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1. Moschettieri, cavalieri e rare allegorie d’amore. Il primo lunedì d’aprile del 1625 la cittadina di Meung, dove nacque l’autore del Roman de la Rose, sembrava completamente sconvolta, come se gli ugonotti fossero venuti a farne una seconda Rochelle. Molti borghesi, vedendo fuggire le donne dalla parte della Grande-rue e sentendo piangere i bambini sulle porte, si affrettarono a indossare la corazza e, rafforzando il loro contegno un po’ incerto con un moschetto o una partigiana, si diressero verso la locanda del Franc Meunier, davanti alla quale si accalcava, ingrossandosi di minuto in minuto, una folla compatta, rumorosa e curiosa1.
All’inizio dei Tre moschettieri Alexandre Dumas, con la nonchalance e la grinta del narratore di razza, fin dalla prima riga precipita l’immaginario del lettore in un oscuro Nonluogo della Francia profonda («[…] la cittadina di Meung […]»), collocandolo però nel tempo («Il primo lunedì d’aprile del 1625 […]») con una precisione calendariale degna dei grandi eventi della Storia, che contrasta violentemente, anzi proprio fa a pugni, con un Nome tanto anonimo. Nella seconda riga, senza nesso visibile con le altre informazioni storiche offerte nel capoverso, e con pignoleria che ha tutta l’aria d’essere inutilmente erudita (il lettore se ne chiederà infatti la ragione per molte pagine, se non per tutto il libro), quel luogo si connota come la città natale di Jean de Meung, autore del più famoso romanzo del Medioevo cortese. Come può sbocciare il lento, pensoso melisma gregoriano del Roman de la Rose fra il luttuoso Adagio barocco dell’evocazione della guerra dei Trent’anni (che il distratto Dumas, scrivendo velocissimo, anticipa di un decennio) e il fragoroso ingresso da Opéra comique di d’Artagnan, proprio nelle battute inaugurali del più frivolo e amato dei racconti di cappa e spada, il cui ritmo diventa subito il Presto con molto brio, con 1 a. dumas, Les trois mousquetaires, Paris 1844, cap. i: Les trois présents de Monsieur d’Artagnan père. Faccio ricorso intenzionalmente, per la traduzione italiana, a quella apparsa nella serie (tacciata dai soliti polemisti di attuare una diffusione della letteratura su scala «nazional-popolare») allegata nel gennaio del 2004 al quotidiano «La Repubblica»: I tre moschettieri, introduzione e traduzione di G. Paduano, Roma 2004, cap. i: I tre doni del signor D’Artagnan padre; la frase citata si legge a p. 7.
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capitoli travolgenti come un Crescendo rossiniano? Perché un richiamo a quell’imponente, onnivoro librone di ventiduemila versi scritti in francese antico, a suo tempo diffusissimo (ci restano più di trecento manoscritti, e almeno ventuno edizioni a stampa fra il 1481 e il 1538), ma ormai oggetto desueto2, in pieno romanticismo, con la sua vicenda tutta mentale della conquista del Fiore desiderato dall’Amante, in una psicomachia interiore che, fra enciclopedismo e erotismo, accumula figure filosofico-allegoriche, ma che ai prodi cavalieri dei romanzi di Bretagna sostituisce astrazioni concettuali, Delizia, Ragione, Gelosia, Dolce Sguardo, Bell’Accoglienza, Mala Bocca, Falso Sembiante? Dumas compose tutto d’un fiato, nel 1844, il suo vivace e leggero romanzo di spadaccini e di guerre, teso fra politica e religione, alla fine di un quinquennio di produttività furiosa: fra il 1841 e il 1845 scrisse una ventina fra testi teatrali e libri di viaggio, e ben ventisette romanzi, fra i quali, in diciotto volumi, la storia tenebrosa e dai toni goticheggianti della segregazione nel castello d’If del conte di Montecristo. Il tempo per dedicarsi a ricerche d’archivio non l’aveva certo (e infatti sbagliò clamorosamente la data con cui apre il libro: invece di 1635, scrisse 1625: salvo che si voglia pensare a un anacronismo ricercato, ma dal senso oscuro). Proclama, autoironico, nella Prefazione, di volere «presentar[s]i un giorno con bagaglio altrui all’Accademia delle iscrizioni e belle lettere, se non foss[e] arrivato – cosa assai probabile – a entrare nell’Accademia francese col bagaglio [su]o»3. Giocò, infatti, sulla memoria liceale, e dovette ricorrere agli scaffali delle biblioteche circolanti. Soprattutto, sospetto che gli sia venuto fra le mani il numero della «Revue des deux mondes» del 15 agosto 1843 che, a firma di JeanJacques Ampère (figlio del grande fisico André-Marie, «il Newton 2 Nel senso splendidamente illuminato da f. orlando, Oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino 1993: libro che questo lavoro ambirebbe a tenere come luminoso e costante faro metodologico. Su questa linea di pensiero, nelle pagine che seguono mi sforzerò di individuare e segnalare, per la loro evidenza testimoniale di fenomeni culturali più ampi, «la coincidenza d’una costante di forma – e precisamente di sintassi – con due costanti tematiche, ossia di contenuto, connesse fra loro» (ivi, p. 3), avendo a mente soprattutto l’invito di Leo Spitzer ad accendere lo sguardo anzitutto sulle identità lessicografiche e morfosintattiche e in secondo luogo sulle identità semantiche, metaforiche, ideologiche che quelle linguistiche sostengono, condizionano ed anche permettono di riconoscere, quando si siano raccolte e opportunamente valutate le prove di una «solidarietà europea che non ha mai cessato di esistere: solidarietà relativa al materiale verbale (che apparteneva esclusivamente agli antichi) e solidarietà negli sviluppi semantici che hanno contribuito, attraverso i tempi, ad arricchire il materiale originario»: l. spitzer, Essays in Historical Semantics, New York N.Y. 1948, p. 303. La frase è ricordata anche da R. Wellek nella sua Prefazione alla versione italiana di un altro fondamentale libro di l. spitzer, Classical and Christian Ideas of World Harmony, Baltimore Md. 1963 [trad. it. L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, Bologna 1967, pp. vii-xvi (a p. ix)]. 3 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. p. 4.
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dell’elettricità»), dedicava quaranta pagine al libro medievale, di fatto rilanciandolo sul mercato del vasto pubblico4. Da pochi anni (nel 1840) era apparsa in Italia l’edizione definitiva e ampiamente rielaborata dei Promessi Sposi, uscita già in prima edizione nel 1827 e subito applaudita in tutta Europa, dalla Francia di Balzac alla Germania di Goethe alla Russia di Pu∫kin (che lo lesse in italiano), e perfino all’America di Edgar Allan Poe. Manzoni aveva scelto un avvio imperniato su un gioco di opposizioni affine, a pensarci un poco, a quello di Dumas. Il libro si apriva con la Geografia e con la Storia, collocando la modesta vicenda di «gente meccaniche»5 nello spazio casalingo della provincia lombarda (però con l’ékphrasis incipitaria forse di più largo respiro di tutta la letteratura europea) e nel tempo sbriciolato di una quotidianità paesana, tanto più assurda proprio perché datata anch’essa con esagerata esattezza cronologica («Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre 1628, Don Abbondio, curato d’una delle terre accennate: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovano nel manoscritto […]»6. Molte delle pagine successive, in quel capitolo i, erano state dedicate a collocare le minuscole vicende dei personaggi provinciali sulle ascisse e ordinate della Storia. Anche nei Promessi Sposi, dunque, alle spalle del tempo piccolo, la cronaca dei poveri innamorati sventurati e del pavido curato brianzolo, s’intravedeva subito il Tempo Grande della Storia: le Armi, le Guerre, le epocali Mutazioni. Dumas non era Flaubert, erudito divoratore di biblioteche. Non so dire se prima di scrivere i Tre moschettieri avesse letto i Promessi Sposi. Probabilmente sì. Tradotti da Rey-Dusseuil, li aveva pubblicati nel 1828 Charles Gosselin, lo stesso editore che fra il 1822 e il 1830 stampò, in una sessantina di volumi, le Œuvres complètes di Walter Scott. Sta di fatto che per avviare il capitolo ii del suo libro anche Manzoni aveva scelto l’ironia affettuosamente grottesca del paragone falso-epico: proiettando, veloce come il fulmine, il lampo e l’ombra del modello eroico dietro alla maschera d’un personaggio farsesco e meschino, s’era giocata an4 Tre anni prima, nel 1839-40, Jean-Jacques Ampère aveva pubblicato a Parigi una Histoire e littéraire de la France avant le xii siècle, seguita nel 1841 da una Histoire de la littérature française au moyen-âge comparée aux littératures étrangères: ma certo le due opere dovettero godere di una circolazione assai più modesta del saggio pubblicato sulla «Revue des deux mondes». Su di lui si veda uno dei lundis di Sainte-Beuve: c.-a. sainte-beuve, Nouveaux lundis, XIII, Paris s.d. [1908?], pp. 183-265 (già apparso nella «Revue des deux mondes» il 1° settembre 1868). 5 a. manzoni, I Promessi Sposi, Introduzione, in a. chiari e f. ghisalberti (a cura di), Tutte le opere di Alessandro Manzoni, 7 voll., Milano 1954, vol. II, tomo I: I Promessi sposi: testo critico della edizione definitiva del 1840, p. 3. 6 Ibid., cap. i, pp. 8-9.
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che lui la carta dell’allusività. La mossa risultava colma di energia subliminale, tanto più forte in quanto quasi inavvertita dal lettore che già incominciava ad appassionarsi seguendo «il filo della storia», al modo di Don Abbondio, «a bocca aperta, come incantato»7: Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose8.
È notevole il mutamento rispetto al Fermo e Lucia (rimasto inedito, peraltro, fino al 1905), che si apriva con un giro di frasi ben più generico, molto ingarbugliato, assai meno teatralmente costruito, inteso ad omettere piuttosto che a dichiarare, quindi a far immaginare senza offrire il supporto di un parallelismo; ma soprattutto imbastito su un allegorismo astratto e fuori posto davvero degno, questo sì, del Roman de la Rose: il quale roman sarebbe stato a suo agio in quello scartafaccio trascritto dall’Anonimo secentesco, di gran lunga più che nel romanzone borghese goloso delle avventure dei nuovi cavalieri dal cappello piumato: La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L’egoismo, la debolezza, e la paura vi si trovavano come in casa loro, l’astuzia doveva quindi essere invitata, e ricevere l’incarico di proporre il partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal tempo, ma questo anche fu rigettato perché non v’era spazio per eseguirlo9.
Il lettore, di fatto, si «annoja» molto di più a seguire le volute barocche di quei concetti-personaggi senza nerbo e senza volto, cui manca solo la lettera maiuscola per figurare, appunto, in un romanzo allegorico medievale. Quanto più efficace, e di ben più incisiva allusività, è la scelta successiva e definitiva di evocare, dietro gli incubi notturni del curato in papalina, l’elmo sfolgorante del misterioso Principe di Condé. Il nome sarà risuonato per molti lettori ottocenteschi al modo arcano e favoloso di un qualche Marchese di Carabà; ma a tutti doveva 7 Ibid., p. 16. Per le occorrenze e per un’esegesi delle implicazioni struttive e poetologiche del sintagma «il filo della storia», da interpretarsi attraverso la restituzione di un’ampia metaforica «tessile» (il testo come «filo» da tessere per trarne il «tessuto» che è la «trama» della narrazione) rinvio a c. bologna, Il filo della storia. «Tessitura» della trama e «ritmica» del tempo narrativo fra Manzoni e Gadda, in «Critica del testo», I/1 (1998), pp. 345-406. 8 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. ii, p. 26. 9 id., Fermo e Lucia, in a. chiari e f. ghisalberti (a cura di), Tutte le opere di Alessandro Manzoni cit., vol. II, tomo III: Fermo e Lucia. Prima composizione del 1821-1823, p. 32.
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risultare chiarissimo che era chiamato in causa come eroe di un’impresa guerresca: anche se la parola «battaglia» Manzoni, accuratamente, la faceva scivolare su Don Abbondio, per dare consistenza da epopea alle sue «consulte angosciose». Quel principe era la pedina di un gioco esotico e fatto di nomi, di parole, di libri: il gioco della guerra lontana, del cui fragore erano pieni solo i poemi e i romanzi di cavalleria, ma che ben presto avrebbe invaso la storia grande d’Europa, dilagando perfino nella storia piccola dei due fidanzati infelici, proiettata sul telone della memoria e raccontata dal nuovo romanzo storico e anticavalleresco. 2. «I romanzi “succedono” per il fatto che esistono e vengono letti». Le vicende dei Tre moschettieri e dei Promessi Sposi si svolgono a centinaia di chilometri di distanza, ma esattamente nello stesso periodo: anzi, proprio negli stessi mesi. Il salvacondotto firmato da Richelieu, che Athos strappa a Milady consegnandolo a D’Artagnan, e che con un inganno salva la vita di quest’ultimo, nelle ultime pagine del libro (cap. lxvii, Un messaggero del Cardinale), è datato 5 agosto 1628: tre mesi e due giorni prima di quella passeggiatina di Don Abbondio nel crepuscolo sotto il Resegone. Un poco come avviene (anche se su tutt’altro piano) ne La cognizione del dolore, la più grande parodia, o “ricantazione” manzoniana (si pensi al microscopico Don Gonzalo che “diventa” il protagonista, e al protagonista Lorenzo Tramaglino che “si trasforma” nel microscopico Filarenzo Calzamaglia), anche in Dumas, difficile dire quanto intenzionalmente e consapevolmente, assumono il ruolo di perni della storia, intorno ai quali ruotano le guasconate dei moschettieri francesi, tutti i grandi personaggi europei che Manzoni aveva tenuto come figurine minuscole nel romanzo del matrimonio impedito: soldatini di piombo o fantocci da teatro dei pupi, ombre scurissime e allegoriche, che filtrano di tanto in tanto negli interstizi della narrazione, a ricordare la corrusca tragedia della Storia Grande che si svolge sul palcoscenico europeo, contro la quale si schiantano le piccole storie nella valle del lago di Como. La sincronia dei due libri è straordinaria. Mette in luce, mi pare, una volontà estetica e un atteggiamento culturale nei confronti della cavalleria e della guerra moderne, decaduto e svilito epilogo di quelle eroiche, mitiche, del Medioevo. Più che una poetica (giacché i due autori, così affini nell’impostazione, sono poi lontanissimi nel gusto e nelle intenzioni di fondo della scrittura romanzesca), è un’identica posizione epistemologica che si chiarisce, proprio nella scelta di tratteggiare ar-
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cheologicamente un paesaggio mentale abbastanza fedele, con la ricostruzione di pannelli e di coulisses necessari all’intenzione narrativa. Il romanzo storico sta sviluppando, con la proiezione nel cuore dell’età delle grandi guerre moderne da cui nacquero gli assetti statali ottocenteschi, il nuovo modello applicato da Walter Scott al Medioevo goticheggiante dei boschi e delle imprese coraggiose compiute da Ivanhoe, il più moderno dei cavalieri antichi (e fra le Œuvres complètes edite da Gosselin, mentre preparava la metamorfosi del Fermo e Lucia nei Promessi Sposi, Manzoni aveva potuto leggere anche Les Fiançailles de Triermain e La vision de Don Rodrigue, nel III tomo, e le Histoires du temps des Croisades, fra cui, nel tomo XXXIX, Les Fiancés ou le Connétable de Chester). Il revival di maniera di Ivanhoe, così dipendente dall’immaginario dei pittori e dei disegnatori primo-ottocenteschi, s’intreccia, a ben vedere, con una stratificazione più profonda e complessa della tradizione iconografica europea. Il ricorso all’evocatività dell’immagine visiva tende alla stessa finalità della scelta della dimensione storica in cui calare la trama: il problema sarà, allora, determinare quale storia, e come e perché sia scelta per realizzare questa complessa proiezione identificativa-differenziativa, tecnicamente definibile quale allegoria; e infine da dove essa venga dedotta. Manzoni sceglie il Seicento, epoca della prima modernità, per rispecchiarvi e metaforizzarvi la «seconda modernità post-rivoluzionaria»10: e in questo modo I Promessi Sposi (sia pure in dimensione tragica anziché tragicomica) replicano di fatto il Don Chisciotte, per così dire facendosene scudo. Per questa via, soprattutto riscrivendo e metabolizzando Cervantes, l’età romantica sussume, già riorganizzata nell’immaginario come repertorio di rovine, l’intera tradizione medievale e rinascimentale, e quindi anche la storia della cavalleria dai romanzi cortesi e dalle chansons de geste fino al Boiardo e all’Ariosto. Il cavaliere romantico è consumato, giunto al termine della sua parabola funziona10 Questa citazione, e le altre che seguono fra virgolette in questo capoverso, sono tratte da un breve saggio pensato con lo sguardo rivolto a Walter Benjamin e che a me sembra assai acuto nella riflessione epistemologica sulla categoria del cavalleresco lungo il suo lento e vario sedimentarsi, riprendersi e metabolizzarsi storico e nel suo cristallizzarsi nel romanzo manzoniano: a. brandalise, Cavalleria visibile e cavalleria invisibile. «Approfondimento» e «oltrepassamento» del simbolo cavalleresco in Manzoni, in «L’immagine riflessa. Rivista di sociologia dei testi», XII/2 (lugliodicembre 1989), pp. 461-71 (alle pp. 465, 467, 462); si veda anche (a proposito del Prologo del Don Chisciotte), id., Stili e maniere di un’aristocrazia invisibile (1998), in id., Oltranze: simboli e concetti in letteratura, Padova 2002, pp. 59-71. Infine cfr. il recentissimo saggio, nitido e ricco di sollecitazioni (apparso troppo tardi perché vi potessi ricorrere in queste pagine), id., Figure del Medioevo nell’immaginazione politica della Modernità, in p. boitani, m. mancini e a. varvaro (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo, vol. II: Il Medioevo volgare, tomo IV: L’attualizzazione del testo, Roma 2004, pp. 273-97.
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le; e si manifesta soltanto «come mera sedimentazione in tecnica di manutenzione di gerarchie sociali», ed anche in quanto operatore simbolico «nella ricerca di un ordine irriducibile alle autorappresentazioni del moderno». È attivo proprio in quanto invisibile, malinconica allegoria di quel repertorio consunto: il Seicento manzoniano «è anche un grande, ironico museo-cimitero di simboli cadaverizzati dal pieno compimento della loro explanatio pedagogico-convenzionalista». Ormai «la forma del romanzo è il divenir forma del suo sparire, il suo […] trapassare in se stesso»: il radicarsi di Manzoni «nello snodo-simbolico-moderno» lo rivela «fondamentalmente “contemporaneo” degli abitatori di questo luogo dove la storia prende forma nel suo stesso sospendersi e dove il movimento del simbolo si riattua nel trapasso dal visibile all’invisibile». Certo, bisogna dire che, innamorati delle loro storie, non sempre gli scrittori stanno attenti alla Storia. L’errore di Alexandre Dumas, che di libri ne scrive a decine in pochi anni, crea un poco di turbamento in chi ricordi come andarono “davvero” le cose. Il cardinale di Richelieu pose l’assedio all’ugonotta La Rochelle due anni più tardi rispetto a quel 1625 con cui Dumas avvia il suo romanzo; e l’assedio fu posto, appunto, dai cattolici agli ugonotti (là rifugiatisi nel 1572, dopo la notte di San Bartolomeo), e non viceversa, come si rischia di dedurre a una lettura affrettata quale avrà certo fatto il lettore comune del romanzo («Il primo lunedì d’aprile del 1625 la cittadina di Meung, dove nacque l’autore del Roman de la Rose, sembrava completamente sconvolta, come se gli ugonotti fossero venuti a farne una seconda Rochelle […]»). Il 1625, poi, non c’entra proprio nulla, giacché le ostilità tra i cattolici francesi e gli Inglesi (sostenitori dei protestanti roccellesi) scoppiarono solo nel 1627, e l’assedio incominciò il 12 ottobre di quell’anno, protraendosi fino al 18 ottobre dell’anno successivo, quando Richelieu riuscì dopo mille manovre a spuntarla. Insomma: il fondale storico di Dumas risulta importante per collocare i moschettieri in un contesto che si vuole robustamente efficace, veritiero, credibile, ed è nitidamente messo a fuoco e abbastanza preciso; ma appare intaccato da una volontà di disturbo, da un intenzionale desiderio di camuffare i dati “veri”, rendendoli “romanzeschi” anzitutto perché “inesatti”, “inventati”, non corrispondenti alla documentata e solida Storia. Invece Alessandro Manzoni che, scrivendo e riscrivendo, impiega vent’anni a metter la parola fine al suo libro, le date non le sbaglia mai. Come nei Promessi Sposi, così anche nella Storia della colonna infame che dal romanzo venne stralciata, e nell’Adelchi e nel Conte di Carmagnola, si vede bene che ha davanti libri e appunti precisi, documentazione se-
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guita con la voglia di dir proprio le cose «come avvennero». Si tratta di una questione importante, se si dà ascolto, riflettendoci su in prospettiva metodologica, a quanto ha scritto uno dei più sottili romanzieri dei nostri giorni, Javier Marías: la distinzione fra storia e romanzo è una labile faglia, un’invisibile, impalpabile frattura che costituisce anche una saldatura. Perché forse è vero che la storia racconta le cose che sono successe, mentre «il romanzo racconta quello che non è avvenuto»; e tuttavia […] forse è vero piuttosto che i romanzi succedono per il fatto che esistono e vengono letti e, a ben vedere, con il passare del tempo ha assunto più realtà Don Chisciotte che qualunque altro dei suoi contemporanei storici della Spagna del xvii secolo; Sherlock Holmes è successo in misura più ampia che non la regina Vittoria perché continua ancora a succedere ininterrottamente, come fosse un rito […]. Un romanzo non soltanto racconta, ma permette di assistere a una storia o ad alcuni eventi o a un pensiero, e nell’assistervi ci permette di comprendere11.
Il romanzo «succede», «cade tra i piedi» del lettore, e così «avviene», «esiste», e «permette di comprendere» ciò che (sia o non sia «accaduto nella realtà») in esso «accade», e continua ad «accadere» ad ogni lettore in ogni lettura, esattamente come nel rito «accade» ciò che «è accaduto» nel tempo del mito, e in ciascuna delle brevi schegge del tempo ritualizzato si riattualizza quel tempo mitico che è fuori del tempo reale. Così ogni lettura del romanzo fa «accadere» sempre di nuovo, miticamente-ritualmente, i personaggi le cose le azioni i luoghi i tempi che «accaddero» nella storia, in quella storia. Si veda, ad esempio, quando nei capitoli xxvii e xxviii, lunghi e dotti (contenendo il primo il catalogo della biblioteca di Don Ferrante) e farciti di fatti storici, Manzoni introduce alcuni richiami proprio all’assedio della Rochelle («Il cardinal di Richelieu, presa, come s’è detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una pace col re d’Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers […]»)12. Parla al passato di fatti svoltisi recentemente, dal momento che la sua storia incomincia proprio nell’autunno 1628. Già all’inizio della storia, nel capitolo v, nel dialogo fra il conte Attilio e il podestà, durante il convito in casa di Don Rodrigo, di fasto e tono dongiovanneschi, s’era vista spuntare l’ombra del Cardinale («il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell’acqua»), e quella più oscura e in realtà assai più minacciosa dei 11 j. marías, Epilogo. Lo que no sucede y sucede (1995) [trad. it. Epilogo. Quello che succede e quello che non succede, in appendice a id., Domani nella battaglia pensa a me, Torino 1998, pp. 279283; le frasi citate si leggono alle pp. 281-82]. 12 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. xxviii, p. 491.
