FRONTESPIZIO DE “GLI ANGELI MALVAGI” DI ERIC JOURDAN
La campagna attorno alla Loira costituisce lo scenario della storia d'amore, che è anche itinerario verso l'assoluto, fra Pierre e Gérard: storia splendida e terribile che i due protagonisti raccontano ciascuno ciascuno dal proprio punto di vista vista nelle due parti in cui è suddiviso suddiviso questo romanzo. romanzo. Se il racconto di Gérard segue quello di Pierre, ne riprende il filo interrotto e giunge sino alla conclusione, «rivede» anche, però, certe situazioni raccontate dal primo e le rielabora gettando nuova luce sugli eventi dapprima teneri e appassionati, poi sempre più drammatici e terribili della loro vicenda. In un mondo chiuso, meschino, meschino, soffocante di ricchi borghesi borghesi annoiati, annoiati, i due ragazzi assetati di libertà cedono al richiamo di un panteismo sensuale cui ben si addicono le radure om breggiate in riva al fiume, i silenzi s ilenzi abitati dal timor panico dell'ora meridiana, tutte le sensazioni sensazio ni visive, tattili, tattili, olfattive olfattive della campagna. In quello scenario - complici complici la malinconia malinconia infinita infinita che dà la consapevolezza di divenire adulti, i cupi richiami a una misteriosa pienezza del male, la certezza che il dolore sia necessario per preparare l'anima e il corpo a uno stato superiore di grazia - i due ragazzi si abbandonano a un amore viscerale in cui l'uno vuole fagocitare l'altro, entrare in lui, farsi a propria volta divorare dal complice. complice. Il lettore si lascia prendere prendere dal gioco, entra nel gioco, assiste avvinto, non giudica più: la nozione di peccato e di colpa viene abolita, tanto per i protagonisti quanto per noi spettatori affascinati dalla pienezza delle sensazioni, anche le più brutali, dai rituali cruenti e sadici in cui si consuma quell'amore impossibile. «Impossibile» non per il suo essere fuori della norma, ma per la sua irrealizzabile ambizione di far sì che «quei due esseri diventassero ciò che gli uomini chiamano dèi».
RACCONTO DI PIERRE
Il cielo era d'un azzurro splendente, splendente, d'una grandezza grandezza serena. Non si capiva più se c'era il sole. L'acqua scorreva sotto i platani e le betulle senza nulla riflettere, balenando soltanto quando un raggio di luce ne attraversava le profondità fatte di macchie dove, a tratti, tratti, il verde incupiva fino al nero. L'estate L'estate aveva bruciato le erbe alte che ricadevano - capelli d'oro scarmigliati scarmigliati - su tutto lo spazio fra albero albero e albero. Da sotto le ciglia ciglia il paesaggio paesaggio diventava diventava smisurato smisurato.. Gambe allargate, allargate, un ciocca di saponaria giallo giallo chiaro contro le ginocchia, ginocchia, Gérard dormiva. La camicia aperta sem brava un'onda bianca che gli si frangesse sul petto, il cui culmine era e ra color del miele... e i miei occhi si fissavano, nell’incavo del collo, sui muscoli della gola, che con il loro vigore davano risalto alla dolcezza dolcezza delle ombre verso la spalla. Del volto, vedevo soltanto soltanto la guancia; ai capelli s'erano intrecciati fili d'erba tagliata; qualche ciocca gli ricadeva sulla fronte; nel cavo della tem pia, una vena spessa, gonfiata dal caldo, portava allo zigomo il bagliore indistinto del sangue, dando al ragazzo in riposo una carica di voluttà ben più violenta di quella che gli veniva dall’insolenza delle sue fattezze quand'era dritto in pieno sole. Avrei voluto fermare il giorno, catturare per l'eternità l'eternità l'istante l'istante inafferrabile nel volto di Gérard addormentato addormentato alle mie ginocchia, ma ogni attimo attimo mi portava la crudele smentita del passato nel mio respiro, nella nella tonalità tonalità più verde degli alberi, nel silenzio silenzio più solenne dell'acqua. dell'acqua. Gérard era d'una bellezza malvagia e, anche mentre giaceva addormentato, lo si capiva dalla calza arrotolata alla caviglia che metteva in mostra una gamba liscia da cacciatore di nidi. Rivedevo tutta la nostra vita, quella che esclude genitori e maestri, e m'imponevo studiatamente di ricordare soltanto soltanto le ore di quel giorno di vacanza. La mattina mattina era trascorsa nella mia stanza. stanza. Avevamo Avevamo dei compiti da fare: giocammo giocammo a dadi. Come al solito, la colazione colazione fu silenziosa, con suo padre, il mio, e una cugina che s'occupava di noi da quando avevamo entrambi perduto le nostre mamme, che erano sorelle. Quando dico colazioni silenziose, le giudico sempre dal nostro punto di vista, dal momento che noi due opponevamo un volto indifferente alle frasi degli adulti e mangiavamo al loro tavolo con la sensazione di perdere tempo e basta. Agli ultimi bocconi, Gérard mi guardò da sotto in su in un modo che sarebbe parso ambiguo se la conversazione non ci avesse isolati dagli altri. Una volta fuori, mi spiegò quell'occhiata: «Andiamo in riva al fiume a dormire sull’erba, ti va?» Il fiume era uno specchio d'acqua fra due stagni, e lo chiamavamo così per via della più lontana Loira, che ci attirava meno perché apparteneva a tutti. Sulla strada per arrivarci perdemmo tempo per impedire che qualche invitato importuno capisse dove andavamo andavamo e potesse giungere li all’improvviso all’improvviso costringendoci costringendoci a rientrare rientrare prima che ne avessimo voglia. Gérard s'abbronzava meno in fretta di me, ma in otto giorni mi aveva eguagliato, ed eravamo entrambi dorati a un punto tale che ragazze e ragazzi si soffermavano a guardarci quando attraversavamo la città: eppure anche loro erano baciati da quella bellezza che, grazie all’aria aperta e alla vita tranquilla, tranquilla, faceva fiorire rose sotto le loro guance bronzee, dando ai corpi la pacata magnificenza gnificenza della giovinez giovinezza. za. Avevo imparato imparato a capire capire tutte quelle quelle occhiate. occhiate. Quei giovani, giovani, sor-
RACCONTO DI PIERRE
Il cielo era d'un azzurro splendente, splendente, d'una grandezza grandezza serena. Non si capiva più se c'era il sole. L'acqua scorreva sotto i platani e le betulle senza nulla riflettere, balenando soltanto quando un raggio di luce ne attraversava le profondità fatte di macchie dove, a tratti, tratti, il verde incupiva fino al nero. L'estate L'estate aveva bruciato le erbe alte che ricadevano - capelli d'oro scarmigliati scarmigliati - su tutto lo spazio fra albero albero e albero. Da sotto le ciglia ciglia il paesaggio paesaggio diventava diventava smisurato smisurato.. Gambe allargate, allargate, un ciocca di saponaria giallo giallo chiaro contro le ginocchia, ginocchia, Gérard dormiva. La camicia aperta sem brava un'onda bianca che gli si frangesse sul petto, il cui culmine era e ra color del miele... e i miei occhi si fissavano, nell’incavo del collo, sui muscoli della gola, che con il loro vigore davano risalto alla dolcezza dolcezza delle ombre verso la spalla. Del volto, vedevo soltanto soltanto la guancia; ai capelli s'erano intrecciati fili d'erba tagliata; qualche ciocca gli ricadeva sulla fronte; nel cavo della tem pia, una vena spessa, gonfiata dal caldo, portava allo zigomo il bagliore indistinto del sangue, dando al ragazzo in riposo una carica di voluttà ben più violenta di quella che gli veniva dall’insolenza delle sue fattezze quand'era dritto in pieno sole. Avrei voluto fermare il giorno, catturare per l'eternità l'eternità l'istante l'istante inafferrabile nel volto di Gérard addormentato addormentato alle mie ginocchia, ma ogni attimo attimo mi portava la crudele smentita del passato nel mio respiro, nella nella tonalità tonalità più verde degli alberi, nel silenzio silenzio più solenne dell'acqua. dell'acqua. Gérard era d'una bellezza malvagia e, anche mentre giaceva addormentato, lo si capiva dalla calza arrotolata alla caviglia che metteva in mostra una gamba liscia da cacciatore di nidi. Rivedevo tutta la nostra vita, quella che esclude genitori e maestri, e m'imponevo studiatamente di ricordare soltanto soltanto le ore di quel giorno di vacanza. La mattina mattina era trascorsa nella mia stanza. stanza. Avevamo Avevamo dei compiti da fare: giocammo giocammo a dadi. Come al solito, la colazione colazione fu silenziosa, con suo padre, il mio, e una cugina che s'occupava di noi da quando avevamo entrambi perduto le nostre mamme, che erano sorelle. Quando dico colazioni silenziose, le giudico sempre dal nostro punto di vista, dal momento che noi due opponevamo un volto indifferente alle frasi degli adulti e mangiavamo al loro tavolo con la sensazione di perdere tempo e basta. Agli ultimi bocconi, Gérard mi guardò da sotto in su in un modo che sarebbe parso ambiguo se la conversazione non ci avesse isolati dagli altri. Una volta fuori, mi spiegò quell'occhiata: «Andiamo in riva al fiume a dormire sull’erba, ti va?» Il fiume era uno specchio d'acqua fra due stagni, e lo chiamavamo così per via della più lontana Loira, che ci attirava meno perché apparteneva a tutti. Sulla strada per arrivarci perdemmo tempo per impedire che qualche invitato importuno capisse dove andavamo andavamo e potesse giungere li all’improvviso all’improvviso costringendoci costringendoci a rientrare rientrare prima che ne avessimo voglia. Gérard s'abbronzava meno in fretta di me, ma in otto giorni mi aveva eguagliato, ed eravamo entrambi dorati a un punto tale che ragazze e ragazzi si soffermavano a guardarci quando attraversavamo la città: eppure anche loro erano baciati da quella bellezza che, grazie all’aria aperta e alla vita tranquilla, tranquilla, faceva fiorire rose sotto le loro guance bronzee, dando ai corpi la pacata magnificenza gnificenza della giovinez giovinezza. za. Avevo imparato imparato a capire capire tutte quelle quelle occhiate. occhiate. Quei giovani, giovani, sor-
presi sulle prime, pr ime, univano poi Gérard e me in una muta ammirazione; da quell'istante, rivivevar ivivevamo nei loro sogni e il nostro volto non ci apparteneva più. A Gérard piaceva tirarmi continuamente per un braccio; ci guardavamo per tutto il tempo, come se al di fuori di noi non esistesse nulla. Non appena ci ritrovavamo soli in campagna, però, ci allontanavamo allontanavamo l'uno dall'altro, dall'altro, senza riuscire tuttavia tuttavia a distaccarci distaccarci completamente. completamente. Gérard camminava a testa bassa, senza dire parola, e io, dopo qualche minuto, cominciavo a calciare i sassi e continuavo a farlo finché durava durava il silenzio. Alla lunga era insopportabil insopportabile; e; allora Gérard buttava la testa all’indietro e la sfida del suo incedere mi faceva irrigidire nel mio atteggiamento d'indifferenza. Già ci amavamo senza saperlo, e la rabbia di sentirci indispensabili l'uno all’altro dava a quell’incanto quell’incanto le parvenze d'una rivalità. Avevamo Avevamo pensato più volte di andarcene ciascuno per proprio conto, senza dir nulla, ma quando uno di noi aveva deciso bruscamente che quel certo giorno avrebbe segnato l'inizio della sua indipendenza, capitava che l'altro, spinto da un impulso incontrollabile, facesse il gesto che rendeva schiavi, come per esempio dire una parola vicinissima all’amore, sicché piombavamo di nuovo a corpo morto nell'asservimento della presenza. Quel pomeriggio avevamo bighellonato più del solito lungo il cammino, e il caldo che rendeva il paesaggio quasi grigio nell’ora in cui il sole picchiava più forte ci permise di raggiungere lo stagno imboccando direttamente la strada senza essere visti, giacché il pomeriggio apparteneva d'un tratto tratto a noi soltanto. Procedevamo Procedevamo al coperto degli degli alberi, senza senza parlare. Attorno a noi, noi, tutto era silenzio, la vicinanza dell'acqua cocente. A un certo punto, giovani getti di querce e alcuni rovi impedivano il passo; bisognava scostare le foglie per raggiungere il fiume, e sentii Gérard che, la voce decisa ma bassa come quella di un ragazzo il cui cuore batta troppo in fretta, diceva: « Qui staremmo staremmo bene; il sole ha bruciato l'erba: è più morbido per sdraiarsi... sdraiarsi... e saremo fuori dal mondo ». Ci trovavamo in una piccola radura. Gérard si sbottonò la camicia - io ero troppo emozionato per parlare -; si distese sull’erba, mettendosi sotto la testa la maglietta che s'era tolto appena uscito di casa infilandosela poi nella cintura con gesto provocatori provocatorio. o. Chiuse gli gli occhi fingendosi fingendosi addormentato. addormentato. A mia volta, volta, aprii la camicia appiccicata alla pelle e mi piegai su un ginocchio per toglierla del tutto. Volgendomi dalla sua parte, vidi che Gérard m'esaminava m'esaminava da sotto le ciglia: il suo sguardo era talmente strano che ebbi la sensazione di non essere mai stato così nudo, sebbene ogni giorno lui mi vedesse nella stanza da bagno. Dato che ci vestivamo vestivamo l'uno di fronte all’altro, all’altro, capitava spesso che rimanessi rimanessi seminudo, in mutande, davanti a lui, e perfino completamente nudo, quando avevamo appena fatto il bagno e, sulla riva di quello stesso fiume, soltanto il pudore comandava i nostri sguardi mentre ci asciugavamo asciugavamo e infilavamo infilavamo i jeans sulle gambe gambe ancora bagnate. bagnate. Al pari di me, nemmenemmeno a lui era sfuggito il momento in cui il mio corpo non aveva avuto più nulla da insegnargli, ma noi rispettavamo i nostri turbamenti e quelle posture che lasciavano gli occhi insoddisfatti. Così, avevo scoperto i suoi fianchi tondi, la curva delle spalle, e - nel momento d'abbandono in cui s'era stirato tenendo l'asciugamano l'asciugamano sollevato sulle braccia tese, il costume da bagno alle caviglie la forma perfetta perfetta di quella statua statua cui il sangue dava vita. Sapevo che era lo stesso per Gérard, poiché eravamo era vamo più o meno uguali, sebbene sebben e lui avesse qualche qu alche mese più di me, i suoi occhi fosfos sero più scuri e i capelli più chiari. Gérard si rigirò sull’erba. Aveva recitato così bene che il caldo, colpendolo alla tempia, l'aveva addormentato addormentato per per davvero. Del volto, volto, vedevo soltanto soltanto la guancia. guancia. Restavo immobile. immobile. Il sangue mi fremeva nelle braccia e nelle gambe, ma resistevo alla tentazione di mettere la testa contro la sua ' di abbracciarlo.
Gérard dormiva, e io vegliavo in pieno sole, il corpo chino su di lui, turbato da quella carne che la camicia sbottonata alonava d'un dolce chiarore, mentre il sole mi sferzava le spalle con le sue fruste invisibili. « Gérard, Gérard. » Lo chiamavo pianissimo e lui non mi sentiva; mi veniva sottratto da un'altra vita o a sua volta, geloso di un abbraccio da cui il suo corpo era escluso, era lui che vegliava su di me? « Gérard, Gérard », supplicavo. Il suono veniva da più lontano che dalla mia gola: era forse la voce dell’anima quell'implorazione diretta a un essere che non potevo più raggiungere e che avrebbe sempre avuto, per nascondersi, il labirinto del sonno? Una tristezza immensa m'avvolse fra le braccia: tutto mi parve tetro, la vita era senza scopo se Gérard mi sfuggiva così facilmente e se così facilmente potevo mettere fra noi quel deserto che non appartiene né alla morte né all'esistenza, e la cui sabbia appesantisce le palpebre. Il sopore di Gérard era già l'eternità. Fino a quel giorno, la sua presenza m'era bastata per ignorare che a diciassette anni l'amicizia è un nome dell’amore. Per la prima volta, un Gérard imprendíbile mi disorientava. Strappai - non so perché con violenza - uno stelo di loglio e, lasciata la malinconia accanto a mio cugino, mi voltai dalla parte dell'acqua, cui io ero più vicino, scostai alcuni rami bassi, mi allungai, immersi la pianta fino alle dita. Lo stelo spariva dopo aver increspato l'acqua, ma l'onda non rifletteva né la mia mano né la mia bocca china su di essa; sulle sponde, distinguevo soltanto un'ombra d'un verde un po' più grigio che era il riflesso dei riflessi degli alberi. A tratti, come un sasso lanciato da riva, una scheggia di sole piombava nel bel mezzo dell’acqua, ora, per il movimento di una foglia che scopriva una striscia di fiume alla sua fionda gigantesca, ora, per il suo lento calare sull’orizzonte, trasformando una scorza che oziava sull'acqua stagnante in barca luminosa. Dovetti cogliere un altro stelo, avendo abbandonato il primo alla debole corrente vicino alla riva, poi lasciai andare anche quello, quasi non sapendo più se non fossero i miei stessi desideri che abbandonavo. Quel gioco m'appassionava, trastullo di giovane Narciso di cui l'acqua non vuole riflettere il volto. Lo stelo sommergeva, scompariva, e io ricominciavo, un altro, poi un altro ancora, per costringermi a non guardare dietro di me il corpo senza difese di mio cugino. Di colpo qualcosa in me si spezzò - che fosse l'orgoglio? -, mi voltai verso Gérard e gli sfiorai i ca pelli. Una voce mi suggerì: « Abbraccialo ». Lui gemette nel sonno, allargò braccia di cieco e, senza sapere quel che faceva, mi attirò a sé, mi fece perdere l'equilibrio e mi strinse con tutte le forze. Una smorfia gli deformava le labbra. Ero sopra di lui, il suo respiro, il suo calore, il suo alito diventavano miei. Il mistero di un corpo tenuto fra le braccia mi s'impose, semplice e terri bile: a chi apparteneva? Poiché il sonno che l'allontana dalla terra lo porta per contrade sconosciute, la sua solitudine non è forse già una piccola immagine della morte? Credetti che Gérard, stringendomi a sé, si vendicasse dell'acqua che gli avevo spruzzato addosso; cercai di liberarmi, gli dissi: « Gérard, lasciami », ma fui presto sicuro che non fingeva di dormire. Il sole gli rivestiva d'oro il viso, ingrandendo le palpebre dove le ciglia non avevano più ombra, screziando i capelli spettinati, contornando l'orecchio d'un rosa trasparente e imperlandogli di sudore il collo di vittima riversa. Di lì a un minuto, a un secondo, si sarebbe voltato per terra, si sarebbe stirato, avevo soltanto un attimo per spiare il suo abbandono. Il corpo di Gérard addormentato aveva l'immensità notturna; gli posai l'orecchio sul cuore. Da così vicino, la sua bocca diventava la bocca d'un oracolo, ero pronto a qualsiasi sacrificio pur di sentire la parola amore. Continuava a stringermi quando aprì gli occhi, e, prima che il risveglio gli restituisse la memoria, ebbi diritto al sorriso di un volto che non conoscevo... Mio cugino mostrava agli altri un viso romantico e ambiguo, il cui fascino agiva non appena s'era riusciti a strappargli uno sguardo. Io,
tuttavia, ero il solo a conoscere il vero Gérard. Spesso, facendo la lotta, gli avevo preso la testa e, rovesciandogliela in piena luce, l'avevo costretto a mostrarmi le pupille, gialle, punteggiate di verde e marrone. E ogni volta, per non perdermi in esse, lo lasciavo andare. Una mattina litigammo a proposito di un libro che lui giurava d'avermi prestato e che doveva invece aver dimenticato nel fienile dov'era solito isolarsi, e dove l'avevo sorpreso più volte all'improvviso, le gote in fiamme come chi sia appena uscito da un sogno carnale: ne segui l'inevitabile corpo a corpo, ma lui non aveva mai la meglio quando si lasciava andare alla collera, sicché poco dopo lo serravo fra le gambe, sedevo sul suo torace e gli chiedevo se voleva arrendersi. 1 suoi occhi lampeggiavano d'odio. « No », sibilò. « Allora stringo. » E, con la stessa calma con cui pronunciavo questa frase, gli afferrai il polso e lo torsi. La faccia gli diventò paonazza, gli sfiorai la gota bruciante e scostai con noncuranza i riccioli che gli spiovevano sulle sopracciglia. Lui chiuse gli occhi, io gli ingiunsi di guardarmi, accentuai la stretta. D'un tratto, quasi volesse ghermirmi il volto, mi squadrò con le ciglia piene di lacrime. Lo lasciai. Lui non si mosse. Il suo volto s'era fatto serio, le pupille nerissime, immense; ciglia, sopracciglia e capelli splendevano d'un sudore greve, e una recondita dolcezza sulle guance e attorno alla bocca sollecitava le percosse: il dolore m'aveva rivelato la sua tenerezza, sicuramente quella che gli passava sui tratti come talvolta il ricordo di sua madre. Mi alzai, Gérard rimase a terra, e l'ultima visione che ebbi di lui prima di uscire fu quella di un ragazzo abbronzato che, con una gamba, premeva sul tappeto con tutta la sua forza, mentre l'altro ginocchio era sollevato e, grazie al gioco dei muscoli appena intuibili sotto la pelle splendente, dava alla sua posa umiliata un che di insolente. Avrei dato tutti i giochi, le provocazioni, i goffi desideri, tutto ciò che nel corso della giornata scandiva il tempo in gesti indimenticabili, perché Gérard mi si mostrasse nella sua vera luce. Ma mentiva a me come mentiva agli altri. Se quel suo modo di essere lo proteggeva dagli altri, da che cosa lo difendeva nei miei confronti? Temeva di perdere un potere la cui tirannia non aveva altra ragione apparente che la sua bella faccia? Non sapeva che saremmo stati uniti da un fascino ben più profondo? E, con moti di stizza volontari, nascondeva i suoi desideri più naturali, come quello, la mattina, di baciarmi sulla guancia per darmi il buongiorno. Temeva gli slanci, la tenerezza... Sorridendomi, aveva proprio l'aria che desideravo vedere in lui, e sentii che il sangue mi abbandonava, come se fossi stato colpito al cuore. Ci squadrammo in silenzio, il fiato corto e trattenuto, il sangue che pulsava alle tempie, nelle braccia, nelle reni. Dovevo essere bello anch'io, perché Gérard mi contemplava a bocca aperta. Quale oscura lotta nei nostri corpi, che lunga lotta fra sé e sé! Metà di me era Gérard, l'altra metà lo respingeva. Era un momento di delizia e di tortura; già immaginavo il ritorno, Gérard che camminava a testa bassa, di fronte a me, nella rabbia di un pomeriggio in cui non saremmo riusciti a vincere il nostro orgoglio. Allora, spinto da tutto il mio sangue, mi piegai sul volto che amavo, superai l'ostacolo caldo del suo respiro, e, le labbra socchiuse, sentii contro di esse altre labbra che si schiudevano. Non osammo più muoverci, goffi e febbrili. Avevo sotto di me il suo piccolo viso; Gérard si trasformava per il mio corpo in quelle due labbra carnose che baciavo. Più volte ci mancò il respiro e riprendemmo fiato aspirando la stessa aria senza staccarci; mai il mio cuore fu più grande e mai la gioia mi parve tanto vicina al dolore fisico. Aveva baciato così a lungo il mio viso che mi sembrava fatto di diecimila bocche. Eravamo due ragazzi nuovi, il passato non esisteva più, la nostra amicizia si toglieva la maschera di guerra e, lentamente, l'amore stava per posare le mani sui nostri veri volti e cavarci gli occhi. Quanto tempo restammo con la bocca incollata alle labbra dell'altro, in un contatto in cui il più piccolo gesto ci avrebbe feriti? Non lo so, ma furono ore, e quando non resistendo più pensai d'essere in un altro mondo, sentii di nuovo la lingua di Gérard che cercava la mia. Scoprii il suo palato come un vero e pro-
prio palazzo,' con lo stupore del bambino in una dimora misteriosa, poi gli cedetti la mia bocca e, nella foga del primo desiderio, rotolai al suo fianco. Ci abbracciammo con violenza di gladiatori che lottino per la vita. E sempre riconquistavo la sua bocca, come se fosse quello - per continuare a giocare con le parole' il solo palazzo in cui si rendeva omaggio al nostro amore. La saliva di Gérard aveva freschezza d'acqua, ma il suo bacio la rendeva bollente. Con una voce così bassa che dovetti fargli ripetere la frase, mi disse: « Sei bello ». Il mio sguardo gli rispose confessandogli quanto l'ammirassi: furono le nostre sole dichiarazioni d'amore. Tutto era uguale e tutto era diverso. Il giorno estivo non era più un giorno di vacanza in riva al fiume, ma il primo giorno del mondo. Una trappola si chiudeva su di noi, anche se eravamo liberi di correre come in passato. Essere a dieci passi l'uno dall’altro era già lasciarsi, perché il primo impulso d'amore abolisce il tempo, abolisce i sogni, le parole, le ribellioni contro colui che si ama, ma non abolisce lo spazio. Esso si fa sentire più che mai, assoluto; e occorre il lento corteo dei dispiaceri e dei momenti di gioia perché questi, svolgendo attraverso l'orizzonte la loro lunga teoria, trasformino i boschi, i campi, i fiumi fra i quali sono vissuti in legami per gli amanti. Staccammo le labbra soltanto per guardarci con gli occhi negli occhi, i nostri visi a una bocca di distanza l'uno dall’altro. L'amore era quel giardino meraviglioso di cui infine avevamo osato varcare il cancello per coglierne i fiori di carne. Misi la guancia su quella di Gérard; vedevo gli alberi dalla parte della loro ombra, paesaggio scuro e splendente al tempo stesso. Fra due cespugli, avevo di fronte a me tutta la pianura al di là della Loira, i boschetti piccoli come mosche, i campi di grano, le terre spoglie fra vigneti le cui linee parallele salivano all'assalto degli sfondi. L'estate sfavillava. Il luccichio d'un vetro tradiva per un attimo i casolari sparsi nei boschi, poi l'azzurro violaceo delle loro tegole si riamalgamava con vigne e susini. Era la luce dell'amore. Una tenerezza violenta mi rendeva sensibile in tutto il corpo; sotto la mia, la gota di Gérard era calda; gli toccai con la mano l'altra guancia, accarezzandone col palmo le curve che, nonostante una fossetta voluttuosa quasi in fondo, già gli delineavano un volto virile, quasi fosse indegno offrire alla vita, alla vita che ama tanto schiaffeggiare volti di uomini, una faccia d'adolescente. Gérard si divincolò per stirarsi e, attirandomi a sé, mi leccò un'orecchia con una dolcezza che infiacchiva il mio coraggio. Chiusi gli occhi: portavo in me un paesaggio che noi soltanto eravamo in grado di vedere. L'acqua che rifletteva alberi irreali appariva dorata. In controluce, la valle, i boschi sgranavano la loro illusione; non ero più sull’erba, non c'erano più Loira, né orizzonti, né campi azzurrini, né vigne. Solo vivo, era quel ragazzo bruno il cui odore di frutta mi pervadeva subdolamente, e la cui camicia aperta sulla pelle dorata, i pantaloni stretti, la maglietta arrotolata sotto la testa erano la prova d'un miracolo al quale credevo perché quegli indumenti banali diventavano gli strumenti di un'adorazione che non li rendeva inferiori alla lira, all’egida e ai talari degli dèi. Eravamo nell'età in cui i simboli avevano un senso immediato nelle nostre vite. Mi portai la mano di Gérard alla bocca, schiacciai il mio viso sul suo palmo; lui allargò le dita e mi strinse dolcemente mentre le mie labbra, poggiate nel cavo di quel palmo, direttamente sulle linee della fortuna e della vita, avrebbero voluto incidervici sopra con il loro bacio. Mi alzai di scatto; allora Gérard, sapendo che avevamo appena vissuto il più bel giorno della nostra estate, che quel momento ne segnava un po' la fine giacché il sole stava prendendo un color sangue slavato, e che quella nostra stupefacente lentezza aveva lo scopo di non farci perdere nulla dei nostri gesti, dei colori e dei rumori, Gérard, ancora semisdraiato a terra, mi cinse le ginocchia premendovi sopra le labbra tumide. 11 tempo correva attorno a noi. La sera, cenavamo alle otto. Eravamo dimentichi di tutto, a casa avrebbero fatto una tragedia. Adesso il giorno moriva; la curva dell’orizzonte sfumava nel cielo crepuscolare.
Riprendemmo senza entusiasmo la via del ritorno. Camminavamo nostro malgrado, lasciandoci dietro le ombre di due ragazzi al loro primo appuntamento d'amore. Quando spingemmo il cancello del parco, ci trovammo di fronte mio padre che, senza darmi il tempo di parare il colpo, mi buttò la testa all'indietro con un ceffone. Dopo che anche Gérard ebbe avuto la sua parte, attraversammo il prato in silenzio. Ci aspettavano da un bel pezzo. La casa era illuminata; c'erano ospiti e, sotto lo sguardo ironico di qualche bravo adolescente i cui genitori si degnarono di non guardarci, mio padre ci spinse sulla scala e ci chiuse ciascuno nella nostra camera, portandosi via tutto quello che trovava sul suo passaggio, dischi, libri, perfino le freccette con il bersaglio. Tentai di accendere la luce: erano stati tolti i fusibili in tutto il piano. Come raggiungere Gérard? Da basso si divertivano; avevo fame, una stanza vuota separava le nostre camere. Presi un dizionario e cercai l'alfabeto Morse, ma avremmo dovuto dare colpi troppo forti per poter comunicare. Provai un mazzo di chiavi che un giorno avevo, chissà perché, rubato in un armadio: nessuna apriva. Dei passi nel corridoio precedettero mio zio. Tentò a tono paterno: « Che cosa avete fatto di bello, oggi? » Seguirono supposizioni più o meno garbate. Non risposi. « Eppure non mi sembra di chiedere gran che. Non hai niente da dire? Be', stando così le cose, torneremo a trovarvi domani a mezzogiorno: digiuno e silenzio vi porteranno consiglio. Noi andiamo dai Decazes a fare un murder-party con quel che segue. Arrivederci, amico. » Chiudendo la porta, fischiettò: In una torre di Londra. Bisognava agire. In quel momento un lieve rumore mi attirò alla finestra. Aprii. Gérard era appiccicato al muro e in quel modo aveva percorso gli otto metri che separavano le nostre finestre, sulla stretta cornice che circondava la casa. Poteva cadere dieci volte e ferirsi mortalmente. Mi saltò fra le braccia: « Mio padre è venuto; ora possiamo stare tranquilli fino a domani a mezzogiorno ». Rimanemmo per un attimo in silenzio, prestando orecchio ai rumori. Poi le macchine s’allontanarono, e noi potemmo ascoltare di nuovo il movimento dei nostri cuori. Battevano in fretta: quella sarebbe stata una notte d'amore.
