A MILANO: LA SVOLTA VERSO IL VERISMO Nel 1872 Verga si trasferisce a Milano, che era allora il centro culturale più vivo, ed entra in contatto con gli ambienti della Scapigliatura. La svolta verso grazie alla pubblicazi pubblicazione one del racconto racconto “Rosso il verismo avviene nel 1878, grazie Malpelo”. Seguono nel 1880 le novelle di “ Vita dei campi”, nel 1881 “I Malavoglia” (che sono il primo romanzo del “ Ciclo dei vinti”), nel 1883 le “Novelle rusticane” e “Per le vie”, nel 1884 il dramma “Cavalleria rusticana”, nel 1887 le novelle di “Vagabondaggio”. Il secondo romanzo del “Ciclo dei vinti” risale al 1889 ed è il “Mastro-don Gesualdo” mentre il terzo, “ La risale agli anni successivi, successivi, ma è rimasto rimasto incompiuto. incompiuto. Dal duchessa di Leyra” risale 1893 1893 torn torna a a vive vivere re defi defini niti tiva vame ment nte e a Ca Cata tani nia a e dopo dopo il 1903 1903,, l’an l’anno no di rappre rappresen sentaz tazion ione e del suo ultimo ultimo dramm dramma, a, “Dal tuo al mio”, lo scrittore si chiude in un silenzio quasi totale. Le lettere di questo periodo mostrano un inaridimento assoluto, anche della passione che fu la più importante della sua vita per la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo. Le sue posizioni politiche si fanno sempre più chiuse e conservatrici. Muore nel gennaio del 1922 (l’anno dell’ascesa del Fascismo). LA SVOLTA VERISTA Dopo un silenzio di tre anni, nel 1878 (anno della svolta verista), esce un racconta che si distacca fortemente dalla sua narrativa precedente: “Rosso Malpelo”. L'autore, illustrando la dura vita del giovane protagonista (Rosso Malpelo), critica le condizioni del lavoro in miniera e l'aridità di sentimenti dei minatori, minatori, che dimostran dimostrano o tutta tutta la loro durezza durezza e disumanità disumanità nei rapporti rapporti con il ragazzo. È presente una denuncia esplicita al lavoro minorile (molto diffuso nell nella a Sici Sicili lia a del del temp tempo) o).. Seco Second ndo o alcu alcuni ni stud studio iosi si in real realtà tà l’op l’oper era a che che rappresenta la svolta verista non è Rosso Malpelo, ma un bozzetto precedente, “Nedda”, risalente al 1874. Nedda è la storia di una misera bracciante che guadagnava per comprare le medicine per sua madre, gravemente malata. Quand uando o la ma madr dre e muor muore e la ragaz agazza za vien viene e isol isolat ata a per erch ché é i paes paesan anii la rimproveravano di non portare il lutto e perché intrecciò una relazione amorosa con un contadino. Questi decide di andare a lavorare nella piana di Catania, dove c’è la malaria ma dove potrebbe raggranellare i denari per il matrimonio. Ma qui si ammala, cade da un olivo e muore. Così Nedda resta sola con la figlia nata dalla relazione con questo contadino ma, essendo molto povera, sua figlia non può essere essere conside considerat rato o un muore di stenti. Questo romanzo però non preann preannunc uncio io della della svolta svolta perc perché hé non non era era pres presen ente te una una dell della a prin princi cipa pali li caratteristiche di Verga: l’impersonalità l’impersonalità.. Il romanzo che segna la svolta è, quin quindi di,, Ro Ross sso o Malp Malpel elo, o, che che è stat stato o inte interp rpre reta tato to co come me una una vera vera e prop propri ria a “conversione”, perché è rappresentato un ambiente duro e disumano, con un linguaggio nudo e scabro (Verismo) ed è presente la tecnica dell’impersonalità. In realtà però Verga si era riproposto di rappresentare il “vero” già ai tempi di “Eva”, “Eros” e “Tigre reale”, ma semplicemente non possedeva ancora gli strumenti adatti. La svolta verista quindi non è stata istantanea. Verga inoltre, volge verso il Verismo ed inizia a rappresentare gli
umili, le sfere più basse della società, non perché era sazio di descrivere ambienti eleganti e mondani, ma perché nelle basse sfere i meccanismi della società sono meno complicati e quindi più semplici da studiare. Dopo aver studiato le basse sfere della società, Verga intende applicare via via il suo metodo anche agli strati superiori. Pag. 1 di 8
