L’incredulità del Caravaggio da
di Ferdinando Bologna
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
Ferdinando Bologna,
L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle «cose naturali» , Bollati Boringhie-
ri, Torino 1992 e 1993 © Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino
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Indice . Il «naturalismo» del Caravaggio
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1. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola (...); la finse per Maddalena»: i limiti dell’iconologia nella contestazione del «naturalismo» caravaggesco
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2. «Imitar bene le cose naturali»: la dichiarazione d’intenti del Caravaggio e la testimonianza delle fonti
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3. «Rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset»: il «naturalismo» del Caravaggio come «osservazione» ottica della «cosa»
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4. Il quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «verificare con la natura» (G. Bruno); «investigare da sé la natura delle cose col guardare alle cose stesse» (T. Campanella); «[Galileo] diceva che le principali porte per introdursi nel ricchissimo erario della natural filosofia erano l’osservazione e l’esperienza, che per mezzo delle chiavi de’ sensi, da i più nobili e curiosi intelletti si potevano aprire» (V. Viviani)
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Indice 5. Ancora sul quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «le chiavi de’ sensi» (Galileo) e la centralità dell’esperienza visiva come strumento di conoscenza nella rivoluzione scientifica; «non mi fido di nulla se non della testimonianza degli occhi» (F. Bacon); «occhi che, se resi vigili, vedono tutto ciò che è da vedere» (C. Huygens); «vedere per credere: l’osservazione oculare fa le veci della dimostrazione» (Comenio). La cultura pittorica lombarda, le implicazioni fiamminghe e il «nominalismo» dei «Vorläufers Galileis» 46
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Capitolo quarto
Il «naturalismo» del Caravaggio
1. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola (...); la finse per Maddalena»: i limiti dell’iconologia nella conte stazione del «naturalismo» caravaggesco
L’altra via tenuta dalla critica d’indirizzo iconologico (continuo a chiamarla così per brevità) nel tentativo di restituire il Caravaggio «al suo tempo» in contrapposizione all’interpretazione longhiana, è stata quella di contestare lo stesso sussistere del suo «naturalismo»: una contestazione che, già compiutamente spiegata negli anni anteriori al 1973, è stata ribadita nei successivi sotto diversi aspetti – e soprattutto mediante l’appello alla cristologia salvifica della Controriforma –, ma senza aggiungere nulla che non fosse almeno implicito nelle tesi prospettate prima.1 Premesso che non di «naturalismo» si sarebbe trattato, ma di «realismo», cioè non di una «brutale mimesi» o di un semplice modo di guardare oggettivo bensì di un comportamento appartenente all’ordine etico,2 s’è cercato di mostrare che quel «realismo», via d’accesso a una realtà «altra», sarebbe intriso fino al midollo, e senza mutamenti sostanziali rispetto alle pratiche di un passato più o meno recente, di sensi spiritualistici e intellettuali. Così, specialmente in quelle opere del maestro – le giovanili – nelle quali Roberto Longhi e una buona parte della critica a lui vicina hanno con maggiore insistenza avvertito la rappre-
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sentazione di frammenti di vita sgombri d’ogni altro significato, si son voluti rintracciare significati emblematici di varia natura, dai quali risulterebbe che anche il Caravaggio, oltre ad avere attinenze precoci almeno con i postumi di conventicole eccentriche dell’Italia settentrionale quali l’Accademia della Valle di Bregno di cui era stato «abate» il Lomazzo,3 fu a parte del più sottile apparato culturale della tradizione cinquecentesca, nei suoi aspetti letterari, filosofici e morali, ma anche e specialmente esoterici e simbolico-allegorici. Caravaggio a mezzo tra Andrea Alciato e Francesco Patrizi, insomma: speculatore scaltrito ed enigmatico di emblemata e di metafore alchemiche negli attributi iconografici dei suoi dipinti giovanili d’argomento profano;5 inventore di opere esoteriche, indecifrabili altro che dalla «devozione colta dei cardinali», e addette a tessere sotto le allegorie del mito pagano le più raffinate prefigurazioni dei misteri cristiani in accezione controriformata; ricercatore di onnilucentia, persino in senso magico e misteriosofico al modo del Patrizi, nelle virate di luce e negli «oscuri ingagliarditi» delle sue opere mature. È stato osservato di recente che il quadro delle letture iconologiche del primo Caravaggio si presenta oggi non solo «molto tormentato» (vale a dire, caratterizzato da proposte interpretative non di rado opposte fra loro, pur all’interno di una stessa tendenza), ma tale che in una medesima opera, e in nome di una medesima iconologia, «sembra possibile scoprire tutto e il contrario di tutto».6 Già Cesare Brandi, per altro, nella sua comunicazione al convegno linceo del 1973 aveva appuntato le sue critiche proprio contro l’esagerazione di tesi come quelle or ora riferite,7 trovando consenziente, fra i primi, chi scrive.8 A me non resta, perciò, che tornare a sottoscrivere incondizionatamente quelle critiche. E ne traggo motivo per tornare anche in questa occasione sull’assunto che abbozzai allora per la prima volta e a cui
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ho dedicato in seguito trattazioni più analitiche:9 ossia che l’uso dello strumento iconologico, di per sé capace di seri progressi interpretativi, ma di cui lo stesso Panofsky avvertì presto il rischio di distorsione,10 è obbligato più degli altri a non smarrire il senso del possibile. Che invece è stato smarrito tanto spesso, da tanti e in modi così radicali, da far sbottare anche Ernst H. Gombrich, il più saggio degli iconologi, in questo sacrosanto memento: «In materia d’iconologia, non meno che nella vita, la saggezza consiste nel sapere dove fermarsi».11 Il problema è innanzitutto di metodo, giacché se fra l’«icona simbolica» e la sua concreta attuazione figurativa esiste oggettivamente uno stato di tensione, per cui occorrerà applicarsi ogni volta a definire il coefficiente di attrito che dentro quella tensione opera, bisogna non perder di vista che, mentre l’«icona simbolica» tende per sua natura a rimanere uguale a se stessa, passando di contesto in contesto e d’epoca in epoca, sì da costituire quel che definiamo una costante tipologica (e ciò anche nel caso in cui la combinazione dei simboli e delle allegorie risulti varia, o d’epoca in epoca rinnovata), la concreta attuazione figurativa muta ogni volta, e, in quanto muta, è essa, solo essa, a caricarsi dei significati storici caratterizzanti. L’«icona simbolica» è un dato comune ed esterno; la concreta attuazione nel linguaggio figurativo è invece singolare e specifica, e in quanto tale non solo costituisce il «cuore» del significato di un’opera d’arte, ma è capace di condizionare l’«icona» stessa. La più aderente storicizzazione di un’opera, perciò, non può non tener conto, sin dal primo momento, di tale concreta attuazione nel linguaggio figurativo, e solo su essa autorizzarsi. 12 Nel caso del Caravaggio, il quesito metodologico si fa più acuto che mai, perché il «cuore» pittorico dei suoi quadri, sempre ineguagliabile nella qualità, fu nuovissimo, e i contemporanei se ne resero conto subito, al
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punto che, dopo aver «visto» solo «quel che si vede», non tardarono a percepire distintamente anche il carattere accessorio, addirittura fittizio, che gli «emblemi» avevano assunto nel contesto di un «cuore» pittorico così rinnovato. Ecco le descrizioni gia del tutto «sgombre» – certo per prevalenti motivi catalografici, ma non senza una ragione fortemente sintomatica scaturita dal carattere dei dipinti stessi –, con cui talune delle opere giovanili del maestro, vivi ancora il pittore e i suoi committenti, sono identificate nell’inventario del fiscale di Paolo V redatto nel 1607: «Un quadro di un giovane che tiene un canestro di frutti in mano», «Un altro quadretto con un giovinotto con la Ghirlanda d’hellera intorno, et rampaccio d’uva in mano», «un putto in tavola con un pomo in mano». 13 Al di fuori di un’occasione così «fiscale», non è meno anodino anche il modo con cui i biografi testimoni degli avvenimenti, il Mancini e il Baglione, ci hanno tramandato i titoli di talune delle stesse opere elencate nell’inventario suddetto e di altre compagne e coeve. «Un putto che piange per essere stato morso da un racano, che tiene in mano», «Un putto che mondava una pera con il cortello», «Una Zingara che dà la Bonaventura ad un giovanetto» (Mancini); «Un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse», «Un fanciullo che da una lucerta, la quale usciva da fiori e da frutti, era morso», «Una musica di alcuni giovani ritratti dal naturale», «Un giovane che sonava il lauto» (Baglione): son tutte descrizioni impassibilmente cronachistiche, quasi minimizzanti nella loro pura oggettività, che dovremmo considerare esempi d’ignoranza, o di stupefacente sordita culturale e religiosa, qualora le opere corrispondenti celassero davvero quel che s’è voluto sostenere. Ma il fatto capace di apportare un chiarimento definitivo fa tutt’uno col criterio in base a cui il consumato iconografo Giovan Pietro Bellori, il quale certo deplorava ciò che era costretto a costatare, ma
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costatava con mente lucida, lesse La Maddalena oggi in casa Doria Pamphilj a Roma: nel trovare e disporre le figure (...), egli si fermava a quella invenzione di natura, senza altrimente esercitare l’ingegno. Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi li capelli, la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena. 14
Il senso ultimo del passo, a mio modo di vedere, risiede nell’affermazione conclusiva: «la finse per Maddalena». E tale affermazione prende forza dalla premessa, sebbene negativa: «egli si fermava a quella invenzione di natura, senza altrimente esercitare l’ingegno», nonché dal giudizio, pur esso negativo, che si legge qualche riga a dietro: «lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte».15 Bellori, insomma, intende che per il Caravaggio il primum era la rappresentazione pittorica di una «fanciulla a sedere ecc.»; «fingerla per Maddalena», costituiva un’operazione subordinata. E infatti il rapporto fra i due momenti – intende sempre Bellori – può essere illustrato ricostruendo così il ragionamento dell’artista: «Premesso che nella vita terrena, e prima di farsi santa, la Maddalena fu una ragazza non proprio morigerata, ma simile a tutte le altre, che stanno a sedere nella loro stanzetta, si pettinano, si adornano e si improfumano; dipingerò semplicemente una fanciulla che si asciuga i capelli. Dirò solo dopo che questa è la Maddalena. Ma la cosa importante è che tanto meglio conseguirò l’intento di rappresentare la Maddalena come quella semplice donna di questo mondo che di fatto fu, quanto più intensa ed esistenzialmente credibile riuscirò a rendere la rappresentazione della fanciulla». Consiste appunto in questo il «fermarsi all’invenzione della natura (...), lasciando da parte gli altri pensieri dell’ar-
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te». E non v’è bisogno di aggiungere che il ragionamento così ricostruito integra in modo diretto quello che s’è tentato di ricostruire più a dietro a proposito della posizione del Caravaggio nei confronti delle norme paleottiane, specialmente in rapporto al fatto che il maestro, nella rappresentazione delle storie dei santi, aveva deciso di scegliere «le particolari [loro] azzioni, [che o sono] conformi necessariamente alla verita, [o] sono state vere, [ancorché] non sono così notabili e conosciute dal popolo e (...) induchino novità». 16 Naturalmente, il Caravaggio non si comportò in modo diverso – né, date le premesse, avrebbe potuto – nei confronti dei temi mitologici o profani, e degli emblemi veri e propri; i quali, anzi, furono il vero banco di prova, anche sotto il riguardo della precedenza cronologica, su cui le sue petizioni di principio vennero definendosi. Egli rappresentò senza dubbi Bacco e Amor vincitore; possiamo anche ammettere – per quanto sia molto difficile provarlo – che conoscesse il valore emblematico dell’edera e del pallore come simboli del poeta secondo l’Alciato,17 o le implicazioni platonizzanti connesse con la musica e i suoi strumenti;18 o anche, com’è stato suggerito di recente e più a dietro abbiamo ricordato, il diverso valore emblematico che l’attributo dell’edera (magari congiunto a quello delle unghie sporche) aveva assunto nel culto primitivo e parodistico di Bacco seguito a Milano dall’Accademia della Valle di Bregno di cui era stato «abbate» il Lomazzo sotto il nome di «Compa’ Zavargna», improntandolo al folklore e al gergo popolaresco che alcuni «facchini» portatori di vino, provenienti appunto dalla Val di Bregno che si svolge sotto il ghiacciaio di Adula in Ticino, avevano introdotto nella capitale lombarda.19 Ma l’essenziale è che, avendo avvertito per tempo «l’impossibilità di un recupero archeologico dei soggetti tradizionali» (come scrisse Longhi);20 epperò non
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solo perché considerò il soggetto mitologico (come sempre Longhi giudicava) «un flatus vocis da poterlo affibbiare oggi a questo torbido garzonetto di osteria romana incoronato di pampini ecc.»; 21 il Caravaggio volle ridurre, anzi, ripristinare tutto ciò al mondo della contingenza. Nel momento in cui il mito faceva ancora una cosa sola con la vita, e la «favola» non era stata ancora tipizzata in un’ipostasi esemplare, Bacco non poté essere che un ragazzotto ubriacone dalle unghie sporche, identico al «garzonetto di osteria romana» di cui diceva Longhi, il quale s’è messo per celia attorno al capo certe fogliacce di vite, o un ramo di edera fresca; il pallore del poeta, se può mai esser preso per un poeta nel senso aulico dell’Alciato quel giovinastro che l’impersona nel quadro Borghese, s’identifica con il colore verdognolo dell’itterico; il platonismo della musica non può andare più in là dell’aspetto fisico dei cantatori e della consistenza lignea dei liuti e dei violini; Amore stesso poté essere solo un adolescente protervo ed esibizionista, che appiccicatesi alle spalle due ali finte e impugnando un mannello di frecce ostenta la nudità del suo corpo e del suo sesso; edera, pampini, uve, vino e unghie sporche, prima d’essere simboli o metafore verbali, erano e sono cose o aspetti della vita, vegetale o umana. Nei quadri caravaggeschi d’argomento profano, per altro, l’intento polemico e dissacratore è più che mai in evidenza, teso a stabilire per partito preso un attrito fortissimo tra l’evidenza oggettiva, aderente all’esperienza quotidiana più comune, e la «finzione» colta; intento polemico e dissacratore che se pure incluse mai fra i suoi ascendenti culturali le eccentricità parodistiche dell’Accademia della Valle di Bregno, certo le sorpassò e travolse, revocando anch’esse dall’intellettualismo peculiare della mentalità di un Lomazzo al grado zero dell’esistente, giusto come stava accadendo negli stessi mesi – e ancor più sistematicamente sarebbe acca-
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duto di lì a poco, bensì con propositi galileianamente sempre più costruttivi – nel caso delle storie sacre. 22 Una prova ultima, d’altronde, della realtà storica di tutto ciò (nonché della capacità di espandersi e produrre effetti già nell’immediato che resta il requisito-condizione di ogni realtà storica efficiente), è costituita dal fatto che appena qualche decennio più tardi fu esattamente tutto questo a riemergere nelle «mitologie» di un Diego Velázquez. Non risulta che la critica specializzata l’abbia rilevato espressamente;23 ma quando si afferma che in Los borrachos il tema bacchico «è interpretato col tono e il carattere di un avvenimento quotidiano, realistico; il modello del Bacco è un robusto giovanotto (...) lontano da qualsiasi stilizzazione paganeggiante», oppure che nella Fucina di Vulcano «gli dèi sono esseri umani, gli scenari quelli di tutti i giorni, le azioni di una verità assoluta», o ancora che nel Marte in riposo, nonostante i ricordi dell’ Ares Ludovisi o del Pensieroso di Michelangelo, il modello effettivo è «un soldato dai grandi baffoni, come uno spagnolo del tempo poteva immaginare dovesse essere uno che esercitava il mestiere della guerra»;24 quando si afferma tutto questo, non occorrono sforzi ermeneutici particolari per dedurne che, in termini di storia culturale, quelle raffigurazioni raccolgono e proseguono giusto lo stesso ordine di idee grazie al quale il Caravaggio (non temo la ripetizione) aveva ottenuto di attualizzare il mito istituendo un attrito fortissimo fra l’evidenza oggettiva e la «finzione» colta: ossia si era adoprato a sbarazzarlo, con polemica apertamente dissacratoria, delle incrostazioni rimorte di cui secoli d’intellettualismo l’avevano avvolto, per restituirlo alla sua originaria realtà di puro accadimento umano.
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2. «Imitar bene le cose naturali»: la dichiarazione d’intenti del Caravaggio e la testimonianza delle fonti
Tutto ciò rimarrebbe ancora nell’indeterminato dal punto di vista della concreta costituzione figurativa, se non collocassimo al centro del problema questo fatto: che il Caravaggio, sia nei quadri d’argomento profano, sia in quelli d’argomento sacro, riuscì tanto meglio nell’intento di richiamare la mitografia o il tema agiografico all’evidenza della condizione esistenziale di base, quanto più a fondo impegnò la ricerca pittorica in una direzione che, messi da parte i falsi pudori, e procurando di restituire al termine il preciso significato storico che gli compete nella congiuntura in questione, non possiamo non definire «naturalistica». Siamo obbligati a prendere atto, insomma, che la ricerca «naturalistica» in senso pittorico, lungi dall’essere il ricetto ambiguo e meramente occasionale di simboli eruditi o di emblemi soteriologici, fu per il maestro il cuneo che fa saltare entrambi, ponendosi come tale proprio perché si pone come momento primario della rappresentazione e si definisce nella sua autonoma specificità di linguaggio. Subito dopo aver detto della «finzione» iconografica nella Maddalena Doria, Bellori passa infatti a osservare l’aspetto specifico del dipinto, analizzando con grande finezza l’oggettivazione pittorica della rappresentazione: Posa alquanto da un lato la faccia e s’imprime la guancia, il collo e ’l petto in una tinta pura, facile e vera, accompagnata dalla semplicità di tutta la figura, con le braccia in camicia e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana bianca di damasco fiorato. Quella figura abbiamo descritta particolarmente per indicare li suoi modi naturali e l’imitazione in poche tinte sino alla verità del colore. 1
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Ma Bellori pubblica Le vite nel 1672: si potrebbe obiettare che questa è già un’interpretazione. Ecco, allora, cosa scrisse Karel van Mander nel 1603, sulla base delle relazioni avute da Roma fra il 16oo e il 16o1 dal connazionale Floris Claeszoon van Dyck, Caravaggio presente e operante: Egli dice (...) che tutte le cose non sono che bagattelle, fanciullaggini o baggianate, chiunque le abbia dipinte, se non sono fatte e dipinte dal vero, e che non vi può esser nulla di buono o di meglio che seguire la natura. Perciò egli non dà un sol colpo di pennello senza attenersi strettamente al modello vivo, che copia e dipinge. 2
In materia di «naturalismo» caravaggesco, del resto, le fonti sono concordi. Può darsi che l’aggettivo naturalista, fino a quel momento inedito – a quanto pare – come termine definitorio specifico della storiografia artistica, s’incontri riferito al Caravaggio solo nel 1657: precisamente, a opera del medico forlivese Francesco Scannelli, il quale nel Microcosmo della pittura, tra apprezzamento e riprovazione, chiama il Merisi appunto «primo capo de’ naturalisti»;3 ciononostante è indubbio che nell’opinione che venne formandosi sul pittore, e non senza la partecipazione del pittore stesso, il concetto a cui quell’aggettivo corrisponde fu di dominio pubblico fin dai primi momenti e a tutti i livelli. Al processo del settembre 1603 – quando la notizia divulgata a stampa dal Van Mander, ma di provenienza romana, aveva risalito l’Europa da non meno di due anni –, il Caravaggio in persona affermò che in pittura è «valenthuomo» chi sa «depinger bene et imitar bene le cose naturali».4 Nello stesso giro di tempo, se non prima, un amico personale del maestro, Marzio Milesi, affermò in versi: «fingha pur le cose altri, adombri e lustri, / voi vive e vere l’arrecate»: e più a dietro abbiamo rilevato
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che qui è offerta una chiave interpretativa addirittura moderna dell’arte del Merisi.5 Risale alla fine del 16o8 l’episodio, narrato nel 1613 dall’archeologo Vincenzo Mirabella, per il quale, giusto in forza dell’osservazione, oltre che dell’imitazione, della «natura» da parte del Caravaggio, il carcere siracusano della latomia del Paradiso si ebbe il nome di «Orecchio di Dionisio»: E mi si ricorda che avendo io condotto a veder questa carcere quel pittore singolare de’ nostri tempi Michel Angelo da Caravaggio, egli considerando la fortezza di quella, mosso da quel suo ingegno unico imitatore delle cose della natura, disse: «Non vedete voi come il tiranno per voler fare un vaso che per far sentire le cose servisse, non volse altrove pigliare il modello, che da quello che la natura per lo medesimo effetto fabbricò? Onde ei fece questa carcere a somiglianza d’un orecchio». La qual cosa sì come prima non considerata così dopo saputa, ed esaminata ha portato a’ più curiosi doppio stupore. 6
Persino l’«avviso» del 28 luglio 161o, che divulgò la notizia della morte del pittore «seguita di suo male in Port’Ercole», curò di definirlo «famoso et eccellentissimo nel colorire et ritrarre del naturale». Venendo al seguito del dibattito storiografico, e pur prendendo sempre più fiato l’intento limitativo, troviamo che fra il 1607 e il 1615, nel frammento di Trattato steso durante quegli anni, il bolognese monsignor Agucchi include questo giudizio: Caravaggio «si deve comparare a Demetrio, perche ha lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine».8 Nel 1619, pendendo dal lato opposto, Gerolamo Borsieri ribadisce in positivo il concetto: «(...) secondo la via aperta per Michel Angelo da Caravaggio, il quale è stato così diligente, ed ingegnoso imitatore della natura, che dove gli altri pittori sogliono promettere esso ha fatto».9 Giulio
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Mancini, estendendo la considerazione anche ai seguaci del maestro, e muovendosi quasi in contemporanea con Agucchi, scrive da parte sua: «questa schola [la caravaggesca] è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre che opera (...)»; e aggiunge: «ma nella composizione dell’istoria ed esplicar affetto, pendendo questo dall’Immaginazione e non dall’osservanza della cosa, per ritrarre il vero che tengon sempre avanti non mi pare che si vagliano». 10 Dove, insieme all’innegabile efficacia definitoria della dizione «osservanza della cosa», è notevole anche la dichiarazione d’inconciliabilità fra immaginazione e imitazione del vero. Nel 1633, introdotto il discorso su «Michael Angelo de Carabaggio», Vicente Carducho esce in quest’altra esclamazione: Quien pintó jamás y llegó á hazer tan bien como este monstruo de ingenio, y natural, casi hizo sin preceptos, sin doctrina, sin estudio, mas solo con la fuerça de su genio, y con el natural delante, a quien simplemente imitava con tanta admiración?11
Nel 1638 trattando di Velázquez, e perciò testimoniando almeno in implicito che l’opinione aveva raggiunto la penisola iberica già vari anni prima che Carducho scrivesse, Francisco Pacheco trova il modo di far sapere che suo genero Diego, il nuovo astro della pittura spagnuola, «segue Caravaggio nel tener sempre davanti il modello naturale». 12 Dopo Scannelli, che all’invenzione terminologica di cui s’è detto aggiunge la caratterizzazione di «tremenda naturalezza» per opere del Merisi come l’Emmaus ora a Londra,13 anche Bellori fa una serie di affermazioni del medesimo tenore: si fissò intento a riguardare la natura;
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si propose la sola natura per oggetto del suo pennello; distese la mano verso una moltitudine di uomini, accennando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri; perché egli aspirava all’unica lode del colore, siché paresse vera l’incarnazione, la pelle e ’l sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte; si fermava a quella invenzione di natura, senza altrimente esercitare l’ingegno; li giovini concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della natura (...), ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il maestro e gli esempi nel copiare il naturale; professavasi egli inoltre tanto ubbidiente al modello che non si faceva propria né meno una pennellata, la quale diceva non essere sua ma della natura. 14
E si potrebbe continuare, fin dove, a introduzione delle mini-biografie dei caravaggeschi «che hanno maggior nome», ritorna addirittura il termine categorizzante che lo Scannelli aveva introdotto quindici anni a dietro e che lo stesso Bellori aveva ripreso nell’ Idea del 1664:15 «Molti furono quelli che imitarono la sua maniera nel colorire dal naturale, chiamati perciò naturalisti». Ma persino Giambattista Marino, nei versi scritti in morte del maestro e riportati in extenso dallo stesso Bellori, si esprimeva così: Fecer crudel congiura Michele a’ danni tuoi Morte e Natura; questa restar temea
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da la tua mano in ogni imagin vinta, ch’era da te creata, e non dipinta; quella di sdegno ardea, perché con larga usura, quante la falce sua genti struggea, tante il pennello tuo ne rifacea. 16
Finalmente nel 1724, nonostante il gran tempo trascorso, anche il messinese Susinno ribadisce il punto, echeggiando manifestamente il Bellori, ma in termini ulteriormente messi a fuoco: Stesa la mano verso una moltitudine di uomini, soggiunsegli: or questo è il mio Raffaello. La pittura altro non è che una imitazione perfetta della natura; e siccome un savio antico disse: I ritratti non son buoni se sono migliori dell’originale; soleva egli perciò asserire che allora son pregiate le pitture, quando son somiglianti alla verità delle cose, e che bastantemente la natura avealo provveduto di maestri. Da queste sinistre massime [la mentalità e la superstizione precettistica degli accademici avevano fatto passi rilevanti!] ne seguì che in lui non si trovò mai invenzione, decoro di storie, disegno, né scienza dell’arte pittoresca, mentre collo sprezzar ogni precetto, riputava sommo artificio non essere obbligato all’arte. 18
Un così vasto accordo di testimonianze e pareri antichi sul programma del Caravaggio a «seguire la natura», «imitar bene le cose naturali», «arrecar vive e vere le cose», «seguire del tutto la similitudine», stare «all’osservanza della cosa», tener sempre «el natural delante, a quien simplemente imitava con tanta admiración», «proporsi la sola natura per oggetto del suo pennello», «pregiare le pitture solo quando son somiglianti alla verità», non può non essere estremamente indicativo per chi abbia ancora senso storico.
