UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL SALENTO Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio Corso di Laurea Specialistica in Sociologia e Ricerca Sociale
IL MESTIERE DELL'IMPROVVISAZIONE Etnografia della Jam Session
Relatore: Chiar.mo Chiar.mo Prof. Mariano Longo
Tesi di Laurea di Igor LEGARI Matricola n.10030274
ANNO ACCADEMICO 2007/ 2008
1
INDICE Introduzione : Un mondo a parte Cap. 1 Jazz e Scienze Sociali
1.1 La densità del jazz 1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti 1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia 1.4 African American Studies: una prospettiva etnica? 1.5 La prospettiva sociologica 1.5.1 L'equivoco di Adorno 1.5.2 Schutz: "Making music together" 1.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore
1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza 1.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica Cap.2 Il mestiere dell'improvvisazione
2.1 La magia dell'improvvisazione 2.2 Improvvisazione come competenza 2.3 Improvvisazione e linguaggio 2.4 Improvvisazione e conversazione Cap. 3 Etnografia della jam session
3.1 Nota metodologica 3.2 La comunità dei jazzisti 3.2.1 Gli outsiders della musica 3.2.2 Categorie di musicisti
3.3 Cosè una jam session? 3.3.1 Definizione e cenni storici 3.3.2 Aspetti organizzativi
3.4 Come funziona una jam? 3.4.1 Cosa suoniamo? Il repertorio degli standard 3.4.2 Come lo suoniamo? Head arrangements e trattamenti
4 11 11 13 15 17 20 21 22 24 25 25 27 27 33 42 45 50 50 54 54 61 68 68 73 78 79 87
convenzionali
3.5. La jam session come modello di azione collettiva 3.5. La sezione ritmica 3.6.1 Sezione Ritmica e Front Line 3.6.2 Ruoli e convenzioni 3.6.3 Il bassista 3.6.4 Il batterista 3.6.5 Il pianista
3.7 I solisti 3.8 Relaz lazion ioni di potere, valori musicali e risoluzion ione dei conflit litti
97 99 99 105 108 117 124 128 133
2
INDICE Introduzione : Un mondo a parte Cap. 1 Jazz e Scienze Sociali
1.1 La densità del jazz 1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti 1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia 1.4 African American Studies: una prospettiva etnica? 1.5 La prospettiva sociologica 1.5.1 L'equivoco di Adorno 1.5.2 Schutz: "Making music together" 1.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore
1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza 1.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica Cap.2 Il mestiere dell'improvvisazione
2.1 La magia dell'improvvisazione 2.2 Improvvisazione come competenza 2.3 Improvvisazione e linguaggio 2.4 Improvvisazione e conversazione Cap. 3 Etnografia della jam session
3.1 Nota metodologica 3.2 La comunità dei jazzisti 3.2.1 Gli outsiders della musica 3.2.2 Categorie di musicisti
3.3 Cosè una jam session? 3.3.1 Definizione e cenni storici 3.3.2 Aspetti organizzativi
3.4 Come funziona una jam? 3.4.1 Cosa suoniamo? Il repertorio degli standard 3.4.2 Come lo suoniamo? Head arrangements e trattamenti
4 11 11 13 15 17 20 21 22 24 25 25 27 27 33 42 45 50 50 54 54 61 68 68 73 78 79 87
convenzionali
3.5. La jam session come modello di azione collettiva 3.5. La sezione ritmica 3.6.1 Sezione Ritmica e Front Line 3.6.2 Ruoli e convenzioni 3.6.3 Il bassista 3.6.4 Il batterista 3.6.5 Il pianista
3.7 I solisti 3.8 Relaz lazion ioni di potere, valori musicali e risoluzion ione dei conflit litti
97 99 99 105 108 117 124 128 133
2
Conclusione
138
Bibliografia
147
3
Un mondo a parte Man, if you have to ask what (jazz) is, you'll never know.
