Scrivere bene
(o quasi) Elisabetta Perini
© GIUNTI
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Scrivere bene di Elisabetta Perini
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©GIUNTI
A Paolo, Emma e Lorenzo, come sempre. E a Caterina che con me condivide la luce delle parole.
Ideazione, progetto e realizzazione Elisabetta Perini
Responsabile editoriale Roberto De Meo
Errare humanum est
Redazione Alessandra Pelagotti
Dedico questo libro a tutti coloro che, quando sbagliano, si sentono umani.
Revisione Roberta Recanatini
E a tutti quelli che, pur sentendosi umani, hanno voglia di non sbagliare più.
Correzione bozze Lucia Degiovanni
Impaginazione Leonardo Di Bugno
www.giunti.it © 2011 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Via Dante 4 - 20121 Milano - Italia Prima edizione: settembre 2011 Ristampa 6543210
Anno 2015 2014 2013 2012 2011
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. - Stabilimento di Prato
Prefazione
Perché ho scritto Scrivere bene e non parlare bene? Perché la lingua parlata ci è molto più amica di quella scritta: non ci sono accenti, né apostrofi, né punteggiatura, e se sbagliamo una parola o un passato remoto, se ci dimentichiamo un bel congiuntivo, non è poi così grave! Quando scriviamo, invece, ecco che vengono a galla tutti i dubbi e le incertezze: sta si scrive con l'accento? soddisfacente vuole la /'? i numeri si scrivono in lettere o in cifre? cioè è troppo "adolescenziale"? assolutamente troppo "modaiolo"? come li chiamo, vigile o vigilessa? immigrato o migrante? Siamo consapevoli che, mettendo nero su bianco le nostre parole, andiamo incontro a errori d'ortografia, di punteggiatura, di sintassi o di scelta lessicale che possono compromettere la correttezza dei nostri testi e forse anche la loro leggibilità. La penna o la tastiera allora si fermano e inizia il classico tormento da testo scritto. L'unica consolazione è che dubbi e incertezze si materializzano per tutti, scrittori provetti e dilettanti: ognuno ha i suoi punti deboli! (O quasi). La seconda parte del titolo è dedicata infatti alle debolezze e alle difficoltà di chiunque si debba confrontare, o si confronti, con la scrittura. Anche a me succede di fare degli errori quando scrivo (ne sanno qualcosa le redattrici che hanno seguito il mio lavoro con tanta attenzione) e, lo confesso apertamente, mi capita di scrivere qual è con l'apostrofo: qual'è. Orrore... non c'è niente da fare, ci casco anch'io. E non sono l'unica: conosco studiosi, professori e giornalisti che fanno altrettanto (ma forse evitano di confessarlo, perché se ne vergognano). Questo non significa che possiamo comportarci in modo anarchico, dico proprio il contrario: la lingua va saputa usare, le convenzioni sono importanti perché ci permettono di scrivere con un mezzo uguale per tutti e dunque comprensibile a tutti. Le regole le dobbiamo conoscere bene e poi, se vogliamo, possiamo infrangerle, ma con cautela. L'importante è essere consapevoli del fatto che la scrittura può essere piena di trappole e richiede attenzione, approfondimento e revisione. Scrivere correttamente non è semplice, perché non esiste un unico tipo di scrittura. Esistono tanti modi di scrivere come esistono tanti modi di parlare. E ognuno di questi può essere corretto se è il modo giusto per il momento giusto. Ovviamente per scrivere bene in tante situazioni diverse dobbiamo essere "competenti"; dobbiamo sapere che cosa è permesso e che cosa è vietato, dobbiamo conoscere gli usi e le convenzioni. Dobbiamo prenderci del tempo per pensare, per scrivere e per rileggere. E forse quest'ultimo, il tempo,
è invece proprio l'elemento che meno abbiamo a disposizione nella vita frenetica di tutti i giorni.
Sommario
Non condivido le visioni catastrofiche sullo stato della lingua italiana e sull'ignoranza dilagante. Non credo che sia la prospettiva giusta per guardare a una lingua, che esiste da tanto tempo, e che si evolve naturalmente, come sempre ha fatto nel corso dei secoli. Mi sembra invece positivo che un così gran numero di persone si siano riavvicinate alla scrittura, anche solo per digitare "messaggini" al cellulare o per infilare una frase nella propria bacheca di Facebook. 0 che gli adolescenti passino il tempo a chattare o a scriversi sms. In una lingua che non è lingua, qualcuno potrebbe dire. Forse, ma state certi che quando devono affrontare argomenti intensi come l'amore o le discussioni in famiglia, o magari l'organizzazione di una manifestazione politica, ricorrono alla lingua italiana, quella che hanno imparato a scuola. Non dobbiamo aver paura e soprattutto non dobbiamo trasmettere alle generazioni future uno sguardo così desolato sulla loro apparente incompetenza, ignoranza o incapacità. Vanno invece trovati i modi per stimolare la curiosità linguistica offrendo la possibilità di capire il senso delle regole, la bellezza di un'espressione corretta e soprattutto di un testo chiaro e leggibile.
Prefazione
Con questo libro spero di avervi portato un po' di allegra curiosità. So di non aver risposto a tutti i dubbi e di aver lasciato un bel po' di incertezze, perché ricordate: la grammatica non è una scienza esatta! Ci sono norme da seguire, suggerimenti, ma la lingua è molto più di regole ed eccezioni: la lingua siamo noi. Spero comunque di aver risposto almeno alle domande più frequenti, prendendo spunto dalla parola o dall'espressione per accompagnarvi alle regole della grammatica, con le sue eccezioni e le sue oscillazioni, raccontandovi anche un po' di storia, aneddoti e curiosità che forse vi aiuteranno a comprendere quanto è espressiva e vitale la nostra lingua. Il mio consiglio è: scrivete, scrivete, scrivete! E poi rileggete e correggete: prendetevi sempre tutto il tempo che un atto così importante, qual è la comunicazione tra esseri umani, richiede.
Ringrazio i lettori della mia Grammatica italiana per tutti, gli amici, le collaboratrici, i bambini e le bambine che mi hanno sottoposto con entusiasmo i loro dubbi, le loro curiosità, i loro errori e mi hanno così fornito il materiale vivo, anzi "vivacissimo", per poter scrivere questo libro. Elisabetta Perini
Punti, virgole... e capoversi Punto e basta! Il capoverso Il punto La virgola Il punto e virgola 1 due punti Il punto interrogativo e il punto esclamativo 1 puntini di sospensione Tra parentesi Trattini e lineette Le virgolette Il discorso diretto Grassetto, corsivo e sottolineato Sil-la-ba-re Gli elenchi
Parole latine, parole straniere 13 14 16 18 22 24 26 28 30 33 35 37 40 43 45
Dove sta andando l'italiano? 47 10 bloggo e tu? I neologismi 48 I computer o i computers~>. Il plurale delle parole straniere 50 I curriculum o i curriculaì Il plurale delle parole latine 51 11 tight in autogrill Gli anglicismi 53 II whisky 0 /'whisky? L'articolo con i nomi stranieri 54 /ugoslavia o Vugoslavia? Le lettere straniere 56 Mando un e-mail o una e-mail? lì genere delle parole straniere 58 Question time per l'election day. Forestierismi in politica 60 Una location tutta italiana. Forestierismi nella lingua quotidiana 62 Un quintale di cotone. Gli arabismi nella lingua italiana 64 Verba volant ma scripta manenti I latinismi nella lingua italiana 66 Una vision per la mission. Itangliano in azienda 70
3
Giusto o sbagliato?
Essere 0 non essere? 71 72 Ad, ed, od? Aeroporto 0 aereoporioì 74 Caffè 0 caffé? Perché 0 perchè? 75 Cocomero 0 anguria? 78 80 D'accordo 0 daccordoì 81 L'Fbi 0 il Fbi,/a SPD 0 /'SPD? De//'Aquila, di L'Aquila 0 de L'Aquila? 82 Efficiente 0 efficente? 84 Entusiasta 0 entusiaste? 86 88 Ho scritto a degli amici lo do, lei sa, lui dà: dove va l'accento? 90 La forbice 0 le forbici? 92 L'altr'anno 0 l'altrannoì Tutt'uno 0 tuttuno? 94 Lo pneumatico 0 il pneumatico? 97 Ma però? 100 Nessun uomo 0 nessun'uomo? 102 Provinc/e 0 province? 104 Vali gie 0 vali gei 106 Oual è 0 qual'è? 108 Rubrìca 0 rubrica? Séguito 0 seguito? ni Sé stesso 0 se stesso? 112 Sia... sia 0 sia... che? 114 116 Stavolta gli dico 0 le dico...?
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Modi di dire Modi 0 mode? Affatto Assolutamente Badante Colf emigranti "C'haun bel sito" Che tempo che fa Cioè Dimmi di sì Doppie pericolose Ecco! Faccia a faccia 0 a faccia a faccia? Gratis 0 a gratis? lo e te La ministra, le ministre Parole che ingannano Piuttosto che Un attimino Vicino a Bergamo 0 vicino Bergamo?
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118 120 122 123 125 128 130 132 133 135 137 139 140 142 144 146 148 150
Verbi ribelli
Regole per gli "irregolari"? Apersi 0 apriil Bagnamoo bagniamo} Cossi e nocqui-, remoti e difficili C'era o c'erano un centinaio di migranti? Congiuntivi in crisi Devoodebboì Disdivo 0 disdicevo? Essere 0 avere? È dovuto andare 0 ha doluto andare? È piovuto 0 ha piovutoì Ha riflesso 0 ha riflettuto? Il sole oggi splende, ma ieri? lo vado, noi *vadiamo Passato prossimo 0 passato remoto? Soddisfo 0 soddisfaccio? Ti h 0 vista 0 ti h 0 visto ? Zittisco e zittirono
151 152 154 155 158 160 162 164 166 168 170 171 172 174
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Come si scrive?
Fra trappole e convenzioni Le abbreviazioni Le sigle e gli acronimi Maiuscole e minuscole I numeri L'ora La data La l ettera form al e La lettera informale L'email
U
183 184 187 190 195 198 200 202 206 208
Un pizzico di stile
Se scriviamo per farci capire... 211
Farsi capire Il "burocratese" 176 La lingua nel web 178 Tempo di "netiquette" 180 È gradito l'abito scuro 181 Un po' di retorica Bibliografia
212 216 220 224 227 230 237
Indice analitico degli argomenti e delle parole incerte 240
PUNTI, VIRGOLE E CAPOVERSI
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Punto e basta!
Avvertenza Le forme e le espressioni scorrette, inesistenti o non attestate nella lingua italiana (o latina) sono precedute, dov'era necessario, dall'asterisco (io *cuocei). Per i "consigli" dell'Accademia della Crusca si fa riferimento all'archivio delle Domande ricorrenti e delle Risposte ai quesiti nella sezione Consulenza linguistica della Lingua in rete (vedi http://www.accademiadellacrusca.it) aggiornato al mese di luglio 2011.
Che la punteggiatura sia importante ce lo dice perfino la lingua che parliamo tutti i giorni, dove il ricorso metaforico ai segni interpuntivi serve a rendere più espressive e incisive le nostre frasi: «allora siamo punto e a capo!», «non devi cambiare una virgola di come sei», «e questo te lo dico tra parentesi» e «puntini, puntini». Eppure proprio la punteggiatura ispira tanti dubbi e tante incertezze, non solo in chi ha poca confidenza con la pratica della scrittura, ma anche negli scrittori provetti. I nostri "bisticci" con i segni interpuntivi sono talvolta ben motivati, perché in effetti le norme che li regolano sono astruse e controverse, non soltanto per quanto concerne l'interpretazione di ciascun segno, ma anche per la sua definizione e e la sua classificazione. La colpa non è loro, ovviamente, ma della stratificazione di norme e di consuetudini che si sono succedute e a volte sovrapposte nel tempo. Rimane il fatto che, da qualsiasi punto di vista la guardiamo, la punteggiatura (insieme alla scelta dei caratteri e a una corretta suddivisione del testo in capoversi) può contribuire in modo determinante alla chiarezza e alla leggibilità dei nostri testi: proviamo a riscoprirla insieme.
Il capoverso In un testo scritto in prosa il capoverso è quella parte di testo compresa tra due "a capo". Il capoverso può essere segnalato in due modi: • rientrando di qualche battuta rispetto all'inizio della riga; • usando una riga bianca per separare il capoverso da quello precedente. In poesia, invece, il capoverso indica il primo verso di una poesia o di una strofa. Un capoverso contiene di solito più frasi e può essere lungo anche 10-20 righe (meglio non esagerare in lunghezza, per non affaticare il lettore!). Le frasi di un capoverso sono incentrate tutte intorno allo stesso argomento.
Uno strumento utile Spesso sottovalutiamo l'importanza del capoverso e pensiamo che si tratti semplicemente di un vezzo stilistico per abbellire i testi scritti oppure di uno strumento antiquato privo di utilità. Il capoverso può avere, invece, una funzione importante nella scrittura e può rivelarsi uno strumento utile a rendere più leggibili e comprensibili i nostri testi. Infatti, tramite questo espediente stilistico, possiamo suddividere il testo in piccole sezioni all'interno delle quali viene svolto un argomento. Quando l'argomento è completo si va a capo e si ricomincia con un altro ragionamento (e un altro capoverso). Ogni capoverso è concatenato logicamente al capoverso successivo seguendo una traccia che corrisponde alla struttura del nostro testo. I capoversi costituiscono, infatti, la struttura tematica del testo scritto. Ogni capoverso, se ben articolato, dovrebbe corrispondere a un pensiero e dovremmo poterlo sostituire con un titolo o una brevissima sintesi fatta di poche parole. Quando un testo è ben suddiviso in capoversi l'argomentazione sarà naturalmente più chiara e ben strutturata.
Esempi d'autore In questo libro i capoversi vengono suddivisi con la rigabianca come spesso si fa nei testi che contengono diversi elementi grafici, elenchi e tabelle 0 nei testi scritti per il web. Nella prosa letteraria il capoverso è segnalato soprattutto dal rientro.
Ecco due esempi tratti da autori contemporanei: Non so se mi crederete. Passiamo metà della vita a deridere ciò in cui altri credono, e l'altra metà a credere in ciò che altri deridono. Camminavo una notte in riva al mare di Brigantes, dove le case sembrano navi affondate, immerse nella nebbia e nei vapori marini, e il vento dà ai rami degli oleandri lente movenze di alga. Non so dire se cercassi qualcosa, o sefossi inseguito: ricordo che erano tempi difficili ma io ero, per qualche strana ragione,felice. improvvisamente dal sipario del buio uscì un vecchio elegante, vestito di nero, con una gardenia all'occhiello, e passandomi vicino si inchinò leggermente. Mi misi a seguirlo incuriosito. Andavo di buon passo ma faticavo a stargli dietro, perché sembrava che procedesse volando a un palmo da terra, e i suoi piedi non facevano rumore sul legno umido del molo. (Stefano Benni, Il bar sotto il mare) - Siete stati proprio bravi, - dice la signora Emenda. - In premio, oggi, vi laverò i capelli. Marco e Mirko preferirebbero un paio di schiaffi, ma sono troppo orgogliosi per mostrare il loro terrore. Ahimè, non tutte le cose della vita sono piacevoli come una caccia alla banda del borotalco. (Gianni Rodari, Novellefatte a macchina)
Il capoverso non va confuso con il paragrafo. Se il capoverso è quella parte di testo compresa fra due "a capo", il paragrafo è invece una parte del testo scritto, dotata di un'autonomia propria, all'interno del quale viene svolto un argomento completo. Il paragrafo può essere dunque composto anche da diversi capoversi. Il paragrafo è spesso una sottopartizione del capitolo. La struttura di un testo può quindi essere suddivisa in capitoli, paragrafi e capoversi. Per i paragrafi viene generalmente usato il simbolo § 0 l'abbreviazione par. Per i capoversi l'abbreviazione è cpv. Nella terminologia informatica, invece, il paragrafo è quella parte di testo inclusa tra due "invii".
Il punto Negli ultimi anni l'uso del punto, chiamato anche punto fermo, ha visto una crescita esponenziale in tutti i tipi di testo scritto. Un tempo, infatti, nella redazione di testi il punto veniva impiegato con una certa parsimonia, mentre ora se ne fa un uso più nutrito, sia perché lo stile è diventato più conciso, più diretto e si fa meno uso di subordinate e coordinate, sia forse per influenza dello stile giornalistico dove il punto è onnipresente! avendo sostituito virgole, punti e virgole e due punti. È comunque sempre preferibile costruire un testo formato da frasi brevi (e con più punti, dunque) piuttosto che provocare un attacco di ansia o di tedio nel lettore sottoponendolo a periodi interminabili, dove il punto finale li trova ormai tramortiti o totalmente distratti. Tecnicamente il punto indica una pausa lunga e segnala un cambio di argomento oppure l'aggiunta di informazioni diverse sullo stesso argomento. Se si vuole indicare uno stacco netto con la frase successiva, dopo il punto si va a capo. In ogni caso, dopo il punto fermo si ricomincia con la lettera maiuscola. Le norme che regolano l'uso del punto sono poche e semplici. Il punto va messo: « quando segnala la fine di una frase o di un periodo; • nelle abbreviazioni: pag. "pagina", per es. "per esempio", c/r. "confronta", ecc. "eccetera", dott. "dottore", sig. "signore"; in questi casi si continua a scrivere con la lettera minuscola; e nelle sigle: D.O.C. "Denominazione di Origine Controllata", D.L. "Decreto legge", R.S.V.P. dall'acronimo francese "Répondez, s'il vous plaìt" ovvero il nostro "È gradita conferma". Molto spesso, però, si tende a non usare il punto, soprattutto nelle sigle più diffuse, come ad esempio, Arci "Associazione Culturale e Ricreativa Italiana", Onu "Organizzazione delle Nazioni Unite" oppure nelle sigle dei partiti politici (Pd, PdL, Idv ecc.).
Parole e silenzi Come dice bene Bice Mortara Garavelli nel suo Prontuario di punteggiatura, "il punto rappresenta il limite fra parola e silenzio" e come tale possiede una forza espressiva straordinaria che va ben al di là della regola grammaticale. Serve infatti a mettere in risalto alcune parti del testo rispetto ad altre e si presta a sottolineare emozioni e sentimenti, quali l'indignazione, la presa di distanza, l'amore, il trasporto, come si può vedere dagli esempi che seguono.
Il Presidente del Consiglio prende posizione e dice che la Costituzione va cambiata. La Costituzione italiana. La nostra Costituzione. Il lavoro come marchio indelebile, trasmesso di generazione in generazione. Anche se, un tempo, il lavoro mancava. Ancor più di oggi, in certe fasi. Ma contava. II lavoro manuale quanto quello intellettuale. Un lavoro per la vita, per tutta la vita. Era la speranza e l'ambizione condivisa. Perché chi lavora c'è. Esiste. Ha un volto. Una identità. Appunto. (Ilvo Diamanti, La Repubblica, 07/04/2011) Il rapporto tra parole e silenzi va però regolato con molto buon senso. Così come un periodo troppo lungo, privo di pause, può risultare difficile da leggere e da capire, allo stesso modo un eccesso di punti può ottenere l'effetto di frammentare esageratamente il discorso indebolendo lafluidità e la leggibilità del testo.
Un po' di etimologia r
Punto deriva dal latino PUNCTU(M), participio passato del verbo PUNGERE, 'pungere', che significava inizialmente 'puntura' e anche 'forellino', quindi 'punto', Dalla parola puntosi dirama tutta la famiglia dei vocaboli relativi alla punteggiatura: interpungere, interpunzione, l'antico interpuntare e quindi anche punteggiatura. Nelle iscrizioni latine il punto veniva usato come segno divisore tra parola e parola, al posto del nostro spazio bianco, così da poter sfruttare al massimo la superficie disponibile per la scrittura: si trattava di un punto solo, di forma triangolare, tonda 0 quadrata. Questo metodo lo ritroviamo ancora nei quaderni di prima dei bambini, quando imparano a scrivere e inseriscono, tra una parola e l'altra un punto, non avendo ancora la percezione completa dello spazio che divide tra di loro gli elementi del discorso.
Norme grafiche 1. Il punto segue la parola, senza spazio. Lo spazio va messo sempre dopo il punto, prima della parola successiva. 2. Quando la frase finisce con una parola abbreviata (come ecc., per esempio), il punto non viene ripetuto, essendo già presente nell'abbreviazione.Alla conferenza erano presenti scrittori, cineasti, sceneggiatori ecc.
La virgola Nei manuali di grammatica si dice che la virgola, uno dei segni più usati e (ab)usati del mondo della punteggiatura, serve a indicare una pausa breve. Non dobbiamo tuttavia pensare a una pausa reale o a un respiro, come quelli che facciamo leggendo il testo adaltavoce.Senoimettessimolavirgolain corrispondenza delle pause che effettivamente facciamo quando leggiamo, sarebbe un tripudio di virgole. Per esempio: Se noi mettessimo, la virgola, in corrispondenza delle pause, che effettivamente facciamo, quando leggiamo, sarebbe un tripudio, di virgole. In realtà la virgola, con quel suo interrompere brevemente la frase, è lo strumento grafico che ci permette-meglio di ogni altro-di segmentare il testo di una frase nelle sue varie componenti, in modo da tracciarne e organizzarne la struttura.
• per separare la proposizione principale dalle subordinate: se mangi tutto, ti porto al parco. Esistono però anche dei divieti da prendere seriamente. La virgola non deve mai essere usata: • tra soggetto e predicato; si scrive perciò: Elena balla; il sole brilla; • tra predicato e complemento oggetto: Giovanna legge un libro; la nave solca il mare; • tra proposizione principale e proposizione soggettiva, oggettiva e interrogativa indiretta: è evidente che non hai studiato; penso che tu abbia ragione; dimmi a che ora torni.
La virgola, a causa del diminutivo e della sua supposta brevità, parrebbe un segno interpuntivo debole, mentre invece è un segno capace di scompigliare i testi. Questo piccolo apostrofo terreno ha infatti una forza micidiale; basta leggere queste due frasi per capire come la virgola ne cambi completamente il significato: Mentre Mario spolverava, il vaso cinese della nonna è caduto. Mentre Mario spolverava il vaso cinese della nonna, è caduto. Nel primo caso il costoso vaso cinese della nonna si è rotto in mille pezzi, nel secondo Mario potrebbe essersi fatto male davvero (ma il vaso è salvo). Vediamo un altro esempio. Se scrivo.Emma lascia in pace Lorenzo o Emma, lascia in pace Lorenzo! intendo comunicare due cose molto diverse tra loro: nella prima frase constato e descrivo una situazione, nell'altra invece invito, ordino a Emma di lasciare in pace Lorenzo.
La virgola, tra i segni interpuntivi, è quella che gode di maggiore libertà. I divieti sono molto pochi (ma decisivi: vedi oltre) e, in genere, viene usata con una certa autonomia, seguendo il sentimento e la verve creativa di chi scrive. Nonostante ciò, nelle grammatiche troviamo alcune indicazioni che ne descrivono l'uso e che ci possono essere d'aiuto nello scrivere un testo. Normalmente la virgola si impiega nei seguenti casi:
• nelle enumerazioni: ho invitato Paolo, Franco, Lorenzo, Silvia-, • negli incisi di qualsiasi genere: Luca, andando in bicicletta, ha fatto una brutta caduta; mia nipote, che hai conosciuto l'anno scorso, si è laureata-, . prima e dopo un vocativo: non parlarmi così, Paolo!; Paolo, non parlarmi così!-, • prima e dopo un'apposizione: Roma, la capitale d'Italia; il sindaco di Firenze, Matteo Renzi; • per separare le proposizioni coordinate introdotte dalle congiunzioni avversative anzi, ma, però, tuttavia ecc.: sono impegnata, ma verrò lo stesso; sto bene, anzi mi sento veramente in forma; • per separare le proposizioni subordinate introdotte dalle congiunzioni benché, sebbene, anche se, poiché, mentre ecc.: ci fermammo a parlare, benché fosse molto tardi; gli ho fatto un regalo, anche se non se lo meritava-, • nelle cosiddette "inversioni" (ovvero quando le frasi non sono costruite con il classico ordine: soggetto, Nelle enumerazioni che terminano con ecc., predicato, complemento): lo legge la virgola prima di ecc. può esserci oppure Paolo, il giornale; ne ho viste di cose no: pane, burro, miele ecc. oppure cani, gatinteressanti, io; l'anello, me l'ha rega- ti, canarini, ecc. lato Francesco; di soldi, non ne ho più-,
v Queste sono le regole che trovate in ogni grammatica. In realtà l'uso della virgola, come abbiamo detto prima, è fortemente legato alla personale scelta stilistica dell'autore, che ad esempio può usarla anche in modo "irregolare", per mettere in rilievo alcuni elementi rispetto ad altri o per dare un particolare ritmo narrativo al testo. Ci sono autori che hanno trasgredito perfino i divieti, ma a noi, comuni mortali, conviene attenerci alle indicazioni di base e usare questo segno con una certa "umiltà", senza voler essere eccessivamente creativi.
La virgola nel web
La virgola e la congiunzione e Fino a non troppo tempo fa le grammatiche consideravano l'uso della virgola prima della congiunzione e un errore (troppo ridondante, si diceva), nonostante se ne siano largamente serviti tanto Dante quanto Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi Ora questo uso non viene più considerato errato e,facendo attenzione, lo potete ritrovare spessissimo nei libri dei vostri autori preferiti,nei testi formali o negli articoli di giornale. Virqola e congiunzione servono, infatti, sia a mettere in evidenza l'elemento (parola o frase) che con la congiunzione si vuole inserire, sia a dare un ritmo sostenuto e vivo al testo. Ecco qualche esempio: Ricordatevi di lasciare a casa il telefonino, il computer e ViPod, e ovviamente anche il vostro iPad. Poi conoscendola afondo, della grammatica ho capito anche un'altra cosa, e cioè che è meno spigolosa di come la si dipinge e di come, in un certo senso, la gente vorrebbe che fosse. (Andrea De Benedetti, Val più la pratica) / linguisti conoscono due forme di creatività: quella che rispetta le regole e quella che le infrange, e magari finisce per cambiarle. (Stefano Bartezzaghi, Helmo di Don Chisciotte)
Norme grafiche La virgola va sempre attaccata alla parola che la precede e deve sempre essere seguita da uno spazio. Questa regola andrebbe seguita ovunque, nelle comunicazioni formali, in quelle informali, nelle mail e nei social network. Altrimenti i vostri testi, anche quelli personali e meno sorvegliati,risulteranno sciatti. Quindi non si scriverà: Sono andata a scuola, ho visto Elena ,Luca e Gianni e li ho invitati. Ma si scriverà: Sono andata a scuola, ho visto Elena, Luca e Gianni e li ho invitati.
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A proposito dell'uso della virgola e della congiunzione per dare ritmo alla narrazione; vediamo questo intenso brano di Alessandro Baricco dal suo Omero, Iliade-, E di nuovo entrò nell'acqua e si mise ad ammazzare-, Asteropeo, e Tersìloco, e Midone, e Astìpalo, e Mneso, e Trasìo, ed Enìo, e Ofeleste. Era una mattanza. E allora io mi misi a gridare. La coppia virgola-congiunzione e è del tutto giustificata anche dopo gli incisi, come nella seguente frase: Se ne andarono tutti, benché fosse ancora presto, e lasciarono il locale a due a due, disciplinatamente.
Un po' di... etimologia Virgola deriva dal latino VTRGULA(M), diminutivo di VTRGA(M), 'verga'. Significa quindi 'piccola verga'. Questo segno interpuntivo ebbe una vita molto movimentata, dall'inizio dell'uso della punteggiatura: da orizzontale a verticale e poi obliqua fino a prendere, finalmente, la sua definitiva forma e collocazione. , v
I testi per il web vanno generalmente costruiti utilizzando una sintassi più semplice rispetto ai testi destinati alla stampa cartacea. Una sintassi semplificata, adatta alla lettura su internet, presuppone un uso limitato degli incisi e delle proposizioni subordinate e quindi, ovviamente, anche delle virgole.
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Dicono della virgola "Tramare contro la virgola non paga mai. Bisogna invece amare la virgola sino alla virgolalatria, la virgola è pausa di ironia, è scalo del marinaio, è cielo in terra, la virgola ha umanizzato il mondo". (Francesco Merlo, La Repubblica, 03/03/2004)
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Il punto e virgola Ecco forse l'elemento meno amato (e apprezzato) della punteggiatura: il punto e virgola. Ouanti di noi ne fanno uso con regolarità? Pochi davvero, tant e che questo doppio segno sembra essere scomparso (ma è mai stato veramente usato?) dalle composizioni scolastiche, dalle tesine e dalle relazioni, perfino daqli articoli di giornale o da tanta letteratura contemporanea. Per non parlare della scrittura del web, dove il punto e virgola pare non avere alcun diritto di cittadinanza. LA GRAMMATICA DICE Nella norma grammaticale il punto e virgola indica, come dice il nome stesso, una pausa intermedia tra il punto e la virgola: una pausa non forte e decisa come il punto fermo e nemmeno leggera e delicata come la virgola. il punto e virgola può quindi essere usato: . per dividere due o tre frasi collegate fra loro, ma troppo lunghe per essere separate da una semplice virgola: oggi non mi sento troppo bene, anzi quasi quasi me ne andrei a letto; passerei un pomeriggio leggendo, pensando e riposando• e poi, alla fine, potrei di nuovo affrontare il mondo. e Nel caso di enumerazioni complesse: le cause di tale complessità sono una cattiva gestione della cosa pubblica che si ripercuote nel senso civico dei cittadini; l'incapacità politica e gestionale della dirigenza; il mutato clima socio-cultural e del paese. • Per introdurre un cambiamento di soggetto in frasi coordinate: Luigi aveva qià deciso che si sarebbe laureato entro l'estate; a meno che Elena non fosse partita con lui per sempre. Questi sono solo due esempi, ma il suo uso è davvero molto legato allapersonale scelta stilistica di chi scrive. E soprattutto alle capacità e competenze linguistiche, perché generalmente si fa molta fatica a capire quando e come inserire il punto e virgola: a volte ci risulta più facile spezzare le frasi con un bel punto fermo o inserire una virgola in più, piuttosto che fermarci a riflettere se un punto e virgola sarebbe
adeguato o meno. Le grammatiche e i manuali di scrittura esortano a intensificare l'utilizzo di questo bistrattato segno d'interpunzione, ma la scrittura prevede una certa libertà nella costruzione sintattica che, come nell'architettura, costruisce e progettai testi avvalendosi di stili diversi, che sono personali e adeguati al pensiero stesso dello scrivente, lì consiglio, quindi, è il seguente: leggete le regole e, quando avete tempo, provate a esercitarvi nell'uso del punto e virgola. Senza esagerare, ovvio.
La Costituzione italiana r
Come ci fa notare Bice Mortara Garavelli nel suo Prontuario di punteggiatura, un esempio molto chiaro di come si possa usare il punto e virgola nei testi di carattere più formale (o sorvegliato) è la nostra bellissima Costituzione, dove il punto e virgola non è evidentemente mero vezzo stilistico, ma ha la funzione di "separare i membri delle serie formate da frasi, anche perché in ciascuna di queste potrebbero occorrere delimitazioni di minor peso da segnalare naturalmente con le virgole". Cito, dal Prontuario, l'articolo 5, dove si vede chiaramente come il punto e virgola suddivida le varie frasi che compongono l'articolo, mentre le virgole racchiudono, all'interno della frase, una delucidazione, un inciso ("una e indivisibile"):
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua vizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua cipi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentram Ma vediamo anche un altro esempio: ART. 11
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e co zo di risoluzione delle controversie internazionali) consente, in condizioni di parità altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri ce e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internaziona te a tale scopo.
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I due punti Nella scrittura i due punti rappresentano uno strumento di comunicazione straordinario poiché non servono solo a indicare una pausa intermedia tra il punto e la virgola, ma possono rivelarsi un valido aiuto nella costruzione sintattica di una frase. Come segno di interpunzione hanno la funzione di introdurre o presentare qualcosa e servono normalmente: • per introdurre un elenco: tutto gli sembrava insopportabile: parlare, scrivere, perfino telefonare; • per introdurre un discorso diretto: l'uomo chiese alla donna: «Quando tornerai?»-, • per introdurre una spiegazione: . . . . . . Ma era pur bella così: bruna, sfavillante negli occhi, coi capelli nenssimi e ondulati; le labbra fine, taglienti, accese. (Luigi Pirandello, Ilfu Mattia Pascal) Inoltre possono essere usati in sostituzione delle congiunzioni che normalmente introducono una subordinata o una coordinata (come perche, poiché, in quanto che ecc.) e rendere quindi il testo più sintetico e incisivo. Sono un ottimo strumento, ad esempio, per evitare di scrivere due che o due perche nella stessa frase: / matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. (Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi) Potremmo dire che i due punti svolgono una funzione che va oltre il testo e la sintassi, poiché servono a risvegliare l'attenzione del lettore su quello che seque e che può essere un elenco, una spiegazione o una delucidazione. E come se dicessero al lettore: guarda, da qui in poi troverai parole o frasi che ti aiuteranno a comprendere meglio il testo che precede. I due punti possono anche creare una pausa nel discorso,un momento vuoto, spesso ricco di aspettativa.Tant'è che il loro uso è frequente soprattutto nello stile giornalistico dove si cerca sempre di mantenere alta l'attenzione del lettore introducendo un pizzico di suspence. Ecco alcuni esempi: Napolitano: «l'Italia sia sempre più fondata sul lavoro» (La Repubblica, 01/05/2011)
Fukushima come Chernobyh l'agenzia giapponese per la sicurezza nucleare ha innalzato al livello massimo di 7 la classificazione dell'incidente alla centrale nucleare giapponese danneggiata dal terremoto e dallo tsunami dello scorso 77 marzo. (La Repubblica, 12/04/2011) Da tre o quattro anni l'universo dei massmediologi è unanime nel considerare il giornalismo un pianeta moribondo: quotidiani in crisi di vendite, testate che chiudono una dopo l'altra e un'intera generazione - quella sotto i trent'anni - che non sì avvicina a un'edicola nemmeno con la pistola alla tempia. (L'Espresso, 11/04/2011) Si possono usare i due punti per due volte nello stesso periodo 0 nella stessa frase? I pareri, riguardo a questa questione, non sono univoci. I manuali di redazione, ma anche molte grammatiche, sconsigliano vivamente quest'uso. D'altra parte la prosa letteraria ci offre più di un esempio dei doppi due punti usati nella stessa frase. Per non parlare della letteratura scientifica, dove l'uso reiterato dei due punti svolge una funzione esplicativa (la spiegazione nella spiegazione o l'elenco all'interno della spiegazione) che risulta essere molto importante per la chiarezza e la precisione del discorso specialistico. Per quanto riguarda la nostra produzione letteraria, soprattutto per quella più sorvegliata, suggerirei di farne un uso moderato e ponderato. Lunedì vivace manifestazione nel centro dì Roma: studenti e sindacati finalmente uniti in un'unica battaglia: la difesa della Costituzione.
Il punto interrogativo e il punto esclamativo Il punto interrogativo si mette alla fine di una domanda e quello esclamativo serve per chiudere un'esclamazione. Il punto esclamativo e il punto interrogativo sono anche chiamati "marche dell'intonazione" perché sono lì per indicarci come dobbiamo intonare la frase che stiamo leggendo. Infatti la frase interrogativa va letta con tono ascendente: «Come ti chiami?»
«Che cosa fai?»
Mentre la frase esclamativa ha un'intonazione discendente: che spavento!
vieni subito qui!
ahi!, ahimè!, uffaI
L'intonazione di questi due tipi di frase è davvero molto importante. Pensate che la lingua spagnola la indica addirittura all'inizio della frase, con il punto interrogativo e il punto esclamativo capovolti: iCuàl es tu nombre? e jOuién te has creido que eresi
E la maiuscola? Dopo il punto interrogativo o esclamativo normalmente si ricomincia la frase con la lettera maiuscola. Se però la domanda fa parte integrante della frase, allora può essere seguita dall'iniziale minuscola. Gli autori si comportano, in questo caso, in modo molto autonomo: c'è chi usa la minuscola e chi preferisce comunque la maiuscola. "[ ] mi hai sentito Paride?, e tu, Deìfobo, e voi Polite, Agatone, Eleno [...]?" Alessandro Baricco, Omero, Iliade "- 0 Melampo dov'è? Dov'è il vecchio cane, che stava in questo casotto? - È morto questa mattina. - Morto? Povera bestia! Era tanto buono!..." Collodi, Le avventure di Pinocchio, Cap. XXII
Si tratta di un espediente grafico che permette, in caso di frasi particolarmente lunghe, di arrivare preparati per l'intonazione ascendente o discendente. In italiano invece, dove i punti rovesciati all'inizio di frase non esistono, spesso succede che, leggendo un'esclamativa o un'interrogativa lunga, ci salviamo all'ultimo soffio con un improvviso cambio d'intonazione per finire con tono ascendente o discendente a seconda del caso.
Con moderazione Sia il punto interrogativo sia quello esclamativo non vanno usati in numero maggiore di uno se non in casi particolarissimi. Al giorno d'oggi, specialmente i messaggi postati sui social network, sono invece conditi da innumerevoli UH! o ???? La regola del buon scrivere parla chiaro: l'uso reiterato di punti esclamativi o interrogativi è sconsigliato nella prosa letteraria e negli scritti formali, mentre è frequente nella pubblicità o negli scritti di carattere informale: bentornata a casa, Simona!!!; potresti non svegliarmi così presto, mamma??? Consigliamo in ogni caso di usarli con moderazione. A volte il punto interrogativo e il punto esclamativo vengono usati insieme (?!) per esprimere sorpresa e incredulità: davvero Claudio e Valeria hanno deciso di divorziare?! Anche questo espediente grafico va usato con molta cautela.
(?)(!) Nei testi scritti è possibile trovare, non di rado, un punto esclamativo o un punto interrogativo racchiusi tra parentesi. Questo impiego particolare dei due segni interpuntivi ha la funzione di commentare le parole o le frasi scritte precedentemente: • il punto di domanda (?) solitamente inserisce un dubbio (ma anche una punta d'ironia) su ciò che è stato scritto in precedenza, parola o frase; • il punto esclamativo (!), invece, si impiega stilisticamente per rimarcare un errore, per sottolineare un'incongruenza, una stupidaggine oppure l'enormità di ciò che è stato detto. Eccone due esempi: Il ministro per l'Economia ha promesso una riduzione drastica (?) della pressione fiscale. In Italia il tasso di occupazione femminile è al 48% (!) contro una media Ocse del59%.
I puntini di sospensione Ecco ciò che dicono le grammatiche su questo simpatico ed espressivo segno di interpunzione. I puntini di sospensione devono essere usati nel numero fisso di tre e servo™un tóso lasciato in sospeso (per convenienza, per imbarazzo per reticenza o per alludere a qualcosa ecc.): sf tratta di una persona un po... strana vorrei dirti una cosa... difficile da spiegare; ci sarebbe da pagare... un obolo al ^ p L u T / e le interruzioni nel discorso proprie del parlato: - ... allora... mi
sembra di capire
che... te ne vorresti proprio... andare via?
. raTchTusi tra parentesi tonde (...) o quadre [...] per indicare 1 omissione di una parte del testo che si vuole citare. I puntini di sospensione ci piacciono molto, ammettiamolo... e) piacciono perhéc permettono di non sentirci del tutto responsabili di quello che diciama • piacciono perché non trasformano pensieri, giudizi e opinioni m sentenze inappellabili. Ci piacciono perché sono la perfetta trascrizione grafica delle pause e delle esitazioni tipiche del linguaggio parlato. Un noto giornalista e scrittore, Beppe Severgnini, sostiene che il "puntinismo" è una malattia moderna che ha colpito le generazioni dei cmquantasessantenni (la generazione politicamente, culturalmente e sessualmente sospesa così la chiama nel suo Imperfetto manuale di lingue). E anche le generazioni tecnologiche, che scrivendo con il computer pigiano a più non posso il tasto del punto fermo per creare orde di puntini di sospensione. A dire il vero i puntini li hanno usati (con parsimonia, è vero) anche Alessandro Manzoni e perfino Dante. Ora se ne fa un uso più massiccio soltanto perché la scrittura si è fatta molto più informale e ^rve soprattutto per scrivere mail e post nella Rete, dove sentiamo tutti la necessita di stabilire un apporto di complicità e di intimità con i nostri interlocutori I puntini di sospensione sono l'arma strategicamente migliore per creare il terreno condiviso della comunicazione. Ovviamente, negli scritti pm formali essi vanno usati con grande, grandissima moderazione. I puntini di sospensione sono anche chiamati puntini di reticenza (dal latino REI,CÉRE che significa 'tacere'). La reticenza è una vera e propria figura retorica ché consiste nel lasciare in sospeso una frase, senza terminarla, lasciando immaginare al lettore la parte finale che invece viene espressa con i tre pun-
tini. Con questo espediente lo scrittore vuole dare l'impressione di non poter o non voler proseguire, lasciando volutamente libero il lettore di trarre le sue conclusioni o di intuire i contenuti non espressi direttamente: Signor giudice, qui si sta parlando di un imputato... particolare, oserei dire. Lei mi capisce... Vorrei vedere che mifaceste....! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta diforza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere.... eh! subito nelle furie. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. Il)
Norme grafiche i. I puntini di sospensione non si usano in modo anarchico, una volta due, una volta quattro: le regole della punteggiatura ne prevedono solo tre e non di più. Grandi scrittori li hanno usati anche quattro alla volta, ma si chiamavano Manzoni o Gadda, quindi... non facciamo paragoni e cerchiamo di attenerci alle regole! 2.1 puntini devono essere attaccati alla parola che li precede e seguiti sempre da uno spazio vuoto, cui segue il resto del testo. 3. Quando i puntini sono aliatine della frase non occorre aggiungere il punto fermo. 4. Dopo i tre punti si usa la maiuscola solo quando si inizia una nuova frase, altrimenti si continua con la minuscola. 5. Se i puntini di sospensione sono in principio di frase, si deve iniziare con la lettera minuscola, come si può vedere dall'esempio nel riquadro.
Tra parentesi La regola sull'uso della punteggiatura dice che le parentesi tonde si usano per ali incisi come le virgole e le lineette. Servono quindi a inserire, m una frase, una precisazione, una delucidazione, un commento: Manto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia) messa in sospetto e in curiosità dalia parolina all'orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c'era di nuovo. (Alessandro Manzoni, / Promessi Sposi, Cap. Il) L'Uzbekistan si allunga dalle falde occidentali del massiccio dell'Ala] (a est), che inquadrano la valle del Fergana (unafossa di sprofondamento), sino alle rive del vastissimo lago d'Arai (a ovest), residuo di un antico mare, a soli 53 ™ di altitudine, (da Wikipedia) Prendendo il caso di Siena (55mila abitanti), i ricercatori hanno confrontato sei importanti produttori di acqua minerale rispetto ali acqua pubblica. (La Repubblica, 21/04/2011) Molto spesso possono anche essere sostituite dalle virgole 0 dalle lineette, ma non sempre, perché una caratteristica delle parentesi tonde e di sottolineare una distanza più netta del contenuto dell'inciso rispetto al resto del testo.
Un po' di... etimologia Parentesi deriva (attraverso il latino PARÈNTHESIS) dal greco parenthesis che significava 'inserzione, interposizione', composto di para ( accanto )en ('in')-tithénai, ('porre'), quindi 'inserire, frapporre'.
Le parentesi tonde ci forniscono inoltre uno strumento ideale per inserire, all'interno del testo, una seconda voce narrante, creando diversi piani di narrazione che tanto possono offrire, in termini di espressività, ai nostri testi. Ne sapeva qualcosa Alessandro Manzoni, che nei Promessi Sposi utilizza questo straordinario espediente per inserire quelle annotazioni cosi vive e intense, che paiono venire da un secondo narratore: Ho visto io più d'uno ch'era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un'ora a quattrocchi col
dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. (Cap. Ili) Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso,pelo, e,gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de' frati. (Cap. Ili) L'uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con lafronte alta, con lo sguardo sicuro, colpetto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. (Cap. V) Ma ci sono moltissimi altri esempi, nella nostra letteratura, classica e contemporanea: Ma, fatti pochi passi, tornai indietro, e (per curiosità, via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di commiserazione su le labbra, entrai nella bottega e comprai quell'opuscolo. (Luigi Pirandello, Ilfu Mattia Pascal) Barbara e la madre di Nilowfer (è egiziana, non ricordo il suo nome) mi invitano a prender un caffè al bar, e io accetto. (Sandro Veronesi, Caos Calmo) L'uso delle parentesi è legato allo stile di scrittura personale, ma risente molto anche degli altri espedienti grafici che usiamo per introdurre gli incisi nel nostro testo. Se abbiamo già fatto ricorso a lineette e virgole, le parentesi possono venirci in aiuto. Un esempio per tutti: - Dirò il vero anche in questo, - proseguiva Attilio. - Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio... - (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch'era a farcele star tutte) -s'èfatto scrupolo di darle una briga di più. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XVI II)
Norme grafiche 1. Si apre la parentesi e si scrive il testo senza inserire alcuno spazio, allo stesso modo la parentesi che chiude l'inciso va posta immediatamente dopo la fine dell'ultima parola (senza spazio). 2. Ricordate sempre di chiudere la parentesi che aprite e di non chiudere una parentesi che non avete mai aperto: le parentesi sono una coppia inseparabile. 3. I punti esclamativi 0 interrogativi vanno posti sempre all'interno delle parentesi: i miei hanno deciso (finalmente!) di farmi uscire stasera. Invece, gli altri segni di interpunzione (virgola, due punti, punto) vanno sempre
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dopo aver chiuso la parentesi e mai prima di aprirla: mi colse di sorpresa (era già successo), ma non per questo evitai il suo sguardo. 4. Le parentesi servono anche per racchiudere le diciture N.d.T. (nota del traduttore), N.d.A. (nota dell'autore) e simili. Le parentesi quadre si usano molto raramente. Si adoperano soprattutto per inserire un inciso all'interno delle parentesi tonde: (l'antica città [Pompei]fu distrutta da un'eruzione vulcanica) oppure, con tre puntini al loro interno L—J, per segnalare che sono state omesse una o più parole o frasi in una citazione. r 1 Una volta al mese, il dottor Pardon e sua moglie invitavano i Maigret a cena nella loro casa di boulevard Voltaire. Due settimane dopo, andavano loro a cena in boulevard Richard-Lenoir. Le mogli ne approfittavano per fare le cose in grande [:..], mentre i mariti chiacchieravano tranquilli bevendo liquore di prugne 0 di lamponi. La cena era riuscita benissimo. La signora Maiqret aveva preparato la faraona ripiena, e il commissario era andato in cantina a prendere una delle ultime bottiglie di Chateauneuf-duPape [...]. (Georges Simenon, Maigret e l'informatore)
Anche nelle scienze matematiche si usano le parentesi tonde, ma hanno delle regole d'utilizzo proprie che... sconfinano dai territori delle regole gramEsfstono anche le parentesi graffe e angolate (quelle ad angolo ottuso, per intenderci) hanno usi molto specifici che rientrano nel linguaggio tecnico della matematica, della geometria analitica e della filologia. Ci sono poi le parentesi uncinate (0 angolari) e sono a forma di ango 0 acuto e si usano soprattutto nell'informatica, come il linguaggio HTML, per esempio Nella redazione dei testi servono, nella citazione di indirizzi internet, a racchiudere la U R L , cioè il nome del documento da ricercare nel web, come ad esempio: < http://www.wordreference.com/it>
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Trattini e lineette Non è sempre facile distinguere (e soprattutto usare in modo appropriato) questa coppia di segni che si differenziano soltanto per la loro lunghezza. Neppure la scrittura al computer ci aiuta, perché spesso la tastiera non prevede la possibilità di usare il trattino lungo ma solo quello breve, mentre un programma di scrittura come Word inserisce automaticamente il trattino lungo solo se si digita una particolare combinazione di tasti (un po' macchinoso, a volte). D'altra parte, ai nostri giorni, il computer ci permette di creare dei testi che formalmente sono uguali a quelli stampati in tipografia e che quindi devono saper rispettare, alla perfezione, le regole grammaticali e grafiche della punteggiatura. Molte persone ritengono che trattino e lineetta siano la stessa cosa, ma non è proprio così. Il trattino si usa: • per unire due parole che vengono collegate tra loro occasionalmente: il volo Bologna-New Orleans; un dizionario italiano-francese; un corteo antiinceneritore; • in alcune parole composte, anche se la tendenza è di scriverle senza trattino: auto-ironia, socio-linguistica (ma anche autoironia, sociolinguistica)-, • nella suddivisione sillabica: pe-sca-to-re,fi-du-cia-, • a fine riga, per dividere una parola (invece del trattino, soprattutto nei testi scritti a mano, si può usare anche il segno =). Attenzione! Il trattino breve non va mai usato per delimitare un inciso. I due trattini lunghi, detti lineette, si possono usare: • per delimitare una proposizione incidentale in sostituzione della virgola e delle parentesi: La ragazza - a detta di tutti-era la migliore ballerina della città. Giunsi alla scuola, - avevo io la chiave, - entrai,feci un giro per le aule aprendo i vetri come m'avevano insegnato. (Italo Calvino, L'entrata in guerra) • al posto delle virgolette, per delimitare il discorso diretto: - Dove stai andando? - chiese la ragazza al suo compagno di viaggio. - Diavolol par morta, - disse uno di coloro: - se fosse morta davvero? (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XX)
Norme grafiche La distinzione grafica fra trattino e lineetta (breve il primo, lunga la seconda) ci dovrebbe aiutare a non cadere in confusione: 1. il trattino (-) va sempre unito alla parola e non prevede spazi: il pensiero 'ctiudaico-cristiano, ìa socio-linguistica, il va-e-vieni-, 2. le lineette (- -), invece, richiedono uno spazio prima e uno dopo ciascuna di esse* Oaai / riferimenti tradizionali - i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori sono stati erosi dal disincanto del mondo. (Franco Volpi, Il Nichilismo , quando l'inciso, aperto da una lineetta, termina con il punto fermo, la lineetta non va ripetuta: visitarono insieme Venezia - come in sogno immersi nelle brume novembrine.
Attenti all'inglese Attenzione a non farsi influenzare dall'uso tipografico anglosassone - specialmente americano - che spesso non inserisce alcuno spazio tra la parola precedente e quella seguente la lineetta, chiamata in inglese em dash-. "AH four of them-Bob, Jeffrey, Jason, and Brett-did well in college."
Le virgolette Le virgolette possono essere di diversi tipi: alte (" "), basse (« ») o semplici (' '). LA GRAMMATICA DICE La regola, riguardo a questo segno grafico, è chiara e semplice da seguire, basta solo ricordarsi che le virgolette, di qualsiasi tipo, una volta aperte vanno sempre chiuse. Normalmente le virgolette alte e le virgolette basse si usano: • per delimitare un discorso diretto: la donna allora gli chiese; «Mi ami ancora?»; • per delimitare una citazione nella quale sono riportate le parole esatte di qualcuno: il ministro ha detto chiaramente che "il governo ha fatto tutto il possibile"; • per evidenziare una o più parole o una frase intera, oppure per sottolinearne il significato particolare (parlando si dice, infatti, "tra virgolette"): Luca è un "animale notturno". Le virgolette semplici, dette anche apici, si usano spesso per indicare il significato di una parola: heart, in inglese, significa 'cuore'; la parola diatriba significa 'scritto o discorso polemico'oppure litigio, alterco'. Le virgolette alte e basse, usate per le citazioni, si rivelano uno strumento comunicativo di grande effetto, poiché introducono nel testo scritto (ma anche in quello parlato, quando usiamo l'espressione "tra virgolette") una sorta di molteplicità di pensiero.Tramite queste piccole virgole appese in alto possiamo riportare citazioni di pensieri altrui - condividendoli o prendendone le distanze - come in una "polifonia" (come la chiama Bice Mortara Garavelli) che trasforma un testo monodico in un coro di voci chiamate in causa da chi scrive. Questo segno apparentemente leggiadro può - se dimenticato, o peggio, se aggiunto inopportunamente - causare veri e propri incidenti diplomatici: ne sanno qualcosa i giornalisti, che a volte ne fanno un uso davvero improprio. Ho letto ultimamente su una pagina di giornale:
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In Giappone arrivano gli esperti da tutto il mondo: «Fukushima come Chernobyl». Poi, andando a leggere l'articolo, trovo che le virgolette sono misteriosamente sparite e non si sa più chi, o se qualcuno, abbia veramente pronunciato quelle parole.
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Tra virgolette Le viraolette servono anche per prendere le distanze da una parola o da una frase S e lo scrivente inserisce in un testo e, pur essendo sua.la-erta" per faro sapere che la riporta con ironia o con sarcasmo. Spesso pero vengono usate con esagerazione, e si ha l'impressione che chi scrive non abbiali coraggio di e s p r S e il suo pensiero con sincerità e coraggio e piuttosto abbia bisogno di nascondersi dietro a un segno che vuole dirci: "qui lo dico e qui lo nego . Ouando parliamo per segnalare che quello che stiamo dicendo è posto tra R e t t e ci affidiamo a un tipo di intonazione particolare molto ironica oppure avvertiamo il nostro interlocutore dicendo tra virgolette e accompaonando spesso questa espressione con il - tanto criticato - gesto che le disegna nell'aria con entrambe le mani: // cantante Michael Jac^or contw^ sempre a "essere vivo", grazie all'amore incondizionato dei suoi milioni di fan.
Norme grafiche , Non ci deve essere spazio alcuno tra le virgolette di apertura e il testo che seque, neppure tra il testo e le virgolette di chiusura: "Va'tu al tempio diAtena"le disse. (Alessandro Baricco, Omero, iliade) 2 11 punto fermo va messo subito dopo le virgolette. "Chi è là nel buio? Cosa cercate?" (Alessandro Baricco, Omero, Iliade)
Le virgolette basse («») vengono chiamate anche "a sergente" o "caporali", perché ricordano i gradi militari.
SI discorso diretto Questo spazio è dedicato al discorso diretto, ossia a quegli strumenti linguistici ed espedienti grafici che ci permettono di inserire, all'interno di un testo scritto, la riproduzione fedele (o presunta tale) di ciò che viene detto o è stato detto, da altri o dal narratore stesso. La lingua italiana ci offre, a questo scopo, diverse possibilità che possiamo usare a seconda del nostro gusto e del modo in cui è strutturato un testo. Se sfogliamo i libri vediamo che ogni casa editrice adotta generalmente una modalità, tra quelle disponibili, per distinguere il discorso diretto. I segni grafici che si possono impiegare per segnalare che all'interno della narrazione si introduce un discorso parlato sono: • le virgolette alte " ", precedute dai due punti; • le virgolette basse « », precedute dai due punti; » la lineetta - , senza i due punti. Le difficoltà maggiori nel riportare il discorso diretto riguardano l'uso della punteggiatura, la presenza o meno di spazi e il mantenimento dell'uniformità nel loro eventuale impiego. Esempi con virgolette alte: Risposi: "Sono cose che capitano il giorno prima". "Il giorno prima di che?" "Il giorno prima della felicità". (Erri De Luca, Il giorno prima della felicità) L'uomo abbassò lo sguardo. Poi disse piano: "lo sono Ulisse. Vengo da Itaca, e lì, un giorno, tornerò". (Alessandro Baricco, Omero, Iliade) Esempi con virgolette basse: «Oh», diss'io lui, «se l'altro non tificchi / li denti a dosso, non ti sia fatica / a dir chi è, pria che di qui si spicchi». (Dante, Inferno, c. XXX, vv. 34 segg.) «E chi dovrebbe sposare, secondo te?» domandò con una certa irritazione. «Ma suo cugino, l'avvocato Rosello» rispose la vecchia fermandosi a scrutarlo in faccia. «Perché proprio lui?».(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo) Esempi con le lineette: Uscendo dallo stabilimento, Jerry mi raggiunse tutto fiero. - L'ho baciata, -mi disse. Era entrato nella cabina di lei, esigendo un bacio d'addio; lei non vole-
va ma dopo una breve lotta gli era riuscito di baciarla sulla bocca. - Il più è fatto, ora, - disse Osterò. (Italo Calvino, L'entrata in guerra)
SI discorso diretto "pensato"
I ^S^^t-^^doi^b^dio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. I)
Il discorso diretto vale anche per i discorsi pensati o immaginati dal narratore o da uno dei personaggi. In questo caso di norma si usano le virgolette alte, ma può anche accadere di vederlo, nei libri, racchiuso tra virgolette basse o tra apici. Ovviamente sia in un caso che nell'altro il discorso "pensato" dovrà distinguersi da quello parlato usando segni interpuntivi del discorso diretto diversi tra loro. Ecco qualche esempio:
Norme grafiche
Le virgolette alte e basse
! Le virgolette servono a distinguere il discorso parlato da quello narrato. Quindi non possono mai sostituire la punteggiatura di un testo: significa die nel caso di incisi, verranno a sommarsi alle virgole dell inciso e non a sostituirle. Si scriverà quindi: «Non ne posso più», disse la donna, «del tuo stupido egoismo» e non: «Non ne posso più» disse la donna «del tuo stupido 2 1e°leTr[golette
chiudono la frase, il punto deve essere messo dopo le virgolette- «È una giornata bellissima», disse Anna, «vorrei visitare,1 castello». 3. Ouando il discorso diretto termina con un punto interrogativo, esclamativo o con i puntini di sospensione, essi devono rimanere ali interno delle virgolette proprio perché sono elementi strettamente legati ali intonazione del testo Mentre il punto che chiude il discorso diretto andra subito dopo le virgolette: "Chi è là nel buio? Cosa cercate?". "Andatevene via immediatamente. Tutti!", disse sdegnato. "Cerchi qualcuno da mandare nell'accampamento troiano, a spiare le loro mosse? Non ti sarà facile trovarlo..." ( Alessandro Baricco, Omero, Iliade)
La lineetta 1. La lineetta che chiude una battuta si mette soltanto se poi continua la nar^ T p S è fatto, ora, - disse Osterò. (Italo Calvino, L'entrata in guerra) 2. Tra la lineetta e le parole, prima e dopo di essa, va sempre lo spazio: -Guarda chi sta arrivando!-esclamò; a H i i l _ h u Ì T . Se dopo il discorso diretto segue la narrazione, prima della lineetta va la vir3 omeqlio: parola-virgola-spazio-lineetta: Niente, niente, - rispose don Abbondio. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. I) Ho capito;-disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, - si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare. (Collodi, Le avventure di Pinocchio, I) g o l a
«Quanto mi costerà tutto ciò?», pensavo tra me e me, «Una fortuna, di sicuro!». «Senti senti» disse: ma sollevato, quasi divertito. Il postino pensò 'niente corna'. Domandò «E che è, una minaccia?». (Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo) Pensai: "E se la baciassi?". Invece la guardai negli occhi e dissi: «Hai mai letto Proust?»