CAP. 2
Mi svegliai e richiusi subito gli occhi, abbagliato dalla luce. Mi voltai, toccando un corpo accanto al mio. Allora ricordai tutto, e mi strinsi teneramente contro la spalla di Gérard. Dormiva, bocconi, la testa rivolta verso di me, le labbra dischiuse da un respiro lieve, i capelli arruffati, il corpo a nudo fino alla vita e una sola gamba nella coperta rossa. La notte calda ci aveva fatto pian piano scoprire, sicché giacevamo per metà sul lenzuolo spiegazzato e per metà su un drappo color sangue imprigionato sotto una gamba di Gérard. L'altra splendeva d'una luce smorzata di metallo giallo; potevo seguire la linea scura del suo corpo, dalla caviglia all'ascella, che il suo respiro faceva appena fremere, e tirai dolcemente la stoffa arrotolata attorno alla coscia, come se Gérard uscisse dalla porpora, perché c'erano nel colore della sua carne la stessa cupa intensità di sangue e lo stesso splendore, per avere intera sotto gli occhi quella statua di ragazzo addormentato. Una deliziosa stanchezza m'appesantiva ogni arto, e soprattutto la nuca. Ci eravamo dati l'uno all'altro fino a quando, venute meno le forze, eravamo rimasti inermi e stremati. In una sola notte avevamo voluto conoscere tutti i segreti dell'amore; e la furia presiedeva a tal punto a quella scoperta che l'alba illuminò, in quei corpi soddisfatti ma non sazi, due giovani amanti doppiamente maschi nel loro modo di prendersi e di darsi. Gli posai la mano sulla schiena, laddove una minuta bocca fatta di sole mordeva la carne, giacché la luce s'insinuava in tutte le fessure delle imposte per conoscere il seguito della nostra storia. Ero così stanco che mi addormentai di nuovo. Muovendosi, Gérard mi ridestò del tutto. Dai suoi occhi usciva la notte. Avvertiva la mia stanchezza; il suo collo e le sue gambe erano rotti. Eravamo distesi l'uno accanto all'altro, privi di forze, pareva, ma la nostra giovinezza esigeva un'aurora trionfante... La stanza era assediata dalla luce; lunghe frecce d'oro si conficcavano nelle pareti, a terra, sul letto, dove trafiggevano i nostri corpi in modo tale da farne uno soltanto, dominato di volta in volta dal viso dell’uno o dell'altro. Restammo per un po' immobili dopo il piacere; abbracciai Gérard e, lentamente, lo accarezzai. Mi sembrava d'esser partito alla ventura, nell’oceano del cielo, il letto per vascello, e quel bel ragazzo nudo sdraiato accanto a me doveva farmi naufragare. Si rigirava continuamente, la sua anca sfregava contro il mio palmo. La mia mano non si stancava di attingere alla dolcezza di quella pelle che resisteva alla mia carne, ma ne invocava anche la presa, e più che la presa il morso, e più di questo il colpo che avrebbe spezzato col suo imperio l'orgogliosa bellezza di un corpo che, da solo, possedeva tutte le forme del desiderio, del tatto e della vista. E l'estremo possesso, l'idea di entrare in un corpo, significava soltanto l'impotenza a essere l'altro. Non volevo limitarmi a penetrare in lui, volevo divorarlo idealmente; im possessarmi di lui, essere nella sua pelle non impediva che le nostre carezze si rinnovassero all’infinito. Stavamo in silenzio, mi bastava sfiorare la sua spalla per eccitarmi. Mille volte passai la bocca sulle sue orecchie, mille volte la mia guancia, si lasciò accarezzare dai capelli della sua nuca; la mia mano gli scendeva lungo la schiena, il sangue mi si fermava, mille volte toccai un corpo diverso. Vinto dalla sua natura lasciva, Gérard prendeva il cuscino fra le braccia e si ab bandonava. Non un centimetro del suo corpo m'era sconosciuto. La vita, sotto le sembianze di quel ragazzo vigoroso, aveva in tal modo segnato il mio cammino futuro. Addio, licei in cui im paravo a diventare uguale agli altri; ora mi disgustava quella coltura artificiale dei fiori del successo. Volevo essere libero, libero di amare un corpo come il mio. Costruivo una fortezza di
cristallo attorno alla nostra vita, ben sapendo che gli altri avrebbero cercato di demolirla. Presentivo i rifiuti di mio cugino, le sue menzogne pronte a crollare come castelli di carte al primo richiamo del padre alla fierezza virile; la morte che lo spiava, caso mai avesse affrontato la commedia degli adulti con la stessa serietà dei suoi giochi di bambino. Ricordavo una delle prime volte in cui cominciavamo a essere davvero amici: eravamo a Parigi, in seconda liceo, al Carnot. Avevamo quindici anni. Gérard non piaceva a nessuno, non aveva amici: si mostrava superbo con tutti e pareva sempre seccato. Era noto anche il suo ardore di giovane brutale nelle zuffe; con lui, anche quando aveva la peggio, i pugni facevano male tanto a prenderli quanto a darli. Non si degnava di prender parte alle cagnare, aveva un modo solitario di rifiutare l'autorità, come per esempio addormentandosi sotto l'occhio stesso dei professori che tuttavia davano prova d'una colpevole indulgenza nei suoi confronti. Soltanto uno ne aveva fatto il proprio bersaglio prediletto. Presiedeva ai destini del francese e degli studi latini, stando a quanto dicevano le pagelle. Fra di noi lo chiamavamo «Um-um ». Era un uomo molto giovane, dal viso magro e lungo, che trovavamo buffo e che con Gérard faceva uso di un'ironia machiavellica, interrogandolo sempre sulle regole di sintassi, costringendolo ad alzarsi nel silenzio generale per poi farsi beffe dello stile poetico delle sue versioni e demolirlo con l'aiuto di Cicerone e Catullo. Gérard opponeva un'espressione impassibile e sollevava fieramente la testa, quando le risate salutavano una frecciata particolarmente ben diretta. Lui, così indifferente allo studio e che, nel momento in cui i professori gli avevano rivelato davanti a tutta la classe di considerarlo un essere affascinante, ma forte soprattutto a ping-pong o a tennis in virtù di alcune partite folgoranti in cui lo si era visto mettere fuori combattimento più d'un campione incontestato, s'era degnato di suscitare, dopo l'ammirazione, il loro stupore con uno di quei temi insoliti il cui segreto stava nella sua foga e nella sua solitudine giovanile. Um-um, colpito nel vivo da un Tacito particolarmente azzeccato, non gliela perdonava. Come tutti i quindicenni, avevamo creato un reame protetto da leggi spartane cui ci sottomettevamo di buon grado. Avevamo un codice, dei rituali, dei diritti. Esisteva un consiglio segreto deputato a neutralizzare i progetti di sedizione od ogni altra manovra tendente all’assolutismo. In sette, costituivamo un piccolo comitato di salute pubblica, e facevamo regnare un terrore cocente grazie ai pugni dei nostri sicari preposti ai supplizi ideati per distrarci nei momenti di riposo o per soddisfare una naturale crudeltà, in cortile e all’uscita dalla scuola, sulle teste calde delle altre classi. Il nostro volere s'esercitava sotto mille forme: avevamo imposto di volta in volta la moda romantica dei gilè scozzesi, dei bastoni da passeggio, dei capelli lunghi, poi alla Tito,' accompagnata da un linguaggio da ergastolani. Al polso, un braccialetto d'argento, come quello portato dai soldati, commemorava con tacche praticate con la lima le imprese del nostro club. Gérard viveva fuori da queste regole. Sebbene fosse manifesta una sorda ostilità contro di lui e la sua insolenza, la nostra parentela lo tutelava, almeno fintantoché il gruppo avesse continuato a volermi come uno dei capi del clan. Prima delle lezioni, boulevard Malesherbes era il nostro punto di raduno. Arrivavamo a grup petti e, raggiunto il marciapiede del liceo, abbandonavo Gérard alla sua attività di franco tiratore. Pur non tralasciando di fare la corte alle ragazze e di scambiarci le soluzioni dei compiti di matematica, organizzavamo dei boicottaggi. Quel pomeriggio, avendo deciso alcuni giorni prima all'unanimità una messinscena infernale, decisione cui l'assenza del preside aveva contribuito non poco, rientravamo a scuola sovreccitati. Soltanto Gérard non sapeva nulla o fingeva di non sapere e, quando mi unii ai più scalmanati della banda, venni interrogato: « E il signorine tuo parente che fa? » « Niente », risposi.
«Bene. Va' a informarlo. » Mi avvicinai a Gérard e gli parlai senza preamboli della sveglia sotto la pedana; dell’acido con cui avevamo riempito il cassetto di Um-um; delle versioni latine nessuna delle quali corrispondeva a quelle assegnate dal prof, e tutte sotto forma di fumetti; del coro recitato che avevamo messo a punto sulla falsariga delle strofe di Ester, e delle grida demoniache che avrebbero coperto col loro frastuono il tentativo del prof di aprire una porta accuratamente inchíavardata subito dopo il suo ingresso nella nostra tana. Gérard alzò le spalle: « I miei complimenti », mi sibilò in faccia. « Siamo arrivati all'opera buffa! » Confessai d'aver messo in rima i cori, d'aver portato la sveglia. Lui s’incupì e io paventai la tragedia: snobbato da Um-um, Gérard si studiava di tradurre le versioni senza aiutarsi con le note, e l'apprensione, durante le lezioni di latino, gli conferiva una bellezza inquietante. Abbassò la testa. Un ragazzo lo punzecchiò: « Se fai il guastafeste, non te la perdoneremo, e conceremo per bene la tua bella faccia! » Il Rubicone era varcato. La lezione ebbe inizio in un'atmosfera gelidamente febbrile che rumori di vario genere turbarono a poco a poco, facendo alzare la voce a colui che stava leggendo con un tono da oratore della Costituente. Umum s’innervosì, batté un colpo secco sull’orlo della cattedra con il righello. Scoppiò una fragorosa risata subito repressa. Il righello, abilmente segato, era andato in pezzi. Un silenzio opprimente c’incollava ai banchi. Um-um ci guardava con lo sguardo del domatore che si sa sul punto d'essere divorato. Allora la sveglia trillò e, sul sottofondo di mormorii, si levò la voce d'un prigioniero: Piangiamo e gemiamo, fedeli compagni, lasciamo fluire le lacrime amare, sono sordi i Latini ai nostri lagni: facciamoli fuori senza tanto pensare...
Un'altra voce più chiara riprendeva da quel punto; il coro era scandito a meraviglia. Eravamo trenta contro uno. Um-um non riusciva a incassare il colpo e si riaveva soltanto lentamente. Ci aspettavamo che si alzasse e si mettesse a correre dall’uno all’altro. L'avevamo previsto, e c'erano dei sostituti nel caso che uno dei recitanti fosse stato ridotto al silenzio. Poi ci sarebbe stata la corsa verso la porta, ma ne avevamo controllato i cardini, che avrebbero tenuto fino al coro finale. Bisognava che lo spettacolo andasse avanti fino alla scena in cui Um-um avrebbe avuto la meglio sulla serratura! In quella, però, Gérard si volse e strappò il foglio con cui un ragazzo di scarsa memoria si aiutava per le sue due strofe. Um-um aspettava soltanto un gesto: ora lo aveva, e in due salti fu addosso a mio cugino, lo prese per la manica, lo trascinò ai piedi della cattedra. Nessuno più respirava, in classe. Il gesto di Gérard era la prova della sua innocenza, sarebbe bastata una parola per accomodare tutto: ma lui si chiuse nel suo silenzio abituale. Um-um guardava Gérard come una preda, poi, quasi che il ragazzo non esistesse proprio, sollevò la cattedra, mise la sveglia sul piano e disse con voce neutra: « Di chi è questo aggeggio? » Nessuno ebbe il tempo d'aprir bocca, quel che seguì ebbe la rapidità d'un colpo di frusta. Gérard aveva risposto: «La sveglia è mia, professore». E Umum, furente e tragico, lo schiaffeggiò con un manrovescio che lo mandò a sbattere sui gradini della pedana, in ginocchio. Ammirai Gérard: era una di quelle scene silenziose che segnano una persona per la vita. Si alzò, ma Umum aveva deciso di dargli una lezione e, afferrata la riga da disegno appesa a un chiodo sulla destra della lavagna, lo colpi sulle natiche, sulle cosce, perfino sulle spalle. Turbati, noi tutti ascoltavamo il respiro del professore che scaturiva dalla sua bocca come un gemito
strappato all’intero suo corpo dalla bellezza dell'adolescente. Questi stringeva i pugni, si mordeva le labbra. Contai quindici colpi, ma furono di più. Un po' più tardi, quando Gérard fu tornato al suo posto, avevamo riaperto i libri, e un'oscura eb brezza ci tratteneva in quell'aula dove il vuoto della lavagna nera ancora serbava l'immagine del braccio di un uomo alzato su un ragazzo bruno raggiunto da colpi che sembravano le grida soffocate dei nostri cuori. Dopo, avevamo lezione di chimica; quando uscimmo, il vento autunnale spazzava via le foglie morte. Ritrovai la mia combriccola sotto il portico. Gérard non era uscito; Christian, il ragazzo che nel pomeriggio gli aveva dato del guastafeste, mi disse: « Faremo i conti questa sera stessa con lui; siamo tutti d'accordo: anche tu, no? » Dovevamo soltanto aspettare. Mio cugino com parve con qualche altro studente e attraversò il portico; Christian gli sbarrava il passo, mani nelle tasche: Gérard capì, indietreggiò e s'addossò a una colonnina di ferro, in un cerchio di ragazzi che lentamente si chiudeva. Non disse parola, pronto a battersi. Da ogni parte c'erano volti di cui la sera celava l'esaltazione. Michel, uno dei sette, fu tanto feroce da descrivergli quel che intendevamo fargli: avevamo dell'inchiostro indelebile per tracciargli sulle natiche la croce di Malta, che era il nostro simbolo, e una frusta per fargliela penetrare nella pelle. Gérard arrotolò l'impermeabile e lo posò contro il pilastro assieme alla cartella. Un ragazzo gli afferrò l'avambraccio, ma un pugno lo costrinse a mollare la presa. Ci fu un momento d'attesa; il vento, la polvere, il portico appena illuminato avevano la tinta violetta del sangue attorno a una ferita. Poi, due ragazzi si scagliarono d'im provviso addosso a Gérard, a testa bassa, senza curarsi dei pugni, e lo immobilizzarono contro la colonna; altri due lo afferrarono alle ginocchia; Maurice, giovane diavolo col naso da pugile, gli apri la giacca, strappò la cravatta e mise a nudo, nell’alone chiaro della camicia sbottonata, il torace vigoroso di mio cugino. Questi cercava invano di divincolarsi, goccioloni di sudore gli incollavano i capelli alle tempie e le facevano luccicare. Maurice gli slacciò la cintura. Gérard chiuse gli occhi e lasciò fare. lo fui il solo a veder scendere una lacrima sulla sua guancia. Con voce risoluta urlai: « Basta! Si batta uno solo: se vince Gérard, sarà libero ». Anche la vittoria su un Gérard già malconcio faceva esitare. Christian suggerì insidiosamente: « Bene, vai tu... » Lasciai a Gérard il tempo di togliersi la giacca e di chiudersi la camicia. Credeva, come tutti gli altri, che volessi umiliarlo; chiamava a raccolta le forze perché io fossi costretto a fare appello a tutte le mie, o per riuscire a perdere coscienza nel momento in cui, spalle a terra, fosse stato preda di quei ragazzi che, senza pudore, si sarebbero avventati su di lui. Ci scagliammo l'uno contro l'altro e rotolammo sul cemento. Gérard mi spezzava il collo; io mi resi conto che le ginocchia e la schiena gli facevano male, senz'altro per le frustate prese quel pomeriggio, e lo afferrai per la vita al solo scopo di dimostrargli che avrei potuto batterlo. Eravamo a faccia a faccia e il vento ci riempiva la bocca di frammenti di foglie e polvere. La sua stretta s'allentava a poco a poco. Con uno scatto, come per divincolarmi, rovesciai entrambi e mi trovai ad aderire al suolo con tutta la schiena. Attraverso la camicia strappata sentivo il suo cuore, un odore di trionfo saliva dalla sua ascella. Ci alzammo. Lui prese le proprie cose e se ne andò senza dire una parola. Quando fummo sul viale, un ragazzo del gruppo parlò per tutti: « E’ sempre meglio suonarsele in famiglia; quel tipo è una tigre! » La mia stella rischiava di spegnersi, ma ero felice d'aver fatto brillare quella di Gérard. Quando rientrai a casa, c'erano soltanto quattro coperti. Gérard aveva trovato la scusa di un mal di testa manifestando il desiderio di andare subito a letto. Non osai salire di sopra, pur se
tutti i miei pensieri erano rivolti al dormiente. Lo immaginavo in un caos di lenzuola. La cena fu triste; a ogni istante venivo distratto da domande alle quali rispondevo a monosillabi, e dovevo continuamente ricostruire con l'ostinazione d'un cercatore d'oro le immagini che mi si costringeva ad abbandonare. Cercando di non lasciare la tavola troppo presto, aprii infine la porta della stanza di Gérard. Era inginocchiamo accanto al letto, un a mano stesa sul lenzuolo, l'altra lungo il corpo. Sulla gamba più vicina a me, Gérard s'era tirato su la calza di lana, e una macchia bruna gliela incollava alla pelle. L'altra gamba era nuda, a parte delle strisce di sangue secco: potevano destare i sospetti di qualcuno, per fortuna ero il primo a vederle. S'era tolto la giacca. Fra i calzoni e la camicia tirata su fino alla schiena, le sue reni splendevano; la pelle opaca mi rendeva consapevole delle mie inclinazioni profonde, e già im maginavo attorno a Gérard i prati e i boschi in cui saremmo stati nudi. La tristezza mi serrava la gola. I suoi occhi erano chiusi, alla luce della lampada qualche lacrima ancora gli tremava sulle ciglia; lo scossi per la spalla, ma lui non si mosse. Lo presi fra le braccia e lo sollevai sul letto: il posto in cui aveva posato il volto era umido. La stanchezza aveva avuto ragione di quel suo dolore segreto, ma non sapevo d'averlo salvato, né sapevo che mi amava. L'indomani era giovedì: Gérard pareva non ricordare nulla dei fatti del giorno precedente; solo, per qualche tempo portò sulla camicia un maglione, col pretesto che s'avvicinava l'inverno, e talvolta, di nascosto, mi sorrideva... Senza stancarmi, continuai a toccare la sua schiena larga, divisa da quella linea cui il corpo deve la sua somiglianza a un frutto. Gérard mi fermò la mano sulla nuca, all'attaccatura dei ca pelli. Sentivo il suo cuore pulsarmi nel palmo attraverso il collo fremente. Abbattuta la barriera dell'orgoglio fisico, un'altra barricata più segreta s'innalzava in noi: lasciava passare i sospiri, i mormorii voluttuosi, le grida di piacere, ma arrestava le grida d'amore. Dal giorno prima avevamo fatto mille passi l'uno verso l'altro, ma altri mille ancora ci allontanavano, mio malgrado, suo malgrado. Gérard si alzò; ritrovai nel suo alito caldo tutta una notte spesa a volerci annientare. Ignoravamo che l'amore esige due corpi, non per fonderli, ma per scagliarli l'uno contro l'altro, ciascuno desideroso di strappare la preda del proprio piacere. C'eravamo comportati come tutti gli altri? Amandolo, non avevo smesso per un attimo di pronunciare il suo nome ed ero certo che, dal canto suo, lui avesse fatto lo stesso col Mio, ma eravamo in attesa di qualcos'altro di impronunciabile... Nei baci, lui mordeva per ritardare l'offerta della propria bocca; la cosa lo faceva ridere e quando, stizzito, gli prendevo le labbra fra le dita, il loro arco si schiudeva e io bevevo a quella coppa il vino dello stordimento. Di attimo in attimo, la luce che filtrava dalle tende si faceva più chiara; ci alzammo. I raggi del sole attraverso le persiane e gli alberi ci macchiettavano come leopardi. Gérard si stirò. La sua agilità e il suo volto - che il mattino trasformava in un muso - accentuavano quell’aspetto felino; l'odore sensuale della notte che aleggiava nella stanza pareva uscire dalla sua pelle. Spinsi le persiane. Una marea di luce inondò le pareti, i mobili, il letto. Il rosso della coperta divenne più vivo, le lenzuola parvero più spiegazzate. L'aria fresca cacciava gli odori notturni annidati negli angoli. Eravamo nudi in pieno sole. Gérard strizzava gli occhi per vedermi, perché ero in controluce, il corpo aureolato da una frangia luminosa. Lui mi offriva il suo petto, che il respiro sollevava con la dolcezza d'una mano amorosa, e un faccino ridente su cui si leggevano tutti i miei baci. Rifacemmo il letto. Avevamo ritrovato la nudità del mondo, finché venne l'ora di infilarci di nuovo i vestiti; ma l'incanto non fu rotto: una feroce intimità rendeva inutili le pa-
role, e ogni gesto di Gérard mi proiettava in un paese sconosciuto. Temevo di dovermi ricredere, ma i giorni futuri m'avrebbero rassicurato. Gérard non aveva nulla in comune con gli altri. Il mio orologio segnava le otto. Nostra cugina si alzava tardi. Di sicuro gli altri non erano ancora tornati, perché nessun rumore animava la casa. Per precauzione, decidemmo che Gérard dovesse tornare in camera sua. Le mie braccia si chiusero attorno a lui in vista d'una separazione di poche ore, ma già temevamo per quella breve assenza. Eravamo così felici, eravamo stati così felici: l'attimo d'una corta separazione ci mostrava il cielo sereno sotto i colori del temporale, il sole nero, i nostri cuori immensi. Come se la sua stanza fosse al termine di un lungo viaggio, gli baciavo gli occhi, la fronte, le orecchie; lui posò le labbra sulla mia guancia e le premette così forte che per un po' vi rimase la loro impronta. Due volte fu sul punto di passare per la finestra: due volte tornò a stringermi a sé rovesciandomi la testa per fissare la mia immagine sulle sue pupille. Infine, strappandosi a malincuore al nostro amore, lo vidi scavalcare il davanzale, colmare per un attimo la stanza della sua ombra e, simile a un giovane essere soprannaturale, sparire nella luce. Rimasi a lungo immobile. Già desideravo raggiungere Gérard, e di attimo in attimo il tempo rendeva folle questo desiderio. Ecco, la fragile durata umana mi sottraeva mio cugino, così come il prestigiatore restituisce l’illusione all’illusione. Pochi minuti bastavano per concludere una notte troppo bella, meno ancora erano stati necessari perché i miei giovani anni e quelli di Gérard seguissero la stessa strada, e perché, a quell'età in cui tutto assume le dimensioni del destino, fossimo posti bruscamente, una sera, a faccia a faccia in quella che sarebbe diventata la nostra casa. Ricordai il silenzio di mio padre, la sua tristezza che non era la mia quando tutto sembrò vuoto dopo la morte di sua moglie. Gérard aveva conosciuto lo stesso tipo di isolamento. I nostri padri, poco vicini prima di quei lutti, decisero di semplificare le loro vite e ricordarono insieme la loro felicità di giovanotti; gli affari li unirono poi del tutto e fu per loro naturale legare anche noi in una vita comune, senza curarsi delle nostre tenerezze e del nostro orgoglio. Mio padre mi aveva annunciato la loro decisione, una sera, al mio ritorno da scuola: l’indomani, una cugina sarebbe venuta a prendermi alla fine delle lezioni, perché in mattinata dovevano portare via i mobili. Era sicuro che mio cugino Gérard e il gran giardino dietro la nostra nuova casa di boulevard Malesherbes mi avrebbero reso felicissimo. L'indomani marinai la scuola, mi chiusi in una stanza già vuota; sedetti al buio ad ascoltare il fracasso dei traslocatori cui rispondevano gli echi della casa violata, come se nell’appartamento si stesse scatenando una tempesta e sul mare calmo del giorno una furia improvvisa tramutasse i mobili in scogli. Guardavo la strada dalle fessure di un'imposta. Un giovane operaio in salopette azzurra portava i miei libri verso un furgone. Aveva labbra tumide; il sole giovane di febbraio gli mordeva le braccia; dalla canottiera usciva un collo tondo dove, sotto sforzo, palpitava una vena; un ciuffo di capelli gli ricadeva sulla fronte e a tratti, con un movimento del capo, lui lo ricacciava indietro; l'orlo dei calzoni era arrotolato fino a metà gamba e, sopra le calze abbassate fino alle caviglie, una pelle di camelia lasciava indovinare polpacci che avrei voluto accarezzare. Per tutta la mattina rimasi lì a sorvegliare i suoi andirivieni, attirato dalla sua bellezza, desiderando un sorriso da quell'operaio biondo ch'io immaginavo accessibile ai baci. Ma quando alla fine lui entrò nella stanza, ebbi diritto a un: «Fila via di lì, bamboccio... » Alle cinque, mia cugina m'aspettava alla porta del liceo e io finsi di uscire dalla scuola. In boulevard Malesherbes c'era una grande anticamera da cui s'innalzava una scala. Mio padre e mio zio erano in sala, in mezzo ai mobili, ai libri e ai tappeti arrotolati. Fu allora che scoprii Gérard, appena intravisto durante quegli anni perché, giudicato tremendo, aveva per tempo conosciuto le inquietudini delle amicizie di collegio. Se ne stava in disparte, accanto alla finestra, la
testa un po' piegata, e studiava il ragazzo che avanzava verso di lui con la mano tesa. La strinse con serietà, poi mi propose di dare un’occhiata alla nostra soffitta, dal momento che, nella casa a un solo piano, quella era riservata a noi. Si componeva di due grandi stanze basse separate da un tramezzo da cui era stata tolta la porta. Avevamo ciascuno la nostra stanza. Nella sua, Gérard aveva insediato il proprio disordine. Sistemai le mie cose e lui mi guardò senza proferire motto. Dopo pranzo, stesso silenzio. Mio cugino, sprofondato in una poltrona, sorvegliava le mie mosse. Il mio malumore cresceva, ero sull'orlo della disperazione, e, dominandomi a stento, quasi gli gridai: « Ho sonno, me ne vado a letto ». Lui si alzò, fece dietrofront e passò nella sua stanza. Mi spogliai; una volta a letto, m’accorsi d'aver lasciato la luce accesa. Stavo per alzarmi quando Gérard, in pigiama, si diresse verso la lampada e fece un gesto che significava: spengo? L'ombra invase la stanza. Ne fui abbagliato; mille fiammelle mi scintillavano ancora dietro le palpebre un attimo dopo, quando la losanga della finestra si delineò sotto lo scal pello della luna. Gérard mi aveva preso la testa fra le mani e mi baciava la guancia con una tenerezza di bambino materno. Mi aveva adottato; la felicità mi addormentò. Quel giorno ebbe inizio la nostra lotta, una lotta subdola. Tentammo di ignorarci, ma fra noi c'era quella prima sera. E adesso un'altra notte veniva ad annullare tutti gli slanci interrotti, la nostra cecità d'innamorati, il nostro silenzio d'innamorati, e a costringere la nostra fierezza di diciassettenni a mettersi in ginocchio davanti all'altro, nella postura del vassallo che presta giuramento. L'universo, la notte, il sole e la terra, le stelle sarebbero scomparsi; non così, nel fondo di noi stessi, la sembianza dell’amore. Per me, quella sembianza aveva capelli bruno-dorati, bocca carnosa e già la violenza malinconica degli amanti induriti come contadini. Vivevo di Gérard. Potevamo cedere ai ca pricci del corpo: eravamo puri. (1) Ovvero come si vede in certe statue dell'imperatore romano: sia davanti sia dietro, i capelli sono tagliati alla stessa altezza. (N.d.T.)
CAP. 3
Restammo sotto chiave per un'intera giornata, poi la sorveglianza s’allentò. Dopotutto eravamo in vacanza. Adesso ogni pretesto era buono per tagliare la corda. Volevamo starcene soli. Dovevamo scoprire tutto l'uno dell'altro... intendo scoprire i capricci del corpo, capire quello che l'altro s'aspettava. Su questo punto Gérard ne sapeva più di me, ma di lì a poco avrebbe visto che non avevo freni con lui. Avevo sempre amato un vecchio fienile ampio e scuro in cui sospettavo che talvolta fosse andato a masturbarsi. Ora lo seguivo là. Nella penombra violenta del mattino, si tolse i vestiti e si buttò su un telo che ricopriva un giaciglio di paglia. Sulla sua carne bruna distinguevo soltanto due ombre d'un bruno appena più scuro: una, sotto la fronte, era l'abisso degli occhi; l'altra, nel basso ventre, quella che mi attirava. Quanto tempo occorre al destino! Fa camminare due ragazzi sulla stessa strada, per giorni, per stagioni, e d'improvviso decide di farsi da parte e consente loro di incontrarsi e di prendersi fra le braccia. Ero vecchio di tutta la mia gioventù, come ogni ragazzo di diciassette anni; avrei voluto ritrovare il nostro primo ricordo comune, rifare un solo gesto in modo diverso poiché per ogni immagine del passato un nonnulla avrebbe cambiato il nostro amore. Ma era soltanto un sogno; contava il presente e basta. A che cosa sarebbe servito scoprire più in fretta che ci amavamo, dal momento che il nostro cuore aveva scelto di ingannarsi? C'era bisogno di quei momenti di dub bio, di quei desideri inconfessati, di quei piaceri solitari pensando all'altro, di quelle zuffe fisiche che non capivamo, perché il primo bacio vicino allo stagno fosse il primo bacio del mondo. Il passato ci aveva fatto dono d'una memoria cieca. Ci sarebbe tornata utile, perché tutto avrebbe cercato di separarci, le abitudini, le convenzioni, le regole della vita, ma ci sarebbe voluto qualcuno più forte ancora per rompere il nodo gordiano della nostra passione, perché era una passione, adesso, l'amicizia dei nostri tredici anni che, a poco a poco, man mano che crescevamo, ci aveva voluti estranei l'uno all'altro, fino alla sera in cui, diventati adolescenti, i due ragazzi s'erano guardati per la prima volta e, sotto i colpi bassi dell'amore, erano rimasti inermi... Accadde una sera in cui eravamo ciascuno nella nostra stanza, un po' prima dell’esame di maturità. Stavo terminando un problema d'algebra e supponevo che Gérard stesse finendo una versione; invece, sfruttando gli ampi margini del dizionario, lui disegnava teste e gambe di guerrieri. Non sentendolo muoversi, lo chiamai: « Gérard, stai lavorando? » Mi giunse un borbottio che interpretai come un sì. Risolvetti un’ultima equazione e, senza spostare niente, mi alzai. Fui pervaso da una sensazione di potenza, non ero più un bambino, avevo coscienza dell’intero corpo, i vestiti mi accarezzavano la pelle. Ne avvertivo la più infima particella, nel mio petto sussultava un torrente che col suo corso impetuoso portava la vita fino alle unghie di mani e piedi. Il mio corpo era una belva che avrebbe voluto divorarmi il cuore. Non vedevo più le cose di sempre: il cuoio dei libri tornava a essere pelle, il legno dei mobili una foresta fremente, i colori avevano un sapore. Un solo passo bastava a rivelarmi la forza dei muscoli nelle gambe; un respiro più profondo dava mani alla mia camicia. Mi sentivo fiero, eroico come una statua e, non so perché, indefinibilmente infelice. Da un po' di tempo venivo guardato molto per strada. Così, la sera del giorno precedente, tornando solo dal liceo, avevo deciso di andare un po' a zonzo per parco Monceau al tramonto. C'era un gruppo di studenti seduti vicino alle finte rovine del tempio dell'amore, libri e quaderni posati su una panca. In quel punto il viale si restringeva: mentre passavo di lì, loro smisero di parlare, e li avevo appena superati quando uno disse ad alta voce: « Che bel ragazzo! » Io arrossii e
avvertii un turbamento che scambiai per gioia. Richiamai alla mente quella scena mentre mi avvicinavo alla finestra, e sentire la presenza di Gérard nella sua stanza m'immerse nella stessa gioiosa inquietudine. L'odore della primavera, un odore sensuale di tiglio, entrava e mi faceva girare la testa. Nella sera splendente e incolore come un diamante, vedevo di Parigi soltanto gli al beri e i tetti scuri. Entrai nella stanza di Gérard. Chino sul letto, non mi sentì; nel chiaroscuro, mi offriva la nuca. M'infuriai: « Continui a gingíllarti, te ne infischi dei compiti. Proprio bravo! Sei senza volontà ». Gérard non si muoveva. Continuai: « E menti come una ragazza! » Lui spinse indietro con violenza la sedia. «Chiudi il becco!» Raggiunse la parete che divideva le due stanze; era in ombra, pronto a scagliarmisi contro. Assunsi il tono più disinvolto possibile: « Bella espressione, vuoi che ti accarezzi il muso a suon di pugni? » Di punto in bianco, la sua voce fu un altro corpo tra noi nella stanza. Era diventata più calda e, nonostante il tono con cui parlava, aggressivamente carezzevole: « Ti farò rimangiare quel che hai detto ». Avanzò, io avevo il corpo in tensione, ma fu come se ci vedessimo per la prima volta, sorpresi che i nostri indumenti non celassero più le braccia pronte a colpire, le spalle, le cosce possenti. Il colletto aperto di Gérard ne metteva in mostra il collo d'un bianco eburneo, saldo e liscio e d'una sensualità di cui avevo improvvisamente fame. Il minimo gesto e tutto sarebbe crollato. Ma ci sentimmo stupidi, l'uno davanti all'altro, e nessuno dei due ebbe il coraggio di affrontare i battiti del proprio cuore. Gérard si schiarì la voce e, distogliendo gli occhi, disse che andava a letto. Avrebbe finito la versione l'indomani. E tuttavia pareva esitare. Le mie mani avevano voglia di gettarsi in avanti, e il mio petto mi diceva: «Può toccarti, se vuoi». Sentii invece la mia voce, simile a una voce lontana, dire «buonanotte», e poi i passi di Gérard che si allontanavano. Mi svestii con rabbia e scivolai nudo fra le lenzuola. Esse s'impadronirono del mio corpo, gli s'avvolsero attorno. Avevo bisogno di quella carezza per non correre verso mio cugino. Ascoltai il rumore dei libri che si chiudevano, del tavolo spostato, delle scarpe tolte, dei calzoni che strusciavano sulla gamba, della camicia strappata via. Doveva essere nudo anche lui. Il gemito del letto mi fece capire che s'era coricato. Non potevo dormire. Batterono le ore, una dopo l'altra, quasi tutte uguali, se non fosse stato per l'azzurro più violaceo del cielo e la profondità più lontana del silenzio. Non osavo muovermi. Ero in una fornace di tela, la mia pelle sudata s'incollava alle lenzuola. Movimenti impercettibili m'annunciarono che anche Gérard cercava il sonno, che non osava voltarsi, che forse s'immaginava fra le mie braccia, proprio come lo vedevo io. Sarebbe bastato alzarsi; in dieci passi l'avrei stretto contro di me, ma quel letto era una piazzaforte d'orgoglio. Accarezzai Gérard accarezzando il mio corpo. In vista dell’esame di maturità, riuscimmo a evitarci per qualche giorno, poi ci vollero due settimane di vacanza e il sonno di mio cugino in un pomeriggio estivo, accanto all'acqua, perché i nostri cuori si facessero sentire un'altra volta. Un uccello cantava su un albero contro il fienile, cosa che rendeva ancor più pesante il nostro silenzio. Gérard mi fissava con aria maliziosa. Sorrise lievemente: « Come sei serio stamattina! » La sua voce sopprimeva l'uccello il cui canto, per giungere fino a noi, doveva attraversare la pesante porta di legno sconnesso e i fasci di fieno sui quali c'eravamo sdraiati e il cui odore che metteva sete si mescolava a quello del trifoglio lasciato a seccare. Mi svestii e mi sdraiai a fianco di Gérard. Il fieno mi pungeva la spalla e il polpaccio non appena ci muovevamo, ma non per questo il suo corpo diventava meno carezzevole. Quel mattino mi regalò il suo alito caldo, il suo modo di sbadigliare, i capricci del suo sonno, la precipitazione del suo cuore. Più s'avvicinava mezzogiorno, più il fienile s'oscurava; fra la porta e il muro si distingueva un albero e, più lontano, colate di luce, accecanti come acciaio. Ci rivestimmo; Gérard voleva rimanere lì, supplicava: « Tanto peggio, pranzeranno senza di noi, ci chiuderanno in camera, passerò dalla finestra, saremo ancora felici... » Era assurdo. S'era rotolato nel fieno. Tentai di sollevarlo, lui mi attirò a sé,
mi baciò tutto il viso, si sbottonò la camicia, si rovesciò sulla paglia: stava perdendo la testa. Il suo petto mi sfiorò la guancia; le mie labbra andarono dall’una all'altra aureola; Gérard me le fermò su quella di sinistra, sopra il cuore. Gemette sollevandosi, e io trasformai subito quel gemito in rantolo di dolore mordendo, il volto affondato nel suo petto, quella carne di cui avrei desiderato nutrirmi. Lo presi per la nuca e gli dissi con fermezza di riabbottonarsi. Saremmo tornati lì quanto prima. Non tornammo, invece, perché in quelle vacanze Gérard avrebbe dovuto studiare. Gli era andato male l'orale; tutti se lo aspettavano, tanto quanto il mio successo, anche se per lui non sareb be stato difficile trasformare quello smacco in trionfo. Si faceva beffe di un esame che, ai nostri giorni, diceva, era roba da bottegai, e quel ragionamento gli sarebbe valso delle vacanze in qualche collegio di provincia se io non avessi sacrificato, non tanto per cortesia quanto per il timore di non vederlo, un'estate in Corsica e le mie passioni subacquee per quella casa in Turenna, che ogni estate certi amici prestavano a mio padre. Gérard non mi ringraziò. Non rimpiangeva niente, né, dopo il Carnot, i tanti licei da cui la sua pigrizia e le sue amicizie lo cacciavano costringendomi a seguirlo, né le ramanzine di mio padre, né le punizioni del suo. Lui aveva il potere di riparare in un giorno alle trascuratezze di un trimestre e di farsi perdonare con un voto eccezionale le note sardoniche di cui la sua pagella era un vero campionario. Da un anno a quella parte, non era cambiato. In maggio aveva compiuto diciassette anni; quel giorno avevo potuto invitare alcuni amici. Il suo fascino aveva finito col conquistarli; era un dio per tutta la classe, anche se un dio tenebroso: un viso come il suo attirava gli sguardi, durante le lezioni, con quell’aria su perba e ribelle. Diede il tocco finale alla sua conquista inventando non so quale danza irochese, seminudo, il corpo screziato di rosso, cerchi bianchi a mo' di braccialetti alle gambe e ai polsi. Aveva anche scovato dei cascami di lana multicolore con cui aveva rivestito le calze arrotolate sotto i polpacci. Negli occhi dei ragazzi brillava la bramosia. Qualche settimana dopo, avrei ca pito come mai erano usciti da casa nostra innamorati, e perdutamente, di lui. Le prime mattinate di vacanze furono tristi. Io leggevo e Gérard studiava senza voglia. La parola vacanze, mago dorato, me lo mostrava spesso con la guancia sulla mano, gli occhi perduti su un mare aperto, i capelli al vento, un grido in gola. Quando si rendeva conto che l'avevo seguito nel suo viaggio, riprendeva il libro e con voce cattiva, per distruggere la dolcezza delle sue parole, mi diceva: « Ce l'hai con me perché ti ho trascinato in questo bel posto di campagna, eh, geniaccio? » Dopo che ci fummo amati, Gérard cambiò. Decise di mettersi sotto con lo studio e, per qualche giorno, tenne arditamente testa alla sua pigrizia; poi, per colpa mia, si lasciò di nuovo sopraffare. Volevo che tornasse nel fienile, ma, poiché quella mattina non aveva fatto niente, dopo pranzo oppose resistenza: « Sei stato proprio tu a chiedermi questo sforzo », mi disse, « quindi vieni ad aiutarmi oppure a leggere nella mia stanza! » Rifiutai, lui salì da solo e io gli urlai, prima che sparisse: « Torno nel fienile. Quando ne avrai abbastanza, puoi raggiungermi ». Mi allontanai fischiettando. Appena arrivato, vidi la traccia dei nostri corpi, la fossetta in cui s'erano adagiati. Mi avvinghiai a un Gérard immaginario, mentre una voce interiore lo chiamava: « Ti aspetto, voglio che tu venga ». Passò un minuto, Gérard non veniva. Chiesi a non so chi: «Fallo venire; se sei davvero potente, sarà qui in men che non si dica». Passò un secondo: Gérard apri la porta, vergognandosi per aver ceduto. Rimase dritto nel riquadro di luce, io stetti in silenzio. Probabilmente pensò che disapprovassi e non tentò di scusarsi. Il mio atteggiamento lo accalorava, era bello d'indignazione, gli zigomi accesi, la fronte feb brile, la bocca umida. « Insorgo contro lo studio», disse, «contro quello che m'impongono di im-
parare. Gioventù è libertà, e invece per stagioni e stagioni ci relegano fra quattro muri fino a quando la nostra pelle prende il colore cartaceo dei libri. Rifiuto, rifiuto e rifiuto! » Risposi nel modo più calmo possibile: « Gérard, togliti la camicia, ti verrà caldo ». Mi si sedette accanto, gli toccai la guancia, era dolce e calda; gli toccai la bocca, ma, prima che avessi il tempo di trattenerlo, partì come un razzo verso la casa. Ore dopo, quando tornai in camera mia, la sua porta era chiusa a chiave; bussai, lo supplicai, non aprì. Incollai l'orecchio al legno, lo sentivo respirare e trattenere il fiato. Allora abbandonai l'assedio e ripiegai verso la mia stanza. Una lettera sul tavolo mi stupì. L'aprii. Ecco quel che lessi: Pierre, mio caro Pierre. Mi sto comportando molto male. Ti prometto che studierò, ma non ho sa puto resístere al desiderio di vederti. Non ti dirò mai più che ti amo. Vorrei essere ai tuoi piedi, quando leggerai queste righe. Non mi parlare mai di questa lettera. Quando non ci sei, il mondo intero è con te, io vivo in un'ombra e quell'ombra è l'amore. Voglio che tu mi ami. Gérard Ho scritto una poesia per te, avevo paura che tornassi prima che riuscissi a finirla. Non ho tradotto neanche una riga, mi chiudo dentro fino a mezzogiorno per ricuperare.
