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Edizioni Willoworld
www.willoworld.net www.edizioniwilloworld.co.nr
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UN MONDO A GAMBE APERTE
Un libro di Gano per La Giostra di Dante
Seconda Edizione
www.lagiostradidante.co.nr
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GM Willo – Seconda Edizione, 2010 Altre Edizioni Willoworld Racconti del Nuovo Millennio - di GM Willo - 2007 Racconti del Millennio Passato - di GM Willo – 2007 Il Libro di Floria - di GM Willo – 2008 I Musikanti di Amberyn - di GM Willo – 2008 Complici di un Gioco di Dadi - a cura di GM Willo – 2008 Alla Ricerca del Dio Senza Croce - di Valentino Vannozzi – 2008 Versetti Poetronici - a cura di GM Willo e di Demiurgus – 2008 Le Rivelazioni di Giovanni Meraviglio - di Jonathan Macini – 2008 Willoclick – The Talking Eye - di GM Willo – 2008 Sebastian Claw e altri racconti - di Jonathan Macini - 2008 Storie di Nuvole – di Aeribella Lastelle – 2008 All work and no play makes Jack a dull boy – di Jack Torrance – 2008 Raptus Interruptus e altri schizzi di quotidianità – di J. Lombroso 2008 Elaborazioni - di Valentino Vannozzi – 2008 La Giostra di Dante – Edizioni Willoworld 2008 Storie dall’eremo del nord – di GM Willo 2008
Copertina di Charles Huxley
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Secoli di poesia e siamo sempre al punto di partenza. Charles Bukowski
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UNA PREFAZIONE 11 GANO: Profilo d’autore 13 I RACCONTI DI GANO 15 LE 101 PAROLE DI GANO 53 LE POESIE DI GANO 73 INTERVISTA A GANO 97 IDENTITÁ DI GANO 101
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INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE A un anno dalla sua pubblicazione e dopo oltre 200 download, ho pensato di rinnovare questa piccola opera introduttiva all'autore Gano, personaggio molto borderline nato per il progetto di scrittura creativa La Giostra di Dante, facendone così un vero e proprio libro. Ci ho aggiunto sei racconti, otto interventi minimi di 101 parole e sette nuove poesie, per un totale di oltre 40 pagine. Tutto questo materiale è apparso nell'ultimo anno sui siti del circuito www.willoworld.net. Per l'occasione ho anche intervistato nuovamente l'autore (l'intervista si trova a fine libro a seguito di quella del 2009). Il prossimo progetto del personaggio Gano è quello di scrivere un breve romanzo sulla sua vita di poeta ubriacone. Fino ad allora, godiamoci questo “Mondo a Gambe Aperte” in versione 2.0. Buona lettura. GM Willo
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UNA PREFAZIONE di GM Willo
Descrivere Gano non è facile. È un po’ come parlare di Morrison o di Hendrix. C’è gente che ci ha scritto interi libri senza neanche riuscire a scalfire il mistero che si cela dietro personaggi di tale caratura. Non è in quello che fanno che risiede il mito, ma è in quello che sono, e bisogna rendersi conto che solo incidentalmente abbiamo avuto la fortuna di conoscerli attraverso le loro opere. Nel caso specifico di Gano, che scrive dall’età di otto anni ma che non ha mai conservato un solo manoscritto, l’incidente che ci ha portati davanti a queste testimonianze di uomo ha quasi un significato mistico, una storia nella storia. Se le Edizioni Willoworld non avessero inciampato, più per caso che per altro, nelle opere del Bukowski nostrano, questo libro non sarebbe mai nato… Gano è creatura da bar, poeta e fannullone, puttaniere e guru metropolitano. I suoi versi hanno un unico scopo ed è quello di afferrare il vero, oltre le regole di metrica e di rima. I racconti gli vengono dal pancreas, come ammette lui stesso nella breve intervista a fine libro. Non si può parlare propriamente di “opera compiuta” con poco più di sessanta pagine. Si tratta più di un omaggio al personaggio, un invito, o forse un rituale scaramantico, augurandoci che ci sia un seguito, magari un bel romanzo autobiografico, chissà… Un mondo a gambe aperte, quello visto da Gano, quello delle periferie cittadine, di gente semplice, a volte allo sbando, più spesso pavidamente all’assalto della vita. La vita vissuta e un po’ bastarda…
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Perle grezze di saggezza, fermi immagine del quotidiano dipinti di fosforescenze, parole al vento e sussurrate piano, col fiato alcolico, ovviamente. Gano non è un ricercatore del bello. Gano non è uno che vuole stupire, colpire, infrangere o barricarsi. Gano è semplicemente Gano, un uomo che, nonostante il mito che già lo sovrasta, dimostra di essere più vero di molti comuni randagi. 5 Marzo 2009
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GANO Profilo d’autore Volete un dannato profilo... volete sapere chi sono? Io sono Gano, poeta ubriacone; scrivo col cazzo e lo prendo irrimediabilmente nell’ano. Mi trovate al bar, o sul vialone in buona compagnia. La disoccupazione paga poco, ma qualcosa si rimedia sempre. Uomini, donne, travestiti… che importa! Quando ho il fuoco in corpo non mi faccio molti problemi. Scrivo poesie da quando avevo otto anni, da quello schifoso giorno in cui mio padre, vecchia spugna, mi prese a legnate lasciandomi svenuto in camera mia. Quando rinvenni non mi misi a piangere. No. Invece afferrai la penna e scrissi: Padre boia Elargisci dolore Credendoti dio… Che tu muoia Io non prego Ma son certo Così sarà. Ed infatti un paio di anni dopo il cancro se lo portò via. Bravo stronzo, pensai io, mentre lo calavano nella fossa. Neanche una lacrima si meritava… Per adesso può bastare. Se mi va bene vi dirò di più, ma ora ho troppa sete per continuare a scrivere queste stronzate. Vi lascio con una mia massima. Andatevela a leggere... potrebbe tornarvi utile. Buonanotte!
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I RACCONTI DI GANO “Le storie migliori si raccontano al bar, con le palle del biliardo in sottofondo e un bicchiere di stravecchio davanti.”
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EHI, RAGAZZO!
La serata la stavo passando insieme al Pingue, un amico di sbornie. Guardavamo la televisione del circolino, sprofondati nelle sedie di plastica, quelle economiche da giardino. Io mi sorseggiavo una china, lui un fernet. C’era il notiziario delle otto, quello dove s’inventano le notizie, per capirci. Il sapore della muratti mi aiutava a rilassarmi. Brusii confortanti dalla sala biliardo, rumori di bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie, il calcio balilla preda di una mandria di ragazzini. Era una serata perfetta. Anche la faccia di Mimun mi divenne all’improvviso simpatica. Il mio mondo. Piccolo, per qualcuno forse squallido, ma a me piaceva. Mi sentivo a casa. Ora, io sono un tipo parecchio tranquillo. Davvero, non farei male a una mosca. Infatti quando in estate mi entrano quei tafani in camera da letto, io non li uccido. Preferisco farli uscire dalla finestra. Mi fa senso, non so se mi spiego… Comunque, quello che voglio dirvi è che sarei capace di bere tutta la notte e rimanere placido come una mucca indiana. Potreste prendimi in giro per delle ore, e non avreste da me la benché minima reazione. Tuttavia, succede a volte che mi prendono questi raptus. Perché c’è una cosa che non sopporto proprio; la prepotenza. Insomma, vi dicevo. Eravamo io e il Pingue sulle sedie di plastica. Il TG era alla fine. Davano i numeri del superenalotto. Il mio amico tira fuori la schedina ed impreca un paio di volte sottovoce. Gli era entrato un misero due. D’un tratto arriva questo qui, e senza chiedere nulla a nessuno cambia canale. “ Oh, c’è striscia…”, sussurra. Come se quelle tre parole potessero spiegare il suo gesto.
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Io guardo il Pingue e il Pingue guarda me. Rimaniamo così, un fotogramma alcolico da cinquecento lire. Ah, le vecchie care lire… Intanto Greggio incomincia a sparare cazzate! Il tipo col telecomando in mano non è piccolino. Forse trent’anni, tirato di lucido, almeno un’ora di palestra al giorno, svalvolato il giusto da quella robaccia che si rimedia da Dado, lo stronzo che fa finta di giocare a biliardo. Io non lo sopporto. L’ho visto un paio di volte avvicinarsi ai ragazzini del calcio balilla. Quelli c’hanno si o no quattordici anni. Menomale che sanno il fatto loro. Non hanno perso tempo a mandarlo a cagare. Non conosco bene il tipo, ma l’ho visto un paio di volte bazzicare il banco del bar. Camparino corretto a gin, se non ricordo male. Gli occhi lucidi cercavano il culo della figlia di Aldo, il proprietario. Non vi mentirò. La Giorgia ha proprio un bel didietro. Comunque il suo nome non mi viene proprio, perciò mi rivolgo a lui in questo modo: «Ehi, ragazzo! Ci rimetti il TG per piacere?» Lui non mi guarda neanche, preso com’è dal balletto delle veline. Il Pingue a questo punto si alza e va a prendersi un altro fernet. Appoggia il bicchiere vuoto sul tavolino davanti a me. Mi guarda. Ci siamo intesi. Anch’io voglio un’altra china. Ne avrò bisogno. Lo sapete vero dove si serve il fernet? Li conoscete quei bicchieri, no? Sono quelli col fondale spesso. Tre o quattro centimetri di vetro smussato. Io a casa ci schiaccio le noci. «Ehi, ragazzo! Guarda che tra poco c’è lo sport…” Ma lui fa finta di niente. Ride all’ennesima battuta di Iacchetti. A me quello lì non mi ha mai fatto ridere. Però si tromba la bionda, perciò tanto di cappello. Davanti alla fica siamo tutti fratelli. «Su ragazzo, passami quel telecomando!» Il tono della mia voce rimane calmo. La mucca indiana, avete presente?
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Ciononostante, da che mondo è mondo, più di tre avvertimenti non si danno. Ho ragione o no? Lui intanto rimane immobile. Il sorriso ebete stampato in faccia e gli occhi sempre più lucidi. Si prende anche il tempo di accendersi una sigaretta. Poi parte il bicchiere. Il resto della storia? Una bellezza. Urla, imprecazioni, l’ambulanza, la polizia, che però mi conosce e conosce anche il ragazzo che non sporge denuncia, e poi la gente del circolino che è tutta dalla mia parte. Insomma, meno di un’ora dopo io e il Pingue siamo nuovamente sprofondati nelle sedie di plastica a vederci il commissario Montalbano. Accanto c’è la Giorgia, che passa il cencio sulle macchie di sangue. Il vero spettacolo della serata è sbirciarle la scollatura mentre si china in avanti. Queste si che sono emozioni!