Louis Armstrong
Quando ho cominciato ad appassionarmi seriamente al jazz, intorno ai quindici anni, ho dovuto affrontare l'imbarazzo di ritrovarmi fuori dalle mode correnti dei miei coetanei. Sentirsi incluso in un gruppo ed essere accettato come "normale" è una delle principali preoccupazioni per un adolescente e la condivisione di interessi comuni gioca un ruolo importante in questa fase delicata della vita. Avere gusti musicali così diversi da quelli dei propri compagni di scuola o amici può creare a volte un senso di isolamento. Ma le passioni più forti possono aiutare a superare quella paura di apparire in qualche modo diverso dagli altri che spesso spinge verso un più comodo conformismo. Il passaggio dall'ascolto alla scelta di uno strumento e allo studio della musica mi è sembrato quasi obbligato. Non posso fornire dati statistici al riguardo, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che buona parte degli amanti del jazz hanno una qualche familiarità con la pratica musicale e suonano uno strumento, anche solo a livello amatoriale. Sembra piuttosto confermata la tesi che vuole il jazz una musica per musicisti, nella duplice accezione di un genere che richiede competenze musicali medio-alte per essere apprezzato appieno e i cui appassionati sono spesso presi dal desiderio di passare dal ruolo passivo di ascoltatore a quello attivo di musicista.
4
In seguito mi sono trasferito a Roma per intraprendere gli studi universitari e al contempo per iscrivermi alla Scuola Popolare di Musica del Testaccio, un'istituzione storica per il jazz nella capitale. È stato a quel punto, quando mi sono ritrovato immerso in un ambiente i cui tutti condividevano la stessa passione e parlavano la stessa "lingua", che ho avuto la netta sensazione di accedere ad un mondo a parte. Gli studi sulle subculture hanno ampiamente indagato le modalità con cui gruppi più o meno ampi di individui tendono a "modellarsi" intorno ad un elemento aggregante, dando vita a una "cultura nella cultura" dotata di una propria autonomia. Nella mia situazione di studente di antropologia che frequentava una scuola di musica jazz, era naturale che la mia attenzione fosse attratta da quegli aspetti dell'ambiente musicale che più da vicino mi ricordavano le nozioni apprese nelle aule della facoltà. Riconoscevo negli atteggiamenti e nel linguaggio dei jazzisti gli elementi tipici di una comunità in qualche modo "esclusiva". Ovviamente ne ero affascinato e cercavo di apprendere quanto più possibile non solo in termini di nozioni musicali e tecniche, ma anche in termini di comportamento, di uso appropriato del linguaggio tecnico, di "stile". Sebbene ora la cosa mi appaia piuttosto ridicola, all'epoca in cui mi avvicinavo timidamente al mondo del jazz, consideravo ciò come un fatto di estrema importanza, al pari delle capacità musicali e del talento. La mia preoccupazione era quella di non apparire troppo sprovveduto o ingenuo, fuori dalle regole del gruppo, così come da ragazzino mi sentivo un po' a disagio perché ascoltavo una musica decisamente fuori moda tra i miei coetanei. Ora invece mi ritrovavo finalmente tra persone di ogni età che condividevano la mia stessa passione e volevo a tutti costi dimostrare di essere "uno di loro".
5
Ero a tutti gli effetti un newcomer che si sforzava per non essere più riconosciuto come tale. Dopo circa due anni sono ritornato a Lecce, dove ho proseguito gli studi universitari in Sociologia. Parallelamente ho continuato lo studio del jazz e del contrabbasso in modo autonomo. Mi ritengo pertanto fondamentalmente autodidatta nel campo della musica. A partire dal 2000 ho intrapreso una discreta attività concertistica nel territorio pugliese, accumulando una mole di esperienze in particolare nel contesto delle jam session Nell'ottobre del 2008 sono stato ammesso a frequentare il primo International Jazz Master Program (In.Ja.M.)
