle immagini anamorfiche e dei metodi per ottenerle mediante una griglia prospettivamente distorta. È probabilmente questo il metodo seguito per ottenere la più famosa immagine anamorfica del Cinquecento, quella dipinta da Hans Holbein nel 1533, negli Ambasciatori (figura 5.19). Ai piedi dei due notabili francesi si osserva una figura che è incomprensibile se
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Figura 5.19 Hans Holbein, Gli Ambasciatori (1533)- Londra, National Gallery. Per vedere il teschio anamorfico occorre guardare il quadro di scorcio da sinistra sotto forte angolo.
il quadro è visto di fronte, ma che si rivela essere un teschio guardando il dipinto di scorcio dalla parte sinistra. Probabilmente questa immagine anamorfica è carica di un significato simbolico come lo erano quelle dei secoli precedenti. L'immagine così mimetizzata del teschio potrebbe fare da contrappunto al piccolo crocifisso seminascosto dalla tenda lungo il margine sinistro del quadro. Le due immagini starebbero a richiamare Luna la morte: memento mori, e l'altra la salvezza nella vita futura. Altri esempi molto noti di dipinti anamorfici sono ritratti di sovrani: il ritratto di Carlo V (1533) conservato a New York e il ritratto di Edoardo VI (1546), alla National Portrait Gallery di Londra. Dal diciassettesimo al diciannovesimo secolo si sono moltiplicati gli esempi di immagini anamorfiche, particolarmente quelle destinate ad essere osservate per riflessione su specchi cilindrici o conici.
La prospettiva e le leggi della visione Dopo aver parlato della rappresentazione prospettica e della sua possibile efficacia nel simulare la distanza, conviene ribadire e chiarire le sue ambiguirà e contraddizioni rispetto alla percezione visiva di scene reali. Innanzittuto ricordiamo che entro distanze moderate come quel-
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le di un ambiente interno la grandezza apparente degli oggetti è indipendente dalla distanza. Quindi la prospettiva centrale non è applicabile in questo ambito di distanze, perché darebbe risultati paradossali. È probabimente per questa ragione che già i pittori del Rinascimento hanno corretto o attenuato l'applicazione delle regole prospettiche nel dipingere personaggi o oggetti in primo piano. Ancora: è vero che per la visione da lontano vale la legge della costanza dell'angolo, che corrisponde alle leggi della rappresentazione prospettica. Tuttavia è pure vero che talvolta anche per queste distanze la grandezza apparente può risultare variabile a parità di angolo visivo, in relazione ad altri indizi percettivi presenti, come avviene per l'ingrandimento apparente degli astri all'orizzonte. Un altro caso in cui le leggi della prospettiva non sono in accordo con la percezione è quello della prospettiva invertita. Si parla di prospettiva invertita quando per rappresentare la profondità si usa la divergenza, anziché la convergenza delle linee parallele, come in alcune pitture medioevali e in particolare nei mosaici bizantini. Un famoso esempio è quello della storia della Ospitalità di Abramo in San Vitale a Ravenna dove il tavolo al centro è rappresentato con il lato più vicino più corto del lato più lontano (figura 5.20). Ci si è domandati se la prospettiva invertita avesse un'origine percettiva o se fosse puramente un' invenzione pittorica. I risultati di esperimenti condotti per verificare questo punto, hanno mostrato che nella visione dall'alto di certi solidi con facce rettangolari, simili a quello rappresentato nella figura, vi è una distorsione percettiva nel senso della prospettiva invertita. Se il lato più vicino e quello più lontano sono di uguale lunghezza, il lato più lontano sembra un pochino più lungo. Gli autori di questi esperimenti concludono che la prospettiva a linee divergenti è percettivamente legittima come lo è quella a linee convergenti. È probabile che questo fatto percettivo abbia originato in certe epoche una convenzione di rappresentazione pittorica che veniva poi applicata passivamente anche in casi in cui non era del tutto appropriata. Un'altra considerazione che ha fatto ritenere la prospettiva lineare in disaccordo con la percezione visiva è il fatto che le immagini visive vengono proiettate su una superficie curva, quella della retina, e non una superficie piana. È bene però chiarire che la curvatura delle immagini retiniche non ha una conseguenza diretta sulle relazioni tra immagini prospettiche e visione. Ricordiamo infatti che la proiezione prospettica è la sezione della piramide visiva con una data superficie. Quando si guarda la proiezione prospettica dal vertice della piramide visiva, l'immagine prodotta sulla retina da questa proiezione, coincide punto per punto con l'immagine retinica dell'oggetto. Se quindi l'immagine retinica è la stessa per l'oggetto reale e per la sua proiezione prospettica, la
CAPITOLO 5
curvatura della retina non giustifica una differenza tra le due, cioè tra il vedere l'oggetto e il vedere la sua immagine prospettica. Alcuni storici dell'arte hanno suggerito dei sistemi di prospettiva curvilinea ritenendo così di correggere gli effetti della proiezione sulla superficie curva della retina. Questo suggerimento non appare giustificato. Nella visione naturale gli indizi pittorici monoculari e quelli binoculari insieme alla parallasse da movimento, collaborano alla percezione della profondità. Nella visione di un dipinto, invece, gli effetti di profondità indotti dalla prospettiva e dagli altri indizi pittorici (sovrapposizione, luci e ombre etc.) sono in parte contraddetti dagli indizi binoculari e dalla parallasse da movimento che indicano che il quadro è una superficie e che quindi la terza dimensione è illusoria. È solo in quei casi eccezionali, in cui è stata presa ogni precauzione per rendere impossibile la consapevolezza della superficie dipinta, che il dipinto assume una vera e propria apparenza tridimensionale. Ciò accade quando si guarda un dipinto con un occhio solo attraverso uno schermo che ne limiti la porzione di superficie visibile, escludendo la cornice. O anche quando si guarda un dipinto da una distanza così grande da rendere inefficace gli indizi di profondità binoculari, come avviene per gli affreschi del Pozzo in S. Ignazio. E infine, quando si guarda un quadro non direttamente, ma per riflessione su uno specchio piano in maniera da ridurre i riferimenti non prospettici. Nel Museo del Prado a Madrid era un tempo predisposto questo tipo di osservazione per il famoso quadro di Velàzquez, Las Meninas. Il quadro rappresenta l'infanta Margarita, circondata dai personaggi di corte, e inoltre l'autoritratto del pittore e il ritratto del re e della regina riflessi in uno specchio sul fondo di una stanza. L'opera è concepita secondo le regole prospettiche e suscita già di per sé un notevole senso di profondità; lo specchio tuttavia, rendendo meno evidenti la cornice e la superficie del quadro (indizi binoculari), aumenta grandemente questa sensazione. Se è vero dunque che gli indizi binoculari possono essere un inconveniente in quanto ci fanno percepire la superficie del quadro come tale, contrapponendosi così alla simulazione prospettica della distanza, sono proprio gli indizi binoculari che, consentendoci di vedere la superficie, permettono di evitare certe distorsioni percettive che ci potremmo attendere quando si osserva l'immagine da una posizione non frontale. Infatti guardando da una direzione obliqua una figura disegnata su un piano, l'immagine ne dovrebbe risultare deformata (il cerchio ad esempio diventa un'ellisse). In molti casi però questo percettivamente non avviene o quantomeno le distorsioni sono scarsamente avvertite. Ciò è dovuto senza dubbio ad una compensazione percettiva, cioè ad una compensazione cerebrale, che tende a mantenere costante la forma desìi oeeetti visti sotto ansoli diversi. È lo stesso meccani-
LA FINESTRA SUL M O N D O E IL L I N G U A G G I O DEL SEGNO
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\ Figura 3.14 Le cellule della corteccia visiva primaria dei mammiferi rispondono in modo preferenziale a stimoli visivi costituiti da una linea o da un contorno di un opportuno orientamento, presentati in quella piccola area del campo visivo che è il «campo recettivo» della cellula. A sinistra: stimoli costituiti da una sbarretta con vari orientamenti. A destra: risposte di una cellula della corteccia visiva del garto alla presentazione dello stimolo luminoso nel campo recettivo. Le lineette verticali rappresentano i singoli impulsi nervosi generati dalla cellula prima (off), durante {ori) e dopo (off) la presentazione dello stimolo. Si osservi che la cellula risponde con il massimo numero di impulsi nervosi a una barretta che e leggermente inclinata rispetto all'orientamento verticale (seconda dall'alto) e non risponde a barrette con orientamento notevolmente diverso da quello preferenziale, (da Hubel, 1988).
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di un animale? L'immagine di un animale è ben diversa dal profilo più o meno accurato che si può tracciare di esso. Le cellule della retina che vengono attivate dalle immagini dell'animale e da quella del disegno sono diverse e certamente i corrispondenti insiemi di impulsi nervosi generati nelle vie visive sono del tutto differenti. Evidentemente messaggi molto diversi nelle vie sensoriali rievocano la stessa immagine dal magazzino della memoria; e possiamo pensare che il cacciatore avrebbe potuto richiamarla alla mente dei suoi compagni anche imitando rumori e suoni emessi dal bisonte o emulando la sua forma o la sua corsa con movimenti delle mani e del corpo. Noi dopo l'avvento del linguaggio o della scrittura avremmo detto o scritto una semplice parola, «bisonte», e ancora una volta l'immagine sarebbe venuta alla nostra memoria, e a quella dei nostri interlocutori, nella sua complessità. Il segno, e quindi il contorno, è un segnale particolarmente efficace per il cervello. Sarebbe del tutto assurdo pensare che le immagini degli oggetti del mondo esterno vengano ridisegnate e dipinte nella nostra corteccia con le loro forme e colori. Esse vengono ridotte a invarianti, a concetti visivi, e simbolizzate nell'attività di certi neuroni. La dimostrazione scientifica che i neuroni della corteccia visiva rispondono principalmente al contorno degli oggetti del mondo esterno viene dal lavoro di due neurofisiologi della Harvard Medicai School, David Hubel e Torsten Wiesel, che per queste ricerche hanno ricevuto nel 1981 il premio Nobel. Essi hanno registrato le risposte delle cellule della corteccia visiva del gatto e della scimmia e hanno dimostrato che queste cellule rispondono solo a stimoli visivi rappresentati da linee o bordi di particolare orientamento e dimensioni. E così vi sono cellule che rispondono ad esempio solo a linee e bordi posti orizzontalmente davanti all'occhio dell'animale, altre solo a quelli disposti verticalmente, altre ancora a stimoli obliqui (figura 3.14). Tutti gli orientamenti sono rappresentati. Vi sono cellule che rispondono a stimoli di una certa lunghezza e non ad altri. Sembra proprio che a livello della corteccia di questi mammiferi (ed è stato dimostrato anche per la corteccia visiva dell'uomo) le immagini presenti sul fondo dell'occhio siano ridotte ai loro contorni o a segmenti di essi, e verosimilmente ricostruite da una rielaborazione di questa informazione. Nel passare dalla retina alla corteccia è cambiato il linguaggio dei neuroni. Nella retina i neuroni «vedevano» l'immagine punto per punto in termini di chiaro e scuro (oltre che di colore). Nella corteccia i neuroni «vedono» i contorni dell'immagine, che vengono espressi mediante un numero finito di orientamenti. Le risposte della corteccia visiva ai contorni degli oggetti, più che ad altre caratteristiche o attributi di essi, sono attualmente l'esempio
DIPINGERE LA DISTANZA
Figura 5.21 Deformazione di una fotografia in una fotografia. La figura nello sfondo appare deformata perché è la fotografia, presa da un angolo errato, di un'altra fotografia. Si noti invece che il viso del giovane non appare modificato anche quando si guarda da una posizione spostata rispetto al centro della figura, (da Pirenne, 1970).
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smo di compensazione per cui noi continuiamo a vedere un cerchio anche quando lo guardiamo obliquamente così che la sua immagine retinica è un'ellisse più o meno allungata (figura 1.6). Quanto in realtà siano deformate le immagini in proiezione obliqua è illustrato nella figura 5.21 che mostra la deformazione di una persona nella fotografia di una fotografia. Che le immagini percepite a differenza da quelle fotografiche, siano corrette da un processo cerebrale di compensazione, è assai utile nella vita quotidiana: le fotografie dei documenti di riconoscimento sarebbero di limitata utilità, se la somiglianza col soggetto valesse solo per un determinato angolo di osservazione della fotografia. Possiamo concludere queste considerazioni osservando che la prospettiva ha avuto un ruolo principe nella rappresentazione pittorica dello spazio, ma che questo ruolo non è completamente sostenuto dalle leggi della visione. Il fatto che le immagini prospettiche si modifichino al crescere della distanza in accordo con le variazioni di dimensioni dell'immagine retinica non è sufficiente ad attribuire alla prospettiva la valenza di visione naturale dello spazio. Quello che vediamo è largamente il risultato di una rielaborazione cerebrale delle informazioni provenienti dalla retina a cui contribuiscono molte informazioni aggiuntive, da quelle provenienti da altre modalità sensoriali a quelle depositate nella memoria. Questo confluire delle informazioni tende, a livello cerebrale, a concettualizzare le immagini e a renderle quindi indipendenti dalle variazioni del punto di vista e della distanza, del colore e del livello di illuminazione. Lo spazio cerebrale non è, o non è soltanto, la codificazione di uno spazio a tre dimensioni, ma anche uno spazio affettivo, che acquista determinati valori in determinati contesti e che fino ad un certo limite almeno, è anche spazio, o interpretrazione dello spazio, con caratteristiche individuali. Nei tempi moderni la fotografia, che della scena dà automaticamente una riproduzione in prospettiva centrale, ha tolto molta dell'importanza alle tecniche prospettiche nella rappresentazione mimetica del mondo reale e l'artista è stato invitato o costretto dalle innovazioni tecnologiche a scoprire nuovi spazi, meno ottici, ma altrettanto capaci di veicolare il messaggio artistico proveniente dalla realtà che ci circonda. Le mele di Cézanne, e le chitarre o le bottiglie dei quadri cubisti di Braque e di Picasso, non sono meno reali dei personaggi o degli oggetti dei quadri rinascimentali. Il loro spazio, anche se rifugge di proposito dalla rappresentazione della terza dimensione, è uno spazio altrettanto reale. La realtà è quella della nostra mente, dove anche lo spazio è pensiero: l'artista ne presenta all'osservatore il messaggio e questi lo interpreta, secondo la propria realtà e cultura e cioè secondo il proprio cervello.
CAPITOLO 6 IL COLORE NELL'OCCHIO E NEL CERVELLO La couleur contrìbue à exprimer la lumière, non pus le phénomène physique, mais la lumière qui existe en faìt, celle du cerveau de Partiste. Henri Matisse, scritti sull'arte.
Il colore: qualità della sensazione visiva
I
Triangolo dei colori. Questo modello rappresenta tutta la gamma dei colori delle luci. I colori saturi sono distribuiti lungo i lati del triangolo: due lati per i colori spettrali dal rosso al verde e da questo al violetto, e un lato per i porpora. All'interno del triangolo si posizionano i colori non saturi, con saturazioni tanto minori quanto più ci si avvicina al centro, dove è il bianco.
l colore è uno degli aspetti più attraenti di ciò che vediamo, e anche uno dei più importanti. I fiori, i frutti, gli alberi, le luci del cielo e così molti prodotti dell'uomo tra cui la pittura, ci apparirebbero assai più poveri, meno eccitanti se privati del colore (figura 6.1). Un quadro non solo sarebbe meno piacevole a vedersi, ma taluni dei suoi particolari risulterebbero meno facilmente individuabili. Colorate ci possono apparire le luci delle sorgenti luminose, come ad esempio quella del sole all'alba o al tramonto, e colorati possono apparirci oggetti o corpi illuminati. Il colore di una luce o di un corpo non è una proprietà intrinseca di quella luce o di quel corpo, ma è un aspetto che il nostro sistema visivo attribuisce loro: un fuoco non è rosso, l'erba non è verde, ma noi «vediamo» rosso il fuoco e verde l'erba. Il colore è il risultato di processi che avvengono nel nostro occhio e nel nostro cervello, è una qualità della nostra sensazione, anche se esso dipende da proprietà fisiche della sorgente che illumina e dei corpi che vengono illuminati. Questa affermazione è confermata dal fatto che, per vedere i colori, occorre un livello di illuminazione abbastanza alto. In una stanza in penombra, anche se riusciamo ancora a vedere intorno a noi, i colori però risultano attenuati o del tutto assenti; come dice il proverbio, "Di notte tutti i gatti sono grigi". Basta però aprire la finestra o accendere la luce, aumentando così il livello di illuminazione, perché i colori ci riappaiano nella loro evidenza. La nostra capacità di vedere i colori è affidata a una delle due popolazioni di fotorecettori presenti nella retina del nostro occhio: i coni. Questi recettori, per essere stimolati, richiedono un livello di illuminazione abbastanza alto. Se il livello di illuminazione si abbassa e di-
Figura 6.1 importanza e co ore.
viene insufficiente ad eccitare i coni, entrano in azione i bastoncelli; questi hanno complessivamente una maggiore sensibilità e permettono di vedere anche in ambienti scarsamente illuminati, ma non hanno le proprietà necessarie per la visione dei colori.
I colori delle luci Per comprendere quale sia la caratteristica dei coni responsabile della visione dei colori, descriviamo alcune proprietà fondamentali di questa visione nell'uomo. Supponiamo che al nostro occhio arrivi direttamente la radiazione emessa da una sorgente, ad esempio da una lampada. La luce, cioè la sensazione luminosa prodotta da questa radiazione, ha due qualità: l'intensità e il colore. L'intensità - che dipende, come vedremo più avanti, da molti fattori — significa «più o meno luminoso». II colore dipende invece dalla lunghezza d'onda delle radiazioni emesse dalla sorgente. La radiazione del Sole ci appare bianca. Se però facciamo passare un sottile fascio di radiazione solare attraverso un prisma, questo, all'uscita, si disperde nelle sue componenti, dando luogo a uno spettro in cui sisuccedono luci di colore diverso (figura 6.2). Newton fu il primo a compiere questo esperimento con la radiazione del Sole; egli osservò che lo spettro è continuo e che il colore passa dal rosso al violetto, attraverso gradazioni intermedie di arancione, giallo, verde e blu. Osservò anche che se si isola con una sottile fenditura una piccola porzione dello spettro, e si fa passare questo sottile fa-
IL COLORE NELL'OCCHIO E NEL CERVELLO
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Figura 6.2 Un fascio di radiazione solare, artraversando un prisma di vetro, viene separato nelle sue componenti monocromatiche formando così uno spettro.
scio attraverso un altro prisma, questo non si disperde ulteriormente e mantiene invariato il colore. Se si cambia la posizione della fessura lungo lo spettro, la radiazione così isolata ha colore diverso. Oggi sappiamo che le radiazioni contenute nella radiazione del Sole sono onde elettromagnetiche che differiscono tra loro per la lunghezza d'onda, e che i vari colori delle radiazioni che compongono lo spettro corrispondono alla diversa lunghezza d'onda delle radiazioni semplici nelle quali viene dispersa dal prisma la radiazione del Sole. Tra le radiazioni elettromagnetiche contenute nella radiazione del Sole, quelle che danno luogo a questo spettro hanno lunghezza d'onda compresa tra 400 e 700 manometri (un nanometro, nm, equivale a un miliardesimo di metro) e sono le sole visibili. Ci possiamo domandare quanti colori diversi si possono distinguere nelle luci dello spettro al variare della lunghezza d'onda. Newton identificò sette colori principali (rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto) e dedusse che il bianco è il colore risultante dalla combinazione di questi sette colori. Il rosso corrisponde alle lunghezze d'onda più lunghe (650-700 nm), il violetto a quelle più corte (450400 nm). Tuttavia ciascuna di queste sette regioni dello spettro contiene a sua volta molte gradazioni di colore diverse, distinguibili dall'occhio, per esempio molte diverse tonalità di verde, di giallo ecc. I colori dello spettro, cioè i colori delle radiazioni semplici (monocromatiche) di una specifica lunghezza d'onda, si dicono saturi, per_indicare che essi hanno il massimo contenuto cromatico, cioè la massima purezza. La qualità che li distingue tra loro, in dipendenza alla lunghezza d'onda, è la tinta (o tonalità).
CAPITOLO 6
Nella radiazione solare, così come ci giunge sulla Terra, le radiazioni dello spettro visibile hanno tutte all'inarca la stessa intensità dal punto di vista fisico. Al nostro occhio tuttavia esse non appaiono ugualmente luminose: le radiazioni centrali dello spettro visibile (550 nm) sono quelle per le quali il nostro occhio ha la massima sensibilità e quindi ci appaiono più luminose (figura 6.3). Le radiazioni di lunghezza d'onda decrescente da 550 a 400 nm (a cui corrispondono luci di colore variabile dal verde al blu e al violetto) o crescente da 550 a 700 nm (a cui corrispondono luci di colore variabile dal verde al giallo, all'arancione e al rosso) sono gradualmente meno efficaci per il nostro occhio e quindi ci appaiono progressivamente meno luminose anche quando la loro intensità è uguale dal punto di vista fisico. I colori delle luci spettrali non esauriscono tutta la gamma dei colori saturi. Newton aveva già osservato che, se si isolano due radiazioni estreme dello spettro (colore rosso e violetto) e poi si ricombinano in modo da sovrapporle, si ottiene un colore «nuovo», rosso violaceo (detto porpora o magenta), che non appartiene ad alcuna delle radiazioni dello spettro. Variando l'intensità relativa della componente rossa e di quella viola nella combinazione delle due radiazioni, si ottiene tutta una gamma di porpora cha va dal rosso al violetto attraverso una serie di tonalità di rossi più o meno violacei. Si può pensare di rappresentare l'insieme dei colori saturi su un cerchio, dove si succedono i colori spettrali dal rosso al violetto e da questo si ritorna al rosso attraverso la serie dei porpora (figura 6.4). Abbiamo visto che la luce del Sole, che risulta dalla sovrapposizione di tutte le radiazioni monocromatiche dello spettro visibile, è bianca. Tra un colore saturo e il bianco esiste tutta una gradazione di colori via via meno saturi, che si possono ottenere miscelando una radiazione spettrale (di colore saturo) con una certa quantità di radiazione solare (bianco). La tinta è quella della radiazione spettrale (per esempio, azzurro); la maggiore o minore saturazione dipende dalla maggiore o minore percentuale di colore saturo contenuto nella miscela rispetto alla percentuale di bianco. Ad esempio, il colore celeste del cielo diurno e un azzurro non saturo; il rosa di una nuvola al tramonto è un rosso non saturo. Anche sovrapponendo due radiazioni variamente scelte nello spettro si ottiene in generale un colore non saturo, cioè un colore uguale a quello che si otterrebbe dalla miscela di un colore spettrale con una certa quantità di bianco. Se le due radiazioni sono vicine tra loro nello spettro (per esempio, entrambe nella regione del verde) il colore risultante dalla loro combinazione è ancora abbastanza saturo. Se invece si aumenta la loro separazione nello spettro, il colore risultante diviene
Figura 6.4 Cerchio dei colori spettrali e dei porpora. Ogni campione rappresenta una tinta. Muovendosi in senso antiorario, si passa dal rosso al giallo, al verde, al blu e al violetto e si torna al rosso attraverso alcuni campioni di porpora.
via via meno saturo, ed è addirittura possibile ottenere con due sole radiazioni, opportunamente scelte come lunghezze d'onda e come intensità relative, la sensazione di bianco. I colori di queste radiazioni si dicono complementari. Esistono in teoria infinite coppie di colori complementari: per ogni radiazione monocromatica o porpora, ne esiste un'altra il cui colore è complementare. Nel disco dei colori rappresentato in figura 6.4, coppie di colori diametralmente opposti sono complementari: ad esempio un giallo e un viola, un verde e un porpora, un arancione e un blu. È possibile rappresentare l'intera gamma di colori delle luci con i punti di un cerchio o di un'altra figura piana (per esempio un triangolo): sul perimetro sono rappresentati i colori dello spettro e i porpora; al centro è rappresentato il bianco; i punti a varia distanza dal centro rappresentano colori non saturi (figura di apertura del capitolo).
Concludendo, la nostra sensazione di luce, cioè quella che si ha quando si guarda direttamente una sorgente luminosa, oltre alla qualità di maggiore o minore intensità, ha due qualità cromatiche: la tinta e la saturazione. Complessivamente essa è dunque caratterizzata da tre variabili.
La visione tricromatica: tre meccanismi per vedere i colori La possibilità di descrivere qualunque sensazione luminosa mediante tre sole variabili — intensità, tinta e saturazione — ha fatto intuire già nel XVIII secolo che nel nostro occhio devono essere presenti tre tipi di recettori diversi: la nostra è una visione tricromatica. Questa ipotesi fu formulata all'inizio dell'Ottocento da Young; egli affermò che per spiegare la capacità dell'occhio di percepire e discriminare i colori delle varie regioni dello spettro era sufficiente supporre tre sole sensazioni distinte, risultanti dalla stimolazione prodotta in ciascun punto della retina dai raggi corrispondenti a tre colori puri (rosso, verde e violetto) e che i raggi che occupano nello spettro le regioni intermedie tra questi tre sarebbero capaci di produrre sensazioni intermedie (il giallo, tra il rosso e il verde; e il blu, tra il verde e il violetto). L'ipotesi di Young, che riduceva a tre i meccanismi richiesti per spiegare tutta la varia gamma di colori delle radiazioni spettrali, fu ripresa qualche decennio più tardi da Helmholtz. Egli descrisse le proprietà di questi meccanismi, e cioè la loro sensibilità per le varie radiazioni dello spettro visibile. Secondo Helmholtz, ognuno dei tre meccanismi doveva essere sensibile a tutte le radiazioni dello spettro, ma in modo differenziato: uno doveva avere massima sensibilità nella regione delle lunghezze d'onda più lunghe, il secondo alle lunghezze d'onda intermedie, e il terzo a quelle più corte. I tre meccanismi, che si potrebbero indicare come fotorecettori sensibili al rosso, al verde e al blu, sarebbero così responsabili di queste tre sensazioni primarie; ma essendo ciascuno di essi eccitabile da tutte le radiazioni dello spettro, in proporzioni diverse, proprio la loro eccitazione differenziata darebbe luogo alle sensazioni di colore intermedie fra le tre primarie: secondo la teoria di Helmholtz, poi, tutte le sensazioni di colore prodotte sia da una qualunque radiazione spettrale, sia da radiazioni complesse, risulterebbero dalla somma delle eccitazioni prodotte dalla radiazione, in proporzioni diverse, nei tre tipi di fotorecettori. In particolare, il giallo sarebbe associato alla somma delle j eccitazioni, circa della stessa intensità, dei fotorecettori «rossi» e «verdi» e il bianco alla stimolazione equilibrata dei tre tipi di fotorecettori. L'ipotesi di Young-Helmholtz dell'esistenza di tre tipi di recettori ha trovato la sua conferma sperimentale in questo secolo, all'inizio degli anni Sessanta, quando si è dimostrato che nella retina esistono tre
Figura 6.5 Spettro di assorbimento (curve in bianco) dei tre tipi di coni: L (rossi), M (verdi) e S (blu). La curva nera rappresenta Io spettro di assorbimento dei bastoncelli.
tipi di coni che contengono sostanze fotosensibili (pigmenti) diverse. I tre pigmenti dei coni assorbono in percentuali diverse le diverse radiazioni dello spettro, dando luogo nei rispettivi coni a una sensibilità che si estende in una regione abbastanza ampia dello spettro ed è massima in una particolare regione spettrale (figura 6.5). Il primo tipo di coni, i coni L (dall'inglese long), ha una gamma di sensibilità nelle lunghezze d'onda più lunghe, con un massimo di sensibilità a 564 nm. Il secondo tipo di coni, i coni M (dall'inglese medium), ha una gamma di sensibilità più spostata nella regione intermedia dello spettro, con il massimo a 530 nm. Infine, il terzo tipo di coni, i coni S (dall'inglese short), è sensibile alla regione di lunghezze d'onda tra 400 e 500 nm, con sensibilità massima a 437 nm. I coni L, M e S vengono anche chiamati impropriamente coni «rossi» (L), coni «verdi» (M) e coni «blu» (S). Quando una radiazione monocromatica incide sulla retina, essa viene^ assorbita in percentuali diverse dai tre tipi di coni, e quindi li stimola in modo diverso. Per esempio una radiazione di lunghezza d'onda vicina a 700 nm stimola quasi esclusivamente i coni L, una di lunghezza d'onda di 530 nm stimola i coni M più di quelli L e S, ecc. Una radiazione complessa stimola i tre tipi di coni in varie percentuali, a seconda delle sue componenti monocromatiche. I colori delle luci che noi vediamo sono associati alle diverse percentuali di stimolazione dei tre tipi di coni. Ciò spiega come con tre soli tipi di recettori si possa ottenere un grandissimo numero di differenti sfumature di colore. È da notare però che i tre tipi di coni non contribuiscono ugualmente alla sensazione di intensità luminosa. A questa contribuiscono quasi
CAPITOLO 3
più chiaro di come il cervello possa simbolizzare l'informazione proveniente dai sensi. Sembra quindi che i segni siano un linguaggio primitivo proprio del nostro sistema nervoso, una caratteristica che origina dalle proprietà della macchina cervello, dalle sue connessioni, dalle sue intrinseche caratteristiche anatomiche e funzionali. Molte di queste proprietà sono già presenti alla nascita, ma esse possono essere soggette a modifica o perfezionamento con l'esperienza della vita. Queste proprietà sono uguali o simili in tutti gli uomini, e costituiscono quindi come le parole della lingua di un popolo, una base per comunicare. E per questo che, quando l'uomo tracciò il contorno del bisonte sulla parete della caverna, gli astanti riconobbero in quei segni un linguaggio familiare, e l'insieme dei segni richiamò l'immagine dell'animale al quale il loro compagno voleva riferirsi. I segni tracciati dal primo disegnatore esprimevano il vocabolario grafico del cervello e per gli altri fu facile leggere. Le immagini mentali nella loro memoria erano state acquisite e tradotte con lo stesso linguaggio, con gli stessi simboli, ridotte cioè principalmente a contorni. Quando la memoria riportava questi ricordi alla percezione, essi apparivano analoghi a quelli percepiti con l'esperienza sensoriale e il gioco del riconoscimento aveva luogo facilmente. Queste proprietà della corteccia cerebrale di codificare essenzialmente i contorni delle immagini retiniche potrebbero essere chiamati segni murali e sono corredo del cervello di tutti gli uomini. Se questo corredo fosse stato diverso, il nostro linguaggio grafico sarebbe stato molto probabilmente diverso. Forse il linguaggio del segno è vecchio quanto quello dei rumori e dei suoni emessi dall'uomo, che poi si sono evoluti nel linguaggio della parola. Secondo molti linguisti, e principalmente Noam Chomsky, la struttura profonda del linguaggio ha i suoi riferimenti nella struttura del cervello dell'uomo, ipotesi suggestiva e ricca di implicazioni culturali. Egli sostiene che solo in parte il linguaggio va appreso con l'esperienza. Infatti, secondo Chomsky, tutte le lingue hanno una "struttura profonda" comune che è propria del cervello dell'uomo e che viene ereditata. Alcune delle argomentazioni che Chomsky porta a sostegno della sua teoria sono convincenti. Egli fa notare che noi possia' mo capire frasi che non avevamo mai sentito prima o che si riferiscon a eventi a noi completamente estranei. La sola necessità è che la tras obbedisca a una determinata struttura grammaticale che lega tra l° r nomi, aggettivi e verbi. Questa struttura è quella che costruisce un frase indipendentemente dal suo significato. Il famoso esempio cn Chomsky riporta è una frase senza senso che suona così: "colouue green ideas sleep furiously". Questa è una frase assurda, eppure è uP
CAPITOLO 6
(a)
esclusivamente i coni L e i coni M. Infatti il massimo di sensibilità luminosa nello spettro è a circa 550 nm (figura 6.3), intermedio tra il massimo della sensibilità di questi due tipi di coni. La stimolazione dei coni S ha invece un ruolo importante nel determinare la tinta e la saturazione, cioè le due qualità propriamente cromatiche. Basta un pizzico di azzurro per togliere ogni contenuto di giallo da un «bianco sporco» e trasformarne la tinta in un bianco veramente neutro, senza peraltro alterare sensibilmente la luminosità. Notiamo infine che la ragione per cui la visione notturna nor^consente la percezione dei colori risiede nel fatto che i bastoncelli, a differenza dei coni, contengono tutti uno stesso tipo di pigmento. Le proprietà dei coni e delle sostanze fotosensibili in essi contenute hanno confermato le ipotesi di Young e Helmholtz sulla presenza nella retina di tre tipi di recettori.
Combinazione additiva e sottrattiva dei colori
(b) Figura 6.6 (a) I tre cerchi rappresentano tre fasci di luce di colore rosso, verde e blu (radiazioni) proiettati su uno schermo da tre proiettori, che danno luogo, dove si sovrappongono, alla combinazione additiva dei colori. Rosso più verde dà giallo, rosso più blu dà porpora, blu più verde dà turchese (blu-verde), rosso più verde più blu dà bianco. (b) I tre cerchi rappresentano tre vetri attraverso i quali filtra la radiazione solare. Il vetro giallo lascia passare le radiazioni della regione verde e rossa dello spertro, il vetro porpora quelle delle regioni rossa e blu, il vetro blu-verde quelle delle regioni verde e blu. Dove i vetri si sovrappongono ha luogo una combinazione sottrattiva delle primarie giallo, bluverde e porpora.
La presenza dei tre tipi di coni è il substrato della tricromaticità della visione diurna ed è alla base della possibilità di riprodurre una gamma estesa di colori mediante la sintesi di tre radiazioni primarie, scelte a piacere in tre regioni dello spettro, ad esempio nella regione del rosso, del verde e del blu. È questa la combinazione additiva dei colori: una volta scelte le tre primarie, il colore di una qualunque radiazione complessa può venire uguagliato dalla sintesi delle tre primarie regolando opportunamente le loro intensità relative. Per esempio, dalla sintesi di due radiazioni primarie di colore rosso e verde è possibile ottenere una luce di colore giallo o arancio, dalle due primarie rosso e blu una luce di colore porpora, dalla sintesi delle primarie blu e verde un colore verde-azzurro (turchese). Il bianco si ottiene dalla combinazione di tutte tre le primarie (figura 6.6a). I colori delle primarie vengono anche detti colorì fondamentali. Si noti che la combinazione additiva si riferisce sia a una sovrapposizione fisica di due radiazioni (come, ad esempio, quando due riflettori proiettano due fasci di colori diversi su una stessa area di un palcoscenico o su uno stesso schermo) sia a una sovrapposizione nel nostro occhio, come accade quando due piccole zone di colore diverso, una accanto all'altra, sono così minuscole e vicine che non le vediamo separate. In quest'ultimo caso la sintesi che conduce al colore risultante avviene direttamente nel nostro occhio. Un diverso processo è quello della combinazione sottrattiva dei colori. Per quanto riguarda i colori delle luci, essa si realizza filtrando una radiazione complessa attraverso dei vetri o altri filtri trasparenti che la-
Schermo
Figura 6.7 Schema della combinazione additiva che ha luogo nella televisione a colori. I tre dischetti colorati rappresentano le macchioline dei tre fosfori, che divengono luminosi sotto l'azione dei tre pennelli di raggi elettronici. Questi spazzano velocemente lo schermo televisivo, ma in ogni punto ognuno di essi può illuminare solo il fosforo del colore che gli corrisponde e non gli altri due, per effetto della maschera forata che sta davanti allo schermo e indirizza ogni fascetto sul fosforo appropriato. I puntini luminosi di ogni triade rosso, verde, blu, con le loro intensità relative, fondendosi nell'occhio determinano il colore di quella piccola area dello schermo, (da Ratliff, 1992)
/
Rosso
Cannone elettrico
sciano passare le radiazioni solo di una parte dello spettro. Filtrando la radiazione del Sole attraverso questi filtri, si vedono luci di colore diverso: ad esempio giallo (se il filtro lascia passare le radiazioni delle zone verde e rossa dello spettro), turchese (se lascia passare le radiazioni delle zone blu e verde), porpora (se lascia passare le radiazioni delle zone blu e rossa) (figura 6.6b). Dove due filtri sono sovrapposti essi lasciano passare un solo colore (rosso, verde o blu); dove tutti e tre sono sovrapposti, nessuna radiazione viene trasmessa (buio). I tre colori fondamentali di questa sintesi sottrattiva sono il porpora, il giallo e il turchese. (Si noti che la parola «sottrattiva» non va intesa nel suo senso aritmetico, ma sta solo a significare che il secondo filtro attenua ulteriormente o elimina delle radiazioni che erano state lasciate passare dal primo filtro. Il colore risultante da una sintesi sottrattiva obbedisce a leggi più complesse, riconducibili al prodotto delle trasparenze spettrali dei due filtri, e non a una sottrazione). I processi di sintesi tricromatica sono alla base di tutte le tecniche di riproduzione dei colori. Ad esempio, la televisione a colori si serve di un processo di combinazione additiva. Infatti sullo schermo del televisore a colori sono distribuite piccole aree di fosfori di tre colori diversi (rosso, verde e blu) che si alternano ordinatamente e che vengono illuminate separatamente e con intensità variabili da tre fascetti elettronici. Questi portano informazioni sul contenuto dell'immagine ripresa dalla telecamera in tre bande dello spettro, corrispondenti rispettivamente al rosso, al verde e al blu; se la telecamera riprende per esempio un oggetto rosso, i puntini dei fosfori verde e blu in quella zona dello schermo non si accendono. Alla distanza da cui si guarda normalmente un televisore, i puntini luminosi rosso, verde e blu prodotti dai tre fosfori si fondono tra loro, dando luogo nell'occhio a una sintesi additiva dei rispettivi colori (figura 6.7).
Figura 6.8 Esempio di sintesi additiva {al centro) e di sintesi sottrattiva (a sinistra) dei colori (blu e giallo). Osservare la figura da una distanza di un paio di metri. Il quadrato centrale apparirà di un colore azzurro non saturo, mentre quello di sinistra appare giallo-verdastro, (da Ratliff, 1992)
Esempi di sintesi sottrattiva sono invece quelli che si ottengono mescolando inchiostri o pigmenti di colore diverso, come avviene sulla tavolozza del pittore (i pigmenti infatti si comportano praticamente come filtri). Si noti che per i pittori il giallo è un colore fondamentale, mentre il verde si ottiene mescolando giallo e blu. Nella combinazione additiva invece, si usa in genere come fondamentale un verde, e il giallo risulta dalla sintesi del rosso e del verde. Anche nella stampa a colori la miscela degli inchiostri dà luogo a una sintesi sottrattiva; ad esempio, la miscela di un inchiostro blu con uno giallo produce un verde (figura 6.8). Però con gli inchiostri o i pigmenti si può simulare anche una sintesi additiva, se gli inchiostri delle primarie si distribuiscono in piccole aree vicine, senza sovrapporli, in modo che la loro fusione avvenga nell'occhio (figura 6.8). Le stampe a colori ottenute con tre primarie si chiamano tricromie. Poiché però gli inchiostri che si utilizzano come primari nella stampa non hanno colori molto puri, la gamma di colori viene migliorata utilizzando in quantità più modeste un quarto colore: il nero, ottenendo così una stampa in
Difetti della visione dei colori Alcune persone, dette comunemente daltoniche, hanno una visione difettosa dei colori, poiché nella loro retina vi sono due soli tipi di pig-
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menti dei coni anziché tre. Essi non sono quindi tricromati, ma dicromati. I due tipi di dicromati più comuni hanno i coni «blu», ma mancano o dei coni «rossi» (e si dicono protanopi) oppure dei coni «verdi» (e si dicono deuteranopi). Entrambi questi difetti sono ereditari e colpiscono più frequentemente gli uomini che le donne. I due tipi di dicromati presentano limitazioni visive in parte simili, che li portano a confondere tinte che sono assai diverse per un soggetto normale: ad esempio, la regione dello spettro che contiene la gamma di colori verde, giallo, arancione e rosso appare loro come una tinta uniforme, variabile solo in saturazione e intensità. Si può supporre che questa tinta corrisponda a un giallo. Perciò può accadere che un dicromate chiami «rosso» un oggetto che agli altri appare verde, o viceversa. Vi è poi una regione intermedia dello spettro che a un dicromate appare completamente desaturata, cioè bianca, mentre nella regione delle corte lunghezze d'onda la tinta è di nuovo uniforme e probabilmente corrisponde al blu dei soggetti normali. Tutta la gamma dei colori visibili si riduce quindi a due sole tinte (probabilmente corrispondenti a un giallo e un blu, per quanto riguarda i tipi più comuni di dicromati) e alle loro varie gradazioni di saturazione fino al bianco. Anche l'intensità relativa delle varie radiazioni monocromatiche è diversa per un dicromate; in particolare, è più bassa del normale nella regione rossa dello spettro per i dicromati privi di coni «rossi». Esiste anche un altro tipo di dicromati, detti tritanopi, privi di coni «blu». Questo difetto tuttavia è molto raro. Di un altro tipo di anomalia nella percezione del colore, di origine cerebrale e non retinica, parleremo più avanti.
Colori degli oggetti Quando un insieme di oggetti è illuminato dal Sole, gli oggetti ci appaiono dei più svariati colori. Ciò dipende dal fatto che ciascun oggetto riflette in diversa percentuale le radiazioni monocromatiche di diversa lunghezza d'onda di cui è composta la radiazione solare. Al nostro occhio giungono infatti solo le radiazioni riflesse dalla superficie di un corpo, oppure, se questo è trasparente, le radiazioni trasmesse, cioè quelle che hanno attraversato il corpo. Certi oggetti riflettono tutte le radiazioni dello spettro nella stessa percentuale. Se sono illuminati dal Sole, essi rinviano al nostro occhio una radiazione che ha ancora la stessa composizione spettrale di quella del Sole ed è soltanto più o meno attenuata. Questi oggetti non ci appaiono colorati. Se la loro superficie non è lucida (come invece lo è in
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(d)
Figura 6.9 Il colore degli oggetti (rappresentato nei cerchi), come risulta dal loro spettro di riflettanza (percentuale di radiazione riflessa). (a) Un oggetto ci appare bianco quando riflette tutte le radiazioni dello spettro in alta percentuale. (b) Un oggetto che riflette prevalentemente le radiazioni della zona rossa dello spettro ci appare rosso. (e) Un oggetto che rifletee le radiazioni della regione blu e viola dello spettro ci appare blu. (d) Un oggetto che riflette le radiazioni delle regioni verde, gialla e rossa dello spettro ci appare giallo.
uno specchio) ma diffondente come quella della maggioranza degli oggetti (carta, tela, materiali edilizi, ecc.), essi ci appaiono bianchi o grigi, più o meno scuri, o neri, a seconda che la percentuale di radiazione riflessa, cioè la loro riflettanza, sia alta (bianchi), media (grigi) o molto bassa (neri). Questi oggetti differiscono quindi per la loro luminosità, che è massima per i bianchi e minima per i neri, ma non hanno alcuna tinta. Diciamo che sono neutri. Invece gli oggetti che assorbono in percentuale diversa le diverse radiazioni dello spettro ci appaiono, in genere, colorati; il loro colore è caratterizzato da una tinta che è determinata dalla combinazione delle radiazioni da essi prevalentemente riflesse, da una saturazione che dipende dalla minore o maggiore larghezza della banda spettrale riflessa e da una luminosità che è maggiore o minore a seconda della percentuale totale delle radiazioni riflesse (figura 6.9). Le sensazioni di bianco, grigio e nero, proprie di oggetti illuminati, sono evocate solo in un ambiente visivo complesso, in cui sono presen-
ti simultaneamente oggetti con riflettanza diversa. Un oggetto illuminato isolatamente in un ambiente tutto buio non ci appare mai né grigio né nero, ma solo più o meno luminoso. In altre parole, il grigio e il nero (per i quali non esiste un equivalente per le luci) risultano per effetto di contrasto, dal confronto con altri oggetti neutri più riflettenti. Analogamente, in un ambiente complesso, oggetti colorati possono evocare sensazioni cromatiche di una gamma di chiari e scuri che danno luogo, per contrasto, a colori «nuovi» per i quali non esiste un equivalente colore delle luci, come il marrone, il verde oliva, il blu carta-da-zucchero. Si tratta in questo caso di oggetti che riflettono selettivamente una banda spettrale ma hanno riflettanza totale bassa, così che risultano scuriti per contrasto. Per esempio, il marrone è il colore di oggetti che riflettono principalmente nella banda rosso-arancione oppure nel giallo, ma con bassa riflettanza. Il colore verde oliva risulta da una bassa riflettanza nella banda del verde; il colore carta-da-zucchero nella banda del blu. Sono questi i colori che i pittori ottengono miscelando un colore chiaro con il nero. Considerazioni analoghe si possono fare per gli oggetti trasparenti, come i vetri. Un vetro ci appare colorato se trasmette solo una banda di radiazioni spettrali; ci appare invece neutro (del tutto trasparente come i vetri delle finestre, oppure più o meno scuro come gli occhiali da sole) se trasmette le radiazioni spettrali in modo non selettivo.