Su un altro foglio piegato in quattro c'era questa poesia: Sei la mia estasi Fuggi da me, l'amore è iconoclasta! Il sogno del tuo corpo mi strazia all’improvviso. Tutto quel che t'ho dato non ti basta? La pelle, il sangue, il sesso, il cuore, il viso? Perché mi leghi a te? Fuggirti è vano; se m'apri gli occhi, ti ci puoi vedere. A cuore a cuore, senza dirsi « t'amo », in te voglio morire di piacere. Ho urlato e da un abisso l'anima mia rapita sale in un gran fragore... Chi vuole la mia vita? Quando credi d'uccidermi, mi dai l'eternità. Vieni: sono il deserto senza oasi di quiete, voglio che tu ti perda in questa infinità: sangue, saliva e sperma avrai per la tua sete.
Il cuore in subbuglio, mi precipitai nel corridoio. La voce di mio cugino saliva dal più profondo di me stesso, sorgeva dal mio petto con tutte quelle parole d'amore la cui violenza m'inebriava. Bussai alla porta. Tutto era silenzio, eppure indovinavo Gérard vicino a me: dall'altra parte, appoggiato allo stipite, la fronte contro il legno. Avrei potuto disegnare la sagoma del suo corpo, tanto lo sentivo, incollato a quella porta che avrei desiderato invano veder aprire: si tradiva a ogni respiro e il suo fiato m'era così vicino che lo immaginavo con le labbra proprio sul battente. Baciai il muro con foga, mi ci appiccicai contro, eravamo come due amanti separati da un carcere, più visibili l'uno all’altro che nel soffocamento dei loro baci, più innamorati che nei loro atti d'amore.
Mormorai pianissimo, il cuore spezzato da sentimenti folli: « Gérard, ce l'hai con me? Rispondi. Aprimi soltanto un secondo. Gérard, apri... » Allora Gérard si scagliò sulla porta, la fece tremare, scosse la maniglia. Lo calmai: « Senti, Gérard, che cosa c'è? Apri, su! » « Ho buttato la chiave dalla finestra », confessò lui. « Voglio uscire, voglio vederti. Mio padre è qui fuori. Non posso passare dalla cornice. » In pochi salti fui in giardino. Gérard venne alla finestra ma non poteva aiutarmi, ricordava soltanto d'aver lanciato la chiave molto lontano. La ritrovai per miracolo contro la siepe che cingeva il prato, e la brandii verso il cielo. In quel momento mio zio sbucò dalla veranda attigua alla casa. Rimasi con la mano alzata. « Che cosa fai con quella chiave? » mi chiese. lo rimasi a bocca aperta. « L'avevo lasciata cadere, é la chiave della mia stanza. » « Ti porti via la chiave, adesso? » «No, zio, ma... » Mi fece il verso: « No, zio, ma... Da un pezzo il bel Gérard segue con interesse le mie mosse da lassù, e io recito per lui la parte di Barbablù. NE credi scemo, ragazzo? » E, rivolto a Gérard: « Prova a spiegare un po', sorella Anna!1 »' Gérard arrossì e non si mosse. Mio zio s'arrabbiò: « Vuoi che venga su? » Lo interruppi: « Zio, ho chiuso dentro Gérard e lo prendevo in giro da qui. Lui non ha fatto niente, ma non può uscire. » La cosa lo mise di buonumore. « Eccellente, vecchio mio; be', tengo io la chiave, così potrà studiare fino all'ora di cena. Tu puoi sloggiare. » Tornai su e m'inginocchiai davanti alla porta di Gérard, baciandola con tutte le forze. Nella mia stanza, nascosi i fogli abbandonati sul tavolo. la lettera e la poesia, con la preoccupazione retrospettiva d'averli lasciati alla mercé di mio zio, che sarebbe potuto salire per vedere se mentivo e per quale ragione mi rinchiudevo nel mio dominio. Il mio cuore aveva sempre più bisogno di Gérard e, se un suo sorriso mi dava vita, saperlo infelice mi metteva addosso non la vaga malinconia degli adolescenti, ma la stessa tristezza di colui che amavo e che sotto i diversi impulsi passava dalla gioia alla prostrazione, dalla disperazione alla malignità. Attendevo l'ora di cena, la fronte schiacciata contro il vetro: gli alberi del giardino fiammeggiavano dolcemente, la corteccia arsa da un fuoco d'un rosso che s'incupiva col venir meno della luce, e restavano in piedi come fossero di cenere, al punto da far temere che il minimo soffio di vento potesse sparpagliarli in polvere sull'erba. Avrei voluto che tutto si conformasse a quell'immagine, che un mio semplice desiderio avesse la facoltà di cancellare tutto, la campagna, il giardino, la stanza, e che una nuova vita potesse aver inizio sotto i miei occhi stupefatti, una nuova vita con Gérard. Il gesto di suo padre aveva rotto i ponti fra lui e lo studio. Fu quanto annunciò con aria insolente quando, dopo il dessert, lasciammo gli adulti al loro caffè e ai loro filosofici tornei di bridge. C'era ancora luce, mio cugino mi portò verso l'orto. Era il passatempo di suo padre. Questi vi si recava amorevolmente ogni mattina all'alba per ammirare le insalate, fiere nel loro corsaletto di rafia; i meloni che, sotto le campane di vetro, si svegliavano simili a pasciuti finanzieri disturbati dal canto del gallo; le spalliere di mele e pere. S’inebriava, chinandosi sul timo e sul cerfoglio; si tratteneva lì fino a mezzogiorno, la testa om breggiata da un cappello di paglia, il sarchio costantemente in mano, intento a covare la propria progenie, facendo la posta a insetti e a erbacce, piazzando qui una stuoia, là un frangivento, diventato lui stesso foglia, diventato radice, tanto si confondeva con le sue piante. Gérard trasse di tasca una fionda e, con calma, raccolse un ciottolo dal viale, mirò, fece esplodere la prima campana. L'aria si colmò d'una vibrazione di cristallo. Non protestai, ero conquistato. Una dopo l'altra, Gérard mandò in pezzi tutte le campane. Alcune, colpite in pieno, scop piarono come mine. Dissi a Gérard di lasciarmi l'ultima. Mi tese la fionda. Guardai il sasso che 1
sorella della moglie di Barbablù (NdT)
colpiva il vetro e lo riduceva in frantumi. Gérard mi prese per i fianchi, tremava, la sua bocca era umida di saliva, le sue dita piene di terra. Davanti a noi le aiuole non esistevano più, sembrava d'essere in un campo bombardato. Gérard voleva un'apoteosi. Infangandosi, svitò un tubo di gomma per innaffiare, apri le valvole che tenevano prigioniera in una cisterna l'acqua piovana e questa si riversò nel solchi sommergendo le sementi, portando via le schegge di vetro: un'Olanda in miniatura moriva fra il ribes e la baracca degli attrezzi. La camicia di Gérard, cosparsa di gocce d'acqua e zuppa all'altezza delle spalle, gli s’incollava alla carne e, in trasparenza, rivelava la pelle. Sollevatosi, mio cugino scoppiò a ridere. «E non è finita, cittadino », mi disse. « Adesso, alla Bastiglia! » La Bastiglia: chiamavamo così la voliera dei Decazes. Bisognava attraversare due orti per arrivare al loro parco e alla torre rivestita d'ardesia dove avevano rapaci per la caccia. I Decazes erano ricchi e il loro sussiego faceva di tutto per mascherarsi da virtù. L'ipocrisia era la degna figlia delle loro rendite e, se si mostravano indifferenti, non era tanto per naturale fierezza quanto per uno snobismo di banchieri. Io mi limitavo a ignorarli; Gérard, invece, li odiava per via delle umiliazioni che suo padre gli aveva inflitto davanti ai loro figli più giovani. Questi erano due ragazzi della nostra età, con visi gradevoli, ma un po' tronfi, che trascorrevano le vacanze passando di festicciola in festicciola con la gioventù ricca dei dintorni. Consideravano Gérard un piccolo delinquente e un po' lo invidiavano, a giudicare dal piacere che traevano dal vederlo mortificare. Mio cugino non perdonava a suo padre di portarglieli sempre ad esempio, né a costoro d'essere i modelli prediletti di un De viris paterno. Il loro fratello ventenne e una sorella più giovane erano, per contro, nostri amici. La ragazza, bruna e semplice, e il ragazzo, che si chiamava Michel, davano un'impressione di freschezza. Bastarono pochi giorni perché ce li trovassimo sempre fra i piedi, l'infatuazione durò e i nostri genitori fraternizzarono a un punto tale che Gérard, faceto, mi propose di pavesare la casa con i loro stemmi, perché, diceva, non è possibile che non abbiano i colori, pur se Vespasiano ha parlato soltanto dell’olezzo. Ogni volta, noi ci davamo di gomito per prendere il volo, secondo il vocabolario che Gérard rendeva vivente allargando e agitando le braccia non appena ce l'eravamo svignata... Ci stavamo avvicinando. La torre cinerina si profilava fra due alberi, accanto a un edificio allungato tipo giardino d'inverno; il tetto era sostituito da vetrate. Gérard aveva preso con sé un corto pugnale tedesco che avevamo trovato fra i residuati bellici e se n'era infilato il fodero nella cintura. Raccolse alcuni sassi, apri la porticina bassa e, nella penombra, mi sussurrò: «Vieni! » Si stava facendo buio. Entrai. Le vetrate diffondevano un crepuscolo biancastro in un ampio locale in cui si trovavano, per terra, grandi beccatoi pieni d'acqua scura dov'erano sparsi resti sanguinolenti di carne. Piccoli roditori erano stati sgozzati e i loro cadaveri dilaniati. Ci fu un fremito d'ali sulle sbarre di metallo, falchi e sparvieri erano immersi nel silenzio che precede il sonno. Pupille luccicavano; alcuni uccelli volarono fino al tetto, in uno sbattere im provviso di penne. L'acqua prese a brillare, un breve istante, come se la luce fosse andata a rifugiarsi lì in preda alla paura. Io avevo la fionda e camminavo su pezzi di carne molliccia e su fatte che mi davano la nausea. Gérard mi tese alcuni sassi. « Prima butta giù quelli più alti, e non aver paura di fare rumore, non c'è nessuno nel paraggi.» A quindici passi, gli uccelli formavano una linea scura, morbida e pacifica. 1 primi tre caddero senza che gli altri s'agitassero, i sassi li colpirono in piena gola, con un rumore smorzato, sordo e quasi carezzevole. Il quarto sasso colpi un posatoio; con un rantolo turbato, un falco prese il volo, poi si posò accanto alle bestie ancora calde che avevo appena abbattuto. Tirai un'ultima volta. Una testolina fu strappata via, spruzzando sangue sulle ali vicine.
Uscii in cerca di altri proiettili, lasciando Gérard in mezzo a una tempesta di gridi. Gli uccelli strillavano, impazzivano, con becchi e artigli sbattevano contro le vetrate munite di rete e si scagliavano dall'alto su Gérard come su una preda. Quando tornai, socchiudendo appena la porta per impedire che i rapaci scappassero, gridi di rabbia e di disperazione colmavano la voliera. Ali mozze e carni palpitanti giacevano disordinatamente sul pavimento di terra battuta; alcune penne s'erano incollate alle pareti e una soltanto, delicata, sull'acqua del beccatoio, errava come la vela nera di Tristano sul mare. Gérard, addossato alla porta a vetri che dava accesso alla serra, si difendeva alzando le braccia e facendo roteare il pugnale per proteggersi dalle beccate e impedire d'essere colpito al volto. Talora s'allungava di scatto trafiggendo una gola o troncando un collo con una pugnalata, e il sangue caldo gli copriva le mani. Ne aveva sul petto, ora non più riparato dalla camicia lacera, sul braccio, sulla gola e perfino all'angolo delle labbra. E a tratti lo leccava... Scatenato, si aggrappava alle sbarre, rovesciava il beccatoio, camminava sui cadaveri: le calze, le scarpe, i blue-jeans erano intrisi di sangue. Gli sparvieri volavano alla cieca, s'immobilizzavano nei punti più alti contro le vetrate e poi, di colpo, si lasciavano cadere su di lui, gli artigli protesi. Gérard, instancabile, li inseguiva, li raggiungeva uno dopo l'altro e li feriva senza ucciderli, per correre subito verso altre vittime. Il sangue gli arrossava il sudore. Qualche piuma si fermava fra i suoi capelli. La caccia continuò. Di lì a poco, aveva sterminato tutte quelle ali viventi e stava dritto di fronte alla carneficina, coltello in pugno, quasi avesse trionfato sulle chimere. Sgozzò gli ultimi uccelli che ancora si muovevano, poi, ebbro, barcollò nell'odore vellutato delle bestie uccise. Era imbrattato di sangue: aveva mani e avambracci coperti di ferite. Feci saltare a sassate due pannelli della vetrata: l'aria fresca della notte s'impadronì di quell’odore di uccelli morti e se lo portò via, come per gustarselo nelle tenebre. Facemmo sosta nel fienile; Gérard, a tratti, rabbrividiva dalla testa ai piedi. Pensai che avesse freddo, lo toccai. Sotto la camicia strappata sul fianco e sulla schiena, gocciolava sudore. Il cuore gli batteva forte, lo feci sdraiare sulla paglia, e, nell'ombra, cercai la posizione dei suoi occhi. Mi guidò il respiro. Presi la bocca di quel ragazzo selvaggio avvolto dall’odore della sua fatica e, nonostante l'oscurità grigio-cenere da notte estiva senza stelle, ravvisai il suo profilo im bronciato, individuai gli occhioni malinconici. Poco dopo era nudo fra le mie braccia. Il buio mi celava le macchie di sangue ma, se il loro colore mi era sottratto, il bruno della pelle, qui e là più scura, me ne faceva ricordare. Restai in silenzio e il cupo fascino di quel corpo di Parsifal im brattato di sangue e di terra mi colmava di desiderio e d'orrore. Nel buio, capiva che la sua efferatezza era d'un tratto venuta allo scoperto mi aveva rivelato un Gérard crudele, spietato come un omicida dopo il primo sangue. Adesso sapeva che sarebbe venuta la punizione. Io continuavo a tacere, ma, per lealtà e per amore, dovevo punirlo. Aspettai che, insorgendo di fronte al disprezzo in cui lo relegava il mio silenzio, si scostasse da me o che le sue labbra trovassero una parola di pentimento. L'orgoglio lo indusse a restare a lungo immobile, l'ombra l'avvolgeva con quella forza voluttuosa dove ogni gesto diventa un fiorire. Alla fine, distolse il capo. lo presi sotto la gola, lo sollevai, gli piegai la testa sul mio avambraccio, afferrandogli con il pugno sinistro i ca pelli corti, e ordinai in tono inflessibile: « Mettiti in ginocchio ». Lui s'inginocchiò. Con una gamba gli imprigionai il corpo e, senza che lui facesse un solo gesto per impedirlo, lo schiaffeggiai col dorso della mano. Sentivamo soltanto il nostro respiro. Lui stringeva le labbra, e io lo presi a sberle con violenza e con rabbia, facendogli girare la testa da una parte e dall'altra. Colpii senza arrestarmi, così forte che non sapevo più chi ero, dov'ero, quel che facevo. Il palmo mi bruciava, lo credetti pieno di sangue. Mi fermai.
Un singhiozzo mi fece capire che si trattava di lacrime, il viso di Gérard ne era coperto. Gli rovesciai ancor più la testa all'indietro e ricominciai a colpire. Una delle sue mani mi si poggiò sulla coscia per chiedere requie, ma fu soltanto la mia vigliaccheria a farmi smettere. Lo lasciai, cercando parole per ferirlo: « Sei crudele come una ragazzina. Sei senza cuore. Vederti cedere così di colpo ai tuoi istinti... a chi e a che cosa non hai ceduto? » Gérard scattò, d'un tratto si ribellava, la sua voce tremava: « Ora mi chiedi scusa, subito, o ti spezzo e,con te, spezzo l'amore che ti porto! » Dopo un attimo di silenzio, mormorai: « Scusa... » Fuori, il vento errava per il parco come un giovane amante morto d'affanno. Senza fare rumore, entrammo in casa. Adesso Gérard rabbrividiva per un freddo reale. Nella sua stanza, alla luce, aveva il viso segnato dalle mie percosse, la camicia a brandelli, gambe e braccia macchiate. Si spogliò. Le areole sporche di sudore e sangue secco trasferivano al suo corpo la loro seduzione volgare. Gérard si sdraiò sul letto a pancia in giù, la testa sulle braccia, e dimenticò la mia presenza. Spensi la luce. Attraverso la finestra che non avevamo chiuso completamente, benché Gérard avesse il corpo gelato, arrivava il rumore del vento carico di polvere e di un profumo d'al beri e di terra. Tutta la natura fremeva e di quando in quando, in lontananza, correva un gran brivido sul bosco. Lo stagno scuro doveva essere striato di bolle. Un lampo violetto rigò l'orizzonte, seguito da altri più bianchi e rapidi. Un salto di vento scatenò un acquazzone. La luna riapparve per scomparire subito dopo. D'improvviso, trombe d'aria sorsero dal cielo; la pioggia che rimbalzava sul davanzale spalancò la finestra. La ghiaia attorno alla casa crepitava. Sulla veranda, l'acqua suonava una marcia malinconica come un amante ab bandonato. «Bel tamburino, dammi la tua rosa, ranplan, ranplanplan, plan... » Gli alberi gemevano. I lampi, raddoppiando d'intensità, illuminavano violentemente la stanza, dandomi in un attimo di tutta la valle, delle colline lontane, degli alberi vicini, un'immagine più nitida di quella che m'avrebbe potuto offrire la giornata più splendida, e, quasi che il loro obiettivo fosse quel ragazzo sdraiato, si avventavano sul suo corpo indifeso, scorrevano dai piedi alle ginocchia allargate, inondandogli la schiena e disegnandogli sulle reni l'ombra vigorosa delle natiche. Mi sdraiai accanto a lui, il temporale ci lanciò per tutta la notte occhiate abbaglianti, costringendoci a tenere gli occhi aperti. Temporale benedetto, cui mio zio imputò le sue disgrazie. Nei giorni che seguirono, i ragazzi Decazes non lasciarono trapelare alcun segno di stupore a proposito dei loro rapaci. Il temporale doveva averli aiutati a farne sparire le spoglie, così come aveva permesso loro di spiegare ai ge nitori il massacro e la fuga degli ultimi uccelli... ma non erano stupidi, e già mostravano nei confronti di Gérard attenzioni troppo contrarie alla loro natura, per non destare il sospetto che fossero parte di qualche strano progetto. Nell'attesa, Gérard e io ci amammo.
CAP. 4
Spesso, all’alba, mi svegliavo di soprassalto e, prima di riaddormentarmi, evocavo per me solo tutto ciò che apparteneva al mio passato, quasi che una nuova esistenza lo facesse rinascere con l'aurora, sotto le mie palpebre chiuse, cosi nitido da non consentire variazioni di sorta. La solitudine aveva fortificato il mio cuore; fra Gérard e me, la fierezza dell'amore era degenerata in orgoglio e ci eravamo allontanati l'uno dall'altro nel momento in cui la nostra presenza sarebbe stata ben più importante della calda vicinanza di un corpo... Giungemmo ad Amboise un giovedì sera; l’indomani eravamo sistemati per l'intera estate. La stanza di Gérard era separata dalla mia da un locale vuoto in cui si mettevano a seccare frutta e tiglio. Eravamo soli in tutto il piano. Il parco era vasto; l'estate lo rendeva opprimente poiché sembrava che le ore andassero a nascondersi lì, nelle ombre sempre più fitte, mentre il caldo l'ap pesantiva e al tempo stesso lo restituiva più lieve facendo ondeggiare tutte le sue distese d'erba, rasoterra, come se l'aria le trascinasse con sé nel suo flusso scintillante. Non potevo fare a meno di Gérard e lo lasciavo per avere la gioia di ritrovarlo. Ci vedevamo appena svegli; non si può aspettare quando si ama. Ma se frequenti erano le nostre occhiate, se lunghi i momenti trascorsi insieme, c'erano anche le ore in cui eravamo lontani a causa del sonno o delle incombenze che la vita impone a coloro che si cercano. In pigiama, facevamo colazione con pesche e succo di frutta. Dopo, passavamo a turno dalla stanza da bagno senza chiuderne la porta. Rispettavamo la nudità dell'altro parlando senza guardarci, non per pudore bensì per desiderio. Una sola volta mi capitò d'entrare, dopo aver sentito Gérard lanciare un grido. Scivolando, s'era ferito sul portasapone. Era piegato su se stesso, le mani sui fianchi, la schiena coperta di gocce e le natiche tonde che splendevano a fior d'acqua. L'aiutai a uscire dalla vasca. Perdeva un po' di sangue, s'era appena scalfito nel tentativo di mettersi in piedi, ma la ferita gli faceva male e io gliela spennellai col mercurocromo finché parve contornata dall'impronta di due labbra. Così, la prima settimana fu un gioco a rimpiattino. Quel che gli dicevo si deformava nella mia testa e io reinventavo per me parole appassionate senza esser certo di non averle dette per davvero, poi felice di averle tenute per me solo, e quindi di nuovo inquieto, volendo e non volendo, innamorato e ostile, disperato sempre, fino a quando un impulso mi scagliava davanti a Gérard, deciso a convincerlo, a violargli il cuore... ma lui mi guardava e io gli parlavo d'altro. Ci nascondevamo in piena luce. lo l'amavo con la follia del primo amore, e il suo improvviso rossore quando lo contemplavo era segno, ai miei occhi, soltanto di vanità, mentre senza saperlo era una confessione. M'era bastato comparire e, nel momento stesso in cui deponevo le armi di fronte a colui che mi sottometteva, lo avevo conquistato. Tutto, l'estate, i nostri svaghi, le vacanze, si riduceva a una sola frase, che per gli amanti è la porta del loro mondo: « Ti amo ». Questo « sesamo » custodiva i nostri tesori, e tuttavia esitavamo davanti a una ricchezza che si basava su una parola. L'amore ci avrebbe insegnato che calpesta l'orgoglio e tutto ciò che è altro da lui. In otto giorni, ci trasformò in uomini. Dopo il bagno, Gérard si metteva al lavoro nella sua stanza; io leggevo, non il libro che avevo sotto gli occhi, ma quello che scrivevo nel mio cuore. Ogni momento ci interrompevamo per chiacchierare. Gérard metteva nello studio la vivacità del canguro, in due salti era lontano dai li bri, e in due salti c'era di nuovo dentro. Alle due, nelle giornate più calde, andavamo a sdraiarci nell'erba, e quando la calura pomeridiana s'attenuava, verso le cinque, cedendo il posto a un'ar-
dente dolcezza, ci spostavamo sul campo da tennis oppure, messa una barca in acqua, ce ne andavamo alla deriva sulla Loira, fra il cielo giallino e l'acqua dorata. Gérard si sdraiava sul fondo e quando, stanco di remare, lo rimproveravo per la sua indolenza, lui si alzava, il costume da bagno incollato alle natiche dall’acqua sulla quale s'era seduto, e si metteva a vogare a bratto. Il paesaggio sembrava liquido fra le sue gambe, e il colore della carne lo proiettava lontano in una bruma grigiastra e azzurrognola. Un giorno gli misi la fronte contro le ginocchia. Gérard lasciò il remo, mi afferrò la nuca e fece risalire la mia testa lungo le proprie cosce. Io mi sottrassi. Il suo inguine odorava di giovane daino. Fece seguire alla mia bocca le linee del suo corpo, dall'incavo del ventre al petto, poi, mentre avvicinava il mio volto al suo, mi fece perdere l'equilibrio e mi spinse in acqua. Quel gioco non poteva procedere oltre. Nuotai fino a riva, dove fui costretto a lasciare camicia e costume. Attraversai la periferia in mutande; Gérard, che mi aveva raggiunto, mi prendeva in giro: « Sei indecente, vuoi esibirti e te ne vai a spasso senza asciugarti... » Giunti nel nostro parco, « vado a cercarti qualcosa perché tu possa cambiarti », mi disse. « Se tuo padre o il mio ti vedessero, Dio solo sa che cosa pensereb bero! Va' in soffitta. Ti pongo una condizione: dammi le mutande, farò asciugare tutto.» « Fara butto, mi vendicherò. » Cedetti, gettai le mutande ai suoi piedi e lui, per la prima volta, ebbe l'impudenza di dirmi: « Sei ben fornito. Torno con quanto occorre per nascondermi alla vista l'ottava meraviglia del mondo ». Scomparve con uno scoppio di risa, e solo in seguito quel riso mi parve turbato. Mentre l'aspettavo, pensai di gettarmi alle sue ginocchia. di abbandonarmi, di confessare, ma quando tornò mi vestii come se non fosse successo niente. In otto giorni non avevamo fatto progressi in quel cammino verso la felicità; la settimana successiva avevo perso l'appetito, rabbrividivo senza ragione dopo essere stato col corpo bruciante come se avessi preso troppo sole. I nostri genitori, nutriti di menzogne, non s'accorsero di niente, perché mi dominavo. Il mio corpo era tutto un sospiro, lottavo contro le lacrime non appena mi trovavo da solo, non potevo fare a meno di Gérard che, senza motivo, sfuggivo. Lui faceva lo stesso. Ebbi l'impressione che mi tenesse il broncio. Non mi resi conto che non mangiava più, che il suo viso si scavava, che i suoi occhi erano più grandi, segnati da un semicerchio nero sopra lo zigomo. Entrava in camera mia soltanto vestito; senza averlo concordato, occupavamo la stanza da bagno in orari diversi. Per il resto, tutto come prima. Il sabato, il caldo si fece particolarmente intenso, l'aria era piena di moscerini, tutte le finestre erano chiuse per mantenere fresco l'interno della casa, ma il nostro spirito di contraddizione spinse Gérard e me a uscire, alla faccia di tutto. Decidemmo di fare il bagno nel fiume. Un lieve vapore faceva tremolare le rive. L'acqua era calda. Mi tuffai subito. Quando tornai a galla, Gérard si lasciava cullare dall'acqua e i suoi capelli erano bagnati soltanto sulle tempie. Mi avvicinai, lo tirai per farlo affondare; lui si dibatté, fu costretto a immergersi a sua volta e io seguii la traccia del suo corpo nell'acqua. Continuavo a dirigermi verso di lui, scorgendo soltanto la parte alta del suo petto; il resto sfumava nell'acqua verde. Cercai di avvinghiarlo, lui si dibatteva come un diavolo, ma rideva mentre tentava di sfuggirmi, e io riuscii ad afferrarlo alla vita. Senza rendermene conto, mi ritrovai in mano il cordoncino del suo costume; tirai e Gérard mi sfuggì lasciandomelo fra le dita. Tornai nel posto dov'erano posate le nostre cose e mi asciugai lentamente. Gérard s'immerse, si reimmerse, cercando di ritrovare il costume che gli era scivolato via. Poi dovette ammettere la sconfitta e, da buon perdente, venne dritto verso di me. L'acqua lasciava a malincuore il suo torso, i fianchi, il ventre. Quando Gérard ne ebbe soltanto alle caviglie, rimase immobile sotto i miei occhi, sullo sfondo verdognolo degli alberi, le braccia appena piegate, i capelli che s'arricciavano sotto la carezza dell'aria dopo quella dell'acqua, la carne delle cosce splendente per il bagno e rosata laddove il sole la lambiva passando attraverso le foglie. Una vena gli traversava la
gamba sotto il ginocchio, un'altra si gonfiava sull'avambraccio fino al polso. Non ne approfittai per vendicarmi. Ma già due volte la sorte aveva offerto ai nostri sensi l'alibi della nudità... Quella fu la notte che lui scelse per cercare di oltrepassare l'ostacolo. Dopo una giornata così opprimente, la notte sarebbe stata soffocante. Riposavo nel letto senza riuscire ad addormentarmi. La luna alta e piena illuminava gli oggetti d'una luce chiara, ma forte, che pareva uscire dalle cose e rivelarle attraverso la loro ombra. Nella stanza, non colpita in pieno dalla luce lunare che investiva invece un angolo della casa, soltanto i vetri delle finestre erano illuminati. A mezzanotte passata entrò Gérard e mi chiese se dormivo. Gli dissi che era impossibile. Venne accanto al mio letto. Sedette. 1 calzoni rossi del suo pigiama si stagliavano neri contro il bianco del lenzuolo su cui ero sdraiato. Non dicemmo quasi nulla. Ebbi paura d'essere tradito dal mio membro e, per impedire che mio cugino se ne avvedesse, mi misi a pancia in giù come se intendessi dormire. Simulai il sonno. Allora lui si alzò senza fare rumore e prima di ritirarsi, poiché la luce lunare cadeva addosso ai miei piedi e risaliva lungo una gamba, toccò quest'ultima; si fermò quando ebbe raggiunto la spalla. Continuai a fingere. Quando fui solo, il mio corpo era così turbato che mi accarezzai il petto contro il lenzuolo, poi mi alzai nella luce bianca invocando quanto prima l'arrivo di un altro biancore... Il mattino della domenica fu tranquillo. Grosse nuvole ci portavano ombra, e il vento di ponente aria marina. La domenica andavo in chiesa a sentire i canti, senza altri pensieri. Gérard non credeva a niente e restava a letto. Come le due prime domeniche, mi recai ad Amboise. Gérard non era alzato, mio padre mi portò in macchina con mia cugina. Non avevo avvertito Gérard. Non so perché, un presentimento mi strinse il cuore non appena fummo alla funzione. Lasciai mio padre alla fine della messa; con mia cugina, sarebbe andato in pasticceria e in giro per altre commissioni che l'avrebbero impegnato fino a mezzogiorno. La casa era deserta; mio zio doveva essere ad annaffiare le piante, nessuna traccia di Gérard. Mi spinsi fino alla riva del fiume: niente. Risalii nella stanza, l'ordine che vi regnava non era consueto. Pensai al fienile, niente nemmeno lì. Eppure, non appena fui nel parco, una voce, segreta m'indusse a tornare sui miei passi: fui di nuovo nel fienile. In una nicchia dove arrugginivano un rastrello e altri vecchi attrezzi, dietro i covoni di fieno, stava disteso Gérard, faccia a terra. Lo chiamai, m'inginocchiai, lo rivoltai. Nel suo corpo non c'era traccia di ferite; il cuore non batteva quasi più. Annusai la bocca dischiusa: un odore vegetale mi diede la nausea. Non c'era un minuto da perdere. Mi tolsi la camicia e, poggiandomi la sua testa sul torace, gli infilai due dita in fondo alla gola. Ebbe una contrazione e d'improvviso un fiotto di liquido nerastro mi sprizzò sul braccio. Gérard aprì le palpebre; non smetteva di vomitare, io ero sul punto di svenire. Rigagnoli di bile mi scorrevano sulla coscia. Lui era madido di sudore, lo asciugai, gli tolsi la camicia e gli misi la mia. Era inebetito, la schiena contro una trave bassa. Ebbi un conato di vomito e mi diressi verso la porta. Gérard se ne accorse e si sollevò a fatica. « Va meglio », mi disse. « Usciamo. Ti do la nausea. » Io mi risentii e, per dimostrargli che niente in lui avrebbe mai potuto suscitare il mio disgusto, gli baciai le labbra ancora umide e lo trascinai verso la sua stanza. Una volta che fu sdraiato, ispezionai il fienile: petali gialli erano schiacciati là dove avevo trovato Gérard. Aveva raccolto una solanacea qualsiasi, e ne aveva inghiottito il pistillo, credendo che l'avrebbe ucciso. L'idea della morte è già morte. Perché? Perché non poteva vivere come voleva lui, mi disse. Rifiutò di aggiungere altri commenti. Era la prova del suo amore, perché l'innamorato non può sopportare il tempo, come non può sopportare chi gli sottragga di continuo la presenza che gli sfugge.