I PRINCIPI DELLA TECNICA DI VERGA I principi base della poetica di Verga sono due: il vero e l’impersonalità. Secondo la visione di Verga, il soggetto della storia deve essere sempre qualcosa che è accaduto realmente, ma non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato, deve essere anche raccontato in modo da porre il lettore direttamente dinanzi alla storia, ai fatti. Per questo l’autore deve eclissarsi, non deve comparire con i propri pensieri soggettivi, con spiegazioni e riflessioni, l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. L’autore quindi non deve dare nessuna spiegazione, il lettore deve essere introdotto nel mezzo degli avvenimenti senza che nessuno gli spieghi gli antefatti, le cause di ciò che sta accadendo, senza che nessuno gli tracci un profilo dei personaggi, del loro carattere e della loro storia. Il lettore avrà l’impressione non di sentire un racconto, ma di assistere al racconto che si svolge e si snoda sotto i propri occhi. Verga ammette che questo può creare una certa confusione alle prime pagine, però man mano che i personaggi si fanno conoscere con le loro azioni e le loro parole, attraverso di esse il loro carattere si rivela al lettore. Tale teoria dell’impersonalità non è per Verga una definizione filosofica in assoluto dell’arte, che pretenda di negare realmente ogni rapporto tra creatore e opera, né tantomeno un’affermazione dell’indifferenza dell’autore nei confronti della sua materia e dei suoi personaggi, ma è semplicemente un suo personale programma di poetica: Verga sa bene che l’autore c’è e deve esserci, ma deve sembrare che non ci sia.
IL METODO NARRATIVO DI VERGA Verga applica in modo coerente questi principi in tutte le opere veriste composte dal 1878 in poi (anno della svolta), e ciò dà origine ad una tecnica narrativa molto originale. Nelle sue opere effettivamente, l’autore si “eclissa”, vede le cose con gli occhi dei personaggi, c’è la completa scomparsa del narratore onnisciente (il narratore è onnisciente quando conosce alla perfezione situazioni del presente, passato e futuro, conosce la psicologia dei personaggi, ciò che pensano, come agiscono, perché agiscono, un esempio ne è Manzoni), perché non interviene mai nel racconto per illustrare antefatti, per tracciare il quadro dei personaggi, per spiegare i loro stati d’animo, per commentare e giudicare i loro comportamenti ecc. Colui che racconta quindi non è l’autore, ma una “voce” che si trova allo stesso livello dei personaggi, e questa voce non è sempre definita, non è necessariamente uno specifico personaggio a raccontare. L’autore quindi si cala nei personaggi stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, il loro modo di esprimersi, in modo da far sembrare che a raccontare sia uno dei personaggi stessi, che resta anonimo. (Questa tecnica è la tecnica dello straniamento) C’è quindi una “regressione” nell’ambiente rappresentato,
perché Verga, che appartiene a una categoria sociale più alta, si cala nell’ambiente degli umili e dei popolani. Ad esempio nei Malavoglia, rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scrittore borghese. Un esempio chiarissimo della tecnica dell’impersonalità si ha all’inizio di Rosso Malpelo: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo”. Il ragionamento che sta dietro questa frase non può Pag. 2 di 8
essere quello di un intellettuale borghese (Verga) perché c’è una visione primitiva e superstiziosa della realtà (la cattiveria connessa con i capelli rossi). È come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo. Di conseguenza anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scrittore, ma un linguaggio spoglio, povero, ricco di modi di dire, di paragoni, di proverbi, di imprecazioni popolari, caratterizzato da una sintassi elementare e a volte scorretta. LA CONCEZIONE DEL MONDO,IL PESSIMISMO DI VERGA E IL “DIRITTO” DI GIUDICARE.