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mercenari svizzeri, che invece all’ignaro podestà non causavano soverchie preoccupazioni («Vagliensteino mi dà poco fastidio»)13. Non deve sfuggire la finezza della tramatura che tesse la storia piccola con quella grande. Due pagine prima, nello stesso capitolo, durante il duello verbale sui temi cavallereschi («“[…] mi dirà se questa è azione da cavaliere”. “Sì, signore, da cavaliere”, gridò il conte: “e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere[…]”»)14, nel mezzo del quale fra Cristoforo piomba, inconsapevolmente, con il suo scandaloso messaggio di pace, il conte, acceso nell’alterco sulle procedure del duello, respinge l’auctoritas del Tasso invocata dal podestà, trascorrendo dalla teoria cavalleresca ai cavalieri della letteratura, e richiamando al poema tassiano: «“[…] quell’uomo erudito, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione […]”»15. Dunque il conte Attilio, il podestà, e probabilmente anche Don Rodrigo, proprio come gli eruditi alla Don Ferrante (il parallelo si scoprirà più tardi, nel capitolo xxvii) avevano letto e conoscevano a memoria la Gerusalemme Liberata (sarebbe bello sapere se anche l’Orlando Furioso, libro, però, che eccedeva nell’ironizzare sulla cavalleria, ed era quindi decisamente meno à la page). Anche se per quegli sgangherati eredi del conte Orlando e dei suoi paladini (i bravi che sono allegorici avvoltoi fra gli avvoltoi veri, in attesa «d’esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore»)16, l’estremo ed estremistico poema cavalleresco, dove la «gran bontà dei cavallieri antiqui»17 si addobbava ormai di corazze al13
Ibid., cap. v, p. 84. Ibid., p. 80. La modalità della «conversione» di fra Cristoforo è finemente riconosciuta da a. brandalise, Cavalleria visibile cit., p. 468: «[…] Lodovico (che è da sempre colui che diventerà Cristoforo così come Cristoforo è per sempre chi lo diviene scoprendo che Cristoforo è la verità di Lodovico) declina il suo voler essere nobile in direzione di un voler essere cavaliere che, se da un lato lo esporrà all’esperienza catastrofica che gli svelerà il nucleo mortifero del suo desiderio, dall’altro gli consentirà di accedere alla realizzazione della sua vocazione aristocratica nel superamento della sua interpretazione come status. […] Il primo movimento della vicenda di Lodovico è centripeto, converge verso la spada e verso la necessità catastrofica del duello. È appunto in questa stretta che la cavalleria viene a risolversi attraverso la propria apocalisse. Lodovico letteralmente si perde nella massima esasperazione del proprio dover apparire […] e con ciò la cavalleria sembra dileguarsi con il “togliersi dal mondo” di chi si era battuto per figurarvi appunto come cavaliere». Il senso dell’agire di Cristoforo «è la regola di una cavalleria invisibile che non ha luoghi deputati né status perché prende corpo in quel concreto che ogni singola rappresentazione conosce solo come il proprio perturbante non detto. La seconda parte della vicenda di Cristoforo è aperta ed espansiva, costantemente risolta nel servizio ad altre vicende. Ma è il suo saldarsi con la prima che mostra come la prestazione essenziale del personaggio stia nell’approfondimento della natura del simbolo cavalleresco». 15 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. v, p. 79. 16 Ibid., cap. v, p. 76. 17 Mario Mancini ha dedicato alcuni importanti, acuti studi alle permanenze e alle trasforma14
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legoriche e moraleggianti, costituiva soprattutto un prontuario da compulsare per decidere di questioni d’onore, e «l’armi pietose» dei crociati e le gesta guerresco-amorose di Rinaldo e Armida si scioglievano in un granghignolesco pot pourri confondendosi, nei fumi dell’ubriacatura, con le sordide avventure di quel Don Giovanni di periferia che è Don Rodrigo. 3. Don Rodrigo, Don Giovanni, Don Chisciotte. Senza dar nell’occhio, mascherato negli abiti di Don Rodrigo, entra in scena così, accanto ai paladini, ai bravi, ai moschettieri, anche Don Giovanni. Don Giovanni, l’antieroe meridionale che nello spirito ulissico della métis, fra commedia e tragedia, traduce trascinandole nel fango le antiche virtù dei cavalieri settentrionali, le stesse che quasi contemporaneamente l’altro antieroe spagnolo, son semblable, son frère, l’hidalgo Don Chisciotte, parodizza esasperandole, in dimensione tragicomica. Come Don Chisciotte, e più ancora di lui, Don Giovanni subisce pressioni e trasformazioni, adattamenti, clonazioni e trasfigurazioni nel tempo e nello spazio, tra la Spagna del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina (1630) e l’Italia della Commedia dell’Arte (uno scenario importante come l’Ateista fulminato era noto nel 1665). Prima di approdare (1787) sulle scene praghesi del capolavoro di Mozart e Lorenzo da Ponte (il quale sembra ricalcare sul proprio libretto d’opera una vita sregolata di giocatore indebitato e impenitente!) passa per la Francia di Molière (il suo Don Juan ou le festin de Pierre fu messo in scena al Palais-Royal di Parigi il 15 febbraio 1665) e poi di Choderlos de Laclos (sullo scheletro figurale di Don Giovanni è modellato nel 1782 il Visconte di Valmont delle Liaisons dangereuses), ma con l’intermediario dell’Inghilterra di Samuel Richardson (un paradigmatico dongiovanni, fin dal nome parlante, è il Lovelace della sua Clarissa Harlowe, 1747-48)18. zioni dei modelli feudali-cortesi fin entro il cuore dell’età moderna. Penso soprattutto ai due saggi I «cavallieri antiqui»: paradigmi dell’aristocratico nel «Furioso», in «Intersezioni», III (1988), pp. 423-54, e Onore cavalleresco e onore aristocratico, in «L’immagine riflessa», XII (1989), pp. 147192, e al libro Metafora feudale, Bologna 1993. 18 Su questa metamorfosi si veda ora l’importante, ricchissimo libro di m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo. Saggio sulla cultura aristocratica in Europa (1513-1915), Roma 2002, l’opera forse più completa e articolata intorno alle metamorfosi dei modelli esistenziali e simbolici, e dei codici di appartenenza e di rappresentazione, elaborati intorno alla figura del cavaliere. In particolare per le opere che qui si ricordano cfr. il cap. x: La «scienza cavalleresca» nel Settecento. Libertini e «gentlemen», pp. 413-61.
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Si badi, però, che anche fra le coltri profumate, in mezzo alle trine e ai merletti, la cavalleria originaria freme e sospinge per riemergere alla luce, tra gli spasimi d’amore dei cicisbei libertins. Essi rielaborano e rilanciano alle soglie della Rivoluzione francese un modello di erotismo come sublimazione della conquista cavalleresca in strategia mentale, che la poesia trobadorica aveva già espresso sei secoli prima, in forme di meravigliosa complessità e raffinatezza: «questi libertini […] sono dei machiavellici, i quali vorrebbero consultare l’Arte della guerra del segretario fiorentino per far crollare ragazze virtuose»19 (e nei Tre moschettieri, ancora e in termini espliciti: «[…] da una parte gli Spagnoli, dall’altra le donne. Si trattava sempre di un nemico da combattere e di un tributo da riscuotere»)20. Don Giovanni “è stato” già da sempre altro da quel che “diventa” al termine di una lunga vicenda di metamorfosi del personaggio. La sua vicenda di nascita, vita, avventura e morte, secondo la diagnosi acuta e precorritrice di Giovanni Macchia, ha direttamente a che fare con quella dei protagonisti dell’epopea cavalleresca: […] a poco a poco Don Giovanni è divenuto un eroe, un eroe del male, allegro procuratore di lagrime e di lutti che scateneranno i fulmini e il castigo celeste. L’ateista fulminato, il dissoluto punito. Un eroe che prese il posto degli Orlandi, dei paladini, dei grandi spadaccini delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi, i quali ammazzavano un incredibile numero di nemici, così come Don Giovanni conquistava le sue Donne: personaggi che il nostro eroe finì col sostituire e far sparire. Di tutti quei cavalieri avrebbe potuto incontrare solo l’ascetico, l’allucinato Don Chisciotte, il relitto di un mondo scomparso. E che incontro sarebbe mai stato21!
Don Giovanni come ombra del Paladino, del Cavaliere delle chansons de geste, a sua volta (esattamente come Don Chisciotte) avatar di Orlando, e al termine di una lunga, complessa parabola di metamorfosi “divenuto” il «barbaro», l’«empio», «l’iniquo», il «mostro, fellon, nido d’inganni», lo «scellerato» (secondo il niagara di improperi rovesciatogli addosso da Donn’Elvira, nella v scena del I atto dell’opera mozartiana). Detto in altri termini: Don Giovanni incarna un duplice cavaliere/anticavaliere, come conferma, due scene dopo, Zerlina a Masetto, a garanzia suprema, nell’attimo in cui «vorrebbe e non vorrebbe» cedere alle lu19 g. macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni con tre scenari della Commedia dell’Arte, un’opera regia e un dramma per musica, Bari 1966, p. 27. Il volume, un classico modello di ricostruzione storico-ideologica della parabola «esistenziale» di un Personaggio, raccoglie due bellissimi saggi di Macchia (Vita avventure e morte di Don Giovanni, pp. 3-70; Gli oscuri antenati del «Don Giovanni» di Mozart e Da Ponte, pp. 73-111) posti a introduzione di una scelta di scenari della Commedia dell’Arte. A p. 117 una sintetica, imprescindibile Nota bibliografica. 20 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xi: L’intrigo si complica, p. 130. 21 g. macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni cit., p. 9.
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singhe del seduttore: «nelle mani son io d’un cavaliere […]». Ambigua doppia ombra, che ribadisce l’inattualità ormai storicamente irrisarcibile di quella forma archetipica solidamente tutta dalla parte delle «forze del Bene», sussumendo e rovesciando gli innumerevoli Cavalieri della tradizione eroica negli schemi di una nuova antropologia che esalta il tradimento, la truffa, l’ulissica bramosia di conquista ad ogni costo: e anche, nei cascami del mito ormai decomposto e rovesciato su se stesso, la mollezza timida, accidiosa e oblomoviana (e sarà l’esito estremo, con il Don Giovanni in Sicilia di Brancati)22. Antieroe individualistico ed egoistico, eccitato dal desiderio di possesso piuttosto che dedito all’esercizio interiore che raffinando rende capaci di vincere ogni sfida. Il rovescio, in sostanza, dell’antico Cavaliere sommamente leale e fedele alla parola data: e difatti trasformato ormai in «gentiluomo ma non galantuomo»23. Don Giovanni, dunque: l’anticavaliere che attraverso la rilettura compiuta nel Sud satura, metamorfosa, consuma tutte le figure degli antichi cavalieri del Nord, immettendo le fiamme dell’inferno e le ambiguità del diavolo nella tradizione del puro eroe capace di giungere al Graal, alla visione della verità come conquista interiore, come esito di un lungo, feroce esercizio anche fisico, ma soprattutto spirituale. Proprio Don Giovanni era di sicuro nella mente di Alessandro Manzoni24, nella sua «fantasia nera» accesa nel «grande teatro della crudeltà»25, mentre scolpiva il suo oltranzoso Don Rodrigo, la cui «passion principale» è «il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia»26. Non sfugga, se si vuole cogliere il mitologema nel nòcciolo del suo formarsi e trasformarsi (non esito a ricorrere a un vocabolo-chiave della storia delle religioni e dell’antropologia), che nello stesso Don Rodrigo converge (oltre al Don Rodrigue francesizzato di Walter Scott), spiccandosi a sua volta dal Don Giovanni libertino, anche un’altra forma fi22 Cfr. v. brancati, Don Giovanni in Sicilia, in id., Opere: 1932-1946, a cura di L. Sciascia, Milano 1987, pp. 451-590. Così entra in scena il personaggio: «Pochi anni dopo la sua nascita, gli parlarono della donna, sotto un carro le cui aste indicavano il cielo. […] Il ragazzo, già pigro di natura, divenne tardissimo, carico com’era di tante domande e arrovellio. Sebbene fosse ancora nell’età in cui le signore, nel salotto in cui mancano le sedie, ci tirano con un bacio sulle ginocchia, e la cugina più anziana, nella casa di campagna in cui sono arrivati improvvisamente degli ospiti, ci mette a dormire con lei, Giovannino arrossiva in tal modo quando una mano di donna gli sfiorava la testa, che nessuno più osò occuparsi di lui. Questo servì a renderlo più solitario, pigro e taciturno» (p. 457). 23 m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 333. 24 g. macchia, Il mito di Don Giovanni. Metamorfosi e immobilità, in id., Tra Don Giovanni e Don Rodrigo. Scenari secenteschi, Milano 1989, pp. 165-76. 25 id., Nascita e morte della digressione. Da «Fermo e Lucia» alla «Storia della colonna infame», ibid., pp. 19-56 (alle pp. 52 e 54). 26 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. xi, p. 190 (mio il corsivo).
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gurale, un personaggio intermedio che non porta ancora appieno la maschera del bravaccio, ed è tuttavia più libertino seduttore, violento e omicida, che metafisica ombra del male. Egidio, dico, il tentatore di Gertrude nel convento di Monza. Il destino di Egidio è letteralmente, totalmente dongiovannesco, visto che di quel «giovane scellerato» («e questa parola applicata ad un uomo di quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi s’intende nei nostri», sottilizza l’antropologo-lessicografo Manzoni)27, citando alla lettera il celeberrimo catalogo di Leporello: «la sua passione predominante era l’amoreggiare»28. A questo punto non sarà improprio riconoscere il modello segreto dell’avvento provvidenziale, aspro, mosso da finalità etiche e sostanzialmente punitivo-redentrici e dai toni messianico-apocalittici, di fra Cristoforo durante il banchetto di Don Rodrigo - Don Giovanni, non più altezzosamente solitario, ma popolato di scherani più infidi e infedeli di Leporello (Don Attilio, il podestà, i bravi). È, evidentemente, la metafisica epifania del Commendatore che, in forma di statua, bussa alla porta del reprobo, e dopo aver rifiutato la sua offerta conviviale (atto II, scena xv: «Non si pasce di cibo mortale | chi si pasce di cibo celeste; | altre cure più gravi di queste, | altra brama quaggiù mi guidò»), lo trascina con sé, ormai pienamente ateista fulminato, nell’aldilà da cui proviene. Fra Cristoforo, nell’esatta descrizione manzoniana della prossemica dei personaggi, si ferma sulla soglia «ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare»29 e, immobile come una statua, viene accolto da un servitore che giunge, al modo di Leporello, confusamente «borbottando», e si stupisce di vederlo in quel luogo («“Lei qui?” “Come vedete, buon uomo”»); rifiuta sulle prime, anche se poi accetta di «sorbir lentamente» il vino offertogli da Don Rodrigo. Quando poi, nella chiusa del capitolo v, si allontana con Don Rodrigo («[…] gli disse: «eccomi a’ suoi comandi»; e lo condusse in un’altra sala»), il sipario sembra scendere su quest’uscita per la comune con lo stesso fragore con cui le fiamme infernali inghiottono Don Giovanni, che in esse «si sprofonda» alla fine dell’opera mozartiana. Non si potrà più dubitare, allora, che il dialogo serrato, feroce, a denti stretti, con cui il Commendatore cerca di salvare almeno l’anima del libertino, riprendendo alla lettera gli improperi di Donn’Elvira («“Pèn27 id., Fermo e Lucia: prima composizione del 1821-1823, in a. chiari e f. ghisalberti (a cura di), Tutte le opere di Alessandro Manzoni cit., vol. II, tomo III, p. 209. 28 Ibid., p. 211 (anche qui il corsivo è mio). Su Mozart e Da Ponte in Manzoni: p. stoppelli, Manzoni e il tema di Don Giovanni, in «Belfagor», XXXIX (1884), n. 5, p. 501-16; v. branca, Occasioni manzoniane, II: Manzoni e l’opera romantica, in «Ateneo veneto», n.s., XII (1974), n. 1, pp. 33-52; c. ossola, Mozart e Manzoni, in aa.vv., Omaggio a Gianfranco Folena, 3 voll., Padova 1993, II, pp. 1719-38. 29 Questa citazione e le seguenti in a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. v, pp. 76-77, 79, 87.
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titi, cangia vita! | È l’ultimo momento” | “No, no, ch’io non mi pento; | vanne lontan da me!” | “Pèntiti, o scellerato.” | “No, vecchio infatuato!” | “Pèntiti!” | “No!” | “Sì!” | “No!” | “Ah, tempo più non v’è!”») rappresenti l’esatto schema prototipico, a sua volta modellato sulle strutture dell’antica tenzone cavalleresca, del duello verbale, zeppo di anafore che colpiscono come stoccate di fioretto («Voi avete creduto […]. Voi avete creduto […]. Voi avete disprezzato il suo avviso. Vi siete giudicato»)30 che fra Cristoforo, già cavalier Lodovico, pentito ma non del tutto svanito, intreccia su un virtuale «campo di battaglia», la «mano minacciosa» profeticamente levata al cielo, con Don Rodrigo, l’«abbandonato da Dio» (che caccia anche lui, insultandolo, il suo ospite: «“Villano temerario, poltrone incappucciato. […] Villano rincivilito!”»), fino all’estrema minaccia di condanna vendicatrice al momento del Giudizio Finale: «Verrà un giorno…». 4. Figure sfigurate: dal Cavaliere al Bravo. Occorrerà fare un passo indietro verso il fondale del teatro, e tornare a guardare il palcoscenico dall’alto per allargare l’orizzonte e così apprezzare meglio il conservarsi, il riemergere, il variare in scena dei temi cavallereschi durante l’età romantica, riconoscendo nello strato intermedio, cinquecentesco e soprattutto secentesco, il livello in cui si realizza la rielaborazione e la mediazione al Moderno delle immagini trasmesse dal Medioevo. Se in Dumas il Seicento è il piano di riferimento primario della narrazione, per così dire sostanza reale della trama, il Seicento manzoniano è anche altro da sé, e dunque forma allegorica: allude contemporaneamente al Medioevo che non c’è più e al Moderno che non c’è ancora; li filtra uno all’altro, li sovrappone e li fonde. Aiuterà a capire meglio quello che definirei lo sfiguramento del Cavaliere, che così in letteratura come nell’arte, e quindi nella percezione storiografica e in quella mitografica, “genera” la figura nuova del Bravo. Si muova da un un lieve, importante scarto nel trattamento dei temi storico-guerreschi, fra Manzoni e Dumas: con \klovskij potremmo chiamarlo (tanto per restare in tema) passo del cavallo. Si sarà notato che anche Manzoni, nell’avvio del capitolo ii, compie un curioso montaggio fra Storia Grande e storia piccola: non si tratta proprio di un errore, quanto piuttosto di un hysteron-próteron che implica una proiezione multipla di punti di vista, di sguardi accesi da diversi «luoghi» mentali sul30
Ibid., cap. vi, pp. 91-92.
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lo scorrere del tempo. Quando Don Abbondio si corica, la notte fra il 7 e l’8 novembre 1628, allo svolgimento della battaglia di Rocroi, che fra il 18 e il 19 maggio del 1643 salvò Parigi e la Francia intera dalla conquista degli imperiali spagnoli al comando di Francesco de Mello, mancano ancora quindici anni. Dunque, proprio come i tre moschettieri (che oltretutto, come si sa, in realtà erano quattro)31, il pauroso Don Abbondio non avrebbe potuto neppure immaginarselo, quell’evento glorioso, ancora di là da venire, e vivido solo, guardando à rebours, nella memoria postuma: dell’Anonimo, di Manzoni e di noi lettori. Quanto all’assedio della Rochelle, la notizia della caduta della roccaforte protestante avrà impiegato forse più di una ventina di giorni per giungere fino al paesino innominato presso Lecco. Quel 7 novembre 1628, dunque, sulle rive del lago di Como, Don Abbondio potrà fare «bel bello» la sua famosa passeggiatina serale senza preoccuparsi troppo delle storie di cavalleria e di cannoneggiamenti così lontane, così silenziose, un po’ perché non ne era ancora venuto a conoscenza, un po’ perché esse non si erano ancora svolte. Ben altra conoscenza, in presa diretta, il curato e le sue pecorelle smarrite avrebbero fatto pochi mesi più tardi della calata dei fanti svizzeri, i lanzichenecchi del Wallenstein. Fanti sgangherati e violenti, cavalieri di morte e di saccheggio, apocalittici desertificatori, i lanzichenecchi del Wallenstein nelle foschissime tinte della sfilata manzoniana non conservano più alcuna traccia dei cavalieri medievali. Hanno perduto le fattezze del soldato certo nella fede, consapevole del ruolo cosmogonico, solare, affidatogli per contrastare le forze del male e delle tenebre, dell’incisione di Albrecht Dürer, Ritter, Tod und Teufel (1511). Non hanno più neppure la spavalda tracotanza dei portabandiera incisi da Hans Schäufelein o dipinti da Dosso Dossi (1515-16). Solo nell’abbigliamento e nella posa trionfalistica e pettoruta ricordano i miliziani della Ronda di notte di Rembrandt (1642), il quale interpretò come una scena storica il ritratto di gruppo, commissionatogli dalla Milizia Civica di Amsterdam. Si pensa, leggendo le gesta oscene di quei lanzichenecchi, ai tratti allegorici del Fuoco dell’Arcimboldi (1566), dal corpo formato di armi “da fuoco” (cannoni, colubrine, fucili) e dal volto fiammante come una pi31 Su questo curioso scarto numerico, sulle sue valenze simboliche e sul suo ruolo di «ordinatore» epistemologico, con un ampliamento all’intera cultura europea (e indoeuropea, attraverso Georges Dumézil): r. brandt, D’Artagnan und die Urteilstafel. Über ein Ordnungsprinzip der europäischen Kulturgeschichte. 1, 2, 3/4, Wiesbaden-Stuttgart 1991 [trad. it. D’Artagnan o il quarto escluso. Su un principio d’ordine nella storia europea. 1, 2, 3/4, Milano 1998, con una Postfazione di D. Falcioni, pp. 237-45].
