BATTISTA MONDIN
Storia della Metafisica Volume 3
EDIZIONI STUDIO DOMENICANO
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Finito di stampare nel
mese
di novembre 1998 presso le Grafiche Dehonianc
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Bologna
PROLOGO
L'epoca moderna è l'epoca delle grandi conquiste scientifiche, tecnologiche e geografiche che consentono all'uomo di diventare padrone della natura e, nel contempo, di affermare la propria autonomia nei confronti delle potenze soprannaturali: è l'epoca dell’antropocentrismo e
questa nuova situazione in cui la potenza dell'uomo sembra cancellare ed esautorare la potenza di Dio, egli si crea, logicamente, una nuova immagine del mondo e di se stesso. La sua ricerca ò prevalentemente scientifica; ma questa ricerca, quanto meno nella prima modernità, non rende superflua e non esclude l'indagine metafisica. Oltre allo studio dei fenomeni naturali che la scienza ora è in grado di effettuare con estrema precisione, grazie ai nuovi strumenti di cui dispone, resta ancora importante la ricerca delle cause ultime e del principio primo di tali fenomeni. Così, fino a quando perdura la fiducia della ragione nei propri poteri, essa non cessa di esibirsi anche nel campo della metafisica e costruisce nuovi imponenti sistemi metafisici seguendo i classici paradigmi di Platone e di Aristotele. Ma a un certo punto la ragione diviene critica dei suoi stessi poteri e tra le cose che mette in dubbio c'è proprio la sua capacità di portare a soluzione i grandi problemì della metafisica intorno al mondo, all'uomo e a Dio. Nella seconda modernità da una ragione troppo forte si passa a una ragione eccessivamente debole e rinunciataria, la quale considera del tutto impraticabilel'indagine metafisica. Così, nell'epoca moderna, la metafisica segue un percorso ben preciso che si snoda in tre fasi. La prima, caratterizzata dalla fiducia nella metafisica, e questa fiducia si esprime in due modi: nella rivisitazionedelle rnetafisiche tradizionalid-i Platone, Aristotele e S. Tommaso, e nella creazione dì nuove metafisiche (Cartesio, Malebranche, Spinoza, Leibniz). La seconda, caratterizzata dalla sfiducia nella metafisica, e questa sfiducia si esprime sia nelfagnosticismo (Hume e Kant), sia nellîdealismf)(Fichte, Schelling, Hegel). La terza, segnata dal rifiuto e dal superamento della metafisica, superamento che si compie con vari procedimenti: con l'ana— lisi linguistica (Camap, Wittgenstein), la fenomenologia (Husserl, Heidegdella secolarizzazione. In
6
P rologo
ger), la nuova ermeneutica (Gadamer, Ricoeur), la psicanalisi (Freud, Jung), che, però, non tratteremo in questo lavoro. Ma il superamento
della metafisica segna allo stesso tempo la fine della modernità e l'ingresso nella postmodernità. La parabola della metafisica moderna fornisce una ulteriore conferma di una importante Verità storica: le grandi creazioni metafisiche coincidono sempre
con
la fase aurea di
metafisica ‘e uno dei
una
civiltà. Mentre la scomparsa della
segni più eloquenti della miseria di una civiltà.
UUMANESIMO: PROLOGO DELLA CIVILTÀMODERNA
Tra l'epoca medievale e quella moderna si colloca un intermezzo a cui vengono dati i nomi di Umanesimo e Rinascimento. Questo intermezzo funge da prologo della civiltà moderna e della sua metafisica. Il passaggio da un'epoca a un'altra non è mai istantaneo. Le epoche sono periodi storici plurisecolari, e i trapassi culturali durano qualche
secolo.
Così se il secolo XIV ‘e il secolo del tramonto della civitas christiana e della metafisica cristiana, il secolo XVII segna l'inizio della modernità e la nascita della metafisica moderna, che non è più una metafisica cristiana ma una metafisica secolarizzata, perfettamente laica. In mezzo ci sono due secoli che non sono speculativamente Vuoti, ma che sono periodi di transizione. I secoli XV e XVI sono secoli in cui la cultura europea conosce una straordinaria vitalità e di esplosiva creatività. Grandiosi sono i risultati che essa fa registrare nei campi della pittura, della scultura, dell'architettura, della letteratura, della musica, della politica e della religione. Per questo motivo a questo periodo è stato dato il nome di Rinascimento: grazie alle nuove scoperte tutto viene sottoposto a una profonda trasformazione. Sono due secoli ricchi di grandi personalità e di grandissimi geni. Basti fare qualche nome: Donatello, Raffaello, Leonardo, Michelangelo per le arti figurative, Palestrina per la musica, Cervantes e Ariosto per la letteratura, Carlo V e Francesco I per la politica, Lutero e Ignazio di Loyola per la religione. Ma tutto sommato i secoli XV e XVI rispecchiano un'epoca speculativamente povera se viene paragonata con le epoche di Platone e Aristotele, di Plotino e Agostino, di Tommaso e Scoto. È un'epoca più importante per i commenti a Platone, Aristotele e Tommaso che per la creazione
di
nuove
sintesi metafisiche. Però,
ripeto, non è un'epoca metafisicamen-
vuota, benché rimanga un'epoca di transizione, la quale per un. Verso va oltre il medioevo, in quanto pone l'uomo al centro di ogni sua considerazione (da qui il nome di Umanesimo), mentre per un altro Verso continua a proporre i grandi sistemi metafisici di Platone, Aristotele e S. Tommaso. Pertanto gli indirizzi metafisici dominanti dei secoli XV e XVI sono tre: l'indirizzo platonico, che ha come centro principale te
Firenze; l'indirizzo aristotelico, che ha come centro principale Padova; e l'indirizzo tomistico che ha come centro principale Salamanca.
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Parte prima
Due sono i tratti salienti della cultura rinascimentale che incidono anche sulla speculazione metafisica: l'inquietudine spirituale e la laiciz— zazione della cultura.
C'è una storiografia laica dominante dal secolo dei lumi fino alla prima metà del Novecento che ha dipinto l’Umanesimo e il Rinascimento come un movimento spirituale di rifiuto del cristianesimo e di ritorno al paganesimo. Ma questo, come è stato ampiamente dimostrato, è un grosso abbaglio, poiché il ritorno alla classicità fu semplicemente un ritorno formale ai modelli linguistici e letterari dell'antichità; per tutto il resto gli umanisti e i rinascimentali prestavano ferma adesione alla fede e alle tradizioni cristiane. Certo la cultura umanistica si propone di realizzare un nuovo tipo di uomo, un nuovo modello di umanità: una umanità più piena, più integra, più autonoma, più matura, più libera, più sicura di se stessa e dei propri mezzi, più consapevole della propria grandezza e dignità; quella umanità bella, fiera, forte, decisa, stupendamente rappresentata dalle statue di Donatello e di Michelangelo. Senonché la grandezza e la dignità dell'uomo non sono vissute dagli umanisti
dai rinascimentali con pacifica serenità, bensì con profonda inquietudine. L'inquietudine spirituale e religiosa è in effetti un tratto caratteristico della cultura umanistica. «Nonché eliminato, l’assillo religioso continua a urgere, riappare anzi alla fine del Quattrocento, anche per Yincupirsi dell'anima italiana di fronte ai tragici casi della penisola, più forte; il bisogno di giustificare l'essere e il mondo, natura e creatura, volontà e fortuna, di afferrarsi a una legge morale che da nessun'altra fonte sembra poter sgorgare, riconduce l'uomo all'idea di Dio, di un Dio trascendente che è il Signore dell'umanità terrenaw Tutto questo conferma quanto abbiamo detto poco sopra: l’Umanesimo rimane ancora una cultura profondamente religiosa e sostanzialmente cristiana. Senonché il ribaltamento de1l'epicentro culturale da Dio all'uomo genera una nuova spiritualità segnata da tensioni e inquietudini ignote all'epoca precedente. Scrive N. Berdjiaev: e
—
-
l'immagine di un conflitto aspro e appassionato, enspirituale del cristianesimo, costituitosi durante tutto il medioevo, fra l'anima umana che aspirava a un altro mondo tra«Uumanesimo è
tro il contenuto
scendente e non poteva accontentarsi di questo mondo terreno, e le forme antiche che senza posa si rinnovano ed erano sempre animatrici. L'anima era in realtà dolorosamente tormentata dalla sete di redenzione, di iniziazioneal mistero di quella stessa redenzione che era rimasta sconosciuta ai popoli antichi. Era oppressa dalla coscienza del peccato, per il suo parteggiare fra due mondi, ed era incapace di
1)
F. CHABoD, "Il Rinascimento", in Problemi storici e arientamentz’ storiograficz‘, Como 1942, pp. 475-476.
Lllmancsimo: prologo della civiltà moderna
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soddisfare le forme di vita naturale e culturale dell'antichità. La Rinascita ha risentito nel profondo questo tormento della coscienza quale
esperienza medievale con i suoi dualismi tra Dio e il terra, spirito e carne; essa rappresenta il rapporto tra la coscienza cristiana trascendente che rompe tutte le barriere e lo spirito immanente nel naturalismo classico (...). Il Rinascimento pone in
retaggio
della
diavolo, cielo
e
l'impossibilità, che esisteva, di realizzare le istanze della perfezione e della serenità classica nell'epoca cristiana della storia, stabilisce tra la vita perché la separazione che la coscienza cristianaimmanente chiuso e il monmondo il e tra e eterna, temporale quella limiti della
evidenza
do infinito e trascendente, cultura storica terrena»?
non
può
essere
superata nei
Un'altra peculiarità della cultura umanistica è la sua parziale laicizzazione, che si realizza a tre livelli: nei luoghi, nelle persone e nelle discipline. Anzitutto nei luoghi. Mentre nel medioevo i centri di cultura erano stati un monopolio della Chiesa, ora, nell'epoca rinascimentale sorgono
molte università per volontà dei studio per iniziativa privata.
principi e
dei sovrani, e accademie di
Quattrocento le fondazioni universitarie si moltiplicano, assumendo un andamento sistematico. E forse un aspetto della generale ripresa dell'Occidente in questo periodo; vollero avere la loro univer«Nel
sità non solo i sovrani, ma anche i principi forniti di un appannaggio i comuni. In Francia nacquero con la guerra dei Cent'Anni le uni-
e
versità di Caen (1432) e di Bordeaux (1441), che gli inglesi fondarono nelle province che speravano di conservare, mentre Carlo Vll ne fondava una "armagnacca" a Poitiers, per bilanciarel'università di Parigi (...). Anche nell'Impero furono numerose le fondazioni su iniziativa di comuni e di principi: ricordiamo in particolare quelle dell'università di Lovanio (1425) che era stata richiesta dal duca di Brabante (...). Sono ancora di nascita quattrocentesca le università di Wiirzburg (1402), Lipsia (1409), Rostock (1419), Treviri (1454), Friburgo di Brisgovia (1455), Basilea (1419), lngolstadt (1459), Magonza (1476) e Tubinga (1476-7). Per opera dei sovrani si completò la rete delle università nei regni di Scozia (Glasgow, 145D; Aberdeen, 1494), e di Castiglia (Alcalà, 1499), di Aragona (Barcellona, 1450, Saragozza, 1474; Valenza, 1500 ...). Nell'ultimo venticinquennio del Quattrocento anche la Scandinavia si integro nell'Europa delle università con la fondazione degli studia di Uppsala (1477) e Copenaghen (1478)».3
La laicizzazione della cultura riguarda in secondo luogo le persone. La cultura non è più appannaggio esclusivo dei chierici e dei monaci come
nel medioevo, ma diviene sempre più spesso un bene anche dei laici.
2) N. BERDJIAEV’, Le sens de l'histoire, Paris 1948, pp. 116 ss. 3) ]. VERGER, Le università nel medioevo, Bologna 1991, pp. 147-148.
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Parte prima
D'altronde gli stessi obiettivi dell'università sono profondamente mutati. Le nuove università non hanno più come obiettivo principale la preparazione di teologi e canonisti per la Chiesa, bensì di amministratori, giuristi, educatori per lo Stato. Ma molti studenti frequentano l'università anche soltanto per una migliore formazione personale. C'è, infine, una laicizzazioneanche nell'ambito delle discipline. Oltre alle discipline che avevano una finalità preminentemente religiosa, come la filosofia, il diritto e la teologia, ora acquistano importanza sempre maggiore discipline laiche come la politica, la morale, la matematica, l'alchimia, l'astronomia. Questa laicizzazionedella cultura ebbe un peso considerevole anche sulla metafisica, che ora non viene più elaborata all'interno della teologia e in vista della teologia, ma in modo autonomo. Così la distinzione della metafisica dalla teologia non è più soltanto formale come in S. Tommaso ma anche materiale, e la distinzione si tra-
sforma in
completa separazione.
L'INDIRIZZO PLATONICO: NICOLÒ CUSANO, MARSILIO FICINO, GIORDANO BRUNO
Mentre la grande Scolastica aveva fatto registrare il ritorno di Aristotele in Occidente, e il trionfo della sua metafisica sulla metafisica platonica, che era stata profondamente trasformata, l’Umanesimo segna il ritorno di Platone e la sua rivincita nei confronti di Aristotele. Alla rivincita di Platone contribuirono due fattori. Anzitutto un fattore che possiamo chiamare interno: la maggiore sintonia della filosofia platonica, sia nella forma sia nei contenuti, con lo spirito degli umanisti, uomini religiosamente inquieti, amanti del dialogo e grandi estimatori della finezza dello stile letterario. In secondo luogo, un fattore esterno: gli assidui contatti che i latini riuscirono ad avere con i greci, prima in occasione del Concilio di Firenze (1439) e poi in conseguenza della caduta di Costantinopoli (1453) che costrinse molti esponenti della Cultura greca ad abbandonare la loro patria e a cercare rifugio in Italia. La figura di maggiore spicco di questi intellettuali greci che ebbero assidui e prolungati rapporti con i latini fu Basilio Bessarione (14021472). Nel Concilio di Firenze egli era stato uno dei principali artefici della ricomposizione dello scisma, e dopo la caduta di Costantinopoli aveva cercato di mettere in salvo tutto ciò che poteva della cultura ellenica acquistando e facendo copiare una grande quantità di codici greci, che nel 1468 donò alla repubblica veneta, fondando così la famosa Biblioteca Marciana. Bessarione era un grande estimatore di Platone, e quando Giorgio di Trebisondanelle sue Comparationes Aristotelis et Platonis accusò Platone di essere il padre di tutte le eresie, Bessarione ne divenne l'avvocato più Valente e compose i quattro libri del suo In calunzniatorem Platonis, la cui pubblicazione segnò una tappa miliare nella storia degli studi platonici. In questo scritto all'arist0te1ism0 esagerato del suo avversario Giorgio di Trebisonda,Bessarione contrappone il platonismo, ma senza cadere negli eccessi di quest'ultimo; senza fatica mostra la maggiore consonanza del platonismo con il cristianesimo, consonanza testimoniata dalle dottrine sulla creazione e l'immortalità dell'anima, sulla provvidenza divina e sulla teologia mistica. Però egli non Vuole incorrere in un errore analogo a quello del suo avversario e con grande equilibrio sottolinea anche Yinconciliabilitàdi alcune dottrine platoniche con l'insegnamento della Chiesa; così ad esempio la preesistenza delle
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anime, il politeismo, le anime dei cieli e delle stelle. Bessarione insomma
vuole «laborare lit Platonem christianzzm fuissc ostendanius», ma solo rintuzzare gIi attacchi del Trebisonda.‘ Il ritorno di Platone in Occidente non segnò soltanto una forte ripresa degli studi platonici, ma anche una significativa rinascita del platonismo. I principali artefici di tale rinascita furono Nicolò Cusano, Marsilio Ficino e Giordano Bruno. Essi attingono abbondantemente alle fresche sorgenti di Platone e dei neoplatonici e operano in tal modo un profondo rinnovamento della metafisica, dando vita a una nuova forma di platonismo cristiano, che diversamente dal platonismo dei Padri, che era di stampo teocentrico, ora diviene di marca antropocentrica. La metafisica di Cusano, Ficino e Bruno è essenzialmente platonica e antropocentrìca: platonica quanto al genere, antropocentrica quanto alla differenza specifica. non
N icolò Cusano Come abbiamo già rilevato, nel campo della speculazione filosofica e della metafisica in particolare, il secolo XV non è un secolo di giganti. Nella maggior parte dei casi abbiamo dei buoni Commentatori e propagatori del pensiero di Occam, Scoto, Tommaso d'Aquino, Aristotele e Platone. Solo Cusano fa eccezione: egli è un autentico genio che sa di vivere in tempi nuovi con istanze, sfide e conoscenze nuove, e sente il bisogno di operare una sintesi poderosa di tutto ciò che filosofia, teologia, scienza, matematica, metafisica, mistica hanno fatto conoscere dell'universo. Ingegno di interessi universali, dedito a studi di logica, matematica, astronomia, fisica, geografia, diritto, scienze della natura, metafisica, storia delle religioni, «riunì scienza classica e medievale, e ne fece una grande sintesi, inizio e primo patrimonio dell'età moderna» (R. Klibanski). Uomo di preghiera e di azione, umanista coltissimo e di vasta esperienza filologica, religioso di una religiosità profondamente vissuta alla luce di idee moderate e rinnovatrici, scrittore instancabileed erudito, devoto ma senza fanatismi, sincero senza sottintesi, aperto e tollerante, leale combattente per la fede in Dio e per la salvezza della Chiesa visibile, Cusano prodigo tutta la sua vita per un ideale di elevazione spirituale della religione cristiana, di cui vedeva le debolezze e che voleva in ogni modo eliminare o almeno emendare. Del suo vasto, ricco e profondo pensiero a noi qui interessa soltanto la parte che riguarda la metafisica, che, tra l'altro, è la parte più imporg
i
tante
1)
e
più originale.
Sul Bessarione lo studio migliore resta quello di L. MOHLER, Kardinal Bessariun als Thenloge, Humanist und Staatsmanìî, Paderborn 1923.
Nicolù Cusano, Marsilio Picino, Giordano Bruno
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VITA
(Nicolaus Chrypffs) nacque a Cues (Treviri) nel 1401 famiglia. Dopo un anno trascorso all'università di Heidelberg (1416), egli frequenta la facoltà di diritto dell'università di Padova conseguendo, nel 1423, il grado di doctor ciecretorunz. Ma a Padova i suoi interessi lo portano a frequentare anche la facoltà delle arti: vi conosce VitNicolò Cusano
da povera
torino da Feltre, entra in amicizia con Paolo dal Pozzo Toscanelli al quale resterà legato per tutta la vita, e può ascoltare il matematico e astronomo Prosdocimo de
Beldomandi. breve Dopo un soggiorno a Roma nel 1424, Cusano ritorna in Germania dove si iscrive alla facoltà di teologia dell'università di Colonia. Qui ha come amico e maestro Emerico da Campo, un seguace di Alberto Magno, che lo introduce ad Aristotele, allo Pseudo-Dionigi e a Lullo, che rappresentano le fonti più remote nella formazione della filosofia umanista. Già in questo periodo, con animo di vero umanista, egli si dedica alla ricerca di vecchi codici latini ed è fortunato: scopre un codice di Plauto che riporta il testo di ben 12 commedie, e di Cicerone scopre il De Fato, il De Legibus e il De repulzlica. Il nome del Cusano diventa così noto nel mondo degli umanisti e la sua persona verrà accolta con Calore nella cerchia umanistica, che si costituisce a Basilea durante il Concilio e che include tra gli altri Enea Silvio Piccolomini. In questo periodo avviene anche la sua ordinazione sacerdotale e il godimento delle prime prebende a Treviri e a Coblenza. La prima predica conservata è del Natale 1430, e Venne tenuta nella chiesa di S. Floriano a Coblenza. Grazie alla sua preparazione culturale, la sincerità della sua spiritualità, l'equilibrio e la moderazione personale, il clero tedesco lo invia quale suo delegato al Conciliodi Basilea nel 1432, dove il Cusano diviene uno dei protagonisti e un convinto assertore della posizione conciliarista, che egli espone nella sua prima grande opera, il De concordantia catholica, in 3 libri. Ma negli anni successivi, malgrado la grande autorità guadagnatasi a Basilea, il Cusano Viene progressivamente accostandosi alla Curia romana. Alla fine si schiera con Eugenio IV e contro l'antipapa Felice V, e caldeggia il trasferimento del Concilio a Ferrara, in occasione della programmata venuta dei Padri greci, per trattare l'unione‘ della Chiesa ortodossa con la Chiesa latina. Il Cusano è capo della delegazione inviata dal papa nel 1437 a Costantinopoli per accompagnare in Italia il patriarca e i padri greci. La delegazione ha buon esito e il 9 aprile 1438 si apre a Ferrara il Concilio dell'unione. Da Costantinopoli il Cusano ha scortato le personalità più eminenti sul piano filosofico e teologico: Gemisto Pletone, il Bessarione e molti altri. Ha portato con sé anche molti codici greci, tra cui la Teologia platonica di Proclo, che affida al Traversari per la traduzione in latino.
Parte prima
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Nel 1448 viene creato cardinale da Nicolò V. Tra il 1438 e il 1448 il Cupubblica una lunga serie di opere, tra cui i suoi due trattati più celebri, il De docta ignorantia e il De coniecturis. Ne] 1450 viene nominato vescovo di Bressanone, dove non è gradito dal clero, che gli rende la vita difficile e il governo della diocesi impossibile.Così nel 1458, Cusano accetta l'invito dell'amico pontefice Pio II a lasciare Bressanone e a trasfesano
rirsi
a
Roma, dove viene nominato Legatus urbis,
generale. Muore a Todi nel 1464.
una
specie
di vicario
OPERE Nicolò Cusano ha scritto molto, soprattutto di filosofia, matematica e teologia. Il suo pensiero filosofico-teologicoè contenuto nel De coniectitris (1440) e principalmente nel De docta ignoranti}: (1440-1445). La dottrina esposta in questo libro fu in seguito ripresa e difesa in Apologia doctae ignorantiae (1449); Idiotae libri (1450); De venatione sapientiae (1463). All’arnbito più specificamente teologico appartengono: De concordantia catholica (1433); De visione Dei (1453); De pace fidei (1453); Cribatio Alkoran (1461) (un'introduzione alla fede cattolica scritta per musulmani); la trilogia: De Dea abscondito, De quaerendo Deum, De dato Patris luminum (1445-1446); De genesi (1447); De apice theoriae (1464), che tratta della Visione beatifica. Da non dimenticare le Omelie (circa trecento), dove spesso il Cusano espone temi di dogmatica e di morale. Come ci dice il Cusano stesso nella chiusura del De docta ignorantia, nel 1438 sulla nave che lo riportava in patria di ritorno dalla Grecia, ebbe dal ”Dio della luce" una grande illuminazione:l'idea fondamentale della conoscenza intesa come ”cosciente ignoranza". A tutto il processo conoscitivo egli poi attribuì il nome di dotta ignorantia e trasse tale terminologia da una lettera di S. Agostino a Proba: «Est ergo in nobis quaedazwi, ut dicam, docta ignorantia sed docta spiriti: Dei, qui adiuvat infirmitatem nostram» (PL 33, 504). Da questa intuizione nacque la sua opera principale, De docta ignorantia, che costituisce la vera Summa del suo pensiero. L'opera ‘e divisa in tre libri. Nel primo pone anzitutto i fondamenti della Conoscenza; la precisione è irraggiungibile, perché la Verità precisa è incomprensibile:sappiamo solo di non conoscerla. Passa quindi a trattare del massinzo assoluto: Dio, uno e trino. Cerca poi nella matematica e nella geometria simboli atti a esprimere il mistero di Dio, sia la sua unità sia la sua trinità, e propone una serie di figure infinite usate come simboli dell'infinito. Alla fine discute del Valore della teologia positiva e negativa, dando la preferenza alla seconda. Nel secondo libro tratta del massimo contratto, ossia dell'universo. Di questo descrive sia l'unità sia la trinità, mettendo in luce la differenza
Nicolò Cusano, Marsilio Picino, Giordano Bruno
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e la uni-trinità di Dio. Alla fine illustra dell'universo. l'armonia Nel terzo libro parla del massimo contratto e assoluto, Gesù Cristo. Dopo aver mostrata la possibilitàdel contratto massimo e assoluto, il Cusano espone i grandi misteri della realtà di Cristo: la nascita della Vergine nella pienezza dei tempi, la morte affinché l'umanità superi i limiti della propria naturalità carnale, la risurrezione affinché ne1l'umanità di Cristo tutti gli uomini risorgano, l'ascesa al cielo e il giudizio finale. Negli ultimi capitoli di questo libro il Cusano tratta brevemente della Chiesa come unità di tutti i fedeli in Cristo, analoga all'unità delle tre persone in Dio e delle due nature in Cristo. Sin d'ora possiamo osservare che mentre l'ordine del De docta ignorantia ricalca da vicino l'ordine della Summa Theologiae di S. Tommaso (anch'essa è suddivisa in tre parti, la prima dedicata al Dio uno e trino, la seconda all'uomo e la terza a Cristo e ai sacramenti), per contro il linguaggio e il metodo del Cusano sono assai diversi da quelli dell'Aquinate. Il metodo dell'Aquinate è quello dell’argornentazione teologica, che assume come premessa principale (la maggiore) una verità rivelata; invece il metodo del Cusaflo è quello della argomentazionelogico-matematica, che procede deduttivamente assumendo come principi determinati assiomi. Quanto al linguaggio quello di S. Tommaso è biblico-filosofico mentre quello del Cusano è filosofico-matematico. Tuttavia «il De docta ignoranti}: è un libro, in prevalenza, di teologia. Vi dominano i due terni della tradizione cristiana: il trinitario (Dio è una sostanza in tre persone) e il cristologico (Cristo e una sola persona con due nature, l'umana e la divina). Il Cusano però non si impegna in queste formule dogmatiche, che ormai la tradizione aveva reso pacifiche, almeno in Occidente. Egli è interessato piuttosto a farne un'applicazione speculativa, a irnpiegarle ricavando tutto il senso filosoficoche esse possono dare. D'altra parte, nel trattare di teologia, egli è premuto anche dall'esigenza opposta: quella di limitare le pretese arroganti della ragione discorsiva che vedeva dominare tra i teologi del suo tempo, le sottigliezze della logica e della dialettica umane nei confronti della maestà misteriosa di Dio»?
tra la uni-trinità dell'universo
lL PLATONISMO DI CUsANo P latonico, P iù p recisamente un neoP latonico assai orileggere in chiave neoplatonica e ginale, del schemi di inquadrare dentro gli neoplatonismo i grandi misteri del Il Cusano è
.
3)
un
autore del tentativo più ardito Cll .
.
.
.
.
G. SANTINELLO, Introduzione a N. CUSANO, La dotta Rusconi, Milano 1988, p. 22.
ignoranza.
Le
congetture,
18
Parte prinza
cristianesimo relativi
a
Dio, alla Trinità, a Cristo e all'uomo. Il Cusano e
doppiamente neoplatonico: nel metodo che è assiomatico-deduttivo come nella Elernentatio theologica di Proclo e nel De causis, e nel sistema che è gerarchicamente ordinato secondo una sequenza di triadi e procede
dal massimo verso il minimo come nelle Enneadi di Platino. L’ordine dell'universo del Cusano è identico a quello dei neoplatonici: Dio (= Uno), Intelligenza (= Nous), Anima (= Psyché) e Corpo ( mondo materiale).3 Studiosissimo di Platone e di tutto il platonismo, che si estende da Plotino fino a Eckhart, passando attraverso Proclo, lo Pseudo-Dionigi e Scoto Eriugena, il Cusano rivisse potentemente in se stesso questi filoni di speculazione filosofico-religiosa e ne fece sostanza della sua metafisica, della sua teologia e della sua mistica. Egli stesso si riteneva discepolo dello Pseudo-Dionigi e rimproverava addirittura ad Aristotele di non aver capito ciò che comprese il filosofo cristiano, e cioè che il Dio vero è «il Dio degli opposti, l'opposizione senza opposizione». La sostanza del pensiero di Cusano è soprattutto cristiana e platonica. E il termine ”s0stanza” viene usato qui in senso proprio e rigoroso. Infatti nel sistema di Cusano il platonismo costituisce un elemento sostanziale e non semplicemente formale ed espressivo. Mentre nei Padri il platonismo non riguarda mai la sostanza, che è tratta esclusivamente dalla Scrittura, ma semplicemente la forma espressiva (il linguaggio), nel Cusano il platonismo diventa una componente essenziale del suo sistema. Questo, procedendo assiomaticamente, assume i postulati di base dal platonismo e se ne avvale per inquadrare e chiarire le Verità fondamentali del cristianesimo} le quali acquistano in tal modo una notevole valenza razionale, molto più forte di quella che potevano avere nelle costruzioni teologiche della scolastica e della patristica. Ma in questo modo la teologia cristiana, nel Cusano, finisce per risolversi in una grande sintesi metafisica di platonismo e di cristianesimo. Ma il Cusano seppe operare un'acuta e intelligente sintesi di questi due ingredienti principali del suo pensiero, integrandola con molti e importantissimi risultati scientifici del tempo, appresi a Padova e in genere nella sua lunga permanenza in Italia. I suoi interessi scientifici lo =
u:
\_z
4)
raffigura nei segni delle parole queste unità mentali (realtà). La prisuprema e semplicissima, la chiama Dio; la seconda, che e radice e non ha altra radice prima di sé, la chiama intelligenza; la terza che è quadrata, contrazione dell'intelligenza, la chiama anima; Yultima, esplicazione nella gros«La mente ma, mente
del solido, congettura sia il corpo» (De coniecturis I, 14). Gli assiomi fondamentali su cui si regge tutto il sistema del De docta ignorantia sono i seguenti: il massimo è «ciò di cui non ci può essere di maggiore»; uno ‘e «ciò cui conviene la pienezza»; il massimo assoluto è «l'uno nel quale sono tutte le cose»; il massimo proveniente dell'assoluta è l'universo in cui esiste «in forma contratta il massimo assoluto» (De dacia ignoranti}: I, 2, 6). sezza
Nicolò Cusano, Marsilio Ficinn, Giordano Bruno
19
portarono a concezioni persino ardite per i suoi tempi: si pensi alla concezione dellînfinità dell'universo e alla dottrina della coincidenza degli opposti in matematica e in geometria. La matematica insieme alla geometria e alfastronomia in Cusano assume anche il valore di tramite e simbolo per l'intelletto che vuole elevarsi alla contemplazione dell'eterno e del divino. Ma ogni interesse scientifico è sempre trasvalutato alla luce della Verità metafisica che per lui, incentrata in Dio, massimo e minimo allo stesso tempo, rappresentava il centro dell'intero universo. LA DOTTRINADELLA CONOSCENZA! IL PRINCIPIO DELLA COINCIDENZA DEGLI OPPOSTI
L'illuminazionedi cui
parla il Cusano alla fine del De docta ignorantia
episodio casuale ma rappresenta la chiave di tutto il suo pensiero. Ogni filosofo e teologo geniale ha un suo modo di vedere le cose,
non
fu
un
che è dovuto a unîntuizione originaria. Questa può essere l'intuizione delle Idee (Platone), dell'atto e potenza (Aristotele), della verità (Agostino), delractus essendi (Tommaso), del Cogito (Cartesio), della giustificazione sine operibus (Lutero) ecc. La grande intuizione del Cusano è la docta ignorantia intesa come coincidenti}; oppositorurzi in Dio. Si tratta di una coincidenza che scavalca logicamente tutti i criteri della ragione e che può essere colta soltanto dall'intelletto. La ”dotta ignoranza” è una disposizione spirituale che si assume quando si riconosce che «l'essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibilenella sua purezza, ricercata da tutti i filosofi, ma da nessuno scoperta nella sua realtà in sé. E quanto più a fondo saremo dotti in questa ignoranza, tanto più abbiamo accesso alla Verità».5 Fedele alle esigenze della dotta ignoranza il Cusano afferma che il modo migliore per parlare di Dio non è quello positivo, che può condurre allidolatria, bensì quello negativo: «la sacra ignoranza ci ha insegnato che Dio è ineffabile, perché è infinitamente più grande di tutte le cose cui si possa dare un nome».6 Le vie per parlare di Dio già tracciate dalla patristica e dalla scolastica erano due: la positiva e la negativa. Secondo la prima, si possono predicare propriamente di Dio tutte le perfezioni trascendentali perché queste, quanto al loro contenuto, si dicono primariamente e principalmente di Dio. Secondo l'altra Via, quella negativa, neppure le perfezioni trascendentali si possono dire positivamente di Dio perché noi ignoriamo come esse si attuano in Lui. Così l'unico linguaggio appropriato per par-
5) 5)
De dacia ignorantia I, 3, 10.