organizzato dalla
Fondazione Siena Jazz. Si tratta di un corso di alta specializzazione in tecniche dell'improvvisazione, al quale partecipano in qualità di docenti alcuni dei più importanti artisti internazionali. Parte integrante di questo Master sono le jam session organizzate in un club della città nelle quali capita spesso che gli studenti condividano lo stesso palco con alcuni “mostri sacri” della storia del jazz. Ho deciso di inserire questa breve nota biografica per ricostruire il percorso individuale e di studio che mi ha portato a maturare l'idea per questa tesi. In effetti, quando è arrivato il momento di scrivere la mia tesi di specializzazione in sociologia, ho pensato che fosse una buona idea far convergere la mia passione per il jazz e gli studi di scienze sociali. Il primo problema, se così si può dire, era quello di individuare un punto di vista, una prospettiva che mi permettesse di presentare il jazz con lo sguardo di un sociologo. Su quella che viene considerata la "musica del XX secolo" per eccellenza sono state prodotte letteralmente
6
migliaia di pubblicazioni. Ma dovendo necessariamente escludere la prospettiva musicologica e quella storica, il campo per le mie ricerche bibliografiche si restringeva molto. Uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto in questa prima fase è stato il sociologo americano Howard Saul Becker, considerato come l'esponente più celebre della cosiddetta "seconda generazione" della Scuola di Chicago. Il nome di Becker viene spesso associato al settore disciplinare della sociologia della devianza. Il testo di riferimento al riguardo è il celebre Outsiders, una raccolta di saggi composta nel 1963 che include alcuni capitoli divenuti un "classico" degli studi sulla devianza, come quello sui consumatori di marijuana. Sebbene tale lavoro sia stato troppo spesso ridotto alla formulazione della cosiddetta labelling theory, in realtà il contributo principale di Becker è stato quello di "allargare l'area presa in considerazione dallo studio dei fenomeni devianti, includendo, oltre a chi viene definito deviante, le attività di altre persone" (Becker: 1991, p. 136), ovvero i membri del gruppo a cui il cosiddetto agente deviante appartiene. Emerge una nuova ottica che indaga i comportamenti devianti e i gruppi che li mettono in atto come un'esperienza sociale collettiva, frutto dell'interazione tra più persone che "fanno ciò che fanno con un occhio a ciò che gli altri hanno fatto" (ivi, p. 138) In realtà, più che per l'innovativo approccio al tema della devianza, il lavoro di Becker ha attirato la mia attenzione per motivi più strettamente legati al jazz. In Outsiders, il sociologo di Chicago include infatti un capitolo che è un estratto del lavoro di ricerca svolto per la propria tesi di Master, condotta sotto la guida di Everett Hughes. Il saggio (The Professional
7
Dance Musician and His Audience)
raccoglie le esperienze fatte da
Becker in qualità di pianista professionista nei club di Chicago durante gli anni '40, un periodo particolarmente fiorente per il jazz nella Windy City.
Durante gli anni dell'università, Becker svolse l'attività di pianista presso i numerosi locali notturni della città e al momento di scrivere la sua tesi era ancora convinto che quella sarebbe stata la sua professione per il resto della vita. Avendo deciso di produrre una tesi sui gruppi professionali, il giovane Becker pensò di utilizzare le esperienze accumulate nel suo lavoro di jazzista. Il risultato fu un brillante resoconto della vita quotidiana e professionale dei musicisti, con numerosi accenni alla subcultura in cui essi (compreso l'autore) erano immersi e sulla modalità in base alle quali i musicisti etichettavano un individuo e il suo comportamento come insider o outsider rispetto alla loro comunità. L'approccio scelto da Becker fu quello dell'osservazione partecipante e in questo fu favorito dal fatto di essere perfettamente integrato nel gruppo che stava studiando, al punto che le sue curiosità o le sue domande apparivano del tutto naturali. Nessuno dei musicisti di cui l'autore raccolse le testimonianze si resero conto che egli si presentava nella duplice veste di pianista e di ricercatore sociale. Fatte le dovute proporzioni, l'esperienza di Becker mi è parsa subito affine alla mia. Anch'io avevo a disposizione una buona quantità di esperienze dirette sull'ambiente del jazz e forse avrei potuto produrre un lavoro dello stesso genere. In seguito però ho pensato che potevo proporre un punto di vista differente rispetto a quello adottato da Becker. Come ho già detto, The Professional Dance Musician and His Audience,
è essenzialmente una
ricerca su un gruppo professionale, quello dei musicisti da night club.
8
Poco o nulla viene detto riguardo l'atto musicale in sé. Una delle cose che mi affascinano di più del mondo del jazz è il tipo di conoscenza necessario a creare una musica che si fonda sull'improvvisazione e sull'interazione tra un gruppo di individui. In questo il jazz è diverso da tutti gli altri generi della musica contemporanea. È vero che l'improvvisazione non è sempre sinonimo di jazz e che una certa forma di interazione è sempre necessaria se si vuole fare musica insieme ad altre persone. Ma in nessun'altra cultura musicale la fusione di questi due elementi ha assunto una rilevanza paragonabile a quella del jazz. Esiste un'istituzione nel mondo del jazz in cui quest'azione combinata di improvvisazione individuale, conoscenze condivise e interazione collettiva diventa particolarmente evidente: la jam session. Ragionando sulle caratteristiche di questo tipo particolare di performance, nella quale un gruppo di musicisti si riunisce in modo estemporaneo e crea musica insieme, mi è sembrato di poter individuare numerosi elementi che potevano rientrare in uno studio di tipo sociologico. In particolare ho pensato che mi sarebbe piaciuto rendere conto di quel senso di appartenenza a una comunità, delle dinamiche interpersonali tra musicisti e non musicisti e del particolare utilizzo di un repertorio condiviso di brani standard con i quali mettere alla prova la propria competenza nel “mestiere” dell'improvvisazione. Le impressioni che avevo ricevuto nelle numerose jam alle quali avevo partecipato nel corso degli anni in qualità di spettatore o musicista mi apparivano ora sotto una luce diversa. Stavo maturando l'idea di poter presentare questo tipo di fenomeno a chi non ne conoscesse il "funzionamento", cercando di rivelare i meccanismi nascosti che agiscono dietro l'apparenza di un gruppo di persone che semplicemente si riunisce per suonare insieme.