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ra, con naso e orecchie composti da grilletti pronti a sparare. I loro tratti postcavallereschi sono ormai quelli lugubri, lividi, stravolti che qualche decennio dopo si stamperanno sui volti scavati dei poveri cristi e dei pitocchi di Luca Giordano (1632-1705), o sullo sforzo muscolare dei già quasi piranesiani galeotti trascinati in catene di Alessandro Magnasco (1667-1749). Hanno lo stesso doppio mento, collo corto e mascellone volitivo, degli infanti e dei re (il conte-duca di Olivares; Don Carlos; soprattutto Filippo IV, replicato decine di volte, con l’occhio attento al progressivo inflaccidirsi)32 dipinti da Diego Velázquez (1599-1660): come svuotati dell’interiorità, gonfi, fiacchi, sfatti, grassocci, labbroni spropositati, guance di un rosa artificiale, tutti corazza e abito di lusso e gioielli e fasto ostentato, sguardo cavo e fisso, tacitamente crudele, più pigri e luttuosi e perversi monsignori di curia che regali dominatori d’Europa. Veri e propri bravacci da strada sono quelli che, nella Rissa fra soldati alla Galleria Pallavicini di Roma (un tempo dato a Van Dyck, ma attribuito a Velázquez da Roberto Longhi) litigano per motivi di gioco davanti all’ambasciata di Spagna, e che di cavalleresco non hanno più che lo spadino al fianco. Benissimo rappresenta un bravo da farsa il Marte che Velázquez dipinse forse per la Torre de la Parada (oggi al Prado): attempato e allampanato nobilastro (o perfino borghese!) dalle carni flaccide e rosate, spilungone in elmo luccicante, i suoi mustacchi spropositati da rodomonte narcisista, in conflitto con il gesto della mano sulla guancia da pensatore michelangiolesco33, lo dichiarano più soldato di ventura in visita a un bordello che dio della guerra in riposo. Certo, comunque, non sarà più degno “cavaliere” lui del buffone Barbarossa che, sguardo truce e spada nella destra mentre la sinistra stringe il fodero, campeggia imperioso nelle sale dello stesso museo in abiti turcheschi di scena (recitava nel ruolo del pirata-ammiraglio Khayr al-Din durante i giochi di corte fra menestrelli e guitti). 32 Si possono ricordare anche i ritratti (spesso degli stessi personaggi) del fiorentino Vincenzo Carducci, in Spagna ribattezzato e celebrato con il nome di Vicente Carducho (1578-1638), e di Francisco Pacheco del Río (1564-1654), suocero di Velázquez, che chiuse il secolo pubblicando (1599) un sintomatico Libro de descripción de verdaderos retratos de ilustres y memorables varones. 33 Si tratta di un gesto che Cervantes attribuisce in rare ma significative riprese, e sempre con diversa e parodistica funzione, a se stesso, a Don Chisciotte e a Sancio Panza; si veda c. bologna, «Quiero imitar […] al valiente Don Roldán». Metamorfosi del cavaliere da Ariosto a Cervantes, in L’Italia letteraria e l’Europa, II: Dal Rinascimento all’Illuminismo. Atti del Convegno di Aosta, 7-9 novembre 2001, Roma 2003, pp. 87-129, e più dettagliatamente in id., «La mano en la mejilla», in «Criticón», 2003, nn. 87-89 [= Miscellanea in memoria di Stefano Arata], pp. 79-102. Ai dati là forniti aggiungo ora che nell’età romantica lo stesso Cervantes è rappresentato in questa postura, «imaginando El Quijote», in un quadro di Mariano de la Roca y Delgado oggi al Prado: cfr. El mundo literario en la pintura del siglo xix del Museo del Prado, Madrid [s.d., ma 1994], pp. 126-27.
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Per non dire del sorriso cinico dei nobili decadenti di fra Galgario (1655-1743), dall’occhio acquoso e dalle labbra gonfie e violacee, prossimi ormai alla decomposizione finale del “cavaliere” che ancora, invisibile, abita le loro vesti inutilmente sfarzose. Più tardi ancora, quegli ex cavalieri si reincarneranno negli incubi e nei demoni di Goya, nei corpi maciullati, sfigurati, squartati dei Desastres de la Guerra (1813-14) nei folli Desparates, incisi nella diecina d’anni (1815-24) che precede l’uscita dell’edizione Ventisettana dei Promessi Sposi. 5. «Je suis un chevalier errant qui chascun jor voiz aventures querant et le sens du monde…» Lo scrittore barocco del Novecento Carlo Emilio Gadda colse magistralmente la visività, e perfino la visionarietà, che accompagnano la mano di Manzoni, mossa dalla memoria di Caravaggio e dei caravaggeschi, nell’ideare e tratteggiare le figure dei bravi, stendendo sull’impianto etico-storiografico di fondo quella che Gianfranco Contini opportunamente definì un’«emulsione seicentesco-lombarda»34: Michelangiolo Amorigi veste da bravi i compagni di gioco. Mentre il Signore chiama Matteo, un viso di giovane, sensualmente distratto, chiede «Chi cerca costui?» […]. Una bella piuma ha nel cappello di velluto violetto e una sottile spada al fianco. Le gambe nervose si vedono di là dallo sgabello. Non vi è pena, né pensiero: rosse e fervide luci sono il termine della calda, verde pianura e nelle vene pulsa il fervido sangue dell’adolescenza. Il soldo è sicuro. Lesta è la spada. Nei vicoli, sotto gli archi dei passaggi, passano ridendo i micheletti della ronda e qualche puttana si rimpiatta fra sgangherate risate. «Nombre de Dios! Si fuera para farrear!» Poi quando la ronda si perde con una cadenza lontana e la luna fa diagonali di ombre e di biancore sui quadri delle case e sui tetti, si può chieder conto a uno: uno che passerà. […] Il Signore comandò che Matteo e lasciasse i dadi e il soldo del mondo [e] lo seguisse e il Caravaggio vide il Signore e Matteo e poi dipinse giovinastri dalle turgide labbra, cocchieri e sgherri e fervidi garzoni. Meglio girare alla larga35. 34 g. contini, Premessa su Gadda manzonista, in «L’Approdo letterario», n.s., XIX (1973), nn. 63-64, pp. 50-52. 35 c. e. gadda, Apologia manzoniana (1924), in «Solaria», II (1927), pp. 39-48, poi ristampato da G. Contini nel fascicolo de «L’Approdo letterario» citato nella nota precedente (pp. 53-61); il testo fu riconosciuto parte integrante di id., Racconto italiano di ignoto del novecento (Cahier d’études) da D. Isella, il quale dell’inedito gaddiano diede un’edizione fondamentale (Torino 1983: cfr. ivi le pp. 228-37, in particolare pp. 231-32; da qui traggo la citazione); si veda anche la riedizione (con lievi varianti) in id., Saggi, giornali, favole e altri scritti, I, in d. isella (a cura di), Opere di Carlo Emilio Gadda, III, Milano 1991, pp. 681-82.
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Qui s’intende appieno il senso dell’aforisma di Borges: «Ogni autore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro»36. Invertito il percorso dello sguardo e della mente, Gadda crea il suo Manzoni, e lo trasmette a noi, insieme con il repertorio figurale del Medioevo e della Modernità che nei Promessi Sposi si era stratificato. Di Manzoni, con epocale intuizione, Gadda scopre, lui barocco, la «baroccaggine», la combinatoria, complessa realtà della «contaminazione grottesca», di robusto impianto morale. Questa scoperta viene proposta attraverso l’insistenza sulla «forza visiva della parola»37, declinata al massimo grado nell’immagine, antistorica e in sé impensabile (ma, proprio perché così pensata, di straordinaria efficacia ermeneutica) di un Caravaggio che nella Vocazione di Matteo in San Luigi dei Francesi, con le sue feroci «diagonali di ombre e di biancore», imita e (per parafrasare Roberto Longhi, a sua volta geniale «lettore di Manzoni»)38 trascrive pittoricamente la scena indimenticabile della notte degli inganni, nel capitolo viii dei Promessi Sposi, con quella straordinariamente caravaggesca «striscia di luce, che uscì d’improvviso» all’aprirsi della porta dello studio di Don Abbondio, «e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo» facendo «riscoter Lucia, come se fosse scoperta»39. Le «tragiche e livide luci» che Gadda coglie nel romanzo secentesco del Manzoni sono le stesse che illuminano diagonalmente i «giocatori vestiti da bravi» della Vocazione di Caravaggio e i micheletti della ronda», che sarà probabilmente, nella memoria di Gadda, quella di Rembrandt. Quei cavalieri sfigurati e tragici, quel luminismo livido e balenante, sono l’emblema della nuova prospettiva storica, che costituisce la realtà come punto di vista. Si sovrappongono, si sommano e si identificano così in un solo segno emblematico sapientemente tracciato, il naturalismo e il luminismo rivoluzionari e disperatamente etici del Caravaggio, il secentismo dolente del Manzoni, l’aspro, risentito barocco gaddiano. Quella «striscia di luce», quei sensuali spadaccini «vestiti da bravi» che (ovviamente!) non 36 j. l. borges, Kakfa y sus precursores, in id., Otras inquisiciones, Buenos Aires 1952 [trad. it. Kafka e i suoi precursori, in Altre inquisizioni, in d. porzio (a cura di), Tutte le opere, 2 voll., I, Milano 1984, pp. 1007-9 (a p. 1009); la stessa traduzione è ora ripresa nel volume dedicato ad Altre inquisizioni nella serie delle opere borgesiane pubblicate da Adelphi, Milano 2000, pp. 115-18 (a p. 117)]. 37 Cfr. e. raimondi, Gadda e le incidenze lombarde della luce, in id., Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna 1995, pp. 87-109 (in particolare pp. 93 sgg.) 38 A questo aspetto Ezio Raimondi ha dedicato alcune lezioni del suo corso universitario bolognese 1989-90, che sono state raccolte in volume (probabilmente in trascrizione non riveduta dall’autore): cfr. id., Barocco moderno: Carlo Emilio Gadda e Roberto Longhi, Bologna 1990, in particolare pp. 440 sgg. 39 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. viii, p. 125.
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Caravaggio riprende da Manzoni, ma Manzoni da Caravaggio, permettono di cogliere quel che la critica non aveva riconosciuto40, e che uno scrittore lucidissimo aiuta a vedere: la centralità della scelta manzoniana del Seicento come fondale storiografico, ed anche estetico ed etico. Rimangono nella memoria collettiva aprendo a una nuova ermeneutica allegoristica del romanzo “storico”, e rivalutando con sorprendente originalità il ruolo della funzione-Seicento nella rielaborazione del mitologema-Medioevo, verso la svolta del Moderno. Proprio come i bravi dei signorotti, i lanzichenecchi e i loro tronfi e sbruffoni comandanti a cavallo rappresentano il diabolico decadimento mercenario dei tanto allegorizzati Valore e Virtù. Come vide bene Stendhal41, essi non sono che «una corporazione di assassini», banditi, briganti al soldo di malfattori prepotenti che «ne disponevano sovranamente per soddisfare ogni loro capriccio, sia di odio, sia di vendetta, sia perfino d’amore»: ma la loro violenza non riesce affatto a nobilitarsi per il richiamo sotterraneo all’originario codice delle virtù cavalleresche, essendo solo l’estremo cascame dell’antica virtus. Le loro avventure sono avventurette di conio basso, triviali, indegne perfino della dimensione parodica e raffinata del romanzo picaresco, e tanto meno di quello cervantino. La catastrofe del sistema, il crollo del sistema inerziale plurisecolare, adattatosi progressivamente ai nuovi contesti borghesi42, s’individua con nitidezza nello scarto fra la realtà violenta, criminalmente devastatoria, cialtronesca di questi fanti e cavalieri prezzolati e i purissimi cavalieri-crociati del Tasso (e forse, si oserebbe continuare a credere, anche i modellizzanti cavalieri-paladini dell’Ariosto), che scalpitavano e duellavano nei volumi a stampa poggiati sui comodini e sulle 40 Proprio recuperando il percorso critico di Gadda ha rivalutato questa fondamentale dimensione manzoniana Ezio Raimondi, al quale si deve non solo il recupero del «secentismo» del Manzoni, ma soprattutto la «funzione-Gadda», o «gaddizzazione di Manzoni», che gli consentì, in alcune magistrali ricerche, di impostare in direzione assolutamente inedita e fortemente innovativa la lettura dei Promessi Sposi, che sotto il suo occhio critico, reso esperto dalla rilettura di Gadda, divengono una miniera inesauribile di scoperte. Ricordo qui solo e. raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino 1974; id., La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna 1990; id., Gadda e le incidenze lombarde della luce cit.; inoltre si veda la trascrizione delle lezioni ricordata nella nota 57. 41 Cfr. stendhal, Les brigands en Italie, Paris 2002 [trad. it. I briganti in Italia, Genova 2004, pp. 22 sgg.]. 42 Per un’analisi puntuale della metamorfosi della figura e del ruolo svolto da ciascuno dei testi-chiave nel quadro del progressivo adattarsi del sistema alla variazione del contesto socio-culturale si ricorra all’eccellente libro di m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit.; in particolare, per il discorso che sto svolgendo, si vedano i capp. v, Controcodici: «Le menzogne de l’armi e degli amori», pp. 223-70; vi, Trumphi di Morte e Mammona, pp. 271-98; vii, Cavalier Satana. «Fortitudo» cavalleresca e «obduratio» satanica. «Paradise Lost» di Milton, pp. 299-311; viii, Il senso dell’onore. Metamorfosi e variazioni fra Cinque e Settecento, pp. 313-66.
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tavole da pranzo degli anticavalieri secenteschi assunti a modello di negatività dal Manzoni. Al modello fondativo della mistica queste dello chevalier errant come ricerca del senso della vita, all’aventure etica e spirituale, prova iniziatica che apriva all’identificazione dell’individuo con il proprio destino, «strumento di perfezione individuale, esemplare per la comunità, e salvaguardia di un ordo compreso in senso cavalleresco», «mezzo per il ristabilimento di un’armonia turbata», «tentativo di “unificare” interno ed esterno»43, il progressivo consumarsi del prototipo aveva sostituito l’avventura come mestiere, come prevaricazione e sopraffazione, rischio corso per desiderio di fama o per urgenza di fame. Come ricordava già Erich Köhler in quello che rimane uno dei libri più intensi e acuti sul senso e sulla funzione della letteratura cavalleresca medievale, nell’Yvain di Chrétien de Troyes, al vilain laido e dall’aspetto animalesco che, folgorato dalla sua bellezza e dal suo carisma da angelo in corazza, gli domandava se fosse una creatura del Bene o del Male («[…] Va, car me di, | se tu es buene chose ou non!»), Calogrenant rispose: «Je sui, ce voiz, uns chevaliers, qui quier ce, que trover ne puis; assez ai quis et rien ne truis». «Et que voldroies tu trover?» «Avantures por esprover ma proesce et mon hardemant»44.
Nella versione in prosa del Tristan (che Ludovico Ariosto teneva sul tavolo mentre componeva il Furioso), riprendendo esattamente le stesse parole per rispondere a quel quesito ontologico, che chiede ragione di una natura inattesa e inattuale, Dinadan, il «Galaad secolarizzato», proclamava solenne e ieratico, come un filosofo in arcione: «Je suis un chevalier errant qui chascun jor voiz aventures querant et le sens du monde; mès point n’en puis trouver»45. 43 e. köhler, Ideal und Wirklichkeit in der höfischen Epik. Studien zur Form der frühen Artusund Graldichtung, Tübingen 1970 [trad. it. L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della Tavola Rotonda, Bologna 1985, pp. 107, 112, 114 (e più ampiamente si vedano i capp. iii, «Aventure». Reintegrazione e ricerca dell’identità, pp. 91-122; e iv, Elezione e redenzione. Dal disordine del mondo al regno della pace, pp. 123-91)]. 44 m. roques (a cura di), Les romans de Chrétien de Troyes édités d’après la copie de Guiot (Bibl. Nat. Fr. 794), IV: Le chevalier au lion (Yvain), Paris 1975, vv. 358-63, p. 12 («“Come vedi, sono un cavaliere che cerca ciò che non può trovare: la mia ricerca è stata lunga, ma vana”. “E che cosa vorresti trovare?” “L’avventura, per misurare il mio valore e il mio coraggio”»). 45 «Sono un cavaliere errante che va senza interruzione in cerca d’avventure e del senso del mondo; ma non mi riesce di trovarli». Sull’idea (e sull’etimo) di «aventure», oltre al ricordato cap. iii di e. köhler, Ideal und Wirklichkeit cit., soprattutto e. eberwein, Zur Deutung mittelalterlicher Existenz, Bonn-Köln 1933, pp. 26 sgg.
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Queste erano le cifre, questi i blasoni del cavaliere antico, che condivideva con l’universo della lirica trobadorica un’etica, un sistema di valori, lessico simbolico e codici di comportamento: cercare il senso della vita e della realtà; slanciarsi verso l’ignoto come ciò che può manifestarsi, come l’aventure che può ad-venire; scoprire, illustrare, saldare nella collettività il valore di se stesso come operatore simbolico; accettare la percezione bruciante della vanità ontologica di questa ricerca senza esaurimento, e nel contempo dell’imprescindibile necessità di una fatica così radicale, così sconfinata e giocata fra sé e sé, nell’interiorità macerata ed esercitata nel silenzio, una volta per tutte, ogni volta per tutti46. 6. «Un Don Chisciotte senza corazza, senza scudo e senza gambali». Quanto rimane di quest’archetipo ormai smisuratamente trasformato, nel romanzo «storico» di Manzoni e in quello di Dumas, nei signorotti lividi e prevaricatori, nei dongiovanni violenti e vili, nei focosi moschettieri arditi e idealisti? Nulla più, si potrà dire con fermezza, che la riplasmazione/abolizione del cavaliere medievale perpetrata fra Ariosto e Cervantes. Dal primo con la nostalgica ironia di chi guarda alla «gran bontà dei cavalieri antiqui» dopo il tramonto di un universo imperniato sulle categorie di cortesia, fedeltà, lealtà, ancora subendo il fascino dei sistemi di valore, dei codici normativi e comportamentali ad esse legate, ma incrinato profondamente, ormai, dall’avvento di modelli antropologici e da rivoluzionarie ingegnerie militari (la nuova fanteria con lance e picche, le armi da fuoco). Dal secondo con l’invenzione geniale del malinconico hidalgo folle per eccesso di letture, protagonista dell’ultimo libro di cavalleria che in sé tutti li ingloba e tutti li annulla, nella grande ekpØrosis con la quale il Curato e il Barbiere intendono preservare altri pazzi dalla tentazione perversa e pericolosa della lettura di quelle aventures. Il Medioevo della chevalerie che fluisce nella rielaborazione del primo Ottocento è dunque figlio più del grandissimo romanzo parodico che dei grandi poemi epico-cavallereschi: lo dichiarano, esplicitamente o implicitamente, gli stessi Manzoni e Dumas. 46 Cfr. e. brugger, Der «Schöne Feigling» in der arturischen Literatur, V-VII, in «Zeitschrift für romanische Philologie», LXV (1949), pp. 289-433 (a p. 401); e. vinaver, Un chevalier errant à la recherche du sens du monde: quelques remarques sur le caractère de Dinadan dans le «Tristan en prose», in j. renson (a cura di), Mélanges de Linguistique romane et de Philologie Médiévale offerts à Maurice Delbouille, 2 voll., Gembloux 1964, II, pp. 677-86; a. adler, Dinadan, Inquiétant ou Rassurant?, in f. dethier (a cura di), Mélanges offerts à Rita Lejeune, 2 voll., Gembloux 1969, II, pp. 935-43. Cita il passo anche e. köhler, Ideal und Wirklichkeit cit., trad. it. p. 113.
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L’italiano descrivendo molti dei suoi personaggi nelle vesti parodiche di ombre degli antichi cavalieri decaduti, e disseminando segnali allusivi per l’intero libro: ad esempio dedicando la seconda metà del capitolo xxvii a una breve digressione sulla già ricordata biblioteca ammuffita e un po’ stralunata («[…] una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie […]»)47 di Don Ferrante, personaggio spagnolesco perfino nel nome, erudito in molte scienze inutili e stantie, ma soprattutto «addottrinato» nella «scienza cavalleresca», e le cui fonti si scoprono (sorridendo un poco, per il richiamo chiarissimo all’«autorità del Tasso» evocata nel capitolo v) essere le stesse del conte Attilio, di Don Rodrigo e degli altri signorotti clonati un po’ da Don Giovanni, un po’ da Don Chisciotte: […] aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tale materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria48.
Il francese, appena ha aperto il discorso sul Roman de la Rose, dimentica subito, e senza riserve, l’antico libro allegorico (salvo che si voglia intendere quel riferimento alla conquista del Fiore desiderato come allusione alle vicende erotiche dei moschettieri); e passa invece immediatamente a connotare il suo primo protagonista parodizzando una vestizione cavalleresca, comicamente ritualizzata con la chiamata in gioco del libro di Cervantes: Un giovane […] tracciamo il suo ritratto con un solo tratto di penna: figuratevi Don Chisciotte a diciott’anni, un Don Chisciotte senza corazza, senza scudo e senza gambali, Don Chisciotte vestito di un farsetto di lana dove il blu si era trasformato in una sfumatura inafferrabile di celeste e di vinaccia. Viso lungo e bruno: zigomi sporgenti, segno d’astuzia; muscoli mascellari enormemente sviluppati, indice infallibile per riconoscere un guascone anche senza berretto, e il nostro giovane portava un berretto ornato da una specie di piuma; gli occhi aperti e intelligenti; il naso adunco, ma finemente disegnato – troppo grande per un adolescente, troppo piccolo per un uomo maturo: un occhio poco esercitato l’avrebbe preso per il figlio di un contadino in viaggio, se non fosse stato per la lunga spada che, appesa a un fodero di pelle, batteva sugli stinchi del proprietario, quando era a piedi, e sul pelo irto della sua cavalcatura quando era a cavallo. […] Sfortunatamente le qualità di questo cavallo erano così ben nascoste sotto il suo strano manto e la sua andatura incongrua che, in un’epoca in cui tutti si intendevano di cavalli, l’apparizione del suddetto ronzino a Meung – dove era entrato cir47 48
a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. xxvii, p. 469. Ibid., p. 473.
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ca un quarto d’ora prima per la porta di Beaugency – produsse un’impressione sfavorevole, che si trasferì sul cavaliere. Impressione d’altro canto più penosa per il giovane D’Artagnan (così si chiamava il Don Chisciotte di quest’altro Ronzinante) perché egli non si nascondeva il ridicolo di cui lo ricopriva, per buon cavaliere che fosse, una simile cavalcatura49.