Grassetto, corsivo e sottolineai© Da quando usiamo il computer per redigere i nostri scritti (pubblici e privat i non dobbiamo soltanto preoccuparci di strutturare bene il nostro testo nei suoi contenuti e di saperlo formulare al meglio dal punto di vista linguistico egrammaticale; siamo anche tenuti a occuparci della sua realizzazione q afìca " r e ciò e istono diversi strumenti, come la scelta del carattere e S interlinea o il ricorso al grassetto, al corsivo e alla sottolineatura. Un tempo ql urlici a conoscere i segreti per la resa grafica di un testo erano tfpoqrafi ai nostri giorni i programmi di videoscrittura ci hanno messo a disposizione di mouse tutti gli strumenti adatti allo scopo. Ma ciò non significa che i nostri testi ne traggano sempre giovamento. grassetto - detto anche neretto - , il corsivo e il sottolineato sono e pnnapal tecniche grafiche per mettere in evidenza una parola o una frase in un te o A volte li usiamo un po' a caso, pensando che siano soltanto degli abbellimenti" grafici e ignorando il fatto che esistono regole ferree anche pCT il loro utilizzo. Vanno infatti usati con discernimento e soprattutto con U l a b i l i t à di una pagina non aumenta se si adorna il testo - in modo creatfvo fpersonale - di grassetti, sottolineature e corsivi. Al contrario, un eccesso di messa n ril evo può disorientare e confondere il lettore. Come sempre vale la S a della chiarezza e della sobrietà: alla chiarezza di contenuti e di struttura deve corrispondere la chiarezza della presentazione grafica.
Istruzioni per l'uso Innanzitutto diciamo subito che è bene scrivere un testo in tondo (ovvero con Carattere normale). Poi, in caso di bisogno, possiamo fare ricorso a questi " r S s l o : S f a m a t o anche neretto, serve a mettere in evidenza una parola o una frase. Va usato con grande cautela. Si scrivono normalmente in grassetto- i titoli i sottotitoli e le informazioni che devono immediatamente balzare agli occhi del lettore (una data importante per una riunione, una somma da pagare, la parola-chiave intorno alla quale e stato costruito il nostro ragionamento). Un testo è bello e leggibile anche senza parole eviden. n f o S v f e ' n e utilizzato per i termini tecnici, per le parole latine e le parole straniere sentite ancora come estranee all'italiano (mission, no-fiy zone ecc.)
Quando pubblichiamo un'intervista, è buona norma scrivere le domande in grassetto (o in grassetto corsivo). Alcuni editori preferiscono invece usare il semplice corsivo. Questi espedienti grafici servono sia per rendere l'idea di un testo a "due voci", sia per agevolare la lettura individuando con immediatezza quali sono le domande e quali le risposte. "La vita è bella" a parte, a quale dei film per i quali ha scritto la colonna sonora è più legato o ricorda con maggiore nostalgia? La nostalgia è variabile, di mese in mese, e rischia di farti vivere con la testa girata all'indietro. La nostalgia è la vigilia del capolinea. Va tenuta a bada. Preferisco pensare a oggi, anzi, a domani: "La conquète", un film di Xavier Durringer che ho musicato di recente, in uscita a maggio in Francia e la mia prossima opera da concerto: "Viaggi di Ulisse". (Intervista a Nicola Piovani, MicroMega, 4 aprile 2011) Una riga vuota è, invece, d'obbligo tra la risposta e la nuova domanda.
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e mai per quelle ormai entrate a far parte della nostra lingua (computer, film, sport ecc.). In corsivo vanno anche quelle parole straniere o latine che sono percepite come tecniche o specialistiche [de iure, ad maiora, default ecc.). Web e internet vanno sempre scritte in tondo. Dal momento che il corsivo deve essere usato per i termini tecnici o specialistici all'interno di contesti non tecnici o specialistici, è ovvio che quando ci troviamo in ambito tecnico non avremo bisogno di ricorrere al corsivo e potremo lasciare le parole in tondo. Il corsivo serve anche per le citazioni, i titoli di libri, gli articoli e le composizioni musicali. Inoltre, come il grassetto,può essere utilizzato con valore enfatico, per evidenziare alcune parole all'interno di un testo, ma è consigliabile usare questa modalità con grande parsimonia. • Il sottolineato corrisponde al corsivo. Se si usa l'uno è bene evitare l'altro in uno stesso testo. Inoltre, visto che sono equivalenti, non si dovrebbero usare mai le due funzioni, corsivo e sottolineato, insieme; potremo allora scrivere esempio o esempio, ma mai esempio,
Nel web Un testo scritto per il web necessita di attenzione particolare sia alla scelta del font (il carattere tipografico) sia alla sua formattazione. Questo perché la lettura
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a video risulta più faticosa di quella su carta. Il lettore s, sofferma più-brevemente sui testi e habisogno di essere guidato nella lettura, per questo può essere utile mettere in evidenzale parole o le frasi sulle quali vogliamo attirare 1 attenzione e attorno alle quali abbiamo costruito il nostro testo. A questo scopo 1 utilizzo del arassetto risulta molto efficace per facilitare la lettura di una pagina. Inoltre isso focalizza l'attenzione dei motori di ricerca su ciò che vogliamo evidenziare aiutandoci a strutturare un buon ipertesto. I motori di ricerca, infatti, spesso utilizzano quelle marcate in grassetto come parole-chiave che identificano il n°sottolineato rieì web^ i inserisce invece per indicare il collegamento a un link p?r^s^mpiawwwaccademMeIlaCTUscajt). In tutti gli a tri casi e inopportunogeneraconfusioneproprio perché è ormai associato all'idea di collegamento ipertestuale.
Il carattere tipografico Quando scriviamo al computer è importante saper scegliere il carattere tipografico con cui redigere il nostro lavoro. Il carattere tipografico è chiamato anche, all'inglese, fonte può aiutare a rendere più leggibile e comprensibile il nostro testo. Esistono due tipi di caratteri (o font): . 1 i caratteri con le grazie (detti anche romanio serif), caratterizzati da piccole appendici orizzontali, come il Times New Romano il Bodoni, per intendersi;
2 i caratteri senza grazie (detti anche bastonio sans serif), come l'Helvetica o il Verdana. I programmi di video-scrittura mettono a disposizione tanti tipi di carattere e spesso siamo tentati di usare i caratteri più stravaganti (vedi l'irresistibile successo del Comic Sans SM). D'altra parte se la carta stampata usa soprattutto font "istituzionali" come il Times New Roman e l'Helvetica, qualcosa vorrà dire: si tratta infatti di caratteri sobri ed eleganti, che offrono un elevato livello di leggibilità e che rendono bene graficamente anche quando vengono declinati al grassetto, corsivo e sottolineato. à ^ d ? )
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Cap. 7. La ìirigua nel web
Sil-la-ba-re A sillabare si inizia presto, fin dalla scuola primaria. Eppure ci rimane spesso una sensazione di insicurezza quando, arrivati a fine riga, ci troviamo di fronte alla spezzatura di un vocabolo, soprattutto quando si tratta di parole più complesse di quelle che usiamo normalmente. La scuola opera una forte censura nei confronti delle sillabazioni errate e, giustamente, non ammette giustificazioni di fronte a una s lasciata a fine rigo (ad esempio ris-torante). Si scrive sempre meno a mano e quindi i problemi della suddivisione in sillabe e spezzatura delle parole dovrebbero essere meno frequenti. Invece, purtroppo, i programmi di scrittura che usiamo non sono sempre perfetti: a volte si rifiutano (per ignoranza) di suddividere una parola e la rimandano tutta intera alla riga successiva; altre volte si permettono di spezzare le parole in modi non in linea con le regole della lingua italiana. Vale la pena, dunque, rispolverare le care vecchie regole sulla divisione sillabica: • una vocale o un dittongo iniziali di parola seguiti da una sola consonante, costituiscono una sola sillaba: a-mo-re, au-tun-no, u-ii-vo, e-sem-pio-, • le consonanti semplici (che non sono raddoppiate o unite ad altre consonanti) fanno sillaba con la vocale che segue: li-mo-ne, vo-la-re, pa-re-re-, • le consonanti doppie si dividono sempre tra due sillabe: mam-ma, sas-so, fer-ro, aì-ìe-gro. Così anche il gruppo -cq(u)-. ac-qua, nac-que, ac-qui-sto-, • i gruppi di due o tre consonanti che possiamo trovare anche in principio di parola (br, cr, tr, gr oppure bl, ci ecc.) non si dividono e fanno sillaba con la vocale seguente: a-bra-si-vo, sa-cro, ma-gro, te-a-tro, o-blò, eu-cli-de-o, a-tle-ta;
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Le norme che abbiamo fin qui elencato vanno applicate anche alle parole composte con i prefissi di origine latina dis, sub, super, trans. Dunque, secondo la regola, la parola transatlantico si dividerà in tran-sa-tlan-ti-coe non in trans-a-tlan-ti-co• allo stesso modo distrofia, disonore, subaffittare, superatticosaranno sillabate rispettivamente di-stro-fia, di-so-no-r su-baf-fit-ta-re, su-pe-rat-ti-co. Nel tempo, infatti, l'uso quotidiano della lingua, che non è qualcosa di cristallizzato ma, come abbiamo già avuto modo di dire, un "essere" vivo in continua evoluzione, ha attenuato in questi composti, fino a perderla, la distinzione fra il prefisso e la parola base. C'è però chi sente ancora fortemente la presenza dell'antico prefisso latino ed è per questo motivo che la sillabazione di parole come superattico o trasportare è spesso oggetto di appassionati scambi di idee fra studiosi e cultori della materia nei forum di prestigiosi siti web interamente dedicati alla grammatica italiana.
Le regole della suddivisione in sillabe sono state codificate ufficialmente soltanto nel 1969 dall'Ente Nazionale italiano di Unificazione (norma UNI 6461-97). L'UNI è un'associazione privata senza fine di lucro, con sede a Milano, fondata nel 1921 e riconosciuta dallo Stato e dall'Unione Europea, che studia, elabora, approva e pubblica le norme tecniche - le cosiddette "norme UNI" - in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario. . i qruppi di due o tre consonanti che invece non troviamo mai in principio di parola (come bd, bs, art, cn, dm ecc.) si dividono e la prima consonante va con la vocale precedente, mentre l'altra o le altre con la vocale della sillaba seguente- car-ta, cal-do, san-to, om-breì-lo, im-por-to, a-rit-me-ti-ca, sub-do-lo-, . la s seguita da una o più consonanti fa sillaba con le consonanti seguenti: pa-sto-re, e-sco, mostro; « digrammi e trigrammi non si dividono mai: pu-gno, lascia, pesce, fo-glw, . i dittonghi e i trittonghi non si dividono mai: pio-ve, pie-de, pausa, a-iuo-la-, . le vocali in iato si dividono in due sillabe diverse: vi-a-le, ma-e-stro, pa-e-se: Se nonostante le regole, doveste trovarvi in difficoltà nella spezzatura di una parola vi consigliamo di consultare un buon dizionario, dove accanto al lemma viene normalmente riportata anche la sua suddivisione in sillabe.
L'apostrofo in fin di riga? L'apostrofo in fin di riga è ammesso e spesso usato nei giornali. In genere, però si preferisce andare a capo prima o dopo l'apostrofo. Per esempio, stiamo scrivendo la frase: andrò dall'amico di Alice. Se ci troviamo in fin di riga proprio dopo dall', dall'amico si potrà dividere in dal-l'amico o dall'a-mico. Evitiamo sempre di conservare la sillaba [dallo-amico)-. non rispetta l'uso normale della lingua e, quando riportiamo frasi altrui, non corrisponde sicuramente alla volontà stilistica dell'autore.
Gli elenchi Capita spesso, quando scriviamo, di dover inserire un elenco, anche breve, all'interno di un testo. Gli elenchi sono molto utili perché ci permettono di "fare ordine" nelle cose che abbiamo da dire. Un elenco aiuta il lettore a comprendere anche testi complessi e articolati, perché presenta le enumerazioni di parole o frasi sotto forma di una lista. Anche gli elenchi hanno le loro convenzioni, che ne regolano l'uso. Ci sono tre tipi di elenchi: • gli elenchi che non esprimono un senso ordinato e progressivo e vengono segnalati con un trattino o con un pallino (come nel nostro caso) oppure con un altro segno grafico tra quelli a disposizione nella video-scrittura,o gli elenchi che si inseriscono in un testo e sono preceduti da una frase che termina con i due punti (stile testo); ® gli elenchi che invece costituiscono un periodo autonomo e completo, e le voci vengono considerate come elementi indipendenti (stile elenco). Ouesto elenco non è mai preceduto dai due punti. Negli elenchi stile testo si devono rispettare le seguenti regole: 1. si usa l'iniziale minuscola se la voce prosegue la frase introduttiva che di solito termina con due punti; 2. ogni voce dell'elenco termina con un punto e virgola o una virgola (a seconda della lunghezza e della composizione della frase); 3. l'ultima voce si deve sempre chiudere con un punto fermo. Anche gli elenchi stile elenco hanno le loro convenzioni. a) Per ogni elemento dell'elenco si usa l'iniziale maiuscola. b) Ogni frase dell'elenco finisce con un punto. c) Se però le voci dell'elenco sono una lista di parole non organizzate in frasi, il punto non si inserisce. Ecco un esempio di lista "stile elenco" con il punto: a) Riflettere bene sull'argomento prescelto prima di scrivere. b) Costruire la struttura del testo (o scaletta). c) Scrivere il titolo di ciascun paragrafo. E un esempio di lista stile elenco senza punto: Memorandum per l'aspirante scrittore. a) Pensieri trasparenti b) Cuore libero c) Umiltà
Ouando vogliamo inserire un secondo elenco all'interno di un elenco (in questo caso il secondo si chiamerà elenco di secondo grado) è bene usare una numerazione diversa: lettere per il primo e numeri per il secondo o viceversa. Prima di scrivere è bene: 1. procurarsi il materiale necessario: a) quaderno per appunti b) penne e matite (ben appuntate) c) un computer (meglio se portatile); 2. controllare di avere sulla scrivania un vocabolario della lingua italiana e un dizionario dei sinonimi e dei contrari; 3. acquistare un manuale affidabile di grammatica della lingua italiana.
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Cifre o lettere? .
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Negli elenchi che vogliono esprimere un senso ordinato e progressivo si possono usare, a piacere, cifre arabe (1, 2,3), cifre romane (1,11, ni), lettere dell'alfabeto minuscole (a, b, c) 0 maiuscole (A, B, C). Il numero 0 la lettera possono essere seguiti da un punto 0 da una parentesi che chiude: 1. oppure 1), a. oppure ancora a).
Dove sta andando l'italiano?
Appelli indignati si levano in difesa della nostra bella lingua, come se fosse destinata a soccombere di fronte all'invasione di tante parole straniere. A dire la verità l'italiano, come tutte le lingue, si è arricchito nei secoli grazie anche ai "forestierismi", quei termini di origine straniera entrati nell'uso comune dei parlanti grazie agli scambi economici, politici e culturali che da sempre vivacizzano, e non solo da un punto di vista linguistico, le relazioni internazionali: la nostra lingua ha inglobato nel tempo prestiti linguistici da duecentocinquanta lingue, diverse per apporto qualitativo e quantitativo ma presenti tutte con i loro esotismi, dal kalashnikov russo al chimono giapponese. Lo scambio interlinguistico è e sarà sempre un elemento di grande ricchezza, nell'evoluzione delle lingue, anche se in verità talvolta sarebbe bene praticare la via della moderazione senza eccedere, sull'onda dell'entusiasmo, nell'avere troppe vision dopo rutilanti brain-storming con i web marketing manager durante i light lunch tra un lifting e un briefing... Gli ingredienti per affrontare serenamente anglicismi, latinismi e forestierismi in genere? Conoscenza delle regole, competenza linguistica, flessibilità e 'tanta curiosità libera da pregiudizi.
Un po' di... etimologia
lo bloggo e tu?
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I neologismi Internet e il web hanno aperto uno spazio virtuale e globale caratterizzato da un nuovo modo di relazionarsi e di entrare in contatto con il mondo intero. Come tutti gli universi umani, anche questo ha prodotto una ricchezza di neologismi (soprattutto di matrice anglo-americana, è ovvio) che nominano i nuovi soggetti e le nuove azioni di questo mondo. Parole nuove che globalizzano il mondo e che molti puristi della lingua guardano con sospetto. Bisogna forse abituarsi all'evidenza: alcuni settori, come quelli dell informatica o deìle scienze, mettono in circolazione molte parole - ovviamente mg esi - che nascono già specializzate e che sono chiaramente destinate a quello scopo. Come possiamo rifiutarci di accoglierle nella nostra lingua quando sono cosi precise e adatte a nominare nuove cose e nuovi concetti? Per quanto riguarda blog possiamo tutti convenire che, anche solo per il suono accattivante, si presta davvero a essere accolta con entusiasmo! Blog è forse una delle parole più fortunate del mondo degli internauti. Entrata nell'uso dell'italiano almeno dall'anno 2000 e nonostante 1 acerrima concorrenza dei social network, blog resta comunque un termine centrale e molto vitale. Infatti, come tutte le parole che si rispettino, blog ha prodotto una sua nutrita famiglia semantica, ovvero una rete di parole che orbitano intorno ad essa e che da essa hanno origine per derivazione 0 composizione. bloggistico bloggista/blogghista
blogger
blogosfera
bloggare audioblog
videoblog
edublog
Il blog è un sito che contiene un diario personale con riflessioni, commenti e link verso altri siti che l'autore reputa interessanti. lì blogger (nome) è lo scrittore di blog in rete: 1 blogger del mondo cattolico incontrano le alte sfere del Vaticano.
n termine blog nasce da una contrazione della parola inglese web-log, voce composta da web (rete) e log (diario di bordo) e che significa 'diario in rete'. Il fenomeno è nato in America alla fine degli anni '90 e si è diffuso in Italia a partire dall'anno 2000, quando sono nati i primi servizi gratuiti con i quali chiunque avesse una connessione a internet ha potuto costruirsi il suo blog, diario di bordo in rete, personale.
Bloggare (verbo) significa 'creare e gestire un blog': ci si interroga sul significato del bloggare nel mondo dell'informazione. La blogosfèra (nome) indica l'insieme dei blog e delle informazioni che contengono e che li collegano. Dietro i blog, infatti, vi è una tecnologia che consente legami ipertestuali particolari, attraverso link permanenti e vicendevoli, che ne fanno una rete nella rete mondiale del world wide web. Blogosfera (raro blogsfera) è un calco dall'inglese blogsphere e l'ammiccamento al termine biosfera è evidente. Blogbabel, conversazione nella blogosfera. (http://it.blogbabel.com) Bloggistico è un aggettivo che si usa per tutto ciò che è attinente al blog e al bloggare: Qui, nelle catacombe del Cretaceo bloggistico, le risposte di una blogosfera che non c'è più. (http://www.blogsquonk.it) Il bloggista 0 blogghista (nome) è sinonimo di blogger. Questa parola ha sollevato, per un certo periodo, discussioni erudite nei forum che si occupano della lingua italiana, perché ritenuta non conforme alle "regole fonetiche", come d'altra parte sarebbe anche per la stessa parola blogger. Infatti, in teoria, la g seguita da una i in italiano suonerebbe come la g di giglio e non come la g di gallo. Le due forme convivono pacificamente nella blogosfera (dove la libertà non è un'opinione) con una netta preponderanza di bloggista (150.000 risultati su Google contro 73.000 di blogghista). Blogger e bloggista e bloggistico si pronunciano tutti con la g di gallo, per influsso della pronuncia inglese di blogger. Blog, per sua natura, si presta a numerosissimi composti che nascono da nuovi modi di intendere il blog come strumento di comunicazione e di condivisione dell'informazione e del sapere: Vaudioblog è il blog dove vengono pubblicati file audio, il videoblog contiene video con relativa tecnologia (una specie di televisione in rete autoprodotta) gli edublog sono i blog costruiti per scopi educativi e didattici.
I computer o i computersì
I curriculum o i curriculai
II plurale delle parole straniere
lì plurale delle parole latine
La forma corretta è / computer, senza la -J finale. Sull'uso delle parole inglesi al plurale c'è spesso una grande confusione che riguarda la lingua scritta e anche la lingua parlata e ne sentiamo davvero di tutti i colori: i ìeaders, i gays, ifans e addirittura unfcms o un marines, al singolare! La questione è questa: la -s finale del plurale (soprattutto inglese, ma anche francese, spagnolo o portoghese) va messa o non va messa?
Sono corrette entrambe le forme. Ma i curricula è considerata "più corretta" di i curriculum. Vediamo perché.
La grammatica ci dice che in italiano le parole straniere entrate stabilmente nella nostra lingua rimangono invariabili, ciò significa che conservano la stessa forma al singolare e al plurale proprio come è accaduto con i termini che fanno ormai parte del nostro vocabolario: diciamo infatti senza dubbio / quiz, i tram, i bar; gli sport e nessuno si sognerebbe di dire i trams, i bars o gli sportsì La lingua segue dunque questa indicazione di base per tutte le parole che usiamo frequentemente nel nostro linguaggio quotidiano: / manager, i budget, ì teenager, i croissant, ifile, le gaffe, gli hamburger, le mail, i gadget, le performance, i test, i record, gli spot, le fiction, le top model. Ouando però la parola straniera è entrata da poco tempo nella nostra lingua 0 ; come spesso accade, appartiene al linguaggio tecnico di un determinato settore (l'economia, la medicina o la pubblicità), si tende ancora a mantenere, al plurale, la 5 finale. Per questo è molto frequente leggere, in un articolo di economia, parole come gli stakeholders, ifutures, i brokers, le joint ventures.
Ma lo spagnolo e il portoghese...
Un destino diverso hanno invece molte parole di origine spagnola e portoghese, che generalmente mantengono la s finale del plurale: ; viados, i desaparecidos, le tapas, gli indios, le telenovelas, i silos. L'errore, in questo caso, può essere di lasciare la s anche al singolare e dire, sbagliando, il viados invece che il viado, la telenovelas per la telenovela, un desaparecidos al posto di un desaparecido e il silos al posto della forma corretta il silo.
Murales Murales, che spesso viene usato in italiano come nome singolare, è invece solo plurale. Al singolare è meglio usare l'italiano il murale0 lo spagnolo il murai, mantenendo l'articolo italiano.
Auditorium, agenda, bis, veto, iter, humus,gratis, monitor, virus, tot, ultimatum, aut aut. sono tantissime le parole latine che usiamo tutti i giorni,'quasi senza accorgercene. Le parole latine vengono trattate, nella regola grammaticale, proprio come quelle provenienti dalle lingue straniere: sono sostantivi invariabili e come tali mantengono la stessa forma al singolare e al plurale. Come diciamo il leader, i leader e ilfilm, ifilm (dall'inglese leader efilm), allo stesso modo diciamo: singolare - plurale il referendum - i referendum il lapsus-i lapsus il vademecum - i vademecum il bis-ibis il virus - i virus l'ultimatum - gli ultimatum l'habitat-gli habitat il quorum - i quorum
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Ecco un altro esempio in italiano di plurale latino neutro in -a: i media. Che pronunciamo generalmente midia, all'inglese, perché proprio dall'inglese ci è arrivata questa nostra parola latina nella locuzione mass media, un fortunato incontro tra l'inglese mass ('massa') e il plurale della parola latina MEDIUM, 'mezzo'. In italiano: mezzi di comunicazione di massa. La forma singolare per fortuna è rarissima, ma gli inglesi la usano come piacerebbe ai nostri italiani cólti: mass medium. Per quanto riguarda noi, forse sarebbe bene seguire il consiglio del professor Edoardo Lombardi Vaìlauri: usiamo l'inglese al plurale (i mass media) e l'italiano al singolare: il mezzo di comunicazione di massa, così evitiamo di confonderci.
Un po' di... etimologia CURRICULUM, in latino, significa 'corsa, gara', ma anche 'cocchio, carro' e deriva proprio dal verbo CURRERE, 'correre'. Riguardo a curriculum invece la faccenda è piuttosto controversa. Curriculum è una parola latina, abbreviazione della locuzione curriculum vitae, che indica 'la carriera scientifica, accademica o burocratica' o 'il resoconto biografico' di una persona. Nei dizionari della lingua italiana viene riportato, quasi all'unisono, come sost.masch.inv. (ovvero, sostantivo maschile invariabile). Ciò significa che dovrebbe conservare la stessa forma al singolare e al plurale: il curriculum- i curriculum, esattamente come referendum, lapsus e vademecum. Prevale, invece, un uso cólto che predilige, al plurale, la forma / curricuìa, dove la -a finale segue la regola latina sul plurale delle parole di genere neutro: bellum > bella (la guerra > le guerre) castrum > castra (l'accampamento > gli accampamenti) Così succede che chi usa la forma i curriculum (peraltro prevista da tutti i dizionari della lingua italiana) possa passare per "ignorante",perché apparentemente non sa dei plurale neutro in -a. Certo non si può pretendere che tutti i parlanti conoscano il latino e sappiano che le parole di genere neutro al plurale hanno la desinenza -a. Anche perché si dice normalmente i referendum, i medium (nel significato di persone sensitive) e non ; referenda e ; media. È da riten ersi apprezzabile dun que, m a n on vin col ante, 1 a pronun ci a "ali a 1 atin a" curricuìa, ma anche ugualmente corretta, e non connotata negativamente, laforma regolare / curriculum.
L'Accademia della Crusca consiglia Usare la forma latina curriculum con il suo plurale curricuìa oppure la forma italianizzata curricolo con il suo plurale curricoli.
^ / g ) POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 2. Verba volani ma scripta manent
11 tight in autogrill Gli anglicismi L'inglese è stata e continua a essere la lingua che ci ha regalato un numero altissimo di parole, alcune divenute stabilmente parte integrante del nostro lessico. Si chiamano prestiti linguistici e, venendo dall'inglese, anglicismi. Esistono diversi tipi di prestito: vediamo in che modo e in che forma le parole inglesi sono entrate (e continuano ad entrare) nella nostra lingua. I prestiti possono essere di necessità quando si tratta di parole importate perché in italiano manca il termine per definire un oggetto 0 un concetto che prima non esisteva: è stato il caso di patata, ma anche di jet computer, monitor, blog, social network, chat, stalking ecc. Ci sono poi i prestiti di lusso e sono quelle parole che in teoria sarebbero superflue visto che l'italiano possiede già una parola con lo stesso significato, ma entrano nella nostra lingua perché sono sentite come foneticamente più attraenti 0 socialmente più prestigiose: è il caso di manager per dirigente, meeting per riunione, baby-sitter per bambinaia, show per spettacolo ecc. I prestiti si distinguono anche a seconda del modo in cui vengono "inseriti" nella nostra lingua. • Ci sono i prestiti non adattati (e sono i più numerosi) ovvero le parole che entrano nella nostra lingua esattamente come sono nella lingua d'origine: film, surf, computer, web-writing ecc. e i prestiti adattati, che sono stati modificati per adeguarli alla nostra lingua come bistecca da beefsteak, chattare da to chat,formattare da to format ecc. • Abbiamo poi il calco strutturale (0 di traduzione) come grattacielo da skyscraper (to scrape=grattare, sky=cielo),fine settimana da week-end, guerra fredda da cold war ecc. • Esiste il calco semantico- in cui un nuovo significato si sovrappone 0 si affianca a quello di una parola italiana già esistente: è il caso, ad esempio del verbo realizzare, che si usa spesso nel senso di 'rendersi conto'. Realizzare invece significa originariamente 'rendere reale', mentre l'accezione 'comprendere, rendersi conto'viene dall'inglese to realize. » Gli pseudo-prestiti: sono quelle parole inglesi come tight, che nessun inglese 0 americano userebbe mai nell'accezione italiana di 'abito da cerimonia'.tight in inglese significa 'stretto, attillato'. Gli inglesi, quando vanno a un matrimonio non si mettono il tight, ma un morning dress. Allo stesso modo sono irriconoscibili e incomprensibili per inglesi e americani le paroìeflipper, footing, camping, autogrill, bar, gadget, hostess. Inglesi ma... all'italiana!
Il whisky o /'whisky? L'articolo con i nomi stranieri La forma corretta, nella lingua scritta, è: il whisky. Quando parliamo possiamo dire tranquillamente il whisky o l'whisky. Ma quando ci accingiamo a scriverlo ecco che sorge un, ragionevolissimo, dubbio. Di fronte a questa incertezza ortografica molti cercherebbero di cavarsela aggiungendo "un bicchiere di" o "una bottiglia di", in modo da togliersi furbescamente dall'impasse. La faccenda in ogni caso, non è molto complicata anche se dimostra come l'uso dei parlanti possa dettare una regola (accettata da tutti) contrapposta a ciò che ci suggerisce invece la logica grammaticale.
Con la w La parola whisky inizia con la lettera w che in italiano viene resa con due suoni ben distinti: .. • nelle parole di origine tedesca si pronuncia come la v italiana (walzer, wurstel, walchiria ecc.); • mentre in quelle di origine inglese si pronuncia come la u italiana di uomo [week-end, windsurf, kiwi, welfare ecc.). La u di uomo (chiamata anche u semiconsonantica, perché si pronuncia in modo diverso dalla u di uva), prevede l'impiego dell'articolo /', con l'apostrofo: l'uomo, l'uovo. La regola vorrebbe, quindi, che noi usassimo l'articolo /' anche davanti alle parole straniere che iniziano per w-, ma si pronunciano u-. Invece, per noi parlanti la lettera w della parola scritta rimane impressa nella nostra mente come consonante e come tale viene preceduta dall'articolo ih il web, il welfare, il weekend il wi-fi così come diciamo il walzer, il wafer, il wurstel e il vaso, il vino, il vetro.
Un po' di... etimologia Whisky & un'abbreviazione inglese di wiskybae, che a sua volta deriva dalla parola di origine gallica uisgebeatha, che letteralmente significa 'acqua (uisge) di vita (beatha)' e che corrisponde, letteralmente, alla voce latina aqua vitae, 'acqua di vita', da cui l'italiano acquavite. Pare che sia stato San Patrizio, il santo patrono irlandese, a introdurre nel XIII secolo la tecnica di distillazione dell 'aqua vitae considerata, all'epoca, la panacea per tutti i mali. Furono quindi i monaci irlandesi a tradurre 'il termine latino con uisgebeatha, da cui successivamente sarebbero derivati i "moderni" whisky (scozzese) e whiskey (irlandese).
Luca Serianni (nella Crusca per Voi, n. 9, p. 8) ci porta un altro esempio di come i parìanti siano "sensibili" alla grafia di certe parole: in italiano noi diciamo lo Swatch, ho uno Swatch (il famoso orologio svizzero), ad esempio, e non il, un Swatch, benché in italiano Swatch si pronunci esattamente come suocero, e per regola dovrebbe avere l'articolo il come il suocero. Invece nella mente del parlante italiano rimane impressa la lettera w e, comunque sia pronunciata, viene sentita come consonante. Di conseguenza, Swatch viene trattato come le parole che iniziano per sv-, lo svitato, lo svolazzo ecc.
Con le altre lettere straniere
Quando si premette l'articolo a una parola straniera, si sceglie il tipo di articolo corrispondente alla pronuncia italiana di quella parola. Per l'articolo maschile, che è il più complesso avendo tre varianti il, lo e V, si usa generalmente la forma che si userebbe davanti a una parola italiana con lo stesso suono iniziale. Abbiamo quindi: lo champagne, i wafer, il judo, lo strudel. LA GRAMMATICA DICE Vediamo la regola prendendo in esame ogni lettera straniera (includendo anche la h): » con le parole che iniziano per h si usa l'articolo /', con l'apostrofo, come se la parola iniziasse con la vocale che segue l'acca: l'hamburger, l'hotel, l'hardware, l'hobby. Eccezione: lo humour; • con le parole che iniziano per j, se si pronunciano con lag di gelo, come judo, judoka, jersey, jumbo, jazz va messo l'articolo il, altrimenti si dice lo Jonio, lo Jodel; • con le parole che iniziano per k, ci si comporta come se la parola iniziasse con la c di casa: il kit, il karaté, il ketchup, il killer; • con le parole che iniziano pery oppure per x, l'articolo deve essere sempre lo: lo yeti, lo yogurt, lo yankee, lo yoga, loyo-yo; lo xenofobo, lo xilofono, lo xilene.
/ugoslavia o Iugoslavia? Le lettere straniere Forse non lo sapete, ma in italiano abbiamo due alfabeti. Uno di ventun lettere e uno di ventisei. n Quello di ventisei include anche le cosiddette lettere "straniere .mentre 1 alfabeto di ventun lettere, detto "scoi asti co", aggiunge le cinque lettere straniere a parte. Le lettere straniere sono:;, k, w, x,y. A dir la verità parrebbe un po' eccessivo chiamarle straniere visto che fanno ormai parte di diritto dell'alfabeto italiano e che sono presenti - almeno la j, la k e la x - in parole percepite come italianissime: si pensi ajunior o km, a extra e ex, ma anche a yogurt (o iogurt), watt e weekend, e ai nomi Jacopo, Jessica, Katia e Walter. Non in tutte le scuole primarie si insegna a "recitare" l'alfabeto tutto intero, incluse le 5 lettere straniere al posto giusto, tant e vero che molti di noi non sanno dove collocare la kappa o la j (prima o dopo 17i?). Ci fa pensare anche il fatto che molti pronuncino il nome della lettera j all'inglese (gèi) come se non avessero imparato che in italiano è sempre esistita e si è sempre chiamata / lunga. Detto questo, ecco un ripasso per rispolverare la collocazione delle lettere straniere all'interno del nostro vocabolario e un po' di ripasso sul loro impiego nella lingua italiana. a b c d e f g h i 1 m n o p q r s t u v w x y z
ÉiyiffHBjaJi Le lettere dell'alfabeto sono tutte considerate di genere femminile (basta pensare all'espressione: dalia a alla zeta), perché si sottintende sempre la parola lettera. Si dice infatti la effe, la esse, la vu doppia. Soltanto la lettera /(oscilla fra due generi: può essere maschile, il cappa, o femminile, la cappa. Detto questo, se sentiamo o leggiamo espressioni come mettere i puntini sugli i, oppure il bi, il gi, il qu, non ci troviamo di fronte a un errore, ma a una variante possibile e accettabile quando si sottintende la parola suono (o segno) al posto di lettera: il (suono) i, il (segno) b, la (lettera) f. \ — ^
j / J (i l u n g a } Nell'italiano antico la i lunga si usava per indicare la i semiconsonantica in posizione iniziale e intervocalica (jeri, notajo ecc.) e per il plurale dei nomi in -io (vizj, dazj ecc.). La troviamo conservata in alcuni toponimi (Jugoslavia, Jonio, Jesi ecc.) e in alcuni nomi propri (Jorio, Lojacono, Ojetti ecc.), anche se tutte queste forme sono ormai quasi più diffuse con la /: (Mar Ionio, Iugoslavia ecc.). Nelle parole straniere la j mantiene, invece, il suono della lingua d'origine: in quelle inglesi si pronuncia come la g di gelo (jeans, jazz)-, nelle parole francesi, come la j di bonjour {abat-jour, jabot, j'accuse).
k/ K (cappa)
La lettera k si trova in numerose parole straniere (karaté, kimono, kit, koala ecc.) e si pronuncia come la c di casa. La k compare anche nelle sigle kg, km, kW, anche se nella forma estesa è sempre preferibile la forma italianizzata chilogrammo, chilometro, chilowatt.
w/ W (doppia vu, doppia vi, vu doppia, vi doppia)
Nelle parole di origine tedesca si pronuncia come la i/ italiana [walzer, wurstel ecc.), mentre in quelle di origine inglese come la u italiana (week-end, windsurf, kiwi, welfare ecc.). Nei derivati italiani da parole straniere la pronuncia è sempre v (chilowatt, weberiano ecc.). In alcune sigle la w si pronuncia vu-, www (World Wide Web) si dice vuvuvù (vivivi) e anche WWF (World Wildlife Fund) è vuvuèjfe.
x / X (ics) In latino corrispondeva a un nesso di due consonanti: la c (di casa) e la s (di sole). Nella nostra lingua si trova ancora in parole di origine greca o latina, come xenofobo, uxoricida, toxoplasmosi, oppure in parole di origine straniera come taxi, sexy, box, XXL (pronunciato icsicsèlle) ecc. La ritroviamo anche in alcuni cognomi italiani famosi (Bixio, Craxi) o in toponimi di origine greca (Giardini Naxos). Negli SMS e nelle chat si usa la lettera x per indicare "per" (come nella moltiplicazione): xké = perché; xò = però.
y/Y (ipsilon)
Si pronuncia come la vocale / italiana e la troviamo in parole straniere come yogurt, spray,yoga,yacht,yin,yang,yes-man,yo-yo, o anche in parole di origine greca (Myosotis, krypton). In alcune parole inglesi la pronuncia non viene italianizzata e rimane /ai/, come in inglese: by-pass, styling, nylon.
Mando uri e-mail o una e-mail? Sì genere delle parole straniere La domanda se la pongono in molti: e-mail è un n o m e maschile o femminile? A una rapida consultazione dei dizionari possiamo vedere che e-mail e la sua variante abbreviata mail hanno due significati: quello di posta elettronica e quello di 'messaggio di posta elettronica'. L'oscillazione di genere tra maschile e femminile riguarda il significato di 'messaggio di posta elettronica, tant e vero che il Devoto Oli lo riporta, come seconda accezione, con la d citura sostantivo invariabile femminile o (raro) maschile. Il Dizionario deM Lingua Italiana di Sabatini e Coletti indica e-mail come sostantivo invariato e maschile. Nel Grande dizionario italiano dell'uso di Tullio De Mauro la parola e-mail e indicata come sostantivo femminile invariabile. La realtà è che la questione rimane ancora totalmente aperta: le domande rimbalzano nei siti che si occupano di lingua italiana e nella stessa famiglia la moglie dice una mail e il marito invia un mail.V,alelapenadi approfondire brevemente le norme che regolano l'attribuzione del genere alle parole straniere.
Parole straniere e genere Ci sono norme, in italiano, che regolano il "passaggio" di una parola da una lingua straniera all'italiano per quanto riguarda il genere e quindi 1 articolo che le compete Le regole sono apparentemente semplici,ma, come spesso accade, si scontrano con la varietà delle lingue in gioco e con le solite eccezioni. Alla parola straniera entrata nell'italiano si attribuisce il genere che ha nella linqua di provenienza. Ciò vale ovviamente per le lingue che, come 1 italiano, attribuiscono il genere ai sostantivi (tedesco,francese, spagnolo ecc.): il bijou, la siesta, la Bundesbank. Il latino e il tedesco hanno anche il genere neutro. Come ci si comporta in questo caso? In italiano si assimila al maschile: il curriculum, il Kindergarten (ma, eccezione, la Fràulein: la ragazza). REGOLA N.2 Si attribuisce il genere, maschile o femminile, a seconda del genere della corrispondente parola italiana. Avremo quindi il computer (in italiano, il calcolato-
re) la homepage (la pagina principale), Un po' di etimologia la mobility integration (l'integrazione, di genere femminile), il break (l'inter- / La parola e-mail deriva dall'inglevallo, la pausa tra sessioni di lavoro). se electronic mail (posta elettroQuesta regola vale soprattutto per la nica). Dal punto di vista grafico lingua inglese, le cui parole ci arrivano ha avuto una storia movimentacome neutre (con l'unico articolo the ta e discussa.- email, e-mail, per tutti i nomi) e che quindi siamo mail, eMail, Email, E-mail. Nelcostretti a "smistare" tra il genere mal'ambito dell'edizione 2011 delschile e quello femminile. l'Aces, un workshop statunitenSembra tutto semplice, ma è necessase dedicato ai correttori di bozze rio aggiungere che nella nostra lingua e agli editor, è stata annunciata entrano numerose parole inglesi, e per la cancellazione ufficiale del tratmolte di queste è difficile rintracciare tino.- dunque d'ora in poi in ingleun corrispondente italiano da cui trarse sarà email. In italiano le forre il genere; ci sono poi i prestiti linguime oscillano ancora: e-mail, stici molto recenti, ancora non radicaemail e mail. In rete prevale deciti e che non troviamo nemmeno nei samente la forma senza trattino. dizionari. Alcune parole prendono poi il genere per assonanza con parole italiane, come ad esempio la band (il gruppo musicale), che diventa femminile per influenza della parola banda o card, che, per analogia con l'italiano carta, diventa la card. Per tornare alla nostra (o al nostro) mail: perché esiste questa oscillazione per la parola mail (e e-mail) e quale forma è la più corretta? • Se uso e-mail e mail nel significato di posta elettronica va sempre al femminile: la mail di Google è più funzionale della mail di Yahoo. • Se uso e-mail e mail nel secondo significato, si attribuirà il genere della parola italiana corrispondente: al femminile per quelli che percepiscono la corrispondenza con "lettera" e maschile per quelli che invece sentono, sottinteso, la parola "messaggio". Solo il tempo e i parlanti ci diranno chi aveva ragione.
Plurale Il plurale di e-mail e di mail è senza la -s finale: le e-mail, le mail. Un'ultima notazione: non è che il genere maschile viene sentito come più attraente rispetto al femminile? Come mai si dice il web, quando in italiano è la rete oppure il ketchup quando in italiano sarebbe la salsa (a base di pomodoro)? Email è una parola universale entrata nel tessuto lessicale di tutto il mondo, una delle più azzeccate sintesifonetiche della globalizzazione. In tutto il pianeta un'email è un'email, come gli hamburger multinazionali e una Coca Cola. (Tiziano Toniutti, www.repubblica.it, 23/03/2011)
Question time per Yelection day Forestierismi in politica Il linguaggio della politica si è arricchito, negli ultimi decenni, di numerosi termini presi a prestito dalla lingua inglese. A dire il vero, il "politichese" si e sempre mostrato un universo piuttosto fecondo e adatto alla proliferazione di neologismi, non solo di origine straniera, ma anche "made in Italy": pensiamo a manovrina, tesoretto, alle famose convergenze parallele, alla strategia della tensione o ad arco costituzionale (arco?) per arrivare al celodurismo, al buonismo, alla blindatura, alla discesa in campo, al doppiopesismo, ali 'inciucio e infine all'insondabilità di un'ormai antiquata parola come doroteo (seguaci di Doro, come i morotei lo erano di Moro?). Ma torniamo ai neologismi di origine angloamericana, una questione controversa, sulla quale dibattono molto i puristi della lingua italiana. Il ricorso alla lingua inglese sembra davvero eccessivo, laddove esiste una parola italiana a disposizione. A volte però l'acquisizione di certi termini è influenzata dal processo di internazionalizzazione e di globalizzazione dei problemi politici. Inoltre, va detto, a volte (vale soprattutto per il linguaggio mediatico), l'uso delle sintetiche parole inglesi funziona meglio delle lunghe perifrasi italiane (vedi Ministero del Welfare al posto di Ministero dei Lavoro e delle Politiche Sociali 0 authority invece di autorità di controllo).
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question time seduta parlamentare in cui il governo risponde alle domande (questions); welfare politiche sociali. Alcuni di questi avrebbero un corrispettivo italiano di tutto rispetto, come devoluzione (per devolution) che già esisteva nel Cinquecento e indicava il trasferimento di un diritto da una persona a un'altra nel linguaggio giuridico; oppure deregolamentazione per deregulation, fino al nostro politicamente corretto che nulla ha da invidiare al politically correct (se non che almeno in italiano sappiamo dove mettere gli accenti, mentre su quel politically...). Ci sono poi i calchi, cioè parole o espressioni formate con materiale italiano su modello inglese: governo ombra da shadow cabinet fuoco amico da.friendlyfire danni collaterali da collateral damnage. Ci sono infine le parole inglesi che sono state adattate alla lingua italiana, pur mantenendo lo stesso significato: delocalizzare da delocalize globalizzazione da globalization proiezione da projection.
Ecco alcuni esempi di parole della politica che sono entrate nella lingua dall'inglese e che sono state accolte nella loro forma originale (cioè senza essere adattate all'italiano):
Ci sono infine parole che ci siamo inventati noi, perché - come dice Gian Luigi Beccaria (Dove va l'italiano?) - a volte siamo "più inglesi degli inglesi", ed è il caso di election day, parola inglese sì, che però è sconosciuta tanto in America quanto in Gran Bretagna, e che in Italia serve a indicare la giornata dedicata a più consultazioni elettorali. Una parola così ben radicata che l'abbiamo lasciata anche riprodursi tanto da avere, come ricorda sempre il prof. Beccaria,family day, tax day, Barrichello day e perfino Yobesity day. Aggiungo anche governatore 'presidente di Regione' e quindi, successivamente, altre cariche politiche di amministrazioni locali elette con suffragio universale' che fa riferimento al governor americano, che negli Stati Uniti è invece il presidente dell'esecutivo di ciascuno Stato.
antitrust anti-monopolio; authority -* autorità di controllo; bipartisan sostenuto sia dalla maggioranza che dall'opposizione; deregulation -* riduzione delle norme legislative eccessivamente vincolanti per lo sviluppo economico e l'attività d'impresa; copyright -* diritto d'autore; devolution -* cessione di poteri 0 di autorità dallo Stato alle Regioni; impeachment -* messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica; politically correct -» politicamente corretto; premier, primo ministro inglese Presidente del Consiglio;
Un'invenzione recente? Eccola: «Non forniremo altri assetti» per le operazioni militari in Libia «perché non siamo secondi a nessuno negli assetti che già mettiamo a disposizione». Così il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si è rivolto al suo omologo statunitense, Robert Gates, nel colloquio al Pentagono (Ansa, 27/04/2011). Ma se gli assets degli americani sono le "risorse" a disposizione di una persona, di un'azienda 0 di un governo, l'assetto, in italiano, è la sistemazione (o l'ordine) con cui sono organizzati gli oggetti o anche le gerarchie all'interno di strutture complesse. Potenziale neologismo?
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Una location tutta italiana Forestierismi nella lingua quotidiana Tra le parole inglesi entrate con virulenza nella nostra lingua troviamo il sostantivo femminile location. «Evviva! Abbiamo trovato la location per la convention», ironizza Beppe Severgnini nel suo L'italiano, Lezioni semiserie. Location è una parola di origine inglese, attestata in questa lingua fin dal Cinquecento, con il significato di 'ubicazione, posizione, posto' ma diffusasi ampiamente a partire dai primi decenni del Novecento nel significato specialistico di "place outside a film studio wbere a scene is filmed" (ossia 'luogo utilizzato per le riprese di un film, esterno agli studi cinematografici'). Come termine tecnico e strettamente specialistico si è diffuso da Hollywood fino ad arrivare a Cinecittà, entrando a far parte del gergo cinematografico italiano. Con location sono arrivati nel linguaggio tecnico anche i derivati inglesi location scouting e location manager-, il primo indica la fase m cui si localizzano i luoghi più adatti alle riprese di un film, chiamate appunto location grazie al lavoro di un location manager. Il location manager è dunque un professionista che, a stretto contatto con il regista, il produttore e lo scenografo, cerca di individuare le location adatte al film e di risolvere ogni problema logistico relativo ad esse. Il passaggio dal gergo cinematografico alla lingua di tutti i giorni è stato davvero molto fortunato; basta vedere quante location si sono moltiplicate sotto
Un po' di etimologia Che strano destino hanno avuto queste due voci - location e locazione -, entrambe derivate dal latino LOCÀTUS, participio passato di LOCARE, ('collocare, posizionare', ma anche 'affittare'), da LOCUS, che significa 'posto'. Tutte e due si sono ritrovate in funzione di termini tecnici: l'una (con la sua pronuncia adattata alle regole dell'inglese) nel linguaggio della cinematografia, l'altra (italiana) in quello del diritto. Oggi locazione rimane comunque una voce dotta, relegata all'ambito legale dei contratti d'affitto, l'altra invece da vocabolo specialistico è diventata una voce popolare adatta a battesimi, matrimoni e molto, troppo altro.
i nostri occhi: location di sfilate, di congressi, di matrimoni, perfino le gite scolastiche e gli aperitivi tra amici sono arrivati ad avere una loro location, in sostituzione del solito 'luogo d'incontro'. Per non parlare delle "location'da favola" (!) di centri vacanze, centri benessere, ma anche pizzerie all'aperto. La diffusione nella nostra lingua di questa parola è stata così massiccia che la troviamo attestata anche nello Zingarelli 2010, con il significato principale di 'posizione, collocazione' (con l'esempio: "via Condotti è una location ambita dai negozi di moda"), mentre il significato specialistico originario, quello cinematografico, è relegato al secondo posto.
Istruzioni per Fuso Il consiglio è di cercare di non usare questa parola se non nel significato cinematografico. Per tutto il resto'luogo, posto adatto/ideale'0'collocazione'sono parole italiane che hanno sempre svolto la loro funzione in modo degnissimo, anche prima che arrivasse location-. Abbiamo trovato la location per ìa festa di Filippo = Abbiamo trovato il posto adatto/ideale per la festa di Filippo. Ovviamente location non va confuso con locazione', che è tutt'altra cosa: è un termine tecnico del diritto italiano e significa 'contratto con cui una parte (locatore) concede a un'altra (locatario) il godimento di un bene immobile 0 mobile per un certo periodo di tempo dietro pagamento di un corrispettivo in denaro'. Concedere in locazione ha lo stesso significato di 'dare in affitto', 'affittare'.
Un quintale di cotone Gli arabismi nella lingua italiana Ragazzi, l'algebra mi piace una cifra, ma ho zero in chimica! In questa italianissima frase quasi tutte le parole sono di origine araba: ragazzo, algebra, cifra, zero e chimica sono infatti prestiti provenienti dall'arabo. La lingua araba ha avuto un'influenza molto speciale sulla cultura e sulla lingua del nostro paese, come su molte altre lingue romanze, specialmente lo spagnolo e il portoghese. Ne sono testimonianza i numerosissimi prestiti arabi presenti, diventati così parte integrante del nostro vocabolario da aver perso qualsiasi connotazione "esotica", se non per gli addetti ai lavori. L'influenza araba ha certamente avuto un peso particolare nei territori dove, di fatto, gli Arabi hanno governato per tanti secoli (in Sicilia daìl'827 al 1091, nella penisola iberica dall'ottavo al quindicesimo secolo); ma, a dire il veronal di là del lasso di tempo in cui sottomisero 0 tennero sotto scacco parte dell'Europa, la vera grande influenza culturale provenne soprattutto dai rapporti commerciali che da sempre hanno collegato l'Europa ai paesi mediorientali. Si può ben dire che furono in particolare i forti legami e i numerosi scambi tTa mercanti arabi e italiani a fungere da terreno fertile per la diffusione di
Un po' di... etimologia Scaccomatto è anch'esso un arabismo, anzi, come per altre parole della matematica che ci sono arrivate con gli Arabi, anche questa ha alle spalle un viaggio lunghissimo, dall'India alla Persia e - attraverso il mondo islamico - fino al mondo e alle lingue europee. Sono stati gli Arabi, molto probabilmente, a insegnarci il gioco degli scacchi, che a loro volta avevano imparato dai Persiani. Ma indiana è l'origine del gioco e indiana è la radice della parola araba che indica gli scacchi [shatrang0 shitrang) che ritroviamo ancora nello spagnolo ajedreze nel portoghese xadrez. In italiano, come nelle altre lingue europee, il nome deriva dalla formula arabo-persiana con cui si segnala la conclusione: shàh màt, che significa 'il re è morto', da cui scaccomatto e quindi scacco, scacchi. Shàh è la stessa parola che, più recentemente, è stata usata per indicare il titolo di sovrano della Persia: scià.
Purtroppo negli ultimi decenni i prestiti arabi alla nostra lingua sono legati principalmente alle guerre mediorientali e riempiono le testate giornalistiche: hezbo/lah (letteralmente 'partito di dio'), mujahiddin (nella tradizione islamica, 'fedele impegnato nella guerra santa', quindi passato a designare il guerrigliero afgano contro truppe d'occupazione), jihad (guerra santa), intifada (letteralmente 'ribellione', poi venuta a designare la rivolta degli arabi palestinesi contro i soldati israeliani durante l'occupazione militare della Cisgiordania e della striscia di Gaza), kefiah (copricapo tradizionale arabo). E pensare che l'influenza araba nella cultura e nella lingua del nostro paese è stata molto più di questo. Prima di questo vocabolario "bellico" gli arabi hanno lasciato, nella nostra lingua, un'eredità ricca di parole meravigl iose, dolci, magiche e saporite, come zibibbo, zenit, cappero, arancia, alcool, elisir e sciroppo.
così tante parole. A bizzeffe ne sono arrivate, per usare ancora un arabismo da bizzef che significa 'molto'. Ma, oltre ai fervidi incroci commerciali, gli scambi tra il mondo arabo e quello europeo furono legati anche alla circolazione della cultura che ruotava intorno alle università e ai centri del sapere italiani ed europei, dove venivano tradotti in latino i testi filosofici, matematici e astronomici scritti in arabo 0 trascritti in lingua araba dagli originali ad esempio greci. Ecco alcuni degli arabismi ormai parte integrante della nostra lingua. Lessico marinaresco e commerciale bazar, carovana, darsena, dogana,facchino,fondaco, magazzino, tariffa. Lessico dell'agricoltura albicocco, arancio, carciofo, cotone, gelsomino, limone, melanzana, quintale, risma, tabacco, zafferano, zagara, zucchero. Lessico dell'astronomia e della matematica algebra, algoritmo, almanacco, Altair, Antares, astrolabio, azimut, cifra, nadir, zenit, zero.
Verba volani ma scripta manenti I latinismi nella lingua italiana Latinismi e citazioni latine spesso arricchiscono (o appesantiscono) tanti discorsi, scritti e parlati: la citazione latina dà a un testo scritto una certa autorevolezza, documenta la cultura (posseduta ed esibita) dell'autore, eleva il tono del discorso attingendo alle radici stesse del nostro sapere. 11 problema è che la lingua latina ha le sue regole e le citazioni latine, per essere efficaci, devono essere sempre corrette. Altrimenti ecco che qualsiasi scritto (ma questo vale anche per il parlato) perde di credibilità e dal latino si passa velocemente al latinorum. L'impiego delle citazioni in lingua latinaha, ovviamente, anche un risvolto negativo: i testi possono risultare meno comprensibili e persino un po' pedanti. Dal momento che l'obiettivo di un testo dovrebbe essere quello di farsi capire, è ovvio che il consiglio è di usare il latino il meno possibile, se non negli scritti eruditi o per lo meno di usare quelle espressioni che non necessitano di una conoscenza approfondita della lingua e della letteratura latine per essere capite.
Latinorum
Se proprio non potete fare a meno di Il latinorum è una riuscitissima invenzione introdurre parole latine nel vostro discorso, almeno usatele con accumanzoniana, che l'autore mette in bocca a ratezza, evitando approssimazioni e Renzo, quando, alle prese con Don Abbondio storpiature. che gli snocciola un'incomprensibile sequela di latinismi per confonderlo, sbotta diEcco dunque un piccolo repertorio di cendo: espressioni e citazioni latine: - Che vuol eh 'io faccia del suo latinorum! -. La parola latinorum rende efficacemente sia l'abuso sia l'uso sgrammaticato di parole latine, perché non basta aggiungere un -uso un -orum alla fine di una parola per rivenderla come latino.