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IL RE DI FIORI
Allora, fatemi ricordare. Eravamo io, il Tibia, il Cossu, il Nanni e Fantomas. Non vi sto a spiegare le ragioni di questi nomignoli, altrimenti non se ne esce. Tengo solo a precisare che per loro ero e sarò sempre il Gano. A posto così. Si diceva… Eravamo noi cinque e s’andava una bellezza. Ramino, conchino, scala, ventuno, pokerone, insomma ci si divertiva. Chi aveva l’amaro, chi preferiva il grappino, quattro pacchetti di sigarette e uno di toscanelli. Il tavolo era pronto. Sabato sera, serata lunga, perché il circolo di sabato chiude alle due. Soliti ignoti; i ragazzini al balilla, la televisione accesa ma nessuno che la guarda, la bella Giorgia che serve camparini senza ghiaccio e montenegri nei bicchieri per il martini. Un universo perfetto, circolare, come il disegno di un essere supremo. Pianeti che orbitano con precisione attorno al bancone, comete che appaiono per pochi istanti per poi sparire per sempre alla vista, stelle che nascono e stelle che muoiono. Mi erano entrate tre grandi chiusure in mano. La cosa mi aveva messo di buon umore, così decisi di offrire un giro a tutto il tavolo; in pratica mi sputtano metà della vincita della serata. Ma nel mio piccolo mondo è una cosa normale, non so se mi spiego. Non si gioca mai per i soldi. Sono le emozioni, sempre loro, quelle che contano realmente. Sia che tu vinca o che tu perda. Il Cossu fa una smorfia, pare stizzito. Il Cossu è uno stronzo e lo sa tutto il circolo, però quando gli arriva lo jeger se lo beve e sta zitto. Il Nanni ride divertito. Il Nanni ride sempre, è così. Fantomas e il Tibia rilanciano. Facciamo un pokerato, o pokerone, o come cavolo volete chiamarlo. Io accetto, il Cossu borbotta ma rimane
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inchiodato alla sedia, il Nanni continua a ridere. E via così, alla grande… Il Cossu perde anche il pokerone e s’incazza di brutto. Decide di smetterla, s’infila la giacchetta di flanella a scacchi, guanti, berretto, e senza salutare si dilegua. Meglio così, siamo giusti giusti per una briscola in quattro. La meravigliosa briscola a quattro. Mi ritrovo in coppia con Fantomas, ed è una bella storia. Fantomas gioca quieto, fa i segni giusti senza mai esagerare. Ma bisogna stare attenti al Nanni, che a briscola ci sa proprio fare. E poi ha un culo che non vi dico! Si è fatto tardi, sono quasi le due. La Giorgia se ne è andata. È rimasto solo Aldo, suo padre. Sprofondato sulla sedia si guarda un vecchio film di Alberto Sordi, la senza filtro stretta con forza tra le dita. Il Circolo è quasi vuoto. Ci siamo solo noi e un paio di stronzi al videopoker. Ma Aldo tiene comunque aperto fino alle due, a volte anche fino alle due e mezzo, perché è sabato e tra poco arrivano le signore. Le signore sono vecchie amiche bisognose di conforto. Un caffè, a volte un cognac, tanto per continuare la nottata, che, neanche a dirlo, è molto lunga. Le signore sono la Petra, la Vanna, la Simona. Brave donne, dico io, ma è solo il mio piccolo punto di vista… Quella sera ce n’è una nuova. Si chiama Elisa, o Elisabetta, non ricordo, ed è davvero qualcosa di speciale. Non giovanissima, ma neanche tardona come le altre. È arrivata da poco, ma questo non vuol dire che sia nuova alle arti dell’amore. Elisa se ne sta in disparte, mentre le altre ordinano da bere. Si guarda attorno ed io le cerco lo sguardo, distraendomi dal gioco. Non capisco ancora se è preda o cacciatrice, comunque sembra notarmi. L’avessi mai fatto… Un attimo dopo la vedo avvicinarsi al tavolo da gioco. «Buonasera signori…» l’approccio è di sicuro quello di una cacciatrice. Noi ricambiamo il saluto, cortesemente,
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timidamente, nervosamente. Le donne sono troppo più avanti di noi uomini! Il Tibia è un rinomato puttaniere. Negli occhi gli leggo l’interesse, la voglia di scoprire il nuovo. Si sporge subito verso la dama, se ne esce con un paio di battute stupide, lei gli da confidenza, lo lusinga, ci gioca. «Lo conoscete il gioco del re e della regina?» ci domanda ad un tratto. Lei non aspetta neanche la nostra risposta e afferra il mazzo di carte. «Mai sentito…» borbotta Nello, che secondo me è gay. «Ce lo spieghi tu?» le chiede di rimando il Tibia. «Certo caro. Io faccio la regina, va bene? Tu sarai il mio re…» una gatta in calore non avrebbe saputo fare fusa migliori. «Allora, io mischio le carte, poi tu ne peschi una. Se trovi un re, andiamo di là e ti faccio da regina» e indica il bagno delle signore. Noi ci guardiamo sorpresi. Il Tibia trasuda euforia. «E se pesco un’altra carta?» domanda lui. «Allora mi paghi il caffè. Siamo d’accordo?» E così la roulette ebbe inizio. Lei mischiava le carte come un biscazziere. La cosa m’impressionò molto. Il Tibia non sembrò farci caso. Le guardava le cosce e il corsetto. Poi spezzò il mazzo, delineò un arco con una metà, e la ripose sopra quell’altra, davanti alla faccia inebetita del mio amico. «Pesca!» gli ordinò. E lui pescò un re di fiori. Che culo, pensammo, e continuammo a pensarlo per un bel po’, mentre si alzava dal tavolo insieme alla tipa, mentre ne se andavano di pedina verso il bagno delle signore, mentre si facevano nei nostri cervelli una megacavalcata sopra il lavandino. Ma poi accadde qualcosa. Passavano i minuti e non usciva nessuno. Le altre donne se ne erano già andate, i videopoker erano spenti e spenta era anche la televisione. Aldo aveva già abbassato per metà il bandone.
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«Che cavolo succede?» chiede Fantomas. «Andiamo a dare un’occhiata…» propone Nello, che è gay o forse guardone.. «Vedrai che si stanno divertendo» dico io, ma qualcosa non mi torna. È mezz’ora che sono chiusi là dentro, e il Tibia non dura mai più di dieci minuti. Spieghiamo la situazione ad Aldo. Aldo, placido come un bonomo, se ne rimane sul marciapiede a fumarsi la sua ennesima senza filtro. A questo punto mi avvicino alla porta del bagno. Busso leggermente. Poi dico: «Oh, avete finito?» Niente. Nessuno risponde. Allora busso più forte, macché. Silenzio. Ma se restano zitti vuol dire che non stanno nemmeno trombando, mi dico. Vuoi vedere che è successo qualcosa. Provo ad aprire la porta ma è chiusa dall’interno. Cavolo, penso. Allora chiamo i due stronzi dietro di me, due facce da culo che non vi dico. Li spiego la situazione e vanno a chiamare Aldo, che sopraggiunge con un piede di porco. Un minuto dopo siamo dentro il bagno delle donne, ma del nostro amico e della fantomatica Elisa neanche l’ombra. Spariti! «Per me siete tutti e tre ubriachi!» conclude Aldo tirandosi dietro il bandone. Poteva anche aver ragione, perché di bicchierini ne erano passati quella sera, ma nessuno di noi tre aveva perso di vista per un secondo la porta del bagno, e quei due non potevano avercela fatta sotto il naso. Comunque ce ne andiamo tutti quanti a casa, perplessi e anche un po’ preoccupati. La conferma l’avemmo il giorno seguente. Nessuno sapeva più dove si trovasse il povero Tibia. A casa non era tornato, e sua sorella, la Marcella, non aveva idea di dove fosse. Io andai a cercare le signore per chiedere qualche informazione su questa Elisa, ma loro non se la ricordavano neanche. Mai vista! La sera dopo noi ci ritrovammo al solito tavolo. Raccontammo la storia al Cossu che ci prese per pazzi. Poi
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qualcuno propose una briscola, che tanto eravamo solo in quattro. Iniziammo, ma c’era qualcosa che non andava con le carte. Erano proprio quelle della sera prima. Dopo averle smistate, ne rimaneva una fuori. Così mi misi a contarle. Una, due, tre, trent’otto, trentanove, quaranta, quarantuno… «Che cazzo vuol dire!» esclamai. Le ricontai altre due volte, ma erano sempre una in più. «Puttana!» mormorai io a denti stretti. E cercai il re di fiori nel mazzo. Ne trovai due. Due maledetti re di fiori. Povero Tibia!
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IL PRETE
La gente va a confessarsi dal prete, mentre il prete viene a confessarsi da me. Funziona così nelle periferie della città, nei borghi lungo le statali e nei paesini. Il bar è il luogo ideale per lasciarsi andare, ma c’è sempre una reputazione da proteggere, e allora bisogna scegliere la persona giusta. E chi meglio del Gano, dico io… Eh già, di segreti ne conosco anche troppi, ma va bene così. No, non fraintendetemi, non sono un curioso, e quello che mi dite potete stare tranquilli, rimane al sicuro. Ma so che è importante per certa gente trovare una persona che sappia ascoltare. E poi ci sono quelli che non sanno proprio a chi rivolgersi, come il prete, appunto. E che avrà fatto di male questo prete!? Già m’immagino cosa state pensando. Ma no, niente schifezze, altrimenti gli avrei ammollato un calcio nella palle e gli avrei fatto passare la voglia. No, il povero cristo si era lasciato solo un po’ andare. Adesso ne posso parlare, perché lui non c’è più, pace all’anima sua. E poi tanto il nome mica ve lo dico… Comunque, il prete, un omino piccino coi capelli bianchi e con la classica nappa da prete amante del buon vino, m’aveva visto nascere, praticamente. Io la chiesa la sgamavo, catechismo, comunioni… no, quella roba in casa nostra non c’entrava neanche per sbaglio. Mio padre era un comunistaccio convinto e ai preti li avrebbe dato fuoco. Io non mi spiegavo da dove venisse tutto quest’odio. Non mi spiegavo tante cose del vecchio, riposi in pace tra le fiamme dell’inferno! Eppure, vi dicevo, che anche se in chiesa non ci mettevo piede, c’avevo un sacco di amici che ci andavano a giocare a pallone, e capitava spesso che il prete ci venisse a dire qualcosa se facevamo troppo rumore. La periferia della città
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è come un paese. Ci si conosce tutti, e tutti sanno tutto di tutti, ma fanno tutti finta di non sapere una cavolo! Ciononostante i segreti esistono, perché vedete ci sono due tipi di segreti, quelli che tutti sanno e quelli che nessuno conosce. Il prete veniva al bar, di solito la domenica dopo la messa. Chissà se il vinello gli serviva per la gola secca del dopo sermone, o per convincersi di non aver appena proferito un sacco di stupidaggini. A me piace pensare che il vino abbia molti perché, e non è necessario che il bevitore li conosca tutti quanti! Quel giorno era agitato e l’ora stava diventando tarda. C’era stato un funerale al mattino, la povera signora Clara, una bella donna sulla cinquantina con due figli grandi e un marito impiegato alle poste. Se l’era portata via quello stramaledetto cancro… «Padre, tutto a posto?» gli chiesi avvicinandomi al banco. Ordinai un corretto a stravecchio. «Si, grazie…» ma i suoi occhi erano lucidi, le mani gli tremavano e dalla bocca fuoriuscivano zaffate di vino. «Perché non viene al tavolo, facciamo due chiacchiere?» Lui non provò neanche a rifiutare per cortesia. Si aggrappò alla mia offerta come un naufrago al salvagente. «Che le succede Padre? Qualcosa che non va?» Ai tavolini di plastica del bar eravamo solo noi due. Un confessionale non poteva essere più riservato. «Gano, quant’è che ci conosciamo?» «Non saprei… mi ha visto nascere, Padre.» «Perché non sei mai venuto in chiesa?» «Cos’è, una paternale?» «No, ma che dici… sono solo curioso….» «Beh Padre, Gesù ha il suo stile, non ne dubito, ma il resto sono solo… come dire…» «Stronzate?» Fa uno strano effetto vedere quella parola in bocca ad un prete! Ma io annuii, perché aveva centrato il punto.