7. «Quiero imitar al valiente Don Roldán». D’Artagnan replica Don Chisciotte, e potremmo dire, letteralmente, che lo imita, proprio come Don Chisciotte, per diventare cavaliere, dichiara di volere «imitar […] al valiente Don Roldán», perché in quell’eroe si riassumono, quasi in epitome letteraria, tutti gli eroi di tutti i libri cavallereschi50. Il cavallo, l’aspetto, l’armatura di D’Artagnan sono fasulli e burleschi, appunto perché lo erano quelli di Don Chisciotte. Cervantes descrive la selezione e la composizione delle armi, e la scelta di Ronzinante, come un puzzle di materiali di scarto, di pezzi di riporto, che sono, alla lettera, incastri di pezzi della tradizione cavalleresca ormai stremata e arcaica, assolutamente inattuale, colti in metafora nelle «armi degli avi» di cui Don Chisciotte si riveste. E la sua grottesca, museale translatio armorum è un pendant teatrale perfetto della translatio studiorum («[…] de Grece en Engleterre, | qui lors estoit Bretagne dite»), sulla cui base già l’auctor che inaugura la nuova traditio dell’epopea volgare, Chrétien de Troyes, aprendo il Cligès dichiara di aver composto i suoi romanzi di cavalleria, ispirandosi ai «[…] livres de l’aumaire | mon seignor saint Pere a Biauvez»)51: Y lo primero que hizo fue limpiar unas armas que habían sido de sus bisabuelos, que, tomadas de orín y llenas de moho, luengos siglos había que estaban puestas y olvidadas en un rincón. Limpiólas y aderezólas lo mejor que pudo; pero vio que tenían una gran falta, y era que no tenían celada de encaje, sino morrión simple; mas a esto suplió su industria, porque de cartones hizo un modo de media celada que, encajada con el morrión, hacían una aparencia de celada entera. […] Fue luego a ver su rocín, y aunque tenía mas cuartos que un real y más tachas que el caballo de Gonella, que «tantum pellis et ossa fuit», le pareció que ni el Bucéfalo de Alejandro ni Babieca el del Cid con él se igualaban52. 49
a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. i, p. 8. m. de cervantes, Don Quijote, a cura di F. Rico, 2 voll., Barcelona 1998, I, parte I, cap. xxv, p. 275. È svolto ampiamente il tema dell’«imitazione» della cavalleria come fondazione della sua parodia nei due saggi: c. bologna, «Quiero imitar […] al valiente Don Roldán» cit., e id., La mano en la mejilla cit. 51 m. roques (a cura di), Les romans de Chrétien de Troyes cit., II: Cligés, a cura di A. Micha, Paris 1982, vv. 16-17 e 20-21, p. 1 («[…] i libri della biblioteca | di S. Pietro a Beauvais»). 52 m. de cervantes, Don Quijote cit., I, parte I, cap. i, pp. 41-42 («E la prima cosa che fece fu di ripulire certe armi che erano appartenute ai suoi avi, che, arrugginite e piene di muffa, per 50
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Armi raffazzonate, come un mosaico, e un cavallo da giullare. L’evocazione della cavalcatura di Gonella, buffone alla corte ferrarese di Niccolò III d’Este nelle cui fattezze tragicomiche il grande Jean Fouquet intuì e rappresentò «il ritratto di un povero cristo, viva immagine del Cristo sofferente»53, è posta sullo stesso piano mitografico del cavallo sciamanico di Alessandro e del destriero leggendario del più grande eroe dell’epopea spagnola. Quel cavallo, quell’armatura, divengono così, nel momento in cui il Quijote incomincia, una sua perfetta mise en abyme, metafora del testo che è un assemblaggio parodico di tutti i libros de caballerías della tradizione europea. Infatti un puzzle culturale, un sagace mosaico della letteratura cavalleresca è il libro che rispecchia le gesta del melancholicus, furente Don Chisciotte, cavaliere dall’habitus eroico ormai così poco tradizionale, doppio di Orlando in ritardo. E questo, si badi, in un’epoca in cui ormai la cavalleria si è dissolta, al pari della Biblioteca piena di «libros de caballerías» (contro i quali il romanzo di Cervantes «es una invectiva»)54. Biblioteca, Armatura, Romanzo: tutto, nel Chisciotte, è letteratura; tutto è puzzle, mescidanza, e anche sempre sineddoche, parte per il tutto. Quell’armatura madornale, romanzesca, nata dalla lunga frequentazione della biblioteca, fa dell’originario Don Quijada un “vero” cavaliere, Don Quijote. L’armamento e la bestia da trasporto di D’Artagnan ne fanno un discepolo di quel maestro della parodia. Così si coglie al volo (lui stesso ne è consapevole) l’esagerata natura cavalleresca di D’Artagnan, connotata dalla spada e dal cavallo, ridicolo avatar di Ronzinante. Si badi come al solito ai dettagli, dove (diceva Aby Warburg) abita il buon Dio. L’«impressione sfavorevole», legata soprattutto all’«andatura incongrua del cavallo», si trasferisce sul cavaliere. Sarà così strano, allora, che nel compagnonnage cavallo-cavaliere la camminata goffa, zoppicante, sconclusionata del novello Ronzinante “diventi” quella del suo padrone D’Artagnan, rinnovato Don Chisciotte, «il Don Chisciotte di quest’altro Ronzinante»? «Bellissimo perché ridicolo» definirà Don Chisciotte Dostojevskij nei suoi appunti di lavoro55, secoli e secoli erano state messe e dimenticate in un angolo. Le ripulì e le rimise a posto meglio che poté; ma vide che avevano un grave difetto: non c’era una celata a incastro, ma solo un semplice morione; a questa mancanza, però, supplì la sua ingegnosità: con certi cartoni fece una specie di mezza celata che, incastrata nel morione, sembravano proprio una celata intera. […] Poi andò a vedere il suo ronzino e, nonostante fosse proprio male in arnese, peggio del cavallo di Gonella, che “tantum pellis et ossa fuit” [“era tutto pelle e ossa”: plauto, Aulularia, III.6], gli parve che né il Bucefalo di Alessandro, né il Babieca del Cid potessero stargli alla pari»). 53 c. ginzburg, Jean Fouquet. Ritratto del buffone Gonella, Modena 1996, p. 39. 54 m. de cervantes, Don Quijote cit., parte I, Prólogo, p. 17. 55 f. dostoevskij, Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, Firenze 1958. Cfr. m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 510, nota 33.
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accostando l’hidalgo alla figura di Cristo. Lo stesso modello ermeneutico sarà caro a Miguel de Unamuno, interprete, nella Vida (1905), di un Don Chisciotte cavaliere paradossale, che, oltre a tutti i libros de cavallería, sembra aver letto anche (e non può!) El sentimiento trágico de la vida (1913): un cavaliere, per dirla con la formula perfetta di María Zambrano, grande allieva di José Ortega y Gasset, che incarna la «forma de la pasión tragica del ser»56; l’inattuale perché non attuabile né attualizzabile «Cavaliere della Fede che ci fa savi con la sua follia»57. Si intuisce più agevolmente, per questa via, perché il principe Mysˇ kin, «nell’incomprensione che lo separa dalla volgarità del mondo, percorrendo la strada dell’imitatio Christi con l’andatura dinoccolata di Don Chisciotte, non può che essere, per l’appunto, l’idiota»58. A una simile sensuale, morbida, anche bizzarra e stralunata agilità del corpo corrisponde, nella percezione archetipale (ma si dovrebbe forse dire, per sfuggire al rischio di una connotazione dottrinalmente simpatizzante: “tipica del prototipo storico”), una duttilità interiore, una plasticità e perfino ambiguità e superficialità spirituali, invase, dominate, guidate dai sensi, e che sarà da identificare con la métis che i Greci attribuivano al polØtropos Ulisse, polipo e navigante, spietato stratega e consigliere fraudolento. Ortega la riconobbe, identificandola significativamente con lo spirito mediterraneo, in una superba pagina da antropologo dedicata allo sguardo meridionale che accarezza la pelle del mondo («sguardo chiaro» opposto al «pensiero non chiaro» del Mezzogiorno: ossia oscuro, confuso, ma anche sensuale e sentimentale), che incastonò a perfezione nelle sue Meditaciones del Quijote (1914), vero polo dialettico rispetto alla Vida di Unamuno: El Mediterráneo es una ardiente y perpetua justificación de la sensualidad, de la apariencia, de las superficies, de las impresiones fugaces que dejan las cosas sobre nuestros nervios conmovidos. La misma distancia que hallamos entre un pensador mediterráneo y un pensador germánico, volvemos a encontrarla si comparamos una retina mediterránea con una retina germánica. Pero esta vez la comparación decide en favor nuestro. Los mediterráneos, que no pensamos claro, vemos claro. […] En Cervantes esta potencia de visualidad es literalmente incomparable […]. Nos oculos eruditos habemus; lo que en el ver pertenece a la pura impresión es incomparablemente más enérgico en el mediterráneo. Por eso suele contentarse con 56 m. zambrano, España, sueño y verdad (1965), Madrid 1994, p. 34 (nel cap.: La ambigüedad de Don Quijote, pp. 30-37). Nello stesso libro si veda anche il cap. La religión poética de Unamuno, pp. 110-36. 57 m. de unamuno, Vida de Don Quijote y Sancho, según Miguel de Cervantes Saavedra, explicada y comentada, Madrid 1905 [trad. it. Commento alla vita di Don Chisciotte (1926), Milano 19642, p. 13 (è la frase di apertura del cap. i del libro)]. 58 m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 510.
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Corrado Bologna ello: el placer de la visión, de recorrer, de palpar con la pupila la piel de las cosas es el carácter diferencial de nuestro arte59.
8. Don Mascellone, Don Lagnoso, Don Formaggino. Si pensi all’immagine del corpo che Cervantes plasma, sintetizzando l’antica tradizione del cavaliere in trance, malato d’amore, ossessivamente perduto dietro le sue fantasticherie fuori del mondo reale. L’insistenza sui tratti facciali, in ispecie sulla mascella, dipende senza dubbio dal rilievo che in Cervantes ha fin dall’inizio la «complessione» fisiognomica di Don Chisciotte: complessione di smunto, di prosciugato, di secco, di segaligno. È la stessa filologica esattezza (non sfugga il dettaglio!) che poco fa si è vista applicata da Dumas al suo Don Chisciotte diciottenne, il prode D’Artagnan: «Viso lungo e bruno: zigomi sporgenti, segno d’astuzia; muscoli mascellari enormemente sviluppati, indice infallibile per riconoscere un guascone anche senza berretto […]». Don Chisciotte è fin dall’inizio un Magro Mascellone: il suo stesso nome ne fa un «Don Mascella», un Don Quijada. La prima alternativa onomastica, su cui Cervantes gioca, è Quijana, che ha probabilmente alla base la queja, la «lagnanza», o il quejido, il «lamento», suggerendo dunque un «Don Lagnoso», o «Don Lamentoso». L’altra è Quesada, che rinvierà di certo alla quesadilla, il pasticcio ripieno di formaggio; come se si dicesse, in italiano (e sarebbe davvero un eccellente nome da clown bianco, triste e quindi comico): «Don Formaggino»; oppure, a voler scendere al livello del grottesco teatrale da avanspettacolo, un sonoro e napoletanissimo (ossia «spagnolo», «mediterraneo»): «Ciccio Formaggio». Fin dalla sua prima comparsa in scena, anzi quando deve ancora entrare in azione e balena solo come un’ombra lunga nella voce del narratore, Don Chisciotte non è solo un cavaliere malinconico: è proprio «quello-dellaMascella», «il Mascellone», «il Muso-Lungo». La malinconia lo anticipa, 59 j. ortega y gasset, Meditaciones del Quijote, con un Apendice inédito (1981), Madrid 19985, pp. 55-56 (nel cap. viii della Meditación prelimiar: La pantera o del sensualismo, pp. 54-57); la frase latina è dai Paradoxa stoicorum di cicerone («Il Mediterraneo è un’ardente e perpetua giustificazione della sensualità, dell’apparenza, delle superfici, delle impressioni fugaci che le cose depositano sui nostri nervi toccati e commossi. La stessa distanza che c’è per noi fra un pensatore mediterraneo ed un pensatore germanico. Questa volta, però, il paragone gioca a nostro vantaggio. Noi mediterranei, che non pensiamo con chiarezza, vediamo con chiarezza. […] In Cervantes questa forza di visualità è letteralmente incomparabile. […] Nos oculos eruditos habemos [“Noi abbiamo occhi eruditi”: cicerone, Paradoxa ad M. Brutum, V, 33]; ciò che nel vedere spetta alla pura impressione è incomparabilmente più energico nel mediterraneo. È per questo motivo che in genere se ne accontenta: del piacere della visione, del potere esplorare, palpare con la pupilla la pelle delle cose è il carattere che distingue la nostra arte»).
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lo annuncia, s’installa sul suo volto prima che l’epifania del personaggio si compia. Malinconia comica, già nel nome: parodia della Malinconia60. E si svelerà un segreto esegetico dichiarando che Sancio Panza fu esplicitamente negli occhi di Manzoni mentre abbozzava la figura del pauroso «curatone brianzolo», panciuto e «dal naso goccioloso»61 che, «tondo e proverbioso»62, avanza nei secoli nel deserto della Mancia assolata e, da laggiù, dilaga in tutta l’Europa, divenendo (almeno fino al geniale rovesciamento esegetico compiuto da Franz Kafka) il modello del realista prudente e pavido, ridicolo nel suo eccesso di meschinità? Inconfondibilmente, radicalmente sancesco ideò Manzoni il suo Don Abbondio: e così lo vide bene Francesco Gonin, direttamente guidato da Manzoni63, nelle sue incisioni realizzate, sotto la vigile guida dell’autore, per l’edizione del 1840, per la quale probabilmente si ispirò anche a stampe o disegni dedicati a Sancio64. L’incrociarsi e il fortificarsi reciproco dell’immaginario letterario e dell’iconografia donchisciottesca è d’altra parte precocissimo, anche tra Spagna e Francia: lo dimostra la straordinaria serie di affreschi dipinti da Jean Monier per Maria de’ Medici nel castello di Cheverny (1640)65, prima attestazione, forse, al di fuori della Spagna, del successo delle figurazioni epico-narrative di tipo cavalleresco in forma visiva (e per di più con caratteri grottesco-eroicomici, e proprio in una terra, come la Francia, dominata al Nord e al Sud da una tradizione tipicamente eroico-cavalleresca). 60 Per un esame dei nomi di Don Chisciotte rinvio ancora ai miei saggi citati nella nota 33. E si veda ancora lo studio di l. spitzer, Linguistic Perspectivism in the «Don Quijote», in id., Linguistics and Literary History, Princeton N.J. 1948, pp. 41-58 [trad. it. Prospettivismo nel «Don Quijote», in id., Cinque saggi di ispanistica, a cura di G. M. Bertini, Torino 1962, pp. 55-106]. 61 c. e. gadda, La battaglia dei topi e delle rane (1959), in id., Il tempo le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di D. Isella, Milano 1982, pp. 61-79 (a p. 79). 62 c. segre, Costruzioni rettilinee e costruzioni a spirale nel «Don Chisciotte», (1974), in id., Le strutture e il tempo, Torino 1974, pp. 183-219. 63 La dimostrazione l’ha data S. S. Nigro, nella sua splendida edizione in tre volumi, nella serie mondadoriana dei «Meridiani», del Fermo e Lucia e dei due Promessi Sposi, Milano 2002. Nella Nota critico-filologica: i tre romanzi (stampata in tutti e tre i volumi, con appendici differenziate relative al singolo testo: vol. I, pp. xliii-lix; vol. II, pp. xliii-liii; vol. III, pp. ix-xviii) Nigro ha opportunamente insistito sulla funzione iconica come variante sostanziale dell’edizione Quarantana rispetto alla Ventisettana, e sull’intervento diretto del Manzoni nella progettazione «mirata» del sistema di immagini come controcanto del testo. 64 Cfr. p. lenaghan, j. blas e j. m. matilla, Imágenes de Quijote. Modelos de representación en las ediciones de los siglos xvii a xix, New York N.Y. - Madrid 2003. 65 Su questi importantissimi affreschi si veda ibid., p. 21, e p. 42, nota 9; ma già, e più specie e ficamente: m. bardon, «Don Quichotte» en France au xvii et au xviii siècle, 1605-1815, Paris 1931, pp. 811 sgg.; j. givanel mas y gaziel, Historia gráfica de Cervantes y del Quijote, Madrid 1946, pp. 97-99; j. hartau, Don Quijote in der Kunst. Wandlungen einer Symbolfigur, Berlin 1987, p. 25.
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Così come D’Artagnan “è” Don Chisciotte, per ammissione esplicita dell’autore, allo stesso modo siamo autorizzati a proporre, anche senza il sigillo di paternità, che Don Abbondio “è” Sancio Panza. Al contempo entrambi sono anche (con una drastica scissione del profilo fisico da quello spirituale) Falstaff, il vecchio cavaliere quattrocentesco che corteggia le due comari di Windsor, smargiasso, pigro, grasso, anche simpatico e buontempone: ormai pronti, tutti questi personaggi, ad uscire dall’ambiguità «settentrionale» fra commedia e tragedia e svanire in musica, entrando sul palcoscenico nell’opera lirica «meridionale» con Giuseppe Verdi (Falstaff, 1893, su libretto di Arrigo Boito), e ingorgando il «golfo mistico» dell’orchestra con il poema sinfonico di Richard Strauss (Don Quixote, 1898) e con il dramma musicale di Jules-Émile Massenet (Don Quichotte, 1910). Infine sarà il cinema a cercare di raccogliere le spoglie del mito, con effervescenza e varietà straordinarie (consultando il sito elettronico dell’Istituto Cervantes66 conto, oltre a dieci adattamenti per la televisione, almeno ventisette trasposizioni sul grande schermo, tra il film muto di Narciso Cuyás del 1908 e il più recente del 2002: ma il repertorio può accrescersi entro il quarto centenario della pubblicazione del romanzo, che scoccherà nel 2005). Don Abbondio - Sancio Panza, invece di sognare, riesce solo a passare una notte in bianco, in «consulte angosciose» aspettando che nasca il «giorno di battaglia», nel quale avrebbe dovuto semplicemente fare il suo onesto dovere di prete, in silenzio e nell’oscurità. Giusto al contrario del grande principe di Condé, che dormì saporitamente prima della sua impresa di cavaliere ardito, celebrata nei secoli e nei libri di storia (e nei Tre moschettieri anche il cardinale Richelieu è definito «un cavaliere ardito e galante, già debole nel corpo ma sostenuto dalla forza morale che ha fatto di lui uno degli uomini più straordinari mai esistiti»)67. 9. Francesco e fra Cristoforo. Se Don Abbondio “è” Sancio Panza, chi sarà, allora, il segreto, misterioso Don Chisciotte manzoniano, reso invisibile dalla metamorfosi esteriore ma nitido nella figuralità più intima? Forse Renzo, come sulle prime parrebbe, per la sua irruenza (già all’inizio, quando sente da Lucia la storia delle pesanti avances di Don Rodrigo, donchisciotteggia e braveggia «correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di 66 67
www.cervantesvirtual.com/bib_autor/Cervantes/ a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xiv: L’uomo di Meung, p. 168.
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tanto in tanto il manico del suo coltello»)68, e per l’illusione di riuscire a cambiare il mondo muovendo da una sete di giustizia ideale («a questo mondo c’è giustizia finalmente»)69, e per la voglia inesausta, fino all’ultima pagina del romanzo, di «raccontare le sue avventure»70? O non, invece, più sottilmente travestito, il cavaliere mancato, l’eroe ideale e idealistico che ricalca esattamente le orme di Francesco d’Assisi, ossia il francescano cappuccino fra Cristoforo, nel quale abbiamo già potuto identificare l’attivazione del prototipo del Commendatore, giudice-vindice di carattere messianico e apocalittico che duella verbalmente con lo «scellerato» Don Rodrigo? Anche lui, come Francesco, figlio di un mercante. Anche lui capace di convertirsi, cioè di rivolgere la rotta ad un fine e con un moto diversi da quelli terrestri e temporali, paralleli, in qualche misura, a quelli della letteratura71. Anche lui, come il folle di Dio, con «la sua indole, onesta insieme e violenta» al pari di quella del Cavaliere, cavallerescamente «sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi», e per questo, soprattutto per questo (giacché il salto nella fede è di là da venire), «a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti»72. La scintilla del duello a colpi di lama scocca proprio dall’insulto supremo che, nel duello preliminare a colpi di retorica, lo sfidante lancia a Lodovico, cioè l’accusa di non essere cavaliere («“Voi mentite ch’io sia vile”. “Tu menti ch’io abbia mentito.” Questa risposta era di prammatica. “E, se tu fossi cavaliere, come son io,” aggiunse quel signore, “ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu”»)73. Impressiona, e parla chiaro, il parallelismo con Francesco, ombra74 che si estende lunga e intensa verso Don Chisciotte e fra Cristoforo. E 68
a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. iii, p. 42. Ibid., p. 55. 70 Ibid., cap. xxxviii, p. 672. 71 Cfr. m. zink, Poésie et conversion au Moyen Âge, Paris 2003, p. 5 e passim. 72 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. iv, p. 59. 73 Ibid., p. 61. 74 Nel senso in cui ha impiegato questo termine p. boitani, L’ombra di Ulisse, Bologna 1992, e dietro a questo modello ermeneutico lo hanno ripreso e variamente applicato ad altre figure allegorico-storiografiche fondamentali p. boitani, c. bologna, a. cipolla e m. a. liborio, Alessandro nel Medioevo occidentale, Milano 1998 (specie la parte VI: L’aura e le ombre di Alessandro, pp. 439-85): «Ogni personaggio storico o letterario di una qualche importanza ha il potere di proiettare un’ombra di sé sul futuro e d’irradiare un’aura nell’immaginazione dei contemporanei e dei posteri. Nella sua forma più rigorosa, la prima, l’ombra (sempre sospesa fra due momenti storici distanti nel tempo) è canonizzata dall’interpretazione allegorica cristiana della Sacra Scrittura, per la quale un personaggio o un evento dell’Antico Testamento prefigura, adombra, è “umbra”, appunto (secondo la definizione medievale), di un personaggio o evento del Nuovo […]. Infine, è possibile che il meccanismo figurale perda (sempre di più, ma non solo, in epoca moderna) la dimensione allegorica: in questo caso, l’eroe storico o letterario in considerazione diviene più semplicemente un modello o un paradigma per chi lo segue […]» (p. 441, inizio della nota introduttiva alla sezione, di P. Boitani). 69
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ci consente anche di ampliare il ventaglio semantico che l’immagine del cavaliere cortese contiene e disloca, lungo i secoli, disarticolandosi e riarticolandosi in figure diverse. Francesco, italiano il cui nome stesso incorporava la memoria della tradizione culturale e letteraria francese, quindi europea75. Francesco appunto, le cui nozze mistiche con Domina Paupertas ispirarono una secolare mitografia di chiara ispirazione cortese, in cui è descritto corteggiare un’ideale Midons occitanica di nome Povertà. Francesco, che poteva salmodiare, da trovatore sacro ma ancora laico, un inedito chan di fin’amor cosmica in laudes che giungevano a riscattare perfino «nostra sora morte corporale» in un affratellamento delle creature terrestri e celesti. Francesco, che si azzardava a scegliere come thema delle sue prediche non solo testi scritturali, ma versi d’amore di squisita cortesia («Tanto è ’l bene ch’io m’aspetto | ch’ogni pena m’è diletto […]»), e che come uno joculator Domini addobbava idealmente da chevaliers arturiani i suoi fratres pezzenti, in saio stracciato e arlecchinesco, chiamandoli «milites tabulae rotunde»: invitandoli immediatamente, però, a trasformare in impegno di vita, in sequela esistenziale, la lezione di quei cavalieri in cerca d’aventure trasfigurati in profani doppi di Cristo, salendo a cavallo come gli eroi dei romanzi, e non limitandosi a leggerne e a cantarne le gesta, «sicut faciunt histriones, qui cantant ictus Roclandi et Oliverii et pungnatorum et ipsi nunquam dederunt unum ictum in bello»76. Troviamo in questo lóghion ágraphon dell’alter Christus il senso profondo, la funzione secolarmente modellizzante della tradizione della civiltà europea cortese e cavalleresca. Orlando, Oliviero e i paladini della cavalleria cortese, modelli di Francesco e, dietro di lui, di Don Chisciotte e di Lodovico che «cambia rotta», «si converte», «diviene» fra Cristoforo. Lui, fra Cristoforo, sarà dunque il Don Chisciotte Cavaliere dei Cavalieri, che tutti li assume e dissolve in sé, trasferendoli al futuro dell’Europa moderna, facendone Altro da sé. Fra Cristoforo, che quand’era an75 Per quanto segue rinvio ad alcuni miei studi intorno al ruolo del modello antropologico-culturale dell’Ordine minoritico nella formazione di una cultura laica in volgare, fra Italia ed Europa: L’Ordine francescano e la letteratura nell’Italia pretridentina, in a. asor rosa (a cura di), Letteratura italiana, I: Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 729-97; Il modello francescano di cultura e la letteratura volgare delle origini, in I Francescani in Emilia. Atti del convegno di Piacenza, 17-19 febbraio 1983, in «Storia della città: rivista internazionale di storia urbana e territoriale», 1983, nn. 26-27, pp. 65-90; Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune metamorfosi nelle categorie letterarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medievali, in s. boesch gajano e l. sebastiani (a cura di), Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, L’Aquila 1984, pp. 63-163. 76 Così Ubertino da Casale, riportato in apparato critico da r. b. brooke (a cura di), Scripta Leonis, Rufini et Angeli Sociorum S. Francisci. The Writings of Leo, Rufino and Angelo Companions of St. Francis, Oxford 1970, p. 208 («come fanno i giullari, che cantano le gesta e le battaglie di Rolando, Oliviero e gli altri paladini, e non hanno mai combattuto davvero»).