9
Di conseguenza, la mia indagine bibliografica andava ora affinandosi. In questo modo mi sono imbattuto nei lavori fondamentali di due ricercatori americani, Ingrid Monson e Paul Berliner, che hanno ampiamente affrontato il tema in questione. Parallelamente allo studio della letteratura sul caso, ho poi iniziato ad abbozzare una struttura generale al mio lavoro. Quali elementi dovevo includere? Con quale strumento metodologico avrei dovuto affrontare l'oggetto in questione? Se è vero che le informazioni necessarie per la ricerca le avevo raccolte (potremmo dire inconsciamente) nel corso di dieci anni di esperienze come contrabbassista semi-professionista di jazz, ho ritenuto opportuno presentarle sotto forma di un'etnografia della jam session, come risultato di un lungo lavoro di osservazione-partecipante. Questa tesi è in conclusione il risultato della fusione di due passioni, quella per le scienze sociali e quella per il jazz, alla quale ho tentato di dare una forma unitaria e coerente. Come spesso accade, quando si giunge alla conclusione di un lavoro di ricerca come questo ci si rende conto di tutto quello che è rimasto fuori, di tutti quegli aspetti che varrebbe la pena approfondire. Ad ogni modo, scartando a priori la pretesa della completezza, spero quanto meno di essere riuscito a trasmettere lo stupore che il “pensiero” jazz messo in atto durante una performance collettiva ha sempre suscitato in me.
10
1. Jazz e Scienze Sociali Talking about music is like dancing about architecture. Thelonious Monk (pianista e compositore)
1.1 La densità del jazz
In questo capitolo vorrei offrire una breve rassegna dei molteplici approcci al cui interno le scienze sociali si sono interessate al jazz come fenomeno sociale e culturale. Mi focalizzerò sul contributo di discipline quali l'etnomusicologia e l'antropologia culturale, il filone degli African American Studies e la sociologia della musica.
Le origini nella cosiddetta Diaspora Africana 1 (o Black Diaspora) e il meticciato culturale afroamericano, i mutamenti nella consapevolezza degli artisti e dei fruitori di tale forma d'arte, le istanze di auto affermazione e di liberazione, le influenze con le altre forme d'arte e con gli atteggiamenti e i comportamenti di intere generazioni, hanno fatto del jazz una fonte densa di significati sociali, tanto da aver spinto alcuni autori a identificarlo come fenomeno artistico simbolo della modernità e del XX secolo.