Gérard rimase a letto tutto il pomeriggio; feci del mio meglio, a tavola, per dare a intendere che aveva un forte mal di denti, cosa che mi valse l'ironica risposta: « Speriamo che sia un dente del giudizio! » La sera, Gérard stava meglio. Nulla, dell'incidente, si leggeva sul suo volto, a parte una luminosità più profonda degli occhi e una malinconia che attribuii al passaggio fra noi della morte. Gli innamorati hanno nei tratti una tale presenza che sono come allontanati dal loro stesso volto dal volto di colui che amano posato sul proprio, tanto la loro carne chiama la sua carne. Gérard viveva con la mia bocca sulla sua; talvolta mi capitava di non riconoscerlo. Quel mancato suicidio era un segno. La tempesta s'avvicinava e, come i naviganti quando il cielo al crepuscolo è rosso ignorano se l'alba successiva sarà quella di un giorno calmo o di un giorno di burrasca, anche noi attendevamo ignorando i tormenti dell’amore. Ci volle ancora un giorno perché quella storia d’innamorati senza storia avesse inizio, un'estate come le altre, con un sonno d'adolescente e una veglia d'adolescente turbato... A tutto questo pensavo aprendo gli occhi, all'alba, in quei primi quindici giorni di vacanza che di punto in bianco mi avevano insegnato la voluttà. Mi alzai alle otto, la testa colma di quel rumore della passione che rende perfino i ricordi sonori come baci. Il massacro degli sparvieri mi parve lontanissimo. Dovevo andare ad Amboise nel primo pomeriggio per acquistare dei dischi, e Gérard aveva promesso d'aspettarmi nel nostro rifugio, vale a dire il fienile, con un romanzo poliziesco. Quando arrivai nella stanza da bagno, lui era nudo, una trina di schiuma gli copriva la nuca. Il sole che entrava a fiotti dalla finestra aperta faceva scintillare il sapone sulla sua pelle. Gérard aveva un buon odore di carne giovane, il suo sorriso era più smagliante e i suoi occhi più teneri, come se quell'abluzione mattutina avesse distrutto l'ombra voluttuosa della notte e offrisse al giorno un dio bambino. S'era strofinato così a lungo che il suo corpo era roseo. Quando a mia volta uscii dall'acqua, lui si stava pettinando, senza vestiti, davanti allo specchio, i muscoli gonfiati dagli esercizi ginnici che aveva appena fatto. L'amore mi offriva il ragazzo più bello, quello venuto dal fondo dei miei sogni e che, prendendo vita, aveva serbato di essi non so quale misterioso splendore. Gérard era fatto dei miei sogni. «Voglio darti un po' del mio sangue », disse. Prese un coltello da caccia dal mucchio di vestiti che avevamo abbandonato sulle sedie e ci scambiammo il sangue attraverso due piccoli tagli. Bevetti quella forza rossa che mi arrivava impetuosamente in bocca a fiotti. L'avvenire ci apriva una porta immensa, entravamo nel palazzo dell'amore, come bambini in una foresta. Una volta che fummo vestiti, ci sdraiammo sul suo letto. Per la prima volta, lui si confidò e mi parlò del futuro. « Che cosa conti di fare? lo ripeterò l'esame, staremo insieme. Ma, dopo, non posso tollerare l'idea d'una separazione. Hai diciassette anni, saprai bene quel che vuoi! » Il « che cosa conti di fare » tornava insistentemente. Cozzavo contro un muro, perché Gérard non demordeva. Alla fine ritenni opportuno rispondergli in modo giudizioso, nonostante gli im pulsi del mio cuore: «Vedi, bisogna vivere il presente. Siamo in vacanza, amiamoci in vacanza. Finita l'estate, si vedrà. L'estate sei tu. Ti amo, e questo deve bastarti. Il resto non conta ». Non era quello che voleva sentire. Sperava che le mie parole fossero definitive. « Voglio sapere quel che sai tu, quel che credi tu, quel che senti tu, quel che vuoi tu. Voglio essere te. Quando sono fra le tue braccia, di tutto il resto non m'importa niente! Nulla conta, al di fuori dell'amore; ti adoro. è la tua vita che voglio, tutta, e per te non deve esistere nient'altro che la mia. » E subito dopo: « Giuriamo... Ma no, giurare è stupido: tu sei la mia patria... » Ero travolto dalla gioia: il misterioso Gérard mi dava il suo cuore con la stessa foga con cui mi dava il suo corpo. Scoprivo il suo desiderio di concedermi tutto se stesso. Fui sincero quando cercai di attenuare il suo entusiasmo buttando su quel fuoco la cenere di un futuro incerto. Gé-
rard era incostante, volevo metterlo alla prova. Gli parlai dolcemente: «Anch'io ti adoro. Ma penso soltanto al presente. Evitiamo di guardare più lontano... Il tuo sentimento può cambiare. Non so nulla di ciò che hai amato fino a oggi: sei tu il mio primo amore. E poi a vent'anni potresti andar pazzo per le ragazze, oppure io potrei essere morto, o potremmo vivere lontani l'uno dall'altro, oppure, anche se tu non fossi cambiato, anche se io fossi sempre innamorato di te, potremmo avere entrambi una visione così diversa della vita da ritenere che non sia più possibile affrontarla insieme... Amami come ti amo io: la felicità è il presente». Gli parlavo a voce così bassa che mi udivo a malapena. Gérard mi si rananicchiò contro. « Ti amerò sempre », mormorava. « Anche da morto. » Lo guardai. Lacrimoni gli rotolavano sulla guancia... Una notte Gérard sognò. Gli posai l'orecchio sul cuore. Pronunciava parole sconnesse, come a scatti, quasi che stesse precipitando con quelle in un abisso dall'alto della montagna del sonno. Cercai di sorprendere l'altro, quello che non avrei mai conosciuto, a meno di varcare la sottile barriera della pelle per diventare infine la stessa carne. Volevo un gemello perfetto, e talvolta l'amore me ne faceva dono, quando annottava...
CAP. 5
Amboise, d'estate, era una città doppia, una città androgina a seconda delle ore: ai momenti soleggiati del mattino, pieni di rumori, si succedevano le ore grevi del pomeriggio deserto in cui le ombre s’allungavano pigramente su un suolo crepato. non appena ci si allontanava dai selciati cittadini. Più tardi, l'indolenza del crepuscolo permetteva di sfoggiare toilette chiare, e l'atmosfera torbida delle metropoli notturne pervadeva per poche serate fugaci quella donna chiamata città, una donna che l'estate sconvolgeva e che pareva sempre attendere la tregua dell'inizio della notte per soddisfare le curiosità del suo cuore. Io conoscevo soltanto le ore mattutine, quelle in cui già era possibile indovinare la bellezza d'una giornata dal cielo uniforme e azzurro e dal fatto che nel luogo di provenienza della luce non si poteva fissare il disco del sole, che spostava la propria massa infuocata facendo vibrare l'aria a secoli di distanza attorno a sé. Scoprivo il pomeriggio silenzioso e quasi incolore, tanto l'uggiosa oppressione del caldo avviluppava alberi e case in un sudario d'oro grigiastro. Il sudore mi colava sul petto e lo faceva luccicare. Le vetrine mi rimandavano un'immagine seducente, ma come in fondo a uno specchio d'acqua. Incontravo soltanto bambini che giocavano sotto immensi cap pelli di paglia e qualche vecchia vestita di cretonne scuro come ormai se ne vedono soltanto in campagna. Quelle ombre mi riportarono, per non so quale segreto meccanismo del pensiero, a mio cugino, che avevo lasciato immerso nella lettura. Com'ero pazzo di lui, com'ero pazzo di quelle sue carezze brutali con cui credeva di nascondere una tenerezza che un nonnulla bastava a rendere estrema! Gérard era l'amore. Gérard era il mio amore. Non volevo sapere nulla del suo passato, ma l'esserino selvaggio che continuava a essere nel profondo di sé era stato accarezzato da molti ragazzi: lo capivo oscuramente dalla sua aria superba di adolescente avvezzo agli omaggi altrui. Gérard ingannava gli altri grazie a una leggerezza di cui s'immaginavano le voluttuose condiscendenza, mentre invece piegava a piacimento ai propri desideri chiunque si fosse trovato fra le sue braccia. Percorsi senza fretta parecchie vie, isolato dal mio amore, non vedendo le tendine socchiuse dietro alle quali mezza città spiava l'altra metà; inconsapevole di quella vita nascosta, perché per me la vita si riassumeva in un volto, io non ero ad Amboise, ero ai piedi del letto di Gérard. Io lo guardavo e lui mi guardava, un ginocchio piegato, le gambe aperte, lo vedevo dappertutto attorno a me... Spinsi infine la porta del negozio di dischi. Il proprietario era un giovanotto affabile, peraltro molto bello, che accoglieva i clienti in quella che sembrava più una caverna che un negozio, tanto le stuoie verdi e azzurre che proteggevano la vetrina davano all'ombra una luminosità che non ci si aspettava di trovare, tipica di certe grotte a fil d'acqua la cui sola illuminazione proviene dal riverbero azzurrognolo della luce sul mare. Vortici, o meglio trombe musicali che le cabine non riuscivano a isolare del tutto accrescevano quell’illusione, tanto più che un giovane commesso, il viso brunito dal sole, faceva pensare - vigoroso com’era - a quei marinai così ricercati nella Roma decadente per il capriccio degli imperatori. Gérard lo affascinava: mio cugino era stato lì una mattina assieme a me e, senza curarsi del disco che io volevo ascoltare, s'era messo a parlare con il ragazzo al solo scopo di sedurlo. Gli feci capire tanto bene quanto fosse femminile quel modo di comportarsi che in seguito si astenne dall'accompagnarmi in città. L'altro doveva averne sofferto, perché dopo aver visto Gérard, dopo averlo ascoltato, continuava a chiedermi sempre indirettamente notizie di mio cugino.
Mi mostrò parecchie novità che rifiutai. Ascoltai l'inizio di un disco di John Cage, lo comprai e uscii. Mi sentivo di colpo stanco e, poiché da qualche minuto camminavo in pieno sole, sentii il bisogno di un po' d'oscurità. Ero a due passi da una chiesa. Un carro funebre anneriva, minuscolo, un angolo della piazza divorata dalla luce e sembrava abbandonato come quei vecchi aratri che arrugginiscono nei campi per tutta l'estate. Sotto il porticato, appassivano corone di gladioli rossi. Non appena entrai, la frescura mi avvolse. Rimasi in piedi contro una colonna di quella chiesa buia dove finte finestre all'italiana, all'altezza del matroneo, s'affacciavano sulla navata con pannelli neri e dove le vetrate, che avrebbero dovuto brillare di tutto lo splendore del giorno, gettavano da basso soltanto bagliori d'uno scialbo azzurro per via delle case che, contro le navate laterali, smorzavano la luce. Alcuni ceri illuminavano il coro, e il loro sfolgorio ritagliava nella cera petali effimeri. Eppure, era così buio che non scorgevo nulla al di là di un catafalco nero fra sei candelabri funebri. A tratti, l'organo accompagnava le preghiere. Ci fu un silenzio, poi la voce toccante d'un contralto lanciò nella navata le prime parole del Dies Irae. « Giorno di collera, il giorno che farà del mondo un mondo di cenere, secondo Davide e la Si billa... » Il mio cuore rispondeva a quel canto e io ascoltavo il loro dialogo in me, in quella luce crepuscolare. Vedevo una donna segnata dalle rughe e tuttavia imponente, una donna scura drappeggiata nelle pieghe d'una veste senza cinta, e a questa visione si mescolava quella di un re con un'alta corona frastagliata e che reggeva nella mano sinistra un libro in cui, accanto al mio, era disegnato il volto di Gérard. «Sì», diceva la voce, la voce dell'uno e dell'altra insieme, « sì, giorno di collera il giorno in cui la vostra passione sarà ridotta a due cadaveri. « Quale sarà il vostro terrore quando sarete condannati per aver creduto al vostro affetto... » Quella voce implacabile distruggeva anzitempo le mie parole d'amore, ma tanto profonda era la fede in quell’amore che lo seppi eterno, destinato a durare anche nel caso che Gérard fosse morto. Lui non era credente, io nemmeno, perlomeno non nel senso in cui avevano cercato di fare di me un credente; disprezzavo coloro per i quali credere era un'abitudine e quelli che erano pronti a gettarsi nel tempio d'una qualsiasi religione per la paura che avevano di loro stessi. La mia fede esisteva soltanto nel fondo più oscuro del mio cuore; e, come per il diamante non occorrono soltanto il suolo duro e le foreste di volgare carbone pietrificate da dieci milioni di secoli, ma l'intera natura, con i suoi rumori, le sue felci, i suoi uccelli, brutalmente scagliata nelle viscere della terra e, sopra, miriadi di ere che portino la luce delle stelle perché noi si possa averne il riflesso, così la mia fede aveva avuto bisogno di un amore senza scampo. Quanto a Gérard, la sua religione era l'amore, e talora egli intravedeva una vita di cui la nostra sembrava l'ombra. Per lui credere voleva dire amare; stringere a sé un corpo come il suo lo trasfigurava a un punto tale che io, allora, mi sentivo un dio fra le sue braccia. La giovane bellezza del suo corpo consentiva d'avvicinare quel Gérard segreto cui si dà nome anima: i capelli ricci, le orecchie piccole, la nuca divisa non erano soltanto le figure esteriori del desiderio ma anche gli strumenti di un amore sacro che fa uso della bellezza per asservire eternamente il cuore. I nostri baci non erano soltanto carezze fisiche; da parte mia, volevo posare la bocca su quel Gérard invisibile pur se la subdola dolcezza della carne me ne allontanava ogni volta. « Sventura a colui che avrà volto oscuro. Si giudicherà da sé e sarà inesorabile... » Così, ascoltavo la messa del mio funerale: erano per me quei parati, quel candelabri, quegli organi, quei fiori. Quella era la mia morte. Il Dies Irae terminava fra le suppliche e gli accordi veementi dell'organo, ma un'altra voce si levava in me: «Giorno di collera il giorno della tua morte. Sarai giudicato dall'amore e l'amore non ti farà grazia né della cecità né delle ore che non gli apparten-
nero. Giustificherà l'oblio soltanto nel momento del sonno. Vorrà sapere, conoscere i pensieri che sfiorano la fronte, i desideri inconfessati, le grida d'amore trattenute nel petto, gli atti solitari, i bagliori del piacere, la portata della speranza. L'aria che respiri farà scoppiare il cuore degli altri uomini: con Gérard, tutto ciò che soffoca diventa lieve. Il suo sangue esige l'inferno! Sarà lui l'amore, e lui non può condannarti. » Di colpo ebbi il presentimento di una disgrazia. Dovevo rientrare, Gérard mi chiamava. Rovesciai una sedia e il rumore si propagò fino all’abside. Fuori ricevetti in piena faccia, come una frustata, i raggi del sole; quando mi ritrovai sullo stradone, il silenzio cacciò di botto i pensieri neri. Non rientrai direttamente, gli odori estivi mi fermavano per via, c'erano fiori selvatici nell'alveo ancora umido dei fossi, e l'aria era satura dell'odore inebriante dell'erba tagliata. Nel fienile, in mezzo alla paglia, c'era, aperto, il libro di Gérard. Poiché la sua stanza era deserta, andai nella mia; capii che era lì non appena aprii la porta: le tende erano tirate. « Sei tu, Pierre? » chiese. Era sul letto a pancia in giù, nudo come al solito. Mi supplicò di lasciarlo al buio. Mi avvicinai e gli presi la faccia fra le mani. Aveva le labbra gonfie, un filo di sangue gli correva dal naso alla bocca. «Mi hanno preso e picchiato», mi disse, con un fremito di rabbia. Fu tutto quello che si degnò di comunicarmi. Venne a tavola indossando una camicia con le maniche lunghe. Nessuno vi fece caso, le notizie politiche non erano buone. Noi, come al solito, ce ne infischiavamo. Alle dieci s'addormentò. La luce del crepuscolo sommergeva ancora gli alberi con il suo candore liquido. Gérard si voltò e rivoltò almeno cento volte. Nel sonno, diceva frasi spezzate. Afferrai molti «non voglio ». Così, ricostruii la scena con quei mozziconi di frasi strappati a un brutto sogno. Gérard si agitava senza posa, il viso sudato, e non poteva sdraiarsi sulla schiena, solcata da lunghe strisce rosse al pari delle braccia e delle gambe. La carne viva in più parti del corpo l'aveva indotto a scostare le lenzuola dalla pelle. A tavola doveva aver sofferto parecchio, perché per fierezza aveva indossato dei calzoni di tela che gli facevano bruciare natiche e cosce, e una camicia che, nonostante la sua leggerezza, gli ridestava sulle spalle le scudisciate sopite. Ecco quel che immaginai: al principio del pomeriggio, Gérard, stravaccato nel fienile, leggeva come al solito un giallo. Sentendosi chiamare, pensò che fossi io e gridò: « Sono qui ». Allora entrò Philippe, uno dei fratelli Decazes, lasciando la porta aperta perché gli altri potessero entrare a loro volta; avevano calcolato ogni mossa. Gli altri fratelli aspettavano fuori, come pure due ragazzi con i quali avevamo talvolta giocato a tennis. « Dov'è Pierre? » chiese. Continuando a leggere, Gérard fece un gesto vago senza alzarsi. Philippe s'avvicinava sempre più, finché gli piombò addosso di peso. Mio cugino si dibatté, ma arrivarono gli altri, gli legarono mani e piedi, gli applicarono del cerotto sulla bocca e, in due, trascinarono la loro vittima verso la voliera. La porta fu chiusa a doppia mandata. Gli slegarono i piedi perché Gérard potesse tenersi dritto, gli tolsero il cerotto e poi uno di loro lo preparò per il supplizio: gli sbottonò la camicia, gliela fece scivolare sui polsi. Poi passò ai blue-jeans, toccando involontariamente il sesso di Gérard e facendolo fremere. Quando la chiusura lampo fu abbassata e il ragazzo sfiorò le mutande, Gérard lo colpi con i polsi legati. Ne seguì una colluttazione; mio cugino, immobilizzato, sputò loro in faccia. I ragazzi, infuriati, lo accarezzarono con la sua stessa cintura, dopo, un po' perché era bello un po' perché si ribellava, lo colpirono a sangue sulle gambe, sulle cosce, sulla schiena, sulle braccia, sulle natiche. Gérard ebbe un mancamento. Si rendeva conto del conciliabolo che stavano tenendo allo scopo di goderselo? Tutti quei ragazzi eccitati dalle percosse inflittegli avevano in mente di usarlo come fosse una ragazza, uno
dopo l'altro. A terra, Gérard non si muoveva più, una cinghiata sulla nuca l'aveva stordito. I ragazzi si tolsero i jeans con impazienza; le cosce massicce e abbronzate dall’estate furono messe a nudo, e l'atmosfera si fece più calda attorno a loro, fino a quando, per goderselo meglio, non si furono tolte anche le camiciole che nascondevano loro le natiche. Gérard era ai loro piedi, pancia a terra, e i ragazzi lo contemplarono per un attimo. Poi il primo gli posò la bocca sulla nuca... Non volevo sapere di più, preoccupato dalle palpitazioni del mio cuore; mormorai: « Hai destato il mio desiderio. La notte è lunga quando dormi, ma ti sento più vero che a giorno fatto. Amore è violenza. Sono geloso di quel che hanno fatto gli altri». Gérard dormiva un sonno da bruto, la mano aperta nell’ombra come in attesa d'una bocca. Sfiorato dal desiderio, non era più Gérard: la carne del piacere si sostituiva alla sua, come se non fosse più un ragazzo di carne, ma il piacere sotto fattezze virili, e come se un singolare accordo fra la sua carne e il piacere creasse un essere al quale non si addiceva più il nome di Gérard, perlomeno non il nome di Gérard che io ero abituato a pronunciare con tenerezza. Impazzivo nel saperlo toccato da mani che non erano le mie; l'essere di cui quei ragazzi avevano abusato ero io, io che adesso non riuscivo più a riconoscermi, tanto i più piccoli gesti di Gérard, in virtù della servile imitazione degli amanti, penetravano a poco a poco i miei più piccoli gesti. Con quale amarezza invidiavo all'aurora la sua furia. Invano l'avrei strappato alla notte, toccarlo non mi soddisfaceva più, avevo bisogno di un gesto infinito che né il tempo né l'ombra potessero distruggere ma ogni istante rendeva le mie carezze ridicole, perché dovevo sempre ricominciare da capo al fine di non perdere coscienza di quel corpo disteso accanto a me fra le braccia invisibili del sonno. Era il sonno l'amante che mi sottraeva Gérard, e Gérard fino al mattino dormì e si lamentò. Era giorno fatto quando i rumori della campagna si sostituirono ai canti solitari dei galli, svegliandoci. L'acqua gli bruciava addosso: Gérard non poteva lavarsi, sicché gli cosparsi la schiena di talco. Anche quel giorno dovette concedere all’eleganza una tenuta irreprensibile, ma appena tornava nella stanza si strappava quegli indumenti di tortura. Lo lasciai un momento nel pomeriggio per ispezionare il fienile. Lui mi si affiancò subito: «Vuoi sapere», mi disse, «quel che ho appena sentito in salotto, passando? Non ho saputo resistere alla curiosità e ho appoggiato l'orecchio alla porta. C'erano tuo padre, il mio, la signora Palin, la signora Decazes, e altre due o tre persone rispettabili » - qui assunse un tono mondano, il tono di quella provincia durante le serate estive -. « Si parlava del più e del meno. Senti cosa è poi venuto fuori... » A questo punto, cambiando a ogni istante posa con un virtuosismo e una serietà che non sospettavo, fece materializzare nel fienile pieno di covoni un salotto raffinato, con tutto il suo strascico di noia, di stupidità e di sussiego. A identificare ogni personaggio bastava il solo modo di parlare. « Tuo padre (serio, la mano nel gilè). Mi guardo bene dal lasciare simili pubblicazioni in mano a mio figlio. Questo genere di lettura potrebbe solo incitarlo a frequentare chissà quali ragazze, il che non è proprio ciò cui i genitori aspirino. « La signora Palin (un tono più acuto del normale, molto sostenuto come in Bassa Bretagna). Mi sembra del resto una cosa così grave che stento a credere a ciò che si dice. «Mio padre (che fino a quel momento aveva continuato a cercare le foto che ho nascosto l'altro ieri in un vaso). E che cosa si dice? «La signora Palin. Non si può dar credito a simili dicerie. E tuttavia è quel che pensano i figli della nostra cara amica. Vero, Géraldine? «La signora Decazes (voce mielata). E’ una cosa priva d'interesse, non vale la pena di parlarne.
« Tuo padre (curioso nonostante tutto). Oh! Fra di noi non dovete avere esitazioni, non foss'altro che per aprire gli occhi a noi poveri ciechi. «La signora Decazes (un po' concitata). Be', glielo dico soltanto perché non riesco a crederlo. Che cosa pensa dell’influenza su suo figlio del cugino? Gérard non è perverso? «Mio padre (un po' arrabbiato nel vedermi porre sul banco degli accusati). Che strano aggettivo! «La signora Palin (andando gentilmente in soccorso all'amica turbata dalle sue stesse confessioni). I loro giochi li inducono a disprezzare la compagnia dei ragazzi della loro età. Né i miei figli né quelli di Géraldine sono riusciti ad ammansirli. Ho tutte le ragioni per pensare che sia colpa di Gérard. Pare che i due stiano molto bene insieme. Non posso dire altro, se non che quando sono qui con noi continuano a guardarsi negli occhi per ore. « Tuo padre (ostinandosi a non capire). Dev'essere un loro modo di tramare qualcosa. « La signora Decazes. Di sicuro qualche passeggiata notturna. «La signora Richard (che non aveva perso una parola, nonostante fosse intenta a fare il filo al dottore, cosa che l'aveva indotta a leggere Freud durante le sue insonnie di donna priva d'uomini). Questo modo di fuggire gli altri caratterizza a quell'età quel tipo di affetti che vengono denominati esclusivi. «Mio padre. Gérard sta preparando con Pierre l'esame di riparazione a ottobre. Dopo l'esame fallito a giugno, Pierre ha chiesto cortesemente che trascorressimo qui le vacanze per poter aiutare suo cugino. «La signora Decazes. Non sapevo che la maturità si preparasse baciando il proprio cugino sulla bocca a cento metri da casa. « Non ho ascoltato il seguito, troppo stupido. » Ma Gérard mentiva, perché era diventato bianco come un cencio. Allora, l'ombra della morte entrò nel fienile. Esteriormente, era una nube che passava davanti al lucernario, ma quell’oscurità improvvisa, dopo i raggi dorati in cui danzava la polvere, nascondeva una persona che ci seguiva passo passo. Quei passi, li sentivo lontani nel mio cuore; giorno dopo giorno si sarebbero fatti più violenti, più sonori, più decisi, e poi sarebbe stata la fine, il cuore sarebbe scoppiato per il troppo rumore. Misi la mano sul petto di Gérard: era come se qualcuno bussasse per uscirne ed entrare in me. I nostri padri non dissero nulla. Noi due ci abbandonammo all'amore, ma a un amore sul quale le minacce aleggiavano come uccelli di rapina.
CAP. 6
« Pierre, Pierre. » Il mio nome era diventato grido. Dovevo aspettare Gérard e mi ero nascosto, per vedere. Si guardava attorno senza capire, preoccupato perché sarei già dovuto essere lì. Il canto di un tordo trafisse il silenzio. Gérard mi chiamò di nuovo, poi, una sola volta, pronunciò il mio nome a voce così bassa che lo indovinai soltanto dal movimento delle labbra. E se ne andò, incespicando nelle radici sul bordo del viale. Sedette contro un albero, o meglio si lasciò scivolare a terra e rovesciò la testa all'indietro contro il tronco. Di tra le foglie, nel cespuglio in cui mi nascondevo, gli vedevo il collo e la bocca, due dei posti su cui più mi piaceva posare le labbra. Che cosa stava pensando? Volevo correre verso di lui, spiegargli che si trattava di uno scherzo, ma la crudeltà che sta alla base di ogni amore mi tratteneva. Volevo spiarlo, vedere come si comportava quando si credeva solo e vedere se non avrei scoperto che si trasformava in qualcuno che potevo anche non amare più. Sì, c'erano momenti in cui avrei desiderato svuotare il mio cuore, fare a pezzi quell'immagine dell'amore, cancellare quel volto di ragazzo che, anche a occhi chiusi, vedevo in me. Si avviava verso casa a capo chino, dando calci ai sassi, un non so che di triste nel corpo. Infine scomparve dietro il fienile e per me scomparve il sole... Gli alberi non si muovevano più, non provavo più nulla, guardavo senza sentire, ascoltavo senza vivere, la gola serrata. La solitudine di Gérard s'impadroniva del mio corpo. Tu che m'avevi colmato di bellezza, giornata ardente, tu, stagno verde pieno di brividi, voi, alberi freschi e scuri, tutti voi mi sembravate di colpo tristi. Eravate sempre lì, ma stregati. Andandosene, Gérard s'era portato via la vostra anima. Più s'era allontanato da me, più avevo avvertito la tristezza del ragazzo che cerca il modo di fare le sue prime confessioni. Ero a quel punto. E nei nostri abbracci più ardenti, durante la notte, inventavo parole che non oltrepassavano mai la soglia delle mie labbra. Le parole crude dell'amore erano più facili. Impegnavano soltanto i corpi. La mia solitudine aveva adesso le fattezze di Gérard. Corsi verso di lui e il mio desiderio lo raggiunse prima di me. Cercavo di rammentare il suo viso. A tratti non ci riuscivo, credevo di vederlo di fronte a me, ma era soltanto un atteggiamento effimero, o il lampo di un'espressione, e il suo miraggio mi circondava... Qualche secondo dopo, spinsi la porta del fienile e mi gettai su di lui. Facevamo un gioco dalle regole insensate il cui unico scopo era asservire l'altro e fare fisicamente di lui quel che si voleva. Era un gioco che scusava tutto. Il parco diventava il territorio in cui si doveva catturare l'avversario: eravamo nemici, anche se per finta. Ora agivo come se stessimo facendo quello stesso gioco. Prima che potesse difendersi, ecco che gli piegavo i polsi, li legavo a un chiodo arrugginito cui venivano appese vecchie selle, e all'improvviso lo colpivo. M'ero tolto la cintura con l'intenzione di straziargli le natiche. Quale fosca gelosia in quel gusto di fargli male là dove l’ammiravo di più! Non lo spogliai, perché sugli indumenti i colpi facevano più male e perché temevo di cedere troppo presto ai miei più bassi appetiti nel vederlo nudo. «Carogna», ripeteva lui in un sussurro, «carogna, carogna... » Il suo tono non era diverso da quando, la notte, perdeva la testa sotto di me. E la sua voce era calda come la sua pelle. Lo colpii ripetutamente. Prima c'era il lungo sibilo d'ammirazione della cintura, poi il rumore sordo del colpo si combinava col mio respiro rotto. Gérard smetteva di respirare, gemendo appena prima d'essere colpito. Si lamentava soltanto dopo, se il colpo mal diretto incontrava la pelle nuda, perché avevo finito con lo strappargli la camicia per vedergli la schiena e col calargli i pantaloni fino alle caviglie. Mi piaceva legato, interamente in mio possesso. Una vena gli
splendeva sul polpaccio gonfio e spariva ogni volta che lui s'abbandonava al suo doloroso piacere. Niente era per me più dolce che accarezzarlo lì, posarvi sopra per un attimo le labbra. Lui si sentiva a poco a poco domato, e io potei ravvicinare l'intervallo fra un colpo e l'altro senza farlo soffrire al di là delle sue forze. Fui addirittura io a cedere per primo, vinto da un bruciore alla spalla e dal timore di diventare per Gérard soltanto un'immensa percossa sotto umane sembianze. Alla fine slegai i polsi bluastri, e lo feci soltanto nel momento in cui capii che s'era calmato, perché prima l'idea di vendicarsi avrebbe potuto incattivirlo... Lui fece un sorriso: « Colpisci forte, oggi; sei una vera belva ». Poi, più dolcemente e squadrandomi con le sue pupille cangianti: « Se mi capiti fra le grinfie, bada a te... Ma non aspetterò a lungo per... » Lasciò la frase a metà, si riabbottonò la camicia e già era un altro corpo fra tutti quelli che popolavano le sue ore con me. Dopo cena, poiché mio padre aveva annunciato che voleva parlarmi, Gérard uscì con ostentazione. Mio padre sedette e m'indicò una sedia, ma io preferivo rimanere in piedi. Mi chiese di tornare a Parigi per andare a iscrivere Gérard, così lui avrebbe potuto continuare a studiare: in cambio, mi offriva un concerto d'un complesso inglese che non capitava mai in Francia. Feci ricorso a tutte le argomentazioni possibili e immaginabili: la bellezza del posto in cui eravamo, i bagni, quanto fosse spossante una giornata estiva in città. Lui replicò che Parigi era deserta, e io ribattei che a Parigi si soffocava e che le tournée dei cantanti anglosassoni finivano sempre con manifestazioni di follia. E poi quel sommovimento nell'acqua cheta delle vacanze... «Se è per questo», disse mio padre, «puoi andare a finire le vacanze in Corsica, te lo sei proprio meritato. » Tutta quella gentilezza, quella sollecitudine nascondevano l'idea assai precisa di separarmi da Gérard, e i mortai di mio padre, entrati troppo presto in azione, avrebbero ormai sparato soltanto a vuoto sulla mia decisione di non muovermi. Ma non dovevo tradirmi. Feci il finto tonto. Lui non sospettò nulla e io raggiunsi Gérard nella sua stanza, ove si struggeva per l'ansia. Tutto ciò succedeva perché i nostri padri non sapevano con certezza quel che ci univa veramente nonostante loro, nonostante la vita, sotto un tetto che essi stessi avevano scelto da lunghi anni per alloggiarci insieme, come se il loro ruolo in questa storia d'amore fosse quello di confidenti ciechi e sordi. Cosi, non avrei abbandonato mio cugino ai torpori di una provincia maledetta, come lo sono tutte, in estate, con le loro case dalle imposte chiuse, le chiese nere, l'immobilità di necropoli. Rimanere con Gérard in quel paese morto sarebbe stato un piacere, avevamo bisogno soltanto di noi stessi. Come tutti i piaceri, lo sentivo così intensamente che scomparve subito, e non seppi confidargli nulla di quella felicità, ora che avrei potuto fargliela condividere. E desiderio m'aveva già ricompensato. Succedeva spesso così, nei gesti più comuni: toccare il corpo di Gérard allontanava l'immagine di Gérard abbandonato alle mie carezze, insinuare la lingua fra le sue lab bra m'appariva come un gesto folle. Poi tutto riprendeva la sua forza primitiva, le labbra di Gérard la loro dolcezza e la sua faccia fra le mie mani l'espressione brutale che aveva quando godeva. Scoprivo un ragazzo nuovo ogni volta e ogni volta il mio corpo s'annientava in un ragazzo sconosciuto. Avevo paura di perderlo. Quando mi chiese che cosa aveva deciso mio padre, non risposi, qualcuno che non conoscevo s'impossessò di me nel profondo di me. « Spogliati », gli dissi dolcemente, « soltanto per vederti. » E, quando quel corpo fu alla mercé delle mie mani e dei miei occhi, ammirai a lungo la forza che mi si offriva. Lui mi guardava dritto in faccia e, dato che non mi muovevo, abbassò lo sguardo, un lieve rossore gli coprì le guance, il suo respiro si fece più rapido. « Che cosa vuoi? » mormorò. Io non risposi. Allora, di colpo, la statua fu ai miei piedi. Non posso esprimermi in altro modo. Mi cinse le cosce con le braccia e vi nascose il viso. Io lo sollevai, tenendolo per la nuca, fino all'inguine. Lui mi poggiò le mani aperte sul petto.