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Ma prima di venire a precisare in quale direzione tutto questo sia indicativo, conviene prevenire un equivoco. Come tutti ormai sanno più che bene, in arte non s’è mai data, ne è per darsi una forma di così radicale rispecchiamento della realtà, da generare l’immedesimazione dell’opera con il suo modello. Anche la gnoseologia moderna insegna che l’uomo non conosce per semplice rispecchiamento, ma per astrazioni successive. Riadoperando una terminologia di moda, dovremo allora dire che l’arte produce sempre una natura «iconologizzata», e i mutamenti dell’arte non fanno che sostituire un tipo di «iconologia» della natura a un altro. Per dirla con parole comuni, gli artisti non dipingono la natura, ma solo ciò che sanno di essa e avanzano a misura che muta questo loro sapere. Ciò vale anche per i movimenti astratti e perfino per le tendenze di un passato molto recente che si sono fondate sull’«oggettualizzazione», sul «comportamento», sulla «concettualizzazione». Deve essere perciò ben chiaro che il programma «naturalistico» enunciato dal Caravaggio in persona al processo del 1603, e illustrato dalle fonti riferite, va inteso nel senso che il Merisi volle sostituire a quello vigente, o più comunemente ricevuto, un diverso modo di porsi dinanzi al «vero». Ne consegue che tal diverso modo non può essere apprezzato se non in rapporto alle reali condizioni dell’arte nel momento in cui quel programma fu definito. Era stato così già per Giotto e Masaccio, che i contemporanei elogiarono con uguale unanimità perché pareva loro che avessero restaurato l’imitazione della natura. Oggi sappiamo che l’intervento di quei maestri non si limitò a un programma così semplice, anche se il loro «naturalismo» fu una componente importante dell’operazione che portarono a buon fine. Ma il giudizio conserva in tutta la sua interezza un adeguato valore storico se consideriamo che Giotto reagì al formalismo
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bizantineggiante e andò oltre la parte di «vero» intravista da Cimabue, Masaccio rifiutò gli schematismi astrattivi della pittura tardo-trecentesca e l’indeterminazione formale dei movimenti tardogotici. In definitiva, ciò equivale a dire che il compito dello storico moderno è sì di definire l’«iconologia» che il Caravaggio elaborò; ma, prima di abbandonarsi a ritessere le trame della rete esclusivamente intellettualistica che di solito si dà per presupposta in ogni sistema iconologico – quasi che i sistemi iconologici fossero poi tutti equivalenti, e Caravaggio potesse presentare problemi di metodo interpretativo simili a quelli di un artista medievale o del Rinascimento –, dobbiamo domandarci se il Merisi non attribuisse un significato nuovo e speciale all’«imitazione della natura». Emerge così il problema centrale dell’arte caravaggesca: che cosa esattamente il maestro intendesse per «natura» e in che cosa consistesse l’«imitazione» che egli ne predicava.19 3. «Rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset»: il «naturalismo» del Caravaggio come «osservazione» ottica della «cosa»
Fatta questa indispensabile, anche se probabilmente ovvia, precisazione, proviamoci a riferire i giudizi delle fonti alle reali condizioni in cui l’arte si trovava quando il Caravaggio comparve. Ognuno sa che queste condizioni erano caratterizzate, in rapida sintesi, dagli estremi bagliori del manierismo, dagli accomodamenti dei riformati, dal ritorno alla tradizione classica e rinascimentale degli idealisti. In oltre la stessa dottrina che l’arte è imitazione, rispecchiamento, era vigente fin dall’antichità e non era stata mai contestata.1 Durante il secolo xvi il principio era
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stato ribadito frequentemente, inclusi il Vasari e il Lomazzo,2 e persino nel Paleotti s’incontra questa definizione: «Diciamo che per imagine noi pigliamo ogni figura materiale prodotta dall’arte chiamata il dissegno e dedotta da un’altra forma per assomigliarla». 3 Dal Paleotti, per altro, abbiamo già udito affermare che «l’officio del pittore [è] l’imitare le cose nel naturale suo essere e puramente come si sono mostrate agli occhi de’ mortali».4 Al tempo del Caravaggio, queste massime erano condivise, con varia gradazione ma senza eccezioni, sia dai manieristi, sia dai riformati, sia dai classicisti, e conosciamo bene che effetti producessero nella visione del mondo di costoro, volta a volta preconcetta, accomodata o selezionata. Il principio dell’imitazione era divenuto anch’esso un luogo comune, un topos disponibile, a cui ciascuno poteva allacciare programmi che non ne avrebbero salvato altro che la scorza. Viceversa, la carica senza dubbi polemica che caratterizza le dichiarazioni del Caravaggio in persona, nonché l’insistenza delle fonti, le quali si spingono a rilevare – quasi sempre, come s’è visto, con deplorazione e con scandalo – il netto contrasto esistente fra l’imitazione indiscriminante che il Merisi aveva preteso d’imporre e l’«elezione delle migliori forme» che gli altri avevano seguito a preferenza, lasciano intendere chiaramente che questa volta si era trattato di cosa del tutto diversa. Se finalmente ci risolviamo ad appellarci alle opere, le quali nel loro testo pittorico specifico (non ci stancheremo mai di ripeterlo) restano ancora una volta l’unico banco di prova autorizzante, difficilmente potremo trovarci in disaccordo sul fatto che il Caravaggio spinse il principio dell’«imitazione» alle conseguenze estreme, restituendolo per la prima volta nella storia moderna alla lettera del suo significato elementare. Fissato, almeno in linea di massima, questo punto principalissimo, già la notazione del Mancini su cui ho
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tentato di attirare l’attenzione più sopra, che il Caravaggio tenne per massima centrale del dipingere l’«osservanza della cosa», può soccorrere ad assegnare un significato non generico a quanto si ritrova sempre anche alla base delle interpretazioni moderne del Longhi: che il maestro «osservò» la cosa e la ricondusse al suo aspetto «feriale». In effetti, l’espressione impiegata dal Mancini, che in definitiva equivale ad «attenersi rigorosamente alla cosa», ha a che fare con un’idea disciplinare di «osservanza» equivalente in primo luogo a ubbidienza, rispetto deferente, ossequio; ma proprio per questo, specialmente perché segue all’espressione «molto osservante del vero» e riguarda un dato moralmente incapace d’imporre disciplina come la «cosa», essa acquista un valore intensivo. Rapportata al metodo della «schola» naturalistica del Caravaggio, «osservanza» diviene così sinonimo di «osservazione». Di qui un trapasso per il quale l’«osservazione» del Caravaggio e della sua «schola», in quanto si propone di accedere alla «cosa» senza intermediari («il vero che tengon sempre davanti»), e al tempo stesso si dimostra fondata sulla reiterazione e sulla sistematicità (il Mancini ripete due volte che la «schola» del Caravaggio ritrae il vero «che sempre lo tien davanti», e impiega entrambe le volte l’aggettivo «sempre»), finisce col rivelare un criterio sperimentale di tipo moderno: un atteggiamento nuovo per l’arte, che nell’immediatezza del rapporto con l’oggetto tenuto «davanti», e nella sistematicità con cui quel rapporto si stabilisce e si ripete, annuncia una componente addirittura scientifica. Questo punto risulta chiarissimo, del resto, dal referto pubblicato nel 1613 da Vincenzo Mirabella circa le cose dette dal Merisi a Siracusa durante la visita del 16o8 all’«Orecchio di Dionisio».5 Facendo conoscere quel passo per la prima volta, Longhi lamentò il «tono troppo accademico e direi “notomico” che l’osservazione “naturalistica” del Caravaggio» avrebbe
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assunto in quell’occasione;6 ma il dato importante è che si trattò appunto di un’osservazione naturalistica, e che il testimone si accorse perfettamente sia dell’eccezionalità di essa, sia della specie dei suoi moventi. Secondo la narrazione del Mirabella, il maestro scoprì (è il caso di adoperare la parola) che la prigione siracusana è costruita «a somiglianza d’un orecchio», in base a una costatazione resa possibile – questo è il punto – dalla consuetudine del suo «ingegno» con l’«imitazione [leggi: studio intensivo] delle cose della natura»: «considerando la fortezza di quella, mosso da quel suo ingegno unico imitatore delle cose della natura, disse ecc.». Non deve sfuggire, per altro, che sempre in base a quel genere di «considerazione» il Caravaggio diede della circostanza una spiegazione squisitamente sperimentale, addirittura funzionalistica: «Non vedete voi come il tiranno per voler fare un vaso che per far sentire le cose servisse, non volse altrove pigliare il modello, che da quello che la natura per lo medesimo effetto fabbricò?» Altro che «tono accademico e notomico»! Qui si tratta d’un discorso già «galileiano» (nell’accezione che cercherò di chiarire meglio più avanti), attento senza remore a «quello che l’esperienza e il senso ci dimostra»; tale, per giunta, da fornire una spiegazione flagrante di ciò che nel metodo del Caravaggio significasse effettivamente l’«osservanza della cosa», e di quali fossero i percorsi conoscitivi sui quali questa «osservanza» si basava. Venendo all’identificazione degli strumenti concreti impiegati dal Merisi in questi percorsi, e perciò a rilievi propriamente pittorici, può essere d’aiuto appellarci di nuovo alla puntualizzazione del Bellori, secondo il quale il Caravaggio, «perché (...) aspirava all’unica lode del colore, siché paresse vera l’incarnazione, la pelle e ’l sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte».7 Se non vedo male, ciò consente di
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progredire verso il riconoscimento che, perseguendo il suo programma, il maestro non solo contestò la sempre affermata priorità della selezione intellettuale assegnata dalle scuole al «disegno» – in quanto opposto al colore, o suo ineliminabile supporto –, ma concepì in puro colore quella sua straordinaria «presa diretta» attribuendo all’«occhio» – citato espressamente dal Bellori insieme all’«industria», e con l’aggettivo «intento» che nei dizionari equivale a «fissamente volto a qualche cosa» – il ruolo di strumento essenziale nell’investigazione della consistenza fisica delle cose: «siché paresse vera l’incarnazione, la pelle e ’l sangue e la superficie naturale», sotto la rifrazione rivelatrice della luce e il giuoco delle ombre. La comprensione della natura «ottica» delle «osservazioni» pittoriche caravaggesche è un altro merito indiscutibile degli studi di Roberto Longhi;8 ma questo è un punto che, in anticipo sul Bellori e con una perspicuità degna d’una considerazione che nessuno s’è finora mostrato disposto ad accordare, si trova attestato a tutte lettere nella Teutsche Academie di Joachim von Sandrart, una delle fonti illuminanti per l’intelligenza del «vero» Caravaggio: (...), Italorum primus relicta veteri methodo simplicissimam sequebatur naturam atque vitam: unde numquam penicillum nisi ad viva exemplaria applicabat, rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset. 9
A integrazione di quanto si riesce a ricavare intermittentemente da tutti gli altri biografi, e anche dal Bellori, noi troviamo qui spiegato distesamente che l’applicare il pennello a nient’altro che al modello vivo tenuto davanti (la formula è ripresa evidentemente dal Van Mander), o, in altri termini, l’«osservanza della cosa» di cui aveva parlato Giulio Mancini, per il Cara-
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vaggio consiste appunto nella reiterazione di un esperimento che non può non essere definito ottico nel senso specifico: tenere l’oggetto da dipingere esposto tanto a lungo ai propri occhi nel proprio studio, fino a raggiungerne col colore la verità. A considerar bene, «rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset» è un’espressione intercambiabile con la terminologia tecnica dei fotografi d’oggi; e ciò perché tira in causa non meno la parola che il concetto di «esposizione», con cui appunto i fotografi indicano la lunghezza del tempo durante il quale bisogna che una superficie sensibile rimanga esposta alla luce attraverso l’«occhio» dell’obiettivo, affinché resti «impressionata». Per tornare al Longhi, non si può altresì non ricordare come, citando il Baglione dove afferma che i primi quadri del Caravaggio furono «da lui nello specchio ritratti», egli ne ricavasse non solo che il maestro aveva in realtà deciso «di ritrarre le cose dallo specchio, ma senza che esso appaia nel quadro», bensì che egli s’era comportato così perché, avendo «la rétina, da sé sola, un campo visivo sempre sfocante, svagante», «era meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico dello specchio che ci dà sempre l’“unità del frammento” immerso nella sua luce»; s’era comportato così, insomma, perche il «sodo dello specchio vero gli dava finalmente il vano della visione ottica già al colmo di verità e privo di vagheggiamenti stilizzati», pervenendo «a scoprire – e fu quasi una scoperta scientifica, fu in ogni caso un’esperienza – la sua personale, empirica “camera ottica”: ciò che meno sorprende ai tempi del Porta e, ormai, di Galilei».10 «Osservanza della cosa» come osservazione della natura in quanto mondo della verità effettuale; autonomia mentale rispetto a «tutti gli altri pensieri dell’arte», alias alla codificazione disciplinare della correzione for-
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male e del «decoro»; sistematicità e reiterazione intensiva dell’osservazione, fino a cogliere le ragioni di necessità strumentale nella forma delle cose di natura; funzione privilegiata dell’«occhio» fisico, accanto all’«industria», nella percezione e nella trasposizione pittorica dell’immagine da dipingere; inclinazione all’esperimento, mediante l’impiego di specchi e di «camere ottiche» intesi come strumenti provocatori di esperienza: incomincia con tali precisioni a delinearsi la conclusione che il problema centrale dell’arte caravaggesca consisté non già nello stabilire con la «natura» un rapporto d’«imitazione» genericamente o passivamente rispecchiante; bensì nell’assumere nei confronti dei suoi aspetti un’attitudine consapevole e attiva, vòlta – non poi tanto «empiricamente» – all’esplorazione e alla verifica: una disposizione, appunto, di tipo già schiettamente sperimentale, tesa all’accertamento spregiudicato e alla rappresentazione diretta delle «evidenze». Ma vi sono appigli per ancorare tutto questo a una situazione contemporanea precisa, in grado di attribuire, a preferenza di quello controriformistico, un vero corpo storico all’atteggiamento caravaggesco? È identificabile nel quadro della cultura contemporanea una rete motivante di riferimenti, capace di porsi come termine di paragone attendibile, se non come ragion sufficiente di esso?11
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4. Il quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «veri ficare con la natura» (G. Bruno); «investigare da sé la natura delle cose col guardare alle cose stesse» (T. Campanella); «[Galileo] diceva che le principali porte per introdursi nel ricchissimo erario della natural filosofia erano l’osservazione e l’esperienza, che per mezzo delle chiavi de’ sensi, da i più nobili e curiosi intelletti si potevano aprire» (V. Viviani)
Per avviarci a rispondere in modo non elusivo alla domanda, occorre tener presente innanzitutto che in materia di osservazione sistematica della natura il quesito interferisce nella biforcazione, di solito sottovalutata dai non specialisti ma in accentuazione giusto negli anni che ci interessano, fra scienze definibili come «descrittive» e scienze che, nel Dialogo sopra i due mas simi sistemi del mondo, Galileo chiamera ripetutamente «dimostrative».1 Detto in termini meno ellittici, il quesito comporta la consapevolezza del divaricarsi di un tipo di osservazione puramente descrittiva ed enumerativa dei prodotti naturali, il cui modello metodologico e il cui fine continuavano a non discostarsi dall’inventario e dalla classificazione, da un tipo d’osservazione di ben diversa epistemologia, volto a promuovere mediante l’integrazione critica dei dati indotti e di quelli dedotti, con l’ausilio della rappresentazione matematica divenuta strumento di valutazione quantitativa e principio di sistemazione, la conoscenza fattuale della «costituzione del mondo»: negli accidenti che lo compongono e nelle leggi che li governano. Una conoscenza, vale a dire, puramente fenomenica e causale della natura nel suo complesso, svincolata dalla pretesa metafisica di definirne l’essenza, e perciò coincidente con un sapere il cui fondamento è l’esperienza: «non nuda osservazione», dunque, ma – questo è il punto! – «esperimento».2 Alla luce di tale biforcazione, sia quel che è venuto
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emergendo nel corso del paragrafo precedente, sia quanto abbiamo dovuto costatare a suo luogo circa la sostanziale estraneità del Caravaggio a ogni forma di descrittivismo (fosse quello geo-topografico praticato dagli affrescatori gesuitici di Santo Stefano Rotondo e di San Vitale, fosse quello della trascrizione scrupolosamente devozionale delle sante immagini favorito dagli oratoriani), ci costringono ad ammettere fin da questo momento che gli appigli giusti di cui siamo in cerca per un serio ancoraggio storico delle istanze del Merisi non si troveranno di certo sul primo dei rami della biforcazione descritta. Il che, se non vedo male, comporta l’accantonamento preliminare anche di un’altra tesi delineatasi durante l’ultimo quarto di secolo, a opera di Eugenio Battisti innanzi a tutti, ma con l’adesione di studiosi disposti a consentire con lui, quali Mina Gregori, Giuseppe Olmi, e ora Alberto Cottino, secondo cui a monte del generale «naturalismo» del Caravaggio, così delle sue nature morte vegetali come dei diversi tipi d’animali e parti di animali inclusi nelle sue tele, «vasta e determinante» sarebbe stata «l’influenza dell’illustrazione dei trattati naturalistici» di fine Cinquecento: segnatamente, delle tavole fatte approntare dal bolognese Ulisse Aldrovandi per il monumentale catalogo del mondo naturale a cui attendeva, di quelle di cui era ricchissimo il museo mediceo e, fra queste ultime, dei «capolavori di mimesi scientifica» realizzati a Firenze, talvolta anche su commissione dell’Aldrovandi, dal veronese Jacopo Ligozzi.3 In una pagina che meriterebbe di essere trascritta per intero, perché nonostante l’intento principale essa riesce a porre in valore non poco di quel che lo merita veramente, Battisti scrisse testualmente che nei frutti della Fiscella ambrosiana e dei vari «canestri» che il maestro dipinse in giovinezza, nelle serpi della Medusa, nei caproni del San Giovannino e nelle ali dell’ Amor vincitore, il Caravaggio avrebbe esibito non
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solo «“agudezas” di botanico» che sarebbe un errore (...) scambiare con un generico gusto naturalistico», ma «parentesi di vero e proprio naturalismo scientifico», collegato a «una profonda padronanza della mimesi scientifica» e addirittura a uno «sguardo quasi di illustratore professionale». Né basta ancora. Sforzando un noto passo del Bellori a significare che al momento di entrare nella bottega del Cavalier d’Arpino il giovane Caravaggio sarebbe già stato in possesso di una «specializzazione vera e propria “in fiori e frutti”», Battisti ritenne di potersi impegnare in una riscrittura della biografia dell’artista: Nulla (...) vieta di ipotizzare – affermò – che [il pittore], nel suo viaggio dalla pianura padana a Roma, a Bologna si sia fermato qualche ora presso l’Aldrovandi, e che a Firenze, dove il suo soggiorno prima del 1590 fu forse meno fugace [ma, alla luce dei trovamenti documentari che dànno il Caravaggio ancora presente in patria agli inizi del 1592, è ovvio che questa data non può più esser tenuta per vera], il giovane Merisi abbia ficcato il naso nel museo naturale mediceo dove erano ordinatamente esposte le serie di incisioni e di acquerelli riproducenti tutte le specie naturali, di cui i ricercatori erano venuti a conoscenza. Quando si confronta un disegno come quello (...) del Ligozzi, rappresentante un ramo tronco d’un fico (dove le varie affezioni delle foglie e la loro struttura fisica sono così diligentemente, ma anche appassionatamente studiate) con i «canestri» del giovane Caravaggio, e si pensa alla coincidenza del suo passaggio a Firenze proprio quando questi stupendi capolavori di mimesi scientifica erano da poco realizzati, vien forte la tentazione di vederlo lì accanto al Ligozzi, piegato sul foglio appena acquerellato dal più anziano collega stupefatto e deciso a rubargli il segreto e a perfezionarlo.4
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Orbene, a parte il fatto che nell’opera di documentazione scientifica promossa dai naturalisti cosiddetti enciclopedici del secondo Cinquecento – di cui l’Aldrovandi, e con lui il Ligozzi, fu esponente esemplare – un limite insuperato rimase l’esigenza «di far rientrare in qualche modo la natura, anche a costo di interventi del tutto arbitrari, entro schemi noti e consacrati dalla tradizione»5 (sicché, dal momento che «una cosa sono le enunciazioni programmatiche, un’altra la realizzazione concreta delle figure»,6 la stessa istanza di «assoluta aderenza alla realtà»7 finisce con l’essere elusa nella parte sostanziale), il punto su cui occorre insistere è che, proprio secondo l’Aldrovandi, nella condotta del pur «poderoso sforzo di schedatura per immagini della realtà», «l’unica mente legittimata a intervenire è quella dello scienziato», «l’occhio e la mano del pittore» devono essere «meri e passivi strumenti di registrazione», «al pittore non resta che usare la mano “quae est organum organorum”».8 Seguendo le indicazioni date in nota, il lettore avrà costatato che nell’enunciare questi ultimi punti sono state riadoperate senza cambiamenti parole e ammissioni ricorrenti giusto negli scritti del più impegnato esegeta, fino a oggi, della posizione dell’Aldrovandi, al seguito di Battisti: intendo Giuseppe Olmi. Proseguendo sulla medesima strada, non si tarda a costatare che il discorso di Olmi mette in luce un ulteriore punto fondamentale: ed è che la «natura» di Aldrovandi ignora gli uomini. Con «l’habitus del naturalista», scrive lo studioso, Aldrovandi «finisce pure col trascurare, nel complesso, il soggetto umano». E segue questa citazione, che torna a chiamare in causa la pittura: Non è dubbio alcuno che la pittura debbe esser essempio et imitatione di tutte le cose Naturali come il cielo, le stelle e la terra, et principalmente [corsivo di Olmi] le pian-
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te et animali, et altre cose inanimate, che sono metalli, et pietre, et simili misti sotterranei, et altre cose artificiali che hanno per materia le Naturali. 9
Ebbene, se torniamo di qui al Caravaggio, s’impongono a prima vista due circostanze opposte diametralmente alle due emerse dai pareri del «naturalista» bolognese. La prima è che nessuno ha mai parlato del Merisi, né è presumibile che vorrebbe mai parlarne, come d’un pittore disposto a «spersonalizzarsi», tanto da ridurre il proprio «occhio» e la propria «mano» a «meri e passivi strumenti» del «consiglio» altrui, insomma a un «braccio» messo al servizio d’una «mente» diversa dalla propria. A parte le testimonianze concordi sul suo «soverchio ardimento di spirito» (Baglione) e sui suoi «costumi torbidi e contenziosi» (Bellori), occorre ammettere che anche sotto questo riguardo, come già sotto il riguardo della sottomissione alla disciplina post-tridentina, l’intera carriera del maestro è prova d’una indipendenza illimitata: da quando lo stesso suo protettore, il cardinal Del Monte, lo definiva «cervello stravagantissimo, et che pure era stato ricercato dal Principe Doria a dipingergli una loggia, che voleva dargli sei millia scudi et non ha voluto accettar il partito, se bene havesse quasi promesso»,10 fino ai tempi della Resurrezione di Lazzaro a Messina, per la quale abbiamo la testimonianza addirittura documentale che non aveva esitato a consegnare al committente un dipinto del quale aveva mutato il soggetto di pianta, discostandosi a suo arbitrio da quanto gli era stato richiesto nel contratto di commissione. 11 La seconda circostanza è che la pittura del Caravaggio non solo non ignora la figura dell’uomo, ma fa di essa una sede dell’«imitar bene le cose naturali» la cui importanza è dichiaratamente uguale alle «cose di Natura» strictu sensu, che Aldrovandi assegna a oggetto primario della pittura. Per chiarire questo aspetto del problema, è intan-
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to opportuno rilevare il fatto, obiettivamente innegabile, che mentre Aldrovandi scrive alla lettera: «la pittura debbe essere la vera imitatione delle cose di Natura»,12 al processo del 1603 il Caravaggio, come abbiamo già ricordato, dichiarò che per lui «pittore valenthuomo» è un pittore «che sappi dipingere bene et imitar bene le cose naturali».13 La somiglianza fra le due affermazioni e a tutta prima così marcata, da sorprendere che non sia stata messa a partito da chi ne avrebbe avuto l’interesse. Nondimeno essa non tarda a rivelarsi puramente verbale, se richiamiamo la non meno nota affermazione del Merisi riferita agli inizi del secondo decennio del Seicento dal marchese Vincenzo Giustiniani: «Il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure».14 Questo motto contiene una complessa concatenazione di giudizi su cui dovremo tornare a più riprese; ma da chi l’ha finora preso in considerazione, esso è stato assunto a prova pressoché esclusiva del ruolo di punta che il maestro avrebbe assolto nell’istaurazione della «pittura di fiori e frutta come argomento autonomo».15 Eppure sembra evidente il rischio implicito in una lettura così angolata: cioè che si cada nella trappola di limitare l’intento e i meriti del maestro al solo ambito della «natura morta», sebbene riscattata dalla subordinazione a cui stava condannandola una gerarchia dei «generi» in via di formazione. In effetti, il Caravaggio intendeva molto di più. Egli specificava che nell’operazione pittorica («manifattura») tesa alla qualità del risultato («quadro buono»), le «cose naturali» annoveravano i «fiori» come le «figure», ed entrambi sul medesimo piano di valore e dignità. Poiché invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, ciò equivaleva a dire che nella pittura di cui il Caravaggio era fautore, le «figure» erano «cose naturali» non meno dei «fiori», insomma l’unità e l’uguaglianza interna della «natura» era il presupposto dell’imitarla «bene».