Costanza del colore Se la sorgente con cui si illuminano gli oggetti è diversa dal Sole, per esempio è una lampada o una fiamma, in generale anche la radiazione riflessa dagli oggetti è diversa da quella che essi riflettono in luce solare. Infatti le lampade emettono una radiazione di composizione spettrale anche notevolmente diversa da quella del Sole. Ad esempio, le lampade a incandescenza hanno una radiazione più ricca di lunghezze d'onda lunghe che non il Sole; le lampade a fluorescenza, invece, hanno una radiazione relativamente povera di queste lunghezze d'onda. Ci si può attendere perciò che il colore dei vari oggetti presenti in un ambiente si modifichi quando si passa dalla luce solare a quella di una lampada a incandescenza, o da questa a una lampada fluorescente. Ciò è senz'altro vero in una certa misura. Sappiamo che certi cibi, per esempio le carni, ci appaiono di un colore bruno-violaceo in una bottega illuminata con tubi fluorescenti, e di un rosso più vivo se illuminate dal sole o da una lampada a incandescenza. Tuttavia questi sono effetti piccoli rispetto a quelli che potremmo attenderci per le variazioni delle proprietà fisiche delle sorgenti.
Per convincerci pensiamo a un ambiente a noi familiare, come una stanza della nostra casa, e a come esso ci appare quando è illuminato dalla luce del giorno o invece da una luce artificiale. Un foglio di carta ci appare bianco in tutti e due i casi e solo se ne illuminiamo una parte con radiazione solare e una parte con quella di una lampada notiamo la differenza. Di fatto i colori degli oggetti tendono a mantenersi relativamente invariati anche per variazioni notevoli della radiazione illuminante. Questo fenomeno percettivo è chiamato costanza del colore. È come se il nostro sistema visivo fosse in grado di valutare le proprietà spettrali della radiazione illuminante così da poterne compensare gli effetti sull'apparenza degli oggetti quando l'illuminante cambia. Sono state formulate varie teorie per spiegare la costanza dei colori, di cui la più nota è la teoria di Land (1986). Secondo questa teoria il colore di un oggetto non risulterebbe semplicemente dalla radiazione riflessa da quell'oggetto e dall'eccitazione che questa produce nei tre tipi di coni. Invece l'eccitazione prodotta dall'oggetto verrebbe considerata in rapporto a tutto quello che gli sta intorno (e che si suppone illuminato dalla stessa sorgente) o, meglio, in rapporto con l'eccitazione media che l'ambiente produce rispettivamente nei tre tipi di coni. Questo confronto permetterebbe di scartare gli effetti che la sorgente illuminante ha tanto su quell'oggetto come su tutto l'ambiente, e farebbe dipendere il colore di ogni oggetto solo dalle sue proprietà di riflettanza. In questo modo verrebbe realizzata la costanza di colore, cioè l'indipendenza del colore di ogni oggetto dalla qualità della sorgente illuminante. Ciò presuppone la capacità del sistema nervoso di eseguire questa valutazione per ogni tipo di coni. La costanza del colore non può essere spiegata in modo soddisfacente in base solo a meccanismi retinici. Essa implica certamente fenomeni che avvengono a livello cerebrale.
I colori opponenti Abbiamo visto che, secondo la teoria di Helmholtz, ogni tipo di cono segnala al cervello una tinta, rispettivamente rosso, verde e blu; nel cervello i segnali provenienti dai tre tipi di coni si sommerebbero per dar luogo alle varie tinte, così come si sommano le tre primarie nella combinazione additiva dei colori. Questa teoria spiega bene i fenomeni di combinazione additiva e in particolare la possibilità di riprodurre i colori delle luci mediante la sintesi di tre primarie, ma non rende ragione dei colori prodotti da effetti di contrasto.
La teoria di Helmholtz trovò un oppositore in Hering, che innanzi tutto riteneva inaccettabile che la sensazione di giallo risultasse percettivamente da una somma di rosso e di verde. Secondo Hering, la sensazione di giallo è una sensazione elementare nella quale non si possono riconoscere due tinte componenti, come avviene invece per altri colori, quali, ad esempio, l'arancione che percettivamente è una miscela di rosso e di giallo, o il turchese in cui si possono riconoscere le due componenti verde e blu. Hering afferma che, dal punto di vista percettivo, esistono quattro tinte elementari, non scomponibili: rosso, giallo, verde e blu. E ci sono quattro radiazioni nello spettro che corrispondono a queste quattro tinte elementari o uniche (circa 470 nm, blu; 520 nm, verde; 570 nm, giallo; 670 nm, rosso). Tutte le altre radiazioni spettrali danno luogo a sensazioni in cui si possono riconoscere due componenti. Inoltre, la teoria di Hering postula che le nostre sensazioni cromatiche risultano dall'azione di meccanismi a due a due opponenti. Si osserva infatti che il verde e il rosso non solo non sono percettivamente presenti nel giallo, ma sono sensazioni che addirittura si cancellano l'una con l'altra. Ad esempio, la componente di rosso contenuta percettivamente in un arancione (per esempio l'arancione della radiazione spettrale di 600 nm) si può «cancellare» aggiungendo del verde (ad esempio la radiazione di 520 nm). Il verde e il rosso si comportano dunque come colori opponenti. Analogamente sono opponenti il blu e il giallo. L'ipotesi di meccanismi opponenti si prestava a spiegare i fenomeni di contrasto cromatico, di cui parleremo tra poco. Per giustificare poi le sensazioni risultanti dal contrasto di chiaro-scuro, Hering ammetteva un terzo meccanismo opponente: bianco-nero. Le sensazioni di bianco e nero venivano considerate fondamentali, come il blu, il verde, il giallo e il rosso. In questo modo Hering dava ragione non solo delle sensazioni neutre di contrasto (i grigi come miscela dei due fondamentali bianco e nero) ma anche dei colori che nascono per contrasto di chiaro-scuro, poiché la sensazione di nero poteva mescolarsi al rosso per dare un marrone, al verde per dare un verde scuro, ecc. Infine, i colori non saturi e chiari, come il rosa o il celeste, venivano considerati come risultanti di miscele con il bianco. Questa teoria dunque, con i suoi tre canali opponenti, rispetta la proprietà fondamentale della visione dei colori, cioè la trivarianza. Benché apparentemente più complicata di quella di Helmholtz, essa rende ragione in modo soddisfacente di molti fenomeni percettivi, e forse può aiutare anche a meglio comprendere certi usi dei colori familiari ai pittori, di cui parleremo in seguito. Essa ha inoltre una solida base fisiologica, pur non contraddicendo l'esistenza dei tre tipi di coni che è alla base della teoria tricromatica.
Il contrasto cromatico Come già aveva osservato Leonardo, il colore di un oggetto si può modificare a seconda che esso sia visto su uno sfondo neutro (bianco, grigio o nero) oppure su uno sfondo colorato. Il colore dello sfondo tende a far virare il colore dell'oggetto verso il colore complementare dello - :: sfondo (figura 6.10). Per esempio, un giallo su uno sfondo verde tende ad apparire più arancione, cioè vira verso il rosso (complementare del verde), mentre se visto su uno sfondo rosso tende ad apparire più verdastro. Anche la semplice contiguità di due oggetti può dare effetti di contrasto cromatico; questo si traduce sia in una variazione reciproca di tinta tra oggetti colorati, sia nell'assunzione di una leggera tonalità cromatica da parte di oggetti neutri. Ad esempio, un pezzetto di carta bianco può apparire lievemente giallino accanto a un blu o a un viola intenso e invece può apparire azzurrino per contrasto con un giallo vivo. In generale quindi il colore di un oggetto vira verso il complementare del colore dell'oggetto vicino, da cui è influenzato.
Figura 6.10 Esempio di contrasto cromatico. I due quadratini gialli sono fisicamente uguali, e tali infatti appaiono su uno stesso sfondo neutro. Appaiono invece diversi se circondati da uno sfondo diverso: il giallo appare più verdastro quando è circondato dal rosso, e più arancione se circondato dal verde.
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frase. Dando alle stesse parole un altro ordine, come ad esempio "furiously sleep ideas green colourless", si ottiene una successione che non solo è priva di senso, ma che non è accettata come frase nel linguaggio. Le parole sono collegate non a caso, ma secondo una regola che è comune a tutte le lingue e che quindi, secondo Chomsky, è da attribuire a proprietà della struttura cerebrale. Mentre nel caso del linguaggio parlato questa proprietà è finora puramente ipotetica, nel caso della visione abbiamo evidenza sperimentale in favore di un linguaggio visivo neurale. La preferenza dei neuroni della corteccia visiva per certe forme piuttosto che per altre potrebbe costituire l'equivalente della struttura profonda postulata da Chomsky per il linguaggio. Questo richiederebbe però che tali proprietà corticali fossero innate. Di fatto sembra che nei mammiferi superiori esse siano presenti già alla nascita, sia pure in forma rudimentale, e che si affinino poi rapidamente con l'esperienza.
Il linguaggio del segno nella storia dell'arte Uno sguardo alla storia della pittura nel suo insieme rivela che in certi periodi la rappresentazione pittorica è dominata dal segno, e in altri periodi non altrettanto. Molte delle espressioni figurative in cui i contorni sono il mezzo espressivo dominante corrispondono soprattutto all'esigenza di trasmettere un messaggio sia per uno scopo puramente narrativo, sia per un'astrazione concettuale. Invece le rappresentazioni pittoriche in cui il contorno diviene meno rilevante e prevale il tentativo di riprodurre il mondo esterno con il chiaro-scuro, il colore e la profondità tendono a suscitare in modo più immediato sensazioni estetiche ed emotive. Le espressioni pittoriche del primo tipo intendono per lo più portare sulla tela o sulla parete una storia, un pensiero, una preghiera o un concetto filosofico. Si potrebbero dire forse più «intellettuali» delle seconde. Le altre intendono riprodurre ciò che si vede, il mondo sensoriale dell'artista, e sono più propriamente visive delle prime. Nel periodo iniziale della storia dell'uomo, sia come individuo che come specie, prevale l'espressione pittorica simbolica basata largamente sulla rappresentazione dei contorni schematici delle figure. Le rappresentazioni figurative agli albori della civiltà (figura 3.13) richiamano quelle dei primi anni del bambino. Entrambe usano un vocabolario ridotto ai segni essenziali, destinati a trasmettere un concetto globale come quello trasmesso da una parola. Questo tipo di espressioni figurative essenziali, dove domina il segno, si ritrova successivamente sia nella vita dell'individuo sia nello
Figura 6.11 Esempio di assimilazione cromatica. Si noti che le righe rosse appaiono più gialle dove sono sovrapposte al verde, e più azzurrine dove sono sovrapposte al blu.
Vi è però un'eccezione a questa regola, che si verifica quando una trama fitta e sottile di un dato colore si alterna con una trama di un altro colore. In questo caso si ha assimilazione del colore, cioè il colore di una trama vira verso quello dell'altra, anziché verso il suo complementare. Nella figura 6.11, ad esempio, le righe della trama rossa appaiono più arancioni là dove sono sovrapposte al verde, e più azzurrine dove sono sovrapposte al blu. I fenomeni della costanza del colore e del contrasto cromatico indicano in quale larga misura la percezione del colore si discosti da ciò che si potrebbe prevedere solo in base alla natura fisica degli stimoli, per cui non solo stimoli diversi possono dare sensazioni del tutto uguali, ma stimoli uguali sensazioni notevolmente diverse. A questi fenomeni si può aggiungere quello del contrasto cromatico successivo, per cui l'osservazione prolungata di un oggetto di un dato colore può modificare la sensazione di colore di oggetti visti successi-
Figura 6.12 Effetto di contrasto successivo. Fissando per circa un minuto la crocetta nella parte sinistra della figura, si sposti poi lo sguardo sulla crocetta della parte destra. Si noterà che i settori sul fondo grigio appaiono ora leggermente colorati, ciascuno del colore complementare a quello precedentemente guardato: dove c'era il blu appare ora il giallo, dove c'era il verde appare il rosso violaceo, e viceversa.
vamente. Si osservi la figura 6.12, fissando per circa un minuto la crocetta nella parte sinistra della figura; si sposti poi lo sguardo sulla crocetta della parte destra. Si noterà che i settori sul fondo grigio appaiono ora leggermente colorati, ciascuno del colore complementare a quello precedentemente guardato: dove c'era il blu appare ora il giallo, dove c'era il verde appare il rosso violaceo, e viceversa.
L'acuità per il colore Abbiamo visto che il nostro sistema visivo ha dei limiti nella sua capacità di vedere distinti i particolari fini degli oggetti. Per dei particolari di alto contrasto, in bianco e nero, arriviamo a distinguere dettagli corrispondenti a un angolo visivo di poco inferiore a un minuto primo. Ci possiamo domandare qual è la nostra capacità di distinguere dettagli fini, quando questi sono diversi tra loro non per chiaro-scuro, bensì per colore. In questo caso la nostra acuità visiva è senz'altro inferiore: ad esempio, per oggetti rossi su fondo verde, di eguale luminosità, o verdi su fondo rosso, la nostra capacità di vedere distinti i piccoli particolari è circa tre volte inferiore a quella relativa a oggetti bianchi su fondo nero. In altre parole, per vedere separati due piccoli dettagli rossi su fondo verde di uguale luminosità, occorre che essi siano distanziati di una quantità corrispondente a un angolo visivo di almeno 3 minuti primi. Quando però dei dettagli di colore diverso sono così piccoli da essere vicini al limite della nostra capacità di vederli separati, anche se riusciamo ancora a distinguerli non ne vediamo separatamente i colori. Come abbiamo detto precedentemente, si ha in questo caso una integrazione dei colori dei diversi particolari, che tendono a fondersi in un'unica tinta. Per esempio, per dei particolari rossi su fondo verde di
uguale luminosità, quando questi si fanno così piccoli da avvicinarsi al limite di separazione, si tende a vedere giallo, come se il verde e il rosso si integrassero in una combinazione additiva. L'integrazione di colore può avvenire anche in presenza di un contrasto di chiaro-scuro, per esempio quando si osserva una scacchiera formata da quadretti di colore giallo e blu complementari. Se si guarda la scacchiera da vicino, si distinguono chiaramente le tinte gialla e blu dei singoli quadretti. Allontanandosi un poco dalla scacchiera, a un tratto si perde la percezione del colore e i quadretti appaiono bianchi e neri: il giallo e il blu, complementari, si sono integrati dando luogo al colore neutro. Vedremo come fenomeni di integrazione cromatica siano alla base della tecnica pittorica del pointillisme.
Il colore nel cervello L'esistenza dei tre pigmenti dei coni non è da sola sufficiente a spiegare tutti gli aspetti della visione dei colori. Infatti, l'informazione proveniente dai tre tipi di coni non si mantiene separata lungo le vie neurali che collegano la retina con il cervello, come aveva supposto Helmholtz; già nella retina e poi nelle successive stazioni del sistema visivo i segnali provenienti da due (o più) coni confluiscono su singole cellule nervose, o integrandosi, cioè sommando i loro effetti, oppure producendo effetti di segno opposto, l'uno eccitando e l'altro inibendo la stessa cellula. Le cellule gangliari della retina si suddividono in due popolazioni che differiscono sia per la loro forma sia per le loro funzioni. Le cellule di una di queste popolazioni ricevono segnali dello stesso segno dai coni dei due tipi «rossi» e «verdi», per cui queste cellule sono capaci di elaborare e trasmettere informazione relativa all'intensità luminosa dello stimolo visivo (chiaro-scuro), ma non l'informazione sulle sue proprietà cromatiche. L'elaborazione di questa informazione è affidata all'altra popolazione, che costituisce la grande maggioranza delle cellule gangliari e che è suddivisa a sua volta in due classi: le cellule della prima classe vengono eccitate dai coni «rossi» e inibite dai coni «verdi» (o viceversa), quelle della seconda classe vengono eccitate dai coni «blu» e inibite sia dai coni «rossi» sia dai coni «verdi» (figura 6.13)Le cellule della prima classe si dicono opponenti per il rosso-verde; quelle della seconda classe, opponenti per il blu-giallo. Si ritrova quindi a livello delle cellule gangliari la presenza di tre tipi di neuroni capaci di elaborare e trasmettere indipendentemente informazioni su tre qualità dello stimolo, rispettando così la trivarianza della visione cromatica. Si tratta di tre meccanismi opponenti: chiaro-scuro, rosso-verde, blu-gial-
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lo, come era stato ipotizzato da Hering. Queste tre classi di cellule gangliari danno origine a tre vie neurali che si mantengono separate dalla retina, attraverso le stazioni intermedie, fino alla corteccia visiva. Nella corteccia cerebrale visiva, oltre a cellule con proprietà simili a quelle delle tre classi di cellule gangliari, e cioè opponenti per il chiaro-scuro, per il rosso-verde e per il blu-giallo, si incontra un ulteriore tipo di cellule cromatiche, dette doppie opponenti. Il loro campo recettivo è diviso in due zone: un disco centrale e un anello che lo circonda, entrambi opponenti per il colore ma di segno invertito. Per esempio, il centro è eccitato dal rosso e inibito dal verde, mentre l'anello circostante è eccitato dal verde e inibito dal rosso. Per una cellula di questo tipo lo stimolo ottimale è un disco rosso su fondo verde. Alle cellule non cromatiche è affidata l'elaborazione delle informazioni circa la forma e il movimento degli stimoli visivi. Anche successivamente alla corteccia visiva primaria, cioè nelle aree corticali in cui avvengono le ulteriori elaborazioni, le informazioni circa il colore e quelle relative alla forma e al movimento si mantengono relativamente separate. Nella corteccia cerebrale esiste un'area specializzata per l'elaborazione dell'informazione sul colore. Lesioni di quest'area per ragioni patologiche causano una cecità al colore detta acromatopsia corticale. Talvolta la lesione è limitata a uno solo dei due emisferi cerebrali; in questi casi solo una metà del campo visivo è priva di sensazioni di colore (figura 6.14). Questa forma di patologia della visione dei colori non è da confondere con i difetti della visione dei colori dovuti alla mancanza di un tipo di coni (daltonismo), i quali causano una riduzione della gamma di colori visibili. I pazienti affetti da acromatopsia corticale vedono il mondo in toni di grigio, privo di colori. Cosa ancora più sorprendente, perdono la capacità di immaginare il colore. Quando queste persone pensano a scene del mondo esterno, come un prato, ne vedono con la
Figura 6.14 Un paziente con lesione dell'area corticale del colore nell'emisfero cerebrale sinistro perde la sensazione dei colori nel semicampo visivo destro. Nell'altra metà del campo visivo, che dipende dall'emisfero destro, la visione dei colori è normale, (da Zeki, 1993).
mente la grana e la forma, ma non il colore. In qualche senso quindi, i concetti di colore dipendono da questa particolare area della corteccia cerebrale. Invece la percezione della forma che non viene sostanzialmente alterata in pazienti con lesioni limitate all'area del colore è ovviamente affidata in larga parte ad altre parti della corteccia cerebrale. Lesioni di certe limitate regioni del lobo sinistro del cervello possono causare invece un'incapacità a chiamare correttamente i colori con il loro nome, senza tuttavia alterare la capacità di vedere il colore. Vi sono casi, per esempio, di pazienti che non sanno pronunciare correttamente il nome di un colore. E altri che invece scambiano i nomi dei colori, e chiamano per esempio "rosso" il blu, e "giallo" il verde. La presenza di due vie neurali con proprietà opponenti per il rossoverde e il blu-giallo conferma le ipotesi di Hering e fa comprendere l'esistenza nello spettro di quattro colori elementari: un rosso, un giallo, un verde e un blu. Anche l'esistenza di colori complementari, per esempio rosso e verde, blu e giallo, può forse essere meglio compresa tenendo conto di queste vie neurali con proprietà opponenti, e così pure i fenomeni di contrasto simultaneo che fanno virare la tinta di uno stimolo neutro verso il colore complementare dello sfondo. Mentre, a livello dei fotorecettori, la presenza di tre tipi di coni con tre diversi pigmenti rende ragione alla teoria di Helmholtz, dalle cellule degli strati successivi della retina in poi l'organizzazione a colori opponenti è in accordo con la teoria di Hering.
(a)
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CAPITOLO 7 IL COLORE NEL QUADRO Agli uomini il colore dona in genere grande diletto. L'uomo ne ha bisogno come ha bisogno della luce. Wolfgang Goethe, La teoria dei colori.
Psicologia del colore
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Jan van Eyck, (a) Ritratto dei coniugi Arnolfini. Londra, National Gallery. (b) particolare, (e), (d) fotografie del particolare da cui è stato eliminato rispettivamente il contrasto di chiaro-scuro e conservato solo quello di colore ed eliminato il colore e conservato solo '1 contrasto di chiaro-scuro.
n colore che sia predominante in un ambiente può evocare stati d'animo diversi. Ad esempio, il verde evoca quiete, il giallo gioia, il rosso eccitazione. Ai colori si possono associare anche sensazioni di modalità sensoriali non visive. Ad esempio, come scrive Kandinskij, "È caldo o freddo il colore che tende al giallo o al blu". Infatti le tinte della gamma giallo-arancione-rosso vengono considerate «tinte calde» perché sembrano essere associate a una sensazione di calore, mentre le tinte della gamma verde-blu-viola sono considerate «tinte fredde». Questa suddivisione dello spettro in tinte calde e tinte fredde potrebbe essere associata a uno dei meccanismi fisiologici implicati nella percezione del colore, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Si tratta del meccanismo di opponenza cromatica blu-giallo, descritto a proposito delle cellule gangliari della retina. Probabilmente, dei due meccanismi di opponenza cromatica (blu-giallo e rosso-verde), il più antico dal punto di vista dell'evoluzione delle specie è il primo. Possiamo pensare al colore astraendolo dalla forma e dalla corporeità degli oggetti, e renderlo, in tal modo, puro concetto. Nelle varie culture i colori possono assumere un significato simbolico e una valenza religiosa. Nel periodo classico precristiano prevalevano, nell'area mediterranea, i colori giallo e rosso, insieme al bianco e al nero; con il cristianesimo assumono significato simbolico i «nuovi» colori verde, azzurro e viola, ciò che suggerirà a Nietzsche di chiamare colori «politeistici» i primi e «monoteistici» i secondi. Nella Roma imperiale i colori prevalenti erano quelli del cotto per le case e del marmo per i monumenti; il porpora era il simbolo dell'autorità imperiale. Nel cristianesimo degli inizi il verde è il simbolo della nuova vita che risorge dallo stato di temporanea morte, in attesa
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della penitenza liberatrice simboleggiata dal viola, mentre l'azzurro richiama la trascendenza del paradiso. Il simbolismo dei colori si estende e si perpetua nella liturgia, dove il colore delle pianete dei sacerdoti e dei paramenti dà significato alla celebrazione: il bianco per Cristo, il rosso per i martiri, il viola per la penitenza e il lutto. Inoltre il colore contraddistingue le vesti delle massime autorità della Chiesa: il bianco per il papa, il rosso per i cardinali. I colori celeste e verde si ritrovano poi nella figurazione dei mosaici bizantini e romanici, dove, sullo sfondo lucente di riflessi di metalli preziosi, risaltano le tinte luminose che simboleggiano le verità di fede. Il porpora è esclusivamente attribuito al Cristo glorioso Pantocrator. Il colore cristiano è carico di simbolo, ma quasi astratto dalla forma e pura proprietà della luce. Il significato simbolico dei colori e il loro appartenere alla luce più che alla forma si ritrova ancora più evidente nelle vetrate gotiche. I colori cristiani dell'azzurro e dell'oro verranno poi a simboleggiare la nobiltà cavalleresca e ne decoreranno le insegne e gli stendardi. II simbolismo dei colori rinasce con altri significati nell'Ottocento, dopo l'avvento delle tinture artificiali, nella società industriale. Nasce il mito del bianco come simbolo della pulizia, mentre il nero indica riservatezza e lutto. Nelle bandiere e nelle uniformi militari i colori assurgono invece a simbolo della patria e dell'unità nazionale.
L'albero dei colori La gamma dei colori visibili e riproducibili nella pittura può essere rappresentata da un campionario in cui i singoli campioni di colore sono ordinati secondo le tre variabili: luminosità (chiaro-scuro), tinta o tonalità e saturazione o purezza. Si può costruire, ad esempio, un «albero dei colori» (figura 7.1) il cui asse centrale è formato da campioni neutri, cioè non cromatici, ordinati dal basso verso l'alto secondo una scala che va dal nero al bianco lungo gradazioni di grigio via via più chiare. Da questo asse si staccano dei fogli ciascuno dei quali contiene campioni della stessa tinta, per esempio un rosso, un verde, ecc. In ognuno di questi fogli i campioni di colore sono ordinati dall'asse dell'albero verso l'esterno in una scala di saturazione, con le tinte più sature più lontane dall'asse. Inoltre, dall'alto al basso i colori sono ordinati da una scala che va dal chiaro allo scuro. Fin dai secoli scorsi psicologi o pittori hanno proposto vari tipi di alberi o solidi dei colori in forma di sfera o di doppio cono, di doppia piramide ecc., oppure in forma di atlante, di cui il più noto è quello ideato dal pittore Albert Munsell nel 1915, che è in largo uso tutt'og-
Figura 7.1 Albero dei colori.
Giallo
gi. Questi alberi dei colori, oltre a fornire una descrizione cromatica ordinata ed estesa per applicazioni scientifiche e tecniche, sono stati sviluppati anche per rispondere all'esigenza di comprendere quali siano i colori che si possono accostare con effetti più gradevoli. Ad esempio, secondo Ostwald, sono gradevoli, tra l'altro, accostamenti di colori uguali tra loro per luminosità o per saturazione. Parlare di «accostamenti gradevoli» può far pensare a criteri soggettivi di gusto personale, ..Sono stati fatti dei tentativi per dare una base sistematica all'«armonia dei coIofÌ^>pcioè per jtrovare regole di accostamento dei colori simili a quelle degli accordi armonici della musica. La regola più generalmente accettata è che due o più colori # sono armonici se la loro combinazione dà un grigio neutro, cioè se i colori sono complementari. Naturalmente, per ottenere dei colori complementari occorre non solo scegliere tinte opportune, ma anche pesare le componenti in opportuni rapporti di chiaro e scuro e di sa- a turazione.
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Figura 7.2 (sopra) Colori scelti come armonici dalla studentessa rappresentata nella foto e loro scomposizione spaziale in quadrati, (da Itten, 1961). Figura 7.3 (sotto) Colori scelti come armonici dalla studentessa rappresentata nella foto e loro scomposizione spaziale in quadrati, (da Itten, ri/.).
Definire armonici dei colori complementari può indicare che a^questa regola sottostà una proprietà fisiologica della visione dei colori comune alla maggior parte degli osservatori. Tuttavia ciò non esclude che tra le numerose combinazioni armoniche, teoricamente infinite, alcune non possano essere soggettivamente preferite ad altre. Ad esempio, i due tipi di accostamenti riportati nelle figure 7.2 e 7.3 sono stati scelti da due studentesse della scuola di pittura di Itten come esempi di accordi armonici e gradevoli. La scelta dei colori che costituiscono degli accordi armonici ha indubbiamente una valenza soggettiva, legata in parte al temperamento della persona e anche alle sue caratteristiche somatiche. Come ha fatto notare Itten, la studentessa bionda ha scelto dei colori più tenui e meno saturi di quelli scelti dalla studentessa bruna. Per comprendere meglio l'accoppiamento dei colori armonici, nonché gli effetti di contrasto usati nella pittura, è utile considerare, anziché il completo albero dei colori, una collezione di campioni di colore
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Figura 3.15 Pittura parietale della sala del sarcofago di Thutmosi III nella Valle dei Re (XVIII dinastia, 1550-1293 a.C). Particolare della figurazione del Libro dell'Amduat in cui si narrano le vicende del dio Sole.
Figura 3.16 Fanciulla che raccoglie fiori. Pittura murale da Stabi; (i sec. d.C). Napoli, Museo Nazionale.
sviluppo della civiltà tutte le volte che si voglia narrare un succedersi di avvenimenti. Questo è vero ad esempio della pittura degli Egiziani, dove si narrano le storie degli dei o del faraone: questi uomini disegnavano «quel che sapevano» e non «quello che vedevano» (figura 3.15)Ed è vero anche per gli odierni disegni a fumetti che narrano vicende di personaggi veri o immaginari. Non è un caso che questo mezzo espressivo sia tale da essere compreso già dai primi anni di vita. Nell'epoca greca e romana la pittura diventa più mimetica, più simile alle immagini realmente percepite, più ricca di dettagli, di chiaro-scuri, di superfici variamente colorate (figura 3.16). Nelle epoche successive si alterneranno periodi in cui i contorni tornano a dominare e altri in cui prevalgono le rappresentazioni più continue, senza la frattura di una demarcazione netta. I primi saranno per lo più quelli in cui l'interesse si concentra sulla narrazione di avvenimenti o sull'espressione concettuale o spirituale. I secondi sono i periodi in cui, per lo spiccato interesse per l'uomo, acquista maggior rilievo l'espressione sensoriale della realtà.
Figura 7.4 Disco dei colori secondo Itten. Al centro, i tre colori fondamentali rosso, giallo e blu, circondati dai coioti secondati viola, blu-verde e arancione. Nel disco estetno sono raffigurati questi sei colori con altri sei intermedi.
più semplice, dove i colori sono diversi tra loro solo per tinta. I colori si possono organizzare in diverse forme geometriche, per esempio in un triangolo, come fece già nel secolo scorso Maxwell, oppure in un cerchio. Citiamo qui un esempio particolarmente importante in riferimento alla pittura: il cerchio cromatico, nella versione di Itten (figura 7.4). Al centro del cerchio vi è un triangolo equilatero formato dai tre colori fondamentali primari: rosso, giallo e blu. Attorno a questo, altri tre triangoli rispettivamente di colore verde, arancione e viola, cioè dei tre colori secondari che si possono pensare ottenuti per sintesi dei primari, a due a due (il verde dal giallo e dal blu; l'arancione dal rosso e dal giallo; il viola dal blu e dal rosso). L'esagono così formato è circondato da un cerchio che contiene i sei colori primari e secondari e sei colori intermedi tra quelli. I colori diametralmente opposti nel disco sono colori complementari: così, ad esempio, il rosso e il verde, il blu e l'arancione, il viola e il giallo.
I colori nel q u a d r o Nel realizzare la sua opera, il pittore impiega più o meno consapevolmente il colore nel tentativo di creare l'equilibrio del quadro e per dare evidenza a questa o a quella parte della scena, per creare effetti di profondità, ecc. In tutto questo giocano un ruolo importante vari effetti di contrasto che contrappongono zone vicine del quadro, così che si esaltino a vicenda. Si tratta non solo di effetti di contrasto che nascono nel nostro occhio, come il contrasto simultaneo di cui abbiamo già parlato, bensì di contrasti creati dal pittore contrapponendo colori diversi o per tinta, o per saturazione, o per estensione spaziale, o per tonalità fredde o calde. Cominciamo a parlare del contrasto tra colori complementari. Nella pittura, il contrasto simultaneo viene spesso rafforzato dall'accostamento di colori tra loro complementari. Secondo Itten, "Ogni coppia di complementari possiede però suoi caratteri specifici. Così la giustapposizione di giallo e viola dà luogo anche a un forte contrasto chiaro-scurale. La coppia arancione - bluverde rappresenta nello stesso tempo il punto estremo della polarità freddo-caldo. I complementari rosso-verde posseggono un eguale grado di luminosità e di lucentezza". Dunque al contrasto cromatico si aggiunge in alcuni casi un contrasto di luminosità: si ricordi che il nostro occhio è assai più sensibile alle radiazioni centrali dello spettro visibile (regione del verde e del giallo) e assai meno a quelle della regione viola (figura 6.3). Inoltre, poiché i colori complementari generalmente appartengono l'uno alle cosiddette tinte calde, l'altro alle tinte fredde, il contrasto tra colori complementari può caricarsi, in misura maggiore o minore, anche di questo contrasto caldo-freddo. Il contrasto di colori complementari è largamente usato nella pittura. Si osservi ad esempio la Madonna di Monterchi di Piero della Francesca (figura 7.5). Nei due angeli che sorreggono la tenda ai lati della Madonna, gioca il contrasto dei colori complementari rosso-porpora e verde con cui sono dipinte le vesti, le ali e i calzari. Questi colori sono scambiati nei due angeli, così da creare un contrasto di complementari anche tra queste due figure. Nell'abito della Madonna gioca il contrasto tra altri due colori complementari, il giallo e il blu. L'accostamento di queste coppie di colori complementari in ognuna delle tre figure crea un effetto armonico di notevole bellezza e il distacco tra la figura centrale e le due laterali simmetriche viene accentuato dalla sapiente scelta dei colori, che costituiscono due coppie largamente separate nel disco cromatico. L'effetto chiaroscurale che accompagna il contrasto cromatico tra i complementari giallo e viola viene spesso impiegato in pittura. Ad esempio, nel famoso quadro di Cézanne Mont Ste Victoire, questo contrasto viene utilizzato sapientemente per dare un senso di profondità al paesaggio, accentuando il distacco tra figura e sfondo (figura 7.6).
Figura 7.5 Piero della Francesca, Madonna di Monterchi come risulta dal recente restauro. Monterchi (Arezzo), Cappella del cimitero.
Figura 7.6 Paul Cézanne, Mont Ste Victoire. Philadelphia, Art Museum.
Figura 7.7 (a sinistra) Vetrata della Cattedrale di Chartres, detta La Verrière (XII secolo). Figura 7.8 (a destra) Piero della Francesca, Natività. Londra, National Gallery.
Un altro effetto di contrasto di notevole efficacia pittorica nasce dall'accostamento di colori freddi e caldi che può suggerire anche un contrasto tra ombreggiato e soleggiaro, riposante ed eccitante, lontano e vicino. Nella pittura medievale e nelle vetrate delle cattedrali gotiche, il contrasto caldo-freddo tra rosso e blu simboleggia la dualità tra ciò che è materiale e ciò che è al di là della materia. Spesso la Madonna porta una veste rossa sotto il manto azzurro, a simboleggiare 1'«umano coperto dal divino» (figura 7.7). Questo simbolismo si ritrova anche nel Rinascimento; in taluni casi il contrasto tra azzurro e rosso può contrapporre personaggi divini e angelici a personaggi terreni, come nella Natività di Piero della Francesca (figura 7.8). Il contrasto freddo-caldo assume un particolare rilievo nei quadri degli impressionisti, dove la fredda tonalità azzurra dell'atmosfera diviene ombra colorata ed entra in contrasto con la calda tonalità delle zone illuminate dal sole. Così, ad esempio, in Impression, soleil levant, di Claude Monet, dove le calde tonalità del sole e dei suoi riflessi sull'acqua si contrappongono alle fredde ombre, dissolvendole in un magico effetto chiaroscurale (figura 7.9). Altro tipo di contrasto è quello che si crea tra aree fortemente cromatiche, di colore saturo, e aree neutre. Questo contrasto di saturazione è presente in molte opere di pittura di tutte le epoche, dai manieristi agli astrattisti. Per illustrarlo abbiamo scelto un quadro di Georges de
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Figura 7.9 (sopra) Musée %ura7.I0(alato) BeTuflt
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La Tour (figura 7.10), dove il contrasto chiaro-scurale si accompagna a un forte contrasto di saturazione tra il rosso abito della madre e le tinte neutre del resto del quadro. Citiamo per ultimo il contrasto di quantità, che si verifica quando su aree estese di colore relativamente uniforme è presente una piccola area di colore notevolmente diverso. Questa piccola macchia di colore viene evidenziata per contrasto. Così accade per la rossa camicia del contadino nel Paesaggio con la caduta di Icaro di Bruegel (figura 7.11). Come abbiamo detto, nella grande maggioranza dei casi il contrasto cromatico si accompagna a un contrasto di chiaro-scuro, o perché i colori stessi hanno tendenzialmente questa proprietà, come il giallo e il viola, o perché una differenza di luminosità viene introdotta appositamente dal pittore. Solo eccezionalmente si trovano accostate in un dipinto due aree cromaticamente diverse ma ugualmente luminose. Se questo avviene, i margini della figura tendono ad apparire meno definiti, si attenua il rapporto tra figura e sfondo, si appiattiscono le distanze. Un contrasto puramente cromatico, senza differenza di luminosità, è relativamente meno efficace nella rappresentazione della forma. Questo fatto ha la sua spiegazione nell'organizzazione delle vie visive, come abbiamo detto precedentemente (Capitolo 6). La capacità di distinguere piccoli dettagli che differiscono tra loro solo per colore e non per luminosità è scarsa, circa 3 o 4 volte inferiore a quella che consente di distinguere piccoli dettagli in bianco e nero. Questa è la ragione per cui la nitidezza dei contorni è assai ridotta ai bordi puramente cromatici. Per comprendere meglio il diverso ruolo che possono avere in una pittura il contrasto puramente cromatico e il contrasto di chiaro-scuro,
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osserviamo la figura ottenuta estraendo queste due componenti del contrasto da un particolare del Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck (figura di apertura del capitolo). Un particolare del quadro, la giovane sposa, è stato fotografato in modo da conservare solo il contrasto di colore presente tra le varie aree del dipinto, ed eliminandone le differenze di luminosità (foto in basso a sinistra). Il contrasto di chiaro-scuro, senza differenze di colore, è invece rappresentato nella fotografia in basso a destra. Si noti come la figura con contrasti puramente cromatici risulti assai meno definita nella forma, e quasi irreale, rispetto a quella in chiaro-scuro.
Gli effetti di profondità creati dal colore
Figura 7.12 Effetti di profondità per diversi colori. Sul nero il giallo si stacca dallo sfondo più del rosso e del blu (sopra). Su fondo bianco l'effetto si inverte (sotto).
Figura 7.13 Cellule rosse viste al microscopio sullo sfondo di un mezzo blu. Le macchie rosse sembrano emergere sullo sfondo. Questo effetto stereoscopico è dovuto all'aberrazione cromatica dell'occhio, (da Schober e Rentschler, 1972).
I colori caldi visti sullo sfondo di colori freddi tendono a generare un'impressione di profondità: i gialli e i rossi avanzano verso lo spettatore, mentre i verdi e i blu retrocedono. Scrive Kandinskij: "Anche il colore correttamente usato può muoversi verso lo spettatore o allontanarsene, protendersi o ritrarsi, e fare del quadro una cosa sospesa nell'aria, dilatando pittoricamente lo spazio". E ancora: "Il colore caldo si muove verso lo spettatore, quello freddo se ne allontana". Questi effetti di diversa profondità tra colori caldi e colori freddi possono essere esaltati oppure attenuati (e addirittura invertiti) giocando con la luminosità sia degli oggetti, sia dello sfondo (figura 7.12). Visti su uno sfondo nero, tre rettangoli di colore giallo, rosso e blu si dispongono in una scala di profondità dove il giallo, che è il colore più chiaro, avanza rispetto al rosso e ancor più rispetto al blu, che è il colore più scuro. Gli stessi tre colori danno un effetto di profondità totalmente diverso se sovrapposti a uno sfondo bianco: qui è il giallo che si schiaccia sullo sfondo, con il quale crea solo un debole contrasto, sia di luminosità sia di saturazione. Il rosso invece si stacca maggiormente dal bianco e in una certa misura anche il blu. L'effetto di profondità per cui un oggetto rosso appare più vicino di un oggetto contiguo blu è attribuibile in parte a proprietà fisiche degli occhi. Le radiazioni di lunghezza d'onda lunga (rosso) e corta (blu) vengono rifratte diversamente dal sistema ottico dell'occhio: le seconde vengono maggiormente rifratte rispetto alle prime. Si crea un effetto prismatico per cui nei due occhi si formano immagini rispettivamente rosse e blu con disparità diverse (Capitolo 5). È quindi un vero e proprio effetto stereoscopico binoculare quello per cui oggetti rossi possono apparire più vicini di una superficie blu . Questo effetto binoculare non esaurisce tuttavia l'effetto di profondità, poiché questo permane in parte anche se si guarda l'immagine con un occhio solo (figura 7.13).
Figura 7.14 Claude Monet, Covoni con la brina (1891). Edimburgo, National Galleries of Scotland.
Le o m b r e colorate Ci serviamo delle parole di Goethe per introdurre un importante fenomeno di visione dei colori: quello delle ombre colorate. Scrive Goethe: "In un viaggio d'inverno nello Harz {...} i fianchi delle montagne erano coperti di neve {...] il sole scendeva all'orizzonte. Durante il giorno avevo già potuto notare che, contrastando con il tono giallastro della neve, le ombre apparivano leggermente violette {...] Ma quando il sole sul punto di sparire all'orizzonte ricoprì di porpora il mondo intorno, l'ombra cambiò di colore e apparve un verde paragonabile a quello del mare [...]". Da questa viva descrizione emerge un fenomeno ben noto per il quale, quando la sorgente che illumina ha una tinta fortemente dominante, le ombre appaiono colorate del colore complementare a quello della sorgente. Il colore dell'ombra risulta da un effetto di contrasto: le parti in luce spingono le parti in ombra, meno intense, verso il colore complementare. Questo fenomeno percettivo è noto ai pittori ed è frequentemente rappresentato nei quadri: il colore dell'ombra contribuisce a creare contrasto. Un esempio suggestivo sono i Covoni con la brina di Monet, dove l'ombra del covone è vistosamente dipinta con il colore complementare a quello che domina nelle parti illuminate del quadro. La luce dominante, dorata, crea un'ombra dipinta con il colore complementare cioè l'azzurro (figura 7.14).
Altro caso in cui si producono ombre colorate è quello di una scena illuminata da due sorgenti cromaticamente diverse, ad esempio il sole e una lampada oppure una candela. Se un oggetto crea un'ombra rispetto alla radiazione del sole, la parte in ombra, illuminata soltanto dalla sorgente artificiale, risulta di colore più saturo rispetto alle parti illuminate da tutte due le sorgenti. Se la sorgente artificiale è una candela, l'ombra è rossastra. Al contrario, una zona d'ombra per la luce della candela, e illuminata solo dal sole, appare azzurrina. Hegel l'aveva notato e descritto accuratamente: "L'ombra proiettata dalla luce della candela e illuminata dalla luce naturale del mattino diviene blu; l'ombra gettata dalla luce del giorno e rischiarata dalla luce della candela diviene rossa". All'aperto possono apparire leggermente azzurre le zone di ombra proiettata da oggetti che coprono i raggi diretti del sole e che sono quindi illuminate soltanto dalla luce diffusa del cielo. Bisogna però tener presente che, perché un'ombra appaia come tale e non, per esempio, come una parte di un oggetto con proprietà diverse, occorre che ci sia una differenza di intensità; una differenza di colore senza una differenza di intensità non crea ombra.
Pointillisme e divisionismo Nella seconda metà dell'Ottocento si svilupparono scuole pittoriche che furono notevolmente influenzate dal contemporaneo sviluppo delle conoscenze scientifiche sulla visione dei colori. Ciò accadde per l'impressionismo e poi per il postimpressionismo (o neoimpressionismo), in cui dominano ancora il colore puro e le sensazioni che derivano dal colore. È da notare che in questo periodo la scienza diviene stimolo intellettuale specialmente nei pittori più colti, come Seurat. Il neoimpressionismo è inizialmente caratterizzato dalla tecnica del pointillisme, nata con il proposito di frammentare la rappresentazione pittorica in piccolissime macchie di colori puri, vicinissime tra loro, tali da essere fuse dall'occhio. I colori del quadro risultano così da un'integrazione visiva dei colori puri delle macchioline nell'occhio dell'osservatore. Questo processo di integrazione si supponeva desse luogo a colori più luminosi di quelli ottenibili per miscela di tinte sulla tavolozza. Occorreva naturalmente osservare il quadro da una distanza sufficientemente grande per consentire la «fusione» delle macchioline di colore. Un analogo procedimento era già stato applicato dai mosaicisti bizantini, che usavano proporzionare la grandezza delle tessere alla distanza da cui il mosaico era destinato ad essere visto.
Figura 7.15 Georges Seurat, Un dimancbe d'étéà la Grande Jatte (1886). Chicago, Museo di Arte moderna.
Georges Seurat (1859-1891) cercò di dare una base scientifica al metodo, per quella che lui chiamò peinture optìque. La sua prima grande opera con questa tecnica è Un dimanche d'été à la Grande Jatte, per la quale egli fece ben diciotto studi preparatori. La versione finale, del 1886, è ora nel Museo di Arte moderna di Chicago (figura 7.15). Il metodo fu perfezionato in opere successive, come Embouchure de la Seine, dove le piccole pennellate diventano punti ordinati. Questa tecnica indaginosa, che implicava un lungo processo di studio preliminare alla produzione del quadro, mostrò ben presto i suoi limiti, soprattutto perché finiva in realtà con lo smorzare le tinte, desaturandole e velandole quasi di grigio. Signac, che era seguace e allievo di Seurat, rivedendo dopo dieci anni, nel 1897, un quadro del suo maestro, Les Poseuses, scriveva: "Sono passati più di dieci anni da quando l'ho visto per l'ultima volta. Mi è stato di buon insegnamento. E troppo diviso, la pennellata è troppo piccola. [...] Le parti uniformi, coperte da quelle piccole pennellate, sono sgradevoli e questo operare sembra inutile e nocivo perché dà all'insieme del lavoro una tonalità grigia". Nacque così il divisionismo, dove le macchie di colore sono più grandi, in modo da non essere fuse dall'occhio (figura 7.16). Nel suo libro, Paul Signac and Color in Neo-Impressionism, Floyd Ratliff fa giustamente notare che le due tecniche danno luogo a fenomeni visivi completamente diversi: l'una causando una perdita di vivacità dei colori attraverso la loro combinazione additiva, contrariamente a quanto il pittore si propo-
Figura 3.17 Crocifisso di Scuola lucchese (xm sec). Firenze, Galleria degli Uffizi.