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«Non ti stupire Gano, povero diavolo… Anch’io troppo spesso dubito di quello di cui non dovrei mai dubitare…» «Crisi di fede?» «Sempre Gano! Sempre. È ciò che mi fa andare avanti. Il dubbio… ma non è questo il motivo dei miei cinque cicchetti…» « E allora?» «Clara….» «No!» «Eh già…» «Non vorrà dirmi…?» «Io non ho detto niente, figliolo…» Ecco, questi sono i segreti-segreti, quelli che non si possono neanche raccontare. Bisogna intuirli, bisogna fare finta di averli capiti, per poi riuscire con naturalezza ad ammettere di averli fraintesi. Sono i segreti non detti, mai svelati, verità fantasma che aleggiano sopra i bar di periferia. «Ne prende un altro, Padre?» «Solo se mi fai compagnia, Gano…»
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LA MOGLIE DEL TRIPPA
Fuori pioveva e stare dentro al bar era una bellezza. Avete presente quelle giornate di febbraio, fredde e buie, e magari tira anche un vento bastardo dal nord, di quello che ti gela dentro, e porta sempre una pioggerella fina, che sembra innocua ma poi te la ritrovi anche nelle mutande. Insomma, era giornata di quelle, e fare due chiacchiere con la Giorgia mentre mi prepara il corretto a stravecchio è come stare in paradiso. Della Giorgia ve ne ho già parlato, mi sembra… Bel culo, bel sorriso, bel tutto. Comunque, si diceva, tutto al bar diventa meraviglioso col grigio fuori; il baldacchino dei lecca lecca, le bottiglie polverose, i biscottini al cioccolato antichi, le schedine prefatte buttate in un angolo e anche il grugno di Aldo che aspetta i clienti alla cassa. Peccato che poi in queste giornate succeda sempre qualcosa di brutto… Entra di volata il Fantomas, amico di briscola, bestemmia contro il tempo e mi punta da lontano. Ci siamo, mi dico, che è successo questa volta? «Gano, proprio te!» «Che ho fatto?» «Niente» biascica, già avvinazzato. «É il Trippa. Si vuole buttare!» «Come?» Il Trippa è placido come un agnellino, mai un problema da quando lo conosco, moglie e un bambino alle medie, viene la domenica a vedersi la partita e il giorno per il caffè. A volte ci beviamo un sambuchino insieme. A volte… «Sua moglie lo ha lasciato. Adesso è sul cornicione di casa sua, ci sono anche i pompieri, e non vuole venir giù!» «Dio lemme! Non perdiamo tempo!» gli urlo. Saluto la Giorgia e il pizzo del suo reggiseno, e seguo Fantomas nella
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sua pandina verde pisello. Il cruscotto è un campo da battaglia disseminato di pacchetti di sigarette accartocciati, tagliandi di parcheggi e contravvenzioni. Il portacenere è così pieno di filtri di muratti che sembra sul punto di esplodere. Tenero vecchio Fantomas, chissà qual’è il tuo vero nome, penso. La scatoletta sfreccia nel traffico cittadino di un balordo venerdì di pioggia. Le sospensioni sono un mero optional del gioiello Fiat. Ci vogliono almeno venti minuti e un centinaio di moccoli per raggiungere casa del Trippa. Anche di lui non mi ricordo il vero nome. Avrete già capito che il Trippa non è un tipo molto agile. I centoventi chili li ha superati da un bel po’, e m’immagino il macello che potrebbe causare sull’asfalto, nel caso decidesse di farla davvero finita. Aggrappato alla grondaia all’altezza del quinto piano, in un palazzo decadente della periferia cittadina, il Trippa piange ed è uno spettacolo per stomaci forti. Ecco perché io sono lì. Sotto i pompieri fumano e discutono la strategia. Ma che strategia e strategia, penso io. «Portatemi da lui, lo conosco. Fatemi parlare cinque minuti» li dico. Loro continuano a fumare, incominciano a parlare di regole, ma alla fine si convincono da soli che l’idea è buona, specialmente per loro che non devono sporcarsi le mani. Monto nella gabbia del braccio meccanico e incomincio a salire. Le vertigini sono un nemico di vecchia data, che all’imbrunire si dissipa come molte altre paure, grazie a numerosi corretti cognac e grappini vari. Il Trippa mi guarda e incomincia a gridare come un matto. «Gano, lasciami stare! Voglio farla finita…. Quella troia!» “Trippa, se volevi farla davvero finita ti eri già buttato” penso io, ma non glielo dico perché se qualcuno mi sente e poi il fesso si butta, danno la colpa a me. La gabbia si ferma ad un paio di metri dal vecchio grassone. Ci sono cose nella vita che non si possono
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spiegare; le donne, ad esempio, oppure il senso dei quiz televisivi, o la differenza tra un cappuccino senza schiuma e un caffellatte. Ma che quella vecchia grondaia arrugginita potesse reggere il peso del Trippa superava ogni regola dell’universo. « Dai, falla finita e vieni giù!» «Ci vengo giù, stai sicuro Gano…» «Ma no, non intendevo quello. Dai, parliamone…» «Che cacchio vuoi parlare… quella troia! Lo sapevi che c’aveva un altro?» Boia, le vertigini! Mi aggrappo alla gabbia smaniando un goccetto. «Ma chi, tua moglie?» «E chi sennò?» «Boh… la tua ganza, che cazzo ne so io…» «Ganza? Ma vai in culo, Gano. Guarda che mi butto per davvero!» «No, fermo… insomma, ma non è stata lei a lasciarti? Spiegami.» Le vertigini passano. Respiro e cerco di fare il punto della situazione. Molto meglio…. «È andata da lui.» Il Trippa che piange è quasi peggio delle vertigini. «Lui chi?» «Un ingegnere di Pavia, che cacchio ne so io…» «Guarda che culo che hai avuto!» «Come?» «S’è portata dietro il figliolo?» «Si…» «E allora posto. Stasera veniamo io e il Fantomas a casa tua e ti portiamo anche la Petra. La conosci la Petra, no?» «Si…» L’omo va distratto con le sue cose. Appena nominata la Petra, il Trippa smette di piangere… «Si porta un po’ di vinello, ci guardiamo un film e poi vi lasciamo soli, che ne dici?» «Ma io…» la coscienza è una brutta bestia, mentre l’amore è una favola raccontata male. «Ma cosa ti credevi, che eri l’unico uomo per lei?»
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«Ma veramente…» «Guarda, con tutta sincerità, tua moglie è una brava donna, belloccia, e poi a letto ci sa fare, però…» «Che cazzo stai dicendo? Ci sei stato anche te?» «Appunto, proprio quello che ti stavo per dire… un brava donna, ma un po’ troia…» «Ma io t’ammaz…» mi urla, e si sgancia dalla grondaia, ed io mi sporgo come un matto dalla gabbia, lo spingo indietro sul cornicione, lui si riaggrappa come una scimmia al tubo di ferro e ci guardiamo un po’ negli occhi. Come ci starebbe bene un grappino, penso. «Hai finito di fare il cretino?» gli domando. Ha il volto stravolto. Per un momento ha visto la morte in faccia, un prezzo troppo caro da pagare per qualsiasi sgualdrina, e soprattutto per una moglie. «Va bene Gano. Vengo giù!» La vita non è stronza. Sei stronzo tu se ti fai fregare! Quella sera fu una bellezza. Il Trippa sembrava ringiovanito di dieci anni, tirato a lucido con la brillantina e le bretelle rosse. La Petra ci costò il doppio ma ne valse la pena. Quella notte, almeno per una volta nella sua vita, il Trippa era diventato il Tromba.
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LA LEGGENDA DEL BRISCOLONE
- Brutta caccola, dov’eri finito! - Come dov’ero finito, non mi sono mai mosso di qui, io! - Non è possibile, è la terza volta che faccio il giro della piazza… - Fatti una visita agli occhi, che ti devo dire… - Vieni, monta, sennò si fa tardi. Rocco e Pelo si conoscevano da una vita, o forse si erano visti anche prima, e come dicono certe filosofie orientali può essere che quelle due anime balorde siano destinate a reincarnarsi all’infinito per stare sempre vicine. Asilo insieme, scuola insieme, militare insieme, prima volta insieme, ovviamente sul vialone, non c’era cosa che uno non sapesse dell’altro. Neanche le rispettive mogli li conoscevano come si conoscevano tra di loro. Il giorno di cui vi racconto era uno di quei pomeriggi piovigginosi di novembre, ancora non freddo ma buio e tristo. Rocco aveva fissato alle tre davanti al bar, e in effetti Pelo era già lì alle tre meno un quarto, ma tra le sambuche e le chiacchiere era rimasto ancorato al banco. Rocco non c’aveva le traveggole, era davvero passato davanti al bar due volte senza trovarlo, ma Pelo non voleva mai pigliar torto, e Rocco questo lo sapeva bene, così lo lasciava dire. - Ma quando ti decidi a pulirla questa carriola? - Sta a vedere la prossima volta ti verrò a prendere in limousine… - Cosa vorresti insinuare, che non me la meriterei? Io ho guadagnato tanti di quei soldi nella mia vita che avrei potuto comprarmi come minimo tre limousine. - E invece non c’hai neanche il motorino! - Perché me li son goduti io i quattrini. Mica come quegli schifosi che si fanno chiamare vip, con le loro donne di
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plastica, il Don Perignon, la barca in Sardegna. Li ho conosciuti io sai, al casinò. Vanno tutti alla roulette a puntare due fiches, per farsi notare e basta. A San Remo nel ’98 io ci lasciai mezzo miliardo al tavolo del poker, capito Nini? - Oh, ancora con la storia di San Remo? Basta, dai. Il traffico era quello del venerdì, che malgrado fosse ancora primo pomeriggio c’erano già le code dei rientri. L’ignoranza del popolino si manifesta in tutto il suo splendore tra gli scarichi delle marmitte e i semafori rossi. L’omicidio diventa un’ottima soluzione ai problemi dell’uomo medio. Ma i nostri due eroi erano in largo anticipo per l’appuntamento che li aspettava, così procedevano a singhiozzo su una vecchia uno verde, calmi come due oranghi sedati, marlboro light per Pelo e toscanello per Rocco. - Menomale abbiamo fissato per le quattro, con questo traffico c’è da diventar matti! - Poi non ti credere, di sicuro Panfilo si farà aspettare… Panfilo era il terzo in comodo, compagno di avventure ma defilato, perché lui c’aveva l’azienda e la ganza, e quindi non c’era praticamente mai. Ma quando c’era ai due era permesso di fare un salto dal greco, che imbastiva il briscolone con puntate più che dignitose. Panfilo assicurava Pelo, che dopo il fattaccio di un pagherò saltato era stato bandito dalla bisca, e prendeva un buon venti percento delle vincite, se c’erano. Ma con Rocco e Pelo al tavolo della briscola non c’era scampo per nessuno. Arrivarono davanti alla casa del popolo alle quattro meno dieci, e dovettero aspettare quasi mezz’ora prima di vedere sopraggiungere un omone col piumino e il berretto. - Guardalo come sta con quel giubbotto, come se fosse freddo… - È sempre stato così Panfilo. Anche d’agosto con 40 gradi indossa camicia e gilet. - Oh ragazzi, che siete già qui? -
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- No, ora s’arriva… - Non fare lo spiritoso te, che se non fosse per quel bischero del sottoscritto col cavolo sederesti al tavolo del greco. - Boni ragazzi, boni… Entrarono insieme al circolino e ordinarono tre sambuche con quattro mosche. Quattro era il numero che apriva la porta della stanza del greco, quella dietro la dispensa, allestita con tre tavoli professionali da gioco. Non avevano ancora finito il caffè che una ragazza bionda molto fuori luogo apparve dietro il banco accanto al vecchio barman, e li invitò a seguirla. Passarono per uno stretto corridoio illuminato da una trappola per zanzare, scavalcarono alcuni fusti di vino e cocacola, attraversarono una tenda di ciniglia verde vomito, e giunsero infine davanti a una porta chiusa. La ragazza aveva la chiave e fece scattare la serratura. - Belle cosce! - Eh già! Ma la ragazza non si girò neanche a guardare i due commentatori, ovviamente Rocco e Pelo. Aprì la porta e una zaffata di fumo li investì. - Aria di casa mia… - Parla per te, Pelo. - Ah, perdonami Panfilo, dimenticavo che hai smesso di fumare da… quanti giorni? Tre? - Boniiiii… Il tavolo era già imbandito. La luce puntava il mazzo di carte Del Negro e il portacenere mezzo pieno, sopra una pratino verde con qualche bruciatura di cicca. Il greco sedeva defilato al tavolo di destra, con una vecchia romagna in mano e una senza filtro in bocca. Lui riscuoteva subito. La bionda era la sua compagna ma fungeva anche da soubrette e da cameriera. Il costo delle consumazioni subiva un leggero rialzo ai tavoli del greco, qualcosa tipo un caffè quattro euro e dieci pezzo per i superalcolici. Ma questo era
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accettato da tutti i frequentatori. D’altra parte se volevi puntare grosso non c’era che lui in città. Ma adesso parliamo degli avversari dei nostri due eroi, una coppia di tutto rispetto. In piazza erano conosciuti coi nomi di Checco e Occhiolino, il primo perché sicuramente faceva di nome Francesco, il secondo per la sua reputazione di grande segnalatore di briscola. L’occhio più veloce dell’Appennino, alcuni dicevano. Non c’era verso di sorprenderlo da quanto era veloce, ma Pelo quella storia l’aveva sempre snobbata; “ma quali segni… non penserete che usino i segni classici, non lo fa nessuno ormai. Ti fanno solo credere di stare al gioco, ma in realtà sono due figli di buona donna, ecco tutto!” Rocco invece era più umile e riconosceva il valore dei due avversari. Li aspettava una grande sfida, ma il piatto era un signor piatto, e poi c’era il discorso del prestigio, al quale Rocco e Pelo tenevano senz’altro di più. Quella sarebbe stata la giocata che avrebbe proclamato la coppia campione. - Siete pronti per un bella risolata? - Che canti già vittoria Pelo? - Beh, con due morti come voi, anche a occhi chiusi… - Non incominciare a offendere, eh! - E chi offende… - Bono Pelo, dai. Tu ci tiri addosso il malaugurio… E così incominciò, e le carte girarono per ore su quel tavolo verde. Panfilo rimase a bere e chiacchierare con il greco, la bionda fece un paio di su e giù coi bicchieri, e il fumo divenne più denso che mai. Non venne nessun altro quel giorno. La sala da gioco era tutta per loro. Diecimila euro di piatto e una tirata assicurata fino al mattino. Alle otto il greco se ne andò a cena con la sua bionda e un giovane tunisino gli dette il cambio. Anche Panfilo se ne tornò a casa, ma i giocatori si accorsero appena di questi eventi. Le carte giravano, perché come girano loro girano solo i coglioni in quelle giornate no, specialmente d’inverno