Verga formula il principio dell’impersonalità e lo adotta in modo così rigoroso, partendo dalla propria concezione generale del mondo, che è decisamente pessimistica. Verga è un sostenitore della teoria darwiniana secondo la quale la vita è caratterizzata da una continua lotta tra tutti gli essere viventi, in cui solamente i più forti sono destinati a sopravvivere, schiacciando i più deboli. Nel mondo secondo Verga non esistono generosità, altruismo, pietà, ma esistono solamente l’interesse economico, l’egoismo, la prevaricazione ecc. Questa è una legge universale, che governa qualsiasi società (non solo quella umana, ma anche quella animale e vegetale), in ogni tempo e in ogni luogo. E’ una legge immodificabile, e per questo Verga ritiene che non si possano dare alternative alla realtà esistente, né a quella del futuro, non si può sperare in un’organizzazione sociale diversa e più giusta. Non si possono avere speranze neanche nella dimensione del trascendente (Verga infatti è un ateo ed un materialista, ed esclude qualsiasi tipo di consolazione in un’altra vita, come aveva invece presupposto Manzoni). Di conseguenza, se la realtà non si può modificare, allora è anche inopportuno proporre dei giudizi. Infatti solamente se si ha una fiducia nella possibilità di modificare il reale, si interviene dall’esterno, si giudica, si condanna. Ma se modificare l’esistente è impossibile, ogni intervento e ogni giudizio appare inutile e privo di senso, e allo scrittore non resta che riprodurre la realtà così com’è (tecnica dell’impersonalità). La tecnica impersonale utilizzata da Verga quindi non è frutto di una scelta casuale, ma dipende dalla sua pessimistica visione del mondo.
IL VALORE CONOSCITIVO E CRITICO DEL PESSIMISMO Questo pessimismo, che nega qualsiasi trasformazione della società, ha un’impronta fortemente conservatrice, in quanto c’è anche un rifiuto esplicito e polemico nei confronti delle ideologie progressiste contemporanee (anche Leopardi criticò il progressismo). Questo pessimismo conservatore però non implica un’accettazione acritica della realtà esistente perché è proprio il pessimismo che consente a Verga di cogliere con grande lucidità ciò che c’è di negativo nella realtà: la disumanità, la lotta per la vita, le ambizioni, la sofferenza, la degradazione umana sono messe in evidenza nelle opere di Verga con implacabile precisione. Verga quindi non dà dei giudizi, non interviene sulla realtà, ma il suo pessimismo gli permette di rappresentare l’oggettività delle cose. Proprio perché le opere di Verga
rappresentano l’oggettività delle cose, non c’è mai un sentimento di pietà sentimentale nei confronti degli umili che lui descrive, non ha mai un atteggiamento di fiducia in un loro miglioramento, non si ha mai una rappresentazione patetica, lacrimevole e sdolcinata della realtà popolare. Il duro pessimismo, la visione arida e desolata della vita, la crudeltà della realtà, Pag. 3 di 8
vietano a Verga ogni possibile abbandono al patetismo. In Verga non è presente neanche la visione romantica e reazionaria protesa nostalgicamente verso forme passate di vita. Pur sottolineando la negatività del mondo moderno e del progresso, Verga non contrappone ad esso il mito della campagna, della civiltà contadina arcaica, concepita come un Eden. Lui non indica questo tipo di civiltà come un antidoto alla negatività e alla brutalità del mondo moderno. Verga, con il suo pessimismo, ritiene che anche il mondo primitivo della campagna è sorretto dalle stesse leggi del mondo moderno: l’interesse economico, l’egoismo, la forza, la sopraffazione, il conflitto tra gli uomini.