« Hai mani da ragazza », dissi apposta, ridendo, ma non era vero e lui mi tese l'ampio palmo. « Di' che non è vero », implorò. « Di' no, di' no. » Era con sotterfugi di tal fatta che ottenevo da lui quel che volevo. La sua bellezza era instabile, soggetta a tutti i mutamenti, cupa di colpo e di colpo splendente, in un istante di malinconia o negli ardori del piacere. Perché pensai questo? Nessuno può ricordare meglio di un ragazzo che rivà con la mente a tutto ciò che ha fatto e che ha amato. Ne rivede soltanto l'essenziale. Tutte le sue passioni sono elementari, serba di esse soltanto le immagini perfette. Rivivevo così i minimi atti di questa storia e mi bastava un attimo di silenzio nel fondo di me per «avere» d'un tratto la forma delle dita di Gérard su una pagina di libro, una macchia d'inchiostro sulla sua guancia, la forma precisa del suo corpo sulle lenzuola. Ebbi la sensazione che fra me e il resto del mondo s'innalzasse una muraglia che arrivava fino agli astri, isolando me e mio cugino. La felicità era quel muro che ci proteggeva. Venne la sera del giorno in cui mio padre e mio zio partirono per Parigi. La casa divenne subito il paradiso. Quella notte la passammo nel fienile. Muniti di coperte, spiegammo a nostra cugina che era troppo caldo per dormire nelle stanze e che saremmo stati meglio all’addiaccio. Lei ci giudicò un po' matti, perché le notti talora erano fresche, ma non si oppose. La notte che ebbe inizio parve non dover finire mai. Uscivo dalle braccia di Gérard soltanto per ributtarmici, come un nuotatore esce dall'acqua e vi si reimmerge senza posa. Conobbi l'oceano delle carezze, la marea montante del piacere, i fondali oscuri della quiete; fermammo il tempo per lo spazio d'una notte; ci amammo come se avessimo i giorni contati... ma è tipico dell'amore fare sempre e soltanto gesti estremi. Mancava alla mia condizione d'uomo un linguaggio più vasto di quello delle parole e quello delle carezze. Verso le due del mattino, quando cominciava a rinfrescare, mi accorsi che Gérard era in lacrime. Tirando indietro il braccio intrappolato dalla sua nuca, gli sfiorai la guancia. Era fredda. Lui si voltò per nascondere il viso nell'incavo del gomito. Gli sollevai la testa a forza: Gérard respirava a fatica. Gli posi la fronte sul viso e le sue lacrime si schiacciarono contro la mia pelle. Lui si sentiva soffocare e cercava di sfuggirmi. Io lo strinsi più forte. Ero come pazzo. Le lacrime mi eccitavano, volevo quel dolore sconosciuto e improvviso, feci carezze più precise: lui le respinse. Lo schiaffeggiai. Non poteva parare i miei colpi; sapevo bene d'essere io il più forte. Colpii ancora. Nel silenzio notturno, quel rumore di univa come se stessimo facendo l'amore... La notte sta per finire, Gérard dorme, io penso. Che cosa aveva? Né le mie domande né le mie carezze erano riuscite a convincerlo a parlarmi. « Ti amo, tutto qui », mi diceva, e io credo che in effetti fosse davvero tutto, che sia tutto. Amare è una sventura e perfino il cielo più chiaro, per due amanti, è un cielo terribile. Abbiamo tre giorni interi prima che i nostri padri tornino. Ho il presentimento d'una disgrazia che s'approssima. Gérard dorme. Non è mai stato così bello; nel sonno ritrova un viso di bambino, e un filo di saliva lo unisce al suo giaciglio, quasi che quel legame sorto dalla carne sia il solo a tenerlo ancora attaccato alla terra. Dorme e la sua stanchezza mi tiene desto. Sogna e il sogno pretende che i miei occhi siano aperti. Io sono per lui l'amore e non so nulla di quel che vuole quando dorme. Quante notti simili dovrò affrontare in attesa dell'aurora! Siamo già infelici. Il nostro amore è un amore notturno, la sua notte è una notte troppo lunga e io amo troppo Gérard. Dio mio, vorrei morire! FINE DEL RACCONTO DI PIERRE
CAP. 7
IL RACCONTO DI GÉRARD
Dopo colazione, lasciammo subito la casa. Prendemmo il viale che portava al fienile. Non appena fummo abbastanza lontani perché non potessero vederci da qualche finestra, presi Pierre per la nuca, gli rovesciai la testa sulla mia spalla e lo baciai sulla bocca. Pierre è il più bel ragazzo che conosca; ne faccio quel che voglio. Quando cammino al suo fianco, mi sembra sempre di camminare al fianco di un esercito vittorioso: lui solo è diecimila uomini, ne ha tutta la baldanza... È fatto d'un tratto unico e continuo, più marcato attorno alle spalle, al volto, alle cosce, più sottile in vita, come se in mezzo a tutta quella carne robusta occorresse, nell'ansa delle reni, la dolcezza degli atleti a riposo che tanto spesso conferisce ai loro fianchi una grazia femminea. Ha testa di romano, occhi azzurri, capelli bruni. Io sembro più dolce, ma fra noi due sono io il bruto, lui è calmo. I capelli accuratamente pettinati gli ricadono suo malgrado in lunghe ciocche brune sulle tempie e sulla fronte. Mi piace provocarlo fino alle lacrime con una noncuranza in cui sono maestro, e un attimo dopo faccio di tutto perché dimentichi un comportamento che lui mi perdona sempre per l'ultima volta. Mi vendico in tal modo del mio amore, perché io detesto colui che amo e che mi fa sentire schiavo e padrone, e quindi doppiamente esposto alle incostanze di un potere e di una sottomissione. Amo Pierre più di quanto chiunque potrà mai amarlo. Ho un bell'essere cattivo, cedere ai miei impulsi barbarici, arriva sempre il momento in cui tutto è vano contro l'amore. Baciai dunque la bocca di Pierre. Dapprima sentivo il lieve soffio di rilassamento quando schiudeva le labbra, e molto più tardi, dopo le carezze misteriose dei volti chini l'uno sull'altro, il secondo soffio, più pesante, della creatura tornata in sé, che respira per ritrovare la propria libertà. Ricominciai dieci volte, e, senza che lui facesse un solo gesto, lo abbracciai e lo trascinai verso il fiume, nel posto in cui c'eravamo amati per la prima volta. Senza volerlo ritrovai lo stesso luogo. Ci sdraiammo sull'erba e dormimmo l'uno contro l'altro, così strettamente avvinti che la più piccola fogliolina non sarebbe riuscita a infilarsi fra i nostri corpi. Al risveglio, eravamo entrambi l’immagine del desiderio. Guardavo con tanta attenzione il viso di Pierre, che fui spaventato, all’approssimarsi del piacere, dal dolore improvviso che vi si leggeva, al punto che per un attimo lo credetti morto, non fosse stato per la pupilla splendente sotto le ciglia socchiuse e per il gemito che schiudeva le sue labbra; poi, insieme, perdemmo coscienza, perché, sebbene non avessi smesso di guardarlo, un velo nero mi offuscò la vista tutt'a un tratto e rividi soltanto dopo un po' l'albero che ci riparava uscire da una bruma splendente e ri prendere i suoi movimenti e i suoi colori. Il volto di Pierre era un altro, i suoi zigomi brillavano, l'amore gli aveva gonfiato le labbra: la sua era l'aria insolente di chi ha goduto. Erano le sette quando decidemmo di far ritorno a casa. E la casa era vuota. Sedemmo in salotto e Pierre afferrò la prima rivista che gli capitò a tiro. Non volevo che se ne stesse in silenzio,
così gli tiravo le pagine, gli facevo saltare il foglio dalle mani, fino a quando, stanco per la mia insistenza, capitolò e acconsentì a darmi ascolto. Ecco ciò che gli dissi: « Pierre, amico mio, lei legge davanti a me, e ciò è sconveniente. Anzitutto ho diritto a un maggiore rispetto; in secondo luogo, lei è qui per tenermi compagnia... sicché la condanno a due baci... » Lo costrinsi a porgermi la bocca, dal momento che lui tentava d'opporsi a un piacere obbligato. Si difese più debolmente e io ebbi le sue labbra. In quel momento mio padre, che non avevo sentito arrivare, entrò. Mi alzai così bruscamente che fummo subito rassicurati da un: «To', eccoti qui... » Non ci aveva visti. « Sì siamo qui e aspettavamo che vi degnaste di scendere a un convito di mortali... » Quell’ironia non gli andava a genio; non rispose, ma mi lanciò occhiate furenti. La notte gli avrebbe portato saggi consigli.. Del resto avevo colto, qualche giorno prima, una conversazione fra i nostri padri e alcune anime misericordiose, personaggi insignificanti e infiacchiti dalla provincia, dove tutto ciò che non è finanza e Legion d'onore offre il solo interesse della maldicenza. Per loro, il denaro sostituiva la bellezza, e, se avevano qualche titolo in borsa, anche i rappresentanti più odiosi della specie umana venivano giocoforza promossi a esteti o geni, mentre condannavano il nostro amore perché avevamo diciassette anni e un bel musetto! Tutta quella gente aveva paura di ciò che non possedeva, nella commedia di un'esistenza fastosa in cui per amare occorrevano un letto Luigi XV e lenzuola di seta rosa, e così scaricava su quella passione i torrenti di una bile che in lei sostituiva il sangue. Da quella conversazione ascoltata di soppiatto, dietro una porta, seppi che i miei sentimenti per Pierre, per celati che fossero, erano più che evidenti agli occhi degli altri, poiché i nostri sguardi parlavano per noi. Gli innamorati sono così presi del loro sogno che esso scaturisce da loro come il getto di una fontana e che, senza volerlo, sommergono d'amore tutto ciò che li circonda. Così i nostri padri poterono valersi, per capire, dei commenti di quei deliziosi amici che s'erano presi la briga di dipingere il mio ritratto con un nero così nero che la notte stessa poteva sembrare, al confronto, radiosa: Pierre appariva come un balordo posseduto da Satana. Io mi feci un vanto di fronte a lui del fatto di avere nemici con attenzioni tanto delicate da scusare il mio amore. Pierre si preoccupò, ma trascorsero parecchi giorni e nessuno parve guardarci con occhio particolare. Come al solito, di notte stavamo insieme passando per le finestre, e il nostro piacere conobbe l'intensità delle cose sulle quali la minaccia grava con la sua zampa di leone addormentato. Fu l'indomani - e forse perché li avevo presi in giro invitandoli a un convito di mortali, quasi che loro troneggiassero in qualche Olimpo e io volessi vederli tornare con i piedi per terra - che i nostri padri scatenarono l'offensiva. Finita la colazione, quello di Pierre lo chiamò e gli propose qualche giorno a Parigi per diceva - iscrivermi alla maturità, comprarmi alcune traduzioni di Tiro Livio, e assistere a un concerto dai risvolti sicuramente fantastici. Pierre giocò d'astuzia, rifiutò, rimase. Avevamo due giorni, prima della loro partenza, perché partivano entrambi per Parigi, dove li aspettavano affari urgenti: loro, dicevano, non avevano a disposizione tre mesi d'ozio. Incassai con indifferenza quell'osservazione perfida. Era soltanto il primo assalto, del resto. I miei incisivi avevano abbastanza mordente da farmi temere gli attacchi di quel genere. La maggior parte delle volte, così, preferivo evitare una disputa in cui alla fine, per sottomettermi, si faceva ricorso ad altre armi: una punizione, per esempio, dato che a mio padre piacevano le prove di forza. Il secondo attacco ebbe come teatro d'operazioni la stanza da bagno e per obiettivo la mia pigrizia. Ero nudo, l'indomani mattina, ancora gocciolante d'acqua, e mi stiracchiavo lasciando pozzanghere in ogni dove. Pierre, già vestito, si pettinava davanti allo specchio. Mio padre non veniva mai in quella parte della casa, ma quel giorno entrò. La mia è un tipo di bellezza abbastanza insolente da richiamare gli sguardi e trattenerli su di me se per caso sono nudo. Mio padre mi
ammirò: forse rivedeva se stesso nell'adolescente dalle cosce larghe e dalle gambe forti, forse ravvisava anche la donna che aveva amato nella finezza della mia pelle e nella mia vita sottile. Anche Pierre mi guardò, e il suo sguardo mi lusingava e mi diceva che sarei stato suo, come lui sarebbe stato mio, non appena mio padre fosse uscito di lì. Ma costui non pareva intenzionato a farlo; io non mi ero mosso, l'acqua mi imperlava il petto e a ogni istante una goccia mi scorreva dal ventre alle cosce andando a perdersi fra i riccioli bruni del sesso. Mio padre urlò. Il furore aveva ragione dell'estasi in cui l'avevo immerso? « Esci Pierre », disse. « Anzi... no, rimani pure. » Si rivolse a me: « Piccolo mascalzone, ti comporti come una sgualdrina. Passi ore ad ammirarti, ti stiri, ti gingilli nel bagno e i libri ammuffiscono sulla scrivania. Tu te ne freghi di tutto, sei un perdigiorno! Ma adesso ne ho abbastanza: te ne vai in un collegio sino alla fine del mese. Va' a preparare le valigie; svelto, su... » Io non mi mossi. Pierre fece per aprir bocca. Mio padre lo fermò: « No? Non ti muovi? Vuoi che ti dia una mano? Ti do un minuto e poi ci penso io... » La statua di Lot non era più immobile di quanto lo fossi io. «Te la sarai voluta», urlò mio padre. Torcendomi il braccio, mi costrinse in ginocchio, mi colpì sulla bocca con un manrovescio e, prima che potessi intuire che cosa aveva in mente, mi abbatté sulla sua coscia. Davanti a Pierre, mi sculacciò con tutte le forze. Il suono delle sue mani sulle mie natiche nude lo inebriava. Pierre mi confessò più tardi d'aver vissuto un sogno. La risonanza dei colpi mi riempiva di vergogna: alla mia età e di fronte a mio cugino, avrei preferito essere preso a pugni, ma non mi di battei. Mio padre picchiava forte e si soffermava con la mano perché il dolore avesse il tempo di im possessarsi delle mie natiche, e questa tecnica produceva un rumore d'inferno. Dopo una ventina di sculacciate, ero percorso da una linfa bruciante e quella linfa diffusa nelle mie cosce risaliva voluttuosamente lungo la schiena, ramificandosi nei fianchi per poi sgorgare, in lunga e dolorosa carezza, dalle punte del mio petto. A poco a poco la violenza dei colpi diminuì, nel momento in cui la mano cominciò a fargli male, mio padre dimenticò il proprio risentimento. Osservando un silenzio solenne dopo quel clamore, uscì in un modo tale da dare l'impressione d'essere imbarazzato per avermi inflitto di fronte a mio cugino una lezione tanto umiliante e che non era immune da una certa oscura impurità. Fino all'esame, comunque, non mi avrebbe più parlato di collegio. Rimasti soli, guardai Pierre. Avrei accettato le botte per gioco, ma essere mortificato a quel modo mi riempiva d'indignazione. C'era mancato poco che rispondessi a suon di pugni. Mio padre aveva cercato di fare a pezzi la mia statua, io tornavo a essere la piccola canaglia che va presa a cinghiate, avevo di nuovo dodici anni, non diciassette. Davanti allo specchio, mi voltai macchinalmente per vedere se ero rosso. Le mie natiche luccicavano in un modo così provocante da serrarmi la gola e farmi ronzare le orecchie. Pierre s'avvicinò, si lasciò cadere sull’ammattonato e posò la gota fresca contro quella carne ardente. I colpi vi avevano lasciato le impronte delle dita. Per circa cinque minuti Pierre continuò a stringermi così, dimenticando forse che non era la mia guancia a posare contro la sua, perché d'un tratto vi schiacciò le labbra e io diventai dalla testa ai piedi un immenso bacio: la voluttà di quella carezza la amplificava su tutto il mio corpo facendole seguire la stessa strada che aveva percorso il dolore quando mio padre mi picchiava. La mancanza di allusioni a quanto era successo ci fece capire che mio padre e mio zio non avevano concertato azioni comuni. Le colazioni seguivano un andamento da tragedia. Pierre e io rimanevamo muti, nostra cugina se ne stava immobile come una guardia o una confidente. I nostri padri parlavano del più e del meno fino al dessert: era quello il primo atto. Al dessert, gli argomenti diventavano indiretta-
mente personali, ma era inevitabile che le idee lanciate in aria ricadessero sulla testa di qualcuno. Pierre continuava a fare orecchie da mercante. Io rispondevo in sintonia con lui, con svogliatezza. Spesso scoppiava la tempesta, come vogliono le buone tradizioni dell’atto secondo. Era il caso, allora, di darsela a gambe. Il più delle volte ci riuscivamo, sicché il terzo atto non aveva luogo. Quel giorno fu impossibile: fummo pregati di prendere il caffè e ci vedemmo offrire sigarette bionde. Io ero tentato: accettai. Pierre m'imitò. Entravamo nella gola del lupo, però lo sa pevo e mi ripromettevo di spezzare qualche dente qualora fossi stato morsicato. Le conversazioni affabili non mi andavano troppo a genio, preferivo sinceramente un buon sermone: perlomeno in quel caso si conosce il momento in cui ci si può prendere la libertà di mettersi a pensare ai fatti propri. Il tono era troppo mellifluo perché non ci fosse sotto qualche trappola. Era un po' il modo di catturare gli elefanti in Congo: frutti sopra una fossa nascosta da tenera erba. Non ero una bestia così ottusa da farmi abbindolare da qualche fiore di retorica. Ci parlarono di tutto quello che si sarebbe fatto in ottobre, noi dovevamo dire dove avremmo preferito andare: non sarebbe stato bello se io fossi partito, mettiamo, per l'Inghilterra? Una lingua viva la si impara sul posto. E, a meno che non volesse seguire me, perché Pierre non se ne andava a Roma? Avrebbe avuto un anno davanti a sé, all'università, per decidere quale strada prendere. Insomma, tutto su questo tono. Avevo una tremenda voglia di battere le mani, ma in fin dei conti io ero antagonista, non spettatore. Pierre rispose che doveva riflettere, che avrebbe riflettuto, anche se sarebbe stato meglio aspettare l'esito dell'esame. Era un eccellente dialogo, Narciso si sarebbe trovato perfettamente a suo agio. Era necessario uno scioglimento: ci pensai io. Dichiarai che accettavamo, Pierre e io, di passare un anno a Roma: era un'idea meravigliosa come solo i padri possono averne; inoltre, sarebbe stato un ulteriore incitamento a superare l'esame d'ottobre. Mi rimanevano tre settimane, mi pregiavo dunque di ritirarmi per immergermi in un'altra anabasi. A quel punto, in Shakespeare, si legge di solito: Exit. Fu quel che feci, prima che potessero riaversi dallo sbalordimento. Il resto non si può descrivere. Pregarono Pierre di farmi cambiare idea, avevano trovato il modo di risolvere tutti i problemi: io sarei rimasto a Parigi con loro; mia cugina avrebbe accompagnato lui in Italia. La cosa fu annunciata in un tono che non ammetteva repliche; mio padre, Burro, e il suo, Seneca, si dettero il cambio: loro avrebbero covato il mostro e lui, Pierre, si sarebbe ritirato presso non so quali vestali. Calò il sipario, la recita era finita. Erano sicuri di loro stessi, e in tal modo s'assicuravano il futuro. Quell’estate così chiara s'addentrava per me in un settembre fosco; l'estate passava, di lì a pochi giorni non avremmo più parlato di vacanze se non con quel grido crepuscolare: « Ti ricordi, l'estate scorsa... » La felicità s'insediava in una casa apparentemente pacifica, ci mostrava la bellezza, sognava con noi, dormiva con noi, aspettava e, giorno dopo giorno, in modo inavvertibile, ci lasciava, e noi ce ne saremmo accorti solo quando ci avesse detto addio. Era già troppo tardi: l'estate passava. Chi mi avrebbe dato la facoltà di tornare indietro? Il mio avvenire era oscuro, a diciassette anni si ha la forza ma non si hanno i mezzi per lottare. E, fino a prova contraria, tutto è permesso tranne l'amore. I nostri padri partivano l'indomani all’alba, in macchina, per Parigi; dovevano firmare certi documenti e occuparsi della loro vita privata. Non li preoccupava il fatto di lasciarci ancora insieme, dato che non sarebbe stato più per molto. Allora, un’idea si fece strada nella mia smania di libertà: Pierre e io saremmo scappati, oppure mi sarei ucciso. Mi piaceva - tipico della mia età - quell’idea della morte, sotto tutti i suoi aspetti grandiosi e romantici, inverno, incendio, burrasca, tutto ciò che distrugge di colpo, ma disprezzavo le morti dolci, l'autunno, i suoi crepuscoli scialbi, le sue erbe secche, le sue foglie condannate. L'indolen-
za delle ore addensava il sangue, così come invadeva il sottobosco con una molle e tiepida putredine, volendolo acquatico, incolore, ma con quell'oscuro precipitato di vegetali franti dal vento. La vera morte, l'inverno, gli avrebbe restituito il suo vivo splendore di gemma liquida; nell'attesa, doveva schiarirsi, appesantirsi, rinnegare la primavera. Io ero nato in primavera, l'epoca in cui i giovani si uccidono: non sopportavo ottobre, mese di calma, mese rosso, ma di un rosso soverchiato da troppo oro per poter anche soltanto ricordare la ricchezza del sangue. Maggio era il mese scarlatto... Faceva caldo come in agosto, perfino di più; nondimeno, qualcuno in me aveva freddo. Aspiravo a un'altra primavera. Pierre avrebbe compreso quella fretta immotivata: non gli piaceva aspettare e l'autunno era una lunga serata d'attesa, lunga e triste. Noi indugiavamo nelle vacanze, ma le vacanze erano già finite nel momento in cui la luce settembrina aveva scacciato l'ultima notte d'agosto. Settembre non era l'autunno, era di più, era il desiderio dell'autunno; presto avremmo dovuto contare i giorni, e, di ora in ora, gli ultimi sarebbero stati invisibili. Come invidiavo le cose immaginate! Avrei voluto vedere i mesi che sarebbero seguiti, conoscere il futuro limitatamente a quello che riguardava il mio amore. Il resto della terra poteva anche scomparire, me ne infischiavo, Pierre era il mio universo! Per una volta riflettei, cosa che di solito mi spazientiva; usando l'istinto come logica, seguii la spinta della necessità e scesi al fondo di me stesso. Tutto ciò che l'immaginazione architettonica aveva potuto ideare in fatto di loggiati, di sale sospese, di scale, era una bazzecola confronto allo sconvolgimento del mio spirito. Domare il corso del mio sangue sarebbe stata una sfida per i costruttori più ingegnosi, perché quel torrente aveva come forza l'amore, la rabbia dell'amore, i sogni dell'amore; come voler far evaporare l'oceano! Io ci riuscii. Pierre era affranto, la sua disperazione si trasmetteva anche a me. In qualsiasi altro momento avrei riso di lui, l'avrei trascinato su un letto perché l'amore gli prodigasse la sua forza e togliesse dal suo corpo tutto ciò che l'opprimeva, ma ora volevo che sprofondasse nella paura, che sentisse fino alla nausea l'inutilità dei battiti del suo cuore, che ascoltasse il passo misterioso del suo sangue crescergli senza fine nelle tempie fino all'ora in cui un grido l'avrebbe gettato fra le mie braccia e l'avrebbe indotto a compiere perfino un delitto, qualora il sangue fosse stato il prezzo del nostro amore. Non dovetti aspettare molto. L'indomani all'alba i nostri padri partirono. Dormivo quando, amplificando ogni rumore, l'alba portò fino alla mia testa lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia, il rombo ovattato dell’automobile e, non appena fu aperto il cancello, quasi che la natura fosse stata in attesa di quel segnale, canti di galli, fischi di treni, clamori dei primi uccelli, tutto nel frastuono del silenzio, perché il silenzio era d'una tale intensità che martellava le tempie. Gli azzurri argentei dell'alba mi lasciavano freddo; nondimeno, quella partenza li faceva belli. Pierre era sveglio; aprimmo la porta perché potesse tornare nella sua stanza nel caso che la scala ci avesse annunciato qualche visita. Non accadde nulla; allora, dal letto, contemplammo il cielo. La macchina s'allontanava sulla strada; la sentimmo per qualche minuto e fu tutto. Diventò un rumore della campagna. Ci amammo, eravamo soli... Eravamo soli come se vivessimo insieme, entrambi maschi, senza alcuna complicazione femminile fra di noi. Ciò era reso possibile non tanto dalle debolezze di un sentimento per il quale tutto era notte, quanto da un attaccamento virile fatto di cameratismo e d'amore, e che ci univa nei momenti consueti della giornata attraverso i mille legami delle frasi, delle impressioni comuni, degli screzi e dei sogni. M'aspettavo troppo dal nostro isolamento per essere deluso: ero certo che avremmo scovato le macchinazioni necessarie ad aprirci una via di scampo. Tre giorni sembravano pochi: erano fin troppi per due ragazzi decisi a essere liberi e ad amarsi. Dalle ore di studio eravamo arrivati a poco a poco, senza riconoscere l'intransigenza d'una pas-
sione, e attraverso i meandri delle giornate oziose, a passare insieme, da soli, una parte sempre più considerevole di tempo; poi, come se non ci bastasse più, dato che pretendevamo non più ore, ma giorni di presenza, vivemmo le notti addormentati l'uno accanto all'altro, nell'estasi di una vita in comune. Guardavo Pierre mangiare, portare un bicchiere alla bocca, aprire un libro, riposare, e i momenti più semplici dell’esistenza mi rivelavano la più intensa felicità. La notte, una maschera di sudore mi ricopriva il volto; Pierre l'asciugava e mi guardava dormire. Quante volte, destato da non so quale di quegli istinti che sotto le apparenze della bestialità favoriscono i moti più appassionati del cuore, m'era successo d'aprire gli occhi per leggere nei suoi che stava custodendo un tesoro e che quel tesoro era il mio sonno! Non potevo credere che un giorno saremmo invecchiati, e tuttavia avrei riso se qualcuno mi avesse detto che, in verità, non avevamo futuro. Alle nove ci alzammo; alle dieci uscimmo diretti in città. Avevo chiesto a Pierre tutto il denaro di cui disponeva e vi avevo aggiunto quello trovato da me nella scrivania di mio padre, perché, per quel che mi riguardava, le mie tasche erano sempre vuote da quando ero stato rimandato. Evidentemente pensavano che quelle vacanze fossero già un regalo e, quanto ai soldi per le spesucce quotidiane, ritenevano che fossi il tipo che si fa mantenere dalle ragazze, almeno prima delle confidenze delle vecchie arpie della zona. Pierre aveva una moto; avremmo trovato della benzina in garage, ma ci occorrevano una carta stradale e degli zaini, più pratici da portare che le valigie. Preparammo la nostra fuga. Ad Amboise non dovemmo cercare a lungo, la fortuna ci sorrideva: nel primo negozio in cui entrammo trovammo gli zaini, proprio così eleganti come li avevo immaginati. Anche nella fuga, la bellezza non perdeva i suoi diritti. Avevo portato con me un pacco di libri che mi fruttarono, grazie ai miei sorrisi, un po' di denaro, sebbene in verità non interessassero poi tanto la li braia. Il fascino era il nostro secondo alleato. Pierre rivendette i dischi col pretesto che ne aveva troppi, e la mia presenza al suo fianco turbò quanto bastava il commesso perché non gliene pro ponesse altri. Acquistammo anche un coltello da combattimento per Pierre e fummo di ritorno all'ora di colazione. Avevamo ancora seimila franchi, un orologio da collezione e un anello che avevo rubato a suo padre. Il pomeriggio fu breve; provammo il coltello tagliando dei rami e, con questi, fabbricammo delle spade per batterci, da quei bambini che talvolta eravamo ancora. Feci sanguinare Pierre dal polso. Subito lui s'infuriò e tentò di colpirmi con forza. Io parai a stento, ma le nostre armi si spezzarono proprio nel momento in cui ero certo che stesse per sferzarmi in viso. « Non credere di cavartela così », disse. Il sangue che usciva non era molto, ma il punto in cui l'avevo colpito si stava gonfiando e diventava blu. Quante volte si vendicava se per caso, giocando, lo avevo appena scalfito! Non capiva che non lo facevo apposta, mi rinfacciava quella crudeltà e s'indignava per il fatto che venisse da me. E se, quando lui si divertiva a prendermi a schiaffi, la notte, mentre facevamo l'amore, io mi fossi rivoltato e gli avessi spaccato la faccia! Scacciavo dalla mente quelle immagini; sì, l'amore mi aveva fatto diventare vile e io avevo deposto ai suoi piedi la mia fierezza di ragazzo come un manto regale. Ecco perché poi mi mostravo così insolente alla luce del sole! Ci evitammo fino all'ora di cena, quando l'atmosfera gioiosa, sotto la veranda, al lume di candela e in mezzo alle piante verdi, rasserenò Pierre; al suo primo sorriso, sorrisi anch'io. La sera era opprimente, forti lampi solcavano il cielo, seguiti a breve distanza da lugubri brontolii nessuno dei quali, però, squarciava l'aria.
Il ventilatore spettinava Pierre, che ogni momento si passava la mano nei capelli; mia cugina raccontava storie fantastiche, ma c'era ancora un po' di luce, sicché non ero troppo spaventato. Molto tardi le augurammo la buonanotte e, adducendo a pretesto il caldo, le assicurammo che nel fienile avremmo dormito molto meglio. Ci raccomandò di coprirci bene contro il fresco dell'al ba, perché temeva che potessimo essere sorpresi dal temporale. Muniti di una coperta ciascuno, raggiungemmo il fienile. Non c'era luce: mi svestii e mi gettai nudo, a pancia in giù, sulla coperta buttata alla bell'e meglio sulla paglia. Pierre si distese al mio fianco, rimanemmo abbracciati per ore, poi lui si assopì e, nel momento in cui capii che stava per addormentarsi, venni colto da una grande tristezza. Lottai contro le lacrime, ma queste mi salivano a ogni sospiro dal cuore fino in gola, e ogni volta che respiravo dalla gola alle palpebre; piangevo di solitudine accanto all'essere che chiamavo il mio amore. Allora, forse destato da un tuono, forse ancora in lotta con le insidie della notte, Pierre mi sfiorò il viso e s'accorse delle mie lacrime. «Che cosa c'è, Gérard? » Voleva sapere a ogni costo, mi afferrò la testa, mi scosse: io rimasi in silenzio. Lui si sollevò di più, mi rovesciò la fronte cercando di baciarmi sulla bocca. Io strinsi le labbra; fremente di desiderio, mi allargò le ginocchia, mi prese la verga in mano. Io lo respinsi rudemente. Senza lasciarmi, lui mi schiaffeggiò come non aveva mai osato fare; le lacrime non lo arrestavano; fu sorpreso del mio coraggio, ma, se avesse saputo quanto mi era indifferente il dolore, avrebbe cercato di lenire un'altra pena, quella che mi lasciava non appena lui non dormiva più. « Che cos'hai? » ripeteva, « perché queste lacrime? Dimmelo, ti supplico. » Ma io sprofondai nella solitudine; a scatti, come un annegato. Ebbe un bel supplicare, farsi tenero, esigere, io rimasi muto. Mi piaceva la calda impazienza delle lacrime. Nel momento in cui mi chiedeva di nuovo: «Che cos'hai » in un sussurro, gli urlai la ragione della mia sofferenza: «Ti amo, tutto qui». Parve non capire. Io sapevo bene che era im possibile descrivere un dolore che è fatto di troppa felicità. L'amore è un disastro. Pierre poteva adorarmi. Pierre poteva inseguirmi fino al cuore del sonno, Pierre poteva volermi come si vuole un corpo che si ammira, ma non sarebbe riuscito a raggiungermi se soltanto io avessi chiuso gli occhi per pensare alla notte, al vento in giardino, alla malinconia d'una passeggiata nel buio. C'era un muro di carne fra noi, e in quel muro l'amore si rifugiava col suo grido d'uccello ferito, come il pettirosso dei muraglioni. A mano a mano che il tempo passava, benché il nostro sentimento non potesse accrescere la sua forza essendosi abbattuto su di noi con la violenza del fulmine sull'albero, l'amore trasformava ogni mattina e ogni sera in altrettante pietre bianche con cui pian piano innalzava il proprio tem pio. Con le sue percosse, Pierre mi asserviva, mentre avrei dovuto fuggirlo. Al principio, ero abbastanza crudele da sopportarle, poi troppo crudele per non trarne piacere e non desiderare di renderle, infine superbamente crudele da volerle. A Pierre piaceva moltissimo picchiarmi, quell'offesa m'ingigantiva ai suoi occhi, perché lui sapeva che è possibile picchiare soltanto gli uomini. La mia forza trovava nelle percosse il proprio orgoglio, il mio orgoglio vi trovava la sua voluttà. Più ancora che i colpi sulle natiche, a me piacevano, per il rumore che producevano, le botte sulle spalle e le botte sulle gambe. Queste erano le più dolorose, bisognava mordersi i pugni per non urlare. Pierre indugiava soprattutto sulle cosce perché diventavano vermiglie e il loro colore, quando si rotolava su di me, lo spingeva a godere. Ai primi colpi, cercavo di ascoltare soltanto la cintura che schiaffeggiava l'aria, mi costringevo a contare i secondi per dimenticare la mia posizione umiliante; poi, immaginavo me al posto di Pierre e lui sdraiato alla mia mercé. Ero lui sotto la frusta. Allora, riconoscevo la sovranità dei colpi, mi abbandonavo a essi, tendevo il corpo perché meglio segnassero la mia carne.