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quando lo scaldabagno non ti funziona e ti è finita la scorta di Lavazza. Fino a mezzanotte i nostri due eroi potevano dirsi in vantaggio, ma insieme alla stanchezza subentrò anche quella bastarda della signora sfortuna. Le carte avevano smesso di girare ed erano solo dalla parte di Checco e Occhiolino. Pelo schiumava, e non solo per colpa della decima sambuca. Rocco si puntellava sui gomiti, col toscanello che gli penzolava dalle labbra. - Ragazzi, ma non provate un po’ di vergogna per il culo che vi ritrovate? - Le carte girano, Pelo… - Girano un paio di palle Checco! Son cinque mani che non ci entra una briscola decente! - Ma smettetela di lamentarvi! Fino a due ore fa c’avevate le carte migliori voi! Ma quando si sfora una certa ora, tipo le tre o le quattro di notte (o per alcuni del mattino) la realtà incomincia a perdere consistenza, e se la storia diventa mito nessuno se ne accorge. Dovete sapere infatti che al bar questo grande briscolone è diventato col tempo una specie di cantata epica, e ognuno c’ha il suo modo di raccontarla. Perché, prima di tutto, e ve lo dico subito così vi metto l’anima in pace, nessuno ne uscì vincitore. Poi dei nostri quattro giocatori solamente il povero Rocco, pace all’anima sua se ne andato tre mesi fa, cancro bastardo, ha avuto il coraggio di raccontare qualcosa. Gli altri si sono tutti chiusi in un silenzio imbarazzato, tipico da dopo sbornia, e hanno smesso di giocare a briscola e di frequentare il locale del greco. Per quello che ci è dato di sapere sembrerebbe che verso l’alba le due coppie si trovavano nuovamente in parità, e mentre si avvicinava l’ora che avrebbe decretato la fine delle ostilità, ovvero le sette del mattino, i punti che separavano le due squadre continuavano ad assottigliarsi. Allo scoccare delle sette precise, mentre il tunisino se la dormiva della grossa e le bottiglie di vecchia romagna e di
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sambuca sul tavolo verde erano più morte del mio povero nonno, i punti di Rocco e Pepe erano esattamente gli stessi di quelli di Checco e Occhiolino. Cioè, per spiegarmi in parole spicce, soprattutto per i meno esperti di briscola, si era verificata una situazione di parità assoluta che neanche nella peggiore casistica ci si poteva aspettare. - E adesso cosa si fa? - Come cosa si fa? La bella si fa! - Vuoi dire una secca? - Per forza! E così tornarono a girare le carte sul tavolo. Una partita meravigliosa, trascinata dagli ultimi residui alcolici nei corpi dei quattro eroi. Ma che burla del destino quando andarono a contare le carte e si accorsero di un’altra incredibile parità: sessanta a sessanta. - Maremma impestata! - Questo tavolo dev’essere stregato! A quel punto la storia si fa confusa, o almeno è quello che ci è dato di sapere. C’erano delle voci nella stanza, e le luci sui tavoli sembravano si fossero smorzate da sole. Entrò la donna del greco vestita da regina di picche, con dietro il greco in persona, ma non era proprio lui. Era il re di picche, ovviamente, vestito col mantello pellicciato e la corona pacchiana. Insomma, lei si avviò al tavolo di gioco e si distese supina con la testa indietro rivolta a Pelo. - Come va la partita, ragazzi? Subito dietro di lei c’era il re, cioè il greco, che con gli occhi lucidi come fondi di bottiglia dichiarò: – Signori, è arrivata l’ora di levarsi dai coglioni! Poi tirò su la gonna della regina e incominciò a fare i suoi comodi davanti a tutti, con un ghigno spaventoso sotto due baffi da greco. Il greco c’aveva i baffi, mi ero dimenticato di dirvelo… Col vecchio su e giù la bionda di picche iniziò a cantare l’Aida, salendo di ottave insieme al movimento del re. I
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quattro giocatori restarono immobili con le sigarette in bocca e le carte in mano (toscanello per Rocco, s’intende.) - Vai, vai, vai… - E vadoooooooooo! Più stralunati che imbarazzati per quell’assurda situazione, i quattro si guardarono negli occhi e insieme proposero la patta. - Che si finisce qui? E così sembra infatti che sia finita. Ognuno riprese la sua parte della posta in gioco e ritornò a casa, rimuginando bene sull’accaduto. Sogno o realtà? Verità o delirio? Beh, vedete, quando alcuni personaggi di grossa caratura come quelli di cui vi ho appena narrato le vicissitudini vengono coinvolti in situazioni estreme, la realtà automaticamente viene alterata, distorta e amplificata. Colpa dell’alcol, del fumo e della stanchezza? Ma certo, siete liberissimi di pensarla così. D’altronde è più facile accettare una spiegazione razionale. Ma il mito e la leggenda si reggono sempre su delle solide fondamenta di verità. Il re e la regina di picche cavalcarono il tavolo verde, decretando la fine del gioco, suggellando una parità fuori dalla norma. Da quel giorno tutti e quattro smisero di giocare a briscola, ma li potevi vedere insieme alla casa del popolo al tavolo del ramino, a ridere, scherzare e bere sambuca. Ma se qualcuno tirava fuori in loro presenza la leggenda del briscolone, quelli lo guardavano storto e se ne andavano. Perché le leggende, specialmente quelle da bar, bisogna saperle tramandare in segreto, farle aleggiare sopra il banco delle paste e i tavolini di plastica. Bisogna prendersi cura di loro. Io, nel mio piccolo, spero di esserci riuscito con questo breve racconto.
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MASTRO LINDO
«Che c’è Ciccio?» Al bar Mastro Lindo chiamava tutti “Ciccio”, perché i nomi non erano il suo forte. L’interesse disinvolto che dimostrava per le persone aveva un che di genuino. Lungo e magro come un giunco, si chinava con la testa pelata per guardarti in faccia e stabilire un contatto. Aveva gli occhi lucidi, inumiditi dai troppi camparini, ma azzurri e sinceri come quelli di un cucciolo. Riusciva a vederti dentro, non so se mi spiego. Ci sono persone che nonostante abbiano imboccato strade avverse e con gli anni siano diventate le ombre di una città malata, rimangono in qualche modo pure dentro, e quella purezza affiora nei momenti più impensati, magari verso l’ora dell’aperitivo quando la giornata ce l’hai tutta sul groppone, e ti aggrappi al negroni come un naufrago, perdendo lo sguardo oltre le porte a vetri del bar, dove la pioggia batte e l’asfalto graffia. «Che c’è Ciccio?» Me lo chiese a me quella volta, perché era un giorno di quelli. Ne ho pochi, per fortuna, ma ogni tanto arrivano. Sono i giorni in cui detesti ogni fibra del tuo corpo, ogni particella del tuo vivere, ogni frammento di secondo del tuo incessante scorrere, un inutile e claudicante trascinamento di membra già in putrefazione. In quei momenti sei consapevole solo dell’esistenza delle tue appendici; la lingua, il cazzo e il buco dell’ano. Sono gli unici interruttori capaci di farti sentire un po’ vivo. Ma poi ti ritrovi a pensare a tutte quelle dannate budella che si trovano nel mezzo, quelle lasciate ai gatti di strada e all’ennesima ribevuta… «Niente Mastro, sto bene. Non preoccuparti…» «No Ciccio, non stai bene… dai mettiti a sedere, ti offro qualcosa…»
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Esistono le forze della natura e le forze da bar. Mastro Lindo era una forza da bar, uno tsunami di buoni propositi e sorrisi gentili. Ti prendeva il braccio e a volte ti stringeva un po’ forte, ma anche quando ti faceva male era un piacere, perché ti sentivi al sicuro vicino a lui. Era più alto di quanto sembrasse, perché se ne stava un po’ gobbo. Di sicuro toccava il metro e novantacinque. Teneva la zucca pelata in bella mostra e i neon del bar vi si riflettevano sopra come sulle palle da biliardo. Sulla pelle tirata spiccavano un paio di fitte, reminiscenze di alcune ferite da curva. Il calcio era una delle sue fisse. «Insomma Ciccio, che cosa c’hai? Non ti ho mai visto così…» Perché non mi faccio mai vedere così, pensai io. Gano al bar ci va quando è di buon umore. Le “giornate no” le passo sotto le coperte ad osservare il soffitto e a stringermi le trippe. Ma oggi è successo tutto così d’improvviso, tutto così dannatamente di botto… «Che ti devo dire Mastro, è la vita. A volte fa proprio schifo…» «Ma no dai! Là fuori forse, ma qui dentro si sta d’incanto. Guarda che vestitino si è messa la Giorgia oggi…» Si, la Giorgia stava divinamente con quel vestitino a fiori e i capelli tirati su. E fuori effettivamente era tutto una merda, e starsene ai tavolini di plastica, cullato dal brusio del bar e dall’ennesimo aperitivo, era come sedere alla corte di Giove circondato dalle ninfette. Però… «Si, c’hai ragione, ma oggi è una di quelle giornate, sai…» «Dai Ciccio, che te ne frega! Pensi davvero che potrebbe andare meglio di così? Pensi che una moglie, dei figli, una casa col giardino possano farti sentire meglio di come ti senti adesso, su queste seggiole da quattro soldi? Pensi che il grano ti possa risolvere tutto? O le Mauritius? O che ne so… No, Ciccio, non farti fregare. Se le cose andassero meglio non te accorgeresti neanche, ma lo avvertiresti
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subito se andassero peggio. Perché le cose possono sempre andare peggio, non pensi?» Aveva centrato il punto, e lo sapevo perché erano esattamente le frasi che dispensavo io alla gente del bar. Grande Mastro Lindo, ce l’hai fatta, pensai. Hai detto proprio quello che volevo sentire. Beviamoci su… E così rimanemmo a bere fino all’ora del TG. È passato mezz’anno da quando la cirrosi si è portata via il vecchio Mastro. A volte gli occhi mi diventano umidi senza che me ne accorga. Ripenso alla sua testa pelata, al suo sorriso e a quegli occhi celesti e giusti. Alla sua anima, che adesso vaga solitaria nell’etere del bar, sopra le fettine di limone adagiate dentro i bicchieri del campari soda. Al suo “Ciccio”, che metteva allegria. Alla sua postura, piegata dall’altezza ma non dalla vita… Penso a tutto ciò ed è come se fosse ancora qui… …e forse è qui per davvero.
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NATALE AL BAR
È una di quelle giornate fredde di dicembre in cui hai bisogno sicuramente del doppio calzino, specialmente se i calzini ce l’hai tutti bucati. È un vecchio trucco quello di metterne due paia per tappare i buchi, ed io li conosco tutti i vecchi trucchi. A dicembre, se il sole basso abbaglia, vuol dire che fa un freddo della madonna. Te ne accorgi anche dai vetri delle finestre appena metti il naso fuori dalle coperte, però non ce la fai a rimanere a letto perché quel sole è proprio una meraviglia, pare quasi dipinto e forse lo è per davvero, ti chiedi perplesso picchiettando con l’indice la colonnina di mercurio in terrazza, che durante la notte è scesa abbondantemente sotto lo zero. Ti avvii in cucina per preparare il caffè e ti accorgi che ti hanno appena tagliato il gas. Ti spieghi il freddo padrone della stanza, ti spieghi le bollette abbandonate ancora chiuse sullo scaffale, ti spieghi anche perché il mondo faccia così schifo; tagliare il gas ad un povero cristo proprio la vigilia di Natale. Quasi quasi ti vien da ridere, se solo il freddo non ti avesse paralizzato i muscoli della faccia. Unica soluzione; il bar. Spingi la porta a vetri e subito ti rendi conto che non sei il solo ad averla pensata alla stessa maniera. Certo non è proprio Natale, è solo la vigilia, ma tutti sanno che il 25 il bar resta chiuso e quindi è meglio approfittarne. I tavoli sono già occupati dai soliti avventori. Avranno tagliato il gas pure a loro, ti chiedi. E mentre te lo continui a chiedere ordini quel maledetto caffè che non sei riuscito a farti a casa. La Giorgia ha un cappellino rosso che è una meraviglia. Ti sorride e si adopera a farti una crema che sveglierebbe anche Morfeo. «Mettici un po’ di mommo, tanto son gia le nove…» le dico, e lei sa già dove andare a pescarlo, il mommo. Bevo il
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corretto e incomincio il giro. Fantomas col cappuccino e la Gazzetta, il Lalli spaparanzato con la Repubblica, Giulianino appoggiato al frigo dei gelati con gli occhi persi su una foto della Ventura in mezzo al Venerdì (sempre quello della Repubblica, il giornale dei finti comunisti), e poi c’è il Mignozzi col telefonino in mano a messaggiare alla ganza, tutti in posizione come se fosse un giorno normale, ignari delle palline colorate e delle lucine disseminate per il bar. «Buon Natale , ragazzi…» saluto io. Nessuno si muove. Tutti fanno finta di nulla, ma è ordinaria amministrazione. Bisogna aspettare perché la gente del bar c’ha i suoi tempi. In ritardo, ma una reazione arriva sempre. «Oh Gano, anche oggi qui a rompere i coglioni?» domanda il Lalli da dietro il giornale. Avrete già capito che personaggio è questo Lalli. Parlarne in maniera più dettagliata sarebbe come sparare alla croce rossa. Il Lalli è semplicemente il Lalli, una grande faccia di culo…. «Che fanno i tuoi amici DS quest’anno? Tortellini in brodo e lenticchie a fine anno?» rispondo io, graffiando il suo cuoricino rosso bandiera. «L’ho sempre saputo io che il Gano è un fascistone» dice lui di rimando. Ma in verità a me la politica non ha mai detto niente. Destra e sinistra, alla fine mi sembrano tutti uguali, specialmente in quest’ultimi tempi. A me interessano concetti più semplici, diciamo pure basilari, che alla fine son solo due; il bel mangiare e lo stare in compagnia, cose che tra l’altro si fanno bene insieme, ed è proprio per questo motivo che propongo un bel pranzo dal Freddy… «Quando, domani?» chiede Fantomas, ripiegando la Gazzetta. «Si fa il pranzo di Natale; bollito misto, tortelli e vinello… Che ne dite?» rilancio io.