U n a visita agli Uffizi La prima sala degli Uffizi ci offre un confronto tra la pittura dominata dal segno e una pittura diversa, dominata dalle forme e dalle superfici. La prima esperienza ci viene offerta dai crocifissi di scuola toscana (figura 3.17), dove il Redentore e le Storie Sacre ai lati sono dominate da un segno netto, semplice, marcato. Le gambe e le braccia del Cristo sono delimitate da pochi segni neri, spesso dei segmenti di linea retta.
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neva; l'altra invece producendo fenomeni di contrasto locale tra colori diversi, con l'effetto di esaltare le tinte. Inoltre, l'immagine così creata produce un leggero effetto di sfarfallio della luce che introduce un aspetto inedito nella pittura en-plaìn-aìr dell'impressionismo. Quest'ultimo effetto deriva probabilmente da fenomeni dinamici di contrasto cromatico in corrispondenza dei movimenti degli occhi durante l'osservazione del quadro. Così Signac descrive i vantaggi del divisionismo: "Il divisionismo assicura maggiore luminosità, colore e armonia per: a) uso dei colori di tutto lo spettro senza la loro mistura; b) separazione dei colori locali dai colori della luce, riflessione ecc.; e) bilanciamento di tutti questi fattori e delle relazioni tra loro in accordo con le leggi del contrasto, ecc.; d) l'uso di una tecnica di punti di una grandezza determinata in relazione alla grandezza del quadro". Si deve dire peraltro che la tecnica divisionista rende più difficile la leggibilità del quadro, particolarmente a distanza ravvicinata. Come fa notare Gombrich, ciò porterà i divisionisti a una semplificazione delle forme nel tentativo di compensare la complessità della tecnica pittorica. Le forme diventano più statiche e schematiche e si differenziano così in maniera vistosa da quelle degli impressionisti. Il divisionismo dei neoimpressionisti ebbe degli illustri antesignani in epoche precedenti, come Signac riconosce nel libro D'Eugène Delacroìx aux Néo-impressionnisme che egli dedicò alle basi scientifiche e alle
origini storiche di questa tecnica. Secondo Signac, Delacroix, con l'importanza data al colore e con il sapiente uso di contrasti locali di colore, aveva posto le basi per l'impressionismo e per il neoimpressionismo. Grande influenza su queste due scuole artistiche ebbero anche alcuni pittori inglesi, come Constable e Turner. In Italia il divisionismo ebbe dei rappresentanti illustri in Segantini, Previati e Pellizza da Volpedo, e costituì una prima fase del Futurismo.
Il nome dei colori Il numero delle possibili sensazioni di colore è molto elevato, ma non esiste una altrettanto grande varietà di nomi con cui tutte queste sensazioni si possono indicare. Ad esempio, nello spettro visibile è possibile distinguere circa 250 tinte diverse. Eppure Newton suddivise lo spettro in sole sette regioni con sette nomi diversi, e tra questi incluse l'indaco, più per raggiungere il numero simbolico sette che non perché questa tinta corrispondesse a una regione ben definita dello spettro. Esistono però dei nomi di colori che vengono usati con frequenza molto maggiore di altri. Inoltre la frequenza dei nomi dei colori varia da lingua a lingua e da cultura a cultura. Berlin e Kay hanno pubblicato nel 1969 i risultati di una estesa ricerca sul vocabolario dei colori in quasi cento lingue. Essi trovarono che il più semplice lessico dei colori, in linguaggi primitivi, è limitato al bianco e al nero, che però corrispondono piuttosto ai termini chiaro e scuro, poiché servono anche a designare, il primo, oltre al bianco, anche le tinte calde, e il secondo, oltre al nero, anche le tinte fredde. Se il lessico dispone di tre parole per il colore, la terza è sempre il rosso. La quarta parola è o il verde o il giallo, e la quinta il giallo o il verde. La sesta parola è il blu. Notiamo che questi nomi corrispondono a quelli dei colori elementari, che, come abbiamo detto, sono percepiti come unici, cioè non come miscela di altri due colori. Le parole successive, con varia preferenza, sono il marrone, il rosa, il violetto, l'arancione, il grigio. Può stupire forse che, tra i colori elementari, il vocabolo per il blu sia l'ultimo ad apparire. Notiamo, senza per questo voler dare una spiegazione, che nella retina dell'uomo i coni blu sono molto più rari rispetto ai coni rossi e verdi, e inoltre sono assenti dal centro della fovea. A proposito della precocità con cui appaiono i nomi dei colori elementari nei vari linguaggi, è interessante notare che, come riporta il Ratliff, nella lingua araba i vocaboli che designano i colori elementari sono preceduti dal prefisso «a», cosa che non avviene per gli altri colori. Ciò può indicare che questi sei termini appartengono a una fase più antica di sviluppo del linguaggio. Ancora a questo proposito, il Ratliff
riporta lo studio di uno scienzato russo secondo il quale, nello sviluppo del linguaggio dei bambini, i termini rosso, giallo, verde e blu appaiono prima di quelli per l'arancione, il viola e il celeste. Vi sono notevoli differenze di nomenclatura dei colori tra culture diverse, anche contemporanee. Nelle lingue occidentali normalmente le sensazioni neutre di bianco, grigio e nero non vengono classificate come colori. In giapponese, invece, anche il bianco e il nero sono considerati tra i colori, tanto che la fotografia in bianco e nero è chiamata fotografia a due colori. La ricchezza del lessico per i colori è legata anche all'ambiente in cui una cultura si è sviluppata: gli esquimesi, ad esempio, hanno molti nomi diversi per le diverse gradazioni di bianco. Inoltre il lessico è legato all'uso che la persona fa dei colori: certamente il lessico dei pittori è molto più ricco di termini di colore che non quello delle persone comuni.
Un po' di storia del colore in chiaroscuro "Dire que la couleur est redevenue expressive, c'est faire son histoire. Pendent longtemps, elle ne fut qu'un complément du dessin. Raphael, Mantegna ou Duerer, comme tous les peintres de la Renaissance, construisent par le dessin et ajoutent ensuite la couleur locale. Au contraire, les Primitives italiens et surtout les Orientaux avaient fait de la couleur un moyen d'expression. [...] De Delacroix à Van Gogh et principalement à Gaugin en passant par les Impressionistes, qui font du déblaiement, et par Cézanne, qui donne l'impulsion definitive, et introduit les volumes colorés, on peut suivre cette réhabilitation du ròle de la couleur, la restitution de son pouvoir émotif". (H. Matisse, in D. Fourcade, 1972). Gli storici dell'arte fanno notare che vi sono epoche in cui nei dipinti il segno e la forma predominano, e altre in cui l'interesse si sposta maggiormente sul colore. Anche all'interno della stessa epoca ci sono artisti che sono maestri nella rappresentazione della forma e altri che preferiscono affidare al colore i loro messaggi estetici. L'interpretazione del messaggio forma-colore è lasciata, almeno in parte, all'osservatore. Nei pittori prerinascimentali, come Duccio, i Lorenzetti e al limite anche Giotto, i due messaggi forma e colore rimangono relativamente separati. La forma segue modelli relativamente semplici, anche se esteticamente raffinati, mentre il colore è un'aggiunta in gran parte decorativa e simbolica. I pittori di questo periodo amavano usare i colori più preziosi, come l'oro o il puro azzurro oltremare, che acquistavano anche, come abbiamo visto, un valore di messaggio religioso.
Figura 7.17 Andrea Mantegna, L'adorazione dei Magi (1497-1550), particolare. Malibu, J. Paul Getty Museum.
Nel Rinascimento l'interesse si spostò decisamente sul disegno. La prospettiva, questa «nuova» tecnica per rappresentare sul piano la realtà tridimensionale, catturò l'interesse degli artisti. Non che i colori non fossero usati, anzi lo erano in maniera raffinata; ma, in molti casi, vennero utilizzati per aggiungere grazia e profondità, non per trasmettere un messaggio particolare. Vi sono casi esemplari di dipinti di grande valore estetico dove il messaggio è affidato pressoché esclusivamente al gioco del chiaro-scuro (figura 7.17). Quadri con largo uso del colore, come quelli di Raffaello o di Piero della Francesca, mantengono gran parte del loro messaggio estetico anche in una riproduzione in bianco e nero. Si noti che per armonizzare le figure e il paesaggio i pittori veneziani spostarono l'accento sul colore, mentre i loro contemporanei fiorentini usavano l'inquadramento prospettico. L'innovatore fu il maestro
veneziano Giovanni Bellini (1431?-1516), seguito da due suoi grandi allievi, Giorgione e Tiziano. Le riproduzioni in bianco e nero dei dipinti di questi pittori perdono parte della loro bellezza e soprattutto del loro lirismo. Nei secoli successivi, colore e forma ebbero entrambi un peso rilevante, anche se le figure diventarono meno statiche, più inquiete, come nei manieristi. La prospettiva perse la sua egida e le forme si armonizzarono con i giochi di luce e di colore, particolarmente quando si capì che con pochi tocchi di nero si poteva creare nel quadro una grande luminosità. Tra i grandi maestri dei giochi di luce nel xvil secolo vi furono Caravaggio e Rembrandt. È solo in epoca più recente che il colore, in certi movimenti artistici, come nei Fauves, negli astrattisti, negli espressionisti, diventa protagonista, padrone assoluto del quadro. Van Gogh scrive: "Il colore esprime qualcosa di per sé". Ancora Van Gogh, a proposito del quadro che rappresenta la sua camera ad Arles, scriverà al fratello Theo: "[...] qui il colore deve far tutto [...] dovrà suggerire il riposo o il sonno in generale". Cézanne, come scrive Matisse, creerà volumi solo di colore e aprirà la strada ai coloristi per eccellenza, come Matisse stesso e i Fauves. In questi ultimi il colore diventa libero, elimina ogni riferimento alla natura, è messaggio di per sé, energia cromatica. Nei quadri di Matisse, di Derain e dei pittori dello stesso movimento, non si può togliere il colore senza impoverire in maniera sostanziale il messaggio estetico del quadro. Matisse decise di dipingere la prima versione della sua Danza, ora a New York, con tre soli colori e la descrive così: "Un bel blu per il cielo, il blu dei blu, un verde per la terra e un vermiglio vibrante per i corpi". Per altri pittori dello stesso periodo il colore non ebbe invece un ruolo essenziale. Picasso, contemporaneo di Matisse, non fu un colorista e il suo interesse rimase profondamente legato alla struttura della materia. Nei dipinti del suo periodo iniziale, il periodo blu, anche se il colore aggiunge una nota malinconica, le figure senza il colore non perdono la loro bellezza. Con l'avvento della pittura astratta l'oggetto può sparire completamente dal quadro, la cui armonia viene totalmente organizzata intorno al colore. Kandinskij, nel suo Lo spirituale nell'arte, metterà in rilievo gli effetti psicologici del colore puro, così che "il rosso può colpirci come uno squillo di tromba". È ovvio che nei quadri astratti di Kandinskij, così come in quelli degli altri pittori di questo movimento, il colore è usualmente così importante che il quadro senza questo perde addiritttura significato (figura 7.18).
Figura 7.18 Vassilij Kandinskij, Giallo-rosso-azzurro (1925). Parigi, Museo nazionale d'arte moderna Centro Georges Pompidou. Donazione Nina Kandinskij. Originale, a colori, e riproduzione in bianco e nero.
Con gli espressionisti tedeschi, particolarmente con quelli del movimento die Briicke, il colore assume valore emozionale, oltre che simbolico, atto di per sé a rappresentare gli elementi del mondo soggettivo (figura 7.19). Le riproduzioni di quadri in bianco e nero che abbiamo riportato avevano lo scopo di mostrare al lettore l'importanza del colore come
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Figura 7.19 Karl Schmidt-Rottluff, La casa nera (1958). Berlino, collezione privata. L'importanza del colore è dimostrata dal confronto con la riproduzione in bianco e nero.
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messaggio estetico. Dire dal punto di vista della scienza della visione o del cervello come mai questo messaggio, così palesemente importante, sia tale, è attualmente impossibile. È una constatazione che attende una spiegazione per ora ancora nascosta nei misteri del funzionamento cerebrale. Scrive Matisse: "La couleur contribue à exprimer la lumière, non pas le phénomène physique, mais la seule lumière qui existe en fait, celle du cerveau de l'artiste". Precedentemente abbiamo spiegato come l'informazione sul colore sia trasmessa ed elaborata separatamente lungo le vie visive e come esista un'area corticale principalmente dedicata al colore. Esistono rare patologie della corteccia cerebrale, dette di «acromatopsia pura», in seguito alle quali il paziente perde la visione del colore, ma mantiene intatta la visione delle forme. Ciò indica che le informazioni sulla forma e sul colore, almeno fino a un certo stadio lungo le vie visive, rimangono relativamente separate. Forse non è così sorprendente che in alcuni pittori e in alcune epoche il colore giochi un ruolo essenziale, mentre in altri questo ruolo sia proprio della forma. Si potrebbe pensare che in alcuni domini la parte di corteccia cerebrale delegata al colore, in altri quella della forma.
CAPITOLO 8 IL CERVELLO BAMBINO E L'INFANZIA DELL'ARTE Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem. (Comincia, bambino, a riconoscere la mamma dal sorriso) Virgilio, Egloga IV, 60.
Sviluppo del cervello dell'uomo
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ran parte dello sviluppo del cervello dell'uomo avviene nel grembo della madre. Molte delle strutture cerebrali sono già in stato di avanzata maturazione alla nascita. La figura 8.1 illustra la crescita delle dimensioni e della complessità del cervello del nascituro, da poco dopo il concepimento fino al termine della gravidanza. Le fasi iniziali dello sviluppo sono abbastanza simili a quelle che si verificano in altri mammiferi. L'enorme aumento delle dimensioni del cervello durante la vita embrionale (intrauterina) è dovuto all'aumento del numero dei neuroni, delle loro connessioni e delle altre strutture di sostegno. Considerando che un cervello al termine dello sviluppo contiene circa 100 miliardi di neuroni, si può calcolare che durante lo sviluppo vengono prodotti in media 250 000 neuroni per minuto. Questo numero enormemente grande è in realtà una sottovalutazione, perché non tiene conto di un altro processo molto importante che è alla base della formazione delle strutture cerebrali. Vi è infatti durante la vita embrionale una larga sovrapproduzione di neuroni, che a un certo punto dello sviluppo sono in numero molto maggiore rispetto a quello che si riscontrerà nella fase terminale. Questo avviene perché solo una parte dei neuroni generati trova condizioni di sopravvivenza; gli altri muoiono. Ad esempio, le cellule gangliari della retina durante la vita embrionale raggiungono un numero di quattro milioni e mezzo. Di queste ne sopravvive soltanto un 30%: dopo la nascita, dunque, il loro numero è circa di un milione e duecentomila.
! primi disegni dei bambini prevalgono i contorni ti e le hnee parallele.
I fattori che regolano questo processo di morte cellulare sono di tipo competitivo: i neuroni competono tra loro per assicurarsi sostanze nutritive. Solo quelli che hanno successo in questa competizione riusciranno a sopravvivere e a stabilire connessioni appropriate con gli altri
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CAPITOLO 8
35 giorni
25 giorni
7 mesi
6 mesi
5 mesi
8 mesi
9 mesi
Figura 3.18 (a sinistra) Cimabue, Madonna col bambino in trono (1280). Firenze, Galleria degli Uffizi.
Figura 3.19 (a destra) Giotto, Madonna col bambino in trono (1310 circa). Firenze, Galleria degli Uffizi.
Eppure la figura appare imponente e non ci viene neanche per un momento il dubbio che tale figura sia ben lontana dalla rappresentazione realistica di un uomo. La Madonna di Cimabue (figura 3.18), che è lì accanto e che è solo di poche decine d'anni posteriore ai precedenti dipinti, o quella di Duccio nella parte opposta della stanza, mostrano una rappresentazione grafica molto diversa. Il segno qui lo si ritrova dominante solo m alcune parti della rappresentazione del personaggio, come le mani, ma il resto della figura è un armonico continuo di vesti e membra dove non si nota mai l'elemento di discontinuità, di frattura introdotto dai segno. E ciò è ancora più evidente nella Madonna di Giotto (fig ura 3-19) e poi nelle figure del Rinascimento delle sale successive.
IL CERVELLO BAMBINO E L'INFANZIA DELL'ARTE
Figura 8.1 Sviluppo del cervello dell'uomo. Le dimensioni di ogni figura sono circa 4/5 di quelle reali. Si nori tuttavia che le prime fasi di sviluppo rappresentate nella riga in alto sono riprodotte a maggior ingrandimento nella seconda riga per chiarezza. Si noti l'eccezionale crescita della parte anteriore del cervello (proencefalo) dalle fasi iniziali a quelle in cui dà origine agli emisferi cerebrali, (da Purves e Lichtman, 1985).
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neuroni. Queste connessioni continueranno a modificarsi anche dopo la nascita, principalmente sotto l'influenza dell'esperienza sensoriale. L'informazione genetica che controlla lo sviluppo nel mammifero è contenuta in circa 100 000 geni, mentre il numero delle connessioni nervose nel cervello dell'uomo può raggiungere IO 15 (un milione di miliardi). Si deve supporre che durante lo sviluppo del sistema nervoso vengano attivati particolari sottogruppi di geni (in maniera combinatoria), controllati in parte da fattori interni e in parte da fattori ambientali esterni. Lo sviluppo del cervello non termina alla nascita: prosegue ancora per un tempo apprezzabile, dell'ordine di anni, e diverso per le diverse strutture. Nella corteccia cerebrale il numero delle connessioni nervose aumenta notevolmente dopo la nascita raggiungendo un massimo nel secondo semestre di vita, per poi diminuire e stabilizzarsi verso i dieciundici anni a un livello che resterà costante per il resto della vita. Lo sviluppo delle connessioni sinaptiche e la loro successiva riduzione con l'età seguono lo stesso corso in tutta la corteccia cerebrale, sia nelle aree sensoriali e motorie sia in quelle ritenute responsabili di attività cerebrali più complesse, come la corteccia frontale. Per quanto riguarda invece lo sviluppo della funzione delle varie regioni cerebrali nel primo periodo dopo la nascita, recenti osservazioni basate sulla misura del metabolismo cerebrale indicano che l'attività nervosa è già matura nel primo mese di vita nelle strutture sottocorticali, come il tronco dell'encefalo e il talamo, e nella corteccia sensorimotoria; l'attività delle aree corticali visive comincia invece a svilupparsi più tardi e prosegue più lentamente. Più tardivo ancora è lo sviluppo dell'attività delle aree frontali. Questo sviluppo corrisponde al modificarsi del comportamento e di altri indici dell'attività cerebrale, come l'elettroencefalogramma. I primi segni di quell'attività ritmica cerebrale, chiamata ritmo alfa, appaiono nell'elettroencefalogramma del bambino intorno ai due o tre mesi di vita. L'età in cui si osserva un aumento dell'attività corticale rispetto ai centri sottocorticali, corrisponde all'età in cui i movimenti degli arti diventano più coordinati. Analogamente vi è corrispondenza tra l'aumento delle attività corticali e lo sviluppo delle funzioni cognitive con una più attiva interazione del bambino con l'ambiente. Il peso complessivo del cervello sembra raggiungere il valore dell'adulto (circa un kilogrammo e mezzo nell'uomo e un poco meno nella donna) verso il terzo anno di vita.
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Sviluppo della visione Come vede un bambino nei primi giorni di vita? La sua visione è simile a quella dell'adulto? Se non lo è, quando e come si sviluppa la sua capacità di vedere? Si può affermare con sicurezza che la visione del neonato è immatura e che il tempo richiesto per un suo completo sviluppo è assai lungo; per certi aspetti, è di diversi anni. Allo sviluppo del mondo visivo del bambino contribuiscono vari fattori. L'occhio del neonato, anche se più piccolo di quello dell'adulto, è già adeguato dal punto di vista ottico a formare delle immagini sulla retina. La grandezza dell'occhio cresce dopo la nascita, ma relativamente poco rispetto all'aumento del resto del corpo: mentre il corpo cresce in volume circa venti volte, l'occhio aumenta in volume solo due o tre volte dalla nascita all'età adulta, e la maggior parte di questo sviluppo avviene nei primi due anni di vita. Quella che cambia più notevolmente dopo la nascita è la componente nervosa del sistema visivo, a partire dalla retina. In particolare nella retina del neonato non è ancora presente la fovea; i coni della zona centrale della retina sono più tozzi e assai più radi che nell'adulto. Occorrono alcuni anni per una completa maturazione della retina. Anche per la maturazione delle altre parti del sistema nervoso visivo occorrono tempi comparabili. È interessante ricordare che il numero dei contatti sinaptici tra i neuroni della corteccia visiva primaria aumenta in maniera esplosiva nel primo anno di vita, per poi diminuire e raggiungere verso gli undici anni un valore che resterà poi costante nell'età adulta. Questo sviluppo anatomico del sistema visivo ha ovviamente dei risvolti funzionali sullo sviluppo della visione. L'ovvia conseguenza dell'immaturità della retina alla nascita, e in particolare della fovea, è il basso valore dell'acuità visiva nel neonato: essa è oltre dieci volte inferiore a quella di un adulto (un metodo per la misura dell'acuta visiva nei lattanti è rappresentato in figura 8.2). Dal punto di vista visivo ciò significa che il neonato vede con difficoltà anche le lettere più grandi di una tabella ottotipica, del tipo di quelle usate dagli oculisti per la misura della vista. L'acuità visiva migliora rapidamente nel primo anno di vita, avvicinandosi ai valori dell'adulto; questi però verranno raggiunti completamente solo verso i tre, quattro anni. Vi sono altre proprietà della visione, oltre l'acuità visiva, che si sviluppano nel primo anno di vita (figura 8.3). Qui ci limitiamo a descrivere alcune proprietà che sono di maggiore interesse per quanto riguarda la rappresentazione pittorica. La visione cromatica ha uno sviluppo abbastanza precoce. Già a quattro mesi il bambino sembra mostrare la suddivisione dello spettro
Figura 8.2 Come si misura l'acuità visiva dei bambini nel primo anno di vita. Di fronte a due campi ugualmente luminosi, di cui però uno è uniforme e l'altro contiene delle righe chiare e scure, il bambino si orienta verso il campo con le righe. Variando la larghezza delle righe in successive prove, si può valutare quali sono le righe più fini che il bambino riesce a vedere, (da «Acta Ophthalmologica», Suppl. 157, 1982).
CD Stereotipi
n
Movimento
Colore
Acuità visiva
4
6
8
Età (mesi) Figura 8.3 Indicazione schematica dell'età in cui iniziano a manifestarsi certe proprietà visive nel bambino. L'inizio delle prime tre sbarre indica l'età in cui comincia a manifestarsi la stereopsi binoculare, la discriminazione dei colori e la discriminazione della direzione di movimento. La quarta sbarra indica schematicamente il progressivo sviluppo dell'acuità visiva a partire dai primi giorni di vita.
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in categorie cromatiche corrispondenti alle quattro tinte «uniche» dell'adulto: rosso, giallo, verde e blu. Le proprietà dei pigmenti dei fotorecettori sono simili a quelle dell'adulto già alla fine del primo mese di vita. Non è così invece per quanto riguarda i meccanismi neurali di opponenza cromatica che sembra siano immaturi alla nascita ma già presenti, anche se non completamente sviluppati, a tre mesi di vita. La capacità di discriminare tra stimoli che differiscono solo per il loro colore (e non per la loro luminosità) è praticamente assente nel neonato e si manifesta nel secondo mese di vita, a patto che gli stimoli siano di dimensioni sufficientemente grandi. La capacità di discriminare i colori si sviluppa progressivamente con l'età, ma non è ancora noto quando si raggiunga la fine capacità di discriminazione dell'adulto, sia per la tinta che per la saturazione. Un diverso andamento di sviluppo con l'età ha invece quel particolare aspetto della visione binoculare che consente la percezione della profondità. Questa proprietà della visione è del tutto assente nei primi mesi di vita e si manifesta quasi repentinamente verso i quattro mesi, per poi perfezionarsi lentamente negli anni successivi. Questo diverso andamento temporale della stereopsi, rispetto per esempio allo sviluppo dell'acuità visiva (figura 8.3) riflette certamente fenomeni di maturazione che avvengono a livello corticale, là dove convergono le vie visive dei due occhi. Per quanto riguarda la visione della profondità sulla base di indizi monoculari di distanza, i cosiddetti «indizi pittorici», questa capacità sembra svilupparsi tra i cinque e i sette mesi dalla nascita. Tuttavia risposte comportamentali a oggetti che si muovono nello spazio nel sen-
so della profondità o che simulano un movimento di avvicinamento sono presenti molto precocemente, probabilmente perché rappresentano un meccanismo di difesa. Per esempio, bambini di due settimane ritraggono la testa e piangono davanti a un oggetto che si avvicina; essi hanno un analogo comportamento nei confronti di una simulazione dello stesso fenomeno, rappresentato da un'ombra che, ingrandendosi su uno schermo, simula un oggetto che si avvicina. Non vi è invece nessuna reazione per un'ombra che si rimpicciolisce e simula un oggetto che si allontana. Per quanto riguarda lo sviluppo della percezione delle forme, va premesso che le ricerche in questo campo presentano notevoli difficoltà sperimentali e di interpretazione. Si può tuttavia affermare che, nelle prime settimane di vita, un bambino sembra discriminare tra figure diverse: ad esempio, tra una figura che contiene elementi di contrasto e una che non li contiene. Un neonato, ad esempio, guarda più a lungo una figura ovale contenenente dei particolari (occhi, bocca, ecc.) che rappresenta schematicamente una faccia, che non una figura di uguale forma ovale ma senza particolari. Questa discriminazione non si riferisce alla faccia in quanto tale, ma piuttosto agli elementi presenti nella figura. La capacità di discriminare la faccia come tale si comincia a manifestare dai due mesi in poi. La faccia è uno stimolo che ha una valenza emotiva per il bambino e la sua percezione è stata studiata, ad esempio, osservando la sua capacità di suscitare il sorriso. Risposte evidenti di sorriso appaiono verso il terzo mese sia per facce fotografate sia per facce schematiche. A cinque mesi il bambino dà già indicazioni di saper riconoscere il viso di una persona dalla sua fotografia. A sette-otto mesi egli diventa capace di riconoscere una faccia anche quando questa è vista sotto angolazioni diverse, di fronte, di profilo, ecc. Anche l'accomodazione per la visione a diverse distanze e la convergenza binoculare sono immature nel neonato: nelle prime settimane di vita il bambino tende a focalizzare a distanze ravvicinate, inferiori al metro, i suoi movimenri oculari di fissazione sono lenti e imprecisi, i movimenti dei due occhi non sono ben coordinati. Contemporaneamente allo sviluppo sensoriale avviene però anche uno sviluppo motorio. L'accomodazione si perfeziona alla fine del secondo mese; i movimenti oculari hanno una maturazione che si protrae più a lungo, ma sempre all'interno dei primi mesi di vita. Queste conoscenze sull'immaturità alla nascita e sul successivo sviluppo sia delle funzioni oculari motorie sia delle capacità visive che sono alla base della percezione dello spazio permettono di ipotizzare che il mondo visivo del neonato sia limitato a uno spazio molto ristretto intorno a lui, probabilmente quello che racchiude in sé il volto e il seno
IL CERVELLO BAMBINO E L'INFANZIA DELL'AKTE
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della nutrice. Questo mondo visivo si allarga poi progressivamente via via che si sviluppano le funzioni che permettono di valutare la distanza relativa degli oggetti: in un primo tempo la stereopsi binoculare, che è rilevante ancora solo in un ambito limitato di distanze, e poi gli indizi monoculari, come la prospettiva, l'interposizione, ecc., che sono efficaci anche per la percezione in un raggio più grande di distanze. Parlando della simulazione pittorica della terza dimensione dello spazio, abbiamo fatto notare che gli indizi pittorici di distanza, tra cui la prospettiva, sono particolarmente efficaci in visione monoculare. Quando si guarda invece il quadro con due occhi, gli indizi binoculari che indicano che il quadro è una superficie tendono a contraddire gli indizi monoculari e quindi ad attenuarne l'efficacia. Questo avviene anche nel bambino. In visione monoculare egli mostra preferenza per una forma più grande rispetto a una più piccola o per una forma che apparentemente ne copre un'altra, benché le forme siano disegnate su una stessa superficie, e questo indica che la forma più grande o quella che ne copre un'altra gli appare più vicina. Ma questa preferenza scompare in visione binoculare, evidentemente perché l'indizio binoculare per la visione della profondità è più potente di quelli monoculari.
Sviluppo ed esperienza sensoriale L'esperienza ha un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema nervoso; in particolare, l'esperienza visiva è essenziale per lo sviluppo delle proprietà della visione. Se l'esperienza sensoriale è assente nel periodo che segue la nascita, lo sviluppo del sistema nervoso è del tutto anormale. Questo non deve far credere però che il cervello alla nascita sia una tabula rasa, completamente priva di informazioni capaci di regolare il suo sviluppo. In realtà le ricerche moderne di neurobiologia hanno accertato che gran parte delle proprietà strutturali e funzionali del cervello o sono già presenti alla nascita o il loro sviluppo è determinato geneticamente. I meccanismi di sviluppo tuttavia sono solo potenzialmente predeterminati; l'esperienza è essenziale per innescarne l'avvio e per affinarne il risultato. Ciò vale per tutte le modalità sensoriali. Noi considereremo in particolare la visione che è la modalità sensoriale di gran lunga più studiata. Che l'esperienza visiva abbia un ruolo importante nello sviluppo della visione risulta evidente dai casi in cui l'animale o l'uomo è stato privato di questa esperienza per un periodo più o meno lungo dopo la nascita. Nell'animale, ad esempio nella scimmia, il problema è stato studiato su dei piccoli cresciuti in un ambiente buio; nell'uomo la deprivazione sensoriale visiva si può verificare per ragioni patologiche. I
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CAPÌTOLO 8
casi di maggior rilievo dal punto di vista scientifico sono quelli in cui la causa di cecità del neonato può essere rimossa. Ciò avviene in particolare nei bambini che nascono con la cataratta in entrambi gli occhi. La cataratta, che è un'opacizzazione della lente dell'occhio (il cristallino) impedisce ogni visione delle forme. Fino a pochi anni fa, i nati con cataratta bilaterale venivano operati in età scolare o addirittura verso i dieci anni. Il bambino, appena eseguita l'operazione, riacquistava la trasparenza dei mezzi dell'occhio, ma rimaneva incapace di vedere. Possiamo domandarci cosa succeda della visione di questi bambini ciechi dalla nascita e operati di cataratta dopo alcuni anni. Poco dopo l'operazione i pazienti cominciano a distinguere zone più chiare e più scure nel campo visivo, ma sono incapaci di identificare gli oggetti. Dopo alcuni giorni sono in grado di distinguere dei colori. Da questo punto in poi il miglioramento è molto lento e in alcuni soggetti assai scoraggiante. Altri riescono a raggiungere la capacità di riconoscere delle semplici forme geometriche, singole lettere o numeri, e riconoscere disegni come ad esempio quelli che rappresentano una faccia. Spesso manca per lungo tempo la capacità di riconoscere l'oggetto nella sua globalità; per identificarlo, i soggetti ricorrono all'esame dei suoi singoli elementi, di frequente con risultati erronei. Riesen riporta il caso di una bambina di dodici anni a cui alcuni mesi dopo l'operazione fu mostrato il disegno di un animale che essa chiamò "cammello", aggiungendo "perché ha una gobba". La gobba era in realtà la pinna dorsale di un pesce. Gli effetti negativi della deprivazione sensoriale sono tanto più gravi quanto più prolungato è il periodo di deprivazione. Se questo è limitato a una breve durata, gli effetti della deprivazione sono recuperabili completamente o almeno in parte. Questa è la ragione per cui attualmente i bambini con cataratta congenita vengono operati nei primi mesi di vita. Un caso interessante è quello di un paziente cieco dalla nascita per opacità corneale e operato di trapianto di cornea a cinquantadue anni. Immediatamente dopo l'operazione il paziente era capace di vedere le cose che aveva conosciuto attraverso il tatto quando era cieco. Per gli oggetti per cui non aveva questa esperienza tattile acquistò la capacità di vedere solo molto lentamente e mai completamente. È interessante in questo caso lo studio del trasferimento di una percezione tattile alla visione. Gli esperimenti sugli animali, in particolare quelli sugli scimpanzé allevati al buio, hanno dimostrato un deterioramento delle capacità visive simile a quello dell'uomo. Inoltre questi esperimenti hanno permesso di precisare che l'allevamento al buio, e quindi l'assenza di esperienza visiva, impedisce lo sviluppo del sistema nervoso visivo non
IL CERVELLO BAMBINI' E. Ì. n\ir/-uxi^i/i U E L L rtrtiE
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tanto a livello della retina quanto a livello cerebrale, in particolare della corteccia. Un altro caso di anormale esperienza visiva in età precoce è quello che si presenta quando i due occhi sono notevolmente diversi tra loro dal punto di vista ottico, per esempio quando uno è normale e l'altro è miope, oppure quando gli assi visivi dei due occhi non convergono normalmente sull'oggetto fissato, come nei casi di strabismo. Spesso in questi casi uno dei due occhi viene penalizzato e le sue capacità visive non si sviluppano normalmente. Il deficit più notevole è una diminuizione drastica della vista che non migliora neppure con gli occhiali: l'occhio indebolito nella sua capacità visiva, si dice ambliope. Poiché sia lo strabismo sia la diversità di difetti visivi nei due occhi sono relativamente frequenti nei bambini, il loro studio è stato importante per definire entro quali limiti di età devono essere rimosse le cause dell'ambliopia per renderne possibile il recupero. Si ritiene che il recupero sia possibile almeno parzialmente se si interviene opportunamente nei primi anni di vita e che esso sia tanto più soddisfacente quanto più precoce è l'intervento correttivo. Per questa ragione i casi di strabismo vengono, se necessario, operati nel primo anno di vita.
Il disegno nel bambino Lo sviluppo del disegno nel bambino presenta una lunga fase evolutiva ampiamente trattata da Maureen Cox nel suo volume Children's Drawings of the Human Figure, a partire da uno-due anni circa di età il bambino comincia a tracciare i primi scarabocchi. All'inizio questi sono forse più il risultato di una espressione motoria che figurativa. È il gesto che rappresenta, più c h e il suo risultato. Questa fase del disegno del bambino si può chiamare rappresentazione gestuale. Successivamente, tra i diciotto e i trenta mesi, il bambino comincia a interpretare i segni fortuiti dei propri scarabocchi: è la fase del realismo fortuito. A questa età i bambini cominciano a controllare meglio i loro movimenti, così da produrre occasionalmente delle forme chiuse approssimativamente circolari. Queste vengono più facilmente interpretate come oggetti, animali ecc. Per Arnheim le forme circolari sono una delle forme primitive primarie del bambino. Segue, verso il terzo arino di vita, una fase in cui il bambino si propone espressamente una rappresentazione figurativa, e inizialmente la realizza mediante forme stereotipe. A questa età il bambino si accorge della potenzialità del disegno nel rappresentare, anche se i suoi stereotipi sono ancora molto primitivi. Ad esempio la figura umana è la nota «figura del girino» schematizzata in un cerchio per la testa e in due o
Figura 8.4 (a sinistra) Disegni di bambini rappresentanti la figura umana «a girino», (da C. Ricci, L'Arte dei bambini, Zanichelli, Bologna, 1887).
Figura 8.5 (a destra) Disegno di una bambina di cinque anni e mezzo, rappresentante dei personaggi che camminano sui fianchi della montagna. Si noti la mancanza di una rappresentazione spaziale convenzionale: i bambini e gli alberi sono perpendicolari al fianco della montagna.
più tratti per gli arti, generalmente per le gambe (figura 8.4). Alcuni sostengono che questo avviene perché la testa e le gambe sono per il bambino le parti più importanti della figura umana. C'è poi una fase di transizione in cui vengono creati nuovi tipi con l'aggiunta intenzionale di dettagli. Nel caso della figura umana, questi possono essere il torso, che di solito è un altro ovale, poi le braccia, i piedi o le mani. Il bambino annuncia in anticipo che cosa vuole rappresentare, i dettagli che aggiunge però sono spesso fuori posto o orientati in modo non corretto. L'ipotesi più generale è che il disegno del bambino sia la rappresentazione di un modello interno di ciò che vuole raffigurare, e non un tentativo di riprodurre gli oggetti o le figure reali come li vede. Verso i cinque anni si passa a uno stadio cosiddetto di realismo intellettuale in cui il bambino sceglie le parti importanti di un oggetto o di un animale per definire ciò che vuole rappresentare, per esempio i baffi per un gatto. Successivamente ogni parte diviene chiara ed esemplare, cioè capace di rappresentare la categoria dell'oggetto, e tuttavia non c'è ancora alcun tentativo di rappresentazione spaziale corrispondente a ciò che si vede (figura 8.5). Infine si passa al realismo visivo, quando ad esempio si rappresentano le figure umane di profilo con un solo occhio, ecc. Nella figura 8.6 è riportato un disegno della stessa bambina di figura 8.5 eseguito all'età di sette anni. Si noti il corretto rapporto delle dimensioni spaziali e la rappresentazione dinamica delle figure dei due cani.
Figura 8.6 Disegno di una bambina di sette anni (la stessa del disegno di figura 8.5) che rappresenta lei stessa mentre gioca con i suoi cani.
Cerchio
Cerchio
Triangolo
Ellisse
Quadrato
Triangolo
Cerchio
Croce
Quadrato
Ellisse
(e)
Quadrato
Rettangolo
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Figura 8.7 Sviluppo della capacità dei bambini di copiare figure geometriche. te) All'inizio tutte le forme chiuse vengono ra ppresentate da un cerchio. (b) Più tardi si distingue tra forme curve e forme con angoli. ' c ) Infine si distinguono più accuratamente tutte le f °tme. (daCox, 1993).
Questi schemi di sviluppo del disegno vanno intesi solo in maniera indicativa. Ovviamente vi possono essere stadi intermedi, oppure a una certa età possono manifestarsi contemporaneamente più fasi di sviluppo. Inoltre, come è da attendersi, vi sono notevoli variazioni individuali sia nella precocità dello sviluppo sia nella acquisizione di una capacità rappresentativa. I disegni di Nadia, che riportemo in un altro capitolo, sono esempi di uno sviluppo del disegno eccezionalmente precoce. Ciò che abbiamo detto fin qui riguarda il disegno spontaneo. Ma anche la capacità di copiare forme geometriche piane o solide si sviluppa con l'età. Secondo Piaget, quando i bambini cominciano a tentare di disegnare forme geometriche, tendono a suddividerle semplicemente in forme chiuse (cerchio, quadrato, ecc.) e in forme aperte (croce, ferro di cavallo). Essi rappresentano tutte le forme chiuse con una linea grossolanamente circolare. Più tardi cominciano a distinguere tra forme chiuse curve e forme chiuse con angoli, e rappresentano le prime con un cerchio e le seconde con un quadrato, senza altre distinzioni. Infine arrivano a suddividere ulteriormente queste categorie disegnando correttamente, per esempio, dei quadrati, dei triangoli, delle forme ovali (figura 8.7). Copiare oggetti tridimensionali è ovviamente più difficile, anche se il modello è una fotografia o il disegno di un corpo solido. I tentativi di rappresentare la figura solida in prospettiva sono scarsi nell'età prescolare e più frequenti, oltre che più corretti, verso gli otto anni.
Figura 8.8 (a) «Figure a testa di spillo» disegnate da bambini della tribù Bemba in Rodesia. (b) Uomo di profilo disegnato da un bambino Maori (Nuova Zelanda) di cinque anni. (e), (d) «Figure a catena» disegnate da una bimba di sei anni del Congo Belga e da un bambino indiano della stessa età. (da Cox, 1993).
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(a)
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(d)
Gli stadi di sviluppo del disegno che abbiamo descritto si riferiscono alla civiltà occidentale, e non sono direttamente estendibili ad altre culture. Ad esempio lo «stadio del girino», o comunque la rappresentazione della figura umana con la testa approssimativamente circolare, non si ritrova nei disegni di bambini di alcune regioni dell'Africa, che invece rappresentano la testa con una macchiolina piena; sono le cosiddette «figure a testa di spillo» (figura 8.8a). In altre culture, anziché disegnare i dettagli della testa e del corpo all'interno di un contorno chiuso, le figure umane vengono rappresentate come «catene» in cui ogni parte del corpo dalla testa ai piedi segue ad un'altra lungo una linea verticale (figura 8.8c, d). Sotto altri aspetti certe culture sembrano mostrare stadi più precoci di sviluppo. Per esempio, l'abilità nel disegno dei bambini cinesi sembra essere notevolmente più sviluppata rispetto ai bambini occidentali. Questo può essere dovuto alla considerazione in cui vengono tenute le arti grafiche nella cultura cinese e nel precoce apprendimento a cominciare dalla scuola materna. In altre culture si è notato che la tendenza a disegnare di profilo le figure umane si afferma già tra i cinque e i sette
LA FINESTRA SUL M O N D O E IL L I N G U A G G I O DEL SEGNO
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Se dopo queste osservazioni si sposta lo sguardo sui visitatori, e ci si domanda se anche le loro figure appaiano delimitate da segni marcati e netti, ci si accorge che ciò non è vero. Al contrario non si vedono che superfici che si incurvano e i cui contorni quasi sfumano al contatto con lo sfondo che le delimita. Nessuna traccia di quel segno che rappresenta così bene le braccia del Cristo. Di fatto la percezione delle figure reali è molto simile a quella delle figure di Giotto o ancora di più. a quelle rinascimentali. Nella prima sala degli Uffizi si ha come una progressione graduale verso l'immagine realistica. Nella pittura del Rinascimento e delle epoche successive le linee di contorno perdono sempre più di importanza, mentre acquistano rilievo quegli aspetti figurativi che meglio simulano le immagini sensoriali visive. Fino ad arrivare, con gli impressionisti, alla voluta accentuazione degli aspetti sensoriali delle immagini, con la quasi totale scomparsa delle linee di contorno. I contorni torneranno a dominare in periodi successivi, quando la pittura si farà più intellettualistica e tenderà a rappresentare prevalentemente simboli e concetti, come nell'astrattismo e nel cubismo.
-ir Figura 8.9 Figure disegnate da bambini (in alto) e da adulti (in basso) viventi in un'area rurale della Turchia, (da Cox, 1993).
Bambina di 3 anni
Bambino di 6 anni
Donna di 21 anni Donna di 23 anni
anni, cioè a una età più precoce che per la maggioranza dei bambini occidentali (figura 8.8b). Tutto ciò indica che c'è un'influenza dell'ambiente culturale del bambino sulla precocità del suo sviluppo nel disegno, e anche negli stereotipi scelti per rappresentare la figura umana. Peraltro, insieme ai fattori ambientali sembra che possano giocare un certo ruolo anche i fattori innati. Lo sviluppo di cui abbiamo parlato si riferisce infatti a bambini a cui siano offerte occasioni di disegnare fin da piccoli. Se questa esperienza non avviene può accadere che gli adulti nei loro primi tentativi di disegno producano figure corrispondenti agli stadi iniziali del disegno nel bambino. Uno studio su un gruppo di adulti cresciuti in ambienti rurali della Turchia, con nessuna esperienza di disegno e scarsa esposizione a figure e immagini grafiche, ha dimostrato che molti di questi adulti disegnavano figure con un grado di ingenuità molto maggiore che non adulti della stessa età cresciuti nell'ambiente urbano. Nella rappresentazione della figura umana, molti di questi adulti producevano le figure schematiche tipiche dei bambini nelle prime fasi di sviluppo del disegno (figura 8.9). Anche nella riproduzione di figure geometriche, adulti illetterati usano soluzioni tipiche dell'infanzia (figura 8.10). Tutto questo potrebbe indicare che certi stadi precoci della rappresentazione figurativa sono determinati anche da fattori innati e che questi fattori rimangono determinanti nello sviluppo del disegno anche in età adulta. Figura 8.10 Il disegno di un cubo eseguito da un abitante dell'isola di Solomon. (da Deregowski, in Gregory e Gombrich, 1973).