Con il termine Diaspora Africana si intende la dislocazione, forzata o volontaria, degli abitanti dell'Africa Sub-Sahariana in altri continenti. In questo contesto ci riferiamo essenzialmente alle massicce migrazioni causate dal commercio coloniale degli schiavi di origine africana operato dalle principali potenze europee attraverso l'Atlantico lungo la direttiva Est-Ovest. A partire dal XV° sec. e fino al XIX°, tali migrazioni hanno sradicato un enorme numero di individui dalle loro collocazioni originarie alle colonie del Nuovo Mondo, dove hanno costituito la principale forza lavoro coatta nelle piantagioni del Nord America e del Sud America (in particolare del Brasile), gettando le basi per la creazione della civiltà afroamericana. 1
11
Per rendere conto della complessità del fenomeno jazz, intendo utilizzare una particolare accezione del concetto di densità. Non mi riferisco in questo ambito all'uso che ne ha fatto Durkheim per rappresentare la crescente differenziazione del lavoro sociale, ma piuttosto ad una densità dei significati e delle connessioni con ambiti diversi del reale. Come molti altri fenomeni artistici rilevanti, il jazz si presta ad una lettura a più livelli e da diversi punti d'osservazione che ne sottolineano un solo aspetto, spesso a scapito di altri: genere o cultura musicale, fenomeno artistico globale, fenomeno sociale e antropologico, processo di produzione artistica caratterizzato da un modello interattivo di performance. Risulta evidente come non si possa rendere conto di tale densità partendo da un unico approccio. Per fenomeni di tale complessità, è necessario affidarsi al contributo di molteplici studi, integrandone gli sforzi in una prospettiva interdisciplinare. Laddove le scienze sociali devono cedere il passo a discipline più consone all'analisi del fenomeno musicale in sé, il contributo della sociologia e dell'antropologia si rivelano tuttavia indispensabili se si intende indagare sui fenomeni di ordine relazionale legati al jazz, i quali rappresentano l'oggetto d'indagine di questa ricerca. Resta ancora da chiarire se sia realmente possibile pervenire ad un approccio globale, che renda conto della complessità del fenomeno senza trascurarne alcun aspetto. L'ostacolo principale è in genere quello di conciliare gli approcci di tipo tecnico-musicologico con quelli più vicini alle metodologie della ricerca sociale. Ripercorrendo la storia della ricerca, dobbiamo ammettere che tale tentativo di avvicinamento è rimasto molto spesso frustrato. Il jazz è da sempre materia sfuggente e multiforme, caratterizzata da una certa insofferenza nei confronti delle categorie rigide e dei sistemi teorici.
12
Nonostante la sua storia ormai secolare, il jazz rimane l'arte del contingente, dell'istante, dell'ineffabile.
1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti
Sebbene ciò esuli dall'ambito proprio delle scienze sociali, ho ritenuto interessante trattare brevemente il rapporto tra la musicologia classica occidentale e il jazz, convinto che i limiti di tale filone di studi siano rappresentativi della peculiarità del fenomeno jazz. Il jazz è stato e continua ad essere largamente e profondamente analizzato dalla musicologia classica. Un approccio di questo tipo non può che privilegiare il prodotto finale della pratica musicale, l'evento sonoro in sé. Già a questo livello, il jazz non ha mancato di manifestare la propria complessità, ricchezza e profondità. Una teoria piuttosto abusata nella letteratura vuole descrivere questa musica come risultato diretto della fusione di due tradizioni: quella bianca di matrice europea e quella nera di derivazione africana. In quest'ottica, risultano facilmente identificabili gli elementi che il jazz avrebbe ereditato da questo "matrimonio misto". Semplificando, si suole dire che dal genitore bianco deriverebbe l'impianto armonico mentre da quello nero discenderebbe l'impulso ritmico. Sebbene sia piuttosto evidente che le strutture armoniche su cui si fonda il jazz siano debitrici della teoria tonale europea, mentre il ritmo esuli da quella tradizione per rimandare ad una matrice africana, i ricercatori più attenti si sono ben guardati da ridurre il jazz a questa semplice sommatoria di elementi. Il rischio di cadere in degli stereotipi è
13
ben evidenziato dal musicologo
Stefano Zenni: ”l'attribuzione del
dominio ritmico all'Africa e di quello armonico all'Europa [...] implica una visione sottilmente razzista della musica. Agli africani, corporei e "istintivi" è riconosciuta l'abilità nell'espressione più fisica e immediata, originaria e liberatoria: il ritmo. L'armonia invece è un prodotto di quelle capacità teoriche, riflessive, gerarchiche e sintattiche tipicamente europee.” (Zenni: 2008, p. 70) Al di là dei giudizi di merito, la ricerca musicologica ha dovuto inoltre affrontare numerosi problemi di tipo metodologico nell'approccio al jazz. Se la musicologia classica europea si è formata sull'analisi della composizione, il primo ostacolo da superare è stato quello di rendere conto della complessità che sottende l'improvvisazione musicale nel jazz. Sebbene la trascrizione musicale possa essere utile per analizzare da un punto di vista tecnico le capacità dell'esecutore o le strutture formali della composizione, la gran parte del processo di interazione che rende possibile l'improvvisazione nel jazz rimane comunque fuori da tale tipo di analisi. Il jazz è sfuggente, non si conforma alle regole della musica colta europea, poiché fondato su un'inedita fusione tra la figura dell'esecutore e quella del compositore nell'immediatezza dell'atto musicale, dell'esecuzione, della performance. Non è un caso che si parli spesso dell'improvvisazione in termini di “composizione istantanea”. Le tecniche della trascrizione musicale che sono alla base della ricerca musicologica, si sono poi rivelate del tutto impotenti anche nel rendere conto della grande ricchezza timbrica del jazz. Laddove infatti l'esecutore classico viene addestrato ad ottenere un suono puro e
14
"conforme" dal proprio strumento, nel jazz e nelle musiche afroamericane in generale la ricerca continua di una "voce" individuale rappresenta lo sforzo primario nello sviluppo artistico di ogni musicista. La tecnologia di registrazione acustica e poi elettrica, che hanno avuto le proprie pionieristiche applicazioni proprio nel jazz, hanno reso solo in parte giustizia di questa complessità e ricchezza.