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La differenza che viene così a delinearsi anche nell’ordine teorico fra i «naturalisti» di marca Aldrovandi (per i quali, sì, «la pittura debbe esser essempio et imitatione di tutte le cose Naturali», ma poi le «cose Naturali», senza riferimento all’uomo nonostante la N maiuscola, sono « principalmente le piante et animali, et altre cose inanimate») e il buon imitatore di «cose naturali» impersonato dal Caravaggio (per il quale – torno a ripetere – «fiori» e «figure», ossia «piante, animali, et altre cose inanimate» da un lato, gli uomini dall’altro, si equivalgono), risulta incolmabile. E si approfondisce ulteriormente se riprendiamo anche il giudizio, pur esso enunciato da Olmi, che «strumento delle scienze (...) e addirittura farmaco, l’arte non è comunque mai, per l’Aldrovandi, una via autonoma di comprensione del reale».16 È dunque indubbio che per l’osservazione sistematica e «sperimentale» del Merisi occorre puntare decisamente sull’altra direzione, e secondo i gradi che il concreto svolgimento storico di quell’altra direzione comportò. Poiché s’è accennato al problema dell’arte come «via autonoma di comprensione del reale», un primo spunto importante può essere fornito dall’affermazione con cui sul finire della Cena de le ceneri (1584) Giordano Bruno riassume non senza impazienza un suo argomento fondamentale: «Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura».17 Alcuni anni fa Biagio de Giovanni ha dedicato un bel saggio allo «spazio della vita» fra Bruno e Campanella,18 e nelle pagine di tale saggio dedicate al filosofo di Nola ha fra l’altro spiegato come l’affermazione su riferita si rivolgesse proprio contro Copernico, «perché – scrive Bruno – lui più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che
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potesse a fatto toglier le radici de inconvenienti e vani principii». Bruno, continua de Giovanni, non ignora né sottovaluta l’importanza dei nuovi studi matematici («e non è per litigare contra li matematici, per toglier le lor misure e teorie, alle quali sottoscrive e crede»), ma dichiara di avere un altro scopo , e che quest’ultimo «versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi moti». (...) Noi non siamo più centro di niente, ma ogni cosa costituisce il principio di sé rompendo ogni visione centrata, «atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna». (...) L’intuizione di Copernico ripensata da Bruno è volta verso un mondo senza centro, dove tutta la vita infinita è insieme centro e periferia. Il copernicanesimo di Bruno non mette al centro l’uomo, ma il mondo della vita. 19
Nell’adoprarsi a dimostrare questo punto, de Giovanni esce per altro in una serie di enunciazioni che in questa sede rivestono un interesse affatto speciale, almeno in via preliminare: Fra le linee delle due culture (ermetismo-scienza), il pensiero di Bruno esercita in realtà come un’incrinatura profonda che fa perno sulla laicizzazione dell’ermetismo e sulla sua trasformazione in cultura della produttività vitale : le fonti dell’ermetismo bruniano sono soverchiate dalla intenzionalità filosofico-prammatica di Bruno. In questa intenzionalità (...) c’è la consapevolezza che la realtà sta per rompere il velo dell’occulto e che si sta avvicinando il tempo del riconoscimento dell’apparenza come apparenza. L’abito magico non è più appartato e separato (...). 20 Bruno immagina un mondo non più occultato dalla metafora, ma non è il linguaggio della matematica, non la semplificazione della geometria che possono adeguare questa esigenza. Il mondo tende piuttosto a ricostruire la pro-
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pria oggettività sollevando la vita al principio della vita. Il principio vitale è trasportato dentro le forme, preme sotto la pelle delle cose. 21
E principalmente: La costruzione bruniana dello spazio va guardata come un’immagine del mondo che si misura criticamente con i presagi della nuova scienza e che tende a mantenersi in un proprio linguaggio dove le cose nominate si collocano in un nuovo orizzonte. Singolare copernicanesimo il suo, che rivendica l’autonomia del proprio occhio, la singolarità del proprio «vedere». 22
Se mai il Caravaggio ebbe sentore di istanze come queste (il riconoscimento dell’apparenza come apparenza; il principio vitale trasportato dentro le forme, a premere sotto la pelle delle cose; l’autonomia del proprio occhio e la singolarità del proprio vedere: che sono le vie maestre dell’assunto fondamentale: «Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura»), c’è da scommettere che, quando all’alba del 10 febbraio 1600 – anno santo – Bruno fu messo al rogo dal Sant’Uffizio in Campo de’ Fiori, con la lingua costretta a tacere fra i serrami della mordacchia, facesse ben altro che «segnarsi», come ha voluto immaginare Maurizio Calvesi.23 Sempre nel medesimo saggio, de Giovanni s’è adoperato a dimostrare anche come la forte capacità di evoluzione operativa del mondo magico-ermetico, già annunciatasi in Bruno, si accentuasse ulteriormente fra Giovan Battista Della Porta e Tommaso Campanella; almeno nel senso, spiega de Giovanni, che un tratto comune del cammino intellettuale di questi ultimi conduce pur esso «a ridurre gli aspetti animistici, demoniaci e astrologici, per calare lo sguardo nella complessità
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vivente dei corpi».24 «Noi assegnaremo le ragioni naturali, e confuteremo le celesti come false e illusorie», scrivera Della Porta nel proemio al Della celeste fisionomia del 1616, e de Giovanni aggiunge parafrasando: «Guarderemo alla qualità dei corpi, alla naturalita delle cause, alla complessita del vivente».25 Né il fatto che gli uomini del rinnovamento scientifico più inoltrato, Galilei, Mersenne, Cartesio, mostreranno diffidenze, silenzi imbarazzati o aperte riserve nel confronti di un Campanella, può far trascurare, dice ancora de Giovanni, che lo stesso Campanella, e i novatores della sua estrazione, si dimostrassero ben diversamente disposti nei confronti di quelli: il mondo dei «maghi» in accezione campanelliana si presentava «più aperto, più fluido, meno chiuso e bloccato nei propri confini»; i suoi esponenti erano convinti di combattere, pur con armi diverse, la stessa battaglia della nuova scienza; Campanella scrisse addirittura: «Bisogna rinnovare le scienze attenendosi al mondo, come ho fatto io e come Galilei fa di continuo».26 Sicché è davvero fondato credere che l’incontro padovano del 1592, durante il quale si trovarono faccia a faccia Campanella, Della Porta e il ventottenne Galilei, segnasse «l’ultimo momento – le parole sono sempre di de Giovanni – in cui da una indistinta unità si avviarono differenze, tagli, separazioni nette, destini diversi»; tagli e separazioni nette, tuttavia, che comportarono una dissimmetria di comportamenti per la quale il nuovo avrebbe rotto definitivamente con il passato, e invece «dall’interno di quel “passato”» – ma è ben inteso: di quel particolare «passato» – si sarebbe preteso, comunque si sarebbe volenterosamente voluto, «di continuare a parlare e a comunicare» col nuovo.27 In ogni caso, «la rottura fra il pre-scientifico e lo scientifico fu la legge di movimento del pensiero nuovo», sebbene se ne potesse «comprendere la profondità solo in presenza dell’avvenuta frattura».28
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Da una lettera del 25 maggio 1592 a Ferdinando I, granduca di Toscana, si apprende che il cardinale Francesco Maria Del Monte, il quale di lì a poco avrebbe accolto presso di sé il Caravaggio, s’era interessato a Campanella, e aveva anche parlato con lui: «finalmente io gli ho parlato»; ma il giudizio ultimo che ne dava era il seguente: «lo trovo molto ardito; ragiona efficacemente, sì come fanno tutti li regnicoli. Di primo lancio entrò nell’opere sue, le quali sono contro alla dottrina di Aristotele, promette gran cose e dice bene il suo concetto; ma li fondamenti sui mi paiono molto sgangherati».29 Questa valutazione di «fondamenti sgangherati» è probabilmente già un sintomo della rottura fra «pre-scientifico» e «scientifico» che era in corso; ma nella prospettiva del processo di svecchiamento della cultura che stava fondando l’età moderna mediante la sostituzione della sapienza basata sull’autorità, sulle «quiddità» e sul sentito dire, con il principio del primato dell’esperienza, pare della massima importanza che proprio l’«ardito regnicolo» con cui il Del Monte s’era incontrato fosse già l’autore di una dottrina da cui il giovane Caravaggio, ammesso che di lì a un paio d’anni glie ne giungesse l’eco, avrebbe potuto sentirsi aiutato a prendere miglior coscienza di sé. Ecco, infatti, che cosa si legge nel proemio alla Philosophia sensibus demonstrata, che Campanella aveva scritto nel 1590 per difendere le tesi di Telesio dagli attacchi dell’aristotelico Marta e che gli avrebbe causato l’anno dopo il primo processo inquisitorio: Per quanto riguarda l’indagine filosofica della natura giurando che la filosofia di Aristotele è divina e non proponendosi d’investigare da sé la natura delle cose col guardare alle cose stesse, suppongono veri i detti di lui e innegabili i suoi principi; anzi dicono che non bisogna neppure disputare con quelli che riggettano Aristotele, ma occorre
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sfuggirli (...). E tra loro disputano di tutto, non della verità. Di qui, evitando la conoscenza delle cose, consumano il proprio tempo sul soggetto della scienza in Aristotele, sulla loro nobiltà, sul minimo, sul massimo, sulle conseguenze, sulle formalità, sulla definizione, sulla divisione dei termini e non delle cose, sull’univocazione, sulla denominazione, sulla sostanza, sull’accidente, sul soggetto, sul predicato, sul sillogismo, sulle categorie, sugli istanti, sulle parole di Aristotele, discutendo se in un luogo dimostri e in un altro parli ipoteticamente, qua univocamente e là a priori, o quia o propter quid. E trattano tutto questo ed altre opinioni in base alle parole di Aristotele, e non in base alle cose. Di guisa che mai, per giove, ho visto uno di loro guardare le cose, andare ai campi al mare ai monti, per fermarsi ad osservare le cose, neppure nelle proprie case, ma solo sui libri di Aristotele (...). Per tanto, di fronte a ogni questione attinente all’esperienza, parlano di per se e di per accidens, in potentia et in actu, logice et physice, primo intentionaliter et secundo, formaliter et virtualiter.
Al di là dei referenti dotti e tecnicamente dottrinali, il passo ha un così alto potenziale irrisorio nei confronti della saccenteria libresca, e un piglio di presa così immediata dove sbotta a imprecare contro l’ostinazione di non guardarsi intorno «neppure nelle proprie case», da poter incontrare per simpatia istintiva il genio d’un giovane di «soverchio ardimento di spiriti» qual era il Caravaggio. Senza dire dell’analogia che un pittore di nuova intelligenza, come il Caravaggío non è dubbio che fosse, avrebbe potuto dedurne immediatamente fra la secchezza intellettualistica degli aristotelici cultori del «formaliter» e il formalismo allitterante dei «manieristi» dell’ultima stagione cinquecentesca. Si deve però convenire che, nonostante l’importanza manifesta di una simile rivendicazione del primato dell’esperienza, e dell’appello altrettanto decisivo a «investigare da sé la natu-
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ra delle cose col guardare alle cose stesse», era proprio il concetto di «cosa» a conservare un margine ancora ampio d’indeterminazione, così come non ne uscivano ancora indicate le specifiche vie d’accesso alle «cose» in quanto «verità». Nella nota nota monografi monografiaa del 1983, 1983, Howar Howardd Hibbard Hibbard scrisse senza mezzi termini: «Caravaggio has even been found (rather extravagantly) to be an artistic parallel to Galileo»,30 e fece riferimento in primo luogo a un punto di vista che chi scrive aveva sostenuto già nella prima redazione del presente saggio, oltre che in precedenti seminari tenuti all’Università di Napoli.31 Eppure, come tutti i galileisti sanno bene almeno dai tempi di Antonio Favaro, è documentato che per il tramite di Guidubaldo Del Monte, «gran matematico di quei tempi» come lo avrebbe definito lo stesso biografo di Galilei, Vincenzo Viviani, anche e soprattutto Galilei era entrato in rapporti diretti con Francesco Maria Del Monte, fratello più giovane d’un quadriennio di Guidubaldo; ed è documentato che a tali rapporti, cresciuti sull’amicizia e sulla stima («è mio amico vecchio e stimo molto l’eminenza del suo valore», scriverà di Galileo il cardinal Francesco al granduca di Firenze, nel marzo 1611), toccò un lungo e mai appannato decorso. Rinforzatosi nel 1610, quando il prelato chiedeva, e Galileo gli mandava, addirittura il cannocchiale, oltre che una copia del decorso dei dei rapporti rapporti fra Galilei Galilei e il Sidereus nuncius, il decorso cardinale toccò l’acme fra il 1611 e il 1612, al punto che il 31 maggio del 1611 Del Monte poteva scrivere: «se noi fussimo ora in quella Repubblica Romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio, per onorare l’eccellenza del suo valore»; e proseguì almeno fino al 1615-16, quando Galileo era ormai alle prese col Sant’Uffizio e il cardinale (in questo confortato, anche più che sollecitato, dal granduca Cosimo II in persona: si ricordi l’importantissima lette-
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ra di Cosimo al Del Monte in data 28 novembre 1615) non esitò a prenderne la difesa. 32 A controllare le congiunture utili per noi, troviamo esattamente questo: nel maggio 1588, quando Francesco Maria non era ancora divenuto cardinale, Guidubaldo gli raccomandava il giovane scienziato, inviandogli a Firenze una lettera che Galilei gli avrebbe consegnato personalmente, anche perché potesse farsi conoscere e apprezzare: «Io le mando – scriveva Guidubaldo a Galilei – la lettera per Monsignor mio fratello: la gli la dia lei medesima, e spero che quello che toccherà a lui non mancarà di aiutarlo, havendogl’io scritto in modo, che credo conoscerà il suo valore et la sua dottrina, havendogl’io scritta la verità»;33 nel luglio 1589 tali rapporti si erano stretti al punto che, per l’interessamento di entrambi i Del Monte (e intanto Francesco era stato «esaltato al cardinalato») Galilei ottenne la nomina di lettore di matematiche presso lo Studio di Pisa;34 i rapporti erano sempre attivi quando, nell’agosto 1592 Galilei era ospite di Guidubaldo a Pesaro, e nel settembre, ancora «per consiglio e con l’indirizzo del signor Marchese Guidubaldo», il che comportò di nuovo l’interessamento del cardinal Francesco, ottenne «dalla Serenissima Repubblica di Venezia la lettura delle matematiche in Padova per sei anni».35 Né basta ancora; perché, dalle ultime novità sulla vita del Caravaggio ricapitolate recentemente da Mia Cinotti, si apprende che «in una biografia sul pittore, in corso di stampa, scritta da Giorgio Mascherpa che (...) ne ha fornito cortesi anticipazioni, si accerta che Galileo, a Roma dal 1597 al 1603, frequentava assiduamente casa Del Monte». 36 Nel momento in cui scrivo, la biografia di Mascherpa non è stata ancora pubblicata; sicché non so e non posso controllare in quali precisi modi tale assidua frequenza si sarebbe avverata (dal 1592 al 1610 Galileo insegnava a Padova e frequentava Venezia), né quali precise con-
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seguenze, annunciate anch’esse dalla Cinotti, Mascherpa abbia tratto da tale accertamento nei confronti del Caravaggio e della sua opera. Ma dall’insieme di questi dati risulta verosimile che il pittore, presente a Roma dall’avanzato 1592, ospite e «protetto» del cardinal Del Monte dal 1594 all’incirca fino a tutto il 16oo, avesse più che un sentore anche degli indirizzi che Galilei era gia venuto imprimendo alle sue ricerche, e soprattutto delle istanze fondamentali a cui tali indirizzi si venivano improntando. È stato detto bene che la matematica appresa da Galileo giovinetto alla scuola di un allievo di Niccolò Tartaglia, Ostilio Ricci da Fermo, era una matematica studiata «con mentalità da ingegnere», un «insieme di ricerche legate all’arte militare, all’architettura, e in genere ai lavori pratici», che aveva assunto «l’aspetto di scienza pressoché sperimentale», e che aveva individuato in Archimede «la «la più perfetta realizzazione realizzazione della della mentalità matematico-sperimentale ora accennata».37 Galileo ereditò dal Ricci questo «amore per Archimede», e di lì tolse l’inclinazione a congiungere il carattere operativo della matematica all’interesse per l’osservazione, per altro mostrando sin d’allora «la tendenza a trasformare le scoperte scientifiche in principî pratici, utili all’uomo».38 Tutto ciò è per altro testimoniato e chiarito a fondo da quanto riferì a suo tempo il biografo Viviani, con l’intento di porre in evidenza l’aspetto forse più qualificante dell’epistemologia del maestro: Ben diceva che le principali porte per introdursi nel ricchissimo erario della natural filosofia erano l’osservazione e l’esperienza, che per mezzo delle chiavi de’ sensi, da i più nobili e curiosi intelletti si potevano aprire. 39
Il collegamento dell’«osservazione» e dell’«esperienza» in un nesso che presuppone l’operatività, e in cui
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questa è intesa non meno come fine che come punto di partenza, è infatti il dato che attribuisce alla scienza galileiana l’inconfondibile connotato dinamico per il quale, mediante la verifica, essa promuoveva una conoscenza attiva; una conoscenza, in altri termini, che di tanto era diversa da quella meramente compilatoria dei «naturalisti» nel genere di un Aldrovandi, per quanto era figlia e madre allo stesso tempo dello spirito d’investigazione, il quale si proponeva a sua volta d’insegnare a scoprire, e di valutare via via quanto era stato scoperto. Ad ascoltare di nuovo Viviani, il punto dovette esser chiaro a Galilei fin dalle sue primissime prove, quand’era ancora studente di «medicina e filosofia» a Pisa: In questo mentre, con la sagacità del suo ingegno inventò quella semplicissima e regolata misura del tempo per mezzo del pendulo, non prima da alcun altro avvertita, pigliando occasione d’osservarla dal moto d’una lampada (...); facendone esperienze esattissime si accertò dell’egualità delle sue vibrazioni, e per allora sovvennegli di adattarla all’uso della medicina per la misura della frequenza dei polsi (...): della quale invenzione si valse poi in varie esperienze e misure di tempi e moti, e fu il primo che l’applicasse alle osservazioni celesti, con incredibile acquisto nell’astronomia e nella geografia. Di qui s’accorse che gli effetti della natura, quantunque apparischin minimi e in niun conto osservabili, non devono mai dal filosofo disprezzarsi, ma tutti egualmente e grandemente stimarsi ; essendo perciò solito dire che la natura operava molto col poco, e che le sue operazioni eran tutte in pari grado maravigliose. 40
L’accertamento enunciato nell’ultimo periodo («Di qui s’accorse») è evidentemente fondamentale, e contiene già tutte le principali conclusioni a cui s’informò di lì in avanti l’epistemologia galileiana. Su questa traccia, non essendo io in grado di fare di più, né potendo
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disporre dello spazio altrimenti necessario, mi provo a mettere in fila una breve antologia di citazioni dagli scritti di Galileo stesso, che, per quanto non rispetti l’ordine dei tempi, e si auguri soltanto di non deformare la consequenzialità metodologica degli assunti, può essere utile al nostro caso meglio d’ogni altra esposizione. Cotesto, che voi dite, è il metodo col quale [Aristotele] ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e’ sia quello col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch’e’ procurasse prima, per via de’ sensi, dell’esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezzi da poterla dimostrare, perché così si fa per lo più nelle scienze dimostrative. (...) Il medesimo non afferm’egli che quello che l’esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato? e questo non lo dic’egli resolutamente e senza punto titubare? (...) bisogna anteporre il senso al discorso (...). 41 Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che ‘l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna. 42
Noi non dobbiamo desiderare che la natura si accomodi a quello che parrebbe meglio disposto et ordinato a noi, ma conviene che noi accomodiamo l’intelletto nostro a quello che ella ha fatto. 43 Non son io che voglia che il cielo, come corpo nobilissimo, abbia ancora figura nobilissima, qual è la sferica perfetta (...); quanto a me, non avendo mai lette le croniche e le nobiltà particolari delle figure, non so quali sieno più o men nobili, più o men perfette; ma credo che tutte sieno antiche e nobili a un modo, o, per dir meglio, che quanto a loro non sieno né nobili e perfette, né ignobili e imper-
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fette, se non in quanto per murare credo che le quadre sien più perfette che le sferiche, ma per ruzzolare o condurre i carri stimo più perfette le tonde che le triangolari. 44
Ecco insomma l’ossatura d’una posizione che, mentre rivendica la priorità anche cronologica dell’«esperienza» sul «discorso», e dell’«osservazione» condotta «per via dei sensi» sulla pura deduzione logica, scopre il primato effettuale della «natura» sulle pretese accomodanti dell’«intelletto»; e nell’ambito d’una «natura» così intesa accerta che «nobiltà» e «perfezione» delle «forme» non coincidono affatto con una presunta «qualità» assoluta di esse data a priori, ma dipendono dal rapporto strumentale fra mezzo e fine in cui si trovano coinvolte, vale a dire dalla maggiore o minore idoneità operativa che ciascuna di tali forme dimostra quando è applicata al conseguimento di un dato scopo. E se a questo punto richiamiamo anche quel che abbiamo letto più sopra in Viviani a proposito del convincimento maturato da Galileo fin dai primi tempi, che «gli effetti di natura (...) devono tutti egualmente e grandemente stimarsi, essendo perciò solito dire che la natura operava molto col poco e che le sue operazioni eran tutte in pari grado maravigliose», ne esce applicato a Galilei un corollario che altri studiosi hanno tratto da tempo per tutta la scienza del secolo xvii: che il metodo fondato sull’osservazione e sull’esperienza aveva ritrovato «una nuova natura, composta non più di forme gerarchizzate, ma di fenomeni fra loro equivalenti», e aveva con ciò determinato una «revisione generale dei valori».45 Una revisione dei valori, aggiungiamo, in forza della quale, mentre l’accento si spostava da «ciò che è», vale a dire dalla trascendenza metafisica della «Verità» data per sempre, a «ciò che appare», vale a dire agli aspetti sensibili e contingenti di «verità» particolari – e si ricorderà che anche Giordano Bruno sentiva prossimo il tempo in cui, rotto