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Come disegnano i ciechi Disegnare non è necessariamente un'arte visiva. Anche i ciechi dalla nascita possono disegnare se incoraggiati a farlo e aiutati da opportune strumentazioni che facilitino i riferimenti tattili. Ovviamente il disegno di un oggetto di una data forma geometrica o di una figura umana o di animale è la rappresentazione di una esperienza acquisita dal cieco attraverso altre modalità sensoriali. Può avvenire quindi che il disegno dia un esagerato rilievo a certe parti della figura in una misura che non corrisponde alle proporzioni reali così come verrebbero percepite visivamente. Si osservi ad esempio nella figura 8.1 l(a) l'esagerata grandezza della testa e nella figura 8.1 l(b) l'eccessiva lunghezza delle braccia. La figura 8.1 la è il disegno eseguito da un bambino cieco di circa undici anni che soffriva di mal di testa; la figura 8.1 lb rappresenta il tentativo di cogliere dei frutti da un albero e quindi lo sforzo delle braccia protese verso l'alto. Anche nei bambini ciechi dalla nascita vi è uno sviluppo della capacità di disegnare, come risulta da uno studio sistematico del disegno della figura umana in bambini ciechi dalla nascita che eseguivano queFigura 8.11 Disegni di bambini di circa undici anni ciechi dalla nascita. Il disegno (a) è intitolato Mai dì testa. Il disegno (b) rappresenta il bambino che tende le braccia per raccogliere le frutta dell'albero, (da Loewenfeld e Brittain, 1964).
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sto compito per la prima volta. Nei bambini del gruppo di età media di circa sei anni, i disegni erano molto primitivi e spesso ridotti a semplici scarabocchi. Nei bambini più grandi, con una età media di dieciundici anni, le figure erano assai più complete (figura 8.12a, e) e più paragonabili a quelle prodotte da bambini normali che disegnavano con gli occhi coperti (figura 8.12b, d). L'anomalia più evidente nei disegni dei bambini ciechi è una non corretta posizione relativa delle parti della figura, anche se errori di questo tipo si verificano pure nei disegni dei bambini normali con occhi coperti. Nei ciechi però si può arrivare anche a totali inversioni della figura rispetto a posizioni per noi convenzionali (figura 8. 12c). Evidentemente certe convenzioni figurative, come quella di disegnare il pavimento in basso nel foglio, vengono normalmente acquisite dai bambini mediante l'esperienza visiva di rappresentazioni figurative e sono quindi relative all'ambiente culturale in cui il bambino cresce. I disegni dei bambini ciechi (dieci-undici anni), così come quelli di bambini normali in un'età più precoce (prime fasi di sviluppo del disegno) non sono correlati direttamente con una realtà percepita attraverso la visione; sono piuttosto l'espressione di schemi e modelli innati o Figura 8.12 Disegni di figure umane eseguite da bambini di circa undici anni (a, b) e circa nove anni (e, d). I disegni a sinistra (a, e) sono stati fatti da bambini ciechi dalla nascita. Quelli a destra (b, d) da bambini normali a cui erano stati coperti gli occhi (da Millar, 1975).
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acquisiti attraverso esperienze non necessariamente visive. Questi disegni presentano nella loro espressione concettuale somiglianze con i disegni di popoli le cui rappresentazioni figurative non si proponevano di raffigurare la realtà così come la vedevano. Nel disegno di un cieco riportato in figura 8.13, il modo di rappresentare gli alberi ai due lati di una strada ricorda quello usato dagli Egiziani per rappresentare gli alberi tutt'intorno al bordo di un giardino.
Il disegno nelle culture primitive I più antichi disegni che si conoscano hanno circa 30 000 anni e sono stati ritrovati nei pressi di un villaggio sui bordi della Vézère, in Dordogna. La loro scoperta risale all'inizio di questo secolo. Si calcola che l'Homo sapiens sapiens sia apparso in Europa circa 35 000 anni fa; sono occorsi circa 5000 anni perché apparissero i suoi primi disegni. Sono trascorsi altri 15 000 anni prima che si arrivasse ai meravigliosi disegni di Lascaux o di Altamira. Per quanto riguarda i disegni nelle rocce ai bordi della Vézère si tratta principalmente di incisioni nella pietra, anche relativamente profonde; i temi trattati sono quelli della donna, dell'uomo o degli animali. Per l'uomo e la donna si tratta della rappresentazione quasi esclusivamente dei loro genitali; quelli della donna sono rappresentati con una frequenza dieci volte maggiore di quelli dell'uomo. La rappresentazione degli animali in questo periodo è molto più rara; rimane il disegno assai realistico di un grande erbivoro. I disegni venivano eseguiti con un pennello di origine vegetale o tramite un grosso bastone di pigmento minerale, d'ocra (giallastro) o di manganese (nero). A questo periodo, 30 000 anni fa, risalgono reperti di segni che hanno valore di simbolo astratto. Si tratta per lo più di segni che si ripetono con periodicità, come bastoncini o piccole cupole. Che i disegni antichi potessero avere una figurazione astratta, geometrizzante, è dimostrato, nei millenni seguenti, dalla rappresentazione della donna e in particolare delle cosiddette «Veneri steatopigie». Si tratta di statuette femminili paleolitiche che si trovano in tutta Europa, con un unico archetipo che sembra essere quello di una donna molto abbondante. Certamente le donne preistoriche non rassomigliavano a queste loro rappresentazioni, come del resto le donne dei nostri giorni non rassomigliano alle donne di Picasso o a quelle di Bacon. Si tratta di piccole sculture «astratte», altamente geometrizzate, secondo un modello che tende a ripetersi per vari millenni e che rappresenta simboli di fecondità. La figura 8.14 mostra che seni, ventre e sesso sono inscritti in un cerchio, mentre le gambe e la testa (di minore rile-
Figura 8.14 Veneri steatopigie: figure femminili paleolitiche ritrovate in tutta l'Europa, dalla Russia all'Atlantico: 1 Kostienki (Russia) 2 Gagarino (Russia) 3 Gagarino (Russia) 4 Dolni Vestonica (Moravia) 5 Willendorf (Austria) 6 Grimaldi (Italia) 7 Laussel (Dordogna) 8 Lespugue (Pirenei atlantici). Tutte queste figure hanno uno stesso schema costruttivo: i seni, il ventre e il sesso sono inscritti in un cerchio, mentre la testa e le gambe sono inscrivibili in due coppie di triangoli simmetrici, (da Clark, 1964).
vanza simbolica, rispetto alla fecondità) si sviluppano su due triangoli simmetrici. Il sesso, nella sua versione realistica o più simbolica, e gli animali sono i grandi temi di tutta la pittura preistorica. Ciò non deve meravigliare, infatti i principali problemi di questi nostri antenati erano certamente quelli della sussistenza (caccia) e della persistenza (riproduzione).
Cultura e percezione Dipingere o scolpire è parlare con le mani, e quindi nella pittura e nella scultura si dovrebbero poter ritrovare il pensiero, per così dire, e gli interessi di un determinato periodo. Certamente il sesso e la caccia era-
no interessi preminenti nei popoli del Paleolitico; più tardi la celebrazione di gesta di guerra e di pensieri religiosi saranno almeno altrettanto importanti. Sembra ovvio che le raffigurazioni dei popoli preistorici fossero diverse perché diversi erano i loro interessi e così le loro tecniche di disegno o di incisione. D'altronde anche in epoca recente la maniera di rappresentare la realtà è sembrata impazzire sotto la spinta di stimoli culturali o rivoluzioni tecnologiche come la fotografia. Tutti gli stili originali sembrano, all'inizio, incomprensibili e stravaganti; poi divengono parte del comune linguaggio visivo, sono accettati come mezzo di comunicazione e facilmente compresi. L'impressionismo e la pittura astratta sono esempi probanti; queste due manifestazioni artistiche furono osteggiate all'inizio, e ora sono rispettate ed amate. Ci potremmo tuttavia domandare se il diverso tipo di raffigurazioni nelle arti primitive non indichi invece che i nostri antenati, o certi popoli primitivi a noi più vicini nel tempo, avessero meccanismi percettivi diversi dai nostri. Questo è forse un problema senza soluzione. Benché si possa affermare con un buon grado di sicurezza che gli occhi e le vie anatomiche del sistema visivo di questi uomini non differivano da quelli dell'uomo moderno, ci sono tuttavia molti elementi che ci portano a pensare che il loro modo di «vedere» non fosse identico al nostro. La cultura o i valori e interessi di un dato periodo della nostra storia di uomini o anche, al limite, della nostra storia individuale fanno parte del nostro cervello, della sua struttura e del suo funzionamento. Ogni cosa appresa porta una variazione del nostro cervello, se non altro diventando un oggetto della nostra memoria. In questo senso gli uomini primitivi vedevano molto diversamente da noi, semplicemente perché avevano un'altra cultura, altre motivazioni e pulsioni e quindi un cervello in parte diverso. La differenza non sta nel tipo delle sensazioni incamerate, ad esempio percepite con la vista, ma nel modo in cui queste informazioni vengono valutate e nel modo in cui acquistano valore provocando una reazione allo stimolo. L'immagine di una divinità primitiva non suscita in noi nessuna emozione o riverenza come invece suscitava nei popoli che adoravano questa divinità. Le divinità del Buddismo o dell'Islamismo non suscitano devozione e riverenza per i cristiani e così la figura del Cristo non è messaggio religioso per i non cristiani. La conclusione che si può trarre come studiosi del cervello è che in realtà questi popoli, a un livello di alta elaborazione nervosa, differissero da noi.
Il problema se la percezione visiva di popoli di epoca lontana dalla nostra fosse diversa dall'attuale può essere affrontato anche sperimentalmente, studiando come vengono percepiti oggetti o figure di cui non si ha alcuna esperienza. In particolare nel contesto del nostro tema di lavoro ci si può domandare come vengono percepite immagini disegnate o fotografie da parte di gruppi etnici che non siano mai stati a contatto con immagini stampate. Gli antropologi si sono assai interessati a questo problema con risultati spesso contraddittori per la difficoltà delle domande, degli usi e costumi delle popolazioni analizzate, per la difficoltà delle comunicazioni verbali e per mille altre possibili variabili che possono rendere queste indagini particolarmente difficili. Si possono enucleare due questioni. La prima è se una persona che non ha mai visto figure disegnate o fotografate sia capace di riconoscere ciò che una immagine rappresenta quando per la prima volta le viene presentato un disegno o una fotografia. L'altra questione si riferisce agli indizi pittorici della terza dimensione, cioè alla capacità di percepire in un disegno o in una fotografia le diverse distanze relative degli oggetti rappresentati. Sono numerose le storie di viaggiatori e di studiosi che raccontano che i popoli primitivi da loro incontrati non sono capaci di riconoscere il contenuto delle fotografie, anche quando queste sono riproduzioni di oggetti e persone a loro familiari. L'esperienza descritta più comunemente è che quando si dà una foto alle persone che mai hanno visto immagini fotografiche e si chiede loro di dire cosa la foto rappresenta, queste girano fra le mani la foto, senza neppure riconoscere un possibile verso di osservazione. Se poi l'esperimentatore comincia a spiegare alcune parti della foto, indicando ad esempio che quello è un bove, che quelle sono le gambe e quella la coda o le corna, allora all'improvviso il soggetto scopre il significato della fotografia che d'ora in poi riconoscerà facilmente. Si raccontano anche storie curiose e divertenti. Fraser (citato in Deregowski, lllusion and Culture) racconta di una donna africana che, cercando di scoprire il significato di una fotografia, individuò il naso, la bocca e un occhio. Rimase con il problema dove fosse mai l'altro occhio. Fraser si mise di profilo spiegando che in quella posizione lei poteva vedergli un solo occhio. Ma la donna gli girò intorno indicando che egli aveva anche un altro occhio dall'altra parte e che questo era assente nella persona della foto. Storie simili sono riportate frequentemente, anche se altre sembrano indicare che in alcune situazioni l'immagine è subito identificata. Presso una tribù africana è stato fatto il seguente esperimento: viene proiettata su uno schermo la diapositiva di un elefante. Eccitazione tra la gente che si alza e fugge. Il capo tribù si avvicina allo scher-
mo, guarda cosa c'è dietro e quando scopre che lo spessore dell'elefante è solo quello dello schermo (un lenzuolo) scoppia in una fragorosa risata. A questo proposito, Deregowski riporta un interessante esperimento fatto in una sperduta tribù dell'Etiopia, i Me'en (Mekan), che verosimilmente non avevano mai visto una riproduzione grafica di oggetti. Fu presentato loro il disegno di un'antilope. I Me'en esaminarono con cura la figura, la girarono varie volte tra le mani, alcuni addirittura la odorarono, e cominciarono a farsi un'idea di cosa rappresentasse solo dopo diversi minuti. Ecco alcune delle risposte. 1. Uomo di circa 35 anni. Esperimentatore (indicando la figura): "Cosa vedi?" Soggetto: "Non so. È un uomo? Sembra una vacca." E poi continua: "Questa è una coda, questo un piede. Quelle sono corna. E una vacca." 2. Uomo di circa 25 anni. E. (indicando la figura): "Cosa vedi?" S. "Cosa è questo? Ha corna, gambe, un davanti, un di dietro, coda, occhi. È una capra? Una pecora? Una capra?" 3. Donna di circa 20 anni. E. (indicando la figura): "Cosa vedi?" S. "Non so." Poi (mentre E gli indica ancora la figura): "Non so. Quelle sono corna, gambe, coda; non so cosa sia." iE chiaro quindi che per chi non ha esperienza di immagini o di segni Iresta difficile riconoscere ciò che è rappresentato in un disegno anche jse l'oggetto della rappresentazione gli è familiare. Ciò vale anche per le fotografie. Il secondo problema, se cioè i popoli primitivi percepiscano gli indizi pittorici della terza dimensione, ha valore per lo storico dell'arte, per l'antropologo, ma anche per il neurofisiologo, in quanto tende a chiarire se questi indizi della distanza siano innati nel nostro cervello o siano semplicemente un linguaggio acquisito con l'esperienza e facciano parte della cultura. Le fotografie, essendo rappresentazioni in due dimensioni di oggetti tridimensionali, possono presentare ambiguità di interpretazione per chiunque, se gli oggetti fotografati non sono familiari, e si prestano quindi a interessanti esperimenti. Quando ad alcune persone dell'Africa dell'Est fu mostrato il disegno della figura 8.15 e fu loro chiesto che cosa vedevano, risposero che vedevano un gruppo di uomini, donne e bambini, e una giovane donna che portava sulla testa una latta di ben-
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zina. Questa interpretazione è rarissima in soggetti della nostra cultura, che normalmente vedono l'interno di una stanza e una finestra, sotto la quale c'è la testa della giovane donna. Si può tentare di diventare «più africani» coprendo con un pezzo di carta l'angolo a Y della stanza, che dà il senso della profondità. In questa situazione la percezione della donna con la latta sulla testa diviene più facile. Il lavoro più sistematico sulla percezione della profondità nelle varie culture è stato fatto da Hudson. Egli ha disegnato test speciali da mostrare ai soggetti, in cui vi è una combinazione di vari indizi pittorici della profondità. Questi indizi sono: sovrapposizione di un oggetto su di un altro, prospettiva, convergenza di litiee parallele che suggeriscono la distanza e, infine, dimensioni di oggetti noti. Un test usato per questi esperimenti è riportato in figura 8.16. Un oggetto A (ad esempio, un elefante) che si sa essere molto più grande di un oggetto B (ad esempio, un'antilope) nel disegno è invece più piccolo. Se l'indizio è interpretato correttamente, l'osservatore dovrebbe concludere che l'elefante è a una distanza maggiore di quella dell'antilope.
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Figura 8.16 Disegno utilizzato per studiare le capacità di percepire la distanza sulla base di indizi pittorici da parte di membri di tribù africane, (da Deregowski, in Gregory e Gombrich, 1973).
L'interpretazione di questa scena di caccia per coloro che percepiscono gli indizi di profondità è che il cacciatore sta cercando di colpire l'antilope che è più vicina dell'elefante. L'interpretazione per coloro che non percepiscono tali indizi è che il cacciatore sta per colpire l'elefante. L'analisi di questi test di Hudson su molti individui di diverse tribù africane ha portato alla conclusione assai chiara che questi soggetti hanno molte difficoltà a percepire i segni di profondità. Un'altra analisi fatta sistematicamente e con chiari risultati è quella che riguarda la percezione delle illusioni, in particolare l'illusione di Ponzo (figura 5.3) e quella di Mùller-Lyer. Gli esperimenti consistevano nel mostrare le figure relative a queste illusioni ottiche a un gruppo di studenti americani e a soggetti non alfabetizzati della Guaiana. Veniva valutata l'entità dell'illusione. Agli abitanti della Guaiana le figure evocavano un'illusione assai meno marcata di quanto avveniva per gli studenti americani o per altri individui della cultura occidentale. Ritornando alla domanda iniziale, se cioè i popoli preistorici avessero una percezione visiva diversa dalla nostra, possiamo concludere che gli esperimenti su popolazioni primitive a noi contemporanee dimostrano l'importanza dell'esperienza visiva legata all'ambiente culturale, almeno per quanto riguarda la percezione visiva generata da immagini bidimensionali. Scrive Borges neil'Akph (L'immortale): "Pensai che Argo ed io facevamo parte di universi differenti: pensai che le nostre percezioni erano uguali, ma che Argo le combinava diversamente e costruiva con esse altri oggetti". Di solito diamo per scontato che coloro che ci stanno vicino e vivono nel nostro tempo abbiano le stesse nostre percezioni. Avendo però dimostrato che ciò può non essere vero per popoli di culture lontane dalle nostre, nasce il problema se ognuno di noi, ogni Argo di questo mondo, costruisca, con percezioni uguali, oggetti e concetti diversi.
Questo forse è possibile, almeno in parte, perché ognuno di noi ha una storia diversa. L'artista è un Argo che costruisce con le stesse nostre percezioni gli oggetti più inaspettati e originali. Egli guarda le stesse scene visive, le stesse persone che noi guardiamo, ma con queste percezioni costruisce realtà diverse dalle nostre, realtà che danno un'emozione diversa. Gli esperimenti degli antropologi che abbiamo descritto aprono un'interessante prospettiva sul problema di come si impari a vedere e, per analogia, di come si impari a pensare. Gli organi di senso si sviluppano in gran parte indipendentemente dall'informazione che ricevono, e quindi dall'ambiente in cui vive l'individuo; il cervello invece, che analizza e interpreta questa informazione, dipende largamente da essa per il suo sviluppo. I mattoni sono sempre gli stessi, ma le case costruite sono di una variabilità infinita.
CAPITOLO 9 I DUE EMISFERI CEREBRALI E LE ARTI VISIVE Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che 7 parlar mostra, eh'a tal vista cede, Dante, Paradiso XXXIII, 55s.
I
l cervello umano, come in generale quello degli altri mammiferi, è formato da due parti, due emisferi che a prima vista appaiono simmetrici, ma che in realtà non lo sono del tutto dal punto di vista anatomico. I due emisferi presentano infatti delle differenze di entità sufficienti ad essere visibili a occhio nudo, e che tuttavia erano passate inosservate fino a un'epoca molto recente; in particolare, nella maggioranza dei casi osservati, una regione del lobo temporale, chiamata "planum temporale", è più grande nell'emisfero sinistro che nel destro. Le differenze tra i due emisferi sono presenti anche nei feti, quindi non sono verosimilmente attribuibili all'esperienza vissuta dal soggetto dopo la nascita. Se le divergenze anatomiche tra i due emisferi possono essere relativamente piccole, quelle funzionali sono molto marcate. Una asimmetria funzionale ben nota è quella che si manifesta nell'uso preferenziale della mano destra (oppure di quella sinistra). Poiché i movimenti di ciascuna mano e degli altri muscoli di tutta una metà del corpo sono guidati dall'emisfero controlaterale (la mano destra dall'emisfero sinistro e la mano sinistra dall'emisfero destro), il fatto che una mano sia usata in preferenza all'altra indica che vi è una asimmetria dei due emisferi dal punto di vista del controllo motorio degli arti. I mancini, che rappresentano una minoranza nella popolazione, hanno una preferenza per la mano guidata dall'emisfero destro, e viceversa i destrimani.
Un'altra differenza emisferica importantissima è la lateralizzazione del linguaggio, i cui centri cerebrali sono localizzati nell'emisfero sinistro, almeno nei destrimani. Nei mancini le aree del linguaggio, invece che nell'emisfero sinistro, possono essere nell'emisfero destro, anche i, Volto di angelo (1483). Tonno, se cl^ n o n £ v e r o p e r t u t t i { c a s j u n a lesione dei centri del linguaggio blioteca Reale. Si noti il tratteggio orientato
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esempio a ictus cerebrale (occlusione di un vaso sanguigno), porta a una perdita della capacità di parlare o di comprendere il lin-
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guaggio, detta afasìa. Vi sono varie forme di afasia, sia di tipo sensoriale sia motorio. Ciò è dovuto al fatto che i centri del linguaggio si suddividono in aree separatamente responsabili della comprensione acustica o visiva (linguaggio ascoltato o linguaggio scritto, area di Wernicke) o del controllo motorio dei muscoli responsabili dell'articolazione della parola (area di Broca). Il ruolo primario dell'emisfero sinistro nel controllo del linguaggio scritto e parlato e di altre funzioni correlate con il linguaggio ha fatto ritenere per molto tempo che nell'uomo questo emisfero fosse più importante e che l'emisfero destro fosse ad esso asservito. Per questa ragione l'emisfero sinistro fu chiamato «emisfero dominante». Sperimentalmente si è potuto tuttavia dimostrare che nessuno dei due emisferi è dominante in senso assoluto; è risultato piuttosto che ognuno dei due è specializzato in funzioni diverse. Ad alcuni pazienti, per ragioni terapeutiche, erano stati chirurgicamente interrotti tutti i fasci di fibre che connettono tra loro i due emisferi (tra cui il principale è il corpo calloso); di conseguenza, i due emisferi cerebrali funzionavano indipendemente l'uno dall'altro. Lo studio di questi pazienti, chiamati «pazienti con cervello diviso», o split-brain, ha confermato che l'emisfero sinistro è responsabile del linguaggio e che l'emisfero destro è «muto», cioè non sa né interpretare un messaggio linguistico, né dare un nome a oggetti visti oppure percepiti mediante il tatto. Ad esempio, se si fa toccare un oggetto solido di una certa forma geometrica al paziente usando la mano destra, e impedendogli di vedere l'oggetto, il paziente è in grado di dire correttamente quale forma ha l'oggetto. Se invece lo si fa toccare con la mano sinistra, il paziente è incapace di dire che forma esso ha. Ricordiamo che i sensori del tatto della mano destra proiettano all'emisfero sinistro, che è l'emisfero del linguaggio. Se però si chiede al paziente di riconoscere la forma del primo oggetto scegliendola tra altri oggetti, anziché dovendone pronunziare il nome, allora il paziente lo fa senza difficoltà anche con la mano sinistra. Sugli stessi pazienti si è potuto dimostrare che l'emisfero destro risulta essere prevalente rispetto al sinistro per altre funzioni non linguistiche, tra cui, ad esempio, il riconoscimento di facce umane. Anche nei soggetti normali i due emisferi hanno ruoli dominanti per funzioni diverse; ciò è meno evidente poiché i due emisferi possono comunicare tra loro attraverso il corpo calloso. Quali siano le funzioni in cui i due emisferi sono rispettivamente dominanti, è frutto anche di studi su pazienti con lesioni localizzate o nell'emisfero destro o in quello sinistro. Di particolare interesse per noi è il fatto che, mentre l'emisfero sinistro è, come abbiamo più volte sottolineato, l'emisfero linguistico, l'emisfero destro risulta essere principalmente l'emisfero visivo. Infat-
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Figura 9.1 Facce schematiche simmetriche. Guardando al centro dell'una o dell'altra figura, si osservi la differente espressione, ridente o mesta, (da Jaynes, 1976).
ti, oltre che per il riconoscimento delle facce, l'emisfero destro ha un ruolo prevalente nel riconoscimento di figure e forme geometriche, nella percezione della Gestalt, nell'orientamento nello spazio, nel riconoscimento di gesti ed espressioni mimiche, ecc. Un esempio interessanre di specializzazione emisferica è quello che riguarda i diversi tipi di scrittura. Esistono antiche forme di scrittura, come quella egizia, in cui oggetti e persone venivano indicate con disegni (pittogrammi) oppure con oggetti aventi relazione con essi (ideogrammi). Ad esempio, il disegno di un piede in quanto pittogramma indica proprio un piede, ma in quanto ideogramma indica l'atto del camminare. In Giappone si hanno due sistemi di scrittura: il kanji, basato su ideogrammi, e il kana, basato su simboli fonetici delle sillabe della lingua giapponese. Studi recenti hanno dimostrato che questi due sistemi di scrittura sono analizzati in modo distinto dai due emisferi cerebrali: il sistema fonetico, come le scritture occidentali che sono pure fonetiche, è analizzato dall'emisfero sinistro, mentre il sistema ideografico è analizzato dall'emisfero destro. Vi sono dei casi di pazienti che hanno subito lesioni cerebrali in uno solo dei due emisferi e che hanno perso la capacità di riconoscere l'una o l'altra delle due forme di scrittura. L'emisfero destro sembra anche essere specializzato per alcuni aspetti dell'espressione musicale, e cioè tonalità, timbro e armonia, oltre che per gli aspetti più «musicali» del linguaggio, e cioè la prosodìa. Paradossalmente, altre qualità della musica, come il ritmo, sono di maggiore pertinenza dell'emisfero sinistro, e così pure attività mentali come il calcolo aritmetico e la classificazione dei colori. Si potrebbe dire che l'emisfero sinistro è più analitico e lavora in maniera seriale, cioè analizza gli eventi così come si succedono nel tempo, mentre il destro è principalmente sintetico e gestaltico, e lavora secondo un procedimento in parallelo che analizza simultaneamente eventi dislocati spazialmente o pertinenti a modalità sensoriali diverse. Uno dei modi per evidenziare la prevalenza dell'uno o dell'altro emisfero in compiti visivi si basa sulla proprietà delle connessioni anatomiche a cui abbiamo accennato nel Capitolo 2: un oggetto presentato nel semicampo visivo sinistro dà luogo a segnali nervosi che raggiungono direttamente l'emisfero destro, e viceversa. Una curiosa conseguenza di questo fatto si verifica quando si osserva l'immagine di un volto con asimmetrie di espressione tra la parte destra e la parte sinistra (figure 9-1 e 9.2). L'impressione che se ne riceve (ad esempio se il viso è sorridente, oppure mesto) è determinata dall'espressione della parte sinistra del volto, cioè da quella che viene recepita dall'emisfero destro. Da queste osservazioni si deduce che l'emisfero destro è anche prevalentemente responsabile delle risposte emotive.
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CAPITOLO 9
Figura 9.2 Figure ottenute combinando la parte destra della foto di un volto ridente con la parte sinistra dello stesso volto, serio e viceversa (facce chimeriche). Queste due figure sono esattamente l'immagine speculare l'una dell'altra. Tuttavia per la maggioranza dei destrimani la figura in cui il volto sorridente è alla loro sinistra, appare più gioiosa, (da Levy, 1988).
La specializzazione di un emisfero per l'espressione figurativa e dell'altro per il linguaggio non è un fatto culturale. Infatti è provato sperimentalmente che tale specializzazione è di natura biologica, in quanto è presente nelle grandi scimmie antropomorfe, nei gatti, nei ratti e negli uccelli. Ciò è stato messo in luce particolarmente per quegli uccelli che imparano a cantare da altri uccelli: è stato dimostrato che lesioni del cervello degli uccelli che equivalgono all'incirca a quelle dell'emisfero sinistro dei primati, alterano gravemente l'emissione del canto, mentre le lesioni destre hanno effetti molto minori. Nel caso invece delle scimmie, è stata addirittura dimostrata una lateralizzazione nel riconoscimento di facce, che, come nell'uomo, avviene più accuratamente nell'emisfero destro che in quello sinistro. Nei bambini, la maggiore competenza dell'emisfero destro per il riconoscimento delle facce è presente molto precocemente, assai prima dello sviluppo delle abilità grafiche. È dimostrato che bambini di quattro o cinque mesi riconoscono più facilmente, in fotografia, il viso della mamma da quello di un'altra donna se le fotografie vengono presentate loro nel campo visivo sinistro (che proietta all'emisfero destro). D'altro canto è proprio a questa età che il bambino comincia a distinguere il volto familiare della madre da un altro volto anche in fotografia: quindi questa capacità, già alla sua insorgenza, mostra di essere lateralizzata. Anche altre funzioni per le quali l'emisfero destro risulta essere dominante nell'adulto sono già lateralizzate in età molto precoce. Ad esempio, bambini di due mesi mostrano una prevalenza dell'emisfero
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destro nella discriminazione di timbri musicali, mentre solo più tardi, verso i tre-quattro mesi, si sviluppa una dominanza dell'emisfero sinistro per sillabe con consonanti diverse. Nella storia della specie umana il linguaggio figurativo della visione è certamente molto più antico di quello della parola: si potrebbe ipotizzare che il pensiero dell'uomo prelinguistico fosse un pensiero per immagini.
Il cervello sessuato Donne e uomini non differiscono solo per i caratteri somatici e per il ruolo riproduttivo, ma anche perché svolgono con capacità diverse varie attività mentali. Queste differenze di abilità in diverse funzioni mentali e cognitive non sono attribuibili soltanto a diverse esperienze vissute o a una diversa pressione sociale esercitata sugli uomini e sulle donne. Un ruolo importante certamente lo giocano gli ormoni sessuali nel primo periodo della vita intrauterina. Queste differenze nel «cervello sessuato» non si riferiscono a un diverso livello di intelligenza, ma a una diversa specializzazione in compiti particolari. Gli uomini in media eseguono meglio delle donne alcuni compiti di tipo spaziale, come quello di orientarsi in un percorso tenendo conto delle direzioni e delle distanze. Inoltre sono più precisi nei compiti di abilità motoria, come la guida, e sono più accurati nel mirare a un bersaglio. Infine, superano le donne nel ragionamento matematico. Le donne invece tendono a fornire migliori prestazioni nei compiti che implicano il riconoscimento di somiglianze percettive, nelle attività verbali, nell'identificazione di punti di riferimento in un paesaggio, nell'esecuzione di certi lavori di precisione manuale e infine nel calcolo aritmetico. È probabile che queste differenze in alcune prestazioni mentali dell'uomo e della donna abbiano avuto dei vantaggi evolutivi, se si pensa che molte migliaia di anni fa gli uomini erano principalmente cacciatori di grossi animali e difensori del gruppo, mentre le donne accudivano alla casa e ai bambini e preparavano i cibi e il vestiario. Agli uomini era quindi necessaria la capacità di orientarsi in nuovi territori, di ritrovare la strada, ed era importante la precisione nella mira, mentre alle donne era richiesto di sapersi orientare entro le piccole distanze ed era utile una capacità di scorgere piccole variazioni nell'ambiente e in particolare nell'aspetto dei bambini. La regione del cervello alla base delle differenze nel comportamento riproduttivo tra i due sessi è l'ipotalamo. Negli animali (ratti) una porzione dell'ipotalamo chiamata «regione preottica» è più grande nei
CAPITOLO 9
maschi che nelle femmine. Questo aumento di dimensioni nei maschi avviene nel periodo intorno alla nascita sotto l'influenza degli ormoni sessuali maschili. Simili differenze sembrano essere presenti anche nel cervello umano: un nucleo dell'ipotalamo anteriore è più sviluppato negli uomini che nelle donne. Recentemente è stata anche dimostrata una diversa dimensione di questo nucleo negli uomini, a seconda che siano eterosessuali o omosessuali: nei secondi è più piccolo. Secondo Le Vay, autore di queste ricerche, tali osservazioni sono in favore dell'ipotesi che la omosessualità abbia una base biologica. Anche dal punto di vista della asimmetria tra i due emisferi cerebrali gli uomini differiscono dalle donne: nei maschi la dominanza emisferica è più marcata che nelle femmine. Poiché nelle donne le varie funzioni cerebrali sono meno specializzate nei due emisferi, delle lesioni localizzate nell'uno o nell'altro emisfero hanno spesso effetti meno devastanti che negli uomini. Sembra anche che le connessioni tra i due emisferi siano più estese nelle donne che negli uomini. Anche negli animali si incontrano differenze tra i due emisferi legate al sesso. Negli uccelli maschi i centri del canto sono più estesi che nelle femmine, che generalmente non cantano. Nel canarino è stato dimostrato che un ormone maschile, il testosterone, è un potente regolatore dell'attività canora.
L'emisfero destro e il disegno La prevalenza dell'emisfero destro nell'analisi visuo-spaziale è stata sfruttata anche nell'insegnamento del disegno, con l'idea che favorendo lo sviluppo delle funzioni proprie dell'emisfero destro si possa facilitare la capacità di rappresentazione grafica. È provato che una disfunzione o una lesione dell'emisfero destro può seriamente compromettere non solo la capacità di riconoscimento delle forme, ma anche la capacità di disegnare. Nel noto libro di Oliver Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, si narra di un insegnante di musica e pittore dilettante che, in seguito a una patologia dell'emisfero destro, perde progressivamente la visione delle forme fino a scambiare la testa della moglie per il suo cappello, mentre la sua capacità di disegnare degenera fino a ridursi a segni incomprensibili. Talvolta la predominanza delle funzioni figurative del lobo destro può manifestarsi in modo sorprendente. Ciò può accadere in concomitanza con ridotte prestazioni dell'emisfero sinistro, rivelate tra l'altro da uno scarso sviluppo del linguaggio. Un caso interessante è quello di Nadia, una bambina di origine ucraina, nata in Inghilterra. Questa bambina mostrava un grave ritardo nello sviluppo del linguaggio.
Figura 9.3 Disegno di Nadia a tre anni e cinque mesi, (da Selfe, 1977).
A tre anni era incapace di comunicare e manifestava gravi segni autistici. A tre anni e mezzo Nadia sviluppò improvvisamente una eccezionale capacità di disegnare; con la mano preferita, la sinistra, disegnava animali, specialmente cavalli, con grande rapidità di tratto, rappresentandoli con originali prospettive. L'ispirazione le proveniva da figure che poteva aver visto anche una sola volta, ma che poi riproduceva modificandone l'orientamento e introducendo scorci arditi. La sua maniera di comporre il disegno non mostrava esitazioni; poteva disegnare un particolare in un punto del foglio e un altro particolare in un altro, e più tardi unirli con piena padronanza nella figura definitiva. Si osservi in figura 9-3 uno dei suoi disegni più precoci eseguito a tre anni e cinque mesi, e nelle figure successive (figure 9.4 e 9-5) due magnifici
Figura 9.4 Disegno di Nadia a cinque anni e mezzo, (da Selfe, 1977).
Figura 9.5 Disegno di Nadia a sei anni e cinque mesi, (da Selfe, 1977).
Figura 9.6 Disegni di bambini fra i sei e i sette anni, (da Selfe, 1977).
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disegni eseguiti due e tre anni dopo. A sei-sette anni i bambini normalmente disegnano in modo assai più primitivo (figura 9.6). Più tardi Nadia, frequentando una scuola per bambini autistici, migliorò notevolmente nella sua capacità di comunicare; verso i nove anni cominciò a parlare. Contemporaneamente però la sua grande passione per il disegno sembrò spegnersi e anche la qualità dei suoi ora rari disegni non fu più eccezionale come prima. La perdita della sua grande abilità pittorica era stato il prezzo da pagare per la conquista del linguaggio. Si conoscono numerosi casi analoghi a quello di Nadia. Questi episodi apparentemente singolari ci stimolano a considerare l'esistenza di due forme diverse di comunicazione e di pensiero: da un lato la maniera di comunicare e di pensare apparentemente più tradizionale, cioè quella verbale, dall'altro il comunicare e il pensare per immagini. Il pensiero verbale è il pensiero razionale, analitico, logico ed è spesso considerato il più importante o l'unico. Il pensiero non verbale, visivo, è di solito relegato alla sfera della fantasia e dei sogni. Il primo è considerato pensiero adulto e il secondo infantile. Gli studi di psicologia moderna suggeriscono che le cose stanno diversamente. Le due forme di pensiero sono entrambe importanti e dovrebbero armonicamente convivere nella persona adulta. Il pensiero visivo è il pensiero dell'immaginazione, dell'intuizione artistica o scientifica, una forma di pensiero di grande potenzialità creativa, suscettibile di illuminazioni improvvise, non asservito necessariamente a un succedersi degli eventi mentali nel tempo, come è il caso invece per il pensiero verbale.
CAPITOLO 4 CERVELLO, EMOZIONI ED ESPERIENZA ESTETICA // nostro gioco sfinito. Gli attori erano spariti e scomparvero nell'aria leggera; come l'opera effimera del mìo miraggio, dilegueranno le torri che salgono su alle nubi, gli splendidi palazzi, i templi solenni, la terra immensa e quello che contiene... Noi siamo della stessa natura dei sogni. William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate.
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Diego Velàzquez, La toilette di Venere (1648-49). Londra, National Gallery. In questo dipinto di squisita sensualità, il pittore è stato volutamente malizioso; egli ha dipinto il volto di Venere in uno specchio che e chiaramente rivolto verso il sesso della dea.
'esperienza estetica coinvolge verosimilmente molte strutture cerebrali che certo non è facile individuare. Ciò è vero sia per il momento creativo dell'artista, sia per l'emozione provata da chi gusta un dipinto, un brano di poesia o una qualsiasi altra opera d'arte. Parlare dei riferimenti cerebrali per complesse esperienze emozionali è senza dubbio azzardato. Discuteremo ciò che nella letteratura scientifica sembra ben accertato in relazione a stati emozionali relativamente semplici; da questi dati cercheremo di dedurre, almeno presumibilmente, quali parti del nostro cervello potrebbero essere coinvolte nell'esperienza estetica. Migliori conoscenze scientifiche portano spesso a interpretazioni più semplici della realtà e, in particolare quando si parla di funzioni cerebrali umane, costringono l'uomo a vedersi più da vicino, con le sue possibilità ma anche con i suoi limiti, e forse con minore egocentrismo e presunzione. È opportuno premettere che tutti gli studiosi sono oggi concordi nel ritenere che ogni tipo di comportamento motorio, emozionale o mentale è collegato al funzionamento di strutture cerebrali. Alcune di queste relazioni tra comportamento e funzioni cerebrali sono note, almeno in parte; per altre si fanno ipotesi che, se pure aspettano verifica sperimentale, appaiono quanto meno verosimili. Occorre fare, a questo punto, almeno brevi richiami al cervello umano e alle sue funzioni. L'eroe del nostro racconto è il cervello, rappresentato nella figura 4.1. All'esterno l'avvolge la corteccia cerebrale, che si piega variamente formando numerose circonvoluzioni e solchi, così che la sua superficie totale è molto più estesa di quella che appare dall'esterno, come fosse un mantello che forma parecchie pieghe. Al disotto stanno altre strutture che funzionano in stretta collaborazione con la corteccia cerebrale, ricevendone comandi, dandone o sem-
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Figura 9.7 Esempi di figure, ognuna in due versioni simmetriche. I soggetti destrimani preferiscono la versione in cui il centro di interesse è spostato verso la loro destra. (daLevy, 1988).
Vi sono alcuni grandi scienziati, come Einstein, Watson e altri, che narrano nei loro appunti come siano giunti alle loro scoperte scientifiche non attraverso un pensiero sequenziale di tipo verbale, ma per l'improvviso apparire nella loro mente di un'immagine risolutoria.
Asimmetrie nell'osservazione di un q u a d r o Questa piccola introduzione sulle differenze emisferiche, richiama il nostro interesse sulle possibili influenze dei due emisferi nell'osservazione di un quadro. Woelffin fu il primo a notare nel 1928, che nella maggioranza dei soggetti vi è una forte tendenza a guardare un quadro cominciando da sinistra. L'esistenza di asimmetrie nell'osservazione di una figura è un problema importante sia nella valutazione di una scena visiva qualsiasi, sia per l'impressione estetica che può derivare da un'opera d'arte. Una possibile relazione tra asimmetria cerebrale ed esperienza estetica è stata messa in evidenza da alcuni psicologi sperimentali. Tra questi, Jerre Levy ha portato un importante contributo, studiando la preferenza di soggetti destrimani per figure che rappresentano scene decisamente asimmetriche, oppure per la loro versione speculare (figura 9.1). La maggioranza dei soggetti destrimani mostra chiaramente di preferire figure in cui il centro di interesse è spostato a destra. L'interpretazione più ovvia è che in questo caso l'osservatore volge lo sguardo prevalentemente verso l'estremo destro del quadro, cosicché la mag-
Figura 9.8 Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi (1568). Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Versione originale {a sinistra); versione simmetrica (a destra). Si osservi come nella prima i ciechi sembrino trascinarsi l'un l'altro e star per cadere nell'acqua. Nella versione simmetrica questo effetto non è evidente, anzi il movimento sembra quasi in direzione opposta. (Vangelo di Matteo, 15, 14. "Lasciateli: sono ciechi che guidano dei ciechi. Se un cieco guida un altro cieco cadranno tutti e due in un fosso".)
Figura 9-9 Tiziano Vecellio, Ritratto dì Eleonora Gonzaga, particolare (1538). Firenze, Galleria degli Uffizi. Il quadro è presentato nella versione originale (a sinistra) e nella versione simmetrica (a destra).
gior parte del quadro si trova a sinistra della direzione dello sguardo e quindi si proietta sull'emisfero destro. Queste osservazioni della Levy si possono estendere al campo dell'arte dove può essere interessante raffrontare quadri aventi un certo grado di asimmetria con le loro immagini speculari (figure 9.8, 9-9). Il lettore potrà notare la diversità delle impressioni suscitate dai volti o dalle composizioni spaziali dei dipinti nella versione originale e in quella simmetrica.
I DUE EMISFERI CEREBRALI E LE ARTI VISIVE
I d u e emisferi cerebrali e la storia dell'arte
Figura 9.10 iVrte egiziana: particolare di una pittura nella tomba di Sennutem, Deir-el-Medinah, Nuovo Regno, XIX dinastia.
Figura 9.11 V bacio di Giuda (VI sec). Ravenna, Basilica di S. Apollinare Nuovo.
Una volta che si hanno chiare le diverse funzioni dei due emisferi del cervello diventa interessante domandarsi se nel lungo ambito della storia dell'arte si possano notare manifestazioni più riferibili a un emisfero che all'altro. Alcune considerazioni potrebbero suggerire che la risposta è positiva. Se andiamo indietro nel tempo, alla pittura che precedette quella greca, ad esempio la pittura egiziana, osserviamo che nella scena rappresentata non dominano le relazioni visuo-spaziali né si suscitano manifestazioni emotive (figura 9-10). Si potrebbe dire che la rappresentazione vuole essere anzitutto un racconto di storie sacre o di guerra e che quindi implica prevalentemente la funzione dell'emisfero verbale sia in chi dipinge, sia in chi osserva. Simili considerazioni si possono fare per l'arte medievale dove le immagini raccontano la storia sacra ed hanno quindi come scopo primario di parlare all'osservatore comunicandogli un messaggio. Anche qui come nella pittura egiziana la resa dello spazio è appena accennata, del tutto schematica e spesso irrealistica e completamente sottoposta alle esigenze della narrazione. Pensate alle ieratiche figure dei mosaici bizantini appiattite in uno spazio bidimensionale e all'assenza quasi completa di strutture architettoniche (figura 9-11). Non c'è traccia
Figura 9-12 Giotto, // bacìo di Giuda, particolare. Padova, Cappella degli Scrovegni.