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Il Mignozzi se ne esce fuori con una “’sta stronza!”, e rimette in tasca il cellulare. «Io ci sono» aggiunge, poi guadagna l’uscita per accendersi una sigaretta. «Vai, ci sono anch’io» conferma Giuliano, sfogliando le cosce della Simona. «E tu Lalli, cosa ne dici?» lo provoco, perché so che vorrebbe dirmi di no per farmi uno spregio, ma questo significherebbe passare il Natale da solo. «Ma, ora ci penso…» risponde lui, ed io so già che dovrò chiamare il Freddy e prenotare per cinque. «Bene, a posto allora» dico io, poi me ne vado a farmi il primo cicchetto. È incominciata la vigilia. I santi zampettano un cha-chacha nei cieli, il vecchio Santa ritira l’assegno dalla Cocacola, gli elfetti se lo menano tra di loro, Gesù fa finta di rinascere anche se non è il suo giorno, i bimbi aprono milioni di regali inutili e l’economia continua a macinare carne umana. Però le palline colorate e le lucine mettono tanta gioia, non trovate anche voi? «Giorgia, fammene uno…» «Arrivo Gano!»
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LA FACCENDA DELLA STIRERIA
Davanti a questo foglio bianco voglio una volta per tutte chiarire la misteriosa faccenda della stireria, che col passare del tempo si è trasformata in una storia di cattivo gusto che al bar, ma ormai anche in tutto il quartiere, sta lentamente pregiudicando la mia reputazione. Ora, non c’è bisogno di tante introduzioni, il Gano lo conoscono tutti e solo chi c’ha da la coda di paglia può affermare che io non sia una persona di parola. Non ho peli sulla lingua, forse ce n’ho qualcuno nel culo, ma quelli servono per tenere alla larga i manganelli di carne. Ed è esattamente di questo che vi voglio parlare. Non faccio segreto del fatto di esser stato più di una volta in compagnia di un travestito, sempre e solo in atteggiamento da signore come nei confronti di una signora, non so se mi spiego. A me interessa solo la crema della vita e non sto certo a rimuginare sull’etica o sulle morali, tanto meno quelle cristiane. Hai visto un po’ di cosa son capaci di fare certi uomini di dio; bombe, guerre, stragi, violenze. Io in quarantasette anni non ho mai alzato le mani su nessuno che non se lo meritava, e comunque anche in quel caso è successo molto di rado. Prima di arrivare alle mani cerco sempre di spiegarmi, per questo sono qui a chiarire la faccenda della stireria, anche perché mi sono rotto i coglioni e voglio che questa storia si cheti una volta per tutte. Per quanto possa sollazzarmi il gozzo con ogni sorta di nettare degli dei (sambuca e stravecchio in primis) è difficile che mi scappi qualcosa. È vero che delle volte qualcuno mi ha trovato sulla panchina del giardino in condizioni non proprio virtuose, ma la lucidità non la perdo, state tranquilli. Ricordo sempre tutto per filo e per segno, così come quella sera di cui vi sto parlando, malgrado
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quello che dicano le malelingue. La ragazza (o ragazzo, chiamatela come volete) mi fece lo sconto perché tra tutti ero quello belloccio, e qui c’è testimone il Testa (si potrebbe fare anche la battuta, Testa il Testimone). La stireria appartiene al cugino della tipa, brasiliano pure lui. Lei (o lui) ha il doppione delle chiavi e quando c’ha più di un cliente per volta ne approfitta, butta un paio di cenci per terra e fa i suoi comodi. Quella sera eravamo in quattro, come di certo saprete ormai tutti; il Testa, Pelo, il Conte e quel bischero del Gano. Alla ragazza va benissimo, però ne vuole solo uno alla volta e senza interferenze, ma a una sbirciatina è difficile resistere. Il primo è il Pelo che dura tre cacate. Il tempo di farsi un giretto ed è già tutto finito, avanti il prossimo. Il Testa è quello più imbarazzato, ma la tipa ci sa fare e lo mette subito a suo agio. Anche per lui è questione di cinque minuti, non di più. Poi tocca al Conte, il Signor Pisello, come gli piace farsi chiamare. E vi giuro che se non la smette di rivangare con questa storia finisce male… Insomma, si diceva del Conte, tutto impettito si avvicina al brasiliano, che a quell’ora tarda e con tutta la roba che si era bevuto non era davvero male, e incomincia il vecchio su e giù. Passano i minuti ma è sempre lì. Noi lo osserviamo dall’uscio senza farci vedere. Dopo un po’ si va fuori a fumarci una sigaretta, perché comunque lo spettacolo non è un granché. Finita la cicca eccolo che appare. “Vai, è il tuo turno Gano! Sistemalo per feste!” Ma io rimango un signore anche coi travestiti, perché tutti c’hanno un anima, troppo spesso rinchiusa contro il suo volere dentro dei maledetti gusci di carne. In parole spicce mi avvicino al tipo con dolcezza e inizio a fare quello per cui l’ho pagato, tutto regolare, il vecchio spingi-spingi. Ma proprio sul più bello, STAC! la maledetta schiena. Perché io da quando ero ragazzo c’ho un problema grosso alla giuntura tra quarta e la quinta vertebra lombare,
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che son cascato male quando giocavo in porta… Da quel giorno ogni volta che mi piego o faccio un sforzo in una posizione sbagliata, devo stare attento altrimenti rimango bloccato. Insomma, lo STAC di cui vi dicevo precede questa mia mezza paralisi che mi lascia piegato in due come un uscio, a smadonnare contro il cielo e tutti i suoi angiolacci. Il ragazzo, con quel suo fare effeminato, si mostra subito preoccupato, mi dice di stare tranquillo che in Brasile lui faceva i massaggi e ne sa qualcosa. Incomincia a toccarmi laggiù sotto la vertebra e devo ammettere che ci sapeva fare. “Bisogna scaldare un po’ il punto…”sussurra, ed io continuo a smoccolare sottovoce. Un dolore che non vi sto a descrivere… “Adesso fermo, ok?” E chi si move, penso io… Lui si mette dietro. Ovviamente siamo ancora tutti e due ignudi, mica ci si poteva rivestire nel frattempo. Mi prende da sotto le ascelle e con un colpo deciso mi risolleva dritto. In quel mentre sento le risate venire dalla porta della stireria. Maremma budella, vuoi vedere che quelli imbecilli hanno frainteso tutto, penso. E per tutta la notte non c’è stato verso di convincerli del contrario. Ecco, questa è la storia. Se ci credete, amici come prima. Faccio finta che le cattiverie sul mio conto non siano mai esistite e si va avanti così. Ma se qualcuno dovesse continuare a pensare che al Gano gli piace prenderlo in culo, incominci a dormire con la luce accesa, perché quando arrivo, arrivo di sorpresa e non ce n’è per nessuno. Intesi?
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LA FILOSOFIA DEL CALCIO SECONDO IL CARRAI Non sono mai stato uno sportivo, anche se devo ammettere che il tennis è un bello spettacolo; pulito e preciso, un gioco di linee e rimbalzi, dritti e rovesci che ha tutta una sua musica. Se poi è giocato dalle signore, con quei loro completini corti, candidi come le confezioni dei confetti, allora ci puoi perdere anche un paio d’ore davanti al maledetto schermo, con la Vecchia Romagna a farti compagnia, la boccia s’intende… Ma il calcio proprio non mi è mai andato giù, per due ragioni in particolare; primo, la versione al femminile praticamente non esiste, secondo, perché non sono mai riuscito a capire come cavolo funziona quel maledetto fuorigioco. Comunque al bar qualche partita la guardo, anche perché la domenica non si scappa, son tutti in prima fila a vedere il campionato. Spesso rimango al banco a far compagnia alla Giorgia, lontano dalle urla degli sciamannati, ma le domeniche in cui la prosperosa figliola di Aldo il barista è di festa, mi aggiro come un’ombra attorno al cuneo di sedie che si forma davanti al vecchio televisore Mivar, volgare anfiteatro dei nostri tempi. Un giorno decisi di sedermi accanto al Carrai, irriducibile settantenne che non si era perso neanche un programma di campionato fin dai tempi del povero Paolo Valenti e forse anche più indietro. Il Carrai aveva la fissa del calcio ma era, a differenza degli altri tifosi del bar, un tipo molto tranquillo. Non l’avevo mai visto accanirsi per un fallo, un errore arbitrale, una sostituzione contestata o qualsiasi altro evento che solitamente scatena nell’animo del tifoso medio un attacco fulminante di ulcera. Se ne stava defilato sul lato destro dell’anfiteatro, le mani strette sui braccioli di plastica della sedia, il capo puntato verso lo schermo che gli si rifletteva crudelmente sulla testa calva. Era terminato il primo tempo e quasi tutti se n’erano andati a prendere il
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caffè o il grappino, oppure erano fuori a fumarsi la sigaretta o a chiamare la moglie o la ganza o che so io… Così presi posto accanto a lui e gli chiesi subito com’era la partita, non perché m’importasse qualcosa ma per capire un po’ che tipo era questo misterioso Carrai, che a parte il buongiorno e buonasera non parlava mai con nessuno. Lui continuò a fissare la TV, mentre passavano la reclame di un auto che prometteva miracoli e prestigi di un mondo schiavo del consumo, e per un attimo mi chiesi se non fosse un po’ sordo. - Non c’è male – disse di colpo, e mi sorrise, o così mi pareva perché ancora rimaneva girato. - Chi vince? – replicai io. - Pareggiano, uno a uno. Tutte e due le squadre stanno facendo un buon gioco, e non hanno paura di rischiare. Potrebbe venir fuori un bel secondo tempo – rispose lui, continuando a guardare lo schermo, e poteva averci le sue ragioni dato che in quel momento una bella figliola, dopo essersi spruzzata di deodorante, se ne sculettava via lontano dalla cinepresa. - Sai, io non ci capisco molto di calcio… – cercai di giustificarmi. - Il calcio è l’unica cosa vera che ci è rimasto. - Che vuoi dire? - Il calcio, per dire lo sport in generale, è l’unico spettacolo di cui ti puoi ancora un po’ fidare. Il resto invece è tutto deciso a tavolino… – ripeté con convinzione il mio amico, e questa volta si era girato per guardarmi in faccia. - Vabbé, ma il mondo dello sport, specialmente quello del calcio, è marcio fino al midollo – imputai io, sicuro della mia posizione. Rimasi invece sorpreso da quello che quel vecchiuccio tirò fuori. - È vero, il mondo del calcio è pieno di gente orribile, ma una volta che quei ventidue decerebrati incominciano a correre come forsennati dietro un pallone, tutto ritorna in mano al fato. E poi si sa, la palla è rotonda…
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- Scusami sai, ma non credo di aver capito – ammisi io, pensando che avrei avuto bisogno di un’altra sambuca. - Il meccanismo del mondo del calcio fa schifo, ovviamente. Il più ricco si costruisce la squadra migliore e, molto spesso, vince i titoli. I tifosi sono dei debosciati che arrivano ad ammazzarsi per uno sbaglio arbitrale. I giocatori sono dei busti con le gambe ma privi di testa. I giornalisti che commentano le partite sono assolutamente patetici. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Ma c’è una cosa che è irremovibile e cristallina, il risultato finale della partita. Quello è e rimane. Nessuna televisione o testata giornalistica potrà mai confutarlo. È quella la cosa bella del calcio e dello sport in generale. Non tanto le classifiche, ma il risultato dello scontro singolo. Perché può capitare a volte che i campioni, ricchi e privilegiati, vengano strapazzati da una squadretta da due soldi, e allora è lì che godo! L’aveva vista lunga il mio amico Carrai. In effetti oggigiorno quando prendi un giornale in mano non sai più a chi credere. Politica, cronaca, arte, spettacolo, economia… Apparentemente tutti sembrano dire una cosa diversa, ma se poi scavi un po’ più in profondità ti accorgi che stanno tutti dalla stessa parte, e alla fine non ci capisci più niente di quello che davvero succede nel mondo. Poi arrivi alla pagina dello sport, e finalmente puoi rifarti gli occhi. Non con gli articoli, bada bene, ma coi i risultati. I risultati non mentono. Son come la matematica, o la sambuca con la mosca. “Giorgia, versane un’altra vai!”