Ibid. I, 26, 87.
20
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lare di Dio rimane quello negativo, il quale, secondo la celebre formula eckhartiana, dice che Dio «non è né questo né quello». Il Cusano cerca di uscire da questa impasse capovolgendo la posizione degli apofatici, senza peraltro accogliere pienamente quella dei catafatici, poiché nell’Un0 (Dio) si trova riunito tutto ciò che nel molteplice è diviso. Allora è necessario affermare di Dio ”sia questo sia quello". Infatti ciò che noi concepiamo come distinto e contrario, in Lui è perfettamente identico. Anche gli opposti in lui fanno una cosa sola: coincidono. La fede, scrive il Cusano, «coglie il divino con più verità mediante la dotta ignoranza e crede che colui che adora come uno, è tutte le cose in maniera una, colui che onora come luce inaccessibile,non ò una luce eguale a questa corporea, cui si oppongono le tenebre, ma luce semplicissima e infinita; ove le tenebre sono la medesima luce infinita; e tale luce infinita splende sempre nella nostra ignoranza, ma le tenebre non la possono comprendere. E così la teologia negativa è tanto necessaria rispetto a quella affermativa che, senza di essa, Dio non sarebbe adorato come infinito, ma piuttosto come creatura»? La teologia negativa ha l'ultima parola: «Per questa teologia negativa Dio non è né padre, né figlio, né spirito santo, ma soltanto infinito. Uinfinità in quanto tale, non è né generante, né generata, né procedente (...). Perciò, secondo tale teologia, egli non è conoscibile né in questo secolo né in quello futuro, perché ogni creatura è tenebra nei suoi confronti, e non può comprendere la luce infinita; egli è noto solo a se medesimow Nel suo gradino più alto, quando percepisce con "sacra ignoranza” Dio, Yintelletto è in grado di penetrare il mistero della conciliabilitàdegli opposti al di là della loro reale inconciliabilità;è Capace di capire come un arco di circonferenza esteso all'infinito coincida con la retta, come il diametro della circonferenza coincida con la retta, come «la linea infinita è triangolo massimo, circolo e sfera».9 Si può comprendere anche come un poligono di lati infiniti possa coincidere con il cerchio in cui è iscritto, come il minimo caldo possa coincidere con il minimo freddo. Ma è chiaro che la conciliazione avviene nella piena ignoranza della ragione, nel mistero dell’Assoluto in cui ogni verità assorbe e invera la contraria in una sorta di superiore forma di sintesi spirituale non comprensibilea facoltà discorsive e a spiriti non adusati a elevarsi tanto in alto. K. Iaspers, grande studioso e ammiratore del Cusano, ha così descritto il paradossale processo della docta ignorantia: «Conoscere per mezzo del non sapere. Quando ci siamo distaccati da tutto, con questo atto tocchiamo in modo non concettualizzabile la Trascendenza (e questo mediante la -
—
Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
21
riflessione, non mediante l’estasi 0 l'unione mistica, né mediante la sop-
scissione tra il soggetto e l'oggetto). Il pensiero oscilla. di balbettare Non cessa o, meglio, di oscillare in questa chiarezza al di sopra di ogni chiarezza e di raggiungere in ciò la certezza di sé e di ciò che si cerca. Nell’autentica situazione limite nel cui seno l'esistenza umana avviene realmente, questo significa nel campo del linguaggio che giunge all'estremo: "Tutto il resto è silenzio", ma non per il Cusano, cristiano che unisce la fede alla rivelazionemm
pressione della
-
LA
METAFISICA DElLA COINCIDENZA DEGLI OPPOSTI
Il De dacia ignorantia, di cui generalmente si conoscono le tesi relative alla inconoscibilitàdi Dio è molto di più che un profondo trattato di gnoseologia teologica. Questo scritto, infatti, contiene l'esposizione più completa e più sistematica del pensiero metafisico del Cusano. Come abbiamo già ricordato, l'opera si articola in tre libri: il primo tratta di Dio; il secondo dell'universo; il terzo dei rapporti di Dio con le sue creature. Principio basilare della costruzione metafisica del Cusano è il principio della coincidenti}: oppositorum che, per lui, non ha soltanto un Valore e una funzione gnoseologica ma anche e soprattutto ontologica: gli opposti vanno pensati come coincidenti, perché di fatto nel Principio primo, il Massimo, Dio sono coincidenti. Gli opposti sono innumerevoli: reale/ ideale, apparente/ vero, contingente/ assoluto, molteplice/ uno, potenza/ atto, ente/ essere, minimo / massimo, temporale/ eterno, finito / infinito ecc. La polarità su cui il Cusano edifica tutto il suo sistema è quella tra massimo e minimo, che corrisponde alla polarità tra infinito e finito. L'obiettivo della sua indagine metafisica non è quello di argomentare l'esistenza del Massimo, l’Infinito, il Trascendente a partire dal minimo, il finito, I'immanente, perché per lui la realtà del Massimo, dell’lnfinito, del Trascendente è coimplicata necessariamente con quella del minimo, del finito, dell’immanente. Il suo intento, invece, è quello di far luce sui rapporti che intercorrono tra i poli, gli opposti, i contrari. La sua grande preoccupazione è di evitare gli scogli del monismo da una parte e del dualismo dall'altra. Con la dottrina della coincidentia oppositorunz egli ritiene di riuscire a condurre in porto questa difficilenavigazione. Il metodo della docta ignorantia che il Cusano adopera per la elaborazione della sua metafisica è sostanzialmente un metodo risolutivo e sintetico, ma che ha carattere intuitivo e non raziocinativo. Scrive il Cusano: «La filosofia che vuole intendere con semplicissima intuizione l'unità massima nel suo vero senso di trinità, non può che necessariamente
1D)
K. JASPERS, Nikolaus Cusanus, Miinchen
1964, p. 97.
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rifiutare tutto ciò che è oggetto di immaginazionee di ragionamentowlL'intuizione ha luogo collocandosi «in un punto di vista superiore alle differenze fra le cose e alla diversità fra tutte le figure della matematica, proprio perché dicemmo che nel massimo, linea, superficie, circolo e sfera coìncidonomlî Il punto di vista superiore, eminenziale, non elimina le differenze, ma le assorbe e le riconduce all'unità originaria, dove si trovano ancora nello stato di indìfferenziazionee di perfetta identità. Solo chi possiede uno ”stato di sublime ascesi”, giunge «alla perfettissima e astrattissima intelligenza nella quale tutte le cose ritrovano una loro unità e la linea sola sia anche triangolo e il circolo sfera e l'unità trinità e, ancora, l’accidente sia sostanza, il corpo spirito, il moto quiete e tante altre cose simili, mentre è necessario rigettare tutto ciò che è comprensibile solo a mezzo del senso, della immaginazione o della ragione con tutte le sue naturali possibilità: solo così sarà possibile comprendere come, se una cosa si può intendere solo riferita all’Uno, bisogna pensare che l’Uno è il tutto, e coerentemente, che ogni suo elemento è tutto nell’uno».13 Il paradigma metafisico del Cusano è integralmente neoplatonico: neoplatonico è il suo metodo assiomatico-deduttivo; neoplatonico è il principio primo da cui trae origine tutta la realtà, l’Uno. Anche la sua è una metafisica henologica e non ontologica. Il suo sistema è costruito come quello di Plotino e di Proclo su una triade fondamentale, che viene fatta corrispondere alla triade cristiana del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ma nella ”henologia” del Cusano c'è un grande sforzo di semplificare l’interminabileteoria delle emanazioni e delle triadi, riducendo tutto a due sole realtà: la realtà dell’Uno/ Trinità e la realtà del suo specchio, l'Universo.
ESISTENZA, NATURA, ATTRIBUTI Dl DIO Come si ‘e detto, la costruzione metafisica del Cusano è assiomaticodeduttiva, come quelle di Plotino, Proclo, Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta. È una costruzione che parte dall'alto e discende velocemente verso il basso: parte da Dio per andare poi verso le creature. In una costruzione assiomatica, a priori, occorre partire con un concet-
più ricco possibile, che abbracci tutta la realtà e ogni sorta di perfezione. Anselmo riteneva che a questa esigenza di onnicomprensività rispondesse bene la definizione «Dio è colui di cui non si può pensare nulla di maggiore». Il Cusano trova ancora più felice la definizione: to di Dio il
l‘) u) 73)
Da docta
Ibid. Ibîd.
ignoranti}: I, 1D.
Nicolò Cusano, Marsilio F icino, Giordano Bruno
23
«Dio è il Massimo». È una definizione più incisiva anche se, nella s0stanza corrisponde alla definizione anselmiana. lnfatti «è da ritenere massimo in natura ciò di cui non può esservi alcunché di più grande».l4 Ora, non vi è dubbio che il Massimo deve esistere. Infatti «il Massimo assoluto, poiché esaurisce in sé tutte le infinite possibilità di esistenza, è sempre totalmente in atto e come non può essere più grande di quello che è, così per la stessa ragione non può essere minore proprio perché, come si è detto, esaurisce tutte le infinite possibilità di esistenza>>fl5 Il primo attributo del Massimo è di essere onnicomprensiva: esso abbraccia ogni realtà, grande e piccola, perfetta e imperfetta, assoluta e contingente, durevole e transitoria, bella e brutta ecc. Nel Massimo tutti gli opposti che nel finito sembrano inconciliabilie irriducibili,si trovano pacificamenteuniti e riconciliati.Scrive il Cusano: «Al Massimo assoluto giammai si addice una opposizione, perché esso è al di sopra di ogni opposizione. Poiché dunque il Massimo assoluto è tutte le cose esistenti in atto, in modo tale che respinge da se’ qualsiasi opposizione, così esso coincide con il minimo ed è parimenti al di sopra di ogni affermazione e di ogni negazione. E tutto ciò che si pensa che possa esistere, esiste non più di quanto potrebbe anche non esistere. Ma è così perché è tutte le cose, ed è tutte le cose perché è nessuna cosa ed è il massimo proprio perché è il minimo. E proprio la stessa cosa affermare: Dio è il massimo assoluto ed è luce, e: Dio è la massima luce proprio perché è la luce minima. Se le cose stessero diversamente, il Massimo assoluto non sarebbe in atto tutti i possibili, se non fosse in altre parole, il termine di tutte le cose, senza tuttavia esaurirsi in alcuna di esse».16
quello di essere infinito. Ma non si tratta di una infinità indeterminata come quella della materia e della quantità, bensì di una infinità determinatissima, che abbraccia ogni perII secondo attributo del Massimo è
fezione. Ogni altra realtà al di fuori del Massimo ‘e finita e limitata, e a sua volta presuppone la realtà infinita del Massimo. Ecco il ragionamento del Cusano:
«Qualsiasi cosa finita e limitata ha un suo principio dal quale trae origine e nel quale confluisce, e poiché non si può dire che il Massimo sia un ente maggiore di un dato finito o che sia finito rispetto a un
altro finito e così via, perché in tal caso il Massimo sarebbe della stessa natura dei finiti, così è necessario che il Massimo in atto sia principio e fine di tutte le cose finite»?
14) Ibid, 1, 2. 15) Ibid, 4. 16) Ibid. 17) Ibid, I, 6.
24
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Dopo
avere
caratterizzato la natura del
Principio primo
di tutte le
cose con titoli relativi: massimo, onnicomprensivo, infinito, il Cusano passa a illustrare i suoi attributi trascendentali: l'unità, l'essere, la verità. In primo luogo il Massimo è unità assoluta: «Yunità assoluta, cui nulla è a fronte, è lo stesso Massimo assoluto, che in fondo non è che il Dio che tutti veneriamo. E tale unità, se è la massima unità immaginabile, non ha in sé il principio della molteplicità perché essa esaurisce tutto l’esistente creato».18 Qui il Cusano ha cura di precisare che non si tratta di una unità numerica (”non è un numero”) o quantitativa, ma di una unità qualitativa, che esclude ogni forma di composizione e di divisione.” Viene poi l'essere. Come in tutte le metafisiche henologiche anche in quella del Cusano l'Essere non è la prima realtà ma viene dopo l’Uno. L'essere è necessariamente compreso nel Massimo, in quanto il Massimo è «la condizione prima di tutto l'essere». Ecco come il Cusano argomen-
ta
questa tesi:
«Ammettiamo che il Massimo sia riducibileall'essere e, in conseguenza, di poter dire: al massimo essere nulla si oppone, né l'essere normalmente inteso, né l'essere minimo: come, infatti, si potrebbe pensare che il Massimo possa essere privo di esistenza, allorché il minimo essere si identifica col massimo essere? Né, invero alcuna cosa senza l'essere può essere compresa. E ciò è vero perché l'assoluto essere non può essere altro che il Massimo assoluto e niente potrà mai essere compreso senza includere in esso il concetto di Massimoml”
Il terzo attributo trascendentale del Massimo ‘e quello della verità: «la verità massima è il Massimo assolutomîî Ma di che verità si tratta? Non della verità del principio di identità o di non contraddizione, bensì della verità della coincidentia zippositorzzm per cui il Massimo può essere sia questo sia quello, sia il massimo sia il minimo. «E dunque sommamente vero sarà che lo stesso Massimo in se’ sia o non sia oppure sia e nello stesso tempo anche non sia o, ancora, che non si dia alcuna di queste due ipotesi, dal momento che altro non è possibile affermare e neppure pensare in PIOPOSÌÌOmZZ Altri attributi che il Cusano assegna al Massimo dopo i trascendentali sono: la semplicità, la necessità e Peternitàflî Conclusa la deduzione degli attributi che competono al Massimo il Cusano ribadisce che nessuno di questi nomi esprime la sua essenza.
18) una, 5. 19) Cf. una. 20) llvid, 1, e. N) Ibìd. ) Ibid. 23) ‘ci. 11nd,, l, 6-7.
Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
25
Infatti nessun termine «indica con esattezza il Massimo, che è al di là di ogni possibilità di definizione. Tuttavia al Massimo si addice necessariamente che sia massimo e ineffabilee che sia solo definibilecol termine massimo essendo al di là di ogni altra possibile denominazione (per nomen maximum super omne esse n0minabile)».24 Dopo avere illustratola natura e gli attributi del Massimo utilizzando il comune linguaggio della metafisica neoplatonica, il Cusano Cerca di riformulare le stesse tesi, in particolare quelle della coincidentia oppositorum e della omnicomprensività del Massimo ricorrendo al linguaggio delle matematiche. Questo linguaggio, che è esente da ogni antropomorfismo, gli sembra particolarmente idoneo per parlare della ineffabile realtà del Massimo, una realtà infinita in cui tutti gli opposti si ritrovano presenti e coincidono, superando ciò che li separa e li divide. Qui il Cusano si avventura in ipotesi matematiche molto fantasiose e tuttavia assai suggestive. Le immagini più eloquenti sono quelle della linea infinita e della sfera infinita. La linea infinita può essere sia triangolo sia circolo e può assumere le più svariate figure geometriche. Ma ancora più strepitose sono le qualità della sfera infinita. Ecco come le descrive il Cusano in un celebre passo del De docta ignorantia.
«È possibile notare che nella sfera_infinita concorrono verso il centro
massime: quella della lunghezza, quella della larghezza, della profondità. Ma il centro della sfera infinita si identifica quella con il suo diametro e con la sua circonferenza. Pertanto la sfera infinita si identifica col suo diametro e con la sua circonferenza, ma anche con le tre Ìinee suddette, e poiché essa si identifica nel centro con le tre linee nominate, così il centro racchiude in sé quelle tre linee nel loro complesso, cioè la lunghezza, la larghezza, la profondità. Così essa sarà il massimo semplicissimo e infinito e ogni elemento che lo compone, la lunghezza, la larghezza e la profondità, si identificherà con l'uno indivisibile,semplicissimo, massimo. Come il centro precede la lunghezza, la larghezza, la profondità ed è anche il fine e il tramite di esse, così nella sfera infinita il centro, lo spessore (cmssitudo) e la circonferenza sono la stessa cosa. E come la sfera infinita è totalmente in atto e semplicissima, così il Massimo è totalmente in atto e semplicissimo, e come la sfera è la linea in atto e il triangolo è il circolo in atto, così il Massimo è tutte quelle cose in atto (...). Come dunque la sfera è la più perfetta tra le figure e di essa una figura più grande non esiste, così il Massimo è la perfezione più elevata fra tutte. Ogni cosa imperfetta in sé diventa perfettissima in esse, allo stesso modo che una linea infinita è sfera e in questa la curvatura è la rettilineità, la composizione semplicità, la diversità identità, l’a1terità unità e così per tutti i rimanenti concetti simili».25
tre linee
34) Ibid., 6. 25) lbid., 23.
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Dopo aver illustrato le stupefacenti doti della sfera infinita ecco l'applicazione che il Cusano fa di questa immagine al caso di Dio: «Dio è l'unica ragione semplicissima di tutto l'universo e come da infinite figurazioni circolari nasce la sfera massima, così Dio, come sfera massima (ita Dcus uti sphaera maxima), è la misura semplicissima di tutti i movimenti circolari: infatti ogni capacità di Vivere e intendere e ogni movimento hanno la loro ragion d'essere da lui, in lui e per lui, presso il quale la rivoluzionedell'ottava sfera non è più breve nel suo corso della rivoluzione della sfera infinita, poiché Egli è il fine di ogni movimento e in Lui ogni movimento termina come se trovasse riposo. Egli ‘e ancora quiete massima e in Lui ogni moto è quiete. Solo così, dunque, la massima quiete è misura di tutti i movimenti come la
linea massimamente retta è misura di tutte le circonferenze e la massima presenzialità ossia l'eternità (maxima praesentia sive aeternitas) è misura di tutti i tempi: in Dio tutti i moti naturali trovano riposo come nel loro fine e ogni potenzialità in lui si perfeziona come in un’infinita attualità. Poiché Egli è l'entità di ogni cosa esistente e ogni movimento mira all'essere, si evince che Lui, che per definizione è quiete, è lo stesso moto, proprio perché è fine del moto stesso, ossia è forma, è atto dell'essere. Tutti gli enti pertanto muovono verso Dio, e poiché essi sono finiti e non possono in modo uniforme partecipare di quel loro fine, come si può notare dal paragone che si può stabilirefra essi, così alcuni di essi partecipano del fine per mezzo di altri intermediari, proprio come la linea a mezzo del triangolo e del circolo si riconduce alla sfera, e il triangolo si riconduce alla sfera per mezzo del circolo
e
il circolo alla sfera da solo>>.2“
LA DEDUZIONE DELLA TRINITÀ Il Cusano è uno dei pochi teologi del Quattrocento che si è occupato del mistero trinitario in modo originale. Per l'autore del De docta ignorantia questo mistero non costituisce più come per i Padri un problema. I grandi Concili ecumenici del IV e V secolo l'avevano chiaramente definito con la notissima formula: il Dio cristiano è uno nella natura e trino nelle persone. L'interesse del Cusano perciò si concentra principalmente sulla questione linguistica e anche per risolvere tale problema egli si rivolge al neoplatonismo. Com'è noto, quello dei neoplatonici è un sistema essenzialmente trinitario, costruito sulle tre ipostasi primarie dell'Uno, il Nous (Intelligenza) e la Psyché (Anima). Mario Vittorino vi aveva trovato una figura eccellente per dare espressione linguistica e concettuale al mistero cristiano della Trinità. Ma, poco dopo, Agostino aveva abbandonato l'immagi-
25)
lbid.
Nicolò Cusano, Marsilio Picino, Giordano Bruno
27
neoplatonici e l'aveva sostituita con la sua celeberrima immagine psicologica dell'anima che è dotata di tre facoltà: la memoria, ne
metafisica dei
l'intelletto e la volontà (amore), e aveva chiamato il Padre memoria, il Figlio intelletto e lo Spirito Santo amore. Nicolò Cusano ripristina lo schema metafisico di Plotino, Porfirio e Proclo, ma anziché far derivare la seconda e la terza Persona dall'Uno per Via di emanazione, fa derivare la seconda, il Figlio, per Via di generazione e la terza, lo Spirito Santo, per via di connessione. inoltre, per parlare delle tre persone divine egli introduce tre singolari espressioni: unità per il Padre, eguaglianza per il Figlio, e connessione per lo Spirito Santo. Egli giudica questo linguaggio migliore di quello tradizionale, considerato troppo antropomorfico: «Se i nostri dottori santissimi chiamarono l'unità padre, l'eguaglianza spirito e la connessione spirito santo, lo fecero per una certa connessione con le cose mortali».î7 Inoltre il Cusano crede che con questo linguaggio sia più facile intendere le processioni divine che mediante il linguaggio dell’analogia psicologica. Pare infatti cosa ovvia che la seconda persona essendo eguale al Padre è come lui coeterna, infinitamente potente, sapiente, ecc. E pare cosa altrettanto ovvia che se la terza persona è definita come connessione sia eguale alle prime due dalle quali procede. Scrive il Cusano: «Procedere significa un certo estendersi d'una cosa nell'altra. Quando due cose sono eguali, una certa eguaglianza si estende dall'una all'altra, che in qualche modo le congiunge e le connette. Si dice dunque giustamente che la connessione procede dall'unità e dallbguaglianza dell'unità. La connessione non riguarda un termine soltanto, ma è unità che procede dall'unità verso l'eguaglianza e dall'eguaglianza dell'unità verso l'unità. Giustamente si dice procedere dall'uno e dall'altro, perché si tratta quasi di un estendersi reciproco dall'uno Verso l’altro».28 Il Cusano per parlare della Trinità non impiega neppure i termini ”sostanza”, ”natura", per indicare l'unità, e "persona" per indicare la trinità: vuole evitare questa terminologia, pur antichissima, nicena, perché troppo legata all'esperienza del mondo o anche forse perché risente di Aristotele. Egli preferisce le formule speculative: unità, eguaglianza e connessione, provenienti da Boezio e dalla scuola di Chartres. Resta però che anche questi termini e la stessa concezione di una relazione trinitaria, il pensiero di una relazionalità in Dio, sono connessi alla rappresentazione del mondo, sia pure secondo il modello platonico. In sé Dio è semplicemente infinito, di senza vederlo in rapporto al mondo lui nulla si può dire, e nessuna terminologia trinitaria lo può esprimere. -
-
27) lhid, l, 9. 28) Ibiaî, 6.
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La preferenza del Cusano per l'astratt0 spiega il suo uso della matematica e della geometria in questo argomento trinitario. Si tratta pero di un uso traslato e simbolico delle figure geometriche (linea, triangolo, cerchio, sfera). «È la parte certo più caduca del pensiero cusaniano, non tanto per la teorizzazione del simbolo, forse, quanto per il suo concreto impiego, che dà luogo a un apparato pesante e barocco, ereditato da Raimondo Lullo e da Eimerico da Campomî?’
LA CREAZIONE Nella dottrina della creazione il Cusano non si allontana dalle posizioni tradizionali che sotto l'aspetto linguistico, poiché nella sostanza egli ricalca la linea dottrinale di S. Tommaso. Come l’Angelico egli ricorre ai classici concetti di partecipazione e assimilazione, e sostituisce invece quello di comunicazione con contrazione ed esplicazione, che definiscono meglio la natura dell'azione del Creatore. Ciò che Dio crea è urfesplicazione contratta dell’Uno. Il mondo o universo è il contratto massimo ed «esiste in modo contratto nell'essere di ogni cosa, in tutte le cose principio contratto, fine contratto delle cose, ente contratto, infinità contratta, cosi da essere infinito contratto (...). Ma l'unità contratta, che è l'universo uno, sebbene sia uno massimo, essendo contratto, non è sciolto da pluralità, anche se non vi è che un solo massimo contratto. Sebbene sia massimamente uno, la sua unità è tuttavia contratta nella pluralità, anche se non vi è che un solo massimo contratto. Sebbene sia massimamente uno, la sua unità è tuttavia contratta nella pluralità, come l'infinita è contratta nella finitezza, la semplicità nella composizione, l'eternità nella successione, la necessità nella possibilità, e così via; come se la necessità assoluta si comunicasse senza mescolanza, e finisse nel suo opposto in modo contratto>>fi0 entità solo in quanto partecipano in modo contratto dell'unità assoluta, di cui divengono esplicazioni e somiglianze. Il concetto di esplicazione è usato dal Cusano come corrispettivo di quello di complicazione. Contro le accuse di panteismo che gli furono mosse a proposito di questi concetti, Cusano ne dà un chiarimento nelLe creature
sono
l'opera Eapologia della dotta ignoranza difendendosi dagli attacchi dell'aristotelico Giovanni Wenck. Il principio primo di non-contraddizione, cui si appellava il Wenck, è primo secondo il Cusano solo nell'ambito della ragione discorsiva, ma non rispetto all’intelletto intuitivo. Le cose
39) 30)
G. SANTINELLO, op.
cit, p. 24. De dotta ignorantia Il, 113-114.
Nicnlò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
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in Dio solo complicativamente, mentre nell'universo si esplicano da lui secondo le contrazioni. Questa Verità Vale solo per il nostro intelletto. Cusano non ha mai affermato la coincidenza della creatura con il Creatore. Nel terzo libro dei dialoghi dellîdioto Cusano chiarisce ancora meglio il concetto di esplicazione collegandolo con quello di assimilazione: «come Dio è l'entità assoluta che è la complicazione di tutti gli enti, così la nostra mente è l'immagine di quella entità infinita che è la complicazione di tutte le immagini». Perciò «se chiamerai questa divina semplicità mente infinita, essa sarà l'esemplare della nostra mente. Se chiamerai la mente divina totalità di verità delle cose, dirai che la nostra mente è la totalità delle assimilazioni delle cose, sì da essere la totalità delle nozioni. La concezione della mente divina è la produzione delle cose. La concezione della nostra mente è la nozione delle cose». Con i concetti di partecipazione, contrazione, esplicazione e assimilazione il Cusano si mette al riparo da ogni accusa di panteismo. L’infinita differenza qualitativa che separa le creature dal Creatore viene adeguatamente espressa, e si tratta per l'appunto di una differenza qualitativa e non semplicemente quantitativa come nel neoplatonismo. sono
LUCI È
OMBRE NET. PENSIERO DEL
CUSANO
Pensatore indubbiamente geniale, uno dei più grandi metafisici di tutti i tempi secondo K. Iaspersfiî il Cusano non ebbe praticamente nessun discepolo, né una scuola teologica che si sia fatta carico della diffusione del suo pensiero e le sue dottrine. Così la fama del Cusano nel Cinquecento e Seicento risulterà maggiormente legata alla sua cosmologia che alla sua teologia. <
31) Cf. K. JASPERS, I grandifilosofi,Milano 1973, p. 1034. 32) G. SANTINELLO, Introduzione a Nicnlò Cusano, Laterza, Bari 1971, p. 144.
30
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cercò di fonderli in una mirabile sintesi prendendo da essi quanto di Vitale e appropriato alle nuove esigenze essi offrivano. Ernst Cassirer dice giustamente che «la filosofia del Cusano cresce e si sviluppa a contatto dei problemi della cristologia, delle questioni della Trinità e della incarnazione di Dio»; il Cusano «non prende come punto di partenza il nuovo contenuto (della nuova età del Rinascimento), ma trasforma e perfeziona il materiale tradizionale» (del Medioevo); intorno «la teologia costituisce perciò il centro unitario del sistema ad essa gravitano i concetti fondamentali>>.33 Ma, a ben vedere, nel Cusano c'è un'eccessiva ontologizzazionc dei misteri cristiani ben più grande di quella che alcuni autori hanno rimproverato ai padri della Chiesa -. E anche se l'accusa di panteismo che spesso gli è stata mossa, risulta infondata, perché egli non si stanca di ripetere che la massima unità con Dio non sopprime la distinzione personale della creatura, cionondimeno l'eccessiva ontologizzazione lo porta a trattare gli ”abitanti -
del Cielo” più come principi metafisici che come persone. Ma il Vero punch/m dolens della teologia e dell'intero sistema del Cusano è costituito dal principio della ”c0incidentia oppositorum". Le ragioni che possono avere convinto il Cusano della bontà di questo principio sono due: 1) l'infinita di Dio, la quale comporta che in lui siano presenti tutte le perfezioni presenti nell'universo; 2) il desiderio di sottrarre la nostra conoscenza di Dio agli schemi e ai criteri della ragione che sono quelli delle distinzioni chiare e precise, dei giudizi categorici, dei principi di identità e di contraddizione, dei ragionamenti rigorosi ecc. Ma questa preoccupazione era già presente nei padri e negli scolastici i quali avevano affermato sia l'infinita perfezione di Dio sia la sua inconoscibilità,senza peraltro ricorrere alla coincidentia oppositorum. Essi
avevano anche
professato il principio della dotta ignorantia, ma senza
contrabbandarlo poi con una presunta conoscenza superiore, ultrarazionale, che pretende di dire di Dio tutto quanto a livello razionale era già stato dichiarato indicibile.Agostino, Anselmo e Tommaso escludevano che la coincidentîa oppositorum fosse utilizzabileper parlare di Dio, poiché dalla sua natura è assente qualsiasi imperfezione e limitazione. Degli opposti: bene e male, verità ed errore, bellezza e bruttezza, amore e odio, essere e nulia ecc. uno solo è applicabilea Dio, quello che connota perfezione. La teoria della COÌHCÌIÌÎETZÎÌH oppositorum non conduce all'in-
finitamente perfetto bensì a un caos totale, a un mare immenso dove tutto è confuso e indistinto. Nel suo ottimo studio sul Cusano, F. Van Steenberghen, a proposito del principio della coincidentia oppositurum osserva giustamente che se per un verso esso costituisce l'originalità
33)
E. CASSIRER, Storia della filosofia motierna, Einaudi,Torino 1961, p‘ 140.
Nicolò C usano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
31
essenziale del suo pensiero e del suo sistema, per un altrp verso costituisce anche la sua debolezza e il suo maggior pericolo. «E molto difficile comprendere il valore che il Cusano riserva alla facoltà di conoscere propriamente umana, cioè la ragione, la sola che ci possa permettere di controllare le nostre conoscenze e organizzarle in un tutto coerente e logico. Senza dubbio egli pretende di applicare la coincidenza soltanto all'essere assoluto, a Dio, e alla sostanza dell'essere partecipato; ma se il principio di contraddizione non ha valore che per la nostra ragione, 0 almeno per ciò che è oggetto della ragione, non si vede come si possa ancora parlare di metafisica o di teologia, e con che diritto il Cusano possa discutere di questioni che riguardano unicamente gli oggetti di intuizione. Se è così, le affermazioni dell’intelligenza sono senza possibilità di controllo; le sue affermazioni non sono più vere delle sue negazioni: la porta è aperta a un tempo, all’illuminismo,al fideismo e all'a-
gnosticismo>>fi4 Anche la simbologia matematica tanto cara al Cusano e da lui utilizzata proprio per illustrare la coincidentia oppositoruni è semplicemente illusoria. Infatti si tratta quasi sempre di simboli impossibili come la coincidenza di una retta con una curva: infatti fino a quando una retta è
tale non sarà mai una curva e finché una curva è tale, non sarà mai una retta; oppure la coincidenza di un triangolo con un cerchio: perché finché un triangolo rimane triangolo non diventerà mai un cerchio e finché un cerchio è un cerchio non diventerà mai un triangolo. Nel suo insieme, la proposta cusaniana rimane affascinante per la sua profondità e per le sue suggestioni. Il suo sistema non ‘e affatto eclettico ma assai compatto e unitario. «La sua filosofia è per lui una ricerca continua, o piuttosto una serie di ricerche convergenti della verità. Essa è costituita da un insieme di idee, al primo aspetto confuse ed espresse più o meno nettamente, ma che gravitano attorno a un centro immutabile. Questo centro è una metafisica religiosa che implica tre verità fondamentali: la trascendenza di Dio, la sua causalità creatrice, la finalità dell’uomo».35
Marsilio Ficino Il secondo grande tentativo operato nel Quattrocento di creare una vasta sintesi tra platonismo e cristianesimo fu realizzato da Marsilio Ficino. Questi, a quanto pare, agisce in modo completamente indipendente dal Cusano, del quale non ignora soltanto le opere e il pensiero ma
34)
F. VAN STEENBERGHÈN, Le cardinal Nicnlas de Cues Paris 1920, p. 446.
35) lbid., pp. 443-444.