La cosa andava avanti; quando non fremevo più, Pierre mi passava la mano sulle spalle e sulle natiche, riprendeva la cinghia, mi frustava ancora. Il respiro usciva da lui con la violenza dello sperma. Lo chiamavo, chiamavo il suo corpo, volevo possederlo; ma per lui non c'era altra conclusione che entrare in me per essere me. Il suo cazzo mi faceva un male atroce, gli mordevo il braccio, lui mi affondava i denti nel collo e mordeva fino a farlo sanguinare. La mia gioia a poco a poco superava quell'efferatezza e quando, con un grido, mi aveva annunciato il lampo del suo piacere, m'impossessavo a mia volta del suo corpo e gli facevo subire le stesse violenze. Di solito, lo sommergevo con le sabbie mobili delle parole. Era il mio modo di lottare contro la paura. La paura era il mio dramma; avevo paura di invecchiare. Non di perdere la morbidezza della pelle, la freschezza della gioventù, ma paura di quello che saremmo diventati. La gente non m'interessava: la società e tutti i suoi intrighi non portavano a nulla, non significavano nulla, insomma non erano nulla. Io evadevo nell'amore, e la morte dimorava in ogni mio atto. Ero circondato da lei: una finestra, un tubetto di sonnifero, un coltello me la offrivano di continuo. La mia vita era fatta di morti rifiutate. Questo stabiliva il prezzo del mio amore. Pierre lo sapeva senza che gliene avessi mai parlato. Le mie parole lo inebriavano, lui mi supplicava di restare calmo, ma quando lo ero allora temeva il silenzio. Così dovevo parlare a Pierre di futuro, di passione, della nostra vita condivisa, e lui mi nascondeva la morte, e gli abissi dell'amore si opponevano agli abissi del vuoto... Verso le tre del mattino, dormivo della grossa, senza rendermene conto. Pierre era sveglio. Feci un sogno che esitai a raccontargli, l'indomani all'alba, per non spaventarlo. Ero sotto un melo ai bordi d'una Strada deserta, in pieno pomeriggio, e mi usciva sangue dalle ginocchia, colava sull’asfalto. Ero ferito. E il viso di Pierre era sul palmo della mia mano, disegnato con il sangue, labbra e occhi chiusi. Era morto. Dovevo essermi mosso parecchio durante quell'incubo, perché Pierre mi asciugò più volte la faccia. La notte fu il suo supplizio e, quando giunse il mattino con i suoi pallori di ragazzo vergine, era trascorso un giorno dalla partenza dei nostri illustri papà. Avevamo trovato una soluzione ai nostri problemi: avremmo aspettato l'ultimo giorno e saremmo fuggiti. Non era un mito, ma soltanto le leggende hanno una pienezza d'amore di tal fatta. Eravamo Tristano e Tristano, Romeo e Romeo, amanti e innamorati, pronti ad affrontare qualsiasi sventura. Tempo e uomini non potevano nulla contro di noi, e il futuro ci offriva tristezza, povertà, solitudine di fuorilegge, che ai nostri occhi diventavano la ricchezza, perché c'erano, in esse, gli slanci instancabili della passione. Avevo alle spalle una notte di tristezza e non volevo Più che un istante potesse allontanarci l'uno dall'altro; stavamo per partire insieme per sempre... Del resto sapevo, nel più profondo di me stesso, che per ritrovare ciascuno la libertà dell’anima non avevamo più altra risorsa che la morte, ammesso che questa possa separare coloro di cui il destino si diletta a unire in un solo abbraccio i volti simili, come, nel tempio della guerra, i due volti di Giano.
CAP. 8
Il sangue mi aveva sempre affascinato. La vita, il dolore dipendono dai suoi movimenti. A esso si attribuisce la forza. Il suo colore diventa il colore della guerra, e l'amore ne tinge le pro prie armi, quasi che amare altro non sia che combattere. Le grandi storie di passione che avevano attraversato i secoli ne erano macchiate; e io portavo in me quei colpi di daga e quei baci di morte. Il cuore, che si ritiene sede del coraggio ed è il luogo in cui si tengono celate le grida di tenerezza, ha il solo scopo di drenare la sua violenza e risonare della sua musica sorda. Una mattina, Pierre stava finendo di lavarsi. Io mi pettinavo davanti allo specchio, o per meglio dire cercavo di domare alcuni riccioli ribelli. La luce entrava dalla finestra aperta e un albero ci investiva con l'ombra delle sue foglie, come volesse nascondere la nostra nudità. Non riuscivo a distinguere la mia immagine nello specchio, così come mi era impossibile descrivere esattamente il volto di Pierre quando chiudevo gli occhi. Ogni istante mi modellava un viso diverso, un'ora di sole gli dava splendore; un minuto di malinconia, profondità. « Tu sei venti ragazzi », mi diceva Pierre, « e io non so quale preferisco, forse un po' tutti insieme. » Lo specchio mi rinviava l'immagine di una persona irritante ch'io guardavo senza debolezza. Attorno agli occhi, un'ombra nera tradiva le mie notti, e gli zigomi arrossati dai morsi e dai baci accusavano Pierre, le sue tenerezze e le sue violenze. Lui gocciolava sotto la doccia e stringeva gli occhi a causa del vapore. Tutto il suo corpo splendeva: io gli invidiavo quella bellezza, perché fra i desideri di un ragazzo c'è sempre la voglia di possedere la bellezza dell'altro. Si asciugò e, quando gettò l'asciugamano sull’orlo della vasca, il suo corpo vigoroso si offri alle mie carezze tendendomi le braccia. Mi posò una mano sul petto, ne seguì i una curva, poi l'altra e si fermò col palmo sul mio fianco. L'altra mano sulla mia spalla, si chinò, mi posò le labbra sul petto e mordicchiò il disco bruno. Io lo respinsi. Andai a frugare nel disordine degli indumenti su una sedia e presi il coltello che avevamo appena comprato insieme. Pierre mi seguiva attentamente: eravamo troppo vicini l'uno all'altro perché non capisse subito che cosa stava per accadere. Rividi tutti i Pierre che avevo conosciuto, il bambino sognante dalla testa china sui libri, quello il cui viso inquieto sul fondo di una macchina m'era stato rivelato dal lampo imprevisto di un faro sulla strada... e di questa visione serbavo un ricordo così dolce che avrei potuto disegnare con il dito la curva della sua guancia, l'inclinazione della nuca, le ciglia socchiuse per celare la tristezza lucente del suo sguardo; c'erano poi la testa bruna schiacciata sul guanciale e il volto che vedevo da sotto in su quando s'abbassava sul mio per baciarne la bocca. Erano così numerosi che la stanza da bagno diventò presto troppo piccola: venivano tutti ad assistere al nostro scambio del sangue. Io offrivo quanto avevo di più vulnerabile, tutta la passione non tendeva ad altro che a quell'istante. Era soltanto un'immagine, ma se avessimo potuto divorarci l'avremmo fatto! Per amore di Pierre, chiedevo sempre di più a me stesso, e lui, per me, cercava di superarsi ogni giorno. Era proprio dell’amicizia estendere di continuo i nostri limiti; vivevamo al di là di noi stessi, e la gente, così incline al piacere, non ci capiva. Imparavo pian piano a non essere più l'ottava meraviglia del mondo, attorno a me vedevo soltanto l'ideale, mi coricavo per terra al fine di ritrovare la dolcezza delle sensazioni perdute dall'età dell’oro e se polte in fondo alla nostra carne.
Intanto, l'inquietudine non lasciava il mio cuore. Era forse un segno d'amore? L'innamorato ha bisogno della paura per accertarsi della propria passione, oppure quella febbre nascondeva il timore di destarsi tutt'a un tratto dal sogno e scoprirsi soli nel deserto della notte? Per giorni e giorni non riuscii a tollerare il pensiero di mettermi a tavola, la minima quantità di cibo mi disgustava: ero sazio d'amore. Altre volte, cercavo invano il sonno e per tutta la notte mi sforzavo di non muovermi fino a farmi venire i crampi, nel timore che Pierre si svegliasse. Mi avessero offerto la calma, io sarei andato senza tanto riflettere verso i tormenti, perché con quelli la mia vita era di gran lunga più bella e perché, pur se la sventura lo segue come un'ombra, l'amore è per l'uomo la sola ragione di vita, una vita in cui tutto quanto v'è di grandioso viene da lui, è fatto per lui, da lui e con lui. Tornai verso Pierre: tremava. Dovetti passargli più volte la mano sul corpo per calmarlo, pro prio come si accarezza un animale; quando mi sembrò meno nervoso, gli sfiorai la spalla con il coltello. Tutti quelli che in noi s'erano amati ci circondavano. Me li sentivo intorno in quella stanza immensa, e i loro lunghi mantelli color porpora erano un'unica piega rossa. Anche i loro visi sembravano immobili. Il palazzo era nero; una sola torcia brillava dietro di me. Pierre era nudo, io ero nudo. Attorno a noi c'erano il buio e quella folla di ragazzoni dritti come una foresta rossa. Una vasca di marmo nero era in attesa del sangue e faceva risaltare, attraverso il contrasto di tutto quel rosso e di tutta quell’oscurità, il pallore dei nostri due corpi. Il coltello balenò fuori dal fodero e il tonfo sordo del cuoio che cadeva per terra sovrastò il respiro più rapido di Pierre: senza por tempo in mezzo, gli afferrai il braccio. I nostri petti si urtarono, la sua bocca era socchiusa. La lama scivolò senza sforzo nel satin elastico della sua spalla e la punta, affondandovi, ebbe un'esitazione. La carne eruttò un fiotto rosso che serpeggiò sui muscoli. Il petto di mio cugino si fece ancora più duro. Mi gettai sulla ferita bevendo il sangue, succhiando con tutte le forze quell’elisir vitale che veniva dal suo cuore. Il sangue di Pierre era dolce e salso, m'inebriava colmandomi la bocca, poi, dopo averlo ingoiato, il suo calore m’intorpidì. Alla fine lasciai quella fonte d'ebbrezza: avevo in me il sangue di Pierre, era come se l'amore virile, attraverso un gesto che voleva misterioso, ritrovasse l'annientamento del proprio corpo nel corpo dell’amante, e al di là del sangue, al di là di quel cerimoniale delle religioni ctonie, l'offerta della madre che dà la propria carne per il figlio fatto della sua stessa sostanza e del suo stesso piacere. Nel nostro amore di ragazzo per ragazzo, c'era questo amore di madre, come c'era il desiderio dell'uomo di asservire l'uomo. Il sangue smorzava una sete che né la saliva di Píerre né il suo sperma, quando facevamo l'amore, potevano appagare del tutto, perché non si trattava più di uno dei desideri del mio corpo, ma della voglia di essere interamente i desideri dell'altro. Pierre era il mio sogno. L'assolutezza di un cuore di diciassette anni, la sua gioia, l'amicizia fino alla morte, la solitudine degli innamorati in un giardino, contro un muro o nel buio, la tristezza del ragazzo che ne abbraccia un altro, il bisogno di presenza, tutto questo era il sangue di Píerre. Per tutti quegli anni eravamo stati separati da momenti di svago, da amicizie diverse; ora il sangue ci univa con il suo ardore impaziente. Pierre era laddove ero io. Pierre era un po' più di un solo essere; non sapevamo più con precisione dove cominciava l'individualità della nostra anima. Di giorno in giorno imparavo a vivere al suo posto; diventavamo così simili che succedeva, sebbene fossimo alquanto diversi, che ci scambiassero l'uno per l'altro; l'amore ci dava lo stesso volto. Con il suo sangue nella bocca, oltrepassavo l'amore, raggiungevo un culmine, ero al di là di Pierre, la nostra amicizia si liberava di tutta la melma con cui quegli stessi che la con-
dividevano si compiacevano di degradarla; avevamo in corpo la rabbia della vita e, nel cuore, la dolcezza della morte. Non avevo giurato nulla, promesso nulla, e qualcosa di più forte di un giuramento mi legava per sempre a quel ragazzo. Quel qualcosa ci rendeva goffi, anche quando di notte, nel silenzio, ci dicevamo: « Amore mio ». Urtavamo di continuo contro il reale con la cecità dell'uccello su un vetro. Il volto di Pierre era la mia solitudine. Una forza sconosciuta mi spingeva verso di lui. Il destino aveva mescolato il mazzo e aveva scelto per noi due una sola carta, era una carta di cuori, una carta di sangue che nascondeva il futuro. Quel futuro, io lo vedevo come una lunga odissea notturna. Amare Pierre mi rendeva migliore, stare accanto a lui mi rivelava la presenza del dio che fino allora avevo rifiutato e che, attraverso gli occhi di Pierre, mi guardava andare lentamente verso di lui nelle burrasche della passione e nelle bonacce della tenerezza. Lo supplicavo oscuramente, quel dio che possedeva l'infinito e ce lo faceva conoscere, di unirci con parole più forti di quelle scritte sopra la porta dell’inferno. « Sempre », per me, era il presente. Mi mancava la serena sicurezza della felicità. C'era troppa violenza nei miei sentimenti per poter rendere felice colui che amavo, e tuttavia era a quello che tendevano tutti i miei desideri. Ogni giorno scoprivo un nuovo orizzonte: là dov'era un albero, io vedevo il cielo. Se si fosse dovuto istituire un ordine per quei ragazzi che avevano assistito alle nostre prove d'amore, essendo ciascuno un riflesso di Pierre o di me, avremmo scelto non la legione tebana, ma quella Tavola Rotonda dove ciascuno era uguale all'altro. Pierre mi fece sanguinare a mia volta. Mi afferrò per il braccio. Sentii la sua bocca calda posarsi sulla ferita; nella mia testa ruotavano sempre gli stessi pensieri: « Pierre mi ama, Pierre vive ». Gli misi la fronte sulla spalla e chiusi gli occhi. Mi apparvero allora tutti i bigliettini scritti dall'amore, la cui mano aveva guidato la mia. Ricordavo una sola lettera, quella del giorno in cui, solo, in attesa di Pierre, avevo temuto che tutto mi venisse tolto all'improvviso. Mio piccolo Pierre, sono geloso dell'aria che respiri, odio la luce che ti tocca sotto i miei occhi. Non so dirti quanto ti amo e quanto ti voglio. Gérard E tutto ciò che potevamo scrivere - non per nostra impotenza a tradurre i nostri segreti, ma perché avremmo tradito le nostre parole - restava in noi, trovando sfogo soltanto nei gesti di piacere. Quelle parole erano più dell’amore, era l'affetto che cercava di far entrare nel tempo umano un’eternità disumana. Il suo amore si rivelava un amore geloso, e invece io avevo dimenticato tutto del mio passato, continuavo ad avere in testa il suo nome, gli altri scomparivano sempre più fino a non esistere, e avrei annientato coloro che avevo conosciuto prima di lui, se non fosse bastato a ucciderli già quel semplice desiderio. Fin qui, nell’amore, avevo soddisfatto soltanto la mia violenza: mio cugino mi rivelava la tenerezza; per un istante di torpore al suo fianco e gli abbracci incoscienti durante il sonno, avrei rifiutato i piaceri più sfrenati e accettato i dolori più forti. Non avevo più amici. Lui mi teneva il broncio per una semplice occhiata, e se ero scortese me lo rimproverava: non sapevo come com portarmi. Il mio amore era cresciuto a tal punto che Pierre non poteva non accorgersi che per me esisteva lui soltanto. Tutti i complimenti che mi avevano fatto, tutti gli sguardi con cui ero stato
seguito mi avevano in pochi anni ammantato di sicurezza; al primo bacio di Pierre, quella corazza divenne inutile. Tanto m'era piaciuto essere ammirato, quanto ora la cosa mi irritava. Volevo esistere soltanto ai suoi occhi. Volevo che non trovasse più ragazzi come me, che quelle nostre ore fossero tutta la sua vita. Pensavo a me all'imperfetto, come se fossi morto. E non facevo altro che seguire la tetra china che conduce dalla malinconia ai simulacri della morte. Vissi dieci volte il mio suicidio. Mi bastava sognare per seguirne le varie fasi con la massima nitidezza. Succedeva sempre la sera, e, non so perché, a Parigi. Mi vedevo solo in una stanza mal illuminata, in attesa di Pierre. L'impazienza era parte della mia passione e ogni minuto, ogni secondo che passava erano altrettante pugnalate. Lui non veniva e il tempo mi soverchiava. Avevo a portata di mano un gran bicchiere di liquido, lo portavo alla bocca e fin dal primo sorso sapevo che quel veleno mi avrebbe ucciso. E tuttavia bevevo fino all'ultima goccia. Quando alla fine Pierre arrivava, cominciavo a morire. Lui non se ne rendeva conto subito, non prima ch'io avessi assunto l'aspetto di chi sia stato immerso in un bagno d'argento, col sudore che mi brillava addosso con un'oscura lucentezza. NE stendeva a terra. Io mi rotolavo nell’agonia provocata da un embolo. Altre volte erano altre immagini, ma finivo sempre col morire davanti a mio cugino... Mi rifiutavo di guardare oltre: poiché il dolore del sopravvissuto era peggiore della morte, decisi che né Píerre né io avremmo mai dovuto conoscerlo. Coloro che lo accettano non si amano, perché chi rimane ha soltanto una parola, soltanto uno sguardo, soltanto un desiderio, e di quel doppio corpo insostituibile non gli rimane che un solo modo di guardare le stelle, di accarezzare i corpi e di dire che annotta. Evocavo spesso la storia della mia morte, e Pierre non capiva perché di punto in bianco mi trinceravo nelle ridotte del silenzio. L'avevo coinvolto spesso in passeggiate notturne attraverso il parco; uscivamo senza fare rumore: scarpe da tennis ai piedi; solo indumento, i jeans. Sotto gli alberi, li toglievamo. Anche con l'afa, l'aria della notte era voluttuosa sopra la pelle. Ci accarezzavamo camminando prima di buttarci nell'acqua fredda del fiume. Sceglievo le sere in cui la luna era alta, così che nella luce algida Pierre m'apparisse come una statua d'avorio. Se nuotavamo a fior d'acqua, il chiarore lunare in superficie ci faceva luccicare dolcemente, ci asciugava il vento. Mentre eravamo ancora umidi, lottavamo e finivamo sempre col cedere alle carezze. Ricordo la schiena di Pierre, dritto contro un albero, i fianchi bagnati che mi scivolavano dalle mani. Un largo solco divideva la sua nuca scendendo fino alle natiche. A Pierre piaceva la mia forza e io mi accanivo nella voluttà. Lo facevo sdraiare per conoscere tutti i meandri di quella valle amorosa; lui nascondeva il viso nei pugni. Quando mi sollevavo sul suo corpo, non sorvolavo più il paese dell'amore, ma un immenso uccello di carne mi portava sulle sue ali al di sopra di un mondo di grida, di lampi, poi di silenzio. Ripiombavo sempre nella mia solitudine. lo ero l'innamorato, colui il cui fascino diventa stupidità e che una disattenzione trasforma in belva. Sapevo bene che bisognava conquistarsela la nostra vita in comune, non potevamo restare eternamente soli e ciò m'indignava. Quando altri dividevano con me la presenza di Pierre, soffrivo per il fatto di dovermi continuamente trattenere, di non poter mettere senza ragione la mia testa contro la sua, di non potere prendergli la mano e, senza motivo, parlargli d'amore. Invisibili tormenti mi straziavano il cuore; Pierre se ne rendeva conto. Mi martellava di domande, ma che dirgli, se non che lo amavo? Questa frase era insostituibile; in capo a un mese di vacanza appariva ridicola nel momento in cui stavo per pronunciarla, poi, quando l'avevo detta, ritrovava la sua purezza di fonte che sgorga d'un tratto alla luce, nel fondo di una forra. L'amore m'insegnava la lingua meravigliosa che fa d'ogni innamorato un poeta. A momenti. un lampo di gioia illuminava la mia notte; e - così come i lampi dei temporali notturni svelano i minimi particolari della natura, con un'intensità tale che
d'improvviso, nel nero disordine in cui sono immerse le cose, si staglia il gran quadro dell'orizzonte o di un giardino addormentato - d'un tratto in me si faceva chiaro e vedevo allora la realtà violenta della mia passione. Non per molto. Quei mutamenti di un sentimento in fusione - giacché aveva le parvenze della lava, che sembra dolce e invece divora - mi rendevano incapace di approfittare del presente, e io ne soffrivo. Vivevamo senza curarci delle ore, soltanto il colore del cielo ci teneva informati; i giorni si somigliano un po' tutti, d'estate. Così, ci abbandonavamo alle promesse del sole e alla dolcezza polposa della notte. Il nostro calendario era l'amore, ci accostavamo alla vita avendo le sue feste nel corpo e le sue stagioni nell'anima. Con la voluttà delle creature giovani, ci rimpinzavamo di piacere, accorciando le serate per avere notti più lunghe; soltanto l'aurora ci conosceva intorpiditi dal piacere e baciava i nostri cor pi svestiti con la sua bocca omicida, insanguinando una spalla, una schiena. Col suo appartenermi, Pierre mi regalava le sensazioni dell’uomo ricco, sapevo che cosa significasse possedere, e le mie ricchezze erano vive perché stavano in un corpo di ragazzo. Nulla di ciò che avevo desiderato mancava, e tuttavia bastava poco perché mi ritrovassi a mani vuote: un pomeriggio solitario, una stanza chiusa, il sonno. Non sapevo come serbare in me Pierre durante le sue assenze; l'idea che esistesse m'impediva di vivere. Avevo la testa piena di rumore, di quello strano rumore del sangue che rifluisce nelle tempie come se salisse per una scala gigantesca. Dal momento che ero sensuale, mio cugino era per me in primo luogo un essere di carne: il suo spirito, la sua anima avevano una bocca, delle cosce, un odore di giovane maschio. Il resto nasceva da lì. Con il suo gesto di bere il mio sangue, anche lui si sacrificava come mi ero sacrificato io: voleva essere Gérard, costruiva il proprio avvenire su un passato che non era più il suo, ma quello di un essere metà l'uno metà l'altro, doppio e unico come una coppia di gemelli... Non avevamo neppure bisogno di guardarci per conoscere i nostri riflessi, agivamo da automi manovrati dall'amore. E quelle macchine di carne pian piano sfuggivano, diventavano meccanismi intelligenti che reclamavano non più gesti ordinati dal piacere, ma una vita di là dalla vita, un'anima di là dai sentimenti, un corpo che le sensazioni non avrebbero più sfiorato fino a quando quei due esseri non fossero diventati ciò che gli uomini chiamavano dèi e si accorgessero che dovevano superare anche quest’immagine per raggiungere, con i loro passi di bambini, le sommità innevate dell’estasi. Quando Pierre si alzò con le labbra traversate da un tratto rosso - l'ordine del sangue -, restammo per un attimo storditi, già le ferite seccavano, il nostro amore sarebbe stato sacro... Alla fine ci riscuotemmo; il soffitto splendeva di sole, e un albero proiettava l'ombra dei suoi rami attraverso la finestra. Mi guardai attorno: i ragazzoni purpurei erano spariti. Allora la memoria, richiudendo su di noi le pesanti porte del carcere, come se per aver tentato di rubare i suoi tesori fossimo diventati suoi prigionieri per sempre, mi mostrò in un istante i tormenti della vita, e fra quelli l'angoscia che nessuna esperienza umana può colmare, disperazione senza fine del giorno che passa, della notte che passa, del ragazzo che trattiene il ragazzo sul pro prio cuore, della passeggiata che finisce. del ballo quando cessa la musica, dello sguardo d'addio per strada; e nei meandri di quell'inquietudine, come il braccio più rapido di un delta, la tristezza che oppone all’instabilità dei desideri l'agonia sempre e comunque solitaria. Sapevo bene che i grandi sentimenti erano passati di moda, che avere un cuore appariva ridicolo, che amare era una questione di cazzo. Mostrarsi disincantato sarebbe parso più naturale, quello era il segreto della felicità; amare un ragazzo sarebbe allora entrato nell'ordine normale delle cose, noi saremmo diventati uguali agli altri; un amore che rifiutava il loro mondo era inve-
ce anormale, come quello di tutti gli amanti che hanno una volta per sempre rifiutato virtù, famiglia, storia come semplici accidenti esterni e per i quali a Verona, a Rimini o, come questa volta, vicino ad Amboise, il sogno è lo stesso. Il nostro amore era la notte, l'alba fresca come la gota di un giovane amante e, all’aurora, il risveglio della nostra carne felice. Che gli altri s'abbandonassero pure ai loro desideri mutevoli, seguissero pure i loro capricci: io avevo scelto una volta per tutte il sentiero più arduo, da ogni parte c'era l'abisso. lo avrei lottato: volevo un ragazzo per sempre, e per me solo.
CAP. 9
La proprietà confinante con la nostra era il feudo di una famiglia di banchieri di cui il minimo che potessi dire provava che non mi piacevano. Tre ragazzi e una ragazza erano cresciuti su quelle aiuole di titoli e di valori. Il primo giorno in cui li conoscemmo, in seguito ai capricci di un vicinato vacanziero, andammo con loro al campo di tennis dove io, essendo un piccolo cam pioncino, dovetti battermi con ciascuno di loro per circa tre ore. Li sconfissi uno dopo l'altro. La «primadonna» che si cela in ogni ragazzo minimamente belloccio dette subito mostra di sé, soprattutto quando il caldo e la foga m'indussero a mettermi a torso nudo. Ero sotto gli occhi di tutti: Pierre si rivelò estasiato e deluso al contempo. La forza dei miei smash e il mio modo di occupare il centrocampo sconcertavano. Non mi mostrai modesto nella vittoria, e quei ragazzi mi presero in antipatia, pur ammirando le mie gambe e tutto il resto. Nello spogliatoio, mentre ero in mutande per cambiarmi, uno di loro si offrì di asciugarmi. La terra rossa del campo mi aveva sporcato le calze bianche e la pelle fino al polpaccio. Usando il mio asciugamano, mi fregò le spalle, poi le reni, e, dopo un'esitazione, mi sfiorò le cosce: di fronte alla mia aria indifferente, lui s'imbaldanzì. Pierre camminava avanti e indietro nello spogliatoio. Per gli altri, Philippe Decazes mi stava aiutando; per lui e per me, mi accarezzava. Quella complicità durò anche il tempo del ritorno: lui guidava e io gli sedevo accanto. Pierre tornò in scooter con la ragazza; gli altri due avevano la loro auto. Dovettero credere che fossero nate grandi simpatie, perché ci invitarono per l'indomani, ma quella sera giurai a Pierre che non avrei mai più ceduto al mio bisogno di conquista, e, per farmi perdonare, mi abbandonai a lui lasciando che mi facesse male. Il giorno dopo, Philippe Decazes venne a prenderci. Lui e io rimanemmo soli per qualche minuto in garage, mentre Pierre cercava nella sua stanza la chiave dell'antifurto. Il ragazzo tentò di amoreggiare, mi attirò a sé e, nel momento in cui pensava di raggiungere la mia bocca, si ritrovò sulle labbra uno straccio unto che era stato abbandonato su una cassa e che io frapposi tra me e lui. La serata fu lugubre: Pierre non parlava. Philippe non parlava. Quanto agli altri, li sbalordii ostentando atteggiamenti da giovane rivoluzionario. Cenammo in una trattoria sulla sponda della Loira e, al momento di tornare, Phílippe propose che ciascuno prendesse una strada diversa, in modo tale che lo scooter non fosse svantaggiato, perché gli ultimi arrivati avrebbero pagato la cena. Scelse lui per noi - col pretesto che la sua Delahaye era il mezzo più potente - la strada più lunga e deserta. Finse un guasto e, nel momento in cui gli feci osservare che lui e gli altri avevano forse abbastanza soldi da permettersi il ghiribizzo di arrivare volontariamente ultimi e pagare per gli altri, ma che io ero completamente al verde e non ci tenevo a sovvenzionare il mio cuginetto, lui mi si avvicinò: « Ti darò quanto occorre e perfino di più... se vuoi ». NE cingeva il collo con il braccio. Pur se eravamo forti allo stesso modo. mi avevano fatto bere troppo perché io potessi difendermi. Opposi una resistenza minima: lui mi rovesciò la testa sullo schienale, mi abbracciò, mi aprì la bocca con le labbra e m'infilò la mano sul petto. Mi diceva che ero bello, che lui aveva denaro, una garçonniere a Parigi e che poteva prendersi cura di me. Mentre mi slacciava la cintura, gli morsi le labbra. Riuscì ad abbassarmi i jeans, la mia ebbrezza soccombeva al piacere. Non lottavo più; gli presi le orecchie e favorii con violenza le sue carezze. Con entrambe le mani, lui mi allargò le cosce, le sollevò, facendomi capire che sperava di possedermi. Avevamo poco spazio a disposizione e i jeans mi imprigionavano le caviglie; riuscii a toglierli del tutto e,
ritrovandomi quasi in piedi, piegai Philippe sotto di me e gli sedetti sulla faccia. Il suo profilo mi apri le natiche. Sentivo l'alito caldo, il naso che la mia carne faceva arricciare, le labbra che si aprivano per darmi piacere. Gli presi la nuca da sotto e premetti ancor più sulla faccia. La sua lingua mi violò. Dapprima fu una carezza insostenibile, al punto da fare del mio corpo, fino alle punte del petto, un solo fascio di nervi intrecciati, poi, mentre la saliva faceva rilassare i muscoli e la lingua diventata sesso induceva l'uomo a cedere, mi abbandonai a quella carezza che s'insinuava in tutto il corpo... Gemevo mio malgrado, la notte era dolce, e il mio corpo bruciava come dopo un bagno gelato. Avevo voglia di mormorare: «Continua, Pierre, continua», come vicino allo stagno, e di gridare all'erba, alle foglie, al cielo: « Vi amo ». L'estate non era una stagione dolce, eppure, al morire del giorno, tutto era dolcezza attorno a noi. Mi piaceva l'ora in cui la luce si faceva incerta sotto i salici, vicino allo stagno, e prima di rientrare, in piedi l'uno contro l'altro, ancora nudi, ci stringevamo fra le braccia un'ultima volta. In quel momento tutta la natura ci guardava: i frutti del suo sogno prendevano vita... I faggi e le querce, nostri grandi fratelli silenziosi, non si muovevano. I nostri corpi schiacciati l'uno sull'altro venivano invasi dolcemente dal sangue, e in quella luce verde, contro lo sfondo degli alberi e dei bagliori morenti sull’acqua, una gioia profonda apriva le sue porte nel fondo della nostra carne... Con le mani, Philippe separava le mie cosce per far si che mi offrissi meglio alla sua golosità. Ero divorato da quell'insidioso piacere il cui moto faceva di me una spirale senza fine. Quelle sensazioni avrebbero dovuto trasformarmi in ragazza, e invece mi rendevano più virile, poiché era la mia forza a ispirare quell'omaggio e perché l'uomo in me amava concedersi il lusso di un godimento femminile. Il gesto di Philippe esigeva un ragazzo perché quella promessa di stupro, più mentale che fisica, si mutasse, nonostante il modo in cui sarei stato trattato, in apoteosi di maschio. Non sapevo da quanto tempo durasse quel gioco, quando d'improvviso mi sollevai in preda alla rabbia. Gocce di sudore mi colavano sulla bocca ed ero intriso della saliva di Philippe. Toccai il suo viso, la cui carezza s'era di colpo arrestata, per quanto il mio corpo ancora ne fremesse; gli arruffai i capelli con le dita e, quando la mia mano gli toccò la faccia, ricordai che non era Pierre. Di colpo, mi passò l'ubriacatura. Mi raddrizzai del tutto. Lui pensò che fosse per farmi penetrare, e mi fece ricadere sui sedili. Con un pugno lo mandai a sbattere contro la portiera e, senza attendere risposta, continuai a pestarlo. Gli tempestai il volto. Lui era accecato e non riusciva a colpirmi. Alla fine uscii dalla macchina e, appoggiato a quella, afferrai la nuca di Philippe con una mano e con l'altra lo schiaffeggiai con tutte le forze. Quando non si mosse più, lo rimisi nella Delahaye, ne chiusi la portiera e m'infilai i jeans, rimasti a terra. Rientrai a casa. Non c'era nessuno sulla strada: il bel Philip pe aveva scelto bene la sua via. La luna era alta e alcune nuvole, d'un bianco troppo chiaro per offuscarla quando le passavano davanti, correvano da un capo all'altro dell'orizzonte, e pareva che fossero quelle, a tratti, a gridare, ma erano i richiami degli uccelli notturni. Quando tornò Pierre - dopo che ci avevano aspettato a lungo, finendo col credere che li stessimo prendendo in giro -, fu sorpreso di trovarmi nella stanza da bagno, e le lacrime che gli montarono agli occhi e che io ebbi il tempo di scorgere prima che si girasse, erano lacrime di felicità. Appena rientrato, m'ero buttato nell’acqua della vasca senza accendere la luce e senza svestirmi. Volevo lasciarmi affondare per non sentire più sulla pelle le mani di Philippe. Mi sfregavo con un tale accanimento che avevo le cosce scorticate. Avrei voluto che mi sanguinasse il culo perché dolore e sangue subentrassero alla saliva e al piacere, ma la bocca di Philippe continuava a restarne padrona, e soltanto quella di Pierre l'avrebbe cacciata. Non soffrii, quella sera, e mi addormentai con Pierre sopra di me.