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LA MANTIDE RELIGIOSA
All’anagrafe risultava col nome di Romolo Bertani, ma al bar tutti lo chiamavano Romoletto per via dei suoi dignitosissimi 161 centimetri di statura. Dopo vent’anni le battute si erano esaurite, ma c’era ancora chi ci provava. A Romoletto non dispiaceva, anzi, prendersi poco sul serio era la sua forza. Ma il suo cruccio non era la statura, erano le donne, problema non da poco e decisamente molto comune… Ogni mese lo vedevi entrare dalla porta a vetri insieme ad una nuova, che a prima vista ti facevi subito tutto il film in testa. Romolo non se la passava male, lavorava nel settore edile e tirava su un bello stipendio. Le cialtrone lo sapevano e gli ronzavano attorno come le api, ma lui, per quanto ingenuo, c’aveva la moglie che gli salvava il culo. Di sicuro quella santa donna gli voleva sempre bene, per questo gli rifiutava il divorzio. Sapeva che il minuto dopo la firma lui si sarebbe andato ad impegnare con la prima poco di buona, la quale lo avrebbe in pochi mesi prosciugato fino all’osso. Ogni tanto al bar potevi imbatterti nella Simona, un donnone fiero, un tempo sicuramente discreto. Ti prendeva per un braccio e a volte ti strizzava, poi ti guardava negli occhi dicendo: – Dov’è quel cretino di mio marito? Te provavi a difenderlo, ma lei t’inchiodava, e c’aveva anche le sue ragioni. – Se non fosse per me, che gli faccio ancora la contabilità e mi occupo delle banche, il tuo amico sarebbe a dormire sotto un ponte… – Perché la Simona non era solo la moglie di Romoletto ma anche la sua socia in affari. Comunque, tutti gli equilibri, specialmente quelli meno stabili, son destinati a rompersi. Basta qualcosa di inaspettato, un ‘incognita, un vento freddo dal nord, un
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portento della natura. Ecco, proprio quello arrivò sulla strada di Romolo. Un portento. Si chiamava Gigliola, trentadue anni, lo superava di tutta testa, ma ci voleva poco. Bella si, ma non l’avrei toccata neanche con una canna da pesca. Per quanto mi ritenga un grande amatore e non faccia distinzione tra belle, brutte, grasse e magre, ci sono delle donne alle quali non mi avvicinerei neanche se me l’ordinasse il dottore. È una questione di pelle, non so come dire… o forse è una questione di aurea, come dicono quelli della new age. Gigliola, bionda platinata con la zazzera sbarazzina, gli occhioni verdi e la bocca piena di rossetto, un culo da brividi e due gambe che non finivano più… ma le vibrazioni cosmiche che emanava riuscivano a rattrappirti l’uccello. Tant’è che appena la vidi glielo dissi al Cossu, che leggeva la Gazzetta appoggiato al frigo dei gelati Algida: – Questa non è una donna… è una mantide religiosa! Ma il povero Romoletto le andava dietro come un cagnolino in calore, un bassotto s’intende. La prima settimana la collana di perle, la seconda la pelliccina, poi l’anello col diamante… Ma a lei non bastava, voleva di più. Voleva il trono. C’erano tutti al bar la sera in cui Romoletto alzò la voce contro la Simona. – Basta, non ne posso più. O firmi quelle carte, o ti giuro che prendo l’avvocato più tosto della città e ti faccio levare ogni cosa, anche la casa! - Povero Romoletto, e pensare che ti ho voluto bene… – rispose lei con un mezzo sorriso. Gli strappò le carte del divorzio dalle mani e gliele firmò davanti a tutti. – Addio nanetto! – e uscì di scena insieme a sui novantacinque chili abbondanti. Due mesi dopo ci ritrovammo tutti al matrimonio dei due piccioncini, la festa più kitsch che abbia mai visto. Chissà perché le donne senza stile son sempre quelle delle brutte vibrazioni. C’è un senso che accomuna il tutto, fili invisibili che uniscono le strade di certe persone allontanandole da
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certe altre. Persone come la Gigliola è bene si tengano alla larga da me… Passò un anno e di Romoletto non si seppe più nulla. Al bar non ci veniva più e per noi habitué se non venivi al bar era come se tu non esistessi. Le voci però arrivarono, perché quelle arrivano sempre… - Hai sentito che è successo al Bertani? – La domanda retorica era dell’ingegner Franceschini, che veniva tutte le mattine a prendersi il caffè col budino di riso. - No, è da una vita che non si vede… – risposi io, col mio cicchetto delle nove meno un quarto. - Quella lurida della sua moglie… non le bastava tutto quello che aveva… - In che senso? – chiesi io, sempre più curioso. - Per accontentarla s’era messo a lavorare anche nel weekend, tutte le sere fino alle dieci. Lo vidi un mese fa, sembrava un fantasma. Ci credo che gli è venuto l’infarto, pace all’anima sua! - Ma cosa mi dice ingegnere? Romoletto… – ma non riuscii a terminare la frase. - I funerali sono domani, alle cappelle… Finì il suo caffè e se ne andò.
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LE 101 PAROLE DI GANO “101 parole sono anche troppe per raccontarti come andò quella volta…”
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EMORROIDI
Bella storia questa delle 101 parole, forse potrebbero bastarmi per raccontarvi di quella volta che mi vennero delle emorroidi cosi toste, che dovetti immergermi fino alla cintola nell’acqua ghiacciata. Maledette anacardi! Ma con la birra, vanno giù che è una meraviglia. E poi c’era quell’adorabile cameriera del Charlie, Amanda si chiamava. Le offrii da bere, parlammo del tempo e di poesia. Era un amore, ma le piaceva strano, non so se mi spiego… La portai a casa mia. Un paccaccio da sei di Tuborg, l’avanzo di Jack sullo scaffale. Poteva bastare… Una notte da ricordare, anche solo per quelle stramaledettissime emorroidi!
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FULMINE
Sugli scalini della badia, vidi Fulmine che piangeva. Il giorno dopo scoprii che si chiamava Franco. Lo diceva il giornale, ma io lo conoscevo da vent’anni, ed era sempre stato Fulmine. Gli offrii un caffè, ma arrivati al bar ordinò due sambuche. Parlammo un po’ dei vecchi tempi. Non stava bene. «Sicuro che non ti va un caffè?» «No, grazie. Magari un’altra sambuca…» Il bar stava per chiudere. Mi parlò di sua figlia. Se l’era portata via la leucemia, due settimane prima. Lo lasciai sui gradini della chiesa. Gli dissi: «Ci si vede!» Ma entrambi sapevamo che avevo detto una bugia.
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ALVARO
Alvaro, dove sei? Ti vedevo al mattino coi sacchetti della nettezza pieni di stracci. Ti avviavi verso la stazione degli autobus, fermandoti di tanto in tanto ai cassonetti. A volte rimediavi la colazione. Le strade sembrano vuote senza di te. La stazione non è più la stessa. Anche i piccioni sono tristi. Mangiucchiano il pane annoiati, osservano da sopra i monumenti. Cercano te, Alvaro. Troppo modesto per questo mondo. Troppo fragile per stare al gioco. La panchina alla fermata del 32 era la tua casa. Oggi ci siede una signora con un bambino. Aspettano l’autobus, sotto il cielo grigio. Addio Alvaro!
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IL CAFFÈ
“Meglio l’acqua alla mattina che il vino la sera”, diceva un vecchio ubriacone. Ma io preferisco un bel caffè, di quelli fatti in casa con la caffettiera, un po’ acquoso forse, con quel sentore di bruciato, avete presente? Ci metto lo zucchero per ammazzare il saporaccio, così la sbobba diventa una medicina. Mi siedo al tavolo di cucina e ripenso al giorno prima. Non mi spingo mai più in là con la memoria. Perché dovrei… Com’è che si chiamava? Carlotta? O forse era solamente Carlo… Il caffè va giù magnificamente. Il sole penetra con prepotenza dalla finestra. Che meraviglia, la vita!
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MARIA
Due fari strappano le tenebre del vialone, quello su cui passeggiano gli angeli. La macchina accosta. Si ferma. Eccola, finalmente! Maria scende dall’auto, nera divinità della notte, adorna di bianche calze. Mi avvicino timido. Le dico… “Stanotte ho bisogno di te, Maria. Andiamo a casa mia?” Mi sorride, ma non ha voglia di parlare. Spesso mi racconta dell’africa, di come brillano le stelle. Tutta un’altra cosa… “C’è qualcosa che non va, Maria?” domando. Lei mi abbraccia. Mi regala un singhiozzo e una lacrima, qualcosa d’infinitamente più prezioso di quello che è solita donarmi. “Andiamo a prendere un caffè, dai. Offro io…”
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LA PETRA
«Allora, si diceva della Petra…» «Beh, si parlava anche del Gran Premio… » «No, di quello ne parlavi te. A me interessa solo la Petra.» «Ah, va bene… Dimmi…» Appoggiato allo spigolo del bancone, ascoltavo Guido, creatura da bar. Lui c’aveva un sambuchino ammoscato, io un bicchiere di bianco. Era l’ora del TG. «Bella figa!» «Puoi dirlo forte! Ma è un po’ cara…» «A me fa lo sconto…» «Ah si?» Era un bluff, sicuro. «Ieri sera ci siamo strapazzati per due ore!» «Quanto?» «Cinquanta!» «Ma va!» «Giuro…» Finii il bianco d’un fiato. «Bravo!» “Stronzo”, pensai. C’ero stato io… con la Petra.
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NICCO
Mi faccio una grappa, poi si vedrà. Fuori piove, dentro la TV continua a proferire scemenze. Al bar, durante le feste, la vita procede in sordina, mentre tutti fanno finta di essere più buoni. Entra il Duca, un tipo a posto, se non fosse per la dama bianca che gli scorre dentro. Si avvicina al banco. È una maschera di veleno e scompiglio. «Hai saputo di Nicco?» «No» rispondo io, scolandomi il gotto. «L’hanno trovato ieri sotto i portici…» L’ennesimo dramma di buco. «Conoscevo i suoi. Venivano al bar…» «Si sono trasferiti» risponde il Duca, grattandosi. Alla TV danno i pacchi.
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LA PARTITA
Il primo tempo é finito. La gente si riversa fuori dal bar a fumare. A me non interessa il calcio, ma tendo l’orecchio. Zero a zero. Che il diavolo se li porti tutti! Cellulari, messaggini, pronto, ciao, si vengo, si non vengo… La porta a vetri non sta ferma un secondo. Si avvicina Renzino con la radiolina, creatura demodé. Puzza di stravecchio e sigaro toscano. «Ciao Gano, come ti butta?» «Non c’è male Renzo, non c’è male!» La gente intanto rientra per il secondo tempo. «Come stanno?» chiedo. «Sempre zero a zero» fa Renzino. «Che il diavolo se li porti tutti…»
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L’AMICO
L’amico mi venne incontro con le braccia allargate e gli occhi umidi. Puzzava di grappa e si reggeva poco bene sulle gambe. «Che è successo?» «Niente Gano, ho solo bisogno di parlare un po’.» E difatti lui parlò tutta la sera, e nel frattempo si scolò quattro pinte. Io non fui da meno… Il giorno dopo era tornato alla sua vita; moglie, figli, lavoro… Lo rividi un anno dopo. Stessa storia. Una serata al bar, qualche birra e poi più nulla. Esistono amici buoni solo per bere. Sono un po’ paraculo, ma che vi devo dire? Ognuno c’ha i suoi problemi…
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RANDAGIO
Cerchi un pasto tra i cassonetti, Fido. Un osso, avanzi di pane, o al limite lecchi il sugo che sgocciola. Non te la passi poi così male, dai! Certo, le notti sono un po’ fredde, ma un posticino lo rimedi sempre. Vai a zonzo, ti azzuffi coi felini rognosi, poi fai il palo davanti alla macelleria. Ogni tanto passa la cagnolina della signora Bertelli, una barboncina niente male. Ti dai un tono, tiri su la coda, ma se non è il tempo lasci perdere tutto. Tutto questo per quanto tempo? 15 anni al massimo? Vi è andata bene a voi canidi.