J
• a latere, e non *ab latere, significa 'a fianco' e indica una persona che affianca un'altra (giudice a latere) oppure si usa per introdurre un commento con il significato di 'in margine a';
• ad abundantiam, non *ab abundantiam significa 'in aggiunta, come se non bastasse', 'oltre il bisogno': li hanno convocati in Questura e lì, ad abundantiam, sono stati sottoposti a un interrogatorio massacrante; ad maioral, non *ab maiora, è una formula di augurio e di saluto e significa: a cose più grandi'. Si usa con chi ha già avuto dei successi e ambisce ad averne di ancora più grandi; . alter ego (non *altro ego), significa 'un altro me stesso', e si usa per indicare una persona che sostituisce e rappresenta a pieno titolo un'altra: fidati di lui, è il mio alter ego; o brevi manu, non *brevi mani, significa 'direttamente in mano a chi di dovere', 'di persona'. Invece di spedire o di far recapitare un oggetto lo si consegna brevi manu, ovvero direttamente nelle mani del destinatario; « carpe diem, non *carpe die, letteralmente significa 'cogli il giorno' e proviene da un'ode molto celebre di Orazio [Odi, I,n,8). Viene normalmente tradotta con l'espressione cogli l'attimo'; . casus belli, non *casus bellis, è il motivo, il pretesto di un conflitto, di un litigio: il casus belli del loro divorzio è stato il tradimento del marito• • conditio sine qua non oppure condicio sine qua (entrambe corrette), letteralmente 'la condizione senza la quale non', indica un vincolo giudicato necessario e irrinunciabile per portare a termine qualcosa: la presenza di entrambe le parti sarà la conditio sine qua non per procedere al dibattimento-, • cui prodest? significa:'a chi è utile?"A chi giova?': lo strumento del "cui prodest?" è l'arma più efficace per un vero giornalismo d'inchiesta-, • de gustibus non est disputandum, usata anche nella forma abbreviata de gustibus..., è una locuzione latina molto diffusa e significa 'sui gusti non si deve discutere'; • Deo gratias, e non *deo gratiam e neppure *Deo grazia, è un'espressione della liturgia cattolica, "rendiamo grazie a Dio" [Deo agimus gratias), entrata nella lingua parlata come "grazie a Dio!", espressione di sollievo e di soddisfazione; • deus ex machina, non *deus ex macchina, letteralmente significa 'il dio (che appare) dalla macchina', dove macchina non ha niente a che vedere con automobile: il riferimento è piuttosto alla macchina scenica con la quale si simulava l'arrivo del dio nel teatro antico. Il dio arrivava alla fine della rappresentazione per risolvere una situazione difficile. Oggi si dice deus ex machina per indicare chi è in grado di risolvere un caso disperato; • dulcis infundo, e non *infundus, significa'il dolce in fondo', si usa per indicare che la parte migliore arriva alla fine. Spesso usato in modo ironico: un anno da dimenticare: ho perso il lavoro, cambiato casa e, dulcis in fundo, il fidanzato mi ha lasciata; • ex abrupto, significa 'all'improvviso': si mise a parlare ex abrupto; • ex aequo e non *ex equo, alla pari', si usa nelle gare e nelle competizioni in genere: / due atleti si sono aggiudicati il premio ex aequo; • ex cathedra e non *ex cattedra, significa letteralmente 'dalla cattedra', dove cattedra è il seggio papale, e nel linguaggio ecclesiastico indica che una
dichiarazione del papa ha valore tassativo per i fedeli, perché il papa 1 ha pronunciata nella sua veste ufficiale. Nel linguaggio comune, invece, parlare ex cathedra significa parlare con tono categorico, dogmatico/dall'alto in basso : i professori annoiano gii studenti con ìe loro lezioni ex cathedra; ex novo, e non *ex novus, significa 'da capo, di sana pianta': sono stato costretto a scriverlo ex novo; habemus papam (papam è accusativo, essendo complemento oggetto) e non *habemus papa-, longa manus, e non "longa mano, si dice per indicare una persona o un organizzazione che agisce, in maniera più o meno clandestina e talvolta al limite della legalità, per conto o a vantaggio di altri: la longa manus delle lobby bancarie-, in medias res, non *in media re, lo diceva Orazio riferendosi ali arte narrativa di Omero, che inizia il racconto nel mezzo degli avvenimenti. Nell'uso comune si dice "entrare in medias res", che significa'entrare nel vivo dell'argomento', senza perdere tempo in preamboli; • in medio stat virtus e non "in media (o in medium) stat virtus. Significa letteralmente 'la virtù sta nel mezzo' e invita a seguire la strada dell'equilibrio, lontano da ogni tipo di esagerazione; • modus vivendi, non *modus bibendi, significa modo, stile di vita. Trovare un modus vivendi significa anche trovare un accordo provvisorio per convivere civilmente tra persone che non vanno d'accordo-. Paolo e Lucia hanno trovato un modus vivendi per amore dei figli-, . obtorto collo, non *obtorto collus, indica 'malvolentieri, per costrizione : ha accolto le nostre rivendicazioni obtorto collo; . par condicio e non *par conditio, è una locuzione che riprende, in forma ridotta, una formula propria del diritto romano, par condicio creditorum: parità di trattamento dei creditori. Nel linguaggio politico indica la parità di condizioni di accesso ai mass media, che deve essere assicurata a ogni gruppo politico: la legge sulla par condicio. ^ Parlando di latinorum, non possiamo non ricordare la parola busillis, usata nell'espressione: "qui sta il busillis!" Dove busillis indica un intoppo, un ostacolo, un enigma, una cosa difficile a farsi e a capirsi. L'origine è latina e l'etimologia si basa su due aneddoti simili. Il primo racconta di un inesperto traduttore del Vangelo che confuse in diebus illisi in quei giorni), separandolo in indie (le Indie) e busillis, e su quest'ultima parola si arenò. Il secondo aneddoto parla di uno studente che di fronte al testo dove in die stava a fine rigo e bus illis a capo, seppe tradurre correttamente in die con 'nel giorno' e quindi si bloccò miseramente sull'incomprensibile busillis]
Donna Bisodia
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Accadeva, al tempo in cui la messa veniva celebrata solo in latino, che le preghiere della liturgia cattolica venissero ripetute a memoria, da donne e uomini che il latino non lo conoscevano, senza comprenderne il significato e spesso storpiandone la forma. Ecco che cosa scrive Antonio Gramsci alla sorella Teresina: "Ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in Chiesa e c'era ancora un po' di religione in questo mondo. - Si potrebbe scrivere una novella su questa «donna Bisodia» immaginaria che era portata a modello: quante volte zia Grazia avrà detto a Grazietta, a Emma e anche a te forse: «Ah, tu non sei certo come donna Bisodia! » quando non volevate andare a confessarvi per l'obbligo pasquale". Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, 16 novembre 1931
J
• semel in anno licet insanire, letteralmente significa: 'una volta l'anno è permesso fare qualcosa di pazzo'. Era lo slogan delle feste come il Carnevale quando tutto (o quasi) era permesso: ora si usa per giustificare azioni fuori delle regole che tutti noi dovremmo, a volte, aver il diritto di compiere; * veni vidi vici, e non *vegni vidi vincit, è una celebre frase di Giulio Cesare che significa: "venni, vidi, vinsi"; Lo stesso discorso si può fare per quei vocaboli latini tipici del linguaggio giuridico, ormai abbondantemente entrati in quello amministrativo, ma anche quello della politica e che potrebbero essere tranquillamente usati nella traduzione italiana: • de facto corrisponde all'italiano di fatto; • de iure corrisponde all'italiano di diritto; • de cuius nella successione, si riferisce alla persona defunta che lascia beni in eredità; • sub conditione corrisponde all'italiano con riserva; • in foto, e non *in totum. Letteralmente significa 'per intero' e in italiano si usa al posto dell'avverbio 'interamente': le richieste non conformi sono state respinte in toto.
Verba volant scripta manent Letteralmente significa: le parole volano, gli scritti rimangono'. Questo proverbio latino ci ricorda che le parole dette sono volatili e possono essere fraintese o dimenticate mentre le parole scritte rimangono nel tempo, come testimonianza inconfutabile. Perciò, se vogliamo stabilire una regola, un patto o un contratto, è sempre meglio affidarsi alla parola scritta. Se, invece, non vogliamo che restino tracce di ciò che abbiamo detto o giurato... allora è meglio affidarsi alle parole dette che, in caso di bisogno, possono sempre dileguarsi "volando".
Una vision per la mission itangliano in azienda Quando il mondo del marketing incontra il linguaggio della comunicazione, possono accadere cose stranissime o assurde, degne in ogni caso della nostra attenzione. Non ci riferiamo soltanto all'uso di quell'itangliano (italiano+inglese) che infarcisce le relazioni dei "marketing director" (ma anche tanti documenti dell'amministrazione pubblica) con i già tanto citati budget per bilancio, meeting per riunione, stage per tirocinio, basic per basilare, press reiease per comunicato stampa, deadline per scadenza, know-how per competenze e così via. Ormai non ci perdiamo più d'animo né ci strappiamo i capelli di fronte all'onnipresente termine vision che ogni azienda, ogni piccola impresa, ogni uomo come si deve pare debba possedere. E non ci scandalizziamo neppure di fronte alla-famigerata mission che nient'altro è se non la missione (lo scopo) di un'organizzazione o di un'impresa, la sua "dichiarazione di intenti", il suo chiedersi: Chi siamo? Cosa vogliamo fare? Perché lo facciamo? Tanta terminologia inglese, nel mondo del lavoro, è pratica, comoda e veloce, questo ormai l'abbiamo capito tutti. Quello che però va guardato con un po' di circospezione è l'abitudine (o la moda) di tradurre certe parole inglesi in maniera imprecisa o di usare un termine italiano con il significato, inesistente, della corrispondente voce inglese. Ne risultano termini che non esistono né in una né nell'altra lingua, ma che a forza di usarli sembrano quasi veri. Ecco qualche esempio... da evitare, ovviamente! « compagnia, con il significato di "azienda" (dall'inglese company)-, • domestico, nell'espressione volo domestico nel senso di "volo nazionale" (dall'inglese domesticflight); «> editare, che in molte aziende viene usato con il significato dì "scrivere un testo al computer"(dall'inglese to edit che invece significa 'rivedere, curare un testo' oppure 'montare un filmato'); ® educazione, con il significato, inesistente in italiano, di "formazione, istruzione" (dall'inglese education, che invece possiede tale significato). Il consiglio è quello di non farsi "affascinare" da modi troppo disinvolti di usare il lessico e, ovviamente, di usare i forestierismi solo dove sia davvero necessario, cercando sempre, quando esiste, una valida alternativa anche nel linguaggio "domestico". Perfino se siete un export area manager o un managing director!
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GIUSTO O SBAGLIATO?
Essere o non essere? Il dubbio (che in ortografia si traduce in essere o avere? valigie o valigef) non tormenta soltanto Amleto, ma ogni scrittore - piccolo o grande, professionista o dilettante - che si cimenti con la scrittura, per gioco o per dovere. Ma, attenzione, non aspettatevi qui certezze e dogmi da seguire senza dover riflettere: la grammatica e l'ortografia ci insegnano che, con i dubbi, spesso dobbiamo imparare a convivere. E ci spiegano pure che certe regole, solide e perentorie (magari quelle che ci hanno tormentato durante gli anni passati a scuola), improvvisamente possono diventare più dolci e più docili. Ciò non significa che possiamo rilassarci e sentirci liberi di usare la lingua come più ci piace. Le regole vanno prima conosciute e quindi rispettate, con quella flessibilità e quel tocco personale che soltanto la padronanza della grammatica e dell'ortografia ci possono dare. L'errore ortografico è sempre brutto, indice di trascuratezza o di ignoranza. Ci sono errori gravi ed errori meno gravi: ma scrivere d'accordo senza l'apostrofo, o sto e do con l'accento non dovrebbe accadere, neppure in un sms o in uno scritto frettoloso. Per questo è sempre bene dubitare. Quindi riflettere e poi, magari, correggere.
Ad, ed, od? La domanda, che ci poniamo spesso, è: si deve ancora aggiungere la "d eufonica" dopo a, e, o?
Che cos'è la d eufonica? La d eufonica è un espediente fonetico per evitare, nel parlato e nello scritto, l'incontro di due suoni identici e consecutivi: serve a(d) alleviare il dolore; con spirito rigoroso e(d) equanime; ignorare il fatto o(d) ovviare al problema? La d eufonica riguarda soltanto: la preposizione a> ad la congiunzione e > ed la congiunzione o > od In realtà la presenza della d non è casuale: si tratta di un elemento etimologicamente legato sia alla preposizione, che in latino era AD, sia alla congiunzione, che in latino era ET, sia alla congiunzione o, che deriva dal latino AUT. Siamo tutti vittime della d eufonica: fino ad alcuni decenni fa l'assenza di una d eufonica veniva considerata un errore ortografico da penna rossa e quindi guai a lasciare una congiunzione e da sola di fronte a qualsiasi vocale [ed altri, ed ogni, ed oltre, ed ultimo). La lingua si muove e con essa cambiano le regole: piano piano anche questa norma rigidissima si è ammorbidita, grazie anche all'intervento risolutivo di Bruno Migliorini, uno dei più importanti storici della lingua italiana, che suggerì di inserire la d eufonica soltanto tra vocali dello stesso tipo: ad ammirare, ed erano. Rimane il fatto che l'uso o il non-uso della d eufonica non può essere considerato un vero e proprio errore ortografico (al pari di centra in luogo di c'entra, o anno al posto di hanno). I manuali di redazione e perfino l'ordine dei giornalisti hanno assunto posizioni molto rigorose al riguardo, puntando decisamente alla soppressione di tutte le d eufoniche di troppo dai libri e
Un po' di... etimologia Eufonia significa 'armonico accostamento di suoni, gradevole all'orecchio' (Devoto Oli 2010): dal greco eu, 'bene' e phoné, 'voce'. Il suo contrario è cacofonia che indica l'effetto sgradevole provocato dall'accostamento di parole e specialmente dalla ripetizione di sillabe uguali' (Devoto Oli 2010): dal greco kakós, 'cattivo' e phoné, 'voce'.
In sintesi
• Cercare di usare la d eufonica soltanto di fronte alle stesse vocali: ad aiutare, ed eccoli. • Evitare in ogni caso od, perché sa un po' di pedanteria linguistica. • Non è un errore se continuate a usarla (non ad usarla) nella locuzione ad esempio, e in tutte quelle che sono entrate a far parte del nostro patrimonio linguistico: ad arte, ad onor del vero ecc. • Andrebbe sempre evitata, causa cacofonia, quando nella parola seguente sia presente una d nella prima sillaba: ed editori, ad andare. • Non si deve mai usare di fronte a parole straniere che iniziano con la h aspirata come hardware, Hitler, Hotmail, Honda, Haydn ecc. • Non si deve usare se la congiunzione è seguita da una virgola: se ne andò e, essendo testardo, non si voltò a salutarmi.
Sn latino Le congiunzioni copulative, come la nostra e, in latino erano molte di più: ET/AC/ATOUE = e
-OUE (che si attaccava alla parola precedente) = e E anche le congiunzioni disgiuntive, come le nostre o e oppure-, AUT = O VEL= 0 SIVE/SEU
= ovvero, sia
Aeroporto o aereoporìoì La forma corretta è aeroporto, così come aeroplano, aeronautica, aerodromo. Il dubbio, sull'ortografia di questa famiglia di parole, è del tutto legittimo. Nasce, infatti, da una confusione (tra aeroplano e aereo) e da un fraintendimento di base: aereo, non è la forma abbreviata di aeroplano. Si tratta di due parole distinte che hanno origini diverse: « aereo deriva dal latino AÉREUS, il cui significato corrisponde al nostro aggettivo aereo (dell'aria, leggero) ed è un'abbreviazione della voce 'veicolo aereo'. Lo ritroviamo come aggettivo nelle espressioni come: posta aerea, ponte aereo. « aeroplano invece deriva dal francese aéroplane. Aeroporto, aeroplano ecc. sono parole composte con il prefisso aero-.
Le parole composte Le parole composte sono quelle che nascono dall'unione di due o più parole. Possono essere composte da parole che esistono anche da sole: lavastoviglie (da lavare e stoviglie), sempreverde (da sempree verde), apriscatole(da aprirne scatole). Oppure possono essere composte da elementi che provengono dal latino o dal greco antico, detti prefissoidi (o confissi) e che sono, ad esempio, demo-, auto-, filo- ecc. Si trovano nelle parole composte come democrazia, demoscopia, filantropo, filosofo, autodifesa ecc.
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Esistono, però, due prefissi con la stessa forma, aero-, ma diverso significato: 1. aero1- deriva dal greco aér, che significa 'aria' e ha dato vita a numerosi composti che fanno riferimento all'aria e all'atmosfera: aerobio, aerodinamico, aerofagia, aerografo, aerosol, aerostato, aeroplano. 2. aero2- è utilizzato per la composizione di parole che si riferiscono al traffico aereo ed è un prefisso ricavato dal termine aeroplano. Ha dato origine a parole come: aerodromo, aerogetto, aeromodellismo, aeronavigazione, aerospaziale, aerostazione.
Un po' di etimologia Aeroplano arriva in italiano dal francese aéroplane, una parola coniata nel 1855 e formata dal prefisso aero- più il secondo elemento piane, che stava ad indicare una forma piana, per distinguerlo da apparecchi aerei di tipo diverso come l'aerostato, che era tondeggiante.
Caffè o caffé? Perché o perchè? La risposta è: caffè -* forma corretta perché forma corretta
caffé forma non corretta perchè -* forma non corretta
Quante volte ci accade di non sapere quale sia la forma corretta? La questione è sempre la stessa: l'accento sulla lettera e. Quando scriviamo a mano il problema in generale non si pone, perché siamo abituati ad aggiungere automaticamente un accento, disegnato come un trattino leggermente obliquo o una mezzaluna, sopra la vocale che normalmente porta l'accento. Quando però scriviamo al computer - ed è ormai la maggioranza Importante dei casi - ci troviamo sulla tastiera quel famigerato tasto dove comQuando scriviamo al computer ricordiamo paiono una è se lo pigiamo diretche per la terza persona singolare del vertamente e una é se lo usiamo bo essere, se scritta con la maiuscola, si insieme a quello per le maiuscole deve usare la lettera accentata È (con l'ac(lo shift, tanto per capirci). cento) e non E'(con l'apostrofo)! Di fronte a quei due piccoli trattini sbiechi, uno diretto in un senso, l'altro all'inverso, rimaniamo spesso titubanti e a volte ne scegliamo uno a caso. Vale la pena, dunque, riassumere brevemente la regola grammaticale. LA GRAMMATICA DICE . quello indicato con il segno (come in caffè) si chiama accento grave (perché il suono va dall'alto verso il basso) e cade da sinistra a destra; • quello indicato con il segno ' (come in perché) si chiama accento acuto (perche il suono va dal basso verso l'alto) e sale da da sinistra a destra. L'accento grave sta a indicare che la e di caffè è aperta (e il suono va dall'alto in basso, quindi è grave, pesante). L'accento acuto sta a indicare che la e di perché è chiusa (e il suono va dal basso verso l'alto, è acuto, appunto).
Provate a sentire la differenza tra vocale aperta (accento grave) e vocale chiusa (accento acuto) leggendo le parole elencate in questo schema: Accento grave (vocale aperta) tè caffè è Noè ahimè gilè bidè
Accento acuto (vocale chiusa) perché affinché né trentatré poiché benché scimpanzé
Pronunce regionali
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Questo esercizio di lettura e di riconoscimento delle vocali aperte e chiuse riesce bene a pochi italiani. Soltanto i toscani (e i romani) distinguono correttamente le vocali chiuse e aperte. Un lombardo, infatti, deve scrivere perché (con l'accento acuto, quindi vocale chiusa) mentre invece pronuncia perchè con una bella vocale finale aperta e un trentino deve scrivere trentatrém l'accento grafico acuto, quando invece lo pronuncia con una -e finale aperta, anzi, apertissima, come in caffè. Questa è una delle difficoltà che ci accompagnano quando scriviamo: la pronuncia corretta, infatti, fa riferimento all'italiano parlato a Firenze, dove nessuno si sognerebbe mai di confondere vocali aperte e vocali chiuse. In Italia, però, la situazione è più complessa perché la loro pronuncia è diversa a seconda delle regioni di provenienza. Per fortuna, quando parliamo, le eventuali discrepanze nel pronunciare le vocali non sono considerate errori, né dal punto di vista della grammatica, né da quello del prestigio sociale. L'unico problema sta nella scrittura, perché ovviamente i non-toscani dovranno pensarci due volte prima di scrivere correttamente, con l'accento giusto, perché, trentatré, né ecc.
Abbiamo parlato dell'accento grafico in riferimento a quell'accento che si usa solo nella scrittura e che va obbligatoriamente impiegato nei casi descritti più sotto. L'accento tonico, invece, è relativo alla pronuncia di ogni parola. In ogni vocabolo della lingua italiana c'è sempre una sillaba che pronunciamo con più forza e intensità delle altre: su questa sillaba cade l'accento tonico chiamato anche, semplicemente, accento. Tutte le parole hanno quindi un accento tonico, ma solo alcune hanno anche l'accento grafico.
L'accento grafico è obbligatorio: • sulle parole tronche di due o più s i l l a b e r ò , città, caffè, libertà, mezzodì; • sui monosillabi contenenti due vocali o un dittongo.- più, può'piè, ciò, già, giù, scià, con l'eccezione di qui e qua; • su tutte le parole composte che hanno come secondo elemento un monosillabo terminante in vocale: i composti di tre; ventitré, trentatré, centotré; i composti di su: quassù, lassù; i composti di blu-, rossoblu,, gialloblù; i composti di re. viceré ecc.; • su alcuni monosillabi per distinguerli da parole che si scrivono allo stesso modo, ma sono dotate di significato diverso: dà (verbo: dare) # da (preposizione: vengo da Firenze) dì (nome: giorno) * di (preposizione: il cane di Paolo) è (verbo essere) # e (congiunzione: cani e gatti) là (avverbio di luogo: sono passati di là) * la (articolo: la casa) lì (avverbio di luogo: l'ho messo lì) * li (pronome: li conosco bene) né (congiunzione: né belli né brutti) * ne (pronome: ne prendi ancora? o avverbio di luogo: te ne vai?) sé (pronome:/are da sé) # se (pronome atono: se ne andò o congiunzione:se taci, acconsenti) sì (affermazione: sì, certo) # si (pronome: il gatto si lava) tè (nome: il tè) v te (pronome: vengo con te)
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Cocomero o anguria?
Curioso come anche l'inglese watermelon e il tedesco Wassermelone che significano 'cocomero' siano entrambi formati da due parole acqua e melone... melone d'acqua, quindi, come in Sicilia!
Sono corrette entrambe le forme con qualche differenza... geografica. Ouando parliamo di termini legati all'alimentazione o alla cucina ci troviamo di fronte a un panorama lessicale estremamente variegato dove si moltiplicano tante, e a volte anche bizzarre, varianti regionali. È proprio in questi casi che ci accorgiamo - per la gioia dei lessicografi - che l'italiano, in quanto a patrimonio lessicale, deve moltissimo alle varietà regionali e alla ricchissima cultura dialettale. I geosinonimi si inseriscono in questo variegato panorama linguistico. Si tratta di quei sinonimi che hanno lo stesso significato, cioè si riferiscono allo stesso oggetto o allo stesso concetto, ma sono diffusi in zone d'Italia diverse e ben distinte. Ogni geosinonimo copre una precisa area geografica dove viene utilizzato comunemente e caratterizza la parlata - settentrionale, centrale o meridionale - di ciascuno di noi. Si parla dunque di geosinonimi quando vogliamo indicare non una forma regionale o dialettale locale, diversa da quella dell'italiano comunemente usato dai Sinonimo vuol dire 'parola dallo stesso signiparlanti, ma quando ci troviamo ficato', come ad esempio niente e nulla opdi fronte a dei veri e propri sinonipure crollo e caduta. mi geograficamente distribuiti in base a zone molto precise. Cocomero, anguria e melone (o mellone) d'acqua sono un esempio classico di geosinonimia: al Nord si dice anguria,in Toscana e al Centro si dice cocomero e al Sud melone (o mellone) d'acqua.
Un po' di... etimologia Anguria ha un'origine greca: deriva infatti dal greco tardo angoùria, che significava 'cetriolo', termine approdato a Ravenna con la dominazione bizantina intorno al VI secolo d.C., e diffusosi poi in tutta l'Italia settentrionale. Cocomero deriva dalla voce latina CUCUMERE(M), 'cetriolo' e, con lo stesso significato, lo ritroviamo nel francese concombre e nell'inglese cucumber.
Un esempio classico di geosinonimi estremamente vitali sono invece le molteplici espressioni che gli studenti di tutta Italia usano per indicare l'azione di 'marinare la scuola': si dice bigiare a Milano, bucare o tagliare a Torino,fare forca a Firenze, fare sega a Roma,fare filone a Palermo, far vela in Sardegna e così via. Tra i geosinonimi più conosciuti ci sono anche quelli per indicare l'italiano lavandino, che è appunto lavandino per tutti i settentrionali e lavapiatti per i meridionali. In Toscana si è, come per altri casi, molto precisi, e si utilizza acquaio per il lavello della cucina e lavandino solo per quello del bagno. Per non parlare poi di quello che c'è negli armadi d'Italia: nel Settentrione gli abiti si appendono sugli ometti o sugli appendiabiti, in Toscana si usano le grucce e al Centro-sud le stampelle o le croci.
E il melone? Melone ha due geosinonimi: popone in Toscana e melone di pane, diffuso soprattutto nell'italiano meridionale.
D'accordo o daccordoì
£'Fbi o il Fbi, la SPD o /'SPD?
Siamo tutti d'accordo nel considerare sbagliata la forma senza apostrofo daccordo Eppure, a ben guardare, il dubbio relativo a questa espressione attanaglia più di una persona: non ci sarebbe una pagina su Facebook ("Scusate ma si scrive d'accordo o daccordo?") e ben 294.000 risultati su Google alla ricerca su d'accordo 0 daccordo.
Questo dubbio ortografico riguarda una questione piuttosto complicata: quale articolo si deve usare con le sigle? Tutti sappiamo, per esperienza diretta, che quando dobbiamo scrivere una sigla con il suo articolo risulta facile quando si tratta di sigle che conosciamo e usiamo con frequenza il Pd, il Pdì, l'Onu,la Cgil, mentre ci risulta più ostico quando usiamo sigle che non conosciamo, soprattutto se sono sigle straniere.
D'accordo è una locuzione avverbiale e va scritta con l'apostrofo perché è composta da due elementi che sono la preposizione di e il nome accordo. D'accordo ha una funzione avverbiale e si usa per esprimere una concordanza di opinioni (essere d'accordo, mettersi d'accordo, andare d'accordo) oppure viene usato nelle risposte per esprimere un'affermazione, con il significato di 'si va bene': Venite anche voi? D'accordo. Accordo significa 'patto, convenzione', ma anche 'conformità di opinioni, armonia'. Si usa diffusamente nell'espressione andare d'amore e d'accordo. Scrivere daccordo tutto attaccato è quindi sbagliato.
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Un po' di etimologia Ì
Accordo deriva dal verbo accordare, ma è parola recente e moderna, perché nella lingua antica si preferiva la parola concordanza. L'etimologia di accordare è controversa: chi ci vede la derivazione dal latino COR, CORDIS, 'cuore', come in concordare; altri invece pensano piuttosto a una derivazione dal latino ACCHORDÀRE, da CHQRDA, 'corda degli strumenti musicali'. 11 dubbio è comunque giustificato, perché la grafia di certe espressioni italiane è molto oscillante tra forma unita e forma separata. Dobbiamo scrivere d'accordo (per non essere considerati dei veri zoticoni della grammatica) ma contemporaneamente dobbiamo ricordarci che vanno scritte unite: daccapo, daccanto, dattorno e naturalmente anche dabbene, dabbasso, disotto, disopra. (vedi anche Cap. 4. L'aitr'anno o l'altranno? Tutt'uno 0 tuttuno?).
L'Accademia della Crusca consiglia Molte persone commettono un grosso errore, perché "d'accordo" si può scrivere solo con l'apostrofo. Anche il dizionario più tollerante nei confronti dell'uso (il De Mauro) registra solo la forma apostrofata.
La norma che regola l'uso dell'articolo è diversa a seconda di come viene pronunciata la sigla e, va detto, presenta purtroppo diverse incertezze e oscillazioni nell'uso. Quando la sigla è pronunciata come una sola parola (come per esempio la Fiat, la Tav, l'Asl ecc.) si usa l'articolo, femminile o maschile, relativo alla prima parola che forma la sigla: l'Aie a l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica l'Onu l'Organizzazione delle Nazioni Unite il Pil il Prodotto Interno Lordo la Fiat la Fabbrica Italiana Automobili Torino la Cisl la Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori la Dia la Direzione Investigativa Antimafia il Pra il Pubblico Registro Automobilistico il Sisde il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica anche se poi abbiamo il Cud, la Certificazione Unica dei redditi di lavoro dipendente. Quando la sigla viene pronunciata per lettere distinte, come Pdl (pi-dì-èlle), 0 Tfr (ti-effe-èrre): • se la prima lettera della sigla è una consonante, si adoperano gli articoli il e un-, il Pd (pi-di), il Pdl (pi-di-èlle), il Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro); ma, attenzione, abbiamo la Cgil (Confederazione Generale Italiana del Lavoro); • se la prima lettera della sigla è una vocale, si adopera l'articolo V: l'Olp, l'Aids, l'ogm. Nota bene: come prima lettera vocalica si intende la pronuncia della lettera, quindi è corretto dire e scrivere l'SPD (l'esse-pi-di), l'Mpa (l'emme-pia), l'Fbi (l'èf-bi-ai) e l'sms: tutte e quattro le sigle "iniziano" con una vocale. Attenzione! Sulla carta stampata si possono trovare anche il MPA (da il Movimento per l'autonomia), il FBI [il Federai Bureau oflnvestigation): sono le oscillazioni nell'uso con cui dobbiamo convivere
De7/'Aquila, di L'Aquila o de L'Aquila? Come si usano le preposizioni in presenza di un nome proprio che contiene un articolo? Ecco un dubbio molto frequente, perché quando scriviamo ci troviamo spesso di fronte a titoli di romanzi, film, testate giornalistiche o toponimi (nomi di località geografiche) che cominciano con un articolo come I Malavoglia, Il concerto, l'Unità, La Spezia e se davanti ci dobbiamo mettere una preposizione, ecco il dilemma. Oual è la forma corretta? la ricostruzione dell'Aquila, la ricostruzione di L'Aquila la ricostruzione de L'Aquila
il riassunto dei Malavoglia il riassunto di I Malavoglia il riassunto de I Malavoglia
Per toglierci dagli impicci possiamo usare la scorciatoia dell'apposizione, cioè inserendo tra la preposizione articolata e il titolo un nome che ne specifichi il significato: sul quotidiano La Stampa, nel romanzo 11 Gattopardo. Ma si tratta di un espediente che può appesantire il testo e renderlo quindi meno scorrevole. Inoltre non funziona con le città, perché necessitano dell'inserimento di un'ulteriore preposizione (di) che ci riporta, nuovamente, al problema iniziale: siamo arrivati alla città di L'Aquila (dell'Aquila, de L'Aquila?). Come dobbiamo comportarci? Vediamo che cosa suggeriscono le grammatiche. LA GRAMMATICA DICE Generalmente le grammatiche propongono le tre diverse possibilità, tutte grammaticalmente corrette: 1. Mi piace il protagonista della Storia Infinita di Michael Ende 2. Mi piace il protagonista di La Storia Infinita di Michael Ende 3. Mi piace il protagonista de La Storia Infinita di Michael Ende « Nel primo esempio la preposizione e l'articolo iniziale si fondono in una preposizione articolata e rispecchiano l'uso della lingua parlata. ® Nel secondo esempio si ricorre alla preposizione semplice che ha il vantaggio di mantenere intatto il titolo.Tuttavia, se optiamo per questa soluzione,
per correttezza dovremmo usare lo stesso metodo anche con la preposizione in, arrivando a soluzioni piuttosto sgradevoli come in L'Aquila, in "I Malavoglia", in "I promessi Sposi". 0 Nel terzo esempio si fa ricorso a una grafia antiquata, che risale addirittura alla scrittura separata delle preposizioni articolate ad opera degli antichi amanuensi: su "La Repubblica", a L'Aquila, ne "I promessi Sposi". La seconda e la terza soluzione hanno il vantaggio di mantenere intatto il titolo dell'opera 0 il nome della località, ma allontanano molto lo scritto dall'uso parlato e, come giustamente osservava Giovanni Nencioni (già Presidente dell'Accademia della Crusca e illustre storico della lingua), "denuncerebbero una grave insufficienza della nostra ortografia".
Istruzioni per Fuso Il consiglio è quindi di optare per la prima soluzione, e scrivere così come si parìa, senza utilizzare interventi che hanno evidentemente dell'artificioso: Ifondi per la ricostruzione dell'Aquila; Mi hanno raccontato di numerose proteste di cittadini all'Aquila; Devo fare un riassunto dei Malavoglia; Mi piace il protagonista della Storia Infinita di Michael Ende; Ho studiato l'uso della punteggiatura nei Promessi Sposi; Ho letto un bell'articolo sulla Stampa; Massimo Giannini scrive sulla Repubblica e sull'Espresso.
L'Accademia della Crusca consiglia
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L'Accademia consiglia di usare la soluzione grafica che corrisponde alla pronuncia della lìngua parlata, perché più facile e accessibile a tutti.
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Efficiente
o efficenteì
Efficiente va sempre scritto con la i e m ai efficente. La domanda sorge spontanea: per quale ragione allora scriviamo soddisfacente senza la /? Ecco una questione ortografica che ci tormenta fin dalla scuola: quando si mette e quando non si mette la /? LA GRAMMATICA DICE La regola grammaticale dice che, in italiano, la lettera c rappresenta due suoni distinti: • davanti alle vocali a, o, u, davanti a una consonante e in fine di parola corrisponde alla c di cane: casa, cosa, cucina, credere, tic-tac; • davanti alle vocali e, i corrisponde al suono più dolce di cena: cento, cigno. Per rappresentare il suono palatale (quello di cena, per spiegarsi) davanti alle vocali a.oeu, la lingua italiana ha trovato un espediente utilissimo: inserisce una i tra consonante e vocale e... il gioco è fatto -.faccia, ciò, ciurma (senza la / si leggerebbero facca, cò e curma).
Un po' di... storia della lingua Per quale motivo ci sono così tante oscillazioni nella resa grafica dei suoni c e g , tante regole e troppe eccezioni? Tutta colpa del latino. In latino le lettere c e gavevano solo il suono sordo (di casa e di gallo): CICERO (Cicerone) si pronunciava chicheroE GELU si pronunciava ghelu. Poi, più 0 meno dal III secolo d.C., il suono di queste lettere davanti alle vocali e ed /' ha incominciato a spostarsi dalla gola verso il palato, così CICERO (pronunciato CIveliero) divenne Cicero(ne), CENTUM (chentum) 'cento' e GELU [ghelu) 'gelo'. Non è che tutto sia avvenuto così, all'improvviso: ci sono state certamente delle fasi intermedie da un suono all'altro. Possiamo ancora rintracciare le fasi di questo spostamento nelle lingue e nei dialetti odierni che sono in qualche modo testimoni di questo passaggio: la pronuncia del latino classico, ad esempio, la possiamo ritrovare, come un reperto archeologico, nei prestiti latini entrati nelle lingue germaniche dove è rimasto un Kiste ('cesta'), per il latino CISTA che originariamente si pronunciava chista 0 Keller {'cantina') dal latino CELLARIUM, che si pronunciava cheiiarium, Da CAESAR latino (che si pronunciava con la c di casa) deriva il tedesco Kaiser ('imperatore') e perfino il russo Zar.
Questa e la regola. Allora perché scriviamo efficiente con la i quando non sembrerebbe necessario, visto che cena, dolce e celeste si scrivono senza? La regola, in verità, è piena di eccezioni: • ci sono le parole cielo e cieco (che derivano dal latino CÀELUM e CÀECUS) che grazie alla 7 si distinguono dalle parole omofone (cioè che si pronunciano allo stesso modo) celo (prima persona singolare del verbo celare) e ceco (ovvero, della Repubblica Ceca); • ci sono i nomi composti con il suffisso -iere, come pasticciere, artificiere, braciere, dove la i rimane per mantenere visibile e riconoscibile il suffisso che è lo stesso di inferm-iere, barb-iere ecc. Infatti, dove non è necessario, abbiamo regolarmente pasticceria 0 brace, senza la 7. « infine abbiamo efficiente che, insieme a deficiente, sufficiente e insufficiente, viene scritto con la i, esattamente come la forma originaria latina: EFFICIENS, SUFFICIENS, DEFICIENS. In questi casi, trattandosi probabilmente di voci dotte, il legame con l'origine latina è rimasto così forte da non consentire un adattamento alle trasformazioni delle parole simili. Altri aggettivi, infatti, com e facente, soddisfacente, confacente, stupefacente (dal participio presente FACIEIMTEM e suoi composti), si sono invece allontanati dalla parola latina da cui provengono e si scrivono tutti senza la /. Di fronte a tante eccezioni, l'unico rimedio è affidarsi a uno schema riassuntivo: SI SCRIVONO CON LAI artificiere braciere cartucciera cieco cielo deficiente efficiente formaggiera pasticciere sufficiente sufficienza
SI SCRIVONO SENZA LA I carcere ceco (della Repubblica Ceca) celo (verbo celare) confacente indecente indecenza innocente megera pancetta soddisfacente stupefacente
Entusiasta o entusiaste?
• Gli aggettivi con due sole desinenze (-e, -/), una per il singolare e una per il plurale: giovan-e giovan-i
Ovviamente la risposta corretta è: entusiasta, con la -a finale.
• Gli aggettivi con tre desinenze (-a, -7, -e), una comune per il maschile e il femminile singolari (-a), e due desinenze diverse per il plurale (-/, -e): entusiast-a entusiast-i, entusiast-e A questa classe appartengono gli aggettivi che terminano in -ista (pessimista,, marxista), -cida (omicida, battericida), -ita (ipocrita, sunnita), -asta (entusiasta, iconoclasta ecc.), -ota [idiota).
Perché si dice "Marco è entusiasta della tua proposta" e non "Marco è entusiaste"? Come mai questo aggettivo maschile (perché si riferisce a un uomo, Marco) termina in -a, come buona, bella, tranquilla e bionda? Non è una domanda poco interessante, questa, perché ci dice quanti siano 1 dubbi relativi alle desinenze dei generi maschile e femminile. Nella nostTa mente infatti, c'è una regola che dovrebbe essere univoca: il maschile termina in -o al singolare e in -/ al plurale; il femminile finisce in -a al singolare e in -e al plurale. maschile il gatto - / gatti
femminile la gatta - le gatte
• Gli aggettivi invariabili, che rimangono cioè uguali sia nel genere sia nel numero: pari, blu, rosa, arrosto ecc. Quindi, dato che entusiasta appartiene alla terza classe, si dirà: Marco è entusiasta Ginevra è entusiasta I bambini sono entusiasti Le bambine sono entusiaste
Le cose però non stanno così. Rispolveriamo allora un po' di grammatica e vediamo da vicino la parola entusiasta. LA GRAMMATICA DICE Entusiasta è un aggettivo qualificativo, ossia quel tipo di aggettivi che esprimono una qualità del nome al quale si riferiscono. Ouesti aggettivi sono suddivisibili in quattro classi, in base al modo in cui si declinano (o non si declinano) per genere e numero. Abbiamo dunque: . Gli aggettivi con quattro desinenze (-0, -a, -i, -e), una per ciascun genere e una per ciascun numero: bell-o bell-i bell-a bell-e
Un po' di... etimologia Entusiasta deriva dal verbo greco enthousiézein, che significa letteralmente 'essere in dio, essere pieno di dio' (en sta per 'in' e theós per 'dio'), quindi 'essere mosso, ispirato da dio'. La parola però ci arriva dal greco per via indiretta, perché si diffuse in Italia nel XVI secolo d.C. per influsso del francese enthousiasme e enthousiaste.
Se avete avuto anche voi il dubbio su entusiasta, come possibile forma maschile dell'aggettivo entusiasta, sappiate che non avete peccato di esagerata ignoranza, perché in effetti, nella lingua italiana, questa questione è rimasta aperta per diverso tempo. Infatti la lingua antica presenta numerose oscillazioni, sia per entusiasta/entusiastosia per altri aggettivi della stessa classe, come ipocrita/ipocrito (ma anche per i nomi uscenti in -a come artista/artisto, eremita/eremito, stratega/stratego), mostrando così un tentativo di "normalizzazione" che anche noi, nella nostra mente, percorriamo quando ci chiediamo se non esista entusiasto.
Ho scritto a degli amici Ci sono frasi che, quando parliamo, pronunciamo senza problemi: ho scritto a degli amici• sono uscito con delle ragazze; si sono ribellati a delle calunnie ecc Si tratta di frasi che non sono scorrette dal punto di vista grammaticale. Per quale motivo, però, ci sembra (e non a torto) che "suonino male" e ci freniamo quando dobbiamo metterle per iscritto? In effetti, nella lingua scritta vanno evitate. Partiamo dalla grammatica e cerchiamo di capire perche. LA GRAMMATICA DICE Degli e delle sono articoli partitivi: accanto agli articoli determinativi e indeterminativi, la lingua italiana possiede infatti anche un terzo tipo di articoli che si chiamano partitivi. Ecco uno specchietto esemplificativo per rinfrescare la nostra memoria:
Singolare Plurale
Articolo determinativo
Articolo indeterminativo
Maschile il, lo, /'
Femminile la, I'
Maschile
Femminile
un, uno
una, un
i, gli
le
Artìcolo partitivo Maschile
Singolare Ritira le
del, dello del degli
_
femminile
della delle
L'articolo partitivo indica una quantità imprecisata, una parte di un tutto specificato dal nome che segue: Ho mangiato della frutta Ho comprato del vino Ci siamo andati con degli amici Abbiamo incontrato delle ragazze • Al singolare l'articolo partitivo può essere sostituito con un po'di. vuoi del vino? = vuoi un po'di vino? • Al plurale l'articolo partitivo può essere sostituito con alcuni, alcune, ho preso delle banane = ho preso alcune banane. Eccezione: il discorso non torna però del tutto se dico: hai delle belle gambe o ha dei begli occhi; è chiaro che non posso sempre sostituire l'articolo partitivo con alcuni/e... Le regole grammaticali hanno sempre delle (alcune) eccezioni!
In italiano l'articolo partitivo funge anche da plurale dell'articolo indeterminativo: ho una matita ho delle matite ho un cane ho dei cani. Lo spagnolo e il portoghese, invece, hanno anche le forme plurali dell'articolo indeterminativo: un gato, unos gatos una mujer, unas mujeres um gato, uns gats urna mulher, umas mulheres.
Istruzioni per l'uso Quando l'articolo partitivo è preceduto da una preposizione è bene sostituirlo con il corrispondente aggettivo alcuno. Non perché sia scorretto, ma - come dice Luca Serianni nella sua Grammatica - per ragioni di chiarezza o di eufonia (cioè di armonia sonora). Nella lingua parlata possiamo dire sono uscito con delle ragazze oppure ho scritto a degli amici, ma quando scriviamo cerchiamo sempre di preferire: sono uscito con alcune ragazze e ho scritto ad alcuni amici.
lo do, lei sa, lui dà: dove va l'accento?
Fa e do non vogliono l'accento, anche se fa (terza persona singolare del verbo fare) potrebbe confondersi con la nota musicale, così come do (prima persona singolare del verbo dare) con il do nota musicale. In questi casi, però, il contesto è quasi sempre sufficiente a chiarire il senso e a non creare ambiguità, così come per il re (sovrano) e il re (nota musicale) o mi (a me) e mi (nota musicale). Quindi: Marta fa un sacco di storie. Ti do una bella notizia.
È corretto scrivere: io do, lei sa e lui dà. LA GRAMMATICA DICE La regola grammaticale dice che l'accento è obbligatorio su alcuni monosillabi (parole composte da un'unica sillaba) per distinguerli da parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno significati diversi: per esempio l'accento serve a distinguere la terza persona singolare del verbo essere (è) dalla congiunzione e oppure là (avverbio) da la (articolo). Ecco in sintesi quali sono i monosillabi cbe richiedono l'accento: dà dì è là lì né
(nome: giorno) (verbo essere) (avverbio di luogo) (avverbio di luogo) (congiunzione: né belli né brutti) sé (pronome:fare da sé) sì (affermazione) tè (nome: il tè)
Un po' in disuso
* di (preposizione: il cane di Paolo) # e (congiunzione: cani e gatti) *la (articolo: la casa) * li (pronome: li conosco bene) * ne (pronome: ne prendi ancora? o avverbio di luoqo: te ne vai?) * se (pronome atono: se ne andò o congiunzione: se vieni,parliamo) * si (pronome: il gatto si lava) * te (pronome: vengo con te)
, Po' è la forma tronca (abbreviata) della parola pocoe l'apostrofo sta ad indicare che la seconda parte della parola si è perduta per strada. Un po', nell'uso scritto, si sta lentamente spostando verso la forma con l'accento, un pò, che è errata, mi raccomando! topo dilaga soprattutto negli sms (che riceviamo ma, purtroppo, anche in quelli che scriviamo) dove, a essere sinceri, pò è la scelta più veloce e meno macchinosa rispetto alla ricerca, lunga e complessa, dell'apostrofo. C'è stato addirittura chi avrebbe suggerito di eliminare del tutto l'apostrofo lasciando semplicemente po, che certamente non si confonderebbe con il fiume Po, visto che, in questo significato, ci vuole la maiuscola: non sarebbe una cattiva idea e forse sarebbe meno indigesta della forma con l'accento!
E da' con l'apostrofo?
Oltre a. da e dà con l'accento, abbiamo anche un da' con l'apostrofo: si tratta della seconda persona singolare dell'imperativo presente del verbo dare. Ci sono poi le tre forme: di, senza accento, in quanto preposizione ("un morso di mela"); dì, con accento, sinonimo di giorno; di', con l'apostrofo, per la seconda persona dell'imperativo presente ("di' la tua"). Come dare e dire si comportano anche i verbi fare, stare, andare, che alla seconda persona singolare dell'imperativo hanno-.fa', sta'e va'. Fa', da', sta' e va' sono forme apocopate (cioè troncate, abbreviate) rispettivamente di fai, dai, stai e vai.
L'accento non va mai messo sulle seguenti parole monosillabiche: • qui (avverbio) « qua (avverbio) • so (prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo sapere) • sa (terza persona singolare dell'indicativo presente del verbo sapere) • va (terza persona singolare dell'indicativo presente del verbo andare) • sta (terza persona singolare dell'indicativo presente del verbo stare) «• fu (terza persona singolare del passato remoto del verbo essere) « blu (sostantivo o aggettivo) • tre (numero) • su (avverbio e preposizione) Vanno invece scritte sempre con l'accento: « già, giù, più, ciò • i composti di tre: ventitré, trentatré, centotré • i composti di su: quassù, lassù • i composti di blu: rossoblù, gialloblù • i composti di re: viceré
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La forbice o le forbici! La forma corretta è quella plurale: leforbici, ma se scrivete la forbice non commettete un errore troppo grave. Vediamo perché. LA GRAMMATICA DICE Le forbici, per i libri di grammatica, sono un classico esempio di nome difettivo. 1 nomi difettivi sono quelli che si usano (quasi) esclusivamente nella forma singolare o in quella plurale. I nomi difettivi che mancano di singolare solitamente si riferiscono a oggetti formati da due o più parti: i pantaloni; i calzoni; gli occhiali; le mutande; le pinze; le redini; le manette; le forbici ecc. Tutti questi oggetti in italiano sono generalmente al plurale, ma presentano localmente anche la forma singolare, meno diffusa e percepita come meno corretta rispetto a quella plurale. L'oscillazione singolare/plurale è dovuta al fatto che tutti gli elementi sovraccitati sono composti da due parti coìlegate, unite o cucite tra loro.- due in uno. Questa la regola, la realtà di noi parlanti è poi leggermente diversa: l'oscillazione tra le due forme, forbice e forbici, è fortemente influenzata dalla presenza di questa parola (che denomina uno strumento fondamentale per la vita e il lavoro) in tutti i dialetti italiani, che la vedono al singolare nell'area settentrionale, da Torino a Bolzano, e anche in Abruzzo, Campania, Basilicata, Puglia e Calabria, ma rigorosamente al plurale nell'area centrale (Toscana, Lazio, Marche e Umbria) e oscillante tra singolare femminile e plurale maschile in Sicilia. Rimando, a questo proposito all'interessantissimo articolo di Matilde Paoli, della Redazione Consulenza Linguistica dell'Accademia della Crusca, La lingua in rete (30/06/2010).
Istruzioni per l'uso Oual è dunque la forma corretta? Diciamo che le forbici sarebbe la forma corretta e quella che dovremmo usare nella lingua scritta, a meno che non stiamo parlando di forbice nel significato (recentemente diventato molto di moda), di 'divaricazione, distanza' in termini di voti, di emolumenti ecc.:forbice salariale,forbice di gradimento, la forbice tra Barack Obama e John McCain. È evidente che, nel linguaggio orale, la scelta della forma singolare o plurale sarà molto influenzata dal dialetto parlato in ciascuna area: al Nord sicuramente si sceglierà il singolare, al Centro il plurale e al Sud l'uso sarà oscillante.
l'orecchio
l'urlo
gli orecchi le orecchie (senza differenze di significato) gli ossi (generalmente di animali) le ossa (insieme dell'ossatura umana) gli urli (soprattutto di animali) le urla (dell'uomo)
L'altr'anno o l'altrannoì Tutt'uno o tuttunoì Esistono moltissime espressioni, in italiano, come tuttora e tutt'uno (la prima unita, la seconda con l'apostrofo!), che si pronunciano come una sola parola ma si scrivono seguendo regole diverse e, a volte, poco comprensibili: alcune si rappresentano graficamente come due parole separate, altre invece come due parole unite. Ma non finisce qui, perché per un buon numero di queste espressioni sono ammesse sia la grafia unita sia quella separata, l'una più comune e l'altra meno diffusa. Che maggior parte, a posto o all'inarca si scrivano separate, credo lo sappiamo tutti, nonostante la nostra percezione di queste espressioni, quando le pronunciamo, sia maggiorpàrte, appósto e allincìrca. Il problema sì pone, per molti di noi, di fronte a espressioni come senz'altro, l'altr'anno, d'altronde, per lo più, tutt'oggi, talora (o tal'oraì) e tante altre ancora. I dubbi di chi scrive, nei confronti di queste parole, sono più che comprensibili perché corrispondono spesso a oscillazioni nella resa grafica e a incongruenze nell'uso. Ad esempio possiamo scrivere per lo più, separato, oppure unito e con una sola p [perlopiù), ma guai a scrivere perloppiù, mentre poi abbiamo sennonché, che va scritto unito e guai invece a usare la forma senonché, con una n sola, considerata scorretta, mentre la grafia separata se non che è accettabile, ma (attenzione!) meno comune. La situazione è davvero complessa. Per questo vogliamo elencarvi le parole e le espressioni che vanno scritte separate, quelle che vanno scritte unite e quelle che hanno entrambe le possibilità, tenendo conto del fatto che a volte perfino queste indicazioni possono cambiare con Timporsi di una forma sull'altra.
Vanno sempre scritte separate a fianco a posto a proposito al di là (ma l'Aldilà) all'incirca d'accordo d'altronde
l'altr'anno maggior parte per cui per lo più poc'anzi quant'altro tutt'uno
Vanno sempre scritte unite allora allorché almeno ancorché apposta appunto benché bensì chissà davanti davvero dopodomani dovunque eppure finché finora giacché infatti inoltre invano invero laggiù neppure nonché
oppure ossia ovvero ovverosia perciò perfino pertanto poiché pressappoco quaggiù qualcosa qualora quassù sennonché seppure sicché siccome sissignore soprattutto sottosopra talora talvolta tuttavia tuttora
Nel linguaggio colloquiale, e quindi informale, abbiamo due espressioni come sennò e vabbè che nell'italiano scritto più formale e sorvegliato vanno resi graficamente come due parole separate: se no e va be' (con l'apostrofo, perché forma troncata di bene). Infine, la sezione delle parole che presentano entrambe le grafie (unita e separata). Per alcune di esse la scelta è libera, per altre una forma è registrata (nei dizionari), come meno comune dell'altra, perché considerata arcaica, antiquata, passata di moda. La forma meno comune si può usare, ma bisogna tenere conto del fatto che, a volte, essa potrà dare al testo scritto un gusto un po'... retro. Inoltre può capitare che alcune forme da "meno comuni" passino allo stato di... "defunte".
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Si possono scrivere sia unite che separate anzitutto caso mai ciononostante/ciò nonostante controvoglia cosicché cosiddetto cosiffatto dappertutto dappoco (= di poco pregio) dappresso dapprima da principio di fronte di sotto dopotutto manodopera mezz'ora nondimeno nonostante oltre misura oltremodo peraltro perlomeno perlopiù quanto meno quantopiù suppergiù tanto meno tanto più tutt'al più
anzi tutto (meno comune) casomai (meno comune) cionnonostante (meno comune) contro voglia così che così detto così fatto da per tutto da poco (meno comune) da presso da prima (meno comune) dapprincipio (meno comune) difronte (meno comune) disotto (meno comune) dopo tutto mano d'opera mezzora (meno comune) non di meno non ostante (meno comune) oltremisura (meno comune) oltre modo (meno comune) per altro per lo meno per lo più quantomeno (meno comune) quanto più su per giù tantomeno (meno comune) tantopiù (meno comune) tuttalpiù (non comune)
Istruzioni per l'uso Tenete sempre un buon dizionario a portata di mano, ma attenzione: perfino i dizionari, a volte, danno risposte contraddittorie!
Lo pneumatico o il pneumatico? La forma corretta è, senza dubbio, lo pneumatico, gli pneumatici. Ma quanti di noi la rispettano? Vediamo da vicino quali sono le regole che disciplinano l'uso degli articoli nella lingua italiana. LA GRAMMATICA DICE La regola parla (o parlerebbe) chiaro. In italiano abbiamo tre articoli determinati per il maschile: il, l'elo. Lo si usa davanti ai nomi che iniziano con: • s + consonante (si chiama s impura): lo sbaglio, lo stagno, lo sgabello, lo smalto-, • z: lo zaino, lo zio, lo zero; • x. lo xilofono, lo xenofobo; • ps o pn: lo psicologo, lo pneumotorace, lo pneumatico; • gn e se. lo gnomo, lo gnocco, lo sceriffo, lo scialle; • i semiconsonantica: lo iodio, lo iato, io yogurt, io yeti. Il plurale di lo è gli: gli pneumatici, gli sbagli, gli psicologi, gli gnomi, gli gnocchi, gli sceriffi, gli scogli ecc.
Un po' di... storia della lingua
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L'articolo lo nell'italiano moderno ha, come abbiamo visto, un ruolo piuttosto marginale, relegato a usi limitati. Non è stato sempre così. Anzi, possiamo dire che nell'italiano antico era l'articolo lo a farla da padrone, rispetto ai colleghi ile /'. Al plurale, la lingua antica aveva tre forme, /', glie //"(in Dante lo troviamo spesso: "li spirti", "li stornei", "li occhi"). La variante li è oramai scomparsa in italiano, ma sopravvive, stranamente, in quella forma di "burocratese" che è la data: Roma, //"(sottinteso giorni) 28 aprile 2011.
Gli articoli il e lo derivano tutt'e due dall'aggettivo dimostrativo latino (che significava originariamente 'quello'), che con il tempo è passato a indicare l'articolo determinativo il: ILLUM FILIUM, il figlio. Allo stesso modo, l'articolo la deriva da TLLAM (FILIAM) divenuto poi ILLA FILIA, la figlia.
TLLUM
Quindi la forma corretta è lo pneumatico, uno pneumatico e gli pneumatici. Il reale uso nella lingua italiana ci dice però un'altra cosa: da una veloce ricerca della voce su Google abbiamo, ad esempio, 4.130.000 risultati per lo pneumatico e 8.040.000 per il pneumatico. Quasi il doppio per la forma "scorretta". Effettivamente il nesso pn- iniziale non è semplicissimo da pronunciare e non è molto diffuso nella lingua italiana. Con pn- iniziale abbiamo solo una serie di termini molto specialistici della medicina: lo pneumotorace, lo pneumococco, lo pneumocefalo, lo pneumografo, lo pneumologo, lo pneumopericardio. Pneumatico è l'unica, tra le parole che iniziano con pn-, ad avere una diffusione anche nel linguaggio quotidiano. È dunque comprensibile che ci possa essere un'indecisione su quale articolo usare e che nel parlato informale si opti per l'articolo il, quello più comunemente usato con i nomi maschili.
Istruzioni per Fuso Possiamo dire il pneumatico, i pneumatici in contesti informali, ma quando andiamo a scrivere sarebbe preferibile attenersi alla forma regolare lo pneumatico, gli pneumatici. Ouando, però, andiamo a vedere i testi che pubblicizzano tali accessori per auto, notiamo che sono ben attestate tutte e due le possibilità. Un rapido sguardo ai siti internet di due tra le maggiori case produttrici di pneumatici, Michelin e Pirelli, mostra una situazione davvero oscillante. Sul sito ufficiale della Michelin (http://www.michelin.it/pneumatici) prevale lo pneumatico, ma talvolta, inavvertitamente, chi scrive scivola verso la forma più informale il pneumatico e i pneumatici: Sei motivi per sostituire gli pneumatici. Di seguito, trovate descritte sei circostanze in cui è bene prendere in seria considerazione l'idea di sostituire i propri pneumatici. In altri casi, è possibile riparare uno pneumatico danneggiato. La riparazione degli pneumatici Michelin deve essere preceduta da un attento esame di tutte le parti dello pneumatico, interne ed esterne, da parte di uno specialista. Ma qualche riga più in là si legge: In caso di dubbio, rivolgetevi a uno specialista che sarà in grado di stabilire se il pneumatico è ancora adatto all'uso. Sul sito della Pirelli (http://www.pirelli.com/tyre) prevale invece ampiamente il pneumatico, i pneumatici: Per la tua sicurezza è importante controllare i pneumatici della tua auto
Ma però?
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Ouanti di noi ricordano il segno sdegnato, a penna rossa, che sottolineava l'errore nelle nostre composizioni scolastiche: ma però non si scrive - ci dicevano - perché è una ripetizione di due congiunzioni avversative (ma e però) che hanno lo stesso significato e per questo è da rigettare, proprio come a me mi. Invece. Dopo anni di "non si dice e non si scrive", finalmente, le moderne grammatiche ci offrono tutta la loro solidarietà: ma però si può dire e anche scrivere.
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LA GRAMMATICA DICE Cito, a esempio, la grammatica di Luca Serianni:"A/1a può sommarsi ad altre congiunzioni avversative 0 sostitutive con effetto di intensificazione: «ma però», «ma bensì»". Ma, infatti, è una congiunzione coordinativa di tipo avversativo. Le congiunzioni avversative uniscono due parole o frasi che hanno un contenuto non solo diverso, ma anche contrapposto. Le congiunzioni coordinative avversative sono: ma, tuttavia, però, pure, eppure, anzi, nondimeno, bensì, piuttosto, invece, mentre, se non che, al contrario, per altro, dei resto, ciò nonostante. Oueste congiunzioni possono esprimere un'opposizione parziale e allora si dice che hanno un valore avversativo-limitativo (non vorrei uscire, Ma però d'autore ma devo comprare il latte) oppure N • un'opposizione totale con valore "[...] cose da levarvi l'allegria per tutta la avversativo-oppositivo e, in quevita; ma però, a parlarne tra amici, è un solsto caso, sono anche chiamate lievo." sostitutive (non aveva perso solo il Alessandro Manzoni, suo patrimonio, bensì l'intera ereIPromessi Sposi, Cap. XXIII dità paterna).
Un po' di... etimologia
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Il latino conosceva molte congiunzioni avversative: SEU, AUTEM, AT, VERUM ecc. che non sono sopravvissute alla storia. Furono sostituite, nel latino parlato, da MAGIS, che dall'accezione originaria 'più', passò ben presto a significare 'piuttosto'. Da MAGIS si passò alla forma attestata mai e quindi a ma. Però deriva dall'espressione PER HOC, 'per questo', dove il latino PER significa 'attraverso'.
Le congiunzioni coordinative servono a unire proposizioni 0 parti di proposizioni: Luca mangia e dorme; Elena è brava ma poco creativa; Vittorio era un sognatore, perciò è morto. A seconda del loro significato si distinguono in congiunzioni: copulative (e, anche, pure, né ecc.); disgiuntive (0, oppure, altrimenti, ovvero ecc.); dichiarative {cioè, infatti, ossia ecc.); avversative (ma, però, tuttavia, anzi, piuttosto che ecc.); conclusive (dunque, quindi, perciò, allora ecc.); correlative (e... e, 0... 0, sia... sia, non solo... ma anche ecc.).