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evidente di relazioni visuo-spaziali e quindi di partecipazione speci del lobo destro del cervello. Bisognerà aspettare Duccio, Giotto e i Lorenzetti per iniziar* trasformazione del linguaggio visivo. La loro pittura, pur essendo . ra narrativa mostra uno sforzo per la riconquista dello spazio cne compagna anche a una maggiore espressività dei personaggi- Kl evidente se si osserva la figura 9-12, che mostra la scena del ^ Giuda di Giotto dipinta su una delle pareti della cappella deg i ^_ gni, e la si confronti con la versione della stessa scena nei mosai ^ nati (figura 9-11). Gesù e il Giuda di Giotto si parlano con g l esprimono con l'intensità del loro sguardo il dramma che li °
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È da osservare inoltre che la pittura medievale si rivolgeva all'osservatore con un linguaggio altamente simbolico, il cui significato era noto a chi la guardava, che poteva così leggere e capire il messaggio. Si tratta di un vocabolario scarsamente conosciuto all'osservatore moderno, se non specialista. Se nel Medioevo il messaggio delle immagini era prevalentemente di tipo verbale, nel Rinascimento invece la rappresentazione figurativa sembra adottare un codice più visuo-spaziale e quindi più proprio del lobo destro. Lo spazio domina: si inseriscono strutture architettoniche quasi come una necessità espressiva e i personaggi si muovono in uno spazio realistico. Si reiventa la prospettiva scientifica nel tentativo di rendere il reale il più realistico possibile. Inoltre i personaggi cominciano a far trapelare i loro sentimenti e l'Alberti dirà che le storie oltre che narrare devono commuovere. Dunque ancora sembra giocare un ruolo fondamentale il lobo destro, il lobo oltre che dello spazio anche dell'emozione e dell'immaginazione. Nella storia dell'arte bisognerà aspettare gran tempo per ritrovare un'espressione figurativa che sembri implicare in modo prevalente la funzione dell'emisfero sinistro; bisognerà forse attendere l'apparire di una pittura concettuale e intellettuale come quella del cubismo. A questo punto ci si può domandare se le considerazioni che abbiamo fatto fin qui a proposito dell'arte medievale e rinascimentale valgano anche per chi guarda oggi queste opere d'arte, se cioè anche per l'osservatore conremporaneo un quadro medievale implichi reazioni riferibili prevalentemente al lobo sinistro e un quadro rinascimentale, al lobo destro. A differenza dell'osservatore dei tempi in cui nacque il quadro, l'osservatore moderno di fronte a un quadro medievale è colto più da sorpresa e senso di mistero che da interesse per la vicenda narrata. Egli si può trovare a reinventare la storia nella sua fantasia piuttosto che a interpretarla letteralmente. Il Medioevo è per noi "un'opera aperta", come direbbe Umberto Eco, in quanto dà modo allo spettatore di partecipare attivamente alla creazione dell'immagine secondo i suoi schemi culturali. C'è l'occasione di seguire i consigli di Leonardo al giovane pittore nel guardare le macchie sul muro o le nuvole. Per Leonardo, come per tutti gli artisti, anche la realtà era una grande opera aperta. L'occhio dell'uomo medievale e il suo cervello visivo erano uguali a quelli dell'uomo moderno, ma per l'uomo di allora l'interpretazione della percezione visiva di un quadro era senza dubbio diversa da quella di un uomo di oggi. Infatti le reazioni delle sue cellule nervose erano senz'altro uguali alle nostre, sia a livello della retina, sia di altre stazioni del sistema nervoso. Ma in quella parte della corteccia dove la percezione visiva acquista senso e diventa reazione dell'organismo, il lavo-
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rio del cervello era diverso. Allora la visione del quadro generava sentimenti di fede attraverso la conoscenza delle storie sacre. Adesso il quadro è pura immagine di cui si ammira la qualità del colore, il tratto netto, la risoluzione originale di problemi spaziali. Se vedere è comprendere e interpretare allora non c'è dubbio alcuno che noi oggi vediamo in una maniera diversa. Alla luce di quanto detto la pittura medievale diventa creativa per l'osservatore e probabilmente fonte di gioie estetiche diverse nei diversi individui. Certamente richiama l'analisi storico culturale affidata al lobo sinistro, ma risveglia soprattutto l'immaginazione e la creatività sintetica dell'emisfero destro. Davanti a un quadro rinascimentale l'osservatore occidentale è meno sorpreso, la sua possibilità di reinterpretare l'immagine qui è molto limitata. Nella sua perfezione realistica la prospettiva diviene una grande prigione. Cattura la realtà di un solo istante, di un singolo colpo d'occhio. L'artista è diventato un dittatore che vuole insegnare a vedere nella convinzione di avere scoperto le vere regole della visione e/o della realtà esterna. Qui il lavorio cerebrale dell'osservatore è principalmente analitico e quindi proprio del lobo sinistro. Quali sono le proprietà della pittura del Rinascimento che la rendono così attraente, se escludiamo la partecipazione creativa dell'osservatore? Si potrebbe dire che la pittura del Rinascimento piace per la sua perfezione e che la gioia che essa suscita è simile a quella che si prova nella risoluzione di un problema scientifico. La pittura del Rinascimento coinvolge più in senso intellettuale che emotivo. Sarebbe interessante domandarci a questo punto quali proprietà del cervello usiamo maggiormente oggi, se quelle visuo-spaziali o quelle più analitiche del lobo del linguaggio. Certamente viviamo in un mondo dove lo stimolo visivo domina: gran parte delle informazioni necessarie per lavorare e convivere ci raggiunge attraverso il canale visivo. Si tratta però largamente di un processo passivo nel quale il vedere genera risposte quasi automatiche, prive di emozioni e che non richiedono interpretazione. La partecipazione creativa alle immagini che ci piovono da ogni parte è minima, come se le proprietà più caratteristiche del lobo cerebrale visivo non fossero necessarie. Il trait d'union tra immagine e verbalizzazione è diretto, semplice. Certamente il lobo sinistro ha una gran parte nella nostra vita quotidiana. Il linguaggio visivo che ci viene offerto ha una grammatica che si muove in una logica verbale e non ha le proprietà creative ed emozionali caratteristiche dell'emisfero destro. La televisione, per fare un esempio, ha chiaramente un linguaggio verbale: i personaggi sono soprattutto veicoli di parola. La televisione lascia pochi spazi a un lin-
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guaggio puramente visivo. Forse bisogna fare eccezione per la fantasia di alcuni cartoni animati o per il linguaggio senza parole di alcuni film, dove le espressioni degli attori, la inquadratura dello spazio, i colori e le luci sono parti essenziali del racconto. Tutto ciò fa pensare alla necessità di metodi pedagogici che facilitino uno sviluppo o un esercizio armonico dei due emisferi. Questo potrebbe compensare la tendenza storica della cultura occidentale che ha prediletto e predilige le forme di insegnamento basate sull'espressione analitica e linguistica del pensiero, prerogativa prevalente dell'emisfero sinistro.
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CAPITOLO 10 IL PITTORE MALATO Questi paesaggi d'acqua e di riflessi sono divenuti un'ossessione. È al di là delle mie forze dì persona anziana... Non dormo più per colpa loro.. Mi alzo la mattina rotto di fatica... Dipìngere è così difficile e torturante. Ce n'ì abbastanza da far perdere la speranza. Ciò nonostante non vorrei morire prima di aver detto-quello che avevo da dire; o almeno aver tentato di dirlo. I miei giorni sono contati... Domani forse... Claude Monet, lettera dell'I 1 agosto 1908 a G. Geffroy.
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Autoritratto di un paziente schizofrenico che dimostra la creatività artistica a volte indotta dalla schizofrenia. Questo quadro comunica la sofferenza e le distorsioni percettive di questa malattia .(da «Le Scienze», 291, 1992).
ì opera dell'artista nasce dalla combinazione della sua esperienza visiva e della sua interpretazione di quanto gli viene comunicato dal mondo esterno. Sia l'acquisizione dell'informazione visiva, sia la sua elaborazione interiore possono essere alterate da cause patologiche. Mentre la prima coinvolge selettivamente l'apparato della visione, e quindi può essere alterata da difetti o malattie dell'occhio e del sistema visivo, la seconda può coinvolgere la persona in modo più generale, per processi patologici del cervello o di altri organi. Abbiamo già parlato della cataratta di Monet e delle alterazioni dei quadri senili di Tiziano e Turner, che chiaramente si riferiscono ad alterazioni dell'organo visivo. Ci proponiamo ora di descrivere le storie di altri artisti la cui espressione pittorica è stata alterata in una certa fase della loro vita dall'insorgenza di stati patologici di varia natura. In questi casi sarebbe quasi impossibile capire il cambiamento della pittura, se non si conoscesse la storia dell'artista. Nella maggioranza dei casi, uno stato patologico di una certa gravità può determinare, oltre a"d alterazioni dirette come, ad esempio, quelle del sistema motorio, altre alterazioni di natura psichica che si rivelano con una profonda depressione e una visione pessimistica della realtà. Uno dei pittori più originali del nostro tempo è stato Paul Klee, che ci trasmette con la sua pittura allegri o tormentati movimenti musicali di linee e che, come diceva lui stesso, "amava andare a passeggio con una linea". L'artista, per sua sventura, fu colpito ancora nella giovane età di 40 anni da una terribile malattia, la sclerodermia, che implica profonde alterazioni della pelle e dei muscoli sottostanti. La sclerodermia è una malattia tragicamente progressiva. La vita di Klee fu sconvolta da questo evento e la sua pittura da festosa divenne cupa. Ne riportiamo due esempi: uno che mostra un disegno in cui il pittore
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Figura 10.1 (a sinistra) Paul Klee, Ein Gestalter (1940). L'artista nel suo sforzo di creare, nonostante le sue mani siano rattrappite dalla malattia. Figura 10.2 (a destra) Paul Klee, Durchhalten. Uno degli ultimi disegni che esprime la volontà di resistere alla tragedia della sua malattia, riflessa nel suo volto (v. foto).
Figura 10.3 Auguste Renoir, Autoritratto (1914). Il pittore ha le mani deformate dall'artrosi.
raffigura le sue mani rattrappite, incapaci di guidare il pennello con l'agilità di un tempo, e un volto che le fissa con uno sguardo disperato (figura 10.1). L'altro esempio mostra il volto sconvolto e distorto del pittore che esprime, con le sue sembianze pallide e contratte, l'effetto della malattia (figura 10.2). La storia racconta di molti pittori affetti da artrite o da malattie uricemiche che bloccano le articolazioni delle loro mani rendendo la pittura difficile e dolorosa. Uno di questi era Renoir, che sosteneva il pennello tra le sue dita deformate con l'aiuto di batuffoli di cotone. Egli stesso si rappresenta con le mani quasi mostruose davanti alla tela nel tentativo di esprimere ancora la sua arte (figura 10.3). Simili disturbi di tipo artritico li ebbero anche Juan Gris e Raoul Dufy. Quest'ultimo potè fortunatamente già sperimentare i benefici effetti di ACTH e cortisone. La terapia gli ridiede una certa agilità delle mani ed egli, come per ringraziare, intitolò Cortisone un suo quadro dipinto all'età di settantatre anni e rappresentante un vaso di fiori. Altri artisti furono presi da profonda malinconia e depressione, per motivi prettamente psichici o anche per intossicazioni, in particolare da piombo, un elemento allora presente nei pigmenti di vari colori. Francisco Goya fu uno di questi; si racconta che egli preparasse i colori in una tinozza, li raccogliesse poi con spugne o stracci che si trovavano dattorno, e con questi li applicasse sulla tela, dando caratteristici tocchi di colore con un colpo di pollice. È noto che l'encefalopatia da piombo produce danni al cervello che causano sordità e alterazioni della personalità. Si dice che egli fosse dapprima completamente bloccato in ogni attività dalla sua malattia, e che, quando riprese a dipingere, i suoi quadri si riempissero di figure da incubo. Per altri, come Michelangelo, la depressione non era legata a cause organiche, ma piuttosto era di origine psichica e soggetta a variazioni cicliche. È forse in una di queste fasi di depressione che Michelangelo diede le sue sembianze distorte al volto di San Bartolomeo nel Giudizio
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Figura 4.1 Il cervello umano. Il sistema nervoso centrale può essere grossolanamente diviso in sei regioni: il midollo spinale, il bulbo o midollo allungato, il ponte con il cervelletto, il mesencefalo, il diencefalo e gli emisferi cerebrali. Il diencefalo, che giace rostralmente al mesencefalo, comprende il talamo e l'ipotalamo. L'ipotalamo è collegato con molte altre strutture cerebrali e in particolare con il lobo limbico; esso regola le funzioni correlate con la secrezione degli ormoni, le funzioni endocrine, e presiede alla regolazione del sistema nervoso vegetativo. Gli emisferi cerebrali sono costituiti dalla corteccia cerebrale e da strutture più profonde, come l'ippocampo, l'amigdala e i gangli della base. La neocorteccia, o corteccia più superficiale, si divide a seconda delle funzioni in quattro lobi (v. schemi nella parte inferiore della figura): frontale, parietale, occipitale e temporale, (da «Le Scienze», 291, 1992).
CAPITOLO 4
CORTECCIA MOTOR
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plicemente modulandone l'attività. Alla base del cervello sta una struttura, Yipotalamo, che è difficilmente identificabile nella figura, in quanto si trova nella parte inferiore del cervello, ed è coperta da molte altre strutture. Il suo strano nome sta proprio a indicare che si trova al disotto di un'altra struttura, il talamo, chiamata così perché la sua forma ricorda un letto. L'ipotalamo è collegato ampiamente con le strutture vicine, e in particolare con il lobo limbico. La maniera più consueta di comunicare tra diverse parti del cervello, oppure tra gli organi periferici e il cervello, è quella che si affida a impulsi nervosi che si propagano seguendo le vie delle fibre nervoseVi è tuttavia un'altra importante maniera di comunicare nel sistema nervoso, tramite la produzione di sostanze, gli ormoni, che si propaga" no seguendo le vie del sangue e raggiungono i recettori di altri orga nl regolandone l'attività nervosa, sia elettrica che umorale. Il regolatore
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Figura 10.4 Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale, particolare. Roma, Cappella Sistina. San Bartolomeo mostra al Giudice il coltello e la pelle del martirio, nelle cui pieghe Michelangelo ha dipinto un dolorante autoritratto.
Figura 10.5 Particolare della Madonna di Manchester attribuita a Michelangelo Buonarroti. Si noti il naso distorto che ricorda la malformazione del naso del pittore, a seguito di una frattura riportata durante un litigio giovanile.
Universale (figura 10.4). A testimoniare come la vita privata dell'artista entri a far parte integrante della sua opera, si noti, nella figura 10.5, come Michelangelo abbia trasferito nel volto della Madonna di Manchester la deformazione del naso da cui lui stesso era affetto. Altre e più gravi insanità mentali affiorano nei quadri di alcuni pittori in momenti particolari della loro vita. Così per Edvard Munch, che si ritiene fosse affetto da una sindrome schizoide: nel famoso quadro Il grido il pittore norvegese sembra rivelare la sua angoscia, probabilmente di origine patologica. Degli effetti che gravi malattie mentali, come la schizofrenia, o sindromi con attacchi di tipo epilettico, come quelle che afflissero Van Gogh, possono avere sull'espressione pittorica parleremo diffusamente più avanti. La ricerca di sensazioni nuove e più intense spinge spesso gli artisti a inseguire paradisi artificiali, dove spazio, tempo e colore risultano alterati sotto l'influenza dell'alcol o di droghe. Nella figura 10.6 abbiamo riportato un autoritratto che Baudelaire dipinse sotto l'effetto della marijuana. Egli si rappresenta smisuratamente alto, più alto della colonna Vendome, quasi a descrivere il suo stato di esaltazione.
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È risaputo che molti artisti dipingono sotto l'effetto della intossicazione da alcol. Tra questi Utrillo è uno dei più noti. Si racconta che i suoi parenti lo lasciassero con una bottiglia di vino e una tela pulita, e che ritornando a casa trovassero un pittore ubriaco, una bottiglia vuota e un magnifico quadro, spesso ripieno delle luci di Montmartre. Più raramente si incontrano persone capaci di reagire positivamente e con grande forza d'animo ai disagi della malattia. Caso quasi unico tra gli artisti è quello di Henri Matisse. Il suo incontro con la malattia, a più riprese e in periodi diversi della sua vita, è molto interessante e merita di essere ricordato secondo quanto riporta Philip Sandblom nel suo libro Creativity and Disease. Matisse era destinato alla professione di avvocato, ma una seria forma di appendicite, a quei tempi non trattabile chirurgicamente, lo costrinse al riposo per quasi un anno. Cercò di distrarsi con la pittura. Divenne ben presto così ossessionato da essa da decidere di cambiare la sua vita. Forse allo scarso sviluppo della chirurgia del tempo dobbiamo l'opera di una delle più grandi personalità dell'arte contemporanea! Più tardi, per riprendersi da una noiosa bronchite, si trasferì a Nizza, con l'idea di rimanervi solo temporaneamente, ma dove finì per trattenersi praticamente per tutta la vita. È probabilmente da questo Figura 10.6 Charles Baudelaire, Autoritratto eseguito durante una intossicazione da marijuana.
Figura 10.7 Fotografia di Henri Matisse (Nizza, 1949). L'artista, costretto a letto dalla malattia, dipinge sulle pareti della sua stanza con un lungo bastone.
suo soggiorno nel luminoso paesaggio del sud della Francia che hanno origine i colori solari dei suoi quadri. Più tardi, all'età di settant'anni, affetto da un cancro del colon, fu operato; ma il decorso operatorio ebbe complicazioni che portarono alla formazione di un'ernia della ferita. Fu costretto a letto per altri tredici anni, fino alla morte. A questa grave menomazione egli reagì con coraggio e voglia di vivere, in modo da provare, come egli stesso diceva, tutta la felicità possibile. Questa sua gioia è presente nei suoi ultimi quadri, dove un senso di felicità e di quiete sembra dominare. Matisse era convinto che i suoi colori potessero avere un effetto benefico sulla malattia e favorire la guarigione, ed è per questo che egli appendeva i suoi quadri attorno al letto degli amici malati. Nella figura 10.7 si può vedere una foto del vecchio Matisse, scattata a Nizza nel 1949, cinque anni prima della sua morte, che riprende l'artista mentre dipinge con l'aiuto di un bastone sul muro della sua camera.
Il pittore malato Vincent van Gogh Uno degli artisti più ammirati e amati dell'epoca moderna, Vincent van Gogh, può forse considerarsi il «pittore malato» per eccellenza. Morì suicida, in età ancora giovane, dopo essere stato ripetutamente ricoverato in ospedali psichiatrici, affetto da crisi con allucinazioni e attacchi di tipo epilettico, e dopo essersi mutilato dell'orecchio sinistro, che si recise per regalarlo a una prostituta. Soffriva anche di acuti dolori gastrointestinali. Durante le crisi, che erano molto gravi e debilitanti, cadeva in uno stato di profonda depressione, di ansietà e confusione mentale che gli impediva assolutamente di lavorare, e che fu probabilmente la causa della automutilazione e del suicidio. Il suo autoritratto con la testa avvolta in una benda testimonia l'esito dell'oscuro episodio di automutilazione. Fu durante una crisi che, in un attacco di aggressività, egli arrivò anche a minacciare di morte l'amico Gaugin. Sulla natura della sua malattia, che si manifestò in età adulta, prima dei trent'anni, e sulle cause delle sue crisi sono state formulate le ipotesi più varie; la più comune è che si trattasse di epilessia, ma questa ipotesi rimane poco convincente perché le gravi crisi debilitanti di cui soffriva il pittore non rientrano nelle manifestazioni del «piccolo male». D'altro canto non è provato che Van Gogh soffrisse delle convulsioni di tipo motorio (tonico-cloniche) caratteristiche del «grande male». Secondo Tralbaut e Arnold, due studiosi che hanno affrontato recentemente questa problema, la diagnosi di epilessia può essere stata motivata non dai sintomi (che, come abbiamo detto, non rientrano nel quadro di questa patologia) ma da ciò che Van Gogh stesso diceva di
sé, ad esempio in una lettera al fratello Theo (lettera 589), in cui affermava di essere un pazzo o un epilettico. In un'altra lettera, del 1888, Van Gogh paragonava i suoi disturbi psichici a quelli del pittore fiammingo Hugo van der Goes (circa 1430-1482), raffigurato nella sua pazzia da Emile Wauter, un pittore a lui contemporaneo {La pazzia di Hugo van der Goes). Si racconta che Hugo van der Goes, travolto da una delusione d'amore, si fosse ritirato in un convento e fosse poi soggetto ad attacchi allucinatoti di pazzia. Il quadro di Emile Wauter lo rappresenta con gli occhi spalancati e lo sguardo stravolto, come normalmente si immagina il viso di un folle. Scriveva Van Gogh: "Non solo i miei quadri, ma io stesso sono diventato miserabile come Hugo van der Goes nel quadro di Emile Wauter". Che Van Gogh potesse essete schizofrenico fu poi ipotizzato da Jasper, sulla base delle allucinazioni di cui l'artista soffriva e di un episodio di paranoia, durante il quale fu assillato dal timore che i vicini lo volessero avvelenare. Secondo Arnold, che ha dedicato di recente un approfondito studio alla malattia di Van Gogh, gli altri sintomi di cui soffriva l'artista non sembrano però rientrare nel quadro della schizofrenia. Da Arnold è stata invece avanzata l'ipotesi che Van Gogh fosse affetto da una rara malattia (porfiria acuta intermittente) che è ereditaria, ma si manifesta nell'età adulta con attacchi improvvisi, intervallati da periodi di benessere. I sintomi caratteristici di questa malattia, che includono disturbi gastro-intestinali gravi, neuriti periferiche e disturbi psichiatrici con allucinazioni, sono assai simili a quelli di cui soffriva Van Gogh, secondo quanto risulta dalla sua corrispondenza col fratello Theo, che è la fonte di informazione più estesa ed attendibile su questo argomento. In favore di questa ipotesi sta il fatto che il fratello Theo e la sorella Wil furono affetti da malattie con manifestazioni simili a quelli del pittore. È noto che i sintomi della porfiria sono aggravati da una cattiva o scarsa nutrizione e dall'uso di bevande alcoliche. Dalle lettere di Van Gogh al fratello risulta che i medici che lo ebbero in cura gli raccomandavano di curare di più la sua alimentazione e di trattenersi dall'eccesso di fumo e di alcol. È tuttavia probabile che egli non seguisse queste raccomandazioni, almeno quando era preso dalla foga del dipingere, come accadeva subito dopo una crisi. Nell'ultimo periodo della sua vita, Van Gogh sviluppò addirittura un'inclinazione a bere canfora e altri terpeni, tra cui la trementina con cui diluiva i suoi colori, e perfino il kerosene delle lampade. C'è in proposito una testimonianza del suo amico, il pittore Paul Signac: "Tutto il giorno mi aveva parlato di pittura, letteratura, socialismo. A sera era un po' stanco. [...] Voleva bere d'un colpo un litro di essenza di trementina, che si trovava
Figura 10.8 Vincent van Gogh, Campo di grano con corvi (1890) Amsterdam, Rijksmuseum Vincent van Gogh
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tavolo della camera". Le abitudini disordinate di Van Gogh possono avere scatenato gli attacchi della sua malattia che finì per portarlo a cercare la morte. Ma quale influenza può avere avuto tutto questo sulla sua arte? Certamente egli diveniva totalmente incapace di dipingere durante le crisi, che erano assai debilitanti. Ma nei periodi in cui recuperava la salute, la sua creatività ritornava e il suo bisogno di esprimersi nella pittura era fortissimo. È molto facile associare l'originalità dei suoi dipinti, in particolare, certi suoi paesaggi quasi allucinati (figura 10.8), con una malattia mentale, come è stato fatto ripetutamente. Tuttavia non ci sono ragioni serie per sostenere questa ipotesi. Semmai ci si può domandare, come ha fatto Arnold nel suo libro, se vi sia qualche relazione tra la malattia da cui era affetto e la sua crescente passione per i colori caldi, in particolare per il giallo, nei suoi dipinti del periodo francese. Mentre nei quadri giovanili del periodo olandese prevalgono i toni scuri e le tinte sobrie, poco dopo il suo arrivo a Parigi, nel 1886, Van Gogh già afferma il suo amore per i forti contrasti di colore. E più tardi, nel 1888, nel sud della Francia, la sua tavolozza si arricchisce di colori caldi, e lui stesso afferma: "Come è bello il giallo!...". Il giallo predomina in parecchi dei suoi quadri, come i vasi di girasoli, i campi di grano, ecc. Arnold non ritiene probabile che la prevalenza di questo colore, del resto niente affatto generale nemmeno nel periodo di Arles e St. Rémy, sia dovuta a cause patologiche direttamente connesse con la malattia da cui il pittore era affetto. Poiché però Van Gogh era molto probabilmente un bevitore di assenzio (bevanda assai in voga nella Francia del suo tempo, e notevolmente tossica) non è da escludere che effetti di intossicazione da assenzio, associati con il suo stato di cronica denutrizione e con la malattia, possano aver causato delle temporanee altera-
CAPITOLO 10
zioni del senso cromatico unite ad alterazioni delle percezioni di forma e dimensioni, e che queste abbiano poi in qualche modo ispirato i suoi dipinti. Le sostanze tossiche contenute nell'assenzio (in particolare il tujone, il cui nome deriva dall'albero della tuja) possono dar luogo ad allucinazioni visive. Il Caffi di notte, con la sua atmosfera allucinata, sembra trasmettere l'irreale mondo visivo dei bevitori di assenzio.
Bevitori di assenzio Tra gli artisti il desiderio di affidarsi all'azione di sostanze eccitanti per aumentare la propria propria creatività è un fatto che si ritrova comunemente,
Figura 10.9 L'assenzio maggiore o romano (Artemisia absinthium), da cui si estrae la bevanda che ne porta il nome, in una incisione di James Sowerby del 1803. (da «Le Scienze», 252, 1989).
sia in tempi antichi sia nei nostri tempi. Su questo argomento esiste una copiosa letteratura. In particolare è noto per l'eleganza della trattazione il breve saggio di Aldous Huxley, The Doors of Perception (Le porte della percezione), in cui l'autore descrive l'esperienza da lui vissuta quando, nel 1953, si sottopose a un esperimento sugli effetti di una sostanza stupefacente, la mescalina. Egli assunse volontariamente questa sostanza e descrisse nel libro le sensazioni che aveva provato. Le porte della percezione si spalancarono. Accadde cioè quello che il pittore e poeta inglese William Blake aveva intuito: "Se le porte della percezione fossero spalancate, ogni cosa apparirebbe all'uomo com'è: infinita". Gli effetti più sorprendenti furono le alterazioni del tempo e dello spazio. Il tempo sembrava non avere più limiti, quasi che tosse un eterno presente. Lo spazio non sembrava più costretto dalle leggi della profondità e della prospettiva, ma sembrava ristrutturarsi più liberamente; gli oggetti noti nella stanza apparivano come una, stili Ufi, priva di terza dimensione, come nei quadri di Braque e Cjris. Sulla scia di questa sua esperienza, Huxley propone che le droghe possano agire estendendo la funzionalità del cervello, che normalmente si autoriduce neh'applicarsi a una determinata funzione. Ad esempio il linguaggio o un determinato stile pittorico finiscono con il ridurre la libertà di espressione, imbrigliando la libertà del pensiero. A parte l'assunzione di sostanze stupefacenti con effetti così vistosi e anche pericolosi, è certamente frequente negli artisti di tutte le epoche l'uso e anche l'abuso di bevande alcoliche. Tra queste, ci sembra importante citare l'assenzio, per la grande diffusione che ebbe soprattutto in Francia alla fine del secolo scorso, in un periodo particolarmente fecondo per l'arte. Sembra che fra il 1875 e il 1913 il consumo annuo di assenzio in Francia sia aumentato rapidamente fino a raggiungere la vertiginosa cifra di 37 milioni di litri. L'assenzio era ricavato da una pianta, Artemisia absinthium (figura 10.9), e preparato con grossi alambicchi.
IL PITTORE MALATO
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Figura 10.10 Bicchieri di assenzio. La diluizione dell'alcol conrenuto nell'assenzio faceva precipitare una sospensione colloidale di terpeni, tra cui il tuione. Il rituale di presentazione prevedeva che si versasse acqua fredda su una zolletta di zucchero posta sopra un cucchiaio forato (lo zucchero mitigava il sapore amaro del liquore). Si può ottenere lo stesso effetto [visivo diluendo iìpastis, l'attuale sostituto non tossico dell'assenzio con il quale si prepara il Pernod. (da «Le Scienze», 252, 1989).
Forse alla crescente popolarità dell'assenzio contribuì anche il suo aspetto estetico, di liquido verde che diventa giallo opalescente _se diluito con l'acqua (figura 10.10). Ma è molto probabile che esso fosse ricercato anche per le sue proprietà di droga. Infatti l'assenzio contiene, oltre l'alcol, degli olii essenziali, che contribuiscono al suo gusto gradevole ma anche alla sua tossicità. Fra questi, la sostanza più dannosa sembra essere il tuione, un terpene che può provocare allucinazioni visive e anche attacchi epilettici, come abbiamo già accennato parlando di Van Gogh. Per questi effetti dannosi sul sistema nervoso, che però non furono subito riconosciuti, l'uso dell'assenzio fu proibito in vari stati europei, tra cui l'Italia nel 1913 e la Francia nel 1915. L'assenzio, con i suoi effetti inebrianti, era così presente nella vita quotidiana del secondo Ottocento da ispirare molti pittori.a rappresentare nei loro quadri bevanda e bevitori, assorti in un loro mondo e con lo sguardo sperduto nel vuoto. In alcune sue litografie Honoré Daumier accompagnava il soggetto con commenti come " Birra mai... Ci vuole l'assenzio per risvegliare un uomo". Probabilmente molti di questi pittori erano loro stessi bevitori di assenzio, e alcuni addirittura intossicati, come Toulouse-Lautrec, che dovette essere ricoverato nel 1899 per una cura di disintossicazione. Si dice anche che egli abbia introdotto Van Gogh all'uso di questa bevanda, verso il 1888. Anche nei suoi quadri spesso appaiono bicchieri di assenzio, talora di un insolito colore verde, anziché giallo opalescente, dovuto al cognac con cui egli diluiva l'assenzio, anziché farlo con l'acqua.
Figura 10.11 Alcuni quadri famosi in cui compare l'assenzio. (a) Eduard Manet, Il bevitore d'assenzio (1858-1859). Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptothek. (b) Edgar Degas, L'assenzio (1876). Parigi, Musée d'Orsay. (e) Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di Vincent van Gogò (1887). Amsterdam, Rijksmuseum Vincent van Gogh. (d) Vincent van Gogh, Natura morta (1889). Otterlo, Rijksmuseum Kroller-Muller. Tavolo da disegno con cipolle, libro di Raspail e bottiglia di assenzio. Anche Daumier, Munch e Picasso, tra gli altri, hanno raffigurato l'assenzio in loro opere.
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La rappresentazione dell'assenzio si prolungò ancora nel tempo e si ritrova nei dipinti di alcuni famosi pittori non impressionisti, tra cui Munch e Picasso. Quest'ultimo costruì sei bicchieri di metallo e ceramica sormontati da cucchiaini per l'assenzio nel 1914, in un periodo in cui tale bevanda stava per essere proibita. La figura 10.11 riporta quattro dei più famosi dipinti in cui il prò-
tagonista è l'assenzio. Il primo è II bevitore di assenzio di Eduard Manet: il bicchiere di assenzio risalta nella sua opalescenza, contro il fondo scuro, e la nera bottiglia vuota si staglia sulla strada illuminata. Questo quadro, in cui Manet ha rappresentato un alcolizzato, ribellandosi ai dettami di perbenismo della società del suo tempo, fu rifiutato al Salon nel 1859- Nel secondo quadro, L'assenzio di Edgar Degas (1876), il liquido giallo nel bicchiere mostra i suoi effetti nello sguardo assente della donna. Nel terzo quadro, un pastello di Toulouse Lautrec del 1887, il pittore ritrae l'amico Van Gogh seduto davanti a un bicchiere di assenzio. Van Gogh stesso introduce una bottiglia di assenzio in una Natura morta del 1889 (quarto quadro). Si noti sulla tavola il libro di Raspail di medicina pratica per mantenersi in buona salute, a cui il pittore si affidava frequentemente.
Il pittore pazzo In tutti i casi di artisti affetti da vari tipi di patologie di cui abbiamo finora parlato, si è visto come la malattia poteva influire sulla loro espressione artistica, interferendo con la loro manualità o, come in Van Gogh e nei bevitori di assenzio, alterando parzialmente le loro capacità percettive ed emotive. Ben più drammatiche possono essere le alterazioni emotive, percettive ed espressive nelle gravi malattie del sistema nervoso, e particolarmente nelle malattie mentali, come la schizofrenia e la sindrome maniaco-depressiva. Queste devastanti malattie mentali, in particolare la schizofrenia, oggi sono riconosciute come malattie di origine biologica su base genetica, che conducono a profonde alterazioni' anatomiche e funzionali del cervello. Si è trovato infatti che negli schizofrenici i ventricoli cerebrali sono dilatati, e nel lobo limbico la regione dell'ippocampo, che regola le risposte emotive, la memoria e altre funzioni, ha dimensioni ridotte rispetto al normale. Inoltre nel cervello di questi pazienti sono state notate altre alterazioni, come quelle nel lobo temporale, che potrebbero essere dovute a irregolarità nello sviluppo di questa struttura. Infine le regioni frontali, che contribuiscono alla regolazione del sistema limbico, hanno attività metabolica ridotta. Le alterazioni del lobo temporale potrebbero essere la sorgente delle allucinazioni visive e auditive così frequenti in questi pazienti. E da ricordare che il neurochirurgo Penfield aveva osservato in pazienti schizofrenici che la stimolazione elettrica del lobo temporale a scopo diagnostico induceva visioni e percezioni sonore di tipo allucinatorio. Riassumendo, queste alterazioni anatomiche e fisiologiche del cervello dei pazienti schizofrenici potrebbero suggerire che un'iperstimo-
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Figura 10.12 James Ensor, L'entrata dì Cristo in Bruxelles (1888). Malibu, Getty Museum. Le espressioni ossessive delle facce sembrano raggiungere i limiti della patologia.
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lazione della corteccia temporale, dove si integra l'informazione sensoriale, possa coinvolgere il sistema limbico, alterando l'emotività e l'affettività, e portando a quelle manifestazioni allucinatorie e a quelle impressioni di essere sopraffatti dalle entrate sensoriali che sono caratteristiche dei pazienti schizofrenici. Un particolare disturbo della schizofrenia è la anormale percezione delle facce che avviene nei pazienti schizofrenici di tutte le età, ma più frequentemente nei bambini, come descritto da Gruesser e altri (1988). Le osservazioni cliniche riportano che, quando questi pazienti osservano una faccia, questa può cambiare repentinamente di espressione: gli occhi e le pupille appaiono dilatati, il naso più grande, la bocca aperta e i denti sporgenti, in particolare i canini, così che la faccia si trasforma in quella di un mostro, di un vampiro. Queste alterazioni della faccia sono evidenti nei disegni e nei dipinti dei pazienti schizofrenici, e in taluni casi mostrano la creatività artistica indotta dalla schizofrenia (figura di apertura del capitolo). Naturalmente non si deve pensare che, ogni volta che si incontra nella storia della pittura un artista che dà espressioni di ansietà ai visi dei suoi personaggi, ciò sia sintomo di patologia mentale. Tuttavia, quando la deformazione delle facce e le espressioni di ansietà e di paura predominano, come nel pittore James Ensor (1860-1949), sorge il dubbio di manifestazioni al limite del patologico (figura 10.12).
capo di questo secondo tipo di comunicazione nervosa è appunto l'ipotalamo, che ha a sua disposizione addirittura una piccola fabbrica di ormoni: l'ipofisi. Visto dal di sopra, il cervello appare costituito da due masse simmetriche: gli emisferi (o lobi) cerebrali destro e sinistro. A prima vista le due metà del cervello sembrano uguali. In realtà esse presentano delle sottili diversità, sia anatomiche che funzionali, che ne differenziano i ruoli in maniera considerevole. A questo dedicheremo un prossimo capitolo. Le due metà del cervello sono ampiamente collegate tra loro da milioni e milioni di fibre, percorse da segnali nervosi nei due sensi, così da assicurare una funzione unitaria e armonica del cervello. La maggioranza di queste fibre si raggruppa a costituire le due connessioni interemisferiche principali: il corpo calloso e la commessura anteriore.
La parte più superficiale della corteccia di ogni emisfero, la neocorteccia, benché apparentemente abbia una struttura uniforme, è suddivisa in aree che hanno specializzazioni funzionali molto diverse. Essa si divide a seconda delle funzioni in quattro lobi: frontale, parietale, occipitale e temporale (figura 4.1 schemi in basso). Il lobo frontale è probabilmente implicato nel controllo del movimento e nella pianificazione di azioni future; il lobo parietale nelle sensazioni somatiche, come il tatto, e nell'immagine del proprio corpo; il lobo occipitale nella visione; il lobo temporale nell'udito e in alcuni aspetti dell'apprendimento, della memoria e delle emozioni. I centri del linguaggio, sia quello che ne regola l'articolazione (area di Broca) sia quello legato alla sua percezione (area di Wernicke), risiedono nella maggior parte delle persone destrimani solo nel lobo sinistro del cervello e sono localizzati rispettivamente nella parte posteriore del lobo frontale e nella parte posteriore del lobo temporale. È cosa nota che l'encefalo dell'uomo è caratterizzato da un grande sviluppo della neocorteccia. Infatti, nel corso dell'evoluzione dei vertebrati e in particolare dei mammiferi (figura 4.2), si assiste a un enorme aumento del numero dei neuroni neocorticali, delle loro diramazioni dendritiche e delle congiunzioni sinaptiche, mentre le strutture più profonde hanno variazioni e accrescimenti molto più limitati. Il sistema limbico, l'ipotalamo e il tronco dell'encefalo (cioè la struttura in cui sono localizzati tutti i centri vitali, come quelli che regolano il respiro e il battito cardiaco) sono cambiati relativamente poco durante l'evoluzione. Queste strutture evolutivamente più antiche sono responsabili degli stati emotivi e di molti comportamenti automatici o semiautomatici: sono descritti casi di neonati umani, privi di corteccia cerebrale, che sono in grado di poppare, piangere, sbadigliare, dormire o seguire con gli occhi uno stimolo sonoro o visivo.
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Il pittore senza colori
Figura 10.13 Questo disegno di una banana, un pomodoro, alcune foglie e una zucca, eseguito a memoria da un paziente pittore affetto da acromatopsia corticale, mostra come egli abbia conservato la visione delle forme, ma perso quella del colore, (da Zeki, 1993).
Il colore è così importante in pittura che sembra difficile pensare ad artisti con una difettosa visione dei colori. Se la gamma delle tinte visibili al pittore è ridotta, se i colori da lui usati sono assai meno vivi del normale, quasi slavati di bianco o di nero, si può dedurre che egli abbia un difetto della visione dei colori, come il daltonismo? Per quanto riguarda gli artisti del passato anche recente, mancano i dati clinici che permettano di provare una normalità o meno della loro visione cromatica. Nella letteratura si trovano tuttavia citati due casi: quello del pittore francese Fernand Léger (1881-1955) e quello del pittore anglo-americano James A. Whistler (1834-1903). Per quanto riguarda Léger, le sue pitture mancano in molti casi di colore o usano una gamma ridotta, per esempio a due tonalità. In altri quadri, però, sono presenti diversi colori, in tonalità vive. C'è da notare che qui l'uso del colore avviene per macchie relativamente uniformi, di tonalità contrastanti e senza tinte e gradazioni intermedie. Diverso è il caso di Whistler, pittore romantico di scuola realista, che si evolve poi verso l'impressionismo e il simbolismo. Nei suoi quadri c'è spesso una predominanza di tinte neutre, in particolare del bianco, come ad esempio nella Fanciulla bianca o nella Sinfonia in bianco. In altri quadri tra i suoi più noti, come il Ritratto della madre e il Notturno sul Tamigi, sono presenti due tonalità, il blu e il giallo o il blu e l'argento. A differenza di Léger, però, qui il passaggio da una tonalità all'altra è delicato, con sottili sfumature, ciò che fece dire a Oscar Wilde: "La nebbia non esisteva a Londra prima che Whistler la dipingesse". Anche per Whistler non si ha alcuna certezza circa un difetto della visione del colore, e il mondo cromatico dei suoi quadri potrebbe risultare semplicemente da una sua scelta artistica. Si può dire tuttavia che la presenza di due sole tonalità, il giallo e il blu, e delle tinte neutre, come nel Ritratto della madre, corrisponde al mondo cromatico impoverito dei daltonici, e quindi non si può escludere che anche il mondo cromatico di Whistler non avesse tutta la ricchezza della normale visione dei colori. Ricordiamo che, nei casi più comuni di daltonismo, la gamma delle tinte è ridotta a due sole, probabilmente il giallo e il blu. Un caso invece di totale cecità al colore è stato riportato recentemente da Oliver Sachs: si tratta di un pittore contemporaneo che ha perduto totalmente la visione dei colori in seguito a una lesione cerebrale causata da un incidente d'auto. Mentre la visione delle forme, dopo un disturbo iniziale, è tornata alla normalità, la visione del colore è stata irrimediabilmente persa. I disegni del pittore, dopo l'incidente, erano accurati per le forme ma privi di colore (figura 10.13). Il pittore divenuto acromate era incapace anche di «immaginare» i colon, e per-
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sino di sognarli: il suo mondo era divenuto disperatamente bianco e nero. Oliver Sachs descrive questa dolorosa esperienza e il faticoso riadattarsi dell'artista a un mondo senza colori.
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IAf i (d) Figura 10.14 Disegni eseguiti da pazienti con difetti visivi. (a) Disegno originale da riprodurte. (b) Disegno riprodotto da una paziente guardando con l'occhio sinistro affetto da grave ambliopia, dovuta a cataratta congenita. (e), (d) Disegni riprodotti da una paziente guardando con l'occhio sinistro normale (e) o con l'occhio destro strabico (d). (per gentile concessione del Prof. Haase).
Alterazioni della rappresentazione grafica in soggetti con patologie visive Vi sono delle malattie dell'occhio o delle parti più periferiche del sistema visivo che, se sono congenite o insorgono in età infantile, possono causare alterazioni della funzione visiva permanenti o solo in parte recuperabili. Ad esempio una cataratta congenita, se non operata nei primi mesi di vita, può impedire il normale sviluppo della visione e comprometterla gravemente. In questo caso, la patologia dell'occhio ha causato una alterazione del cervello visivo, che non si è potuto sviluppare normalmente per mancanza di una adeguata esperienza del mondo esterno. Si parla in questi casi di ambliopìa. Altre cause di ambliopia possono essere i gravi difetti di rifrazione, come la miopìa, in particolare quando un occhio è notevolmente più difettoso dell'altro, oppure alterazioni della posizione reciproca dei due occhi, come lo strabismo. Nei casi più comuni di strabismo, uno dei due occhi è permanentemente deviato rispetto all'altro e diviene ambliope. Negli occhi ambliopi, l'anormale percezione visiva rende difficile la riproduzione grafica. Raramente questo fatto interessa l'oculista. Un oculista di Copenaghen, tuttavia, si è posto questo problema e ha gentilmente mostrato i disegni eseguiti su suo invito da alcuni dei suoi pazienti affetti da ambliopia di varia origine. Il disegno da riprodurre è quello riportato di figura 10.l4a. Un paziente con grave ambliopia
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nell'occhio sinistro, dovuta a cataratta congenita operata tardivamente, ha riprodotto questo disegno come illustrato in figura 10.l4b. Si noti la totale assenza di dettagli e di forme anche di notevoli dimensioni, come gli uccelli, evidentemente dovuta alla grave limitazione visiva e non a incapacità di disegnare, poiché il disegno riprodotto servendosi dell'occhio sinistro, che aveva una visione vicina al normale, era simile all'originale. Un altro esempio riguarda il comportamento di un soggetto strabico. La figura 10.l4c ci mostra il disegno copiato con l'occhio sinistro,, normale. Il paziente con l'occhio destro strabico, invece, ha riprodotto il disegno di figura 10.l4d. Qui l'anormalità del disegno non consiste solo nella povertà di dettagli, ma anche nella alterata posizione delle varie parti di una stessa figura, l'una rispetto alle altre, propria dell'ambliopia da strabismo. Questi esempi sono forse casi estremi di alterazione della capacità di riproduzione grafica. È possibile però che alterazioni meno vistose siano presenti nei casi assai più frequenti di ambliopie meno gravi .
Il malato pittore
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Figura 10.15 Pagina autobiografica scritta da un paziente eminegletto per il campo visivo sinistro, a causa di una lesione del lobo destro del cervello. Le frecce indicano i bordi del foglio; l'asterisco indica la posizione iniziale della mano del paziente, guidata in questo punto dal medico e poi lasciata libera (da J. Griisser, T. Landis, Vision and Visual Dysfunction, voi. 12, Macmillan, London 1991).
Vi sono malattie neurologiche prevalentemente dovute ad alterazioni circolatorie, in seguito alle quali il comportamento motorio e la percezione visiva divengono notevolmente asimmetrici. In fase acuta, le alterazioni sono molto gravi, con paresi o paralisi del lato controlaterale alla lesione. Di solito vi è poi un recupero almeno parziale sia delle alterazioni sensoriali sia di quelle motorie. Visivamente, il paziente tende a ignorare tutto ciò che sta alla sua destra nel campo visivo, se la lesione è nell'emisfero cerebrale sinistro, o viceversa. Ad esempio, può accadere che il paziente mangi solo ciò che sta nella parte destra del suo piatto, ignorando completamente il cibo che si trova sulla sinistra, o che si rada solo la guancia destra, trascurando di radersi a sinistra. Nella figura 10.15 è riportata una pagina scritta da un paziente con lesione nel lobo destro del cervello. Egli ignorava visivamente tutto ciò che si trovava alla sua sinistra (eminegletto); invitato a scrivere sul foglio, cominciando dal punto segnato con l'asterisco alla sinistra in alto, sul quale il medico aveva guidato la sua mano, il paziente scrisse spostandosi progressivamente verso destra e lasciando bianca la parte sinistra della pagina. Le lesioni del lobo destro del cervello sono particolarmente impressionanti quando colpiscono pittori. Un neurologo tedesco, Richard Jung, ne riporta diversi casi. Di questi ne abbiamo selezionati due parti-
(d) Figura 10.16 Autoritratti di Anton Raederscheidt: prima di aver subito una lesione parietale nel lobo destro del cervello con conseguente eminegletto del campo visivo sinistro (a), durante la fase più acuta (b-c), dopo il recupero (d-f).
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colarmente paradigmatici. Il primo è quello del pittore Anton Raederscheidt che aveva subito una lesione all'emisfero destro (territorio della arteria cerebrale media di destra). Dopo essersi ripreso dalla sintomatologia acuta, il pittore riprese a dipingere. Nella figura 10.16 abbiamo riportato alcuni dei suoi autoritratti, eseguiti prima della malattia (figu-
ra 10.l6a) duranre la fase acura (figure 10.l6b-c) e dopo un sosranziale recupero (figure 10.l6d-f). In 10.l6b segno e figura sono alquanro confusi e la parre sinistra del volto manca completamente. In 10.l6c c'è un recupero della parre sinisrra del volto, che tuttavia rimane parziale. Alrro caso è quello del pittore Otto Dix (1891-1969), che all'età di settantasei anni fu colpito da una sindrome del tutto simile a quella qui sopra riporrata. Dopo quattro giorni l'arrista riprese a dipingere con una rappresenrazione tipica da eminegletto, trascurando completamente la parte sinistra della scena. Fortunatamente dopo due settimane Dix recuperò completamente. La sua pittura cambiò e divenne più espressiva e vivace. È tuttavia discutibile se questi ultimi cambiamenti fossero dovuri alla lesione cerebrale o a cause più prettamente psichiche.