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il velo dell’occulto, l’«apparenza» sarebbe stata riconosciuta per «apparenza»,46 – uscivano rivalutati non solo, ma valorizzati, proprio i fenomeni e le apparenze fisiche, insomma «gli effetti di natura». Orbene, come non ammettere che tutto questo ha un corrispettivo puntuale con quanto siamo venuti rilevando a proposito del Caravaggio nei paragrafi precedenti? Rielenco in sintesi i punti essenziali: osservazione intensiva, sistematica e senza intermediari delle «cose naturali» in vista della loro «imitazione» (l’«osservanza della cosa» sempre tenuta «davanti»: Mancini); precedenza dell’«imitar bene le cose naturali» sulla «finzione» iconografica e subordinazione di questa a quella («dipinse una fanciulla a sedere [...] e la finse per Maddalena»: Bellori); pareggiamento di uomini e cose nell’equivalenza fenomenica della pittura, di contro alle gerarchie prestabilite dei «generi» in base alla «teologia» delle differenze di dignità proiettate all’interno dello stesso corpo dell’uomo («tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure»: Giustiniani); carattere «sperimentale» della traduzione pittorica delle «cose naturali» osservate e pareggiate, non fosse che nell’utilizzazione dello specchio (quadri «da lui nello specchio ritratti»: Baglione); e, persino, idoneità funzionale delle forme nelle «cose naturali» («Non vedete voi come il tiranno [Dionisio di Siracusa] per voler fare un vaso che per far sentire le cose servisse [la prigione], non volse altrove pigliare il modello, che da quello [l’orecchio] che la natura per lo medesimo effetto fabbricò?»: Caravaggio stesso).47 V’è per giunta un dipinto del maestro, databile nel pieno della sua attività romana, che già per la sua stessa concezione può essere assunto a ipostasi dell’insieme di quanto abbiamo fin qui rilevato. È l’Incredulità di san Tommaso dipinta per Ciriaco Mattei, poi passata a Vincenzo Giustiniani, e ora a Potsdam,48 dove l’atto che sta
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compiendo l’uomo della strada in cui è incarnato l’apostolo, di conficcare il dito nella ferita del costato del Cristo, e quasi di cercarvi dentro, non solo costituisce il «fuoco» dell’opera, ma spinge la lettera dell’unica narrazione evangelica disponibile a una così eccezionale e tremenda fisicità («se non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò»),49 da rappresentare al massimo dell’evidenza la volontà di verifica – di accertamento per prova –, di accesso alla convinzione unicamente per «esperienza» (porta principale della «natural filosofia», in termini che ora possiamo dire galileiani a ragion veduta), da cui tutta l’opera del Caravaggio prende il suo vero carattere. 50 5. Ancora sul quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «le chiavi de’ sensi» (Galileo) e la centralità dell’e sperienza visiva come strumento di conoscenza nella rivoluzione scientifica; «non mi fido di nulla se non della testimonianza degli occhi» (F. Bacon); «occhi che, se resi vigili, vedono tutto ciò che è da vedere» (C. Huygens); «vedere per credere: l’osservazione oculare fa le veci della dimo strazione» (Comenio). La cultura pittorica lombarda, le implicazioni fiamminghe e il «nominalismo» dei «Vorku fers Galileis»
«Per mezzo delle chiavi de’ sensi». «Tengo per fermo ch’e’ procurasse prima, per via de’ sensi (...), di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione». «Quello che l’esperienza e il senso ci dimostra». «Bisogna anteporre il senso al discorso». Per Galileo, insomma, il protagonista, anzi lo strumento privilegiato del conoscere per esperienza è il «senso»: da anteporre al «discorso», vale a dire al desiderio dell’«intelletto nostro» «che la natura si accomodi a quello che parrebbe meglio disposto et ordinato a noi». 1 La questio-
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ne non sarebbe ancora a fuoco, però, se non si specificasse che alla fine del secolo xvi, nel quadro del nuovo tipo di conoscenza di cui si veniva da più parti rivendicando il primato, e come avrebbe mostrato de facto Galileo stesso impiegando il «cannone-occhiale» nelle osservazioni astronomiche, il «senso» per eccellenza era divenuta la «vista». Torna subito alla mente, perciò, quanto è emerso poco a dietro dalle fonti stesse sul ruolo che occorre riconoscere all’«occhio», al «guardare» intensivo, e in generale all’esperienza ottica, nel processo mediante il quale il Caravaggio realizzò l’«osservanza della cosa», ossia l’«imitar bene le cose naturali» che egli medesimo aveva posto per programma allabase della sua pittura.2 Ma occorre spiegare il punto nei particolari. Dopo la dissoluzione del mondo antico, la preminenza del vedere come strumento e fonte di conoscenza si trova affermata già da Federico II di Svevia, che un altro Federico, il Nietzsche, avrebbe definito sei secoli più tardi «il primo europeo di mio gusto». Convinto che «fides enim certa non provenit ex auditu», lo svevo riteneva essenziale che ci si rendesse conto degli eventi (e anche delle punizioni che faceva infliggere a chi congiurava contro di lui), «con i propri occhi, i quali danno all’uomo impressioni più profonde di quelle dell’orecchio».3 Passando dalla scienza greco-araba a quella degli occamisti, l’esperienza visiva aveva assunto un’importanza fondamentale nella filosofia nord-europea della prima metà del Trecento (si pensi in particolare a Giovanni Buridano), ed ebbe un gran seguito presso i fisici dei decenni successivi; specialmente presso i «perspectivi», da Enrico di Langenstein a Biagio Pelacani, che s’impegnarono a provare come i fenomeni luminosi, liberati da ogni aspetto irrazionale, miracoloso o superstizioso, dovessero essere spiegati in sede ottica.4 Viene quindi il caso ben noto di Leonardo da Vinci, per il quale l’elogio dell’uomo e dei suoi ritrova-
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ti diventa l’elogio esclusivo della vista, e della «divina pittura» suo strumento maggiore: Chi perde il vedere, perde la veduta e bellezza dell’universo e resta a similitudine di un, che sia chiuso in vita in una sepoltura, nella quale abbia moto e vita. Or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo? egli (...) tutte le umane arti consiglia e corregge (...); questo è principio delle matematiche, le sue scienze sono certissime questo l’architettura e prospettiva, questo la divina pittura ha generato. [La vista è] finestra dell’humano corpo, per la quale l’anima specula e finisce la bellezza del mondo, per questo l’anima si contenta dello humano carcere, e senza questo esso humano carcere è suo tormento. Adunque, conoscendo tu pittore non poter esser buono se non sei universale maestro di contraffare con la tua arte tutte le qualità delle forme che produce la natura, le quali non saprai fare se non le vedi e non le ritrai nella mente. 5
Circa il ruolo assolto dal «vedere» nella costruzione della nuova scienza da parte degli scienziati seicenteschi più avanzati, Ezio Raimondi ha tempo a dietro centrato un suo bel saggio appunto sullo «sguardo», sull’esperienza visiva come «visione degli oggetti», in quanto «funzione privilegiata di conoscenza, di ordinamento descrittivo del mondo sensibile». 6 Per nostro conto, a riscorrere rapidamente i nomi dei pensatori più in vista del Cinquecento uscente richiamati nel corso del precedente paragrafo, troviamo che, tra «le grandi metafore» della Cena de le ceneri di Giordano Bruno, «sono il “vedere”, l’insegnare a vedere»; il nolano «ha donati gli occhi alle talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi», ha parlato degli «animanti nati per vedere il sole» disposti a «ricevere nel centro del globoso
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cristallo degli occhi suoi gli tanto bramosi e aspettati rai».7 Sempre nella Cena delle ceneri è per giunta affermata «l’autonomia del proprio occhio, la singolarità del proprio “vedere”»: Ai dì passati vennero doi al Nolano da parte d’un regio scudiero, facendogl’intendere qualmente colui bramava sua conversazione, per intendere il suo Copernico ed altri paradossi della sua nuova filosofia. Al che rispose il Nolano, che lui non vedeva per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo, ma per i proprii, quanto al giudizio e alla determinazione; benché quanto alle osservazioni, stima dover molto a questi ed altri solleciti matematici. 8
Passando a Giovan Battista Della Porta, autore nel 1593 del ben noto De refratione, occorre ricordare che nella sezione della Magia naturalis (prima stesura, 1589) dedicata a questioni di ottica, un assunto centrale è che – cito ancora da de Giovanni – «si tratterà di potenziare la vista per capire la vita: dove quel potenziamento finisce col restare sospeso fra una grande metafora che unisce Della Porta a Bruno e uno sforzo di determinazione rigorosamente ottica che troverà il riconoscimento in Giovanni Keplero».9 Riconoscimento di Della Porta da parte di Keplero, che fu illustrato ineccepibilmente già da Antonio Corsano nel 1959.10 Ma non vorremo lasciarci sfuggire che quell’esigenza di «potenziare la vista per capire la vita» è già in linea con quel che farà Galileo quando, adottando il cannocchiale, potenzierà la vista alla lettera, se non proprio per capire la vita, certo per accertarsi dell’ordine dei cieli nel suo assetto effettivo, donde un indubbio splash down nel modo d’intendere appunto la vita e il mondo. Quanto a Campanella, mi limito a rimandare al passo citato nel paragrafo precedente, dove si afferma la priorità dell’«investigare da sé la natura delle cose col guardare alle cose stesse».
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Naturalmente, non dimentico che anche in Ulisse Aldrovandi è stato notato che «in una prima fase la vista giuoca un ruolo essenziale e affatto primario (...). Vedere è conoscere e la pittura rappresenta lo strumento di “fissazione” e verifica delle conoscenze, nonché il veicolo privilegiato di trasmissione delle stesse». 11 Ritengo però che occorra rileggere il passo a cui questa affermazione è stata appoggiata: [A] voler dipingere le piante naturalmente, bisogna esser non solamente essercitatissimo pittore, ma di più bisogna havere la pianta fresca e circa cavata all’hora dalla terra: perché le piante essiccate non si ponno dipingere. Ma chi haverà la pianta viva innanzi gli occhi, non è dubbio che se egli è eccellentissimo pittore, l’imitarà in ogni minima parte, non si partendo da quella un tantino (...). 12
Se il problema posto da Aldrovandi al suo «eccellentissimo pittore» non è tanto di «haver la pianta [o in generale la cosa] innanzi gli occhi», ma di averla «viva», «fresca e circa cavata all’hora dalla terra», perché le «piante essiccate non si ponno dipingere», ciascuno vede da sé che qui la questione del «vedere è conoscere» non si pone affatto, in ogni caso regredisce a una condizione di mera contingenza tecnico-documentaria. E infatti Aldrovandi prosegue illustrando la necessità che abbia «l’occhio il pittore alla varieta dell’età delle piante, perché la più parte secondo la stagione dell’anno mutano l’aspetto, et ancora mutano la figura delle foglie ecc.». 13 Né, per contro, vorremo dimenticare quale partito pittorico cavasse il Caravaggio dalla rappresentazione delle foglie avvizzite, o «essiccate» addirittura, in tutti i suoi celebri inserti di natura morta vegetale, e nella stessa Canestra ambrosiana. L’asserto che «vedere è conoscere», anzi il riconoscimento della centralità del vedere come strumento di
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conoscenza, all’incontro d’una connessione storicamente convincente fra rivoluzione scientifica e pittura, è stato posto invece nei termini giusti e nella giusta evidenza da Svetlana Alpers. In una serie di scritti sulla pittura olandese del secolo xvii, che s’apre col saggio del 1978 intitolato significativamente Seeing as Knowing: A Dutch Connection, e che ha messo capo al bel libro The Art of Describing del 1983, tradotto in italiano già l’anno dopo presso Boringhieri, 14 la Alpers è partita dall’assunto che ella stessa riassume così: «Uno dei motivi conduttori della nostra ricerca è che l’arte olandese, essenzialmente descrittiva, taglia i ponti con [le] basi letterarie. La sua insistenza sul sapere visivo e sulla maestria tecnica dell’artista denota una cultura dell’immagine autonoma rispetto alle fonti letterarie».15 Nell’introduzione, l’autrice ha anche specificato il proprio consenso con il punto di vista dell’ottocentesco Fromentin, quando in contrapposizione alla «scuola francese», «erede accademica degli italiani», poneva in risalto che l’arte olandese del Seicento è «un’arte che si adatta alla natura delle cose, un sapere che dimentica se stesso di fronte ai singoli casi della vita, niente di preconcetto, niente che preceda la pura osservazione, vigorosa e sensibile, di ciò che esiste». La Alpers ha aggiunto altresì che, «in modo significativo e (...) molto opportuno, Fromentin si richiama a un tema enunciato anche da Reynolds, ossia al fatto che il rapporto tra questa arte e il mondo è come il rapporto tra l’occhio stesso e il mondo».16 Da ciò la studiosa è partita a lancia in resta contro le tesi degli iconologi più recenti, che schierandosi contro queste vedute «hanno assunto come principio l’idea che nella pittura olandese del Seicento dietro la superficie descrittiva e realistica si celino significati nascosti».17 E definendo tale tendenza «una smania di interpretare»,18 non ha avuto remore nell’additarne l’origine in questa
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precisa circostanza: che (almeno nei settori di cui la Alpers mostra maggior pratica) «lo studio dell’arte e della sua storia è stato condizionato in misura rilevante dallo studio dell’arte italiana»;19 «la vocazione retorica» di questa (altrove, si parla addirittura, e facendo tutt’uno, di «idea italiana o accademica dell’arte»),20 vale a dire il dato che in detto ambito «l’onnipresente principio dell’ut pictura poësis era chiamato in causa per spiegare e legittimare le immagini attraverso il loro rapporto con testi preesistenti e consacrati»,21 aveva determinato lo stabilirsi di «una tradizione di pensiero, tipicamente italiana, che attribuisce un rango inferiore all’arte osservativa come quella olandese».22 Perché messo a punto sui parametri di un’arte di tal natura, e perciò affetto dal «pregiudizio italiano», il metodo iconologico potrà dunque esser considerato idoneo allo studio della «grande tradizione dell’arte occidentale» condizionata dalla «vocazione retorica» italiana, ma non a quello dell’arte fiammingo-olandese».23 «Questa smania di interpretare costa, in termini di esperienza visiva, un prezzo molto alto. Ed è la stessa arte olandese a mettere in discussione la validità di questo atteggiamento».24 Fermo che la messa in discussione, e anzi la repulsa di questa «smania di interpretare» è un punto da condividere senza riserve – né soltanto per quel che riguarda l’arte olandese –, la possibilità di condurre avanti il discorso dal nostro punto di vista è subordinata a due chiarimenti preliminari. Il primo è che quanto la Alpers continua a chiamare «italiano», «idea italiana o accademica dell’arte», in realtà costituisce il retaggio di una posizione intellettualistica che può esser detta italiana solo latamente e solo in antefatto. Prova ne sia che, specialmente nella formulazione originaria di Erwin Panofsky, proprio l’iconologia che la Alpers fa dipendere dall’influenza del «pregiudizio italiano», è in realtà il prodotto del più rigoroso e sistematico mentalismo tedesco,
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d’origine sette-ottocentesca, coltivante un’idea in definitiva accademizzante di cultura classica, la quale sulla linea Grecia e Roma, Platone e Aristotele, Scolastica razionalistica e Umanesimo in senso letterale, ha per assunto centrale la superiorità gerarchica della mente sui sensi. Né dimenticheremo la circostanza, già messa in evidenza da molti, che l’egemonia politica e culturale della classe nobiliare europea fu mantenuta anche attraverso l’assimilazione dell’esperienza umanistica e il connubio con la cultura classica. Per quanto attiene al secondo chiarimento, occorre considerare che, nonostante qualche esplicita attenuazione, la Alpers sembra voler radunare sotto l’etichetta di «arte del descrivere» – dove «descrittivo» equivale sostanzialmente a «realistico» –,25 pressoché tutta l’arte fiorita nell’Europa settentrionale, inclusi, al limite, anche un Van Mander e un Rubens;26 mentre sotto l’etichetta di «arte italiana» e «teoria italiana», da un lato rinvia al «Rinascimento», che per lei coincide con «la definizione albertiana di quadro» e comporta che «col termine “albertiano”» ci si riferisca «piuttosto a un modello generale e duraturo» che non «a un tipo particolare di pittura quattrocentesca»,27 da un altro rinvia specificamente alla situazione cinquecentesca che possiamo riassumere nella sequenza: Michelangelo-Vasari-disegno selezionante-idea.28 Orbene, riguardo all’etichettatura generalizzante dell’arte nord-europea come «arte del descrivere», alias «arte realistico-osservativa», sembra davvero difficile non avvertire che un Brueghel dei Velluti non è Vermeer né Rembrandt, e che anche lassù bisognerà tener distinta un’arte fondata sull’osservazione, ma i cui risultati non vanno al di là della pura e sedula «descrizione» (in senso ristretto, ovviamente, non in quello alpersiano), e un’arte fondata ugualmente nell’osservazione, ma i cui risultati colgono la «natura vista» in profondo, e al punto di renderla
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anche soltanto per «macchia di luce», al di là della mimesi della sua stessa identità: la Alpers mette nel giusto valore il fatto che se in un quadro di Vermeer «concentriamo l’attenzione su un particolare – per esempio la mano del pittore nell’ Arte della pittura [di Vienna] –, ne proviamo un senso di vertigine perché la mano è costruita con pure sfumature di luce, e non dichiara affatto la sua identità di mano».29 In oltre, credo personalmente che occorra guardarsi dal prendere troppo alla lettera la tesi che «un’immagine pittorica, per avere un aspetto realistico, richiede una cura estrema»:30 anche questo sbilancerebbe il discorso nella direzione del descrittivismo minuto, micrografico addirittura (di un Jan Brueghel, ad esempio, per citare di nuovo questo pittore),31 in uno con l’esaltazione un po’ fine a se stessa del «virtuosimo tecnico», anche se in funzione del «registrare la moltitudine di cose che costituiscono il mondo visibile».32 E dico ciò senza voler intaccare minimamente il ruolo fondamentale che occorre riconoscere alla rivendicazione della «mano schietta» e comunque dell’aspetto operativo nel processo di realizzazione dell’opera d’arte, che fu anch’essa una conseguenza (ma non da tutti partecipata, come si sa) della rimpostazione dei valori determinata dalla scientific revolution. Riguardo all’«arte italiana», è altrettanto difficile non avvedersi che il modello descritto dalla Alpers coincide solo col «pregiudizio italiano» che la medesima Alpers rimprovera giustamente agli iconologi, mentre lascia fuori troppe cose importanti, che per di più anticipano proprio la linea maestra della «cultura visiva» fiandro-olandese: le tendenze schiettamente naturalistiche dell’arte federiciana più libera (quelle fondate sul primato dell’occhio, oltre che sul principio che «fides certa non provenit ex auditu»); i loro ritorni in certi aspetti dell’arte di un Simone Martini dopo la svolta del 1330, che da Avignone, dove si attestarono nel decennio suc-
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cessivo, si proietteranno sull’Europa continentale; l’empirismo luministico della miglior pittura lombarda fra Trecento e Cinquecento; l’intensa mimesi materica della massima parte della pittura padana del secolo xv e il naturalismo quasi sperimentale della pittura napoletana contemporanea, all’incontro con la pittura dei grandi fiamminghi della prima metà del secolo, della quale alcuni settori della cultura italiana furono per giunta i primi a insegnare l’apprezzamento; per tacere delle implicazioni scientifiche e operative del primo Quattrocento fiorentino (nell’«ingegneria» di Brunelleschi, innanzitutto), seguaci di «una più grassa Minerva», come diceva – guarda caso – proprio Leon Battista Alberti. Ma il modello italiano della Alpers lascia fuori soprattutto il Caravaggio, che invece esige d’essere considerato il vero punto di partenza del ramo innovativo della pittura moderna europea, e giusto perché improntato, come veniamo mostrando, a una «cultura essenzialmente visiva e non testuale».33 In Arte del descrivere il nome del Caravaggio ricorre solo tre volte. Nella seconda e nella terza è per sottolineare che il maestro era stato «profondamente attratto dalla tradizione nordica», aveva «simpatie nordiche».34 Ma nella prima è addotto giusto l’argomento che qui giova: Nel Seicento, come pure nell’Ottocento, alcuni degli artisti più innovatori e più dotati – Caravaggio, Velázquez e Vermeer, poi Courbet e Manet – adottano un modo pittorico essenzialmente descrittivo. Il termine «descrittivo» è in realtà un modo per caratterizzare molte di quelle opere che siamo soliti definire realistiche, e che abbracciano, come sostengo in vari punti della mia ricerca, il modello figurativo della fotografia. Nella Crocifissione di san Pietro del Caravaggio, nell’ Acquaiolo di Velázquez, nella Donna con la bilancia di Vermeer e nel Déjeuner sur l’herbe di Manet,
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le figure sono fermate nell’azione per poter essere ritratte. (... ) Tra azione e attenzione descrittiva sembra esserci un rapporto di proporzionalità inversa: l’attenzione per la superficie del mondo descritto comporta il sacrificio dell’aspetto narrativo della rappresentazione. 35
Il lettore attento avrà notato che l’osservazione sul rapporto inverso fra azione e attenzione descrittiva che in questo passo coinvolge il Caravaggio nella compagnia altamente significativa di Velázquez, Vermeer e Manet, coincide con il rimprovero di mancanza d’azione, alias presentazione «sanza azzione» e senza «storia», mosso alle pitture del Caravaggio dai tradizionalisti italiani dei suoi giorni e fino ai classicisti, insomma da Federico Zuccari a Mancini a Bellori: questi sì campioni indiscussi in area gia caravaggesca del «pregiudizio italiano» messo a punto dalla Alpers. Ebbene, poiché il Caravaggio viene obiettivamente per primo nella serie, e il Bellori, nonostante tutto, non fu tra gli ultimi, come s’è visto, a indicare il ruolo dell’«occhio» nella sua pittura, è perfettamente legittimo riferire innanzitutto al Caravaggio quel che, nell’assunto sacrosanto che l’arte non può non essere considerata parte integrante di un sistema culturale,36 la Alpers ha indotto sul rapporto fra l’esperienza e la tecnologia ottica propria della rivoluzione scientifica seicentesca e la cultura visiva su cui è radicata l’arte olandese. Dentro il vasto mare di esempi solcato dalla Alpers, mi limito a scegliere l’essenziale, non senza rilevare preliminarmente che, subito prima di affermare «l’Europa del Nord fu il centro della nuova tecnologia ottica», la studiosa ha ammesso, e non è poco per noi, «con la sola eccezione di Galileo in Italia».37 La prima tappa non può non coincidere con la grande premessa costituita dalle posizioni assunte in Inghilterra da Francis Bacon già agli inizi del Seicento, e qui riassumibili con la citazione di due passi esemplari:
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«L’essenziale è di non allontanare mai l’occhio della mente dalle cose stesse, onde raccoglierne le immagini così come sono; non permetta mai Iddio che noi proponiamo i sogni della nostra fantasia invece della copia fedele del mondo»;38 – dal che discende l’importanza dell’esperimento, che consiste nell’«osservazione empirica di situazioni scelte dall’osservatore come fonti di esperienza» –;39 quindi il passo più specifico: «Non mi fido di nulla se non della testimonianza degli occhi».40 «Gli olandesi – ne ricava la Alpers – sono baconiani per la loro fiducia straordinaria nella capacità di osservazione dell’occhio»,41 e si sofferma innanzitutto su Constantijn Huygens, il quale «guarda in una lente e pensa subito a una pittura»,42 e nel Daghwerck (Il lavoro di ogni giorno) include questi versi: «0 tu che dai gli occhi e il potere / da’ occhi con questo potere: / occhi che, se resi vigili, / vedono tutto ciò che e da vedere».43 Nel 1665, quando Robert Hooke presenterà la sua Micro graphia come contributo a una «riforma della Filosofia», dirà che tale riforma «consiste – cito sempre dalla Alpers – nel rifiutare l’autorità intellettuale accordata alle false nozioni, o “idoli”, come li chiamava Bacone, che in passato avevano tenuto prigioniere le menti umane. L’osservazione delle cose viste e la loro riproduzione in parole o immagini dovrà essere la base del nuovo sapere».44 Un’altra tappa potrà essere segnata nel punto in cui, indagando «la natura del raffigurare» realistico nell’Europa del Nord, dove l’accento è fatto battere sull’«inseparabilita tra l’autore, la raffigurazione e ciò che è raffigurato», la Alpers adotta a modello l’«ut pictura ita visio» di Keplero, ossia l’assunto che vedere è sinonimo di raffigurare. «In termini schematici, Keplero non solo definisce l’immagine sulla retina una rappresentazione, ma sposta la sua attenzione dal mondo reale al mondo “dipinto” sulla retina. Tutto questo
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implica un’estrema oggettività e la rinuncia a formulare giudizi di valore sul mondo così rappresentato». 45 Una terza tappa, forse la più chiarificatrice di tutte, potrà fissarsi nell’opera pedagogica di Comenio, il grande moravo Jan Amos Komensky, noto all’Europa, specialmente settentrionale, col nome latinizzato di Comenius, e che l’italiano Adolfo Faggi definì nel 1902 «il Galileo della pedagogia».46 Nel 1658, questi pubblichera l’Orbis sensualium pictus (Il mondo sensibile dipinto), riconosciuto come una pietra miliare della pedagogia perché, mentre sviluppa il punto di vista già affermato nella Janua linguarum reserta (La porta delle lingue spalancata) del 1631, secondo cui il sapere va appreso per «autopsia» dalle cose stesse, e non dalla tradizione libresca fondata sull’autorità e sulla memoria (che per altro Comenio condanna come causa della decadenza degli studi e della vita spirituale in genere), attribuisce importanza speciale all’educazione visiva.47 Ma nella Didactica magna (La grande didattica) del 1641, dove torna l’affermazione importantissima e del tutto baconiana che «l’osservazione oculare fa le veci della dimostrazione»,48 s’incontra anche un passo destinato a mostrare «in che modo debba procedere un’osservazione intelligente»,49 che può essere considerato decisivo ai nostri fini: È ancora da dire sul modo o metodo con cui gli oggetti devono essere presentati ai sensi perché se ne abbia un’impressione duratura. Il metodo è bene ricavarlo dal processo visivo esterno; per vedere in modo corretto qualcosa è necessario che 1) l’oggetto sia posto davanti agli occhi, 2) non lontano ma a giusta distanza, 3) non lateralmente ma perpendicolarmente agli occhi, 4) non alla rovescia, o sbilenco, ma dritto, 5) in modo che la vista possa vedere dapprima l’oggetto nel suo complesso, 6) e poi passare in rassegna le parti a una a una, 7) seguendo un certo ordine dal principio alla fine, 8) poi soffermandosi a lungo su ciascu-
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na parte, 9) fintanto che ogni cosa sia conosciuta con le rispettive differenze (...). 50
Se tutto quanto abbiamo annotato sotto la rubrica delle prime due «tappe», in sostanza conferma, e in qualche tratto amplia e precisa, ciò che del pensiero di italiani di punta come Bruno, Campanella e Galileo, abbiamo già ritenuto confrontabile con le dichiarazioni del Caravaggio stesso, come con le valutazioni delle fonti intorno al suo «naturalismo» e alla sua «ottica»; il passo di Comenio citato per ultimo sembra addirittura una descrizione del procedimento con cui il Caravaggio «guardò» le cose da raffigurare e si dispose davanti a esse: oggetti osservati e ritratti a giusta distanza, sempre in veduta frontale comunque fossero stati angolati l’uno rispetto all’altro all’interno della composizione, perpendicolarmente e mai lateralmente, dritti e non sbilenchi. Ma quel che più conta è che le raccomandazioni elencate ai punti 7, 8 e 9, che poi toccano l’essenziale, hanno un riscontro sorprendente con quanto abbiamo già letto in Sandrart circa l’«osservazione ottica» diretta e prolungata, e il «raggiungimento pittorico» della cosa in tutta la sua verità, da parte del Caravaggio. Soffermarsi a lungo su ciascuna parte dell’oggetto posto davanti agli occhi, fintanto che ogni cosa sia conosciuta, equivale davvero, e alla lettera, al «rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset ». Sandrart, tedesco di nascita, fra il 1623 e il 1627 era stato discepolo di Honthorst a Utrecht e con Honthorst era stato in Inghilterra, incontrandovi Orazio Gentileschi. Venuto in Italia subito dopo, l’aveva viaggiata in largo e in lungo, spingendosi fino a Malta per vedere nell’originale La decollazione del Battista del Caravaggio; prescelta Roma a base dei suoi spostamenti, vi risiede prevalentemente dal 1629 al 1635-36, ospite d’uno dei
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maggiori estimatori del Merisi, il marchese Vincenzo Giustiniani; nel 1631 collaborò con varie incisioni ai due splendidi volumi della Galleria Giustiniana pubblicati dal marchese quell’anno;51 e a Roma, nel 1633, fece visita a Galileo in Palazzo Firenze, lo frequentò e ne fece il ritratto proprio mentre lo scienziato subiva il secondo e più grave processo da parte del Sant’Uffizio. Tornato in Olanda nel 1636-37, s’insediò finalmente a Norimberga, dove attese alla redazione della Teutsche Academie, che pubblico, in due volumi fra il 1675 e il 1679, e di cui nel 1683 curò l’edizione latina.52 Ma ecco quel che Sandrart stesso narrò più tardi dei suoi rapporti con Galileo: Magni igitur Viri illius memoria me admonet; quam familiariter ac benigne hoc ipso, Romae, cum inquisitionis negotio inibi vacaret, usus sim, in Palatio Mediceo (...). Hic enim Opticae simul ac Geometriae studiis summopere oblectatus, ab illustri doctore et magistro ea didici, quae universus orbis splendide mecum ignorabat: quid multa? per tubum, in cubiculo suo ad Lunam haud difficulter directum, montes et valles, et sylvas, et regiones, et lucem et umbram, et omnia ad oculum ostendit. Hic mibi habitus ab eo honor, ut imaginem Ipsius debitis vicissim honoribus colerem et concitator fuit. 53
Dunque Sandrart era interessato all’ottica e alla «geometria» già prima dell’incontro con Galileo, per giunta «summopere»; e quell’incontro rinvigorì quell’interesse, adempiendolo fino ad appoggiare l’occhio al cannocchiale («tubum») puntato senza difficoltà sulla Luna. E «per tubum» Galileo mostrò all’occhio di Sandrart – «ad oculum ostendit» – non solo i monti, le valli e le regioni del pianeta, ma «lucem et umbram». Scontata la valenza (per lo meno la suggestione!) caravaggesca del nesso «lucem et umbram», vale la pena di notare che l’espressione «in cubiculo suo» ricorre anche nel passo sul
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Caravaggio; mentre non è del tutto irrilevante, dall’altro capo della congiuntura, che l’Orbis sensualium pictus di Comenio fu stampato, con testo latino e tedesco a fronte, a Norimberga, nel 1658, dove e quando Sandrart risiedeva ormai da tempo. Si snoda così un filo nitidissimo che collega gli interessi ottici di Sandrart a Galileo e alla pedagogia «visiva» di Comenio, e al medesimo tempo ci fa intendere che quando il tedesco presentò il procedimento caravaggesco nei termini che sappiamo, egli parlava con piena cognizione di causa, e in forza di ciò lo presentava a quel modo. Per altro, a quel modo egli affermava anche che, in quanto l’osservazione sistematica del Caravaggio era stata di natura «ottica», e aveva adottato l’occhio come strumento privilegiato per l’acquisizione di conoscenze pittoriche più sicure e di prima mano, la sua opera andava considerata parte integrante del contesto originario in cui quelle vedute e quelle pratiche furono trovate per la prima volta. Il Caravaggio, insomma, era stato fra gli scopritori di quel procedimento; in ogni caso era stato colui che aveva rinnovato la pittura applicando a essa quel metodo, per la prima volta. Non esiteremo ad attribuire all’insieme di queste asserzioni il valore di testimonianza, se riflettiamo che Sandrart, il quale era stato in Italia ben prima che scrivessero Baglione e Bellori (Mancini rimaneva manoscritto), a Roma era stato ospite di Vincenzo Giustiniani; e il marchese Giustiniani, intenditore di molte scienze, aveva visto il Caravaggio all’opera, ne aveva citato per iscritto i pareri, ne possedeva molti dipinti essenziali, e fra questi – ottenuta molto presto dai Mattei, per i quali era stata eseguita, per di più tenuta così bene a mente da riconoscerla a prima vista anche in copia, come accadde a Genova nel 16o6 – giusto quell’Incredulità di san Tommaso, che per le ragioni esposte a suo luogo a noi piacerebbe di intitolare l’«Incredulità del Caravaggio».54
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Il libro della Alpers è poi fitto di numerose altre osservazioni particolari suscettibili di essere rapportate in linea preferenziale alla chiave caravaggesca che a noi preme. Così, dove sotto il titolo La vocazione cartogra fica dell’arte olandese si legge che, «malgrado la rivoluzione pittorica rinascimentale, cartografi e artisti nordici continuarono a concepire il quadro come una superficie su cui descrivere, o inscrivere il mondo visibile, e non come un palcoscenico su cui rappresentare le gesta degli uomini»,55 a mio parere s’individua uno stato di cose in cui, all’alba dell’età post-rinascimentale di tutta Europa, il Caravaggio s’incontra per primo. E poiché ciò ha di nuovo a che fare con la vexata quaestio della pittura d’azione come pittura di storia, che i critici del Caravaggio (lo ripetiamo) gli rimproveravano di trascurare a vantaggio di una mera pittura «di ferma», si proietta necessariamente e in primo luogo sul maestro lombardo tutta la serie di acute osservazioni che la Alpers fa a proposito della natura morta seicentesca nel Nord: «Gli oggetti vengono offerti all’esplorazione dello sguardo»;56 «Con buona pace delle interpretazioni moderne, i limoni di Kalf non sono esposti ai guasti del tempo, ma all’indagine dell’occhio»;57 «Il mondo è immobilizzato, come nelle nature morte olandesi, per poter essere osservato».58 La stessa Alpers, del resto, quando aveva introdotto il Caravaggio in compagnia di Velázquez, di Vermeer, di Courbet e di Manet, non si era lasciata sfuggire che nelle sue opere (ma citava solo La crocifissione di san Pietro) «le figure sono fermate nell’azione per poter essere ritratte».59 Il che viene a combaciare a puntino con il nostro punto di vista, che la «natura morta» del Caravaggio non si limita ai dipinti di fiori (purtroppo non pervenutici) o di frutti (la celebre Fiscella dell’Ambrosiana), ma investe tutta la sua opera, appunto nel pareggiamento di «fiori» e «figure», come sappiamo, nell’obiettività di un mondo «immobilizzato per esser
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visto».60 Anche questo, del resto, la Alpers trova nel diario di uno dei suoi autori esemplari: il baconiano Isaac Beeckman, amico di Cartesio e di Mersennes. «È l’apparenza e in certo senso la natura del mondo ad attirare l’interesse di Beeckman: la sua curiosità non fa distinzione fra l’uomo, la natura e i rispettivi prodotti».61 Un altro aspetto della Stilleben nordica che ha a che fare in modo diretto con l’autentico «spirito di natura morta» di cui l’opera del Caravaggio è pervasa, è quello che la Alpers indica nei «riflessi luminosi», nei giochi di luce», che «permettono di distinguere il vetro dal metallo, dal tessuto».62 Altrove, la stessa studiosa scrive che, condividendo «i tradizionali interessi degli artisti nordici», Keplero «rivolse la sua attenzione non solo alla camera oscura, ma anche alle lenti, agli specchi e perfino alle bottiglie urinarie riempite di liquido trasparente, che gli servirono per studiare la rifrazione della luce».63 Bottiglie urinarie a parte, non v’è il minimo dubbio che l’esplorazione dei recipienti di vetro riempiti a mezzo di liquidi trasparenti, e l’attenzione alla rifrazione della luce che li attraversa e agli effetti di proiezione ottico-luminosa che ne derivano, sono tratti in grande evidenza nell’opera del Caravaggio. Essi anzi s’impongono, per insistenza e per qualità di risultati pittorici, almeno fino a quando il maestro non diede il sopravvento all’«ingagliardire gli oscuri». Dal Bacco degli Uffizi al Ragazzo morso da un ramarro, dal Riposo durante la fuga in Egitto alla Maddalena Doria, al Giovane che suona il liuto di San Pietroburgo, alla Cena in Emmaus di Londra,64 è un susseguirsi di veri exploits in tal senso, con il culmine nella natura morta dell’ Emmaus, la cui porzione di sinistra include una bottiglia e un bicchiere di vino bianco attraversati dalla luce, e riverberati nella parte inferiore dalla polla luminosa con cui quella luce interrompe l’ombra proiettata sulla tovaglia dai due recipienti, che si direbbero un’illustrazione
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degli studi di Keplero sulla rifrazione della luce, se non fossero sicuramente anteriori a essi, e soprattutto non fossero uno dei più alti raggiungimenti della rivoluzione pittorica che il pittore veniva portando avanti. Le stesse fonti si soffermano con cura e sorpresa non celata su questo tratto dell’opera caravaggesca, e la illustrano con una terminologia che si direbbe consapevole: «Dipinse (...) un giovane che sonava il Lauto, che vivo e vero il tutto parea, con una caraffa di fiori piena d’acqua, che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgea con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua (...). E questo (disse) che fu il più bel pezzo che facesse mai» (G. Baglione, 1642); «Dipinse una caraffa di fiori con le trasparenze dell’acqua e del vetro e coi riflessi della fenestra d’una camera, sparsi li fiori di freschissime rugiade, ed altri quadri eccellentemente fece di simile imitazione» (G. P. Bellori, 1672).65 La Alpers ha ragione da vendere quando specifica che «considerandola dall’osservatorio, privilegiato degli studi ottici di Keplero, potremmo dire che l’attitudine della luce a produrre immagini era da molto tempo, nel Nord, un motivo di interesse. Van Eyck ci mostra, nella pala d’altare Van der Paele, che ogni superficie illuminata, lucida e riflettente, produce immagini».66 Io stesso sono stato da tempo colpito dal fatto che negli sportelli dell’altare Werl del Maestro di Flémalle, oggi al Prado,67 quello col Battista include uno specchio convesso in cui, svolgendo il modo già tenuto da Van Eyck nei Coniugi Arnolfini, si riflette tutta la scena che abbiamo davanti, finestra e luci riverberate comprese; e quello con la santa Barbara leggente ha brani di natura morta d’una specularità sbalorditiva, che tocca un culmine nella bottiglia di vetro, riempita a metà d’un liquido trasparente, che figura in alto a destra, a lato del camino. Questa bottiglia proietta in tal modo se stessa, e la luce che la attraversa, sulla parete chiara retrostante, da
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costituire l’anticipazione più diretta che si possa indicare per l’inserto della bottiglia e del bicchiere nell’Emmaus del Caravaggio a Londra appena ricordato. Solo che il Caravaggio fu il primo a trasporre tutto questo dalla dimensione micrografica, più precisamente miniatoria, che costituiva ancora un tratto tipico della pittura fiamminga durante la prima metà del secolo xv, nella scala a misura d’uomo, e dunque di «verità», che solo l’appropriazione dell’ingrandimento rinascimentale (da Raffaello e Michelangelo, per un verso, dal Savoldo al Moretto, per un altro) poteva consentire. Senza abbandonare il terreno della valenza innanzitutto caravaggesca delle ricerche sull’«attitudine della luce a produrre immagini», e venendo perciò al problema principe dell’opera matura del maestro, il luminismo come rapporto bruciante di luce e ombra o, come lo definì Longhi, «fotogramma»; conviene leggere quel che la Alpers estrae dai procedimenti seguiti da Antony van Leeuwenhoek nelle sue analisi al microscopio: «Per rendere visibile l’oggetto – ad esempio dei globuli sanguigni – Leeuwenhoek dispone la luce e lo sfondo (...) in modo tale che i globuli “risulteranno come granelli di sabbia su un pezzo di taffetà nero”». «È come se qui Leeuwenhoek – osserva la studiosa – stesse pensando allo sfondo scuro prediletto dai pittori olandesi di nature morte».68 Da parte nostra, come non pensare, invece, proprio al Caravaggio, quando organizza il dato primario del buio assoluto, per osservare come operi il raggio di luce che lo squarcia e va ad abbattersi su uomini e cose, o pezzi di uomini e cose, che incontra nel tragitto, rivelandoli in tutta la loro effettualità dove sono allumati, e dando forma alle ombre che proiettano? Proprio di questa scuola [cioè, del Caravaggio], è di lumeggiar con lume unito che venghi dall’alto senza reflessi come sarebbe in una stanza da una finestra, con le pare-
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ti colorite di negro, che così avendo i chiari e l’ombre molto chiari e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto né pensato da altro secolo o pittori più antichi, come Raffaello, Tiziano, Correggio e altri. Ut autem rotundam corporum molem et naturalem rerum elevationem eo melius ex-primeret, data opera conclavibus utebatur obscurioribus e supernis uno lumine minore collustratis, ut ideae lumen e fenestra allapsum eo minus alio lumine impediretur, umbrae autem eo fortiores prodirent, adeoque debita ex hinc resultaret extuberantia.
Il primo passo citato è di Giulio Mancini, il secondo ancora di Sandrart, e segue a quello sull’esposizione della cosa all’occhio commentato nelle pagine precedenti.69 Ma poiché abbiamo visto quali affinità corrano fra quest’ultimo e il passo che Sandrart dedica a Galileo, e in questo ricorre l’esaltazione della scoperta della luna, la quale «per tubum», insieme ai monti e alle valli, «lucem et umbram (...) ad oculum ostendit», viene naturale di ricordarsi delle figure, autografe di Galileo, che accompagnano l’abbozzo manoscritto del Sidereus nuncius conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze. In una di tali figure, a foglio 28, è ritratta sei volte la luna osservata al telescopio, con le sue asperità e nelle sue fasi; ma quel che più colpisce è che in quattro delle fasi ritratte, con l’effetto, obiettivamente percepito, del contrasto fra le parti in luce e le parti in ombra, e persino della penombra quando la luna è còlta al primo quarto, Galileo non ha trascurato di accampare l’immagine su fondo nero, a prova di come il satellite appare e si rivela nel buio cosmico.70 Se non si trattasse della riproduzione di osservazioni astronomiche di fatto, le quattro immagini ritratte da Galileo si direbbero «caravaggesche» tout court , ed è sorprendente come si pongano giusto a mezzo fra i dipin-
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ti del Merisi eseguiti secondo il metodo descritto da Mancini e Sandrart, e i «granelli di sabbia su un pezzo di taffetà nero» visti al microscopio da Leeuwenhoek, dopo aver «disposto la luce e lo sfondo». Il procedimento scelto dal Caravaggio era in definitiva un esperimento ottico condotto in particolari condizioni di luce, sostanzialmente provocato e «non naturale» (lo diceva già Mancini), come lo sarebbe stato in senso tecnico quello di Leeuwenhoek; in questo, si differenziavano entrambi dall’osservazione di Galileo; ma colpisce che tutti e tre, sebbene per vie diverse, esaltino la medesima condizione di «natura» per cui la luce ha attitudine a produrre immagini e l’oscurità è un primum che condiziona e mette in valore il rapporto fra luce e ombra. Sicché, quando si legge qua e là che il luminismo del Caravaggio avrebbe i suoi precedenti in Luca Cambiaso o in Tintoretto, e persino nella Sacra Famiglia davanti al focolare di Jan Vermeyen a Vienna;71 o, per tutt’altro verso, quando si legge in Calvesi che l’uso caravaggesco della luce-ombra non potrebbe essere valutato come un «puro e antistorico prodotto dell’immaginazione pittorica» al di fuori del «sentire religioso», e sarebbe errore non vedervi una motivazione di significati ideali, posto che «la filosofia del tempo non poteva offrire altra risposta che non fosse quella religiosa»,72 si resta quanto meno perplessi. Nella Lampas triginta statuarum di Giordano Bruno, scritta a Wittenberg fra il 1586 e il 1588, la «notte», sebbene intesa simbolicamente, è già considerata «materia prima»;73 e anche altrove, «in Bruno, il mondo si presenta come oggetto da illuminare».74 Il che non è senza riscontro con la costatazione astronomica, dovuta di nuovo a Galileo, che «i pianeti tutti sono di loro natura tenebrosi». Che, se poi si volesse dare a ogni costo un «significato ideale» a ciò che s’è incontrato per le vie battute finora, e che palati difficili trovassero esclusivamente «materia-
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listico», c’è sempre la possibilità di ricorrere allo spiritualismo sui generis di Tommaso Campanella. Fra le «poesie filosofiche» pubblicate nel 1622 sotto lo pseudonimo di Settimontano Squilla, s’incontra un madrigale che dice: Stavamo tutti al bujo, altri sopiti D’ignoranza nel sonno, e i sonatori Pagati raddolciro il sonno infame. Altri vegghianti rapivan gli onori, La robba, il sangue, e si facean mariti D’ogni sesso, e schernian le genti grame. Io accesi un lume; ecco qual d’api esciame Scoverti, la fautrice tolta notte, Sopra a me a vendicar ladri e gelosi, E que’ le paghe, e i brutti sonnacchiosi Del bestial sonno le gioje interrotte, Le pecore co’ lupi fur d’accordo Contra i can valorosi, Poi restar preda di lor ventre ingordo. 75
L’«esposizione» che accompagna il madrigale dice: Narra che stando il mondo nello scuro, e facendo tanto male ognuno al prossimo, e che gli sofisti ed ippocriti predicando adulazioni fanno dormir il Mondo in queste tenebre; egli accendendo una luce, ebbe contro gli ingannati e gli ingannatori, e che quelli come pecore accordate co’ lupi contra gli cani, son devorate poi da’ lupi secondo la parabola di Demostene.
Il qual madrigale, con l’«esposizione» relativa, contiene certamente un’allegoria; ma sotto il velo dell’allegoria illustra con grande chiarezza la sorte che rischia chiunque «accenda un lume». Né il Caravaggio e Galileo pare che facessero eccezione.