Ma non solo è l'avversativa più diffusa nella nostra lingua, bensì anche l'unica che possa svolgere entrambe le funzioni: non è bello, ma ha fascino (limitativa); non è uno scoiattolo ma un ghiro (sostitutiva). Ecco che, considerato da questo punto di vista, l'accostamento di ma con però risulta comprensibile, perché il significato di ma viene rafforzato dalle congiunzioni avversative affini: ma però, ma tuttavia, ma bensì.
( E ) POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 4. Cioè
Nessun uomo o nessun'uomoì Ho il sospetto che di fronte alla scrittura di espressioni come nessun uomo o nessun articolo molti lettori abbiano avuto, almeno una volta, il dubbio se mettere o non mettere l'apostrofo, proprio come si fa per nessun'anima e nessun'ombra. Per evitare anche ogni piccola esitazione, diciamo subito che nessun uomo si scrive senza l'apostrofo, perché nessun esiste così com'è - cioè naturalmente privo della -o finale - e si comporta esattamente come l'articolo indeterminativo un. Vediamo la regola grammaticale. LA GRAMMATICA DICE Nessuno è un aggettivo indefinito e si comporta come l'articolo indeterminativo un. Di un e nessun esistono tre forme: Maschile: Maschile: Femminile:
un uno una/un'
nessun nessuno nessuna/nessun'
Le forme un, nessun, come si vede dallo schema, esistono a priori e sono destinate alle parole di genere maschile che cominciano: . con una consonante (tranne z,x,s + consonante, ps e i gruppi consonantici gn e se): nessun bambino, nessun quaderno, nessun fiore, nessun libro, nessun tavolo, nessun vaso; • con una vocale o con la u semiconsonantica: nessun elefante, nessun uomo, nessun whisky; • con i nomi di origine straniera che iniziano per h: nessun hotel, nessun hamburger, nessun hobby (ma: nessuno humourì).
Un po' di... etimologia
_ _ Nessuno deriva dall'espressione latina N(E) TPS(E) UNUS, che significava 'neppure uno'.
Le forme uno, nessuno si usano davanti ai nomi maschili che cominciano: • con s + consonante: nessuno sbaglio, nessuno scaffale, nessuno sgabello, nessuno smalto, nessuno studio; • con z: nessuno zaino, nessuno zero, nessuno zio, nessuno zoccolo; • con x: nessuno xilofono, nessuno xenofobo; • con ps-, nessuno psicologo, nessuno pseudonimo; • con i digrammi gn e se. nessuno gnomo, nessuno gnocco; nessuno sceriffo, nessuno scialle; • con la semiconsonante /: nessuno iato, nessuno yogurt. Le forme un', nessun', con l'apostrofo, si hanno soltanto davanti a parole di genere femminile che iniziano per vocale: nessun'ape nessunXape nessun'anima nessunXanima Come nessuno si comportano anche ciascuno e alcuno: alcun uomo, alcuno sbaglio, alcuna chiesa, alcun'anima; ciascun abito, ciascuno scolaro, ciascuna sciarpa, ciascun'ape.
Provine/e o province? Valigie o valide?
avanzino inesorabilmente anche le forme senza i come ciliege e valige. Lo stesso prof. Serianni, storico della lingua italiana, nella sua Grammatica si augurerebbe che quella i venisse eliminata dalle forme plurali... forse molti italiani ne gioirebbero.
Per ricordarci come si comportano al plurale le parole che terminano in -eia e -già abbiamo imparato una regoletta semplice semplice nelle aule della nostra scuola elementare (l'odierna "scuola primaria"):
La regola che noi tutti conosciamo è piuttosto recente e ha fatto anche fatica a imporsi. Prima, per sapere come si comportavano i plurali di valigia e provincia occorreva conoscere bene il latino e l'etimologia di ciascuna parola. Infatti la norma prevedeva che si mantenesse la /' nei nomi che già in latino presentavano i nessi -ci- e -GÌ-, come acacia/acacie (dal latino ACÀCIAM), ma anche provincia, Provincie (dal latino PROVTNCIAM). La /' invece andava eliminata nei nomi che etimologicamente non li prevedevano, come camicia/camice (perché derivato dal latino CAMTSIAM) O ciliegia/ciliege (perché derivato dal latino CERESEAM). Davvero una regola molto molto complessa che ci spiega la sopravvivenza (rara) della forma Provincie perfino nella nostra Costituzione! Nel sito www.quirinale.it leggiamo infatti (ma solo nel titolo e non negli articoli): TITOLO V - LE REGIONI, LE PROVINCIE, I COMUNI
LA GRAMMATICA DICE • se la c o la g sono precedute da una vocale, la i si mantiene anche al plurale: valigia, valigie; ® se la c e la g sono precedute da una consonante allora la i non si mette: provincia, province. Così, dovremo scrivere: camicia ciliegia socia grigia
camicie ciliegie socie grigie
arancia doccia mancia pioggia
arance docce mance piogge
Peccato che poi le cose non stiano proprio così, perché, a ben guardare, nella gran parte dei dizionari della lingua italiana vengono accettate (anzi, messe sullo stesso piano) anche le forme senza la / di alcune parole come valige, ciliege, grige. La regola ortografica sta un po' stretta alla nostra lingua: vediamo di capire perché. Innanzitutto chiediamoci: a cosa serve la /? La ; è un segno grafico che serve a indicarci che,in valigia,il suono deìlag davanti alla a è quello di getto e non di gatto e che la c di provincia non è la c di casa, ma la c di cena. Facile no? E anche utile, ovvio. Ma allora perché ce la ritroviamo pure al plurale, visto che davanti alla e finale la g è sempre la g di gelo e la c è sempre la c di cenai In effetti, quella i al plurale non serve a niente, è solo il retaggio di un'abitudine passata. Questo spiega perché
E si legge anche nel testo della Costituzione italiana antecedente alle riforme del 1999-2001: Art. 114 La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni. C'è perfino un gruppo su Facebook che, in dubbio sulla doppia possibilità, ha deciso di chiamarsi: "Aboliamo le Provincie (Province)". V
)
Oual è o quaVèì Oual è va sempre scritto senza apostrofo, anche se il nome al quale si riferisce è femminile: qual è il giorno giusto? Oual è la donna di cui parlavi? Con qual, infatti, l'apostrofo non si mette perché non si tratta di un'elisione bensì di un troncamento che non richiede l'apostrofo. Forse potrebbe essere utile un piccolo ripasso sul troncamento (e sull'elisione). LA GRAMMATICA DICE Il troncamento, detto anche apòcope, consiste nella caduta della vocale finale atona o dell'intera sillaba finale di una parola. Il troncamento può avvenire sia davanti alla vocale sia davanti alla consonante iniziale della parola seguente: qual (e) è -* qual è/qual buon vento andar(e) -* andar errando/andar per i campi.
Per esempio, qual è non si apostrofa (è un troncamento), perché si può dire anche qual buon vento, qual padre, qual difetto; buon uomo non si apostrofa (è un troncamento), perché si può dire anche buon padre, buon viaggio; invece poveruomo si apostrofa (è un'elisione), perché non si può dire *pover padre. Questa è la regola. Ma in pratica? A quanti di noi, anche tra gli scrittori provetti, non è mai scappato un qual'è con l'apostrofo? In effetti è difficile ricordarsi che, a causa della regola del troncamento, qual è si deve scrivere senza apostrofo, mentre invece quand'è, quant'è, dov'è vogliono l'apostrofo (perché *quand, *quant e *dov nella forma troncata non esistono, mentre qua) sì). Chissà se non sarebbe forse più semplice per tutti se questa regola si adeguasse alle evidenti difficoltà di chi scrive, e anche qual cedesse all'influenza di quant'è o com'è e potesse essere ammesso anche nella versione con l'apostrofo. Per ora però dobbiamo tutti resistere all'errore e ricordarci sempre che qual è non vuole l'apostrofo!
Come quale/qual si comportano anche: bello > un bel bambino; tale > non so come faccia a possedere un tal udito; buono > hanno ottenuto un buon risultato; bene > ben tornato; ben venga; grande > un gran caldo; professore, signore, dottore ecc. > il professor Piro, il signor Anichini, il dottor Olmi. L'elisione (dal latino ELIDERE che significa 'cancellare') si ha quando la vocale finale non accentata di una parola cade di fronte alla vocale iniziale della parola seguente. Al posto della vocale caduta compare un apostrofo: gamico -* l'amico uny^amica -* un'amica compera -* com'era.
Un piccolo trucco Come capire se dobbiamo usare l'apostrofo oppure no? Ecco un suggerimento pratico per distinguere se siamo di fronte a un'elisione (apostrofo sì) o a un troncamento (apostrofo no): non ci vuole l'apostrofo quando la parola che ha perduto la vocale finale può stare anche davanti a una parola che comincia per consonante, in caso contrario si ha elisione e ci vuole l'apostrofo.
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Rubrìca o rubricai La pronuncia esatta è rubrìca, con l'accento sulla /. Ma quante sono le parole che ci fanno sorgere dei dubbi riguardo alla loro pronuncia corretta? Si tratta spesso di parole che usiamo di rado, come pudico o infido, ma talvolta il dubbio - e le pronunce errate - riguardano parole di uso comune come rubrìca, appunto, o edile. Quando avete un dubbio riguardo alla posizione dell'accento di una parola, la cosa migliore è sempre consultare un dizionario della lingua italiana. Nel momento in cui siete certi dell'accento abituatevi a segnalarlo anche nella scrittura: nessuno ci proibisce di usare l'accento grafico sulle parole che risultano "oscillanti" nell'uso parlato. Sarà un piccolo rinforzo che date a voi stessi ma anche un aiuto per chi vi legge e che forse ha le stesse vostre incertezze. Qui di seguito vi forniamo una lista delle parole più comuni che presentano problemi di accentazione: Corretto abbaìno àbrogo (verbo abrogare) adùlo (verbo adulare) alcalino amàca anòdino appendice àrista arrogo (verbo arrogare) autòdromo biotòpo baùle bocciòlo bolscevico cadùco callìfugo cànide carisma centèllino codardìa collànt còlossal cosmopolita
Errato abbàino abrogo àdulo alcàlino àmaca anodino appèndice arista àrrogo autodròmo biòtopo bàule bocciolo bolscèvìco càduco callifùgo canìde càrisma centellino codàrdia collant colòssal cosmopolita
Corretto cùcùlo dagherròtipo dissuadére ecchimosi edile elèttrodo emicrània enurèsi errata corrige esplèto (verbo espletare) èureka farìngèo fortùito gómena gratùito guaina ìlare ìmpari incàvo infido internet intèrseco (verbo intersecare) ìntimo (verbo intimare) Isiàm isòtopi leccornìa libido lipidi mollica Nobèl omeopata osteòpata persuadére piròscafo pudico regime ròbot rubrìca Salgari salùbre sàrtia sìlice sutùra
Errato cùcùlo dagherrotipo dissuàdere ecchimosi èdile elettrodo emicrania enùresi errata corrige èspleto eurèka faringeo fortuito gomèna gratuito guàìna ilàre impàri incavo infido internèt intersèco intimo islam isotòpi leccornia libido lìpidi mollica Nòbel omeopàta osteopàta persuàdere piroscàfo pùdico règime robot rùbrica Sàlgari sàlubre sartia silice sùtura
tèrmite tralìce ùpupa Uràli
termite tràlice: upùpa Orali
Due pronunce, ma entrambe corrette Ci sono casi in cui esistono due pronunce e sono entrambe corrette. A volte sono parole di origine antica che prendono l'accento dalla parola greca o da quella latina da cui derivano. Altre volte, invece, delle due forme una è più usata mentre l'altra (magari quella etimologicamente più corretta) è meno frequente. alchimia (più frequente) alopècia (latino) arteriosclèrosi (greco) io constàto (più frequente) corrèo diatriba diurèsi (corretto) èdèma (greco) elèvo flògosi (greco) incàvo lubrico (più diffuso) monolito (o monolite) nècrosi (greco) peróne ossimoro scandinavo (più diffuso) zàffiro
alchìmia (raro) alopecìa (greco) arteriosclerosi (latino) io constato còrrèo (più corretto ma meno usato) diàtriba (più corretto ma meno usato) diùresi (meno corretto) èdèma (latino) èlevo (corretto ma raro) flogòsi (latino) incavo lùbrico (più corretto ma meno usato) monolito (più corretto ma meno diffuso) necròsi (latino) pèrone ossimoro (meno frequente) scandìnàvo (più corretto ma meno diffuso) zaffiro (più diffuso).
Seguito o seguito? Quanto è importante l'accento tonico per la comprensione? Certamente è fondamentale nel caso degli omografi, ossia quando usiamo quelle parole che in italiano si scrivono allo stesso modo e si distinguono tra di loro soltanto in base alla posizione dell'accento, che può cadere a volte sulla penultima e a volte sulla terzultima sillaba. Tornando alla nostra domanda: séguito è un nome derivante dal verbo seguitare e significa 'ciò che segue qualcosa' [il séguito della storia...), mentre seguito è iì participio passato di seguire. Ecco alcuni tra gli omografi più conosciuti: ambito
ancora compito impari nocciolo
principi seguito subito viola
LJUL
- non è àmbito di mia competenza - è un premio ambito da molti - non è ancóra arrivato? - gettate l'àncora! - il compito è stato svolto con cura
Normalmente, nella pratica della scrittura, è il contesto stesso a permetterci di distinguere il significato delle parole, ma quando le parole rischiano di confondersi tra di loro e di rendere incomprensibile il testo, conviene sempre segnare l'accento.
se ne stava in piedi, tutto compito - se impàri le regole, possiamo giocare insieme • sarà certamente una lotta ìmpari questo è il nòcciolo della questione non ingoiare i nòccioli delle ciliegie V • piantiamo un nocciòlo in giardino le donne non cercano più i prìncipi azzurri
J
lui è un uomo di saldi princìpi è arrivato il presidente con tutto il suo séguito hai seguito la partita in televisione? - vieni qui sùbito non sopportò l'affronto subito - il colore viòla mi piace molto questo viola le regole della convivenza • suonano la viòla e il violoncello ili
Sé stesso o se stesso? Giacomo pensa solo a sé stesso.
Giacomo pensa solo a se stesso.
Ecco un caso in cui, comunque si scriva non si commettono errori: il riflessivo sé in unione con stesso può mantenere o perdere l'accento; si può quindi scrivere sia sé stesso sia se stesso. Come mai, però, quando scriviamo ci sorge sempre il dubbio e non siamo mai sicuri al cento per cento di aver fatto la scelta giusta? Innanzitutto occorre premettere, per chiarezza, che il pronome sé, come tutti i monosillabi omofoni, si accenta per non confonderlo con la congiunzione se (vedi anche la pagina accanto). La regola con la quale noi tutti siamo stati cresciuti diceva che sé, quando è seguito da stesso o da medesimo, non deve portare l'accento, perché non ne ha bisogno: infatti, in questi due casi, non può essere ovviamente confuso con la congiunzione se. Si tratta di una regola davvero inutile, perché scrivere il pronome sé in due modi diversi - con e senza accento -, anche quando hanno lo stesso significato, può servire soltanto a creare grande confusione e quindi errori d'ortografia. Perché introdurre infatti un'eccezione quando si può lasciare sé accentato in tutti i casi?
Sé è pronome complemento di terza persona singolare e plurale con valore riflessivo e si usa solo quando si riferisce al soggetto della frase: Lorenzo pensa solo a sé{= a lui); Angela è piena di sé (= di lei); i genitori l'hanno portato con sé (= con loro).
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Quando indica una persona diversa dal soggetto diventa lui, lei o loro-, vado con lui; penso a lei; mi ricorderò di loro. Tutti i pronomi personali possono essere rafforzati tramite l'aggettivo stesso: pensa solo a sé (oppure se) stesso; colpevolizzate pure voi stessi.
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// bancomat è molto utile sia per pagare sia per prelevare denaro contante. Il bancomat è molto utile sia per pagare che per prelevare denaro contante. Ho incontrato sia Daniela sia Sabrina. Ho incontrato sia Daniela che Sabrina. La domanda ce la siamo posta più di una volta: è lecito usare sia... che al posto di sia... sia? Lasciamo la risposta a uno scrittore contemporaneo molto amato: ...emise un grugnito che poteva esprimere sia soddisfazione che perdono... (Umberto Eco, Il nome della rosa, Secondo giorno, Terza) Fino a non molto tempo fa le grammatiche consideravano la seconda frase un errore, perché l'unica correlazione accettata era quella introdotta da sia... sia. 11 che, come secondo elemento della correlazione, è ormai entrato prepotentemente nell'uso linguistico attuale, anche nella lingua scritta, e viene ritenuto accettabile anche nelle grammatiche più conservatrici. È vero, d'altronde, che nei periodi più complessi, laddove siano presenti frasi rette da che, sarebbe preferibile, anzi, davvero consigliabile, usare la forma sia... sia L'attrice è versatile e perfettamente in grado di calarsi sia nei ruoli comici, che padroneggia sin dai primi anni di esibizioni teatrali, sia in quelli tragici, che le offrono spunti di espressività assolutamente straordinari.
J -L—UÀ.
Ma se è morto nella biblioteca occorreva trasportarlo altrove, sia perché nella biblioteca non sarebbe mai stato scoperto (e forse all'assassino interessava proprio che fosse scoperto), sia perché l'assassino probabilmente non vuole che l'attenzione si concentri... (Umberto Eco, Il nome della rosa, Secondo giorno, Mattutino)
Sia... sia sono congiunzioni coordinative correlative. Si usano per collegare due elementi di una frase o due frasi in un periodo mettendole in correlazione e creando una corrispondenza tra di esse. Queste congiunzioni possono essere uguali e ripetute (come sia... sia, né... né, o... o) oppure variate (come non solo... ma anche). Altri nessi correlativi sono: • o che... o che: ce ne andremo a sciare o che piova o che nevichi • ora... ora: il bambino è difficile: ora strilla ora fa i capricci , che... o non è mai contento, che si guardi un film o (che) si giochi a carte « vuoi... vuoi vuoi per noia, vuoi per disinteresse
E la virgola? Le congiunzioni coordinative, di norma, non vogliono la virgola. La virgola non si mette mai quando le congiunzioni correlative collegano due sostantivi: verrò da te sia di notte sia di giorno e non: verrò da te sia di notte, sia di giorno. Quando, invece, collegano due proposizioni, la virgola si impiega prima del secondo elemento della correlazione in modo da suddividere, con una breve pausa, una proposizione dall'altra. Ecco un altro esempio, tratto ancora una volta dal Nome della rosa di Umberto Eco: Si può bruciare la casa di un cardinale sia perché si vuole perfezionare la vita del clero, sia perché si ritiene che l'inferno, che lui predica, non esista... (Umberto Eco, Il nome della rosa, Secondo giorno, Nona)
Stavolta gli dico o le dico...? Ho incontrato Anna e le ho detto... L'uso di gli per il femminile a lei è inaccettabile: questo vale tanto per la lingua scritta quanto per quella parlata.
MODI DI DIRE
In italiano abbiamo due forme ben distinte: gli - a lui, per il maschile: gli voglio bene (a Massimiliano); le-a lei, per il femminile: le voglio bene (a Ursula). Questo lo dice la grammatica. E su questa regola concordano tutte gli studiosi di grammatica, dai più conservatori ai più moderni. Infatti, anche se gli al posto di le è stato usato in letteratura e, come scrive il professor Serianni nella sua Grammatica, «ha precedenti illustri, dal Boccaccio al Machiavelli al Carducci al Verga», non vedo perché dovremmo rinunciare alla possibilità di diversificazione del genere maschile/femminile per "appiattirci" entro la sola forma maschile, proprio mentre tanto si sta facendo per evidenziare il ruolo e la presenza femminile nella società e per evitare un uso sessista (nel senso di maschilista) della lingua.
Gii per a loro? Ho incontrato i ragazzi e gli ho detto (= ho detto loro) che andiamo al cinema. Il discorso è diverso per gli con il significato di loro, a loro che invece è ben attestato nei dizionari più recenti e che quasi tutte le grammatiche accettano come come pronome indiretto di 3 a persona plurale accanto alla forma loro. Loro (nel senso di a loro) è praticamente scomparso dall'uso parlato e poco diffuso nell'uso scritto, se non in testi molto formali. Con buona pace dei puristi, che vorrebbero tenere in vita una forma [loro) che invece presenta diversi problemi di praticità, pensiamo soltanto a quando lo usiamo insieme al verbo piacere: mi piace, gli piace, ci piace... ma piace loro. Come dice Andrea De Benedetti: "[...] rimpiangere «loro» è come volersi ostinare a usare gli sci di legno quando quelli in materiali sintetici sono più elastici, veloci e sicuri".
L'Accademia della Crusca consiglia / "
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La Crusca considera corretto l'uso di gli al posto di: di loro, a loro, a essi e a esse, tranne che, forse, in caso di registri altamente formali. Sconsiglia invece l'impiego di gli per le nella maggior parte dei contesti.
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Modi o mode?
Ci sono parole o espressioni che entrano nel nostro linguaggio quotidiano e ci rimangono "appiccicate" quasi senza che ce ne accorgiamo. Sono spesso modi di dire, ma talvolta anche "mode", che si diffondono a macchia d'olio aiutate dalla contagiosa potenza del mezzo televisivo o dalla disinvoltura di certa carta stampata. Da una parte ci sono i cosiddetti "strafalcioni" (come a gratis, vicino Bari) o i "tormentoni" (come gli onnipresenti un attimino e piuttosto che) che aforza di sentirli ripetere (anche se solo in modo scherzoso o ironico) diventano presenze stabili, e inquietanti, di tanti, troppi discorsi scritti e parlati. Dall'altra ci sono le parole che sembrano "di moda"ma che invece nascono e si sviluppano con una specie di missione sociale e culturale senza dubbio utile e ambiziosa: migliorare il modo di guardare al mondo che ci circonda e rinominare cose e persone per dare dignità a chi è stato sempre poco "nominato" come le donne, i migranti, gli afroamericani o i diversamente abili.
Affatto Affatto è una parolina interessante e anche piuttosto elegante, ma intorno al suo utilizzo ci sono parecchie incertezze e perplessità. Si tratta infatti di una parola"in movimento"che, con il tempo, sta mutando il suo significato principale per assumerne uno del tutto, o per meglio dire, affatto diverso. Ecco che cosa ci dice il Sabatini Coletti (Dizionario delia Lingua Italiana) sul significato e sull'uso dell'avverbio affatto: 1. Del tutto, assolutamente: abbiamqjdee.affatto diverse. 2. In frasi negative rafforza la negazione: non mi piace affatto. 3. Per ellissi della negazione, ha acquistato di per sé anche il significato di "no", "per niente", specialmente nelle risposte: Sei stanco? Affatto! Affatto è, in origine, un avverbio di quantità: questo tipo di avverbi indica una quantità non definita, imprecisata e tra di essi troviamo più, meno, molto, appena, poco ecc. Il valore originario di questaparola è affermativo e significa'del tutto, completamente, totalmente'. Se, per esempio, dico: «la mente di Aldo è affatto priva di brillantezza» intendo dire che la mente di Aldo è totalmente, completamente priva di brillantezza. Quest'uso è in forte declino e si ritrova, ai giorni nostri, soprattutto nella lingua letteraria 0 in testi particolarmente formali. Nel tempo si è invece imposto l'uso di affatto come rafforzativo della negazione: il film non è affatto divertente-, il direttore oggi non è stato affatto gentile-, non ho affatto sonno, dove affatto sta a significare'per niente, in nessun modo': Bce, politica ortodossa in un mondo affatto ortodosso. (Il Sole 24 ore, 08/07/ 2011) Non è affatto un argomento che ci possa interessare.
Punto!
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I toscani tradurrebbero affatto, nel secondo significato 'per nulla, per niente', con la parola punto, che non ha nessuna relazione con il 'punto della punteggiatura', ma viene generosamente usato nelle frasi come: non sono punto stanco, non ti amo punto, fino a arrivare all'espressione né poco né punto (di lui non me ne importa né poco né punto). A volte lo troviamo anche come aggettivo, e perfino come tale si accorda nelle frasi: non ho punta fame, non hanno risparmiato punti soldi.
Istruzioni per l'uso Nel dubbio.il consiglio è il seguente: • quando parliamo possiamo anche usare affatto da solo, accompagnandolo con l'intonazione tipica da punto esclamativo: Hai freddo? Affatto! Ti sei stancata? Affatto! • Quando invece scriviamo cerchiamo di usarlo sempre insieme a un avverbio (non) o a un pronome negativo (niente): Hai sonno? Non ho affatto sonno. Ti dispiace se leggo il tuo giornale? Niente affatto. Si tratta di uno strumento niente affatto innocuo.
Un po' di etimologia r
Deriva dall'italiano antico a fatto, che a sua volta proviene, probabilmente, dal latino parlato AD FACTUM, nel senso di 'cosa ormai compiuta, pervenuta a completamento, divenuta fatto'. Alcuni vedono l'influsso dell'espressione francese tout à fait (con la caduta di tout) che effettivamente ha lo stesso significato principale di affatto ('assolutamente, del tutto') e quasi lo stesso uso: è affatto impossibile= c'est tout à fait impossible è un ragazzo affatto diverso = c'est un gargon tout à fait différent lei non era affatto dello stesso parere = elle n'était pas tout à fait de son avis.
Assolutamente L'avverbio assolutamente ha una storia molto simile a quella di affatto (vedi Cap. 4. Affatto). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una parola "in movimento" che ha subito, nel tempo, una trasformazione di significato approdando, nell'italiano attuale, a un valore assolutamente improprio. Assolutamente è in origine un avverbio rafforzativo che, con perentorietà 0 urgenza, rafforza il significato della parola che lo segue: Ho assolutamente bisogno di una tazza di tè. Ciò che dici è assolutamente sbagliato. Devo assolutamente chiedere consiglio al mio direttore. Sinonimi di assolutamente possono essere: completamente, totalmente, decisamente, necessariamente, in ogni modo. Assolutamente, in sé e per sé, è dunque una parola neutra che, se affiancata a un'altra parola di valore affermativo, ne rafforza il significato. Si è però diffusa, nel linguaggio parlato, l'abitudine di usare assolutamente, da solo, come risposta a una domanda, e con valore affermativo o negativo a seconda del contesto: Ti è piaciuto? Assolutamente! (con valore positivo) Ti è sembrato giusto il suo comportamento? Assolutamente! (con valore negativo). Il problema è che, rispondendo con un assolutamente, diamo una risposta che è una non-risposta, perché assolutamente non vuole dire né sì né no. Quando lo usiamo da solo nella lingua parlata, arricchiamo la risposta con la gestualità e l'intonazione, strumenti fondamentali per rendere il significato meno ambiguo: se mentre dico «assolutamente» scuoto la testa e modulo la voce verso il basso, è chiaro che voglio dire «assolutamente no», se invece sorrido 0 annuisco e intono verso l'alto con voce squillante, sto esprimendo un parere affermativo.
Un po' di etimologia r
Assolutamente deriva dall'italiano assoluto che a sua volta proviene dal latino ABSOLUTUM che significa 'sciolto, privo di legami', dal verbo ABSOLVERE 'sciogliere'.
V
Il prof. Serianni, esimio studioso della lingua italiana, sospetta che l'uso disinvolto di assolutamente come sinonimo di sì, certo, sia stato influenzato, negli ultimi anni, dall'inglese absolutely, che si usa anche per esprimere un "enthusiastic and strong agreement" ('consenso deciso ed entusiasta').
J
Questi strumenti comunicativi non-verbali ci aiutano a capirne il significato, ma non sempre funzionano e lasciano spazio a fraintendimenti e ambiguità: Ti è piaciuto l'ultimo libro di Baricco? Assolutamente! Verrebbe da chiedersi: assolutamente sì 0 assolutamente no? Accanto all'uso fin qui descritto si assiste, soprattutto nel linguaggio dei media, a una smodata diffusione di assolutamente come rafforzativo del sì e del no, come se l'affermazione e la negazione - rappresentate da questi straordinari monosillabi - avessero perduto di valore e avessero continuamente bisogno di essere ringagliardite, nello stile urlato e aggressivo che caratterizza gran parte dell'italiano parlato da tanti giornalisti, conduttori televisivi e politici. - Le sembra giusto il ricorso alla Corte di Cassazione? -Assolutamente sì. - Intende partecipare al dibattito? -Assolutamente no.
Badante
Colf e migranti
Ci sono parole nuove tutte italiane (il cui termine tecnico è neologismi) che arrivano come all'improvviso e d'un tratto paiono esistere da sempre, se si guarda il modo stabile e massiccio con cui abitano il nostro parlare e il nostro scrivere quotidiano (come ad esempio velina, videochiamata, posta prioritaria).
Fino a non molto tempo fa c'erano gli immigrati, le domestiche, i sordi e gli handicappati. Ora abbiamo i migranti, le colf gli audiolesi, e i diversamente abili. Per alcuni si tratta di un artificioso "esercizio di stile", un modo ipocrita di trattare le differenze, invece consiste in un processo linguistico e culturale, comune a molte altre lingue, che ha portato alla trasformazione del lessico in una direzione più corretta e rispettosa delle differenze.
Badante è una di queste. Il termine è riportato da tutti i vocabolari con il significato di «persona che per professione assiste e accudisce persone anziane, malate o non autosufficienti» (Zingarelli 2010). La sua prima attestazione scritta pare sia del 1989, quando La Repubblica titola: «Sta per finire l'agitazione che ha bloccato il servizio delle badanti». Ovviamente, prima di essere stata scritta, avrà avuto un periodo dì vita più o meno lungo come parola dell'italiano parlato. Secondo Manlio Cortelazzo, illustre dialettologo ed etimologista, badante potrebbe essere parola del dialetto romagnolo (
Un po' di etimologia
Stiamo parlando del cosiddetto "politicamente corretto", ovvero di un modo di parlare, di guardare il mondo e di dare un nome alle cose che sia rispettoso e inclusivo, che comprenda tutti, lontano dalla percezione e dalla definizione dispregiativa di ciò che è "altro" e "diverso". La ridefinizione dei nomi di persone e di concetti nasce fondamentalmente dal bisogno stesso dei gruppi svantaggiati 0 minoritari di essere chiamati con parole in cui potersi riconoscere e che non siano connotate in modo dispregiativo. È interessante notare che anche i termini "politicamente corretti" hanno una loro storia e una loro evoluzione e vengono sostituiti via via da termini sempre più precisi, perché nel tempo cresce la coscienza delle categorie sociali coinvolte, che richiedono si usi una terminologia sempre più adeguata e non lesiva della loro persona 0 delle loro mansioni.
f Badante è il participio presente del verbo badare. Badare è una parola molto vitale che significa sia 'prendersi cura, sorvegliare' (badare ai bambini, alla casa) sia 'fare attenzione, stare in guardia' (bada di non perderti). Possiede anche una sfumatura negativa nelle espressioni "bada solo ai suoi interessi" con il significato di 'dedicarsi esclusivamente a qualcosa 0 a qualcuno'. L'etimologia è sorprendente: deriva da un latino tardo BATÀRE che significava 'spalancare la bocca', quindi 'guardare ammirati a bocca aperta', per arrivare al significato moderno di 'fare attenzione'.
È il caso ad esempio della parola colf. Le domestiche 0 cameriere di una volta sono diventate collaboratrici familiari, colf nella forma abbreviata [la colf le colf). Il passaggio è stato graduale ed è partito da serva, attraverso domestica e quindi collaboratrice domestica fino ad arrivare alla nostra collaboratrice familiare, parola ormai ufficializzata anche come categoria professionale. Collaboratrice familiare è una bella parola, perché descrive veramente quello che le colf fanno tutti i giorni: collaborano alla vita della famiglia, con il loro indispensabile contributo e spesso con buoni cibi pronti nei piatti di bambini che i genitori vedono solo a sera inoltrata.
Badante non piace a molti che lo considerano restrittivo, alcuni perfino "brutto" (non si capisce in che senso), e preferirebbero chiamare le badanti assistenti familiari o ausiliarie. Come per tutte le parole nuove, anche questa avrà il suo "destino" che dipenderà soprattutto dalla categoria delle "badanti"; forse un giorno, riunite in un sindacato o in un'associazione, decideranno se continuare a essere badanti 0 essere chiamate con un termine diverso.
Così anche dalle parole emigrato, emigrante e immigrato siamo approdati al termine più ampio e inclusivo migrante, che probabilmente nulla toglie alla drammaticità di questa condizione, ma che accomuna tutti gli esseri umani che si spostano alla ricerca di condizioni di vita più dignitose, anche quelli che lo fanno in dimensioni più sicure e migrano in cerca di lavoro, dalla provincia alla città, dal Sud al Nord, dall'Italia all'estero: siamo, e saremo sempre di più, tutti un po' migranti.
Le parole del "politicamente corretto" Il politically correct nasce alla fine degli anni Ottanta negli ambienti intellettuali della sinistra statunitense come riconoscimento, anche formale, delle diverse componenti sociali ed etniche esistenti negli Stati Uniti. Si diffonde così, anche in Europa, l'idea di un linguaggio che dovrebbe essere libero da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativo a disabilità fisiche o psichiche di una persona. A partire da questo presupposto sono nate le parole "politicamente corrette", come ad esempio: • afroamericano al posto dell'antico negro, poi nero, poi uomo di colore; single al posto di nubile, celibe o, peggio ancora, zitella; Per approfondire • gay invece di omosessuale o della variegata terminologia volgare; • diversamente abile al posto di hanValentina D'Urso (che insegna Psicologia aldicappato (passando attraverso l'Università di Padova e ha scritto il libro Le termini nel tempo caduti in disuso buone maniere) afferma: «Tutti noi siamo come portatore di handicap e disaanimali culturali: fin dalla culla i nostri combile); portamenti sono dettati dal contesto. Se sia• anziano al posto di vecchio; mo educati precocemente alla diversità, a • operatore ecologico per chiamare non considerare nessuno - donna, straniequello che un tempo era lo spazziro, handicappato-come vittima predestinano e poi, per un periodo, è stato il ta del nostro scherno, come bersaglio natunetturbino); rale del nostro senso di superiorità, cresce• le persone (che include tutti gli remo spontaneamente nel rispetto. Le buoesseri umani, di genere femminile ne maniere non tolgono libertà nella misura e maschile) al posto della parola in cui rispondono a un preciso senso etico e gli uomini, che rivela invece un non sono semplici convenzioni». uso sessista della lingua.
Lo sapevate? r
A volte si fa una certa confusione. Ricordatevi, non sono parole politicamente corrette ma eufemismi quei termini che in genere i potenti usano per minimizzare o edulcorare parole e fatti spiacevoli: chiamano esuberi le persone che verranno licenziate, delocalizzazione la chiusura e il trasferimento all'estero di un'azienda, azione di peace-keeping un intervento armato, danno collaterale le vittime civili che periscono "casualmente" in un'azione militare o fuoco amico l'attacco per errore di truppe amiche credute nemiche.
"C'ha un bel sito" Riporto un divertente titolo di Repubblica.it dove il giornalista, volendo presentare il nuovo sito completamente rinnovato dell'attore Carlo Verdone, ammicca al linguaggio popolar-romanesco tipico di molti personaggi resi celebri dall'attore. Ecco qualche frase estrapolata dalle sceneggiature dei suoi film: "Riempite d'ossiggenol". "Perchè? Che c'hai in mente a Ivà?". "O vojofa sott'acqua, a Maria" (Carlo Verdone e Claudia Gerini in Viaggi di nozze). "Alfio che c'hai, non ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?" (Carlo Verdone in Un sacco bello). "Questo c'ha un alibi de'fero che non finisci mai!" (dallo Rosso e Verdone) "Ma siete voi che c'avete gli Atteggiamenti!" (Giallo Rosso e Verdone) La forma ci seguita dal verbo avere è tipica dell'italiano parlato, informale e poco sorvegliato, aggiungo. È molto vitale in tutte le regioni e presente diffusamente nei dialetti. Il suo uso non è certo recente visto che le prime attestazioni di ci ho risalgono ad antichi testi toscani del Cinquecento. Inoltre ha numerosissime attestazioni (con forme grafiche diverse) in quegli autori italiani molto attenti alla lingua parlata e alla sua realizzazione nella scrittura (da Manzoni a Verga, tanto per citare due nomi noti). Nell'uso parlato quotidiano esiste dunque un verbo averci che la grammatica tradizionale non contempla se non in un unico caso: Hai una penna? Sì, ce l'ho, dove il ci serve però solo a rinforzare il significato del verbo (ci sono restato male; ce l'hai con me ecc.). Il verbo averci dell'uso parlato possiede tutta la sua regolare coniugazione (c'avevo, c'avessi, c'abbiamo avuto...) al pari del verbo esserci (c'è, ci sono, cifurono, ci fossero ecc.), verbo quest'ultimo che la grammatica conosce e descrive nei suoi manuali. Al di là della correttezza del verbo averci che, come abbiamo visto, andrebbe usato solo in contesti informali, esiste un altro problema, ancora irrisolto, che riguarda la sua forma scritta. Ovviamente per testo scritto non intendiamo il testo formale, redatto in un italiano sorvegliato, ma quello che vuole imitare i modi della lingua parlata. In questo senso lo ritroviamo molto diffuso, soprattutto negli scrittori più attenti a rendere l'espressività e la forza del linguaggio popolare parlato.
Quando forme di questo tipo, che sono peculiari della lingua parlata, devono essere rappresentate nella forma scritta sorgono non pochi problemi soprattutto quando si devono riprodurre incontri tra consonanti e vocali un po' "difficili". Nella lingua italiana, le rappresentazioni grafiche utilizzate nella scrittura oscillano fra diverse possibilità: 1. ci ho, ci hai, ci abbiamo 2. ciò, ciài, ciabbiamo 3. cj ho, cj hai, cj abbiamo 4. c'ho, c'hai, c'abbiamo Fin da una prima occhiata si capisce come nessuna delle quattro sia soddisfacente: la prima perché suggerisce una pronuncia della vocale / che in realtà non esiste, la seconda perché è estremamente riduttiva e perché trova la complicazione di quel ciò scritto in modo identico a ciò (= questa cosa). La terza è la rappresentazione grafica utilizzata dai linguisti, si ritrova soprattutto negli scritti più tecnici, ma nemmeno l'inserimento artificioso della j riesce a risolvere il problema del suono c (di ciliegia) di fronte alì'h di ho o alla a di abbiamo. La quarta possibilità presenta evidentemente la "scorrettezza" dell'elisione (ortograficamente impensabile) di ci davanti a ho, hai e davanti a abbiamo, avete.
La particella ci La particella ci delle forme parlate c'ho, c'ha non si deve confondere con la particella ci che ritroviamo in altre espressioni ben descritte nella grammatica della lingua italiana. Ci, infatti, può essere: • un pronome personale e significa noi (complemento oggetto), a noi (complemento di termine) oppure può essere pronome riflessivo: ci ha chiamato la maestra; la mamma ci vuole bene; noi ci laviamo;
L'Accademia della Crusca consiglia Come ben spiega Luca Serianni sulla rivista "La Crusca per voi" (n. 14) ci, nell'espressione c'ho/ci ho, non ha nulla a che vedere con il ci pronome, ma sarebbe il ci avverbio, svuotato però del suo significato originario. Equivarrebbe a un 'quanto a me, in questa circostanza' ed è da considerarsi come un rafforzativo, come un espediente per concentrare e intensificare l'attenzione sul parlante e su ciò che vuole comunicare. Viene paragonato infatti all'effetto cinematografico e televisivo dello zoom, che serve a focalizzare l'immagine sul soggetto del verbo e per "mettere il costrutto cj ho in consonanza emotiva con la situazione comunicativa del momento".
• un pronome dimostrativo e significa'a ciò, di ciò, su ciò' ecc.: ci credo; non ci capisco niente; ci conto; • un avverbio. Come avverbio ha tre significati: 1. qui, in questo luogo: in questa casa non mi ci sento abbastanza a mio agio 2. là, in quel posto: ci vado subito 3. per questo luogo, per quel luogo: «Passi mai dalle piste ciclabili?» «No, non ci passo quasi mai». L'elisione di ci si ha quando la particella ha la funzione di pronome ed è possibile soltanto se la parola che segue inizia con la vocale ;': c'immaginiamo, c'intendiamo, c'insegnano. Mentre con le altre vocali rimane invariato: ci amiamo, ci uniamo, ci ostiniamo. L'elisione nelle forme c'è, c'era, c'erano e c'entra è legata al fatto che si sono ormai stabilizzate tali e quali nella lingua italiana parlata.
Istruzioni per Fuso Abbiamo detto che ci con avere è tipico del parlato informale. Per quanto riguarda lo scritto la scelta innanzitutto dipenderà dal contesto in cui volete usare questa espressione: in un sms, un post su Facebook o in un bigliettino indirizzato scherzosamente ad amici e parenti la forma è ammessa, così anche se state scrivendo un testo letterario dove inserite discorsi realistici tratti dal linguaggio parlato. Naturalmente sapendo che la resa grafica (c'ho, ciò e cj ho) rimane pur sempre discutibile. Se invece state scrivendo un testo formale, un documento ufficiale, uno scritto che voglia essere formalmente corretto: non usatelo mai!
Esempi d'autore «Ma io c'ho paura, come famo?» diceva quella ripiegata in avanti, verso tutta quell'acqua, tremando, bianca, ingelita, coi capelli attaccati alle guance come bisce. (Pierpaolo Pasolini, Una vita violenta) - Una stanza? - uscì a dire l'ostessa asciugandosi il sugo di pomidoro dalle braccia.-Ma ciabbiamo tutta la compagnia. (Giovanni Verga,Una capanna e il tuo cuore)
Che tempo che fa Il film di cui ti parlavo ieri Il film che ti parlavo ieri
Corretto Non corretto
11 titolo d e l l a f o r t u n a t a trasmissione televisiva di RaiTrein un certo senso sintetizza perfettamente un fenomeno linguistico che sta dilagando nell'italiano (non solo parlato) con una straordinaria vitalità e una grande potenza di diffusione: l'uso del che in funzioni che non gli sarebbero proprie. Vediamo innanzitutto quali sono gli usi "regolari" di che.
LA GRAMMATICA DICE La grammatica ha trovato una bella definizione della parolina che-, che polivalente, cioè un che dalle molte funzioni (dal greco poli- che significa 'molto'), perché infatti svolge davvero mille mansioni. Le regole dell'italiano sono molto chiare: abbiamo un che pronome, un che aggettivo e un che congiunzione. • Il che pronome relativo è invariabile e vale sia per il maschile che per il femminile, singolare e plurale. Si usa come soggetto e come complemento oggetto: Ho conosciuto un ragazzo che mi piace che = soggetto che = complemento oggetto Ho corretto i testi che hai scritto Per i complementi indiretti si dovrebbe usare cui, preceduto dalle vane preposizioni [di, a, da, in, con, su, sopra ecc.): Firenze è la città in cui sono nata; non c'è nulla di cui preoccuparsi. Il pronome che può essere anche interrogativo o esclamativo: che vuoi? che bello! o 11 che aggettivo può essere interrogativo o esclamativo: che vestito metto? che meraviglia! • Il che congiunzione può introdurre: una subordinata oggettiva: credo che tu sia in grave ritardo-, una subordinata soggettiva: sarebbe meglio che lui non ci fosse; una subordinata causale: venite, che è arrivato il nonno; una subordinata final e-,fai attenzione che Giulio non si faccia male; una subordinata temporale: siamo arrivati che (= quando) faceva già notte; una subordinata consecutiva: sono così contenta che ti abbraccerei; una subordinata eccettuativa: non ci resta che dedicarci al giardinaggio; una subordinata limitativa: che io sappia, Angela si è sposata con Ugo; una subordinata comparativa: è meglio andare a votare che astenersi.
Questa è la regola. Nella lingua parlata, però, come scrivevamo prima, si è diffuso un uso indiscriminato di che anche in posizioni che non gli spetterebbero: 1. il ragazzo che ti ho raccontato; 2. la donna che ti ho parlato l'altro giorno; 3. l'estate che partimmo per la Grecia; 4. sono stata a una festa che mi sono divertita da matti; 5. siamo andati alla conferenza che c'era quel famoso filosofo francese a presentare il suo libro. Nelle prime due frasi che viene usato al posto dei pronomi relativi di cui/della quale. Nella terza frase che viene usato al posto di in cui. Nelle ultime due frasi che viene usato al posto dell'avverbio dove. Le frasi corrette sarebbero: il ragazzo di cui ti ho raccontato; la donna di cui ti ho parlato l'altro giorno; l'estate in cui partimmo per la Grecia; sono stata a una festa dove mi sono divertita da matti; siamo andati alla conferenza dove c'era quelfamoso filosofo francese a presentare il suo libro. Qualsiasi grammatica dice che si tratta di errori che vanno assolutamente evitati non soltanto nella lingua scritta, ma anche nel parlato informale, lì problema è che la realtà dell'italiano parlato ci dice una cosa molto diversa, ovvero che gli usi considerati "scorretti" fanno parte non soltanto dell'italiano meno sorvegliato, parlato da chi ha minor cultura, ma sono presenti anche (con percentuali significative) nel linguaggio formale dì parlanti colti. Cito un esempio di uso corrente: I giorni che non lavoro, vado in Facoltà a studiare. Chi di noi non ha mai pronunciato o ascoltato una frase simile? In questo caso il che viene usato con valore temporale e in questo significato è stato ormai accettato da quasi tutte le grammatiche, anche perché ha una sua presenza stabile nel parlato come nello scritto.
Istruzioni per l'uso Il che generico, usato come pronome al posto di: di cui, del quale, della quale, in cui, a cui ecc. non è accettabile nel parlato, ma soprattutto è molto scorretto nell'uso dell'italiano scritto. Così è stata la regola fino ad ora... vediamo come andrà a finire!
Cioè Ecco una parola che va sempre di moda, il cui uso non ha mai dato segni di cedimento: facciamo bene a usarla in un testo scritto? È una parola gergale? Fa parte del lessico italiano? Cioè ha il suo posto in tutti i dizionari e le grammatiche della lingua italiana. Non è gergale e nemmeno scorretta-, proviamo a conoscerla più da vicino. LA GRAMMATICA DICE Cioè per le nostre grammatiche, è una congiunzione coordinativa che introduce una proposizione coordinata esplicativa (o dichiarativa). Le congiunzioni coordinative esplicative sono le particelle che servono a unire due proposizioni o due elementi della stessa proposizione in modo che il secondo spieghi meglio il primo-, mio padre fa iì pilota, cioè viaggia sempre. La proposizione coordinata esplicativa è quella frase che spiega quanto e stato affermato nella proposizione principale: l'economia è in crisi, infatti sono diminuiti i consumi. Cioè non è la sola parola a svolgere questa importante funzione. La lingua italiana ci offre un ventaglio dì espressioni e di modi diversi per dire cioè-, • infatti/difatti {Il cambiamento climatico c'è, infatti è aumentato il buco nel l'ozono). • ossia (Mi hanno diagnosticato una neoplasia benigna, ossia un tumore benigno). • ovvero (Report, ovvero la voglia di stupire). . vale a dire (Elisa è arrivata prima, vale a dire che potrà partecipare alle gare nazionali). . . per essere precisi (Sono arrivati venti bambini, per essere precisi otto maschi e dodicifemmine).
Un po' di etimologia Cioè è la forma unita di ciò è. Già. in latino si usava la forma corrispondente ID EST, letteralmente: 'ciò è', quindi, 'cioè': ILLE DICTATOR, ID EST CAESAR. La locuzione latina si usa ancora oggi in inglese e si ritrova in moltissimi testi, anche nella forma abbreviata i.e. oppure I.E. Si usa, come il nostro cioè, per meglio specificare il significato di un'espressione usata in precedenza.
I comici, negli ultimi decenni, hanno imperversato (e continuano ancora) facendo la parodia agli adolescenti, incapaci di formulare frasi corrette e originali nel loro eloquio acerbo, chefarciscono, costantemente, di innumerevoli cioè. «Cioè, non puoi capire, sono andata con la Gine al cinema e... cioè, chi t'incontro? Cioè... c'era quel super-fico di Giorgio che cioè, stava insieme a quella truzza di Elisa e si tenevano per mano, pure!!!!!!! Cioè, ma ti rendi conto?????»
J Cioè, rispetto alle altre congiunzioni esplicative (comprese locuzioni ed espressioni varie), è stata molto bistrattata, sebbene sia una parolina molto efficiente che si presta: • ad aprire un discorso (proprio come l'inglese welì): «cioè... io penserei, da grande, di dedicarmi alla moda... cioè... alla sartoria»; • ad esprimere una certa reticenza nella risposta: «sì ci sono andata, cioè... no, non ricordo bene»; • ad esprimere un'interrogazione assoluta, un modo diretto e anche poco gentile di rispondere, chiedendo delucidazioni : «Sei disponibile ad aiutarmi, oggi?» «Cioè?». Cioè è così onnipresente sulla bocca dei nostri teenager che è diventato l'emblema del linguaggio adolescenziale, un simbolo che si traduce anche nella vitalità di una rivista per adolescenti (edita dalle Edizioni Panini) che si intitola, appunto, Cioè e che esiste, con notevole successo, da almeno trent'anni a dimostrazione della forza di questa indomabile e immortale congiunzione. A volte, certi usi giovanili non vanno demonizzati, ma accolti con l'indulgenza dovuta a chi ancora cerca un modo di esprimersi personale; caso mai vanno accompagnati benevolmente verso una dolce "disintossicazione". Attenzione! Cioè si scrive con l'accento grave, come caffè, tè, è.
Dimmi di sì Ci sono tanti modi per dire di sì anche se, in verità, siamo ormai abituati a sentirci rispondere quasi sempre con le stesse formule, consunte e quasi insopportabili, come ok, esatto, esattamente, assolutamente La nostra bella lingua è ricca di espressioni che ci permettono di rispondere affermativamente in modo vario e diversificato a seconda delle situazioni. Potremmo provare a usare, al posto di ok per esempio, altre espressioni come: certo/certamente come vuoi /come vuole/come volete d'accordo davvero/è vero giusto Un po' di... etimologia proprio così senza dubbio/indubbiamente, Dal latino sic, che significa'così'. Abva bene/bene/benissimo breviazione della formula sic EST, 'covolentieri /con piacere sì è', usata in latino per esprimere un'affermazione. Attenzione! Sì va sempre scritto con l'accento. Come per altri monosillabi, l'accento in questo caso ha lo scopo di distinguere il sì affermativo dal pronome si.
Dante nel suo De vulgari eloquenza, chiama la lingua italiana la lingua del (dólce) sì", secondo una tripartizione delle lingue romanze che vedeva le tre principali aree distinte a seconda di come si indicava la loro particella affermativa.. * la lingua d'ori, nella Francia del Nord, da cui deriva il francese; . la lingua d'oc, nella Francia del Sud, conosciuta anche come occitano; • la lingua del sì, cioè l'italiano. Dante cita questa espressione anche in un famoso Canto dell 'Inferno-. Ahi Pisa vituperio de le genti del bel paese là dove 'I sì suona Dante, Inferno, c. XXXIII, w . 79-80
Doppie pericolose In italiano molte consonanti possono essere pronunciate in due modi diversi che corrispondono a due diversi gradi di intensità: • un grado detto tenue: casa, pala, tuta; • un grado detto intenso: cassa, palla, tutta. Nella lingua scritta, per indicare la pronuncia intensa di una consonante, si usa la stessa lettera raddoppiata, che noi conosciamo come la doppia. In italiano abbiamo delle coppie di parole, come casa e cassa che si distinguono soltanto per la durata della consonante: per questo è molto importante pronunciare correttamente le consonanti tenui (dette anche scempie) e quelle intense (o doppie). Sembrerebbe semplice, ma la verità è che in italiano non è sempre facile distinguere tra scempia e doppia e rispettare le regole ortografiche quando scriviamo. Il fatto è che nell'italiano parlato al Nord prevale la pronuncia tenue di tutte le consonanti, anche di quelle doppie: dopio, belo, organizare al posto di doppio, beilo, organizzare. Invece nell'Italia centromeridionale (tranne in Toscana e Umbria) si tende a raddoppiare certe consonanti anche quando sono scempie: nobbiìe, aggile,/raggile al posto di nobile, agile, fragile. Questo fa sì che ci siano ancora molte oscillazioni nella grafia di parole come attrezzo, abbrutito ecc. Ecco quindi un breve elenco con alcune delle parole italiane che spesso inducono in errore. Corretto abbrutito imbruttito acchito accomunare acuminato addosso adocchiare ammennicolo ammiccare annaffiatoio aneddoto appiccicare arrabbio attrezzi avallo, avallare bagatella
Scorretto abbruttito imbrutito acchitto accommunare accuminato adosso addocchiare amennicolo, amenniccolo amiccare anaffiatoio annedoto appicicare arrabio atrezzi avvallo, avvallare bagattella
briciole caligine collutorio eccezione emorragia fuliggine imbacuccarsi intellegibile raffreddore rivangare sbafo, sbafare scorazzare sollucchero soprattutto
bricciole caliggine coli utt ori o ecezione, ecezzione, eccezzione emoraggia fuligine imbaccuccarsi inteleggibile rafreddore rinvangare sbaffo, sbaffare scorrazzare solluchero sopratutto
Dal latino all'italiano L'italiano a differenza del latino e delle altre lingue del mondo in cui le doppie sono rare, è una lingua caratterizzata da molte consonanti doppie. Come mai l'italiano è l'unica, tra le lingue romanze, ad avere le consonanti doppie? Se lo chiedono non solo gli italiani, ma soprattutto i tanti stranieri che fanno così fatica a riconoscere i casi di raddoppiamento consonantico, e anche i bambini della scuola primaria. In latino esistevano molte parole che presentavano gruppi consonantici come -CT-, -PT-, -BD-, -DG-, -X-, -PS-, -MN-, ecc., come per esempio, ocra, SEPTEM, IPSA, DAMNUM, SCRIPSI ('otto','sette', 'questa','danno','scrissi'). In italiano questi gruppi consonantici si sono trasformati in consonanti doppie perché la prima consonante si è assimilata alla seconda, come nel caso di -PT- che è diventato -tt-: SEPTEM sette. Gli antichi gruppi consonantici sono sopravvissuti soltanto nelle parole che derivano da altre lingue, diverse dal latino, come il greco, o nelle parole di origine dotta che sono rimaste più vicine alla forma originaria (per es.: psicologo, pneumatico, abdicare, proctologo). Normalmente invece, nel passaggio dal latino all'italiano, abbiamo avuto queste trasformazioni: o dai nessi latini -CT-, -PT- in italiano abbiamo -ttNOCTE(M) - notte SEPTE(M) sette OCTO otto • dal latino -x-, -PS- in italiano abbiamo -ssPROXIMU(M) prossimo IPSA essa SCRIPSI - » scrissi o dal latino -MN- in italiano abbiamo -NNDAMNU(M) danno dow\(i)NA donna
Ecco! Dedico una pagina a questo avverbio, così semplice, essenziale e talmente espressivo che i bambini lo imparano presto, tra le prime parole, e lo usano ripetutamente, e con un certo orgoglio, per presentare il loro piccolo, ricco mondo a chi li circonda: "Ecco!" Ecco merita una pagina tutta per sé anche solo per il fatto di essere l'unico rappresentante (ebbene sì non ce ne sono altri, come lui) della categoria grammaticale degli avverbi presentativi. In quanto avverbio presentativo ecco serve, per l'appunto, a presentare, indicare o mostrare qualcosa o qualcuno di cui si parla: Ecco il treno! Ecco una nuova invenzione. Ecco che arriva Lorenzo. Eccoti servito. Essendo un avverbio molto socievole e avendo innato dentro di sé il talento di collegare cose, persone e avvenimenti tra loro, ecco è molto disponibile all'enclisi (quel fenomeno per cui una parola atona, monosillabica o al più bisillabica, si appoggia alla precedente formando un'unità prosodica): in parole povere ha la caratteristica di unirsi in una sola parola con i pronomi atoni e dar vita a: eccomi, eccoti, eccoci, eccovi, eccolo, eccotelo, eccovelo.
Un po' di etimologia r
\
I latino ÉCCU(M) ebbe un ruolo fondamentale nella formazione dei dimostrativi; infatti è servito, rafforzando i pronomi dimostrativi latini, a dare vita alle forme che tutti noi usiamo in italiano: (Éc)cu TLLUM - + quello (EC)CU TSTUM questo
Allo stesso modo ECCUM ha contribuito anche alla formazione di due importanti avverbi della lingua italiana: (Èc)cu sTc così (EC)CU INDE quindi
y
Nella scrittura si presta, come valido espediente stilistico, per introdurre l'apparizione improvvisa di un personaggio o di un evento inatteso, soprattutto quando è preceduto dalla congiunzione e: Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo,/gridando: "Guai a voi, anime prave!". (Dante, Inferno, c. III, w. 82 e segg.)
Faccia a faccia o a facci a a faccia?.
Ecco può avere diverse sfumature-, può essere simpatico e rassicurante per l'interlocutore che impazientemente chiede: Sei pronta? Siamo in ritardo! ...Eccomi! Dove saranno i miei occhiali? Eccoli!
Entrambe le forme sono corrette, anche se la "più corretta" sarebbe quella preceduta dalla preposizione a-, a faccia a faccia.
Ma può avere anche una sfumatura polemica o ironica (risultando piuttostosgradevole): Ecco come si comportano i ragazzi d'oggi. Ecco come ci hai ridotto! Ecco l'ultima trovata del nostro Presidente. Inoltre ben si presta a esprimere le pause di riflessione tipiche del linguaggio parlato: Vorrei sapere.,.ecco...mi piacerebbe che tu mi dicessi...
V
Ecco, per vitalità e colore, corrisponde esattamente al francese voilà: voilà qu'ilarrive (ecco che arriva); voilà les enfants (ecco i bambini); voilà tout (ecco tutto).