IL VERISMO DI VERGA E IL NATURALISMO ZOLIANO LE DIVERSE TECNICHE NARRATIVE E’ evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano dal naturalismo di Zola. La distanza si misura sul piano delle tecniche narrative; nei romanzi di Zola la “voce” che racconta riproduce di norma il modo di vedere e di esprimersi dell’autore, del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto la materia, e questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia trattata. Ad esempio nel secondo capitolo di Germinal, la scena in cui i figli di un minatore fanno toeletta prima di recarsi al lavoro, ragazzi e ragazze insieme, in totale promiscuità. Lo scrittore sottolineando la mancanza di pudore dei giovani da un giudizio dal suo punto di vista. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto, e il narratore lo fa sentire esplicitamente. Questo nel Verga verista non avviene mai: egli avrebbe raccontato la scena dal punto di vista dei minatori stessi e non avrebbe sottolineato la mancanza di vergogna. In altri casi il giudizio in Zola è implicito, ed è rivelato da un particolare termine, che riflette la visione dell’autore. Sempre in Germinal, la descrizione della cucina dei minatori “..Un odore di cipolle cotte […] avvelenava l’aria calda..”. Il termine avvelenava non appartiene al livello dei minatori che si nutrono quotidianamente di cipolle, ma esprime il giudizio dato dallo scrittore. Una parziale eccezione è costituita dall’ Assommoir, dove Zola si propone di riprodurre il gergo particolare dei proletari parigini. Però il procedimento non è sistematico e totalizzante, come sarà in Verga, è solo una soluzione episodica. Il gergo, infatti, è impiegato solo se e dove sono i personaggi popolari ad esprimersi, sia mediante il discorso diretto, sia mediante l’indiretto libero. Le zone dove è il narratore a parlare presentano prevalentemente un linguaggio colto, lontanissimo dal gergo. Zola risulta sostanzialmente estraneo all’originalissima tecnica verghiana delle “regressione” del punto di vista narrativo nel mondo popolare rappresentato. Per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello “scienziato”, che si allontana dall’oggetto, per osservarlo dall’esterno e dall’alto; per Verga significa invece immergersi, “eclissarsi” nell’oggetto.
LE DIVERSE IDEOLOGIE Pag. 4 di 8
Queste tecniche narrative così lontane sono evidentemente la conseguenza di due poetiche e di due ideologie diverse. Zola interviene a commentare e giudicare, perché crede che la scrittura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura, come studio dei problemi sociali e stimolo alle riforme; dietro la “regressione” di Verga nella realtà rappresentata vi è invece il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la letteratura non possa in alcun modo incidere su di essa e che quindi lo scrittore non abbia il “diritto di giudicare”, ma debba limitarsi alla riproduzione oggettiva del dato. Zola ha fiducia nella possibilità della letteratura di incidere sul reale perché è uno scrittore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica, in cui esiste una borghesia attiva e consapevole; di conseguenza lo scrittore progressista in un simile ambiente, si sente il portavoce di esigenze ben vive e sa di potersi rivolgere ad un pubblico in grado di recepire il suo messaggio e di reagire ad esso. Il rifiuto Verghiano dell’impegno politico della scrittura, l’affermazione della pura letterarietà dell’opera e la scelta dell’impersonalità come carattere fondamentale del nuovo “realismo”, rimandano ad una situazione economica, sociale e culturale ben diversa da quella francese. Verga è il tipico “galantuomo” del Sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione di un mondo agrario arretrato e immobile e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida e delle masse contadine estranee alla storia, chiuse nella loro miseria e nei loro ritmi di vita, passive e rassegnate. Il fatalismo di Verga poteva poi trovare confermare nella realtà attuale dell’Italia, in cui gli inizi dello sviluppo capitalistico, non faceva che ribadirne l’esclusione e l’oppressione e rendere ancor più dura la loro vita: lo scrittore poteva facilmente concludere che nulla era mutato realmente e che quindi la letteratura può solo conoscere la realtà, non modificarla. Ciò non significa esaltare il “progressismo” di Zola contro il “conservatorismo” di Verga. I valori artistici non sono conseguenza immediata dell’ideologia di uno scrittore. Anzi, proprio la carica progressiva, per quanto generosa, è in buona parte responsabile dei vistosi difetti della narrativa zoliana: la mitologia scientifica piuttosto rozza e ingenua, la mitizzazione del popolo come forza selvaggia, la creazione di situazioni melodrammatiche, la pesantezza dell’intento documentario, e così via. Mentre il pessimismo, la visione arida della realtà dà alla narrativa verghiana la sua essenzialità e le conferisce il suo valore conoscitivo e critico.