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VAMPIRO UBRIACONE
Adesso lo so: sono un Vampiro. Non succhio sangue ma bevo vino. Barcollo come uno zombi, a notte giro per i cimiteri e mi addormento all’alba, in qualche luogo oscuro, uno scantinato oppure un sottoscala. Dopo la prima bottiglia gli occhi mi diventano rossi. Ho l’alito pesante, i canini appuntiti per natura, e il naso paonazzo, che poco c’incastra col non morto ma di notte si vede appena. E poi sono allergico all’aglio! Mi piacciono le donne, ma non disdegno gli uomini. Mi ci avvento, mordo e scappo… Ho anche origini nobili, sapete? Conte Ovidio De’ Frescobaldi, ma voi chiamatemi Gano.
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PRIMAVERA
Primavera, un bicchiere di vino, un bagno di sole… «Ciao Gano, come ti butta?» «Tutto bene…» Il Freddy invece non sta bene per nulla. Sorride, si gratta, ha la scimmia…. Primavera, profumo di gelsomino… «Gano, che ci fai qua fuori? Vieni, t’offro un grappino!» «No grazie, questo sole è una bellezza!» Caronte invece è proprio brutto. Ci credo che sua moglie lo tradisce! «Gano? Tutto ok?» «Una meraviglia!» Povero Massimino, non t’entra mai un cavallo! Lo sapete perché il mondo è pieno di perdenti? Non è sempre colpa loro. È che la vita è bastarda, e non tutti c’hanno le palle!
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IL BOSCHETTO
Se le gambe ti reggono fino al mattino, puoi fare un salto al boschetto. Laggiù le signore son signori, e lavorano fino a tardi, anche se per loro non è proprio un lavoro… Prima che l’alba spazzi via le libidini notturne, hanno ancora voglia di farlo. Così magari con cinque euro rimedi un lavoretto. «Ma come solo cinque euro, amore…» «Mi spiace, non ho altro.» «Dai, facciamo almeno dieci…» «Te l’ho già detto, ho solo questi.» «E vabbé, sganciati dai…» Povero ciccio… E pensare che quella sera avevo un altro pezzo da cinque, ma lo serbai per l’autobus ed il caffè.
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I CAPEZZOLI DELLA VANDA Fumo entrò nel bar con la sigaretta accesa ma nessuno ci badò, non perché non si rispettassero le leggi, ma perché era Fumo e lui non sentiva seghe. «Gano, proprio te!» «Che succede?» «Nulla… ti volevo solo chiedere… ma è vero quello che si racconta della Vanda?» «La Vanda?» «Si, la Vanda…» «E che si dice della Vanda?» «Beh, le voci, sai come sono….» «Vuoi dire che non ci sei mai andato?» «No…» «Non ti sei perso poco…» «Allora è vero?» «Cosa? I capezzoli?» «Eh…» «Miele di montagna con una punta di magnolia….» «Ma va, dai!» Le leggende vanno sapute coltivare.
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DAL FREDDY
Dal Freddy si mangia la trippa come da nessun’altra parte. Naturalmente ci vuole un fiasco di vino per mandarla giù. Quel giorno ci portai la Letizia, diciamo pure “una vecchia compagna di scuola”, e la scuola che intendo si chiama vita, tanto per esser precisi. Si sedette e, senza guardare nemmeno il menú, ordinò un filettino con patatine. «Perché non assaggi la trippa? Come la fa il Freddy non la fa nessuno» le consigliai. «Bleah!» rispose lei con la bocca piena di rossetto. Quel giorno capii che donne si dividono in due categorie: quelle buone solo per una cosa e quell’altre.
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LE POLITICHE
Mirco dondolava insieme alla sua Tennent’s, la cenere lunga sul punto di cadere, il corpo magro piegato innaturalmente dall’ultima pera. Si stava insieme al banco ad aspettare il mio corretto… «Gano, te che sai tutto, chi le vince le politiche?» La Giorgia mi sistemò la tazzina davanti e si girò ad afferrare la bottiglia di Stravecchio, una manovra d’anche sublime che mi fece fare un balzo al cuoricino. «Credo che questa volta vincerà la sinistra» risposi, sorridendo alla Giorgia. «Speriamo Gano!» esclamò Mirco, grattandosi il ginocchio e sfregandosi violentemente il naso. “Perché, che differenza farà mai!” pensai io, girando il caffè.
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PROVACI ANCORA GANO
La Matilda se la tirava, ma ci provai uguale… Alla prima rimbalzai, ma ci riprovai il giorno dopo, poi provai a riprovarci nel fine settimana. Niente! Ma non demorsi e qualche giorno dopo riprovai a riprovarci, lei mi guardò di sbieco e mi dette un altro due di picche. Eppure giurai che ci avrei riprovato… Così provai a riprovare di riprovarci, e non contento riprovai a riprovare di riprovarci, ma fu quando provai a riprovare di riprovare di riprovarci che le sfuggì un sorriso… Ce ne andammo a casa mia e quella fu in assoluto la notte più godereccia di tutte.
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IL MARE
A volte d’inverno vado al mare… Sei lattine, un panino al prosciutto, otto euro e cinquanta il biglietto dell’autobus e in meno di un’ora sono in spiaggia. Da solo, perché il mare non vuole distrazioni. Mi distendo sulla sabbia, guardo le barche lontane, mi perdo nelle giravolte dei gabbiani e mi sciacquo la gola. Il mare la sa lunga… Quel giorno c’erano nuvoloni grossi, e l’aria puzzava di pesci morti. «Sta arrivando una tempesta!» urlò una signora col cappello. La guardai e aprii un’altra lattina. «É la parte migliore…» risposi. E risi fino a quando iniziarono a cadere le prime gocce.
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POESIE DI GANO “Se la rima mi viene allora bene, ma si può fare anche senza…”
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POMPINO Rachele masticava Arlengo, non sparare!
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ODE AL VINO La notte é del vino Il giorno é del vino Son sobrio soltanto Di presto al mattino Son come un bambino Palato non fino Chianti, Trebbiano Merlot, Vermentino Bianco, rosé Rosso rubino Saró banale Non certo divino C’ho il naso aquilino E leggo Calvino A volte profeta Piú spesso indovino Io sono Gano E mi piace il vino!
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GOTTO Gotto e rigotto M’imbratto, son cotto Giammai come un fatto Il vino mi sbatto Aringhe da gatto Formaggio da ratto Gano è tranquillo Versali un gotto Al banco sto ritto M’appoggio, l’ammetto Puntello di petto Dai piedi sorretto Sorriso un po’ stretto Ordino un gotto Né Dante, né Giotto Poeta bigotto Ho il culo un po’ rotto Ribevi! È il mio motto Son Gano, son matto Cantore distratto Scrivo di getto È solo un poemetto Ho detto tutto Finisco co’ un rutto Alticcio di brutto Sul letto mi butto Son proprio distrutto. Vi lascio ‘sto frutto Parole di fiotto Poema del gotto.
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BAR Neon polverosi Piastrelle demodé Il banco frigo Le paste del giorno prima Ravvivate un po’ Tramezzini con maionese antica Biscottini di Prato Lecca lecca La TV è accesa Ma nessuno la guarda Stride il macinino del caffè Sbuffa la lavabicchieri Al banco c’è Bruno Lo sguardo assente L’ennesimo corretto a sambuca Videogiochi Ragazzini ai gelati Sammontana Algida Ghiaccioli senza marca I migliori… Gratta e vinci Ma non si vince mai Tabacchi Nonostante i divieti Entra la Robertina Matta come la luna Cianfrusaglie Profetizza la fine del mondo Tanto matta non è Si beve il gotto di bianco Urla un saluto e se ne va Scatole di cioccolatini Scadute
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Hanno finito le pizzette Vanno a ruba Il Tommy ordina un camparino Lo segue Guido con una Ceres Poi arriva Dado Negroni senza ghiaccio Una zavorra sulla testa Biglietti dell’autobus Biglietti della lotteria Schedine Bruno è sempre lì E chi lo muove! Potrei scrivere fino a domani Seduto a un tavolino In disparte ma presente Osservo Sorrido Ma lo stravecchio è già finito Andrò a prenderne un altro Poi si vedrà!
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OH BIRRA… ORO CHE MI ANNEGHI Oro che mi anneghi Io bevo e tu mi leghi Sciacquastomaco divina In bottiglia o alla spina Gelida e schiumante Volgare ed elegante Mi faccio un’altra pinta Son brillo, o faccio finta? Amaro che disseti Io bevo e tu mi cheti Rugiada degli Dei? O solo birra sei? Dai, passa la bottiglia Del malto sei la figlia Del luppolo sorella Birra, come sei bella! Finisco con un sorso Son pieno come un orso Felice come un grullo Ho il riso di un fanciullo Ma chiuder non potrei Sarebbe proprio brutto E me ne pentirei Se non facessi un rutto. Salute!
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SOLITARIO Serata sul divano Televisore spento Mi basta la mia mano Inizia il movimento Ripenso all’altra sera Gigliola si chiamava Sui cinquanta, donna vera La schiena mi baciava Ricordo poi Priscilla M’accarezzava piano Appesa alla mia anguilla Mi sussurrava “oh Gano!” L’ascesa è incominciata Adesso chiudo gli occhi Susanna, mia adorata Solo per me ti tocchi Amiche, amanti e figlie Tantissime ne ho amate Di strada meraviglie Di letto mie adorate Disteso sul divano Ricordo piano piano Esperta è la mia mano Son solo insieme a Gano.
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CULO Panorama campestre Sottana a frange Il sole penzola rosso Odore di rosmarino Strada acciottolata Gano sotto l’ulivo Oggi la passo così Lontano dalla città Via da solito bar “Signora, ha bisogno?” La sottana si volta Un sorriso assolato Ha le mani impegnate Buste della spesa “No, si figuri… …ma grazie lo stesso.” Riprende il cammino Lei e il suo didietro La guardo avviarsi È una poesia Un fine quadretto “Culo perfetto… …portami via!”
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ESTATE AL BAR Asfalto rovente Sole raggiante Ventre pesante Al mare la gente Arietta leggera Aperta è la porta TV resta morta E attendo la sera Davanti ai miei occhi La gonna più corta Ciliegia di torta Di un giorno coi fiocchi La radio trasmette Canzoni d’estate E dalle vetrate Sfilan du’ tette Priscilla si chiama La credevo in vacanza Oh brutta stronza Chissà chi ti chiava! Col caldo le donne Son pericolose Sensuali e vogliose Ma portano rogne Rimango distante Fó finta di niente In pace la mente
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Del tenero amante È un caldo briccone Conviene star fermo Placido e calmo Col solleone Nessun guaio in vista Serata assai quieta Il bar è la meta Lo studio d’artista Mi bevo un birrozzo Distendo le gambe Il calore incombe Ma m’importa un cazzo!
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GIORNATA NO Mattina di pioggia Umida e fredda Neanche le cosce di Lola Fan passare la tristezza Oggi mi sento così Sotto scacco alla vita Succede a volte E menomale Se fosse sempre rose e fiori Chissà che palle! Strascico in cucina Un bicchiere d’acqua Per spegnere i fuochi residui Anche ieri era festa Come l’altro ieri E pure il giorno prima Ma la festa di chi? “Ti faccio il caffè…” …dice Lola Ma rimane sotto le coperte Perché il freddo Ha toccato anche lei Perché le giornate di merda Si sentono subito E l’unica soluzione È rimanersene a letto. Scosto la tenda Il bicchiere in mano Uno sguardo sul grigiore Formicolio di ombre Auto in sosta
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Una sirena lontana Una pozza d’acqua Un cane che piscia… “Figurati, faccio io!” Chissà se mi ha sentito Povera Lola Preparo il caffè Poi qualche cosa accadrà…
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UN MONDO A GAMBE APERTE È un mondo a gambe aperte Bisogna approfittarne Il ricco si diverte A tavola pesce e carne Il povero mugugna Combatte ma si arrende Attende, attende, attende E intanto fa la spugna. È un mondo a gambe aperte Bisogna saperci fare Giocar tutte le carte Odiar, fingere e amare La tavola è imbandita Ma i posti sono pochi Li conti sulle dita E già son chiusi i giochi È un mondo a gambe aperte Un buco in cui lasciare Il figlio della sorte Da vivere oppure odiare Gli sbagli son l’essenza Di questa vita assurda Se vuoi farne senza Ti riman solo la corda. È un mondo a gambe aperte Inutile dire o fare Le ferite aperte Le devi lasciá stare Potrebbero inguaiarsi Potresti fare peggio Inutile arrabbiarsi
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Dai su, beviti un goccio! È un mondo a gambe aperte Un bocciolo in cui affogare Vivere è pari all’ arte Di scopare e di leccare Tuffati a capofitto Approfitta, pago io! Fatti fare tutto Vedrai che vedrai Dio! È un mondo a gambe aperte Lo vedi la mattina Il sole sorge per te Poi canta la gallina Tra le lenzuola un volto Di lei o di lui, è lo stesso Ama sempre molto Ama, non fare solo sesso! È un mondo a gambe aperte Che altro devo dirvi? Tirate su le coperte Tornate a divertirvi Smettetela d’ascoltare Il vecchio Gano pazzo Non fatela scappare La vita va presa al lazzo!