A faccia a faccia è un avverbio, o meglio, una locuzione avverbiale qualificativa: l'avverbio è composto da una parola sola, la locuzione è formata da un gruppo di due 0 più parole. LA GRAMMATICA DICE Gli avverbi qualificativi sono chiamati anche avverbi di modo perché indicano il modo in cui si svolge un'azione. I più conosciuti sono gli avverbi che finiscono in -mente (semplicemente, facilmente, saggiamente ecc.), che si affiancano agli avverbi semplici come bene, male, così, insieme, quasi e a quegli avverbi in -oni di cui esistono una manciata di esempi: ginocchioni, bocconi, ruzzoloni ecc. Accanto a questi ci sono le locuzioni avverbiali, come la nostra, che in genere sono precedute dalle preposizioni a, con, in, su: a rotta di collo, a tutto gas, alla francese, alla fiorentina, alla carlona, alla rinfusa, con brio, con lentezza, con saggezza, in fretta, in silenzio, in solitudine, sul serio e così via. A faccia a faccia insieme a un'altra locuzione dello stesso tipo, a corpo a corpo, ha visto perdersi, nel tempo, la prima preposizione a e si è imposta, sia nella lingua parlata che in quella scritta, la forma faccia a faccia senza che essa venga più sentita come scorretta. Questo indiscutibile passaggio è stato molto probabilmente influenzato dall'uso diffuso di faccia a faccia (e di corpo a corpo) come sostantivo. Ecco alcuni esempi: Sottoposero l'imputato a un faccia a faccia con la sua vittima. È iniziato il faccia a faccia tra sindacati e gruppo dirigente dell'azienda. Il loro rapporto si è trasformato in un vero corpo a corpo. Questa trasformazione è stata certamente influenzata anche dalle espressioni inglesi face-to-face e cheek-to-cheek, nonché dal francese tète à tète o coup à coup.
A poco a poco
Gratis o a gratis?
Ci sono altre locuzioni avverbiali, simili al nostro a faccia a faccia, che tendono a perdere la preposizione iniziale a nonostante non siano usate anche come sostantivi: si tratta delle locuzioni temporali a poco a poco e a mano a mano, che esprimono lo sviluppo progressivo di un evento o di un'azione. Che venendomi incontro, a poco a poco/Mi ripingeva là, dove 7 Sol tace. (Dante, Inferno, c. I, vv. 59-60)
A quanti di noi non è venuta, ogni tanto, la tentazione di usare la locuzione a gratis, al posto della forma corretta gratis? In effetti, all'apparenza, non sembrerebbe così scorretta visto che la troviamo ampiamente attestata in rete con ben 416.000 risultati nella ricerca con Google, e dato che capita di leggerla talvolta sulle testate dei giornali nazionali e di ascoltarla alla radio e in televisione.
La perdita della prima preposizione appare molto evidente nella lingua parlata mentre, in quella scritta e soprattutto in testi che prevedono un uso della lingua più sorvegliato, si tende a usare la forma più corretta: A mano a mano che procedevano, il sentiero si faceva sempre più stretto e impervio.
Come per tanti altri argomenti trattati in questo libro, anche per questa espressione "nazional-popolare" vale la solita regola d'oro: la nostra competenza linguistica. Che significa semplicemente essere consapevoli di quali siano gli ambiti d'uso di questa espressione: a gratis ha una connotazione decisamente popolare e quindi - eventualmente - potrebbe essere usata in contesti di comunicazione estremamente informali e soprattutto quando si voglia colorire il nostro linguaggio (scritto o parlato), con un tratto decisamente "ruspante". Se invece viene usata in contesti diversi (sia formali che informali) può davvero farvi passare da persona ignorante o incolta, come ci segnalano quasi tutte le grammatiche contemporanee. Cercate dunque di usare sempre la parola gratis e i suoi sinonimi gratuito e gratuitamente e tenetevi lontani dalla moda, ormai troppo diffusa, di usare a gratis solo per dare "colore" alle vostre frasi.
La satira è uguale per tutti, destra, sinistra e terzo polo. A poco a poco dal cantiere usciranno altri personaggi della società civile, (www.avvemre.it, 22/01/2011)
lo e te Si scrive: tu e io, io e te o io e tuì In questa domanda ci sono due problemi da risolvere: 1. è corretto usare la forma te in qualità di pronome soggetto al posto di tu! 2. è corretto anteporre io nella formula io e... oppure è meglio collocarlo alla fine? Entrambe le questioni sono aperte e da diverso tempo si cerca di dare un'interpretazione a norme divenute ormai troppo "strette" di fronte alla forza del linguaggio parlato. Pensiamo soltanto a due titoli che nell'ultimo anno (2011) hanno goduto di un grande successo nel mondo della musica e della letteratura: lo e te, la canzone di Gianna Nannini; lo e te, l'ultimo libro di Niccolo Ammaniti. Diciamo subito che io e tu sono pronomi personali soggetto. E quando i pronomi io e tu sono usati insieme come soggetto, la forma più corretta sarebbe tu e io oppure io e tu. , , La lingua parlata ha però ormai imposto anche la forma io e te, che vede il pronome complemento te in luogo del soggetto tu.
Pronome personale soggetto Pronome s i g n i f i c a letteralmente'parola che sta al posto di un nome'. Il pronome è la parte del discorso che si usa al posto di un'altra parola e ne fa le veci. I pronomi personali hanno forme diverse a seconda della funzione che svolgono nella frase: hanno una forma quando sono usati in funzione di soggetto e due forme quando sono usati in funzione di complemento (forma tonica e forma atona). I pronomi personali soggetto sono sei, come le persone che possono fare da soggetto: io, tu, lui/lei (egli/esso, ella/essa), noi, voi, loro (essi/esse), lo e tu sono dunque pronomi personali usati in funzione di soggetto: io mangio e tu dormi. Talvolta si usano, al posto di io e tu, anche le forme me e te (che sono invece pronomi personali complemento). Si tratta però di casi molto circoscritti: o nei paragoni di uguaglianza: sono bravo quanto te; sei uno stupido come me-, . nelle frasi esclamative senza veTbo e con un aggettivo: Povero tei Me infelice! . quando me e te sono in funzione predicativa e il soggetto è diverso: se tu fossi me; se io fossi te.
Bon tori 10 e mia madre oppure Mia madre e iol Generalmente si preferisce collocare 11 pronome io all'ultimo posto: è una questione di rispetto e di educazione. Ma anche la posizione iniziale è ben rappresentata nella lingua sia parlata sia scritta, soprattutto quando il soggetto che parla o scrive vuole mettere in risalto sé stesso, o sottolineare la centralità della sua persona rispetto ad altri.
In diverse varietà di italiano regionale al posto di tu, come pronome personale soggetto, viene usata la forma te. Questo accade soprattutto in Toscana dove si sente dire spesso: te che prendi? Portalo te. Fallo te. Queste forme non sono veramente corrette perché te è un pronome complemento (tranne nei casi citati precedentemente) e si usa per esprimere un complemento oggetto 0 un complemento indiretto [la polizia ha visto te; vengo con te). È una forma regionale, da usare con cautela nel parlato e mai nello scritto. Le forme corrette sono: tu che prendi? Portalo tu. Fallo tu.
Istruzioni per l'uso Tu e io è la forma corretta. lo e tu è grammaticalmente corretta, ma sta scomparendo nell'uso. lo e te un tempo era considerato scorretto, ma oramai possiamo scriverlo (e cantarlo) senza troppe preoccupazioni. Te mangi un gelato è invece da evitare nella lingua scritta e anche nella lingua parlata sorvegliata.
Cioè Ecco una parola che va sempre di moda, il cui uso non ha mai dato segni di cedimento: facciamo bene a usarla in un testo scritto? È una parola gergale? Fa parte del lessico italiano? Cioè ha il suo posto in tutti i dizionari e le grammatiche della lingua italiana. Non è gergale e nemmeno scorretta: proviamo a conoscerla più da vicino. LA GRAMMATICA DICE Cioè per le nostre grammatiche, è una congiunzione coordinativa che introduce una proposizione coordinata esplicativa (o dichiarativa). Le congiunzioni coordinative esplicative sono le particelle che servono a unire due proposizioni o due elementi della stessa proposizione in modo che il secondo spieghi meglio il primo-, mio padre fa il pilota, cioè viaggia sempre. La proposizione coordinata esplicativa è quella frase che spiega quanto e stato affermato nella proposizione principale: l'economia è in crisi, infatti sono diminuiti i consumi. Cioè non è la sola parola a svolgere questa importante funzione. La lingua italiana ci offre un ventaglio dì espressioni e di modi diversi per dire cioè: . infatti/difatti [Il cambiamento climatico c'è, infatti è aumentato il buco nel l'ozono). • ossia (Mi hanno diagnosticato una neoplasia benigna, ossia un tumore benigno). • ovvero (Report, ovvero la voglia di stupire). . vale a dire (Elisa è arrivata prima, vale a dire che potrà partecipare alle gare nazionali). . . per essere precisi (Sono arrivati venti bambini, per essere precisi otto maschi e dodicifemmine).
Un po' di etimologia Cioè è la forma unita di ciò è. Già. in latino si usava la forma corrispondente ID EST, letteralmente: 'ciò è', quindi, 'cioè': ILLE DICTATOR, ID EST CAESAR. La locuzione latina si usa ancora oggi in inglese e si ritrova in moltissimi testi, anche nella forma abbreviata i.e. oppure I.E. Si usa, come il nostro cioè, per meglio specificare il significato di un'espressione usata in precedenza.
I comici, negli ultimi decenni, hanno imperversato (e continuano ancora) facendo la parodia agli adolescenti, incapaci di formulare frasi corrette e originali nel loro eloquio acerbo, chefarciscono, costantemente, di innumerevoli cioè. «Cioè, non puoi capire, sono andata con la Gine al cinema e... cioè, chi t'incontro? Cioè... c'era quel super-fico di Giorgio che cioè, stava insieme a quella truzza di Elisa e si tenevano per mano, pure!!!!!!! Cioè, ma ti rendi conto?????»
J Cioè, rispetto alle altre congiunzioni esplicative (comprese locuzioni ed espressioni varie), è stata molto bistrattata, sebbene sia una parolina molto efficiente che si presta: • ad aprire un discorso (proprio come l'inglese welì): «cioè... io penserei, da grande, di dedicarmi alla moda... cioè... alla sartoria»; • ad esprimere una certa reticenza nella risposta: «sì ci sono andata, cioè... no, non ricordo bene»; • ad esprimere un'interrogazione assoluta, un modo diretto e anche poco gentile di rispondere, chiedendo delucidazioni : «Sei disponibile ad aiutarmi, oggi?» «Cioè?». Cioè è così onnipresente sulla bocca dei nostri teenager che è diventato l'emblema del linguaggio adolescenziale, un simbolo che si traduce anche nella vitalità di una rivista per adolescenti (edita dalle Edizioni Panini) che si intitola, appunto, Cioè e che esiste, con notevole successo, da almeno trent'anni a dimostrazione della forza di questa indomabile e immortale congiunzione. A volte, certi usi giovanili non vanno demonizzati, ma accolti con l'indulgenza dovuta a chi ancora cerca un modo di esprimersi personale; caso mai vanno accompagnati benevolmente verso una dolce "disintossicazione". Attenzione! Cioè si scrive con l'accento grave, come caffè, tè, è.
Dimmi di sì Ci sono tanti modi per dire di sì anche se, in verità, siamo ormai abituati a sentirci rispondere quasi sempre con le stesse formule, consunte e quasi insopportabili, come ok, esatto, esattamente, assolutamente La nostra bella lingua è ricca di espressioni che ci permettono di rispondere affermativamente in modo vario e diversificato a seconda delle situazioni. Potremmo provare a usare, al posto di ok per esempio, altre espressioni come: certo/certamente come vuoi/come vuole/come volete d'accordo davvero/è vero giusto Un po' di... etimologia proprio così senza dubbio/indubbiamente, Dal latino sic, che significa'così'. Abva bene/bene/benissimo breviazione della formula sic EST, 'COvolentieri /con piacere SÌ è', usata in latino per esprimere un'affermazione. Attenzione! Sì va sempre scritto con l'accento. Come per altri monosillabi, l'accento in questo caso ha lo scopo di distinguere il sì affermativo dal pronome si.
Dante nel suo De vulgari eloquenza, chiama la lingua italiana la lingua del (dólce) sì", secondo una tripartizione delle lingue romanze che vedeva le tre principali aree distinte a seconda di come si indicava la loro particella affermativa.. * la lingua d'ori, nella Francia del Nord, da cui deriva il francese; e la lingua d'oc, nella Francia del Sud, conosciuta anche come occitano; • la lingua del sì, cioè l'italiano. Dante cita questa espressione anche in un famoso Canto dell 'Inferno-, Ahi Pisa vituperio de le genti del bel paese là dove 'I sì suona Dante, Inferno, c. XXXIII, vv. 79-80
Doppie pericolose In italiano molte consonanti possono essere pronunciate in due modi diversi che corrispondono a due diversi gradi di intensità: • un grado detto tenue: casa, pala, tuta; • un grado detto intenso: cassa, palla, tutta. Nella lingua scritta, per indicare la pronuncia intensa di una consonante, si usa la stessa lettera raddoppiata, che noi conosciamo come la doppia. In italiano abbiamo delle coppie di parole, come casa e cassa che si distinguono soltanto per la durata della consonante: per questo è molto importante pronunciare correttamente le consonanti tenui (dette anche scempie) e quelle intense (o doppie). Sembrerebbe semplice, ma la verità è che in italiano non è sempre facile distinguere tra scempia e doppia e rispettare le regole ortografiche quando scriviamo. Il fatto è che nell'italiano parlato al Nord prevale la pronuncia tenue di tutte le consonanti, anche di quelle doppie: dopio, belo, organizare al posto di doppio, bello, organizzare. Invece nell'Italia centromeridionale (tranne in Toscana e Umbria) si tende a raddoppiare certe consonanti anche quando sono scempie: nobbile, aggile,/raggile al posto di nobile, agile,fragile. Questo fa sì che ci siano ancora molte oscillazioni nella grafia di parole come attrezzo, abbrutito ecc. Ecco quindi un breve elenco con alcune delle parole italiane che spesso inducono in errore. Corretto abbrutito imbruttito acchito accomunare acuminato addosso adocchiare ammennicolo ammiccare annaffiatoio aneddoto appiccicare arrabbio attrezzi avallo, avallare bagatella
Scorretto abbruttito imbrutito acchitto accommunare accuminato adosso addocchiare amennicolo, amenniccolo amiccare anaffiatoio annedoto appicicare arrabio atrezzi avvallo, avvallare bagattella
briciole caligine collutorio eccezione emorragia fuliggine imbacuccarsi intellegibile raffreddore rivangare sbafo, sbafare scorazzare sollucchero soprattutto
bricciole caliggine coli utt ori o ecezione, ecezzione, eccezzione emoraggia fuligine imbaccuccarsi inteleggibile rafreddore rinvangare sbaffo, sbaffare scorrazzare solluchero sopratutto
Dal latino all'italiano L'italiano a differenza del latino e delle altre lingue del mondo in cui le doppie sono rare, è una lingua caratterizzata da molte consonanti doppie. Come mai l'italiano è l'unica, tra le lingue romanze, ad avere le consonanti doppie? Se lo chiedono non solo gli italiani, ma soprattutto i tanti stranieri che fanno così fatica a riconoscere i casi di raddoppiamento consonantico, e anche i bambini della scuola primaria. In latino esistevano molte parole che presentavano gruppi consonantici come -CT-, -PT-, -BD-, -DG-, -X-, -PS-, -MN-, ecc., come per esempio, ocra, SEPTEM, IPSA, DAMNUM, SCRIPSI ('otto','sette', 'questa','danno','scrissi'). In italiano questi gruppi consonantici si sono trasformati in consonanti doppie perché la prima consonante si è assimilata alla seconda, come nel caso di -PT- che è diventato -tt-, SEPTEM sette. Gli antichi gruppi consonantici sono sopravvissuti soltanto nelle parole che derivano da altre lingue, diverse dal latino, come il greco, o nelle parole di origine dotta che sono rimaste più vicine alla forma originaria (per es.: psicoìoqo, pneumatico, abdicare, proctologo). Normalmente invece, nel passaggio dal latino all'italiano, abbiamo avuto queste trasformazioni: o dai nessi latini -CT-, -PT- in italiano abbiamo -ttNOCTE(M) - notte SEPTE(M) sette OCTO otto • dal latino -x-, -PS- in italiano abbiamo -ssPROXIMU(M) prossimo IPSA essa SCRIPSI - » scrissi o dal latino -MN- in italiano abbiamo -NNDAMNU(M) danno doM(i)NA donna
Ecco! Dedico una pagina a questo avverbio, così semplice, essenziale e talmente espressivo che i bambini lo imparano presto, tra le prime parole, e lo usano ripetutamente, e con un certo orgoglio, per presentare il loro piccolo, ricco mondo a chi li circonda: "Ecco!" Ecco merita una pagina tutta per sé anche solo per il fatto di essere l'unico rappresentante (ebbene sì non ce ne sono altri, come lui) della categoria grammaticale degli avverbi presentativi. In quanto avverbio presentativo ecco serve, per l'appunto, a presentare, indicare o mostrare qualcosa o qualcuno di cui si parla: Ecco il treno! Ecco una nuova invenzione. Ecco che arriva Lorenzo. Eccoti servito. Essendo un avverbio molto socievole e avendo innato dentro di sé il talento di collegare cose, persone e avvenimenti tra loro, ecco è molto disponibile all'enclisi (quel fenomeno per cui una parola atona, monosillabica o al più bisillabica, si appoggia alla precedente formando un'unità prosodica): in parole povere ha la caratteristica di unirsi in una sola parola con i pronomi atoni e dar vita a: eccomi, eccoti, eccoci, eccovi, eccolo, eccotelo, eccovelo.
Un po' di etimologia r
\
I latino ÉCCU(M) ebbe un ruolo fondamentale nella formazione dei dimostrativi; infatti è servito, rafforzando i pronomi dimostrativi latini, a dare vita alle forme che tutti noi usiamo in italiano: (Éc)cu TLLUM - + quello (EC)CU TSTUM questo
Allo stesso modo ECCUM ha contribuito anche alla formazione di due importanti avverbi della lingua italiana: (Èc)cu sTc così (EC)CU INDE quindi
y
Nella scrittura si presta, come valido espediente stilistico, per introdurre l'apparizione improvvisa di un personaggio o di un evento inatteso, soprattutto quando è preceduto dalla congiunzione e: Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo,/gridando: "Guai a voi, anime prave!". (Dante, Inferno, c. III, w. 82 e segg.)
Faccia a faccia o a facci a a faccia?.
Ecco può avere diverse sfumature-, può essere simpatico e rassicurante per l'interlocutore che impazientemente chiede: Sei pronta? Siamo in ritardo! ...Eccomi! Dove saranno i miei occhiali? Eccoli!
Entrambe le forme sono corrette, anche se la "più corretta" sarebbe quella preceduta dalla preposizione a-, a faccia a faccia.
Ma può avere anche una sfumatura polemica o ironica (risultando piuttostosgradevole): Ecco come si comportano i ragazzi d'oggi. Ecco come ci hai ridotto! Ecco l'ultima trovata del nostro Presidente. Inoltre ben si presta a esprimere le pause di riflessione tipiche del linguaggio parlato: Vorrei sapere.,.ecco...mi piacerebbe che tu mi dicessi...
V
Ecco, per vitalità e colore, corrisponde esattamente al francese voilà-. voilà qu'ilarrive (ecco che arriva); voilà les enfants (ecco i bambini); voilà tout (ecco tutto).
A faccia a faccia è un avverbio, o meglio, una locuzione avverbiale qualificativa: l'avverbio è composto da una parola sola, la locuzione è formata da un gruppo di due 0 più parole. LA GRAMMATICA DICE Gli avverbi qualificativi sono chiamati anche avverbi di modo perché indicano il modo in cui si svolge un'azione. I più conosciuti sono gli avverbi che finiscono in -mente (semplicemente, facilmente, saggiamente ecc.), che si affiancano agli avverbi semplici come bene, male, così, insieme, quasi e a quegli avverbi in -oni di cui esistono una manciata di esempi: ginocchioni, bocconi, ruzzoloni ecc. Accanto a questi ci sono le locuzioni avverbiali, come la nostra, che in genere sono precedute dalle preposizioni a, con, in, su-, a rotta di collo, a tutto gas, alla francese, alla fiorentina, alla carlona, alla rinfusa, con brio, con lentezza, con saggezza, in fretta, in silenzio, in solitudine, sul serio e così via. A faccia a faccia insieme a un'altra locuzione dello stesso tipo, a corpo a corpo, ha visto perdersi, nel tempo, la prima preposizione a e si è imposta, sia nella lingua parlata che in quella scritta, la forma faccia a faccia senza che essa venga più sentita come scorretta. Questo indiscutibile passaggio è stato molto probabilmente influenzato dall'uso diffuso di faccia a faccia (e di corpo a corpo) come sostantivo. Ecco alcuni esempi: Sottoposero l'imputato a un faccia a faccia con la sua vittima. È iniziato il faccia a faccia tra sindacati e gruppo dirigente dell'azienda. Il loro rapporto si è trasformato in un vero corpo a corpo. Questa trasformazione è stata certamente influenzata anche dalle espressioni inglesi face-to-face e cheek-to-cheek, nonché dal francese tète à tète o coup à coup.
A poco a poco
Gratis o a gratis?
Ci sono altre locuzioni avverbiali, simili al nostro a faccia a faccia, che tendono a perdere la preposizione iniziale a nonostante non siano usate anche come sostantivi: si tratta delle locuzioni temporali a poco a poco e a mano a mano, che esprimono lo sviluppo progressivo di un evento o di un'azione. Che venendomi incontro, a poco a poco/Mi ripingeva là, dove 7 Sol tace. (Dante, Inferno, c. I, vv. 59-60)
A quanti di noi non è venuta, ogni tanto, la tentazione di usare la locuzione a gratis, al posto della forma corretta gratis? In effetti, all'apparenza, non sembrerebbe così scorretta visto che la troviamo ampiamente attestata in rete con ben 416.000 risultati nella ricerca con Google, e dato che capita di leggerla talvolta sulle testate dei giornali nazionali e di ascoltarla alla radio e in televisione.
La perdita della prima preposizione appare molto evidente nella lingua parlata mentre, in quella scritta e soprattutto in testi che prevedono un uso della lingua più sorvegliato, si tende a usare la forma più corretta: A mano a mano che procedevano, il sentiero si faceva sempre più stretto e impervio.
Come per tanti altri argomenti trattati in questo libro, anche per questa espressione "nazional-popolare" vale la solita regola d'oro: la nostra competenza linguistica. Che significa semplicemente essere consapevoli di quali siano gli ambiti d'uso di questa espressione: a gratis ha una connotazione decisamente popolare e quindi - eventualmente - potrebbe essere usata in contesti di comunicazione estremamente informali e soprattutto quando si voglia colorire il nostro linguaggio (scritto o parlato), con un tratto decisamente "ruspante". Se invece viene usata in contesti diversi (sia formali che informali) può davvero farvi passare da persona ignorante o incolta, come ci segnalano quasi tutte le grammatiche contemporanee. Cercate dunque di usare sempre la parola gratis e i suoi sinonimi gratuito e gratuitamente e tenetevi lontani dalla moda, ormai troppo diffusa, di usare a gratis solo per dare "colore" alle vostre frasi.
La satira è uguale per tutti, destra, sinistra e terzo polo. A poco a poco dal cantiere usciranno altri personaggi della società civile, (www.avvemre.it, 22/01/2011)
lo e te Si scrive: tu e io, io e te o io e tuì In questa domanda ci sono due problemi da risolvere: 1. è corretto usare la forma te in qualità di pronome soggetto al posto di tu! 2. è corretto anteporre io nella formula io e... oppure è meglio collocarlo alla fine? Entrambe le questioni sono aperte e da diverso tempo si cerca di dare un'interpretazione a norme divenute ormai troppo "strette" di fronte alla forza del linguaggio parlato. Pensiamo soltanto a due titoli che nell'ultimo anno (2011) hanno goduto di un grande successo nel mondo della musica e della letteratura: lo e te, la canzone di Gianna Nannini; lo e te, l'ultimo libro di Niccolo Ammaniti. Diciamo subito che io e tu sono pronomi personali soggetto. E quando i pronomi io e tu sono usati insieme come soggetto, la forma più corretta sarebbe tu e io oppure io e tu. , , La lingua parlata ha però ormai imposto anche la forma io e te, che vede il pronome complemento te in luogo del soggetto tu.
Pronome personale soggetto Pronome s i g n i f i c a letteralmente'parola che sta al posto di un nome'. Il pronome è la parte del discorso che si usa al posto di un'altra parola e ne fa le veci. I pronomi personali hanno forme diverse a seconda della funzione che svolgono nella frase: hanno una forma quando sono usati in funzione di soggetto e due forme quando sono usati in funzione di complemento (forma tonica e forma atona). I pronomi personali soggetto sono sei, come le persone che possono fare da soggetto: io, tu, lui/lei (egli/esso, ella/essa), noi, voi, loro (essi/esse), lo e tu sono dunque pronomi personali usati in funzione di soggetto: io mangio e tu dormi. Talvolta si usano, al posto di io e tu, anche le forme me e te (che sono invece pronomi personali complemento). Si tratta però di casi molto circoscritti: o nei paragoni di uguaglianza: sono bravo quanto te; sei uno stupido come me-, . nelle frasi esclamative senza veTbo e con un aggettivo: Povero tei Me infelice! . quando me e te sono in funzione predicativa e il soggetto è diverso: se tu fossi me; se io fossi te.
Bon tori 10 e mia madre oppure Mia madre e iol Generalmente si preferisce collocare 11 pronome io all'ultimo posto: è una questione di rispetto e di educazione. Ma anche la posizione iniziale è ben rappresentata nella lingua sia parlata sia scritta, soprattutto quando il soggetto che parla o scrive vuole mettere in risalto sé stesso, o sottolineare la centralità della sua persona rispetto ad altri.
In diverse varietà di italiano regionale al posto di tu, come pronome personale soggetto, viene usata la forma te. Questo accade soprattutto in Toscana dove si sente dire spesso: te che prendi? Portalo te. Fallo te. Queste forme non sono veramente corrette perché te è un pronome complemento (tranne nei casi citati precedentemente) e si usa per esprimere un complemento oggetto 0 un complemento indiretto {la polizia ha visto te; vengo con te). È una forma regionale, da usare con cautela nel parlato e mai nello scritto. Le forme corrette sono: tu che prendi? Portalo tu. Fallo tu.
Istruzioni per l'uso Tu e io è la forma corretta. lo e tu è grammaticalmente corretta, ma sta scomparendo nell'uso. lo e te un tempo era considerato scorretto, ma oramai possiamo scriverlo (e cantarlo) senza troppe preoccupazioni. Te mangi un gelato è invece da evitare nella lingua scritta e anche nella lingua parlata sorvegliata.
La ministra, le ministre
• i maschili in -sore possono avere il femminile in -sora (assessora, difensora) • usare l'articolo femminile per i termini invariabili in -a, -e e i composti con capo- (la poeta, la vigile, la capofamiglia).
Sembrerebbe una questione molto semplice: perché se la carica di ministro, deputato, sindaco, segretario (di stato, di partito ecc.) è rivestita da una donna, non la possiamo chiamare, tutti, ministra, deputata, sindaca e segretaria!
Istruzioni per Fuso
"Suona male", dicono in tanti (donne comprese): in realtà ciò che suona male non è la lingua, ma l'idea che alcune parole, da sempre maschili e da sempre luogo di potere dei maschi, possano accreditarsi anche come luogo del femminile", come rappresentazione morfologica della presenza delle donne nei cosiddetti ruoli di potere.
Le regole ci sono Per essere più chiari: la grammatica della lingua italiana prevede la possibilità di nominare le persone a seconda del genere (partendo proprio da uomo/donna), infatti i nomi di professione declinati al femminile esistono da sempre, per quegli ambiti dove alle donne è stato "permesso di entrare a pieno titolo: il maestro/la maestra, il cameriere/la cameriera, il fioraio/afioraia l'operaio/l'operaia. Se questi nomi "suonano bene" e sono accettati da tutti perché non dovrebbero farlo sindaco/sindacai Non si infrange nessuna r e g o l a della fonologia (sindaco/sindaca si comporta esattamente come monaco/monaca), come non esiste nessuna regola grammaticale che possa respingere un termine come avvocata, dal momento che la stessa grammatica accoglie senza problema la parola scienziataentrambe le voci derivano dal modello del participio passato, che possiede,per naturale connotazioni di genere e di numero. Sono passati più di vent'anni da quando, nel 1987, Alma Sabatini scrisse per la Presidenza del Consiglio e la Commissione nazionale per a patita tra uomo e donna le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana dove, tra i tanti argomenti trattati, si dava una regola per 1 nomi di professione femminili: . evitare il maschile per posizioni di prestigio, se esiste il femminile per mansioni inferiori (la segretaria, la governante); . evitare il maschile per cariche che hanno forma femminile (la senatrice, la scrittrice, la ricercatrice)-, , , . evitare di usare al maschile i nomi che sono di genere sia maschile che femminile (la presidente, la parlamentare)-, . evitare le forme in -essa se esiste, 0 si può formare, la forma in -a (ministra, sindaca e cariche militari: capitana, maresciallo);
Come si vede non si tratta di stravolgere la lingua italiana, ma di mettere in pratica le regole che la grammatica ci ha insegnato riguardo alla formazione del femminile: • i nomi che terminano in -o hanno il femminile in -a-, l'operaio/l'operaia, il maestro/la maestra, il magistrato/la magistrata quindi il ministro/la ministra-, • i nomi che terminano in -tore hanno il femminile in -trice. il pittore/la pittrice, il direttore/la direttrice quindi il senatore/la senatrice; • i nomi che terminano in -e valgono sia per il maschile che per il femminile. In questo caso è l'articolo che determina il genere: il cantante/la cantante, il preside/la preside quindi il presidente/la presidente, il giudice/la giudice, il vigile/la vigile. Ecco, per fare un po' di pratica, una lista di nomi di professione femminili da sperimentare nel linguaggio, scritto e parlato, di tutti i giorni: la deputata -* le deputate la giudice le giudici la magistrata -* le magistrate 1 a ministra -* le ministre la parlamentare -* le parlamentari
la preside -+ le presidi la sindaca le sindache la studente -* le studenti la vigile le vigili l'avvocata le avvocate
In Spagna la Real Academia Espanola nel 2005, nel suo DPD (Diccionario Panhispànico de Dudas) non solo ha accolto a pieno titolo le forme femminili abogada, arquitecta ecc., ma ha aggiunto anche un'annotazione fondamentale: "no debe emplearse el masculino para reférirse a una mujer", 'non si deve impiegare la forma maschile quando si fa riferimento a una donna' (si veda a questo proposito la bella tesi di laurea di Veronica Bertagnolli). In Germania, immediatamente dopo la sua elezione, Angela Merkel fece introdurre il termine Bundeskanzlerin (femminile di Bundeskanzler, sul modello già esistente Kellner/Kellnerin, cameriere/cameriera), nonostante nella Costituzione tedesca si parli solo di Bundeskanzler, al maschile. La Gesellschaft furdeutsche Sprache nel 2005 l'ha eletta "parola dell'anno" e il Duden (il più prestigioso dizionario della lingua tedesca) l'ha accolta già nel 2004.
Parole che ingannano Ci sono parole che ingannano: si tratta di quelle parole che, essendo simili, si confondono tra loro e ci inducono a commettere "spiacevoli" errori. Di solito, nella coppia simile, una è parola di uso quotidiano, l'altra invece è una voce più "alta", che appartiene alla lingua più cólta oppure un termine più tecnico che usiamo con minor frequenza. Lo scambio ingannatore si ha, generalmente, quando cerchiamo di dare un tono più elegante al nostro eloquio o ai nostri scritti impiegando parole che non "frequentiamo" spesso. Il consiglio è, ovviamente, quello di trattare le parole con grande cura: ciò significa usare un linguaggio semplice, fatto di parole e espressioni che conosciamo bene. Questo vale soprattutto per il parlato. Nello scritto, invece, possiamo anche cercare di ampliare il nostro lessico per aggiungere profondità e precisione ai testi, ma, prima di usare una parola che non "pratichiamo" abitualmente, dovremmo abituarci a cercarne il significato nel vocabolario, controllandone l'accezione e le modalità d'impiego. Questi sono alcuni esempi di parole-trabocchetto.
coordinazione/coordinamento Coordinazione e coordinamento derivano entrambi dal verbo coordinare, che significa 'ordinare insieme distribuendo e assegnando compiti e funzioni per raggiungere un obiettivo'. Sono sinonimi e si possono usare quasi l'uno in alternanza all'altro: la coordinazione delle risorse di un'azienda, il coordinamento delle idee e degli intenti. Coordinazione ha però degli ambiti d'uso specialistici che la voce coordinamento non contempla: nel linguaggio della fisiologia si dice, per esempio, coordinazione dei movimenti (e non coordinamento dei movimenti), così come nella chimica la coordinazione è un tipo particolare di reazione in cui si ha l'unione di due ioni. Coordinamento, invece, è soprattutto diffuso per descrivere gli organismi che coordinano, nel senso di 'ufficio', di 'centrale': centro di coordinamento, coordinamento nazionale delle biblioteche ecc.
innestare/inn escare Innestare è un termine proprio dell'agricoltura e significa 'trapiantare una parte di pianta su un'altra pianta'; si usa anche come termine della meccanica nell'espressione innestare una marcia e nel senso figurato di 'inserire, introdurre': innestare nella scrittura elementi del linguaggio parlato. Innescare significa'fornire di esca', quindi 'accendere un'arma da fuoco o una carica esplosiva' (un tempo si faceva tramite un'esca). Nel senso figurato ha dunque il significato di 'provocare, suscitare' qualcosa che difficilmente si riuscirà a fermare: la protesta contro i tagli sta innescando una spirale di violenza.
Impersonare/impersonificare
Impersonare significa 'rappresentare, attraverso una persona, un simbolo o un comportamento': Hitler ha impersonato il male nella sua essenza-, si dice anche di un attore.- Rowan Atkinson, l'attore che impersona Mr. Bean. Impersonifìcare... semplicemente non esiste, come non esiste impersonificazioneì Ma esiste personificare, che indica 'rappresentare qualcosa di astratto': è la personificazione del male-, si dice anche di una persona: la Marianna personifica la Repubblica francese.
inspirare/ispirare
Inspirare è il verbo che indica l'azione di 'introdurre aria nei polmoni durante la respirazione' ed è il contrario di espirare-, durante l'esercizio ricordatevi di inspirare e di espirare. Ispirare, invece, significa 'infondere una particolare impressione o sentimento': lei mi ispira fiducia; l'amore per Brigitte ha ispirato i suoi film più belli.
schernire/schermire
Schernire significa'deridere con disprezzo': l'uomo veniva schernito da tutti. Schermire è un verbo raro e significa 'proteggere, riparare': schermirsi gli occhi dalla luce. Si usa soprattutto come verbo riflessivo nel senso figurato di 'sottrarsi abilmente, eludere': schermirsi da una domanda inopportuna.
specificamente/specificatamente
Specificamente è un avverbio e deriva dall'aggettivo specifico, che significa 'particolare, determinato, preciso': attenersi agli usi specifici, esercizi specifici per dimagrire ecc. L'avverbio ha il significato di 'in modo particolare, specifico': la casa è adatta specificamente a famiglie con bambini. Specificatamente, avverbio, deriva dall'aggettivo specificato, che è il participio passato del verbo specificare e significa 'in modo specificato', ovvero 'spiegato a voce o per iscritto'. Si dovrebbe usare soltanto in riferimento a istruzioni precise: lo sciroppo si impiega specificatamente per le infezioni batteriche (come spiegato nelfoglietto illustrativo).
reticente/renitente
Reticente si dice di qualcuno che 'tace per nascondere' qualcosa: l'imputato si è mostrato reticente. Renitente significa 'che si oppone, che non vuole fare qualcosa'. Dunque riluttante, restio. È stato molto usato nell'espressione renitente alla leva, ai tempi dell'obiezione di coscienza. Si usa anche in senso ironico: ho chiesto a Chiara di uscire a cena, ma mi è sembrata renitente.
Piuttosto che Mi piacerebbe, una volta per tutte, riassumere brevemente il valore e il significato corretto di questa locuzione, nella speranza (vana, temo) di arginarne l'uso scorretto, scorrettissimo, che se ne fa nelle situazioni comunicative più disparate, dalla riunione di lavoro alle chiacchiere tra amici, dalla trasmissione televisiva ai comizi politici. Piuttosto che, per i libri di grammatica, è una congiunzione coordinativa avversativa. In parole semplici, è un elemento che unisce due frasi equivalenti (congiunge e coordina, dunque) mettendole però una in contrapposizione con l'altra. Piuttosto che, inoltre, si usa per indicare la preferenza di una cosa rispetto a un'altra: Preferirei i lavori forzati piuttosto che sposare uno come te. Noi mangiamo ceci e farro piuttosto che carne e patate. Penserei di passare le vacanze al mare piuttosto che in montagna. Dovrebbe essere chiaro a tutti che piuttosto che, in questi casi, potrebbe essere sostituito tranquillamente con sinonimi come: anziché, invece, al posto di. Invece. Invece, negli ultimi dieci anni, si è diffusa una moda, di origine settentrionale e questa volta non di origine popolare, ma dilagante soprattutto tra i parlanti delle classi più abbienti,peri quali piuttosto che sarebbe un sinonimo di 0, oppure: Ouest'anno siamo indecisi ma credo che andremo a Cortina piuttosto che a St. Moritz piuttosto che a Gstaad. E con questo eloquio, vagamente snob, vogliono dirci che andranno a Cortina 0 a St.Moritz oppure a Gstaad.
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Da questa sfera ristretta, la moda ha dilagato, con un'energia davvero straordinaria, muovendosi velocemente dall'italiano parlato nel Settentrione all'italiano centro-meridionale, e attestandosi ormai diffusamente anche nella lingua scritta (soprattutto giornalistica). Grazie all'uso disinvolto da parte di conduttori e giornalisti televisivi, questo uso deprecabile è riuscito a introdursi in tutti i contesti linguistici, dalle riunioni di lavoro alle conversazioni informali. Ormai la frase: oggi mangerò un filettino di pesce piuttosto che un'insalatina di mozzarella e rucola sembrerebbe equivalere a: oggi mangerò un filettino di pesce oppure un'insalatina di mozzarella e rucola. Ma non è così. Perché la prima frase, in italiano, non dice assolutamente nulla.
Istruzioni per l'uso lì consiglio è accorato: evitate quest'uso scorretto in tutti i contesti di comunicazione, anche in quelli più informali. Questo non tanto perché si scontra con la regola grammaticale (le regole, si sa, a volte perdono di autorevolezza e vanno cambiate), ma per un semplice motivo di tipo comunicativo; l'uso scorretto di piuttosto che rende il contenuto delle frasi ambiguo (spesso incomprensibile) e annulla la prima regola della comunicazione, che è essere capiti. Se dico infatti: sono soprattutto le donne piuttosto che i bambini, piuttosto che gli omosessuali a dimostrarsi i più deboli di fronte ai soprusi delle guerre oppure A scuola i bambinifaranno attività diverse come teatro piuttosto che canto piuttosto che pittura ...che cosa si capisce?
L'Accademia della Crusca consiglia /
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A L'Accademia stavolta esprime parere decisamente negativo: depreca l'uso sconsiderato di piuttosto che con il significato di 'oppure' e ritiene che sia da respingere "con fermezza".
)
Un attimino
Il diminutivo si ottiene aggiungendo a una parola, ma anche a un aggettivo e talvolta a un avverbio, un suffisso, che può essere -ino, -etto, -elio, -otto, -uccioecc. Tramite questo processo, che in grammatica si chiama alterazione, ci è possibile esprimere diversi concetti tra cui, principalmente, la riduzione delle dimensioni oppure l'attenuazione di una qualità: una casetta, una tazzina, debolino, poverello, dedotto. Il diminuitivo serve anche a dare una connotazione vezzeggiativa alla parola (mammina, tesorino, parolina) oppure anche spregiativa (ragazzotto, omuccio, donnetta).
Il linquaqqio parlato straborda di luoghi comuni, di frasi fatte, di "tormentoni": ogni periodo ha i suoi preferiti, ma ce ne sono alcuni che sembrano non passare mai di moda. Tra questi un attimino, e la sua variante momentino, sembra godere di una vitalità davvero straordinaria, nonostante sia considerata una de e parole più fastidiose dell'italiano parlato oggi. Ornella Castellani Polidori (La lingua di plastica Vezzi e malvezzi dell'italiano contemporaneo) le dedica ampio spazio tra altri "pezzi di plastica". Su Faceboo* c'è più di un gruppo unito nel desiderio della sua eliminazione, e lettori indignati riempiono le rubriche dei quotidiani e quelli in rete per chiedere che ne venga ufficialmente decretata la scorrettezza. Un attimino viene usato per attenuare un valore temporale che, nella realtà, è molto più ampio di un attimo: «ci metto un attimino», «un attimino e arrivo!», «solo un attimino, per piacere» aiutano colui o colei in paziente attesa a illudersi che non si tratterà di ore! , Un attimino può essere usato anche come avverbio, al posto di un po leggermente lievemente-, sono un attimino depresso-, ti vedo un attimino distratta; la tua risposta è un attimino di parte; prenderei un attimino di pane; vorrei un attimino di vino. Il fastidio nei confronti di questaparola che, aben vedere, è relegata soprattutto al linguaggio parlato e colloquiale, sembra forse "un attimino eccessivo: esistono espressioni e parole molto piùinsopportabili e indigeste,proprio perché diffuse non solo nella lingua parlata, ma riproposte con reiterata costanza anche dai giornalisti stampata e da insospettabili autori. Pensiamo soltanto a parole ed espressioni onnipresenti come volano, sinergia, trend, mi/ci consenta, nella misura in cui, quant'altro, diciamolo, bypassare, nonsolomoda, nonsolopane, nonsolo... ecc. d e l l a
c a r t a
Uti po' di etimologia La parola attimo indica una brevissima frazione di tempo e deriva dall'espressione del latino tardo IN ATOMO, che a sua volta ci arriva dal greco antico en atomo, che significa 'in un istante'. Atomos, in greco, significava 'indivisibile', perché composto di a- privativo e témnem 'tagliare , quindi 'ciò che non si può tagliare, dividere', da cui il nostro atomo.
II
V
Diminutivi socialmente abili
J
Il diminutivo viene aggiunto a una parola anche per attenuarne il significato e per renderla quindi socialmente più accettabile. Questo succede soprattutto quando si vuole "nascondere" un ordine trasformandolo in un invito, in una richiesta gentile o in un suggerimento: avrei un lavoretto per te; avremmo solo bisogno di una suafirmetta qui e qui; si ricorda che ci deve ancora quella sommetta di denaro?; ci sarebbe ancora da pagare il conticino di sua moglie... In questo caso si parìa di diminutivo "sociale" proprio perché diventa uno strumento di comunicazione all'interno delle nostre relazioni e convenzioni sociali. Vicino al diminutivo sociale c'è anche il diminutivo "di modestia" o per meglio dire di falsa modestia, con il quale si vuole apparentemente minimizzare la grandezza di ciò che si possiede: la fabbrichetta (con mille dipendenti), la barchetta (panfilo ormeggiato a Saint-Tropez), la villetta (villa con piscina e affini), il volumetto (pubblicato e già tra i più venduti in Italia) ecc. Infine c'è il diminutivo "ironico": ha un caratterino!; vedessi che mogliettina si è trovato!; ora lo conoscerai, il suofidanzatino; Ugo è un tipetto...
Quando sentiamo dire «il direttore oggi è un attimino confuso» stiamo assistendo, in diretta, a un processo che in linguistica si chiama grammaticalizzazione e che consiste nel fatto che una parola, con un suo preciso significato autonomo, come un attimino (nel senso di 'frazione di tempo'), diventa un'altra cosa, cioè un avverbio con il significato di un po': un at-
timino lungo, ma anche vorrei un attimino di pane. È un processo che la lingua conosce be-
ne e che riguarda spesso parole che indicano una piccola quantità di qualcosa: mica, ad esempio, che in origine significava 'briciola', è diventata un rafforzativo della negazione: non so-
no mica stanco.
Vicino a Bergamo o vicino Bergamo?
VERBI RIBELLI
La frase corretta è abito vicino a Bergamo: vediamo perché. LA GRAMMATICA DICE CHE Vicino a, in grammatica, è una locuzione preposizionale. In parole povere significa che, pur essendo costituita da due parole che sono indissolubilmente legate l'una all'altra, ha il valore e il ruolo di una preposizione (proprio come di, a, da, in, con, su, per, tra, fra). Vicino, da solo, è invece un avverbio e si usa in frasi come queste: abitiamo vicino; venite vicino; c'è una farmacia vicino ecc. Per rispondere al nostro dubbio, la forma corretta è quindi: abito vicino a Firenze e non abito vicino Firenze vieni vicino a me e non vieni vicino me e non stiamo vicino tuo padre. stiamo vicino a tuo padre Abito vicino Firenze, ci siamo trasferiti vicino voi sono forme che effettivamente si trovano spesso anche sulla carta stampata o che possiamo ascoltare in televisione. Fanno parte però del linguaggio parlato, in espressioni regionali, e come tali vanno evitate quando scriviamo, ma anche quando parliamo perché poi ci possono indurre nella tentazione di scriverle, come è accaduto al giornalista che ha scritto: Laurearsi? Meglio vicino casa. Sono quasi sempre i primi a portare il titolo di laurea nella famiglia di origine, ma preferiscono farlo vicino casa. (www.repubblica.it, 27/05/2011) Lo stesso discorso vale anche per la locuzione preposizionale (ormai abbiamo imparato che cosa significa!) davanti a-, le forme corrette sono sempre con la preposizione a: ci vediamo davanti a casa; l'incontro è fissato davanti a scuola. Purtroppo molto spesso si sentono, ma anche si leggono,frasi scorrette come: Scoperto spacciatore davanti una scuola. Eccidio di cristiani davanti una chiesa. Danze folkloristiche davanti Palazzo Vecchio In questo caso si tratta di veri e propri errori grossolani, nonostante esempi illustri della lingua letteraria: Davanti San Guido (Giosuè Carducci)
Regole per gli "irregolari"? La grammatica cerca di incasellarli entro regole, contro-regole ed eccezioni, ma sono davvero restii a essere imbrigliati, essendo ribelli per natura: sono infatti, almeno formalmente, tra gli elementi più anarchici della nostra lingua. Poveretti, non ne hanno colpa loro: nel passaggio dal latino all'italiano hanno dovuto attraversare tali e tante vicissitudini... Non bastano poche pagine per chiarire dubbi e incertezze sull'uso di certi tempi verbali, né tanto meno per imparare a districarsi nella giungla dei verbi irregolari. In questa sezione ho cercato di rispondere alle domande più comuni che molti di noi si pongono, 0 si sono posti almeno una volta, di fronte a certe stranezze, come quando abbiamo a che fare con verbi che appartengono alla stessa coniugazione, ma non sembrano neppure lontanamente parenti (io vado, noi andiamo) 0 con altri che ci lasciano letteralmente... senza parole, perché in effetti non hanno il participio, non hanno alcune persone o determinati tempi. Per non parlare poi degli ausiliari essere 0 avere: chi saprebbe dire, con sicurezza, quando ci vuole l'uno o quando si mette l'altro?
Apersi o aprili
Le stranezze della lingua... prevale la forma aprì, aprironosu apersee apersero, mentre è pravvissuto aperto invece di *aprito (participio passato di aprire, come udito da udire, se da sentire). Eppure *aprito verrebbe percepito come più naturale e più "regolare" rispetto ad aperto, visto che lo ritroviamo in una precisa fase dell'apprendimento della nostra lingua sia tra i bambini che imparano la madrelingua, sia tra gli stranieri che apprendono l'italiano come seconda lingua. La tentazione di dire *apritoc'è, ma viene immediatamente corretta!
Sono corrette entrambe: aprii è la più usata, apersi la meno frequente. I verbi irregolari come aprire, riaprire, coprire, ricoprire, scoprire, riscoprire presentano, al passato remoto, due forme per la prima e per la terza persona singolari e due forme per la terza persona plurale: io aprii, coprii
io apèrsi, copèrsi tu apristi, copristi
lei/lui aprì, coprì
L'Accademia della Crusca consiglia
lei/lui apèrse, copèrse
noi aprimmo, coprimmo voi apriste, copriste loro apèrsero, copèrsero loro aprirono/coprirono
Le due forme in passato convivevano serenamente e venivano usate indifferentemente Oggi prevalgono, sia nell'uso scritto sia in quello parlato, le forme io aprii, coprii, lui coprì, loro coprirono. Ciò non significa che le forme come apersi, scopersi, copersi ecc. siano scomparse. Per scoperse abbiamo 124 ooo risultati su Google e in quanto agli altri verbi li ritroviamo non solo ne]}'Inferno dantesco ("ond'io li orecchi con le man copersi", canto XXIX) ma anche in scritti ben più recenti: "Rinunciò per sempre alla letteratura, il giorno in cui il padre scoperse un racconto che egli aveva scritto, esplodendo m un cieco furore". (Pietro Citati, La Repubblica, 30/11/1994) Anche Manzoni, quando decise di rivedere la lingua italiana dei suoi Promessi Sposi cancellò i vari aperse, scoperse presenti nel testo originario per sostituirli con le forme, più "moderne", aprì e scoprì. Certo forse il celebre verso di Dante non avrebbe lo stesso impatto inquietante se al posto di ìe bocche aperse ci fosse un ben più breve e meno spaventoso le bocche apri...
Meglio usare le forme aprì, copri, scoprì (essendo quelle più comunemente usate al giorno d'oggi), ma non si commette errore se si usano le forme più arcaiche aperse, coperse e scoperse. V
Non solo ma anche
Anche offrire e soffrire si comportano come aprire e coprire. Si tratta sempre di verbi irregolari della 3^ coniugazione che presentano due forme per la prima e per la terza persona singolari e due forme per la terza persona plurale del passato remoto: io offrii, soffrii lei/lui offri, soffrì loro offrirono, soffrirono
io offèrsi, soffèrsi lei/lui offèrse, soffèrse loro offèrsero, soffèrsero
Vale lo stesso discorso fatto per aprire: la prima forma (offrii, soffrii) è quella più comune, mentre la seconda è più rara, ma ben attestata nella letteratura.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,/le bocche aperse e mostrocci le sunne-,/non avea membro che tenesse fermo. (Dante, Inferno, c. VI, vv. 19 e segg.)
Un po' di... etimologia Anche in questo caso la causa dell'irregolarità è l'origine latina del verbo che deriva dal latino APERTRE, come coprire deriva da COOPERTRE (participio passato COPERTUM).
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É H E ) POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 5. Cossi e nocqui. Remoti e difficili Cap. 5. Passato prossimo 0 passato remoto?
Bagnamo o bagniamoì La risposta corretta è: bagniamo. (Ma bagnamo, senza la i, non è più un errore). Eppure la regola grammaticale questa volta parlava chiaro: abbiamo imparato che tra il digramma gn (digramma: due lettere che formano uno stesso suono) e le vocali a, e, o, u la / non si mette mai. Infatti abbiamo: gnomo, lagnoso ognuno, ignudo
lasagna, spugna Agnese, lagne
Perché allora dobbiamo scrivere bagniamo con la /? È presto detto: questa i non c'entra nulla con il digramma gn, ma fa parte della desinenza della prima persona plurale del presente indicativo, del presente congiuntivo e dell'imperativo, che è: -iamo (noi amiamo, che noi amiamo, amiamo!). Come si ha am-iamo, così si ha bagn-iamo, sogn-iamo, disegn-iamo, guadagn-iamo, regn-iamo. Tutti i verbi in -gnare {guadagnare, disegnare, insegnare, segnare ecc.) infatti mantengono intatta la / perché questa fa parte della desinenza; se non mettiamo la ; in qualche modo modifichiamo, tagliandola, la desinenza che ci fa riconoscere quel tempo, quel modo e quella persona. Per questo la / di bagniamo era considerata obbligatoria.
Cossi e nocqui: remoti e difficili L'uso del passato remoto (come potete leggere nelle pagine dedicate a "Passato prossimo o passato remoto") non è così scontato per molti italiani, nella lingua parlata soprattutto, ma anche in quella scritta. Non gioca a favore di questa forma verbale l'evidente difficoltà d'uso di certi verbi che al passato remoto suonano davvero molto "strani".
Coniugazioni e desinenze Il passato remoto, come tutti i tempi verbali, ha le sue regole e le sue desinenze. Peccato però che solo i verbi della prima e della terza coniugazione (-are e -ire) siano (non sempre) regolari, mentre quelli della seconda sono quasi tutti irregolari. Il passato remoto dei verbi irregolari si forma sostituendo le desinenze dell'infinito (-are, -ere, -ire) con quelle che vedremo qui di seguito per ciascuna coniugazione. Talvolta esistono (anche per i verbi regolari) due varianti della forma verbale, entrambe corrette.
Che cos'è la desinenza?
Queste sono le desinenze regolari per ciascuna coniugazione.
I tempi e modi verbali si formano unendo la radice del verbo con la sua desinenza: am-iamo am-are am-assi • \
Prima coniugazione in -are: parlare io parl-ai tu pari-asti lei/lui parl-ò
noi pari-ammo voi pari-aste loro parl-arono
Seconda coniugazione in -ere: ricevere io ricev-etti (oppure: ricevei) tu ricev-esti lei/lui ricev-ette (oppure: ricevè)
noi ricev-emmo voi ricev-este loro ricev ettero (oppure: riceverono)
RADICE
DESINENZA
RADICE
DESINENZA
RADICE
DESINENZA
Norma flessibile La norma viene in aiuto ai dubbiosi: infatti, nel tempo, è diventata più tollerante così da accettare anche forme come bagnamo e sognamo che non sono più considerate errori. A questo punto: a voi la scelta.
I verbi della seconda coniugazione possono avere, in genere, due forme di passato remoto: la forma in -etti (temètti, temètte, temèttero) e la forma in -ei (teméi, temè, temerono).
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I verbi in -daree quelli in -giare {rinunciare, mangiare) mantengono la / se la desinenza iniTerza coniugazione in -ire. dormire zia per a o per o (rinunciamo, mangiamo, rinuncio, mangio); la perdono davanti alle desinen- io dorm-ii ze che cominciano con eoppure i, pur essendo, in questo caso, parte integrante della radice. tu dorm-isti Si scrive perciò rinunceremo e mangeremo. lei/lui dorm-ì Ovviamente c'è un'eccezione: effigiare conserva la /'in tutta la sua coniugazione.
noi dorm-immo voi dorm-iste loro dorm-irono
Gli irregolari Ecco invece alcuni esempi di verbi che al passato remoto si comportano in modo molto "irregolare": i Bere al passato remoto ha le seguenti forme: noi bevemmo io bevvi voi beveste tu bevesti loro bevvero lei/lui bevve • Il passato remoto di conoscere è: io conobbi tu conoscesti lei/lui conobbe • Il passato remoto di crescere è: io crebbi [crescei e crescetti sono forme arcaiche) tu crescesti lei/lui crebbe
noi conoscemmo voi conosceste loro conobbero
noi crescemmo voi cresceste loro crebbero
» Cuocere, ad esempio, al passato remoto fa: io cossi noi cocemmo/noi cuocemmo tu cocesti/tu cuocesti voi coceste/noi cuoceste lei/lui cosse essi cossero Per fortuna il participio passato è semplice: cotto, ma pensate che anticamente si usava anche la forma cociuto. » Dare, al passato remoto ha due possibilità per la i a e la 3 a singolari e per la 3 a plurale noi demmo io diedi /io detti (meno comune) voi deste tu desti loro diedero/loro dettero lei/lui diede e lei/lui dette » Difendere al passato remoto è: io difesi tu difendesti lei/lui difese
noi difendemmo voi difendeste loro difesero
» Il passato remoto di dirigere è: io diressi tu dirigesti lei/lui diresse
noi dirigemmo voi dirigeste loro diressero
e 11 passato remoto di espellere è: io espulsi tu espellesti lei/lui espulse
noi espellemmo voi espelleste essi espulsero
« Il passato remoto di leggere è: io lessi tu leggesti lei/lui lesse
noi leggemmo voi leggeste loro lessero
• Nuocere al passato remoto è: 10 nocqui tu nocesti lei/lui nocque 11 participio passato è: nociuto. • Il passato remoto di piacere è: io piacqui tu piacesti lei/lui piacque
noi nocemmo voi noceste essi nacquero
noi piacemmo voi piaceste loro piacquero
• Sapere al passato remoto ha le seguenti forme: io seppi noi san noi sapemmo tu sapesti voi sapeste lei/lui seppe loro seppero • Il passato remoto di volere è: io volli tu volesti lei/lui volle
noi volemmo voi voleste loro vollero
Cfera o c'erano un centinaio di migranti? Talvolta (soprattutto quando scriviamo, perché nel parlato tutto è ben più flessibile) possiamo avere dei dubbi sull'accordo di numero, singolare o plurale, tra il soggetto e il predicato. La frase riportata nel titolo ne è un buon esempio. Quale delle due è corretta?: 1. Sulla barca c'era un centinaio di migranti 2. Sulla barca c'erano un centinaio di migranti. Le frasi, in questo caso, sono tutt'e due corrette, nella prima abbiamo il regolare accordo tra soggetto (un centinaio) e predicato (c'era, al singolare), nella seconda abbiamo invece una concordanza a senso (soggetto singolare ma c'erano al plurale per via del complemento di migranti, che è al plurale). LA GRAMMATICA DICE Vediamo nei dettagli qual è la differenza tra accordo e concordanza a senso.
Accordo di numero tra soggetto e predicato In italiano, normalmente, il soggetto concorda in numero con il predicato: se il soggetto è singolare il verbo sarà al singolare, se il soggetto è plurale (oppure ci sono due soggetti) il verbo sarà al plurale: la bambina ride, le bambine ridono. Quanto detto vale anche se i due soggetti sono collegati dalla virgoErrata corrige la o dalle congiunzioni e, né ® il sole e l'aria di mare ebbero un Spesso anche i testi scritti di livello alto reeffetto straordinario su di noi; datti da chi normalmente ha un'ottima pa• tuei tuoi compagni di classe siete dronanza della lingua, presentano errori di stati maleducati; accordo: In questa fase politica è stato stra• né Anna né Cinzia sono andate ordinario l'impegno della società civile e lo ali a festa. sforzo degli intellettuali nel contrapporsi al-
Eccezioni H—ttS.
l'attuale governo (correzione: sono stati).