(1401-1464). L'artista La peraséc, —
32
Parte prima
persino il nome esatto. Nell’unico testo in cui parla di lui ci dà una versione storpiata del suo nome: «Speculationes Nicolai Caisii (o Cusii)».36 Pur essendo entrambi platonici cristiani, i loro indirizzi filosofici sono sostanzialmente diversi: il platonismo del Cusano conserva ancora un carattere fortemente teocentrico, mentre quello del Ficino diviene marcatamente antropocentrico. La preoccupazione primaria del Cusano è far luce sull’Uno, l'assolutamente Massimo, Dio, e la dottrina della dotta ignorantia nonché la logica della coincidentia oppositorum rispondono esattamente a questa esigenza. Invece la preoccupazione del Cusano è quella di evidenziare la grandezza dell'uomo, il microcosmo, il piccolo Dio. Oltre che negli obiettivi il Cusano e il Ficino si distinguono anche nei metodi: quello del Cusano è essenzialmente un metodo speculativo, senza nessun interesse filologico, mentre quello del Ficino è primariamente filologico e solo secondariamente speculativo. VITA E OPERE Marsilio Ficino nacque a Figline in Valdarno il 19 ottobre 1433. Dal diminutivo del nome paterno, Diotifeci, derivò l'appellativo Ficino. Indirizzato agli studi di medicina, il Ficino non si distolse tuttavia dall'interesse per le lettere, alle quali finì per dedicare gran parte della sua attività, sin dal 1459, anno in cui Cosimo dei Medici, riconoscendo in lui doti eccezionali di studioso, di umanista e di pensatore, prese a proteggerìo con munificenza mecenatesca. Poco tempo dopo iniziò lo studio del greco, del quale si impadronì ben presto. Avuta in dono da Cosimo la villa di Careggi, in questa egli alternava il lavoro di traduzione degli scritti platonici (Platone, Plotino, Proclo, Pseudo Dionigi ecc.) alle conversazioni di argomento filosofico, politico, letterario, con gli amici: questo cenacolo di studi fu detto Accademia platonica. Sono gli anni più fecondi del Ficino. Pubblica i primi scritti: De voluptate, De laudibus philosophiae, De laudibus medicinae. Presto inizia il lavoro di traduttore: gli inni attribuiti a Orfeo e a Omero, la Teogonia di Esiodo; gli inni di Proclo, i dialoghi di Platone (alcuni dei quali commentò: famoso il Commento al Simposio), le Enneadi di Plotino, di cui scrisse anche un commento. Dello Pseudo-Dionigi traduce il De divinis nominibus e la De mystica theologia. Nel platonismo Ficino scopre profonde consonanze col cristianesimo e così si delinea sempre più chiaramente nel suo pensiero il progetto di operare un connubio tra queste due grandissime correnti spirituali. Di fatto, il connubio ideale tra platonismo e cristianesimo si trova realizzato non soltanto nella dottrina ma anche nella personalità di Marsilio
36)
Cf. P. O. KRISTELLER, Studies in the Renaissance, p. 36, n. 1.
Thouglat and Letters,
Roma 1956,
Nicolò Cusano, Marsilio F icino, Giordano Bruno
33
Ficino, il quale pratico sempre,
con animo pieno di sincera religiosità, il culto cattolico e finì col farsi ordinare prete, cedendo, a quanto pare alle esortazioni di Lorenzo il Magnifico, nel 1473. Riallacciandosi alla tradizione platonica e meditando sui testi di Platone, Plotino e Proclo, il Ficino concepì il disegno, portato a termine nel periodo della sua maturità spirituale, dal 1469 al 1475, di ricostruire su fondamento platonico la teologia cristiana: nacquero così i diciotto libri Tlzeologia platonica de irrimortalitate animorum, pubblicati nel 1482 e il trattato De christiana religione, in cui l'intento apologetico si congiunge all'assunto fondamentale della dottrina ficiniana, poiché il platonismo VÌ è considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui principi coincidono con quelli della rivelazione cristiana: tale coincidenza è il principale argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo rispetto alle altre religioni. Dopo il 1474 il Ficino scrisse opere di mistica religiosa e di morale: De rapta Paali; De divina providentia; De lamine; Sermoni morali della stultitia et miseria degli uomini. Gli studi non distraevano il Ficino dai suoi doveri sacerdotali: ne sono prova le Praedicationes, da lui tenute a S. Maria del Fiore e nella chiesa degli Angioli e che non poche volte congiungono ai sentimenti di pietà religiosa dotti motivi di speculazione. Dalle pubbliche lezioni del Ficino nacque il commento alle Epistole di S. Paolo. Però la vita di Ficino come uomo, prete, pensatore e medico ‘e tutta rispecchiata nellfpistolarii) in 12 libri. ll Ficino morì a Firenze il 1° ottobre 1499.
IL PROGETTO RELIGIOSO-TEOLOGICO DI FICINO
Ficino è l'autore di un progetto religioso-teologico assai ambizioso,al quale si dà generalmente il nome di platonismo cristiano ma che in realtà Vuol essere molto di più. Infatti l'obiettivo principale e costante del Ficino fu quello di elaborare una nuova filosofia religiosa tesa a unificare in un unico sistema tutta l'esperienza religiosa dell'umanità. Ciò significa che, per Ficino, tra le varie religioni dell'umanità precristiana e cristianesimo non si dà antinomia ma una certa continuità: esse fanno parte di un unico processo storico-salvifico che ha come punto culminante e conclusivo il cristianesimo. L'idea del Ficino aveva già avuto dei precedenti nell'epoca patristica. Basti pensare alla dottrina del Logos spermatikòs di Giustino e alla dottrina di Clemente Alessandrino a proposito della funzione propedeutica svolta dalla filosofia greca rispetto al Vangelo. Ma ora in Ficino queste intuizioni divengono una teoria articolata di ben
più vaste proporzioni. Ma Ciò che è peculiare del progetto religioso-teologico del Ficino è che il filo rosso che unifica l'esperienza religiosa dell'umanità non è rap-
34
Parte printa
presentato dalla rivelazione (distinguendo magari tra
una
rivelazione
naturale e una rivelazione soprannaturale come si usa fare oggi) bensì dalla filosofia. Così nella sua veste di pio filosofo il Ficino cerca di cogliere l'unica sapicntia in tutte le forme in cui si rivela, nei libri sacri come nella risposta dottrinale dei poeti, nell’armonia pitagorica dei cieli, come nella perfetta disposizione della natura, espressa nella sua perenne bellezza. In tal modo la pia philasotvlzia si trasforma in una ciocta religio, capace di cogliere le radici divine del Tutto e il mirabile dispiegarsi della Unità eterna nella molteplicità inesauribiledella sua creazione. ll proposito dominante del De christinna religgione consiste nel proclamare l'assoluta identità di pietas e di sapicntia, ossia l'inseparabile congiunzione della religio con la philosorîhiaz. Ciò consente al Ficino di richiamarsi a quei dotti "divinamente ispirati”, che nei tempi antichissimi furono insieme sacerdoti e sapienti, indagatori delle causae rerum e ordinatori del culto attribuito alla causa prinm. Così può scrivere che i profeti biblici furono non solo uomini di altissima pietà, ma pure filosofi; che nell'antico Egitto il sacerdozio fu sempre attribuito ai conoscitori della natura, maestri pure delle "cose divine”; che similmente presso i Persiani, i Magi, depositari dei misteri del mondo, «presiedettero ai sacrifici»; che i sette sapienti greci ebbero anch'essi dignità di sacerdoti; che i druidi celti furono i custodi di unbcculta filosofia non meno dei bramani indiani; e che, alle origini cristiane, quando la fede era più pura, ”episcopi” e "presbiteri" unirono alla verità ortodossa delle loro dottrine teologiche conoscenze filosofiche non meno certe e utilissime. Al divorzio tra pietas e sapientia che si era andato consumando alla fine del medioevo Ficino vuole reagire ricuperando quei principi comuni alla sapientia e alla religio, ossia quel nucleo più antico e profondo di una veritas alla quale tutti gli uomini devono partecipare. Ma questo non infirma nel Ficino la convinzione che solo la religione cristiana è in grado di operare questa unificazione, ricondurre cioè "pietà” e ”filosofia” nell'alveo di un'esperienza sapienziale unica e riconoscere quel tanto di verità che tutte le fedi e le filosofie non ”empie" possiedono quando non siano ”inquinate” o distorte dal loro fine dalla forza delle passioni e "idola" mondani, oppure inficiate dallignoranza. IL PLATONISMO DI FICINO
doppiamente legato a Platone: come filologo e come teologo. Come filologo egli spese molto tempo e molte energie a studiare, tradurre e commentare Platone e i neoplatonici. Come teologo ha utilizzatoPlaFicino è
nuova sintesi tra cristianesimo e filosofia creando modello di teologia platonica: non più teocentrica come quella dei Padri e del Cusano, bensì antropocentrica.
tone per
operare una
un nuovo
Nicolò Cusano, Marsilio Fi'cin0, Giordano Bruno
35
ragioni che hanno spi.nto il Ficino verso il platonifare di smo e a esso la sua arma principale a difesa del cristianesimo: l) ll dilagare del naturalismo e del razionalismo in molti ambienti umanistici, dove si metteva in dubbio l'immortalità dell'anima e la provvidenza divina. Nella sua polemica antinaturalistica e a sostegno dei valori spirituali, Ficino trovava nel pensiero platonico ottimi argomenti a favore dell'immortalità dell'anima, della esistenza di un mondo e di una giustizia ultraterreni e della provvidenza divina. «Penso scrive il Ficino che sia stato disposto dalla divina provvidenza che anche le menti pervertite di molti che non cedono facilmentealla sola autorità della legge divina, siano convinti dalle ragioni platonichc che suffragano la religione (...) e che coloro i quali pensano solo a quelie cose che riguardano il corpo e infelicemente antepongono le ombre delle cose alle cose stesse, spinti dalle concezioni platoniche finiscano per anteporre le cose alle ombre»? 2) Una certa insofferenza verso gli schemi dell’aristotelismo in cui si era irrigidita la Scolastica, dogmatizzandoe ponendo la filosofia in una posizione di dipendenza dalla teologia. Questa insofferenza del Ficino rivela uno stato d'animo comune a molti studiosi del suo tempo, ma egli è il primo che, dopo la polemica tra platonici e aristotelìci, vede la possibilità del rinnovamento delìa teologia, in un ritorno a Platone e al neoplatonisino e imbocca coraggiosamente questa strada. Ma Platone «è ripensato dal Ficino attraverso la rielaborazione plotiniana, più vicina certo, col suo interno dinamismo dialettico, all'esigenza spirituale del cristianesimo che non la pura dottrina intellettualistica di Platone. Plotino insegna al Ficino la verità del duplice atto, per cui nessun ente perfetto resta immutabilesolo con se stesso ma, mentre resta in sé, emana e trapassa in altro, è infine se medesimo e l'altro. Così il divino, uno in se’ e trascendente, è anche l'anima, è anche il cosmo, e l'anima e il cosmo a loro volta si divinizzano interiormente. Nasce così una visione cosmica e spirituale che fa insieme appello alla trascendenza e all’immanenza (o interiorità): l'universo è paragonato a un cerchio il cui centro è Dio e la cui superficie non è che il centro medesimo nel suo dinamismo e sviluppo; Dio è detto è interno a ciascun essere più che esso non sia a se medesimo; l'uomo, infine, è il microcosmo, che in sé ritrova le note di perfezione del macrocosmo, ed è la realtà tutta nel farsi presente a se stessa. Centro dell'universo è Dio, ma dal punto di vista della ricostruzione speculativa dei gradi e delle forme" dell'essere, è anche l’uomo: si attua col Ficino una visione antropocentrica del mondo».33 Due sembrano le
-
-
37) Theologia platonica XIV, 54
C. CARBONARA, ”Umanesimo”, in 1378-1379.
CC.
-
-
Enrirlopedili Filosofica lV, Firenze 1957,
36
Parte prima
IL CRISTIANESIMO DI FICINO
Sul cristianesimo di Ficino sono state dette molte inesattezze. A causa del suo eccessivo entusiasmo per Platone, alcuni studiosi hanno messo in dubbio la sincerità e l'autenticità della sua fede cristiana. L0 hanno accusato di avere preferito Platone a Cristo, Socrate, Pitagora, Plotino ai santi del cristianesimo. Ma queste accuse sembrano totalmente gratuite e infondate. L'unico obiettivo di tutta l'opera di Ficino non fu convertire il cristianesimo al platonismo, bensì mettere Platone al servizio del cristianesimo così come aveva fatto S. Tommaso con Aristotele. Indubbiamente Ficino rese Platone più cristiano di quello che fu in realtà. Cosi per es. trattando della Trinità mentre per un verso dichiara che nei testi platonici di questo mistero non si parla mai esplicitamente, per un altro verso ammette che vi si incontrano clementi che in qualche modo alludono al mistero trinitario. Inoltre c'è indubbiamente in Ficino un abuso del linguaggio platonico. Così per esempio quando afferma che Gesù Cristo non fu altro che l'idea divina resa manifesta agli occhi umani (divina ipsa idea virtutum humarzis oculis manifesta). Ma Yortodossia di Ficino è al di sopra di ogni sospetto. Nella Theologia platonica egli dichiara: «In omnibus quae hic aut alibi a me tractantur, tantum assertum esse volo quantum ab Ecclesia COÌHPTÙÙGÌHT (In tutti gli argomenti che Vengono da me studiati qui o altrove, intendo che è stato sostenuto solamente quanto è approvato dalla Chiesa)». Nel De christiana religione ribadisce più Volte l'idea che maestro della Vita non è Platone, di cui egli non può essere che un maestro inferiore; il maestro vero e autentico è Gesù Cristo. Ciò che di valido e salutare è stato detto da Pla— tone e dagli altri filosofi, non è accaduto senza la grazia del Signore. Quanto profondo e sincero fosse il suo impegno religioso Ficino lo fece intendere, in una sua lettera, allorché invitato a difendere la religione cristiana, rispose che lo faceva volentieri: «non quia religio huiusmodi defensoribus egeat (...) sed auia tunc solum feliciter vivere, ima tunc solum viziere mihi’ videar cum de divinis scriba et loquor aut cogito (non perché una tale religione abbia bisogno di difensori, [...] ma perché solo allora mi sembra di vivere felicemente, anzi solo allora mi sembra di vivere quando scrivo e parlo o medito sulle cose divine)».39 DIGNITÀ DELL'UOMO E IMMORTALITÀDELL'ANIMA Sostanzialmente cristiana è la concezione che Ficino ha di Dio, dell'uomo e dell'universo, anche se trattando di questi argomenti il suo ricorso al linguaggio dei neoplatonici è molto insistente. Per Ficino Dio,
39)
Cf. "Ficin", in DTC V / 2, 2286-2290.
Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
37
che per il neoplatonismo era l'Uno semplicissimo, assolutamente imper» come insegna il cristianesimo, in persona autoco-
sonale, si trasforma, sciente che, nella sua
infinità, conosce il tutto in sé come causa prima del
con Plotino che le cose ex Deo rrzariant, ma la emanazione ha i caratteri della creazione, come atto che trova le sue radici nella sapienza e nella bontà di Dio. Inoltre, mentre l'Uno plotiniano dimora beato nella sua solitudine e non si cura del mondo che deriva da lui, il Dio ficiniano ama le sue creature, le illumina, infonde in esse la grazia ed egli stesso si incarna, diventando l'Uomo-Dio. L'uomo, partecipe a un tempo del mondo spirituale grazie all'anima e di quello materiale, grazie al corpo è a suo modo tutte le cose, è copula mandi, vera aniversoram conaexio, è il microcosmo. Egli infatti imita Dio con l'unità, gli Angeli con l'intelletto, la specie propria dell'anima con la ragione, gli animali bruti col senso, le piante col nzitrimerzto, le cose inanimate col semplice essere.” L'uomo dell'universo gode di una particolare dignità e questa è riposta essenzialmente nella libertà di cui l'anima è dotata e per cui l'uomo, invece di trovarsi confinato in una determinata sfera dell'essere, può, volendo, diventare tutto, e può ascendere fino a Dio. Del problema dell'immortalità dell'anima, problema dibattutissimo nella seconda metà del Quattrocento, Ficino si occupa per esteso nei suoi Tlzeologia platonica de immortalitate arriiirorirm libri XVIII. Contro gli aristotelici della linea averroistica che negavano l'immortalità dell'anima personale, Ficino adduce moltissimi argomenti a favore della tesi contraria, in particolare la libertà (IX, 4), la tensione verso l'infinito (XIV, 5), l'aspirazione a esistere sempre (XIV, 5), lo sforzo di diventare tutte le cose (XIV, 3). E così l'anima pur mescolandosi con le cose mortali, resta in se stessa immortale. «Infatti, come essa si inserisce tutta intera, così tutta intera si ritrae, senza disperdersi. E poiché, mentre regge i corpi, resta ancora attaccata alle cose divine, è signora dei corpi, non compagna. Questo è il miracolo più grande che si dia in natura. Infatti, mentre le altre cose che sono al di sotto di Dio sono singolarmente ciascuna una sola cosa, questa è tutte le cose insieme. Possiede in sé l'immagine delle cose divine da cui essa stessa dipende, ma delle cose inferiori possiede le ragioni e i modelli, che essa stessa in certo modo produce. Ed essendo nel mezzo di tutte le cose, possiede le forze di tutte le cose. Che, se è così, penetra in tutto. E perché essa medesima è il vero e proprio legame dell'universo, mentre passa in altro non abbandona ciò in cui si trova, ma si trasferisce di cosa in cosa e tutto sempre conserva, cosicché a cagione può dirsi centro della natura, medietà di tutte insieme le cose, serie del mondo, volto del tutto, nodo e congiunzione del mondo» (III, 2).
tutto. Ficino afferma tuttora
sua
4”) Cf. De cliristiana religione, c. 16.
38
Parte prinza
Queste le linee essenziali del pensiero ficiniano. Ma la concezione neoplatonica dell'essere, portando il Ficino a vedere nel cosmo forze di
psichica, 10 condusse altresì alle soglie dell'astrologia e della dal cui fascino egli fu senza dubbio conquistato. E poiché come magia, medico usava delle preghiere come di un mezzo curativo e credeva all'influenza degli astri, fu accusato di negromanzia sotto Innocenzo VIII
natura
(1484-1492), e fu costretto a difendersi con una Apologia. INFLUSSO DI FICINO SUI
POSTERI
Vasta risonanza ebbe il pensiero di Marsilio Ficino negli ambienti filosofici, artistici e letterari italiani del Cinquecento: in particolare su Michelangelo in arte e Giordano Bruno in filosofia. Però il progetto per cui egli aveva tanto assiduamente c calorosamente lavorato: creare una nuova sintesi tra platonismo e cristianesimo, ebbe più ammiratori che seguaci. Tuttavia egli riuscì a creare uno spirito, «segnalo i pericoli dell’um anesimo dotto, indicò un orientamento nuovo, e questo spirito che, già durante la sua vita, si diffuse in Italia, Germania, Francia, vi ispirò
pensatori e artisti, penetrò profondamente nell'umancsimo modifican-
done le tendenze e le manifestazionbifll Il più illustre discepolo di Ficino fu Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), il quale ebbe in comune col suo maestro l'obiettivo di rinnovare il pensiero cristiano riconducendolo a Platone e ai neoplatonici. Come Ficino, Pico aveva una grande preparazione filologica ma lo superava per acutezza di ingegno e forza sistematica. Purtroppo la brevità della sua esistenza non gli consentì di realizzare i suoi ambiziosi progetti. Il suo capolavoro filosofico-teologicoè costituito dalla celebre orazione De hominis dignitate, forse il più alto documento della speculazione umanistica sull'uomo. Pico esalta l'uomo perché la sua essenza spirituale si attua nella libertà delle scelte e delle determinazioni. «O suprema liberalità di Dio padre! O suprema e mirabile felicità dell'uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto ciò che avranno. Gli spiriti superni o dall'inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio».
41)
P. lMBART DE LA TOUR, Les origines de la
Reformc, Paris 1909, II, p. 337.
Nicolù Cusano, Marsilio F icino, Giordano Bruno
39
L'uomo, dunque, per la sua capacità di conoscere la verità e di fare il bene è creato a immagine e somiglianza di Dio, libero di autogestirsi e di modellarsi. È perciò microcosmo del macrocosmo. Tuttavia, come ri-
sulta dal brano Citato, tale
posizione di
un
umanesimo teocentrico fini-
per esaltare esclusivamente la singolare grandezza dell'uomo a spese della sua umiliante miseria: sfocia cosi in un ottimismo antropologico molto pericoloso che, a un certo punto genererà quell'uomo prometeico e faustiano che crederà di poter fare a meno di Dio. sce
Giordano Bruno VITA E
OPERE
Filippo Bruno nacque a Nola nel 1548. Fu «in Napoli a imparar littere de umanità, logica e dialettica sino a 14 anni», Sui quindici anni entrò in Napoli nel convento di San Domenico, nell’Ordine dei Predicatori,prendendo il nome di Giordano, che mantenne per tutta la vita. Poco dopo l'ordinazione sacerdotale fu istruito contro di lui un processo d’eresia. Allora, temendo di essere messo in prigione, se ne andò da Napoli e arrivò a Roma, nel convento di Santa Maria sopra Minerva. Ma le notizie giuntegli da Napoli sull’aggravarsi delle accuse contro di lui e il timore di essere incolpato di un assassinio commesso in Roma da un altro frate, l’indussero a fuggire anche da Roma deponendo l'abito. Si recò prima a Noli, quindi a Savona, a Torino e a Venezia, dove fece stampare «un certo libretto, intitolato Dei segni dei tenrpi», che e andato perduto. Lasciò l'Ordine Domenicano nel 1576 per Contrasti dottrinali. Si rifugio quindi in Svizzera, poi in Francia, Inghilterra, Germania e, infine, a Venezia, dove era stato invitato da Giovanni Mocenigo, che desiderava essere istruito da lui nella mnemotecnica (tecnica per rafforzare la memoria) di cui il Bruno era grande esperto e su cui aveva pubblicato varie opere, tra cui il De umbris idearum. Ma il Mocenigo, insoddisfatto dell'insegnamento ricevuto, lo denunziò al Sant'Uffizio per le dichiarazioni eretiche fatteglì. interrogato dall'lnquisizione veneta, Bruno chiese perdono delle sue eresie e dubbi e promise di «far riforma notabile della sua vita». Senonché il Sant'Uffizio chiese e ottenne che il Bruno fosse inviato a Roma dove, rinchiuso nelle carceri, fu lungamente e a molte riprese interrogato per un periodo di otto anni. Quando gli furono contestate proposizioni precise, il 21 dicembre 1599 il Bruno rispose di non riconoscervi eresia e di non sapere che cosa dovesse ritrattare; allora papa Clemente VIII ordinò di rompere gli indugi e affrettare la sentenza. L'8 febbraio 1600 gli Inquisitori pronunziarono la sentenza: come eretico impenitente, il Bruno doveva essere degradato da tutti gli ordini ecclesiastici, scacciato dalla Chiesa e rilasciato alla Corte del Governatore di
Parte prima
40
Roma "per le debite pene". Poiché la pena per gli eretici impenitenti era il rogo, il Bruno fu arso in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600. La fermezza mostrata nel lungo processo romano e Yintrepidezza con cui salì al rogo ne fecero un martire del libero pensiero e, come tale, fu variamente celebrato lungo i secoli. La vasta produzione letteraria del Bruno si concentra nel decennio
abbraccia testi in prosa e in poesia, opere latine e italiane. Fondamentali per il suo pensiero metafisico sono il De I ‘infinito universo e mondi e il De immenso (versione ìatina dell'opera precedente). Altre opere importanti sono il De la causa, principio e [H10 che e il proe La cena delle ceneri che è il preprologo, come pure logo al De bestia la trionfante e Degli eroicifurori. Di grande interesse per la Spaccio de conoscenza del suo pensiero metafisico ‘e anche la Summa terminorum
che
va
dal 1582 al 1592
e
l'infinito
nzetaphysicorum.
lL NEOPLATONISMO DI GIORDANO BRUNO
Nel linguaggio filosofico, nella speculazione metafisica e nella cosmovisione Giordano Bruno è un neoplatonico. Ma con lui il neoplatonismo fa registrare un ulteriore distacco dalla prospettiva teocentrica della metafisica cristiana e un deciso avvicinamento a quella antropocentrica della metafisica moderna. Mentre in Cusano il neoplatonismo era ancora posto interamente al servizio della metafisica cristiana e il Ficino continuava a essere un suo socio leale e fedele, in Bruno il divorzio dal cristianesimo è completo. «L'universo disegnato dalle pagine bruniane non ha davvero più nulla di cristiano» (C. Vasoli). Per il Bruno il mondo non è soltanto l'emanazione di Dio ma Dio stesso. In questa realtà, che è al tempo stesso principio e conseguenza, causa ed effetto di un unico processo, il rapporto tra il mondo naturale e Dio non ‘e certo più la ìibera creazione, bensì una pura manifestazione eternamente espressa nella identità infinita della natura. O, come è detto in un famoso testo bruniano che ben illumina sulla nuova concezione della infinità, maturata sulle orme del Cusano, e che diventa il pilastro portante di tutto il suo edificio metafisico: «bisogna che di un inaccesso volto divino sia uno infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si ritrovino mondi innumerabili».Nasce così a Conclusione di una delle più singolari esperienze del pensiero umanìstico, l'idea della perfetta corrispondenza e anzi identità tra l'ordine della natura e il dispiegarsi dell’intima vita divina o, per meglio dire, di un eterno fluire dall'Uno assoluto degli aspetti contingenti della realtà e del loro circolare ritorno alla
propria origine. La docta ignorantia del Cusano,
a salvaguardare l’insondabile di cui si era nutrita la trascendente mistero della natura divina, e l'attesa
tesa
Nicolò Cusano, Marsilio Ficiiio, Giordano Bruno
41
religiosità platonica del Ficino si mutano nella piena coscienza dell'uniorizzonte in cui si svolge il destino umano, della sola realtà che in sé tutto Comprende e risolve. «I veri contemplatori della natura scrive il
co
-
liberi ormai da vana ansia e stolta cura del bramar lontano», possono riconoscere così nel presente e nel loro impegno di uomini, la Vera norma morale. E l'individuo che "per essenza è Dio" ed è anzi tutt'uno con la divinità ritrova nel ritorno alla sua natura divina e nella consapevolezza del suo appartenere a "l'essere di tutte le cose", il significato di una potenza infinita la cui opera non può avere limiti o confini. «lo tengo un infinito universo, cioè effetto dell'infinita divina potentia, perché stimavo cosa indegna della divina bontà e potentia che, possendo produr oltre questo mondo un altro mondo ed altri infiniti, producesse un mondo finito». Mentre in Plotino l'identificazionecon l’Uno era il risultato del mistico regresso dell'anima al suo Principio, in Bruno l'i.dentificazione è la conseguenza della infinita divina potenza che fa sì che i suoi effetti siano tutti divini. Pertanto nella metafisica bruniana non esiste alcun divario tra complicazione ed esplicazione delle cose: l’Uno rimane sempre identico a se stesso. Bruno
-
-
-
IL METODO Il metodo filosofico di Giordano Bruno non è né il metodo assiomatico—deduttivo dei neoplatonici né il metodo empirico—induttivo degli aristotelici, bensì il metodo dialogico tanto caro a Platone e che il Nolano pratica egregiamente in molti suoi scritti. intenzionalmente però vorrebbe essere un procedimento risolutivo, come il Bruno lascia chiaramente intendere da un passo significativo del De la causa, principio c una: «Voglio che apprendiate più capi di questa importantissima scienza e di questo fondamento solidissimo de le veritadi e secreti di natura. Prima dunque, voglio che notiate essere una e medesima scala, per la quale natura discende alla produzione de le cose, e l'intelletto ascende alla cognizione di quelle; e che l'uno e l'altra de l'unità procede
all'unità, passando per la moltitudine di mezzi (...). Aggiungi a quel
che è detto che,
quando l'intelletto vuol comprendere l'essenza d'una cosa, simplificando quanto può; voglio dire, dalla composizione e moltitudine se ritira, rigettando gli accidenti corrottibili,le dimensioni, i segni, le figure a quello che sottogiace a queste cose. Così la lunga scrittura e prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione a una semplice intenzione. L’intelletto in questo dimostra apertamente come ne l'unità consista la sostanza de le cose, la quale va Cercando o in Verità o in similitudine Quindi è il grado delle intelligenze: perché le inferiori non possono intendere molte cose, se non con molte specie, similitudini e forme; le superiori intendono megliormente con poche; le altissime con pochissime, perfettamente. va
42
Parte prima
in una idea perfettissimamente comprende il Mente divina la e l'Unità assoluta, senza specie alcuna, è ella tutto; medesimo 10 che intende e lo ch'è inteso. Cosi dunque, montando noi alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine; come, descendendosi alla produzione de le cose, si va esplicando la unità. Il descenso è da uno ente a infiniti individui e specie innumerabili,lo ascenso è da questi a quello>>flî
La
prima Intelligenza
Ma la logica in Bruno ‘e spesso sopraffatta dalla retorica e così, nella storia della filosofia e della metafisica egli viene ricordato piuttosto per 1’audacia delle affermazioni e la ricchezza della immaginazione che per le conquiste del suo giudizio e per la felice scoperta della verità. In lui
l'intuizione prevale sultargomentazione e il suo filosofare non segue nessun ordine preciso ma esplode Vulcanicamente sotto l’impeto del momento. Di qui il severo giudizio di Hegel su Bruno:
«Ciò che contraddistingue i suoi svariati scritti è da un iato il bell'entusiasmo di un’ani1na nobile, che sente in sé irnmanente lo spirito e ha coscienza che l'unità del suo essere costituisce l'intera vita del pensiero. C'è del baccantico in questo modo di cogliere questa profonda coscienza; trabocca per farsi oggetto a se stesso ed esprimere questa ricchezza. Ma soltanto nel sapere lo spirito può generare se stesso come un tutto; sino a che non ha ancora raggiunto questa coscienza scientifica, Cerca soltanto di afferrare tutte le forme senza poterle ordinare convenientemente. Una ricchezza svariata ma disordinata di tal fatta ci porge appunto Bruno, e perciò le sue esposizioni pigliano spesso un aspetto torbido, confuso, allegorico di fanatismo mistico. Molti suoi scritti sono in versi, e vi si trova molto di fantastico, come quando in un suo libro, lo Spaccio della bestia trionfante dice che al posto delle stelle bisognerebbe metter qualcos'altro. Al suo grande entusiasmo interiore egli sacrifica i suoi interessi personali; ed esso non gli dà requie. E presto detto: ”una testa inquieta che non è stata in grado di reggere se stessa”. Donde questa insoddisfazione? Egli non poteva adattarsi al finito, al male, all'ordinario. Di qui la sua inquietudine. Si sollevò all'unica universale sostanzialità, superando quella separazione dell’autocoscienza della natura che le rabbassa entrambe. Dio era bensì nell’autocoscienza, ma dall'esterno e insieme come un altro rispetto a lui, era un'altra realtà, la natura fatta da Dio, sua creatura, non sua immagine».43
causa, principio e mio, dialogo quinto, a cura di C. Licitra, Firenze 1925, pp. 86-89. G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia dellafilosofia, Firenze 1934, V0l. III, p. 215.