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Un ultimo punto emerge dal secondo dei tre passaggi del libro della Alpers in cui Caravaggio è tirato in causa: «Artisti di Utrecht come Honthorst e Terbrugghen sono spesso classificati come seguaci del Caravaggio; ma l’artista italiano di cui subivano il fascino era a sua volta profondamente attratto dalla tradizione nordica, e si potrebbe sostenere che il Caravaggio non fece altro che ricondurli alle proprie radici». 76 V’è parecchio di vero in questo assunto, ma quel vero s’individua se s’inquadra il problema in altro modo. Ed è che nel Caravaggio, per la via lombarda, riemergevano le tendenze «nominalistiche» del pensiero e della fisica del secolo xiv, da Occam in avanti. Gli spunti più vivi del pragmatismo, ovvero sperimentalismo empirico, dei «nominalisti» sono ben evidenti nell’empiria e nel carattere corsivo osservato da Longhi nella pittura lombarda tra Quattro e Cinquecento (da Foppa, a Savoldo, a Moretto da Brescia), e l’ambiente lombardo, come appare sempre più evidente dal progresso degli studi, era permeato di ricordi e talvolta di conoscenze specifiche della grande pittura fiamminga, il cui speculare «naturalismo» è anch’esso, anzi innanzitutto esso, interpretabile in collegamento diretto con l’interesse per le «cause seconde» su cui i «nominalisti» si basavano. È questo un aspetto del problema che richiederà indagini più approfondite di quelle fatte finora, ma che non rischia smentite sostanziali, semmai aggiustamenti più precisi. Il Caravaggio s’era formato in Lombardia, alla bottega del Peterzano, e aveva una profonda conoscenza – come dimostrò Longhi, né è stato ancora invalidato nonostante i diversi tentativi di sviamento – della ricerca pittorica svolta nella regione: dové derivare innanzitutto di lí la disposizione «nominalistica» a dar corpo alle cose e ad assumere nei confronti della «natura» l’atteggiamento positivamente sperimentale che ormai conosciamo bene. Ma per tornare ancora un momento su quan-
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to abbiamo osservato poco a dietro a proposito d’uno dei sintomi principali di tale atteggiamento del Caravaggio nei confronti della «natura», vale a dire degli interessi «pre-kepleriani» coltivati dal maestro durante gli ultimi anni del secolo xvi per la rifrazione della luce nei vetri e nei liquidi trasparenti, nonché dei loro precedenti fiamminghi d’un Van Eyck e d’un Maestro di Flémalle, vorrei aggiungere un’osservazione particolare, che interferisce nella questione in point. Sempre la Alpers ha sostenuto che l’interesse ottico dei fiamminghi, e in genere dei settentrionali, per la vicenda della luce, delle trasparenze e dei riflessi, poteva esser nato dal fatto che «le lenti e gli specchi non erano oggetti di studio ma prodotti artigianali che facevano parte, come piacevoli curiosità, dell’armamentario del pittore. Numerosi artisti olandesi erano figli di vetrai. Nel Seicento Jan van der Heyden costruiva e vendeva specchi. È insomma un esempio di tecnica artigianale che finisce per diventare oggetto del sapere scientifico».77 Personalmente, ritengo invece che quell’interesse nascesse, per conoscenza diretta probabilmente, comunque per compartecipazione di un medesimo clima culturale, proprio dalle tangenze con le ricerche dei fisici «occamisti» della seconda metà del Trecento; i quali, impegnati nello studio della perspectiva naturalis, erano per quella via divenuti attentissimi «agli effetti luminosi della riflessione su specchi curvi concavi, e ai vari tipi di apparenze che ne derivano», e a «come proceda la rifrazione della luce nell’acqua e nel vetro»; avendo per altro assunto a modello dell’indagine l’arcobaleno e le gocce d’acqua che lo compongono. «Iris fit – si legge in Enrico di Langenstein – per reflexionem a superficiebus convexis guttarum pluvialium descendentium in magna latitudine et profunditate et non a superficie nubis alicuius adhuc non conversae in pluviam. Secunda conclusio a qualibet talium guttularum fit reflexio ad visum existentem in
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superficie terrae inter solem et nubem (...)»: il tutto nel guadagnato convincimento che la perspectiva non era «più la scienza generale del mondo, sul modello della metafisica aristotelica e sulla base di una dottrina sostanzialistica della luce, ma una disciplina particolare, fisica, che si serve di regole geometriche per spiegare l’azione di uno dei molteplici agenti naturali: quelli luminosi».78 Nel senso finora illustrato, è d’altra parte sintomatico che proprio per gli anni in cui il Caravaggio uscì in campo, nelle sedi più autorevoli del pensiero scientifico italiano in evoluzione, è possibile raccogliere tutta una serie di indicazioni sul risorgere di un uguale interesse verso il pensiero di Occam, di Roger Bacon, dei fisici parigini del secolo xiv, dei «Calculatores» del Merton College, di Jean Gerson. Analogamente al gruppo dei filosofi londinesi, Giordano Bruno «antepone Roger Bacon e Duns Scoto e, insomma, la vecchia scolastica oxfordiana al nuovo aristotelismo retorico imperante nell’accademia», e ciò – è stato detto da un competente – «non va in alcun modo inteso come un atteggiamento retrivo: ché, soltanto superando il grammatismo aristotelico e ispirandosi al “metodo” della grande scolastica si rese possibile la fondazione del nuovo pensiero filosofico-scientifico». 79 Lo stesso può dirsi di Paolo Sarpi. Di lui sono noti gli interessi per le «cose naturali et mathematiche», ossia per le scienze sperimentali (medicina, fisica, astronomia), e in particolare per il «muodo come si fa la visione» (sono parole sue), che era il problema prediletto delle sue speculazioni ottiche; di lui sono addirittura risaputi i rapporti con Galileo, alla costruzione del cui telescopio si vantò di aver collaborato, e al quale diede la possibilità di utilizzare il monastero veneziano dove risiedeva per effettuare le osservazioni astronomiche che portarono alla scoperta dei satelliti di Giove. 80 Eppure, proprio questo Sarpi s’era formato, sotto la
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guida d’un esperto come il padre servita Giammaria Capella, studiando i filosofi tardomedievali, in particolare Guglielmo Occam e Duns Scoto; 81 e durante la «guerra» dell’Interdetto, che lo vide schierato con la Repubblica di Venezia contro la Chiesa romana di Paolo V, si servì con fiducia profonda delle dottrine ecclesiologiche e conciliariste di Jean Gerson, curando la traduzione in italiano di alcuni suoi scritti, premettendo a essi un’introduzione illuminante, e difendendone subito dopo le tesi «sopra la validità della scomunica» in un libretto che non è abbastanza noto quanto dovrebbe: l’ A pologia per le opposizioni fatte dall’illustrissimo e reverendissimo cardinale Bellarmino alli trattati e risoluzioni di Giovanni Gersone.82 Quanto a Galileo, gli specialisti
sanno che esiste una letteratura, per altro discussa, intesa a identificare i «precursori» di alcune sue dottrine in fisica (e di quelle di Copernico in «geometria») negli sperimentalisti trecenteschi delle scuole di Parigi e di Oxford; e ricorrono i nomi di Giovanni Buridano e di Nicolas Oresme. Una nota studiosa della «scholastichen Naturphilosophie», Annelise Maier, attenta in modo speciale al confine «von Scholastik und Naturwissenschaft», ha addirittura intitolato un suo lavoro Die Vorläufers Galileis im 14. Jahrhundert. 83 Qualunque cosa si debba pensare dei particolari, diciamo così, tecnici di questa linea di ricerca, non si può sottovalutare che essa sia sorta e si sia sviluppata; mentre non si riesce ad allontanare del tutto il dubbio che le obiezioni mosse contro di essa, sia in quanto si fondano su una sorta di contestazione pregiudiziale del concetto storiografico di «precursore», sia in quanto tendono a minimizzare le somiglianze e a ricondurle alla mediazione degli uomini del Rinascimento, debbano anch’esse qualcosa al «pregiudizio italiano» combattuto dalla Alpers. Così, si torna al contesto culturale qui esemplificato, e il «naturalismo» sperimentale e ottico del Caravaggio
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ne prende connotati ulteriori, sulla traiettoria di quel complesso e potente moto di contestazione della sapienza mentalistica tradizionale, che ha i suoi campioni in Bruno, Della Porta e Campanella da un lato, in Sarpi, Galileo e Bacone dall’altro. Ai quali vorrei aggiungere in conclusione Isaac Casaubon. Corrispondente ed estimatore di Sarpi e di quasi tutti gli uomini di punta dell’intellighenzia italiana del momento, Casaubon merita di essere ricordato qui perché fra il 1610 e il 1614 dimostrerà filologicamente, confutando Cesare Baronio, che il Corpus hermeticum non era affatto il testo della prisca theologia – risalente a prima di Mosè, oltre che a prima di Platone, come s’era ritenuto da Marsilio Ficino in poi –; era solo una pia falsificazione cristiana del ii secolo dopo Cristo, elaborata in ambiente egizio. Questa dimostrazione assestava un colpo grave al castello concettuale costruito sulla base dell’ermetismo; così come lo assestava, nei confronti dell’astrologia, la scoperta di Galilei che i pianeti erano in numero maggiore dei sette considerati dalla tradizione. Nel caso di Galilei, lo apprendiamo dalle parole di un contemporaneo, il quale rilevò con acume l’asprissima querela fatta da tutti gli astrologi e da gran parte de’ medici; i quali intendendo che si aggiungono tanto nuovi pianeti a’ primi già conosciuti, par loro necessariamente ne venga rovinata l’astrologia e diroccata gran parte della medicina; perciocché la distribuzione delle case dello zodiaco, le dignità essenziali ne’ segni (...) e cento e mill’altre cose, che dipendono dal numero settenario de’ pianeti, sarebbero tutte sin da’ fondamenti distrutte. 84
Siamo insomma obbligati a riconoscerlo: pur muovendo solo dalle cose dell’arte, ma con la maggiore chiarezza mentale, e in un momento ancora precoce dell’intero processo (alla sua morte, Galileo non aveva ancora
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rivolto il «cannone-occhiale» al cielo), Caravaggio fu tra gli scopritori più risoluti della superiorità del ristabilito contatto con le «cose naturali» rispetto a qualsiasi altra forma di conoscenza e di rappresentazione basata su schemi precostituiti. Sicché ciascuno può ora vedere da sé quanto poco quest’ordine di idee abbia a che fare con una «brutale mimesi»; quanto poco richieda d’essere perciò esorcizzato, infarcendolo di sensi esteriormente e corrivamente spiritualistici o banalmente simbolico-allegorici; quanto poco meriti di essere convertito da «naturalismo» in «realismo», posto che in questo caso il termine «naturalismo» si riempie con concretezza storica degli stessi significati rinnovatori che attribuiamo alla ricerca sulla «natura» condotta sperimentalmente dai maggiori rappresentanti del secolo, e non del significato diverso, più specialisticamente ristretto, che attribuiamo al «naturalismo» ottocentesco, definibile molto meglio «verismo». Il «naturalismo» del Caravaggio ha gli stessi connotati del più importante evento intellettuale della sua età, e per questo costituì la molla di un rivolgimento che avrebbe accompagnato l’intera esperienza moderna. Alla teoria, incomparabilmente più fine delle altre, sostenuta soprattutto da Giulio Carlo Argan, che il valore del modo di vedere caravaggesco non dovrebbe essere indicato «restrittivamente» in un semplice e persino ingenuo guardare oggettivo, ma in un «comportamento» che acquista senso e portata in quanto è di ordine etico, si può allora contrapporre una diversa evidenza. Concesso subito che non si dà rispecchiamento fuori della coscienza, cioè fuori della capacità e della volontà di rendersene conto, il comportamento artistico del Caravaggio assunse valore etico in quanto consiste per programma nel guardare oggettivo che abbiamo tentato di illustrare: non già, dunque, come indotto, passivo e rudimentale criterio di imitazione delle cose di natura,
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secondo una lettura troppo letterale ed esteriore della dichiarazione del Caravaggio stesso, ma come principio di un rivolgimento radicale, così delle cose dell’arte come dell’atteggiamento di fondo nei confronti della realtà. L’etica, vorremmo dire la «religione», del Caravaggio consisté nell’aver assunto a soggetto (non soltanto a oggetto) della sua arte questa nuova idea della natura e della realtà esistenziale, contrapposta in nome dell’esperienza diretta all’idealismo evasivo e allegorizzante dell’epoca, tendendo altresì a sgombrare quell’idea di natura di altri sensi che non fossero direttamente conciliabili con essa. Di qui mosse la «religione» del Caravaggio a riaffrontare sia la tematica mitologico-allegorica, sia quella sacra, facendo saltare sia l’intellettualismo aulico dei simboli, sia l’osservanza bigotta della «prudenza» iconografica post-tridentina.
1. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola...» 1. Una sintesi della discussione e dei suoi termini, soprattutto in rapporto alle opere giovanili del maestro e fino alla data del 1982-83, è stata tentata da Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit., pp. 506-09, ma riducendola troppo drasticamente (pp. 508-o9) alle posizioni-capostipite di Roberto Longhi e di Lionello Venturi. Per lo svolgimento delle posizioni dello stesso Longhi, che non furono affatto così univoche come si potrebbe credere, e anzi vennero trasformandosi profondamente nel prosieguo del tempo, si veda l’eccellente ricostruzione tentata da Giovanni Previtali nell’Introduzione all’edizione critica di Longhi, Caravaggio cit., pp. 9 sgg. 2. Cfr. specialmente Argan, Il realismo nella poetica del Caravag gio cit. 3. Cfr. in proposito l’intervento di Carlo Bertelli nella scheda relativa all’ Autoritratto di Giovanni Paolo Lomazzo a Brera, n, 5 del catalogo della mostra Caravaggio e il suo tempo cit., pp. 6o-62. 4. Oltre al saggio di Argan citato nella precedente nota 2, cfr. in particolare Fagiolo dell’Arco, «Le Opere di Misericordia» cit., passim; Salerno, Poesia e simboli nel Caravaggio. I dipinti emblematici cit., pp. 1o6-12; Id., Caravaggio nel contesto culturale italiano: gli estimaton e i
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Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio committenti, in catalogo della mostra Caravaggio e il suo tempo cit., pp. 17-21. Per altri interventi recenti, cfr. Calvesi, Le realtà del Caravag gio. Seconda parte cit., passim, con dati bibliografici ulteriori nelle note
di pp. 234 e 235. 5. A scanso di equivoci, preciso fin da ora che fra tali opere lo scrivente non include l’affresco mitologico esistente nel camerino del casino Ludovisi a Roma, pubblicato sulla fede del Bellori come opera «probabile» del Caravaggio da Giuliana Zandri ( Un probabile dipinto murale del Caravaggio per il Cardinale Del Monte, in «Storia dell’Arte», 1969, 3, pp. 338-43), e poi discusso variamente dalla letteratura successiva – una compiuta rassegna della quale è ora fornita da Calvesi, Le realtà del Caravaggio. Seconda parte cit., pp. 234-35, note 34-37, il quale per suo conto, non solo accoglie l’attribuzione e la considera «inconfutabile e di fondamentale importanza», bensì ne fa il naturale cavallo di battaglia dell’aspetto «caravaggesco» delle sue ben note tesi panalchemiche. 6. Cfr. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit., p. 5o8. 7- Cfr. Brandi, L’epistème caravaggesca cit., passim. 8. Cfr. Bologna, Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo cit., pp. 166 sgg. 9. Con riferimento a quanto avevo esposto in Dalle arti minori all’industrial design cit., cfr. infatti I metodi di studio dell’arte italiana cit., e Dal «testo» al «contesto». Condizioni di metodo per una storiografia positiva delle arti figurative, lezioni tenute all’Istituto italiano per gli Studi filosofici di Napoli nel marzo 1986. 1o. Mi riferisco, tra l’altro, al giudizio varie volte citato – e anche in epigrafe di saggi ben noti come Aspirazioni e limiti dell’iconologia di Ernst H. Gombrich, 1971 –, che Panofsky espresse in The meaning in the visual arts, New York 1955, trad. it. Il significato nelle arti visive, Torino 1962, p. 37: «Comunque non si può negare che ci sia il pericolo che l’iconologia si comporti non come l’etnologia rispetto all’etnografia, ma come l’astrologia rispetto all’astrografia». 11. Ernst H. Gombrich ha anche altrove espresso preoccupazioni, e aggiunto raccomandazioni di cautela, in materia di interpretazioni iconologiche; per esempio, nella prefazione a Symbolic Images. Studies in the Art of the Renaissance, Londra 1972, trad. it. Immagini simboliche. Studi sull’arte nel Rinascimento, Torino 1978, p. xxii, dove si leggono queste altre assennatissime considerazioni: «Come poter affermare in ogni singolo caso che eravamo autorizzati a usare questa chiave, e quale delle molte possibilità aperte avanti a noi si doveva scegliere? L’interrogativo si fece più acuto quando interpretazioni disparate furono avanzate da diversi studiosi, ognuna di esse confortata da copiosa erudizione. I nuovi collegamenti tra dipinti e testi che un tribunale avrebbe potuto accettare come oggettivamente provati continuavano ad essere, purtroppo, rari. Il passare degli anni e la frequenza con cui
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il metodo è stato applicato senza controlli appropriati non hanno fatto che aumentare queste diffidenze». 12. Su una serie di casi, quasi tutti tratti dagli scritti caravaggeschi di Maurizio Calvesi, nei quali l’esasperazione del metodo fondato sull’interpretazione dei «simboli» isolati ad libitum (e spesso assunti al solo livello verbale) più ha portato lontano dalla concreta realtà figurativa delle opere, mi sono soffermato abbastanza ampiamente nel saggio I metodi di studio dell’arte italiana cit., pp. 270-72. Qui vorrei aggiungere che, sulla strada battuta da Calvesi, uno studioso più giovane ha toccato una tappa estrema: isolare il simbolo, più o meno presunto, dal contesto (contesto, per altro, non solo figurativo), quindi attendere a tramare una storia dei rapporti culturali sul filo dei ritorni del solo simbolo così isolato. E proprio ciò che abbiamo dovuto costatare nel capitolo precedente, in uno scritto di Alessandro Zuccari, a proposito delle pale assunte a simbolo-guida per raccordare «all’interno del crogiuolo di filoni culturali controriformati», e in particolare gesuitici, il Sep pellimento di santa Lucia del Caravaggio a Siracusa, i Martìri di Santo Stefano Rotondo a Roma e le incisioni del Cartari nelle Icones Operum Misericordiae di Giulio Roscio (cfr. Zuccari, Arte e committenza nella Roma di Caravaggio cit., pp. 147-50): naturalmente, continuando a parlare di «simbolo» anche quando la pala (che talvolta è in effetti una zappa) è introdotta nella raffigurazione soltanto per la sua funzione normale! Ma si veda quanto è stato già esposto sopra, a pp. 41 1 -12, nota 73. 13. Cfr. in Paola Della Pergola, La Galleria Borghese. I Dipinti, Roma 1955-59, vol. II, 1959, pp. 76-78. 14. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. p. 215. 15. Cfr. ibid . 16. Tutto il passaggio del presente scritto relativo al giudizio del Bellori sulla Maddalena figurava già nella mia comunicazione al convegno linceo del 1973 e fu pubblicato negli atti relativi: cfr. Il Caravag gio nella cultura e nella società del suo tempo cit., pp. 167-68. A tale passaggio replicò Giulio Carlo Argan (cfr. negli stessi atti, p. 188), con un intervento nel quale il tentativo di rovesciare con un sofisma il ragionamento impugnato finiva col rinchiuderlo, in termini logici, giusto nelle maglie di ciò che voleva impugnare. Scriveva Argan: «Quando Bellori dice che il Caravaggio raffigurò una ragazza che si asciuga i capelli e “la finse per Maddalena» (e lo stesso discorso vale per l’annegata “finta» come Madonna morta e per la cena all’osteria “finta» come Cena in Emmaus) distingue chiaramente due tempi: la ripresa della realtà e l’attribuzione di un significato religioso. Prima l’artista ritrae la ragazza e poi la identifica con la Maddalena. È chiaro allora che non v’è conformità a un tema iconografico tradizionale, ma un processo interiore per cui l’artista, portando in sé la memoria profonda del-
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l’immagine della Maddalena, la vede d’un tratto inverarsi nell’incontro occasionale con la ragazza che si asciuga i capelli». Ebbene, scontato che nel Caravaggio non è mai a parlare di «conformità a un tema iconografico tradizionale», come può conciliarsi il fatto che « prima l’artista ritrae la ragazza e poi la identifica con la Maddalena», con l’altro fatto che lo stesso artista, «portando in sé la memoria profonda dell’immagine della Maddalena, la vede d’un tratto inverarsi nell’incontro occasionale con la ragazza»? È chiaro che questa volta è Argan a «fingere» di non dare a vedere che, mentre accetta il prima e il poi di Bellori, in effetti torna nelle conclusioni a invertirne i termini (o, per dir meglio, tenta di tornare a invertirli). Facendo venire prima quel che per Bellori, e in realtà per il Caravaggio, viene poi, cioè la «memoria dell’immagine della Maddalena», egli ritrasferisce artatamente al poi proprio quel che per Bellori, e in realtà per il Caravaggio, viene prima: «l’incontro occasionale con la ragazza» (alias il «fermarsi all’invenzione della natura»). Né questo toglie nulla al fatto che nel Caravaggio la «memoria» dell’immagine della Maddalena sia effettivamente «profonda»: alla luce di quel che son venuto sostenendo, quella memoria diventa profonda proprio in quanto il pittore anticipa nell’«invenzione di natura» ciò che i più affidavano agli «altri pensieri dell’arte», anzi all’«esercizio dell’ingegno» (abbiamo letto nel testo del Bellori riferito sopra: «egli si fermava a quell’invenzione di natura, senza altrimenti esercitare l’ingegno»). Dopo questa polemica, anche Evelina Borea giudicò attentamente: «il Bellori dimostra particolare acutezza nell’avvertire come l’elemento iconografico fosse in questo quadro del tutto secondario» (cfr. in Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit., p. 215, nota 3); tuttavia, pur citando il diverso parere di Ilaria Toesca risalente al 1961 e il consuntivo di Maurizio Marini, omise di ricordare sia l’intervento di chi scrive sia quello di Argan. Né si è comportato in modo diverso Giorgio Manganelli, nella nota Le superbe menzogne del genio edita nel supplemento «più» a «II Messaggero» dell’11 agosto 1989 dedicato al Caravaggio a Roma, dove la consonanza con quanto son venuto sostenendo dal 1973 è in qualche passaggio persino verbale, e però s’incontra una valutazione che merita d’essere riportata per esteso: «Non mi pare che [il Merisi] avesse una religione interiore ma piuttosto che non avesse grande interesse per la lettura religiosa degli eventi sacri. Leggo una elegante e sottile descrizione nel Bellori: “Dipinse una fanciulla a sedere (...) [segue l’intero passo qui commentato, fino a] la finse per Maddalena» . Perfetto quel “finse» : che sarà finxit , parte inventò parte mentì; ma certo la ragazza diventò una Maddalena, non lo era di sua natura. Allo stesso modo, il Caravaggio lacerò l’unzione dei temi sacri, e di questi fece dei titoli, delle didascalie; come fece dei temi accademici di origine mitologica»
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17. È questa, notoriamente, una delle tesi sostenute da Argan, Il realismo nella poetica del Caravaggio cit. 18. Il tema è ricorrente nella letteratura caravaggesca recente, specie iconologica. 19. Cfr. lo scritto di Carlo Bertelli citato nella precedente nota 3, con il rinvio, per i particolari, ai tre saggi lomazziani di J. B. Lynch: Giovanni Paolo Lomazzo’s Self -Portrait in the Brera, in «Gazette des Beaux-Arts», 1964, 64, pp. 189-97; Lomazzo and the Accademia della Valle del Bregno, in «Art Bulletin», 1966, 48, pp. 2 10-11; Lomazzo’s Allegory Painting, in «Gazette des Beaux-Arts», 1968, 72, pp. 325-3020. Cfr. l’Introduzione al catalogo della Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi cit., p. xx. 21. Cfr. ibid . 22. È recentissimo un breve saggio di Maurizio Calvesi ( Il «Fanciullo morso dal ramarro» cit.) dove, a conferma della tesi già esposta in precedenza dallo stesso autore – che quel dipinto sarebbe «una sorta di ammonimento: ricordati, o giovane spensierato, che la giovinezza sfiorisce e la morte può ghermirti all’improvviso. In ultima analisi, appunto, il tema della vanitas ecc.» –, si nota che la scena trova rispondenza in alcuni versi del Comanini: «Questa è valle di lagrime, e di duolo, / Che più spaventa chi più s’assecura (...) / Certa è la morte, incerto è il come, / e il quando, / Ch’ella improvvisa vien qual tra’ i fior / l’angue, / E ciò, ch’adhor adhor diletta, et unge, / Poscia contrista, e punge. (...)». Non v’è dubbio che la rispondenza esista, ma sono almeno due le osservazioni che vengono subito a mente. La prima è che i versi del Comanini non fanno che ripetere un topos: un vero e proprio luogo comune. Quante volte, nella letteratura sia latina che volgare, antica e rinascimentale, nonché nei libretti d’opera cinque-seicenteschi, non s’incontra il monito sulla fuggevolezza della bellezza e della vita adombrata sotto la metafora dell’«angue» mortale che sta nascosto insidiosamente tra i fiori e le erbe dei prati? Senza dire che, come tutti dovrebbero sapere almeno dal 1929, il tema del Fanciullo morso da un granchio era stato messo in figura ben prima che il Comanini ne parlasse, poco avanti il 1559, e ricevendo lodi persino dal Vasari, dalla pittrice cremonese Sofonisba Anguissola: in un disegno di collezione privata berlinese, del quale è nota una replica a Napoli (cfr. Longhi, Quesiti caravaggeschi, ed. cit. p. 124, tav. 173). La seconda osservazione è che, quand’anche il giovane Caravaggio avesse fatto in tempo a leggere i versi del Comanini sopra citati (che s’incontrano nel libro De gli affetti della mistica theologia, stampato a Venezia nel 1590), e da tali versi, non da altrove, avesse derivato effettivamente il motivo del suo quadro, beh!, dovremmo convenire di nuovo che il rapporto ch’egli stabilì con quei versi consisté innanzitutto nella rimozione e nell’obliterazione del loro languido e risaputo moralismo, per procedere
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contestualmente al ripristino della situazione in essi adombrata alla pura evidenza del dato effettuale: un fanciullo morso dal ramarro! Il quale, per dirla con le parole che lo stesso Calvesi s’è lasciato scappare, «volge appunto in pittura uno spunto letterario» (cfr. Il «Fanciullo morso dal ramarro» cit., p. I 15). V’è poi quanto si legge in calce alla riedizione dello scritto in discorso, circa la «copia rivelatrice» del Fanciullo che monda un pomo: una «copia uguale alle altre, ma con l’aggiunta di un angelo che pone una corona sul capo del fanciullo», e che in forza di tale «aggiunta» costituirebbe «una piena e gagliarda conferma che a quella figura del Caravaggio si attribuiva, da qualcuno che era bene al corrente del vero significato e che voleva esplicitarlo, il valore devozionale di un’immagine di Gesù» (cfr. ibid ., p. 172). Senonché, la copia in questione – per chi la conosca de visu, e non dalla fotografia tecnicamente modestissima che ne è stata pubblicata tempo a dietro da Marini, Caravaggio cit., p. 112 – non è affatto «uguale alle altre»; è molle, indeterminata e insapora; insomma, è un pastiche indefinibile, e così fuori del tempo, da meritarsi il sospetto d’essere il frutto di una manipolazione di data molto recente. 23. Più di un accenno al problema, però, ha già avuto occasione di fare lo scrivente nella voce Velázquez per l’Enciclopedia europea, vol. XI, Milano 1981, p. 771. 24. Cito da Alfonso E. Pérez Sánchez, Velázquez, Milano 198o, rispettivamente dal commento alle tavole 1o, 12 e 28. 2. «Imitar bene le cose naturali» 1. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. p. 2152. Cfr. Karel van Mander, Het Leven der Moderne oft dees-tijsche doorluchtighe Italiaensche Schilders ( … ), Alkmaar 1603, Het tweedde Boeck van het Leven der Schilders, Haarlem 1604. Il passo originale, che figura a fol. 191 r della seconda parte, reca testualmente: «Dan zijn segghen is dat alle dinghen niet dan Bagatelli, kinderwerck oft bueselinghen zijn t’zy wat oft van wien gheschildert soc, sy niet riae t’leven ghedaenen gheschildert en zijn endatter niet goet oft beter en can wesen dan de Natuere tevolghen. Alsoc, dat hy niet eenen enckelen treck en doet oft hy en sittet vlack nae t’leven en copieert end’en schildert». Un’altra (ma sostanzialmente non diversa) traduzione italiana dell’intero brano da cui il passo qui citato è estratto, può vedersi in Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 44-45. 3. Cfr. Francesco Scannelli, Il Microcosmo della pittura, Cesena 1657, libro II, cap. x, p. 197. Nella stessa opera, libro I, cap. VII, p.