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cora Lodovico, dopo l’omicidio «per onore» rifiuta la dura legge della realtà e rovescia il proprio destino scegliendo la follia della fede in cambio di quella delle armi (così interpreterebbe di sicuro anche lui Miguel de Unamuno). Fra Cristoforo, dico, il «portatore di Cristo»: fin dal nome cavaliere che di Cristo assume le armi e le insegne, che non senza motivo viene chiamato in causa, per la sua scienza della cappa e della spada, a dirimere quel famoso dibattito sul duello fra Attilio e il podestà, in casa di Don Rodrigo. 10. «Un pensiero che assorbe su di sé tutte le facoltà di chi pensa». Fermiamoci ancora brevemente su Manzoni e Dumas, scelti come sottili e possenti amplificatori epistemologici, e insomma come lenti d’ingrandimento storico-letterarie e in senso più lato storiografiche, capaci di farci verificare se nella stratificazione dei modelli figurali d’origine medievale che vi si addensano si possano riconoscere livelli e modelli volta a volta inglobati e superati. In questa prospettiva le stesse maschere da personaggio-tipo dei tre (quattro!) moschettieri appaiono sintomatiche, e permettono di riconoscere con una relativa sicurezza, dietro di loro, altre figure modellizzanti come paradigmi e prefigurazioni, cioè come ombre. Il primo ad essere descritto con dovizia di dettagli connotativi, come s’è detto, è proprio D’Artagnan. Guascone sfrontato ed eccessivo nei modi, spavaldo, impertinente e impudente, ardimentoso e impetuoso, D’Artagnan completa la struttura ternaria con qualche tratto eccezionale. Infatti, anche sul piano dell’emotività e della relazione fra ideale cavalleresco e esperienza erotico-sentimentale, a lui Dumas attribuisce caratteri di straordinaria rarità e peculiarità, che la cultura letteraria medievale applicava al cavaliere. Avanti nel libro, nel capitolo xxvi, ad esempio, D’Artagnan a cavallo viene preso da una malinconia infinita che lo astrae dal mondo, pensando all’Amata: proprio come Lancillotto quando pourpense all’Amore nello Chevalier de la charrete di Chrétien de Troyes e come, in qualche momento, il folle Don Chisciotte fermo sull’immagine di Dulcinea: […] durante il cammino una profonda tristezza gli stringeva il cuore; pensava alla giovane e bella signora Bonacieux, che avrebbe dovuto dargli il compenso della sua devozione […]77.
Qui Dumas sembra a conoscenza del dibattito medievale intorno alla Mercé «offerta gratuitamente» dalla Dama al cavaliere o al trovato77
a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xxvi: La tesi di Aramis, p. 305.
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re per il devoto servitium amoris da lui svolto, non finalizzato se non alla lode e alla venerazione dell’Amata. Immediatamente dopo D’Artagnan cade in trance dimenticando ogni cosa, appunto come Lancillotto, con micrometrica precisione di quello che parrebbe proprio un prelievo e innesto: A tant s’an va chascuns par lui; et cil de la charrete panse con cil qui force ne deffance n’a vers Amors qui le justise; et ses pansers est de tel guise que lui meïsmes en oblie, ne set s’il est, ou s’il n’est mie, ne ne li manbre de son non, ne set s’il est armez ou non, ne set ou va, ne set don vient; de rien nule ne li sovient fors d’une seule, et por celi a mis les autres en obli; a cele seule panse tant qu’il n’ot, ne voit, ne rien n’antant78.
Così D’Artagnan, replicando una gestualità e una concentrazione interiore che stupirebbe scoprire non ispirate al luogo di Chrétien o ad altro medievale parallelo: Niente fa passare il tempo e abbrevia la strada come un pensiero che assorbe su di sé tutte le facoltà di chi pensa. L’esistenza esterna assomiglia allora a un sonno, di cui quel pensiero è il sogno. Grazie al suo influsso, il tempo non ha più misura, lo spazio non ha più distanza. Si parte da un luogo e si arriva a un altro, ecco tutto. Dell’intervallo percorso, non resta presente al vostro ricordo che una vaga foschia in cui svaniscono mille immagini confuse di alberi, montagne, paesaggi. In preda a questa allucinazione D’Artagnan percorse, all’andatura scelta dal suo cavallo, le sei o sette leghe che separano Chantilly da Crèvecœur: arrivando in questo villaggio, non si ricordava di nessuna delle cose incontrate per strada79.
Dopo D’Artagnan, Porthos. Anche lui, come D’Artagnan, talora cade in un sonno profondissimo, che è di fatto una trance, trasferimento in un Altro Mondo tutto mentale: «al suono di quella voce, Porthos ebbe un soprassalto come un uomo che si svegliasse da un sonno di cento 78 m. roques (a cura di), Les romans de Chrétien de Troyes cit., III: Le chevalier de la charrete, a cura di M. Roques, Paris 1974, vv. 710-24, pp. 22-23 («Ciascuno se ne va per la sua strada. | Il cavaliere della carretta è pensieroso, | come chi non ha né forza né difesa | di fronte ad Amore, che lo dòmina; | e i suoi pensieri sono di tale natura | che egli dimentica se stesso, | non sa più se esiste o non esiste, | non ricorda più il proprio nome, | non sa se è armato o no, | non sa dove va, né da dove viene; | di nulla più ha memoria, | se non di una cosa sola, ed è per questa | che ogni altra ha messo in oblio; | a quella sola pensa così intensamente | che non sente, non vede, non capisce nient’altro»). 79 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xxvi: La tesi di Aramis, pp. 305-6.
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anni»80. Anche per Porthos vengono subito in luce i temi di valore allusivo che caratterizzano il personaggio, tutti riconducibili allo schema figurale del cavaliere delle origini. Quel personaggio sta subendo una svolta decisiva, nella quale un’etica dell’interiorizzazione si salda, inglobandola, a un’estetica del puro vivere81. Sorge così un’«estetica esistenziale» che «trascina davvero fuori dal mondo, come spesso capiterà»82. Proiettata verso una nuova metafisica tutta giocata al di qua del bordo della fisicità, la nuova figura si caratterizza per bellezza e bizzarria, severa altezzosità, solarità smagliante e tuttavia connessa a un’eleganza un po’ fanée, da cavaliere antico lievemente impolverato dal tempo: Al centro del gruppo più animato c’era un moschettiere di alta statura, con un viso altero e con una bizzarria d’abbigliamento che attirava su di lui l’attenzione generale. Non portava, infatti, in quell’occasione, la casacca d’ordinanza, che del resto non era affatto obbligatoria in quell’epoca di libertà minima e d’indipendenza massima, ma un giustacuore blu cielo un po’ decaduto e logoro, e su quest’abito una magnifica tracolla con ricami d’oro, che risplendeva come i riflessi di cui l’acqua si ricopre in pieno sole. Un lungo mantello di velluto cremisi gli ricadeva con eleganza sulle spalle, scoprendo solo sul davanti la splendida tracolla, dalla quale pendeva una spada gigantesca83.
11. La «passion predominante» di Aramis. Porthos subito giura «sul [su]o onore e la [su]a fede di gentiluomo»84 per ribadire che, sotto il mantello, l’estetica nasconde un’etica. Immediatamente dopo introduce Aramis, che con lui crea un «perfetto contrasto»: se di Porthos, «decaduto e logoro» ma ancora splendente e «gigantesc[o]» come un cavaliere-predone85 del Nord, Dumas fa un eroe del Sud, 80
Ibid., cap. xxix: La caccia all’equipaggiamento, p. 362. Nel senso di m. foucault, L’herméneutique du sujet: cours au Collège de France, 1981-1982, a cura di F. Ewald, A. Fontana e F. Gros, Paris 2001. 82 m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 461 (è la frase che chiude il cap. x del libro: La «scienza» cavalleresca nel Settecento. Libertini e «gentlemen»). Su questa «estetica esistenziale che matura durante gli anni della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche», recuperando l’antico e ormai desueto modello etico-cavalleresco e riorientandolo verso la civiltà di cui Manzoni e Dumas sono testimoni significativi, cfr. anche p. 566 (da qui la frase appena citata), e p. 533, ove si rileva «il modo di persistente autopercezione e autorappresentazione estetico-etica del soggetto, a vario titolo, aristocratico, cavalleresco e romantico proprio in quanto permeato dei valori cavallereschi, l’onore, l’amore e la fedeltà, come dice Hegel riconoscendo alla cavalleria, al codice cavalleresco dell’Ottocento più che una specificità etica una specificità estetica». 83 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. ii: L’anticamera del signor de Tréville, p. 29. 84 Ibid., p. 30. 85 Cfr. l’importante saggio di m. mancini, Metafora feudale cit., cap. i: Cortigiani e cavalieripredoni, pp. 13-62. 81
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addobbandolo in un mantello celeste-dorato-solare, in Aramis riporta alla luce altre ombre del Medioevo meridionale. L’ombra che si stende dietro ad Aramis è soprattutto quella del trovatore: l’intellettuale-cortigianocavaliere ingentilito nei modi e in qualche misura disincarnato, astratto in una fisicità estetizzante ma quasi desessualizzata, che fa del corpo un simulacro, un fantasma mascherato da uomo; l’esangue e leggermente femmineo chierico-cicisbeo-cavaliere, colto e raffinato, che ha definitivamente rinunciato alla conquista violenta e armata, giacché l’aventure di ricerca del Castello la rispecchia unicamente nel testo poetico, levigato e polito con l’esercizio di perfezionamento svolto nell’interiorità, nelle forme fantasmatiche di un suo «altero e lontano castello interiore»86 che è ormai un derelitto, svuotato «paesaggio di frammenti e di rovine»87. […] era un giovane di appena ventidue o ventitré anni, dall’aspetto mite e ingenuo, gli occhi neri e dolci, le guance rosee e vellutate come una pesca in autunno; i baffi sottili disegnavano sul labbro superiore una linea perfettamente retta; le mani parevano temere di abbassarsi per paura che le vene si gonfiassero, e di tanto in tanto si pizzicava il lobo degli orecchi per mantenere l’incarnato tenero e trasparente. Usava parlare poco e lentamente, salutava molto, rideva senza far rumore, mostrando i denti, che erano belli e di cui si prendeva grande cura, come del resto di tutta la sua persona88.
Nel gruppo ternario, di fatto svolto in quaternario fin dalle prime pagine del libro con l’avvento di D’Artagnan, Aramis è davvero il trovatore, il clericus: difatti studia, prepara una tesi che è al centro delle sue preoccupazioni, filosofeggia, e intende prendere i voti facendosi gesuita. Dialogando con D’Artagnan lo proclama chiaro e tondo lui stesso, che l’Autore fa uscire dagli abiti del cavaliere-poeta-cicisbeo e nasconde sotto quelli di uno Jago filologicamente shakespeariano, ma notevolmente ritoccato nella direzione del gesuitismo: […] io voglio essere uomo di chiesa e rifuggo da tutte le occasioni mondane. Il fazzoletto che avete visto non era stato dato a me personalmente, ma era stato dimenticato a casa mia da un amico. Ho dovuto raccoglierlo per non compromettere lui e la Donna che ama. Quanto a me, non ho e non voglio avere amanti, seguendo l’esempio giudizioso di Athos, che non ne ha neanche lui. 86 j. lacan, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je, in id., Écrits, Paris 1966 [trad. it. Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’«io», in id., Scritti, Torino 1974, I, pp. 91-92, citato da m. mancini, Metafora feudale cit., p. 118 (nel saggio Marcabru, i sambuchi e il castello assediato, pp. 107-31)]. In chiave filologico-testuale raccoglie e discute materiali antichi e moderni relativi all’allegorismo del castello interiore il bellissimo libro di i. gallinaro, I castelli dell’anima. Architetture della ragione e del cuore nella letteratura italiana, Firenze 1999, che restituisce il percorso elaborativo, fra Medioevo ed età moderna (Leopardi, e oltre), di un lessico e di una metaforica dell’«edificazione interiore». 87 m. mancini, Metafora feudale cit., p. 130. 88 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. ii, p. 30.
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– Ma che diavolo! Dal momento che siete moschettiere, non siete prete. – Moschettiere ad interim, mio caro, come dice il cardinale, moschettiere mio malgrado, ma uomo di chiesa nell’animo, credetemi89.
Lo dimostra anche l’insistenza parodica, garbatamente accentuata fino all’ironia, con cui Dumas sottolinea la passion predominante del moschettiere. Essa non è la conquista militare, e neppure immediatamente quella erotico-sentimentale, l’avventura «galante», nella quale eccellono gli altri suoi compagni: specchio fedele dell’antico domnejar, arte della seduzione che trasferisce l’aggressività del brigantaggio sulla sfida della conversazione, del dialogo persuasivo e affascinante90. Alla passione tipicamente cortese Aramis (richiamandosi all’esempio di Athos, come ad un compagnonnage tipicamente cavalleresco)91 preferisce per esplicita ammissione la concentrazione nell’interiorità, la mentalizzazione di ogni esperienza corporea. L’opposizione fra Porthos il carnale, il tutto-fisico, il tutto-corpo e Aramis lo spirituale, il tutto-cervello, il tutto-mentale, non potrebbe essere meglio calcolata e calibrata. È evidente che Dumas, assumendo due dei livelli e modelli intrinseci nella cavalleria medievali, li disarticola e li individualizza in due distinti personaggi. 12. «Athos è malato, molto malato». A mediare tra queste figure estreme di cavalieri viene introdotto Athos, companho di masnada, appunto, affratellato a saldare dialetticamente il gruppo. Athos entra in scena non di persona, ma come protagonista del racconto di Porthos al signor di Tréville. La sua prima apparizione non è in veste di spadaccino, di eroe, di corpo sano e vigoroso guidato da una mente ardita e leale. Athos è presentato come Malato: come il Molto Malato: «“Signore – rispose tristemente Aramis, – Athos è malato, molto malato” – “Molto malato, dite? E di quale malattia?” – “Si teme che sia il vaiolo, signore […]”»92. Solo due pagine più tardi si scoprirà che 89
Ibid., trad. it. cap. vii: La vita privata dei moschettieri, p. 94. Cfr. m. mancini, Metafora feudale cit., in particolare pp. 48 sgg. 91 Lo stesso Richelieu, in un punto cruciale del romanzo (a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. li: Ufficiale, p. 583) riconosce D’Artagnan dall’«accento guascone» (ossia per la sua natura di meridionale focoso e quasi-spagnolo), mentre del resto del gruppo percepisce il «compagnonnage»: «non dubitò che gli altri tre fossero quelli che chiamavano gli inseparabili, vale a dire Athos Porthos e Aramis». 92 Ibid., trad. it. cap. iii: L’udienza, p. 36. 90
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Porthos sta cercando di celare il segreto della ferita inferta ad Athos in un attacco proditorio da parte delle guardie del cardinale (Athos «sarebbe disperato se questa notizia arrivasse agli orecchi del re»)93. Quando appare di persona, il moschettiere è solo «una testa nobile e bella, ma spaventosamente pallida»: e se perderà subito i sensi per il dolore, lo farà entrando nel salotto «in tenuta impeccabile, stretto alla cinta come sempre e con passo fermo»94. Si potrà anche morire dissanguati, insomma: ma l’etichetta e l’eleganza vanno preservate avant tout. Con la prudenza e il beneficio d’inventario necessari in casi come questi, ci si potrà domandare se questa malattia simbolica del moschettiere più aristocratico della terna non possa essere un riverbero flebile e impallidito, ridotto a pura traccia allusiva, diciamo pure a «grafismo» teatrale, dell’antico mitologema della malattia incurabile dell’eroe. Prima di tutti e sopra tutti gli avatar medievali c’è Telephos, l’eroe greco colpito da Achille e che può essere sanato solo dalla polvere di ruggine raccolta dalla stessa lancia che lo ferì, divenuto nel mondo antico «il proverbiale rappresentante del concetto di “guarigione con l’arma che ha arrecato la ferita”»95. Al di sotto delle componenti psicologiche individuali e del senso specifico che assume il tema dell’autoguarigione in Rousseau, non sarà incongruo, riconoscendo un comune orizzonte mitografico, accostare il suo telefismo al mitologema della malattia mortale elaborato dai poeti cortesi alle origini della cultura europea moderna: Parlando della sua infanzia, Rousseau vi scopre la malattia inscritta sin dall’origine: «Nacqui debole e malaticcio; costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la prima delle mie sventure». Questa ferita iniziale (o, se si preferisce, la convinzione e il racconto di essa) chiama a raccolta e mobilita tutte le energie riparatrici, tutte le facoltà di compensazione. Resta appena l’intera vita per tentare di guarire, quando il male è inseparabile dalla venuta al mondo96.
Al pari di Rousseau, anche Athos «viene al mondo», come personaggio, nei panni del Molto Malato. Il romanzo intero gli basterà appena per riscattare quel destino con l’eroismo del grande schermidore. Al93
Ibid., trad. it. p. 38. Ibid., trad. it. pp. 38-39. 95 j. starobinski, Le remède dans le mal. Critique et légitimation de l’artifice à l’âge des Lumières, Paris 1989 [trad. it. Il rimedio nel male. Critica e legittimazione dell’artificio nell’età dei lumi, Torino 1990, p. 173 (cap. v: Il rimedio nel male: il pensiero di Rousseau; il saggio fu pubblicato in origine nel 1978: cfr. la Nota bibliografica a p. 265). Nella trad. it. pp. 172-73, nota 1, Starobinski rileva che «fino alla metà del xix secolo, la formula rimane proverbiale», e cita alcuni esempi di applicazione al tema della violenza e al campo della comunicazione giornalistica (soprattutto interessanti le due frasi estratte da Le Vieux Cordelier di Camille Desmoulins e dalle Illusions perdues di Honoré de Balzac). 96 Ibid., trad. it. p. 149 (la frase apre il § 1, La lancia d’Achille, del cap. v cit.). 94
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lo stesso modo il senhal della malattia d’amore aveva connotato i primi due trovatori di cui abbiamo notizia: il giovane Jaufré Rudel sceglie per sé il blasone del Malato, del Pellegrino, dell’Esiliato, del Destinato dal Cielo alla Lontananza e alla Sofferenza: Alres no˙i a mais del murir, s’aucun joi non ai en breumen. […] Lai es mos cors si totz c’alhors non a ni sima ni raitz, et en dormen sotz cobertors es lai ab lieis mos esperitz; e s’amors mi revert a mau car ieu l’am tant e liei non cau97.
Il «fondatore» del mitologema, alle soglie del xii secolo, fu probabilmente il grande filosofo Abelardo, a sua volta autore di poesie d’amore (chissà se solo in latino o anche in volgare). Il crudo racconto della castrazione subita per opera degli scherani dello zio di Eloisa, il geloso Fulberto, si svolge in un’attenta, ferocemente dettagliata variante al tema della ferita insanabile legata ad amore e generatrice di desiderio e passione solo mentali, in quella che continua a sembrarmi la prima, straordinaria autobiografia erotico-cortese, la celebre Historia calamitatum, tramandata come prima lettera ad Eloisa. Jaufré Rudel riprende e sviluppa il tema (e più tardi l’oltranzoso, sprezzante Raimbaut d’Aurenga fingerà di imitarlo, in realtà rovesciando in ridicolo l’ideologia dell’amor de lonh e del desiderio ridotto a sguardo e pensiero)98: Lonc temps ai estat en dolor et de tot mon afar marritz, qu’anc no fui tan fort endurmitz que no˙m reisides de paor. […] Mielhs mi fora jazer vestitz, que despolhatz sotz cobertor: 97 jaufré rudel, Pro ai del chan essenhadors, in g. chiarini, Il canzoniere di Jaufré Rudel. Edizione critica, con introduzione, note e glossario, L’Aquila 1985, vv. 23-24 e 33-38, p. 66: si tratta dei versi finali della stanza III e dei primi sei della stanza V; trad. it. p. 68: «III. – […] non mi rimane altro che morire, a meno che non riceva presto qualche conforto. […] V. – Laggiù si trova la mia persona, che altrove non ha cima né radice, e quando dormo sotto le coperte il mio spirito è la presso di lei; ma il suo amore si risolve in male per me, perché io l’amo tanto e a lei non importa. […]». 98 Cfr. c. bologna e a. fassò, Da Poitiers a Blaia: prima giornata del pellegrinaggio d’amore, Messina 1991 (mie sono le pp. 5-83: per Abelardo, cfr. le pp. 25 sgg.; su Lonc temps ai estat cubertz di Raimbaut d’Aurenga e sul suo rapporto parodico con Jaufré Rudel si vedano in particolare le pp. 35 sgg.).
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Corrado Bologna e puesc vos en traire auctor la nueit quant ieu fui assalhitz. Totz temps n’aurai mon cor dolen, quar aissi˙s n’aneron rizen, qu’enquer en sospir e˙n pantais99. Colps de joi me fer, que m’ausi, e ponha d’amor que˙m sostra la carn, don lo cors magrira; et anc mais tan greu no˙m feri ni per nuill colp tan no langui, quar no conve ni no s’esca, a, a100.
Il maturo Guglielmo IX d’Aquitania, in una delle liriche più famose di tutto il Medioevo, il vers de dreit nien dedicato «al puro nulla», composta «di puro nulla», estratta «dal puro nulla», irride il «lungo dolore» del giovane Jaufré Rudel, il suo desiderio di «consumazione», di «sottrazione della carne» (esaltato nel testo da uno degli enjambement più violenti della lirica delle origini), la sua percezione e rappresentazione del pathos sentimentale come «colpo d’amore», «coltellata di passione» che «uccide» dando la vita. La parodia è spietata101: Malautz sui e cre mi morir; e re no sai mas quan n’aug dir. Metge querrai al mieu albir, e no˙m sai tau; bos metges er, si˙m pot guerir, mor non, si amau102.
Lasciamo a questo punto Guglielmo e i suoi companho, masnada di antichi cavalieri-predoni, ormai capaci di leggere, di scrivere, di apprezzare le raffinate strutture formali in rima, visto che per loro il du99 jaufré rudel, Belhs m’es l’estius el temps floritz, in g. chiarini, Il canzoniere di Jaufré Rudel cit., vv. 15-18 e 36-42, pp. 102-3; trad. it. pp. 103-4: «III. – A lungo sono stato nel dolore e in preda a grande inquietudine, così che mai era stato tanto profondo il mio sonno che non mi svegliassi di soprassalto impaurito. […] VI. – Meglio sarebbe stato per me coricarmi vestito, anziché spogliato sotto le coltri: e vi posso addurre a conferma la notte in cui fui aggredito. Sempre ne avrò pena nel cuore, perché se ne andarono ridendo, così che ancora sospiro e ne sono turbato». 100 id., Non sap chantar qui so non di, ibid., vv. 13-18, p. 57; trad. it. p. 59: «Un colpo di gioia mi ferisce, tale che mi uccide, e una trafittura d’amore che mi consuma la carne, onde il corpo ne smagrirà; e mai fui ferito tanto gravemente, né mai alcun colpo mi ha tanto indebolito, perché non conviene né si addice». 101 Come a suo tempo ho cercato di dimostrare, è più economico concludere che sia lui a rovesciare il mito, e non che sia Jaufré Rudel a riportare la parodia al segno positivo: sul mitologema della malattia cfr., nel mio Da Poitiers a Blaia cit., specialmente le pp. 60 sgg. 102 guglielmo ix d’aquitania, Farai un vers de dreit nien, in id., Poesie, a cura di N. Pasero, Modena 1973, I, vv. 19-24, p. 93; trad. it. p. 95: «Sono malato e temo di morire, eppure non ne so nulla più di quanto ne sento dire. Cercherò un medico a mio capriccio, eppure non ne conosco uno adatto; sarà un buon medico, se riesce a guarirmi, ma no, se mi aggravo».