42) De la 43)
Nicolò Cusarzo, Marsilio Picino, Giordano Bruno
43
Tuttavia, benché l'intuizione e l'entusiasmo in Bruno abbiano il sopravvento sul pacato raziocinio e sul rigore dell'indagine scientifica, non v'è dubbio che egli mostrava un grande apprezzamento per la
scienza e per la ricerca scientifica. Apprezzava specialmente la nuova concezione eliocentrica di Copernico e la difese ardentemente contro la vecchia concezione geocentrica di Aristotele e Tolomeo. Ma è anche evidente che il Nolano si schierava con Copernico contro Aristotele più per ragioni filosofiche che scientifiche. Secondo lui la dottrina copernicana era sufficiente a consentire l'accesso a una nuova e vera contemplazione della natura.
IL LINGUAGGIO METAFÎSICO Il linguaggio metafisico del Bruno è spiccatamente neoplatonico, con importanti prestiti mutuati dal Cusano. Per introdurci nel suo pensiero metafisico è bene dare un'occhiata al suo dizionarietto filosofico, Summa terminorunz metaphysicorirrrz/A In questo scritto infatti Giordano Bruno espone i termini chiave della metafisica così come sono intesi da lui stesso nella sua concezione del mondo. Molto eloquenti sono le sue definizioni di Sostanza, Verità, Quantità, Necessità, Trinità, con riferimento a Dio. Sostanza Dio, dunque, è sostanza universale nell'essere, sostanza per cui tutte le cose sono, essenza fonte di ogni essenza, per cui è tutto ciò che ‘e, intima a ogni ente più che la propria forma e la propria natura possa essere a ciascuno. Come infatti la natura è fondamento di entità a ciascuna cosa, così, più profondamente, alla natura di ciascuna cosa è fondamento Dio. Perciò è ben detto "in esso viviamo, vegetiamo e siamo", perché è vita della vita, vegetazione della vegetazione, essenza della entità. «-
-
Verità Per la verità di Dio tutte le cose sono vere, perché se Dio non fosse veramente, niente sarebbe vero, onde egli è la stessa verità, dalla cui fonte le altre cose più e meno, più.in alto e più in basso sono nell'ordine delle cose secondo che della sua verità più o meno partecipano. E quanto più si allontanano da lui le cose, avvicinandosi al gradino più basso della scala di natura, meno hanno di verità e più di vanità, fino al fondo della scala, che e detto vanità, male, tenebre: semplicemente, però, il vano non è nulla di positivo, ma solo contrario al vero. -
44)
-
Una traduzione parziale di quest'opera e stata curata da C. Guzzo per la Grande enciclopediafilosofica, vol. VI. E di questa traduzione che ci siamo serviti nel presente capitolo.
44
Parte prima
-
Quantità
—
Dio infinito di infinita
potenza, sapienza e bontà,
in
uno
lui soggetto, sufficientissimamente fecondo e feconda un'infinita potenza suscettrice, sicché, come egli è infinito intensivamente, intero e in ogni luogo, così anche secondo la capacità si trovi un infinito corporeo e materiale, che con varie parti e in vari luoghi riempia lo spazio e soddisfi l'appetito della materia.
spazio infinito a
Necessità La volontà di Dio ‘e la stessa necessità e la necessità è la stessa divina volontà, nella quale la necessità non pregiudica la li-
-
-
perché necessità e libertà sono una cosa sola. Che la necessità è necessità alla necessità, e ancora sopra la necessità non C'è necessità, come sopra la libertà non c'è libertà. In Dio, dunque, la libertà fa la necessità e la necessità attesta la libertà. Che quello che l’immutabilesostanza vuole, lo vuole immutabilmente,il che è volerlo necessariamente. Ma poiché non vuole necessariamente per una bertà,
non
volontà aliena che faccia necessità, bensì per propria volontà, lungi dall'essere questa necessità contro la libertà, sono piuttosto una e medesima cosa la stessa libertà, volontà e necessità.
Trinità. È diffuso presso i platonici il paragone, appreso dagli egiziani, per il quale la divinità abbraccia in un'unità una triade soprannaturale, nello stesso modo che nel sole c'è sostanza, luce e calore, e queste tre cose contempliamo in esso in duplice modo. C'è infatti la sua sostanza assoluta, propria e per sé, e c'e il vestigio della sua sostanza, col quale il padre della generazione costituisce sostanzialmente le altre cose. C'è poi la luce, radicata nella sua sostanza che, perseverando in lui immobile, effonde; e c'è la luce che è effusa e comunicata e attinge tutte le cose esteriori vivificandole. E ancora c'è il calore che, nel subietto, è suo accidente proprio, e anche è calore ciò che si effonde dal subietto, e dal vestigio è ritrovato nelle cose riscaldate secondo la capacità di ciascuno. Così nella semplicità della divina sostanza queste tre cose possiamo contemplare secondo similitudine (...). Nondimeno per la necessità e l'ordine della contemplazione, ammettiamo nella divinità tre cose, da speculare distintamente secondo la capacità di comprensione del nostro ingegno: l'essenza secondo le predette ragioni, per la quale parlavano di ”paternità” della divinità, l'intelligenza, quasi primo effetto di tanta essenza, chiamavano Figlio coeterno; l'amore, che grazie al concepimento della bellezza perspicua in sì gran prole, chiamavano gran demone». -
Benché queste definizioni eccettuata quella della quantità non si allontanino gran che dall'insegnamento tradizionaledella metafisica cristiana, nelle intenzioni del Nolani) subiscono una inflessione chiaramente panteistica: Dio è la sostanza di tutto, è la verità di tutto; tutte le cose procedono da lui necessariamente, e la Trinità è una distinzione puramente modale all'interno dell’Uno che a seconda del punto di vista può essere detto sostanza, luce, calore, vale a dire Padre, Figlio e Spirito (” gran demone"). —
i
-
Nicolò Cuscino, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
LA
45
METAFISICA DELUINFINITO
L'asse portante di tutto l'edificio metafisico del Bruno è costituito dal concetto di infinito, un concetto non nuovo ma che nel Nolano assume un significato rivoluzionario. Già Scoto aveva fatto dell'infinito il costitutivo metafisico di Dio e Cusano l'aveva considerato il primo e principale attributo del Massimo. La grande novità del Bruno è che l'infinito diviene un attributo oltre che di Dio anche della natura, del mondo e di innumerevoli altre realtà. Noi sappiamo che problema capitale della metafisica è quello di coniugare l'uno col molteplice, il tempo con l'eternità, l'ente con l'essere, il finito con l'infinito. Molte le soluzioni che sono state avanzate: partecipazione, creazione, emanazione, coincidenza, complicazione, divisione ecc. Bruno taglia il nodo gordiano eliminando il finito e infinitizzando tutto: ogni realtà oltre che di Dio è partecipe del suo attributo dell'infinità. L'opposizione tra finito e infinito viene eliminata con la soppressio— ne del finito, facendo di esso una irradiazione dell'infinito stesso, che non si moltiplica dividendosi e limitandosi ma clonandosi. «Dite che quel tutto, che si vede di differenza negli corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre propritadi e comunitadi, non e altro che un diverso Volto della medesima sostanza». L'infinito implicato nella divina sostanza viene esplicato in questo suo simulacro infinito che è l'universo, capacissimo di innumerevoli mondi, e non già nelle anguste forme di una natura finita. Quello dell'infinito è tema dominante di molti scritti del Nolano, ma in particolare di due dialoghi: Della causa, principio e mio e De l ‘infinito universo e mondi. Nel primo si parla dell'infinito in quanto complica in se l'opposizione di materia e forma; nel secondo si presenta l'infinito che si esplica nella ricca e innumerabile varietà della natura. Leggiamo un passo del De la causa, principio e uno in cui la concezione bruniana dell’Infinito viene esposta in tutta chiarezza.
«È dunque l'universo uno, infinito, immobile.Una, dico, è 1a possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo e ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e però infinibilee interminabile, e per tanto infinito è interminato, e per conseguenza immobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé, ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia Non può sminuire né crescere, atteso che è infinito; a cui si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che l'infinito non ha partì proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno da cui patisca e per cui venga in
ogni cosa.
come non
Parte prima
46
qualche affezione. Oltre che,
per
comprender tutte
contrarietadi nel-
avere suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione di mutazione ad altro e altro modo non esser lo né secondo aver contrario 0 non è in lui è cosa concorde. Non è materia,
l'esser
qualità
d'essere, alcuna, può
può
soggetto
poter
diverso, che
alteri,
figuraperché ogni perché to, né figurabile;non è terminato né terminabile. Non è forma perché informa, né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo. Non è misurabile né misura. Non si Comprende, perché non
non
è maggiore di sé. Non si è compreso, perché non è minore di sé. Non si agguaglia, perché non è altro e altro, ma uno e medesimo. Essendo medesimo e uno, non ha essere ed essere, non ha parte e parte; e perciò che non ha parte e parte, non è composto. Questo è termine, di sorte che non è termine; è talmente forma che non è forma; è talmente materia che non è materia; è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno. ln questo certamente non è maggiore l'altezza che la lunghezza e profondità; onde per certa similitudine si chiama, ma non è, sfera. Nella sfera, medesima cosa è lunghezza che larghezza e profondo, perché hanno medesimo termine; ma nell'universo medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno mezzo, quadrante e altre misure, se non vi è misura, non vi è parte proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal tutto. Perché se vuoi dir parte dell'infinito, bisogna dirla infinito; se è infinito, concorre in uno essere con il tutto: dunque l'universo è uno, infinito, impartibile (...). Dunque l'individuo non ‘e differente dal dividuo, il simplicissimo da l'infinito, il centro da la circonferenza. Perché dunque l'infinito è tutto quello che può essere, è immobile;perché in lui tutto è indifferente, è uno; e perché ha tutta la grandezza e perfezione, che si possa oltre ed oltre avere, è massimo, ottimo, immenso>>nî5
L'infinito del Bruno non è un cielo opaco in cui non si scorge più nesstella, né la notte buia di cui parla Hegel, in cui tutte le vacche sono nere. Non è un tutto caotico ma ordinatissimo. Ogni cosa vi è presente con tutta la ricchezza delle proprie perfezioni, e tale ricchezza è dovuta al fatto che nessuna parte differisce dal tutto, perché è parte dell'infinito. Così «la forma è talmente forma che non è forma, la materia è talmente materia che non è materia, e l'anima è talmente anima che non è anima». L'infinito è infinito perché abbraccia tutto, e ogni parte è infinita perché è una "clonazione" dell'infinito. Tutto è infinito ma ogni cosa lo è a modo suo. Con un'operazione di estrema sintesi e semplificazione il Bruno nel suo infinito riunisce tutto ciò che in questo mondo è composto e diviso; egli eleva e unifica tutta la realtà in un unico punto centrale, «massimo,
suna
45)
De la causa, principio c uno,
dialogo quinto, cit., pp. 78-80.
Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
ottimo, immenso». Quella del Bruno è
una
47
potente suggestione mistica
che contrasta oltre che con l'esperienza comune anche con l'indagine scientifica che scruta la realtà atomizzandola piuttosto che eliminando differenze e divisioni. LA
VISIONE COSMOLOGICA
Più che una henologia o una ontologia la metafisica del Bruno è una infinitologia. Però più che dell'infinito generante, Dio, egli si occupa del-
l'infinito generato, l'universo. Così, sostanzialmente la metafisica del Nolano è una cosmologia che si contrappone volutamente e drasticamente alla cosmologia aristotelica. Contro la cosmologia di Aristotele sono diretti i primi quattro dialoghi di De l'infinito, universo e mondi. La sua critica e rivolta soprattutto aîla immobilitàdella terra, al Motore immobile, alla gerarchia dei motori subordinati alla distinzione di una realtà sublunare da una superiore. Il suo universo è infinito, immobile,immenso ed è costituito di «molti e infiniti mondi», che si muovono in uno spazio infinito. E come l'universo è mosso da un'anima intellettiva universale, la Mente divina, così ciascuno degli astri o mondi ha la propria anima intellettiva e, in ogni mondo, ciascuna cosa, anche se apparentemente inanimata, ha propria anima e intelligenza, che la plasma e le provvede. L'anima vivifica la materia dal di dentro; anzi anima (forma) e materia non sono due sostanze che si uniscono: il Nolano le riduce a "uno essere e una radice", perché la materia stessa produce le forme che via via assume. Propriamente le forme sono infinite, per riempire l'infinito spazio ed essere l'infinita genitura dell'infinito generante, che il Bruno concepisce come l'Uno plotiniano e che chiama col nome di Mente sopra le cose, distinguendo concettualmente tale Mente sopra le cose, o Dio, dalla mente nelle cose, che e Faverroistico Intelletto datore delle forme, inteso come una facoltà dell'Anima universale, a sua Volta intesa come interna all'universale materia, sempre naturalmente animata. Secondo Bruno tutti i mondi sono abitati da esseri viventi:
«Questi
che essi
sono
son
gli mondi abitati e colti tutti da gli animali suoi, oltre gli principalissimi e più divini animali dell'universo; e
ciascun d’essi
cui
ne
non
e meno composto di
quattro elementi che questo in
ritroviamo; benché in altri predomini una qualità attiva, in altri
sono sensibili per l'acqua, altri son sensibili per il foco. Oltre gli quai quattro elementi che vegnono in composizione di questi, è una eterea regione, come abbiamo detto, immensa, nella qual si muove, vive e vegeta il tutto. Questo è l’etere che contiene e
altra; onde altri
penetra ogni cosa».4ò
4*‘)
De l'infinito, universo e mondi, dialogo quinto.
Parte prinza
48
C'è all'interno dell'universo una energia plasmatrice che Bruno chiama Monade. Ad essa è dedicato il poema omonimo. Egli vi rappresenta questa forza originaria nelle sue diverse manifestazioni creatrici. «Opera della natura dice il Bruno è ogni circolo, qualsiasi impulso, moto, forza, azione, passione, senso, cognizione, e vita; in quanto centro è anima che si trova ovunque diffusa, mentre ad essa tendono tutte le cose come la sfera al centro».47 La natura, secondo Bruno, si presenta come circulzis, come fatum, come lex, come circolo massimo illimitato, come minimo che sostiene tutto, come spazio unico, per il fatto stesso che e dato senza limite. L'universo è interamente mosso da questa forza poderosa, che provoca i mutamenti nella fisionomia costante dello spazio infinito, che è «alous zmus, (imnia concipieizs, aeternitas Ima simul atque perfecta onmia possiderzs, —
-
tempus 14mm: motus quietisque omnia nlzerzsura (unico ventre che concepisce ogni cosa, eternità unica e nello stesso tempo perfetta che possiede ogni cosa, unico tempo misura del moto e di ogni quiete» e che coincide con la Monade, vale a dire con Dio)>>.43 Poiché tutto è, nell'universo, animato e razionale, l'uomo è per il
Bruno
una
delle forme che
assume
luniversale natura, tutta animata e
tutta intelligente. Da ciò non deriva un abbassamento dell'uomo a natu— ra, ma un innalzamento dell'intera natura a ciò che si ‘e soliti ritenere i
pregi particolari dell'umanità. Quindi Pindustriosa civiltà che gli uomini creano con il loro ingegno e il loro lavoro continua l'opera che tutta la natura fa
LA
con
mirabilearte.
RELIGIONE FlLOSOFlCA
Il sistema metafisico bruniano è ovviamente panteistico, anche se l'interesse del Bruno per Dio, come si e visto, è piuttosto marginale. In effetti la sua attenzione si concentra assai cli più sullfinfinito generato, l'universo, che sul|'infinito generante, la Monade o Mente divina. La religione è, per il Bruno, il contatto e l'adesione al divino che la ragione può compiere risalendo dalla visione delle cose mortali all'unico elargitore supremo, che dà ad esse esistenza e significato; teologia vera, la Con— templazione dell'unica verità dispiegata nella molteplice vicenda dell'universo; conoscenza certa di Dio, la pura visione di quella sola fonte dalla quale promana, in inesauribilericchezza, l'eterno nascere e mutare del tutto. Perciò se il teologo tradizionale, chiuso nella lettura e interpretazione della Scrittura, può comunicare solo agli indotti un'immagine confusa e favolosa di quella divinità che il filosofo invece contempla in
47) Opera latina conscriptn, Napoli 1884, vol. l, pars ll, p. 338. 45‘) Ibid., p. 346.
Nicolò Cusano, Marsilio Picino, Giordano Bruno
49
assoluta chiarezza, il Bruno, in polemica con il "volgo” dei teologi, vuole ridurre le religioni positive al mero compito di leges o discipline pratiche, esaltando l'ascesa razionale della mente, il suo puro volgere lo sguardo alla divina natura delle cose. Autentica religione pertanto è solo la metafisica, non la teologia. Infatti, Dio e il mondo, l'eternità della causa e l'infinita attuale dell'effetto si rivelano al libero filosofo «morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dai nodi de’ perturbanti sensi, libero dal carnal carcere della materia», ed egli «gittate le muraglie a terra è tutto occhio all'aspetto di tutto l'orizzonte», comprende e raccoglie, «contratta in sé» quella divinità che è inutile cercare altrove, nei libri della tradizione o nelle speculazioni dei teologi. Questo Dio cui il Bruno si volge con mistico entusiasmo è appunto l'unità immortale del tutto, la "monade" da cui scaturisce tutto il molteplice, il principio identico e assoluto che è fondamento e ragione dell'universo, vera essenza dell'essere di tutti. Ma proprio perché tale divinità sempre si Comunica agli effetti naturali ed è la natura della natura, l Vmima dell'anima: del mondo, essa è pure al di là e al di sopra di ogni forma particolare e sensibile, di quelle immagini transitorie e mortali nelle quali ha voluto chiuderla la mente limitata dell'uomo. Convinto della legittimità di tutte le forme che assume la vita della natura e dell'umana civiltà, il Bruno non può ammettere modelli a cui sia rigoroso dovere attenersi, né in filosofia (donde la lotta contro la supremazia dell'aristotelismo), né in religione (dove piuttosto riconduce il cristianesimo alla verità universale, nota egualmente a Salomone e a Pitagora, anziché giudicare le altre religioni secondo la loro vicinanza o lontananza dal cristianesimo). Alla lunga vicenda delle religioni e delle fedi, al variare dei nomi e dei culti con cui Dio è stato onorato einvocato, si oppone infatti la nuova esperienza di un sapere che sappia ascendere dalle forme naturali alla divinità «una semplice et absoluta in se stessa», multiforme e omniforme in tutte le cose. Il vero filosofo e il vero religioso, il conoscitore della natura e di Dio si incontrano e si identificano nel processo della mente capace di giungere alla suprema identificazionecol tutto, di unirsi con la Monade eterna.
ÎJINFLUSSO L'influsso del Bruno sulla filosofiamoderna è stato considerevole ma piuttosto saltuario. È molto evidente e marcato in Spinoza e negli idealisti tedeschi, Fichte, Schelling e I-Iegel, che riprendono molte tesi fondamentali del Nolano sui rapporti tra Dio e il mondo (rezatura naturans e natura maturata, finito e infinito, lo empirico e lo puro, Idea in sé e Idea
extra se
ecc).
50
Parte garima
Per quanto concerne Spinoza, egli è ben più ardito del Bruno quando si tratta di descrivere l'unica Sostanza, questa Natura che ‘e, a volta a volta, al di sopra e all'interno dell'universo. Spinoza è sicuro di possedere un'idea adeguata di Dio. Bruno crede che non sia possibile concepire la divinità se non per analogia e in qualche modo approssimativamente. Per entrambiesiste un doppio infinito, quello generante e quello generato. Ma il loro doppio infinito è lungi dal presentare gli stessi caratteri quando lo si esamini più da vicino. Ciò che è reale in Spinoza è la dualità, la molteplicità; l'unità non è che logica e apparente. Grazie all'influenza cartesiana, tra il pensiero e l'estensione dello Spinoza sussiste una differenza cosi essenziale che non si cancella neppure nella Sostanza divina. Al contrario Bruno lascia tutto risolversi in un'unità reale, assolutamente semplice, dotata di un'inesauribilefecondità, unità che è meno
sostanza
che causa, causa eterna, forza universalmente produttri-
ce e sempre attiva. Nel mondo matematicizzatodi Spinoza tutto è determinato more algebrico e tutto sembra ridursi, sotto forma di attributi e di modi, a pure concezioni astratte. Per contro, per Bruno, nulla di più
mosso e di più animato del mondo dei dettagli; le parti più inerti, più insensibili della creazione sono piene di energia e di intelligenza; tutto manifesta dell'anima, della potenza, del calore, della gioia; tutto è canto, festa, culto e amore. Ma è Schelling l'autore che ha assimilato più profondamente il pensiero del Bruno. Questo filosofo idealista non si è limitato ad approfondire le idee del Bruno e delle sue opere, ma ha sviluppato sotto il loro influsso un sistema analogo a quello del Nolano avvalendosi degli stessi strumenti linguistici e concettuali. Egli è, come Bruno, poeta e artista. Il fulgore e la fecondità dell'immaginazione, la ricchezza e la varietà del linguaggio distinguono egualmente l'uno e l'altro. Schelling, come Bruno, mette l'intuizione intellettuale al di sopra degli altri mezzi di conoscenza. Pure il suo Assoluto non differisce dal principio di vita e di forza che costituisce la Monade suprema di Bruno, di questa potenza dinamicache anima il mondo del Bruno, sotto il titolo di anima universale. Egli aveva già assegnato alla metafisica il compito non tanto di provare l'esistenza delle cose invisibilied eterne, quanto di mostrare in qual maniera esse esistano, dove e come si sviluppino. Schelling fa consistere in questa ”Genesi" la funzione principale della filosofia. Ma è particolarmente sull'identità perfetta degli opposti, carattere dell’Assoluto, che i due pensatori si accordano: Bruno lo chiama il punto supremo della coincidenza, Schelling il punto dell'indifferenza. I contrari sono per ambedue dei gradi o degli aspetti di potenze opposte, ma sostenute da un'attività identica e permanente; per ambedue, ogni parte del tutto può diventare tutto, attraversare tutto, salire e discendere in ogni senso, grazie a una certa scala, a un percorso circolare che seguono le idee e le
Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
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cose, e che le riconduce sempre all'unità primitiva. Tuttavia Schelling, essendo stato discepolo di Kant e Fichte prima di esserlo di Bruno e Spinoza, ordina le opposizioni e le classifica seguendo la distinzione che risale a Descartes, quella del soggetto e dell'oggetto. Soggetto e oggetto, pensiero ed esistenza, nozione e cosa, finito e infinito, tutte queste antitesi, comprese sotto i termini di ideale e di reale, si risolvono in un termine superiore, dove si confondono e si uniscono. Una divisione così rigorosa, una classificazione cosi radicale è estranea al Bruno, che forma tante triadi quante diadi e giammai è stato vivamente Colpito dalla op-
posizione fondamentale, tipica della modernità, tra l'io e il non-io. Oltre che sui panteisti l'influsso del Bruno, specialmente in Italia, è stato forte anche su tutti gli avversari della Chiesa e del cristianesimo: sui liberi pensatori, gli anticlericali, i massoni, per i quali egli divenne il profeta, lîspiratore, il modello, il martire.
52
Parte prima
Suggerimenti bibliografici NICOLÒ CUSANO Edizioni: Opera Omnia, ed. Faber Stapulensis, Parigi 1514. È ormai a buon punto l'edizione critica dell'Opera Omnia a cura dell'Accademia delle Scienze di Heidelberg (Lipsia 1932 55.).
Opere filosofiche, a cura di G. Federìci Vescovini, UTET, Torino 1972; Opere religiose, a cura di P. Gaia, UTET, Torino 1972; Scritti filosofici,in tre volumi, a cura di G. Santinello, Zanichelli, Bologna 1972 ss.; La dotta ignoranza. Le congetture, a cura di G. Santinello, Rusconi, Traduzioni italiane:
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(rimane tuttora lo studio migliore). MARSILIO FICINO
Edizioni: Marsilii Ficini Fiorentini Opera, 2 voll., Basilea 1561-1576, rist.
anast. Torino 1962.
Traduzioni italiane: Teologia platonica, a cura di M. Schiavone, 2 voll., Bologna 1966; Il libro dell'amore, a cura di S. Niccoli, Firenze 1987.
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Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno
53
GIORDANO BRUNO Edizioni: Scripta Omnia, a cura di A. F. Gfròrer, Stuttgart 1834 (incompleta); Opera latina conscripta, edizione nazionale a cura di Vari studiosi, Napoli-Firenze 1879-1891, in 3 v011.: di questi volumi il primo è suddiviso in 4 parti, il secondo in 3, mentre il terzo consta di un unico tomo; Opere italiane, a cura di G. Gentile, Bari 1907-1908, in 2 V01l.: I. Dialoghi nzetaflsici; II. Dialoghi morali.
Studi: G. ACQUILECCHIA, Giordano Bruno, Roma 1971; N. BADALONI, Il pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1952; M. CILIBERTO, Lessico di Giordano Bruno, 2 voll., Roma 1979; A. CORSANO, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, Firenze 1940; E. GARIN, Bruno, Roma-Milano 1966; A. GUZZO, Giordano Bruno, Torino 1960; L. OLSCHKI, Bruno, Bari 1927; F. PAPI, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968; I. VECCHIOTTI, Che cosa ha veramente detto Bruno, Roma 1971; F. A. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969.
54
L'INDIRIZZO ARISTOTELICO:
ACHILLINI,NIFO, POMPONAZZI,ZABARELLA, TELESIO
L"'uomo nuovo" e la ”nuova cultura" dell'epoca rinascimentale il XV il XVI secolo sono sorti e si sono sviluppati in diretto contrasto con la Scolastica e contro Aristotele. L'età nuova, così marcatamente antropocentrica, non poteva nutrire grandi ambizioni metafisiche; ciononostante essa favorisce la rinascita del platonismo e un nuovo sviluppo della metafisica platonica. Viceversa sottopone a severa critica Yaristotelismo, specialmente la visione aristotelica del mondo e l'impianto metafisico. Gli stessi seguaci di Aristotele, che sono numerosi a Padova e a Bologna, le due grandi roccaforti dell'aristotelismo averroistico, non si segnalano per un significativo apporto alla metafisica dello Stagìrita. Il loro interesse, come quello di tutti i rinascimentali, si concentra sull’uomo: quasi tutte le loro discussioni riguardano la natura dell'anima umana, l'immortalità, la natura dell'intelletto agente, l'agire umano e quindi l’etica e la politica. Nessuno si occupa del problema dell'essere, pochi del problema di Dio. Così, mentre con il Cusano, Ficino e Giordano Bruno la metafisica platonica rifiorisce e fa segnare ulteriori sviluppi, nulla di tutto questo troviamo tra gli aristotelici. La metafisica che si richiama direttamente ad Aristotele nei secoli XV e XVI scompare quasi del tutto. Tra gli umanisti c'è un vivo interessa anche per Aristotele, ma si tratta prevalentemente di un interessefilologico. Le conoscenze del greco che molti studiosi di quest'epoca acquistano consentono loro di fare nuove edizioni di Aristotele nella lingua originale e di curare nuove e più corrette traduzioni nella lingua latina. Il contributo dei dotti bizantini Venuti in Italia per comporre lo scisma della Chiesa greca è, nel campo delle versioni aristoteliche, determinante: dal Bessarione (traduttore della Metafisica), a Giorgio da Trebisonda (Retorica, Fisica, De anima, De coelo, De generatione et corruptìone, De animalibus, De generatione), al Gaza (De animalibus, De generatione animaliunz, De partibus animalium). Alla scuola dei nuovi maestri di greco si formano molti traduttori, tra i quali si distinguono Leonardo Bruni (celebre quanto discusso per le Versioni dell'Etica Nicomaclzea e della Politica), Francesco Filelfo (che rende in latino la Rethorica ad Alexandritm), Gregorio Tifernate (Etica E irdemia e Magna moralia) e Giorgio Valla (De c0610, Magna moralia, Poetica). -
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Achillini, Nifo, Pomponazzi, Zabarella, Telesio
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Atteggiamento comune di questi traduttori è la polemica ora espliora implicita con le traduzioni medievali di Aristotele, "orride" e ”incolte", cui viene contrapposta l'esigenza di traduzioni non solo più fedeli al testo greco, ma che soprattutto 10 rendano più ornato e soave agli orecchi dei latini, educati alle finezze dell'arte retorica ciceroniana; ciò comporta anche un discutibileallontanamento dall'originale, verso il quale non sempre si mostra sufficiente rispetto; così accade che le nuove versioni siano meno critiche di quelle medievali. Questo tuttavia non diminuisce l'importanza delle nuove traduzioni umanistiche e la loro -
cita
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influenza sulla cultura filosofica del Rinascimento: anzitutto il ritorno agli originali greci risponde alla nuova esigenza, proposta dalla "filologia" umanistica di cogliere l'antico e quindi anche il pensiero di Aristotele nella sua reale prospettiva storica, al di là delle incrostazioni scolastiche, nella convinzione che esse ne avevano corrotto, con il linguaggio, il pensiero: lo sottolineava con precisione Girolamo Donato, che nel presentare la sua versione di Alessandro di Afrodisia, non solo polemizzava contro il platonismo fiorentino e contro Yaristotelismo arabo il quale si era limitato a parafrasare i commentatori greci ma altresì prendeva posizione contro il concordismo dei Commentatori medievali i quali «rrzagis ex religione quam ex Aristotelis doctrina acutissincze izhilasophafl" simt (hanno filosofato in modo assai profondo grazie più alla religione che alla dottrina di Aristotele)». Inoltre grazie all'opera dei nuovi traduttori si veniva ad allargare la conoscenza della tradizione filosofica antica e quindi anche la varia e complessa storia del peripatetismo, attraverso la lettura dei commentatori greci, alcuni dei quali erano rimasti del tutto ignorati, o poco noti, durante ii medioevo; tra questi, due soprattutto esercitarono una larga influenza sulla cultura universitaria determinando nuovi orientamenti nelle interpretazioni aristoteliche: Alessandro di Afrodisia il cui trattato De artima venne per la prima volta tradotto da Girolamo Donato (1495), e Simplicio, il cui De artima, forse usato per primo da Pico della Mirandola, fu pubblicato nel 1527 e tradotto in latino nel 1543. «Le nuove traduzioni contribuirono notevolmente ad allargare la conoscenza stessa di Aristotele; non solo infatti esse offrivano una più scaltrita filologia per Yesegesi del testo, ma ponevano l'accento su un Aristotele nuovo rispetto a quello vulgato nelle scuole medievali:l'autore degli scritti etici e politici, maestro di vita civile e di umana conversazione, contrapposto all’Aristotele fisico e metafisico che trionfava nelle scuole; l'opera del Bruni è da questo punto di vista esemplare e definisce già un atteggiamento che, dalla cultura quattrocentesca, giungerà fino all’inoltrato Seìcentow Le figure più importanti dell'aristotelismo quattrocentesco e cinquecentesco sono Achillini,N ifo, Pomponazzi, Zabarella e Telesio. —
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T.