1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia
Una prospettiva più consona all'analisi della forma jazz è senz'altro quella proposta dall'etnomusicologia. Sorta nel tardo '800 (in Germania viene indicata come vergleichende Musikwissenschaft , musicologia comparata) ad opera di alcuni pionieristici cultori come Béla Bartòk e Constantin Brailoiu, la nuova disciplina è caratterizzata dall'impiego delle tecnologie di registrazione sonora, di tecniche di trascrizione che riflettono lo sforzo di offrire un'analisi fedele dell'atto musicale e soprattutto da una grande attenzione al contesto sociale e culturale in cui si inseriscono le culture musicali di tradizione orale. Proprio negli Stati Uniti, dove molti musicologi tedeschi troveranno rifugio durante il Nazismo, l'etnomusicologia troverà uno dei suoi terreni ideali di applicazione e il jazz nelle sue forme più primitive e originarie rappresenterà un campo di studi indagato a fondo dagli etnomusicologi. Per citare solo uno dei numerosi casi di incontro tra etnomusicologia e jazz possiamo ricordare le celebri interviste al pianista e compositore Jelly Roll Morton, massimo esponente dello stile ragtime, condotte da Alan Lomax intorno al 1938.
15
Il jazz rimane essenzialmente una musica di tradizione orale, fondata cioè sulla trasmissione di pratiche sedimentate nel corso dei decenni da generazioni di artisti e su una particolare attenzione alla materia sonora in sé, piuttosto che sulla scrittura e sulla composizione. Per dirla con le parole dell'etnomusicologo Gianfranco Salvatore, l'elemento chiave nel jazz è propriamente l'atto musicale inteso come “un insieme correlato di gesti e saperi in azione, espressività e sensorialità, partecipazione psichica, emotiva e fisica, codici cerimoniali e rituali, livelli complessi e interrelati di significazione. Nella musica afroamericana, dove non vige una netta differenza tra testo ed esecuzione, né una netta separazione tra musicista e pubblico, dove la dimensione strettamente musicale e quella contestuale-ambientale tendono ad interagire, il concetto di atto musicale aiuta a restituire il linguaggio ai suoi referenti culturali e antropologici, enfatizzando la dimensione umana integrale dell'agire e del fare.” (Salvatore: 2005, p.22) Già da questa breve citazione è possibile individuare il netto slittamento di prospettiva operato dall'etnomusicologia nei confronti del jazz così come di altre musiche di tradizione orale. Dispiegando i propri strumenti analitici in un territorio di confine rimasto inesplorato, a cavallo tra discipline socio-antropologiche e ricerca musicologica, l'etnomusicologia ha così potuto offrire un contributo fondamentale e sostanzialmente inedito all'analisi del fenomeno jazz. Le metodologie della ricerca antropologiche sono corse in aiuto dell'analisi musicale per cercare di approfondire l'analisi del fenomeno. Ma anche in questo modo, qualcosa di molto importante resta fuori dall'inquadratura. Come rendere conto di tutto ciò che si situa "prima" della performance musicale, come rendere conto dello straordinario
16
lavoro di interazione che sottende all'improvvisazione? Stiamo parlando in questo caso di una forma ben precisa di improvvisazione, quella in cui uno o più solisti intraprendono un proprio discorso musicale improvvisato sostenuti da altri musicisti che fungono da accompagnatori. Vedremo in seguito come tale modello non sia l'unico in questa musica, sebbene venga spesso identificato con il jazz tout court . Il jazz è una musica che si fonda sull'oralità, sulla performancec contingente e irripetibile, sull'interazione e sul dialogo. Il lento e doloroso affrancamento degli afroamericani dai pregiudizi e dalle discriminazioni razziali e il loro ingresso nella cultura accademica americana porteranno in seguito alla nascita di un nuovo filone di studi nelle scienze sociali che cercherà di offrire una nuova prospettiva anche nello studio della grande cultura musicale dei neri d'America.