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PIACERE SON GANO Torno ad ascoltare Le parole del cuore Il gusto e l’odore Dell’arte d’amare Mi perdo nel sole Abbraccio l’abbaglio Di certo non sbaglio Tentare non duole Il vento carezza Sbatte un cancello Cinguetta l’uccello L’orecchio mio apprezza Bicchiere di vino Lontano il casino Mi metto supino Son come un bambino Poi lei s’avvicina La gonna cortina È proprio carina Si chiama Sabrina Allungo la mano Si gira e sorride Mi guarda e mi uccide “Piacere, son Gano”.
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TRISTEZZA Mi prende così Non so neanch’io Tristezza, mio dio… La sento qui. Vicino al cuore È come un sasso Respirar non posso Non sento calore. Tutto si offusca Diventa bigio Io, Gano mogio Attendo burrasca. La calma precede La stronza tempesta I tuoni e la frusta La vita che chiede. Si paga il prezzo Ti avvii alla cassa Lo sai che poi passa Ma fa male, che cazzo! Rimorsi e rimpianti Ti sputi allo specchio Ti senti più vecchio Hai gli anni pesanti. La fine poi è quella Ti scoli un goccetto Continui e sei fatto Maremma budella!
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ESTATE AL BAR 2 È un caldo d’asfalto E mutande appiccicose Di mattine vogliose E notti di malto Io, Gano pazzo Rimischio le carte Ignaro della morte Osservo l’andazzo Al bar c’è l’arietta Pare d’esser su un’isola Mentre fuori tremola Quest’estate matta! Al banco Giuliano Col suo shakerato Dalla vita trombato Sebbene abbia il grano Al tavolo Franco Montenegro ghiacciato Dalla vita inculato Si trascina stanco Simo al videopoker Impreca e bestemmia È in preda alla scimmia Speranze ne ha poche Tina gioca al lotto Ormai da una vita Per niente avvilita Attende il filotto
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Carlino al cellulare Messaggi alla ganza Che è solo una stronza Fa coppia esemplare Poi ci sono anch’io Il poeta ubriacone Osservo le persone E gioco a fare Dio Al bar in estate Convergono i pazzi Gli antichi ragazzi E bambine d’annate Né amori e né affetti Rimango appartato Per niente sudato Con una moretti.
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COSTANZA Ti svesto e ti risvesto Al bordo del letto mi appresto Mi getto in mezzo alle sete Son come un matto che ha sete Mi abbevero alla tua fonte Alla maniera di un bisonte Quando scende al fiume Io invece ti do il seme Lo vuoi adesso, Costanza? Mentre son sulla patonza Ripenso alla proposta Marito, giammai… Meglio schiavo, semmai! Ma quanto mi costa Questa notte d’amore Ci si mette anche il core Fa pum, pum, pum Stai a vedere che Mi vien l’infarto su di te! Sei proprio una stronza Mia bella Costanza Ma che te lo dico a fare Tanto fai finta di niente Dovrei levar le tende Ma torno a stantuffare…
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ASSO PIGLIA TUTTO Asso piglia tutto Saluto con un rutto Alticcio, me la canto Son Gano e me ne vanto! Mettetevi a sedere Non fate quelle facce Aprite un par di bocce Ovvia, s’inizia a bere. Che schifo di giornata Neanche una giusta Ma quanto mi costa Questa vita inventata. L’affitto da pagare E tutte le bollette E’ appena il diciassette Non so più cosa fare. Ma oggi son di festa A bere inizio presto Ed io solo per questo Ho alzato la mia cresta. Galletto saltellante Amante ad ogni ora Puttana oppure suora Di qualità ne ho tante. Le donne ben lo sanno Mi tengono di conto Mi fanno anche lo sconto A pasqua e a fine anno.
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Suvvia versami un gotto Che c’ho la gola secca Deliziami la bocca Ribevi! E’ il mio motto. Asso piglia tutto Il mondo resta brutto Ma col bicchiere in mano Felice è il vostro Gano.
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LA MIA DECADENZA Nell’aria odor di orina e sigaretta Tracce di una giornata perfetta Passata in allegria e mai di fretta In cerca di qualcosa che mi spetta. Ho smesso di scalare quella vetta Della torta mi accontento di una fetta Che m’importa se qualcuno m’aspetta Mi rigiro nel letto un’altra oretta. No, io non seguo alcuna retta Ignoro della morte la sua stretta Rimango al caldo della mia casetta Piccina si, ma benedetta. La notte la passo da Nicoletta Adoro il modo in cui sculetta Mi porta in giro sulla sua alfetta E mentre guida le sbircio una tetta. Amo e godo sempre a manetta La mia vita è in presa diretta Se poi la mi diventa abietta La via d’uscita è la lametta.
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CARLOTTA Conobbi Carlotta Candida come cocco Cicala campestre Cantava con clamore Chiedendo cazzo, Che cavalcandola Cercai con cura clito. Coito costretto Cantai colmandola Caddi così contento Contro culo Clarinetto contro contrabbasso. Che cosa clamorosa Carlotta!
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INTERVISTE A GANO - 27 febbraio 2009 DA QUANTO TEMPO COMPONE POESIE? Ero piccino. Mio padre mi picchiava ed io mi vendicavo con la penna. È stato utile, come una specie di rito voodoo. Alla fine il vecchio è crepato! QUANTA VERITÁ SI NASCONDE NELLE SUE OPERE? Mah, la verità è una cosa strana. Ognuno c’ha la sua. Quello che scrivo è tutto assolutamente vero, ve lo posso assicurare, perché viene da dentro di me. Alcuni scrivono col cuore, altri con la mente. A me piace scrivere con tutto il corpo, specialmente con quegli organi un po’ bistrattati, tipo il pancreas, ad esempio. Vengono delle poesie meravigliose col pancreas! SI RITROVA PIÚ NEL RUOLO DI POETA O DI SCRITTORE? Poeta? Scrittore? Non si offenda, ma a me non sono mai piaciute le etichette. Scrivo perché mi và. Ogni tanto esce una rima, mi piace e la lascio. Altre volte mi vengono in mente delle storie e le butto giù, come quando sono al bar e le racconto agli amici. COSA LA SPINGE A SCRIVERE? A otto anni mi spinse mio padre, poi è stata tutta discesa. Voglio dire, ogni cosa che mi capita, bella, brutta, noiosa, eccitante, merita di essere descritta oppure omaggiata. Ho scritto molto in passato, ma non mi sono mai interessato di conservare le cose che scrivevo. Molte poesie sono 97
diventate carta straccio, foglietti lasciati nelle camere d’albergo insieme ad un paio di bottiglie vuote. Nessun rammarico. Scrivere è una medicina, e una volta presa non c’è bisogno di conservare la confezione, non so se mi spiego… L’ASSOMIGLIANZA CON BUKOWSKI È QUASI SCONTATA. COSA NE PENSA DEL FATTO CHE I SUOI LETTORI LA VEDANO COME UNA VERSIONE ITALIANA DEL NOTO SCRITTORE AMERICANO? Non può che farmi piacere. Charles è stato il promotore della poesia di strada. Avventure sconce, borderline, ma sempre con una grande vena poetica. Però non mi ispiro a lui, perché non ho alcuna aspirazione. Quello che faccio lo faccio perché mi và. HA MAI PENSATO DI SCRIVERE UN ROMANZO? Non ne sarei capace. Non ho la disciplina necessaria per affrontare un progetto simile. Potrei iniziarlo e perdermi tutti gli appunti dopo una settimana di lavoro. No, il racconto e la poesia sono le giuste misure per me. COSA CI PUÓ DIRE DI QUESTA RACCOLTA CHE STA PER USCIRE? Non ne so molto. La Edizioni Willoworld se ne sta occupando. Prima scrivevo su carta, adesso alcuni amici mi fanno scrivere sui loro computer e poi mettono i lavori su internet. Per questo motivo non vengono perduti. La Edizioni Willoworld mi ha detto che vuole riunire il materiale pubblicato fino ad ora in un piccolo libricino. Per me va bene. Non ho aspirazioni, come ho già detto. Il titolo dovrebbe essere “Un mondo a gambe aperte”. È anche il titolo di uno dei miei scritti, che presto apparirà su queste pagine.
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I VOSTRI PROGETTI FUTURI? Andarmene al bar a farmi un goccetto (ridendo). - 10 Maggio 2010 È PASSATO PIÙ DI UN ANNO DAL NOSTRO ULTIMO INCONTRO. COME STA? Benissimo, grazie. Ho messo su un altro paio di chili, ma non mi lamento... IL SUO LIBRO È STATO SCARICATO PIÙ DI DUECENTO VOLTE, UN RISULTATO SODDISFACENTE CONSIDERANDO IL METODO DI DIVULGAZIONE. QUALI CREDE CHE SIANO LE RAGIONI DI QUESTO PICCOLO SUCCESSO? Beh, lo sappiamo bene che certe tematiche attirano la gente. I miei racconti parlano di vita vissuta, uso parole forti, quelle con cui mi trovo meglio, e la gente su internet va alla ricerca di quelle cose. Poi inciampa per caso sul mio libro e se lo scarica. Dubito però che tutti lo leggano. LA EDIZIONI WILLOWORLD LO RIPROPONE IN QUESTI GIORNI CON 40 PAGINE IN PIÙ, CIOÈ CON LE OPERE CHE SONO APPARSE RECENTEMENTE SUL CIRCUITO WILLOWORLD.NET. CHE NE PENSA? Perfetto... in effetti la prima edizione aveva appena 60 pagine, era poco più di un opuscolo. Adesso si può quasi parlare di libro. COSA DICONO DI LEI I VOSTRI AMICI DEL BAR, RIGUARDO ALLA SUA PASSIONE PER LA POESIA E LA SCRITTURA? 99
Mi fanno i complimenti, a volte mi dicono di voler leggere qualcosa ma la maggior di loro parte dura fatica a capire gli articoli della Gazzetta dello Sport, figuriamoci uno dei miei racconti, che comunque sono sempre molto semplici e brevi. È VERO CHE HA INTENZIONE DI SCRIVERE UN ROMANZO? Come ho già detto l'altra volta, per me è difficile organizzarmi. Per questo preferisco i racconti. Mi metto a sedere, scrivo e so che devo finire prima di alzarmi perché altrimenti quella storia non vedrà mai la luce. Non ho disciplina, e poi perdo tutto. Però si, mi piacerebbe scrivere qualcosa di un po' più pretenzioso. Mi hanno fatto vedere come scrivere direttamente su internet, in modo da non perdere mai nulla... In quel modo penso di poterci riuscire, chissà... CI PUÒ ANNUNCIARE QUALCOSA? DI COSA TRATTERÀ QUESTO SUO PROGETTO? Oh, è davvero troppo presto per dirlo. Vorrei scrivere di me, come faccio sempre, delle mie avventure. Ho diverse idee ma devo risistemarle per bene. Di solito la mattina col caffè riesco a farmene un quadro, poi dopo il terzo cicchetto non mi ricordo già più nulla... (sorride). IMMAGINO ALLORA CHE I LAVORAZIONE SARANNO LUNGHI.
TEMPI
DI
Contatetici! Ora vado a farmi un birrozzo... che faccio, ne ordino due?
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IDENTITÁ DI GANO
Gano è un personaggio di GM Willo per La Giostra di Dante, il gioco di ruolo dei poeti e degli scrittori. Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. www.lagiostradidante.co.nr
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Edizioni Willoworld
www.willoworld.net www.edizioniwilloworld.co.nr
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