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51, il Caravaggio è definito «unico mostro di naturalezza», bensì con l’aggiunta del ben noto apprezzamento con riserva: «provisto di particolar genio, mediante il quale dava con l’opere a vedere una straordinaria e veramente singolare imitazione del vero, e nel communicar forza e rilevo al dipinto non inferiore, e forse ad ogni altro supremo, privo però della necessaria base del buon disegno, si palesò poscia d’inventione mancante, e come del tutto ignudo di bella idea, gratia, decoro, Architettura, Prospettiva ed altri simili convenevoli fondamenti». Quest’ultimo giudizio, citato già da Panofsky, Idea cit., pp. 16o-61, è stato poi ricordato spesso, in varia combinazione con il passo citato per primo, fino a Gian Alberto Dell’Acqua, La critica, in Cinotti, Michelangelo Meri si detto il Caravaggio cit., p. 26o. Ma tutti i passi dedicati al Caravaggio nel Microcosmo, che son tre e di non consueta lunghezza, furono riediti criticamente da Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 52-54. Per un’edizione recente dell’opera dello Scannelli, si veda la ristampa anastatica dell’edizione originale, con l’aggiunta d’un secondo volume contenente un’introduzione e un indice ragionato, a cura di Rossella Lepore, Cassa di Risparmio di Forri, Bologna 1989. 4. Cfr. l’Esame di Michelangiolo Merisio da Caravaggio del 13 settembre 1603, dai documenti del processo secondo la riedizione di Friedländer, Caravaggio Studies cit., p. 276. 5. Cfr. la bibliografia dei versi riferiti e il commento a essi relativo nelle note 38 e specialmente 40, pp. 385-86, col rinvio al testo di p. 70. 6. Cfr. Vincenzo Mirabella, Dichiarazioni della pianta delle antiche Siracuse e d’alcune scelte medaglie d’esse, e de’ Principi che quelle possedettero, Scorriggio, Napoli 1613, p. 89. Sul raro passo, che (salvo la citazione di Sergio Samek Ludovici, Vita del Caravaggio dalle testimonianze del suo tempo, Milano 1956, p. 115) non sembra ancora entrato con l’autorità che merita nella letteratura caravaggesca, richiamò l’attenzione per la prima volta Roberto Longhi, Quesiti caravaggeschi. Regi stro dei tempi, 1928, ora in Opere complete di Roberto Longhi, vol. IV, «Me pinxit» e Quesiti caravaggeschi cit., pp. 140-41, nota 19: però con un commento che richiede a sua volta un commento (si veda oltre, fra poco). Per giunta lo stesso Longhi, al quale il passo era stato segnalato da Giuseppe Agnello, tornò a ricordarne il secco contenuto nel regesto curato per a catalogo della Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi del 1951 (p. 11, sotto l’anno 16o8), ma poi lo lasciò fuori dai suoi «pezzi rari» della critica caravaggesca. 7. Cfr. il documento ripubblicato in Friedländer, Caravaggio Studies cit., p. 292. 8. Cfr. Giovanni Battista Agucchi, Trattato, frammento edito nella prefazione di Giovanni Atanasio Mosini (pseudonimo di Giovanni Antonio Massani) a Diverse figure al numero di ottanta, disegnate a penna
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Ferdinando Bologna - L’incredulità del Caravaggio nell’hore di ricreatione da Annibale Carracci, Roma 1646, riedito criticamente in Denis Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, Londra
1947 (reprint Westport [Conn.] 1971), p. 257. Circa la dipendenza di Agucchi dal giudizio di Leon Battista Alberti che «a quel Demetrio pittore antico vi mancò al colmo de le sue lode, che fu più curioso di rappresentare la sembianza, che la bellezza» (oppure, in altra versione: «ad Demetrio antiquo pittore, manchò ad acquistare l’ultima lode, che fu curioso di fare cose adsimilliate al naturale molto più che vaghe»), cfr. lo stesso Mahon, ibid ., pp. 131-35 e specialmente 135. 9. Cfr. Gerolamo Borsieri, Il Supplimento della Nobiltà di Milano [aggiunta alla Nobiltà di Milano di Paolo Morigia, 1595], Milano 1619, p. 65: ora in Longhi, Alcuni pezzi rari cit., p. 46. 1o. Cfr. Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, c. 162o, ed. di Adriana Marucchi, commento di Luigi Salerno, Roma 1956-57, vol. I. Per intero, il passo manciniano sulla «classe o voliam dire Schola (...) del Caravaggio», nella redazione del Cod. Marciano, fol. 144, fu pubblicato per la prima volta da Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio cit., p. 40. 11. Cfr. Carducho, Diálogos de la pintura cit., p. 89; altra edizione in Fuentes a cura di F. J. Sánchez Cantón, II, Madrid 1933, p. 95; il passo specifico, per intero, in Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 50-51. 12. Cfr. Francisco Pacheco, El Arte de la Pintura, su antiguedad y grandezas (1638), Siviglia 1649, pp. 302, 340-41; ma si veda anche l’edizione del manoscritto originale (con il colophon del 24 gennaio 1638) a cura di F. J. Sánchez Cantón, Madrid 1956. 13. Cfr. Scannelli, Il Microcosmo della pittura cit., libro II, cap. x, p. 197. Nella riedizione di Longhi, citata alla nota 3 del presente paragrafo, il passo è a p. 53. 14. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. pp. 213, 214, 215, 217-18, 229. 15. Per lo Scannelli, cfr. sopra nel testo e la precedente nota 3. Per la ripresa del Bellori nel 1664, cfr. L’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto, scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura, premessa a Le vite del 1672, dove si legge: «Al contrario quelli che si gloriano del nome di naturalisti, non si propongono nella mente idea alcuna». Il testo di tale discorso, che naturalmente ora figura anche nella citata edizione delle Vite curata dalla Borea (pp. 13-25; passo citato, a p. 22), fu ripubblicato e commentato a parte da Panofsky, nell’Appendice II di Idea cit., pp. 182-91 (il passo citato è a p. 189). 16. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. p. 233. A completamento di tutto ciò, è opportuno rilevare che già nel ricordato discorso su L’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto, letto all’Accademia di San Luca nel maggio 1664, il Bellori aveva sostenuto: «In questi nostri tempi Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili, e ’l Bamboccio i peggiori. Rimprove-
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rava però Lisippo al vulgo de gli scultori, che da essi venivano fatti gli uomini quali si trovano in natura, ed egli gloriavasi di formarli quali dovevano essere» (cfr. in Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. p. 16). Aggiungo per altro l’osservazione che il parere di Lisippo, qui citato sintomaticamente a proposito del Caravaggio, è lo stesso, tolto da Plinio, che, dopo Giulio Mancini, anche Federico Borromeo aveva indirizzato nel De pictura sacra (1625) contro «I pittori recenti» i quali, troppo inclini a dipingere i santi come si dipingerebbe «uno ben pasciuto in un’osteria», «purtroppo non dipingono le immagini né come furono né come dovrebbero essere», cfr. quanto ho riferito e commentato in proposito nel paragrafo 3 del precedente cap. 3, pp. 124-25 e note relative; e si giudichi se dalla nuova coincidenza non esca anche una conferma ulteriore della grande distanza in cui il Borromeo dové trovarsi nei confronti del Caravaggio. 17. Giambattista Marino, La Galeria ( … ) distinta in Pittura e Scultura, Milano 1620, p. 202; citata in Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. p. 229. 18. Cfr. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi cit., p. 107. 19. Replicando a questo passo, che figurava per intero e nella stessa forma qui riproposta nella comunicazione fatta al colloquio linceo del 1973 e poi stampata l’anno dopo (cfr. Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo cit., p. 170), Giulio Carlo Argan affermò: «Bologna insiste sul naturalismo caravaggesco, a cui, tuttavia, giustamente riconosce un fondamento culturale e non empirico. Ma la stessa natura, e lo ha dimostrato molto tempo fa Panofsky, si configura pur sempre come un’iconografia» (cfr. negli stessi atti, p. 188). Ebbene, al fine di «prevenire un equivoco», con quel che segue, è esattamente questo che avevo inteso porre in evidenza; ma Argan o non se ne accorse, o non volle darmene atto. 3. «Rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens...» 1. Per far solo un esempio, non si può non ricordare che proprio all’uscita dal Medioevo l’assunto era stato ribadito dal Cennini, il quale, certo in omaggio a Giotto e ai giotteschi, aveva proclamato che «la più perfetta guida che possa avere e migliore timone, si è la trionfal porta del ritrarre di naturale»: cfr. Cennino Cennini, Il Libro dell’arte, nell’edizione curata da Gaetano e Carlo Milanesi, 1859, riproposta da Fernando Tempesti, Milano 19 7 5, p. 44. Il capitolo in cui questo passo ricorre, il xxviii, s’intitola: Come sopra i maestri, tu dèi ritrarre sempre del naturale con continuo uso; e giusto in tali termini, com’è notorio, il principio si ritrova in Leonardo. 2. Senza voler entrare nella questione con troppi particolari, si veda
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quel che documenta la voce Naturale, il , in Grassi e Pepe, Dizionario della critica d’arte cit., vol. II, p. 341. 3. Cfr. Paleotti, Discorso, libro I, cap. ii: ed. cit. p. 132. 4. Cfr. ibid ., libro II, cap. xxxii: ed. cit. p. 4o6. E si tenga presente anche quest’altra affermazione, che s’incontra nel cap. xxvii dello stesso libro, ed. cit. p. 373: «Imperò che la pittura, come ognuno sa [dunque, l’opinione è data per risaputa], è arte imitatrice, e quello dipinge bene che ben imita; né mai imita bene chi non imita le cose o come furono, o come è ragionevole che fossero». 5. Cfr. paragrafo 2 del presente capitolo, pp. 145-46. 6. Cfr. i dati bibliografici dati alla nota 6, p. 432, dove è anche annunciato il commento (quello esposto qui nel testo) che il commento del Longhi avrebbe richiesto. 7. Cfr. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. cit. p. 215. 8. Cfr., ad esempio, Caravaggio, ed. cit. pp. 46-48, 70-71. E si veda anche il commento di Previtali, il quale, nell’introduzione all’edizione appena citata, pp. 26-3o, ha sostenuto non senza ragione che sulla genesi delle osservazioni longhiane di tal natura ebbe peso prevalente l’attenzione prestata dal Longhi stesso all’esperienza cinematografica moderna. 9. Sandrart, Academia nobilissimae Artis pictoriae cit., parte II, libro II, cap. xix, p. 181. Per un’edizione moderna dell’intera «vita» del Caravaggio nella versione latina, cfr. Longhi, Alcuni pezzi rari cit., pp. 55-57, con un commento che ha piena ragione di considerare «di somma penetrazione storica» la frase «Italorum primus ecc.», fino a «naturam atque vitam» (p. 55), ma che poi si lascia sfuggire la portata più specificamente testimoniale dell’affermazione seguente: «rem pingendam ecc.», fino a «assecutus esset». Per un’edizione moderna della stessa «vita» nella versione tedesca, cfr. Friedländer, Caravaggio Studies cit., pp. 261-64, con una traduzione del tutto in inglese (pp. 263-66). Circa la precedenza del Sandrart sul Bellori, a cui ho accennato nel testo, si sa che, per le parti riguardanti l’Italia moderna, la Teutsche Academie si basa sui ricordi del lungo soggiorno (1627-35) fatto dallo scrittore-pittore di Francoforte in Italia, e che nel complesso è considerata anteriore al 1658. 10. Cfr. Longhi, Caravaggio, ed. cit. pp. 47-48. Il passo prosegue notando: «D’accordo che, da grande spirito qual era, egli [Caravaggio] non poteva non scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una realtà allora tutta sconosciuta, anche non avendone piena coscienza. La sua ostinata deferenza al vero poté anzi dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse “l’occhio della camera” a guardare per lui e a suggerirgli tutto». Altre osservazioni importanti sull’«uso pittori-
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co (leggi poetico) di una “camera oscura”», con cui il Caravaggio «costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca», si leggono nello stesso saggio alle pp. 70-72, per altro corredate dal richiamo a un altro celebre passo del Mancini dedicato alla descrizione dell’atelier del maestro, a sua volta paragonato alla descrizione della «camera oscura» data da Giambattista Della Porta, il quale la proclamava sua invenzione. Ma il lettore avrà già notato che una preoccupazione d’impianto irriducibilmente idealistico-crociana continuava a dominare il Longhi in tutti questi excursus: quella di non pregiudicare la «poesia» del Caravaggio («uso pittorico (leggi poetico) di una “camera oscura” ecc.»), al punto di preferire di concedere che «il Caravaggio dichiarasse d’intendere ormai con le sue ricerche a una specie di “magia naturale”, che era, fin dal 1558, il titolo di un libro famosissimo di Giambattista Porta». 11. Sebbene ampliata di molto negli argomenti, nelle giustificazioni e nelle pezze di appoggio, la sostanza di quanto ho esposto nel corso di questo paragrafo era già tutta presente nella comunicazione che feci al colloquio linceo del febbraio 1973, e che, come ho ricordato in principio, fu pubblicata con gli atti del colloquio stesso nel quaderno n. 205 dell’Accademia dei Lincei del 1974 (cfr. Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo cit., specialmente pp. 171-87). Pur non potendo tacere che le manifestazioni caravaggesche di Bergamo a cui il saggio di cui sto per parlare fu presentato, ebbero luogo solo fra il 16 dicembre 1973 e il 17 giugno 1974, e che la pubblicazione che le documenta, Novità sul Caravaggio cit., fu finita di stampare addirittura nel giugno 1975, ritengo doveroso segnalare che l’articolo di Filippo Maria Ferro ivi pubblicato, Un crime, vite, que je tombe au néant (pp. 121-34), offre diversi punti di coincidenza con le vedute dello scrivente, per altro secondo enunciati e con argomenti che non lasciano dubbi sulla loro autonomia. Lo segnalo con soddisfazione tanto maggiore perché, fin da allora, all’affermazione: «“Naturalismo” è per il Merisi l’apertura a una nuova metodologia del vedere e del sentire e dell’esperire», Ferro non ebbe remore a far seguire la deplorazione che, in materia di cose caravaggesche, «le sovrabbondanti interpretazioni psicologistiche e le alchimie iconologiche (con i limiti praticamente insuperabili che tali trasposizioni interdisciplinari introducono nelle scienze cosiddette “congetturali”) hanno sviato e precluso sino ad ora livelli comprensivi di profondità maggiore» (cfr. p. 134). Non per nulla, del resto, col montare delle «alchimie iconologiche», che proprio ai convegni bergamaschi del 197 4 a cui Ferro partecipava celebrarono una delle loro più vistose tornate, il bel saggio di Ferro s’è visto piovere addosso un silenzio pressoché totale.
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4. Il quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea 1 . Ad esempio, cfr. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ed. cit. pp. 63, 64 ecc. 2. Il corsivo è di chi scrive. La citazione è tolta da Vito Fazio-Almayer, Galileo Galilei, Palermo 1912, e dalla sintesi data dal medesimo autore nella sezione Galilei filosofo aggiunta alla voce Galilei in Enciclopedia Italiana, vol. XVI, p. 277. Il punto di vista va però confrontato con quanto si legge in Charles B. Schmitt, Experience and Experiment . a Comparison of Zabarella’s View with Galileo’s in “De Motu”, in «Studies in the Renaissance», 1959, 16, pp. 8o-137, il quale sostiene (come trovo riassunto a p. 179 del libro della Alpers, Arte del descrivere, che utilizzerò nel prossimo paragrafo: cfr. p. 172 e nota 14 a p. 440) «che nel Seicento e nel Settecento l’esperimento non era inteso nel senso odierno – ossia come tentativo di verificare una teoria o un’ipotesi escogitando una precisa situazione sperimentale od osservativa – ma era piuttosto sinonimo di esperienza». 3. Cfr. Eugenio Battisti, L’antirinascimento, Milano 1962, pp. 276-77 (nel contesto dell’intero, importante capitolo ix, L’illustrazione scientifica in Italia, pp. 254-77); Gregori, Caravaggio dopo la mostra di Cleveland cit., p. 39; Olmi, Osservazione della natura cit., pp. 173-74; Id., Arte e natura nel Cinquecento bolognese cit. (vari riferimenti, più o meno diretti); Gregori, in Caravaggio e il suo tempo, catalogo della mostra cit., p. 2 46; Ead., Linee della natura morta fiorentina, in Il Seicento fiorentino, catalogo della mostra, vol. I, Firenze 1986, p. 31; Cottino, La natura morta caravaggesca a Roma cit., p. 670 (il quale però, tacendo di Battisti, primo e vero autore dell’ipotesi, si limita a rinviare agli accenni, del resto generici, contenuti negli ultimi due scritti della Gregori). 4. Cfr. Battisti, L’antirinascimento cit., pp. 276 e 464, nota 65. Per quanto riguarda il verso ritenibile del passo, a cui ho accennato nel testo, ma che – ripeto – deve intendersi ritenibile solo se letto in un diverso contesto, ecco le righe che mi sembrano più significative (e che per giunta, almeno una volta nella profluvie di scritti di questo singolare studioso, sembrano deferire persino alla celebre arte d’«interpretare descrivendo» del detestatissimo Roberto Longhi!): «Ogni foglia del famoso Canestro di frutta dell’Ambrosiana (...) ha una sua storia che potrebbe essere ricostruita da un botanico: storia di piogge, di lumache, di insetti penetrati nella polpa del frutto, di lunghe ore, soprattutto, passate in una stanza afosa da fare avvizzire, accartocciandole, le foglie, nonostante che fossero state in precedenza ben lavate. Una mela, una pera, un chicco d’uva, una foglia, per chi li esamina (...) nelle loro accidentalità, restano inconfondibili fra mille, sono caratterizzate fisicamente e chi opta per l’individuazione, ama più le verdure bacate che quelle sane».
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5. Cfr. Olmi, Arte e natura nel Cinquecento bolognese cit., p. 157. 6, Cfr. ibid . , p. 155 7. Cfr. ibid . , p.154. 8. Cfr. ibid ., con il rinvio bibliografico al manoscritto dell’Aldrovandi da cui il passo latino citato è tolto: Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, c. 126. Sempre allo stesso proposito, e sempre di Olmi, si veda anche Osservazione della natura cit., p. 111: «L’Aldrovandi vede nel pittore solo colui che lavora con la mano che è l’organo per eccellenza (…). Nulla di mentale nell’operazione artistica, ma netto prevalere dell’atto meccanico e artigianale, come ovvio d’altronde in chi, lavorando per uno scienziato, dovrebbe limitarsi a fotografare esattamente la realtà». E ancora ibid ., a p. 114: «Quello che si richiede è dunque una tecnica tutta particolare, in un certo senso spersonalizzata ed al completo servizio della scienza. Nel rapporto che si viene a creare l’artista è il braccio e lo scienziato la mente» 9. Cfr. ibid ., p. 11o, 1o. Cfr. la lettera di Fabio Masetti al conte Giovan Battista Laderchi, in data 24 agosto 1605, riprodotta in Friedländer, Caravaggio Studies cit., p. 310. 11. Cfr. in questo stesso libro l’Indice ragionato delle opere, n. 8o. 12. Cfr. in Olmi, Osservazione della natura cit., p. 109, col rinvio a Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, cc. 129 bis r e v. 13. Cfr. il testo dell’Esame di Michelangiolo Merisio da Caravaggio, in data 13 settembre 1603, riprodotto in Friedländer, Caravaggio Studies cit., p. 276. 14. Cfr. Vincenzo Giustiniani, Lettera sulla pittura a Teodoro Amideni, in Lettere Memorabili dell’Ab. Michele Giustiniani, Tinassi, Roma 1675, parte III, n. lxxxv (opera citata da Giovanni Previtali a nota 29 della sua edizione di Longhi, Caravaggio cit., p. 53, in luogo del più consueto Giovanni Gaetano Bottari, Raccolta di lettere sulla pittura scultura ed architettura scritte da’ più celebri Professori che in dette Arti fiorirono dal secolo xv al xvii , Milano 1822, VI, pp. 99-100),
15. Cfr. Roberto Longhi, note alle illustrazioni nella 1a edizione di Caravaggio, Milano 1952, riprodotte in appendice nell’edizione a cura di Previtali cit., p. 177. 16. Cfr. Olmi, Osservazione della natura cit., p. 11o. 17. Giordano Bruno, La cena de le ceneri, 1584, in Opere italiane. I. Dialoghi metafisici, a cura di G. Gentile, Bari 1925, pp. 112-13. 18. Biagio de Giovanni, Lo spazio della vita fra G. Bruno e T. Campanella, in «Il Centauro», maggio-dicembre 1984, 11-12, pp. 3-32. 19. Cfr. ibid ., pp. 12-13, con l’indicazione della fonte dei passi citati. I corsivi sono miei. 20. Cfr. ibid ., p. 15. I corsivi sono miei.