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CREGORY, "Aristotelismo", in Grande enciclopediafilosofica,VI, p. 609.
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Parte prima
Alessandro Achillini Alessandro Achillini è uno dei pochi peripatetici del Rinascimento che presti attenzione anche alle dottrine metafisiche di Aristotele. Nato a Bologna nel 1463, fu professore di logica nella sua città natale, poi di filosofia naturale (1487-94) e di medicina teorica (1494-97) e di entrambe le materie (1497-1506). Quindi passò a Padova a insegnarvi filosofia morale contemporaneamente a Pomponazzi. Torno, infine, a Bologna (1508)
morì (1512). Le sue opere principali sono i Quodlibeta de in telfigen tiis (1494), il De 0rbibus (1498) e il De elementis (1505) oltre a molti trattati specifici. Diversamente da Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Duns Scoto, i quali avevano cercato di armonizzare Aristotele con il cristianesimo, I'Achillini,pur ribadendo più volte che la verità si deve cercare nella fede cristiana e non in Aristotele, intende esporre Yautentico pensiero dello Stagirita, evidenziando come in alcuni punti esso contrasti apertamente con il cristianesimo. Così la sua esegesi dei testi aristotelici viene ove
coincidere sostanzialmente con Yesegesi averroistico-sigieriana. Il Motore immobile che Aristotele pone al vertice dell'universo, secondo Achillini, muove il mondo con una forza intensivamente infinita: «mens plzilosoplzifuitDeum essefiniti vfgoris (l'opinione del filosofo fu che Dio possiede una forza finita)». Ma l'Achillini si affretta a osservare che diversa e opposta è la tesi Vera (ad oppositum est zreritas) insegnata dalla fede, per la quale, «Dio è dotato di una forza infinita». Lo stesso dicasi per l'atto di intellezione divina (secondo il filosofo, «Dio conosce se stesso e non le altre cose», mentre vero è che «Deus cognoscit onmia»), per la libertà di Dio (negata daltaristotelismo, che pone il mondo come effetto necessario della natura di Dio), e per la creazione, estranea alla filosofia peripatetica, ma che è purtuttavia vera per la fede. Da Dio, l'universo si snoda secondo la successione scalare delle intelligenze e dei cieli, dei quali ciascuna di esse è forma. Otto sono le intelligenze come pure i cieli, e la prima è Dio. Esse sono legate da un rapporto di continuità e subordinazione, per cui ogni intelligenza è agente rispetto alla inferiore e potenziale rispetto alla superiore. Il complesso delle intelligenze e dei cieli è proposto a ogni forma di mutamento nell'universo sublunare, cosicché, secondo Achillini, se per caso i cieli cessassero di muoversi, cesserebbe ogni moto anche nel mondo sublunare e tutto verrebbe ridotto alla Condizione di pura materia. Anche nell'interpretazione del pensiero di Aristotele sull’intelletto agente e sull’anima umana, Achillini fa sue le tesi averroistiche dell'unità dell'intelletto e della mortalità dell'anima personale. Con Sigieri egli sostiene che l'intelletto informando la cogitativa, informa con esso tutto l'uomo e lo costituisce nel suo essere, cosi da porsi come ultima a
Achillini,Nzfo, Pomponazzi, Zabarella, Telesio
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forma qua homo est homo. L'anima umana è dunque composta da un principio edotto dalla potenza della materia e da uno venuto dal di fuori che porta a perfezione la cogitativa. E ancora a Sigieri si ispirano la dottrina dell’Achillinì sulfintelletto agente, identificato con Dio, e quella sulla felicità come congiungimento dell'intelletto possibilecon le intelligenze separate e con Dio.
Agostino Nifo dapprima insegno a Napoli; si trasferì quindi a Padova, aderendo per qualche tempo all'averr0ismodi Nicoletto Vernia. Tenne poi cattedra in diverse città italiane: a Salerno, Pisa, Bologna, Nato a Sessa nel 1473,
Roma e infine di nuovo a Salerno, dove morì tra il 1545 e il 1546. Tra le sue numerose opere ricordiamo: De intellectu (1503), De infinitate primi motoris (1504) e Tractatus da immnrtalitczte animae contra Ponzponatium (1518). Compose inoltre numerosi commenti aristotelici (14 voll., Parigi 1654) e curò un'edizione delle opere di Averroè, illustrandolecon ampie note.
posizioni iniziali dichiaratamente averroistiche, in un secondo tempo sia per far dimenticare il suo passato e per ingraziarsi le autorità Da
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diversa Valutazione delraristotelismo forse sotto l'influsso dei platonici fiorentini e di Pico Nifo divenne strenuo avversario dell’averroismo e dell'alessandrinismo che, affermando la mortalità dell'anima, sono «la causa per cui i filosofi oggi non sfoggiano più buoni costumi» (di qui la polemica contro Pomponazzi). Anzi nel suo commento alla Destructio di Averroè si fa vanto di andare oltre il compito dei commentatori che è quello di esporre il pensiero dell'autore (quid auctor velit et sentiat) per confutare le dottrine contrarie alla fede; egli voleva così seguire S. Tommaso d'Aquino, riconoscendolo «fidum ducem». Nel Tractatus de. immortalitute animae contra Pompomztium Nifo critica il pensiero di Pomponazzi che, come si vedrà più sopra, asseriva l'assoluta impossibilità per l'anima di agire e di sussistere altrimenti che in stretta dipendenza dal corpo, da cui riceve i caratteri della individualità. Negli ottantacinque capitoli del Tractatus, l'autore accusa il Pomponazzi di non aver preso in esame il pensiero di Platone in ordine all’immorta— lità dell'anima e di avere male inteso sia Yaristotelismo che l'averroismo. La tematica della spiritualità e immortalità dell'anima è oggetto di accurata indagine anche nel De intellectu, dove, però, le tesi criticate non sono del Pomponazzi bensì di Alessandro di Afrodisia, Temistio e Averroè. Egli respinge anche la tesi della doppia verità, secondo cui l'immortalità dell'anima può essere solo oggetto di fede. Indubbiamente la fede procura una certezza che la sola ragione non può raggiungere,
ecclesiastiche, sia per
una
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Parte prinza
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però la ragione ‘e in grado di fornire solidi argomenti a favore dell'immortalità dell'anima, benché esistano molte difficoltà in questo campo. Il problema dell'immortalità dell'anima è strettamente legato al problema dell'unione dell'anima col corpo. A questo proposito il Nifo distingue tre tipi di forme: forme totalmente immerse nel corpo (come la forma del tavolo), forme totalmente separate dal corpo (tali sono le anime degli esseri Celesti e gli angeli) e, infine, forme che «in parte si immergenella materia e in parte se ne distaccano». Il terzo tipo è quello dell'a-
no
nima umana. In quanto forma del corpo essa è individuale, ma in quanto è dotata di «un certo potere della luce universale, è universale»; tale è la sua «attitudine universale agli intelligibili». Contro Averroè il Nifo sostiene che né l'intelletto agente né l'intelletto possibile possono esiste-
separati dall'anima, perché
«l'intelletto agente e l'intelletto possibile virtù e facoltà dell'anima razionale, in virtù delle quali l'anima razionale è portata per natura a divenire ogni cosa intenzionalmente e a fare ogni cosa spiritualmente». re
sono
Pietro Pomponazzi Pietro Pomponazzi nacque a Mantova nel 1462 da famiglia nobile e ricca. Studiò a Padova e ivi si laureò in medicina nel 1487. Rivelatasi l'a-
del suo ingegno, l'anno dopo egli ottenne allo Studio patavino l'insegnamento straordinario della filosofia in concorrenza con l'Achillini, secondo uifusanza universitaria propria di quei tempi. Fu quella un'epoca battagliera per la vita del Pomponazzi, messo ancor giovane e inesperto di fronte alla perizia e alla dottrina di un insigne maestro. Comunque il suo insegnamento fu molto apprezzato, tanto che pochi anni dopo egli fu promosso "ordinario di filosofia naturale" (1495). Quando lo Studio patavino fu Chiuso (1509), in seguito agli avvenimenti provocati dalla lega di Cambrai, Pomponazzi passò a insegnare a Ferrara, e infine a Bologna, dove concluse anche la sua esistenza il 18 maggio 1525. Durante il suo lungo periodo di insegnamento Pomponazzi si trovò a commentare spesso più d'una volta tutte le opere aristoteliche, commenti rimasti pero in gran parte inediti. Tra le opere pubblicate le più importanti sono: De iznmortalitatc animae, il suo libro più discusso, cui seguirono Ihfllpologia (1518) e il Defensorium (1519), tutti e tre raccolti nel cutezza
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1525 in
un
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unico volume insieme ad altri
scritti, tra
cui il De nutritionc et
augmentationee il De in tensione et renrissionefornrarum. Dopo la sua morte furono pubblicati il De ÎIICGHÌCIÌÎOTIÎÙHS (1556) e il De fato (1567). Pomponazzi fu una delle personalità più rappresentative del Rinascimento filosofico italiano ed ebbe alcuni aspetti di originalità, perché intese il rinnovamento del pensiero superando le posizioni della Scolastica, e quindi non come un ritorno a Platone, come facevano molti umani-
Achillini,N Ifo, Pomponazzi, Zabarella, Telesio
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sti per valorizzare il mistico slancio dell'anima Verso l'Assoluto, bensì ad Aristotele, la cui dottrina però non interpretava seguendo le orme di S. Tommaso e della scuola peripatetica cristiana, ma accettando in linea generale le conclusioni a cui erano giunti i commentatori greci, primo tra i quali Alessandro di Afrodisia. Ciò che caratterizza il pensiero di Pomponazzi non è la dottrina della doppia verità che egli ricusava apertamente, ma della ”doppia fede": una fede filosofica e una fede cristiana, con l'assegnazione del primato alla seconda, perché soltanto la fede cristiana fa conoscere con certezza la verità, escludendo tuttavia qualsiasi subordinazione da parte della prima, perché tra fede filosofica e fede religiosa non c'è armonia, bensì aperto conflitto. Infatti, mentre la filosofia insegna che l'anima è mortale, la fede insegna che è immortale; mentre la filosofia insegna che il mondo è increato ed eterno, la fede insegna che ha un inizio e che è di durata limitata; mentre la fede insegna che Dio conosce tutte le cose in tutti i dettagli, la filosofia insegna che di questo mondo Dio conosce soltanto le leggi generali; mentre la fede esclude qualsiasi conflitto tra provvidenza, predestinazione e libertà, la filosofia afferma che là dove c'è provvidenza e predestinazione non ci può essere libertà, e, viceversa, dove c'è libertà non ci può essere né provvidenza né predestinazione. Secondo Pomponazzi, massimo rappresentante della razionalità filosofica fu Aristotele, e l'unico esegeta autentico degli scritti dello Stagirita fu Alessandro di Afrodìsia;mentre egli considera confusa e inaccettabileYesegesi concordista di S. Tommaso. Chiarite le intenzioni del Pomponazzi, che sono quelle di far dire alla filosofia soltanto quanto è in grado di dire con la pura ragione, e questo, a suo giudizio, corrisponde esattamente a quanto è riuscito a dire Aristotele, massimo tra tutti i geni filosofici, vediamo brevemente le tesi più significative delle due opere principali, il De inlrrzorfalitnte animate e il De fato. In un primo tempo, Pomponazzi aveva condiviso non solo la polemica antiaverroistica di Tommaso d'Aquino, ma aveva anche ritenuto con l’Aquinate, Contro Scoto dimostrabilel'immortalità dell'anima dai principi aristotelici; successivamente, nel De immortalitate, egli cambia radicalmente posizione, e respinge gli argomenti dell'aristotelismo tomista per dimostrare l'immortalità. Pomponazzi condivide il punto di vista degli umanisti riguardo alla centralità dell'uomo, posto al confine tra natura e soprannatura, tra temporale ed eterno, ma anziché far prevalere nell'uomo la parte superiore, così da acconsentirgli di appartenere più al cielo che alla terra, più agli angeli che alle bestie, egli fa prevalere la parte inferiore, e quindi afferma l'appartenenza sostanziale dell'uomo alla terra e al regno degli animali. Pomponazzi accusa S. Tommaso di voler separare quello che è sostanzialmente unito e giunge così al capovolgimento della tesi tomi-
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Parte prima
quid mortale, ma al contrario è per se mortale e secundunz quid immortale. L0 provano i legami che saldano l'anima razionale alla vita Vegetativo-sensitiva, che Aristotele ha riassunto nel suo concetto di forma sostanziale e nel nesso posto tra intelletto e fantasia. Pomponazzi non esclude che l'intelletto goda di un'operazione propria grazie alla quale conosce Yuniversale, ma insiste sul fatto che l'intelletto non può fare questo senza il concorso dei sensi e della fantasia: <
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filosofi, quello dei rapporti tra provvidenza divina (e predestinazione) da una parte e libertà umana dall'altra. Egli svolge un'accurata rassegna delle svariate soluzioni che sono state date a questo problema, per concludere alla fine che le analisi più attendibilisono quella
battuti dai
cristiana e quella stoica. La prima afferma la compatibilità della provvidenza (predestinazione) con la libertà, la seconda ne ribadisce l'incompatibilità. Alla prima è necessario aderire e riconoscere che è l'unica vera se si professa la religione cristiana; alla seconda è necessario assentire se ci si basa esclusivamente sulle considerazioni della ragione. Ecco come l'autore conclude la sua dotta dissertazione:
proposito del fato e del libero arbitrio sono state riferite sei opiniodi queste è priva di qualche spunto efficace e nessuna si da gravissime difficoltà e incertezze. infatti, se immune presenta «A
ni;
e nessuna
qualcuno le consideri attentamente, facendosi guidare solo dalla ragione, non ce n'è alcuna che soddisfi del tutto. Dico, tuttavia, due cose: in primo luogo, che nei limiti dei puri principi naturali e per quanto è concesso alla ragione umana, secondo il mio parere è meno contraddittoria quella degli Stoici».3 2) De inzrrmrtalitate animae, c. 9. 3) Dcfuto, Epilogo.
Achillini,Nifo, Pompomzzzi, Zabarella, Telesio
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Nella visuale stoica il Fato domina sovrano: esso porta alla luce tutte le cose, ma successivamente tutte le divora, in un ciclo che non cessa mai, che annulla ogni distinzione e ogni privilegio: «E come nell'universo si può constatare che una terra ora fertile diviene poi sterile, in un continuo avvicendamento, allo stesso modo i grandi ricchi si mutano in abietti e poveri, e così via con legge universale, come risulta dalla storia». Davanti a questo inarrestabile ciclone del Fato che non risparmia nessuna persona e nessuna cosa, tutte le ambizioni e le illusioni degli umanisti si dissolvono. Alla dignitas hominîs di Pico, il Pomponazzi contrappone la caducitas e la tranitas hominis: l'uomo e una nullità, e la nullità è una falce inesorabileche non risparmia nessuno. «Se si considera rettamente e si prende in esame tutto l'universo, ci si rende conto che in esso non ci sono che uomini sciocchi e scellerati e che molti che sono stimati sapienti sono più stolti degli altri, e che quelli che sono ritenuti migliori molte volte sono peggiori degli altri. Certo la nostra saggezza è stoltezza e la nostra bontà cattiveria. E sufficiente infatti che non si trovi malvagità nel cielo; ma al di sotto del cielo della luna, poiché tutte le cose ivi tendono alla morte, tutte sono fetide e putride».4
Quale stridente contrasto tra gli inni dei neoplatonici (Cusano, Ficino Bruno) alla grandezza dell’uomo e le lamentazioni del Pomponazzi per la sua miseria! E tuttavia sia i primi che il secondo preparano l’ingresso a
e
tempi nuovi per la metafisica. Mentre i platonici accolgono la linea della ragione forte dei razionalisti e degli illuministi,Pomponazzi prepara l'accoglimento della linea della ragione debole degli scettici e degli empiristi.
Jacopo Zabarella Jacopo Zabarella nacque a Padova nel 1533. Era figlio di una delle più vecchie e illustri famiglie padovane; come primogenito ereditò dal padre Giulio il titolo di Conte palatino, e venne educato e istruito come
si confaceva ai nobiluominiitaliani del Rinascimento. Frequento l'università della sua città natale, studiando logica e filosofia naturale. Conseguì la laurea nel 1553. Dieci anni più tardi successe al suo maestro Bernardino Tomitano nella prima cattedra di logica, passando nel 1568 all'insegnamento della filosofia naturale, incarico che mantenne sino alla morte
4)
Ibid.
(1589).
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Oltre a commenti a numerose opere di Aristotele (Fisica, De anima, Analitici secondi) Zabarella scrisse: Opera logica (1578), Tabulae logica»? (1580), De naturalis scientiae constitutione (1586), De rebus naturalibus (1590), che include tra l'altro De mente humana, De mente agente, De ordine
intelligendi.
Anche Zabarella nei trattati del De rebus naturalibus, come pure nel
commento al De anima dibatte la vexcitissimtz quaestio, che da sempre divideva aristotelici, sulla natura dell'intelletto umano e sui suoi rapporti
gli
l'anima e il corpo, attestandosi praticamente sulle posizioni di Alessandro di Afrodisia e di Pomponazzi e criticando apertamente sia Averroè sia Tommaso d'Aquino. In polemica con Averroè, che riduceva l'intelletto a forma assistente, Zabarella ritiene vera «la dottrina di coloro i quali dicono che l'anima razionale umana è veramente forma dell'uomo, per cui l'uomo è uomo ed è costituito nella specie». Questa è la posizione, dice Zabarella, di Alessandro di Afrodisia come di Tommaso d'Aquino; ma se egli utilizza gli argomenti di quest'ultimo contro gli averroisti, dalYAquinate nettamente si separa, aderendo alla posizione alessandrinista, per il più coerente sviluppo del concetto di forma infornzante, contro ogni interpretazione che tenti di introdurre una separazione sostanziale tra anima intellettiva e corpo. A questo punto Zabarella offre un'acuta spiegazione di ciò che per Aristotele significa essere "separabile" e "immisto", detto dell'intelletto. Quando il filosofo, egli spiega, dice che l'intelletto è separabile, non vuol dire che esista separato, come concludono gli averroisti, ma semplicemente che esso non è una facoltà organica (ÌHÉBHECÌHH! non esse organicum), perché nell'operazione non ha bisogno di organo corporeo; ma questa sua autonomia non comporta come insegnava S. Tommaso che esso possa esistere indipendentemente dal corpo di cui è forma: infatti nulla dimostra che una forma, non essendo legata all'organo della sua operazione, sia per natura separabile: «la forma dell'elemento infatti scrive Zabarella non ha nessun organo, ma non per questo è separabile dalla materia», e ciò può ripetersi anche dell'anima razionale, se si vuole restare aderenti all'insegnamento di Aristotele. Nello stesso senso va interpretato l'essere immixtus dell'intelletto, se si riferisce al suo non essere della natura degli oggetti conosciuti e al suo essere autonomo rispetto al corpo in operando: «Né dal fatto che l'intelletto nel ricevere non si serve dell'organo, qualcuno può inferire che esso ‘e forma separata dal corpo, che non dà l'essere al corpo: giacché altro ‘e considerare l'intelletto secondo il suo essere, altro secondo l'operazione. Infatti secondo l'essere suo è forma del corpo e informa realmente la materia, secondo l'operazione ò rispetto alla materia più elevato delle altre parti dell'anima e nella recezione della specie non si serve di alcuna parte del con
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Achillini,Nzfo, Pomponazzz‘, Zabarella, Telesio corpo,
se
dev'essere così immisto da intendere tutte le
zione dunque appare che l'intelletto
cose.
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N ell'opera-
e mescolato con alcuna natura del corpo come organo, e così è in tutti e non
delle cose né con alcuna parte due i modi immisto nella sua operazione».5 Con questa precisa definizione della "separabilità" dell'intelletto che Zabarella svolge superando anche le posizioni di Pomponazzi alle quali esplicitamente si riferisce è ripresa Pinterpretazione di Alessandro di Afrodisia, che si avverte anche nell'identificazionecon l'intelletto agente supremo, con la Mente divina, il solo vero intelletto agente, fonte di ogni conoscenza e quindi il solo capace di rendere intelligibiligli oggettifi Notevole influsso esercitò lo Zabarella con le sue opere logiche, dove definisce il metodo sulla base dell'ordine della conoscenza (orde doctrinae), distinguendo, come già facevano i medievali, il momento risolutivo (dagli effetti alle cause) da quello compositivo (dalle cause agli effetti), ma integrando l'un l'altro nell'unico processo del conoscere. -
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Bernardino Telesio Nato a Cosenza nel 1509, Bernardino Telesio studiò fisica, medicina e filosofia a Padova. Dopo un paio d'anni di ritiro in un convento benedettino (1544-1545), si trasferì a Roma e successivamente a Napoli e a Cosenza dove concluse i suoi giorni (l 588). Nel 1565 apparvero i due primi libri del suo capolavoro, De rerum natura juxta sua propvria priizcipia, completato in nove libri nell'edizione del 1586. Il discepolo Antonio Persio pubblicò postumi (1590) i Varii de rebus naturalibus libelli. Benché spesso e volentieri polemizzi con Aristotele, Telesio rimane sostanzialmente un peripatetico nell'approccio alla realtà, che è quello di studiarla juxta propria principia, anziché mediante principi trascendenti e ideali, esterni alle cose, come facevano i platonici. I temi fondamentali della sua ricerca sono quelli propri di ogni metafisica, l'uomo, il mondo e Dio, ma la sua indagine è fatta con uno spirito fisicalistico ed empiristico più che metafisico, con l'intento di decifrare i principi costitutivi dell'uomo e del mondo, anziché di scrutare le cause ultime. Così, mentre la speculazione di Aristotele abbracciava le quattro cause, quella di Telesio si concentra sulle cause materiale e formale.
5) De mente fiumana, c. 9. r») Cf.lliid.,c.13.
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L’ UOMO Telesio aveva conosciuto l’aristotelismo averroistico a Padova ed era edotto degli atteggiamenti degli aristotelici di fronte al problema dell'uomo; d'altra parte egli non ignorava la strenua polemica dei fiorenti-
ni, condotta in nome del platonismo, contro il naturalismo degli alessandrinisti; la sua fede nel cristianesimo non poteva, comunque, mettere in
dubbio un elemento così fondamentale del cristianesimo, come quello dell'immortalità dell'anima. Di qui la polemica telcsiana sul problema dell'uomo. Con gli aristotelici egli non può non riconoscere l'immersione dell'uomo nell'atmosfera del sensibile: molti dati della vita psichica umana lo hanno avvertito che nell'uomo la sensibilità ha un ruolo fondamentale, e mentre Pomponazzi, sulla scia di Alessandro di Afrodisia, riduce l'intelletto a fantasia legata al corpo, Telesio è convinto che in
fondo la
conoscenza
della natura,
come
complesso di realtà percepibili
i sensi, esige pure nell'uomo una struttura sensibile. D'altra parte l'uomo, nella sua totalità, non può venir ridotto a puro senso; esistono in lui tendenze, bisogni e orizzonti che trascendono il piano della natura e del sensibile; e mentre si può accedere alla posizione degli aristotelici per quanto attiene un certo piano dell'uomo, non si può non dar ragione a Ficino e ai platonici nel proclamare nell'uomo l'esistenza di un piano superiore di vita. Telesio non è un metafisico: egli non si propone il problema radicale dell'unità di quell'essere che è l'uomo; si ferma (diremmo oggi) a una fenomenologia dell'attività umana e scopre in essa la presenza di due piani, sensibile e intelligibile, che attestano la presenza di due principi: un principio psichico e uno spirituale. ll principio della psichicità sensibileo animale è detto da Telesio spiritus, mentre il principio della Vita spirituale è detto mens. Lo spiritus in fondo rientra in quell'agente naturale che è il calore, nasce e muore con l'uomo; l'anima, la mens, invece, è creata da Dio e aggiunta al composto di materia e spiritus. Che l'affermazione della creazione diretta dell'anima da parte di Dio (a Deo creata), abbia un valore religioso è fuori di dubbio, ma essa ha pure un valore filosoficoin quanto poggia, come nel Ficino, sulla presenza nell'uomo di orizzonti superiori e irriducibilialla sfera del senso. Si è detto che Telesio ammette la mens superaddita soltanto per fede e non per motivi teoretici; ma egli stesso si incarica di replicare dicendo che l'esistenza di tale anima «non ci viene insegnata soltanto dalla Sacra Scrittura, ma si può intendere anche mediante ragionamenti umani (hitmanis etiam intelligere licei rati0nibus)»;7 il che è quanto dire che la tesi dell'anima spirituale assume anche un valore teoretico. Si è ancora osservato che l'ammissione della mens è in contrasto con la mecon
7)
De rerum tintura VIII, 8.
Achillìnî, Nifo, Pomponazzi, Zabarella, Telesio
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tafisica materialistica di Telesio. Ma l'esistenza in lui di una metafisica materialistica ‘e tutt'altro che pacifica. Come si vedrà, Telesio non voleva offrire una metafisica come Visione della realtà nella sua interezza, ma solo una filosofia della natura una cosmologia come aveva fatto Aristotele nella sua Fisica e nelle opere ad essa connesse. È logico che una filosofiadella natura, chiusa nei propri limiti, si risolva in una metafisica materialistica qualora la si consideri come concezione globale della realtà; ma in tal caso qualsiasi trattato di fisica o di chimica, elevato a concezione della realtà intera, si trasforma in metafisica materialistica. Non siamo quindi, col telesianesimo, di fronte a una metafisica, bensì di fronte a una filosofia della natura, includente per una parte anche l'uomo, del quale tuttavia viene affermata l'emergenza sulla natura in funzione —
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dell'anima spirituale. IL MONDO
piano formale il De rerum natura vuole essere un commentario ad Aristotele, ma si tratta di un trattato che intende finalmente rivolgersi alle cose in se stesse; e mentre gli aristotelici trattano della natura adoperando gli strumenti della logica e della metafisica, Telesio si mantiene più di loro fedele allo spirito del1’arìstotelìsmo come atteggiamento aperto sulla natura. Infatti, se gli aristotelici spiegano la natura secondo i principali di Aristotele, egli intende investigarla in sé, così com'è, e quindi esporla juxta propria principia. Il senso vero e ovvio della formula ”juxta propria princìpia”, e non quello prestatole da critici non troppo Sul
obiettivi, è che Telesio vuole offrire una filosofia della natura costruita secondo i principi offerti dalla natura stessa e non secondo quelli che vengono imposti dalle elucubrazioni dei filosofi. Un atteggiamento aprioristico nello studio della natura, avverte Telesio, si arroga praticamente lo stesso potere di Dio nel fissare le leggi della natura; questo avevano fatto e facevano gli aristotelici: «Come percorrendo la natura e arrogandosi non solo la sapienza ma pur la potenza di Dio medesimo essi imposero alle cose leggi che non avevano scoperto nelle cose e che invece bisognava assolutamente enucleare dalle cose stesse (quae ab ipsis omnino habenda eran! rebus)».8 Come abbiamo già rilevato, l'intenzione di Telesio nel De rerum natura non è di elaborare una spiegazione generale della realtà, ossia una metafisica, ma soltanto della natura sensibile, cioè del mondo materiale, anche se ciò comporta un accenno a Dio e all'anima spirituale dell'uomo. Lontano dal punto di vista della metafisica aristotelica Telesio non crede di doversi rivolgere alle categorie di quella metafisica per spiegare
S) Ibid., Proemio.
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Parte prima
la natura del mondo. La materia prima aristotelica, comei concetti di atto potenza, di forma e privazione, assolutamente non percepibili dai sensi e dalla fantasia non dicono nulla alla sete di concretezza di 'l"elesio. Certo anche Telesio parla di materia ma si tratta della materia corporea e i soli principi che egli riconosce per spiegare la molteplicità e i cambiamenti che la investono sono il caldo e il freddo, due principi che nessuno può mettere in dubbio: tutto il complesso del movimento e della biologicità trova la sua radice nel calore in lotta permanente col freddo. La terra e il cielo sono i due elementi-centri del mondo, come sedi rispettivamente del freddo e del caldo. Dall'incontro tra il calore (che proviene dal cielo) e la terra si generano tutti gli esseri: i minerali, i vegetali, gli animali e l'ira m0, i quali sono variamente ”animati" a seconda della quantità di calore e di movimento che contengono. Vi è dunque unità e continuità in natura e la differenza tra gli esseri di questo mondo è solo di grado e non di qualità (ilozoismo e panpsichismo). 'l"elesir) riconosce nondimeno, come si è visto, all'uomo anche un'anima soprannaturale: «sostanza altra dallo spirito seminale, veramente divina e infusa da Dio stesso». e
DIO Nella sua cosmologia oltre che all'anima spirituale e immortale Telesio fa posto anche a Dio. Nella sua opera il problema di Dio entra di riflesso in quanto, come sappiamo, argomento ne è lo studio della natura. Telesio non intendeva addentrarsi in una trattazione metafisica, che lasciava ad altri più preparati." L'esistenza di Dio è per lui certa, non soltanto per fede o in base alle Scritture, ma anche in funzione di un'indagine razionale. La procedura telesiana per l'ascesa a Dio si distacca dalla tradizione aristotelica che partiva dal movimento cosmico inteso localmente (tria motus) e si rifà invece a un fenomeno che non ha bisogno di far intervenire postulati metafisici e lunghe argomentazioni per arrivare fino a Dio, il fenomeno dell'ordine: Dio è il garante di quest’ordine, in quanto è il creatore e il legislatore delle cosefl" La presenza di Dio nel mondo si rivela proprio in un governo, che si incarna nelle leggi da lui stabilite: tali leggi non richiedono un intervento straordinario o miracoloso della divinità; esse hanno valore come regole immanenti alla natura delle cose, la quale è ed agisce perché e in quanto è creatura di Dio. Il ritorno delle cose a Dio, che è funzione della religione, si realizza nell'anima da Dio creata, con la quale l'uomo trascende la sua stessa presenza nel mondo.
9) Cf. lbizi,l, 10. m) Cf.ll1id., IV, 25.