NEDDA: trama si svolge nella fattoria del Pino alle falde dell'Etna, Ravanusa, Bongiardo
Personaggio Principale è Nedda una ragazza umile, povera, silenziosa, è soprannominata la varinnisa perchè proviene da Ravanusa. E' una ragazza dai capelli Pag. 5 di 8
scuri, folti ed arruffati, occhi neri tristi e rassegnati, denti bianchi come l'avorio, i lineamenti del viso sono grossolani, le braccia irrobustite dal duro lavoro. Il comportamento è quello di una ragazza timida, taciturna che si tiene sempre in disparte. Nedda è molto religiosa ed accetta il suo triste destino senza lamentarsi, non se la prende con Dio per le sue disgrazie, nè con i padroni che la sfruttano sul lavoro, ma con sè stessa e con la sua povertà. Costretta a vagare di fattoria in fattoria in cerca di un lavoro. Nedda è una vinta, come lo saranno i personaggi dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo. Personaggi Secondari: la madre di Nedda, una donna ammalata che poi morirà; Janu il contadino di cui Nedda è innamorata, che lavora con lei ma che, è ammalato di febbre malarica e costretto ugualmente a salire sugli alberi per la rimondatura degli ulivi; la piccola bambina di Nedda e Janu nata malaticcia e anche lei presto muore. Trama: La varinnisa è una ragazza povera che lavora, per aiutare la madre malata, nella fattoria del Pino come raccoglitrice di olive. A causa del maltempo autunnale che costringeva all’inattività le sue amiche erano euforiche ed alla sera riunite attorno al focolare conversavano e suonavano in allegria; solo Nedda era silenziosa in un angolo della cucina, addolorata per il fatto che la madre stava per morire. Alcune ragazze presenti si compiacevano che grazie alla pioggia quel giorno non avevano lavorativo, ma la protagonista non approva la loro idea, perché per lei, che conduceva una vita così dura, la raccolta delle olive era una festa. Il sabato fu giorno di paga e si era guadagnato poco e il giorno dopo la madre morì. Dopo il funerale, Nedda avverte la sua solitudine; inerte andò a sedersi sulla soglia dell’uscio, guardando il cielo e qui la trovò lo zio Giovanni che le diede un pezzetto di pane e le trovò un lavoro, a cui Nedda si dedicò subito, ricevendo però le lamentele delle altre ragazze e del curato, in quanto ritenevano che non avesse rispettato il lutto. Una sera Nedda sentì cantare Janu, un paesano, e nutrì un forte sentimento per lui e l'indomani riuscì a parlare con lui; questi dopo averle confidato d'essere stato licenziato a causa della malaria, le regalò il suo fazzoletto di seta. I due innamorati andarono a lavorare insieme nei campi; Janu, da brav uomo cercò di alleviarle la fatica, ma questo gli comporterà una diminuzione del salario. Col passar del tempo Janu, ormai innamorato di Nedda, le chiese di sposarlo, ma a causa della mancanza di fondi non si poterono sposare. Con la Pasqua giunge la buona novella che la ragazza è incinta, purtroppo però viene emarginata da tutto il paese ed il padrone le diminuisce il lavoro. Le condizioni di salute del ragazzo si aggravano e in poco tempo muore. Nedda, rimasta ormai con il solo conforto dello zio Giovanni diede alla luce una bambina “rachitica e stenta”, che perse la vita quasi subito sia per le sue assenti prestanze fisiche che per lo scarso nutrimento. Nedda rivolge una preghiera ai defunti dicendo loro che sono fortunati ad essere morti. Temi: Secondo il parere della maggior parte della critica Nedda è l'opera che segna il passaggio, nella poetica di Verga, al verismo con la rappresentazione oggettiva e reale del degrado della società A differenza del personaggio manzoniano di Lucia, la cui rassegnazione è illuminata dalla fede, la protagonista qui non ha alcuna speranza ed è cosca che la vita è dolore e rassegnazione. La trama riguarda l’amore che nasce fra lei e un contadino, Janu, che muore cadendo da un albero lasciando cosi' l’amata che sta aspettando una figlia. Nedda viene fortemente criticata perche' decide di non abbandonare la figlia alla ruota del convento; alla fine la figlioletta muore. Tecniche narrative: Questa novella differisce dalle altre per vari aspetti: la scelta dei Pag. 6 di 8
personaggi e dei luoghi è rilevante ma non rappresenta ancora una adesione al Naturalismo; "Nedda" non è una novella verista perchè in essa manca del tutto l’impersonalita' che è sostituita da interventi dello autore che mirano a un atteggiamento moralistico. Inoltre il linguaggio e' quello di un fiorentinismo di maniera, le espressioni locali sono introdotte in corsivo per sottolineare l’estraneita' al registro. Il poeta contrappone l'umiltà, la timidezza e la rassegnazione delle creature umili alla avidità, alla cattiveria, e all'incomprensione di chi vive nell'agiatezza. Verga, sentiva di trovare la vera poesia solo parlando della povera gente.