1.4 African American Studies: una prospettiva etnica?
Con la dicitura African-American Studies si indica un ambito di studi sorto negli Stati Uniti a ridosso delle proteste per i diritti civili intorno al 1968. Proprio in quell'anno viene creato il primo "Department of Black Studies" dall'università statale di San Francisco che ne affida la direzione al sociologo Nathan Hare. Quando parliamo di African American Studies non intendiamo in realtà una disciplina a se stante, quanto piuttosto un corpus interdisciplinare che comprende tra le altre la sociologia, l'antropologia culturale, la storia, gli studi religiosi e la critica letteraria. Questa fusione di approcci è poi giunta ad una formalizzazione nei
17
dipartimenti universitari, fino alla creazione di percorsi di studi dedicati. La prospettiva comune è caratterizzata da un netto afrocentrismo in cui molti autori hanno facilmente individuato una forma di reazione e di resistenza all'eurocentrismo accademico americano che tendeva a non riconoscere o ignorare del tutto il contributo della cultura afroamericana alla formazione della società americana in generale. D'altra parte, la prospettiva esclusivista di questo genere di approcci ne ha costituito, a detta di molti, il limite principale. Negli African American Studies, il jazz è stato rappresentato come forma d'arte "regina" della cultura afroamericana e l'analisi delle sue componenti sociali e culturali è stata inserita nel più ampio discorso sulla Black Diaspora e sul contributo delle culture afroamericane alla società del XX secolo. In questo caso è interessante notare come il jazz, da arte etnicamente connotata, si sia svincolata dalle sue origini per divenire un linguaggio globale che ha investito anche altri contesti della produzione artistica, dalla pittura al cinema alla letteratura. Il sociologo britannico Paul Gilroy, uno dei principali esponenti contemporanei di questo approccio, ci offre un inquadramento della musica come elemento centrale e addirittura fondante della cultura afroamericana: “La forza e il rilievo della musica all'interno dell'Atlantico Nero sono cresciute in proporzione inversa rispetto al limitato potere espressivo del linguaggio. È importante ricordare che l'accesso degli schiavi alla cultura scritta veniva spesso negato, pena la morte, e che solo poche opportunità di riscatto culturale venivano offerte quali surrogato delle altre forme di autonomia individuale negate dalla vita nelle piantagioni e nelle baracche.
La
musica
diventa
vitale
nel
momento
in
cui
l'indeterminatezza (la polifonia) linguistica e semantica emerge dalle
18
continue battaglie tra i padroni, le padrone e gli schiavi. Tale conflitto, decisamente moderno, fu il prodotto di circostanze nelle quali il linguaggio perse una parte della propria referenzialità e del suo rapporto privilegiato con i concetti.” (Gilroy: 2003, p. 154) E più avanti, sugli interrogativi sorti a seguito di quel processo di diffusione che ha portato i generi della musica afroamericana fuori dai confini etnici delle proprie origini, fino a diventare linguaggio musicale globale e condiviso: “Quali particolari problemi analitici si presentano se uno stile, un genere o una performance specifica di musica vengono identificati come espressione della pura essenza del gruppo che li ha prodotti? Quali contraddizioni emergono nella trasmissione e nell'adattamento di questa espressione culturale a opera di altre popolazioni della diaspora, e come potranno essere risolte? [...] Una volta che la musica venga percepita come fenomeno mondiale, quale valore viene assegnato alle sue origini, specie se vanno a contrapporsi a successive mutazioni prodotte durante le sue contingenti deviazioni e le sue traiettorie frammentate?” (Gilroy: 2003, p. 156) Gli esponenti della corrente degli African American Studies non sono certo i primi ad occuparsi della materia jazz. La sociologia della musica si era già prodotta in alcune analisi del jazz le quali, va detto preliminarmente, hanno spesso peccato di superficialità e incompiutezza, come nel caso di Thomas W. Adorno. Approcci più compiuti ed equilibrati saranno invece quelli di sociologi che più direttamente hanno avuto modo di venire a contatto con il contesto sociale del jazz come nel caso di Alfred Schutz, fino ad arrivare alle illuminanti indagini di
19
Howard S. Becker, nel cui caso assistiamo ad un fortunato incontro tra analisi sociale e biografia dell'autore.