Achillini,Nifo, Pomponazzi, Zabarella, Telesio
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Più che per le sue teorie sulla natura, sull'uomo e su Dio, che sotto molti aspetti, specialmente quelle sulla natura e sull'uomo, riecheggiano le teorie dei presocratici e dell’aristotelismo averroistico, l'opera di Telesio è importante per l'affermazione dell'autonomia della filosofia naturale, e per il suo programma, che è quello di studiare la natura secondo i principi che le sono propri, quindi non con la fantasia del mago e dell’astrologo e neppure con i procedimenti astrattamente deduttivi dei peripatetici, ma con l'osservazione empirica e con il metodo induttivo. Con il motto "juxta propria principia", Telesio indica chiaramente quello che dev'essere l'oggetto della scienza, anche se di fatto egli non sa ancora distinguere nettamente tra filosofia naturale e scienza. Comunque, pur restando dentro i limiti della filosofia naturale, il suo è uno studio che cessa di essere astrologia o magia e si avvia a diventare fondata ricerca scientifica. Se si tiene conto del programma di Telesio, anche il suo forte sensismo non sorprende più di tanto: esso trova la sua giustificazione nelle esigenze stesse dello studio concreto della natura, studio che dev'essere perseguito col metodo sperimentale. E il sensismo di Telesio ha valore precisamente in quanto getta le basi di tale metodo. Per quanto concerne la storia della metafisica Telesio segna la parabola conclusiva della metafisica aristotelica, che per qualche tempo si era ridotta a mera esegesi dei testi e dei punti più difficilie più discussi delle opere dello Stagirita, mentre ora con Telesio scompare del tutto. Si salva solo la fisica, ma anche nella elaborazione della fisica Telesio non segue più i paradigmi aristotelici, anticipando invece quelli di Bacone.
Conclusione Verso la fine del
Cinquecento la crisi dell’aristotelismo è ormai aperta:
Pallargarsi dell'orizzonte culturale, la
nuova
prospettiva in cui il pensie-
filologia umanistica, le nuove scoperte dell'adella e scienza, si fanno sentire anche all'interno delle aule universitarie, dove e d'obbligo Weggere" Aristotele e ripercorrerne il sistema. Tuttavia proprio per questo incardinamento nelle università Yaristotelismo continua per tutto il Cinquecento e ancora nel Seicento a costituire oggetto di trattati, commenti e dispute, i cui temi sono monotonamente gli stessi, anche se si nota qua e là una più attenta ricostruzione del testo e una più ampia conoscenza dei commentatori greci, specialmente di Alessandro di Afrodisia e di Simplicio. Ma il tentativo di riprendere Aristotele alla lettera, rinunciando a rinnovarlo profondamente come aveva fatto S. Tommaso, cogliendone lo spirito e i principi basilari, segnò la fine deltaristotelismo.“ ro
antico viene posto dalla
stronomia
—
N)
Cf. T.
CREGORY, 0p. ciL, p. 626.
-
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Parte prima
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rino 1923.
70
L’INDIRIZZO TOMISTA
Nel secondo volume, quello dedicato alla metafisica cristiana, abbiamo visto che essa ha raggiunto il suo apice con S. Tommaso d'Aquino, il creatore di una metafisica dell'essere, in cui sulla base di un concetto forte, il concetto intensivo dell'essere, egli opera una possente e grandiosa sintesi tra platonismo e aristotelismo, tra lfiziscensus di Aristotele e il descensus di Platone, rinvigorendo e trasfigurando le loro geniali intuizioni metafisiche. Così anche il Dottore Angelico, non solo nella storia della teologia, ma anche in quella della metafisica, diviene un classico che si affianca a Platone e ad Aristotele: nell'epoca in cui i discepoli dei grandi padri della metafisica dell'Uno e della Sostanza più che alla creazione di nuovi sistemi si dedicano allo studio dei loro scritti e alla esegesi delle loro dottrine, altrettanto fanno i discepoli di S. Tommaso. Il Quattrocento e il Cinquecento divengono l'epoca dei commenti e delle parafrasi delle due Swmnae, e delle disputazioni e dell’approfondimento dei punti incerti e oscuri della filosofia e della teologia Clell'Aquinate, nonché dei primi tentativi di sistematizzare la sua metafisica. A questo oscuro ma importante lavoro attesero principalmente i Domenicani Capreolo, Silvestri e Gaetano, ma anche alcuni Gesuiti, in particolare il Suarez. Ma prima di parlare di questi grandi studiosi di S. Tommaso, dobbiamo ricordare alcuni antefatti che favoriscono la ripresa e la diffusione del suo pensiero, alcuni riguardano direttamente il Dottore Angelico, altri la seconda Scolastica. Nel 1323 Tommaso d'Aquino venne canonizzato, dissipando in tal modo ogni dubbio sull’ortod0ssia della sua sintesi filosofico-teologica. Ciononostante nel secolo XIV il tomismo continuò ad avere vita difficile: quasi ovunque era sopraffatto dai fautori della via moderna, la via di Occam e dei suoi numerosi discepoli. La situazione cambiò lentamente a favore di S. Tommaso nel secolo XV, specialmente dal momento in cui, verso la fine del Quattrocento, alcune delle principali università fecero adottare la Summa Theologiae come testo principale di insegnamento al posto dei Libri SÉHÌEÌTÎIGTHTH di Pier Lombardo. ”Roccaforte del tomismo” (come la definiva Lutero) era naturalmente Colonia, la città dove S. Tommaso aveva completato i suoi studi teologici e dove aveva iniziato il suo insegnamento, negli anni 1247-1252. Guidata da uomini di Valore come Enrico di Gorkum (T 1431), l'università di Colonia diventò a po-
L'indirizzo tomis tu
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poco la precorritrice della rinascita tomista. Con il suo libro stampa1473, Compendium Summae theologiae S. Thomae, Enrico di Gorkum offri un eccellente riassunto del contenuto del testo e della concezione co a
to nel
teologica del grande maestro.
Ma anche a Parigi, che ormai aveva perduto quell'egemonia teologica che aveva esercitato per un paio di secolifl dopo un lungo predominio dei moderni (Nicola d'Autrecourt, Giovanni Buridano, Pietro d'Ailly),la via antiqua riprese vigore, soprattutto per merito di Giovanni Capreolo, il princeps thomistarum, che iniziò il suo insegnamento nel 1407. Anche il convento domenicano di Saint-Jacques, che era sempre rimasto fedele alla tradizione tomista, contribuì efficacemente a far conoscere il pensiero
dell’Angelico
Un ruolo importante nella creazione della scuola tomista ebbero anche le più recenti università di Salamanca e di Tolosa, in particolare la prima. Salamanca, che era stata fondata nel 1381, fu la prima a ottenere dal papa avignonese Benedetto XIII, all'inizio del sec. XV, la facoltà di conferire la licentia docendi in teologia. Salamanca, che diverrà ben presto non solo la più importante università iberica, ma anche una delle più
prestigiose di tutta la cristianità, si schierò sin dall'inizio dalla parte di S. Tommaso. Da Salamanca uscirà la maggior parte dei teologi della Controriforma, tutti valenti discepoli di Tommaso d’Aquino. Salamanca divenne, inoltre, il centro principale della seconda Scolastica, così come Parigi era stato il fulcro della prima. Carlo Giacòn, autore di una fondamentale monografia sulla seconda Scolastica! ne descrive così gli aspetti fondamentali: «La Seconda Scolastica è sostanzialmente la Scolastica del Cinquecento, chiamata da qualche storico della filosofia Scolastica spagnola, perche alcuni illustri rappresentanti della medesima appartenevano alla nazione di Carlo V e di Filippo II. Essa è un rifiorimento della Scolastica medievale, una corrente di pensiero che si svolge parallela a quelle promosse dalla rinascita del platonismo di Bessarione, di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, dell’aristotelismo averroistico del Vernia, dell’Achillini e del Nifo, dell’aristotelismo alessandristico del Pomponazzi e del naturalismo di Telesio, del Bruno e del Campanella. Nel medesimo tempo scrivevano i loro capolavori di storia e di politica il Machiavelli,il Guicciardini, il Bodin. Era la continuazione delle interpretazioni ”ortodosse” dell’aristotelismo del Duecento e del Trecento, che si richiamavano ai nomi di Tommaso d'Aquino e Duns Scoto (...).
l) 2)
All'inizio del secolo XV il papa avignonese Benedetto XIII, adirato per l'ostilità manifestata nei suoi confronti dalla Facoltà teologica parigina, la privo dell'esclusiva del conferimento dei gradi accademici in teologia, ossia della licentia
docendi. C. GIACÒN, La Seconda Scolastica, 3 voll., Milano 1944-1950.
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Parte prima
Generalmente si pensa che la Seconda Scolastica sia legata alla riforma della Chiesa, provocata dal protestantesimo e promossa dal Concilio di Trento. Storicamente risulta che la riforma della Chiesa era già in atto, benché non nel suo pieno sviluppo, ancor prima dell’apparizione di Lutero; il Concilio di Trento non avrebbe potuto aver luogo se la riforma non avesse già maturato le condizioni che dovevano sostenerne le discussioni e le deliberazioni: gli studi teologici e filosofici,scritturistici e
patristici dovevano già essere rifioriti perché le assisi triden-
tine potessero svolgersi. Il Concilio di 'l”rento, che sta come al centro del Cinquecento, era già stato preceduto da una prima parte della Seconda Scolastica, e giovò moltissimo allo sviluppo della seconda parte. Il card. Gaetano, che ebbe da Leone X l'incarico di incontrarsi con Lutero per la questione delle indulgenze, è già uno degli autori principali della prima fase della Seconda Scolastica, e rappresenta lo spirito nuovo animatore della ripresa di questa speculazione. I pregi più cospicui di questa ripresa non sono stati di natura gnoseo— logica e metafisica, ma piuttosto etica e giuridica. Nei campi della gnoseologia e della metafisica devono anzi essere rilevati notevoli indebolimenti, quegli indebolimenti che aggravarono lo sfaldamento dell'unità del pensiero occidentale, che fecero sentire sempre più impellente il bisogno di un nuovo metodo per scoprire e raggiungere la verità, di un nuovo punto di partenza della filosofia, di una nuova metafisica; i pionieri saranno Galilei e Bacone, e fondatore Cartesio. E la Scolastica conoscerà inevitabilmenteuna seconda decadenza. Ma un merito però rimane vivo e vivificante, e riguarda la filosofia del diritto, la dottrina dello Stato, il diritto internazionale, con i nomi specialmente del Vitoria e del Suarez; sulle loro opere studieranno il Grozio e giusnaturalisti del Seicento e del Settecento»!
Come rileva Giacòn la seconda Scolastica ‘e stata assai più feconda nelle discipline pratiche della morale e del diritto, che in quelle speculative della gnoseologia e della metafisica. In tali settori, oltre ai ricordati Francisco Vitoria e Francisco Suarez si distinsero Domingo de Soto, Melchior Cano, Roberto Bellarmino e Luis Molina. A noi qui però interessano soltanto gli sviluppi della metafisica tomista nei secoli XV e XVI, che non sono stati particolarmente esaltanti e significativi, in quanto anche i tomìsti, come i platonici e gli aristotelici, preferiscono lavorare sulle fonti, commentando gli scritti del loro maestro, specialmente le due grandi Summae di S. Tommaso, anziché approfondire e sviluppare ulteriormente il suo sistema metafisico. I più insigni esponenti del tomismo nel periodo del Rinascimento sono: Giovanni Capreolo, Francesco Silvestri, Tommaso de Vio, detto il Gaetano e Francesco Suarez.
3) ID., ”La Seconda Scolastica”, in Grande enciclopediafilosofica IX, pp. 2039-2040.
L'indirizzoturnista
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Giovanni Capreolo
Originario della diocesi di Rodez, dove nacque verso il 1380, Capreolo entrò nel convento dei Predicatori di questa città. Nel 1407 gli fu affidato l'incarico di leggere le Sentenze nel convento parigino di SaintJacques. Di ritorno a Rodez nel 1426, lavorò alla redazione e alla pubblicazione della sua opera monumentale, Libri defensionunz theologiae divi doetoris Tlzomae de Aquino in libros Sententiaruin. I quattro libri furono portati a termine nel 1432 e pubblicati per la prima volta a Venezia nel 1483. Capreolo morì a Rodez nel 1444. Secondo M. Grabmann le Defensiones «può essere designata come l'opera storicamente più importante che la scuola tomistica abbia prodotto
difesa della dottrina dell'Aquinate».4 Come appare dal titolo, le Defensiones sono un’apologia del tomismo che il Capreolo fu costretto a condurre non secondo l'ordine della Summa Theologiae, bensì secondo l'ordine del commento tomistico alle Sentenze di Pier Lombardo, sia perché le Sentenze costituivano ancora il testo ufficiale delle scuole teologiche, sia perché gli avversari attaccavano il tomismo quale si era manifestato principalmente in quel commento. Codesti avversari del tomismo, che allora, come si è visto, andava sempre più affermandosi, erano numerosi: tra gli stessi Domenicani emergeva Durando di S. Porciano e tra i Francescani Duns Scoto e Pietro Aureolo, ma soprattutto la folta schiera dei nominalisti guidata dal loro principale esponente, Guglielmo d'Occam. Grazie alla sua opera, strettamente fedele al pensiero del maestro, il Capreolo si guadagnò il titolo di parinceps thornistarzirn. Il suo influsso sulla scuola di S. Tommaso fu duraturo e considerevole e contribuì più di qualsiasi altro a fissare la specificità della sua teologia. Tuttavia egli non ha mancato di portare il suo contributo chiarificatore anche su questioni filosofiche importanti, come quella del costitutivo della persona e quella del principio di individuazionenelle cose materiali. Il Capreolo afferma che per S. Tommaso la persona, o meglio la personalità, è costituita formalmente dallîîsse actualis existetitiae o ‘Îsussistenza", cioè dall'atto di esistere. Quindi, perché si abbia la personalità ontologica, oltre la natura individua, non si richiede altro che l'atto di esistere. Ogni natura umana individua che possiede il proprio atto di esistere, è persona. Cristo invece non è persona umana perché, sebbene abbia una natura individua, l’atto del suo esistere è quello stesso increato del Verbo. Riguardo poi al principio di individuazione, la materia a
\
")
M.
GRABMANN, Storia della teologia cattolica, Milano 1937, p. 137.
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Parte prima
signata di cui parla S. Tommaso non è per il Capreolo che la materia sub quantitate, ossia la materia attualmente quantificata. In entrambe le questioni il Capreolo ha interpretato il pensiero e la dottrina deÌYAquinate meglio dei tomistì posteriori. Francesco Silvestri Francesco dei Silvestri, detto il Ferrarese (Perrariensis) nacque a Ferrara nel 1474. Entrato a 14 anni nell’Ordine di S. Domenico, terminati gli studi iniziò l'insegnamento di filosofia e di teologia, prima a Mantova (dal 1498) e poi a Milano (1503) e a Bologna (1507) dove nel 1516 fu nominato maestro di teologia all’università. Vicario della Provincia lombarda (1518), nel 1524 venne nominato Maestro Generale dell'Ordine. Morì a Rennes nel 1528. La sua opera maggiore è In Zibms S. Thomae Aquinatîs contra gentes commentaria, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1524. Questo famo-
so commento alla ContrapGentiles per volontà di Leone XIII fu incluso nella Edizione "leonina" a fianco al testo di S. Tommaso. Altre opere che interessano la filosofia sono due commenti di Aristotele: Adnotationes in libros posferiorum Aristotelis e In tres libros de anima. Nella scuola tomista il Silvestri è essenzialmente il contemporaneo, l’emulo, Pammiratore e talvolta il critico discreto ma fermo del Gaetano. E mentre il Gaetano è rimasto il commentatore quasi ufficiale della Summa Theologiae, il Silvestri divenne il commentatore più consultato della Summa contra Gentiles. Silvestri è «un commentatore onesto, serio, facondo, fedele al maestro, che ci si compiacerà di studiare per meglio comprendere non solo la Summa contra gentes, ma anche la metafisica tomista» (M. M. Gorce). Meno acuto del Gaetano, il Ferrarese è indubbiamente più fedele sia allo spirito sia alla lettera del Dottore Angelico. Lo si può constatare agevolmente dando uno sguardo ai temi della metafisica, delPanalogia (difende Panalogia secundum prius et posterius che esige 1'0rd0 ad unum e quindi un analogato principale), dell'immortalità dell'anima (che ritiene filosoficamente dimostrabile),dei rapporti tra fede e ragione, di filosofia e teologia (che interpreta alla luce dell'armonia e non della separazione netta e insanabile).Raramente il Ferrarese si allontana da S. Tommaso. Così, per es., contrariamente all’Aquinate, egli crede che sia possibile la molteplicità numerica delle essenze pure (angeliche), benché non ne comprenda il modo (Summa contra Gentiles II, 93). Anche per Silvestri come per il Gaetano, Yavversarìo principale è Scoto. Contro le critiche del Dottor Sottile egli illustra, sostiene e difende le principali tesi tomistiche, come quelle di atto e potenza, materia e fonna, essenza ed esistenza, unicità della forma sostanziale, distinzione reale delle facoltà dall'essenza dell'anima, materia prima, principio di
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individuazione; e in psicologia: distinzione reale fra intelletto agente e
possibile, immaterialità come causa di intelligibilità,spiritualità e
immortalità dell'anima. Nel costitutivo metafisico della persona il Ferrarese concorda col Gaetano, affermando che si tratta di un ”termine" della sostanza individuale, poi chiamato ”modo sostanziale” (Ibid. IV, 3, n. 1). Sulla questione dell'immortalità dell'anima che nel Cinquecento era al centro di accesissime dispute tra i commentatori di Aristotele, Silvestri si schiera con Pesegesì che era stata proposta da S. Tommaso. Commentando la Summa contra gentiles, proprio nei capitoli in cui l'Aquinate indugia a dare la sua interpretazione di Aristotele, Silvestri critica quella del Gaetano, senza mai nominarlo, ma citando alla lettera le parole del suo Commento al De anima. Riferita l'interpretazione dell'intelletto agente, egli dimostra che secondo Aristotele si tratta di una facoltà dell'anima, e non di una causa esterna all'anima. Commenta gli accenni che Aristotele fa della immortalità dell'anima nei luoghi dove non ne tratta espressamente, e afferma che senza di essa non hanno nessun significato. Per Aristotele è ugualmente incorruttibile tanto l'intelletto agente quanto quello possibile; in nessun modo YHLÎUBHÌTE extrinsecus dell'anima umana al corpo può significare che l'anima viene illuminata dall’intel— letto agente. Soprattutto si ferma a confutare la traduzione e la interpretazione del passo più difficile e tormentato del lll libro del De anima, dove Aristotele afferma dell'intelletto che «è separato soltanto quello che veramente è», che per il Gaetano significava: è separato soltanto l'intelletto che veramente esiste come sostanza, mentre il Ferrarese traduce e commenta: ‘e separato, immortale ed eterno soltanto l'intelletto che è veramente intelletto, e non l'intelletto ”passivo” (o cogitativo), di cui
Aristotele parla subito dopo‘
Con la sua esegesi intelligente ed equilibrata del pensiero dell'Angelico, Silvestri eserciti) un influsso notevole anche sui migliori rappresentanti della seconda e terza Scolastica.
Tommaso de Vio Tommaso de Vio, detto il Gaetano, essendo nato a Gaeta nel 1468, ancor giovane nell'Ordine dei Frati Predicatori. Compi gli studi nelle scuole domenicane di Napoli e Bologna; quindi, giunto a Padova intorno al 1491, iniziò la sua carriera di magister nello Studio locale del suo Ordine, prima di diventare, nel 1494, professore di metafisica nella università patavina. Qui ebbe subito a confrontarsi con il Trombetta, che era il suo rivale nella cattedra scotista, e con i professori averroisti ancora molto influenti; fu pure collega di Pomponazzi e di Nifo. A quarant'anni fu nominato Maestro Generale del suo Ordine e nel 1517 fu entrò
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Parte prinm
nominato cardinale. ll Gaetano fu tra coloro che indussero Giulio II a convocare il V Concilio Lateranense (1512-1517) e durante i lavori del Concilio ebbe la franchezza di esternare le sue idee decisamente riformatrici. All'apertura della seconda sessione tenne un discorso di grande spessore, affermando la necessità della riforma della Chiesa, della restaurazione dei buoni costumi nel clero e nel popolo cristiano, della eliminazione degli scismi, della conversione degli infedeli e del ritorno all’ortodossia degli eretici; propositi che dovevano attuarsi con la predi-
il convincimento e, soprattutto, mediante la introduzione di Il Gaetano ebbe un ruolo importante nelle prime vicende della Riforma, in quanto Leone X lo inviò in Germania in qualità di legato papale per discutere con Lutero il problema delle indulgenze e delle altre questioni sollevate dal monaco tedesco. Ma l’incontro non sortì esito positivo. Dopo la morte di Leone X, il nuovo papa Adriano VI lo incarico di una legazione in Ungheria, Boemia e Polonia, per fronteggiare la minaccia turca. Sotto il pontificato di Clemente VII il Gaetano trascorse anni di ritiro e di studio fino al 1534, anno della sua morte. Nonostante i molteplici e gravosi impegni che comportavano i suoi uffici di Maestro Generale dell'Ordine prima e di cardinale della Curia poi, il Gaetano trovo il tempo di scrivere ben 157 opere di filosofia, teologia ed esegesi biblica, opere profonde e originali che non mancarono di suscitare discussioni e polemiche anche all'interno del suo stesso Ordine, a causa della sua libertà di giudizio e l’acutezza e complessità delle sue conclusioni. «La sua costante presenza al centro di alcune delle discussioni filosofiche e teologiche più rilevanti della cultura scolastica del tempo rivela le particolari qualità e la finezza intellettuale di un dotto che seppe comprendere alcune esigenze essenziali del profondo rinnovamento intellettuale già in atto, e che intese adeguare la sua ben ferma fedeltà dottrinale ai molti problemi di ordine teorico, didattico, metodologico e spirituale emergenti da una cultura straordinariamente ricca, ma travagliata da crisi e conflitti di ogni genere» (C. Vasoli). Nell'imponente catalogo dei suoi scritti risaltano i seguenti titoli: In sncrae Scriphzraeexpositicnzem (che include tra gli altri i seguenti commenti: ln lihrum 10b; In Psnlnzos; In Evangelia Matthei, Marci, Lucae, Iolznnnis; In Acta Apostolarunz; In Epistolas Patria"); Scripta philosophiczz (Che include il commento al De ente ct cssentia e il De ÌIOHTÎHHHT analogia); Commentario: in tres libros Aristotelis De anima; e l'imponente commento alla Smnma Tlzeoltigiae di S. Tommaso. La fama del Gaetano è legata al suo monumentale commento alla Silnmm Thrologiae, di cui egli è considerato il commentatore per eccellenza. Il suo influsso sui posteri fu enorme, specialmente sui tomisti. Gran parte della seconda Scolastica e del neotomismo si è formata sulla lettura gaetanista di S. Tommaso. Ma la storiografia più recente (a partire da cazione
e
leggi giuste.
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riserve a proposito dell'autenticità del tomidel Gaetano. Indubbiamente il Gaetano è un ottimo commentatore sia di Aristotele sia di S. Tommaso, ma a mio parere, anziché interpretaTommaso alla luce delle sue dottrine più originali, 10 interpreta alla re luce di Aristotele, che il Gaetano, anziché leggere in chiave tomistica, interpreta, come il suo collega Pomponazzi, in chiave averroistica. I segni più evidenti di questo "tradimento" di S. Tommaso sono tre: 1. il Gaetano ignora completamente la grande originalità della metafisica tomistica dell’actus essendi; 2. mentre S. Tommaso sostiene la tesi che è possibile dimostrare l'immortalità dell'anima e legge il terzo libro del De Anima di Aristotele in questo senso, il Gaetano fa sua l'interpretazione averroistica e dichiara che l'immortalità dell'anima è indimostrabile:
Gilson) ha sollevato gravi smo
«Sicuf nescio mysterium Trinitatis, sicut nescio animam immortalem... (come non conosco razionalmente il mistero della Trinità, come non conosco l'anima immortale...)»; 3. mentre S. Tommaso ritiene che tra fede e ragione, come pure in linea di principio, tra filosofia e teologia esiste una profonda, sostanziale armonia, il Gaetano, sposando le posizioni degli averroisti del suo tempo, sostiene che tra i due campi la separazione è nettissima e che tesi come l'immortalità dell’anima e la provvidenza divina sono valide soltanto per i teologi e per i credenti. A causa di questa difformità dal pensiero dell’Aquinate, il confratello del Gaetano, Bartolomeo di Spina, ebbe l’ardire di intervenire contro il più illustre maestro del suo Ordine pubblicando, nel 1518, tre scritti contro il Gaetano: Propugnaculum Aristotelis de immortalitate animata contra Thonzam Cajetanum; Tutela treritatis de imnzortalitate animae contra Petrunz Pomponatizim; Flagellum in trcs libros apologiae eiusdem. In questi lavori il di Spina difendeva la ”retta” dottrina aristotelica, considerata del tutto consona a quella tomista e metteva sotto accusa sia il Pomponazzi che il Gaetano, colpevoli di avere indebolito la credenza nell’immortalità dell'anima con i loro argomenti che la riducevano soltanto a una questione di fede, estranea alle dimostrazioni filosofiche. Tra gli opuscoli filosofici del Gaetano quello che ha sempre suscitato il maggior interesse è il De nominunz analogia, dove egli teorizza quella che fino alla metà del secolo XX era ritenuta la versione ufficiale della
dellanalogia. Nel suo lucido trattato il de Vio propone una analogia in tre tipi (ineguaglianza, attribuzione e proporzionalità), ne studia i vari risvolti logici e gnoseologici e conclude che Yanalogia da preferire nella determinazione del significato del linguaggio teologico non è quella di attribuzione (che per lui equivale ad attribuzione estrinseca) bensì quella di proporzionalità propria. Ma recenti studiosi della dottrina di S. Tommaso sull'analogia (Gilson, Fabro, Mclnerny, Montagnes, Mondin) hanno contestato Yesegesi gaetaniana e hanno mostrato che S. Tommaso parla quasi sempre di analogia dottrina tomistica
classificazione della
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Parte prima
prius et posterius, e quindi fa valere Panalogia di intrinseca, anziché Panalogia di proporzionalità.
secundunz
attribuzione
Nel commento al De ente et essentia di S. Tommaso, Gaetano respinge le critiche scotiste allbntologia tomista e difende la dottrina d ellîmalogia entis. In generale, tuttavia, bisogna ammettere che nel Gaetano si registra non solo un "tradimento" della metafisica tomistica ma anche un indebolimento della metafisica in generale. Tale indebolimento appare evidente in due questioni: la dimostrabilità dell'immortalità dell'anima e quella dell'esistenza di Dio. Egli evidentemente ammise sempre che l'uomo è dotato di un'anima immortale, ma, mentre all'inizio della sua attività scientifica accettava tale immortalità come una verità dimostrabile con argomenti puramente razionali, affermò poi che Aristotele, il filosofo per eccellenza, non l'aveva ammessa o l'aveva almeno lasciata in dubbio, e infine dichiarò che non può essere dimostrata razionalmente ma soltanto creduta in nome della rivelazionecristiana. Nel 1503 e nel 1507 egli provava l'immortalità dell'anima partendo come faceva S. Tommaso dalla spiritualità della medesima. Nel 1509 però, nel commento al De anima di Aristotele, dopo essersi fatto realizza-
re una nuova traduzione del testo greco, affermò che lo Stagirita, non solo «titubante vestigia delibavit (affrontò con passo vacillante)» la questione dell'immortalità dell'anima, ma lasciò «sub dubio (in dubbio)» se l'anima continui a vivere dopo la morte del corpo. Secondo Aristotele l'intelletto possibile proprio di ciascun uomo, è corruttibile e mortale, mentre l'intelletto agente, unico e separato dagli uomini, e incorruttibile e immortale. Ma, aggiungeva il Gaetano, Aristotele erra nel ritenere che per aversi spiritualità e immortalità dell'intelletto sia necessaria l'indipendenza dell'intelletto dal corpo non solo tamqziam a subjccto, anche se, per conoscere, l'intelletto per avere l'oggetto è subordinato in questa vita alla presenza di fantasmi. Infatti ciò non gli impedisce che nell'essere sia indipendente da ogni soggetto di inesione, cioè dal corpo. Nel 1528, dopo circa vent'anni di attività speculativa nella quale non fece alcun accenno alla questione dell'immortalità dell'anima, in un "Commento all'Epistola di San Paolo ai Romani”, mise sullo stesso piano di indimostrabilitàrazionale il mistero della Trinità, quello dell'Incarnazione e l'immortalità dell'anima. Nel 1534 scrisse che nessun filosofo aveva finora "dimostrato" rigorosamente che l'anima dell'uomo fosse immortale: i motivi addotti erano soltanto probabili. In un altro punto il Gaetano si discostò dal parere comune dei commentatori di S. Tommaso: nel giudicare insufficienti le "cinque vie" per dimostrare l'esistenza di Dio. Egli, esponendole, sostenne che con esse si può certamente giungere all'affermazione dell'esistenza nel mondo di qualche essere del tutto incorporeo, di qualche altro essere non contin-
L'indirizzo tomista
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gente ma necessario, di qualche altro sommamente intelligente, ma che,
provandosi per ciò stesso, l'unicità e l'infinita di un essere supremo, dimostrata l'esistenza di Dio. Soltanto con gli argomenti recati da S. Tommaso nel trattare le questioni successive, riguardanti appunto l'unicità e l'infinita perfezione di Dio, se ne provava veramente l'esistenza. Nel famoso Commento alla Summa Tlzeologiae il Gaetano non si accon— tenta di esporre con grande acutezza il pensiero clell'Aquinate, ma, quando gli si presenta l'occasione, egli propone anche le proprie teorie. non
non era
Questo monumentale commento fu composto nel Corso di Vent'anni e portato a termine nel 1522. La ragione che sembra avere indotto il cardinale Gaetano a questa grande impresa sembra essere quella già indicata
in precedenza, ossia il fatto che la Summa era ormai diventata testo ufficiale in molte facoltà di teologia, al posto dei Libri sententiarum di Pier Lombardo. Storicamente risulta che il Gaetano fu il primo a portare a termine un commento completo della Summa Theologiae; e del resto questa sua opera fu talmente eccellente da raccogliere il consenso non soltanto di numerosissimi studiosi anche non cattolici ma dello stesso ma-
gistero
ecclesiastico. Così Leone Xlll, dando il via all'edizione critica delle opere di S. Tommaso, ordinò che insieme alla Summa fosse pubblicato anche il commento gaetaniano. Tuttavia il suo commento ai tempi di Pio V aveva subito qualche emendamento, là dove il Gaetano aveva espresso opinioni troppo personali e non conformi all'insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica. Ma, come rilevail Mandonnet, si tratta di
soppressioni "inoffensiVe".
Nel suo commento il Gaetano ha di mira soprattutto la difesa della dottrina tomistica dagli attacchi di Scoto. Nella Tertia Pars a questa preoccupazione si aggiunge quella di. difendere la dottrina cattolica contro il luteranesimo. Il Gaetano respinge la dottrina della justificatio sola fide, insiste sulla necessità della cooperazione dell'uomo alla grazia, difende le ”opere buone" e la ”libertà dell'arbitrio". Inumertisi commenti alla Bibbia da lui composti appartengono all'ultimo periodo della vita del Gaetano. Questi commenti risentono dell'influenza di metodi e ispirazioni umanistici. Il Gaetano utilizzògli "Scholia" di Erasmo, col quale egli intrattenne anche uno scambio epistolare. I suoi commenti abbondano di osservazioni teologiche importanti, che possono essere lette utilmente, come complemento al suo commento alla Summa.