LA LUPA: L’intera novella può essere divisa in sei sequenze. L’esordio del racconto vede la descrizione della lupa, una donna così definita perché considerata “divoratrice di uomini”. In questa sequenza ci viene anche presentata la figura di Maricchia, la figlia della lupa. La seconda sequenza vede l’entrata in scena di Nanni, un giovane “che era tornato da soldato”, per il quale la Lupa perde la testa. Nanni però rifiuta la donna e le preferisce la figlia “che è zitella”. Nella terza sequenza la Lupa tenta Nanni, che ormai è diventato suo genero. La quarta sequenza è segnata dalla decisione di Maricchia di denunciare la madre per il suo comportamento. Il brigadiere convoca Nanni, il quale non tentò di discolparsi, ma comunque parlò di “tentazione dell’inferno”. Nella quinta sequenza la Lupa tenterà per l’ultima volta Nanni, il quale portato all’esasperazione la minaccia di morte. La sesta sequenza segna la fine delle tentazioni della Lupa, che portando in mano “manipoli di papaveri rossi”, si avvicina inesorabilmente alla morte. In questa novella di Verga, come in tutta la sua opera, possiamo individuare l’artificio della regressione, che è secondo lui il modo per potere conferire ai suoi scritti il criterio di impersonalità dell’arte, che tanto il Naturalismo francese ha celebrato. Egli è riuscito ad imponersi dal punto di vista del popolo, che è il “vero” narratore della vicenda, capace di esprimere opinioni, di usare espressioni tipiche del linguaggio parlato (“le donne si facevano la croce”; “gnà Pina”; “sarchiare” ecc…) o proverbi (“il diavolo quando invecchia si fa eremita”; “in quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona”). La regressione quindi ci porta a leggere la vicenda con gli occhi di qualcuno che l’ha in qualche modo vissuta; per questo motivo capiamo che i giudizi riguardo alla Lupa, presenti nella novella, derivano proprio dalla mentalità culturale del popolo. Capiamo benissimo allora che la Lupa era vista come un essere demoniaco che “spolpava” gli uomini “in un batter d’occhio”, “e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso”. La lupa era, dal punto di vista del popolo, un demonio. A parer loro questa donna era comandata da istinti animali, era incapace di gestirli e si lasciava trasportare da questi. La donna è una “donna fatale”. L’emancipazione di questa donna è dovuta proprio alla sua diversità, alle sue diverse necessità. Lei trasgredisce a delle regole morali che tutta la società cerca di rispettare, e proprio questa sua trasgressione è, in un certo senso, la sua rovina, o meglio è proprio questa che determina la sua emarginazione dalla società. Le necessità di questa donna sono diverse da quelle delle altre donne del popolo, lei sentiva di dovere soddisfare i proprio impulsi erotici, le proprie esigenze amorose, e trovava nella passione amorosa la soluzione a queste esigenze. La lettura della novella però oltre a darci un quadro abbastanza completo di questa donna ci fornisce anche degli elementi sociali dell’ambiente in cui viveva. Sicuramente emergono le opinioni di Pag. 7 di 8
una società, di un popolo che non poteva tollerare questa trasgressione e che vedeva nell’azione della Lupa un’influenza demoniaca. D’altronde se il giudizio della Lupa, da parte della società, è negativo, il giudizio della figlia Maricchia è ben diverso: lei è vista come una vittima che subisce le conseguenze del comportamento della madre, riportando soltanto lei il disagio dovuto all’emarginazione. Quindi per l’ottica popolare l’azione di denuncia che Maricchia ha fatto a discapito della madre è stata una logica conseguenza di tutto ciò che la madre ha fatto nell’arco della sua vita. La Lupa però non si sentì affatto minacciata né dalla figlia né tanto meno dal genero, il quale l’ha minacciata di morte. La sua indole è fondamentalmente portata alla trasgressione, ed è consequenziale il comportamento di Nanni, il quale, portato all’esasperazione dalle provocazioni della Lupa, non può far altro se non porre fine alle “tentazioni dell’inferno”.
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