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21. Cfr. ibid ., p. 16. I corsivi sono miei. 22. Cfr. ibid ., p. 12. I corsivi sono miei. 23. Cfr. più a dietro, cap. 2, paragrafi 1 e 5, pp 12, 75. 24. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 29, 25. Cfr. ibid ., pp. 29-30, col rinvio a Giovanni Battista Della Porta, Della celeste fisionomia, Padova 1616, I, Proemio. 26. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 4. La citazione è da Tommaso Campanella, Apologia di Galileo, ed. a cura di L. Firpo, Torino 1968, p. 74. 27. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 4, 28. Cfr. ibid ., p. 28 29. C. Guasti, Lettera del Card. Del Monte al Granduca Ferdinando I a proposito di Frate Tommaso Campanella, in «Giornale Storico degli Archivi Toscani» iii, 1859, pp. 159 sgg., richiamata e utilizzata da Luigi Spezzaferro, La cultura del cardinal Del Monte e il primo tempo del Caravaggio, in «Storia dell’Arte», 1971, 9-10, pp. 78-79. Un saggio, quest’ultimo – pp. 57-90 –, che è tanto ricco di osservazioni utili sugli orientamenti effettivi della cultura favorita nell’ambito del cardinale e di suo fratello Guidubaldo, quanto deviante nell’utilizzare una porzione estrapolata di tale cultura per dimostrare che l’opera giovanile del Caravaggio sarebbe improntata a una «organizzazione spaziale» di carattere prospettico, e a «esperimenti su una luce costruttrice e individuatrice delle figure», dunque anch’essa di carattere formale e prospetticamente geometrica, derivati, o comunque influenzati, dalle dottrine esposte da Guidubaldo Del Monte specialmente nei suoi Per spectivae Libri. 30. Cfr. Hibbard, Caravaggio cit., p. 84. 31. Cfr. Bologna, Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo cit., pp. 172-73, 176. Hibbard, Caravaggio cit., p. 84, nota 23, rinvia in prima istanza alla p. 176 di tale saggio. 32. Con l’accenno ad Antonio Favaro, mi riferisco, ovviamente, ai venti volumi in ventuno tomi, e in particolare al X, dell’edizione nazionale delle opere di Galilei, pubblicati a Firenze fra il 189 o e il 1909 e ristampati fra il 1929 e il 1939 (nuova ristampa, 1964-66 ). Per una bibliografia dei maggiori lavori galileiani del Favaro, cfr. Geymonat, Galileo Galilei cit., p. 7 e passim. 33. Riprendo la citazione da Spezzaferro, La cultura del cardinal Del Monte cit., p. 73. 34. La notizia è già in Vincenzo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei: cfr. l’edizione a cura di F. Flora, Vita di Galileo, Milano 1954, p. 33: «(...) con gran satisfazione e maraviglia del medesimo signor Guidubaldo, il quale per così acute invenzioni l’esaltò a segno appresso il serenissimo Gran Duca Ferdinando Primo e l’eccellentissimo principe Don Giovanni de’ Medici, ch’in breve divenne a
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loro gratissimo e familiare: che perciò vacando nel 1589 la cattedra delle matematiche in Pisa, di proprio moto della medesima Serenissima Altezza ne fu provvisto, correndo egli l’anno vigesimo sesto della sua età». Per l’intervento del cardinal Francesco, cfr. Geymonat, Galileo Galilei cit., p. 19. Per altri particolari desunti dai documenti di Antonio Favaro, cfr. ancora Spezzaferro, La cultura del cardinal Del Monte cit., pp. 73-74. 35. Cfr. di nuovo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, ed. cit. p. 35. 36. Cfr. Mia Cinotti, Vita del Caravaggio: novità 1983-1988, in Caravaggio. Nuove riflessioni, «Quaderni di Palazzo Venezia», Roma 1989, 6, p. 82. 37. Cfr. Geymonat, Galileo Galilei cit., p. 15. 38. Cfr. ibid ., p. 17. 39. Cfr. Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, ed. cit. p. 60. 40. Cfr. ibid ., p. 30. I corsivi sono miei 41. Cfr. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ed. cit. rispettivamente pp. 63 e 70. 42. Lettera di Galileo a Campanella: cfr. l’edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei, IV, p. 738. Tolgo la citazione da Ferdinando Flora, Il processo di Galileo, in appendice a Vincenzo Viviani, Vita di Galileo cit., p. 117. 43. Lettera di Galileo a Federico Cesi, del 30 giugno 1612: cfr. Opere cit., XI, pp. 344-45. Tolgo la citazione da Micheli e Tongiorgi Tomasi, Galileo critico d’arte di Erwin Panofsky cit., p. 19. 44. Cfr. Gaffici, Il Saggiatore, ed. cit., p. 203. 45. Cfr. Robert Lenoble, Les origines de la pensée scientifique moderne, Parigi 1957; trad. it. Le origini del pensiero scientifico moderno, Bari 1976, p. 36. Per un’analoga utilizzazione di questo giudizio di Lenoble nell’ambito della pittura seicentesca derivata dal Caravaggio, cfr. Bologna, Ancora di Gaspare Traversi nell’Illuminismo cit., vol. II, p. 304. 46. Cfr. supra, p. 16o. 47. A prevenire obiezioni sempre possibili (e anche troppo facili, per la verità) contro la proposta di tangenze galileiano-caravaggesche elaborata nel testo, aggiungo che non dimentico né che Galilei ebbe documentatamente interessi per le arti figurative, né che dalla primavera del 1611 – e sia pure limitatamente a questioni astronomiche – fu in rapporti con il teorico del classicismo carraccesco, monsignor Giovanni Battista Agucchi, né che Erwin Panofsky ha dedicato un saggio in due redazioni a Galileo quale critico d’arte (cfr. Galileo as a Critic of the Arts, e Galileo as a Critic of the Arts. Aesthetic Attitude and Scientific Thought cit.; su entrambi cfr. il saggio – con traduzione – di Micheli e Tongiorgi Tomasi, Galileo critico d’arte di Erwin Panofsky
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cit.). Ma chi ha letto gli scritti di Panofsky sa che essi riguardano principalmente la posizione – indubbiamente di gran peso – assunta dallo scienziato nella diatriba pittura-scultura risollevata dalla ben nota inchiesta promossa da Benedetto Varchi; mentre resta indiscutibile che (a parte quel che si potrebbe evincere dai rapporti con monsignor Agucchi, però accertatamente posteriori al 1611) le preferenze di Galileo in fatto di arti figurative non andavano oltre il Cigoli (il quale, nondimeno, ai piedi dell’Assunta di Santa Maria Maggiore a Roma ritrasse la Luna con le asperità appena scoperte, così come le aveva schizzate Galileo nel Sidereus Nuncius) ed erano di pretta marca fiorentina. A proposito di quest’ultimo punto, richiamo anzi l’attenzione su un passaggio notevole del sopra citato Racconto istorico della vita di Galileo Galilei di Vincenzo Viviani, ed. cit. p. 28, in cui lo scienziato giovinetto risulta tanto propenso al «disegnare» che «se in quell’età fosse stato in poter suo l’eleggersi professione, avrebbe assolutamente fatto elezione della pittura»; in oltre, vi è detto portatore, da adulto, di «tale esquisitezza di gusto, che’ l giudizio ch’ei dava delle pitture e disegni veniva preferito a quello de’ primi professori da’ professori medesimi, come dal Cigoli, dal Bronzino [evidentemente, Alessandro Allori], dal Passignano e dall’Empoli, e da altri famosi pittori de’ suoi tempi, amicissimi suoi, i quali bene spesso lo richiedevano del parer suo nell’ordinazione dell’istorie, nella disposizione delle figure, nelle prospettive, nel colorito, (...), onde ’l famosissimo Cigoli, reputato dal Galileo il primo pittore de’ suoi tempi, attribuiva in gran parte quanto operava di buono alli ottimi documenti del medesimo Galileo, e particolarmente pregiavasi di poter dire che nelle prospettive egli solo gli era stato maestro». Occorrerà perciò rassegnarsi: in un ruolino di marcia del genere non v’è spazio alcuno per un’eventuale considerazione dell’opera del Caravaggio, di cui pure Galileo non poté non aver notizia, sia presso il granduca che ebbe abbastanza presto la Medusa, sia e specialmente presso il cardinal Del Monte, in ogni caso a Roma, dopo la morte del pittore, quando Galileo strinse ancora i rapporti con il detto cardinale. L’unica cosa che si può dire con fondamento è che con questo veniamo a trovarci di fronte a un altro caso di sfasatura e dissimmetria fra i livelli d’un medesimo contesto, com’è del resto quello che Panofsky s’è adoprato a illustrare fra Galileo stesso e Keplero: «tuttavia – e questo è uno dei paradossi più stupefacenti della storia – laddove l’empirismo “progressista” di Galileo gli impedì di differenziare forma ideale e azione meccanica e perciò servì a mantenere la sua teoria del moto sotto “l’incantesimo della circolarità”, l’idealismo “conservatore” di Keplero gli permise di operare tale differenziazione e liberò perciò la sua teoria da tale ossessione» (cfr. Micheli e Tongiorgi Tomasi, Galileo critico d’arte di Panofsky cit., p. 35). 48. Cfr. nel presente libro il n. 47 dell’Indice ragionato delle opere.
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49. Cfr. Giovanni, 20, 25. Com’è noto, Giovanni ( 2 0, 24-29 ) è il solo degli evangelisti canonici a riferire l’episodio, per altro con inconsueta ricchezza ed efficacia di particolari: «Gli dissero dunque gli altri discepoli: “Abbiamo veduto il Signore!” Ma egli oppose loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo, i discepoli si trovavano di nuovo in casa, e Tommaso era con essi. Venne Gesù a porte chiuse, stette in mezzo, e disse: “La pace sia con voi!” Poi, dirigendosi a Tommaso: “Metti qua il tuo dito, e guarda le mie mani. Avvicina la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere incredulo, ma credente” (...)». 50. Per la riproduzione cfr. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit., p. 603, fig. 1. Una riproduzione a colori dell’intero, più recente e di discreta qualità (cfr. anche quella pubblicata sulla copertina del presente libro), e una in bianco e nero del particolare in discorso, sono in Marini, Caravaggio cit., pp. 176-77, n. 36. Commentando l’illustrazione in bianco e nero, Marini scrive giustamente: «Il dito di Tommaso che affonda nella ferita sul costato di Cristo è un particolare di assoluta efficacia rappresentativa». Preferendo un approccio di accentuato carattere spiritualistico, e anzi fideistico, Mia Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cit., p. 491, aveva invece sottolineato il «tema dell’incredulità, tremendo limite umano, che sta per trasformarsi in conquista di fede solo grazie a una verifica materiale». Ma osservazioni del genere riguardano l’assunto della narrazione evangelica, non la scelta e l’intento del Caravaggio. 5. Ancora sul quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea 1. Per la fonte delle citazioni riassunte si veda il paragrafo precedente. 2. Cfr. i paragrafi 2 e 3 di questo capitolo (pp. 144-54). 3. Cfr. Ernst Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweiter , DüsseldorfMonaco 1927-31; trad. it. Federico II imperatore, Milano 1976 (rist. 1988), p. 318. 4. Su questo importantissimo aspetto del pensiero e della fisica tardo-scolastica, è sempre di grande utilità il libro di Graziella Federici Vescovini, Studi sulla prospettiva medievale, Torino 1965. Per l’ascendente che le dottrine elaborate – e gli esperimenti condotti – in tali ambiti, poterono avere sull’arte borgognona e fiamminga del secolo xv, si veda più avanti in questo medesimo paragrafo. 5. Tutti i passi sono citati dal cosiddetto Trattato della pittura. Per citazioni più ampie cfr. le pp. 65-69 del libro di Svetlana Alpers, Arte del descrivere cit.; dov’è per altro la dimostrazione della sostanziale ete-
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rogeneità in cui la posizione leonardesca viene a trovarsi rispetto a quelle della successiva riflessione scientifico-sperimentale di cui si tornerà a dire fra poco. 6. Cfr. Ezio Raimondi, La nuova scienza e la «visione degli oggetti», in Rappresentazione artistica e rappresentazione scientifica nel secolo dei lumi, a cura di Vittore Branca, Firenze 1970; ripubblicato successivamente in Id., Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi sposi», Torino 1974, pp. 3-56. 7. Cfr. de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 9, con l’indicazione bibliografica dei passi riferiti. 8. Cfr. Bruno, La cena de le ceneri, ed. cit. p. 21. Tolgo la citazione sempre da de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 12. 9. Cfr. de Giovanni, ibid ., p. 3o. 1o. Cfr. Antonio Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rina scimento: G. B. Della Porta, in «Giornale critico della filosofia italiana», i, 1959, pp. 94 sgg., ricordato anche da de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 3o, nota 120. 11. Cfr. Olmi, Osservazione della natura cit., p. 113, 12. Cfr. Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, c. 125v, trascritto in Olmi, Osservazione della natura cit., p. 113. 13. Cfr. Biblioteca universitaria di Bologna, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, cc. 126-27, trascritto più ampiamente da Olmi, Osservazione della natura cit., pp. 113-14, nota 37. 14. Cfr. Alpers, Seeing as Knowing cit. 15. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 277. 16. Cfr. ibid ., pp. 3-4. 17. Cfr. ibid ., p 4. 18. Cfr. ibid . 19. Cfr. ibid . , p. 5. 20. Cfr. ibid . , p. 189. 21. Cfr. ibid . , p . 5 22. Cfr. ibid ., p. 176. Di tale tradizione, la Alpers indica traccia anche in Goethe, quando fa notare (p. 175) il «tono condiscendente» con cui nella Farbentheorie è ammesso che «tutte le nature dotate di una sensibilità felice, le donne, i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti». 23. Cfr. ibid ., pp. 7, 11, 59, 383, nota 26, e passim. Richiamo l’attenzione soprattutto su quel che si legge a p. 11: «Servendosi di un modello iconologico di analisi, già usato per l’arte italiana, Panofsky nella sua Early Netherlandish Painting attribuisce alla pittura olandese un simbolismo mascherato, nel senso che il suo significato si nasconde dietro una superficie realistica. Malgrado il suo pregiudizio italiano, le analisi di Panofsky mantengono tuttavia un certo equilibrio fra la tendenza a sottolineare la superficie descrittiva e quella che insiste sulle
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profondità del significato. Un equilibrio precario che la voga attuale delle interpretazioni emblematistiche è venuta a spezzare». 24. Cfr. ibid . , p . 4. 25. Cfr. ibid . , p. 7. 26. Cfr. ibid ., pp. 57, 6o, 63-64, 384, nota 28 ecc. 27. Cfr. ibid ., p. 5. Cfr. anche p. 63, dove si afferma: «Benché onestamente non si possa dire che il trattato albertiano proponga in modo esplicito la famosa similitudine, la sua definizione del rapporto tra pittura e visione implica il principio ut pictura poësis». 28. Cfr. ibid . , pp. 58-6o. 29. Cfr. ibid ., p. 56. 30. Cfr. ibid ., p. 142, 31. Poiché il nome di Jan Brueghel è tornato per la seconda volta in un contesto in cui è questione del particolare descrittivismo definibile come enumerativo e classificatorio, può essere interessante notare che quanto s’è riferito e commentato più sopra circa la raccomandazione di Ulisse Aldrovandi affinché il pittore ritragga scrupolosamente solo piante ed erbaggi ancora freschi, non essiccati, e secondo le variazioni stagionali, ha un singolare riscontro con quanto Jan Brueghel scriveva circa la sua esigenza di dipingere «con molto diligenci» solo fiori freschi, avendo atteso per mesi la loro fioritura: «fra tanto nasceno i belli fiori che serrano in quantità in detto quadro»; «Gli fiori sono fastidioso a fare (...); gli fiori besoigni fare alle prime (...): tutti i fiori vengono in quattro mesi» (cfr. in Bedoni, Jan Brueghel in Italia cit., pp. 109, 110, 12 6, con l’indicazione delle fonti). 32. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 142. 33. Corre però l’obbligo di rilevare che ibid . , p. 6, parlando dell’opposizione fra tradizione nordica e tradizione italiana, la Alpers scrive: «Tale distinzione non ha però valore assoluto. È senz’altro possibile trovare numerose varianti e perfino eccezioni, e anche i confini geografici di questa distinzione vanno presi con una certa elasticità: esistono opere francesi e spagnole, e in certi casi anche italiane, che è utile vedere come esempi della tendenza descrittiva, mentre le opere di Rubens, un nordico impregnato di arte italiana, si possono leggere alla luce delle diverse tendenze che egli di volta in volta adotta nella sua pittura. Il valore della distinzione dipende da quanto essa può aiutarci a vedere». 34. Cfr. ibid ., pp. 10 e 57. 35. Cfr. ibid . , p . 7 36. Cfr. ibid ., p. 26, con ampia citazione dal saggio di Clifford Geertz, Art as a Cultural System, in «Modern Language Notes», vol. 91, 1976, pp. 1475 sgg. 37. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 42. 38. Cfr. ibid ., p. 155; la citazione è tolta dalla Instauratio magna,
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del 162o. Altrove, p. 173, la Alpers cita quest’altro passo, tolto dalla medesima opera: «Coloro i quali non si propongono di far congetture, ma di scoprire e di sapere, avendo per scopo non di imitare gli spacciatori di favole congegnate a imitazione dei mondi, ma di arrivare a chiarire la vera essenza di questo nostro vero mondo, quasi analizzandolo, devono trarre la materia dalle cose stesse». 39. Cfr. ibid ., . , p. 179 179.. 40-- Cf 40 Cfr. r. ibid .; anche questa citazione è tolta dalla Instauratio magna, ma occorre ricordare che Bacone aveva scritto nel 1605 Of Proficience and Advancement of Learning, e nel nel 16 1607 07 Cogitata et visa. 41. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 148. 42. Cfr. ibid .,., p. 25. 43. Cfr. ibid ., . , p. 35 35.. 44. Cfr. ibid., p. 144 45-- Cfr 45 fr.. ibid .,., p. 56. Ma occorre leggere leggere per intero il capitolo capitolo ‘Ut pictura ita visio’: il modello kepleriano dell’occhio e la natura del raffi gurare nell’Europa del Nord , pp. 44-8o 44-8o,, 137-41. 137-41.
46. Per questo aspetto di Comenio, non ricordato dalla Alpers, cfr. Adolfo Faggi, Il Galileo della pedagogia, Tor Torino ino 1902, 1902, Oltr Oltree che di di Bacone, Comenio fu anche studioso di Campanella. Cfr. per tutto l’ampia voce Komensky, Jan Amos di Giovanni Calò, in Enciclopedia Italiana, vol vol.. XX, XX, Rom Romaa 193 5, 5, pp. 248248-5o. 5o. 47. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., pp. 165-67, 393, nota 40, dove è anche indicata la letteratura più recente 48. Cfr. ibid .,., p. 166. 49. Cfr. ibid ., . , p. 167 167.. grande nde did didatt attica ica, 50. Cfr. Jan Amos Komensky (Comenius), La gra 1657, in Opere a cura di M. Fattori, Torino 1974, p. 290: citato in Alpers, Arte del descrivere cit., p. 167. 51. La familiarità di Sandrart col marchese Giustiniani è attestata da Sandrart stesso, proprio nella «vita» del Caravaggio e in rapporto a opere del Caravaggio: «Pro parte quoque artis nostrae marchione justiniano Cupidinem pingebat [l’ Amore Amore vincitore ora a Berlino], viventis magnitudinem quasi duodecennem globo terrae insidentem, arcu dextra sublato variisque ad sinistram instrumentis mathematicis librisque appositis, laurea coronatis: alis pullis aquilinis instructum, delineatione emendatissima, colore vivido et exuberantia tanta ut viventi sit simillimus. Hoc opus in pinacotheca centum et viginti operum artificiosissimorum publice ante hac prostans, meo consilio velo obtegabatur ultimo spectandum, cum alias coetera omnia prae illo vilescerent: unde me praesente quidam mille pistoletos pro eo offerens, hoc a patrono, me internuncio, ferebat responsum: – Dite a questo corteggio cavalier che se egli mi puol pu ol far acquistar un altro quadro de questa sostanza, glie ne pagerò il doppia, cioè 2000 pistole – [in italiano
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nel testo, inclusi gli errorucci, che non ho ritenuto di dover emendare]. Et hoc opere mediante Caravagius salvum quoque iterum conductum acquirebat». Cfr. Academia nobilissimae Artis pictoriae cit., p. 181. Non v’è bisogno di sottolineare l’importanza di questo brano anche per quel che riguarda il perdurante e sempre altissimo interesse di Giustiniani per il Caravaggio, come l’interesse analogo e di portata non minore da parte del Sandrart medesimo. 52. Su Joachim von Sandrart, tutto sommato studiato assai poco sia come pittore che come trattatista, si veda la buona voce dedicatagli da Hans Tietze in Enciclopedia Italiana, vol. XX XXX, 19 19336, p. 636, e l’entry ad vocem di Nicolson, The International Caravaggesque Movement cit., cit ., pp. 85-86 85-86 (2a ed. Caravaggism in Europe cit., vol. I, p. 168 ); oltre, naturalmente, agli inserti sul trattatista nei noti lavori di Schlosser e di Luigi Grassi. Per l’incontro con Galileo (non rilevato da altri, a quel che mi risulta, né prima, né dopo), è fondamentale Roberto Longhi, Le visite romane del Sandrart a Galileo nel n el 1633, in«Par in«Paragone agone», », settemsettembre 1963, 165, pp. 64-65. 53. Tolg Tolgoo la citazion citazionee dal saggio saggio di Longhi Longhi indica indicato to nella nella nota nota precedente, ceden te, p. 64, dove sisi precisa precisa che esso esso è tratto tratto dalla dalla «vita» «vita» di Galileo Galileo inclusa nell’edizione latina della Academia nobilissimae Artis pictoriae, 1683, pp. 389-9o, ma non anco ancora ra nell’ nell’ediz edizione ione tede tedesca sca del 1675-79 1675-79.. A complemento di quel che si evince dal passo riferito a proposito di visite di stranieri allo scienziato, aggiungo che nella biografia di Vincenzo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, ed. cit. pp. 6467, s’incontra ripetuto il ricordo dei molti «franzesi, «franzesi, fiaminghi, boemi, boemi, transilvani, inglesi, scozzesi e d’ogni altra nazione», che attratti dalle «nuove e peregrine speculazioni e curiosissimi problemi che giornalmente venivano promossi e risoluti dal signor Galileo», procuravano procuravano «di visitarlo (...) dov’egli fosse; e allora stimavano d’aver ben spesi i lor lunghi viaggi, quando tornando nelle patrie loro, potevano dire d’aver conosciuto un tant’uomo e avuto seco discorso». Quanto al ritratto eseguito da Sandrart, sempre Longhi, Le visite romane del Sandrart a Galileo cit., tav. 6o, lo ha indicato in quello, inciso da Kilian, che figura nella tavola anteposta alla «vita» or ora ricordata. Subito dopo la pubblicazione di Unghi, tale ritratto è stato riprodotto in copertina nell’edizione feltrinelliana del Saggiatore cit., ma senza alcuna parola di commento. 54. Cfr. l’ultimo capoverso capoverso del paragrafo paragrafo precedente. Per il dipinto, per il suo passaggio dai Mattei al Giustiniani anteriormente al 16o6, e per l’episodio l’episodio del del riconoscime riconoscimento nto della della copia a Genova Genova ricorricordato nel testo, cfr. cfr. sempre nel presente presente libro il n. 47 dell’Indice ragionato delle opere.
55. Cfr Cfr.. Alpers, Alpers, Arte del descrivere cit. p. 24 249. 9. Il co cors rsiv ivoo è mio mio.. 56.. Cf 56 Cfr. r. ibid ., . , p. p. 16 162. 2.
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57. Cf Cfr. r. ibid . E alla alla nota nota 34 di p. 392, la Alpers Alpers esem esemplific plifica: a: «Ecco «Ecco un esempio che non condivido: “È difficile provare sensi di colpa di fronte a immagini così belle. E tuttavia quei banchetti sontuosi, quelle scorze luccicanti di limone lasciate raggrinzire, quelle ostriche aperte che imputridiscono, ci ammoniscono contro l’ingordigia e i danni morali degli appetiti umani” (dalla recensione di L. Wieseltier alla mostra di Chardin in: “The New Republic”, 24 novembre 1979)». Come non aggiungere subito che per la stessa, identica ragione, non può essere condivisa l’interpretazione analogamente simbolico-morale che da noi va dando Maurizio Calvesi, non solo delle nature morte, ma dell’intera opera caravaggesca? 58.. Cf 58 Cfr. r. ibid ., . , p. 18 184. 4. 59.. Cf 59 Cfr. r. ibid ., . , p. 7. 6o. Oltre a quanto s’è s’è venuto dicendo ad ad altro titolo nel nel paragrafo precedente, si veda in questo stesso libro il capitolo La «natura morta» del Caravaggio. 61. Cfr Cfr.. Alpers, Alpers, Arte del descrivere ci cit. t.,, p. 14 147. 7. 62.. Cf 62 Cfr. r. ibid ., . , p. 16 162. 2. 63. Cfr. ibid., p. 139. 139. 64. Cfr. in questo stesso libro l’Indice ragionato delle opere, nn. 7, 9, 10, 12, 13, 18, 22. 65. Per semplificare, semplificare, rinvio alla alla ristampa delle delle Vite di Baglione e Bellori in Friedländer, Caravaggio Studies cit., rispe rispettiva ttivamente mente pp. 231, 238. 66. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 140. 67. Cfr. le riproduzioni in M. J. Friedländer, Early Netherlandish Painting cit., vol. II, Rogier van der Weyden and the Master of Flémalle, a cura di Nicole Veronee-Verhaegen, n. 67, tavole 96 e 97. 68. Cfr. Alpers, Arte del descrivere cit., p. 156. La citazione è da Alle de Brieven van Antoni van Leeuwenhoek, 10 vol voll.l.,, Am Amst ster erda dam m 1939-79, vol. II, pp. 390-94. 69. Sandrart, Academia nobilissimae Artis pictoriae cit., pp. 18o-81. 70. Una buona riproduzione a colori del foglio in discorso si può vedere in Storia della letteratura italiana, Garz Garzanti, anti, vol. vol. V cit., Milano Milano 1967, tavola a fronte della p. 192. 71. Cfr. Paul Philippot, Pittura fiamminga e Rinascimento italiano, Torino 1970, p. 212, fig. 211. L’opinione sembra fare il paio con quella di Max J. Friedländer, La pittura dei Paesi Bassi da Van Eyck a Brue gel , trad trad.. it. della della 2a edizione (1921), Firenze-Londra 1956, p. 142, che l’«oscurità dominante degli interni» di Jan Scorel «può essere considerata come il germe del chiaroscuro rembrandtiano». 72. Cfr. Calvesi, Le realtà del Caravaggio. Seconda parte cit., p. 120. 73. Cfr. in Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica cit., p. 336, con l’indicazione della fonte. 74. Cfr. in de Giovanni, Lo spazio della vita cit., p. 11.
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