Parte prima
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Francisco Suarez VITA E OPERE a Granada nel 1548, a soli tredici anni Francisco Suarez già fredi Salamanca. Fattosi gesuita, a sedici anni, inizia l'università quenta subito il corso di filosofia sotto la guida del p. Andrés Martinez, dando presto prova di una speciale attitudine per la speculazione filosofica. Nel 1570 porta a termine il corso di teologia nella università di Salamanca con una discussione pubblica intorno alla superiorità della grazia di Maria su quella dei santi. Ordinato sacerdote nel 1572, insegna prima filosofia a Salamanca e Segovia (1570-1574), poi teologia a Valladolid, SegoVia e Avila (1574-1580). Chiamato nel 1580 a insegnare teologia al Collegio Romano, deve ritornare in Spagna (1585) per la sua malferma salute. Continua l'insegnamentoteologico ad Alcalà fino al 1593. Quattro anni più tardi, le ripetute richieste dell'università di Coimbra, appoggiate da Filippo II, lo inducono ad accettare la cattedra del primo anno di teologia. Così, fino a due anni prima deila sua morte (1615) alterna i suoi lavori di scrittore con l'insegnamento della disciplina di cui era titolare. Interviene anche, ma non in maniera significativa, negli ultimi episodi della controversia De auxiliis, che aveva dato luogo al durissimo scontro tra Bafiez e Molina, con il suo opuscolo De trem intelligentia auxilit" efiicacis. Negli ultimi anni del suo insegnamento, per espresso invito del papa, interviene con la Defeizsio fidei nella polemica suscitata dal re d'Inghilterra Giacomo I. Nel 1615 si ritira a Lisbona nel noviziato della Compagnia, dove muore serenamente il 25 settembre 1617. Suarez è stato indubbiamente il teologo più prolifico dell'epoca moderna. I trattati pubblicati da lui o che aveva lasciato quasi del tutto già pronti per la stampa formano nell'edizione dell'Opera 011111112 (Venezia 1747 95.; Parigi 1856) un complesso di 23 volumi "in folio". Ma rimangono ancora non pochi scritti inediti. Tra le opere più importanti segnalia— mo: De Verbo incarnato (1590); Disputationcs mctaplzysiczic (1597); Varia
Nato
(JpHSCOÎa theologiczz (1599); De vera intellijgerztia (1605); De virtule et stata religionis (2 voll. 1608-1609); De legibus ex‘ de? D00 legislatore (1612). Non solo tra i contemporanei, ma anche tra i posteri, almeno per un paio di secoli, il prestigio di cui godette il Suarez fu talmente grande da guadagnargli titolo di DOCÌOF cxirniirs. LE DISIJUTATIONES METAPHYSICAF
Disputationcs metaphysicae sono il capolavoro speculativo di Suarez, il più importantc trattato di metafisica della seconda Scolastica e una delle opere più influenti per tutto il periodo che va fino a Kant. Le
ljindirizzotomista
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Nella storia della metafisica le Disputationes sono una pietra miliare che segna il confine tra la strada percorsa dai medievali e dagli umanisti da una parte e quella nuova che percorreranno i moderni dall'altra. Con le sue Disputationes Suarez inaugura un nuovo modo di fare metafisica e allo stesso tempo elabora una metafisica aperta alla modernità. Il titolo completo delle Disputationes è: Dispatazioni metafisiche nelle quali viene presentata nel suo ordine l'intera teologia naturale e vengono altresì discusse accuratamente le questioni pertinenti a tutti i dodici libri della Metafisica di Aristotele. Come si evince dal titolo, due sono gli obiettivi che Suarez si propone in quest'opera: 1°, elaborare con il linguaggio e il metodo della metafisica una teologia naturale; 2°, riproporre, secondo un nuovo ordine, tutti i problemi fondamentali (disputationes) dell'intera metafisica aristotelica. Già Aristotele assegnava alla metafisica il compito di studiare le cause ultime e quindi Dio, ultimissima tra tutte le cause. Però né Aristotele né Tommaso d'Aquino identificavano l'oggetto della metafisica con lo studio di Dio. Perciò la metafisica non era un trattato di teologia naturale bensì di ontologia, poiché il suo oggetto proprio ‘e l'ente in quanto ente. Invece Suarez identifica la metafisica con la teologia naturale e viceversa la teologia naturale con la metafisica. Certo l'oggetto della metafisica e anche per Suarez l'ente, ma poiché questo si suddivide in ente finito e infinito, la metafisica studia primariamente e principalmente l'ente infinito, ossia Dio. In tal modo Suarez pone una netta separazione tra la teologia dogmatica che tratta di Dio, del vero Dio, come si è reso noto mediante la rivelazione; e la teologia naturale che riesce a fare un suo discorso su Dio avvalendosi di argomenti filosofici, ma come si vedrà si tratta di un discorso assai limitato e che non raggiungere il carattere della assoluta certezza. La seconda peculiarità delle Disputationes consiste nel modo nuovo di esporre i dodici libri della Metafisica di Aristotele. Ciò che Suarez offre al lettore non è più l’abituale e fedele commento al testo aristotelico, come si era fatto da sempre: da Alessandro di Afrodisia fino ad Averroè, da S. Tommaso fin a Zabarella, ma una ristrutturazione di tutto il materiale della Metafisica secondo un ordine nuovo dettato dalla logica interna dei problemi discussi. Così il testo aristotelico rimane alla base e vi è continuamente citato, ma non è più esso a fornire la struttura della scienza in questione, la quale viene invece concepita e articolata secondo una sintassi sua propria. Tuttavia, il debito secolare con il Filosofo va pagato, e una volta per tutte. Per questo Suarez appronta e allega alle sue Distmtationes un "Indice dettagliatissimo della Metafisica di Aristotele", in cui passa rapidamente in rassegna, libro per libro, capitolo per capitolo, il testo del Filosofo, innestando per così dire a ogni passaggio aristotelico il rimando a quella delle sue 54 Disputazioni in cui il problema presenta-
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Parte prima
to dallo Stagirita viene ripreso, rielaborato (attraverso il confronto con i commentatori antichi e medievali) e infine risolto. «In tal modo la tradizione lungi dall'essere superata, è trasformata in un vero e proprio “canone", in una sorta di rubrica dei problemi metafisici fondamentali, e di conseguenza il commento cederà definitivamente il posto alla questione alla Disputazione, appunto —, la quale ci si presenta o alla discussione che ben così, una forma letteraria, come un vero e proprio metodo più il cui ermeneutico, principio supremo diventa quello dello ras ipsas contemplari. Per cui tutto si giocherà nella costituzione di questa res, vale a dire (metodologicamente) nell'assicurazione del concetto stesso della -
”realtà" dell'ente».5 Con questa risistemazione della Metafisica Suarez inaugura di fatto la forma moderna del trattato di metafisicafi Nelle Disputationes egli offre la prima trattazione sistematica completa di tutte le questioni discusse dalla filosofia scolastica in forma indipendente, sia dalla teologia sia dal testo aristotelico. In tal modo egli costituisce la metafisica nella sua specificità e totalità, e nella sua piena autonomia. LA STRUTTURADELLE DISPLITATIONES
Le Disputationes si aprono con la definizione della natura, dell'oggetto, del metodo e della finalità della metafisica (Disp. I-III). Si passa quindi allo studio delle tre proprietà trascendentali dell'ente: unità, Verità e bontà, e dei loro rispettivi contrari: la possibilità della distinzione, della falsità e del male (Disp. IV-XI). Si procede poi a considerare le cause proprie dell'ente, non solo quella che lo crea, ma soprattutto quelle che esso stesso esercita in quanto tale: causa materiale, formale, efficiente, finale ed esemplare come la grande rete che tiene assieme le azioni e le passioni del reale (Disp. XII-XXVII). Viene quindi introdotta la capitale divisione dell'ente in ente infinito ed ente finito (Disp. XXVIII), una divisione che nell'intento del Suarez non interrompe, né tanto meno spezza, quanto piuttosto incrocia la linea unitaria dell'ente, tendendo agli estremi la capacità comprensiva e connettiva del suo concetto. È perciò all'interno di quest'ultimo, quindi entro la prospettiva ontologica iniziale, che si affronta il problema dell'esistenza e dell'essenza dell'ente primo e increato, tentandone una duplice dimostrazione, a posteriori e a priori (Disp. XXIX-XXX).Nella stessa prospettiva si inquadra la questione della distinzione tra essenza ed esistenza nell'ente finito (Disp. XXXI).
5) 6)
C. ESPOSITO, Introduzione a F. SuAKez, Meditazioni metafisiche I-III, Milano 1996, p. 7. Cf. C. GIACÒN, Suarez, Brescia 1945, pp. 51-79.
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A
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questo punto le Disputationes si
concentrano sulla descrizione delaristotelico delle dieci categorie: anzi-
l'ente finito, seguendo lo schema tutto il genere supremo, la sostanza creata, immateriale e materiale (Disp. XXXll-XXXVI),distinta e accompagnata a sua volta dai nove generi di accidenti: quantità, qualità, relazione, azione, passione, tempo, luogo, sito e abito (Disp. XXXVII-LUI), fino a giungere a quello che in primo tempo era stato escluso dall'oggetto della metafisica, ma che poi viene ricuperato anch'esso nella sua entità propria: l'ente di ragione
(Disp. LIV).
LA NECESSITA DI UN
NUOVO TRATTATODI METAFISICA
Come abbiamo già notato, la pubblicazione delle Disputationes metapltysicae costituisce un evento davvero epocale nella storia della metafisica, almeno per quanto concerne la metafisica dell'essere vale a dire la metafisica di tipo ontologico -. Infatti è la prima Volta, dopo Aristotele, che questo paradigma metafisico viene presentato in maniera autonoma, rispetto al testo dello Stagirita. I platonici (Plotino, Porfirio, Proclo, Cusano, Bruno), che costruivano la metafisica secondo il paradigma henologico, avevano elaborato i loro sistemi in totale autonomia rispetto a Platone e alle sue opere, anche se la Repubblica, il Timeo, il Sofista, il Parmenide, e altri dialoghi erano frequentemente citati nei loro scritti. Invece tutti i metafisici dell'essere avevano costruito i loro sistemi commentando o parafrasando la Metafisica di Aristotele. E così l'equazione metafisica Aristotele era talmente consolidata che era quasi impensabileche ci fosse altra metafisica al di fuori di quella ontologica. D'altra parte nessuno dei creatori di nuove metafisiche ontologiche (Tommaso, Bonaventura, Scoto, Occam) aveva dato al proprio sistema una elaborazione organica e sistematica. Le intuizioni che avevano fatto vedere l'essere da una nuova prospettiva, diversa da quella di Aristotele, avevano fornito loro una nuova lettura dei rapporti ente/ essere, ma -
=
rimasto ancora allo stato germinale. Nessuno sistematicamente una nuova metafisica ontologica. tutto
era
aveva
costruito
Suarez nelle sue Disputationes opera il grande passo di sganciare la metafisica dell'essere dal testo aristotelico, ma lo fa non partendo dalla metafisica al fine di rinnovarla e svilupparla, bensì muovendo dalla teologia, in quanto avverte la necessità di porre in mano al teologo uno strumento filosoficoordinato e completo, che gli consenta di fare il proprio lavoro di approfondimento della Verità rivelata. Suarez è convinto come erano convinti Tommaso e Bonaventura che la teologia, anziché rendere superflua la metafisica, la esige come -
-
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Parte prima
sua principale ancella: senza questa la teologia non è in grado di compiere il proprio lavoro: dare un’espressione intelligente e approfondita
ai
le
grandi misteri della fede cristiana. Scrive il Suarez nel suo Proemio alDÎSpLIÎHÌÎOlZESZ «La teologia divina e soprannaturale (divina et SHPETIHÌÌIHTÌÌÌS theologin), pur basandosi su una illuminazionedivina e su principi rivelati da Dio, si compie in realtà tramite un discorso e un ragionamento umano, e per questo si giova anche di verità conosciute per la luce naturale, servendosene come di ministri e strumenti per compiere i —
—
suoi discorsi e per illustrare le verità divine. Ma tra tutte le scienze naturali, la scienza che e prima rispetto alle altre, e che ha guadagnato il nome di filosofia prima, è quella che principalmente serve la teologia sacra e soprannaturale: sia perché si approssima più di ogni altra alla conoscenza delle cose divine, sia anche perché essa esplica e conferma quei principi naturali che comprendono tutte le cose e che, in un certo modo, assicurano e sostengono tutto il sapere».
Riconosciuta la necessità della metafisica in vista della teologia, si può procedere in due modi: in modo occasionale, illustrando le dottrine della metafisica nel corso della trattazione teologica, là dove lo richieda la comprensione di un determinato mistero era quanto avevano fatto tutti gli Scolastici -, oppure in un modo sistematico e Completo, come lavoro preliminare a quello della teologia soprannaturale. Suarez è dell'avviso che il secondo procedimento sia decisamente più vantaggioso del primo. Ecco quanto egli scrive al riguardo sempre nel Proemio alle —
Disputationes:
«Poiché durante le disputazioni sui misteri divini mi si presentavano quelle dottrine metafisiche, senza la cui conoscenza e intelligenza a mala pena, se non per niente affatto, si possono trattare quei misteri superiori, secondo la dignità che spetta loro, ero spesso costretto o a mischiare con le cose divine o soprannaturali dei problemi inferiori, il che è spiacevole o di poca utilità ai lettori; o se non altro per evitare questo incomodo, ero costretto a esporre brevemente il mio pensiero su tali cose e a richiedere al lettore quasi una nuda fede in esse. Il che era certamente fastidioso per me, e a lui poteva anche, e con ragione, sembrare inopportuno. Tali principi e verità metafisiche infatti, sono talmente connessi con le conclusioni e con i discorsi teologici che, se si tralasciasse la scienza e la perfetta conoscenza dei primi, si farebbe
necessariamente vacillareoltre misura anche la scienza dei secondi. Mosso dunque da queste ragioni, e dietro richiesta di molti, ho deciso di scrivere dapprima quest'opera, nella quale fossero comprese tutte le disputazioni metafisiche, secondo il metodo dottrinale più adatto alla comprensione delle cose stesse e alla brevità, e che più servisse alla sapienza rivelata».
L'indirizzo tomis ta
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rapporti nonché la distinzione tra philosolialziapriora e theologiu superrzaturalis sono ulteriormente precisati dal Suarez nel Proemio al Tracfatits de divina substantia. Il suo punto di partenza è quello tradizionale, poiché il Doctor eximius, riferendosi a S. Paolo, distingue una duplice teologia, naturale e rivelata: «Tutto ciò che si attribuisce a Dio in quanto uno può essere conosciuto mediante due teologie, naturale e ìnfusa o soprannaturale». Ma questa dualità non implica una inutile concorrenza o un doppione, perché anche la teologia naturale ha una propria finalità che riguarda «il perfezionamento della natura umana (ad perfectionem naturae humanae pertinet)» e inoltre perché rende un grande servizio alla altior et superior tizeologia. D'altro canto, quest'ultima è indispensabile allo sviluppo e alla conferma della teologia dei filosofi. Questo parallelismo relativo e questa subordinazione reciproca danno conto del fatto che gli autori scolastici abbiano lasciato in una certa confusione queste due ”teologie", pressoché complementari (e che Paul Tillich collegherà secondo il principio di correlazione). È precisamente l'esigenza di evitare qualsiasi promiscuità e confusione tra teologia naturale e teologia rivelata che ha indotto il Suarez a elaborare a parte le Disputationes metaphysicae, come doctrinae conzplementttm, presentando in maniera distinta e separata (distincte zzc separatim) la teologia naturale. Pur elaborata in vista della teologia, la metafisica ontologica del Suarez gode di una completa autonomia e nella sua costruzione presenta I
notevoli affinità non solo di struttura ma anche di contenuti con la metafisica di Avicenna, specialmente per quanto attiene la concezione essenzialistica dell'essere. Con la mediazione di Avicenna Suarez opera il generoso tentativo di mettere d'accordo le due massime metafisiche cristiane del. Medioevo, la metafisica di S. Tommaso e quella di Duns Scoto. Ma più che un accordo Suarez ottiene un compromesso nel quale chi più ci perde è l’Aquinate. Infatti la sua metafisica dell'acfus essendi viene sacrificata alle metafisiche essenzialistiche dei possibilie degli effettibilidi Avicenna e di Scoto. Pur cercando di restare nella scia del Dottore Angelico, Suarez lo fa con grande libertà, distaccandosi dal maestro proprio nei punti più caratteristici e qualificanti della sua metafisica: il concetto di essere, la distinzione tra essenza ed essere, la dottrina dell'analogia e il rapporto tra materia e forma (e atto e potenza). Suarez abbandona il concetto intensivo dell'essere, l'essere inteso come perfezione assoluta e radicale, come perfezione di tutte le perfezioni e come attualità di tutti gli atti, e intende, come Scoto, l'essere in modo estensivo, come la proprietà più comune di tutte le cose e come un concetto astratto, univoco e massimamente universale e semplice (Conccptus simplicissinzus).
Parte prinza
86
I CAPISALDI DELLA
Oggetto della l'essere univoco,
METAFISICA SUAREZIANA
metafisica, secondo Suarez, è l'ens ut sic, che ‘e appunto
poiché ha in sé «unam simplicenz rationenz fornzalerwi adag-
quatam» (Disp. 2, sect. 2, 11). Questa ratio universalis, in quanto praecisa ma realis (ratio quasi actualis) si ritrova in tutti i termini inferiori, verso cui «viene fatta discendere» (Disp. 2, 1, 26), affinché l'ente singolo possa esse-
pensato. Come Scoto, anche Suarez è convinto che se si rinunciasse a questo superconcetto univoco verrebbe messa in crisi ogni certezza e chiare
metafisica, «e perciò non si può rigettare l'unità del concetto per garantire l'analogia; ma invece, dovendo perdere una delle due, sarebbe meglio perdere Panalogia che è incerta in luogo dell'unità del concetto che si può manifestamente fondare con sicure ragioni» (Disp. 2, 2, 36). Questo concetto reale deve Compre/tendere Deum, poi gli angeli e tutte le sostanze materiali e gli accidenti (Disp. 1, 1, 26). La metafisica che conosce l'essere nella sua totalità «include Dio nel suo proprio oggetto (ut sub obiecto suo Deum complectatur)» (Disp. 1, 1, 19), ed essa può esplicare a priori le dimensioni dell'essere in quanto tali, ossia i suoi attributi trascendentali (unità, verità, bontà) senza riferimento diretto agli inferiora (Dio e il mondo) (Disp. 1, 1, 28), tra i quali finalmente vige Panalogia e il principio di causalità. In ogni caso è la più pura realizzazionedellmessere" e in tal modo l'oggetto adeguato (materiale) della metafisica, il suo obiectum primariunr et principale non può essere altri che Dio (Disp. 2, 1, 26). In questo modo, Suarez si allontana da S. Tommaso oltre che nel concetto di essere anche nella definizione dell'oggetto della metafisica. S. Tommaso faceva sì rientrare Dio nella metafisica, ma non come suo oggetto bensì come suo termine ultimo. includendo Dio tra gli oggetti della metafisica Suarez la fa decadere a un mero studio di essenze (l'essenzialismo tante volte denunciato da Fabro e Gilson), anziché considerarla un'autentica ricerca "fattuale" dell'ultimo fondamento degli enti contingenti che non può essere altri che l'asse ipsum subsistens: al quale però si giunge soltanto al termine della metafisica! Il secondo cardine della metafisica delYAquinate è la distinzione reale tra essenza ed esistenza. Suarez respinge tale distinzione e concepisce Yessenza e l'esistenza non come due elementi che insieme compongono l'ente finito, bensì come due modi diversi di concepire lo stesso ente: l'essenza rappresenta la modalità potenziale, l'esistenza la moda— lità effettiva (reale). Nella dottrina dell’analogia Suarez critica e respinge l'interpretazione che ne aveva dato il Gaetano, il quale aveva escluso l'analogia di attribuzione intrinseca per privilegiare Yanalogia di proporzionalità propria. Secondo Suarez le cose stanno esattamente all'opposto: la proporzionalità tra Dio e le creature non può essere propria ma semplicemente metaforica; per contro tra Dio e le creature si può dare rezza
della
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oltre che urflattribuzione estrinseca (per cui la proprietà predicata appartiene realmente soltanto all'analogato principale e degli altri analogati viene detta soltanto grazie a qualche nesso causale con Vanalogato principale, come quando si predica “sano” del bambino, della medicina, del colore, del clima ecc., la sanità intrinsecamente è soltanto del bambino), anche un’attribuzione intrinseca: questa comporta la presenza della
perfezione predicata in tutti gli analogati (nel principale come nei secondari), ma è un'appartenenza che avviene secondo un ordine: la perfezione (per es. dell'essere, della bontà, della verità ecc.) appartiene anzitutto, primariamente, pienamente all'analogato principale (Dio) e secondariamente e in modo limitato, partecipato agli analogati secondi (le creature). Così, «Yanalogia o attribuzione che la creatura può avere con Dio rispetto al concetto di ente, è del secondo tipo (ossia Yanalogia di attribuzione intrinseca), cioè è fondata sul proprio e intrinseco essere il quale possiede un rapporto o dipendenza essenziale da Dio (essentialem habitadinem sea dependentianz a Deo)».7 Infine quanto ai rapporti tra materia e forma, Suarez concepisce questi due elementi come due entità a sé stanti, e non come due principi coessenziali della realtà materiale e, per spiegare l'unione, postula un ”legame”, un "modo" unificatore, cosicché la sostanza ilemorfa, in luogo di comportare solo due elementi ne esige tre.
Allo stesso modo che entifica la materia e la forma per unirle in un secondo momento Suarez entifica la sostanza e Yaccidente e li Cementa a cose fatte con un nuovo ”modo" tanto che Paccidente non è individuato dalla sostanza ma da se stesso, e nel corso del divenire uno stesso accidente individuale può passare da una sostanza all'altra. Nella metafisica dell'essere necessario Suarez dichiara insufficiente, per provare l'esistenza di Dio, l'argomento aristotelico desunto dal moto: esso non basta a provare nemmeno l'esistenza di una sostanza immateriale e spirituale; il principio 0mm: quod ntozietur ab alia movetar (tutto ciò che si muove è mosso da un altro) non vale per gli esseri viventi, e i cieli possono essere mossi da una forma ad essi intrinseca. Perciò il principio omne quod nzovetur ab all'0 movetur dev'essere modificato in omne quod fit, ab aliofit (tutto ciò che è fatto è fatto da un altro). Con questa nuova formulazione del principio di causalità il Suarez ottiene la seguente dimostrazione dell'esistenza di Dio: «Ogni ente o è fatto, o non è fatto ed è increato; ma tutti gli esseri che sono nell'universo non possono essere fatti; dunque è necessario che ci sia qualche ente non fatto, increato» (Disp. XXIX, l). Ma anche con questa argomentazione, secondo Suarez, si arriva a uno o più esseri incausati,non necessariamente a uno solo. Scrive il Suarez a
questo proposito:
7) Disputationes rrzetaphysicae 28, sect. 3, 16.
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Parte prima
«Benché col ragionamento svolto nella sezione precedente sia stato provato con evidenza che tutti gli enti non possono essere stati fatti, ma ce m‘; qualcuno di non fatto, non si è ancora concluso con quel raziocinio che sia uno solo e non più. Qualcuno potrebbe dire infatti che tutto ciò che è stato fatto è stato fatto da altri e, in questa progressione, bisogna fermarsi, nei singoli ordini delle cose, in qualche prin-
cipio non fatto; e pur tuttavia non in un uno e medesimo principio, in più, secondo la diversità delle cose e delle specie, come hanno fatto alcuni ponendo principi diversi secondo la diversità delle cose (per es. un dio del frumento, un altro del vino ecc)» (Disp. XXIX, 2). ma
C'è tuttavia un argomento che conduce anche all'unicità del Primo Principio: è l'argomento dell'ordine. «Infatti,benché i singoli effetti presi e considerati per sé non mostrino che uno e medesimo è il fattore di tutto, tuttavia la bellezza dell'intero universo e la meravigliosa connessione e ordine di tutte le cose che sono in esso, dichiarano a sufficienza che uno è il primo ente, da cui tutto è retto e trae origine» (ibiat). Però, secondo Suarez, questo argomento non e apodittico e ha contro di sé gravi difficoltà. Ma può dimostrarsi che nel concetto di ente necessario e inclusa a priori l'unicità, e allora si ha finalmente la prova dell'esistenza di Dio, anche perché l'unicità porta con sé l'infinita di ogni perfezione possibile. Ad ogni modo, benché le singole prove dell'esistenza di Dio prese isolatamente non siano decisive e non bastino a costringere l'intelletto dell'uomo pertinace all'assenso, tuttavia le varie argomentazioni prese tutte insieme «sono ben efficaci e mostrano assai sufficientemente la predetta verità» (Disp. XXIX, 3). Su questi capisaldi si regge tutto il resto dell'edificio metafisico del Suarez. Il Doctor exiniius con logico rigore deduce gli attributi della natura divina, a partire da quello della perfezione (Disp. XXX, 1). Dio, non avendo ricevuto l'essere, lo possiede pienamente, perfettamente. Per questo motivo è anche infinito, semplicissimo, immenso, immutabile, sapientissimo: «vive di vita intellettuale e felicissima», è onnipotente. Per la questione della Conciliazionetra azione divina e libertà umana, Suarez trovò la soluzione nel ricorso alla scienza media. Questa permette a Dio di conoscere i futuribili,cioè quello che la volontà umana farebbe se fosse posta in certe circostanze. Verificandosiallora certe circostanze piuttosto che altre, Dio può sapere quale sarà il comportamento della volontà umana, e quindi concorrere con essa simultaneamente alla produzione dell'atto.“ Poi, passando all'ente finito, Suarez analizza tutti i molteplici elementi che lo compongono. Come si è già detto, egli riduce la fondamentale distinzione/composizionetra essenza ed esistenza in una distinzio-
8)
Cf. De grzrtia 111, 25.
L'indirizzotomista
89
ne/ composizione meramente logica: l’ens quo, vale a dire l'esistenza,
è soltanto un’astrazione della mente. In particolare l'essenza di una cosa non può essere distinta dalla sua esistenza, perché un ente non può essere costituito da qualche cosa da esso distinta; Fesistenza creata è finita non perché ricevuta da un'essenza come atto in una potenza, ma in virtù della divina potenza. Così, soppresso Fans quo (l'esistenza), Suarez si sente costretto a trovarvi un surrogato in quei "modi" sostanziali 0 accidentali di cui già alcuni Scolastici avevano parlato. Essi non sono propriamente entità, ma modificazioni reali delle entità, richieste dalla natura degli esseri creati, finiti, imperfetti, destinati a stare insieme gli uni con gli altri per completarsi a vicenda. È per un modo sostanziale che la natura individua è costituita persona; per un modo sostanziale gli accidenti ineriscono alla sostanza, per un modo sostanziale ogni forma è unita alla propria materia. Materia e forma sono due enti, come due atomi, la cui unione costituisce il corpo. Non ripugna che la materia abbia più forme sostanziali. L'individuazionenon è data dalla materia, ma da tutto l'ente. Nel corpo vi sono due estensioni, una entitatìva e una -
-
quantitativa; questa aggiunge a quella Pimpenetrabilità. Quanto alla determinazione delle categorie, Suarez ritiene non potersi provare con la ragione che gli accidenti siano più o meno di nove. Da parte sua egli nega la realtà degli ultimi sei e della relazione. Oltre che dell'ente primo, o Dio, e dell'ente finito (la creatura) in generale nelle Disputationes Suarez si occupa anche degli angeli e si chiede che cosa possa conoscere la ragione intorno alla essenza delle intelligenze create (Disp. XXXV)” In questa affascinante ma complessa questione il Doctor eximius cerca di mediare ancora una volta tra la posizione del Doctor angelicus e quella del Doctor subtilis, privilegiando tuttavia quest'ultima in diversi punti. Sulla questione della pura spiritualità degli angeli e della loro immaterialità naturale Suarez segue la dottrina di S. Tommaso, ma ammette che ci possono essere molti angeli all'interno di una medesima specie, come aveva sostenuto Scoto. Per quanto concerne la conoscenza e la volontà angelica, Suarez resta fedele alla posizione tomista, ma se ne distacca quando afferma il primato della libertà, secondo il pensiero scotista, per cui l'angelo avrebbe potuto peccare contro l'ordine naturale anche in modo veniale, e avrebbe potuto pentirsi del suo peccato, poiché non è determinato irrevocabilmentenel bene o nel male, per il fatto stesso che almeno una volta ha scelto liberamente. 9)
Oltre all'esposizione sintetica delle Disputntiones, al terna degli angeli Suarez ha dedicato un ampio trattato, il De angelis che «rappresenta probabilmentela sintesi più completa di angelologia e demonologia dell'età moderna» (R. LAVATORI, Cli angeli, Torino 1971, p. 177).
90
Parte prima
È facile notare nelle Disputatiortes
una grave lacuna: in esse si parla della sostanza divina, della sostanza angelica e della sostanza materiale, mentre si ignora completamente la sostanza umana, che pure ha molti più titoli della sostanza materiale per essere inclusa in un trattato di metafisica. Forse l'esclusione è dovuta all'ampiezza e complessità della tematica che non poteva essere adeguatamente svolta in un volume piut-
tosto sintetico quali
sono
le
Disputationes.
Le questioni metafisiche relative all'uomo sono comunque accuratamente esaminate dal Suarez nel suo De anima. Nell'uomo, anima e Corpo formano una unità sostanziale?" tuttavia essi non sono uniti immediatamente, bensì attraverso uno di quei modi sostanziali di cui si è detto. L'anima intellettiva è nell'uomo l'unica forma sostanziale. La sua spiritualità è provata dalle operazioni indipendenti dalla materia.“ Sulla spi-
ritualità è fondata l'immortalità dell'anima, che è pure dimostrata dal desiderio della felicità, inattuabilein questa Vita, e dalla necessità di una retribuzione giusta. LA DIVISIONE DELLA METAFISICA IN GENERALE
E SPECIALE
Disputatiotzes nzetaphysicae Suarez non è soltanto l'artefice della separazione della metafisica dalla teologia da una parte, e dai commentari aristotelici dall'altra, conferendole lo statuto di un trattato completamente autonomo, ma è anche colui che per primo divide la metafisica in due parti: una prima parte che tratta dell'ente in generale, delle sue «rationes Cmnmunes et quasi transcendentales (proprietà comuni e quasi traCon le
scendentali)» (è la parte a cui si dà il nome di ontologia), una seconda parte che studia i vari generi dell'ente: l'ente increato (Dio), l'ente creato immateriale (l'angelo) e l'ente materiale (a questa parte si dà il nome di
nzetaphysica specialis).
Di questa divisione logica troviamo un riscontro visibilenel fatto che Suarez stesso divide la sua opera in due tomi: il primo comprende le Disputazioni l—XXVIl, e sono quelle in cui si affrontano le questioni dell'ente in generale, delle sue proprietà trascendentali e di tutte le sue cause. Invece il secondo tomo include le Disputazioni XXVIII-LIV, le quali trattano della sostanza divina, angelica e materiale. Riguardo alla divisione della metafisica in due parti ecco quanto scrive il Doctor eximius nella introduzione generale alle Disputationes (in cui spiega il motivo e lo svolgimento dell'intera opera al lettore):
m) Cf. De anima l, 12. H) Cf. lbid, C. 9.