Logico prevedere che ci sarebbe stata una vendetta; il massacro che avevo perpetrato dei loro rapaci e l'eccessiva cortesia che ostentavamo gli uni nei confronti degli altri davanti ai nostri genitori portarono al parossismo la mia insolenza e la loro rabbia. Quest'ultima era la mia aureola. Loro se ne rendevano conto e morivano dalla voglia di avermi, fosse stato anche per un'ora soltanto, fra le grinfie. E alla fine quel giorno venne, dato che la perfidia era la migliore delle loro armi. Sconsideratamente, Pierre aveva detto davanti a loro che sarebbe andato a comprare dei dischi, e per tutto un pomeriggio non fu in casa. Sapevano che ero nel fienile, Philippe Decazes venne, a cercarmi col pretesto di voler vedere Pierre. Senza che me ne rendessi conto, fui legato, imbavagliato, messo in un sacco e portato nel loro dominio. Oltre ai tre Decazes, c'erano altri due ragazzi desiderosi a loro volta, per via dei mio modo di ignorarli, di spaccarmi la faccia. Questo era quello che credevo: fu peggio. Quando mi tirarono fuori dal sacco e mi misero in piedi, m'accorsi che eravamo nella torre della voliera e che sul tavolo, in un angolo della stanza, m'aspettavano corde e scudisci. Uno dei ragazzi s'avvicinò; mi sbottonò la camicia, me la calò sui polsi; questi erano legati e, dato che fino a quel momento non avevo opposto resistenza, lui mi posò le mani sulla cintura. Non so dire in che modo riuscii a liberarmi le mani, ma lo colpii alla cieca. Erano in cinque, tutto si rivelò ben presto inutile. Un'altra mano si curò di calarmi pantaloni e mutande. Mi legarono a uno dei pilastri che sostenevano il soffitto e, a turno, mi frustarono. Per non gridare, mi mordevo l'interno delle labbra; quando ebbi la bocca piena di sangue, pensavo a tutt'altro, e loro capirono che non mi avrebbero strappato alcuna implorazione di pietà. Allentarono le corde: caddi a terra, stordito. Non sapevo più quel che succedeva. Più tardi, il peso di un corpo e un dolore alle reni mi costrinsero a sollevare la testa. Il ragazzo che mi stava possedendo mi ricacciò a terra e, per quanto avessi lottato per non cedere al disgusto, vomitai: quello che ancora non mi aveva avuto mi prese in quell’odore. Tale fu la loro vendetta. Ebbi diritto a un po' d'acqua per pulirmi il volto e, in cerchio attorno a me, i cinque mi riaccompagnarono al confine del nostro parco, senza dire parola. Uno di loro mi gettò in faccia la mia camicia. Al suo ritorno, Pierre capì. Per dimostrarmi che non ero decaduto nella sua stima, mi parlò dell'odio. Non di quell'avversione la cui forma meno profonda era l'antipatia irragionevole che attribuivo ai Decazes nei miei confronti, ma l'odio vero, quello che affonda le sue radici nell’ammirazione e nell’amore. Pierre sosteneva che si cominciava sempre con l'amarmi, ma che in poco tempo quegli amori che sapevo accendere, e del cui fuoco però io non bruciavo, si trasformavano in violenza, prima nei pensieri, poi negli atti. Vivo, ma sordo, era più rancore che gelosia. I nostri vicini avevano creduto alla facile conquista e s'erano spinti troppo lontano perché anche il più piccolo smacco non assumesse l'ampiezza di un insulto. Per quei cuccioli di banchieri, conquistarmi non era un gioco, ma un affare; una volta messimi gli occhi addosso, non avevano tollerato ch'io potessi essere altro che una preda. Il male, lo so, veniva dal mio aspetto. Viso e natiche erano i miei nemici. Avrei potuto aggiungere il mio bisogno del piacere, se era quello il nome della forza inesorabile che mi spingeva. Dovevo godere così come altri bevono. Mi metteva allegria. Una segreta tristezza riappariva in seguito, quando senza ragione mi sentivo insoddisfatto. Mi credevo «vissuto» per i miei anni già pieni di avventure, ed ero invece un adolescente con i suoi deliri di entusiasmo e una gran fame di voluttà. Ecco perché quell'odio di cui mi parlava Pierre s'era sfogato sul mio corpo e, ricorrendo al sotterfugio della lite, aveva camuffato i gesti brutali riservati all’amore. Gli altri, i gesti teneri, erano passati in quella violenza, perché, pur se privo di sensi, ciascuno mi aveva posseduto di fronte
agli altri e il loro modo di dichiararmi il loro amore s'era potuto rivelare soltanto nella rabbia del soddisfacimento. Non ebbi il coraggio di spiegare tutto a Pierre; lui mi supplicò di dimenticare e di non far nulla di disperato. Ero soltanto un bambino: passai la notte contro la sua spalla, e durante quella veglia rafforzai la mia certezza che il paradiso non può essere altro che una lunga serata d'amore con l'essere il cui cuore sia stato più vicino al nostro. Incontrai Michel Decazes in città, due giorni dopo. Lui esitò un istante, poi venne verso di me. Parlammo da amici, come se niente fosse successo. L'assenza, in me, di rancore lo sgomentava. Ne era più ferito che se lo avessi evitato. E tuttavia c'era fra noi il suo comportamento nella voliera, dato che aveva incitato i fratelli e che mi aveva avuto a- sua volta. Il suo modo di fare confessava qualcosa che la sua bocca cercava di nascondere. Perché trovasse il coraggio d'avvicinarmi, quel qualcosa era indispensabile. Dopo qualche commento sulla stagione e la temperatura, mi disse d'improvviso, guardandomi negli occhi: « Sono innamorato ». Ricevetti quella confessione come uno schiaffo. Arrossii. Così, osava dirmi in mezzo alla strada che mi amava. Ero avvezzo a simili confessioni ma, ciò nonostante, non nel bel mezzo di una conversazione sul caldo e le nuvole, per quanto queste fossero quasi d'obbligo nelle dichiarazioni d'amore. Feci il finto tonto. « Innamorato! Che cosa romantica in un giorno d'estate! » «Romantica o no, sono innamorato e tu puoi aiutarmi. » « lo, aiutarti! Vuoi che faccia l'amore al posto tuo? » Volevo fargli perdere terreno e ritardare il più possibile il momento in cui la sua bocca mi avrebbe detto ciò che il mio corpo era certo di presagire. Ma non sempre il corpo è il cuore. In quel modo lui si sarebbe imbarazzato con mezze confessioni, e i suoi pudori di linguaggio avreb bero spiegato col silenzio il rossore degli zigomi. Aspettavo, crogiolandomi all'idea dello stupore che avrei ostentato nel momento in cui mi avesse gridato in faccia il suo amore. Ah, come sarebbe suonato ingenuo, allora, l'« io? » che avrei lanciato, quanta foga vi avrei messo, quanta incredulità e innocenza! Passai all'attacco: « E di chi sei innamorato, si può sapere? » «Di Pierre... » Ebbi l'impressione d'essere colpito al basso ventre, tanto poco m'aspettavo una simile uscita. Respirai profondamente. In ogni caso, quel ragazzo ignorava i miei sentimenti per Pierre e quelli di Pierre per me. Cercai di vederci chiaro. Che cosa si aspettava? Mi guardava in modo trop po severo perché non ci fosse sotto qualche trappola. « Che cosa fai nel pomeriggio? » chiesi con noncuranza. « Per ora, niente. Vorrei uscire con voi. Prenderò la macchina. Potremmo andare in campagna. » Si buttava a corpo morto, disperatamente, e in quei secondi di silenzio fra una parola e l'altra Michel era d'una gran bellezza. Giocai d'astuzia: «Devo chiedere a Pierre ». «Hai paura che la mia presenza lo infastidisca? » «Perché dici così? » «Lui ti ama... molto, lo so. » « Molto. Anch'io lo amo... » Non so perché, ma non aggiunsi alcun avverbio. Ci fu un momento di sole radioso. Non ne potevo più, dovevo confessare a qualcuno il mio amore, e proprio a colui al quale avrei dovuto tenerlo nascosto. Michel fece un gesto quale solo i ragazzi, anche quando rivali, osano fare. Mi tese la mano.
Nel pomeriggio, Michel venne a prenderci in macchina; andammo verso Langeais per una di quelle strade in cui ci si sente felici, come se nulla più esistesse al di fuori di quel viale bordato di salici e il mondo sconosciuto verso il quale ci porta. Non avevo detto niente a Pierre. Fermammo la macchina in un prato e andammo a sederci sulla riva dell'acqua, su larghi lastroni di pietra. Era tutto un luccichio luccichio attorno ai banchi di sabbia, sabbia, e una nebbiolina di calore faceva muovere i salici nell'isola che ci stava di fronte. Nuvoloni bianchi si stendevano, da un'estremità all'altra dell'orizzonte, sulla terra, proprio come chi si adagi sul corpo amato. Pierre mi passò un braccio attorno al collo, stringendomi in modo tale che Michel, ora, non accompagnava compagnava più due amici, ma due innamorati che s'abbandonavano s'abbandonavano davanti a lui alle schermaglie che precedono precedono l'amore. l'amore. Senza saperlo, saperlo, dovemmo dovemmo farlo soffrire molto. molto. I suoi fratelli fratelli non gli perdonarono quell'uscita con c on noi. Tornò spesso, rimanendo più a lungo e andandosene andando sene con la tritri stezza di un confidente che si deve limitare a guardare. Adesso avevo qualcuno qualcuno con cui potevo parlare di Pierre. Michel m'ascolta m'ascoltava va sempre con una serietà che avrebbe avrebbe dovuto indurmi indurmi a diffidare. Gli raccontavo raccontavo tutto, e ogni cosa era per lui una pugnalata. Una sola volta gli chiesi perché preferiva Pierre, e la sua risposta illuminò abissi a bissi in cui non osavo calarmi: «Tu sei uno che si desidera, ma non si ama». Allora, per per qualche tempo, tempo, cambiai. cambiai. D'un tratto tratto inseguivo inseguivo la solitudin solitudine. e. Pierre mi mi cercava e non mi trovava. Le sue carezze mi facevano male; cominciava a sospettare che Michel non fosse estraneo a quello quello stato di cose. Una sera mi disse che s'era accorto accorto che Michel e io ci amavamo, amavamo, che tanto tanto valeva valeva dirgliel dirglielo, o, non se la sarebbe sarebbe presa. presa. Poi scoppiò scoppiò in singhi singhiozzi ozzi.. Io mi gettai gettai ai suoi piedi, gli parlai dell’amore di Michel, della mia malinconia, della mia angoscia di fronte a quel dolore che, senza volerlo, nutrivo e che in seguito si sarebbe forse riversato su di me, magari attraverso attraverso un altro viso. viso. Pierre ritrovò ritrovò la sua allegria. allegria. Poco gli importava importava di Michel; Michel; lui aveva aveva pensato che non lo amassi più e invece inve ce così non era, tutto il resto non contava! c ontava! E le sofferenze di Michel crebbero crebbero nei giorni che seguirono. seguirono. Alla fine smise smise di venire, più o meno nel momento in cui i nostri padri decisero di passare il fine settimana a Parigi. Questo precipitò molte cose: ci era stato di grande aiuto e non lo sapeva. E’- così che l'amore scaccia l'amicizia, come un usurpatore cede un gradino del proprio trono ai suoi compari per sterminare più facilmente i rivali. Pierre mi aveva chiesto di raggiungerlo nel bosco, il giorno stesso a partire dal quale Michel non venne più. più. Lasciai la casa casa con un leggero leggero ritardo. ritardo. Arrivai allo allo stagno, tutto tutto era silenzio, silenzio, un airone pescava pescava tranquillam tranquillamente. ente. Chiamai. Chiamai. Nessuno rispose, rispose, se non l'eco l'eco ironica ironica che traeva traeva dal mio nervosismo nervosismo i suoi toni impazienti. impazienti. Non so cosa temessi, una disgrazia, disgrazia, qualcosa di peggio, forse. L'idea che Pierre potesse potesse essere intento a spiarmi non mi sfiorò nemmeno nemmeno per un attimo. Il volo greve di un airone al di sopra dell’acqua scura m'invitava a frugare fra i cespugli, ma la loro distesa era troppo vasta perché potessi sperare di trovare mio mio cugino. Tornai a star male. Avevo sofferto, in tutti quegli anni, di non poter disporre liberamente di denaro, dei desideri che suscitavo e che non corrispondevano ai miei, di sentirmi incompreso come tutti i ragazzi che lasciano l'età delle tasche sfondate per quella delle prime tronfie cravatte; avevo conosciuto lo strazio del ribelle quindicenne, cui il sogno ha mostrato un mondo sul quale l'altro non si rispecchia, ma era la prima volta che mi capitava di soffrire di desiderio. Assente: questa parola esisteva soltanto per le mie braccia e la mia bocca. Era un male al di là di ogni speranza. speranza. Volevo Pierre, Pierre, volevo che fosse fosse presente; il gran gran lago scuro del silenzio opponeva a una sola immagine la sua superficie senza rughe e la sua distesa sconfinata. Chiamare Pierre non lo faceva venire. Senza di lui, era l'inferno. Le supposizioni più
insensate si aprivano un varco nella mia mente: dapprima immaginavo che Pierre non mi volesse più; da lì a credere che mi fuggisse il passo pass o era breve. Frugando fra i ricordi, il minimo indizio assumeva le proporzioni di un dramma. L'amore si divertiva con i battiti del mio cuore. La certezza che Pierre non mi avesse aspettato m'incitò a rifugiarmi nel mio fienile come un animale ferito. Poi Pierre arrivò, e i nostri corpi ci riconciliarono. All’ora di cena, fummo stupiti di trovare Michel che, assieme alla sorella, parlava con nostra cugina. Ci invitava invitava a una una festicciola festicciola da loro, l'indomani. l'indomani. Promettemm Promettemmoo di andarci. andarci. Siccome Siccome ci sarebbe stata sicuramente ressa, Michel ci chiese in disparte di non parlare dei nostri dissapori. Sarebbe stato più divertente andare là sul tardi, quando l'atmosfera avesse allontanato gli invitati della specie fredda, quelli che portano a quel genere di festa una gioia da batraci e una vitalità da molluschi. Ci sarebbe stato un ballo mascherato. Avevamo il tempo di preparare un ingresso divertente. Michel ci offrì delle maschere; sua sorella volle venire con noi in città, dal rigattiere. Ci andammo in mattinata. Pierre scelse un costume da giovane fiorentino, farsetto arricciato su una camicia ampia e calzamaglia che lo fasciava come una seconda pelle. Dopo aver esitato un po', decisi che il mio solo travestimento travestimento sarebbe stato la maschera di velluto. Avrei indossato indossato una cosa qualsiasi, qualsiasi, un paio paio di calzoni di flanella flanella e una polo nera. Quel che contava era tornare il più presto possibile, in nottata, per stringere su un letto il corpo di colui che amavo, come se avessi ormai i minuti contati.
CAP. 10
«Pierre, c'era quel momento, quel momento che mi era sfuggito, quel momento che non tornerà e durante il quale nulla al mondo avrebbe potuto essere paragonato alla bellezza del tuo volto. C'erano la tua tenerezza, tenerezza, la tua dolcezza, dolcezza, il tuo fascino. Cominciavo Cominciavo a sapere che il tempo era una dimensione di te; tu colmavi lo spazio, e il tuo corpo era il mio regno. Pian piano soccombevo alle inquietudini della vita, non pensavo più a te come a un fratello, ma come a un amante da cui dipende tutto l'avvenire. Avevamo una strada immensa da percorrere, contavo su di te e speravo che tu sentissi sentissi la la stessa necessità. necessità. Necessità, Necessità, antico nome nome del destino! destino! Da Pi a un giorno giorno saremmo partiti, da lì a poche ore ci sarebbe stato il ballo, da lì a qualche minuto ci saremmo preparati, ma da Pi a un giorno il nostro futuro avrebbe a vrebbe avuto anzitutto la lunghezza lunghez za di una strastr ada. Era buffo, non vedevo nulla oltre quella... « Ero innamorato innamorato pazzo; avevi scacciato tutte tutte le idee di cui tu non eri il centro, decidevo tutto in virtù di te, esistevo soltanto soltanto sulle sulle tue labbra. Per ricordarmi del passato passato dovevo fare uno sforzo troppo grande, osavo credere credere che fossi stato tu l'inizio l'inizio del mio desiderio. desiderio. Rinnegavo Rinnegavo i miei amori facili facili di un tempo. Che cosa contavano contavano coloro ai quali quali avevo ceduto il mio mio corpo? Tutti i liceali lo fanno. Questa summa d'amore aveva approfondito il mio sguardo, caricato il mio sorriso d'amarezza, d'amarezza, conferito alla mia carne carne la pienezza che viene dai piaceri. Non credevo d'essere d'essere dipendente a tal punto, ma avevo perso la testa dal momento in cui t'avevo dichiarato di volerti amare... » Avevo sempre parlato parlato in questo modo, dentro dentro di me, a Pierre. L'avevo sempre sempre considerato considerato un altro me, e avevo finito con lo sdoppiarmi affinché durante le sue assenze rimanesse in me almeno una parte di me stesso. stesso. Lo aspettavo aspettavo sdraiato sdraiato sul letto e gli parlavo. parlavo. Gli avevo detto, detto, quella quella mattina, mattina, frasi scortesi, perché era almeno la decima volta che cambiava cambiava pettinatura. pettinatura. Gli avevo dato della puttana e lui mi aveva guardato con un'espressione così bella da farmi vergognare. I suoi occhi brillavano, le ciglia ne esaltavano lo splendore e la sua bocca socchiusa chiamava un'altra un'altra bocca: superava la sua stessa bellezza. bellezza. Poi, da smagliante, smagliante, tornò a essere il bel ragazzo che era; l'istante divino era passato. Così, le impressioni fuggevoli da cui la vita trae il suo fuoco d'artificio d'artificio svaniscono svaniscono appena nate, a somiglianza di quei fiori notturni notturni che una pioggia di fuoco schiude nel cielo di luglio; e che quelle impressioni siano le gambe d'un ciclista intraviste troppo frettolosamente perché all’impossibilità di rivederle non si mescoli un certo rimpianto, la capigliatura gliatura di un ragazzo splendente splendente in un raggio di sole, il sorriso di un adolescente adolescente sorpreso in un momento d'abbandono, qualsiasi scena dove la bellezza faccia sfoggio di sé, l'essenza del loro fascino è la loro repentina repentina scomparsa. scomparsa. A sedici anni si sogna di esse; a venti, venti, si soffre del loro desiderio. Gli atteggiamenti giocano un ruolo importantissimo nei giovani. Tutto era per me pretesto d'effetto. Mi cacciavo di continuo continuo in situazioni situazioni estreme per creare turbamento turbamento e suscitare in Pierre un moto d'inquietudi d'inquietudine. ne. Lui non ci cascava, mi respingeva respingeva nei miei ultimi ultimi baluardi baluardi e, nel momento in cui m'impuntavo nelle mie provocazioni, concludeva freddamente con un: « Non fare lo scemo ». Talvolta, tuttavia, si sbagliava, confondeva l'attitudine con gli atteggiamenti. Gli atteggiamenti, per un adolescente, non sono altro che il modo d'essere solo a ogni costo; l'attitudine è, per un ragazzo, il modo d'esibire le proprie debolezze. Una volta avevo accompagnat accompagnatoo mio zio in rue de Londres, da un assicuratore. assicuratore. Gli uffici occuoccu pavano. per la loro estensione, esten sione, un intero stabile: stab ile: un ascensore risparmiava ai a i clienti le scale monumentali, e, dato che mio zio doveva andare al quarto piano, lo prendemmo.
Avevo appena compiuto quattordici anni. Un giovane lift assicurava la salita e apriva le porte. La sua aria allegra, i capelli ricci, la flessuosità del suo corpo nell’uniforme azzurra che lo fasciava come un soldato, la lucentezza dei bottoni dorati del corto giacchino, il modo di alzare le braccia per tirare la porta di metallo, tutto ciò, in un attimo, m'aveva conquistato. Non staccavo gli occhi da lui e non volevo incrociare il suo sguardo. Avrà avuto sedici anni e possedeva quello speciale splendore che viene conferito dall'adorazione agli esseri che quest'ultima ha fatto spesso mettere a pancia in giù su un letto. Al quarto piano, mi squadrò e parve capire il mio sguardo. Uscii dall’ascensore con il cuore in tumulto. Un largo sedile di pelle rossa arredava il pianerottolo, e io non concessi allo zio il favore di accompagnarlo negli uffici di un qualsiasi direttore. Mi sedetti e tenni d'occhio i viavai di colui che già chiamavo amico. Era un'amicizia per la vita e per la morte: il mondo racchiuso in una divisa azzurra... Su quel sedile, concepii un romanzo meraviglioso. Poiché non eravamo lontani dalla chiesa della Trinité e, passandovi di fronte, lo zio mi aveva detto che il giardino esisteva da pochi anni, io vedevo quella chiesa trasformata in palazzo e il giardinetto in scalea gigantesca. I campanili erano prigioni piene di sale di tortura. In una di queste. il lift nudo veniva frustato. Bisognava liberarlo, e allora diventavamo fratelli, pur se non riuscivo a capire che cosa c'era, in quel sogno, che non somigliava alle vere storie d'amore. L'ascensore passava spesso e io incrociavo ogni volta lo sguardo del ragazzo. Alla fine, lo zio usci e fui di nuovo accanto al mio amico. Al piano di sotto salirono altre persone, potei accostarmi di più a lui e le nostre mani si sfiorarono. La discesa mi parve eterna; non ci muovevamo, tutti avrebbero visto che le nostre dita erano intrecciate, che ce ne infischiavamo di tutto! Eccola, l'attitudine, un gesto noto a noi soltanto con cui la nostra volontà sfida la gente e il nostro stesso orgoglio. Quell’ascensore mi portava all’inferno. Lo lasciai con la morte nel cuore, senza potermi voltare. Non rividi mai più quel ragazzo, fu il mio più strano ricordo d'amore, e nei miei sogni ebbe per mesi il posto d'un eroe in giacca azzurra a bottoni d'oro... La gioventù è sempre incline ai gesti gratuiti e ai desideri disperati. Ne avevo mille prove. Al liceo, per esempio, una era il modo di difendere i propri rivali. Avevo, ricordo, passato ore, prima della maturità, su 2Madelin, per conoscere tutti i particolari possibili sul Consolato. Avevo letto quelle che la sua bibliografia indica come fonti in fine di volume; assistito dalla mia memoria, conoscevo prima dell'esame di storia una serie di aneddoti che andavano di gran lunga al di là del nostro corso. Mi prospettavo un trionfo; ma parlai di tutto ciò al solo ragazzo che, come me, brigava per il primo posto. Non gli nascondevo nulla di ciò che sapevo e, trovandomi all’esame accanto a lui, lo aiutai senza che se ne rendesse conto tacendo le cose che lui scriveva. Risultai secondo. Me ne infischiavo dei loro allori, lui aveva una bocca così bella! È forse da qui che nasce l'amore per il teatro caratteristico di ogni ragazzo, un amore che lo costringe talvolta a misurarsi con se stesso, di fronte a uno specchio, con i gesti e le parole più prossimi alla gloria o alla morte. Come tutti, avevo compiuto quel rito infantile, ero stato di volta in volta Romeo, Ippolito, e non so quanti altri semidei dell'antichità. A poco a poco - e quello era invecchiare - mi allontanavo da quegli eroi fino a ritrovarmi solo in un dramma più oscuro del loro, privo d’aiuto per trovare una via d'uscita e sapendo che sarebbe finito soltanto con l'esistenza umana: quel dramma per taluni si chiamava fede, per altri senso di una vita alla quale essi s'aggrappavano disperatamente; per me si trattava non d'amore, ma di fine dell'amore. E, per fine, intendo lo scopo. Nulla sembrava possibile, dopo, per noi, perché sarebbe equivalso a viveLouis Madelin, 1871-1956, storico, autore, fra l'altro di un Consulat de Bonaparte, 1929. (N.d.T.) 2
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re nella menzogna: la società mi faceva orrore; con i suoi stupidi pregiudizi, la sua rispettabilità, tutto il mondo astratto che aveva edificato sul suo vuoto. Con Pierre non baravo: lo amavo in modo così intenso e ogni giorno così nuovo che, ogni volta, ero come di fronte a un'altra persona. Tendevo verso la felicità braccia incapaci di stringerla, sicché il mio amore faceva a meno della felicità. Quest'impotenza aveva la propria fonte nel romanticismo in cui ero immerso, e quando capii la vanità di quegli atteggiamenti, era troppo tardi, vivevo un mito il cui dedalo conduceva alla morte. Con un po' di diplomazia saremmo potuti rimanere accanto ai nostri genitori e gli anni avrebbero prima o poi fatto dono alla nostra vita del gran giorno in cui i rapporti sarebbero stati riconosciuti dal tempo; ma io amavo soltanto l'assoluto... così ci votammo all'esilio. Tutto ci si annunciava avverso, anche i presagi. Il primo era stato, all’alba, un volo d'uccelli notturni. Mi ero alzato presto e guardavo dalla finestra un'ultima stella che brillava. Gli uccelli volavano bassi, a filo degli alberi, nella zona d'ombra. Una sorta di gufo reale si trovava nel punto più alto, al limite del chiaro: come accecato in pieno volo, cadde d'improvviso sulla ghiaia alla mia sinistra. Inebetito, si trascinò sotto un albero e non si mosse più da lì. Fui sgradevolmente impressionato: chiamai Pierre. Lui si alzò, e ci ritrovammo entrambi al balcone a guardare, all’alba, quel rapace sperso in un isolotto di buio che veniva divorato pian piano dall’oceano di luce. Nei momenti di gioia più folle, nei momenti d'ebbrezza fisica 1 negli abbracci e nei sospiri, cer cavo di scoprire se c 1 era altro, se c'era qualcosa cui non potevamo accedere, qualcosa al di là della nostra voluttà e della nostra tenerezza. Quell’uccello mi faceva paura: Pierre mi prese in giro, ma io avevo ragione, lo sentivo, avevo ragione di temere quel richiamo improvviso d'una potenza notturna, quasi essa costituisse, nella luce splendente della nostra amicizia, la parte cre puscolare. La caduta di un uccello era il primo colpo di gong del destino: non ci pensammo più, lasciando la finestra. Nondimeno, verso mezzogiorno, scendendo a tavola, quell’episodio mi tornò a mente e volli tentare di esorcizzarlo. Ero in cima alla scala che portava alla sala tappezzata di verde chiaro. Mi accordai col destino: se la prima cosa che i miei occhi avrebbero incontrato fosse stata verde, tutto sarebbe risultato meraviglioso, la nostra partenza, il nostro futuro. Ero sicuro di me, sicuro perché tutta la carta da parati era verde in quella casa estiva; scesi alacremente e incontrai Pierre, che mi veniva incontro in maglietta rossa. Il verde della speranza si mutava in color d'amore. Era ciò che dicevo a me stesso, ciò che volevo intendere, ma una voce bassissima insisteva gravemente e, nonostante tutti i miei sforzi per scacciarla, diceva nella mia stessa bocca: « Colore del sangue, colore del sangue... » Non avevo più fame e tutti pensarono a un capriccio, perché al dessert l'oblio mi restituì l'appetito. Mia cugina ne fu lusingata: le piacevano i complimenti così apertamente sinceri, tanto più che ci teneva a secondare la nostra golosità. Il pomeriggio trascorse come al solito; rientrammo prima del consueto, Pierre per sistemare le ultime cose, io per dormire e risultare così in piena forma alla festa dei nostri vicini. Alle nove ero ancora sdraiato e pensavo a mio cugino, ricordando la mia vita passata: avevo la sensazione che l'inizio di quelle vacanze avesse segnato una vita nuova, e che tutto quanto veniva prima mi appartenesse meno che se avessi creduto alla metempsicosi. Pierre arrivò come un turbine: «Non sei vestito», mi disse, «dovresti cominciare; fatti almeno la doccia!» Feci la doccia, mi frizionai. Pierre cantava nella stanza vicina. Non avevo idea dell'ora; non mi rendevo conto del tempo, lo disprezzavo, e istintivamente gli rifiutavo un posto nella mia vita, forse per renderne eterni gli istanti di felicità: per questo rompevo gli orologi, per non avere al polso quel rumore confidenziale e cocciuto cui senza volerlo si uniformano i battiti del cuore...
Mi ero guardato più volte allo specchio sotto tutti i punti di vista, di fronte e di profilo, aiutandomi con un secondo specchietto. Avevo posato quest'ultimo sul bordo del tavolo, contro la polo che avrei indossato: tirai questa sbadatamente e scagliai a terra lo specchietto. Andò in mille pezzi; arrivò Pierre. Ero nudo, mi disse di spicciarmi e pestò i frammenti. «Che cosa combini?» La mia goffaggine lo divertì. Anche lì vedevo un avvertimento. La tendenza della mia natura a immaginare il peggio mi fece prevedere l'arrivo inaspettato dei nostri padri, oppure che lo scooter si sarebbe guastato, oppure ancora la polizia alle calcagna, senza voler guardare oltre... la diffidenza, la mancanza di denaro, le denunce laddove fossimo arrivati... Mi vestii; la polo nera leggermente stinta mi dava un'aria un po' cattiva. Pierre, in veste di fiorentino, non poteva che somigliare a Romeo. Spesi gli ultimi minuti a sistemare dei libri, e l'idea di aprirne uno a caso perché rispondesse alle mie domande placò la mia angoscia interiore. Scelsi l'autore con cura. Dato che Pierre mi ricordava Romeo, presi un testo di Shakespeare e l'aprii al centro. Posai il dito senza guardare la pagina. «Ah! Quanto dolce dev'essere possedere l'amore, se la sua sola ombra è già così prodiga di felicità... » Posai Shakespeare. Che cosa voleva insinuare? Pierre era forse un'ombra, quando l'avevo ogni notte sul mio corpo? Vecchio commediante, mi porgevi a bella posta una scena d'amore per burlarti di me e impedirmi di essere felice. Al diavolo, Shakespeare. I morti hanno sempre torto. Sarò felice anche senza le tue promesse, non ho bisogno del tuo Romeo per avere il mio e conoscere il mio cuore. Presi dalla mensola il libro successivo, era Dante. Pensai mentalmente: quindicesima riga e, poiché erano le ventidue e sette, feci la somma: ventinove. Aprii dunque a pagina ventinove, contai i versi e il quindicesimo mi disse: E caddi come corpo morto cade. Non aveva senso: i poeti erano tutti suonati. Com'ero stupido a rivolgermi a loro. Il mondo immaginario che essi inventavano non poteva avere niente in comune con quello di un cuore di diciassette anni. Ma io volevo assolutamente una parola sul futuro. Dove trovarla? Pierre mi faceva fretta; dissi che lo seguivo e andai nella stanza di mio padre. Era strano penetrarvi in sua assenza, perché avevo sempre l'impressione che entrare da lui fosse come entrare nel regno del Minotauro. Mi aveva educato severamente all'epoca in cui si degnava di occuparsi di me. Ma non avevo tempo di cercare, una vecchia bibbia era posata a mo' di ornamento su un tavolinetto. Gli occhi chiusi, indicai col dito il passo da cui sarebbe scaturita la risposta per il mio cuore. Riaprii gli occhi, lessi. Anche il profeta si circondava di mistero e non mi portava alcun conforto. Ero davvero sciocco a rimettermi a certi segni. Non mi rimaneva altro da fare che raggiungere Pierre, nell’attesa che la mia inquietudine se ne andasse. Sotto il dito, il versetto indicato dava una risposta senza capo né coda: « Ecco che tolgo dalle tue mani la coppa del turbamento ». Ciò, a rigore, avrebbe potuto indicare la festicciola, ma perché «tolgo», dato che ci stavo andando? Corsi per riprendere mio cugino, già sotto gli alberi. Lo seguii, furioso per un momento contro i tipi «celesti», poeti o profeti, che rifiutavano di predire a un amante che la sua vita sarebbe stata soltanto una bella storia d'amore. E tuttavia avevo il vizio dei presagi. Quante volte, dormendo, avevo visto immagini del futuro! Nel sonno, avevo vissuto tutta la mia lotta contro Pierre; nelle mie notti ci battevamo, eravamo nemici, ma ogni sogno finiva allo stesso modo: lui mi apriva le braccia. E poi, la realtà...