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CAPITOLO 1 1 ARTE, FOTOGRAFIA, CINEMA E TELEVISIONE Non ho paura della fotografia fintantoché non può essere usata né in paradiso né all'inferno. Edvard Munch, Scritti autobiografici.
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Figura 11.1 Tracce dei movimenti saccadici dell'occhio mentre lo sguardo si sposta lungo i lati di un quadrato da un vertice a quello successivo. Le tracce sono prodotte su carta fotosensibile da un piccolo pennello luminoso riflesso da uno specchiettino rissato sull'occhio mediante una lente a contatto, (da Yarbus,1967)
Umberto Boccioni, Rissa in gallerìa (1910). Milano, Pinacoteca di Brera.
uando ci troviamo davanti a un quadro potremmo dire che, più che guardarlo, lo esploriamo. La nostra attenzione infatti si sposta più o meno inconsapevolmente da un punto del dipinto a un altro, poi a un altro ancora, e così via. Questi spostamenti dell'attenzione guidano i movimenti dei nostri occhi, cosi che dapprima sostiamo con lo sguardo sul punto del quadro che ci interessa {pausa di fissazione) e poi li muoviamo rapidamente per portare lo sguardo sul nuovo centro di attenzione, e così via. Le pause di fissazione hanno durata variabile, a seconda di quanto è attratta la nostra attenzione dal punto osservato; i movimenti dello sguardo indotti dallo spostamento dell'attenzione {movimenti saccadici) hanno ampiezza variabile, e quindi durata variabile, ma sono in ogni caso molto veloci. Se ad esempio ci troviamo a circa un metro di distanza dalla superficie di un quadro, per spostare lo sguardo tra due punti che distano tra loro circa 25 centimetri occorrono circa 5 centesimi di secondo. Questi movimenti saccadici si verificano simultaneamente nei due occhi, e con la stessa ampiezza e velocità. È possibile, con apposite tecniche, registrare i movimenti che l'occhio compie durante l'osservazione di un'immagine. Con un opportuno artificio si può fare in modo di marcare su carta sensibile il punto dell'immagine su cui si ferma lo sguardo durante una pausa di fissazione e a far sì che la direzione lungo la quale si sposta lo sguardo durante un movimento saccadico lasci sulla carta sensibile una sottile traccia. La figura 11.1 rappresenta le tracce prodotte dai movimenti dell'occhio di un osservatore che era stato istruito a spostare lo sguardo lungo il perimetro di un quadrato, da un vertice a quello successivo, e così via. Le piccole macchie scure corrispondono alla posizione dello sguar-
Figura 11.2 Tracce dei movimenti oculari di un osservatore che guarda (per tre minuti) la fotografia di bambina (a), (per due minuti) la fotografia del busto della regina egiziana Nefertiti (b). (da Yarbus,1967).
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do nelle pause di fissazione, mentre le linee sottili marcano lo spostamento dello sguardo durante i successivi movimenti saccadici. Durante l'osservazione di una figura più complessa, e di un'opera d'arte, lo sguardo si posa spontaneamente sulle zone di maggiore interesse. In un volto, i tratti più significativi sono i lineamenti (occhi, naso, bocca) e questi attraggono più frequentemente lo sguardo che non le guance o la fronte. In questo caso, le tracce dei movimenti oculari quasi ridisegnano i contorni della figura. Questo è illustrato con particolare evidenza nella figura 11.2, che mostra i movimenti dello sguardo registrati durante la libera osservazione del viso di una bambina o della statua della regina egiziana Nefertiti. Naturalmente la sequenza dei movimenti oculari può cambiare notevolmente davanti a scene complesse, a seconda degl'interesse mostrato nei confronti di diverse componenti della figura. Nell'osservazione del quadro Un visitatore inatteso di Il'ja Repin (un pittore russo vissuto tra il 1844 e il 1930), il soggetto veniva invitato a concentrare la sua
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"'^^spi' Figura 11.3 Registrazioni di movimenti oculari di un soggetto durante ripetute osservazioni di tre minuti ciascuna del quadro di Il'ja Repin, // visitatore inatteso (rientro dall'esilio in Siberia). Ogni registrazione, eccetto la prima (1), era preceduta da istruzioni, e precisamente: (2) prestare attenzione all'ambiente; (3) dare l'età dei personaggi; (4) congetturare che cosa stava facendo la famiglia prima dell'arrivo del visitatore; (5) ricordare i vestiti indossati dai personaggi; (6) ricordare la posizione dei personaggi e degli oggetti nella stanza; (7) valutare quanto a lungo il visitatore inatteso era stato lontano dalla famiglia. ( da Yarbus,1967).
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attenzione per qualche minuto su un aspetto particolare del dipinto, su cui successivamente avrebbe dovuto riferire. Si trattava per esempio dei mobili, o dei vestiti dei personaggi, o della loro età. Le zone del quadro su cui lo sguardo si fissava con maggiore frequenza erano quelle inerenti alle istruzioni (figura 11.3). Talvolta i pittori introducono volutamente nel quadro dei particolari che servono ad attrarre l'attenzione, e quindi lo sguardo dell'osservatore, senza che questi ne sia consapevole. Si tratta di forme particolari, o di macchie di colore che «saltano agli occhi», cioè appaiono come qualcosa di saliente che risalta dallo sfondo prima ancora che l'attenzione si sposti volontariamente su di esse. La visione di queste forme o macchie di colore è preattentiva, cioè risulta da processi che precedono l'esplorazione con lo sguardo, che è invece guidata dagli spostamenti volontari dell'attenzione. Un oggetto di colore notevolmente diverso dallo sfondo, o assai più chiaro o più scuro di tutto ciò che lo circonda, è particolarmente efficace ad essere visto preattentivamente.
Ci possiamo domandare perché uno spostamento dell'attenzione induce uno spostamento dello sguardo. Ciò avviene perché normalmente vogliamo vedere con la massima nitidezza ciò che in quel momento ci interessa; poiché la nostra capacità di distinguere i particolari fini degli oggetti è massima nella piccola regione centrale della retina, la fovea, gli occhi vengono ruotati in modo che l'immagine del centro di interesse si formi nella fovea di ciascun occhio. Quindi, in ogni istante di una pausa di fissazione, solo una piccola regione intorno al punto su cui si fissa lo sguardo ci appare ben definita e ricca di particolari. Tutto il resto del quadro osservato rimane in quel momento meno chiaramente percepibile, perché la sua immagine si forma sulla retina periferica: qui la visione è più povera di dettagli, più indistinta. Di questo normalmente non ci rendiamo conto. Per accorgercene dobbiamo volontariamente evitare di muovere gli occhi e, mentre manteniano fisso lo sguardo sul punto, prestare attenzione a ciò che vediamo con la coda dell'occhio. Solo così possiamo notare come è indefinita la visione al di fuori della piccola area intorno al punto fissato. Normalmente invece ci sembra che tutto ciò che ci circonda, o tutto il quadro che stiamo osservando, sia contemporaneamente presente davanti a noi in tutta la sua ricchezza di particolari. Ciò è evidentemente il risultato della ricomposizione, con l'ausilio di un processo di memoria, delle immagini acquisite successivamente durante le pause di fissazione. Si noti inoltre che ogni spostamento dello sguardo modifica la posizione sulla retina dell'immagine della scena visiva. E tuttavia la scena visiva continua ad apparirci ferma. Questo accade anche quando leggiamo: per leggere una riga di un libro un lettore non principiante muove gli occhi da sinistra verso destra con un certo numero di movimenti saccadici intervallati da pause di fissazione (4-5 o più, a seconda della lunghezza della riga). Poi ritorna all'inizio della riga successiva con un movimento saccadico più ampio. Ogni pausa di fissazione è sufficiente a leggere una o più parole. Nonostante questi ripetuti e rapidi movimenti degli occhi, e il conseguente spostamento dell'immagine del libro sulla retina, a noi non sembra che il libro si muova. Guardare un quadro, leggere un libro, osservare il volto di chi ci sta dinnanzi o l'ambiente in cui ci troviamo, tutto ciò implica una successione di sguardi rivolti a punti diversi della scena visiva, come se si prendessero una serie di istantanee, ciascuna con una zona centrale ricca di particolari, e il resto relativamente indistinto, e se ne ricostruisse un'immagine stabile e nitida, che rappresenta il nostro mondo visivo. Come tutto ciò avvenga nel nostro cervello, non è noto in tutti i suoi aspetti. È certo però che sono implicati processi di memoria visiva, che consentono di conservare l'informazione contenuta in un'immagine acquisita durante una pausa di fissazione e di integrarla con quella dell'im-
( I tre cervelli Premesse queste poche nozioni, ritorniamo a parlare del tema di questo capitolo, e cioè delle funzioni emotive e della loro localizzazione nel cervello. Si tratta di una storia interessante che si è sviluppata nel tempo in sintonia con la progressione delle acquisizioni scientifiche. Lo psichiatra John Hughlings Jackson, alla fine del secolo scorso e all'inizio del presente, avanzò l'idea di un'evoluzione filogenetica del sistema nervoso centrale, che avrebbe acquistato progressivamente funzioni più complesse; nella sua ipotesi la razionalità e la coscienza rappresentano lo stadio più recente dell'evoluzione del sistema nervoso, mentre le funzioni vegetative quello più antico. In armonia col concetto allora accettato che lo sviluppo ontogenetico di un singolo individuo ricapitolasse le tappe dell'evoluzione filogenetica, Jackson faceva notare che nel bambino appena nato dominano le funzioni nervose vegetative e che queste passano poi man mano sotto il controllo di meccanismi cerebrali più complessi, responsabili anche del carattere volontario delle azioni degli individui. Molti anni dopo, nel 1937, James Papez sintetizzò queste idee asserendo che le esperienze emotive avevano luogo in una parte gerarchicamente inferiore del cervello, che egli asseriva essere costituita dall'ippocampo, dall'ipotalamo e... dalle tonsille. Successivamente il neurofisiologo americano Paul MacLean riprese le idee di Papez e ne diede una nuova formulazione molto vicina a quella che ancor oggi è ritenuta valida. Le sue teorie di fatto, anche se controverse, sono state ampiamente accettate fino agli anni Settanta. Secondo MacLean l'uomo possiede tre cervelli, ognuno dei quali corrisponde a momenti successivi dell'evoluzione dei vertebrati. Il primo cervello, il più semplice ma anche il più antico, che egli chiama rettiliano, comprende principalmente strutture del midollo spinale e la zona inferiore del tronco dell'encefalo (figura 4.3). Esso controlla il comportamento istintivo, cioè tutte quelle attività automatiche o semiautomatiche che avvengono in via riflessa senza coinvolgere la sfera emotiva o psichica. Il secondo cervello, che comprende strutture più recenti di quelle midollari ma più antiche di quelle neocorticali, è rappresentato dal paleocervello. Esso è alla base di una serie di attività che soddisfano i bisogni dell'individuo; queste attività ricorrono frequentemente e ciclicamente nella vita dell'animale e sono tipiche della specie, anche se soggette a modificazioni apportate dall'esperienza. Il paleocervello ha un ruolo rilevante nella determinazione degli stati emozionali, del comportamento aggressivo e sessuale. Le strutture comprese in questo sistema sono sotto il manto cerebrale e tra queste dominano i protagonisti di questo racconto: l'ipotalamo e il lobo limbico.
magine successiva. Questa integrazione delle successive immagini, ottenute ciascuna con una diversa direzione dello sguardo, avviene cancellando l'efferto dello spostamento dell'immagine retinica dovuto alla rotazione dell'occhio, forse per mezzo di informazioni che vengono dai muscoli dell'occhio che provocano la rotazione, oppure dalle strutture nervose che comandano questi muscoli. Inoltre, i meccanismi neurali responsabili per la percezione del movimento hanno la proprietà di sopprimere o attenuare la visione delle immagini che slittano rapidamente sulla retina durante un movimento saccadico degli occhi. Non si ha così l'impressione che le immagini degli oggetti lascino dietro di sé una scia durante il movimento, come avviene invece in una fotografia, quando la macchina fotografica si muove durante l'apertura dell'otturatore.
Dipingere il movimento Abbiamo parlato fin qui di ciò che avviene quando si osserva un quadro, e in particolare dei movimenti degli occhi per l'esplorazione di una scena dipinta. Molte delle cose dette si applicano anche alla visione di scene naturali, quando queste sono statiche; ma nella visione in un ambiente naturale la scena spesso è animata per la presenza di oggetti o di persone o animali che si muovono. Anche in quesro caso si producono dei movimenti delle immagini sulla retina, ma quesri sono diversi da quelli causati da un movimento degli occhi. Infatti, durante un movimento oculare saccadico tutta l'immagine retinica scivola per così dire sulla retina. Se poi si insegue con l'occhio un oggetto che si muove {movimento oculare dì inseguimento), l'immagine di quell'oggetto rimane praticamente fissa sulla fovea, mentre tutto il resto dello sfondo scivola uniformemente sulla retina. Quando invece è un oggetto che si muove su uno sfondo statico e lo sguardo è fisso, è solo l'immagine di quell'oggetto che si muove sulla retina. Come può il pittore rappresentare in un quadro, che è di per sé statico, un oggetto che si muove, una scena animata? Per comprenderlo dobbiamo parlare brevemente dei meccanismi nervosi che stanno alla base della percezione del movimento. Il movimento è una qualità primaria della percezione, non è riconducibile a sensazioni più elementari. Mentre fisicamente il moto è uno spazio percorso in un certo tempo, percettivamente il movimento non è riconducibile alla percezione di spazi e tempi. Vi sono infatti nel sistema visivo vie nervose specializzate per il movimento. Già nell'area visiva primaria vi sono dei neuroni che rispondono preferenzialmente a oggetti che si muovono in una direzione, ma non nella direzione opposta. Inoltre vi sono aree cerebrali specificamenre dedicate al movimento. Se
Figura 11.4 Una cavalletta verde ben mimetizzata col suo sfondo ambientale.
Figura 11.5 Ercole che uccide il leone. Particolare di un'anfora proveniente daVuld(525a.C). Brescia, Museo Civico.
per cause patologiche si verifica una lesione di queste aree, la visione del movimento viene compromessa, pur rimanendo normale la visione delle forme, dei colori, ecc. Addirittura il movimento può far emergere percettivamente delle forme che in assenza di movimento non sono percettibili. In natura, certi animali possono mimetizzarsi perfettamente con lo sfondo così da rendersi praticamente invisibili, se sono immobili (figura 11.4); basta però un piccolo loro movimento per smascherare la loro presenza. Quando guardiamo un corpo che si muove, il movimento ci appare nella sua globalità, come una Gestalt, senza che ne distinguiamo separatamente le singole fasi. Il pittore che voglia dare la sensazione di forme in movimento deve in qualche modo suggerire questa Gestalt dinamica. Nella storia dell'arte sono state utilizzate varie convenzioni per la rappresentazione dei corpi in movimento, che in parte si sono modificate nel corso dei secoli, in particolare nel secolo scorso con l'avvento della fotografia. Ne sono esempi: la rappresentazione di corpi umani in posizioni di instabilità (si pensi al Discobolo di Mirone), la rappresentazione dell'inizio o della fine del movimento (figura 11.5), o ancora, co-
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me avviene anche nei fumetti, la rappresentazione di una scia che segue il corpo nella direzione di moto (figura 11.6). Poiché l'invenzione della fotografia e il successivo sviluppo delle tecniche fotografiche ha introdotto notevoli innovazioni nella rappresentazione pittorica, tracceremo ora una breve cronistoria della fotografia e della sua influenza sulle arti figurative.
Il pittore a scuola dal fotografo L'invenzione della fotografia verso il 1839 segna una data importante anche nella pittura: da quel momento nessun pittore, infatti, potè ignorare il confronto con l'immagine fotografica. Tra i primi nomi dati alla fotografia vi fu quello di dagherrotipo, dal nome di Louis-Jacques-Mandé Daguerre che fu il primo o tra i primi a fare fotografie relativamente durature. L'entusiasmo per la fotografia, anche a livello del grosso pubblico, fu enorme e forse come conseguenza portò molti pittori non solo a copiare scene e figure dalle fotografie, ma anche a replicare le deformazioni riprodotte dalla macchina fotografica. In luogo delle regole classiche di composizione delle figure nel quadro, la fotografia suggerì una più naturale e quindi talvolta disordinata disposizione delle figure e dei personaggi. Poteva così accadere che il personaggio più importante occupasse una posizione laterale, mentre altre figure secondarie si trovavano al centro del quadro. Inoltre, prendendo spunto dalla rigorosa prospettiva delle immagini fotografiche, alcuni quadri davano luogo a deformazioni prospettiche, particolarmente per distanze ravvicinate. È infatti alle brevi distanze che, come abbiamo spiegato precedentemente (Capitolo 5), la visione si scosta dalla prospettiva fotografica. Tra i più
noti pittori dell'epoca che introdussero queste innovazioni nei loro quadri, vi fu Degas (figura 11.7). La pittura e il disegno, sotto l'influenza della fotografia, lentamente cambiarono. La linea perse parte del suo peso a vantaggio della forma; in un periodo di trionfo della tecnologia, questo apparve come una distruzione dell'astratto e dell'ideale a vantaggio del materialismo. Accadde anche che i pittori, particolarmente i pittori realisti, trovassero nella fotografia delle facilitazioni per le loro opere. La fotografia poteva essere d'immenso aiuto, specie nella ritrattistica, perché evitava le interminabili e noiose sedute di posa nello studio del pittore; inoltre poteva anche suggerire nuove maniere di inquadrare scene e paesaggi. Bisognava non cadere nella semplice copia della fotografia, come fecero molti artisti di secondo rango, che nelle loro opere riproducevano fotografie senza mai menzionare quale fosse l'origine del loro dipinto. Spesso gli artisti distruggevano le foto di cui si erano serviti affinché il loro lavoro non fosse riconosciuto come banale copia. Tra i pittori più celebri che si servirono per primi della fotografia vi furono Ingres e Manet. Il primo, per eseguire i ritratti su commissione, mandava i suoi clienti dal più famoso fotografo del tempo, il celebrato Nadar. Anche Manet, per il ritratto di Baudelaire, si servì della fotografia che Nadar aveva fatto allo scrittore (figura 11.8); la rassomiglianza tra la fotografia di Nadar e il quadro di Manet è impressionante.
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Figura 11.8 Charles Baudelaire in una fotografia di Nadar, 1859 (a) e in una acquaforte di Edouard Manet, 1865 (b). (daScharf, 1968).
Oltre che sulla ritrattistica, la fotografia fece sentire la sua influenza sulla pittura paesaggistica. Quando si cominciarono a ottenere fotografie di paesaggi, e a considerarle come le vere rappresentazioni realistiche del paesaggio, ci si accorse che anche i pittori di paesaggio — che si ritenevano fino ad allora pittori realistici — si scostavano notevolmente dalla «realtà» fotografica e si servivano, nei loro quadri, di molteplici convenzioni. Un pittore come Courbet, che era ritenuto uno dei pittori realistici per antonomasia, resosi conto del divario tra la realtà fotografica e il suo modo di rappresentare la realtà, cominciò a ispirarsi più direttamente alla fotografia sia per per i paesaggi sia per i suoi numerosi quadri di modelle. Un altro aspetto della «realtà» fotografica riguardava la differenza di fuoco tra oggetti vicini e lontani: quando si mettevano a fuoco gli oggetti in primo piano, quelli lontani risultavano sfuocati e viceversa. Questo avviene anche nella visione, ma la sfuocatura normalmente passa inosservata poiché la nostra attenzione è concentrata sull'oggetto che si mette a fuoco. Il rappresentare in un quadro una differenza di fuoco relativa alle diverse distanze, come viene suggerito dalla fotografia, risulta quindi come un artefatto, poiché si discosta dall'esperienza visiva. Manet era certamente un attento osservatore di fotografie: in un famoso quadro usò l'espediente di dipingere a fuoco le persone in primo piano e fuori fuoco quelle dietro alle prime, per accentuare il senso di profondità (figura 11.9).
Figura 11.9 Edouard Manet, II balcone (1869)- Parigi, Musée d'Orsay. I lineamenti della signora in primo piano sono più definiti di quelli dei personaggi arretrati.
Un'altra caratteristica della fotografia di questo periodo era un certo tipo di indefinitezza, che dava un vago sapore impressionistico ed era dovuta a riflessioni nella lastra di vetro che faceva da supporto all'emulsione fotografica. Nei pittori di paesaggi divenne molto di moda simulare questa sfumatura dei contorni e dei particolari. In Corot questo divenne evidente nei quadri dipinti alla fine degli anni Quaranta. Vi furono però pittori che non si lasciarono coinvolgere dagli aspetti parzialmente artefattuali delle riproduzioni fotografiche, ma che usarono la fotografia in maniera più intelligente e creativa. Tra questi vi fu Delacroix, persona colta e di pensiero, che seppe distinguere i vantaggi offerti da quella nuova tecnologia senza lasciarsi coinvolgere da una pedissequa imitazione.
E gli impressionisti furono influenzati dalla fotografia? La loro intransigente ricerca di naturalismo, la grande importanza data all'occhio e agli aspetti transitori delle scene paesaggistiche, certamente non invitava a copiare fotografie. Tuttavia essi riconobbero che queste potevano essere di qualche aiuto, poiché aumentavano la loro capacità di scorgere il particolare. Inoltre la fotografia poteva fissare sequenze di aspetti del paesaggio, così come questo si modificava nelle varie ore del giorno col cambiare della luce e della trasparenza dell'aria. Verosimilmente Monet può avere sentito l'influsso della fotografia nel dipingere le sequenze della cattedrale di Rouen nelle varie ore del giorno.
Dalla posa all'istantanea
(b) Figura 11.10 (a) Adolphe Braun, Le Po»* «fe A* (1867), particolare di una fotografia panoramica di Parigi. Parigi, Collection Société francaise de Photographie. (b) Claude Monet, Le Boulevarddes Capucines (1873). Kansas City, Nelson Atkins Museum of Art.
Agli albori della fotografia, la scarsa sensibilità dei materiali fotografici richiedeva pose assai lunghe, anche di molti minuti. Si potevano cosi ottenere immagini fotografiche solo di paesaggi, di oggetti fermi o di persone in posa. Oggetti, animali o persone in movimento non riuscivano ad impressionare il materiale fotografico poiché occupavano per un tempo troppo breve una successione di posizioni diverse. Poteva co. sì succedere che nella fotografia di un ponte o di una piazza di Parigi ripresa in pieno giorno, nelle ore più affollate, la piazza o il ponte risultassero deserti (figura ll.lOa). I successivi sviluppi tecnici permisero esposizioni più brevi; i corpi in movimento cominciarono così a lasciare delle tracce nell'immagine fotografica, che però risultavano confuse. Monet, in una delle sue opere giovanili, Le Boulevard des Capucines, riprodusse queste caratteristiche della fotografia (figura ll.lOb). Si noti l'aspetto sfumato dei pedoni, con i contorni imprecisi tipici delle fotografie dell'epoca. I tempi di esposizione man mano diventarono più brevi, finché verso il 1870 si arrivò al millisecondo e anche a tempi più brevi. Nasceva la cosiddetta «istantanea». Prima di allora, per ottenere una fotografia istantanea bisognava ricorrere a sorgenti di illuminazione di durata brevissima. Così, con un abile trucco, Talbot riuscì nel 1851 a fotografare in piena notte una pagina del quotidiano The Times, posta in rapida rotazione su un disco ed illuminata istantaneamente con una scintilla. Una sorpresa che si ebbe con la fotografia istantanea, quando si ottennero tempi di esposizione inferiori al millisecondo, fu la stranezza delle posizioni del corpo di persone o animali assunte durante il movimento, diverse sia da quelle suggerite dall'esperienza visiva sia da quelle riprodotte nei dipinti tradizionali. Tra i primi e più attenti osservatori di queste nuove pose vi fu Edgar Degas. Egli possedeva una macchina fotografica della quale era
Figura 11.11 Edgar Degas, L'étoile ou danseuse sur scine (1878 circa). Parigi, Musée d'Orsay.
molto orgoglioso e che usava come mezzo per apprendere nuovi punti di vista e posizioni durante il movimento. Abbiamo già visto come i soggetti di molte sue opere - animali o persone — sono inquadrati come in un'istantanea, non centrati nel quadro o addirittura tagliati a metà (figura 11.7). Ma dove Degas riuscì a sfruttare a meraviglia l'insegnamento dell'istantanea con osservazioni intelligenti e costruttive fu nelle posizioni del movimento, in particolare del ballo. In alcuni suoi quadri le ballerine sono magistralmente raffigurate addirittura a mezz'aria: si veda, ad esempio, il pastello L'étoile ou danseuse sur scène (figura 11.11). Egli si servì delle fotografie, particolarmente di quelle ottenute da Disderi con il suo Chassis multiplicateur (una macchina foto-
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grafica con molteplici obbiettivi), per la composizione di ballerine in pose successive. Conviene ora soffermarci a tratteggiare più in dettaglio l'opera delle persone che rivoluzionarono con le loro fotografie o composizioni di fotografie la rappresentazione del movimento, suscitando un dibattito vivace e interessante, aperto a tutto il pubblico colto, sul confronto tra realtà percepita e realtà fotografata. A dire il vero si tratta di un problema senza soluzione, perché da un lato la fotografia è certamente corretta e dall'altro l'occhio non isola delle immagini istantanee di ciò che si muove, bensì percepisce il movimento come un tutto unico, senza scorgerne la singole fasi.
Dipingere il movimento: ancora a scuola dal fotografo. È opportuno ricordare al lettore che fino all'avvento della fotografia il movimento era stato rappresentato in maniera tradizionale sia nella scultura che nella pittura; le convenzioni più comuni erano quelle di rappresentare posizioni di instabilità dei corpi e degli arti, oppure le posizioni di inizio e di fine del movimento. La fotografia, come abbiamo già detto, rivelò che molte delle posizioni convenzionali rappresentate nei dipinti o nelle opere di scultura erano errate, nel senso che non corrispondevano a quella realtà fotografica che si assunse come reperto oggettivo dell'evento. Le fotografie non solo non si limitarono a contraddire alcune osservazioni degli artisti, ma rivelarono alcune fasi della locomozione al di là della soglia percettiva. L'espressione "verità fedele alla natura" perse di significato e dimostrò che "verità" poteva significare semplicemente "convenzione". Le personalità che portarono le più profonde innovazioni nella fotografia del movimento e destinate ad influire profondamente sulla pittura furono principalmente il francese Marey e Muybridge, un inglese emigrato poi in California. Le personalità di questi due pionieri fotografi erano molto diverse, come del resto diverso fu il loro approccio allo studio del movimento. Marey era una persona colta, professore universitario e fisiologo, in relazione stretta con gli uomini più significativi del suo tempo; lavorava in maniera estremamente metodica. Muybridge invece, più aggressivo, quasi una figura di avventuriero (era stato convolto in un omicidio), lavorava più in vista dei guadagni e del successo che della conoscenza. Marey cercò di sintetizzare su una lastra fotografica movimenti successivi di esseri animati, come ad esempio il cammino di un uomo o il volo di un uccello osservato da un unico punto di vista. Muybridge usò sequenze di
fotografie prese da diverse macchine fotografiche combinando poi i risultati dei singoli scatti come a formare una storia del movimento. Muybridge diventò presto un fotografo noto; verso il 1872 cominciò a interessarsi di sequenze fotografiche di cavalli in corsa. Ideò particolari ed astuti accorgimenti tecnici che gli permisero tra l'altro di ottenere istantanee in sequenza. Usava mettere 24 macchine fotografiche in fila, allineate perpendicolarmente alla direzione di movimento degli animali. Quando i cavalli passavano, rompevano successivamente una serie di fili che facevano scattare gli otturatori delle macchine fotografiche. Ne risultavano 24 fotografie con una esposizione di 1/2000 di secondo, prese a intervalli molto brevi e regolari (figura 11.12). Le immagini dimostrarono che durante certe fasi del galoppo tutte e quattro le zampe del cavallo erano sollevate da terra, ma non assumevano mai la posizione di totale estensione tipica della rappresentazione pittorica convenzionale del «galoppo volante» (figura 11.13). Alcuni pittori dell'epoca, tra cui Vernet e Meissonier, avevano già tentato di migliorare la rappresentazione del cavallo al galoppo, scostandosi da quella convenzionale, ma non erano riusciti a cogliere la posizione realmente assunta dal cavallo durante la corsa, come risultava invece nella fotografia. Queste fasi istantanee del movimento erano sotto la soglia di percezione dell'occhio. Le reazioni dei pittori alle fotografie di Muybridge furono di entusiasmo e di incredulità. Quando Meissonier, molto famoso all'epoca per la sua fedeltà assoluta alla realtà, vide le prime fotografie del cavallo in corsa, accusò la macchina fotografica di vedere il falso ed esclamò: "Quando mi darete un cavallo come questo — e mostrava uno dei suol disegni — io sarò soddisfatto della vostra invenzione". Più tardi anche Meissonier si rese conto della realtà rappresentata dalla fotografia. A
Figura 11.13 Théodore Géricault, Corsa dì cavalli a Epsom (1820). Parigi, Louvre. Notare la posizione in estensione delle gambe dei cavalli, secondo la convenzione del «galoppo volante».
questo punto però egli si sentì completamente superato dai tempi e si dice abbia detto: "Mais, maintenant, je suis trop àgé". Nel 1878 Muybridge pubblicò un libro che raccoglieva le sue fotografie di cavalli, dal titolo The Horse in Motion. Poi il suo interesse si spostò dal cavallo ad altre creature viventi, e in particolare all'uomo: riprese sequenze di acrobati, di pazienti in ospedale, di movimenti abnormi o patologici, sui quali più tardi pose la sua attenzione il pittore inglese Francis Bacon. L'importanza di Muybridge e della sua opera fu nel mostrare il movimento dell'uomo e degli animali come era in realtà, in un periodo in cui questo desiderio di conoscenza era presente nel pubblico ma restava senza possibilità di verifica. L'enorme interesse dei pittori e degli scultori per la fotografia non può forse essere capito se non ci si riferisce ai fermenti innovatori propri di questo periodo storico, che univano al desiderio di conoscenza una fede crescente nella scienza e nella tecnologia. Le istantanee di Muybridge o di altri fotografi non facevano parte della realtà percettiva, eppure dal pubblico colto, dagli scienziati e dagli stessi artisti furono prese come un allargamento del reale. Esse diedero spunto a una critica delle rappresentazioni tradizionali delle posizioni dei corpi animati, anche se queste ultime davano un'illusione di movimento più naturale delle stesse istantanee. Ogden Rood, lo scienziato americano che con la pubblicazione del suo libro Modem Chromatics nel 1879 tanta influenza doveva avere sulle teorie dei colori dei Neoimpressionisti, scriveva che le istantanee, pur essendo vere, appaiono all'occhio false. I dibattiti di questo periodo sulla questione se fosse più vera l'immagine fotografica o l'immagine fisiologica furono accesi; se da un lato introdussero nuovi gradi di libertà nella rappresentazione del reale,
Figura 11.14 Etienne-Jules Marey, Cronofotografia di un pugile inglese (1880).Parigi, Archivio di Cinematica francese.
dall'altro aprirono la strada a correnti pittoriche che si allontanavano dalla fedeltà al reale, come l'impressionismo, il cubismo, il futurismo. Anche l'opera di Marey ebbe un' enorme influenza sugli artisti dell'epoca. Egli usò la macchina da presa come mezzo di indagine scientifica e inventò il cosiddetto «fucile fotografico», che si può considerare un precursore della macchina da ripresa cinemarografica. Questo era modellato sulla rivoltella astronomica che era stata messa a punto nel 1874 per prendere le immagini del passaggio di Venere al meridiano ogni 10 secondi. Con opportune modificazioni Marey applicò questa rivoltella allo studio della locomozione, riuscendo a prendere istantanee di un uccello in volo ogni dodicesimo di secondo. Veniva così inventata la cronofotografia, di cui riportiamo un esempio nella figura 11.14. Oltre alla cronofotografia, che rappresentava sulla stessa lastra le diverse fasi del movimento e ne dimostrava così la continuità, Marey si dedicò con particolare interesse allo studio delle traiettorie del movimento (figura 11.15). Egli riuscì a fotografarle usando delle ingegnose tecniche che gli furono suggerite da Eugène Chevreul: applicò una macchia chiara su una figura vestita di nero e, tenendo aperto l'otturatore dell'apparecchio, registrò i movimenti della macchia chiara sul
Figura 11.15 Etienne-Jules Marey, Studio cronofotografico della locomozione umana (1886). Beaune, Musée E.J. Marey et des Beaux-Arts. (a) Uomo in costume nero ricoperto di linee e punti bianchi. (b) Immagini successive di un uomo che corre. (e) Uomo che cammina in costume bianco con una gamba dipinta di nero.
Figura 11.16 Georges Seurat, Le Chahut (1889). Otterlo, Rijksmuseum Kroller-Muller.
fondo nero. Riuscì inoltre a ottenere il diagramma delle oscillazioni della figura in movimento incollando strisce bianche lungo un braccio o una gamba e aprendo a intermittenza l'otturatore. Queste nuove forme simboliche di rappresentazione del movimento, come le traiettorie, furono usate già dai pittori dell'epoca, tra cui Seurat e Degas, e più tardi dai futuristi italiani, da Duchamp e da molti altri artisti. Nello Chahut di Seurat, del 1889 (figura 11.16), appaiono già le prime influenze della simbologia delle cronofotografie di Marey e dei diagrammi che egli ne dedusse. La posizione dei ballerini e le pieghe dei
loro costumi si avvicinano ai modelli delle fotografie di Marey (notate come le gambe siano tutte femminili, mentre due ballerini sono uomini; questo accorgimento fu probabilmente usato per dare l'apparenza di una fotografia ripetuta). L'interesse di Seurat per la fotografia e lo studio del movimento è ben documentato. Si racconta anche che egli si rese conto che la posizione del cavallo nel suo quadro Le cirque, esposto nel 1890, non era conforme alle posizioni delle fotografie di Muybridge e quando Puvis de Chavanne, che conosceva e possedeva una serie delle fotografie di cavalli di Muybridge, visitò l'esposizione, Seurat avrebbe commentato con Signac: "Si accorgerà dell'errore che ho fatto nel cavallo?" All'inizio del secolo ventesimo molti artisti furono influenzati dalle fotografie di Muybridge e dalle cronofotografie di Marey. Tra questi, in particolare, i futuristi italiani. Il Futurismo fu una scuola di pensiero e d'arte fondata dal poeta Marinetti, che si espresse nella pittura con artisti come Boccioni, Balla, Carrà, Severini, Russolo. Nacque in Italia intorno al 1910 ed ebbe poi seguaci anche all'estero, soprattutto in Francia e in Russia. I pittori futuristi assunsero la rappresentazione del movimento come elemento portante della loro arte. In parte si ispirarono alle tecniche fotografiche di Marey e di Muybridge e al cinematografo, ma oltrepassarono questi spunti rappresentando aspetti del movimento di maggiore agitazione. Era in un certo senso una ribellione contro la staticità delle forme classiche e una esaltazione della macchina come espressione della nuova civiltà tecnologica. Alla cronofotografia è chia-
Figura 11.18 Umberto Boccioni, Forme uniche di continuità nello spazio (1913)- New-York, Museum of Modem Art.
Figura 11.19 Marcel Duchamp, Nu descendant un escalìer (1912). Philadelphia, Museum of Art.
ramente ispirato il Dinamismo di un cane al guinzaglio di Giacomo Balla, del 1912 (figura 11.17). Nel bronzo Forme uniche di continuità nello spazio (1913) Umberto Boccioni esprime la forma dinamica di un uomo che corre (figura 11.18). In Francia il più noto seguace del futurismo fu Marcel Duchamp, che pure si ispirò in alcune sue opere alle cronofotografie di Marey (Nu descendant un escalier, figura 11.19).
Figura 11.20 Paul Klee, Il folle in trance (1929)- Berna, Felix Klee.
Alcuni, come Moholy-Nagy (un artista che ha operato alla Bauhaus), hanno affermato l'esistenza di legami tra fotografia e cubismo e in particolare tra il cubismo e la cronofotografia di Marey. Mentre nella cronofotografia si riprende da un punto fisso la successione di immagini di un oggetto che si muove, nella rappresentazione cubista l'oggetto non si muove, ma le immagini suggeriscono che è l'osservatore a muoversi intorno all'oggetto. Nonostante l'opinione diffusa che Picasso, come tutti i cubisti, fosse stato culturalmente influenzato dalla nuova maniera di «vedere» insegnata dalla fotografia, si può tuttavia ritenere che il raffronto tra certe pose sovrapposte delle fotografie e la pittura cubista possa essere del tutto casuale. Alcune opere che chiaramente si rifanno alla cronofotografia sono quelle di Paul Klee. Un esempio è II folle in trance del 1929 (figura 11.20). Klee stesso, commentandolo alla Bauhaus, disse: "Il folle in trance può essere preso come esempio di immagini istantanee del movimento sovrapposto". Tra gli espressionisti moderni, il pittore inglese Francis Bacon ha preso varie volte ispirazione dalla fotografia, in maniera diversa dagli artisti dei decenni precedenti. Bacon fin da giovane fu appassionato collezionista di materiale fotografico; verso il 1955 cominciò a considerare le fotografie come possibile spunto per dipinti del corpo umano, dove questo appariva in posizioni instabili o strane. Certamente Bacon conosceva le fotografie di Muybridge. Di particolare interesse erano per lui le istantanee prese senza una specifica intenzione del fotografo, come quelle sportive o quelle riguardanti crimini o pazienti in ospedale. Qui la fotografia era oggettiva, o più oggettiva, e si potevano scovare posizioni insolite, tanto sgraziate quanto inaspettate. Nel suo trittico Studies front the Human Body del 1970, egli mette addirittura un'arcaica macchina fotografica nel quadro, come testimone quasi inesorabile di un corpo umano di miserevole apparenza (figura 11.21). In epoca più recente alcuni artisti hanno cominciato a usare composizioni di fotografie o di frammenti di esse. Fra questi forse i più noti sono Andy Warhol, con le sue serigrafie di Marilyn Monroe o le immagini multiple di scontri automobilistici, e Robert Rauschemberg, che usa combinazioni di frammenti di fotografie o fotografie prese dai giornali. Ci si può domandare a questo punto se la fotografia sia stata positiva per l'arte figurativa. Tale domanda era ben presente anche agli intelletuali di fine secolo. Un articolo uscito nel 1893 su «The Studio» dà un saggio dei problemi che si ponevano all'epoca. L'articolista scriveva: "La macchina fotografica è amica o nemica dell'arte? L'artista meccanico ha ucciso il miniaturista e i pittori ritrattisti e ha reso inu-
Figura 11.21 Francis Bacon, Studies from the Human Body (1970). Teheran, Museum of Modem Art.
tile lo xilografo [...] La macchina fotografica è diventato uno strumento più o meno riconosciuto dell'equipaggiamento dell'artista. Ma la fotografia ha realmente modificato nell'artista la visione della natura? Come è stato colpito l'occhio del pubblico dall'apparecchio fotografico?". E alle sue domande rispondeva notando che i soggetti figurativi accademici erano stati trascurati a favore di composizioni casuali, con noncuranza di accostamenti tipici dell'istantanea. La domanda se la fotografia avesse potuto influire sulla percezione visiva ritornava frequentemente. George Moore, nel suo libro Modem Painting nel 1898 scriveva: "Ci si può domandare se la fotografia abbia alterato o addirittura provocato una precisa modifica della nostra percezione generale del mondo esterno". Negli anni successivi, e in particolare con l'avvento del postimpressionismo, si fece strada tra gli artisti un rifiuto attivo del mondo fisico come è visto dalla macchina fotografica. L'intuizione, il tocco umano, una concezione più astratta della realtà fino all'artificioso e all'innaturale divennero ordini silenziosi per superare i limiti dell'obiettivo. "Limitatore è una ben povera creatura" scriveva Whistler nel 1898. E Munch nel 1889: "Non ho paura della fotografia fintantoché non può essere usata né in paradiso né all'inferno". Van Gogh in una lettera al fratello Theo nel 1888 sosteneva: "Bisogna avere il coraggio di esagerare gli effetti sia dell'armonia, sia della discordanza che i colori producono".
Nel Manifesto del colore del 1918 Balla dichiarava: "Data l'esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa e non può interessare più a nessuno". E Matisse alla domanda "Perché dipinge?" rispose: "Per tradurre le mie emozioni, i miei sentimenti...".
Cinema e televisione: l'apparenza del movimento Quando si riuscì a immobilizzare le immagini fotografiche di forme in movimento e a riproiettarle in sequenza, le fotografie si animarono e sembrarono muoversi come nella realtà: era nato il cinema. Per comprendere come da una rapida successione di immagini possa nascere l'impressione del movimento, occorre parlare di quelle proprietà del nostro cervello che sono alla base di questo fenomeno. Il nostro sistema visivo, come ha dei limiti nella risoluzione spaziale, così ha dei limiti nella risoluzione temporale. Se una luce viene lampeggiata due volte consecutive con un intervallo di tempo abbastanza lungo, i due lampi di luce ci appaiono come due eventi successivi. Se però l'intervallo di tempo tra i due lampi si accorcia, non riusciamo più a vederli come eventi separati nel tempo, ma ci appaiono come un unico lampo luminoso; al di sotto di un certo intervallo di tempo avviene un'integrazione temporale dei due lampi di luce. Questo tempo di integrazione è dell'ordine di alcune decine di millisecondi, ma varia notevolmente al variare dell'intensità degli stimoli e della loro posizione nel campo visivo. Se le luci sono ripetitive, con una frequenza di ripetizione costante, per frequenze relativamente basse possono dar luogo a un apparente alternarsi di luce e buio o ad una luce sfarfallante. Aumentando la frequenza di alternanza lo sfarfallio diminuisce fino a cessare del tutto e dar luogo, a partire da una certa frequenza critica, a una sensazione di luce apparentemente continua. La frequenza critica di fusione cresce con l'intensità dello stimolo; per stimoli intensi è intorno alle 50 alternanze al secondo. Inoltre la frequenza di fusione è più alta in visione periferica che in visione centrale. Questo limite fisiologico ha determinato, nel secolo scorso, la scelta della frequenza della corrente alternata. Questa venne fissata a 50 Hertz in Europa (e 60 Hertz in America) anche col proposito di evitare che le lampadine alimentate in corrente alternata producessero un disturbante sfarfallio. Fu, in realtà, una scelta fin troppo conservativa, poiché le comuni sorgenti luminose non si accendono e spengono tante volte quanto è la frequenza di rete (50 Hertz), ma sono modulate con una frquenza doppia (100 Hertz).
La frequenza di 50 Hertz è anche quella con cui si succedono le immagini televisive (60 Hertz in America). Per ottenere questa frequenza un quadro televisivo, costituito da 625 righe orizzontali, viene presentato in due rate successive (campi), ciascuno formato dalle sole righe dispari o dalle sole righe pari. Tuttavia, tenuto conto dell'alta luminosità degli schermi televisivi e della breve persistenza dei fosfori, questa frequenza è appena sufficiente a permettere la fusione in visione centrale, e può dar luogo a un apprezzabile sfarfallio se si guarda il televisore con la coda dell'occhio. Un fenomeno percettivo fondamentale per la comprensione del cinematografo è il cosiddetto movimento apparente. Se due punti luminosi a una piccola distanza tra di loro vengono presentati alternativamente a breve intervallo di tempo l'uno dall'altro, non si vedono i due punti apparire alternativamente, bensì si vede un unico punto che si muove dalla posizione occupata dal primo punto a quella del secondo e viceversa. Questo movimento apparente è un'illusione inevitabile e si verifica anche con oggetti estesi, linee, figure geometriche ecc. L'illusione avviene anche quando i due punti sono così vicini che l'occhio non è capace di distinguerli se essi vengono presentati simultaneamente. Questo prova che il fenomeno riguarda processi di puro movimento senza coinvolgere direttamente la percezione della posizione spaziale. Naturalmente per provocare il movimento apparente, occorre che la distanza tra i due punti (o oggetti) non superi un certo limite, e così pure l'intervallo di tempo tra le due presentazioni non sia troppo lungo. Per gruppi di punti luminosi la distanza massima che può generare movimento apparente è dell'ordine di 20 minuti primi, ma può essere anche assai maggiore per oggetti estesi o per punti visti con la periferia della retina. Per quanto riguarda l'intervallo di tempo, questo può essere dell'ordine del centinaio di millisecondi. Sul fenomeno percettivo del movimento apparente si basano le insegne pubblicitarie luminose, dove una serie di lampadine si accendono e spengono successivamente dando l'impressione di una scritta luminosa in rapido movimento. Il movimento apparente è anche alla base della percezione del movimento nel cinema. Sullo schermo vengono proiettate delle immagini in rapida successione (24 al secondo); in ciascuna di queste immagini le figure sono leggeremente spostate rispetto all'immagine precedente. Questi spostamenti intermittenti vengono interpretati dal sistema visivo come un movimento continuo della figura. Il fenomeno del movimento apparente delle figure, oltre che nel cinema, è ovviamente presente anche nella televisione, dove, come abbiamo visto, ogni quadro viene presentato con frequenze comparabili a quelle del cinema.