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ca d’Aquitania scrive le prime composizioni letterarie in un volgare europeo. E torniamo ai tre strani, difformi compagni ai quali si unisce il diciottenne D’Artagnan, guascone «Don Chisciotte senza corazza, senza scudo e senza gambali». Se Porthos è il cavaliere-combattente, Athos il cavaliere-aristocratico, Aramis, come dicevo, è sicuramente il cavaliere-intellettuale. Sua passion predominante è la scrittura: cioè l’attività che nella Provenza medievale si collegava direttamente alla fin’amors e infine si sublimava in amore dell’Amore, in passione della Passione (anche in questo replicando lo schema trobadorico). Aramis ama lo studio, il perfezionamento interiore, si appassiona alla poesia che riflette e riproduce quell’esercizio spirituale, testualizzandolo: – […] Ho cominciato un poema in versi monosillabi: è molto difficile, ma in tutte le cose il merito sta nella difficoltà. L’argomento è galante: vi voglio leggere il primo canto, che è fatto di quattrocento versi e dura un minuto. – In fede mia, caro Aramis, – disse D’Artagnan, che detestava i versi quasi quanto il latino – aggiungete al merito della difficoltà anche quello della brevità, e sarete sicuro che il vostro poema avrà almeno due meriti103.
Come sarà mai venuta in mente, a quel diavolo di Dumas, quest’idea medievale e modernissima di un poema in versi monosillabici, fulmineo come un duello di moschettieri e leggero come il vento? 13. Il poema di Aramis e la biblioteca dei suoi dotti nipotini. Agucchiato dalla punta fonetica del monosillabo, trapuntato come un cielo di stelle, il poemetto di Aramis è un duello verbale, un gioco al fioretto degno dei grandi trovatori medievali inventori di linguaggio e di forme poetiche capaci di abbreviare il cosmo intero in un testo di folgorante respiro metrico-sillabico: Marcabru, Raimbaut d’Aurenga, Arnaut Daniel. Chissà se Dumas conosceva i trovatori così come sapeva almeno qualcosa (e di ciò vuole darci la prova ad apertura di libro) del Roman de la Rose. Quando decide di denunciare le sue fonti d’ispirazione è piuttosto alla mitologia classica e al racconto biblico che si richiama, nascondendosi dietro la maschera di D’Artagnan, sua persona teatrale: 103 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xxviii: Il ritorno, p. 352. La passione letteraria di Aramis sarà ribadita più tardi, nel cap. xxxi, Inglesi e Francesi, p. 378, durante un duello: a differenza di Athos che «tirava con altrettanta calma e metodo che se si fosse trovato in una sala d’armi», e di Porthos, che «faceva una scherma piena di finezza e di prudenza», «Aramis, che aveva da finire il terzo canto del suo poema, si disbrigava da uomo che ha fretta».
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Corrado Bologna Per quanti sforzi facesse, D’Artagnan non riuscì a saperne di più sul conto dei suoi nuovi amici: si decise dunque a credere nel presente tutto quello che si diceva sul loro passato, aspettandosi per l’avvenire rivelazioni più vaste e sicure. Nel frattempo, considerava Athos un Achille, Porthos un Aiace, Aramis un Giuseppe104.
Non ci si deve aspettare, tuttavia, che a quest’altezza cronologica, e presso un lettore non-professionista come Dumas, la poesia volgare delle Origini sia nota in dettaglio. Di certo gli sfuggiva l’erudizione specialistica che andava elaborandosi tra Germania e Francia, e in parte anche in Italia: ad essa però attingevano i divulgatori (anche di gran classe) della cultura letteraria dei primi secoli romanzi. Di un discreto successo avevano goduto, già prima della Rivoluzione francese, l’Histoire littéraire des Troubadours realizzata in collaborazione da La Curne de Sainte-Palaye e dell’abate Millot (Paris 1774) e l’Histoire générale de Provence del Papon (Paris 1777), che aveva perfino stampato qualche testo occitanico. In età napoleonica Antoine Fabre d’Olivet, con le Poésies occitaniques du xiii e siècle (Paris 1803-804), aveva avviato una decisa romanticizzazione della civiltà trobadorica, selezionando poesie abbastanza incongrue e peregrine (pastorelle, fabliaux, raccontini in versi mescolati a composizioni d’origine greco-latina), in un pot pourri notevolmente kitsch di cui dànno un saggio palpabile i titoli parlanti e sonanti delle sezioni: Les Amours de Rose et de Poce de Meyrueis; La dispute au Bocage; La Cour d’Amour; Épîtres amoureuses; Les sainons; L’égratignure d’Amour; La bergère poursuivie; La petite sorcière; Le lever d’Anna. Con il tedesco Friedrich Diez quella poesia oscura e fascinosa incominciava ad essere recuperata dai manoscritti, raccolta, antologizzata, talvolta anche tradotta. In questo campo molto lavoro rimane da compiere, soprattutto nel regesto e nella valutazione dei possibili canali di raccolta e di deflusso dell’informazione. Nel campo della romanistica nascente, ad esempio, nel 1831 aveva visto la stampa la seconda edizione riveduta e accresciuta della Storia ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria e dei poemi romanzeschi d’Italia di Giulio Ferrario: ma non sono sicuro che Dumas possa aver conosciuto un lavoro in italiano pubblicato a Firenze (e non distribuito in Francia)105 come X volume, e conclusivo, dedicato all’Europa, di una serie dall’aria erudita (Il costume antico e moderno, o Storia del governo, della milizia, della religione, delle arti, scienze ed usanze di tutti i popoli antichi 104
Ibid., trad. it. cap. vii, pp. 94-95. Alla fine del volume, edito a Firenze da Vincenzo Batelli, si trova una lunga lista che corrisponde a quella che definiremmo oggi «Tabula gratulatoria»: «Catalogo degli Signori associati alla presente opera intitolata Costume antico e moderno di tutti i popoli», nel quale, oltre alla Corsica, nessuna regione straniera è indicata per i suoi sottoscrittori. 105
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e moderni). Lo stesso varrà per altri grandi classici promotori della ricerca provenzalistica, in Italia e in Francia: Le osservazioni sulla poesia de’ trovatori di Giovanni Galvani (1829)106, lo stesso che nel 1845 avrebbe pubblicato presso Carlo Turati, a Milano, il Fiore di storia letteraria e cavalleresca della Occitania, aperta da un capitolo su Scaldi e Bardi, che sfondava l’orizzonte mitografico verso il Nord cavalleresco ispiratore del Sud lirico, dove collocava le Origini della poesia, evocando «questi Celti, padri ai nostri Occitani»107. Quanto alla poesia cortese della Francia del Sud, un libro destinato a divenire un classico, Die Poesie der Troubadours di Friedrich Diez, era stato pubblicato a Zwickau nel 1826; ma la traduzione in francese (La Poésie des Troubadours), realizzata dal barone Ferdinand de Roisin, era uscita a Parigi e a Lilla nel 1845, giusto un anno dopo l’apparizione dei Trois mousquetaires: troppo tardi, dunque, perché si possa ipotizzare una relazione diretta con Dumas. L’anno ancora successivo, il 1846, vede la pubblicazione in Germania dei primo volume dei Werke der Troubadours curati da Mahn (ma l’opera, in quattro volumi, si concluderà solo quarant’anni più tardi, in un clima culturale e filologico profondamente mutato)108. Entro il 1844 erano stati completati i due capolavori di FrançoisJust-Marie Raynouard (che una certa fama aveva già ottenuto, dopo il Caton d’Utique del 1794, con altre due tragedie medievaleggianti, Les Templiers, del 1805, e Les états de Blois, 1814), massicci repertori inaugurali della ricerca testuale su ampia scala nella direzione delle origini trobadoriche della poesia europea, che raggiungono un pubblico non ancora professionalmente “filologico”, ma anche “di larga cultura”. Si tratta dei sei volumi dello Choix de poésies originales des troubadours (18161821)109 e degli altri sei del Lexique roman ou Dictionnaire de la langue des troubadours (1838-44), ove accanto a un primo regesto lessicografico della lingua occitanica era proposta un’ulteriore antologia di testi estratti da manoscritti antichi. Il provenzale, del quale si individuava la 106 Nel volume fra l’altro (pp. 145-47) era pubblicata e tradotta l’«alba» di Guiraut Riquier in versi trisillabici: «Ab plazen | pessamen | amoros»): ma cfr. anche la nota 110. 107 Cfr. g. galvani, Osservazioni sulla poesia de’ trovatori e sulle principali maniere e forme di essa confrontate brevemente colle antiche italiane, Modena 1829, pp. 145-47; id., Fiore di storia letteraria e cavalleresca della Occitania, Milano 1845, Notizie preliminari, Epoca I, Scaldi e Bardi, pp. 2966 (la frase citata è a p. 42). 108 Cfr. c. a. f. mahn (a cura di), Die Werke der Troubadours, in provenzalischer Sprache, mit einer Grammatik und einem Woerterbuche [sic], 4 voll., Berlin 1846-86 (ristampa anastatica Genève 1977). 109 Si noti che in f.-j.-m. raynouard (a cura di), Choix de poésies originales des troubadours, vol. III, Paris 1818, pp. 460-61, era stata pubblicata l’alba trisillabica di Guiraut Riquier, Ab plazen pessamen amoros, contenente serie di versi trisillabici interrotte da due settenari.
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primazia sulle altre lingue romanze, vi era pensato come la radice storica di esse: così il mito della fondazione trobadorica della letteratura moderna sbocciava insieme a quello della priorità genetica della lingua occitanica, dalla quale si sarebbero articolate le altre neolatine. Le riflessioni sugli «ossements fossiles» depositati dal linguaggio nella memoria profonda si riverbereranno lungo tutto il secolo, fino alla «paléontologie linguistique» di Adolphe Pictet (1859 e 1877), al quale farà eco, nella rilessione sulla genesi linguistica del pensiero poetico, Stéphane Mallarmé (Les mots anglais, 1877), con un’idea vitalistico-organicistica che si collega all’ideologia (in parte d’estrazione hegeliana) climatico-geografica del germe “orientale” (indo-europeo) della cultura e della sua diffusione attraverso la via “meridionale”:
Composizioni cucite in versi brevi o brevissimi, anche se non proprio monosillabiche, il Medioevo ne aveva vedute. Oltre alla già ricordata alba trisillabica di Guiraut Riquier, si pensi a certe liriche in tri/quadrisillabi dei Carmina Burana; oppure quelle composte in misura affine dal provenzale Marcabru (liriche come Tot a estru113, Estornell, cueill ta volada114, Ges l’estornels non s’oblida)115, o ancora alle due celebri stanze dialogiche, contenenti versi spezzati in tre, anche più semicolon di poche sillabe (una, due, tre…) di Ges no puesc en bon vers fallir di Peire Rogier116.
À toute la nature apparenté et se rapprochant ainsi de l’organisme dépositaire de la vie, le Mot présente, dans ses voyelles et ses dyphtongues, comme une chair; et, dans ses consonnes, comme une ossature délicate à disséquer110.
A questa tipologia costruttiva, e con ogni probabilità proprio a Peire Rogier, si ispirò l’ancora anonimo autore del solo romanzo occitanico, il meraviglioso Flamenca117, una sorta di Barbiere di Siviglia del xiixiii secolo, tramato di sospiri cortesi “da lontano” e di giochi degli inganni “da vicino”, e soprattutto di una straordinaria mise en abyme della letteratura trobadorica, in primo luogo del mitologema dell’amore malato e inguaribile, fondamentale nella ricezione moderna dell’occitanismo e nel suo sviluppo romantico. Per poter comunicare senza farsi scoprire da Archimbautz, il vecchio marito geloso di Flamenca, i due innamorati s’incontrano in chiesa, dove lui, Guilhem de Nevers, si presenta travestito da chierico e davanti a tutti, durante la messa, le sussurra il segno della pace chinandosi a baciare il sacro Salterio («Quan il lo sauteri baiset, | el li dis suavet: “Hai las!”»)118. Lei sulle prime non capisce o finge di non capire, giusto per
Né va dimenticato che nel 1846 apparve anche l’Histoire de la poésie provençale, cioè la serie delle lezioni che a partire dal 1831 Claude Fauriel aveva tenuto all’Università di Parigi, impostando fra i primi la questione dei rapporti fra cavalleria e poesia occitanica111: Fauriel, l’amico di Manzoni, con cui questi ebbe lunga consuetudine, fin dai lunghi periodi trascorsi con lui, nei primi anni del secolo, alla Maisonnette di Madame de Condorcet, a discutere di poesia italiana delle origini e di tecniche di versificazione antica, come l’ampio epistolario testimonia112. 110 («Imparentata con la natura intera e accostandosi dunque all’organismo depositario della vita, la Parola presenta, nelle vocali e nei dittonghi, una sorta di carne; e, nelle consonanti, quasi un’ossatura delicata da sezionare»). Traggo le citazioni da a. pictet, Les origines Indo-européennes, ou les Aryas primitifs. Essai de paléontologie linguistique (1859-63), Paris 18772, e da s. mallarmé, Petite philologie à l’usage des Classes et du Monde. Les mots anglais par Mr Mallarmé Professeur au Lycée Fontanes, Paris s.d. [ma 1877], dal bellissimo saggio di c. ossola, Il nome nascosto (1979), in id., Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna 1988, pp. 175-211 (in particolare pp. 181-86). 111 Cfr. c. fauriel, Histoire de la poésie provençale, 3 voll., Paris 1846, specialmente l’ultimo capitolo del vol. I (xv: De la chevalerie dans ses rapports avec la poésie provençale), pp. 478-547. 112 Cfr. i. botta (a cura di), Carteggio Alessandro Manzoni - Claude Fauriel, in Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, vol. XXVII, Milano 2000. Si vedano in particolare, fra le lettere prevalentemente dedicate a questioni di letteratura e di metrica, la n. 3 (Manzoni e Giulia Beccaria a Fauriel da Genova, il 19 marzo 1807, pp. 14-21; Manzoni propone a Fauriel l’invio di alcuni libri su Dante, Dante da Maiano, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Fazio degli Uberti: «Vous ne pouvéz [sic] pas croire quel plaisir je prends a [sic] vous voir cultiver cette divine poesie [sic] qui sera j’éspere [sic] un des noeuds (le plus petit pourtant) qui nous uniront pour toute la vie»: p. 16); la n. 5 (Manzoni e Giulia Beccaria a Fauriel da Torino, l’8 aprile 1807, pp. 25-32; Manzoni discute intorno alle versioni virgiliane di Annibal Caro e di Alfieri, criticando aspramente quest’ultimo); la n. 43 (Manzoni a Fauriel da Milano, nel febbraio 1811: Manzoni accenna ad uno «charmant projet dur Dante» di Fauriel, e gli offre un sostegno bibliografico sul tema).
14. «“Ai las!” – “Que plangz?” “Ja tem morir.”».
113 Cfr. j.-m.-l. dejeanne (a cura di), Poésies complètes du troubadour Marcabru, Toulouse 1909, n. XX, pp. 94-96. 114 Cfr. ibid., n. XXV, pp. 121-24. 115 Cfr. ibid., n. XXVI, pp. 126-29. 116 Cfr. c. appel, Das Leben und die Lieder des Trobadors Peire Rogier, Berlin 1882, n. VI, p. 52. Il testo si legge comodamente anche nell’antologia a cura di m. de riquer, Los trovadores. Historia literaria y textos, 3 voll., Barcelona 1975, I, pp. 269-71. 117 Cfr. anonimo, Flamenca, in r. lavaud e r. nelli (a cura di), Les troubadours. Jaufre, Flamenca, Barlaam e Josaphat, Paris 1960, vv. 3875 sgg., pp. 844 sgg. Mario Mancini da anni sta lavorando a una traduzione del testo, che ha per ora analizzato in alcuni finissimi saggi di dettaglio: cfr. da ultimo Nella biblioteca di Flamenca, in r. castano, s. guida e f. latella (a cura di), Scène, évolution, sort de la langue et de la littérature d’oc. Actes du Septième Congrès International de l’Association Internationale d’Études Occitanes (Reggio Calabria - Messina, 7-13 juillet 2002), Roma 2003, tomo I, pp. 511-19 (anche per i dati bibliografici relativi agli altri studi). 118 anonimo, Flamenca cit., vv. 3948-49, p. 848: «Quando ella baciò il Salterio, | lui le sussurrò piano: “Ahimé!”» (per facilitare la comprensione del gioco sottolineo con il corsivo, anche dove l’edizione non lo ha, la battuta di Flamenca che riprende e adatta, di volta in volta, un bisillabo di Peire Rogier).
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consentire all’autore di filare con abile telaio il va-e-vieni della mente nel segreto della camera, a consultare i sacri testi, soprattutto romanzi d’amore: e per tutti il Fleur et Blanchefleur, che Flamenca ricorda (elegantissimo gioco di specchi del romanzo nel romanzo!) contenere una vicenda simile alla sua. Ma poi via via, di settimana in settimana, di domenica in domenica, al ripetersi di quel lambiccatissimo gioco amoroso, sublime rituale seduttivo camuffato in panni liturgici, coglie e interpreta, quasi in presa diretta, lo smembramento monosillabico della celebre lirica composta tempo prima dal trovatore, e certo molto famosa presso un largo pubblico cortese («“Ai las!” – “Que plangz?” “Ja tem morir.” | “Que as?” “Am.” | “E trop?” “Ieu hoc, tan | que˙n muer.” “Mors?” “Oc.” “Non potz guerir?” | “Ieu no.” “E cum?” “Tan suy iratz.”», eccetera eccetera)119. In questo modo, aiutata dalle servette Alis e Margarida, Flamenca ricompone per conto suo il testo che non c’è più (la poesia di Peire Rogier, appunto, affidata alla memoria poetica) e che, nel contempo, non c’è ancora (giacché i due innamorati, almeno dal punto di vista del lettore, lo stanno creando!). Scandendolo, sillaba dopo sillaba, ogni domenica, mescolando sacro e profano e intertestualità e parodia in una straordinaria tessitura sentimentale-vocale, impara a dialogare con il suo bel Guilhem-canonico («e quant volc la carta laissar | tot planamenz e senes gap | a dig: “Que plains?” pois dressa-l cap | et esgaret ben la semblansa | de son amic e la mudansa | de sa color […]»)120. Lui a casa si arrovella, affina le idee, studia la lezione: e la domenica successiva azzecca la risposta, mandata a memoria in estenuanti prove solitarie («Vas si dons venc prumeirament | que non s’estreis tan de la benda | con sol, per so que mielz l’entenda; | quant il pren pas, el dis: “Mor mi,” | et aitan tost part si d’aqui: | non es parer motz n’i agues»)121. E via così, per tutto un calendario. Immaginiamo la corte che assiste estasiata al duello monosillabico con colpi ben assestati a distanza settimanale, e ne gode l’eleganza e l’al119 peire rogier, Ges non puesc en bon vers fallir, in m. de riquer, Los trovadores cit., vv. 4144, vol. I, p. 271 (per praticità introduco le virgolette alte per distinguere le battute dei due virtuali interlocutori): «“Ahimé!” – “Di che ti lamenti?” “Temo di morire.” | “Che hai?” “Amo.” “Tanto?” “Sì, tanto | che ne muoio.” “Muori?” - “Sì.” “Non puoi guarire?” | “No.” “E perché?” “Perché sono così triste!”». 120 anonimo, Flamenca cit., vv. 4342-47, p. 868 («E quando volle lasciare il foglio | disse chiaramente e senza ironia: | “Que plains?” [“Di che ti lamenti?”], poi rialzò la testa | e guardò dritto in viso | il suo amico, e il suo cambiamento | di colore […]»). 121 Ibid., vv. 4500-5, p. 876 («Se ne andò subito verso la Sua Signora | che non aveva stretto sul capo il fazzoletto | come faceva di solito, per poter meglio sentirlo. | Quando lei ricevette il segno della pace, | lui le disse: “Mor mi” [“Muoio”] | quindi si allontanò in gran fretta | e nessuno si accorse che aveva detto qualcosa»).
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lusività, quasi si trattasse di un agone decisivo nella palestra dello spirito e nel contempo (per i personaggi dapprima, e poi per gli stessi lettori) di una fanciullesca mosca cieca cortese, di un gioco a nascondersi e a scoprirsi fra i testi e i costumi della tradizione trobadorica. Nell’imbastitura verbale ordita con la finezza di un grande regista sul palcoscenico cortese, i due innamorati contrastati dal vecchio geloso si pensano e si parlano da lontano, de lonh, in uno scambio tutto di testa, che è quello ideato dal geniale Jaufré Rudel in forma di suprema, manieristica sublimazione dell’erotismo e di ascensione del pensiero: è la fin’amors cortese, leggera come il volo della mente, estremistica come un esercizio spirituale, pervasiva tanto da divenire un finissimo, complesso, anche contraddittorio codice di comportamento. È proprio questo il codice che rimarrà per secoli nella société d’ancien régime europea, a scandire i ruoli, le parti, il senso della corte, di una sua etica individuale (l’etica dell’interiorizzazione poco fa evocata) capace di fondare anche un’estetica collettiva (l’estetica del puro vivere). 15. Un mondo fluttuante. Il jeu cortese, nella sua polivalenza etico-estetica, nel suo dimensionarsi sul doppio versante «interiorità»/«esteriorità» si bilancia, in stramba combinazione, fra esercizio spirituale e ginnastica sociale. Il lettore comprende il gioco letterario cortese, legge quella lirica in palinsesto, nella propria memoria, e via via sgrana il rosario sillabico e ride, sentendosi partecipe, capace di condividere una così elegante enigmistica simbolica. L’impresa portata a termine da Flamenca e Guilhem, e con loro dai lettori di corte, è epocale: in realtà si tratta d’uno scambio di battute di sicura riconoscibilità per un pubblico abituato a mandare a memoria le liriche ascoltate dalla viva voce del trovatore o del giullare, e poi forse anche rilette nei rotuli manoscritti. Ciò che più conta è che, per somma ironia, a capire il gioco seduttivo e a riconoscere il testo cifrato nello smembramento domenicale sono le femmes de compagnie di Flamenca (ma ci si vorrebbe spingere a dire che lo spiritoso autore le pensa proprio come le sue femmes de ménage!), più sapienti della Signora nella recitazione mentale e nella memorizzazione dei testi lirici: all’incirca come, in un differente sistema feudale, le cortigiane del Giappone premoderno, le celebri etere di Yoshiwara, di Gion, di Shimabara, erano in grado di improvvisare versi eleganti in risposta ad altri lanciati loro per sfida, esaltando l’Ukiyoe, il mondo fluttuante in cui vivevano e che creavano come un’opera d’ar-
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te122, è moda e modo: di essere, di vivere, di pensare, di parlare, di lasciare segni sull’acqua dell’esistenza che scorre, inarrestabile. In Flamenca, nei suoi monosillabi che Aramis avrebbe amato e imitato se avesse potuto conoscerli, credo si possa riconoscere (pur nella lontanissima realtà sociale e culturale che separa Provenza del xii secolo e Giappone del xviii) quello stesso fluttuare intenso e leggero, quella stessa ironia di gioco e di complicità fra dama e cameriera, e fra entrambe le donne e il trovatore. I veri soggetti collettivi di questa storia sono il gioco di società che maschera dietro all’ironia dello stile e della forma l’abisso che va aprendosi nella civiltà europea; la rapida metamorfosi di quell’etica dell’individuo nobile e quindi superiore che, estetizzandosi sempre più, dalla civiltà di corte si diffonde tra la ricca borghesia vogliosa di essere riconosciuta, rispetto alle altre classi in crisi, superiore e quindi degna di nobilitazione; la raffinatezza femminile che contagia e seduce il cavaliere ingentilendolo, strappandogli definitivamente di dosso i panni irsuti dell’antico berserkr e sostituendoli con i più lindi e ricercati abiti di parata, facendone un dandy, un cortigiano très chic. I cavalieri-gentiluomini così chic, così dandy, attraversano i secoli cambiando e assottigliando il gusto, scoprendo e conquistando sconosciuti, insperati territori dello spirito. Alla fine del secolo romantico, sulla soglia della catastrofe definitiva della residua società d’ancien régime museificata ormai nell’Austria felix, ultima ombra del Sacro romano impero, i nobili Lord Brummel, Lord Acton, e i borghesi Des Esseintes, Dorian Gray, Andrea Sperelli, senza più alcuna apparente distinzione di classe compiono le medesime scelte, tutte eccentriche e quindi «di buon gusto». Adorano «alla stessa stregua, come strumenti di sensazioni d’epicureo, opere d’arte, pietre preziose, profumi, fiori, vivande», e si entusiasmano «pei fiori mostruosi e le piante tropicali, per le forme convulse, insomma per la bellezza medusea nelle sue forme più paradossali»123. Collezionano libri per la loro rarità e non per il loro contenuto (la condizione è che siano squisiti fino allo spasimo, decadenti, artificiali). Ne accarezzano le legature scelte in sintonia cromatica con i tendaggi in velluto della biblioteca. La passion predominante di questi dongiovanni sdolcinati e spasmodici è la Bassa Latinità, vergine sterile
e gelida, amata come un fiore dal profumo inebriante di morte e decomposizione, «per il suo gusto deliquescente»124. L’antico entusiasmo dei primi romantici per la cavalleria eroica, per i sussurri erotici dei romanzi cortesi, per il repertorio manieristico dell’erotismo mentale dei trovatori, si stempera ormai nel piacere della decadenza. Il cavaliere-trovatore sfuma nello snob, il falso-aristocratico sine nobilitate.