Il tempio e tutto il materiale votivo venne di-
strutto nel III secolo d.C. (correzione: vennero distrutti).
anche al singolare se i soggetti che seguono quello iniziale sono sentiti come se fossero aggiunti per spiegare e chiarire il primo.- la nausea, l'insofferenza viscerale lo rendeva incapace di reazione-, « nei soggetti multipli collegati dalle congiunzioni o, oppure, ovvero prevale l'accordo al singolare: il padre o il tutore del minore deve firmare il documento-, • quando il soggetto è accompagnato da un complemento di compagnia generalmente l'accordo è al singolare: la zia, insieme con la sorella, è andata a teatro-, Lucia, con Anna e Luca, si è espressa contro l'intervento disciplinare.
La concordanza a senso Abbiamo visto come l'accordo sia una concordanza di tipo grammaticale: soggetto singolare -> verbo singolare soggetto plurale -» verbo plurale La concordanza a senso invece è la mancata concordanza tra soggetto e predicato e si ha quando il soggetto è un nome collettivo (un nome singolare che indica più persone o cose) seguito da un sostantivo plurale come complemento di specificazione: Oggi una folla di facinorosi ha protestato davanti al Parlamento. Oggi una folla di facinorosi hanno protestato davanti al Parlamento. La prima (l'accordo) è corretta dal punto di vista grammaticale, la seconda (concordanza a senso) è corretta dal punto di vista del senso, del significato. Nomi collettivi sono -.folla, decina, dozzina, serie, gruppo, maggior parte ecc.: • Un sacco di persone è accorso sul luogo dell'incidente,un sacco di persone sono accorse sul luogo dell'incidente. • Un nugolo di mosche ha invaso il giardino; un nugolo di mosche hanno invaso il giardino. • Nel locale è rimasta una decina di persone; nel locale sono rimaste una decina di persone. Molte grammatiche considerano la concordanza a senso accettabile solo nell'italiano parlato, mentre per la lingua scritta consigliano l'accordo grammaticale. In realtà la concordanza a senso L'Accademia della Crusca consiglia è ormai ampiamente attestata non solo nel La Crusca prende atto del cambiamento in corso parlato, ma anche nella che vede la diffusione della concordanza a senso lingua scritta. e la tendenza a un "allentamento della norma" che invece prevedeva l'accordo grammaticale.
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Congiuntivi in crisi Crisi demografica, crisi economica, crisi di mezza età... dobbiamo rassegnarci anche alla crisi del congiuntivo? Si parla spesso della cosiddetta crisi del congiuntivo, eppure questo modo verbale è ancora molto vitale soprattutto nella lingua scritta ed è usato frequentemente anche in quella parlata. Il congiuntivo è il modo della possibilità, del dubbio e del desiderio. Con il congiuntivo descriviamo un'azione o un fatto dal nostro punto di vista personale: secondo un'ipotesi, un'opinione, un desiderio o una speranza: credo che tu abbia fatto uno sbaglio; vorrei che lei fosse qui!
Richiedono l'indicativo i verbi che esprimono giudizio o percezione come accorgersi, constatare, dichiarare, dimostrare, dire, ricordare, sapere, sentire, sostenere ecc.: il primo ministro ha affermato che la crisi non è grave; ricordo che pioveva-, ho saputo che sei andato a Roma; i sindacati sostengono che la partecipazione è stata massiccia. . A l c u n i verbi possono reggere l'indicativo o il congiuntivo a seconda del valore semantico che si vuole dare alla frase: con l'indicativo si vuole esprimere la certezza di quanto viene detto, mentre il congiuntivo da una sfumatura di incertezza all'enunciato. Indicativo Capisco che sei stanco I ragazzi hanno ammesso che sono colpevoli
Congiuntivo Capisco che per te questo sia troppo Ammettiamo che i ragazzi siano colpevoli
Grazie alla grammatica possiamo dare voce anche alle più impercettibili sfumature del nostro pensiero. Ad esempio, perché rinunciare ad esprimere quel dubbio, quella leggera incertezza che è insita nel congiuntivo, sostituendolo con la certezza dell'indicativo? sembra che l'imputato abbia chiesto perdono alla vittima; hanno detto che l'imputato ha chiesto perdono alla vittima.
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Nel primo caso non siamo certi che la notizia sia vera, esprimiamo un dubbio- nella seconda diamo la cosa per scontata. Si tratta di una differenza notevole nell'ambito della comunicazione tra esseri umani. Immaginatevi che cosa sarebbe la diplomazia, senza il congiuntivo!
Il congiuntivo, benché ancora fortemente radicato sia nel parlato che nello scritto, anche informale, sembra però non piacere molto, né ai giornalisti (una gran parte, purtroppo) e neppure ai politici. Anzi, sembra proprio che cerchino volutamente di scansarlo, come se temessero le potenzialità di questo modo del verbo così ricco di sfumature e di espressività. Una scrittrice italiana, Chiara Valerio, scriveva nel 2010 (26 ottobre) in un suo articolo: «Mi fido di Vendola e dei suoi perché parlano e pensano con le subordinate restituendo così al linguaggio politico la possibilità dell'analisi del periodo.» Al di là delle valutazioni di parte, è però vero che il linguaggio politico preferisce l'indicativo anche là dove il congiuntivo dovrebbe essere necessario, ad esempio con le congiunzioni sebbene, malgrado, nonostante, affinché, nel caso che, o con espressioni come è necessario che, è probabile che ecc. LA GRAMMATICA DICE Il congiuntivo si usa: • con le congiunzioni subordinanti come affinché, benché, sebbene, a meno che, nel caso che, nonostante, qualora, malgrado, senza che: malgrado sia malata...; • con gli aggettivi e i pronomi indefiniti come chiunque, qualunque, qualsiasi, ovunque, dovunque, qualsiasi cosa io faccia, non viene mai apprezzata-, • con le locuzioni impersonali è bene che, è necessario che, è probabile che, è utile che. è bene che tu faccia i compiti oggi; è necessario che lui venga-, • nelle subordinate rette da verbi che esprimono un ordine, un desiderio, un'opinione, un timore, come chiedere, disporre, aspettare, augurare, desiderare, volere, sperare, credere, ritenere, temere, dubitare: voglio che tu mi ascolti.
Istruzioni per l'uso Come scrive Gian Luigi Beccaria [Il mare in un imbuto), nella lingua "ciò che importa non è scegliere tra un modo più 0 meno elevato e raffinato, ma poter scegliere in base alle diverse situazioni comunicative". Dobbiamo toglierci dalla mente che il congiuntivo sia un vezzo linguistico borghese per parlare tra colti: è piuttosto una possibilità espressiva che ci permette di dire a chi ci sta di fronte "penso che tu abbia ragione" e in quell'abbia mettiamo tutta la nostra difficoltà più profonda ad ammettere che probabilmente sì, hai ragione, ma sento che non riesco, ora, a riconoscerla del tutto, questa ragione. E quindi ti chiedo (tramite il congiuntivo), di venirmi incontro, se ti è possibile, e di accogliere la mia difficoltà. Anche a questo serve, il congiuntivo: a manifestare la profondità e le sfumature del nostro sentire e... a essere gentili.
Devo o debbo! Devo e debbo sono perfettamente intercambiabili. Possiamo usare entrambe le forme senza paura di sbagliare: sono corrette tutt'e due sia nello scritto informale sia in quello più formale. Giorgio Napolitano, a Firenze, nel Salone de'Cinquecento, il 12 maggio 2011 ha detto: "Faccio come posso quello che debbo, quello che devo fare secondo la Costituzione". Lo sai: debbo riperderti e non posso. (Eugenio Montale, Le occasioni) Voi date per scontato che questo lavoro lo debba fare io! Devono, devono, devono: non hanno mai tempo per fare quello che gli piace davvero. Le forme devo, devono, deva, devano sono generalmente più frequenti rispetto alle altre, ma ciò non significa che debbo, debbono, debba, debbano siano sbagliate oppure che, in contesti più sorvegliati, le une siano preferibili alle altre (il Presidente Napolitano ce lo ha dimostrato). Possiamo solo constatare che il congiuntivo debba, debbano mostra ormai una diffusione più accentuata rispetto alle forme deva, devano. LA GRAMMATICA DICE Il verbo dovere fa parte di un ampio gruppo di verbi chiamati irregolari (per la maggior parte appartenenti alla 2 a coniugazione) i quali mostrano delle forme cosiddette appunto "irregolari", ossia che non seguono la coniugazione cui appartengono.
Un po' di etimologia /
•
A
Dal latino DEBÈRE (composto di DE, 'da', e HABERE, 'avere') in origine significava 'possedere qualcosa avendolo avuto da qualcuno' e quindi è passato a significare: • 'avere la necessità di fare qualcosa': devo andare a casa; dobbiamo lavorare; devono bere; • 'essere probabile, sembrare': devono essere quattro 0 cinque; devi essere molto affaticata; • 'essere debitore': Luigi mi deve mille euro; dovete rispetto a vostro padre.
Dovere, con le sue forme doppie devo/debbo, fa parte di un nutrito gruppo di parole che oscillano tra la forma più cólta, spesso più vicina al latino, e un'altra diventata di uso comune: pronunzia/pronuncia, obiettivo/obbiettivo, cancellare/scancellare.
I tipi di irregolarità sono soprattutto due e si distinguono in base: » alla presenza di più radici che danno luogo a forme diverse tra loro come nel verbo andare (io vad-o, noi and-iamo); » alla presenza di desinenze "strane" (non regolari) come nel caso del verbo bere che al passato remoto fa bevvi al posto di un regolare *bevetti 0 cadere che ha la forma caddi al posto di un *cadetti 0 *cadei. Dovere fa parte del primo gruppo; è irregolare perché presenta due radici verbali dalle quali sono scaturite due forme diverse, dev-o e debb-o. Entrambe le radici dev- e debb- derivano dallo stesso verbo latino DEBERE: debb- (dalla quale deriva anche dobb-) è più arcaica, mentre dev-/dov- è più recente. Indicativo presente
Congiuntivo presente
io dèvo 0 dèbbo tu dèvi lei/lui deve noi dobbiamo voi dovete
io dèva 0 dèbba tu dèva 0 dèbba lei/lui dèva 0 dèbba noi dobbiamo vo[dobbiate
•
Futuro semplice io dovrò tu dovrai lei/lui dovrà noi dovremo voi dovrete
loro devono 0 dèbbono
loro dèvano 0 dèbbano
loro dovranno
Nel passaggio dal latino DEBERE all'italiano dovere, le forme hanno oscillato parecchio dando vita a numerosissime varianti, tutte attestate negli scritti della nostra letteratura: deggio, dèggiano, deggiàte oppure dei, debbe, diono ecc. POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 5. lo vado, noi *vadiamo Cap. 5. È dovuto andare 0 ha dovuto andare?
Disdivo o disdicevo? Mentre disdivo l'appuntamento mi sono accorto di non avere un'altra data disponibile. ...mentre disdivo o mentre disdicevo l'appuntamento? La forma più corretta è disdicevo. Ma, attenzione, le cose sono complesse. L'imperfetto del verbo disdire, come quello dei verbi benedire, maledire, contraddire, ridire, predire, fa nascere, anche nello scrittore provetto, un ragionevolissimo dubbio: il Papa benediva o benediceva? i figli mi contraddivano o mi contraddicevano? i clienti disdivano o disdicevano le vacanze già prenotate? La forma più corretta è: disdicevo, benedicevo, contraddicevo. Dico "più corretta" perché disdivo, benedivo, contraddivo non sono veramente un errore (e nemmeno un "orrore"), essendo forme che esistono realmente nella nostra lingua come variante propria del linguaggio popolare. Disdire si comporta come benedire, maledire, contraddire, ridire, predire: sono tutti verbi composti con il verbo dire e come tali ne seguono la coniugazione:
io dicevo :
Ao bene-dicevo io male-dicevo - io pre-dicevo - io ri-dicevo ' io contrad-dicevo
Proprio come al passato remoto abbiamo: io dissi —i• io bene-dissi noi dicemmo -* noi male-dicemmo e al congiuntivo presente: che io dica -* che io ri-dica
Se, per errore, dovessimo scrivere maledivo, invece che maledicevo, possiamo consolarci con il fatto che in passato, non solo nel linguaggio popolare bensì anche nella lingua poetica queste forme erano usate senza onta alcuna!
Il verbo dire è un verbo irregolare della 3 a coniugazione (la coniugazione dei verbi che terminano in -ire) e si comporta in modo... irregolare, appunto: le sue forme risentono infatti della parola originaria latina DICERE e come tali si coniugano (io dicevo, tu dicesti ecc). Nell'uso popolare il legame tra benedire, contraddire, maledire con il latino non è più sentito, mentre è più forte la percezione dell'appartenenza di questi verbi alla terza coniugazione in -ire (come servire, udire) e a questa vengono automaticamente adeguati, per cui si dice anche io benedivo, io contraddivo, io maledivo. DICERE
Per concludere possiamo dire che disdivo, benedivo, contraddivo, maledivo sono forme che trovano una loro giustificazione nel linguaggio parlato non formale, ma che evidentemente vanno evitate nell'uso scritto o nel registro formale. Essendo però così vitali, forse un giorno le troveremo "promosse" a forme corrette anche dell'italiano più sorvegliato.
L'eccezione I verbi composti con il verbo dire si discostano dalla sua coniugazione solo per quanto riguarda la 2 a persona dell'imperativo presente, che per il verbo dire è di', mentre nei composti è -dici: benedici, maledici, contraddici, predici: Di'quello che pensi! Strega, maledici quest'uomo che ha osato tradirmi! O Signore, benedici queste anime buone! Siccome le regole spesso sono complicate, c'è naturalmente una eccezione nell'eccezione: il verbo ridire all'imperativo ha la forma ridi' e non ridici, proprio come dire. Angelo, ridi'la poesia a memoria! Ridi'la parola d'ordine, forse funzionerà.
Essere o avereì Ouante volte siete rimasti con la penna (si fa per dire) in aria con un classico blocco da verbo ausiliare del tipo: sono vissuto a Napoli oppure ho vissuto a Napoli? In genere, di fronte a questo dubbio i più diligenti corrono a consultare i libri di grammatica alla ricerca di una risposta. Ma nelle grammatiche scopriamo ben presto che nessuno è stato in grado di dare una regola chiara, sicura e soprattutto a misura di comprensione umana: ne sanno qualcosa gli stranieri che imparano la nostra bella lingua e impazziscono letteralmente ogni volta che devono usare il passato prossimo di un verbo. LA GRAMMATICA DICE Essere e avere sono chiamati verbi ausiliari perché "aiutano" i verbi nella formazione dei tempi composti (indicativo: passato prossimo, trapassato prossimo, trapassato remoto, futuro composto; congiuntivo: imperfetto e trapassato; condizionale: condizionale composto; passati di infinito, participio e gerundio). All'ausiliare viene fatto seguire il participio passato del verbo: ho mangiato, sono andato, era partito, che io abbia visto, che noi fossimo usciti ecc. Non esistono regole che indichino quale ausiliare debba essere usato con ciascun verbo. Esistono, tuttavia, alcune indicazioni pratiche che ci possono aiutare nella scelta. Essere è l'ausiliare: • di sé stesso: sono stato; sarei stato-, foste stati; • dei verbi riflessivi e pronominali: mi sono svegliato, si è accorto; • dei verbi impersonali: si è mangiato parecchio-, si è perso tempo; • di numerosi verbi intransitivi: sono andati al mare, è arrivato-, • della coniugazione passiva: è stato rimproverato.
Mfifi-
Essere era già presente nella lingua latina, *ÈSSERE, come variante informale, nel linguaggio parlato, del verbo classico ÈSSE. Avere deriva dal latino HABERE.
La regola è certa, quindi, soltanto per i verbi transitivi, che hanno sempre l'ausiliare avere-, ho comprato una casa abbiamo letto un libro avete visto un bel film? Per i verbi intransitivi, invece, la situazione è ben più complessa. Oualche regola, però, l'abbiamo: • la maggioranza dei verbi intransitivi ha essere come ausiliare: sono caduto, sono comparsi, è crollato, siete emersi, sono riuscito, siete tornati, è valso ecc. • altri (e sono una minoranza) vogliono l'ausiliare avere-, ha agito, hanno alluso, avete barato, ha viaggiato, ho rinunciato, hai ubbidito ecc. • altri ancora, tanto per rendere le cose più difficili, si costruiscono con essere o avere, a seconda del significato: oggi abbiamo saltato alla corda - i ladri sono saltati dal balcone il nonno ha vissuto in Veneto - il nonno è vissuto fino a go anni oggi sono passato dal tuo ufficio - oggi ho passato una bella giornata mi è servito il suo aiuto - la cameriera ci ha servito con garbo La conclusione non è consolante: quando si tratta di un verbo intransitivo non esistono regole certe e univoche per stabilire quale ausiliare si debba usare. E quindi, quasi tutte le grammatiche vi daranno l'unico suggerimento possibile per togliersi d'impiccio: "consultate sempre un dizionario della lingua italiana: in questo modo sarete sicuri di non sbagliare" (E. PERINI, Grammatica italiana per tutti).
Avere è l'ausiliare: • di sé stesso: ho avuto; avremmo avuto; ebbi avuto; • di tutti i verbi transitivi: ho guardato; abbiamo incontrato; • di alcuni verbi intransitivi: ho dormito; ho passeggiato.
Un po' di etimologia
Il latino classico non conosceva il passato prossimo. Aveva il perfetto AMAVI da cui poi è derivato il nostro passato remoto amai. Nel latino volgare (così si chiama il latino parlato, comune, per distinguerlo da quello classico, lingua della letteratura e della scuola), al perfetto si affiancava anche un altro tempo passato, dal quale nascerà poi il nostro passato prossimo: HABEO AMATUS, da cui deriva il nostro ho amato.
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Per capire la complessità con cui ci tocca convivere quotidianamente quando scriviamo e parliamo la nostra lingua, riporto una frase di Andrea De Benedetti dal suo spassosissimo (ma serissimo) libro Val più la pratica-, «una lingua con due verbi ausiliari è come un corpo con due nasi (o due bocche, o due cuori): alla fine non si sa mai da che parte ti conviene respirare».
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È dovuto andare © ha dovuto andare? Entrambe le forme sono corrette. Eppure questo dubbio è molto frequente, soprattutto quando dobbiamo affrontare un testo scritto. Infatti non è sempre facile capire se, in presenza di un verbo servile come in questi esempi, si debba usare l'ausiliare essere o avere: per molti di noi resta comunque difficile individuare la forma corretta tra sono dovuto andare a casa oppure ho dovuto andare a casa. LA GRAMMATICA DICE Ci sono alcune regole che ci possono indicare la strada. Sembrano un po' complicate, ma ci possono essere d'aiuto nei momenti di dubbio. i. Con i verbi dovere, potere e volere, si deve usare l'ausiliare del verbo retto dal servile; insomma si fa finta che il verbo servile non ci sia: ha dovuto lavorare (come ha lavorato)-, è dovuto partire (come è partito). 2. In realtà le cose non stanno propriamente così, perché, quando il verbo che segue il servile è i ntran siti vo, si può us are si a essere che avere-, è dovuto uscire; ha dovuto uscire;sono dovuto partire; ho dovuto partire. È come se, con i verbi intransitivi, il verbo servile fosse più forte del verbo che lo segue e "imponesse" il proprio ausiliare avere. 3. Diverso è il caso del verbo servile seguito dal verbo essere. In questo caso infatti l'ausiliare è sempre avere: ho dovuto essere coraggioso; ha voluto essere la più efficiente. 4. Quando invece l'infinito è seguito da un pronome atono (mi, si, ti, ci, vi, si) usa essere se il pronome è prima dell'infinito (non si sono voluti lavare) e avere se il pronome è dopo l'infinito (non hanno voluto lavarsi). 1.68
Quindi, la risposta al quesito, è: sono valide tutte due le forme, perché la prima rispetta la regola n.1 e la seconda risponde invece alla regola n.2.
Quindi possiamo scrivere (e dire): . è dovuto andare, perché si usa l'ausiliare del verbo retto dal servile, in questo caso andare (si dice infatti è andato); • ha dovuto andare, perché andare è un verbo intransitivo e quindi permette all'ausiliare del verbo servile di avere la meglio (si dice infatti ha dovuto).
I verbi servili si chiamano così perché offrono il loro "aiuto" ai verbi che a c ^ ì compagnano, aggiungendo delle informazioni supplementari al loro significato di base. I verbi servili sono dovere, potere e volere. Li chiamano anche modali, perché quando accompagnano un verbo esprimono una "modalità" precisa: • necessità -» Paolo deve andare • possibilità -+ Paolo può andare • volontà -+ Paolo vuole andare Questi tre verbi possono essere usati anche autonomamente con il loro significato, come si vede dagli esempi seguenti: ti devo ancora una cena; non ne posso più di questo lavoro; voglio un gelato al limone. Sono considerati verbi servili anche i verbi solere e sapere, ma solo quando vengono usati con determinati significati: • solere, con il significato di 'essere solito': era solito bersi una tazza di tè ogni pomeriggio; • sapere, con il significato di 'essere in grado di': Emma sa badare a sé stessa.
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È piovuto © ha piovuto?
Ha riflesso © ha riflettuto?
In questo caso non è possibile commettere errore: sono corrette entrambe le forme, ha piovuto ed è piovuto.
Sono corrette entrambe le forme, ma - attenzione - con significati diversi:
Infatti, in italiano, i verbi che indicano fenomeni meteorologici ammettono sia l'ausiliare avere sia l'ausiliare essere, nello scritto come nella lingua parlata, in «qualunque livello di lingua e senza apprezzabili sfumature semantiche» (Luca Serianni, Grammatica italiana): ha tuonato tanto e, alla fine, è piovuto. Dunque possiamo scrivere alternativamente: ha piovigginato è piovigginato ha tuonato è tuonato ha grandinato è grandinato ha diluviato è diluviato Con un'eccezione, però! Piovere, quando non viene usato con valore impersonale e quando è usato nei suoi significati figurati e traslati, forma i tempi composti soltanto con l'ausiliare essere, sono piovute critiche a non finire; la fortuna ci è piovuta addosso all'improvviso; Simone è piovuto in teatro nel mezzo delle prove. LA GRAMMATICA DICE La norma tradizionale prevedeva per i verbi meteorologici l'uso del solo ausiliare essere. Il verbo essere infatti è l'unico ausiliare ammesso per i verbi impersonali (mi è sembrato, è successo che, è stato necessario ecc.) e i verbi metereologici sono appunto impersonali. L'ausiliare avere, nel tempo, si è però imposto anche nella scrittura letteraria fino ad arrivare a una situazione di parità.
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I veTbi impersonali non hanno il soggetto perché esprimono un'azione che non si può riferire a una persona o a una cosa; i verbi che indicano fenomeni atmosferici sono sempre impersonali, perché non esiste un soggetto di piovere, nevicare ecc.: si dice infatti piove, nevica, albeggia. Sono personali solo nell'uso figurato: la vincita gli piovve addosso nel momento opportuno.
in questi giorni ha riflettuto a lungo e ha deciso: si sposerà in maggio; lo specchio d'acqua ha riflesso i raggi del sole in un turbinio di colori lucenti. Riflettere, infatti, è un verbo che cambia di significato se usato in modo tran sitivo o intransitivo. Riflettere, transitivo, significa 'rinviare per riflessione una luce o altro': lo spec chio riflette l'immagine; il suo sguardo riflette una tristezza profonda. Riflettere, intransitivo, significa 'ponderare, soffermarsi con il pensiero' dovresti riflettere sul tuo comportamento; ho reagito senza riflettere. Questo doppio significato si manifesta ancora più chiaramente nella presenza di due forme di passato remoto e due forme di participio passato: x riflettei nel significato di 'ponderare, considerare' Passato remoto
^ riflessi nel significato di 'mandare riflessi' (usato per lo più alla terza persona, singolare e plurale: lo stagno riflesse l'immagine; le pozze d'acqua riflessero le nubi).
Participio passato
y>riflettuto nel significato di 'ponderare, considerare' ^ riflesso nel significato di 'mandare riflessi'.
Un po' come riflettere anche il verbo succedere ha due forme di participio passato: succeduto e successo. La prima finisce in -uto, la seconda in -sso e spesso danno luogo a incertezze e confusioni nella scrittura. Anche in questo caso entrambe le forme sono corrette, ma hanno usi e significati diversi: succeduto \ia usato solo col significato di 'subentrato' o di 'venuto dopo' (Ieri Benedetto XVI è succeduto a Giovanni Paolo II nell'essere guida e padre dei giovani), mentre successo va usato col significato di 'accaduto', 'avvenuto' (l'incidente è successo ieri pomeriggio). Tuttavia, per rendere il tutto un po' più complicato, non è raro trovare anche esempi di successo utilizzato nel significato di 'subentrato': Nel 2000 Vladimir Putin è successo a Eltsin alla presidenza della Federazione Russa.
Il sole oggi splende, ma ieri?
aggradare = 'piacere', 'riuscire gradito' indicativo presente: aggrada
Verrebbe quasi da dire ha splenduto, ma splenduto in italiano non esiste, se non in rare attestazioni della lingua poetica. Infatti, nel caso di splendere dobbiamo rinunciare a usarlo al passato prossimo e trovare soluzioni alternative: il sole splendette, il sole ha brillato, era una giornata di sole ecc.
prùdere = 'provocare prurito' indicativo presente: prude, prùdono indicativo imperfetto: prudeva, prudevano indicativo futuro: pruderà congiuntivo presente: pruda, prùdano congiuntivo imperfetto: prudesse, prudéssero condizionale presente: pruderebbe, pruderèbbero gerundio presente: prudendo
Splendere non è il solo verbo con questo problema: c'è un intero gruppo di verbi che non hanno il participio passato e quindi non possono formare i tempi composti. Fanno parte della categoria dei veTbi difettivi (vedi più sotto) e sono: competere, concernere, dirimere, divergere, esimere, incombere, soccombere, transigere. Ouando abbiamo intenzione di inserire questi verbi nei nostri testi scritti, dobbiamo ricordarci di fare ricorso a un buon dizionario dei sinonimi e dei contrari, perché non sarà possibile usare nessun passato prossimo o congiuntivo passato, insomma nessuno di quei tempi che si formano con un participio passato (che questi verbi non hanno). Vediamo un esempio con il verbo soccombere: se Misurata soccombesse alle bombe, sarebbe gravissimo (congiuntivo imperfetto); se Misurata fosse capitolata ('soccombuta non esiste!) sotto le bombe...
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• addirsi = 'convenire', 'adattarsi' indicativo presente: si addice, si addicono indicativo imperfetto: si addiceva, si addicevano congiuntivo presente: si addica, si addicano congiuntivo imperfetto: si addicesse, si addicéssero
la grammatica e i verbi difettivi
ti ne Gran Isono: sona USO: si Ecco verbi verbi dice completa alcuni parte singolare addirsi, privi *io difettivi difettivi. prudo, dei di fra eaggradare, participio verbi presentano iepropriamente verbi plurale, tu difettivi *prudi\) difettivi passato prudere, persoltanto sono esempio odetti più urgere fanno impersonali urgere, comuni sono alcune prudere, (si parte verbi dice vertere insieme voci; della urge, che eche sii everbi categoria usano non aha urgono, vìgere. una prude hanno difettivi soltanto lista di ma ela delle verbi prudono non più coniugazioalla forme chiamacomuni io3 a*urgo). (non perin
ùrgere = 'essere urgente','essere necessario' indicativo presente: urge, ùrgono indicativo imperfetto: urgeva, urgevano indicativo futuro: urgerà, urgeranno congiuntivo presente: urga, àrgano congiuntivo imperfetto: urgesse, urgéssero condizionale presente: urgerebbe, urgerèbbero participio presente: urgente gerundio presente: urgendo vèrtere = riguardare indicativo presente: verte, vertono indicativo imperfetto: verteva, vertevano indicativo futuro: verterà, verteranno congiuntivo presente: vèrta, vèrtano congiuntivo imperfetto: vertesse, vertéssero condizionale presente: verterebbe, verterèbbero participio presente: vertente gerundio presente: vertendo vìgere = 'avere validità', 'essere in vigore' indicativo presente: vige, vìgono indicativo imperfetto: vigeva, vigévano indicativo futuro: vigerà, vigeranno congiuntivo presente: viga, vìgano congiuntivo imperfetto: vigesse, vigéssero condizionale presente: vigerebbe, vigerèbbero participio presente: vigente gerundio presente: vigendo
io vado, noi *vadiamo Perché si dice io mangio, noi mangiamo mentre invece diciamo io vado, ma noi andiamo? Sembra una domanda bizzarra, ma non immaginate quanto difficile possa essere, per uno straniero che impara la nostra lingua (ma anche per i bambini piccoli) capire come mai in italiano si dica e si scriva io vado e non io *ando oppure noi *vadiamol La risposta c'è: mangiare è un verbo regolare, mentre andare fa parte di un nutrito gruppo di verbi chiamati irregolari. LA GRAMMATICA DICE La grammatica dice che i verbi irregolari sono verbi che non seguono la coniugazione cui appartengono, cioè si comportano in modo un po' anomalo rispetto alle desinenze che ci aspetteremmo per quella coniugazione. I verbi irregolari si distinguono in tre gruppi: • verbi che cambiano la radice, come and-are io vad-o; dov-ere -+ io dev-o; • verbi che cambiano le normali desinenze e presentano delle desinenze completamente diverse da quelle regolari, come bev-vi, invece che *bev-etti oppure cad-di invece che *cad-etti o *cad-ei-, • verbi che cambiano sia la radice sia le desinenze: viv ere -* vis-si. La maggior parte dei verbi irregolari appartiene alla seconda coniugazione. I verbi irregolari della prima coniugazione sono solo quattro: andare, dare,fare e stare. I verbi irregolari della terza coniugazione non sono molti: tra questi dire, salire, uscire, venire ecc.
Un po' di etimologia Le forme della coniugazione del verbo andare che presentano la radice vadderivano dal latino VADERE che significava 'andare, viaggiare'. L'etimo delle altre forme (con radice AND-) è stato oggetto di molti approfondimenti e discussioni: diversi studiosi propongono un'origine dalla voce del latino parlato *AMBITARE, altri suggeriscono il latino *AD-NÀRE, che significa 'nuotare verso', per analogia con l'etimologia di arrivare, che proviene da *AD-RIPÀRE, letteralmente 'giungere a riva'. La proposta generalmente più accettata è però una derivazione dal latino AMBULARE, che significava 'camminare, passeggiare'.
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Andare, in quanto a irregolarità, è in buona compagnia. Il concetto di 'andare', nel latino classico era espresso da tre verbi: TRE, VADERE e AMBULARE. In spagnolo e in portoghese TRE e VADERE confluiscono nel verbo ir, che nella coniugazione presenta infatti alcune forme derivate da TRE e altre da VADERE: yo voy, nosotros vamos, yo iré. In italiano VADERE e, probabilmente, AMBULARE confluiscono nel verbo andare {vado, andiamo) mentre il francese riunisce tutti e tre i verbi latini e ha il presente che deriva da VADERE e AMBULARE (je vais, nous allons) e il futuro da IRE (j'irai).
Andare è un verbo strano (irregolare) proprio perché presenta due radici diverse che compaiono, insieme, nell'indicativo e nel congiuntivo presente: and- e vad-. La radice and- deriva dal verbo latino AMBULARE, la radice vad- dal latino VADERE. Indicativo presente
Congiuntivo presente
io vado (o vo) tu vai lei/lui va noi andiamo voi andate loro vanno
che io vada che tu vada che lei/lui vada che noi andiamo che voi andiate che loro vadano
Futuro semplice io andrò tu andrai lei/lui andrà noi andremo voi andrete loro andranno
Condizionale presente io andrei tu andresti lei/lui andrebbe noi andremmo voi andreste loro andrebbero
Nell'Italia centrale si trovano, per il passato remoto, forme come andiedi al posto di andai. Tali forme si sono diffuse per un processo di analogia con diedi, passato remoto di dare. Caratteristici dell'uso toscano sono anche il futuro e il condizionale non
sincopato: anderò, anderai, anderebbe ecc.
11/adii, vadino resi popolari dal piccolo schermo sono forme scorrette, da evitare sia nello scritto sia nel parlato. È interessante sapere, però, che si tratta di forme arcaiche di congiuntivo presente, generate dalla forza di attrazione dei congiuntivi della prima coniugazione (ami, amino) e attestate nella letteratura, al pari
di venghi, venghino.
CJ
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Passato prossimo © passato remoto? Passato remoto Passato prossimo
L'anno scorso andai in vacanza in Grecia. L'anno scorso sono andato in vacanza in Grecia.
Probabilmente solo i toscani sanno rispondere alla domanda del titolo, e non facendo ricorso a una regola grammaticale ma affidandosi alla competenza e alla sensibilità linguistica tipiche di chi sente come naturale (fin da quando ha imparato a parlare) la differenza fra questi due tempi verbali. La capacità di usare il passato prossimo e il passato remoto secondo la regola (descritta qui sotto) appartiene infatti unicamente all'italiano parlato in Toscana. Soltanto in questa regione questi due tempi vengono usati correttamente, non solo nella lingua scritta, ma anche in quella parlata, dal registro formale fino al registro colloquiale. Nel resto d'Italia la situazione è divisa in due: nell'italiano settentrionale prevale l'uso del passato prossimo e il passato remoto è limitato all'ambito scolastico-letterario o al registro più formale. Nell'italiano meridionale, invece, il passato remoto viene usato anche quando si indica un'azione avvenuta nel passato recente (oggi vidi tua sorella in piazza; stamani mangiai due panini). L'uso del passato prossimo si sta comunque allargando anche alle zone meridionali. È ovvio che nella redazione di testi scritti, magari in un italiano un po' più "sorvegliato", anche i settentrionali usano il passato remoto e si sforzano di usarlo correttamente, nonostante risulti sempre, al parlante medio, piuttosto ostico sia per quanto riguarda le forme (molte delle quali irregolari) sia per quanto concerne i veri e propri àmbiti d'uso.
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LA GRAMMATICA DICE
Il passato prossimo {io ho amato; io sono partito; io sono vissuto) esprime: e un fatto avvenuto in un passato recente: questa mattina ho visto Valeria; • un fatto avvenuto in un passato anche lontano, ma i cui effetti perdurano nel presente: ho studiato musica fin da piccola; sono nata nel 1970. Il passato remoto [io amai; io partii; io vissi) indica un'azione che è avvenuta e si è conclusa nel passato: Cristoforo Colombo scoprì l'America nel 1492; mio padre emigrò Francia quando ero pìccolo; un giorno la mia amica decise di andarsene da in Firenze.
Come facciamo a scegliere? Quando scegliamo tra passato prossimo e passato remoto, non diamo solo una collocazione "temporale" a un evento, ma la scelta dipende soprattutto dall'atteggiamento personale con cui consideriamo l'azione avvenuta nel passato: se la sentiamo come collegata al presente useremo il passato prossimo, se invece la sentiamo come conclusa e quindi separata dal presente, useremo il passato remoto. Quando scriviamo Dante morì nel 1321, l'azione descritta è percepita come conclusa e separata dal tempo in cui viviamo, mentre se diciamo: mio padre è morto l'anno scorso, usiamo il passato prossimo, perché questo avvenimento è ben presente nella nostra vita, ne percepiamo ancora le conseguenze: lo ricordiamo, ci manca ecc. È evidente, quindi, che in una trattazione obiettiva di eventi avvenuti nel passato, con i quali non abbiamo alcuna relazione personale e che non sono collegati al presente, useremo sempre il passato remoto: Carlo Magno fu re dei Franchi e imperatore del Sacro Romano Impero. La notte di Natale dell'800 venne incoronato imperatore. L'Impero resistette fin quando Carlo Magno fu in vita, e fu poi diviso tra gli eredi. Fu fondata nel 1877 a Parma, in strada Vittorio Emanuele (oggi strada della Repubblica), come bottega che produceva pane e pasta da Pietro Bariìla, discendente di unafamiglia di panettieri. La ditta si ingrandì nel 1908, e Barilla prese in affitto un nuovo stabile e vi inaugurò nel 1910 il nuovo pastificio, dotato di un forno, in zona Barriera Vittorio Emanuele. Allasua morte, avvenuta nel 1912, gli succedettero alla guida ifigli Riccardo e Gualtiero. (http://it.wikipedia.org/wiki/Barilla).
Un utile strumento L'alternanza tra passato prossimo e passato remoto va considerata, nella scrittura soprattutto, come una risorsa e non come una complicazione. Scegliere tra l'uno 0 l'altro offre la possibilità di esprimere in modo più accurato ciò che pensiamo 0 sentiamo: l'uso di uno 0 dell'altro tempo serve infatti ad aggiungere informazioni relative alla durata, all'ambito temporale degli eventi di cui stiamo scrivendo e anche all'eventuale perdurare dei loro effetti nel presente.
Soddisfo o soddisfaccio! Sono corretti entrambi: soddisfo e soddisfaccio. Anzi, per il verbo soddisfare esiste addirittura una terza forma per la i a persona del presente indicativo, che però è meno comune: io soddisfo.
Ma attenzione! Negli altri modi e tempi soddisfare (e così anche disfare) seguono la coniugazione di fare, esattamente come assuefare, rifare, sopraffare ecc. Quindi avremo, regolarmente: Passato remoto io soddisfeci tu soddisfacesti lei/lu^soddisfece noi soddisfacemmo voi soddisfaceste loro soddisfecero
I composti del verbo fare (come assuefare, contraffare, liquefare, rifare, sopraffare, stupefare) seguono la coniugazione del verbo semplice: assuefaccio, assuefacevo, assuefeci, assuefarò; contraffaccio, contraffacevo, contraffeci, ecc. Così si comportano anche i composti soddisfare e disfare, che però hanno sviluppato delle forme parallele per il presente indicativo, per il congiuntivo, per il condizionale e per il futuro semplice. Tali forme sono altrettanto corrette e coesistono accanto alle forme regolari: Indicativo presente io soddisfaccio/soddìsfo/soddisfò tu soddìsfi/soddisfài lei/lui soddisfa noi soddisfiamo/soddisfacciamo voi soddisfate loro soddìsfano/soddisfànno
Participio presente soddisfacente
Congiuntivo presente che io soddisfi/soddisfaccia che tu soddisfi/soddisfaccia che lei/lui soddisfi/soddisfaccia che noi soddisfacciamo che voi soddisfacciate che loro soddisfino/soddisfacciano
Participio passato soddisfatto
All'indicativo imperfetto: soddisfacevo e non *soddisfavo-, e al congiuntivo imperfetto: che io soddisfacessi e non che io *soddisfassi. Indicativo imperfetto io soddisfacevo tu soddisfacevi lei/lui soddisfaceva noi soddisfacevamo voi soddisfacevate loro soddisfacevano
Futuro semplice io soddisfarò/io soddisferò tu soddisfarai/tu soddisferai ìei/lui soddisfarà / lei/lui soddisferà noi soddisfaremo/noi soddisfaremo voi soddisfarete/voi soddisfarete loro soddisfaranno/loro soddisfaranno
Condizionale presente io soddisfarei/io soddisferei tu soddisfaresti/tu soddisfaresti lei/lui soddisfarebbe/lei/lui soddisferebbe noi soddisfaremmo/noi soddisferemmo voi soddisfareste/voi soddisfereste loro soddisfarebbero/loro soddisferebbero
Congiuntivo imperfetto che io soddisfacessi che tu soddisfacessi che lei/lui soddisfacesse che noi soddisfacessimo che voi soddisfaceste che loro soddisfacessero
lo fo o io faccio? La variante fo, fino all'Ottocento era la forma più usata rispetto a faccio, che (sembra incredibile) era considerata una voce dell'ambito poetico, e quindi meno utilizzata. Nell'italiano moderno, invece, la forma faccio ha ormai preso il sopravvento relegando fo all'uso toscano, dove però resiste con ostinata vitalità. -Mifo monaca,-disse [...]. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. X) V
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Ti "ho vista © ti ho vistoì Sono corrette entrambe le forme, ma la questione dell'accordo del participio passato merita un approfondimento. Luca Serianni, in un articolo pubblicato sulla Crusca per voi (n. 8, p. 7) dice così: «Il problema dell'accordo del participio passato è uno dei capitoli più spinosi della sintassi italiana». Abbiamo dunque tutto il diritto di trovarci nell'incertezza quando dobbiamo accordare un participio passato. Vediamo innanzitutto che cosa ci dice, a questo proposito, la regola grammaticale. LA GRAMMATICA DICE • Il participio passato si accorda con il soggetto quando è preceduto dal verbo essere: Marco è uscito presto; Caterina è partita ieri; i bambini sono andati al parco. • Il participio passato rimane invariato quando è preceduto dal verbo avere: Lorenzo ha dormito; Irene ha mangiato; i ragazzi hanno chiacchierato. Il participio passato si accorda con il complemento oggetto: c obbligatoriamente, quando il complemento oggetto è costituito dai pronomi atoni lo, la, li, le e con ne: ho visto gli amici e li ho invitati; ho visto le borse che ti piacevano tanto e te ne ho comprata una; e facoltativamente, quando il complemento oggetto precede il verbo: le poesie che ho letto; le poesie che ho lette (si tratta però di un uso poco comune); ® facoltativamente, con le particelle mi, ti, ci, vi in funzione di complemento oggetto: ti ho vista/ti ho visto, vi ho chiamato/vi ho chiamati, e facoltativamente, con i verbi riflessivi: si sono lavati le mani/si sono lavate le mani-, ® facoltativamente, con i verbi copulativi [essere, sembrare, parere ecc.): la sua presenza è stata un grande sbaglio/la sua presenza è stato un grande sbaglio-, il nuovo brano di Jovanotti sembra sia stato una sorpresa/il nuovo brano di Jovanotti sembra sia stata una sorpresa.
2.
In conclusione si può dire che: ® il participio passato va sempre accordato con il complemento oggetto quando esso è rappresentato da un pronome atono (lo, la, li, le e ne): l'ho comprata (la borsa) le ho comprate (le borse) l'ho comprato (il libro) li ho comprati (i libri) • per il resto possiamo considerare corretto l'uso del participio passato invariato, tranne nei casi in cui vogliamo usarlo come espediente espressivo per mettere al centro della frase il termine che ci interessa di più. Ad esem-
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Zittisco e zittirono COME SI SCRIVE?
Molti verbi della 3 a coniugazione in -ire (sono circa cinquecento) hanno una particolarità che li rende davvero riconoscibili. Essi presentano infatti un ampliamento della radice: tra la radice e la desinenza (solo di determinate forme del verbo) troviamo infatti il suffisso -isc-, come si può vedere, ad esempio, nell'indicativo presente dei verbi patire e ubbidire: Indicativo presente io pat-/sc-o tu pat-/sc-i lei/lui pat-isc-e noi pat-iamo voi pat-ite loro pat-!'sc-orio
Indicativo presente io ubbid-/sc-o tu ubbid-fec-i lei/lui ubbid-wc-e noi ubbid-iamo voi ubbid-ite loro ubbid-i'sc-ono
Fra trappole e convenzioni
Il suffisso -isc- si trova soltanto nella i a , nella 2 a , nella 3 a persona singolari e nella 3 a plurale dell'indicativo presente e del congiuntivo presente, nella 2 a e nella 3 a persona singolari e nella 3 a plurale dell'imperativo. Per questo motivo abbiamo zittisco (con il suffisso -isc-) all'indicativo presente e zittirono (senza suffisso) al passato remoto. Come patire si comportano anche: abolire, ammattire, approfondire, capire, colpire, costruire, definire, diminuire, esaudire, fallire, garantire, impallidire, lenire, marcire, obbedire, smarrire, seppellire, stupire, tradire e zittire.
Di trappole, nella lingua scritta, ce ne sono davvero tante. La scrittura infatti si usa in àmbiti e in contesti molto diversi tra loro, e non è facile essere sempre competenti in tutto: possiamo trovarci a scrivere un tema, una relazione, una lettera, un racconto e ognuna di queste produzioni scritte richiede specifiche competenze e la conoscenza approfondita di regole e convenzioni. Quando scriviamo, infatti, non inseriamo nel testo soltanto nomi, verbi e aggettivi (e già questi a volte ci creano non pochi problemi): a volte dobbiamo integrare anche elementi particolari come la data, l'ora, un acronimo, numeri o abbreviazioni, ognuno dei quali ha le sue convenzioni, a volte neppure tanto univoche, che dobbiamo conoscere e padroneggiare.
I verbi con il suffisso in -isc- vengono chiamati anche incoativi, per analogia con i verbi latini in -sco (come AUGESCO, ARDESCO ecc. ). In latino infatti la terminazione in -sco serviva a indicare l'aspetto incoativo di un verbo, cioè a trasmettere il significato di iniziare a, incominciare a (da INCOHÀRE, che in latino significava 'iniziare'). Per esempio AUGEO in latino significava 'cresco', AUGESCO invece 'comincio a crescere'. In italiano il suffisso -isc- non ha nessun significato particolare. L'aspetto incoativo, nella nostra lingua, si esprime in altro modo, tramite i costrutti cominciare a, mettersi a: incominciare a capire, mettersi a lavorare.
Come si scrive? non poteva inoltre non rispondere a una domanda che molti si pongono (o si dovrebbero porre) davanti alla pagina vuota di un computer o alla pagina bianca sulla scrivania: come si scrive una lettera formale? una lettera informale? una mail? Soprattutto per quanto riguarda la posta elettronica, infatti, sembra regnare una certa "anarchia": ognuno scrive a sentimento, a volte rilegge, a volte corregge, molto spesso invia senza neppure uno sguardo. Eppure una mail è pur sempre una "missiva", è pur sempre un Assorbe o assorbisce? messaggio che, almeno per rispetto dei destinatari, dovrebbe meritare qualche attenzione in più. Vediamo insieme indicazioni e suggerimenti. Alcuni verbi possono presentare due forme alternanti con o senza il suffisso -isc-. Assorbire è uno di questi: infatti possiamo avere sia io assorbo, tu assorbisia io assorbisco, tu assorbisci. Come assorbire si comportano anche applaudire, inghiottire, de/applaudisce, inghiotte/inghiottisce, nutre!nutrisce.
nutrire:
applau-
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CU > fm U VA 'Cri ai e £ O u 0
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Le abbreviazioni
» le abbreviazioni formate dalla prima consonante e da una o più delle successive: cfr. = confronta dr. = dottor prn. = pronuncia sg. = seguente
Le abbreviazioni possono essere di tre tipi: le abbreviazioni per contrazione, dove si mantengono le lettere iniziali e quelle finali. Il punto, in questo caso si trova nel mezzo della parola e non alla fine, tranne nella contrazione della parola circa che ha il punto alla fine. ca. = circa f.ìli =f(rate)lli gent.mo = gentilissimo ill.mo = ill(ustrissi)mo n° = numero (può essere però scritto anche n.) preg.mo = pregiatissimo p.zza = piazza spett.le = spett[abil)e La seconda parte può anche essere scritta in apice, come in r\°:fP\ preg.mo, spett.e.
ill.mo,
o le abbreviazioni formate dalle prime lettere di una parola (come quelle dei titoli professionali): avv. = avvocato/avvocata cav. = cavaliere dott. = dottore geom. = geometra ing. = ingegnere on. = onorevole prof. ~ professore sig. = signore art. = articolo cap. = capitolo ecc. - eccetera ed. = edizione egr. - egregio op.cit. - opera citata pag./p. = pagina pi. = plurale sing. = singolare voi. = volume
Il femminile La forma base dell'abbreviazione indica sempre il maschile. Il femminile si ottiene aggiungendo, all'abbreviazione, la parte finale della parola: es. -essa): dott.ssa, dott.sse = dottoressa, dottoresse dr.ssa, dr.sse - dottoressa, dottoresse prof.ssa, prof.sse - professoressa, professoresse sig.ra, sig.re = signora, signore sig.na, sig.ne - signorina, signorine (entrambi termini ormai in via d'estinzione)
11 plurale
L'OxfordEnglishDictionaryà diceche in inglese non tutte le abbreviazioni hanno il punto: fanno eccezione, infatti, Mr, Mrse Ms (Mister, Mistress, Miss/Mistress)
scrivono sempre senza il punto. In inglese americano si scrivono anche con il punto:
che si
Mr. e Mrs. Smith.
Mentre Dr. (Doctor) va sempre scritto con il punto: Dr.JekylI.
Quando l'abbreviazione termina con una sola consonante, il plurale si forma raddoppiando la consonante: art. (= articolo) diventa artt. {= articoli) cap. (= capitolo) diventa capp. {= capitoli) fig. (= figura) diventafigg. (= figure) ing. (= ingegnere) diventa ingg. (= ingegneri) p. (= pagina) diventa pp. (= pagine) pag. (= pagina) diventa pagg. {- pagine) prof. (= professore) diventa proff. [= professori) sig. (= signore) diventa sigg. (= signori) sg. (= seguente) diventa sgg. (= seguenti) voi. (= volume) diventa voli. (= volumi) Quando l'abbreviazione termina con una consonante doppia, per formare il plurale si aggiunge la parte finale della parola. avv. avvocato) diventa avv.ti (= avvocati) dott. (= dottore) diventa dott.ri (= dottori)
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Dr. e cfr. Sulle abbreviazioni dr. e cfr. i puristi della lingua non sono concordi nell'utilizzo del punto. Infatti, essendo la prima l'abbreviazione di d(otto)re la seconda del latino CONFER, cioè 'vedi, confronta', il punto di chiusura della sigla non avrebbe alcuna ragione di esistere. Il ragionamento non fa una grinza. Per chi scrive, però, l'analogia con le abbreviazioni che portano il punto alla fine [dott., prof, ecc.) è molto forte, anche perché, per la maggior parte di noi (e si perdoni l'ignoranza) dr. è una contrazione di dottore e cfr. una contrazione di confronta e non CONFER. Per analogia si scrivono con il punto anche le abbreviazioni sr. e jr. dai corrispondenti latini SENIOR e JUNIOR.
Sigle e
acronimi
Anche le sigle e gli acronimi sono delle abbreviazioni. In questi casi il punto è facoltativo, ma la tendenza generale è ormai quella di ometterlo-, FIAT, OMS, ONU ecc. Per il plurale un tempo si utilizzava la duplicazione delle lettere della sigla (come per pagg., capp. e sigg.) tipo FFSS per Ferrovie dello Stato (ormai estinte) o AA.VV. per Autori vari, CC per Carabinieri, SS. per Santi. Ma si tratta di un uso destinato a morire se non per le forme appena citate che si sono stabilizzate nell'uso (SS. Apostoli, Arma dei CC). Ormai si preferisce anteporre l'articolo plurale e lasciare integra la sigla: le Asl, le Onlus ecc.
POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 1. Il punto
Le sigle e gli acronimi Sono frequenti i dubbi che riguardano la scrittura di sigle e acronimi. Vanno scrìtte con le lettere maiuscole, minuscole, con i punti o senza? Vediamo innanzitutto che cosa sono sigle e acronimi dal punto di vista della grammatica italiana. diLa sigla è una successione di lettere distinte, che vengono compitate una per una: DNA si pronuncia diennea, dvd si pronuncia divudì (o dividi), DL dielle ecc. Molte sigle che si utilizzano normalmente in italiano provengono dalla lingua inglese, come ad esempio: DNA: Deoxyribo NucleicAcid (acido deossiribonucleico) AIDS: Acquired Immuno-Deficiency Syndrome (sindrome da immuno deficienza acquisita) HTTP: HyperText Transfer Protocol (protocollo per il trasferimento di ipertesti) GPS: Global Positioning System (sistema globale di posizionamento) Alcune sigle vengono lette in modi diversi, come ad esempio AIDS che si legge indifferentemente aidièsse oppure àids. L'acronimo rientra sempre nella categoria delle sigle, ma mentre la sigla viene letta lettera per lettera, l'acronimo è considerato una parola a sé stante e perciò letto come una parola sola, come succede per FIAT, RAI, ACI, ARCI. Molto spesso queste parole, di uso molto comune, non vengono più percepite dai parlanti come sigle, ma sono considerate delle vere e proprie parole, senza più riconoscerne il significato originario. Ecco alcuni esempi.
irpin".
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FIAT: Fabbrica Italiana Automobili Torino RAI: Radio Audizioni Italia ACI: Automobile Club d'Italia ARCI: Associazione Ricreativa Culturale Italiana DOC: Denominazione di Origine Controllata BOT: Buono Ordinario del Tesoro TAC: Tomografia Assiale Computerizzata LIPU: Lega Italiana Protezione Uccelli ABI: Associazione Bancaria Italiana LAN: Locai Area Network (in italiano.- rete locale) IRPEF: Imposta sul Reddito delle PErsone Fisiche
Alcuni acronimi sono formati anche dalla fusione di sillabe di sigle o di parole, come ad esempio in: Cobas (confederazione dei Comitati di BASe), Consob (Commissione Nazionale per le SOcietà e la Borsa), colf (COLlaboratrice Familiare), Polfer (POLizia FERroviaria), Federmeccanica (FEDERazione sindacale dell'industria metalMECCANICA) ecc. Le sigle e gli acronimi sono generalmente dei sostantivi, anche se possono essere usati con valore aggettivale. In questo caso sono posizionate dopo il nome a cui si riferiscono: il direttivo RAI, la proposta USA, la forza ONU.
E l'acrostico? Dal greco akróstichon, composto di àkron, 'estremità' e stichos, 'verso': è un componimento poetico in cui le lettere (o le sillabe o le parole iniziali) di ciascun verso formano un nome proprio o un nome comune. Un acrostico famoso è ad esempio il Viva V.E.R.D.I. che, durante il Risorgimento, i patrioti italiani usavano per dire (Viva) Vittorio Emanuele Re D'Italia. Gli acrostici sono molto usati anche come sigle. Eccone alcuni che denominano progetti dell'Unione Europea: DIANE (Direct Information Access Network far Europe), Rete di accesso diretto all'informazione per l'Europa ERICA (European Research Institute far Consumer Affairs), programma dell'Istituto europeo di ricerca sui problemi del consumatore ERMES (European Radio-Messaging System), servizio pubblico paneuropeo di radioavviso terrestre FORMA (Fondo di orientamento e di regolarizzazione dei mercati agricoli) IDEA (International Data Exchange Association), Associazione internazionale per lo scambio di dati. Gli acrostici vanno sempre scritti con tutte le lettere maiuscole perché formano delle parole compiute e quindi non devono essere confuse con i nomi comuni corrispondenti (come IDEA con idea o FORMA con forma).
Un po' di etimologia r
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Sigla deriva dal latino tardo STGLA (neutro plurale) che significava 'abbreviature'. STGLA è una contrazione delle parole SI(N)G(U)LA (SIGNA), cioè 'segni singoli, abbreviazioni'. Acronimo deriva dal greco àkron, 'estremità' e ónoma, 'nome'.
Quando si impiegano, nella scrittura, sigle che vengono usate solo occasionalmente bisognerebbe sempre aggiungere (tra parentesi) la forma integrale non soltanto per chiarirne il significato, ma anche per dare le informazioni sugli elementi che la compongono necessari a dedurre il genere e l'articolo da usare. Ad esempio: il CRO (Centro di Rieducazine Ortofonica, l'ARPAC (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania). Quando sono sigle straniere è bene aggiungere anche la traduzione italiana per renderle leggibili e comprensibili a tutti: FBI, Federai Bureau of Investigation (ufficio federale di investigazione); FAQ, FrequentlyAsked Questions (le domande più frequenti); FAO, Food and Agriculture Organization (organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura).
Istruzioni per Fuso Fino a poco tempo fa le sigle e gli acronimi venivano scritte con il punto (C.G.I.L, I.N.P.S, D.O.C.) e quasi sempre con tutte le lettere maiuscole. Nella lingua italiana di oggi prevale la scrittura di entrambe senza il punto e con solo l'iniziale maiuscola (Cgil, Inps, Inail, Doc), perché vengono considerate come dei nomi propri e quindi, come tali, devono avere l'iniziale maiuscola, anche quando si scrivono in forma estesa: Pd, Partito democratico, DI, Decreto legge, Istat, Istituto centrale di statistica. Attenzione Queste sono indicazioni di massima; sulla carta stampata noterete che ci sono ancora molte oscillazioni per quanto riguarda maiuscole e minuscole. Si possono trovare infatti soluzioni diverse come INPS e Inps, Lega italiana per la lotta contro l'AIDS e Lega Italiana per la lotta contro l'Aids. Le sigle che invece derivano da nomi comuni andrebbero scritte con la prima lettera minuscola, ecco alcuni esempi d'uso frequente: ed: compact disc cd-rom: compact disc a memoria di sola lettura dvd: digitai versatile disc pc: personal computer sms: short message system ogm: organismi geneticamente modificati Anche in questo caso le forme oscillano tra maiuscola e minuscola: per ed si possono trovare Cd, CD; per dvd abbiamo sia Dvd sia DVD. POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 3. L'Fbi o il Fbi, la SPD 0 l'SPD?
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Maiuscole e minuscole Da un quotidiano: lì Presidente della Regione Lombardia ha incontrato il Sottosegretario del Ministero dell'Agricoltura per discutere sul Patto di Stabilità. In queste due righe ci sono troppe lettere maiuscole : presidente, sottosegretario, ministero, stabilità. Non tutti saranno d'accordo: l'uso della maiuscola in italiano soffre, infatti, di parecchie oscillazioni, dovute sia a ragioni grammaticali (la difficoltà di tracciare un confine netto tra "nome proprio" e "nome comune") sia a ragioni ideologiche legate al sentimento personale di chi scrive nei confronti di cariche e istituzioni. La difficoltà sta nel riconoscere il nome proprio. Ecco ciò che ci suggerisce l'Accademia della Crusca: quando una parola o più parole indicano non un concetto, ma un individuo, un ente concreto e unico, devono cominciare con la maiuscola. Il problema è allora decidere se ci troviamo in presenza di una entificazione e, nel caso di sequenza, quaI è il punto di passaggio dal concetto all'ente; il che dipende, nello scrivente, dalla sua maggiore o minore disposizione, psicologica e linguistica, a entificare. (Luca Serianni e Giovanni Nencioni, La Crusca per Voi n. 2) La frase iniziale andrebbe riscritta in questo modo: Il presidente della Regione Lombardia ha incontrato il sottosegretario del ministero dell'Agricoltura per discutere sul Patto di stabilità. Il consiglio, infatti, è quello di non "entificare" tutto e tutti facendo un uso esagerato delle lettere maiuscole. La pratica di mettere in risalto una parola tramite l'iniziale maiuscola (spesso con atteggiamento "reverenziale") disturba e appesantisce molto i testi.