1.5 La prospettiva sociologica
Gli approcci più prettamente sociologici hanno, per forza di cose, escluso la componente musicologica. In questo caso, l'oggetto della ricerca si è spostato piuttosto sull'analisi del jazz come fenomeno sociale e culturale. Possiamo individuare due direttive negli studi: il contributo del jazz come forma d'arte nel XX secolo e il jazz come fenomeno sociale. Nel primo caso, siamo nel campo della sociologia della musica, disciplina inaugurata da Weber in “Economia e Società”. Diversi i temi sottoposti ad analisi in questo contesto: la funzione dell'elemento "musica" nella società, l'impatto della riproducibilità meccanica sulla fruizione della musica, la classificazione dei generi musicali e le differenze nei "comportamenti musicali" ad essi connessi, la ricezione della musica presso l'opinione pubblica e i diversi ruoli giocati dagli attori (compositori, esecutori, pubblico, critica, industria discografica). Nel caso specifico del jazz, il limite principale di questo genere di analisi (e in particolare di quella di Adorno) è stata la decisione di abbandonarsi a giudizi di merito sul valore musicale di questo genere. Nel secondo caso, il focus del ricercatore si è indirizzato verso la comunità dei musicisti di jazz (spesso con un accento rilevante sul tema della devianza, con una particolare predilezione per le analisi sul consumo di droghe); oppure, più raramente, sul pubblico del jazz e
20
sull'impatto sulla cultura popolare e sull'immaginario del XX secolo. Il jazz dunque come arte americana per eccellenza, espressione della modernità e del cambiamento.
1.5.1 L'equivoco di Adorno
Il maggiore esponente della Teoria Critica si occupa di jazz già a partire dal 1933 con il suo Abschied vom Jazz e ritorna più volte sull'argomento fino agli anni '60 del secolo scorso. Appare fin da subito una sorta di militante ostilità del pensatore tedesco nei confronti di questa musica e del contesto sociale in cui essa si inscrive. Le ragioni di questo attacco frontale sono state più volte indagate dai ricercatori nel corso degli anni, oscillando tra l'imbarazzo dovuto al rispetto per una figura così importante per la storia della sociologia e la strenua difesa di una cultura musicale la cui ricchezza e profondità Adorno sembra aver completamente misconosciuto. Del resto le posizioni del pensatore si inscrivono pienamente nel suo programma di critica della società dei consumi. Quello fra Adorno e il jazz è a mio avviso un incontro mancato. L'autore decide di soffermarsi esclusivamente sulle varianti più commerciali e standardizzate di tale forma di espressione, ignorando del tutto la carica di ribellione alla mercificazione e di radicale contestazione della società americana di cui il jazz si farà portavoce già a partire dalla metà degli anni '40 con la "rivoluzione" del be bop2; fino alla diretta saldatura tra movimenti per i diritti civili e musica afroamericana che si Stile fondamentale del jazz moderno, il be bop nasce nei primi anni 40 ad opera di alcuni giovani musicisti per lo più afroamericani e soprattutto fuori dal contesto stabile delle big band. I “nuovi” musicisti della scena newyorkese (Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Art Tatum, Charlie Christian, Thelonious Monk ed altri), si riuniscono do 2
!
21
celebrerà negli anni '60, con le nuove tendenze culturali della new thing e del free jazz.
1.5.2 Schutz: "Making music together"
Una prospettiva particolarmente interessante ai fini della mia ricerca è quella offerta da Alfred Schutz nel saggio " Making Music Together " (1964). In una breve ma brillante trattazione, il sociologo austriaco indaga il tipo di relazioni sociali che sottostanno al processo di creazione musicale. Nelle parole dell'autore, “lo studio della particolare situazione comunicativa implicata nel processo musicale, potrebbe gettare una nuova luce sugli aspetti non concettuali coinvolti in ogni modello di comunicazione” (Schutz: 1964, p.162) La notazione musicale, evidenza Schutz, rappresenta un sistema solo approssimativo di comunicazione delle idee musicali tra il compositore e gli esecutori della sua opera. Esiste una lunga storia di esegesi delle partiture che permette di rappresentare opere musicali composte anche secoli addietro. Ciononostante, la corretta interpretazione dell'idea originaria del compositore non è mai garantita. Successivamente, ovvero nell'atto pratico dell'esecuzione musicale, interviene un complesso vocabolario e una conseguente sintassi di espressioni gestuali, non linguistiche, attraverso le quali i musicisti comunicano e si relazionano. Si potrebbe parlare di "regole del gioco" condivise da musicisti e pubblico che assiste all'esecuzione.
22