122 Cfr. g. c. calza (a cura di), Ukiyoe. Il mondo fluttuante, catalogo della mostra (Milano, 7 febbraio - 30 maggio 2004), Milano 2004. Per una messa a punto storica, soprattutto relativa al periodo precedente, si veda anche a. hasé (a cura di), Emakimono. Sei storie giapponesi su rotoli dipinti, dell’xi e xiv secolo, Milano 1959, in particolare pp. 60 sgg. 123 m. praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), Firenze 1966, pp. 286-87.
124 Ibid., p. 287. Su questa contaminazione fra gusto decadente e scelte bibliografiche mi permetto di rinviare a c. bologna, La memoria del Medioevo latino nelle letterature moderne, in g. cavallo, c. leonardi ed e. menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo, vol. I: Il Medioevo latino, tomo IV: L’attualizzazione del testo, Roma 1997, pp. 301-76 (per Huysmans in particolare pp. 364 sgg.; ma sul «Medievismo decadente», e in particolare sulla «vitalità creativa del Medioevo decadente» cfr. più ampiamente le pp. 352 sgg.).
16. «Hélas, que nous sommes loin des allemands!» Filologi, poeti e romanzieri sui confini del Reno. Peccato davvero che non si possa ipotizzare una conoscenza di Flamenca da parte di Dumas e del suo eroe Aramis, il cavaliere-trovatore: il romanzo occitanico venne scoperto, infatti, nell’unico testimone manoscritto conservato a Carcassonne, e pubblicato criticamente dal grande filologo romanzo Paul Meyer solo ventuno anni dopo l’uscita dei Tre moschettieri, nel 1865. Flamenca, insieme ad altre splendide perle neolatine ripescate dai pescatori-filologi nell’oceano dei manoscritti delle biblioteche, fu letta e amata dagli intellettuali, dagli artisti, dagli scrittori della seconda metà del secolo. Grazie allo sviluppo e al raffinamento delle conoscenze scientifiche nel settore delle letterature del Medioevo volgare, con la fondazione e l’articolazione epistemologica della Filologia romanza, l’ultimo Ottocento e il primo Novecento videro intrecciarsi interessi storiografici, linguistici, testuali a curiosità e passioni puramente letterarie per le Origini. L’anno stesso in cui uscì l’edizione di Flamenca, Gaston Paris pubblicò la Histoire poétique de Charlemagne, una delle pietre miliari delle ricerche sull’epica francese antica: e Roland e Olivier e gli altri innumerevoli paladini, miriade di nomi-fantasma protagonisti dell’immensa epopea plasmata per cantare il destino dell’Europa invasa dai Mori e il suo riscatto, presero a dilagare nell’immaginario dei lettori comuni, spesso fondendosi con le ombre dei cavalieri dei romanzi cortesi. Accanto alle tenerezze e alle smancerie da cicisbeo che il tardo romanticismo riplasmò sulla courtoisie appena recuperata sui documenti originali, un al-
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tro Medioevo, epico, eroico, sanguinario, antimoresco, prese presto vigore, e riempì le biblioteche borghesi. Quegli eroi, mai dimenticati perché cantati e ricantati popolarmente e tramandati dai grandi libri del Quattrocento e del Cinquecento italiano (ovviamente l’Orlando Innamorato e il Furioso, ma anche il Morgante del Pulci e il Cieco da Ferrara e Teofilo Folengo con l’osceno Orlandino), apparivano per tanti versi così affini ai cavalieri-moschettieri ormai in gran voga: quegli eroi sbucarono feroci e madornali dalle chansons de geste infine edite e studiate con cura scientifica, e si materializzarono, con la loro forza di riplasmazione mitografica, proprio nell’età che sanciva e vedeva rafforzarsi le conquiste coloniali, in Africa e in Asia, delle principali nazioni europee, Francia, Inghilterra, Germania in testa, ma con spinte espansionistiche ben presto fiammeggianti anche nella giovanissima Italia125. Il 29 settembre 1864, pochi mesi prima che Gaston Paris pubblichi la sua Histoire poétique, Paul Meyer spedisce al suo amico Frédéric Mistral (il poeta felibrista, autore di Mireio, 1859, che sancì il rilancio di un’autonoma lingua e letteratura occitaniche moderne come continuatrici dell’antica tradizione occitanica) le bozze dell’articolo dello stesso Paris su La Philologie romane en Allemagne. Nella lettera d’accompagnamento tira le somme di un bilancio abbastanza magro e sconfortante, delineando con rammarico, la situazione di scarto culturale che fa della Germania non-neolatina il centro da cui parte l’impulso scientifico agli studi neolatini: Hélas, que nous sommes loin des allemands, et combien il est pitoyable que nous n’ayons pas une seule chaire consacrée à l’explication des troubadours et des trouvères, tandis qu’il y en avait déjà l’an dernier huit de l’autre côté du Rhin, huit ou` on expliquait concurremment les troubadours, Dante ou les romances du Cid126.
I filologi francesi (e italiani) guardavano con invidia al di là del Reno, da dove giungevano segni chiarissimi d’interesse non solo letterario 125 La ricerca più ricca, sottile e innovativa intorno alla formazione, alla maturazione e alla fortuna contemporanea del «Medioevo ottocentesco» in Italia è il libro di r. bordone, Lo specchio di Shalott. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Napoli 1993; la parte III (pp. 163210) supera i confini italiani, ed anzi europei: Castelli e cavalieri: un mito europeo nel riflesso dell’immaginario americano. 126 Traggo il testo della lettera dal bel libro di a. limentani, Alle origini della filologia romanza, Parma 1991, pp. 23-24. Limentani tratteggia un quadro fondamentale della rete di relazioni che unisce la nascita della ricerca scientifica, erudita, linguistica e letteraria della nuova disciplina filologico-romanza da una parte, e dall’altra l’impegno civile ed anche politico (l’«affaire Dreyus»), la riflessione epistemologica intorno alla crisi del positivismo, il fervore divulgativo, l’avanzare tentatore dell’estetismo preraffaellita, «liberty» e «décadent» («Ahinoi, quanto lontani siamo dai tedeschi, e che pena che non abbiamo neppure una cattedra dedicata all’interpretazione dei trovatori e dei trovieri, mentre già l’anno scorso ce n’erano ben otto dall’altra parte del Reno, otto dalle quali si spiegavano, volta a volta, i trovatori, Dante o i romances del Cid»).
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per la cultura del Sud della Francia e più in generale dell’Europa neolatina. I romanzieri, loro, erano arrivati a quanto pare prima ancora dei filologi a rinverdire il mito del Medioevo meridionale: e se non “prima” in Francia che in Germania, l’arrivo era stato almeno a pari merito. Quanto a Dumas, si può supporre, semmai, che abbia avuto accesso ad una fonte lirica celebre, almeno come il Roman de la Rose. Avrà conosciuto lo Choix e il Lexique roman di Raynouard? O qualcuno dei pionieri francesi, o anche «allemands», o perfino italiani della Filologia romanza nascente? Sarebbe magnifico poter asserire con solida documentazione (e possibile, purtroppo, non è) che, scrivendo, egli avesse nella memoria qualche caso puntuale di poesia mediolatina o volgare, quando inventava, con sublime ironia, quell’incredibile poema di Aramis «in versi monosillabi», il cui primo canto «è fatto di quattrocento versi e dura un minuto». 17. «De l’amour». Credo invece che si possa abbastanza agevolmente individuare in Stendhal il sicuro, grande risvegliatore, presso un largo pubblico di nonspecialisti, di un interesse proprio filologico, testuale, e non più genericamente ideologico, per la poesia trobadorica e per la fin’amors cortese, sintetizzata sul finire del xii secolo nel De amore di Andrea Cappellano (difficile decidere se «cappellano» o invece «ciambellano» del re di Francia). Nel 1822, dopo anni trascorsi a inseguire inutilmente la bella e altera Matilde Viscontini, ex moglie del generale polacco Carl Dombrowski, e dopo aver ricapitolato nell’Histoire de la peinture en Italie (1816) le ricerche artistiche svolte a Milano e a Roma, Stendhal pubblica il De l’amour, condensandovi la dottrina medievale, la diretta lettura di Andrea Cappellano, l’esperienza acquisita durante la propria educazione sentimentale. Un capitolo intero (il lii) del libro di Stendhal è dedicato a La Provence au xii e siècle. Stendhal si sofferma unicamente sulla versione romanzata della vita di Guilhelm de Cabestanh, prendendo a base i testi editi dal Raynouard nel V tomo del suo Choix: e proprio mentre costruisce il suo mito meridionalistico, critico, si arroga anche un’autorità filologica: «Il y a plusieurs fautes dans son texte; il a trop loué et trop peu connu les troubadours»127. Già nel capitolo precedente (li, De 127 stendhal, De l’amour, par de Stendhal. Édition revue et corrigée, et précédée d’une étude sur e les oeuvres de Stendhal par Sainte-Beuve, Paris [1906], cap. lii: La Provence au xii siècle, pp. 170176 (le parole fra virgolette sono nella nota 2 a p. 170). Potrà essere interessante confrontare il testo di Stendhal con quello del suo maestro, Destutt de Tracy, apparso due anni prima (1819) a Mi-
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l’amour en Provence jusqu’à la conquête de Toulouse en 1328, par les Barbares du Nord) era esplosa in tutta la sua forza la tematizzazione del Mezzogiorno come momento dello spirito e della cultura europea, opposto alla violenza distruttiva dei «Barbares du Nord, nos pères»128: Il faut considérer la Méditerranée comme le foyer de la civilisation européenne. Les bords heureux de cette belle mer si favorisée par le climat l’étaient encore par l’état prospère des habitants et par l’absence de toute religion ou législation triste. Le génie éminemment gai des Provençaux d’alors avait traversé la religion chrétienne sans en être altéré. […] Avez-vous vu à l’Opéra le final d’une bel opéra-comique de Rossini? Tout est gaieté, beauté, magnificence idéale sur la scène129.
È già in vista il Nietzsche che (proprio risalendo a Stendhal)130 esalta la gaia scienza della «musica mediterranea» di Bizet, la sua Carmen travolgente, gaia, solare, superficialissima: senhal moderno dell’«arte tracotante, ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata» che «ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi», al fine di «poter sovrastare anche la morale»131. Arte mediterranea, non in sé profonda o sublime, ma necessaria come medicina dello spirito, oltre che della musica, da opporre come antidoto al contagio della malattia-Wagner (mezzo secolo più tardi Denis de Rougemont, nel suo classico L’Amour et l’Occident, dopo aver ribattuto sull’idea tragica che «la passion “enthousiaste”, la joy d’amour des troubadours, devait fatalement aboutir à la passion humaine malheureuse»132, lano, presso Giambattista Sonzogno, nell’ultimo volume degli Elementi d’ideologia, e tradotto in francese solo un secolo più tardi: destutt de tracy, De l’amour. Publié pour la première fois en français avec une introduction sur Stendhal et Destutt de Tracy par G. Chinard, Paris 1926 (per i dati bibliografici cfr. p. v). 128 Ibid., cap. li: De l’amour en Provence jusqu’à la conquête de Toulouse en 1328, par les Barbares du Nord, p. 169. 129 Ibid., pp. 168-69 («Bisogna considerare il Mediterraneo come la sorgente della civiltà europea. I bordi felici di questo bel mare tanto favorito dal clima sono resi ancor più fecondi dallo stato di prosperità dei loro abitanti e dall’assenza di qualsiasi religione o legislazione triste. Il genio eminentemente lieto dei Provenzali del tempo aveva attraversato la religione cristiana senza venire da essa alterato. […] Avete visto all’Opera il finale di una bella opera comica di Rossini? Tutto è felicità, bellezza, magnificenza ideale sul palcoscenico»). 130 Cfr. l’innovativo, intenso saggio di m. mancini, La gaia scienza: da Stendhal a Nietzsche, in id., La gaia scienza dei trovatori, Parma 1984, pp. 77-136 (Milano-Trento 20002, pp. 86-149), che della costellazione mitografico-ideologica «mediterranea» ricostruisce la formazione e l’evolversi fra il Settecento e l’Ottocento, fornendo coordinate imprescindibili nel quadro del presente discorso. 131 f. nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, Chemnitz 1882, aforisma 107 [trad. it. La gaia scienza, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo II, Milano 1965, p. 116; La gaia scienza, in La gaia scienza e Idilli di Messina, Milano 1977, pp. 115-16 (a p. 116; i corsivi sono dell’autore)]. 132 Cfr. d. de rougemont, L’Amour et l’Occident (1939), Paris 1962, vol. III: Passion et mystique, § 8: Crépuscule de l’amour-passion, pp. 144-46 (a p. 145).
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aprirà uno dei capitoli principali, dedicato al «mito nella letteratura», discutendo il tema: «D’une influence précise de la littérature sur les mœurs», e ponendosi la domanda: «La musique adoucit les mœurs?»)133. Trent’anni giusti dopo l’uscita di De l’amour, venticinque dopo la prima edizione dei Promessi Sposi, otto dopo i Tre moschettieri, nel mese di novembre 1852, Giuseppe Verdi compose Il trovatore, su libretto di Salvatore Cammarano tratto da El Trovador di Antonio García Gutiérrez, andato in scena a Madrid nell’agosto del 1836. Il 19 gennaio 1853 un’accoglienza entusiastica accolse al teatro Apollo di Roma quel dramma dal fosco soggetto di ambientazione gitana, in area iberica («l’avvenimento ha luogo parte in Biscaglia, parte in Aragona»), collocato al «principio del secolo xv», quindi perfettamente in linea con la rilettura-reinterpretazione nel contempo sentimentale, leggendaria, goticheggiante, sanguigna e sanguinaria, lievemente morbosa, che del Medioevo meridionale fece l’età romantica. Manrico è un trovatore provenzale rivestito in panni cavallereschi, un eroe noir ma puro, estremistico, innamorato di assoluto. Alla fine della ii scena, quando sguaina la spada per battersi con il Conte, ingelosito («Gelosia le fiere | serpi gli avventa in petto!»: parte I, scena i), e quando si aggira nell’ombra della notte cantando il suo amore alle belle in balcone, in lui riconosciamo, perfettamente fusi, Perceval e Zorro, Pierrot e Don Giovanni, Jaufré Rudel e Aramis. Le dame, innamorate per tanta e tale intensità di mitologemi, gli rispondono medievaleggiando, romantiche: Tacea la notte placida, bella d’un ciel sereno, la luna il viso argenteo lieto mostrava e pieno… quando suonar per l’aere, infino allor sì muto, dolci s’udiro e flebili gli accordi d’un liuto e versi melanconici un trovator cantò134.
Così canta la dama di corte Leonora, di notte, affacciata a un balcone del palazzo dell’Aliaferia, a Saragozza. Ispira tanta svenevolezza da dagherrotipo medievaleggiante la voce di questo eroe fuorilegge (tanto 133 Ibid., vol. IV: Le mythe dans la littérature, § 1: D’une influence précise de la littérature sur les mœurs, pp. 147-49 (a p. 147). 134 s. cammarano, Il trovatore. Dramma in quattro parti, parte I, scena ii, in g. gronda e p. fabbri (a cura di), Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, Milano 1997, pp. 1362-404 (a p. 1369).
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simile ad Ernani, l’altro nobile-bandito verdiano) che canta serenate notturne nei giardini del Conte di Luna. Quella voce antichissima e ormai coincidente, nei terribili versi di Cammarano che solo la travolgente armonia verdiana rende accettabili, con la voce leziosa, sdilinquita, affettata dei nuovi romantici aleardiani, è destinata a spegnersi ingiustamente. Ma anche Leonora muore per amore, per gelosia, per fatalità, senza neppure conoscere l’identità del trovatore amato. E poiché il destino deve compiersi nel rispetto della tradizione figurale, come Isotta fu ingannata dalla pozione di Brangania, così Leonora si uccide con un veleno, rinnovando sulla scena l’ineluttabile sorte di Giulietta, anche lei eccitata e inebriata dall’Amore ineffabile per il quale si vive e si muore. È lo stesso che, come amor de lonh invano corteggiato e utopizzato dal verso poetico e che non si lascia invece ridurre in forma di parole, aveva cantato Jaufré Rudel: Di tale amor che dirsi mal può dalla parola, d’amor che intendo io sola il cor s’inebriò. Il mio destin compirsi non può che a lui dappresso… S’io non vivrò per esso, per esso io morirò. (Non debba mai pentirsi chi tanto un giorno amò!)135
Quell’amore ineffabile, che supera i confini della dicibilità umana, è impaziente ormai della lontananza di cui, per i trovatori estremisti della fin’amors, è fatto l’Amore136. La dialettica fra restare e partire, avere e non avere, possedere e rinunciare a possedere, godere e desiderare, vivere e morire, attraversa come una corrente che trascina e folgora tutta la cultura europea, fin dentro il cuore del romanticismo. 18. Il Bacio, la Partenza, la Lontananza. È ad esempio nella moda dei trovatori, declinata verso il repertorio convenzionale di un Medioevo profondamente romanticizzato e un poco dolciastro, da santino devoto, che viene accolto con strepitose acclamazioni Il Bacio di Francesco Hayez, presentato a Brera il 9 settembre 135
Ibid., p. 1370. 136 Cfr. l. spitzer, L’amour lointain de Jaufré Rudel et le sens de la poésie des troubadours (1944), in id., Romanische Literaturstudien (1936-1956), Tübingen 1959, pp. 363-417 [trad. it. parziale in m. mancini, Il punto su: I trovatori, Roma-Bari 1991, pp. 233-48].
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1859, sei anni dopo la prima del Trovatore verdiano, nella cornice di una rassegna di esplicito carattere politico-celebrativo, «dopo la conclusione della seconda guerra d’indipendenza, della tanto attesa liberazione dal dominio straniero e dell’unità d’Italia finalmente raggiunta»137. Altri baci, in realtà, avevano popolato già le tele di Hayez nel mezzo secolo che l’aveva visto maturare; e tutti erano ispirati a un classico del tema amore e morte. Agli esordi, fra il 1812 e il 1813, nel pieno fulgore dello stile napoleonico, l’artista si era rivelato a Roma dipingendo «lo straordinario e solare Rinaldo e Armida», nel quale si rappresentava «un bacio ancora in fieri, che sta per essere scoccato, con i due volti che si avvicinano attratti irresistibilmente»138. Dieci anni più tardi, nel 1823, con L’ultimo bacio dato a Giulietta da Romeo, che obbligato a fuggire sta per iscendere dalla finestra, dal titolo tipicamente narrativo, […] fece scandalo proprio per la sensualità e il realismo di una Giulietta che appariva, come notò un autorevole critico dell’epoca, il tedesco Ludwig Schorn, «troppo muscolosa» e caratterizzata da una passione «così intensa», per cui mentre la si immaginerebbe «come una vergine pudica», o ci si attenderebbe «una Grazia, una Psiche», ci si ritrova invece davanti a «una specie di Baccante», dato che «sul suo volto aleggia la voglia di una Frine»139.
Il severo recensore, sintetizzando l’orizzonte di attesa del pubblico di età romantica di fronte alla rappresentazione di un’idea di amore cortese astratto e desessualizzato, concludeva che «quel bacio non è il tenero amore di una pura anima incantata, è voluttuoso»; e proponeva, con involontaria, grottesca comicità: «Non contempleremmo la scena con maggiore interesse e commozione se egli baciasse l’amata sulla fronte?»140. Il bacio spirituale sulla fronte suggerito come antidoto alla sensualità eccessiva del bacio sulla bocca: l’allontanamento, la dislocazione sono recepiti dalla cultura neocortese di età romantica come negazione della sessualità, e privilegiati in una soluzione prossemica ipocrita, censoria. L’adulterio sospettabile sullo sfondo del modello trovatoresco è inaccettabile: ed ecco lo stesso Hayez, fra il 1827 e il 1829, incastonare due sposi che, le bocche ben lontane e gli sguardi che si incrociano, si dànno l’ultimo saluto prima della partenza per la guerra santa (anche qui, un titolo-fiume di carattere cronachistico-storiografico: Pietro l’eremita che cavalcando una bianca mula col Crocifisso in mano, e scorrendo le città e le borgate predica la Crociata); nel 1835, altri due sposi che si 137
f. mazzocca, Francesco Hayez. Il Bacio, Cinisello Balsamo 2003, p. 35. Ibid., pp. 14-15. 139 Ibid., pp. 15-18 (le pp. 16-17 sono occupate da due illustrazioni). Il quadro, in due varianti (sulle quattro complessivamente note), è riprodotto nelle illustrazioni delle pp. 23-26. 140 Ibid., p. 18. 138
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promettono fedeltà con un bacio (Papa Urbano II sulla piazza di Clermont predica la prima crociata). Le ormai prossime guerre sante della redenzione politica dei giovani stati europei avranno così la loro iconologia mitografica fondata sui buoni sentimenti. Sarà sempre all’ideale trasgressivo dell’adulterio cortese che attingerà molta iconografia di consumo, ma anche buona parte dei pittori pompiers, con fini studi in Accademia, come Michelangelo Grigoletti, autore, intorno al 1840, di un assai hayeziano Paolo e Francesca (oggi al Museo Civico di Pordenone) che fa compasso sulla bocca di lui mentre, con spiriti danteschi, si protende «tutto tremante» al bacio di quella ritrosa ma già cedevole di lei. Né sarà da trascurare un rapporto di perfetta specularità (Lucia a sinistra, in ginocchio, a braccia spalancate a chiedere pietà, l’Innominato a destra, in piedi, la mano da pensatore sulla guancia) con un altro dipinto dello stesso autore nello stesso museo, Lucia ai piedi dell’Innominato, che nel 1829 attesta una precocissima attenzione per I Promessi Sposi appena pubblicati (risulta anche che Manzoni abbia apprezzato l’interpretazione, definendo Grigoletti «degnissimo di riconoscenza»)141. Nello stesso periodo si intraprendeva lo studio dei testi trobadorici: e l’amor de lonh di Jaufré Rudel, soprattutto in quanto amors de terra lonhdana, incominciava ad essere interpretato romanticamente, romanzescamente, come il tragico allontanamento dall’Amata, seguito dalla morte del poeta in Terrasanta. La filologia romantica, banalizzando in cerca di un’avventura narrativa, biografizzava senza riserve, colmandolo di un sentimento protettivo e consolatorio, quello che in origine era stato solo un sublime esercizio mentale. 19. Settentrione lunatico, solare Mezzogiorno. Trascinate e contaminate dalla loro tradizione ci appaiono ormai invisibili, o addirittura inesistenti, la cavalleria e la cortesia medievali, la cultura stessa del Medioevo e, all’interno di questa oscillante, ambigua categoria di comoda periodizzazione storiografica, in particolare il Sud, il Mediterraneo, come modalità di uno sguardo critico sul mondo (per riprendere la felice formula di Ortega). 141 Cfr. g. ganzer (a cura di), Michelangelo Grigoletti, catalogo della mostra (Pordenone, 30 novembre 2002 - 26 gennaio 2003), Pordenone 2002, pp. 144-47 (le parole di Manzoni citate fra virgolette si leggono a p. 144). La scena del bacio di Paolo e Francesca, talora con l’oscura incombente presenza sullo sfondo del geloso Gianciotto pronto all’omicidio, con un’arma in mano, ispirò molti pittori di età romantica: cfr. j. l. díez, El mundo literario en la pintura del siglo xix del Museo del Prado, in El mundo literario cit., pp. 93-120 (alle pp. 96-97).