Il movimento apparente, quale si verifica nel cinema e nella televisione, è un fenomeno che si sottrae a un controllo dell'attenzione ed è indipendente dal fatto che il soggetto sia a conoscenza del reale succedersi di singole immagini leggermente diverse tra di loro. Non è possibile cioè, nemmeno con uno sforzo volontario, percepire separatemente le immagini in sequenza. Si può dire che il fenomeno si verifica in modo automatico, e non è sotto il controllo di centri corticali superiori. Nella sequenza di immagini cinematografiche o televisive vi sono però discontinuità tra scene successive, che possono essere percepite, anche se normalmente passano invece inosservate. Si tratta ad esempio della discontinuità che si verifica quando la ripresa passa da un punto di vista a un altro, per esempio quando nel dialogo tra due attori viene inquadrato prima il viso dell'uno e poi quello dell'altro. Queste discontinuità della ripresa normalmente non vengono percepite come tali; se però vi si presta attenzione possono diventare evidenti, soprattutto se si guarda da lontano e si toglie il segnale audio, in modo da distogliere l'attenzione dagli avvenimenti rappresentati. A differenza quindi delle piccole discontinuità tra immagini successive che danno luogo alla percezione del movimento apparente, la percezione di queste discontinuità di ripresa è sotto il controllo dei centri corticali superiori. Perché il succedersi delle immagini cinematografiche e televisive dia luogo alla continuità del movimento apparente e non si verifichi un apparente sfarfallio della luce sullo schermo occorre che siano rispettate le esigenze del sistema visivo di cui abbiamo parlato sopra. Nella ripresa e nella proiezione cinematografica la scena animata viene campionata con 24 fotogrammi al secondo, che è una frequenza sufficiente a dar luogo alla continuità del movimento apparente. Una frequenza di 24 fotogrammi al secondo è però al di sotto della frequenza critica di fusione; ogni fotogramma viene perciò presentato a intermittenza almeno due volte, così da raggiungere una frequenza di almeno 48 fotogrammi al secondo, che permette di evitare lo sfarfallio della luce. Nella televisione l'immagine viene ricostruita sullo schermo da un pennello che scandisce la larghezza dello schermo in direzione orizzontale; il pennello si sposta poi progressivamente dall'alto verso il basso, dando luogo a un succedersi di righe luminose. Occorre che lo spessore delle singole righe sia al disotto della acuità visiva e che il tempo necessario per costruire l'intera immagine sia tale che le immagini possano succedersi a intervalli di tempi abbastanza brevi per dar luogo a un movimento apparente continuo. Le immagini televisive vengono presentate con una frequenza di 25 Hertz (30 in America), ma ciascuna viene scissa in due quadri successivi, così da raggiungere i 50 (60) Hertz corrispondenti alla frequenza critica di fusione.
Il piccolo e il grande schermo A proposito dell'osservazione di un quadro abbiamo notato come sia importante la partecipazione dell'osservatore, quello che Gombrich chiama il beholder's share. In una sala cinematografica questa partecipazione diviene quasi inevitabile per lo spettatore: egli è catturato dalla sequenza degli eventi e trasportato nella vicenda che fluisce sullo schermo. Ciò è facilitato dall'assenza quasi totale di stimoli sonori o visivi estranei. Da questo punto di vista la partecipazione a una vicenda televisiva è meno totalizzante, poiché l'ambiente è meno favorevole alla concentrazione e possono essere presenti altri stimoli sonori o visivi di un certo rilievo. La differenza più vistosa tra cinema e televisione è la diversa grandezza dello schermo (per la televisione si parla, normalmente, di «piccolo schermo»). Questo è vero per quanto riguarda le reali dimensioni degli schermi cinematografici e televisivi, ma non lo è altrettanto per le dimensioni delle rispettive immagini retiniche, se si tien conto delle diverse distanze di osservazione. Per esempio, l'immagine di un personaggio di un film registrato su videocassetta e proiettato sul televisore può produrre sulla retina dell'osservatore un'immagine approssimativamente delle stesse dimensioni di quelle che lo stesso personaggio produrrebbe nel film originale se visto al cinema. Questo, se si tiene conto che uno schermo televisivo ha una larghezza circa dieci volte più piccola di quella di uno schermo cinematografico, e che però il televisore viene visto da una distanza circa dieci volte inferiore. Per quanto persuasiva possa essere questa valutazione, può essere difficile comprendere perché invece le immagini al cinema ci appaiano tanto più grandi. Evidentemente bisogna rifarsi ai fenomeni di percezione relativa delle grandezze e delle distanze, di cui abbiamo parlato a proposito della moon illusion (Capitolo 5). Plausibilmente, le immagini televisive e quelle cinematografiche vengono percepite a distanze diverse e quindi, a parità di dimensioni delle immagini retiniche, quelle che appaiono più lontane appaiono anche più grandi.
Il regista a scuola dal pittore Mentre la fotografia immobilizza una posizione o un momento di una scena naturale o della vita di un animale o di un uomo, il cinema cristallizza la storia, la vicenda. Abbiamo già detto che certi rapporti tra arte mimetica o realistica e la fotografia sono diretti e palesi, al punto che l'avvento della fotografia ha indotto cambiamenti nei modi di dipingere e percepire artisticamente la realtà. Mentre parlando dei rap-
porti tra pittura e fotografia abbiamo messo in evidenza l'influenza della fotografia sulla pittura, nel caso del cinema esiste certamente anche una influenza a direzione inversa, cioè dell'arte sul cinema. Il cinema narra vicende, eventi e li fa vivere togliendo loro, almeno fino a un certo punto, il fluire del tempo. Anche i pittori più antichi si erano posti lo scopo di narrare eventi per supplire il libro e la parola, per narrare ad esempio la storia di Cristo. Gli affreschi giotteschi nella chiesa superiore di Assisi o nella cappella degli Scrovegni narrano storie, i pannelli dietro la Maestà di Duccio narrano pure storie e in tutte le predelle di pale d'altare ci sono storie. E anche qui come nel cinema si svolgono vicende: i personaggi si muovono, compiono azioni. Già gli Egiziani d'altronde avevano dipinto storie, ma in maniera cosi stilizzata che spesso il movimento dei personaggi può essere solo interpretato attraverso la conoscenza di determinati codici di rappresentazione. Una vera e propria arte protocinematica — per usare l'espressione di Anne Hollander nel suo libro Movìng pictures — è quella dei pittori del Quattrocento e Cinquecento olandese, come Van Eyck, Vermeer e Rembrandt. Quali sono le principali caratteristiche che fanno considerare quest'arte precorritrice e, almeno in parte, maestra del cinema? Se ne possono indicare due: il soggetto della rappresentazione e il gioco della luce e delle ombre. Il soggetto nei quadri di questi pittori è la realtà familiare e quotidiana, priva di riferimenti religiosi o filosofici. Il pittore narra un momento della vita, e l'osservatore è subito invitato ad immaginare che quel momento è preceduto e seguito da altri momenti di quotidianità. Il pittore è testimone e narra: proprio come è scritto sulla parete in fondo alla stanza del dipinto che ritrae i coniugi Arnolfini: Jan van Eyck fuit hic. Nell'arte protocinematica l'osservatore è invitato, così come nel cinematografo, a partecipare alla vicenda; la sua risposta al quadro in termini estetici ed emozionali è diretta e non mediata dalla conoscenza dello stile di quel periodo e di quel particolare artista, come invece avviene nella pittura del Rinascimento italiano. I soggetti di questi quadri non sono re o dèi, ma uomini comuni, come l'osservatore. Nell'arte protocinematica, come nel cinematografo, un fascio di luce inquadra il personaggio in primo piano oppure quello sul quale si vuole attirare l'attenzione. Ciò corrisponde, nel racconto scritto, a dare la parola al personaggio protagonista. Il gioco della luce è la seconda caratteristica di questo tipo di pittura. Il tentativo dell'artista è di dare l'impressione che la luce sia nel quadro, anziché provenire dall'esterno ed essere semplicemente riflessa dal quadro.
Si potrebbe dire, e senza dubbio con ragione, che il vero precursore del cinema è la fotografia istantanea. Dal punto di vista tecnico ciò non è neppure in discussione, ma dal punto di vista percettivo questi quadri cosiddetti «protocinematici» danno, più della fotografia, il senso della vicenda, della narrazione. La fotografia è come un voyeur ufficiale della realtà che congela un particolare, ma spesso le opere di pittori come Vermeer, Rembrandt e, più tardi, Turner e Goya hanno più successo nel coinvolgere l'osservatore nel racconto. Nel quadro di Vermeer, Donna che vena il latte (figura 11.22), c'è la semplicità di un gesto che si svolge in cucina, con la luce del sole che penetra dalla finestra. La particolarità dell'opera sta nel cogliere un'azione umana e nell'offrire all'occhio dell'osservatore una luce che suggerisce l'idea di un presente che fluisce. La stessa architettura del quadro è tale da far sentire l'osservatore più vicino, quasi per invitarlo a entrare dentro il quadro; a questo proposito, una tecnica usata con successo è quella di confinare il pavimento nella parte più bassa del quadro o addirittura di lasciarlo solo indovinare.
Figura 11.23 (a) Georges de la Tour, Il pagamento del tributo. Lwow (URSS), Galleria Nazionale di Pittura. (b) Fotogramma dal film The Breakìng Paint (1950). (daHollander, 1991).
In Rembrandt, come più tardi in Turner, sono i giochi di luce a muovere emozionalmente la scena, a far spuntare i personaggi dall'ombra con la loro ansietà, o a sconvolgere le onde del mare. Anche molti pittori italiani furono maestri nei giochi di luce, come ad esempio il Caravaggio. I suoi dipinti, veri tableaux vivants, sono però sempre drammatici, e richiamano più lo stupore che il coinvolgi-
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mento dello spettatore. Altri pittori italiani, come ad esempio Piranesi e più tardi Tiepolo o Canaletto, sono forse più vicini alla rappresentazione cinematografica. È difficile dire se questo tipo di arte protocinematica fu maestra al cinema e se lo fu consciamente o inconsciamente come elemento del bagaglio culturale del regista; ci sono tuttavia delle somiglianze nelle inquadrature e nei giochi della luce che permettono di confrontare singoli fotogrammi del cinema con pitture anche di alcuni secoli fa (figura 11.23). I raffronti di successo tra cinema e arte protocinematica riguardano spesso incisioni o disegni ad inchiostro. Il colore non sembra rivestire un ruolo essenziale né nel cinema né in questo tipo di pittura. Si sarà notato infatti che la tecnica spesso adottata di dare colore a vecchie pellicole in bianco e nero può dare modernità alla storia, ma non cambia l'impatto della vicenda. Il colore rende più piacevole la scena, ma non può cambiare i messaggi. Se i pittori protocinematici sono stati silenziosi maestri del «vedere» del regista, ci si può chiedere se il cinema abbia avuto delle influenze sul «vedere» degli artisti e degli osservatori dei nostri tempi. Si può forse soltanto dire che il cinema ha spostato l'interesse del pubblico verso soggetti più dinamici, verso rappresentazioni più narrative che simboliche dove dominano i giochi della luce e il fluire emozionale della vicenda. La Hollander fa notare che i pittori fiamminghi, ma anche Velàzquez, Caravaggio, Piranesi e Canaletto, sono molto più amati oggi di un tempo e preferiti dal pubblico ai grandi maestri dai soggetti pittorici più classici, come ad esempio Rubens.
BIBLIOGRAFIA
Introduzione
Capitolo 2
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INDICE ANALITICO
A Accomodazione, 21, 148 Acromatopsia corticale, 118, 141 Acuità - p e r il colore, 116 -visiva, 23, 36, 38, 39, 146 Afasia, 168 Albero dei colori, 12, 122 Alberti, Leone Battista, 179 Altezza, 79, 81, 83 Ambigue, figure, 8, 30 Ambliopia, 151, 196 Ames, camera di, 6 Amigdala, 56, 6 1 , 63 Anamorfosi, 92 Anfetamine, 64 Angolo - l i m i t e , 36 -visivo, 35, 36, 75, 81, 88, 95, 116 Antropologica, teoria, 11 Antropologo, 161 Aree della corteccia cerebrale, 17-18, 57, 59, 145 -frontali, 193 -motorie, 145 — sensoriali, 145 Armonici, colori, 123 Arnheim, Rudolf, 10, 151 Arnold, Wilfred Niels, 187-189 Arousal, 67 Assenzio, 189-192 Assimilazione cromatica, 115 Assone, 18 Astigmatismo, 38
Astrattismo, 53, 128, 139, 160 Attenzione, 203, 224 Autistico, 173
B Bacon, Francis, 158, 215, 220, 221 Balla, Giacomo, 2 1 8 - 2 1 9 Bambino, 145-149, 170 -cieco, 156-158 -disegno del, 151-156 Bastoncelli, 21, 100, 106 Baudelaire, Charles Pierre , 185-186, 208, 209 Bellini, Giovanni, 139 Berlin, Brent, 136 Bernini, Lorenzo, 66 Binoculare, visione, 77, 79, 147 -disparità, 78 Blake, William, 190 Boccioni, Umberto, 200, 218, 219 Borges, Jorge Louis, 164 Botticelli, Sandro, 71-72 Braque, Georges, 97, 190 Braun, Adolphe, 211 Broca, area di, 57, 168 Bruegel il Vecchio, Pieter, 130, 176 Brunelleschi, Filippo, 87-88
c Calvino, Italo , 1 Campo -recettivo, 26, 40-41, 47, 118
-visivo, 21,24, 35, 197 Canaletto, Antonio Canal, detto il, 15, 229 Caravaggio, Michelangelo Merisi, detto il, 24, 139,229 Carrà, Carlo, 218 Carroll, Lewis, 35 Cartesio, René, 3 Cataratta, 38-39, 150, 196-197 Catecolamine, 63 Cavanagh, Patrick, 31 Cellule, 2 -corpo delle, 18 Centro di proiezione, v. proiezione Cerchio cromatico, 125 Cervello, 17, 55-56, 57-64, 117-119, 143145,167-168, 193, 197 -diviso, 168 -sessuato, 171 -sviluppo del, 126-127, 143-145 Cézanne, Paul, 69, 97, 126, 128, 137, 139 Chiaro-scuro, 26-27, 37, 49, 113, 117, 122, 126,131 Chiasma ottico, 21 Chimeriche, facce, 170 Chomsky, Noam, 48, 49, 72 Cicli/grado, 37 Ciechi, 150, 156-158 Cielo, 3 5 , 8 1 , 102 Cigoli, Ludovico, 32 Cimabue, 8, 52, 86, 91 Cinema, 222-229 Clark, Kenneth, 159 Cocaina, 64 Cognitivismo, 13, 15 Colori, 99 -119, 121-141, 189, 195-196
-albero dei, 12, 122 -armonici, 123 -complementari, 103, 119, 123 -cristiani, 121-122 -elementari, 113, 119, 136 -fondamentali, 106 -lessico dei, 136-137 -neutri, 110, 122 -saturi, 102, -triangolo dei, 98-99 Combinazione -additiva, 106, 112 — sottrattiva, 106, Commessura anteriore, 57 Completamento amodale, 14 Coni, 2 1 , 23, 99-100, 105-106, 109, 112, 119, 136, 146 - L , M, S, 105 -"rossi", "verdi", "blu", 105, 109 Contorno, 26, 46-50, 53 Contrasto, 25, 36, 111-112 -cromatico, 113-114, 126, 130-131, 189 - d i quantità, 130 — di saturazione, 128 — successivo, 115 -simultaneo, 119 Convergenza -apparente, 79 Cornea, 19, 150 Cornsweet, illusione di, 27, 29 Corot, Jean Baptiste, 210 Corpo calloso, 57, 168 Corpo genicolato laterale, 21 Correggio, Antonio Allegri, 66 Corteccia cerebrale, 3, 18, 55-56, 61, 119, 141, 145 -motoria, 18, 22 -parietale, 18, 22 -temporale, 18-22 -visiva, 17, 2 1 , 4 7 , 146 Costanza - d e l colore, 111-112, 115 -della grandezza, 76-77 -dell'angolo, 76-77,95 Costruttivismo, 4-5, 13 Courbet, Gustave, 209 Cox, Maureen, 151, 153-155 Craig, Kenneth, 35 Cristallino, 3, 19, 38, 150 Cromatica, visione, 36
Cronofotografia, 216 Cubismo, 8, 53, 220
D Dagherrotipo, 207 Dalì, Salvador, 8, 31, 42-43, 69 Daltonismo, 108, 118 Dante, 8, 167 Daumier, Honoré, 191-192 Degas, Edgar, 193, 208-212, 217 Delacroix, Eugène, 135-137 Delgado, H o s è R . , 6 0 Dendrite, 18, 57 Deprivazione sensoriale, 150 Derain, André, 139 DeregowskiJanB., 155, 161-164 Destrimane, 167 Deuteranope, 109 Dicromate, 109 Dimensioni, 75 Disderi, André-Adolphe Eugène, 212 Disegno, 151, 158, 172 Dislocamento, 83 Disparità, 77-78 Distanza, 36, 75-77, 80-82, 95 Divergenza, 95 Divisionismo, 133-135 Dix, Otto, 199 Dominante, emisfero, 167-171 Donatello, 88 Dopamina, 63 Duccio, 52, 137, 178,226 Duchamp, Marcel, 217-219 Dufy, Raoul, 184 Durer, Albrecht, 137
Emozione, 55, 57, 59-61, 169, 179, 193 Empirismo, 4 Encefalo, 57 Endorfìne, 64, 67 Ensor, James, 194 Escher, Maurits Cornelis.l, 11, 69 Esperienza sensoriale, 145-149, 151 •»-£*» Espressionismo, 140 Estetica, 55, 175 Evoluzione, 57, 58
F Faccia, 148, 150, 168-169 Fattore di ingtandimento, 24 Fauves, 139 Fiamminga, pittura, 38 Filosseno di Eretria, 84 Filtraggio fotografico, 41 Filtro -cromatico, 106-107 -visivo, 36-37 Finestra sul mondo, 35-38 Fissazione -pausa di, 201-204 - p u n t o di, 23 Fondamentali, colori, 125 Forma, 10, 28-31, 51, 118, 141, 150 Fotografìa, 4 1 , 76, 97, 160, 205, 207-221 Fotorecettori, 2, 21, 104 Fovea, 20, 23, 24, 146, 204 Freddi, colori, 126, 131 Frequenza critica di fusione, 222-224 Frequenza spaziale, 37 Fumetti, 50, 207 Futurismo, 216-219
E
G
Eccitazione, 19, 117 Eco, Umberto, 179 Egiziana, arte, 50, 82-83, 158, 177 Eibl-Eibesfeldt, Irenaeus, 70-73 Elementari, tinte, 113, 119, 136 Elettrodi, 60 Elettroencefalogramma, 145 Elettromagnetiche, onde, 101 Eminegletto, 198 Emisferi cerebrali, 2 1 , 57, 167-181
Galileo, 17, 32-33 Gali, Franz Joseph, 17-18 Galton, Francis, 69 Gangliari, cellule, 21, 26, 117, 143 Gaugin, Paul, 137 Gedanken-experiment, 70 Geni, 145 Georges de la Tour, 27, 128-129, 228 Géricault, Théodore, 215 Gestalt, 4, 8-11, 13, 68, 169, 206
Gibson, James J., 11-12 Giorgione, 139 Giotto, 8, 52, 85-86, 9 1 , 137, 178 Gioseffi, Decio, 83 Girino, figura del, 152-154 Goethe, Wolfgang, 121,132 Gombrich, Ernst, 8, 135, 225 Goya, Francisco, 184, 227 Gradiente, 11-12,79 Grana, visiva, 4 1 , 44 Grandezza — gradiente di, 79 -relativa, 79, 81 Greca, arte, 50, 84, 206 Gregory, Richard, 4-5 G r i s j u a n , 184, 190 Grusser, Otto-Joachim, 197
H Hatmon, Leon, 34 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 133 Helmholtz, Hermann von, 4, 104, 112, 117-118 Hering, Ewald, 113, 118-119 Holbein, Hans, 93-94 Hubel, David H, 26, 47 Huxley, Aldous, 60, 190 Huxley, sir Julian, 73
- n o n pittorici, 77-78, 96, 149 -pittorici, 78-79, 9 1 , 96, 147, 149 Inibizione, 19, 26, 117 Instabili, figure, 8 Integrazione cromatica, 116-117 Intensità, 100 Interposizione, 149 Ipermetropia, 38 Ipofisi, 57, 61-62 Ipotalamo, 56-58, 60-63, 67, 171-172 Ippocampo, 56, 58 Itten, Johannes, 123, 124
J Jackson, Hughlings, 58 Jung, Richard, 198
K Kandinskij, Vassilij, 121, 130, 139, 140 Kanizsa, Gaetano, 14, 32 Kay, Paul, 136 Keplero, 3 Kindchen-schema, 70 Klee, Paul, 26, 183,184, 220
L I Ictus cerebrale, 167 Ideogrammi, 82, 169 Illusione - d i Cornsweet, 27 - d i Muller-Lyer, 164 - d i Ponzo, 164 Illusori, effetti, 91 Immagine, 1-2, 21, 25, 161 -fotografica, 76, 207-220 -mentale, 48 -retinica, 35-36, 75-76, 78-79 Impossibili, figure, 7 Impressionismo, 8, 38, 44, 53, 137, 160, 195 Impulsi nervosi, 17, 19, 25, 47, 56 Indizi -binoculari, 77-78, 96, 149 -monoculari, 78-79, 149
Land, Edwin H., 112 Lateralizzazione, 167 Léger, Fernand, 195 Leonardo da Vinci, 3, 27-28, 80, 90, 93,166, 167, 179 -finestra di, 90 Lessico dei colori, 136-137 Lettura, 204 Levy, Jerre, 175-176 Limbico, sistema, 193 Linguaggio, 2, 46-49, 136, 167 -visivo, 171, 179-181 Lobo -frontale, 57 -limbico, 5 6 - 5 8 , 6 1 , 6 4 , 6 7 -occipitale, 57 -sinistro, lesione nel, 119 -temporale, 57, 167, 193 Lorenz, Konrad, 70
Lorenzetti, Ambrogio, 86-87 -fratelli, 137, 178 Luce, 2, 79, 99-100 -colore della, 100-106 Luminosità, 28-30, 110, 122 Luna, 32-35,79 Lunghezza d'onda, 39, 80, 100-101
M Madonna, 33, 126-128 Mach, Ernst, 26-27 Mac-Lean, Paul D., 58-59, 65 Magenta, 102 Malato, pittore, 183 Mammiferi, 49,167 Mancino, 167 Manet, Edouard, 192, 209-210 Manieristi, 128 Mantegna, Andrea, 15, 28, 137-138 Marey, Etienne-Jules, 213, 216-218 Marinetti, Filippo Tommaso, 218 Masaccio, 88 Mascheramento, 42 Matisse, Henri, 99, 122, 137-141, 186 Matteo di Giovanni, 66 Maxwell, James Clerk, 124-125 Mediatore chimico, 63-66 Medioevale, pitrura, 179 Meissonier, Juste-Aurele, 214 Memoria visiva, 204 Michelangelo, 90, 184-185 Midollo spinale, 56, 58 Millar, Susan, 157 Milner, George, 62 Miopia, 38, 196 Monet, Claude, 38, 42, 45, 128, 132, 183, 210 Monocromatico, 101 Moon-illusion, 8 1 , 225 Moore, George, 221 Morfina, 64 Morris, Desmond, 73 Mosaici, 44, 122, 177 Movimento, 118, 222 -apparente, 223 -dell'osservatore, 13 -degli occhi, 201-207 -parallasse da, 77-78, 96 -rappresentazione pittorica del, 205-207
-percezione del, 205 -saccadico, 201,204-205 Miiller-Lyer, illusione di, 164 Mundi, Edvard, 185, 192, 221 Munsell, atlante dei colori di, 122 Musica, 169 Muybridge, Eadweard, 213-215
N Nadar (pseudonimo di Felix Tournachon), 209 Nadia, 172, 174 Naloxone, 65 Neocorteccia, 57-59 Neoimpressionismo, 133-135 Neonato,57, 146 Nepente, 64 Neurolettici, 64 Neurone, 18, 47, 143 Neurotrasmettitore, 19 Neutro, colore, 110, 122 Newton, Isaac, 100-101 Niceron, Jean Francois, 93 Nietzsche, Friedrich, 121 Noradreualina, 63-64
o Occhio, 1-3, 19-21, 23, 36, 75, 88, 99, 146, 195-197,201,204 Olds, James, 62 Ombra, 28-33, 79-80, 88, 132, 148 Omosessualità, 172 Omuncolo, 22 Oppiacei, 64 Oppio, 64 Opponenti, colori, 112-113, 117, 119, 121 Ormoni, 56, 60-61, 171-172 Ostwald,Jan, 123 Ottico -nervo, 21 - tratto, 21
P Paleocervello, 58 Panofsky, Erwin, 32
Paolo Uccello, 88 Papez, James, 58 Parallasse, 78, 91 - binoculare, 78 — da movimento, 77-78, 96 Parrasio, 91 Penfield, Wilder, 60, 65 Peptidi, 64-65 Piacere, centri del, 62-67 Piaget, Jean, 153 Picasso, Pablo Ruiz, 97, 159, 192 Piero della Francesca, 88-89, 126-128, 137 Pigmenti dei coni, 105, 108, 117 Piramide visiva, 88-90, 95 Piranesi, Giovanni Battista, 229 Pittogrammi, 169 Planum temporale, 167 Platone, 70 Plinio, 1,70,91 Pointillisme, 132-133 Ponzo, illusione di, 164 Porfìria, 188 Porpora, 102-103, 107, 121-122, 126 Postimpressionismo, 133 Pozzo, Andrea, 91-92,96 Preistorica, pittura, 46, 158-159 Presbiopia, 38 Previari, Gaetano, 136 Primari, colori, 104 Primati, 1 Primitivi, popoli, 158-165 Prisma, 101 Profondità - creata dal colore, 131 -rappresentazione della, 86-92, 94-97 - sviluppo della, 147-148 -visione della, 75-79 Proiezione, 82 -centrale, 82, 88, 91 -frontale, 86-87 -obliqua, 97 Prospettiva, 87-90, 94-95, 149 -aerea, 80 — curvilinea, 96 -fotografica, 208 — invertita, 95 -lineare, 76, 79-80 Protanope, 109 Protocinematica, arte, 226,229 Punto di fuga, 87
Q Quadricromia, 108 Quadro - asimmetria nell'osservazione del, 175-176 -colori nel, 126-130, 133-135, 137-141 -distanza di osservazione del, 43-46 -guardare un, 201-205 -piacere nella visione del, 67-68
R Raederscheidt, Anton, 198 Raffaello, 80-81,90-91, 137 Ratliff, Floyd, 108, 134-136 Rauschemberg, Robert, 220 Realismo, 151-153, 195,208 Rembrandt, 27-28, 139, 227-229 Renoir, Pierre Auguste, 72
s Sacks, Oliver, 172 Sandblom, Philip, 186 Saturazione, 102, 122, 147 Saturo, colore, 102 Scheiner, padre, 3 Schermo, 225 Schizofrenico, 183, 188, 193 Schmidt, Karl, 141 Scimpanzé, 73, 150 Scorcio, 85, 86, 93 Scrittura, 169 Segantini, Giovanni, 136 Segno, 46, 49, 52 Sensibilità al contrasto, 37 Seurat, Georges, 28-29, 134, 217-218 Severini, Gino, 218 Shakespeare, William, 55 Shepard, Roger, 7 Signac, Paul, 28, 134-135, 188 Simbolismo, 195 Sinapsi, 18, 63 Sintesi -additiva, 107-108 -sottrattiva, 107-108 - tricromatica, 107 Sistema limbico, 193
INDICE ANALITICO
Soglia di contrasto, 37 Sole, 80, 100, 109 Sostanza P, 64 Sovrapposizione, 79,81, 83,102 Spazio, 75-76, 97, 147 Speculare, immagine, 175-176 Spettro, 100, 135 -visibile, 102 Split-brain, 168 Steinberg, Saul, 2 Stereopsi, 147-149 Stereoscopico -effetto, 131 -senso, 77, 147 Stimolazione, auto, 63 Strabismo, 151, 196 Surrealisti, 8 Sviluppo - d e l disegno, 151-156 - d e l cervello, 143-145 -della visione, 145-149 - ed esperienza sensoriale, 149-151
-fredde, 121, 126, 136 -elementari, 113, 136, 147 -uniche, 136, 147 Tiziano, 40, 139, 176 Toulouse-Lautrec, Henri de, 191 Trasparenza, 79-81, 87 Tricromatica, visione, 104, 113 -teoria, 113 Tricromia, 108 Tridimensionale spazio, 75, 86, 88, 97, 149 Tritranope, 109 Trivarianza, 113-117 Trompe-l'oeil, 91 Tronco dell'encefalo, 57-58, 6 1 , 145
Velàzquez, Diego, 54, 96, 229 Venere, 71-72, 158-159 Vermeer, Jan, 226-227 Vernet, Claude-Joseph, 214 Vie visive, 19 Visione, 1-4, 14, 17-18, 25, 35-38, 75, -binoculare, 77, 146-149 -cromatica, 36, 99-118, 146 -dellaprofondità, 75
w
Uffizi, Galleria degli, 51-53 Utrillo, Maurice, 186
Warhol, Andy, 220 Watson, James, 175 Wauter, Emile, 188 Wernicke, area di, 57, 168 Whistler, James Abbott, 195, 221 W h i t e j o h n , 85 Wiesel, Torsten N., 47 Wilde, Oscar, 195
T
V
Y
Talamo, 56, 145 Tatto, 168 Televisione, 25, 107, 180, 222-225 Tiepolo, Giovanni Battista, 229 Tinta, 102-110 Tinte -calde, 121, 126, 136
van der Goes, Hugo, 188 van Eyck, Jan, 74, 120, 130, 131, 226 van Gogh, Vincent, 82, 137-139, 185, 187189, 191-193,221 Vasarely, Victor, 32 Vasari, Giorgio, 75, 91 Vegetativo, sistema, 59
Yarbus, Alfred L., 201-203 Young, Thomas, 104
u
z Zeusi, 70, 91
:a) Figura 4.3 [ tre cervelli dell'uomo raffigurati con colori diversi (a) corrispondono alla somma evolutiva dei cervelli dei vertebrati inferiori (b). (da La fabbrica del pensiero, Catalogo della mostra, Firenze 1989)-
Il terzo cervello, la neocorteccia, il nuovo cervello dei mammiferi dovuto alla successiva espansione delle aree corticali durante l'evoluzione, è responsabile delle attività cerebrali più alte dell'uomo, comprese quelle razionali. Questa suddivisione di MacLean, vista alla luce delle conoscenze moderne, è senza dubbio troppo semplificata e quindi non del tutto corretta, ma dà un'idea efficace della distribuzione delle funzioni cerebrali ai diversi livelli del sistema nervoso centrale. Molte funzioni sono chiaramente localizzate in determinate parti del cervello; altre, come ad esempio le emozioni, oggetto della nostra discussione, sono localizzate in più strutture collegate anatomicamente e funzionalmente tra loro, per cui, alla luce delle conoscenze attuali, si ritiene non corretto parlare di una loro unica localizzazione cerebrale. Per gli stati emozionali si ritiene inoltre che essi siano almeno in parte sotto il controllo razionale, e quindi sotto il controllo della neocorteccia. Questa ipotesi fu suggerita dal fatto che l'asportazione della corteccia cerebrale in mammiferi come il cane o il gatto provoca iperattività emotiva. In questi animali privati di corteccia, una semplice stimolazione tattile produce reazioni rabbiose, con comportamento di difesa e di preparazione all'attacco, aumento della pressione arteriosa, tachicardia, dilatazione pupillare e altre manifestazioni del sistema vegetativo tipiche delle reazioni emotive di rabbia e di paura.
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Queste osservazioni suggerirono di ricercare se vi fossero nei centri sottocorticali, collegati con la corteccia, dei meccanismi regolatori delle emozioni. La regione del cervello più accuratamente sottoposta a indagine sperimentale è stata l'ipotalamo. Esperimenti volti a individuare i centri dell'emozione e il loro controllo da parte della corteccia cerebrale introdussero, negli anni Sessanta, l'idea che agendo farmacologicamente o chirurgicamente su questi centri si potesse influenzare il comportamento degli animali e in particolare dell'uomo. Faceva capolino l'ipotesi che la scienza potesse controllare il cervello dell'uomo e le sue emozioni. Queste idee facevano parte della cultura del tempo e lo scrittore inglese Aldous Huxley ne aveva già parlato, alcuni decenni prima, nel suo libro Brave New World. Gli esperimenti più sensazionali furono quelli di stimolazione elettrica di particolari centri ipotalamici. Vale la pena di ricordare quelli del fisiologo spagnolo José Delgado, non tanto per la loro importanza, quanto per la loro spettacolarità. Delgado impiantò elettrodi nell'ipotalamo di un toro; poi lo affrontò nell'arena armato solamente di un radiotrasmettitore per controllare a distanza gli elettrodi e inviare impulsi all'ipotalamo dell'animale. Da attaccante infuriato, il toro venne reso, attraverso gli elettrodi, calmo e rilassato come un animale domestico. Altri esperimenti che ebbero grande risonanza furono quelli del neurochirurgo canadese Penfield, che nel 1954 applicò una stimolazione elettrica a zone del lobo limbico in pazienti affetti da epilessia. La stimolazione elettrica è stata in passato una metodica di routine per individuare le zone del cervello che dovevano essere rimosse durante l'operazione chirurgica. Nei pazienti di Penfield la stimolazione elettrica fece rivivere loro stati emotivi che avevano già provato nel passato. Molte delle informazioni sul «cervello delle emozioni» derivano da osservazioni o da esperimenti sugli animali e solo in piccola parte da osservazioni dirette sull'uomo. Il «cervello delle emozioni» è un cervello ancora in gran parte misterioso e che suscita per questo grande interesse e curiosità. Si tratta di una parte di cervello dove la neurochimica sembra avere un ruolo predominante, dove si producono molti ormoni che in quantità infinitesime riescono a modulare il funzionamento di organi o ghiandole come la tiroide, il surrene o le ghiandole sessuali, con alterazioni metaboliche e di comportamento. Questo «cervello delle emozioni» comincia a svelare alcuni dei suoi misteri solo per alcuni aspetti ristretti e definiti della vita istintuale ed emozionale, come la fame, la sete, l'aggressività, la vita sessuale. Indulgendo ad alcune speculazioni, d'altronde sempre indicate come tali, noi tratteremo l'argomento riassumendo prima le caratteristiche anatomiche e funzionali di questa parte del cervello, e facendo notare in un secondo tempo le possibili relazioni di queste funzioni con il piacere estetico, in particolare con quel piacere che si prova guardando un quadro.
Il lobo limbico, l'ipotalamo e le emozioni Il lobo limbico è così chiamato perché avvolge come un limbo (da lìmbus, bordo) il tronco dell'encefalo (figura 4.1); è costituito da una corteccia filogeneticamente più antica, collegata ampiamente sia con la neocorteccia, probabilmente sede delle funzioni razionali più alte, sia con i centri sottostanti e in particolare con l'ipotalamo. Il lobo limbico e l'ipotalamo giocano un ruolo senza dubbio rilevante nella regolazione degli stati emozionali. Lo schema funzionale proposto è che queste strutture sottocorticali, e le funzioni che esse regolano, siano normalmente controllate dalla corteccia. Stimolazioni esterne, come gli stimoli provenienti dai sensi, o interne, dovute ad esempio a una variazione dell'attività elettrica nella corteccia per un impegno intellettuale o motorio, ne possono modificare la funzione, modulando così umori ed emozioni. Abbiamo ricordato le molteplici connessioni del sistema limbico, sia con la corteccia che con i centri regolatori della produzione degli ormoni, perché queste ci possono far capire la complessità dell'origine e delle conseguenze di uno stato emozionale. Certi stati emotivi possono variare i livelli ormonali in tutto il corpo, preparandolo a varie evenienze collegate con la sopravvivenza dell'individuo (nell'animale la fuga, l'attacco, la difesa) e influenzando anche lo stato di reattività generale che a sua volta può sfociare in uno stato patologico. Le connessioni con la corteccia possono spiegare gli stati emotivi che accompagnano il lavoro intellettuale e gli stati mentali. Un'idea (attività corticale) può far battere più forte il cuore, o alterare la motilità dello stomaco o la sudorazione o la salivazione, effetti che certamente coinvolgono l'ipotalamo e il lobo limbico. Per contro, una forte emozione può completamente distogliere da un pensiero, da un calcolo mentale ecc. Tra le varie strutture del sistema limbico coinvolte nella regolazione degli stati emotivi, particolarmente importante sembra essere una struttura cerebrale a forma di mandorla, l'amigdala, che ha anche una funzione regolatrice dell'ipotalamo e quindi indirettamente dell'ipofisi, una fabbrica importantissima di ormoni. Vi sono zone dell'ipotalamo, del lobo limbico e anche del tronco dell'encefalo che sembrano regolare le funzioni cosiddette «vitali» dell'uomo e degli altri mammiferi. La lesione di piccole zone di queste parti del cervello può abolire la sete o la fame o alterare i battiti cardiaci, la temperatura o la copulazione. La stimolazione elettrica o farmacologica di queste regioni può provocare l'aumento della sete e della fame o del numero delle copulazioni. La regolazione di queste funzioni vitali avviene mediante la produzione di ormoni: vi sono ormoni che stimolano la funzione sessuale, al-
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tri la sete o la fame, altri l'aggressività ecc. È interessante notare che la zona del cervello che regola queste importanti funzioni vitali dell'uomo ha un'estensione molto limitata, che corrisponde circa all' 1 % del suo volume. Da questa rassegna rapida e incompleta si può dedurre che molte strutture cerebrali (strutture corticali e sottocorticali) sono coinvolte, con diversi pesi e misure, nella regolazione delle emozioni. È, questo, un fenomeno di grande complessità, anche perché spesso è difficile dedurre da modelli animali o da informazioni ricavate dalla patologia la vera funzione del cervello, particolarmente quando si tratta di stati complessi, inafferrabili e spesso indefinibili come le reazioni emotive. Rimane affascinante e molto probabile l'ipotesi (suffragata da molte indicazioni sperimentali) che nel segreto della complessità del cervello, e della sua neurochimica, stia la fonte delle nostre gioie, dei nostri piaceri, da quelli più «animali» a quelli più «intellettuali», tutti riuniti però dalla loro natura di eventi biologici che derivano da una stimolazione esterna o interna del nostro cervello.
I centri del piacere Se l'opera d'arte, sia essa arte figurativa, poesia o musica, dà piacere, allora può essere interessante domandarsi se esistano delle basi nervose di questo piacere, se si possa cioè almeno fantasticare su quali possano essere i meccanismi che lo generano e lo regolano. Abbiamo accennato nel paragrafo precedente alle cosiddette «funzioni vitali» che hanno sede in centri dell'ipotalamo e del lobo limbico. Anche il piacere, inteso nella sua forma biologicamente più rilevante e che porta al mantenimento della specie, sembra aver sede, o almeno avere centri regolatori, in queste regioni del cervello. Molte delle ricerche che hanno portato a queste conoscenze sono state condotte sul ratto, ma alcune anche sull'uomo; si tratta, nella maggior parte dei casi, di esperienze in cui queste regioni del cervello vengono stimolate, cioè eccitate elettricamente o chimicamente, mentre contemporaneamente si osserva il comportamento dell'animale o dell'uomo. La storia di questi esperimenti inizia nel 1954 con due ricercatori americani, Olds e Milner. I loro studi riguardavano l'ipotalamo che, come abbiamo già detto, è collegato con il lobo limbico e con l'ipofisi e di conseguenza ha un ruolo importante nella produzione e nella regolazione degli ormoni. Olds e Milner inserirono un elettrodo che poteva inviare impulsi elettrici nell'ipotalamo laterale di un ratto. Con particolare pazienza insegnarono al ratto a pigiare una leva che metteva in azione l'elettro-
do, così che l'animale aveva la possibilità, se voleva, di autostimolarsi. Gli sperimentatori sorprendentemente notarono che il ratto, una volta che aveva imparato a toccare la leva per autostimolarsi, continuava poi a premerla ininterrottamente, non lasciandosi distrarre da niente, nemmeno dall'offerta del cibo. Gli autori correttamente ne dedussero che il ratto si produceva con la stimolazione elettrica una sensazione piacevole che voleva poi ripetere, quasi perpetuare ad ogni costo. La parola «piacere» indica sensazioni ed emozioni complesse e noi non azzarderemo una sua definizione, rimandando piuttosto alle esperienze soggettive di ciascuno. Questi esperimenti, e altri connessi, hanno fatto definire l'ipotalamo laterale come «il centro del piacere»: una definizione però inesatta, dal momento che ci sono altre parti nel sistema nervoso, localizzate a livello del lobo limbico e del tronco dell'encefalo, che, stimolate elettricamente, possono indurre il fenomeno dell'autostimolazione. Una riflessione importante che si può dedurre da questi esperimenti è che sensazioni così importanti come il piacere sono in realtà guidate dall'attività di una schiera molto ristretta di neuroni. Alcuni ricercatori hanno studiato questi cosiddetti centri del piacere, chiamati anche «sinapsi edoniche», nell'uomo e nella donna durante l'orgasmo, che è una manifestazione di piacere sufficientemente definita. Heath (1972) ha studiato una sessantina di pazienti e ha trovato che la stimolazione elettrica di particolari regioni del cervello umano (ipotalamo laterale e setto), corrispondenti a quelle citate per il ratto, provocava nei pazienti una sensazione di piacere. Se invece di stimolare queste zone si impiantano nei loro neuroni elettrodi atti a registrare la loro attività elettrica e si analizza questa attività durante l'orgasmo, si nota che questa è molto accentuata, parossistica, e che nella donna si estende anche all'amigdala. Queste variazioni dell'attività elettrica sono limitate all'ipotalamo e al lobo limbico e sorprendentemente non interessano mai la corteccia cerebrale. Fin qui ci siamo soffermati a descrivere le strutture anatomiche dell'ipotalamo che sono alla base del fenomeno dell'autostimolazione, e in generale della sensazione di piacere. Consideriamo ora che il sistema nervoso per comunicare si serve di sostanze, i mediatori chimici, che permettono il passaggio dei segnali nervosi da un neurone all'altro. Nell'ipotalamo laterale, i mediatori chimici di gran lunga più frequenti sono la dopamina e la noradrenalina, due sostanze che appartengono alla famiglia delle catecolamine. Per questo fatto, e per amore di paradosso più che di scienza, la dopamina in particolare è stata chiamata «il mediatore chimico del piacere». Si sa tuttavia che anche la noradrenalina svolge importanti funzioni in queste aree dell'ipotalamo, e certamente non si può escludere la partecipazione di altri mediatori chimici.
Vi sono delle sostanze la cui assunzione aumenta la liberazione, nel sistema nervoso, di noradrenalina: sono l'anfetamina, gli anfetaminici e la cocaina. Nell'animale queste sostanze aumentano il fenomeno dell'autostimolazione e nell'uomo esaltano le sensazioni di piacere. Queste proprietà ne spiegano il loro uso come stupefacenti. Invece i neurolettici, farmaci che diminuiscono la liberazione delle catecolamine, riducono il fenomeno dell'autostimolazione e le sensazioni di piacere.