L'Unione europea
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Per allargare i nostri orizzonti "nazionali" vediamo che cosa raccomanda l'Unione europea riguardo alle maiuscole, nel "Manuale interistituzionale di convenzioni redazionali" (http://publications.europa.eu/code/it/it-ooomo.htm): Per quanto riguarda più in particolare i testi dell'Unione europea, l'uso dell'iniziale maiuscola è richiesto nei seguenti casi: 1) termine introduttivo delle varie organizzazioni ed istituzioni; 2) termine introduttivo degli organi giurisdizionali; 3) sfera di competenza dei ministri e ministeri nonché delle varie direzioni generali;
4) denominazione completa degli Stati nazionali (regni o repubbliche) anche se i termini «regno» e «repubblica» non fanno parte della denominazione ufficiale. Esempi: ministero degli Affari esteri, ministero di Grazia e giustizia, presidente della Commissione. Qui di seguito troverete, invece, le norme della lingua italiana che regolano l'uso delle maiuscole, suddivise per ambiti di utilizzo.
Calendario • I nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni vanno sempre scritti con la lettera minuscola: lunedì, marzo, primavera; • i nomi delle festività, religiose 0 civili che siano, si scrivono con la maiuscola: Pasqua, Natale, Capodanno, Ferragosto, Primo Maggio.
Punti cardinali « se usati come punto di orientamento, richiedono la minuscola: nord, sud, est, ovest, nord-ovest, sud-est, oriente, occidente ecc.: ci siamo diretti a sud; il sole tramonta a occidente; il vento soffia da sud-est; • quando indicano delle aree geografiche, si scrivono con la maiuscola: il Polo Nord, il Polo Sud, la Lega è il primo partito del Nord; l'agopuntura è nata in Oriente, l'Irlanda del Nord, nel Sud del Giappone, la zona Est della città, il Nord-Est del Brasile, il divario Nord-Sud.
Luoghi geografici • I nomi dei luoghi geografici devono sempre essere scritti con la maiuscola: Roma, Firenze, Enna, Sassari, Italia, Spagna, Andalusia, Campania, Salento, Cilento, Dolomiti ecc. • I nomi comuni come monte, lago, mare si scrivono con la maiuscola quando sono parte integrante del nome proprio del luogo geografico: Lago di Garda, Monte Bianco, Mar Nero, Isola d'Elba, Fiume Giallo. Questi sono tutti nomi propri perché non possiamo dire Garda, Nero, Giallo ecc. • Monte, lago, mare e isola si scrivono con la minuscola quando non fanno parte del nome proprio, ma specificano il luogo geografico tramite il nome comune: il lago Trasimeno, il monte Amiata, il mar Tirreno, il fiume Tevere, l'isola di Ponza ecc. • Via, piazza, largo ecc. si scrivono con la minuscola: via Roma, piazza della Signoria, largo Cristoforo Colombo. 191
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Popoli e cittadinanze • Nei nomi che indicano gli abitanti di una città o di un paese possiamo usare sia la maiuscola {gli Italiani, i Francesi) sia la minuscola {gli italiani, ifrancesi). « La minuscola è d'obbligo per il singolare: un italiano, un tedesco. • La maiuscola è obbligatoria quando si parla di popoli antichi: i Romani, gli Etruschi, i Persiani, i Celti, gli Egizi, gli Arabi, per distinguerli dai popoli moderni: i romani amano la buona cucina; i Romani seppero creare un enorme impero; gli ebrei si riuniscono nella sinagoga; gli Ebrei attraversarono il Mar Rosso. « La minuscola è d'obbligo per l'aggettivo: il pane francese, il vino italiano, l'economia tedesca, la tragedia giapponese.
Istituzioni, uffici e ministeri
• Nelle denominazioni ufficiali i nomi scuola, liceo, istituto ecc. si scrivono con la maiuscola: frequento la Scuola media "Alessandro Manzoni"; è iscritta alla Scuola primaria "Padre E. Balducci"; provengo dal Liceo classico "Giosuè Carducci"; andrò all'Istituto tecnico "Galileo Galilei". • Quando scuola, liceo, istituto si usano in modo generico si scrivono con la minuscola: ho frequentato il liceo classico-, la situazione della scuola primaria è drammatica; iscriverò mio figlio alla scuola materna. • Anche università si scrive con la lettera maiuscola solo quando si vuole indicare il nome ufficiale: gli studenti dell'Università "La Sapienza"; i professori dell'Università statale di Milano ecc. Quando invece si parla di università in modo generico, si deve usare la minuscola: la riforma dell'università è necessaria; mio figlio vorrebbe andare all'università ecc. o Le facoltà si scrivono con la maiuscola: Facoltà di Lettere e Filosofia-, Facoltà di Medicina; Dipartimento di Italianistica ecc.
I nomi come stato, regione, provincia, ministero, repubblica ecc. sono scritti con la lettera minuscola quando sono usati in modo generico e non come nomi propri. La maiuscola va utilizzata solo nei casi in cui i nomi indichino effettivamente un'istituzione: ® gli abitanti della regione Lazio sono per il 59% donne; sono stati eletti i nuovi assessori della Regione Lazio. » L'Italia è una repubblica, la Spagna una monarchia; Rita Levi Montalcini è stata nominata senatrice della Repubblica italiana. • La Germania è uno stato federale; Falcone e Borsellino si consideravano servitori dello Stato.
Le materie e le discipline si scrivono: • con la maiuscola quando indicano la materia di insegnamento o di studio: docente di Letteratura italiana, professore di Linguistica, professore ordinario di Filologia romanza; • con la minuscola quando invece indicano il concetto generico: Montale è uno dei poeti più importanti della letteratura italiana. 1
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I nomi che designano cariche politiche e religiose si scrivono, normalmente, con la lettera minuscola: il presidente della Repubblica; il sottosegretario agli Esteri; il ministro dell'Economia; il giudice di pace; un membro della Commissione europea; generale, colonnello, ecc.; ugualmente, scriveremo: il papa; il vescovo; il rabbino ecc. Se però vogliamo sottolineare la funzione sociale e rappresentativa della carica, possiamo anche usare la maiuscola: il Vescovo; il Papa; il Ministro; il Sindaco ecc. La scelta dipende dal sentimento più o meno reverenziale che si prova verso la carica politica o religiosa. Sempre con la minuscola i nomi che indicano cariche professionali: avvocata-, avvocato; professore; ingegnere; dottore; dottoressa-, segretario ecc.
Scuole e università
Materie e discipline
Hvjv
Cariche politiche e religiose
Ci sono molte oscillazioni sull'uso delle maiuscole o minuscole nei nomi delle istituzioni, soprattutto per quello che riguarda ministeri, ministri e sottosegretari. Vi diamo un elenco con alcuni suggerimenti, pur essendo consapevoli che potrete trovare la stessa dicitura scritta in modo diverso perfino nei documenti ufficiali: il governo italiano il Consiglio dei ministri la Presidenza del consiglio il ministero degli Affari esteri il ministero di Grazia e giustizia il ministro di Grazia e giustizia il ministro dell'Economia la Commissione europea la commissione paritetica la Comunità economica europea la Comunità europea del carbone e dell'acciaio la conferenza al vertice
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il Consiglio dell'Unione europea la convenzione di Ginevra le istituzioni dell'Unione europea.
Informatica Si scrivono con la lettera minuscola tutti i nomi comuni dell'informatica. Come si scrivono con la minuscola radio, televisione e telefono, così si scrivono internet, computer, web, (ma Facebook e Twitter, almeno per ora), home page. Vanno con la maiuscola i nomi dei software: Word, Photoshop, Outlook ecc.
Sigle ® Devono essere scritte con la lettera maiuscola iniziale (oppure anche con tutte lettere maiuscole) le sigle di organizzazioni, associazioni, partiti ecc.: Cgil (CGIL), Uisp, Arci, Pd, Pdl, Udc, Tac. ® Si scrivono con la minuscola le sigle costituite da nomi comuni come: ed, pc, dvd, sms, ogm ecc. Unica eccezione: a.C. (avanti Cristo) e d.C. (dopo Cristo).
Gli omonimi Ci sono nomi comuni che corrono il rischio di generare ambiguità e confusione perché possono assumere due significati diversi a seconda del contesto. In questi casi l'uso della maiuscola ha valore distintivo: serve infatti a rendere visivamente comprensibile il significato. Ad esempio: • la camera dell'albergo era molto pulita; la Camera dei deputati si è riunita oggi pomeriggio; • la chiesa è dedicata a S. Francesco; la Chiesa ha condannato duramente i preti pedofili; • il paese si è svuotato nel corso degli anni; il Paese sta vivendo un momento politico drammatico; e lo stato della nostra casa di campagna è davvero pietoso; lo Stato va servito con dedizione e onestà; • Gabriele è robusto di costituzione; la Costituzione italiana è la più bella d'Europa.
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I numeri Come si scrivono i numeri in un testo scritto? Vediamo che cosa sono i numeri per la grammatica e quali sono le principali regole per un corretto uso dei numerali nella scrittura. LA GRAMMATICA DICE Nella grammatica italiana, le parole con cui si indicano i numeri vengono chiamate numerali. I numerali sono una categoria grammaticale eterogenea che comprende aggettivi (due bambini), sostantivi (il tre è il mio numero fortunato) e pronomi (ho visto entrambe). I numerali si distinguono in cardinali (voglio tre mele), ordinali (ho vinto il secondo premio) e moltiplicativi (dovremo fare i doppi turni). • I cardinali sono sicuramente i numerali più usati e si indicano in lettere e in cifre arabe: uno due quarantacinque centosei duemilaottocento 1
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» Gli ordinali danno un ordine di successione e si indicano con le cifre romane o con le cifre arabe seguite dal cerchietto esponenziale: primo secondo ventiduesimo centocinquantaduesimo I II XXII CUI 22°
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Istruzioni per Fuso I numeri cardinali nello scritto formale soprattutto, ma anche in quello letterario e in quello informale, non vanno scritti in cifre ma in lettere: ti ho chiamato dieci volte, ora basta; la vittima è stata colpita da sei coltellate al torace e due all'addome; ha preso nove in matematica; porto il trentanove di scarpe; fece quattro, cinque passi quasi volteggiando, poi si voltò e prese la mira. Si scrivono in lettere anche i numeri che hanno un valore aritmetico meno preciso, come ad esempio: la maternità vissuta a quarantanni; i ventanni non si dimenticano mai; sarà bella anche a settant'anni.
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In genere si scrivono in lettere anche cento, mille, mila, milioni e miliardi: quattromila, due milioni, quattro miliardi.
Iniziare bene Il numero va sempre scritto in lettere e mai in cifre quando si trova all'inizio di una frase.
I numeri arabi (talvolta anche roTrentamila operai del settore tessile hanmani) sono invece destinati agli no scioperato ieri. usi tecnico-scientifici e alla scritUn milione e mezzo di persone non arritura delle date: va alla fine del mese. il neo-eletto sindaco ha vinto con il 55,6% dei voti; ha votato solo il 47,85% degli elettori; Bari, 2 giugno 2011 (2/6/2011; 2.VÌ.2011; 2.6.2011)
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Questi sono, invece, i casi dove si impiegano i numeri arabi in cifra. • Nei numeri alti non arrotondati: il quadro è stato venduto per 250.000 euro. » Nei numeri alti che indicano un valore approssimativo si possono usare, insieme, oltre alle cifre anche le lettere: si prevede l'arrivo di 2 milioni di profughi; tra poco saremo 5 miliardi al mondo. • Nei numeri con più di quattro cifre si inserisce il punto per indicare le migliaia, ma il punto non si mette se il numero indica un anno: hanno già venduto 2.543 biglietti; ha avuto 247.854 preferenze; mi sono laureata nel ?995• Nei testi normativi si preferisce scrivere il numero in cifre: l'articolo 2, il comma 5, il paragrafo 28, il D.L i82/bis. I numeri ordinali si possono scrivere in cifre (arabe 0 romane) o in lettere. Se si usano le cifre arabe, è indispensabile accompagnarle con una o oppure con una a esponenziali per indicare non solo l'ordinale ma anche il genere (20 = secondo, 5 a = quinta). Le cifre romane invece valgono sia per il femminile che per il maschile. il ventiduesimo Giro d'Italia il secondo battaglione la quinta classe
il XXII Giro d'Italia il II battaglione la V classe
il 22° Giro d'Italia il 2° battaglione la 5° classe
Gli ordinali che sono parte di un nome proprio 0 di un nome di regnante si scrivono sempre in cifre romane: Riccardo III, Benedetto XVI, Giovanni Paolo II, Paul Getty II. Attenzione! I numeri in lettere romane non vogliono mai il segno tipografico ordinale Si scrive III, IV, V (oppure 3°,4°, 5°), mai 111°, IV" o V°.
Cifra araba 1 2 3 4 5 6 / 8 9 10 li 12 13 14 15 16 17 18 19 20 30 40 50 60 70 80 90 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1000 2000
Numero cardinale uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci undici dodici tredici quattordici quindici sedici diciassette diciotto diciannove venti trenta quaranta cinquanta sessanta settanta ottanta novanta cento duecento trecento quattrocento cinquecento seicento settecento ottocento novecento mille duemila
Cifra romana I II JÌT IV V VI VÌI Vili IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXX XI L Lx .XX IXXX XC C CC CCC CD D DC DCC DCCC CM M MM
Numero ordinale primo 1° secondo 2° terzo _3°_ quarto _ ----- --quinto 5° sesto 6° settimo 7° ottavo 8° nono 9" decimo ioundicesimo 11° dodicesimo 12° tredicesimo 13° quattordicesimo 14° quindicesimo 15° sedicesimo 16° diciassettesimo 17° diciottesimo 18° _ diciannovesimo 19" ventesimo 20° trentesimo 30° quarantesimo 40° cinquantesimo 50° sessantesimo 60" "settantesimo 70° ottantesimo 80° novantesimo _ 90° centesimo 100" duecentesimo 200° trecentesimo 300° quattrocentesimo 400° cinquecentesimo 500° seicentesimo '"600° 'settecentesimo 700' ottocentesimo 800" novecentesimo 906° millesimo 1000" duemillesimo 2000'
Uora Non è sempre facile inserire l'indicazione dell'ora in un testo scritto. Si devono usare i numeri in cifre o i numeri in lettere? Le ore si separano con i due punti, il punto o la virgola? La regola in realtà è molto semplice: per indicare l'ora nella lingua parlata e nello scritto informale si usano solo i primi dodici numeri cardinali (uno, due, tre, quattro ecc.) sia che si tratti delle ore antimeridiane (le nove del mattino o le nove di mattina) sia che si parli di ore pomeridiane e serali (le tre del pomeriggio o le tre di pomeriggio; le sette di sera). Invece negli orari ufficiali (treni, aerei, uffici ecc.) ci si serve anche dei numerali da tredici a ventiquattro per indicare le ore dopo il mezzogiorno fino alla mezzanotte: l'ufficio è aperto dalle 13 alle 77; l'aereo atterrerà alle 20 e 54. L'ora in cifre si usa preferibilmente negli scritti specifici, dove si riportano gli orari di apertura di uffici, biblioteche, scuole o altro, oppure gli orari di arrivo e partenza di treni, autobus ecc. In questo caso l'ora, in cifre, viene separata da un punto. Mai da una virgola 0 dai due punti. Orario mensa: 12.00 -14.45 Ambulatorio medico: 15.30 -19.30 Nei testi discorsivi è sempre meglio invece indicare l'ora utilizzando i numeri in lettere: Col taxi, verso le undici e mezzo, mentre andava all'aeroporto e si è fermato a salutarmi e a lasciarmi un pacchetto per Claudia (Sandro Veronesi, Caos calmo). L'incidente è avvenuto alle quattro e un quarto del pomeriggio, ma i mezzi di soccorso sono arrivati soltanto un'ora dopo. Per indicare i minuti, non è corretto scrivere, alla maniera inglese: sono le sei e zero cinque: in italiano, se dico le sei e cinque sono sempre e solo le 6.05.
Il tócco
r A Firenze, per il desinare
(il pranzo), ci si ritrova al tócco. Il tócco, con la ochiusa, corrisponde all'una, alle tredici: Che ora è? Il tocco e un quarto! Quest'uso antico, ma ancora molto diffuso, risale a quando l'ora non si guardava sull'orologio da polso, ma si ascoltava attraverso il rintocco delle campane.
In inglese si usano esclusivamente i primi dodici numeri cardinali distinguendoli con le sigle a.m. (ante meridiem) e p.m. {post meridiem), rispettivamente 'prima' e 'dopo mezzogiorno': / wake up at six a.m. The tra in is leaving at eight fourteen p.m. I francese, lo spagnolo e il tedesco si comportano, invece, come l'italiano: il est trois heures le bus part à quinze heures dix son las tres el autobus parte a las dieciocho y catorce es ist drei Uhr der Bus fahrt um funfzehn Uhrzehn ab
Sei e mezza o sei e mezzoì Entrambe le soluzioni sono corrette. Si può dire infatti sia"Ci vediamo alle sei e mezza" che "Ci vediamo alle sei e mezzo". Nel primo caso l'aggettivo si riferisce a ora ed è quindi femminile, nel secondo invece l'aggettivo mezzo, nella forma invariata, è usato in funzione avverbiale. La mezza, al femminile, si usa nell'espressione: ci vediamo alla mezza, per indicare le dodici (0 mezzanotte) e trenta. Ma viene anche usata, nella lingua parlata, per indicare "la mezza" di qualsiasi ora: il concerto inizia alle nove. Incontriamoci in piazza alla mezza (ovvero alle 20 e 30).
All'una o alle unaì Un altro dubbio frequente riguarda il numero singolare o plurale con cui indicare la prima ora dopo mezzogiorno (0 mezzanotte): ci vediamo all'una 0 alle una? L'una è l'unica ora ad essere singolare, e sarebbe quindi più corretto usarla come tale. La presenza della forma le una è dovuta all'analogia con le altre ore del giorno, tutte al plurale, e anche alla percezione, in chi parla, di un sostantivo ore sottinteso: le (ore) una. Come ci spiega bene la Redazione di consulenza linguistica della Crusca, la situazione non è uniforme e si distinguono variazioni in base all'area di provenienza dei parlanti. L'orientamento di base, per l'uso corretto (specialmente nella lingua scritta) è il seguente.• è da preferirsi la forma l'una (con elisione della a dell'articolo): ci vediamo all'una; è l'una. Meno comune, e diffusa soprattutto al Nord, la forma senza elisione la una: ci vediamo alla una; a la forma le una, diffusa soprattutto nell'Italia centrale (in Toscana e anche a Roma) è accettabile ma circoscritta a un uso più informale della lingua.
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La data Non sembra, ma a volte è proprio nello scrivere la data che si fanno gli errori più frequenti. Vediamo quindi come si scrive la data prima in un testo normale e poi nell'intestazione di una lettera o in un documento ufficiale. In un testo la data si scrive nel modo seguente: • il numero del giorno (in cifre o lettere) e preceduto dall'articolo il: il 13 • il nome del mese (con l'iniziale minuscola): giugno • il numero dell'anno in cifre: 7978; è nata il 13 giugno 1978; il 77 marzo 2011 abbiamofesteggiato il 150" Anniversario dell'Unità d'Italia; non mi scorderò mai ciò che accadde il venti ottobre 2002. In un documento ufficiale o in una lettera la data si può scrivere: Roma, 70 ottobre 2011 (nome del luogo, virgola, giorno in numero arabo, nome del mese con la minuscola, anno). Oppure in forma più breve: Roma, 10/10/2011 Roma, 10.10.2011
Roma, 10.X.20H.
Per il giorno e per l'anno si usano i numeri arabi (7,2,3); per il mese si può scegliere tra lettere, numeri arabi 0 numeri romani (/, II, III). Solo nel caso che si usino i numeri, e non le lettere, il giorno, il mese e l'anno vanno separati con un punto ( ) 0 una sbarretta (/). È comunque preferibile usare la forma con il mese per esteso. La formula migliore, secondo noi, è quella che presenta il nome del mese per esteso (sempre con l'iniziale minuscola): Milano, 8 marzo 2011.
Attenzione! Tutti i numeri del mese sono indicati con un numerale cardinale (due, tre, quattro ecc.), mentre il primo giorno del mese viene indicato con un numerale ordinale (primo): sono nata il primo febbraio 1961 -» corretto sono nata l'uno febbraio 1961 meno corretto sono nata il 1° febbraio 1961 -* meno corretto
Non si dovrebbe invece mai scrivere l'I febbraio. L'articolo non si mette quando la data è preceduta dal giorno della settimana: la riunione è fissata per lunedì 27 febbraio 2012.
Firenze, li 24 marzo 2010: questo antiquato modo di scrivere la data si trova tuttora in alcuni documenti della burocrazia italiana che ancora fa fatica ad alleggerirsi verso un linguaggio e uno stile moderno. Alcuni scrivono addirittura lì, con l'accento, nella convinzione che si tratti dell'avverbio di luogo indicante un luogo espresso in precedenza, /-/(senza accento), invece, è una forma cristallizzata dell'antico articolo determinativo plurale maschile, che era usato prima che si affermassero completamente gli articoli del plurale maschile /'e gli. ("Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra", Dante, InfernoVI, 16). Nella lingua italiana tale forma è scomparsa ma sopravvive, come un brontosauro, nel linguaggio burocratico. Consiglio: non usatela mai.
Abbreviazioni: anni e secoli
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Quando si usano i numerali per indicare un anno è possibile sopprimere le prime due cifre sostituendole con un apostrofo: il'68, sono nato nel '76. Oppure scrivere l'anno per intero: il sessantotto, sono nato nel settantasei. Nel caso in cui il numerale inizi con la vocale e debba essere preceduto dall'apostrofo, uno dei due apostrofi cade: ho un Brunello dell'85 e non ho un Brunello deir'85. Per gli anni si possono usare anche le locuzioni: gli anni Trenta, Cinquanta. Nella lingua (parlata e scritta) si è diffuso un uso più sbrigativo (ma anche meno preciso) che presenta la soppressione della parola anni: gli '80 sono stati decisivi; fino alla fine dei Settanta eravamo tutti più impegnati. I secoli si possono scrivere e abbreviare in diversi modi: ogni secolo può essere indicato con il numero romano (in lettere 0 in cifre) seguito dalla parola secolo: il I secolo 0 primo secolo. I secoli dal XIII (tredicesimo) al XX (ventesimo) si possono scrivere anche in cifre (con i numeri arabi), con la cifra delle migliaia soppressa e sostituita dall'apostrofo (il '300) o in lettere (il Trecento): dal ioi al 200 il II (0 secondo) secolo dal 1201 al 1300 il XIII (0 tredicesimo) secolo il Duecento il '200 l'Ottocento V800 dal 1801 al 1900 il XIX (o diciannovesimo) secolo dal 1901 al 2000 il XX (o ventesimo) secolo il Novecento il '900 dal 2001 il XXI (0 ventunesimo) secolo Attenzione! Le espressioni "il 1600" e "nel 1600" non indicano il '600 (cioè il XVII secolo), ma il solo anno 1600.
La lettera formale Capita ancora spesso di dover scrivere una lettera formale: può essere una domanda di lavoro, una lettera di reclamo, una richiesta di informazioni o la risposta a un'inserzione. La lettera formai e è indirizzata in genere a organismi privati o pubblici, a uffici o a destinatari che normalmente non conosciamo bene e a cui ci rivolgiamo con la forma di cortesia (il "lei"). Dal momento che si tratta di lettere che non scriviamo frequentemente (a meno che non lo facciamo per lavoro), spesso ci troviamo di fronte a tanti dubbi che riguardano soprattutto l'aspetto formale: dove si scrive la data? Come e dove si scrive il destinatario? Egregio o caro? Ovviamente anche il linguaggio di una lettera formale è diverso da quello che usiamo quotidianamente: deve essere ordinato, curato, attento, ma soprattutto deve essere chiaro. La chiarezza espressiva, infatti, è indispensabile affinché il nostro testo sia davvero comprensibile al destinatario.
La struttura del test©
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Per la struttura del testo possiamo continuare ad affidarci a un classico tra i classici, Cicerone, che aveva suddiviso l'orazione in tre parti: I'EXORDIUM, la NARRATIO-ARGUMENTATIO e la PERORATIO. Sembra molto complesso, ma in realtà queste parti corrispondono a inizio, svolgimento e conclusione che, da secoli, funzionano ottimamente nella costruzione di quasi tutti i tipi di testi. La sintassi deve essere essenziale: le frasi semplici, chiare, ordinate preferibilmente per coordinazione piuttosto che per subordinazione.
L'uso di formule antiquate e sorpassate come stimatissimo, pregiatissimo, esimio ecc.
L'impostazione Per scrivere una lettera formale è bene seguire queste regole: • il mittente si scrive normalmente in alto a sinistra, completo di indirizzo, indirizzo e-mail, numero di telefono e/o telefono cellulare. • luogo e data si scrivono in alto a destra: nome della città (senza indicazione della provincia), virgola, giorno, mese e anno. Il nome del mese minuscolo. • il destinatario va sotto la data, a destra. Ci sono due modi per indicare il destinatario: i. più tradizionale e ancora ampiamente usato nella corrispondenza di tipo formale: Nome e cognome preceduti dall'indicazione Gentile Signore o Destra o sinistra? Gentile Signora (o eventuali titoli professionali), indirizzo. Come per certe regole grammaticali, anSe si tratta di una società o di un che sulle posizioni del destinatario e del ufficio, il nome deve essere precedumittente non c'è una regola univoca: per to dall'aggettivo Spettabile o, abbrealcuni data, indirizzo del destinatario e viato, Spett.le. In questo è bene indifirma vanno allineati a destra, per altri il care, una riga più in basso, il nome e destinatario va posizionato a sinistra e il il titolo della persona all'attenzione mittente in alto a destra. Ognuno è libero della quale la indirizziamo: Alla c.a. di scegliere il modello che più gli piace! del dottor Biondi {c.a. sta per cortese attenzione). Spett.le Flux Comunicazioni viale Trieste 128 74100 Taranto Alla c.a. della Dott.ssa Carla Lojacono
Da evitare • È utile evitare quelle formule tipiche del linguaggio burocratico che sanno di pedante e appesantiscono qualsiasi testo: con la presente siamo a chiedervi... in riferimento all'oggetto suindicato... è con grande piacere che desideriamo comunicarle... e L'uso della maiuscola "reverenziale". Ad esempio: Caro Signore, La prego di permettermi di ringraziarLa per il Suo gentile interessamento. uno Oggi lettere aon volte ilstile quest'abitudine Lei) commerciali. possono più nel immediato testo essere della Vaall'uso detto, utili lettera. e moderno, per delle a favore identificare maiuscole ma dellepermane maiuscole il sidestinatario sta attenuando ancora reverenziali, (cui nellociastile si favore che rivolge delle esse di
2 più moderno e semplice, alleggerito da titoli e usi tradizionali sentiti ormai troppo pedanti: nome e cognome, indirizzo. Carla Lojacono Spett.le Flux Comunicazioni viale Trieste 128 74100 Taranto • l'oggetto va scritto un paio di righe sotto il destinatario, comunque sempre sul lato sinistro della lettera. È facoltativo, ma se la lettera fa riferimento a
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una questione precisa o a un numero di pratica, vale sempre la pena inserirlo per focalizzare con immediatezza il motivo per cui scrivete. • la formula iniziale: un paio di righe sotto l'oggetto o il destinatario, a sinistra inizia la lettera: Gentile signore/dottore... Caro/cara si usa quando conosciamo il destinatario e il tono della lettera è più confidenziale (pur restando formale). Egregio/egregia è una forma molto fredda e distaccata, secondo alcuni anche antiquata. Se si scrive a un ufficio si può anche omettere e iniziare direttamente il testo, ma è sempre meglio iniziare con un generico Gentili Signori, al plurale. Attenzione ai titoli: se non siete sicuri del titolo professionale, è sempre meglio usare un semplice ed educato Gentile signore /signora. Gentile signor Bianchi; Gentile signora Bianchi; Gentile professoressa Rossi; Gentile professor Rossi; Gentile dottor Ughi; Gentile dottoressa Ughi. Signor/a, Professor/essa e Dottor/essa possono anche essere scritti con la maiuscola, ma si tratta di un uso un po' antiquato. «Cara e Gentile Signora»:così comincialaprimalettera, scritta il 21 settembre 1935, dell'epistolario tra Carlo Emilio Gadda e Lucia Rodocanachi. e Dopo la frase introduttiva, inizia il vero e proprio testo della lettera. Ricordatevi di esprimere i vostri pensieri in modo chiaro, logico e ordinato. Utilizzate uno stile conciso e diretto in modo da rendere ben chiaro il motivo per cui state scrivendo. Il grassetto va usato con grande parsimonia per evidenziare eventualmente gli elementi fondamentali per la comprensione del testo. Evitate del tutto il sottolineato. Prima presentate il problema, facendo riferimento a eventuali lettere precedenti 0 a telefonate intercorse fra voi e il destinatario. Quindi approfondite gli argomenti e, dopo aver aggiunto un'eventuale richiesta 0 una dichiarazione (es.: sono certa della sua disponibilità ecc.), concludete con i ringraziamenti, che possono essere la ringrazio perla gentile attenzione oppure grazie della collaborazione, della disponibilità ecc. • L'ultima frase della lettera è la formula di chiusura in cui si scrivono i saluti. I saluti devono corrispondere al tono e al contenuto della lettera. Se nell'esordio avete usato un distaccato Egregio signore, potete concludere con Distinti saluti. Se invece il tono è meno formale (Gentile signore) potete usare una formula meno fredda come cordiali saluti, un cordiale saluto, cordialmente. Sono da evitare gli antiquati: ossequi, Suo devoto ecc.
Modello
I Giuliano Adinolfi
Mittente
Via dello Stecchetto 23 50145 Firenze Tel. 055 428694
Luogo e data Firenze, 31 maggio 2011
Destinatario Oggetto della missiva
/
Matteo Renzi Ufficio del Sindaco Comune di Firenze Piazza della Signoria 50100 Firenze
Oggetto: Mancata manutenzione dei giardini di via de'Vespucci. Gentile signor Renzi Formula di apertura Rientro Introduzione le scrivo dopo avere letto sul suo blog l'invito, rivolto ai cittadini, a comunicarle eventuali problemi legati alla manutenzione delle aree verdi di Firenze. Apprezzo la sua proposta e vengo immediatamente a esporle il problema." Psrte centrale Da mesi ormai la normale manutenzione delle belle aree verdi lungo via de' Vespucci ha subito un vero e proprio tracollo: le siepi non vengono più potate (se non una volta l'anno), le piante morte non vengono più sostituite, il sistema d'irrigazione ormai non funziona quasi più. Sono consapevole che 11 Comune vive un momento di grande difficoltà economica, ma penso che la cura delle aree verdi periferiche sia importante tanto quanto la cura delle aiuole del viale de' Colli. Penso anche che un eventuale coinvolgimento della parte attiva della cittadinanza potrebbe contribuire a un rinnovato sforzo da parte del Comune. Conclusione \ La ringrazio fin da ora della sua gentile attenzione. Sono certo che la mia richiesta non rimarrà inascoltata. Cordiali saluti, ^ Giuliano Adinolfi
Formula di chiusura Firma
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La ietterà Informale La lettera informale si utilizza per le comunicazioni di carattere personale. Un tempo era usata per la comunicazione di informazioni, ma ormai, con questa funzione, è stata completamente soppiantata da telefono, sms e email. La lettera informale ha invece saputo mantenere una sua vitalità per quanto riguarda le comunicazioni "istituzionali" della nostra vita sociale e familiare, e rimane sempre il mezzo preferito per gli auguri, le condoglianze, i matrimoni e i battesimi. Il tono è confidenziale e anche la struttura è meno rigida che non nella lettera formale: non serve scrivere mittente né destinatario, e lo stile è ovviamente più libero, personale e strettamente collegato al tono, al contenuto e al tipo di rapporto che ci lega alla persona o alle persone alle quali scriviamo. Anche per la lettera informale, però, sarebbe bene seguire alcune regole per organizzare il testo e i contenuti in maniera piacevole e comprensibile. Vediamo come: « il luogo e la data si collocano in alto a destra; • la formula di apertura (Caro Luigi, Cara mamma, Carissimi amici) si scrive in alto a sinistra, seguita da una virgola. Dopodiché si va a capo e si inizia a scrivere con la lettera minuscola; • dopo la formula di apertura segue spesso una breve introduzione, dove di solito si spiega il motivo dell'invio della lettera; • la parte centrale contiene l'argomento o gli argomenti salienti della lettera. Gli argomenti vengono trattati con stile personale: c'è chi ama la ricercatezza lessicale e la sintassi elegante, chi invece preferisce sentirsi libero di usare un lessico colloquiale, espressioni gergali, interiezioni o parole che hanno significato solo per chi scrive e per il destinatario. Nella lettera informale possono comparire anche espressioni sintatticamente non del tutto corrette, ma che riflettono la lingua parlata e rendono più immediato il testo; • la formula di chiusura con i saluti o i ringraziamenti va posta in basso a destra, seguita dalla virgola; • sotto i saluti, la firma del mittente: generalmente si mette solo il nome, senza il cognome. P.S.: se, dopo aver firmato la lettera, ci siamo accorti di aver dimenticato di scrivere qualcosa, possiamo aggiungere, in basso a sinistra, un POST SCRIPTUM (dal latino, significa 'scritto dopo') che si indica con la sigla P.S. seguita dai due punti: il testo che segue sarà abbastanza breve e deve iniziare con la lettera minuscola.
Esempio i Carissima mamma,
Roma, 20 novembre 1926
ho pensato molto a te in questi giorni. Ho pensato ai nuovi dolori che stavo per darti, alla tua età e dopo tutte le sofferenze che hai passato. Occorre che tu sia forte, nonostante tutto, come sono forte io e che mi perdoni con tutta la tenerezza del tuo immenso amore e della tua bontà. Saperti forte e paziente nella sofferenza sarà un motivo di forza anche per me: pensaci e quando mi scriverai all'indirizzo che ti manderò rassicurami. lo sono tranquillo e sereno. Moralmente ero preparato a tutto. Cercherò di superare anche fisicamente le difficoltà che possono attendermi e di rimanere in equilibrio. Tu conosci il mio carattere e sai che c'è sempre una punta di allegro umorismo sulfondo: ciò mi aiuterà a vivere. [...] Carissimi tutti, vogliatemi sempre bene lo stesso e ricordatevi di me. Vi bacio tutti. E a te, cara mamma, un abbraccio e una infinità di baci. Nino PS.: un abbraccio a Paolo, e che voglia sempre bene e sia sempre buono con la sua cara Teresina. (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere)
Esempio 2 Palermo, 22 maggio 2011 Carissima Lena, finalmente trovo il tempo di scriverti! Uff...sono sempre di corsa e non mi fermo mai. Ma oggi ho detto basta: è ora di scrivere a Lena. Come stai??? Come state?? Qui ormai è arrivata l'estate: caldo afoso tutto il giorno e di notte... non riesco a dormire! Il lavoro procede molto bene (chissà come, dirai tu) e sono già arrivata al capitolo finale. Il professore dice che scrivo piuttosto bene, che ho uno stile fluido ma ricercato (ah, ah... se leggesse questa letterali!). Insomma, sto diventando una vera scrittrice. E tu? Scrivimi presto, raccontami tutto. Non mandarmi una mail: voglio un foglio di vera carta e poi... voglio vedere ancora la tua bellissima calligrafia! Ti abbraccio forte forte, tua Isabella
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L'email L'.Electronic Mail, in italiano: ]'email, Ye-mail o la mail (plurale le email, le e-mail, le mail) è diventata ormai il mezzo più rapido e più comodo per comunicare. È più veloce della posta perché ci mette pochi minuti ad arrivare all'altro capo del mondo, è più economica di una telefonata perché non costa quasi nulla e ci permette di spedire in allegato documenti, filmati e immagini. L'email può essere una lettera, una comunicazione ufficiale, un messaggio personale, una nota breve: per molti aspetti è paragonabile alla lettera della posta tradizionale, per altri, invece si avvicina alla conversazione telefonica o alla comunicazione faccia a faccia. È veramente facile da usare: la sua stessa natura incoraggia, in chi scrive, l'uso di uno stile immediato e spontaneo. Con buona pace delle principali norme dell'educazione e dell'ortografia! I messaggi vengono inviati senza porre quell'attenzione e quella cura che caratterizzano invece la posta tradizionale. Brevi o prolissi, ma soprattutto informali, assomigliano un po' troppo alla conversazione parlata. Sta crescendo, però, la consapevolezza che, pur mantenendo intatta la caratteristica dell'immediatezza tipica della posta elettronica, sia necessario seguire delle convenzioni (formali, grammaticali, lessicali) che ci aiutino a non trasformare questo potente mezzo in una semplice chat tra adolescenti. Qui di seguito troverete alcuni suggerimenti che potranno rivelarsi utili per rendere le vostre mail chiare, leggibili, comprensibili e anche accettabili da un punto di vista formale.
Il destinatario
L'oggetto deve essere conciso, essenziale, mai vago: non scrivete parole generiche, ma preferite invece frasi brevi e significative, che specifichino il contenuto della mail. Non scrivete quindi un generico Idee, ma Idea nuova brochure. Non scrivete un vago Invio, ma aggiungete altre informazioni come, ad esempio, Invio capitolo 2 corretto.
lì testo • La formula iniziale varia, ovviamente, a seconda del contenuto della mail. Se la comunicazione è formale, si deve dare del "lei" al destinatario e iniziare come in una lettera formale con un Gentile professoressa, Gentile assessore. Meglio evitare sia Egregio (troppo formale per l'email) sia la "maiuscola reverenziale" ormai in disuso anche nelle lettere formali (mi permetta di ringraziarla per il Suo gentile interessamento). Possiamo anche usare CaroICara seguito dal nome invece che dal cognome (pur continuando a dare del "lei"). • Il testo della mail deve essere breve. Nessuno ha più tempo né voglia di leggere mail troppo lunghe e prolisse. Per questo è preferibile scrivere subito, senza troppi preamboli, l'argomento principale della vostra comunicazione. • Se gli argomenti sono più di uno è bene usare gli elenchi (puntati o numerati), ricordando che grassetto e corsivo non sempre compaiono nelle mail del vostro ricevente, meglio quindi usare dei titoli a lettere maiuscole. • Suddividete sempre i paragrafi con una riga bianca (non con il rientro, che crea un disordine visivo e risulta meno leggibile al monitor). • Usare le citazioni, ma senza esagerare. Il copia-incolla ci permette infatti di riprendere parti delle mail ricevute per commentarle via via o per rispondere a eventuali domande. Si chiamano "citazioni" e possono essere uno strumento molto pratico, ma da usare con cautela per non creare troppa confusione.
Possiamo scrivere a una persona sola o a una mailing list, ovvero a una lista di destinatari. Se decidiamo di scrivere a una lista di destinatari occorre ricordare che è buona norma non rendere visibili i loro indirizzi. Non tutti, infatti, hanno piacere che il proprio indirizzo e-mail venga diffuso ai quattro venti.
• Non concludete con le formule tradizionali delle lettere formali come In attesa di un Suo gentile riscontro, cogliamo l'occasione per inviarLe i nostri migliori saluti. Una chiusura semplice come Cordiali saluti 0, se siete in confidenza, Ciao oppure A presto vanno benissimo.
L'oggetto
La firma
Lo spazio Oggetto, nella posta elettronica, è di fondamentale importanza. Va riempito con intelligenza se volete che il destinatario legga la vostra mail.
La firma va sempre messa. • Se si tratta di un'email di lavoro, potete anche usare la firma digitale.
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L'importante è poi aggiungere indirizzo e recapiti telefonici. Sono da evitare i titoli accademici (niente dott., prof, ecc.): bastano nome, cognome e qua-' litica. Non dimenticate di inserire anche l'indirizzo web del sito aziendale o del vostro sito personale. Se il messaggio è di tipo personale, potete firmare con il nome e basta.
Lo stile
UN PIZZICO DI STILE
L'email ci permette di usare un linguaggio meno formale e più vicino alla lingua parlata, ciò non significa, però, che possiamo scrivere come parliamo senza rispettare le regole ortografiche o la sintassi della lingua italiana. Lo stile deve comunque essere attento, anche se meno formale che in una lettera tradizionale. Le parole e la sintassi sono, infatti, l'unica vera forza dell'email.
I
L'interattività
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La posta elettronica permette ciò che con una lettera tradizionale non si sarebbe mai potuto fare: i collegamenti interattivi. Nelle mail si possono inserire infatti i link che collegano la nostra mail ad altri siti o alla pagina del proprio sito internet. È bene sfruttare questa potenzialità per evitare di appesantire o allungare eccessivamente il testo della mail con inutili citazioni che invece il lettore può ritrovare velocemente, grazie a un click, alla loro fonte originale. figura! ta A nota come Quest'ultima Un'email Ecco *e ® « controllare rileggere verificare questo controllare una alcuni sempre tutte mail, Ciòpunto con vale con consigli l'indirizzo procedono lel'impaginazione; eparte errori glinon anche attenzione; comunicazioni potete allegati, èci ortografici per laper rende del premere con più evitare aprendoli le ola trascurata dei mail più rilettura odi destinatari. scritte, interessanti, INVIA. diinviare carattere battitura perin eha verificare ilassoluto. delle controllo bisogno personale: anzi... non email che viPochissimi, ortografico. di farà "trasandate": siano una l'errore farequelli revisione certo una Anche ortografico giusti; volta unal'email, finale. scritbella si
Rileggere e controllare "
Se scrìviamo per farci capire... Vale per la lingua parlata come per quella scritta. Ci sono tanti modi di parlare e tanti modi di scrivere: l'importante è saper usare uno stile che sia corretto e adeguato alla situazione nella quale ci cimentiamo con una qualche forma di comunicazione. Non dobbiamo dimenticare, in ogni caso, che è fondamentale scrivere con l'idea di farsi capire. Partendo da questo presupposto, semplice e umile, possiamo seguire le tracce che ci condurranno alla costruzione di messaggi chiari e leggibili, anche se destinati a interlocutori e a scopi differenti. Questo discorso vale per chiunque scriva per comunicare. La trasmissione di informazioni avviene attraverso mezzi e modalità molto diverse tra loro e tutte hanno una loro dignità sia che si scriva un articolo di giornale o una relazione tecnica sia che si tratti di un messaggio personale, un sms o una frase per la bacheca di Facebook. La rivoluzione sociale e culturale introdotta prima dai cellulari, con gli sms, e ora dai social network ha infatti avvicinato alla scrittura sempre più persone, anche quelle che, in altri tempi, forse non avrebbero usato la parola scritta con cadenza quotidiana, come accade, per esempio, alle persone che si ritrovano (scrivendo!) su Facebook o digitando messaggi sui propri cellulari. Anche (e soprattutto) per questo tipo di scrittura, cui molti rimproverano sciatteria e incuranza delle regole ortografiche, c'è bisogno forse di rimettere un po' le cose in ordine, senza togliere spontaneità e libertà al mezzo espressivo, ma anzi per invogliare chi scrive a rendere le parole più efficaci e attraenti con un... pizzico di stile!
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Farsi capire Quando scriviamo un testo di solito lo facciamo per comunicare qualcosa, sia esso un testo formale sia informale: un articolo di giornale, una lettera ai genitori della classe di nostro figlio, una comunicazione ai condòmini, un foglietto illustrativo, un biglietto di scuse alla nostra migliore amica, un testo di grammatica italiana. In tutti i casi l'obiettivo principale dovrebbe essere sempre quello di farsi capire, di essere leggibili, di essere comprensibili e accessibili ai destinatari del nostro testo. Un testo, di qualsiasi genere, per essere efficace, deve quindi tenere conto: • del destinatario (a chi è indirizzato il nostro testo?); • del contenuto (che cosa voglio comunicare?); • dell'obiettivo che si vuole raggiungere (perché sto scrivendo?). Inutile dire che queste tre semplici regole vengono spesso disattese a discapito di leggibilità e accessibilità del testo scritto. Va detto che non esiste un modello unico per la redazione di testi comprensibili e leggibili. È ovvio che il modo in cui si imposta e si scrive un testo dipende dalle caratteristiche dei destinatari, che saranno diverse a seconda delle diverse esigenze comunicative. I consigli che di seguito vi proponiamo sono una buona base per redigere un testo chiaro, preciso e conciso. Aggiungo uno spunto di riflessione: la chiarezza e la semplicità, nella comunicazione, sono efficaci, economiche ma, soprattutto, sono democratiche.
Lo stile
Perché i testi risultino leggibili devono essere semplici, ordinati, essenziali.' Per una comunicazione efficace lo stile deve quindi essere chiaro e preciso. Ogni parola, ogni verbo, ogni aggettivo hanno un significato (o più significati): va ricercato quello che più corrisponde al nostro pensiero. E, se non lo troviamo, possiamo sfogliare un dizionario dei sinonimi e dei contrari o scartabellare un vocabolario della lingua italiana: quante belle sorprese ci riservano! La professoressa Piemontese ci suggerisce di "scrivere come si parla", che non significa usare il parlato - con le sue libertà e le sue anarchie grammaticali come modello linguistico, quanto piuttosto di scegliere la soluzione espressiva più semplice, che però sia in grado di esprimere la verità del nostro pensiero in modo preciso e scrupoloso. Come ci avverte sempre Piemontese, la semplicità non deve necessariamente essere un'alternativa alla precisione: possono benissimo convivere e dare frutti inaspettati.
La struttura
Per approfondire Sono tutte indicazioni di buon senso, ma si sa, a volte il buon senso sembra essere la strada meno attraente. Per chi volesse approfondire, rimando al testo di Emanuela Piemontese, Capire e farsi capire, che è stato per me una grande occasione di studio e di riflessione.
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Prima di impugnare la penna o il mouse bisogna fare ordine nelle proprie idee e in seguito organizzarle in frasi comprensibili, cioè scritte in un modo tale che i destinatari dei nostri testi possano capire. Noi scriviamo per comunicare con gli altri o per spiegare o per convincere: "gli altri" sono più importanti del nostro esercizio di "bella scrittura". Non scriviamo per impressionare: gli altri sono il nostro interlocutore principale. Ci sono autori che amano scrivere in modo raffinato e ricercato, ma quando li leggiamo ci rendiamo conto che sono auto-referenziali, che non hanno scritto per noi o per un tipo di lettore specifico, ma solo per potersi rileggere e dirsi: come sono bravo!
La struttura del testo deve sempre essere pianificata e organizzata. Funziona anche un'organizzazione minima, l'importante è costruire la classica "scaletta", tenendo presente quali devono essere i contenuti, gli obiettivi e i destinatari. Dalla scaletta di base si può poi realizzare una struttura più articolata, fino all'individuazione del contenuto di ciascun paragrafo e di ciascun capoverso.
_____ ____ —- J Il lessico
Pensare prima di scrivere
Per scrivere chiaramente bisogna pensare chiaramente: sembra una banalità, ma di fatto nella produzione scritta a volte si ha l'impressione che dietro a frasi complicate, parole ambigue e sintassi contorta ci sia in realtà un'assenza di idee chiare e ordinate.
Le parole devono essere preferibilmente di uso comune e, possibilmente, italiane: non occorre abbellire i nostri testi con un sovrappiù di parole straniere, possiamo benissimo dire, in ottimo italiano, riunione per meeting, tendenza per trend, direttore del progetto per project manager. È meglio evitare le parole non comuni come i termini arcaici, i termini letterari o rari, dei quali a volte noi stessi non conosciamo bene il significato e di cui non padroneggiamo l'uso.
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Quando usiamo un termine tecnico o una parola straniera di uso non comune, è sempre bene accompagnarla con una spiegazione, così da mettere i nostri lettori in condizione di capirla e magari dì impararla e saperla usare a loro volta. Per questo è sempre consigliabile aggiungere l'accento grafico alle parole che non si usano frequentemente o che possono fare incorrere in errori di pronuncia (metàfora, rubrìca, carisma, metonìmìa ecc.). Conviene evitare le metàfore logore, i cosiddetti "luoghi comuni" (bianco come la neve, duro come il marmo ecc.) ma anche le espressioni stereotipate che arrivano, a frotte, dal mondo della politica o della stampa (mettere le mani nelle tasche degli italiani, scendere in campo ecc.). Conviene anche evitare la metonimia (vedi Cap. 7. Un po'dì retorica): meglio andare incontro a ripetizioni piuttosto che affidarsi a giri di parole che non tutti possono capire (l'inquilino della Casa Bianca per Barack Obama oppure l'Obama bianco per Nichi Vendola ecc.). Le abbreviazioni e le sigle vanno sempre accompagnate dalla spiegazione e, quando sono in lingua inglese, è bene aggiungere anche una traduzione in italiano, come per esempio si fa correttamente in questo articolo: Questo l'avviso della FDA (Food and Drug Administration, l'ente USA per il controllo dei farmaci) che all'Acqua miracolosa sta dedicando un'indagine ancora in corso. oppure: La statunitense Food and Drug Administration (Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali, abbreviato in FDA) ha definitivamente approvato, il 28febbraio scorso, un farmaco per il trattamento della broncopneumopatia.
La sintassi
La sintassi, ovvero l'organizzazione della frase, dovrebbe essere semplice. Le frasi brevi e concise. Se non si è sicuri di come funzionano certe subordinate, se per esempio reggono 0 meno il congiuntivo o se le congiunzioni che usiamo sono corrette, è sempre meglio usare la tecnica della coordinazione ovvero di affiancare le proposizioni tramite una congiunzione coordinativa (infatti, benché, perciò, quindi) oppure fare due frasi brevi divise dal punto fermo. Per quanto fosse ancora troppo presto, decise di andarsene. Decise di andarsene, benché fosse ancora troppo presto. Era ancora troppo presto, ma decise di andarsene. Era ancora troppo presto. Decise di andarsene comunque. Ovviamente non si dice, qui, di non usare più una sintassi complessa, magari più ricercata, linguisticamente più elaborata. È ovvio che la scrittura deve essere personale, seguire il gusto e lo stile individuale per risultare come la sincera espressione di ciascuno. Il suggerimento è di partire sempre con delle
scelte di semplicità e di brevità, come potrebbero essere l'uso della forma attiva al posto di quella passiva o della forma personale in luogo della costruzione impersonale, soprattutto nei casi in cui non siamo completamente sicuri delle norme sintattiche che regolano la nostra lingua. Ad esempio, alla seguente frase in forma passiva: l'esecuzione dei lavori deve essere effettuata dalla ditta XX entro il 2012 si preferirà la forma attiva, più chiara e diretta: la ditta XX deve eseguire i lavori entro il 2012.
La revisione
Questa fase è sicuramente la più trascurata al giorno d'oggi. Forse, accanto al movimento slowfood sarebbe utile promuovere anche un movimento per lo slow writing, in difesa dello scrivere con lentezza. La scrittura ha bisogno di tempo. Tempo per pensare, tempo per pianificare, tempo per trovare le parole e anche tempo per correggere. Un testo scritto ha bisogno di essere riletto più di una volta. Anzi, dopo la prima rilettura andrebbe lasciato "decantare", come il buon vino, e poi ripreso a mente distaccata. Solo allora potremo renderci conto se davvero abbiamo dato una risposta sincera alle tre regole (destinatario, contenuto e obiettivo) e se le parole, organizzate nelle frasi, sono in grado di rendere la chiarezza dei nostri pensieri.
11 "burocratese
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Recentemente ho ricevuto una lettera da un ufficio di polizia municipale: "Comunico che il verbale in oggetto risulta regolarmente oblato nei termini [...]". Voce del verbo oblare, che però non esiste. Ma esiste un sostantivo, oblazione, che indica l'avvenuto pagamento di una contravvenzione e il suo verbo oblazionare, che in parole semplici significa'pagare una contravvenzione'. Ho intuito, dunque, che all'ufficio in questione la contravvenzione risultava da me regolarmente pagata. Il "burocratese" è un linguaggio veramente antipatico, che risulta incomprensibile proprio a chi dovrebbe esserne il destinatario: i cittadini. Per molto tempo si è pensato che il linguaggio burocratico fosse un linguaggio tecnico, e come tale dovesse la sua scarsa comprensibilità al bisogno di esprimere concetti specifici e complessi. In realtà il linguaggio burocratico è un linguaggio "artificiale", che usa un elevato numero di parole non comuni e spesso arcaiche, che è caratterizzato da una sintassi complessa, piena di incisi e di frasi subordinate e relative, e che è eccessivamente formale e incapace di trovare una sua autonomia rispetto al linguaggio legislativo. Ecco solo alcuni esempi di linguaggio burocratico (ma ce ne sarebbero centinaia) con la rispettiva "traduzione" in italiano corrente: atteso che = premesso che conferire = dare corresponsione - pagamento in raccordo per = in collaborazione con processo selettivo = concorso apporre la firma = firmare effettuare il versamento = pagare il locale sito in = l'appartamento che si trova in Il problema della semplificazione del linguaggio burocratico è un tema molto sentito da tutti coloro che credono nella necessità di una modernizzazione della Pubblica Amministrazione, che per essere davvero accessibile, semplice e vicina al cittadino, deve per forza partire "dal basso" ossia dalle parole. Nel 1993 l'allora ministro per la Funzione pubblica Sabino Cassese aveva già proposto una specie di "manuale di stile" destinato a tutti gli amministratori pubblici. Da allora, tanto da parte dell'amministrazione centrale quanto da quelle locali (non tutte) sono partite numerose iniziative vòlte a fornire ai propri dipendenti degli strumenti pratici e concreti per scrivere con chiarez-
za, semplicità e precisione. Continua a sopravvivere, però, il mondo oscuro e nebbioso del "burocratese" con delibere, testi per ammissioni a concorsi e risposte a reclami dei cittadini ancora indecifrabili o imprecisi, che mostrano la lontananza esistente tra il linguaggio amministrativo, che dovrebbe informare e comunicare, e i cittadini, a cui le comunicazioni sono destinate.
Trenta regole Partendo da questa premessa, la Cattedra di Linguistica italiana dell'Università di Padova ha promosso, già dalla fine degli anni '90, una serie di attività didattiche, di ricerca e di intervento nel campo della semplificazione del linguaggio amministrativo. I materiali prodotti nell'attività di ricerca e nelle sue applicazioni sul campo hanno dato vita, tra l'altro, alle 30 Regole per scrivere testi amministrativi chiari di Michele Corteìazzo e Federica Pellegrino. Si tratta di un promemoria/prontuario che contiene trenta suggerimenti pratici per regolamentare le operazioni generali su cui si dovrebbe basare la scelta di un linguaggio amministrativo chiaro e preciso: individuare il destinatario, costruire il testo (anche dal punto di vista grafico), fare le scelte sintattiche e lessicali più adeguate e verificare il lavoro svolto. Come dice il professor Corteìazzo, "scrivere un testo è un'operazione complessa, che pone di volta in volta problemi diversi e può dar luogo a soluzioni diverse, tutte accettabili". Bisogna però saper scegliere le soluzioni più adatte alle esigenze comunicative, tenendo sempre presente il destinatario della comunicazione, che, specialmente per il linguaggio amministrativo, appartiene ai livelli culturali e linguistici più disparati. Occorre dunque evitare di percorrere le strade antiquate del linguaggio burocratico e applicare le regole di semplificazione e trasparenza che tutti stanno richiedendo a gran voce.
Si può cominciare da subito, mettendo in pratica queste trenta regole d'oro. 1. Identificate il destinatario. 2. Scegliete le informazioni giuste. 3. Organizzate le informazioni. 4. Tenete unito il testo. 5. Formulate titoli utili al destinatario. 6. Gestite con attenzione le informazioni di contorno. 7. Richiamate altri testi senza complicare la lettura. 8. Date respiro a quello che scrivete. 9. Trovate la forma di allineamento più adatta. 10. Scegliete i caratteri giusti. n. Date il giusto rilievo alle informazioni che contano. 12. Controllate la lunghezza delle frasi. 13. Fate corrispondere frasi e informazioni. 14. Limitate le subordinate. 15 Limitate le proposizioni implicite. 16. Limitate gli incisi. 17. Preferite le frasi affermative. 18. Preferite la forma attiva. 19. Evitate l'impersonale. 20. Evitate le nominalizzazioni. 21. Esprimete il soggetto. 22. Preferite i tempi e i modi verbali di più largo uso. 23. Preferite preposizioni e congiunzioni semplici. 24. Usate tecnicismi solo quando sono necessari. 25. Evitate gli stereotipi. 26. Usate parole comuni. 27. Usate parole concrete. 28. Usate parole dirette. 29. Limitate l'uso di sigle. 30. Controllate la leggibilità. (da http://www.maldura.unipd.it/buro/trentaregole.html)
Gli autori Michele Cortelazzo è Professore ordinario per il Settore Scientifico-Disciplinare (Linguistica italiana) nella facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Padova. Il nucleo delle sue ricerche riguarda l'italiano contemporaneo e le lingue speciali (linguaggio medico, linguaggio scientifico, linguaggio giuridico). Negli ultimi anni si è occupato in particolare di semplificazione del linguaggio amministrativo (con un'ampia attività di ricerca, consulenza e formazione) e di linguaggio istituzionale-politico. Federica Pellegrino, logopedista, è autrice di numerose pubblicazioni sulla semplificazione del linguaggio burocratico.
Linguaggio burocratico e "mascalzonate" La semplicità e la chiarezza come punto di partenza del linguaggio amministrativo non servono soltanto a renderlo leggibile e comprensibile. Esse dovrebbero garantire onestà di pensiero e parità di diritti. Come dice Gustavo Zagrebelsky, già Presidente Emerito della Corte Costituzionale, che di parole se ne intende, dal momento che, nella vita, si occupa di quelle che sono alla base della nostra democrazia, la Costituzione, «le parole non devono essere ingannatrici, affinché il dialogo sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con parole». Per completare questo pensiero, aggiungo un illuminante scritto di Claudio Magris. Le sue parole ci illuminano, con la sua consueta maestrìa, su che cosa significhi, anche in termini sociali e morali, semplificare il linguaggio della burocrazia: La correttezza delia lingua è la premessa della chiarezza morale e dell'onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia la grammatica e la sintassi e si mette il soggetto all'accusativo 0 il complemento oggetto al nominativo, ingarbugliando le carte e scambiando i ruoli tra vittime e colpevoli, alterando l'ordine delle cose e attribuendo eventi a cause o a promotori diversi da quelli effettivi, abolendo distinzioni e gerarchie in una truffaldina ammucchiata di concetti e sentimenti, deformando la verità. (Claudio Magris, Microcosmi, citato in Linguaggio amministrativo chiaro e semplice).