Una volta, tuttavia, ero caduto per ore e ore. Ero sdraiato accanto a Pierre e di colpo, addormentatomi, anziché provare la sensazione del nuotatore che risale alla superficie, avevo continuato a scendere verso il fondo del letto, interminabilmente, poi cadevo. Ero in pieno cielo: un'aureola lo squarciava, come in certi crepuscoli quando il sole sta per scomparire. Attorno a me vedevo me stesso replicato all'infinito; avevo ali splendenti che qualsiasi uccello mi avrebbe invidiato; eravamo mille arcangeli, tutti con la stessa faccia, e dall'altra parte del cielo ardevano spade fiammeggianti. D'improvviso ci battevamo, c'era sangue sulle nuvole e il sole aveva l'aria di dissetarsene. Il cozzo delle armi faceva scaturire scintille. Poi, lottando, mi accorsi che l'ombra ricopriva coloro che erano me: il cielo s'apriva in due. Sentii una voce che mi dava del ribelle e cominciai a precipitare. Quella caduta era senza fine, e sempre la voce mi inseguiva, con un'inflessione triste, come se il nome «ribelle» fosse pronunciato con amore... Nel momento in cui toccavamo il cancello, ci giunse la musica. Dal nostro parco a quello dei Decazes il solo accesso era sul fondo' perché se la nostra casa non era molto lontana dalla strada, la loro era alquanto isolata da un bosco di faggi, e alti muri la proteggevano fino al nostro orto. Arrivare fin lì significava percorrere la stessa distanza ma passare inosservati, cosa che noi auspicavamo. Dai nostri vicini, i viali rigurgitavano di macchine, il sottobosco di coppie noncuranti che sem bravano dimenticare la festa a mano a mano che se ne allontanavano e che la luna spalancava occhi malinconici e una bocca pronta ad amare. Procedemmo. Michel e sua sorella ci accolsero in fondo ai gradini della scalea. Eravamo uno schianto. Salimmo, e il travestimento di Pierre richiamò gente attorno a noi. I lampadari erano stati decorati con candeline multicolori. Dopo l’oscurità della notte e le luci cineree del chiar di luna, quell’illuminazione mi abbagliava. Quando gli oggetti tornarono di nuovo distinti ai miei occhi, Pierre era scomparso, ero in mezzo a un cerchio di ragazzi e ragazze sconosciuti. Si beveva e si giocava a ogni specie di gioco, a carte e non so a che altro ancora. L'atmosfera del gruppetto in cui m'aveva scagliato la sorte era tesa. Altrove si barava. Nessuno s'era tolto la maschera, io ero il solo senza. Allora cominciai a bere. Molti ragazzi, col falso pretesto di ammirare il mio modo di truccarmi, mi toccarono le gote. Poiché protestavo che si trattava di un colore naturale, la loro ammirazione crebbe: avevo una corte. Ed era anche vero che la notte calda aveva scacciato tutte le mie preoccupazioni. In grandi ciotole, galleggiavano frutti immersi nel vino; avevo sete e continuavano a porgermi da bere. Se mi fossi limitato a quello e soprattutto se mi fossi servito da solo, non sarebbe successo nulla, ma, uno via l'altro, mi offrivano cocktail i cui ingredienti, per quanto dosati in modo sapiente, parevano tuttavia preparati da mani decise a farmi perdere la testa. E ci riuscirono: non resistevo all’alcool. Se i lampadari diffondevano una luce abbagliante nell'atrio e nei saloni, nella biblioteca in cui mi trovavo I’illuminazione era discreta, se non addirittura carente, e questo, nonostante la finestra aperta sul parco, accresceva la mia sensazione d'essere in trappola. Uscii a prender aria. La purezza dell'atmosfera, lungi dal farmi passare l'ubriacatura, m'avvolse come un corpo fisico e mi fece girare a una velocità folle stringendomi il petto con mani di piombo. Una piccola ringhiera di ferro battuto, in fondo alla scalea, mi valse da sostegno. Rimasi Pi il tempo necessario a riprendermi, poi rientrai, ma un ricciolo della ringhiera mi si agganciò alla tasca posteriore dei pantaloni lacerandola, e riapparvi nella biblioteca con uno strappo alquanto provocante, dal momento che consentiva di vedere un'ampia superficie di pelle. La flanella non aveva resistito. Nel rientrare, pensavo che nessuno si sarebbe accorto di nulla, se fossi rimasto in quella stanza oscura. Michel si trovava con quelli che avevo lasciato. « Tu non balli! » Lo disse in tono così stupito che subito apparvero alcune ragazze curiose, ma io risposi che ballavo sempre e soltanto da
solo, dal momento che conoscevo esclusivamente danze di selvaggi. Lo dissi senza parlare a nessuno in particolare. Molte voci chiesero subito: « Vogliamo vedere. Facci il selvaggio. Esibirsi. E-si-bir-si... » Fui costretto a eseguire, pur se mi sentivo sbronzo, e andammo fuori in fondo alla scalea. In realtà ero proprio ubriaco e la mia danza irochese mi lasciò in un bagno di sudore. Ne volevano altre. Tolsi la polo per asciugarmi il torace e stavo per rimetterla quando me la strapparono di mano. Non sapevo più quel che facevo. Tentai invano di smettere, loro reclamavano il seguito battendo le mani. Altri gruppi furono attirati dal vociare. Dichiarai di non conoscere altre danze, ma un ragazzo si fece avanti> per - così disse - sostenermi, e i presenti si misero a ridere. Si tolse la giacca, la gettò da parte, mi prese per il polso e mi costrinse a girare. Avevo sonno. Anche il ragazzo s'era tolto la maschera. Notai il collo possente e la bocca. Mi asciugai il viso con l'avambraccio. Il ragazzo avrà avuto vent'anni, lo intuivo dalla sua baldanza nei miei confronti, e non mi nascondeva che il suo piacere sarebbe stato presto il mio. Ai miei occhi, gli alberi e il gruppo di persone attorno a noi vorticavano, e il rettangolo luminoso d'una finestra m'avvolgeva, girando, d'una sorta di grido di fuoco. Quando credevo che fosse finita, il ragazzo si rivolse agli astanti e annunciò che avrebbe eseguito lui stesso una danza d'amore apache. Mi attirò a sé, posò una mano sullo strappo, v'infilò le dita e accarezzò la pelle in modo tale che il suo desiderio divenne palese a tutti. Ero stordito, lo lasciavo fare. Una voce urlò: « Montalo a pelo per la danza d'amore! » Il ragazzo mi stringeva fra le ginocchia, minacciando di spogliarmi con la mano libera. Non reagivo, sentivo soltanto l'ebbrezza che alimentavano il ragazzo e la notte, l'uno con la forza con cui mi stringeva, l'altra con la dolcezza di cui impregnava le mie membra. Un istante cambiò tutto. Ci fu una zuffa. Con un manrovescio, Pierre aveva spedito a terra il ballerino. Tornai lucido; l'altro si stava alzando, voleva battersi. Si scagliò su Pierre, dovettero separarli. Andai verso mio cugino: mi respinse. Allora gridai a voce ben alta che mi sarei battuto io, che non era il caso di perder tempo! La rabbia del ragazzo contro Pierre si rivoltò contro di me. Mi dava dell’adescatore. Fu deciso che ci saremmo affrontati in una radura in fondo al parco. La festa continuava. Combattemmo a torso nudo; gli altri rimasero sotto gli alberi, dove di Pi a poco ripresero a ballare, mentre le loro ombre si mescolavano a quelle del fogliame. Eravamo soli nella luce lunare. Il ragazzo aveva un bel volto sensuale, ma ai miei occhi era Pierre il depositario di tutta la bellezza e quella non m'interessava. Era in piena luce e tuttavia lo vedevo come una figura di tene bra, tanto i suoi capelli bruni e gli occhi apparivano neri. Le sue spalle splendevano: era un uomo, quello che stavo per affrontare, e senza dubbio me le avrebbe suonate di santa ragione. Ci avvinghiammo; mi stringeva alla vita per sollevarmi e soffocarmi; io gli serravo il collo. Nella fredda luce lunare, formavamo uno strano groviglio. Gli altri erano lontani, non esistevano più. Mi mancava il respiro. Credetti che fosse la fine, che stesse arrivando il peggio. Ma continuai a lottare fino a quando i muscoli mi si rilassarono da soli. Rotolammo per terra senza riuscire né l'uno né l'altro a prendere il sopravvento, ora sopra ora sotto a seconda delle mosse che ci ispiravano il vigore o l'astuzia. Il suo corpo si concedeva fin nei minimi particolari; l'avessi posseduto, non l'avrei conosciuto a tal punto. Sarebbe bastato un niente per passare, senza cambiare un solo gesto, a una giostra amorosa. Talora rimane-, vamo immobili, la bocca sul viso dell’altro, spiando i sussulti; i muscoli pronti all'ultimo sforzo vittorioso. La luna ci vestiva di silenzio e nella sua luce il sudore, che ora ricopriva anche lui come me, ci trasformava in statue lucenti. Il solo rumore che colpiva il mio orecchio, in quello scontro senza
grida, era il fiato corto del ragazzo e, più basso, il movimento pulsante del sangue, pur se ignoravo se fosse il suo o il mio. Alla fine mi liberai dalla stretta e, messolo schiena a terra, gli presi d'improvviso la testa fra le cosce, stringendogli il collo perché non potesse più difendersi. Nonostante l'ampio torace e le braccia vigorose, lui non riusciva a muoversi. Tutta la mia forza era nelle cosce. Le sue mani s'avvinghiavano alle mie ginocchia per tentare di separarle finché, non riuscendovi, si posarono di piatto sui miei fianchi. Accettai la sua sconfitta. Sotto il mio sesso, la sua faccia mi veniva offerta, e la luce lunare, se soltanto chiudevo gli occhi, la trasformava in maschera mortuaria. Schiusi le gambe e con un balzo fui in piedi. Lui rimase a terra pallido come la luce della luna. Avevamo cambiato mondo. L'aiutai a rialzarsi e ci stringemmo la mano. Di nuovo vedemmo i rami oscillare sotto la luna e di nuovo il mormorio della lieve brezza sovrastò il rombo del nostro sangue. Lui raggiunse gli altri e i loro divertimenti; quanto a me, Michel mi aspettava assieme a Pierre. Quando fummo soli noi tre, Pierre mi prese per il colletto della polo, che mi era stata resa, e, messomi con le spalle contro il tronco di un faggio, diede libero sfogo alla sua gelosia. Questa gli suggeriva insulti che in altri momenti non avrebbe mai pronunciato. Voleva uccidermi. Mi raddrizzò il mento con la mano, e capii subito che intendeva colpirmi. La lotta mi aveva stremato, non mi difendevo. Alla fine, Pierre mi schiaffeggiò davanti a Michel. Il suo amore era così esclusivo che non accettava nemmeno l'esistenza degli altri: io dovevo fare il cieco e il sordo, ma mi piaceva farlo. Era colpa mia, l'avevo provocato. Da poche frasi, Michel capi più di quanto avrebbero potuto rivelargli anni di amicizia: ci lasciò in fondo al parco. Avevo la faccia arrossata e, dal suo modo di spingere la porta del fienile, mi resi conto che Pierre avrebbe continuato a picchiarmi. C'era uno scudiscio di pelle, un lungo scudiscio appeso al muro. Non ebbi il tempo di toglierlo. Lui non l'aveva mai toccato fino a quel momento, salvo quando andava al maneggio. I suoi occhi vi caddero sopra e, freddamente, lo prese e me lo passò sul corpo. Mi si gelò la schiena... Quella carezza che si sarebbe mutata in percossa era terribile. Pierre si divertiva davanti alla mia paura e, senza dire parola, cominciò a frustarmi. Credevo che avrebbe presto abbandonato quella brutalità, e mi piegavo a una sofferenza che mi avrebbe restituito un Pierre innamorato e placato. I suoi colpi, però, non s'arrestavano e scatenavano in lui una forza che il mio coraggio non arginava più. Non comandavo più alle mie lacrime, e per quanto mi stringessi a lui, Pierre mi respingeva e continuava a colpire, a colpire dove capitava, sulle spalle, sul ventre, sulle mani con cui mi riparavo. Rabbia per rabbia, la mia esplose di colpo. Mi trovavo forse Pi per il suo piacere? Mi amava ancora, per riempirmi cosi di botte? La notte mi avrebbe insegnato quanto l'amore sia più violento dell’odio, e come il sangue sia il suo vero colore. Con una mano agguantai lo scudiscio al volo, obbligai Pierre a lasciarlo, lo costrinsi con il contraccolpo a cadere in ginocchio, lo legai a una trave bassa e lo colpii a mia volta spietatamente, sicuro di far uscire la collera dal suo corpo, ma avevo fatto i conti senza la mia collera, perché, a mano a mano che lo scudiscio raggiungeva la schiena o le natiche di Pierre, ricordavo l'umiliazione che mi aveva inflitto di fronte a Michel e i nomi che mi aveva affibbiato, fra cui quello di «ragazzina», e a ogni colpo sentivo me stesso dire: « Guarda, che bei colpi sa dare una ragazzina! » E la mia voce tremava, perché non ero più padrone di me.
CAP. 11
Fa giorno pian piano: ho ucciso Pierre. Dal legno sconnesso della porta scorgo un quadrato di cielo; dentro c'è una sola stella, e il blu severo che la circonda annuncia la bellezza del mattino. Pierre è steso a terra, la testa un po' piegata sulla spalla, come se dormisse, ma so che è morto e non voglio vedere le macchie di sangue che gli rigano le ginocchia, né il filo sottile che gli cola dalle labbra e va a seccare sulla sua gola. Il colore del suo corpo privo d'indumenti è d'una bianchezza che fa più rossa la forza viva delle mie mani, Aspetto. Da ore aspetto che l'alba riporti la sua torma di gridi sulla campagna e che Pierre esca di nuovo dal suo silenzio. Partiremo comunque, perché è oggi che dovevamo partire, e Pierre, vivo o morto, è comunque mio. Ora lo vestirò. Non oso più guardarlo, benché i suoi occhi siano chiusi e non possano riflettere il mio volto. Oh! non mi rimprovererebbe nulla, perché mi amava e continua ad amarmi! Come posso esserne certo? Ma ne sono certo, anche se ho soltanto il suo corpo inerte come prova che tutto resta, e resta uguale. Abbiamo vissuto l'uno accanto all'altro, per ore, con tutto il loro corteo di silenzio e di effusioni, abbiamo patito i momenti di tristezza, lo scoramento, a fianco a fianco, abbiamo sperato, goduto, e, giunto il tempo della solitudine, anche i più crudeli di quei momenti ci sono sembrati dolci. perché il ricordo ne dispone con il potere di un mago e perché nulla è cambiato e nulla è più lo stesso: ecco che cos'è la morte. Una creatura morta è una creatura separata dalla distanza; non il tempo, è lo spazio l'ostacolo. Ditemi, ditemi voi, momenti di sogno; voi che ci avete visti addormentati sullo stesso giaciglio, uniti dal braccio dell'uno o dell'altro, o da una gamba, o anche soltanto dalla stoffa che ci riparava dal vento freddo della notte, ditemi se è giusto che un istante d'errore vi cancelli e che io sia condannato a rivivervi senza posa, fino a quando una notte suprema mi ricongiunga col mio amore! Non voglio che la luce penetri nel nostro fienile; a Pierre piaceva l'ombra e ho scelto per lui un buon letto di tenebra. Non voglio che la luce tocchi i suoi capelli, né che venga a guardare da sotto in su il suo volto per vedere se il suo sonno è un sonno profondo. Se ne vada, quell’inquisitrice, questo cadavere m'appartiene! Ho ucciso per amore. Rammento tutta questa notte. Pierre era legato a una trave bassa; gli avevo stretto una corda ai polsi. Aveva un bel dimenarsi, le corde non cedevano. Ai primi colpi, la rabbia gli era passata, scherzava: di lì a poco avrei smesso, ne era certo; era soltanto per fargli vedere come mi aveva fatto male, volevo vendicarmi. Aveva avuto torto. Poi tacque, perché io non smettevo di frustarlo con tutte le forze, come faceva lui di solito. Posso ancora sentire il si bilo che mi usciva dalle labbra con la forza d'un animale feroce. C'era buio, ma la notte non era così oscura da non consentirmi di vedere nel grigiore del fienile quel che Pierre pativa. Lo scudiscio era un lungo tratto nero di cui soltanto il sibilo attestava la realtà; dapprima gemeva come il vento notturno tra gli alberi, poi, quando il farsetto e la calzamaglia lacerati m'offrirono schiena e gambe nude, giacché Pierre aveva ancora indosso il costume, ringhiava in aria con rantoli d'amore e s'abbatteva sulla carne già intrisa di sangue. Pierre gemeva, ma non batteva ciglio; era legato in modo tale - non alto non basso - che non riusciva a stare né completamente ritto né inginocchiamo. L'oscurità mi celava le sue piaghe. Appoggiò la fronte ai polsi: forse piangeva già! Avevo la bocca aperta, perché il respiro m'opprimeva, e vedevo meglio che in piena luce quel corpo piegato. Lo scudiscio era il mio braccio; mi prolungava come s'io fossi un tutt'uno con esso e se fossi io ad abbattermi su quella schiena e su quelle cosce che la mia violenza adorava.
Non ero più un ragazzo, ero una serie di colpi con volto di ragazzo. Allo stesso modo avrei potuto colpire me stesso. Ero in piedi e mi scorticavo il palmo della mano con il cuoio per resistere alla tentazione di gettarmi su quel corpo. Allora l'amore, nascondendo il sangue che colava lungo i polpacci di Pierre e si perdeva nella paglia, l'amore, carnefice che mi aveva insegnato le regole del supplizio, esasperando il mio sesso dopo il braccio, mi rivelò lo splendore di quel ragazzo semisdraiato che, dopo i miei colpi, pareva in attesa dello stupro. Senza lasciare lo scudiscio, mi avvicinai. Il mio sudore era così abbondante che avevo l'impressione di brillare come metallo; quello di mio cugino aveva l'odore dell’amore e io non sapevo ancora che era rosso. Gli morsi la nuca a bocca spalancata, e il suo odore, l'odore delle sue braccia, del suo petto, dei suoi coglioni, mi pervase fino a farmi perdere la testa. La mia mano riconosceva Pierre, lentamente, dalle spalle fino al ventre, e, mentre alzavo il braccio per sollevargli la testa e baciarlo sulla bocca, l'odore delle sue ascelle - un misto di stanchezza e desiderio - finì d’inebriarmi. Poi quei due odori si unirono e, quando il mio corpo si trovò in quello di Pierre, essi avevano dato vita attorno a noi a una terza persona: l'amore. Avevo fra i palmi la vita di mio cugino, l'avevo costretto a mettersi dritto sulle gambe, mentre il busto rimaneva curvo a causa delle corde. Lo possedevo, ansioso nel vedere a ogni istante che già la felicità mi sfuggiva, dal momento che la sentivo arrivare e sentirla arrivare era ucciderla. Pierre aveva cercato di resistere, aveva irrigidito i muscoli, ma quando il mio desiderio gli ebbe mostrato che ero io il più forte, si abbandonò e una grande dolcezza s’impadronì del suo corpo. Non vedevo più niente, le mie mani non sentivano più quel che toccavano, pensieri mi attraversavano la mente con la violenza di cavalli imbizzarriti. Lo avvinghiavo al ventre con le braccia, scatenavo in lui un uragano di brutalità. Un attimo di tregua mi diede modo di vedere che piangeva. Capii che non si trattava più di dolore, che a sua volta Pierre conosceva il piacere d'essere preso da chi si ama, ma che lui si ribellava alla sua stessa voluttà. Se l'avessi slegato, m'avrebbe ucciso. Ero passato mille volte per quegli eccessi di rabbia e mille volte un'estasi infinita m'aveva rapito da terra e staccato da colui che mi dava quella gioia dolorosa; dopo, fuggivo per non cedere ai desideri omicidi. Pierre era stato il solo che avessi accettato, e, alla fine, sapevo che era così anche per lui. Mormorai: « Ti adoro »; lo afferrai per i fianchi, volevo che non soltanto il mio sesso, ma tutto il corpo facesse mia quella pelle, miei il suo dolore e la sua debolezza... Il mio cuore mescolava i propri sogni alla lenta ascesa del piacere. Pierre si concedeva a poco a poco, con una forza che escludeva ogni sensualità femminile: l'uomo si adeguava al proprio bisogno. Io impazzivo e ogni movimento delle mie reni si scomponeva, diventava maestoso. Mi pareva di abbandonare quel corpo e di mettere fra me e lui distanze astrali. Un lieve lamento mi univa a Pierre. Gli presi la testa da dietro e la mia bocca socchiusa riconobbe quegli occhi dove le lacrime s'incollavano alle ciglia, le orecchie dove s'infilò la mia lingua, la bocca dalle cui labbra colava una saliva calda mentre la schiudevo con le mie; e con entrambe le mani gli accarezzavo il viso coprendolo di baci. Gli stringevo il collo. La tempesta del piacere mi sferzò con la sua folgore, e dopo molto tempo - così mi parve - il suo tuono esplose nel mio corpo lasciandomi come un cadavere, la carne di colpo irrigidita su quella di mio cugino, mentre non sentivo più, non vedevo più, non capivo più se si trattava di un odore di notte, un colore di notte, un grido notturno. Quando tutto svanì, Pierre mi supplicò: «Slegami, Gérard, slegami, sto morendo...» Seppi che avevo fatto l'amore nel sangue; lo slegai con una tal fretta che fui maldestro e lo feci scivolare sulla schiena. Lui non resisteva al dolore, sicché lo sdraiai a pancia in giù su ciò che rimaneva dei nostri indumenti. La malinconia che segue il piacere mi fece sentire un assassino. M'inginoc-
chiai di fronte a Pierre, gli sollevai il capo, gli baciai la fronte, la bocca, le guance come a un bambino. Infine mi parlò; e ogni parola mi trafiggeva il cuore con la dolcezza d'una lama. «Sento che sto per morire, Gérard, e sono sempre innamorato di te, e questo uccide come tu mi hai ucciso... Era quel che volevo. Non posso raccontarti la lunga storia del mio amore: lo vedo tutto intero come un'isola deserta in mezzo al mare, un mare crudele... Sto male... Devi scappare, altrimenti gli uomini tratteranno anche te come un morto... Da tempo nutro per te sentimenti di fratello e di amante, da così tanto tempo che il ricordo... » E mi dichiarò tutto ciò che aveva nell'anima, così come un ragazzo sdraiato, in un caldo pomeriggio estivo, pensa al proprio amore. Era tutto ciò che gli veniva in mente, a casaccio, le ore al liceo, le nostre serate a Parigi, e, qui e là, l'odore di un albero, il colore d'un mattino, la presenza dell'altro, caldo come il sole. « Il cielo era d'un azzurro profondo, splendente... » raccontava dolcemente e lì, nel fienile, nelle ultime ore della notte, la giornata in riva al fiume ricominciava con la stessa forza incerta in due ragazzi che nessun gesto ancora univa. Imparai di nuovo il mio amore, lo conobbi attraverso occhi diversi ed era altrettanto ardente, altrettanto virile, altrettanto tenero. Il suo vaneggiamento durò fino alle prime luci dell'alba, poi ci fu un attimo di silenzio mentre, sotto le mie mani, il volto gli traspirava come se l'acqua della vita stesse abbandonando il suo corpo. Gli zigomi diventavano gelidi, le dita mi stringevano debolmente. Non era un'agonia, ma la fine di un'agonia, perché fin dall'ultima scudisciata aveva cominciato a morire. Mi parlava in modo sconclusionato: « Il cielo era d'un azzurro profondo, l'estate scorsa, l'estate scorsa... e Gérard camminava con me su una strada... Bisogna stare attenti alle ombre: la morte ha in mano mele d'oro e le lancia per farci correre più in fretta... » poi riprese coscienza e con una grande tristezza mi disse: «Muoio e tu camminerai nella luce, tu camminerai e io ho sete di te...» Mi chinai, riconobbi a stento le labbra, tanto erano fredde, e, quando la mia bocca lasciò la sua. la sua testa mi scivolò dalle mani con la pesantezza del sonno: il cuore non gli batteva più. Presi Pierre fra le braccia, mi sdraiai sul suo corpo, lo strinsi, ma lui lasciava fare come chi, stremato dalla fatica, non voglia svegliarsi. Rimasi adagiato sulla sua morte. Anch'io gli raccontai del mio amore, con la voce di un giovane innamorato che per celare il proprio turbamento approfitta del buio e confida ciò che la sua lingua ha rifiutato di dire alla luce del giorno. Sto impazzendo. Sono passate ore; ecco che s'alza il sole; alba e aurora m'hanno visto sdraiato su Pierre, abbracciato a lui, viso contro viso, cuore contro cuore. Perché non hai fatto niente per salvarlo, assassino? L'amore ha ucciso l'amore, che venga preso e rinchiuso! Non volevo uccidere, lasciate vivere Pierre e fate morire me! Come mi avete tentato, vecchi presagi! I vostri uccelli, i vostri colori, il vostro specchio, i vostri libri ne sapevano più di me. Voi eravate certi di rispondermi e io sentivo, ma non potevo vedere. Ecco che la coppa del turbamento si è allontanata dalle mie mani ed ecco che mi lasciate senza amore, come se l'assoluto si ritraesse da me con la violenza dei fiumi in piena che, dopo il loro passaggio, non lasciano altro che fango. Oh! invecchiare! Vecchi presagi, mi state annunciando una morte prossima, devo sperare di non avere futuro? L'innamorato che ha trascorso la notte accanto a colui che ama vede arrivare il mattino senza timore e senza sapere che è un nuovo giorno; l'innamorato la cui passione è prigioniera della notte, aspetta, non può dormire e non appena la parte inferiore del cielo è baciata da un riflesso più chiaro, lui si alza e corre per ricuperare il tempo perduto; ma l'innamorato cui rimangono soltanto il ricordo e un solo grido per chiamare la morte e l'amore, disprezza le ore, disconosce la notte, non dorme né veglia, ha soltanto fretta di morire. Io ero quell'innamorato, il mio grido era Pierre. Il mio corpo quel grido.
Respiravo con violenza, senza riuscire a scacciare l'angoscia dal mio petto. Immaginavo che fosse inutile aspettare, e lentamente l'idea di andarmene s'insinuò nel mio cervello, mi disse che occorreva portar via quel morto, se volevo che fosse mio per sempre... Potevano arrestarmi, uccidermi, non importava. Così, faccio tutto ciò che va fatto e ogni cosa procede tanto in fretta che tutto diventa passato. Andai a casa a prendere dei vestiti. Tutto era silenzio. Scelsi con cura nella stanza di Pierre quel che mi serviva per vestirlo. Presi una camicia, dei calzoni, calze grigie, scarpe, sia per lui sia per me. Mi pulii rapidamente il corpo nella stanza da bagno, e lo specchio mi rimandò l'immagine di una schiena dove macchie rosse indicavano i segni dei colpi. Mi vestii. Tornai al fienile. Avevo portato con me un asciugamano umido, gettai i vestiti per terra e lavai il viso di mio cugino, la bocca dalle labbra incollate dal sangue, il collo, le tempie di cera che il sudore, seccando, aveva reso lucide. Poi lo vestii. Dovetti piegargli le braccia e sollevargli il corpo per infilargli la camicia, la stoffa non scorreva, perdevo la pazienza e avevo in testa la speranza insensata che potesse essere ancora vivo. Ora si sveglia, pensavo, sorriderà, mi tenderà le braccia; e io chiudevo gli occhi supplicando tutte le divinità del mondo di restituirmi il mio amore, sicuro che mi avrebbero ascoltato, e li riaprivo soltanto dopo un silenzio esasperato, quando nulla era potuto succedere. Una volta abbottonata la camicia, la cosa più difficile fu imporre la stessa docilità alle gambe; la paglia s'attaccava ai calzoni, le cosce opponevano resistenza, il sesso rifiutava di lasciarsi nascondere. La luce aumentava, ebbi paura di quella vestizione funebre, di mettere sull’amore morto dei vestiti d'amore vivo, di vestirmi come colui che avevo appena fatto morire rompendogli un'arteria. Pierre pareva riposare prima di una passeggiata. Le scarpe furono per me un altro supplizio, era come se il tallone si ribellasse a quella commedia. «Sono morto», sembrava dire mio cugino, «lasciami come un morto. Non voglio scimmiottare il tuo mondo, non devo più camminare, non devo più correre. Baciami e lasciami dormire... » A poco a poco, tutto fu pronto. Andai in garage e presi lo scooter. Lo sapevo usare a malapena. Aprii la porta del fienile in modo tale che il montante di legno celasse ciò che stavo per fare. Adesso ero in ginocchio accanto a Pierre; riuscii con difficoltà a prenderlo sotto le braccia: i morti sono pesanti. Correvo in gara col tempo, la memoria a pezzi nella testa. Chi ero, che cosa stavo facendo? Misi mio cugino sullo scooter appoggiandone il corpo alla mia spalla e, perché non ciondolasse, dovetti calarlo fra la ruota di scorta e il sellino anteriore, e legarlo a quest'ultimo con la cintura. In tal modo, se fosse caduto, sarebbe stato contro di me. Non so per quale favorevole circostanza il busto rimaneva eretto, appena inclinato in avanti. Gli misi gli occhiali da sole perché non destasse sospetti. Del resto, la velocità sarebbe stata mia alleata: nessuno avrebbe prestato grande attenzione a quello strano passeggero. Nel fienile, sparsi tutt'attorno la paglia, raccolsi i resti dei nostri vestiti, li bruciai su un cumulo di pietre che poi sparpagliai. Niente ci avrebbe tradito. Non avevo bagaglio, ma tutto il denaro della nostra spedizione. Andai anche a cercare benzina in garage, in una tanica di scorta. Alla fine fui pronto a partire. Salii sullo scooter e riuscii a metterlo in moto subito, con la facilità indotta dal pericolo. Curvai di fronte al fienile. Ora la campagna era desta e il rumore dello scooter non turbava il sonno di nessuno. Mi immisi in un viale ghiaioso per evitare la casa e costeggiai il muro del parco. Non avevo pensato al cancello. Per puro colpo di fortuna era rimasto aperto. Senza scendere, lo spinsi col piede e lo attraversai, come un ragazzo che corre a divertirsi. Ero un assassino in fuga.
Mi allontana da Amboise, diretto a sud. Dove? Non sapevo. Dovevamo andarcene, il resto non importava, ed era quanto stavo facendo. Cambiai dieci volte direzione, il corpo di Pierre non si muoveva. Ero stranamente calmo, perché il mattino mi dava quella tranquillità che segue il risveglio e perché non ero ancora abituato a quanto mi stava succedendo. Nella mia fuga, ero attorniato dalla bellezza; la natura m'offriva il suo volto più bello proprio nel momento in cui stavo per abbandonarla. Non volevo più sentire l'odore dei campi né quel grido nel mio cuore: « Tu ami l'amore, tu ami l'amore... » Il mio amore era un morto: dovevo uccidermi. Allora ammirai i boschi, visibili da un orizzonte all’altro, le file di alberi che separavano, come nei disegni, il grano e l'avena fatua, gli orti dove l'erba era più folta perché la terra si nutriva di frutti morti, le grandi distese d'erba medica dove d'un tratto esplode un grido rosso di papavero, i fossi lucenti, le forre fiorite, il salto capriccioso dei sentieri obliqui, l'odore della terra, il sapore della terra, e di colpo sapevo che, di lì a poche ore, quel sapore l'avrei avuto nella bocca. Andrò non so dove, ma fuggirò fino alla morte. Il mio sangue batteva troppo forte contro la roccia del mio cuore. Di sogno in sogno, mi ritrovai in una contrada sconosciuta, il sole già alto, e attraversando un villaggio scorsi a un campanile che erano le undici. E furono di nuovo altre strade deserte; non incrociavamo nessuno: il mondo ci abbandonava. « Ricordi », dicevo a Pierre, « i tigli, di cui toccavamo i rami; la nostra stanza in boulevard Malesherbes e l'incisione di David nella scala, il giovane a cavallo a gambe nude; ricordi, accanto al letto, la lampada che avevo spento per baciarti; ricordi i miei libri in disordine, al tempo in cui morivo per il fatto di non poterti toccare; ricordi l'odore del caprifoglio, nei pomeriggi a Cœuvres, il maglione rosso, le sere di maggio nel giardino diventato buio, le passeggiate nel bosco, le stupide storielle che ci facevano ridere; ricordi il liceo Carnot; ricordi i lunghi discorsi, di notte, da un letto all’altro, quando, la finestra socchiusa, l'angolo di cielo che vedevi tu non era il mio; ricordi la luce malinconica di luglio, le grida dei bambini nel parco Moriceau, la bellezza del cielo, alle nove, sul groviglio di alberi a Saint-Cloud; ricordi il compleanno in cui, senza volerlo, ti avevo baciato di fronte a tutti sulla bocca; ricordi la tristezza illuminata dell'avenue de Courcelles, la sera, quando tornavamo dal cinema; ricordi come ero infelice quando tu facevi progetti di cui io non ero parte; ricordi come ti trovavo bello, ricordi, ricordi... e quell'atmosfera fosca in cui, per quanto fossimo amici, già avvertivamo il sentore soffocante di un desiderio senza scam po, dal momento che avevo sempre la tua bocca sotto gli occhi, e il tuo collo, le tue gambe forti, e che, per tutti i movimenti con cui a poco a poco l'amore si tradisce, come posarti la mano sul braccio o prenderti per la spalla, era inevitabile che finissi col vedere il tuo viso avvicinarsi alla mia bocca e la tua bocca percorrermi il corpo in cerca del mio piacere. Avevo intravisto l'avvenire con te come una strada dritta senza ostacoli alla nostra tenerezza - anche le botte facevano la mia dolcezza... Vedrai, supero l'esame di maturità e l'anno prossimo imparo a pilotare. Ti porterò sulle nuvole... » Non so come non sono uscito di strada dieci volte. L'istinto vitale mi preservava. Morto Pierre, l'idea di Pierre si sostituiva alla sua presenza, ma riuscivo a sopportarla soltanto grazie al suo cadavere. Andato lui, l’amicizia nella morte esigeva che io morissi, non ero uomo di ricordi. Ciò che era lontano era estraneo, e la vita m’indignava con i suoi bei sentimenti eterni: eternità è presenza. Amavo Pierre, non lo avrei lasciato. L'anno prossimo... era terra... nella sua bocca e nella mia... Il calore palpitava sulla strada; a destra, i campi più alti di questa erano sollevati e danzavano a qualche palmo da terra; dall’altro lato, c'era la quiete dell’estate che finiva; in controluce si distinguevano le efelidi che segnano la fronte degli alberi come quelle dei contadini attaccati al loro pezzo di terra.