Gli oppiacei esogeni ed endogeni Tra le famiglie di sostanze capaci di produrre sensazioni di piacere nel senso più ampio della parola, la più nota fin dall'antichità è la famiglia degli oppiacei. L'oppio, estratto dalla pianta del papavero, è forse la più antica delle droghe, usata per i suoi effetti psicoattivi e antidolorifici. L'uso degli estratti di papavero si trova citato già nel IV millennio prima di Cristo, presso i Sumeri. Lo stesso Omero, nell'Odissea (ix o vili secolo a.C.) descrive come il nepente, di origine vegetale, dia tranquillità e benessere seguiti da sonnolenza. Il dio romano del sonno è spesso rappresentato con in mano un bicchiere colmo di un estratto di papavero. L'uso dell'oppio diventò di gran moda in Europa nell'epoca romantica, in particolare presso gli artisti, come mezzo per trovare un mondo artificiale di parole e di immagini che poteva aiutare la loro creatività. Il principio attivo dell'oppio è la morfina, che dà al soggetto una sensazione generale di piacere e il forte desiderio di ripetere l'esperienza dell'azione della droga, di ritornare cioè, come abbiamo osservato per i ratti, ad autostimolarsi. Recentemente sono state scoperte in molte zone del cervello delle sostanze (peptidi) la cui costituzione chimica è simile alla morfina, e che agiscono sugli stessi recettori nervosi. Queste sostanze sono prodotte in discreta quantità in diverse parti del sistema nervoso e sono chiamate endorfine. La morfina, e così pure le endorfine, si distinguono per due principali azioni. La prima è legata all'attenuazione del dolore, sia a livello centrale che periferico. Le endorfine esercitano questa azione interferendo con la sostanza P, che è il mediatore chimico dei nervi che trasmettono il dolore. La seconda azione è la produzione di uno stato di euforia. La spiegazione che viene data di questo piacevole effetto è più oscura e basata sull'osservazione che il lobo limbico e altre zone del cervello sono particolarmente ricche di recettori per le endorfine. La droga esogena (somministrata dall'esterno) o endogena (prodotta dall'organismo stesso) occuperebbe questi recettori nelle zone del lobo limbico, provocan-
do verosimilmente un'alterazione eccitatoria dei centri dell'emozione e del piacere. Questo ha fatto nascere l'ipotesi che le endorfìne rientrino, oltre che nella regolazione e nell'attenuazione degli stimoli dolorifici, anche in qualche modo nella regolazione dei centri del piacere e delle sinapsi edoniche. Nel contesto dell'argomento «piacere», è noto da tempo che l'uso dell'oppio diminuisce l'attività sessuale mentre i farmaci che bloccano l'azione degli oppiacei, come il Naloxone, la aumentano, incrementando ad esempio il numero delle erezioni e altri fenomeni correlati. Inoltre si sa che negli animali, dopo l'orgasmo, vi è un forte aumento di peptidi di tipo endorfinico in circolo. Si è fatta anche l'ipotesi che la liberazione di queste endorfme provocata dall'orgasmo sia responsabile della diminuzione dell'appetito sessuale e anche delle sensazioni piacevoli di benessere e quiete che seguono l'orgasmo stesso. Un aumento delle endorfìne regolerebbe in senso negativo l'attività del centro del piacere; al contrario una loro diminuzione in circolo provocherebbe un aumento della libido e del desiderio sessuale. Ci siamo indugiati a parlare di orgasmo perché questo è un evento importante nella vita dell'uomo, anche se è soprattutto un evento soggettivo, in larga misura incomunicabile. Le esperienze che abbiamo riportato fanno intravedere spiegazioni possibili, benché al momento non sappiamo con precisione quali neuroni siano coinvolti nella regolazione dell'orgasmo, né quali siano le loro proprietà fisiologiche e anatomiche. Un dato sorprendente che abbiamo acquisito è che la corteccia cerebrale, almeno a livello della sua attività elettrica, non sembra essere coinvolta nell'evento orgasmo. È interessante notare che certe forme di piacere che guidano la vita dell'uomo, e che sembrano avere assunto particolari valori con la liberazione sessuale dei tempi moderni, sono in gran parte limitate al secondo cervello di MacLean, che guida le funzioni vegetative e gli stati dell'umore, senza coinvolgere la parte più nuova del cervello che ci differenzia dagli altri mammiferi. Ora ci vogliamo soffermare sulla domanda se possa esistere un «piacere» di origine centrale, corticale, che non ha bisogno di stimoli che provengono dalla periferia o di particolari eccitazioni chimiche che arrivano ai centri attraverso il sangue, ma che è provocato da stimoli che provengono dalla corteccia cerebrale e che riescono a stimolare i centri del piacere sottostanti. L'evenienza è teoricamente possibile poiché esiste una comunicazione della corteccia con i centri sottostanti e perché inoltre, come abbiamo accennato riportando gli esperimenti di Penfield, la stimolazione della corteccia può indurre stati emozionali diversi. In via puramente speculativa, una fantasia, un pensiero potreb»t*«- t c l ^ f t C - t (A CP?-'\k<:C*>f\ V % ) t ' M j \ t\!\N-ì>3\SA. \Soai
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Figura 4.4 A sinistra: Gian Lorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa (1645-1652 circa). Roma, Sanra Maria della Vittoria. A destra: Correggio, lo (1531). Vienna, Kunsthistotisches Museum.
bero eccitare la corteccia e questa mandare i suoi impulsi eccitatori al lobo limbico e all'ipotalamo e produrre quindi gli effetti che si hanno per stimolazione di queste parti del cervello. Forse le esperienze dei mistici e dei santi, come le estasi di Santa Teresa d'Avila che Gian Lorenzo Bernini ha rappresentato in marmo in dimensioni naturali nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria a Roma (1645-1652) o il «felice» martirio di San Sebastiano, possono essere state esperienze di piacere a origine corticale. Il San Sebastiano di Matteo di Giovanni (1435-1495) alla National Gallery di Londra con il volto «felice» e sorridente mentre il suo corpo è trafitto da numerose frecce sembra proprio invaso da un piacere paradisiaco, probabilmente risultante dalla sicurezza del pensiero della fede. Nella figura 4.4 si possono confrontare una rappresentazione artistica di un'estasi mistica {Santa Teresa del Bernini) e una di estasi sensuale, più terrena (lo del Correggio).
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Il piacere nel guardare un q u a d r o Ma perché, si domanderà il lettore, siamo svicolati a parlare di piacere sessuale, di dopamine ed endorfine? Cosa ha a che fare tutto questo con l'arte? Anche l'arte dà piacere; perché non cercare allora di collegare questo piacere con sensazioni o emozioni di simile natura, di cui si comincia a intravedere il funzionamento neurochimico o neurofisiologico? La reazione a uno stimolo complesso, sensoriale e culturale allo stesso tempo, come ad esempio l'opera d'arte, non può realizzarsi solo a livello del pensiero ma deve coinvolgere tutto il corpo, con la sua parte a controllo razionale e con quella a controllo vegetativo. Quando nasce un pensiero nel nostro cervello, l'attività da esso generata nel sistema nervoso può influenzare altre funzioni come il battito cardiaco, la sudorazione, la salivazione, il diametro pupillare ecc. Nell'esperienza artistica si possono distinguere, forse con eccesso di schematicità, due stadi. Un primo stadio è caratterizzato dal desiderio e dall'eccitazione di esperire un'opera d'arte, visitare un museo, sentire un concerto. Un secondo stadio, che segue la fine dell'esperienza, è caratterizzato da una sorta di stato di grazia, di quiete spirituale, da sensazioni ed emozioni che chiamiamo "il piacere dell'esperienza artistica" o "piacere estetico". Si potrebbe fare l'ipotesi affascinante che il primo stadio, quello di eccitazione, derivi da un'attivazione dei cosiddetti centri del piacere nell'ipotalamo laterale o di qualche altra parte del lobo limbico. Questi centri potrebbero essere attivati dall'esperienza artistica, come ad esempio dalla visione di un'opera d'arte e dalle esperienze culturali che essa richiama alla memoria. Va ricordato che i mediatori chimici coinvolti nella regolazione e nel controllo dei centri del piacere (come le catecolamine) partecipano anche all'attivazione generale della corteccia, al cosiddetto fenomeno deli'arousal; "arousal" significa risveglio, aumento dell'attenzione e, in questo caso, dell'interesse del soggetto. In senso neurofisiologico, arousal significa eccitazione diffusa di tutta la neocorteccia, che in conseguenza di ciò diviene anche più recettiva alle esperienze sensoriali. Il secondo stadio dell'esperienza estetica, quello di soddisfazione, potrebbe essere dovuto alla produzione di endorfine, cui conseguirebbe il senso di piacere e di quiete: insomma, un piccolo orgasmo estetico, con stadi consimili di eccitazione e di rilassamento. Bisogna però dire che il piacere che segue l'esperienza estetica non è mai, come dicono gli psicologi, una piccola mors post coitum; rimane un piacere creativo, pieno di pensiero e di desideri. Si potrebbe obiettare che questo tentativo di attribuire il piacere artistico al funzionamento di circuiti cerebrali è un'ipotesi riduzionistica,
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poiché cerca di spiegare un fenomeno così complesso con meccanismi troppo semplici della neurofisiologia e della neurochimica del nostro cervello. Noi non pensiamo che il tentativo sia di per sé riduttivo, perché tutti gli eventi della sfera dell'emotivo e del cosciente sono da riportare, in ultima analisi, al sistema nervoso, e anche perché non si negano margini di imprevedibilità al sistema: infatti le variabili che possono influenzare l'attività elettrica eccitatoria e inibitoria dei vari centri nervosi, attraverso il gioco degli ormoni con le loro influenze reciproche, sono così numerose e complesse che lasciano lo spazio più ampio all'imprevedibilità e quindi alla libertà di pensiero e di giudizio.
Estetica e struttura cerebrale
Figura 4.5 I patterns in alto sono formati dall'insieme tegolate delle «tessere» indicate in nero. Percettivamente le tessete vengono ignorate, mentre vengono previlegiate le figure quadrate (gute Gestalt) formate dai loto contorni, (da lllusionen, C.J. Bucher Verlag, Frankfurt 1973).
Non si può concludere un capitolo che tratta dell'emozione suscitata dalla visione di un'opera d'arte senza almeno sfiorare il problema della possibile esistenza di principi percettivi che stiano alla base della sensazione del bello e della sua universalità. Di particolare importanza ci sembra ricordare ancora una volta le leggi percettive della Gestalt, che dimostrano l'esistenza di regole ben precise nell'ordinamento delle nostre percezioni e che fanno della percezione stessa un processo attivo di categorizzazione e interpretazione. Anche una figura ambigua, suscettibile di due interpretazioni percettive, non dà mai luogo a una situazione di incertezza: o si percepisce l'una o l'altra. Il vaso di Rubin o è un vaso o sono due facce. Fra le leggi della Gestalt vi è anche quella della gute Gestalt («buona forma»), che si può verificare quando si osservano semplici figure geometriche, come triangoli, cerchi o quadrati, che abbiano piccole irregolarità o asimmetrie: si tende sempre a percepire la forma nel suo aspetto più regolare e simmetrico (figura 4.5). Questa tendenza alla regolarità e alla simmetria è già presente nei bambini molto piccoli. A proposito della gute Gestalt, è nota a tutti la cosiddetta sezione aurea di un segmento, cui corrisponde un rapporto privilegiato tra i lati di un rettangolo (1:1,62). L'occhio sembra particolarmente appagato da figure che obbediscono a questo rapporto, ampiamente usate in diverse epoche e in particolare nel Rinascimento. È stato fatto notare che l'architettura del Rinascimento e anche la pittura rinascimentale danno un senso di riposo e di bello allo stesso tempo. Ciò avviene in parte per l'uso dei rapporti suggeriti dalla sezione aurea nelle finestre, nelle porte ecc. A questo però si aggiunge l'uso di archi a tutto sesto, cioè semicircolari, e la preferenza per organizzazioni architettoniche o pittoriche simmetriche, sia nelle strutture verticali sia in quelle orizzontali. È un fatto che la nostra percezione ama l'ordine e cerca di dare or-
dine alle sensazioni visive. Categorizzare, scoprire ordine dà piacere visivo, così come dà piacere ridurre la realtà a semplici forme geometriche. In riferimento a quest'ultimo punto, Cézanne ha scritto che la realtà si può ridurre a cilindri, sfere e coni. Salvador Dali e l'artista olandese Escher hanno abilmente giocato con i principi percettivi della Gestalt per rendere l'interpretazione dei loro quadri instabile e misteriosa (figura 4.6). Queste leggi «estetiche» della Gestalt in parte sono innate, ma in parte sono anche acquisite. C'è un interessante esperimento di Francis Galton che risale a più di un secolo fa. Ripetuto con tecniche più moderne da Daucher nel 1979, esso dà un'idea di come si possano formare dei templates per il bello. Daucher sovrappose le 20 fotografie di ragazze riportate nella figura 4.7, ottenendo come risultato la faccia riportata di lato. Questa rappresenta una media statistica dei lineamenti delle
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Figura 4.7 La sovrapposizione delle 20 fotografie di volti femminili dà luogo all'immagine media riportata a destra.
Figura 4.8 Lo schema infantile. Le bambole e i giocattoli ripetono, accentuandoli, gli attributi del bambino o dei cuccioli: testa grande rispetto al corpo, fronte prominente, bocca piccola e contorni tondeggianti, (da Rentschlet, Herzberger e Epstein, 1988).
facce delle varie donne. Si tenga presente che il procedimento in genere attenua o addirittura toglie le particolarità, mettendo in evidenza i lineamenti che sono più comuni. Agli osservarori veniva richiesto di indicare la donna che sembrava loro più attraente. In generale essi trovarono più bella la faccia di donna che risultava dalla media delle altre. L'esperimento fu interpretato come la dimostrazione che certi «modelli» di riferimento si formano dalla somma di molteplici esperienze. Non è forse irrilevante notare che gli ideali della bellezza greca si rifacevano a figure di riferimento esistenti solo nel mondo delle idee di Platone. Questi modelli non mostravano mai particolarità nella loro struttura fisica, proprio come se scaturissero da un tipo di GedankenExperiment (esperimento mentale) simile a quello citato. Plinio racconta che Zeusi costruì la sua Elena prendendo ad esempio cinque delle più belle fanciulle di Crotone. Per i Greci la bellezza era armonia di proporzioni e doveva essere regolata da numeri. Tra le caratteristiche fisiche di animali o persone che vengono giudicate più piacevoli, vanno ricordate le caratterisriche infantili, ciò che Konrad Lorenz chiama Kindcben-Schema (schema del bambino). Secondo gli antropologi questa preferenza è motivata dai sentimenti di tenerezza e protezione tipici del comportamento materno o paterno, essenziali per la prorezione della specie. Nell'uomo in particolare questo schema è caratterizzato da una testa grande rispetto al corpo, guance grassocce, contorni tondeggianti ecc. (figura 4.8). Per quanro riguarda la bellezza del corpo femminile, Eibl-Eibesfeldt fa notare che esistono due ideali di bellezza (figura 4.9)-
Figura 4.9 Venere, l'ideale di bellezza femminile. (a) Venere di Willendorf. Vienna, Naturhistorischen Museum. (b) Venere di Milo. Parigi, Louvre, (e) Sandro Botticelli, ha nascita di Venere (1482). Firenze, Galleria degli Uffizi. (d) Pieter Paul Rubens, ha toletta di Venere (1628). Lugano - Castagnola, Fondazione Thyssen - Bornemisza.
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Uno è il modello della Venere greca che predomina ai giorni nostri, e l'altro è la Venere paleolitica di Willendorf, grassa, con un grosso seno e un grosso sedere. Già in epoca preistorica si era sviluppato un altro modello di bellezza femminile, in cui le forme erano stilizzate secondo schemi geometrici: sono le figure femminili delle Cicladi. Nel corso della storia si succedono modelli in cui si alternano con vario peso le forme tondeggianti della Venere di Willendorf, che suggeriscono la fertilità, e le forme più sottili e slanciate tipiche della giovane donna. La Venere del Botticelli ha forme slanciate e sensuali allo stesso tempo, mentre le donne di Rubens e in parte anche di Renoir richiamano certe caratteristiche della Venere paleolitica. Inoltre, almeno così asseriscono gli antropologi, gli uomini tendono a preferire nella donna caratteri che richiamano quelli infantili. È stato provato che una bocca infantile, un naso piccolo e un piccolo mento sono molto attraenti. Lo studioso del funzionamento del cervello non ha motivazioni convincenti per spiegare l'esistenza di un giudizio estetico con valenza universale. Nota anzitutto che il problema si ripropone anche per altre modalità sensoriali, in particolare per l'udito e il tatto. Una spiegazione plausibile per il neurofisiologo si basa sulla relativa uniformità strutturale e funzionale del cervello di tutti gli uomini che vivono in un determinato momento storico, dovuta sia a ragioni biologiche sia culturali. Dal punto di vista strutturale si constata che la forma, il peso e la struttura macroscopica e microscopica del cervello sono molto simili in tutti gli individui. Ne consegue che se l'organo è simile in tutti gli uomini, anche la sua maniera di rispondere allo stesso stimolo sensoriale sarà con molta probabilità paragonabile. Il secondo tipo di ragioni, quelle di origine culturale, è rintracciabile nell'osservazione che in un determinato luogo della terra, ad esempio il mondo occidentale, gli stimoli che gli individui ricevono dall'ambiente in cui vivono, sia da bambini sia da adulti, sono in parte simili e quindi atti verosimilmente a produrre cambiamenti simili nella memoria e nell'organizzazione cerebrale di tutti gli individui. Questo potrebbe causare una certa uniformità di giudizio di fronte a un quadro o a una poesia. Chomsky ha proposto che la struttura cerebrale stia alla base di certe regole e caratteristiche comuni in tutte le lingue. Anche nella percezione del bello attraverso i sensi potrebbe accadere che la struttura cerebrale sia responsabile, per proprietà innate o acquiste, delle nostre preferenze estetiche. Alcune tendenze estetiche di ordine e regolarità sembrano essere proprie anche di certi animali; il che suggerisce che evolutivamente
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esista una somiglianza tra gli esseri viventi. L'antropologo Eibl-Eibesfeldt riporta esperimenti con diversi animali, tra cui la scimmia e gli uccelli, che dimostrano una loro chiara preferenza per la regolarità e la simmetria nella disposizione degli oggetti. Tra questi esperimenti si inseriscono anche le esperienze di Desmond Morris sui tentativi pittorici degli scimpanzé. In realtà i tentativi di far dipingere i primati sono stati molteplici: i primi risalgono all'inizio del XX secolo. Gli esperimenti di Morris sono però tra i più fantasiosi e sono stati raccolti nel 1962 in un libro interessante, dal titolo The Biology of Art. I suoi risultati concordano con quelli ottenuti da altri autori. Oltre alle qualità estetiche, Morris fa notare interessanti regolarità nei dipinti. L'animale riempie il foglio simmetricamente, restando dentro un contorno tracciato dallo sperimentatore. Sono frequenti, ad esempio nello scimpanzé di nome Congo, i disegni o dipinti a ventaglio, che riempiono il foglio con armonia (figura 4.10). Se si dà agli animali la possibilità di usare diversi colori, questi li dispongono con regolarità, evitando di metterli uno sopra l'altro. Se, ad esempio, uno scimpanzé ha dipinto un ventaglio con un certo colore, quando gli si offre un altro colore esso cerca di inserirlo negli spazi lasciati liberi e crea così un altro ventaglio. Morris organizzò una mostra dei dipinti di Betsy e Congo, i suoi due migliori scimpanzé pittori, all'Istituto di Arte Contemporanea di Londra nel 1957. La mostra fu inaugurata da Sir Julian Huxley, che scrisse: "I risultati mostrano in modo decisivo che gli scimpanzé hanno potenzialità artistiche che possono essere portate alla luce se se ne fornisce loro l'opportunità. Uno dei grandi misteri nella storia dell'evoluzione culturale umana è l'improvvisa esplosione di un'arte di alta qualità nel Paleolitico superiore. Ciò diventa più comprensibile se i nostri antenati scimmieschi hanno avuto queste primitive potenzialità estetiche cui si è aggiunta in seguito la capacità peculiare dell'uomo, quella di creare simboli". La mostra ebbe un grande successo e i dipinti furono trovati simili a certi quadri astratti e a quelli dipinti con le dita dai bambini. Figura 4.10 Dipinti degli scimpanzé, (da Morris, 1962).
CAPITOLO 5 DIPINGERE LA DISTANZA Ma quello che vi è di bellissimo oltre alle figure e una volta a mezza botte tirata in prospettiva e spartita in quattro pieni dì rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sìa bucato quel muro. Giorgio Vasari, La vita dei più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani < sino ai tempi nostri.
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l mondo che ci circonda è un mondo a tre dimensioni e tale noi lo vediamo: gli oggetti ci appaiono nella loro solidità e a distanze diverse rispetto a noi. Eppure l'immagine di questo mondo che si proietta sulla superficie della retina è a due dimensioni e non contiene un'informazione diretta sulla terza dimensione, cioè sulla solidità degli oggetti e sulla loro distanza. Ci possiamo domandare quali siano le informazioni che il nostro sistema visivo ha a disposizione per risalire dalle immagini retiniche alla ricostruzione dello spazio tridimensionale. Questo problema ci sembra particolarmente pertinente alla nostra trattazione perché ci aiuta a mettere in evidenza quali elementi possa contenere un dipinto, cioè una figura che come l'immagine retinica è a due dimensioni, per simulare la terza dimensione. Cominceremo col descrivere le proprietà dello spazio che ci circonda così come esso ci appare. In seguito descriveremo quali meccanismi cerebrali intervengono nella percezione visiva della distanza; infine discuteremo gli elementi che possono essere utilizzati nella rappresentazione pittorica per simulare uno spazio a tre dimensioni e quali espedienti si possono suggerire per facilitare nell'osservatore del quadro la visione della profondità.
Le leggi percettive per la visione della profondità Jan van Eyck, Ritratto dei Coniugi Arnolfini, particolare (1434). Londra, National Gallery. Questo specchio convesso, che nel quadro ha un diametro di meno di venti centimetri, riproduce la scena dipinta nel quadro prolungandone l'ampiezza e mostrando le figure di due testimoni, come in uno specchio tetrovisore. La cornice dello specchio contiene scene della vita e della morte di Cristo.
Abbiamo già fatto notare che un oggetto di date dimensioni dà luogo a un'immagine retinica tanto più piccola quanto più l'oggetto è lontano, cioè quanto più piccolo è l'angolo visivo sotto cui l'occhio vede l'oggetto (Capitolo 2). Dunque l'immagine sulla retina non contiene separatamente l'informazione sulla grandezza dell'oggetto e sulla sua distanza dall'occhio: ad esempio, un'immagine retinica piccola può es-
Figura 5.1 Agli occhi di questa ragazza le due mani appaiono di uguale grandezza, nonostante che le immagini retiniche siano molto diverse a causa della diversa distanza delle mani dagli occhi. Per la macchina fotografica le immagini risultano diverse poiché la fotografia rispetta la legge della costanza dell'angolo.
sere prodotta da un oggetto piccolo e vicino, oppure da un oggetto grande ma lontano. Tuttavia nello spazio che ci circonda, così come lo vediamo, i vari oggetti ci appaiono a distanze diverse. Questo ci dice che l'informazione sulla distanza degli oggetti viene in qualche modo recuperata, così da risolvere l'ambiguità tra distanza e grandezza. È opportuno premettere che la nostra percezione della distanza segue due leggi diverse, una valida per distanze ravvicinate e l'altra per grandi distanze. Nell'ambito del mondo che ci circonda più da vicino, per distanze non superiori a una decina di metri, gli oggetti ci appaiono nella loro solidità, dislocati a diverse distanze da noi, e tuttavia conservano la loro grandezza apparente anche se la loro distanza cambia. Ad esempio, le nostre mani ci appaiono sempre all'incirca uguali anche quando sono a distanza diversa dai nostri occhi, addirittura quando una mano è a una distanza dagli occhi doppia rispetto all'altra, così che la sua immagine retinica è la metà di quella dell'altra mano. Questo spiega certi paradossi fotografici; le immagini fotografiche, come quelle retiniche, obbediscono infatti alla legge per cui la grandezza dell'immagine diminuisce proporzionalmente al crescere della distanza dell'oggetto (figura 5.1). Questa legge percettiva, che vale solo entro distanze moderate, è chiamata legge della costanza della grandezza, perché le dimensioni apparenti di un oggetto rimangono pressoché invariate quando l'oggetto si allontana o si avvicina da noi. Per distanze maggiori, la legge della costanza della grandezza non vale più, e si tende a percepire progressivamente più piccola l'immagine di un oggetto che si allontana. Si passa cioè a percepire la grandezza degli oggetti in relazione alle dimensioni della loro immagine retinica e quindi in relazione all'angolo visivo. Dalla legge della costanza della grandezza si passa alla legge della costanza dell'angolo. Qui la nostra percezione della distanza è in un certo senso indiretta, e deriva da quanto si vede più piccolo. Ciò contrasta con la percezione dello spazio che ci circonda più da vicino, dove la distanza viene percepita in modo «più diretto» e indipendentemente dalla grandezza degli oggetti, che in apparenza rimane invariata. Ad esempio, le persone non ci sembrano cambiare di dimensioni quando si muovono in una stanza, o quando attraversano una strada e passano all'altro marciapiede (legge della costanza della grandezza), mentre quando le guardiamo dai piani alti di una casa ci appaiono decisamente più piccole e tanto più piccole quanto più in alto saliamo (legge della costanza dell'angolo). La legge della costanza dell'angolo è in sostanza la legge della prospettiva lineare, secondo la quale le dimensioni degli oggetti vengono rappresentate proporzionalmente più piccole al crescere della loro distanza. È importante però tenere presente la diversità delle due leggi percettive per quanto riguarda la simulazione pittorica dello spazio tridi-
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mensionale. Se un pittore riproducesse oggetti a distanza ravvicinata seguendo le leggi della prospettiva lineare, cioè della costanza dell'angolo, obbedirebbe alle leggi geometriche, ma sarebbe in contrasto con le leggi della percezione visiva che in questo ambito di distanze obbedisce alla costanza della grandezza. Si creerebbero dei paradossi come quello riportato in figura 5.1. Domandiamoci ora quali informazioni contenute nelle immagini retiniche contribuiscono alla percezione della distanza. Alcune informazioni sono utili per la percezione assoluta della distanza, cioè della distanza di un oggetto da noi; altre contribuiscono solo alla percezione relativa della distanza, cioè a percepire un oggetto più vicino o più lontano di un altro. Degli indizi che conducono alla percezione della distanza e della profondità dell'oggetto, alcuni sono riproducibili pittoricamente e altri no.
Indizi non pittorici della profondità Vi sono due principali fonti di informazioni per la percezione della profondità degli oggetti e della loro distanza relativa (visione stereoscopica). Si tratta della visione binoculare e della parallasse da movimento. Questi due indizi, così importanti per la visione naturale dello spazio, non sono riproducibili pittoricamente. Visione binoculare della profondità. L'informazione è fornita dalla diversità delle immagini che si formano sulla retina dell'occhio destro e su quella dell'occhio sinistro quando guardiamo un oggetto solido oppure oggetti situati a distanze diverse. Quando si guardano due punti che si trovano di fronte a noi alla stessa distanza, le immagini dei due punti che si formano sulla retina dell'occhio destro sono tra loro separate quanto le immagini dei medesimi due punti sulla retina dell'occhio sinistro. Se invece si guardano due punti posti a distanze diverse, ad esempio il punto P, a sinistra, più vicino, e il punto Q, a destra, più distante, le immagini di P e Q sulla retina dell'occhio destro sono più distanti tra loro che non le immagini di P e Q nell'occhio sinistro (figura 5.2a). È proprio questa disparità delle immagini retiniche nei due occhi che dà al cervello le informazioni sulla diversa distanza da noi dei due punti. L'informazione derivata dalla disparità delle immagini retiniche è molto accurata e contribuisce in modo notevole al nostro senso stereoscopico della profondità degli oggetti. Essa però diviene meno efficace con l'aumentare della distanza e a più di un centinaio di metri il suo contributo alla percezione della profondità è praticamente trascurabile.
Figura 5.2 Disparità binoculare (a) e parallasse da movimento (b). (a) Il punto P è più vicino all'osservatore del punto Q. Le immagini dei due punti sulla retina dell'occhio sinistro (P' e Q') sono più vicine tra loro che non le immagini dei due punti sulla retina dell'occhio destro (P"e Q"). Quanto più il punto P è vicino all'osservatore rispetto al punto Q, tanto maggiore è la disparità delle immagini retiniche, cioè la differenza tra la distanza P'Q' e P"Q". (b) Un osservatore guarda due oggetti a diversa distanza da lui. Quando si trova nella posizione 1 vede la chiesa alla sinistra dell'albero; se si muove fino a trovarsi nella posizione 2 vede la chiesa alla destra dell'albero.
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Ci possiamo rendere conto della diversità delle immagini viste dai due occhi, nel caso di oggetti vicini, se teniamo in mano un oggetto solido e lo guardiamo alternativamente con un occhio o con l'altro, senza muovere la testa. Oppure mettendo di fronte a noi a diversa distanza due oggetti sottili in posizione verticale, ad esempio un dito della nostra mano e una matita, e guardandoli alternativamente con un occhio o con l'altro. Si osservi come cambiano le posizioni relative del dito e della matita a seconda dell'occhio con cui guardiamo. Il cambiamento della posizione relativa apparente dei due oggetti quando cambia il punto di osservazione si dice parallasse. Parallasse da movimento. Quando ci spostiamo lateralmente con la testa o col corpo, la posizione relativa degli oggetti posti a diverse distanze da noi cambia (figura 5.2b). Se ci spostiamo da sinistra verso destra, certi oggetti in primo piano, che ci appaiono inizialmente alla destra di altri più lontani, si spostano progressivamente rispetto ai più lontani, fino ad apparire alla loro sinistra. In modo analogo cambia durante il nostro movimento l'immagine retinica di un oggetto tridimensionale vicino a noi: ad esempio, un volto ci può apparire inizialmente di profilo, poi di fronte ecc. Queste diverse immagini dello stesso oggetto, che si susseguono nel tempo in conseguenza del movimento, costituiscono un'importante informazione per la ricostruzione percettiva della terza dimensione dell'oggetto. Sia l'informazione derivante dalla disparità delle immagini retiniche, sia la successione dinamica delle immagini prodotte dalla parallasse da movimento non possono nascere che da oggetti tridimensionali o da oggetti dislocati diversamente nello spazio; i loro effetti non sono quindi direttamente simulabili in una superficie come quella del quadro.
Indizi pittorici della profondità Vi sono altri indizi visivi per la percezione della profondità che prescindono sia dalla disparità binoculare, sia dagli effetti del movimento. Questi indizi, di cui ci si avvale anche quando si guarda con un solo occhio e in assenza di movimento, possono essere utilizzati pittoricamente per simulare la terza dimensione. Ne elenchiamo i principali.
Figura 5.3 Nella fotografia sono evidenti alcuni indizi pittorici di profondità: la convergenza delle rotaie, l'altezza relativa degli oggetti più lontani, la diminuizione progressiva di grandezza dei ciottoli (gtadiente di grandezza). Si noti che la convergenza dei binari crea un'illusione di grandezza: dei due rettangoli uguali, quello più lontano appare più grande (Illusione di Ponzo).
— Grandezza relativa. A distanze relativamente grandi la grandezza relativa di un'immagine dipende dalla sua distanza: diviene più piccola via via che l'oggetto si allontana. Per un oggetto di dimensioni note, la sua grandezza apparente è un indizio di distanza: ad esempio, un'automobile su una strada rettilinea ci appare tanto più lontana quanto più piccola la vediamo. — Convergenza apparente di rette parallele. La separazione orizzontale delle immagini retiniche di due rotaie è più grande per il tratto di binario più vicino e più piccola per i tratti di rotaia via via più lontani. Si verifica cioè una convergenza per le immagini di rette parallele che si allontanano dall'osservatore (figura 5.3). — Altezza rispetto all' orizzonte. Siccome i nostri occhi si trovano più in alto del terreno su cui noi poggiamo insieme a molti altri oggetti, ne risultano differenze nell'altezza delle immagini dei vari oggetti nel campo visivo: più un oggetto è lontano da noi, più alta è la sua immagine nel campo visivo (figura 5.3). — Gradienti. Una successione di oggetti tutti uguali tra loro (ad esempio delle mattonelle) e via via più lontani dà luogo a immagini retiniche di dimensioni regolarmente decrescenti, cioè a un gradiente di grandezza. Questo gradiente può produrre l'illusione di una superficie inclinata nel senso della profondità (figura 5.3). I quattro indizi pittorici che seguono sono determinati dalle proprietà geometriche dell'immagine retinica. Essi possono essere meglio compresi supponendo di proiettare, su un piano frontale rispetto all'osservatore, oggetti situati a varie distanze. Sono queste le regole della prospettiva lineare, di cui parleremo più avanti a proposito della pittura rinascimentale. — Sovrapposizione. Gli oggetti che coprono parzialmente altri oggetti ci appaiono più vicini (figura 5.4a). — Trasparenza. Un oggetto attraverso il quale ne traspare un altro ci appare più vicino del secondo (figura 5.4b). — Luce e ombre. Le ombre proiettate dagli oggetti possono essere un potente indizio di profondità (figura 5.4c).
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Figura 5.4 Indizi pittorici di profondità: (a) sovrapposizione; (b) trasparenza (da «Le Scienze», 71, 1974); (e) luci e ombre; (d) prospettiva aerea (Leonardo da Vinci, Sant'Anna con la Madonna e il Bambino, • particolare,1510. Parigi, Louvre).
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— Prospettiva aerea. Tra noi e gli oggetti distanti visibili in un panorama (colline, montagne ecc.) si interpone uno strato di atmosfera che dà luogo a un fenomeno di diffusione della luce. La diffusione atmosferica è più accentuata per le radiazioni di lunghezza d'onda corta, corrispondenti ai colori blu e violetto. (Questa è la ragione per cui il cielo diurno ci appare azzurro.) Le montagne lontane si vedono attraverso un velo azzurrino dovuto alla diffusione della luce. Questo rende le superfìci delle montagne più uniformi e i colori meno vividi, soprattutto nelle giornate non particolarmente limpide. La sfumatura dei contorni e l'attenuarsi dei colori costituiscono un indizio per la percezione della distanza (figura 5.4d), la cui applicazione alla pittura fu descritta con accuratezza già da Leonardo nei suoi consigli ai pittori. Nello Sposalizio della Vergine di Raffaello possiamo riconoscere molti degli indizi pittorici di profondità che abbiamo descritto (figura 5.5).
Figura 5.5 Raffaello Sanzio, Lo Sposalìzio della Vergine (1504). Milano, Pinacoteca di Brera. Si notino i numerosi indizi pittorici di profondità presenti nel quadro: la convergenza di rette parallele, la sovrapposizione delle figure in primo piano su quelle in secondo piano, l'altezza relativa degli oggetti più lontani, la grandezza relativa dei personaggi, la trasparenza attraverso la porta del tempio, le ombre proiettate dalle figure in primo piano, la prospettiva aerea nello sfondo.
Ambiguità nella percezione della distanza
Figura 5.6 Vincent van Gogh, Il Seminatore (1888). Zurigo, Stiftung Sammlung E.G. Biihrle. Si noti il grande disco, esempio dell'ingrandimento apparente degli astri all'orizzonte. Mandando al fratello Theo uno schizzo a penna di questo quadro il pittore lo descriveva così: "Voici croquis de ma dernière toile entrain encore un semeur. Immense disque citron comme soleil. Ciel vert jaune à nuages roses. Le terrain violet. Le semeur et l'arbre, bleu de Prusse".
La percezione della distanza degli oggetti, e più in generale la percezione tridimensionale dello spazio che ci circonda, dipende in un certo grado dalla maggiore o minore complessità della scena visiva, e quindi da quanti indizi sono disponibili per la percezione della profondità e da quanti oggetti si interpongono tra l'osservatore e l'oggetto fissato. Queste sono alcune delle ragioni alla base di un fenomeno percettivo che ha incuriosito i pensatori fin dall'antichità, la cosiddetta moon illusion. Questa illusione consiste nel fatto che la luna, così come il sole, appare assai più grande quando è in prossimità dell'orizzonte, cioè vicina a sorgere o a tramontare, che quando è alta nel cielo (figura 5.6). Varie spiegazioni sono state offerte per questa illusione. Una delle più plausibili è l'assenza di riferimenti per la distanza in una direzione alta nel cielo, mentre lungo il piano orizzontale sono usualmente presenti numerosi riferimenti (case, alberi ecc.) con l'effetto di dilatare la scala delle distanze e quindi di far apparire più grande l'oggetto celeste, a parità di angolo visivo. Questa stessa illusione fa sì che il cielo diurno, soprattutto in presenza di nuvole, non ci appaia come una superficie semisferica, bensì sia più o meno dilatato in senso orizzontale. Il cielo notturno invece, in assenza della luna, non subisce questa deformazione apparente e ci sembra quindi più sferico. Infatti, alla sola
luce delle stelle, i riferimenti di distanza lungo il piano orizzontale divengono pressoché invisibili. Altre ambiguità nella percezione della distanza si possono verificare o quando non sono note le dimensioni dell'oggetto percepito, oppure quando vengono occasionalmente a mancare certi indizi abituali. Così avviene ad esempio per quanto riguarda la prospettiva aerea: quando l'atmosfera è più limpida e quindi vi è una minore diffusione della luce, come dopo un temporale, le montagne ci appaiono più vicine. Al contrario la visione attraverso la nebbia fa apparire gli oggetti vicini assai più lontani di quanto non siano in realtà. Questa particolare ambiguità nella valutazione della distanza attraverso la nebbia può essere causa di incidenti stradali.
La rappresentazione della distanza nell'arte antica La rappresentazione pittorica dello spazio presenta sostanziali differenze da epoca a epoca e da cultura a cultura. Ogni epoca e ogni cultura privilegiano certi indizi e certe convenzioni di rappresentazione dello spazio rispetto ad altre. Faremo una breve carrellata di diverse epoche e culture a titolo di esempio. L'arte egizia pratica un montaggio ordinato di immagini parziali o "ideogrammi" per realizzare una figura singola o una figurazione storica o narrativa complessa. La composizione degli ideogrammi non riproduce fedelmente l'immagine di quella figura o di quella scena come sarebbe stata percepita, ma in qualche misura si riferisce ad essa e la richiama secondo un codice convenzionale.
Figura 5.7 Proiezione centrale di una figura piana su un altro piano parallelo a quello della figura. La figura e la sua proiezione sono simili, (da Pirenne, 1970).
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Figura 5.8 Stele egizia rappresentante una donna che si trucca (XI dinastia, 2055-1991 a.C). Londra, Brìtish Museum.
Figura 5.9 (a) Composizione pittorica del Nuovo Regno. Tebe, tomba privata, (b) Ricostruzione della scena «reale» della figura precedente, (da Gioseffi, 1971).
Osserviamo che quando si proietta una figura piana da un centro di proiezione su un piano parallelo a quello della figura, la figura proiettata è geometricamente simile a quella originale, cioè ha la stessa forma (figura 5.7). Gli Egiziani disegnavano i particolari degli oggetti e delle persone come apparirebbero se proiettati su un piano frontale. Poi ricomponevano questi elementi uno per uno, nel piano della figura, senza tener conto dell'orientamento che ognuno di essi aveva nello spazio. Ciò risultava tra l'altro nel fatto ben noto che in una testa umana vista di profilo, l'occhio era invece rappresentato di fronte. Questa modalità di rappresentazione adottata dalla pittura egiziana può sembrare strana ai nostri occhi; tuttavia essa ha il vantaggio di rappresentare in modo non ambiguo la forma degli oggetti così come li vedremmo guardandoli di fronte, come è il caso dello specchio in figura 5.8, che ha forma circolare e non ellittica. Nel caso di scene più complesse sembra che gli egiziani usassero due convenzioni per rappresentare la successione spaziale nel senso della profondità delle figure umane o di animali (Gioseffi, 1971). Queste sono il dislocamento orizzontale e il dislocamento verticale. E cioè: ciò che è accanto si intende dietro (dislocamento orizzontale), ciò che è sopra si intende dietro (dislocamento verticale). Il dipinto di una tomba di Tebe del Nuovo Regno che rappresenta due file orizzontali di figure umane una più in alto dell'altra (figura 5.9a) potrebbe essere interpetrato secondo le convenzioni del dislocamento, come illustrato in figura 5.9b. Il dislocamento orizzontale rimarrebbe ambiguo, se non fosse introdotta una parziale sovrapposizione di una figura sull'altra, così da assegnare una direzione alla profondità. Queste convenzioni usate dagli egiziani si rifanno a due degli indizi
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Figura 5.10 Pittura parietale ellenistico-romana con prospettiva architettonica. Roma, Palatino, casa di età augustea, parete occidentale della "Stanza delle maschere".
di profondità che abbiamo sopra descritto: quello della sovrapposizione e quello dell'altezza. Della proprietà della visione per cui ci appare più piccolo un oggetto che si allontana da noi erano certamente consapevoli anche gli antichi egiziani e i loro contemporanei, benché non se ne trovi rappresentazione nelle loro espressioni figurative. Infatti, nelle tavolette cuneiformi del re assiro Assurbanipal si narra la leggenda di Etana che fu portato da un'aquila verso il trono della dea Ishtar (668-628 a.C.) e vi si dice che Etana "vide la terra diventare sempre più piccola" mentre saliva verso il cielo (Schàfer, 1963). Rappresentazioni figurative che tengono conto in qualche misura delle regole prospettiche si trovano per la prima volta nell'arte greca. Tracce di scorci di figure umane sono presenti nei vasi dipinti della fine del VI sec. e nel periodo greco classico. Nell'unica testimonianza attendibile della grande pittura greca che ci è pervenuta e cioè il mosaico della battaglia di Alessandro e Dario proveniente da Pompei, (che si ritiene essere una copia di un famoso dipinto di Filosseno di Eretria del 300 a.C.) la rappresentazione dello spazio è assai più naturalistica che non nell'arte egizia.
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Effetti illusionistici di profondità sono anche molto numerosi nella pittura romana, probabilmente in gran parte di ispirazione greca, e di cui l'esempio più noto è la "Stanza delle maschere" di una casa romana di età augustea sul Palatino (figura 5.10). Qui le architetture sono rappresentate con chiari effetti prospettici. Un altro indizio pittorico di profondità largamente usato in epoca classica sono le ombre. Nell'epoca bizantina, la rappresentazione spaziale diviene sempre meno rilevante, la solidità dei corpi si attenua accentuando la spiritualità della figura, e nonostante che alcuni indizi spaziali come quello della sovrapposizione vengano ancora utilizzati, le scene rappresentate si appiattiscono scostandosi notevolmente dalla visione naturale.
La rappresentazione dello spazio nel Trecento È solo verso la fine del Medioevo che l'interesse per la rappresentazione dello spazio riaffiora prepotentemente. Appaiono i primi segni di uno spazio tridimensionale che si evolveranno via, via, con un cammino progressivo fino alla innovazione della prospettiva rinascimentale. In questo contesto un'opera di particolare interesse, tra le numerose sull'argomento, è il libro di John White, che ha il titolo ben indovinato di The Birth and Rebirth ofPictorial Space. Questo libro ripercorre sapientemente le varie tappe che portarono alla rinascita delle leggi prospettiche. L'autore fa osservare che in tutte le arti primitive, la più semplice rappresentazione pittorica di un solido, come un edificio, consiste nel presentare solo un faccia di esso, vista di fronte, operazione che ne preserva intatta la forma. Quando l'informazione data da una sola faccia di un edificio si ritiene insufficiente, se ne presentano due consecutive, ma entrambe rappresentate di fronte come fossero le pagine di un libro aperto. In seguito si arriva alla rappresentazione di fronte di una delle due facce e di scorcio dell'altra. Successivamente, come avviene nella pittura del trecento senese, e anche nella pittura di Giotto, viene portato in primo piano lo spigolo tra le due facce, che vengono entrambe presentate in scorcio. Si veda ad esempio L'incontro di Gioacchino e Anna alla porta Aurea nella cappella degli Scrovegni con la presentazione in scorcio dei contrafforti laterali ai due lati della porta (figura 5.11). Con questi tentativi siamo ormai vicini alla prospettiva vera e propria. Nella pittura del tardo Medioevo la proiezione frontale e soprattutto quella frontale e di scorcio si ritrova, ad esempio nei dipinti di Cimabue. Nella figura 5.12a è riportata una pianta degli edifici rappresentati in un s
Figura 5.11 Giotto, L'incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea. Padova, Cappella degli Scrovegni.
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w Figura 5.12 Schemi delle pianta di composizioni architettoniche in dipinti del 300. (a) Schema di pianta tipica di Cimabue, presente ad esempio nell'affresco della chiesa superiore di Assisi (San Pietro che guarisce lo storpio). (b) Schema usato dai pittori della fine del XIII e inizio del XIV secolo, (e) Schema di pianta nel Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. (da White, 1972).
affresco della chiesa superiore di Assisi: San Pietro che guarisce lo storpio. Vi sono tre edifici, ciascuno con proiezione frontale e di scorcio. Questa rappresentazione corrisponde a quello che uno osservatore vedrebbe da tre posizioni diverse, come se si muovesse lungo la scena rappresentata dal dipinto, guardandola successivamente dai tre punti indicati dalle frecce. Scorrendo sulle pareti della chiesa superiore di Assisi la serie degli affreschi giotteschi o degli aiuti, si può notare come si affini progressivamente l'arte di mostrare il miracolo della terza dimensione. Nel cosiddetto «scorcio obliquo» la proiezione frontale viene abbandonata e i punti di vista si avvicinano (figura 5.12b) ; gli edifici vengono aggiunti agli edifici per dare il senso della maggiore profondità. Nella cappella degli Scrovegni ben il 70% degli edifici è rappresentato in scorcio obliquo. Oltre che in Giotto, lo scorcio obliquo si trova nei pittori senesi e negli allievi di Giotto fino ai primi decenni del Quattrocento. I Lorenzetti furono maestri nel rappresentare la profondità, usando nuovi ed eleganti indizi pittorici. Nella figura 5.12c si osserva lo schema della planimetria del Buon Governo, l'affresco di Ambrogio Lorenzetti del 1339 nel palazzo comunale di Siena (figura 5.13). Qui si assume che l'osservatore sia fermo davanti alla scena rappresentata, ma che giri la testa o gli occhi per guardare in tre direzioni diverse, a cui corrispondono tre scorci separati: "la danza" al centro, con la strada che entra nel cuore della città, "i cavalieri"che escono dalla città sulla sinistra e "uomini e