La lingua nel web Sessanta secondi: in un solo minuto, nel mondo, vengono inviate 168 milioni di email e 1600 blogger aggiungono un post nei loro blog; anche i social network fanno registrare numeri che fino a pochi anni fa erano inconcepibili: oltre 500 milioni di utenti su Facebook in 60 secondi scrivono 510 mila commenti, mentre suTwitter i fanatici del social networking scrivono almeno 98 mila volte. (Fonte Go.Globe.com, 2011) Ce sempre chi dice che internet è la tomba dell'italiano. I dati invece ci dovrebbero far riflettere su un punto molto interessante: proprio nel web tante persone hanno cominciato a riappropriarsi della scrittura; giovani e meno giovani, che altrimenti non avrebbero mai preso la penna in mano, si ritrovano ora a esprimere i loro pensieri, più 0 meno elaborati, più 0 meno corretti, e a pubblicarli in rete. Sono utenti molto diversi tra loro, accomunati dall'uso della lingua scritta: scrivono testi destinati a blog personali oppure testi ufficiali per il sito aziendale; redigono articoli per la stampa online 0 risposte a quesiti di lettori curiosi e voraci; scrivono con maniacale perseveranza negli spazi personali dei social network e commentano senza sosta immagini, video, articoli e pensieri altrui. È la lingua del web, e sempre di lingua scritta si tratta, anche se la scrittura per il web è certamente un po' diversa da quella destinata alla carta stampata. In che modo? La prima risposta è legata alla modalità di lettura dei testi nel web.
Leggere e scrivere sul web Partiamo dalla lettura. Quasi tutti gli studiosi concordano nel dire che la lettura dei testi scritti per la rete è differente dalla lettura di una pagina stampata: è più veloce, ma anche più frammentaria. Viene chiamata "lettura a scansione" proprio per dare l'idea di un tipo di lettura simile a quella di uno scanner ('dispositivo ottico collegato a un computer, per la rilevazione di immagini e testi in formati suscettibili di successive decodificazioni ed elaborazioni'). Questo tipo di lettura è certamente più difficile e più disordinata, innanzitutto perché viene fatta a partire da uno schermo (il monitor di un computer) e poi perché l'ipertestuaìità porta il lettore a "saltare" spesso da un argomento all'altro, da un sito all'altro, da un media all'altro. L'attenzione del lettore va dunque catturata tramite espedienti stilistici diversi rispetto a quelli che conosciamo bene, e che funzionano per i testi destinati alla carta stampata. Non è necessario "cambiare linguaggio", que-
sto no, ma è bene seguire qualche accorgimento stilistico che ci aiuti a essere dei veri "scrittori della rete".
La forma del testo
Alcuni studi, condotti sulle modalità d'approccio degli utenti al web, hanno dimostrato che il web, al contrario di altri media, è principalmente un mezzo "da leggere". Il testo è ancora considerato, dagli utenti, la parte più interessante di tutto l'universo scintillante presente in rete (grafiche accattivanti, video, animazioni). Il tipo di lettura, come abbiamo detto precedentemente, è però molto diverso da quello al quale siamo abituati, e per questo nel web grafica e contenuto vanno considerati un tutt'uno indivisibile. La lettura di una pagina web avviene in due tempi: prima di tutto il lettore dà una rapida occhiata a tutta la pagina, annotando dentro di sé quei segni, quelle parole e quelle frasi che hanno attirato la sua attenzione. In un secondo tempo andrà a leggersi i contenuti dei testi proprio a partire da dove la sua attenzione è stata catturata. In genere, da lettori, non ci si sofferma a lungo sulle pagine web: a volte siti interessantissimi e con contenuti davvero approfonditi non attirano la nostra attenzione solo per il fatto di non essere stati scritti per il web. La trasposizione pedissequa dì un testo pensato per la carta stampata in uno spazio web raramente funziona: la presenza o l'assenza di alcuni dettagli può rivelarsi decisiva per catturare 0 allontanare l'attenzione.
Consigli per gii scrittori delia rete Ecco qualche piccolo suggerimento per chi scrive nel web: • Innanzitutto una prima regola: il lettore del web non dovrebbe mai trovarsi di fronte un testo scritto fitto fitto (magari anche con caratteri piccolissimi) che non abbia nessuna indicazione, nessuna "segnaletica" appropriata o alcunché di invitante che lo invogli alla lettura. Se il testo è lungo e articolato, è consigliabile suddividerlo in sezioni e sottosezioni provviste di titoli che ne riassumano i contenuti. • I titoli sono ancora più importanti che non nei testi destinati alla carta stampata. Al titolo va aggiunto un sottotitolo che riassume sinteticamente il contenuto del testo sottostante. I titoli non devono essere "a effetto" come spesso accade per le testate giornalistiche: è meglio evitare giochi di parole 0 allusioni ambigue. Conviene sempre che titoli e sottotitoli siano chiari, essenziali, ricchi di parole-chiave e che contengano tutte le informazioni necessarie ad attirare l'attenzione del lettore.
• La sintassi deve essere semplice e piana. Si consigliano frasi brevi, così come i paragrafi. Si devono limitare gli incisi (le frasi racchiuse tra due virgole) e possibilmente utilizzare poche subordinate, ovvero poche proposizioni dipendenti rette da congiunzioni come benché, bensì, affinché ecc. È consigliabile invece usare la tecnica della coordinazione, che consiste nel l'affiancare le frasi tramite una congiunzione coordinativa (e, o, ma ecc.) oppure separarle con un punto fermo.
causa della riduzione di incisi, delle proposizioni parentetiche e delle subordinate. Dario Voltolini, nelle sue indicazioni sull'uso della punteggiatura in rete, ci fa notare: «Se state mettendo la terza virgola all'interno di un periodo, allarme. Rileggete il periodo che state scrivendo e valutate se la virgola vi serve davvero per rendere più chiara e facile la lettura, oppure se vi state imbarcando in un periodo lungo e arzigogolato».
• Il corsivo può essere usato per le citazioni, i sommari o per i termini tecnici, le parole straniere poco conosciute o per gli acronimi (vedi Cap. 3. Le sigìe e gii acronimi).
• L'ultimo passo, prima di pubblicare un testo nel web (anche i più brevi, anche i messaggi sulle chat o su Skype) è la revisione. Leggere, rileggere e correggere sono il fondamento per qualsiasi tipo di scrittura: gli errori ortografici e grammaticali fanno sempre una pessima impressione, anche sul web!
• Il grassetto va usato con grande cautela: il suo uso connota una parola come "importante" per la comprensione del testo. Si impiega per attirare l'attenzione del lettore e anche quella dei motori di ricerca, che utilizzano le parole in grassetto come parole-chiave che riassumono il contenuto di una pagina. • Non usare mai il sottolineato: sul web si sottolineano soltanto i link. In tutti gli altri casi va sempre evitato in quanto può generare confusione proprio perché è ormai associato al meccanismo di collegamento ipertestuale. • Le maiuscole si usano solo quando sono strettamente necessarie: per scrivere i titoli e, ovviamente, per le iniziali dei nomi propri. Per i titoli è in realtà spesso preferibile il maiuscoìetto. Non si scrive mai una parola 0 una frase tutta in maiuscolo: equivale a "urlare" ma soprattutto è graficamente molto sgradevole. • L'ipertesto nel web è fondamentale: consiste nell'insieme di documenti messi in collegamento tra di loro tramite parole chiave che permettono di passare da uno all'altro. L'ipertesto consente una lettura molto più ampia di quella lineare "tradizionale", poiché rende innumerevoli i percorsi di lettura. • I link (in italiano: collegamenti) sono i collegamenti che rendono possibile l'ipertesto. Consentono a chi scrive (e a chi legge) di evitare citazioni e rimandi che potrebbero appesantire il testo. Cliccando sul link siamo infatti automaticamente indirizzati a documenti diversi, interni al sito stesso oppure a una pagina di un altro sito.
fi web è una palestra In conclusione: il web può risultare un'ottima palestra di scrittura. Se per molti la semplificazione della lingua sul web è sinonimo di "barbarie e perdita della lingua", per un numero straordinariamente alto di utenti si rivela invece uno strumento per imparare a esprimersi in maniera chiara, semplice e corretta. Chi scrive in rete ha accesso a siti che trattano di grammatica e ortografia, a forum sulle regole stilistiche per la scrittura online, a manuali e prontuari di redazione che probabilmente, altrimenti, non avrebbe mai consultato.
• Elenchi e tabelle sono molto utili: contribuiscono a facilitare la lettura, ordinano i dati e rendono più movimentato il testo. • La punteggiatura sul web è molto importante. Il punto fermo la fa da padrone: lo stile conciso e le frasi brevi lo richiedono. Il punto e virgola è praticamente da dimenticare. La virgola deve essere usata con moderazione a
I blog (diari d'autore in rete) sono diventati 70 milioni nel mondo in soli quattro anni: in Italia i blog attivi sono circa 350.000. Facebook, uno dei social network più frequentati, a sette anni dalla nascita si avvia verso il miliardo di utenti nel mondo.- in Italia navigano in rete circa 30 milioni di individui.
Tempo di "netiquette"
so anche per la vista. Sembra una regola da poco, ma quanti di noi si sentono disturbati da valanghe di messaggi, post, sms scritti tutti rigorosamente con le lettere maiuscole?
Netiquette, o NETiquette, è uria contrazione della parola inglese Net (rete) e della parola francese étiquette (galateo): indica dunque il galateo in rete.
Scegliere bene il titolo: quando si partecipa a gruppi di discussione il titolo (o oggetto o subject, in inglese) deve rispettare il contenuto del nostro intervento e fungere da filo conduttore nella discussione. Il titolo è importante anche nelle email e nella posta ordinaria (vedi Cap. 6. La lettera formale e L'email) perché permette a chi riceve il messaggio di identificare immediatamente l'argomento. Risulta molto utile anche per l'archiviazione dei dati, propri e altrui.
Il nome ben si addice a questa raccolta di indicazioni e suggerimenti che dovrebbero aiutare a regolamentare la vita online. Il mondo della rete, infatti, non è governato da nessuno, è lo stesso popolo della rete che deve pensare a auto-regolamentarsi: tutto funziona bene se funziona anche il senso di responsabilità individuale. Per questo è nata la netiquette con le sue buone norme, che assomigliano molto a quelle regole di educazione che tutti (o quasi) cerchiamo di rispettare quando interagiamo con gli altri. Si tratta di regole di buon senso per una comunicazione educata: nessuno è obbligato a rispettarle ma, come per tutte le regole di "buona educazione", gentilezza e rispetto reciproco, esse aiutano a migliorare la qualità delle nostre relazioni e dei nostri interventi in rete, e ci evitano di cadere in inutili incomprensioni o in situazioni incresciose. Possiamo dunque scegliere se entrare nella rete con gentilezza ed educazione, da persone "civili", o se comportarci in modo maleducato, urlando e trattando male gli altri: sta a noi. Nel caso voleste scegliere la prima strada, ecco alcune delle principali regole della netiquette che possono esservi utili ogni volta che: - scrivete un post nella vostra o nell'altrui bacheca di un social network; - lasciate un commento nei blog che prevedono questo spazio (quasi tutti); - postate un messaggio a un quotidiano online; - partecipate a un forum o a una discussione.
Le regole delia netiquette • Entrare con educazione e gentilezza in una discussione. Equivale, in un certo senso, a bussare e chiedere "permesso": Scusate, sono Cristina, vorrei aggiungere un commento a quanto scritto finora dall'Uomo Mascherato. Inoltre, arrivando in un nuovo gruppo di discussione o in un newsgroup, è buona norma leggere i messaggi che vi circolano almeno per qualche giorno: in questo modo possiamo renderci conto di quali sono i comportamenti della comunità e di come vengono trattati gli argomenti. • Le maiuscole non vanno usate per scrivere parole o frasi intere: SCRIVERE IN LETTERE MAIUSCOLE è come "urlare": è maleducato e irrispettoso. E fastidio-
Attenzione alle citazioni (quotes, quoting, in inglese): sono un ottimo strumento per rendere più comprensibili le nostre risposte. Quando si risponde a un messaggio, è sempre pratico evidenziare (tramiteli Copia/Incolla) i passaggi rilevanti del messaggio originario, per facilitare la comprensione da parte di coloro che non lo hanno letto. Si deve evitare però di riportare l'intero messaggio originale, se non quando sia proprio necessario, per non appesantire eccessivamente le nostre comunicazioni. Essere brevi: la brevità è un dono, soprattutto negli scritti online. Gli scritti devono essere concisi ed essenziali, precisi e chiari (vedi Cap. 6. L'email). Evitare polemiche e aggressività: è meglio non gettarsi in una discussione con tono polemico o "imbracciando il fucile". Questo vale anche per i commenti ai blog e le lettere ai quotidiani: un tono deciso ma educato, uno stile conciso e lucido sono molto più efficaci di messaggi pieni di improperi e offese, che di solito nessuno legge con interesse. Fare attenzione al tono con cui scriviamo: il mondo della rete è bello perché immediato. I messaggi circolano velocemente e a volte questa immediatezza rischia di prenderci un po' la mano: usiamo toni confidenziali, facciamo delle battute, ironizziamo dimenticandoci che, allo scritto online, manca tutto l'apparato della comunicazione non verbale (la gestualità, il sorriso, lo sguardo, il tono della voce), che ci permettono quella grande libertà tipica del linguaggio parlato. Per questo servono le "faccine" o emoticon (in inglese) che si aggiungono per inserire un non verbale "sto scherzando" o "sto sorridendo". In generale cerchiamo però di usare un linguaggio che non dia àdito ad ambiguità o incomprensioni. Prima di chiedere aiuto e informazioni in un sito, cercare di capire se esistono già le risposte. Ad esempio, prima di porre un quesito grammaticale al sito La Crusca per voi, controllate che non abbiano già precedentemente risposto all'argomento. È bene leggere sempre le FAO (Frequently Asked Ouestions: le
E gradito l'abito scuro
Emoticoii Gli emoticon (pronuncia emòticon) più usati sono: :) Contentezza, sorriso/Tono scherzoso, amichevole :D Riso/Ciò che hai/ho detto è un'allegra stupidaggine Tristezza, broncio/Ciò che hai/ho detto non mi è piaciuto ;) Ammiccamento, occhiolino/Sto ironizzando, è una battuta :-P Linguaccia/Mi sa che ho appena fatto una gaffe Dall'inglese emotion(in italiano: 'emozione') e icon ('immagine'). V
J
domande più frequenti) relative all'argomento trattato prima di inviare nuove domande. • Rispettare la privacy: non pubblicare mai, senza il permesso esplicito dell'autore, il contenuto di messaggi di posta elettronica o di altri messaggi personali, e tantomeno immagini private di altre persone (pensateci bene anche prima di mettere in rete una vostra immagine!). • Pensare prima di scrivere (e di inviare). A volte l'immediatezza e la semplicità dell'essere online ci fanno dimenticare che, anche nella rete, scripta manent-, ovvero tutto rimane a imperitura memoria, della nostra imprecisione, della nostra ignoranza, della nostra stupidità... Vale sempre la pena, quindi, di pensare bene prima di scrivere un post in una discussione o nella nostra bacheca di Facebook. » Infine, un ultimo consiglio: anche se chi scrive è tenuto a migliorare il proprio linguaggio in modo da risultare comprensibile, è bene non mostrarsi intolleranti con chi commette errori sintattici o grammaticali. La penna rossa non è sempre gradita: meglio un suggerimento dato con gentilezza e una faccina sorridente, magari in privato... POTRESTI TROVARE INTERESSANTE ANCHE: Cap. 6. L'email
Non esiste un unico modo per scrivere correttamente. Esistono tanti modi di scrivere come esistono tanti modi di parlare. E ognuno di questi può essere corretto se è il "modo giusto per il momento giusto". La lingua varia, infatti, a seconda di chi sia il nostro interlocutore, di quale sia la situazione in cui ci troviamo e di quale sia l'argomento che vogliamo comunicare. La lingua cambia anche a seconda del mezzo di comunicazione che usiamo: lo scritto o il parlato, il cellulare o il web. Quando comunichiamo, e vale per la lingua scritta come per quella parlata, dobbiamo essere in grado di adattare il nostro linguaggio alla situazione (chiamata contesto) in cui avviene la comunicazione. Questo fa sì che possiamo scrivere o dire la stessa cosa in modi completamente diversi a seconda dell'ambiente sociale e culturale in cui è inserita la nostra comunicazione (scritta o parlata) e soprattutto in base alla relazione che abbiamo con il/la o i/le destinatari/e del nostro messaggio. Se siamo in confidenza con la persona a cui ci rivolgiamo, possiamo usare un tipo di linguaggio (e di scrittura) più informale; se invece ci indirizziamo a un ufficio o a un destinatario che non conosciamo, sceglieremo uno stile più asettico e formale. Ecco un esempio di messaggi che hanno più o meno lo stesso contenuto (l'impossibilità di essere presente a una cena), scritti però in contesti e a persone diverse. Lo stile, il tono, il lessico, la sintassi sono ogni volta diversi: • stasera non torno x cena... baci-baciotti :) • Caro, questa sera non tornerò a cena. Non ti dispiace, spero! • Cara Anna, sono talmente dispiaciuta di non poter essere dei vostri questa sera! Perdonatemi, ho avuto una giornata davvero difficile. Un abbraccio a tutti. • Gentile signora Bianchi, mi dispiace informarla che questa sera non mi sarà possibile essere presente alia serata in onore della nostra cara poetessa sudafricana. La prego di scusarmi soprattutto con tutte le gentili ospiti che, ne sono certa, sapranno perdonare la mia assenza motivata da una lieve indisposizione. Il livello di accuratezza delle nostre comunicazioni dipende non solo dal rapporto che ci lega al destinatario, ma anche dal mezzo (orale o scritto) con cui avviene la comunicazione. La lingua scritta presenta (o dovrebbe presentare)
Lingua e società La scienza che studia e descrive come la lingua si comporta e cambia nella società e nelle situazioni collegate alla vita sociale si chiama sociolinguistica.
un grado di accuratezza maggiore rispetto al linguaggio parlato, che è invece più spontaneo e presenta sempre (anche nei discorsi ufficiali, per esempio) peculiarità tipiche del parlato.
I registri linguistici In linguistica i diversi modi di usare la lingua, a seconda del contesto in cui siamo e del destinatario a cui è rivolto il messaggio, si chiamano registri linguistici. Il registro è costituito dal tono generale, dallo stile e dal tipo di lessico che vengono utilizzati nel discorso, sia esso scritto o parlato. I registri linguistici sono classificati in modi diversi ma, semplificando molto, possiamo suddividerli in: • registro colloquiale (o informale): è il linguaggio che usiamo tutti i giorni quando parliamo con i nostri familiari e i nostri amici, quando siamo, cioè, in situazioni informali. La lingua scritta informale presenta caratteristiche molto simili alla lingua parlata. • Registro medio. È il linguaggio che usiamo quando comunichiamo con un interlocutore con cui non abbiamo eccessiva familiarità, senza però prestare troppa attenzione alla forma. • Registro formale. È il linguaggio educato e distaccato che è richiesto quando ci rivolgiamo a un destinatario sconosciuto o con il quale, pur conoscendolo, non abbiamo alcuna intimità.
I registri linguistici non sono realtà separate nettamente tra loro. Vengono descritti infatti come un continuum, ovvero come qualcosa che non presenta confini, ma sovrapposizioni e punti di contatto, tali da rendere graduale il passaggio da uno stile all'altro. Per intenderci: quando scriviamo una comunicazione al professore di nostra figlia, ci serviamo generalmente di uno stile formale che però è certamente un po' meno formale di quello che useremmo per scrivere una lettera di reclamo all'Assessore alla Sanità. Quando poi un avvocato tiene la sua arringa in un'aula di tribunale, probabilmente si avvale di uno stile ancora più formale e ricercato. Allo stesso modo lo stile colloquiale può avere diversi gradi di "informalità", che possono andare dal linguaggio (infarcito di parole gergali e/o volgari) di un adolescente che parla tra coetanei, allo stile, sempre informale e spontaneo ma ben più sorvegliato, di un professore che "chiacchiera" con i colleghi durante la ricreazione.
» Registro alto. È il linguaggio che si usa in situazioni molto formali o ufficiali e prevede un uso di parole ricercate (anche rare) e una sintassi particolarmente complessa.
Giacca e cravatta
I registri linguistici sono un po' come gli abiti. Ci sono situazioni, nella vita, in cui siamo costretti a "vestirci come si deve". Se ci dobbiamo presentare a un colloquio di lavoro, siamo invitati a una serata importante o a un matrimonio, non possiamo indossare le nostre amate scarpe da ginnastica e i comodi jeans di tutti i giorni: dobbiamo optare per un abbigliamento più elegante e ricercato, scegliere capi più sobri, magari giacca e cravatta o addirittura lo smoking per gli uomini e le (deliziose e scomodissime) scarpe con i tacchi se siamo donne. Ecco, per il linguaggio, succede proprio la stessa cosa. Ci sono situazioni, nella vita, in cui dobbiamo essere in grado di usare uno stile più elegante e ricercato, una sintassi corretta, i congiuntivi, il passato remoto, i vocaboli giusti, un eloquio chiaro e distinto, insomma, un modo di parlare (o di scrivere) più "sorvegliato". In questi casi dal linguaggio informale che usiamo tutti i giorni con gli amici e in famiglia, dobbiamo passare al registro formale: giacca e cravatta o tailleur, tanto per capirci.
Essere competenti
Non c'è un linguaggio migliore e uno peggiore: l'importante è che ognuno di noi conosca i diversi registri e sia capace di passare dall'uno all'altro a seconda delle situazioni. La competenza linguistica è proprio questa: saper usare la lingua italiana in modo corretto a seconda del contesto. Perché possiamo passare per ignoranti se usiamo un registro colloquiale in situazioni formali, ma possiamo anche risultare molto ridicoli se ci rivolgiamo ai nostri amici, quando siamo al bar, con un registro alto o formale!
Un po' di retorica Retorica è una parola di origine greca, deriva da rhetorikè téchne e significa arte del parlar bene'. Si tratta infatti di un'arte, di una disciplina che esiste da più di duemila anni, nata in origine per insegnare a parlare e scrivere in modo efficace ed elegante, con lo scopo di persuadere gli interlocutori o i lettori: la persuasione come efficacia della comunicazione. La retorica è una specie di "grammatica del discorso" e le sue regole riguardano ad esempio l'organizzazione del discorso da un punto di vista comunicativo o il legame che collega le singole unità di contenuto di un testo. Secondo la tradizione la retorica studia infatti il discorso (scritto e parlato) ponendo un'attenzione particolare a quali debbano essere gli argomenti trattati (l'/'nventio), alla disposizione degli elementi che costituiscono la struttura del testo (la dispositio) e alla scelta e all'uso delle parole adatte (Velocutio). Nel linguaggio moderno la retorica ha acquisito una connotazione negativa ed è arrivata a significare, in modo spregiativo, l'utilizzo di un linguaggio ampolloso, ricco di orpelli e di ornamenti ma povero di contenuti. Lo stile retorico è praticamente diventato l'equivalente di stile artificioso e insincero, frutto di una decadenza di pensiero e di espressione. Pensiamo a espressioni come: per convincerli ha usato la retorica del buon pastore d'anime; non voglio essere retorico, ma vorrei aggiungere un commento; ha fatto un discorso pieno di retorica (cioè banale, scontato, falso).
Le figure retoriche La retorica intesa come 'arte del dire', per essere efficace si avvale di espedienti stilistici e comunicativi che si chiamano figure retoriche. Le figure retoriche hanno nomi difficili, derivati dal greco antico, che suonano ostici a tutti coloro che non sono degli "addetti ai lavori": quasi nessuno sa definire che cosa sia una sineddoche, una metonimia, una metafora, eppure tutti noi usiamo queste figure retoriche quotidianamente, perfino e soprattutto, nel linguaggio familiare: siamo tutti maestri di retorica, senza nemmeno saperlo! Vediamo di scoprire perché.
La similitudine
La similitudine - lo dice la parola stessa - non è altro che un paragone, un confronto tra due elementi, e viene sempre introdotta dalle espressioni: come, simile a, sembra, assomiglia, più di, cosi... come ecc.:
nAnna canta come un usignolo. • La fanciulla danzava (cosi) leggera come una farfalla. • Sei più veloce di una gazzella. e il cuor nel petto è come pesca / intatta, / tra le palpebre gli occhi / son come polle tra l'erbe, / i denti negli alveoli / son come mandorle acerbe. (Gabriele D'Annunzio, La pioggia nel pineto, vv. 104-109). • Come le pecorelle escono dal chiuso... (Dante, Purgatorio, c. Ili, vv. 79) • Un tappeto di smeraldo / sotto al cielo il monte par (Giosuè Carducci, In Carnia, vv. 3-4). Attraverso l'espediente della figura retorica della similitudine noi mettiamo in relazione due elementi, che possono essere persone, cose 0 sentimenti, situazioni ecc., e diamo vita a collegamenti che ci sono d'aiuto nella comprensione di un testo 0 di un enunciato. Questa è la differenza sottile tra similitudine e metafora, l'altra figura retorica che gioca sulla trasposizione di significato: la prima è semplice e diretta (è buono come il pane) la seconda invece funziona sull'evocazione di sensazioni e concetti (è un pezzo di pane). La similitudine è indubbiamente uno strumento comunicativo di grande efficacia: attraverso il paragone con cose o sensazioni conosciute si rendono comprensibili e alla portata di tutti concetti anche complessi. Grazie all'immediatezza di questo strumento, chi ascolta 0 legge può fare proprio il contenuto della comunicazione, utilizzando immagini della vita quotidiana o della conoscenza popolare. Dall'uso della similitudine come espediente retorico (dell'arte del parlare) si scivola facilmente nei cosiddetti "luoghi comuni": bello come il sole, buono come il pane, bianco come la neve, nero come la pece, affamato come un lupo. Si tratta di similitudini "logorate" dal tempo e dall'uso: hanno una funzione espressiva adatta al linguaggio parlato, ma da evitare in un testo scritto.
La metafora La metafora (dal greco metaphorà, che deriva dal verbo metaphéro, 'io trasporto') è una figura retorica che consiste nel trasferire il significato di una parola (0 di un'espressione) dal suo senso vero e proprio a uno figurato. Ecco alcuni esempi che chiariscono il concetto: • Il suo comportamento mi sta sullo stomaco. • Marco è un leone. • Chi semina vento raccoglie tempesta. • La Sicilia era il granaio d'Italia. • Sei un fiore. » Hanno usato il pugno di ferro. • Ha mostrato di possedere nervi d'acciaio.
Dagli esempi risulta chiaramente come nella metafora si faccia ricorso a parole (o espressioni) che hanno una relazione di somiglianza con quello di cui parliamo. Sono delle similitudini abbreviate, in quanto non ci "spiegano" il trasferimento di significato, ma agiscono sulla base della nostra esperienza e conoscenza collettiva: se dico Lorenzo è un leone, intendo dire che è forte e coraggioso come un leone. Nella metafora si dà per scontato che si sappia che i leoni sono caratterizzati da forza e coraggio. Usiamo le metafore ogni giorno, anche senza saperlo, senza accorgercene: quando diciamo quelfilm è una pizza, il mio capo è un nazista, ho un peso sul cuore inconsapevolmente usiamo la retorica (in questi casi la metafora), per rendere più convincente o comprensibile ciò che vogliamo comunicare. Come con le similitudini, nella scrittura anche le metafore andrebbero usate con cautela: se da una parte ci possono aiutare a rendere più accessibili i contenuti dei nostri messaggi, dall'altra occorre fare molta attenzione a non scivolare in un uso reiterato di metafore logore e prive di vitalità. Come diceva Aristotele, il padre della retorica greca, un bravo scrittore è colui che è in grado di creare delle metafore, di inventarle, di produrle in maniera originale. Un politico recentemente ha detto: «Amo le metafore perché sono democratiche». Effettivamente ciò corrisponde al vero, perché nel comunicare per immagini conosciute possiamo rendere possibile, a tutti, l'accesso alla conoscenza.
L'eufemismo Quando parliamo di eufemismo, intendiamo l'espediente, utilizzato nella lingua italiana parlata e scritta, con il quale sostituiamo una parola o un'espressione che ci sembra troppo diretta o realistica con un'altra parola o espressione che abbia lo stesso significato, ma decisamente attenuato. Ad esempio, nel nostro linguaggio tutto ciò che è legato alla morte è motivo di permanente eufemismo, così come tutto ciò che è relazionato alla riproduzione o al ciclo di fertilità della donna. Infatti quando una persona muore si evita in genere di usare il verbo morire, troppo diretto e doloroso, e al suo posto si usano espressioni come è mancato, si è spento, non è più tra noi, ci ha lasciato, è passato a miglior vita, se ne è andato, è tornato nella casa del Padre, è scomparso, è andato in cielo. Allo stesso modo, se una donna è incinta, si sente molto spesso dire che è in stato interessante o in dolce attesa (anche se magari sta vomitando tutte le mattine da cinque mesi). Tanto grande è il tabù associato alle mestruazioni che gli eufemismi sono molteplici e variano a seconda delle regioni di provenienza, ma tutti conoscono espressioni come ho le mie cose, il ciclo, quei giorni o il marchese.
Ecco alcuni esempi di eufemismi usati frequentemente: e donna di facili costumi oppure donnina allegra per 'prostituta'; • non è stata una passeggiata invece di dire 'è stato molto difficile e faticoso'; ® male incurabile per indicare il 'cancro'. A volte gli eufemismi servono a nascondere, in maniera diplomatica, azioni che altrimenti risulterebbero "deplorevoli" come ad esempio l'uso dell'anglicismo peace-keeping che nasconde spesso, eufemisticamente, una parola molto più pesante: guerra.
La perifrasi Anche la perifrasi è una figura retorica. Il suo nome deriva dal greco perì che significa 'intorno' e phràzo, 'dire', quindi: 'fare una frase intorno'. In parole povere è il classico 'giro di parole' o, se volete usare un termine più tecnico, una circonlocuzione. La perifrasi consiste nell'usare una sequenza di parole al posto del termine proprio per indicare una persona, una cosa o un concetto. Vediamo due esempi di perifrasi famose: 1. Siede con le vicine / su la scala a filar la vecchierella, / incontro là dove si perde il giorno; (Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio, vv. 7-8), dove là dove si perde il giorno indica 'a occidente, verso il tramonto'. 2. La gloria di colui che tutto move (Dante, Paradiso, c. I, v. 1) dove colui che tutto move indica 'Dio'. L'uso della perifrasi può rispondere a diverse esigenze: serve molto spesso per evitare inutili ripetizioni oppure, come abbiamo visto negli esempi sopra, per conferire un particolare tocco poetico a un componimento 0 a un testo. '
L'antonomasia
Antonomasia e metafora sono le due uniche parole della retorica a essere usate anche nel linguaggio comune. Ecco qualche esempio tratto dalla rete: ® il sindaco per antonomasia; • il vitigno piemontese per antonomasia; • la station-wagon per antonomasia; ® la costiera per antonomasia; • il cane per antonomasia. L'antonomasia (dal greco antonomasia, composto di anti, 'al posto di' e ónoma, 'nome') consiste in due tipi di passaggi: i. nell'indicare una persona 0 una cosa, anziché col suo nome proprio, con uno comune o con una locuzione che ne indichi una caratteristica oppure con l'appellativo derivato dal luogo di nascita: il Poeta (Dante Alighieri), il Poverello d'Assisi (San Francesco ), l'Avvocato (Gianni Agnelli), il Fuhrer (Adolf Hitler).
2.neH'attribuire a una persona, come nome comune, il nome proprio di un personaggio famoso che possedeva o possiede le stesse qualità: » è un piccolo Ercole (un bambino forzuto); • è un re Mìda (tutto ciò che tocca si trasforma in "oro", ovvero ricchezza); • è un Mecenate (protettore delle arti e degli artisti); • è una Venere (una bellezza); a è un Casanova (un donnaiolo).
La metonimia
Metonimia si pronuncia sia metonimia sia metonimia, ma la prima forma, con accento sull'ultima i è la più comune. Deriva dal greco meta, con il significato di 'trasferimento, cambiamento', e ónoma,'nome'. Consiste nel sostituire una parola con un'altra con cui sia in stretto rapporto di dipendenza (l'autore per l'opera d'arte, ad esempio). In questo modo il concetto viene espresso non dalla parola che gli corrisponderebbe, ma da un'altra, legata alla prima da un collegamento diretto o indiretto. Ecco come può avvenire questo particolare "spostamento" di significato-. • il contenitore per il contenuto: mi sono bevuto una bottiglia di vino; • l'effetto per la causa: i frutti del suo sudore; • l'autore al posto dell'opera: sto ascoltando Bach, hanno trafugato un Van Cogh; • lo strumento al posto della persona: è il primo violino del Maggio musicale; • il concreto per l'astratto: ascolta il tuo cuore; Luca ha fegato; • l'astratto per il concreto: Delia è una bellezza; qui c'è tanta gioventù, • la sede per la persona: la Casa Bianca ha espresso parere negativo; il Quirinale ha diffuso un comunicato.
La sineddoche
È molto affine alla metonimia, anzi per molti studiosi non esistono differenze tra queste due figure retoriche. Anche la sinèddoche, infatti, consiste nel trasferimento di significato da una parola a un'altra in base a una relazione di contiguità. Mentre però nella metonimia la contiguità è spaziale, temporale o causale, nella sineddoche la relazione riguarda la quantità: • la parte per il tutto: la baia è piena di vele (vele per barche); • il genere per la specie: mortali per uomini;felino per gatto; • il singolare per il plurale: all'italiano piace la buona cucina; il tedesco è fissato con l'ordine.
L'ossimoro Prima di tutto un chiarimento: ossimoro si pronuncia sia ossimoro sia ossimoro, ma la forma con l'accento sulla ; è molto più comune. Quindi, la definizio-
ne: l'ossimoro è la figura retorica che consiste nell'accostare due termini opposti e contraddittori ottenendo così un effetto paradossale. Ossimori sono: ® silenzio assordante; ® gelo ardente; o paradiso infernale; ® brivido caldo; • lucida follia; e ghiaccio bollente; e dolce tortura; e pugno di velluto. L'ossimoro si usa, molto spesso, per ottenere un effetto ironico. Se dico, per esempio, al mio vicino di casa (batterista) che adoro il dolcefrastuono con cui mi sveglia ogni domenica mattina, sto evidentemente ironizzando sul fastidio che mi provoca. Se chiamo il mio rapporto di coppia la mia prigione dorata, forse faccio dell'ironia su un rapporto un po"'soffocante". Nella composizione di un testo, la figura retorica dell'ossimoro può essere un valido espediente stilistico adatto a creare un effetto di stupore e ad attirare l'attenzione su quanto stiamo scrivendo.
La domanda retorica
La domanda retorica consiste nel porre una domanda che non è una vera richiesta di informazioni, perché si sa già quale deve essere la risposta: non ammette controversie, non presuppone una risposta contraria a quella insita nella domanda: • non è un vestito bellissimo? • non sono una donna fortunata? La risposta è, ovviamente, sempre Sì. È facile capire che in questo caso la domanda stessa suggerisce la risposta: nella domanda è già contenuto quello che è il pensiero di chi la pone. A che cosa serve allora la domanda retorica? Spesso serve a stimolare l'interazione tra due o più persone oppure a richiedere una dichiarazione esplicita da parte del nostro interlocutore. Può essere usata anche per imporre, a chi ci sta leggendo, una riflessione o un approfondimento su un determinato argomento. Se usata senza discernimento, la domanda retorica può diventare uno strumento pericoloso, soprattutto quando parliamo, perché può mettere il nostro interlocutore nella spiacevole posizione di doverci dare ragione a tutti i costi, a prescindere cioè dal suo pensiero: • Non ti sembra un giorno meraviglioso?
• Di fronte a tanta bellezza, possiamo dire che Dio non esiste? • Ti sembra il modo di rispondere?
Bibliografia
L'allegoria
L'allegoria è la figura retorica che usa un'immagine o una suggestione per esprimere un concetto. L'allegoria presuppone uno spostamento della descrizione su un piano prettamente simbolico, lontano dall'esperienza del quotidiano. A differenza della metafora, che è intuitiva e immediata, è una figura retorica molto "intellettuale": non è per tutti, perché per essere decodificata ha bisogno di un'elaborazione, di un'interpretazione fondata sullo studio e sulla conoscenza. La Divina Commedia di Dante è fonte di innumerevoli esempi di allegorie, affascinanti e misteriose, fin dall'inizio, dove il narratore si perde in una selva oscura, simboleggiante la vita impura, viziosa, oppure quando descrive le tre fiere (la lonza, il leone e la lupa) che simboleggiano le tentazioni peccaminose che turbano l'animo umano: superbia e violenza (leone), avarizia e cupidigia (lupa), lussuria (lonza).
L'iperbole
Dal greco hyperbolé che deriva dal verbo hyperbàllein,'lanciare oltre'. Questa figura retorica, che noi usiamo molto spesso quando parliamo, consiste nell'esagerare un concetto in maniera palesemente inverosimile per eccesso o per difetto: • è una vita che ti aspetto; • sto morendo di fame; • berrei un goccio d'acqua; • quel ragazzo mi fa letteralmente impazzire; • è venuto giù un oceano d'acqua.
AA.VV.,
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Indice analitico degli argomenti e delle parole incerte a
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a degli amici, 88 a delle calunnie, 88 a faccia a faccia, 137 a fianco, 94 a latere, 66 amano amano, 138 a poco a poco, 138 a posto, 94 a proposito, 94 abbaìno/abbaino, 108 abbreviazioni, 184,201,214 abbrutito/abbruttito, 133 abrogo (verbo abrogare), 108 accento acuto, 75 grafico, 76 grave, 75 su monosillabi, 90 tonico, 76 acchito/acchitto, 133 accomunare/accommunare, 133 accordo di numero tra soggetto e predicato, 158 del participio passato, 180 acronimi 186,187 acrostico, 188 acuminato/accuminato, 133 ad, 72 ad abundantiam, 67 ad maiora, 67 addirsi, 172 addosso/adosso, 133 adocchiare/addocchiare, 133 adùlo /adulo, 108 aerodromo, 74 aeronautica, 74 aeroplano, 74
aeroporto/aereoporto, 74 affatto, 118 affinché, 76 afroamericano, 124 aggettivi con quattro desinenze, 86 con tre desinenze, 87 invariabili, 87 aggradare, 172 ahimè, 76 al di là, 94 alcalìno/alcàlino, 108 alchimia/alchìmia, 110 all'incirca, 94 allegoria, 236 allora, 95 allorché, 95 almeno, 95 alopècia/alopecìa, 110 alter ego, 67 amàca/àmaca,io8 ambito, vedi omografi ammennicolo/amennicolo, 133 ammiccare/amiccare, 133 ancora, vedi omografi ancorché, 95 andare, 174,175 anderò, anderai, 175 andiedi, 175 aneddoto/annedoto, 133 anglicismi, 53 anguria, 78 annaffiatoio/anaffiatoio, 133 anòdino/anodino, 108 antitrust, 60 antonomasia, 233 anziano, 124 anzitutto/anzi tutto, 96
aprii/apersi, 152 apici, vedi virgolette appendice/appèndice, 108 appiccicare/appicicare, 133 apposta, 95 appunto, 95 aprì/aperse, 153 arabismi, 64 arancia, arance, 104 arista/arista, 108 arrabbio/arrabio, 133 arrògo/àrrogo,io8 art. (articolo), 184,185 arteriosclèrosi/arteriosclerosi, 110 articoli con i nomi stranieri, 54 con le sigle, 81 partitivi, 88 artificiere, 85 assorbe/assorbisce, 182 assolutamente, 120 assuefare, 178 attimino, 148 attrezzi/atrezzi, 133 audioblog, 49 autlnority, 60 autòdromo/autodròmo, 108 avallare/avvallare, 133 avere, 166 avv. (avvocato), 184,185 avverbi di quantità, 118 presentativi, 135 qualificativi, 137 rafforzativi, 120
b badante, 122 bagatella/bagattella, 134 bagniamo/bagnamo, 154 baùle/bàule,io8 benché, 76,95
benedicevo/benedivo, 164 benedire, 164 bensì, 95 bere, passato remoto, 156 bidè, 76 biotòpo/biòtopo, 108 bipartisan, 60 blog, 48 bloggare, 49 blogger, 48 blogghista, 49 bloggista vedi blogghista bloggistico, 49 bloggo, 48 blogosfèra, 49 blu, 91 bocciòlo/bocciolo, 108 bolscevìco/bolscèvico, 108 braccia/bracci, 93 brace, 85 braciere, 85 brevi manu, 67 briciole/bricciole, 134 budella/budelli, 93 burocratese, 216 busillis, 68 £ c'avete, 125 c'era, c'erano, 158 c'ha, 125 c'hai, 125 ca. (circa), 184 cacofonia, 72 cadùco/càduco, 108 caffè/caffé, 75 calcagna/calcagni, 93 calco strutturale, 53 caligine/caligginoso, 134 callìfugo/callifugo, 108 camicia/camicie, 104 camping, 53
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cànide/canìde, 108 cap. (capitolo), 184,185 capitolo, 15 capoverso, 14 carattere tipografico, 42 con le grazie, 42 senza grazie, 42 carcere, 85 celo (verbo celare), 85 cardinali, vedi numerali carìsma/càrisma, 108 carpe diem, 67 cartucciera, 85 caso mai/casomai, 96 casus beili, 67 cav. (cavaliere), 184 ed, 189 cd-rom, 189 ceco (della Repubblica Ceca), 85 centèllino/centellino, 108 cervella/cervelli, 93 cfr. (confronta), 185,186 che aggettivo, 128 congiunzione, 128 polivalente, 128 pronome, 128 che... 0,114 chissà, 95 ci ho, ci hai, ci abbiamo, 126 cieco, 85 cielo, 85 ciglia/cigli, 93 ciliegia, ciliegie, 104 ciò, 91 ciò, ciài, ciabbiamo 126 cioè, 130 ciononostante/ciò nonostante/ cionnonostante, 96 citazioni, 225 cj ho, cj hai, cj abbiamo, 126 cj ho, cj hai, cj abbiamo, 126 cocomero, 78 codardìa/codàrdia, 108
colf, 123 collant/collant, 108 collutorio/colluttorio, 134 còlossal/colòssal, 108 competere, vedi verbi difettivi compito, vedi omografi computer/computers, 50 con delle ragazze, 88 concernere, vedi verbi difettivi concordanza a senso, 158 conditici sine qua non/ condicio sine qua non, 67 confacente, 85 congiuntivo crisi del, 160 congiunzioni coordinative correlative, 114 conoscere, passato remoto, 156 consonanti doppie, 133 scempie, 133 contraddi cevo/contraddivo, 164 contraddire, 164 contraffare, 178 controvoglia/contro voglia, 96 coordinamento, 144 coordinazione, 144 coprì/coperse, 153 coprii/copèrsi, 152 copyright, 60 corpo a corpo, 137 corrèo/còrrèo, 110 corsivo, 40 cosicché/cosi che, 96 cosiddetto/cosi detto, 96 cosiffatto/cosi fatto, 96 cosmopolita/cosmopolita, 108 cossi, 155 crescere, passato remoto, 157 cùcùlo/cùcùlo, 109 cui prodest?, 67 cuocere, passato remoto, 156 curriculum/curricuia, 51
d eufonica, 72 d'accordo, 80,94 d'altronde, 94 da, 77 dà, 77,90,91 da principio/dapprincipio, 96 da', 91 dagherròtipo/dagherrotipo, 109 danni collaterali, 61 dappertutto/da per tutto, 96 dappoco/da poco, 96 dappresso/da presso, 96 dapprima/da prima, 96 dare passato remoto, 156 verbi irregolari, 174 data, 200 davanti, 95 davanti a, 150 davvero, 95 de cuius, 69 de facto, 69 de gustibus non est disputandum, 67 de gustibus..., 67 de iure, 69 deficiente, 85 degli, delle, 88 dell'Aquila/di LAquila/de [Aquila, 82 delocalizzare, 61 deo gratias, 67 deregulation, 60 deus ex machina, 67 devo/debbo, 162 devolution, 60 di, 77 di, 77 di fronte/difronte, 96 di sotto/disotto, 96 di', 165 diatriba/diàtriba, 110 difatti, 130 difendere, passato remoto, 157
diminutivo "di modestia", 149 "ironico", 149 "sociale", 149 dirigere, passato remoto, 157 dirimere, vedi verbi difettivi discorso diretto, 37 con le lineette, 38 con virgolette alte, 37 con virgolette basse, 37 "pensato", 39 disdicevo/disdivo, 164 dissuadére/dissuàdere, 109 dita/diti, 93 diurèsi /diùresi, 110 divenire, passato remoto, 157 divergere, vedi verbi difettivi diversamente abile, 124 do, 90,91 doccia, docce, 104 domanda retorica, 235 dopodomani, 95 doppie, vedi consonanti dormire, passato remoto, 155 dott. (dottore), 185 dovere verbo irregolare,i63 verbo servile, 168 dovunque, 95 dr. (dottor), 185,186 due punti, 24 per due volte, 25 duìcis infundo, 67 dvd, 189
è, 76,77
e, 11
è dovuto,!68 è piovuto, 170 e-mail, email, 58,208 ecc. (eccetera), 184
eccezione/ecezzione, 134 ecchimosi/ecchimosi, 109 ecco, 135 ed, 72 ed. (edizione), 184 èdema/edèma, 110 edìle/èdile, 109 edublog, 49 efficiente/efficente, 84,85 egr. (egregio), 184 election day, 60 elenchi, 45 di secondo grado, 46 stile elenco, 45 stile testo, 45 elèttrodo/elettrodo, 109 elèvo/èlevo, no elisione, 106 email, vedi e-mail emicrània/emicrania, 109 emorragia/emoraggia, 134 emoticon, 226 entusiasta/entusiasto, 86 enurèsi/enùresi, 109 errata corrige/errata corrige, 109 esimere, vedi verbi difettivi espellere, passato remoto, 156 esplèto/èspleto, 109 essere, 166 eufemismo, eufemismi, 124,232 eufonia, 72 èureka/eurèka, 109 ex abrupto, 67 ex aequo, 67 ex cathedra, 67 ex novo, 68
f
244
f.lli (fratelli), 184 fa, 91 fa', 91 faccia a faccia, 137
faccio, 179 facente, 85 fare, 174 farìngèo/faringeo, 109 farsi capire, 212 fig. (figura), 185 figure retoriche, 230 allegoria, 236 antonomasia, 233 domanda retorica, 235 eufemismo, 232 iperbole, 236 metafora, 231 metonimia, 234 ossimoro, 235 perifrasi, 233 similitudine, 230 sineddoche, 234 finché, 95 finora, 95 flògosi/flogòsi.iio fo, vedi faccio font, vedi carattere tipografico forbice, forbici, 92 forestierismi in politica, 60 nella lingua quotidiana, 62 formaggiera, 85 fortùito/fortuito, 109 frase esclamativa, 26 interrogativa, 26 fu, 91 fuliggine/fuligine, 134 fuoco amico, 61
g gay, 124 genere delle parole straniere, 58 gent.mo (gentilissimo), 184 geom. (geometra), 184
geosinonimi, 78 già, 91 giacché, 95 gialloblù, 91 gilè, 76 ginocchia/ginocchi, 93 giù, 91 gli/a loro, 116 gli/le, 116 globalizzazione, 61 gòmena/gomèna, 109 governo ombra, 61 grassetto, 40 grassetto corsivo, 41 gratis/a gratis, 139 gratùito/gratuito, 109 grigia, grigie, 104 guaìna/guàina, 109
»
incombere, vedi verbi difettivi indecente, 85 indecenza, 95,130 infatti/difatti, 130 infido/infido, 109 ing. (ingegnere), 184,185 innescare, 144 innestare, 144 innocente, 85 inoltre, 95 inspirare, 145 intellegibile/inteleggibile, 134 interattività, 210 ìnternet/internèt, 109 intèrseco/intersèco, 109 intervenire, passato remoto, 157 intimo/intimo, 109 invano, 95 invero, 95 io constàto/io constato, 110 io e te, 140 io e tu, 140 io vado, 174 iperbole, 236 ipertesto, 222 isiàm/islam, 109 isòtopi/isotòpi, 109 ispirare, 145
1
itangliano, 70
h
ha dovuto, 168 ha piovuto, 170 ha riflesso, 171 ha riflettuto, 171 habemus papam, 68
ìlare/ilàre, 109 ill.mo (illustrissimo), 184 imbacuccarsi /imbaccuccarsi, 134 imbruttito/imbrutito, 133 ìmpari/impari, 109,111 (vedi anche omografi) impeachment, 60 impersonare, 145 impersonificare, 145 in medias res, 68 in medio stat virtus, 68 in toto, 69 incàvo/incavo, 109,110
j
j/J, vedi lettere straniere k k/K, vedi lettere straniere 1 l'altr'anno, 94
la, 77 là, 77
la ministra, 142 laggiù, 95 lassù, 91 latinismi, 66 latinorum, 66 le/gli, n 6 leccornìa/leccornia, 109 leggere, passato remoto, 157 lenzuola/lenzuoli, 93 lettera formale, 202 informale, 207 lettere maiuscole, 190 minuscole, 190 lettere straniere, 56 l'articolo con le, 54
maiuscole, 190 maledire, 164 mancia, mance, 104 manodopera/mano d'opera, 96 mass media, 51 megera, 85 metafora, 231 metonimia, 234 mezz'ora/mezzora, 96 migrante, 123 ministra, 142 minuscole, 190 mission, 70 modus vivendi, 68 mollica/mollica, 109 moltiplicativi, vedi numerali momentino, vedi attimino monolito/monolito, 110 murales, 51
11,77
libido/libido, 109 lineette, vedi punteggiatura lingua nel web, 220 linguaggio burocratico, 202 link, 222 lipidi/lìpidi, 109 liquefare, 178 lo pneumatico/il pneumatico, 97 location, 62 locazione, 62 longa manus, 68 loro, 116 lubrico/lùbrico, 110 l'una/leunajgg ÌTS ma, 100 ma però, 100 maggior parte, 94 mail, vedi e-mail, 58,208 maiuscola "reverenziale", 202
ri n° (numero), 184 né, 76,77 n e , 77 nècrosi/necròsi, 110 neologismi, 48 neppure, 95 nessun uomo/nessun'uomo,io2 nessun, nessuno, 102 netiquette, 224 nobèl/nòbel, 109 nocciolo, vedi omografi nocqui,i55 Noè, 76 nomi collettivi, 159 difettivi, 92 femminili di professione, 142-143 sovrabbondanti, 93 nonché, 95 nondimeno/non di meno, 96 nonostante/non ostante, 96
numerali cardinali, 195 moltiplicativi, 195 ordinali, 195 numeri, 195 arabi, 196 romani, 196 nuocere, passato remoto, 156 O 0 che... 0 che, 114 obtorto collo, 68 od, 72 offrii, offèrsi, 153 ogm,i8g oltre misura/oltremisura, 96 oltremodo/oltre modo, 96 omeòpata/omeopàta, 109 omografi, m on. (onorevole), 184 op.cit. (opera citata), 184 oppure, 95 ora, 198 ora... ora, 114 ordinali, vedi numerali orecchie/orecchi, 93 ossa/ossi, 93 ossia, 95,130 ossimoro, 235 ossimoro/ossimoro, 110 osteòpata/osteopàta, 109 ovvero, 95,130 owerosia/owerossia, 95
P p./pag. (pagina), 184,185 p.zza (piazza), 184 pancetta, 85 par condicio, 68 paragrafo, 15
parentesi, 30-32 angolate, 31 graffe, 31 quadre, 32 tonde, 30 uncinate, 31 parlare, passato remoto, 155 parole composte, 74 particella ci, 126 passato prossimo, 176 remoto, 176 pasticceria, 83 pasticciere, 85 patisco, 182 pc, 189 per cui, 94 per essere precisi, 130 peraltro/per altro, 96 perché/perchè, 75 perciò, 95 perfino, 95 perifrasi, 233 perlomeno/per lo meno, 96 perlopiù/per lo più, 94,96 peróne/pèrone.iio persuadére/persuadere, 109 pertanto, 95 piacere, passato remoto, 156 pioggia, piogge, 104 piovere, 170 piròscafo/piroscafo, 109 più, 91 piuttosto che, 146 pi. (plurale), 184 plurale dei nomi in -eia, -già, 104 delle parole latine, 51 delle parole straniere, 50 poc'anzi, 94 poiché, 76,95 politically correct, 60,124 politicamente corretto, 123 potere,! 68
predire, 164 preg.mo (pregiatissimo), 184 premier, 60 pressappoco, 95 prestiti linguistici, 53 adattati, 53 arabi, 65 di lusso, 53 non adattati, 53 pseudo-prestiti, 53 principi, vedi omografi prn. (pronuncia), 185 prof, (professore), 184,185 proiezione, 61 pronome personale soggetto, 140 province/provincie, 104 prudere, 172 pseudo-prestiti, 53 pudico /pùdico, 109 punteggiatura apici, vedi virgolette due punti, 25 lineette, 33 nel web, 222 parentesi, 30 puntini di sospensione, 28 punto, 16 punto e virgola, 22 punto esclamativo, 26 punto interrogativo, 26 trattini, 33 virgola, 18 virgolette, 35 punto, 16 punto fermo, 16 nelle abbreviazioni, 16 nelle sigle, 16 punto, toscano, 118
q qua, 91 quaggiù, 95
qual è/qual'è, 106 qualcosa, 95 qualora, 95 quant'altro, 94 quanto meno/quantomeno, 96 quantopiù/quanto più, 96 quassù, 91,95 question time, 60 qui, 91 quotes, quoting, vedi citazioni T raffreddore/rafreddore, 134 regìme/règime, 109 renitente, 145 reticente, 145 retorica, 230 ricevere, passato remoto, 155 ridi', 165 ridire, 164 rifare, 178 riflettere, 171 rivangare/rinvangare, 134 ròbot/robòt,iog rossoblù, 91 rubrìca/rùbrica, 109 S sa, 90,91 Sàlgari/Salgàri, 109 salùbre/sàlubre, 109 sapere, passato remoto, 157 sàrtia/sartia, 109 sbafo, sbafare/sbaffo, sbaffare, 134 scaccomatto, 64 scandinavo/scandinavo, 110 scempie, vedi consonanti schermire, 145 schernire, 145 scimpanzé, 76
scoprì, scoperse, 153 scorazzare/scorrazzare, 134 sé, 77,112 se, 77 sé stesso/se stesso, 112 segni grafici del discorso diretto, 37 seguito, vedi omografi sei e mezza/sei e mezzo, 199 semel in anno licet insanire, 69 sennò, 95 seppure, 95 sg. (seguente), 185 sì, 77,132 si, 77 sia... sia/sia... che, 114 sicché, 95 siccome, 95 sig. (signore), 184,185 sigle, 186,187,214 sìlice/silice, 109 sillabare, 43 similitudine, 230 sineddoche, 234 sing. (singolare), 184 single, M4 sinonimo, 78 sms,i89 so, 91 socia, socie, 104 soddisfacente, 84,85 soddisfacessi/soddisfassi, 179 soddisfacevo/soddisfavo, 179 soddisfo, 178 soddisfo, soddisfaccio, 178 soffrii, soffèrsi, 153 sogniamo/sognamo, 154 solluchero, sollucchero, 134 sopraffare, 178 soprattutto, 95,134 sottolineato, 40 sottosopra, 95 specificamente, 145 specificatamente, 145
spett.le (spettabile), 184 splendere, vedi verbi difettivi sta, 91 sta', 91 stare, 174 stupefacente, 85 stupefare, 178 su, 91 sub conditione, 69 subito, 111 succedere, 171 sufficiente, 85 sufficienza, 85 suppergiù/su per giù, 96 sutùra/sùtura, 109 svenire, passato remoto, 157 t talora, 95 talvolta, 95 tanto meno/tantomeno, 96 tanto più/tantopiù, 96 tè, 76,77 te, 77 tèrmite/termite, 110 ti ho vista/ti ho visto, 180 tócco, 198 tralìce/tràlice, no trattini, 33-34 tre, 91 trentatré, 76,91 troncamento, 106 tu e io, 140 tutt'aì più/tuttalpiù, 96 tutt'uno, 94 tuttavia, 95 tuttora, 95 U ubbidisco, 182
25O
una/l'una/le una, 199 un po', 90 UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione), 44 ùpupa/upùpa, 110 uràli/ùrali',110 urgere, vedi verbi difettivi urla/urli, 93 uso sessista della lingua, 116,142
basse, 35 semplici, 35 vision, 70 voi. (volume), 184,185 volere, 168 passato remoto, 157 vuoi... vuoi, 114
V
w/W, vedi lettere straniere web, punteggiatura, 222 web-log, 49 welfare, 61
va, 91 va', 91 vabbè, 95 vadi, vadino, 175 vale adire, 130 valigie/valige, 104 venghi, venghino, 175 veni vidi vici, 69 ventitré, 91 verbi ausiliari, 166 difettivi, 172 impersonali, 170 incoativi, 182 intran sitivi, 167 irregolari, 162,174 meteorologici, 170 modali, 169 servili, 168,169 transitivi, 167 vertere, vedi verbi difettivi viceré, 91 vicino a, 150 videoblog, 49 vigere, vedi verbi difettivi viola, vedi omografi virgola, 18 con la congiunzione e, 20 nel web, 21 virgolette, 35 alte, 35
Per i vostri dubbi, le curiosità, gli errori e gli... orrori!
W
whisky, vedi lettere straniere X x/X,vedi lettere straniere
y y/Y, vedi lettere straniere I zaffiro/zaffiro, 110 zittisco, 182 zittirono, 182
251
ffn.
Elisabetta Perini si è laureata in Dialettologia Italiana presso l'Università degli Studi di Firenze e ha lavorato come ricercatrice all'Università di Salisburgo. Per Giunti ha realizzato nel 2006 il Dizionario dei sinonimi e dei contrari e, nel 2009, la Grammatica italiana per tutti, già alla quarta ristampa. Lavora inoltre da free lance come traduttrice e copywriter.
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Scrivere bene (0 quasi) È corretto efficiente
o efficenteì
Al nord o al Nord? Si scrive all'avvocata o all'avvocatessa? Ha dovuto o è dovuto? Il sole oggi splende, ma ieri ha... splendutoli Come si scrive un'email? Che cos'è la netiquetteì
E una metafora?
Quanti dubbi e quante incertezze! In questo libro troverete indicazioni e suggerimenti sull'uso della lingua scritta, ma anche curiosità e approfondimenti che renderanno le regole un po' meno indigeste.