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La loro vicenda è una spirale, una linea sghemba e spezzata e sinuosa, come quelle disegnate da Laurence Sterne per descrivere simbolicamente e per sineddoche, come in un blasone, il tracciato della vita di Tristram Shandy142. Quel libro di Sterne, che Viktor Sˇklovskij definì «il romanzo-tipo della letteratura mondiale»143, fu un decisivo laboratorio di riflessione sui temi della digressione, del rapporto fra narratore e lettore, del tempo narrativo: imprescindibile, come ho già accennato, per la costruzione della trama e dell’intreccio delle voci e delle figure nel romanzo «storico» moderno, a partire da Manzoni. Non sarà un caso se il protagonista del libro di Sterne si chiama Tristram: già il nome rispecchia l’antico eroe celtico Tristano (Tristram, «il triste», «il generato nella malinconia»), immortalato e consegnato alla storia da oscuri, geniali scrittori francesi del xii secolo (Thomas, Béroul), divenuto presto emblema e blasone di uno statuto speciale del Poeta per i trovatori provenzali e per i trovieri in lingua d’oïl, per i siciliani e per gli stilnovisti, e per tanti altri scrittori europei tedeschi, slavi, tutti emozionati, affascinati da quel destino triste e sventurato, da quella vicenda d’amore e morte, di distacco e di ricordo nella distanza, di desiderio colpevole e di inganno del fato. Emblema della tradizione leggendaria settentrionale, mitizzato e sublimato in letteratura da quella meridionale, Tristano il Triste, Tristano il Trovatore dalla bella voce e dall’anima malinconica, lunare e lunatica, resisterà nei secoli, fino al dramma di Wagner. Ma Wagner, constaterà sulla soglia del nuovo secolo il più grande pensatore della fine del secolo romantico, è il décadent che la cultura della décadence europea resiste ad accettare nella sua pericolosa negatività. Wagner «è una malattia. Egli ammala tutto ciò che tocca – egli ha ammalato la musica»144. Come ricordavo a proposito della «cotta» di Stendhal per la gaieté provenzale (da lui associata, non a caso, all’opéracomique rossiniano), secondo Nietzsche per guarirla, quella musica ammalata di wagnerismo tristaniano e parsifaliano, cioè settentrionale, l’uni142 Cfr. c. ginzburg, La ricerca delle origini. Rileggendo «Tristram Shandy», in id., Nessuna isola è un’isola. Quattro saggi sulla letteratura inglese, Milano 2002, pp. 68-95 (e le figure 3.1 e 3.2, pp. 69-70, e 3.8, p. 88). 143 v. sklovskij, O teorii prozy, Moskva 1929 [trad. it. Una teoria della prosa: l’arte come artificio, Bari 1966, p. 178]. 144 f. nietzsche, Der Fall Wagner. Ein Musikanten-Problem, Leipzig 1888 [trad. it. Il caso Wagner. Un problema per amatori di musica, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, Milano 1970; Il caso Wagner, in Scritti su Wagner, Milano 1979, p. 174]. Nietzsche rinvia all’aforisma 255 di Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, Leipzig 1886 [trad. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Milano 1968; Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, Milano 1977].
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ca terapia è il Sud, il Mediterraneo: «Il faut méditerraniser la musique […]. Il ritorno alla natura, alla salute, alla serenità, alla giovinezza, alla virtù!». Nella riflessione nietzscheana l’opposizione di parallelismi musicali (ed emozionali) Nord-Sud è ancor più radicale, forse, di quella archetipica Apollo-Dioniso: Il Parsifal è una materia da operetta par excellence… […] Il Parsifal […] è un’opera di peridia, di bramosia vendicativa, di segreto avvelenamento dei presupposti della vita, un’opera scellerata. […] Io disprezzo chiunque non senta nel Parsifal un attentato alla eticità145.
Invece nel Sud dell’anima europea, nella musica mediterraneizzata, pulsa, fecondante, l’etica della liberazione, la leggerezza del volo solare, della lauzeta trobadorica, cantata da Bernart de Ventadorn («Can vei la lauzeta mover | de joi sas alas contral rai, | que s’oblid’ e˙s laissa chazer | per la doussor c’al cor li vai […]»), e che riemergerà, fertilissima immagine mitografica, nei Cantos pisani (LXXIV) di Ezra Pound («[…] and in a dance the renewal | with two larks in contrappunto | at sunset | ch’intenerisce | a sinistra la Torre | seen thru a pair of breeches. | Che sublia es laissa cader […]»)146: Si è mai notato che la musica rende libero lo spirito? E che si diventa tanto più filosofi quanto più si diventa musicisti? Il grigio cielo dell’astrazione come solcato da lampi; abbastanza vivida la luce per tutta la filigrana delle cose; i grandi problemi stanno per essere afferrati; il mondo è come scrutato dall’alto di un monte. – Ho definito appunto il pathos filosofico. – E a mia insaputa mi cadono addosso risposte, una piccola grandine di ghiaccio e di saggezza, di problemi risolti… Dove sono io? – Bizet mi rende fecondo. Ogni cosa buona mi rende fecondo. Io non ho alcun’altra gratitudine, non ho neppure alcun’altra prova per ciò che è buono147.
Mediterraneo, leggerezza, musica solare, significano per Nietzsche (come più tardi per Pound) anche liberazione dello spirito. In questa co145 id., Nietzsche contra Wagner. Aktenstücke eines Psychologen, Leipzig 1889 [trad. it. Nietzsche contra Wagner. Documenti processuali di uno psicologo, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, Milano 1970; Nietzsche contra Wagner, in Scritti su Wagner, Milano 1979, p. 227-28]. 146 Cfr. c. appel (a cura di), Bernart von Ventadorn. Seine Lieder, mit Einleitung und Glossar, Halle 1915, n. 43, vv. 1-4, p. 250; e. pound, The Pisan Cantos, New York N.Y. 1948 [trad. it. I Canti pisani, Parma 1967, LXXIV, p. 14]. Su questa riemergenza del mitologema mi permetto di rinviare a c. bologna, La «lauzeta» di Pound, nella Miscellanea per F. Brugnolo, a cura di G. Peron, in corso di stampa. Per la presenza trobadorica alle radici della mitografia tragica e dell’«epopea» poundiana cfr. soprattutto: m. bacigalupo, L’ultimo Pound, Roma 1981, in particolare pp. 326 sgg., 365 sgg., 559 sgg.; m. mancini, Il giovane Pound e lo spirito della Provenza, in g. lalomia (a cura di), Studi in onore di Bruno Panvini, in «Siculorum Gymnasium», n.s., LIII (2000), pp. 261272; id., Filologia e dilettantismo, in p. boitani, m. mancini e a. varvaro (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo cit., pp. 475-506. 147 f. nietzsche, Der Fall Wagner cit., trad. it. in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche cit.; trad. it. in Scritti su Wagner cit., p. 166 (i corsivi sono dell’autore).
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stellazione spirituale prende forma il mito moderno di Carmen: che è, allo stesso tempo, solare, sanguinoso, mortifero, rinnovatore. Mérimée, Bizet, Carmen, per Nietzsche sono Sole, Sangue, Terra, Vita, ma anche Spirito, Aurora148 che dalla décadence esce mediante la «guarigione» che è la passione della conoscenza149. Sono Mezzogiorno, Meridione: quindi una latitudine del gusto, un Meridiano della cultura d’Europa, appunto il più spirituale150: Ancora oggi è la Francia la sede della più spirituale e più raffinata cultura europea, nonché l’alta scuola del gusto: ma si deve saper trovare questa «Francia del gusto». […] In questa Francia dello spirito, che è la Francia del pessimismo, certamente Schopenhauer si trova oggi a casa sua più di quanto lo sia mai stato in Germania […]. Per non parlare di Heinrich Heine – l’adorable Heine si dice a Parigi –, che da un pezzo si è convertito in carne e sangue dei lirici francesi più profondi e dotati di maggior sentimento. Che saprebbe farsene delle délicatesses di una simile natura il cornuto bestiame tedesco151?
Metafora ossessiva e mito soteriologico, il Mediterraneo, Carmen, il Sole (lo «splendore solare» della Gaia scienza, che riprende la figura occitanica della lauzeta ebbra di luce)152 sono la luminosità e la liberazione, lo sbocciare, lo slanciarsi dell’Arte: ma anche la fragilità del destino, la superficialità estetica, il progetto di un’estetica dell’esistenza riconosciuta allegoricamente da Nietzsche nell’«unità di cantore, cavaliere e spirito libero, che differenzia quella meravigliosa e precoce civiltà dei Provenzali da tutte le civiltà equivoche»153. 148 Non a caso, credo, alla fenomenologia spirituale dell’Aurora come segno dell’illimitato che nasce, nell’ardore luminoso, dalla nebbia, dall’ombra e dai chiaroscuri dell’anima, ha dedicato uno dei suoi libri più belli la geniale allieva di José Ortega y Gasset: m. zambrano, De la aurora, Madrid 1986. 149 Cfr. f. nietzsche, Morgenröthe. Gedanken über die moralischen Vorurtheile, Leipzig 1886 [trad. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo I, Milano 1964; Aurora, Milano 1978]. 150 Cfr. p. celan, Der Meridian, Frankfurt am Main 1961 [trad. it. Il meridiano, in id., La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, Torino 1993]. Il testo originale di Der Meridian (1960) si legge anche nel vol. III di id., Gesammelte Werke, Frankfurt am Main 1983. 151 f. nietzsche, Nietzsche contra Wagner cit., trad. it. in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche cit.; in Scritti su Wagner cit., pp. 223-24 (i corsivi sono dell’autore). 152 id., Die fröhliche Wissenschaft, cit., aforisma 289, trad. it. in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche cit., p. 166; trad. it. in La gaia scienza e Idilli di Messina cit., p. 166. Ha pagine lucidissime sulla contraddittoria opposizione nietzschiana fra non-verità, leggerezza e «politeismo delle apparenze», e sulle correlate metafore del volo, dell’innalzamento verso il sole, del rischio rappresentato dall’abisso, m. mancini, La gaia scienza cit., pp. 122 sgg. (MilanoTrento 20002, pp. 131 sgg.). 153 f. nietzsche, Ecce homo. Wie man wird, was man ist, Leipzig 1909 [trad. it. Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, Milano 1970; Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano 1969, p. 99]. Una fine analisi del passo in m. mancini, Da Stendhal a Nietzsche cit., p. 123 (Milano-Trento 20002, p. 131).
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20. Il cavaliere invisibile. Italo Calvino, inventando la figura mirabile del cavaliere inesistente, con toni da mitografo ironico che possono riportare alla mente, al lettore moderno, l’avvio cosmogonico di Cent’anni di solitudine di García Márquez, descrive con esattezza in forma d’allegoria (e per traslato proietta sul tempo che è nostro) l’universo acronico della cavalleria e della cortesia viste dall’oggi del postmoderno, la loro radicale utopicità: Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell’Evo in cui questa storia si svolge. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui non corrispondeva nulla d’esistente. E d’altra parte il mondo pullulava di oggetti e facoltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto. Era un’epoca in cui la volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tutto ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nulla – per miseria o ignoranza o perché invece tutto riusciva loro bene lo stesso. Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo, come l’impercettibile pulviscolo acquoreo si condensa in fiocchi di nuvole, e questo groppo, per caso o per istinto, s’imbattesse in un nome e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti, in un grado dell’organico militare, in un insieme di mansioni da svolgere e di regole stabilite; e – soprattutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano, anche un uomo che c’è rischiava di scomparire, figuriamoci uno che non c’è… Così aveva cominciato a operare Agilulfo dei Guildiverni e a procacciarsi gloria154.
Sotto l’armatura, niente. Nessuno. Il Vuoto. L’Assenza. L’Oblio. Come nel caso della superba armatura istoriata che Erik XIV re di Svezia commissionò all’orefice di Anversa Eliseus Libaerts, e che questi incise fra il 1562 e il 1564, coprendo la corazza del cavaliere con tredici medaglioni raffiguranti le storie di Ercole, e la barda del cavallo con otto medaglioni che narrano soprattutto le storie di Troia: nessun re, nessun cavaliere e nessun cavallo la indossarono mai, in un’epoca ormai dominata dalle armi da fuoco e in cui la metamorfosi del Cavaliere in Gentiluomo imponeva un’etica nuova (quella «secondo convenienza»), e quindi un comportamento e un abbigliamento inediti155. La seconda pelle tatuata con le vicende degli eroi antichi e medievali eponimi della cavalleria e del coraggio resta la pelle di un serpente che ha compiuto la muta: coperta di un programma iconografico che è insieme enciclopedico e allusivo, simbolico e fascinatore; ma vuota, abbandonata. 154 i. calvino, Il cavaliere inesistente, Milano 2002, p. 31 (è l’«incipit» del cap. iv); cfr. l’ed. nei «Meridiani» Mondadori, Romanzi e racconti, I, Milano 1990. 155 a. quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, Roma 2003, p. 104 (e in generale cfr. le pp. 100-16: Seconda natura e classicismo: le metamorfosi del gentiluomo).
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Come abbandonato è ormai, solo, dimenticato e inerte, privo di senso, il Cavaliere. Svuotati del loro ruolo iniziatico e affiliativo, privati della sfida assoluta, lo sport puro, agonismo epico ed etico, fondato sulla morale del rispetto dell’avversario, del riconoscimento del suo valore e del dono della vita che il vincitore, risparmiandolo, dà al vinto, sono divenuti figure allegoriche del nulla. La virtù che vi si prova è quella di un cavaliere inesistente, svanito. Probabilmente quando si evoca ancora dalla memoria mitica la funzione-cavaliere, la funzione-trovatore, si attiva oggi un «processo di poderosa allegorizzazione della tradizione simbolica»156: ma si tratta, appunto, di una figura del vuoto, dal momento che quella tradizione simbolica è totalmente alienata, e resiste solo come fuga dal moderno come fuga dal mondo, nella civiltà postmoderna che riflette sulla crisi del Moderno. Pur accettando (secondo l’analisi acuta di Hanna Arendt) che la «“liquidazione dei valori”» non coincida con «la fine della grande tradizione occidentale», e che dunque sia possibile (anche se più difficile) «scoprire i grandi autori del passato senza l’aiuto di una tradizione», piuttosto che «recuperarli in mezzo al ciarpame del filisteismo colto»157, rimarrà, oltre la soglia del moralismo e del conservatorismo di un’idea fondativa di Tradizione, la percezione del progressivo processo di derealizzazione allucinatoria del Quotidiano, in cui le pratiche sociali di memoria comunitaria e di riplasmazione simbolica dei valori su un orizzonte collettivo, «di gruppo» (nel senso demartiniano)158, sono messe a repentaglio. I linguaggi (specialmente quelli visivi “in presa diretta”) attraverso cui si comunicano fenomeni collettivi che radicano una comune memoria, come la guerra, la battaglia politica, lo scontro sociale, la gara economica, sembrano scaduti al rango di operatori di alienazione e di mediatori di simulacri, specie in quanto aboliscono lo scarto spazio-temporale che consente la prospettiva ermeneutica. Con difficoltà riescono ancora (ad esempio nei serial televisivi, soprattutto le cosiddette telenovelas, che la denominazione castigliana dimostra, non a caso, percepite nella loro tonalità “meridionale”)159 ad offrire margini alla riplasmazio156
a. brandalise, Cavalleria visibile e cavalleria invisibile cit., p. 465. h. arendt, The Crisis in Culture. It Social and Political Significance, in id., Beetween Past and Future, New York N.Y. 1961 [trad. it. La crisi della cultura: nella società e nella politica, in id., Tra passato e futuro, Milano 1991, pp. 256-89 (a p. 264)]. Cita il passo, analizzandolo con lucida condivisione del punto di vista, m. mancini, Filologia e dilettantismo cit., pp. 497-98; alle pp. 496-97 una notevole riflessione intorno alle posizioni di Fredric Jameson intorno al postmoderno. 158 Cfr. e. de martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino 1977, in particolare pp. 50 sgg. 159 Una notevole analisi dell’universo seriale televisivo è offerto dal libro di p. colaiacomo, Tutto questo è Beautiful. Forme narrative della fine millennio, Roma 1999. 157
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ne simbolica che la cultura medievale e moderna poteva attuare attraverso gli strumenti del romanzesco o dell’epopea. L’estrema, tangibile traccia epico-romanzesca di quello che definirei senza dubbio il Medioevo meridionale sognato della borghesia europea fra Ottocento e Novecento va riconosciuta, forse, nei trapianti neomedievalistici dei grandi architetti e urbanisti fra neogotico160, bizantinismo161, Biedermeier, modernismo e liberty: Antoni Gaudí, con i suoi comignoli mosaicati di smaltata e rutilante brillantezza che svettano nel cielo di Barcellona disegnandovi l’eroico profilo di elmi cavallereschi; Gino Coppedè, che a Roma, nel quartiere che ancor oggi porta il suo nome, nei primi anni Venti del Novecento dispone i pezzi di una scacchiera fiabesca e perfino onirica, graficamente compaginata. Tra piazza Mincio e via Brenta i curiosi e un po’ kitsch Villini delle Fate (datati 1924) ripropongono ancor oggi, resi vieppiù incongrui dall’accatastarsi delle automobili parcheggiate, il «desiderio di esotismo temporale»162 proiettato nel feticcio elegante e bizzarro delle mura istoriate con scene di cavalleria e di cortesia per i buoni borghesi dell’età dannunziana. Così, nel buio notturno delle sale cinematografiche, Ombre rosse resisteva nel recupero di un Medioevo dal carattere eroico, con il Settimo cavalleggeri capace di rievocare l’immolarsi dei puri soldati-angeli della Chanson de Roland. Superata la soglia, Apocalypse now scava nel cuore di tenebra più segreto dell’uomo, dove la brama di potere si fa delirio di onnipotenza e il piacere per la violenza sostituisce l’eroismo altruista: non a caso gli elicotteri americani che galoppano sulla foresta del Vietnam, napalm in canna per sterminare il Nemico, sono accompagnati dalle trombe, dai tromboni e dai corni della Cavalcata delle Walchirie wagneriana, dalle sue onde armoniche ricorrenti che sono le onde del destino, l’infinito dilatarsi e sempre cambiare, fino allo spegnimento totale, della figura antica del Cavaliere cortese163. 160 Su questo momento importantissimo, specialmente tipico del Nord Europa, rimane imprescindibile k. clark, The Gothic Revival (1928), London 19623 [trad. it. Il revival gotico, Torino 1970]. 161 Assai documentato e ricco anche di testimonianze iconografiche il recentissimo, bel libro di m. bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D’Annunzio, fascismo e dopoguerra, Napoli 2003. Di speciale interesse, nel discorso qui svolto, il cap. x: Giotto: Bisanzio o Italia, pp. 175-88, che, seguendo il dibattito storico-artistico del primo Novecento intorno alla formazione artistica di Giotto, affronta il tema della contrapposizione dei «romanisti, che videro riemergere nel pittore la tradizione italiana dopo il buio del Medioevo, e dei filobizantini che videro in lui l’erede di una tradizione dominata da Bisanzio» (p. 175). 162 r. bordone, Lo specchio di Shalott cit., p. 52. 163 Cfr. m. sanfilippo, Historic Park. La storia e il cinema, Milano 2004. Lo stesso autore aveva pubblicato, una diecina di anni fa, un piccolo libro di grande interesse: m. sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney. Come l’America ha reinventato l’Età di Mezzo, Roma 1993, nel quale
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Non stupisce affatto che proprio nella cronaca giornalistica, residuo macerato e sminuzzato dell’epica cui riescono ad innalzarsi i nostri poveri, aspri, avarissimi tempi, l’ombra dei cavalieri antiqui e della loro gran bontà si stenda per un momento, come per un estremo rigurgito di miticità, e subito scompaia, fulminea, impalpabile, pressoché invisibile, soltanto nella descrizione dei confronti-scontri “sportivi”, ridotti a miserabili mercati di interessi economici camuffati da “gara” e a feroci pantomime eccitatrici di reali battaglie fisiche sugli spalti, privi di qualsiasi rispetto delle regole del gioco: cioè delle regole dell’antica cavalleria: Lo «sport puro», fatto di solo talento e valore, di epica agonistica e di etica cavalleresca, è un mito sepolto sotto tali e tanti strati di business, di doping e di ciance polemiche, che quasi non ne facciamo più conto: le rovine di Ilio erano più accessibili…164 si ritroveranno, ricomposte in ordinato regesto, le tracce del corteggiamento del Medioevo «fantasticato» dall’America e al suo sviluppo nella «fantasy» cinematografica e televisiva, delle «strip», dei «videogame». In questa immensa diffrazione tematico-simbolica, che affonda le sue radici soprattutto nel Medioevo «nordico» (ma con molte componenti estratte dalla tradizione di quello «meridionale» e rifuse sincretisticamente), l’autore individua il materializzarsi dell’ansia di futuro (e di passato) della civiltà americana: «Per gli americani […] il sogno del Medioevo non è tanto una fantasia, quanto la ricostruzione immaginaria della propria genealogia, la risistemazione a posteriori della propria storia. Conoscere, sia pure per sommi capi, il Medioevo passato diviene quindi il modo per sfuggire ai pericoli di quello futuro»: p. 208). Il recupero e la riplasmazione dell’orizzonte mitografico medievale riesce così a dar forma all’«attesa di un’Apocalisse neobarbarica ad alta tecnologia» (così la quarta pagina di copertina del libro). 164 m. serra, Rossi-Biaggi, la corsa perfetta. In Sudafrica Valentino al debutto con la Yamaha batte il rivale dopo una sfida all’ultimo sorpasso, in «La Repubblica», lunedì 19 aprile 2004, p. 1.