L'indirizzo turnista
91
«Nel primo tomo viene attentamente considerata la più ampia e universale ragione dell'oggetto della metafisica e cioè quella che viene chiamata ente, con le sue proprietà e le sue cause. Ed è in questa considerazione delle cause che mi sono soffermato più ampiamente di quanto si faccia di solito, perché l'ho giudicata non solo molto difficile, ma anche di grande utilità per tutta la filosofia e teologia. Nel secondo tomo, invece, abbiamo trattato le ragioni inferiori dello stesso oggetto, iniziando dalla divisione dell'ente in creato e creatore, intesa come divisione primaria, la più vicina alla quiddità dell'ente e la più atta allo svolgimento di questa dottrina; svolgimento che in seguito procede trattando ciò che è compreso sotto queste partizioni, fino a tutti i generi e gradi dell'ente contenuti entro i termini o limiti di questa scienza».
Questa divisione della metafisica in cui lo studio dell'ente in generale
viene anteposto allo studio di Dio implica sia un'idea particolare della metafisica che è l'idea essenzialistica di Avicenna e Scoto e non certo l'idea realistica di Aristotele o di S. Tommaso e inoltre una determinata concezione per quanto attiene la priorità degli argomenti. La priorità, dal punto di vista dell'indagine, secondo Suarez, compete alla amplissima et universalissima ratio dell'ente che è l'oggetto principale della metafisica; solo esso costituisce l'oggetto adeguato; ciononostante Dio rimane l'oggetto prirnario, nella misura in cui rappresenta la praecipua pars entis. È soltanto a questo titolo e non considerato in se stesso, sub sua propria ratione deitatis che Dio "fa parte" dell'oggetto della metafisica: «Deum contineri sub objactr: huius scientiae ut primum ac praecìpuum objectiznr, non tamen ut adaequatunz (Dio è compreso sotto l'oggetto di questa scienza in quanto -
—
primo e principale oggetto, non pero in quanto adeguato)» (Disp. l, 1, 26)Infatti la "ratio sub qua" Dio è conosciuto dal metafisico è la ratio Communis aliis rebus. È la Comunanza di questa ragione formale che consente di conservare l'unità della metafisica nonostante la grande disparità dei suoi oggetti. «Benché Dio e le intelligenze considerate in se stesse (SECUHdum se consideratae), sembrino appartenere a un grado e a un ordine superiori, tuttavia, in quanto cadono sotto la nostra considerazione, non possono essere disgiunti dalla considerazione dei loro attributi trascendentali»
(Disp. I, 3, 10).
Pertanto, pur privilegiando la prima pars principalis o generalis, Suarez
rifiuta di separare completamente, secondo la sua specificità propria, la secunda pars che rimane comunque la praecipua. Il Doctor exinzius affronta questa difficoltà a proposito della questione del tipo di unità che compete alla metafisica come scienza: unità specifica o unità generica? Dopo avere esposto la dottrina che darà il via alla tradizionale ripartizione in mctaphysica generalis e metaplzysica specialis circa l'unità generica della metafisica la quale comprende tre scienze specifiche (la scienza dell'ente in quanto ente, la scienza delle intelligenze create e la scienza di Dio), -
-
92
Parte prima
Suarez contrappone a questa tripartizione l'unità formale della ratio sub qua e del tipo di astrazione propria della metafisica. L'unità che viene così messa in risalto è la Linità di una intentio 0 di una consideratio, l'unità di una ratio cognoscendi anziché di una ratio esser-idi. Così l'andamento di Suarez, secondo il filo delle divisioni successive che scandiscono le Disputafioixes, Sembrerebbecontraddire la tesi qui affermata dell'unità specifica della metafisica. Tuttavia «malgrado questo tentennamento molto grave, resta il fatto molto evidente che Suarez è senz'altro l'autore che segna una tappa decisiva nel movimento già antico conducente a separare una metafisica generale, il cui oggetto proprio è Yens commune sumptztnz, e una metafisica speciale che prende in considerazione Dio e le intelligenze separatemîî Dopo aver presentato sommariamente la metafisica che Suarez ci offre nelle sue Disputatiorzes è ora di chiedersi: qual è il metodo seguito dal Doctor exitnizrs nella elaborazione della sua metafisica, e, in definitiva che genere di metafisica e quella che egli ci propone? Quanto al metodo Suarez non segue ne’ il metodo della resolutizz degli aristotelici, né il metodo della compositia dei platonici. La sua ricerca non va né dagli effetti alle cause (Aristotele), né dalle cause agli effetti (Platone). Il suo metodo è descrittivo ed esplicativo. Nella prima parte delle Dispumtioncs la descrizione e la spiegazione riguardano il concetto di ente e le sue proprietà trascendentali oltre che i vari tipi di causalità; mentre nella seconda parte la ricerca si concentra sulla natura e sulle proprietà delle tre forme principali che assume la sostanza: la forma divina, la forma angelica e la forma materiale. Il metodo analitico-descrittivo usato dal Suarez rivela chiaramente in che cosa egli fa consistere la metafisica. Questa per lui non è un’ardita e rischiosa navigazione che ci fa uscire da questo mondo della caducità e delfapparenza per condurci a quello della inzmutabilitas e della zzeritas. La metafisica suareziana è una meticolosa perlustrazione del mondo dell'essere, il quale in un primo momento è visto molto da lontano e dall'alto, cogliendone le caratteristiche più generali e più comuni; e poi, nel secondo momento è considerato più da vicino nelle sue attuazioni particolari: così anche Dio diviene una specie di ente, anziché l'asse
ipsum subsistens.
Nella metafisica suareziana non c'è né il faticoso ascensus di Aristotele e di S. Tommaso né il rapido (ÎESCETISHS di Plotino, Porfirio, Proclo, Cusano, ma c'è una lunghissima escursione per cogliere le proprietà dell'ente: sia quelle generali sia quelle specifiche dell'ente divino, angelico e materiale. Di grande efficacia è l'escursione suareziana attraverso la foresta degli innumerevoli elementi che compongono l'ente materiale,
13) ]. F. COURTINE, SLIHFCZ et le système de la métaphysique, Paris 1990, p. 333.
L'indirizzoturnista
93
specialmente i
suoi accidenti. Tuttavia, per una ricerca autenticamente metafisica tutta questa ontologia è una divagazione e un inutile carico di pesante zavorra. Ciò che conta in metafisica è la "seconda navigazione": l'uscita dalla terra incerta e infida del finito e del transitorio, per raggiungere la sicura sponda dell'infinito e dell'eterno. Su questo punto vedevano molto bene i platonici, secondo i quali è inutile continuare a esaminare l'ente nelle sue varie suddivisioni. Ciò che è necessario è lasciare la "foresta" dell'ente materiale e finito, e usando i "puri ragionamenti", cercare di pervenire al mondo dello spirito. Riducendo la metafisica a semplice ontologia Suarez l'ha indebolita notevolmente e ha preparato la sua trasformazione in mera fenomenolo-
gia dell'essere.
DIFFUSIONE E INFLUSSO DELLE DISPUTATIONES E DELLA METAFISICA SUAREZIANA
Abbiamodetto e ripetuto che le Disputatioizes rappresentano una piemiliare e un momento epocale nella storia della metafisica, perché le danno uno statuto del tutto autonomo e una strutturazione profondamente rinnovata. Per almeno due secoli le Disputationes hanno esercitato un influsso molto vasto e profondo, che non è stato ancora adeguatatra
mente esaminatofi
Elaborando una metafisica praticamente neutra, perché come abbiamo visto le Disputationes non presentano un sistema metafisico bensì una fenomenologia dell'essere, Suarez venne accolto favorevolmente in moltissimi ambienti,non solo cattolici ma anche protestanti, non solo religiosi, ma anche laici, non solo da parte dei Gesuiti, di cui divenne il filosofo ufficiale, ma anche dei Domenicani, dei Francescani, degli Agostiniani. Largamente favorevole fu l'accoglienza delle Dispumtiones negli ambienti cattolici, in quanto essi trovavano nell'opera del Suarez un testo esemplare da mettere in mano sia ai docenti che agli studenti per lo studio della metafisica. Le Disputationes diventano inoltre un modello di trattazione della scienza metafisica che trova molti imitatori. In diversi trattati o corsi di filosofia pubblicati in Europa nei secoli XVII e XVIII da autori scolastici, si avverte chiaramente l'influsso delle Disputationes; all'interno della filosofia scolastica il pensiero di Suarez diventa una delle correnti più importanti, ma più nel senso di una tendenza che nel senso di una vera e propria "scuola". Dalle diverse cattedre intitolate a
po’ dappertutto in Spagna già subito dopo la sua morte (a Salamanca, Alcalà, Valladolid, Burgos) quello che si trasmette più che
Suarez sorte
13)
un
Cf. ibid, pp. 403-436.
Parte prima
94
dottrina particolare è un approccio sistematico peculiare ai problemi della metafisica e della teologia. Importante nel secolo XVII è la recezione e diffusione della metafisica suareziana anche tra i teologi protestanti, specialmente in Germania.” Singolare situazione, quella che vede uno dei teologi di punta della Chiesa cattolica diventare uno degli autori di filosofia più studiati nel campo ”avversario” (nel quale egli viene visto come un importante punto di collegamento con tutta la tradizione medievale). Ma non si tratta di una semplice coincidenza, anzi riteniamo che il caso possa essere spiegato proprio in base al carattere per così dire ”neutro" dellbntologia suareziana, non impegnata cioè con nient'altro se non un'accurata fenomenologia dell'ente e quindi fruibile in vario modo all'interno di orizzonti culturali anche nettamente differenti. La netta separazione della metafisica dalla teologia e la sua sostanziale una
neutralità ha reso possibileun'accoglienza favorevole delle Disputationes anche negli ambienti laici, da parte di alcuni dei massimi esponenti della filosofia moderna. Cartesio utilizza le Disputationes nelle sue Meditazioni; Leibniz le legge appena sedicenne «come fosse un romanzo» (!) e le cita sua tesi scritta in latino, sul principio di individuazione discussa all'università di Lipsia; Grozio lo considera un filosofo e un teologo di
nella
ineguagliabilepenetrazione; Berkeley valorizza nel suo Alczfrone il concetto suareziano della conoscenza divina in rapporto a quella umana; il
giovane Vico si chiude «un anno in casa per venire a capo della "Metafisica" del Padre Suarez». Hanno familiarità con le Disputationes Wolff e Baumgarten. Anche Schopenhauer cita con ammirazione «questo vero e proprio compendio della intera filosofia scolastica». Tutto ciò conferma la singolare importanza che la figura di Suarez riveste nella storia della metafisica, anche se di fatto i suoi apporti sono considerevoli nel campo dellbntologia, mentre sono di scarso valore nel campo della metafisica vera e propria. CONCLUSIONE Oltre che in metafisica il genio speculativo del Suarez si espresse con straordinario vigore e originalità in molti altri campi della filosofia e della teologia. In filosofia Suarez fu grande soprattutto nella scienza del diritto: mentre oggi le Disputationes sono studiate come semplice documento storico della filosofia neoscolastica, il De legilms è studiato per trarne ispirazione e motivi dalla filosofia del diritto per la dottrina dello Stato, per il primato della democrazia, per il diritto internazionale.
14)
Cf. E. LÈWALTFR, Spanisclz-jesuitisclze und deutscli-lutlzerischc Metaphysik des '17.
jal-zrhunderts, Hamburg 1935, pp. 60-76.
L'indirizzo tomista
95
Ma Suarez voleva essere e fu soprattutto teologo, e come teologo egli fu indubbiamente grandissimo. Secondo A. Bernareggi, Suarez è stato «il più completo e poderoso ingegno fra quanti hanno fiorito nella Scolastica durante la splendida rinascita dei secoli XVI e XVII. La vastità dell'opera sua e la versatilità della sua mente, come pure la sua eccezionale erudizione e la efficacia e la profondità del suo argomentare, gli hanno conferito un tale primato, che nessuno gli può seriamente contestare. Egli è stato d'altronde, tanto nella dottrina che nel metodo, e per quanto era possibilea un uomo del suo tempo, il più moderno di coloro, che alcuni anche ora si ostinano a chiamare con frase che suona ironica per chi la pronuncia theoiogi recentioresmfi Analogo ma assai più autorevoleil giudizio di M. Grabmann, famoso storico della teologia e della Scolastica in modo particolare. Il giudizio che egli formula sulle Disputationes metaphysicae vale per tutta la produzione filosofica e teologica nel suo insieme. Scrive il Grabmannz —
—
«Suarez riunisce con una stupefacente erudizione su ogni singolo problema trattato, l'insieme della documentazione conosciuta al suo tempo. Non solo cita una pleiade di autori dalle tendenze più disparate, ma, generalmente, ha esposto le loro teorie così da renderne una
fedele immagine (...). Tra i tratti dominanti della
sua
opera
va
segna-
lato un vivo senso del reale, vale a dire una penetrazione acuta che lo conduce fino al cuore del problema per svilupparne iuminosamente, in tutti i dettagli, il processo argomentativo che conduce alla soluzione. Dopo averlo letto ci si trova informati su tutti gli aspetti di una questione, le difficoltà, le ramificazioni, le diverse risposte che possono essere date. Per questa qualità come per la serena oggettività, Suarez fa pensare a S. Tommaso d'Aquino. Ma egli rassomiglia anche a S. Bonaventura, per la profondità della vita interiore e la grande nobiltà della sua vita interamente consacrata a Dio e alla verità>>fl6
Importante suo
autorevole anche il giudizio di l’. Dumont alla fine del eccellente studio sulla teologia dogmatica del Suarez. Scrive Dumont: e
«Suarez non è
un
semplice erudito, un enciclopedìsta e un compilato-
si è semplicemente limitato a leggere e ad assimilare documenti, né a fornire l'inventario delle opinioni più diverse. Di tutte le opinioni egli ha offerto una critica attenta e metodica. Con raro discernimento, senza piegarsi a priori davanti ad alcuna autorità, senza mai piegarsi alla pressione delle amicizie o delle chiesuole, ha re.
W)
15)
Perché
non
BERNAREGCJ, La personalità siriennfica di Francesca Suarez, in AA. Vv., Suarez. Terzo centenario della morte, Milano 1918, p. 35. M. GRABMANN, "Die Disputaiiorzes Hietaphysicae des F. Suarez", in À/Iittelalterliches Geistesleben I, pp. 534 ss. A.
Parte prima
96
analizzato, discusso, sondato ogni sistema per sceverare l'incerto dal solido. Ed è la maestria con cui egli ha compiuto questa cernita, giudicato secondo il vero valore, in tante materie differenti, l'insegnamento dei suoi predecessori e dei suoi contemporanei, prima di proporre la propria soluzione in piena cognizione di causa, che gli è valso il titolo di Dottore Esimio (m). Suarez ha il merito di avere messo a punto sulla maggior parte dei grandi problemi della metafisica, della teologia dogmatica e morale e della spiritualità cristiana una dottrina marcatamente competente, giudiziosa e sicura. Meno brillante di altri, la sua opera non è stata certamente meno feconda, e indubbiamentenon sarà
Davanti a dità
e
meno
durevole-m”
questo coro di elogi e di consensi sulla importanza, profondell'opera suareziana, trovo sconcertante il giudizio pe-
validità
von Balthasar nei confronti del teobreve esposizione del concetto di essere, che logo spagnolo. Dopo una consente al Suarez di fare di Dio l'oggetto stesso della metafisica, Balthasarosserva che in questo modo:
santemente negativo espresso da U.
«la
speculazione viene apparentemente resa idonea
a
ben sapere il
agire quanto alla creazione, redenzione e finale compimento (nella fede), a impadronirsi speculativamente dell'essere illuminatoa giorno fino nei suoi abissi mediante operazioni concettuali, e con i puntelli e i mezzi di un enorme materiale, che affluisce dalla tradizione (...). Con la sparizione della coscienza filosofica del mistero sparisce anche quella teologica, la quale tuttavia secondo Yassioma gratin sizpponit, non destruit naturam, sed elevat dovrebbe rappresentare un sentimento più intenso e profondo del mistero della gloria. Ma un sentimento simile non lo irradiano in genere ormai più gli strumenti didattici della neoscolastica clericale con la loro presunta informazione apologetica su tutto e
fatto che anche
su
Dio, sul
suo
essere,
pensare
e
corrispondenza sulla predica e suladdirittura sulla preghiera e sulla meditazione dei fedeli, con le quali un simile illuminismosta però in
su
tutti. Essi influiscono in tutta
l'insegnamento cristiano,
se non
invincibilecontraddizione. Mentre nel primitivo medioevo fino all'incirca a Bonaventura la teologia e la mistica (obiettiva) esistevano indivise (...) da allora il "rnistico” viene ben presto relegato alla sua soggettiva esperienza della gloria e marcato con la nota della eccezionalità, mentre la ”regola” è rappresentata dalla metafisica ecclesiastica
logico-conseguenziale-concettualistica».1”
17) 13)
P. DUMONT, "Suarez”, DTC XIV / 2, 2690-2691. H. U. voN BALTHASAR, Gloria V: Nello spazio della pp. 33-34.
metafisica, Milano 1975,
L'indirizzo tomista
97
Il giudizio di Von Balthasar è assai severo, e a mio parere qui ci troviamo di fronte a un'analisi che non è né equa né felice, bensì palesemente parziale e tendenziosa. Alcuni rilievidi Balthasar sono pertinenti solo se riferiti alla Scolastica decadente del Settecento che può essere
qualificata come una «metafisica ecclesiastica logico-consequenzialeconcettualistica». Ma non sono affatto applicabili al Suarez: in lui non c'è nessuna perdita della coscienza del mistero, nessuna pretesa di collocarsi al di sopra dei misteri per scrutarli fino in fondo, non c'è una fanatica esaltazione della filosofia, della ragione, della metafisica a detrimento della fede, della teologia, della mistica. Ciò che troviamo in Suarez è invece una stupenda polifonia sugli effetti della grazia nella natura dell'uomo redento, e sui trionfi del soprannaturale nel naturale, precisamente come vuole 1o stile dell'arte barocca. Il barocco, anche nella teologia del Suarez, è un umanesimo cristiano non un umanesimo pagano, è un umanesimo mistico non è un umanesimo illuministico, è simo ortodosso, non un umanesimo gnostico.
un umane-
Parte prima
98
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problem of divine Foreknoîoledge and Future Contingente; from
Aristotle to
Suarez, Leiden-New York 1988; P. DUMOND, Liberti‘ lzurnaine et eoncours dioin d’après Suarez, Paris 1936; E. ÈLORDUY, Teoria suareziana salire la justieia de Dios, Granada 1942; H. GUTHIER, The Melaphysics of F. Suarez, New York 1941;]. HELLIN, La analogia del ser y el conocimiento de Dios en Suarez, Madrid 1949; J. lTURRIOZ, Estudios sobre la metafisica de F. Suarez, Madrid 1949; L. MA1H1EU, F. Suarez: sa philosophic et les rapports qu'elle a aoee sa théologie, Paris 1921; A. OLMOS MEDINA, La obra juridica de Suarez, Granada 1917; L. PERENA VIGENTE, Teoria de la guerra en F. Suarez, 2 vo11., Madrid 1954; A. REDDINGTON, The Aet of Faith in the Theology of F. Suarez, Roma 1939; F. STEGMUELLER, Zar Gnadenlehre des jungen Suarez, Freiburg 1933; R. WILLERIUS, The Social and Political Theory of F. Suarez, Helsinki 1963; I. ZARAGUETA, La filosofia de Suarez y el pensamiento actual, Granada 1941.
PARTESECONDA
LA PRIMA
MODERNITÀ
LA METAFISICA MODERNA FINO A KANT
LA
MODERNITÀE LA SUA METAFISICA
L'essenza della modernità I confini temporali dell'epoca moderna sono piuttosto incerti e fluttuanti. Ceneralmente si collegano i suoi inizi con la scoperta dell'America (1492) e la sua fine con la Rivoluzione francese (l 789). Ma mentre la scoperta dell'America fu indubbiamente un grande evento che operò una svolta profonda nella storia dell'umanità e può, quindi, essere assunto come linea di demarcazione tra l'epoca medievale e l'epoca moderna, non pare invece ragionevole collocare la Rivoluzione francese alla fine dell'epoca moderna, in quanto costituisce piuttosto uno dei suoi eventi centrali e più emblematici. L'epoca moderna si prolunga certamente anche dopo la Rivoluzione e, forse, si protrae fino alla seconda Guerra Mondiale (1935-1945). Ad ogni modo, più che a fatti esteriori come una scoperta geografica e un conflitto bellico, la modernità si Collega ad avvenimenti spirituali e culturali, che sono i fatti ai quali è necessario fare riferimento per capire il volto nuovo che assume la metafisica durante l'epoca moderna. Allora, ci domandiamo: che cos'è la modernità? "Moderno" deriva dal latino modo poco fa, adesso. Il moderno è, quindi, l'epoca del nuovo, l'epoca in cui c'è del nuovo e non solo il ritorno all'eguale. Del termine "moderno", nei vari momenti della storia si sono appropriate molte generazioni. Così i cristiani della tarda latinità si chiamavano in latino moderni nei confronti dei pagani che essi designavano come antiqui. Gli scolastici del sec. XIII qualificavano come moderni i teologi del sec. XII per distinguerli dai Padri della Chiesa. Ma nell'uso corrente "moderno" è diventato sinonimo di età moderna e viene inteso come epoca storica che succede all’evo antico e al medioevo. Quindi ”modernità" è anzitutto un concetto temporale: esso connota un'epoca storica (quella che viene dopo il medioevo). Ma "modernità” è anche un concetto culturale: designa una struttura culturale, una civiltà, quella forma culturale o civiltà che a partire dal secolo XVI ha modellato la società europea e successivamente è penetrata anche negli altri continenti, specialmente quelli del Nuovo Mondo. =
Molte sono le caratteristiche della modernità e questo dà conto della notevole varietà di definizioni che sono state proposte per designare la sua essenza.
104
Parte seconda
IL CONCETTO DI I-IEGEL
A Hegel si riconosce il merito di avere sollevato per primo la questiola ne dell'essenza della modernitàfl Hegel identifica la modernità con soggettività e la soggettività, a sua Volta, con la libertà. Questa, che se— condo lo stesso Hegel era già stata la grande conquista del cristianesimo, costituisce l'essenza dello spirito. Perciò la soggettività fa una cosa sola con la libertà. «Il principio del mondo moderno in genere è la libertà della soggettività, per cui tutti gli aspetti essenziali, che esistono nella totalità spirituale, si sviluppano, pervenendo al loro diritto»? Hegel, quando definisce la fisionomia dell'età moderna (0 del mondo moderno) spiega la ”soggettività" con la ”libertà" e la ”riflessione": «La grandezza del nostro tempo è che esso riconosce la libertà, la proprietà dello spirito di essere in sé presso di sé>>fi soggettività, secondo Hegel, significa autonomia nell'agire e diritto alla critica. Di fatto la modernità non può né vuole più mutuare i propri criteri di orientamento di modelli di un'altra epoca: essa deve attingere la propria normatività da se stessa. La modernità si vede affidata a se stessa, senza alcuna possibilità di fuga. Ne deriva la tendenza ad autoesaltarsi e a illudersi, cioè ad assolutizzare gli stadi relativi alla riflessione
dellemancipazitine. La definizione hegeliana della modernità, la cui essenza viene riposta nella soggettività, è stata ripresa da molti autori tedeschi: Dilthey, Husserl, Weber, Scheler ecc. La si trova anche in Heidegger, il quale a questo riguardo così si esprime: «L'età che noi chiamiamo tempo mo-
e
determina in quanto l'uomo diviene misura e centro dell'essente. L'uomo è ciò che sta alla base di tutto Yessente, cioè, modernamente, cli ogni oggettivazione e rappresentabilità,il subiectztnwfl
derno
(...) si
ALTRI CONCETTI DI MODFÉRNITÀ
Dopo Hegel l’”autoaccertamentodella modernità” diviene uno dei problemi più discussi del nostro tempo; nella disputa intervengono studiosi di Varie discipline: storici (Spengler, Toymbee, Huizinga), filosofi (Comte, Nietzsche, Cassirer, Husserl, Heidegger, Maritain, Fabro, Gadamer, Del per primo eleva a problema filosofico quel processo di distacco della modernità dalle suggestioni normative del passato, che non rientrano in essa (...), soltanto alla fine del XVIII secolo il problema dellhutoaccertamcnto della modernità si acuisce a tal punto, che Hegel può vederlo come problema filosofico, e precisamente come il problema fondamentale della sua filosofia» (j. HABÈRMAS, Il discorsofilosoficodella modernità, Laterza, Bari 1987, p. 16). C. W. F. HEGEL, Lineamenti della filosofia del diritto, Laterza, Bari 1965, p. 361. ID, Lezioni sulla storia della filosofia, Nuova Italia, Firenze 1944, III / 2, p. 283. M. HEIDEGGER, Nietzsche, Pfullingen 1961, vol. Il, p. 61.
') «Hegel
2) 3)
4)
La modernità e la
sua
nzetafisica
105
ecc.), teologi (Guardini, De Lubac, Bonhoeffer, Tillich, Rahner, Lonergan ecc.), sociologi (Weber, Luhmann, Berger, Adorno, Habermas ecc.). Alla base delle nuove definizioni rimane sempre il concetto hegeliano dell'autonomia del soggetto, ma tale autonomia viene vista e interpretata in molti modi: come antropocentrìsamo (Rahner), come naturalismo (Guardini), come immanentismo (Fabro), come illuminismo (Adorno), come secolarizzazione (Bonhoeffer, Del Noce), come progresso (Weber), come storicità (Gadamer). Noce
LA MODERNITÀ COME SINTESI DI VALORI ASSOLUTI E VALORI STRUMENTALI
qualifica una cultura sono i suoi valori: i valori che nutrono, ispirano, sostengono, orientano tutto l'agire di una società (popolo, nazione). In effetti, ancora più che gli eventi storici, i personaggi o i prodotti culturali, sono i valori, i motivi ideali, quelli che contano nella definizione dell'anima di una cultura. Per questo motivo gli studiosi hanno Ciò che
individuato l'essenza della Civiltà greca nella cultura del buono, del vero e del bello; l'essenza della civiltà romana nella cultura della sobrietà, della giustizia e del diritto; l'essenza della civiltà indiana nella cultura della "Compassione", della ”apparenza" (maya) e della contemplazione; l'essenza della civiltà cristiana nella cultura dell'amore, della speranza e della pace. Se definendo l'essenza della modernità si segue questo procedimento allora si deve concludere che come abbiamo mostrato nel saggio Una l'essenza della modernità consiste nuova cultura per una 1111071F! s0cietà5 nella felice combinazionee fusione tra valori assoluti di matrice cristiana (i valori della persona, della libertà, dell'amore, della trascendenza, della solidarietà, della verità, ecc.) e valori strumentali escogitati dalla modernità (scienza, tecnologia, industria, economia, progresso ecc.). La modernità non è affatto, come molta storiografia laica vorrebbe far credere, una civiltà secolarizzata e tanto meno atea, bensì una civiltà -
-
profondamente intrisa di religiosità, sia che si tratti di religiosità cattolinei paesi latini oppure di religiosità protestante come nei paesi anglosassoni. Basta dare uno sguardo alle grandi produzioni culturali (artistiche, letterarie, poetiche, musicali, sociali ecc.) che gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i francesi, gli inglesi, gli olandesi, gli svedesi, i tedeschi, i polacchi e i russi hanno realizzato dal XVI al XIX secolo per averne una sicura riprova. Pertanto l'autonomiadel soggetto e delle sue molteplici attività nonché le stupende conquiste scientifiche e tecnologica come
che non sono mai affermate contro Dio né
5)
Edizioni Massimo, Milano 1982, 2“ ed.
sono
mai intese in
senso
pro-
106
Parte seconda
meteico o faustiano, ma come espressione di quella singolare dignità che Dio ha voluto conferire all'uomo. In effetti, da Pico della Mirandola, Leonardo da Vinci, Cartesio e Pascal, fino a Herder, Kant, Fichte, Hegcl, la modernità è sempre concepita come una forma di umanesimo religioso: un umanesimo religioso di grado superiore e più maturo rispetto all’umanesimo teocentrico del medioevo. La modernità ha funzionato egregiamente finché è durata la sintesi armoniosa tra valori assoluti e valori strumentali, e lungo l'arco di quattro secoli (XVI-XIX) essa è riuscita a produrre quei risultati meravigliosi di cui si è appena detto sopra. Poi, durante il secolo XIX, con Yassolutizzazione dei valori strumentali da una parte (scienza, tecnologia, progresso, benessere) e la contemporanea eliminazione dei valori assoluti (persona, verità, virtù, saggezza, bontà ecc.) dall'altra, il connubio si è spezzato e la modernità è entrata in crisi e alla fine ha consumato tutte le risorse spirituali di cui era capace. A quel punto l'epoca della modernità si è conclusa e ha avuto inizio la post-modernità. La metafisica moderna è, ovviamente, la metafisica che è stata elaborata come sostegno speculativo dei valori della modernità. Essa si è assunta questo compito e l'ha svolto con grande impegno fino a Kant, il quale, pur restando ancora profondamente legato ai Valori della modernità, è, tuttavia persuaso che la speculazione metafisica non sia in grado di fornire una giustificazioneadeguata di tali valori.
Le caratteristiche della metafisica moderna Lo spirito della metafisica moderna coincide con lo spirito della modernità. Così la metafisica moderna è una metafisica profondamente ”soggettiva" (vale a dire orientata verso il soggetto anziché verso l'oggetto), antropocentrica, autonoma, secolarizzata e fortemente inclinata verso l’immanentismo. La prima caratteristica della metafisica moderna è l'autonomia: una doppia autonomia. In primo luogo nei confronti di Aristotele e della sua Metafisica e, in secondo luogo, nei confronti della teologia. Ma quella che conta di più è la seconda autonomia. Essa conduce non soltanto al divorzio della filosofia dalla teologia, ma anche all'asso1uto predominio della filosofia nei confronti della teologia. Sono finiti i tempi in cui la "padrona” era la teologia e la filosofia era la sua ”umile ancella”. Ora le parti si sono invertite. Chi detta legge, chi pronuncia l'ultima sentenza non è più il teologo bensì il filosofo. Mai come nell'epoca moderna si è registrata una così grande povertà teologica di fronte a una enorme esuberanza filosofica. Così chi vuole informarsi su Dio, sull'uomo e sul mondo non si rivolge più al teologo ma al filosofo: il dotto, il sapiente è il filosofo. L'era del razionalismoe dell'illuminismoè l'era dei filosofi.
La modernità e la sua
metafisica
107
Una seconda caratteristica della metafisica moderna è la sua separazione dalla scienza. La distinzione tra metafisica (filosofia prima) e scienza (filosofiaseconda) era stata chiaramente percepita da Aristotele, e proprio la scoperta di tale distinzione aveva reso possibile la metafisica, la quale non studia settori particolari della realtà ma l'intero, non determinati gruppi di enti ma l'ente in quanto tale, non i fenomeni ma le loro cause. Di fatto, però, mancando una chiara distinzione tra il metodo della metafisica e quello della scienza, tutta la philosophia naturalis veniva assorbita dalla metafisica. Questa non studia solo l'essere in quanto tale ma anche tutti gli enti. Così i sistemi metafisici, specialmente quelli
platonici erano onninconclusivi. Con la scoperta di una nuova metodologia, la metodologia calcolatoria della scienza, che è in grado di appropriarsi del linguaggio delle matematiche, i confini del territorio della
scienza sono distintamente tracciati: il suo è il territorio dei fenomeni fisici e naturali, perché soltanto questi fenomeni sono verificabilie quantificabili.Questa distinzione netta dell'area della scienza comporta tuttavia un considerevole restringimento dell'area della metafisica. Di fatto nella metafisica moderna sparisce praticamente l’0ntologia intesa come studio dell'essere in generale. Infatti l'essere in generale non interessa per nulla agli scienziati, che studiano soltanto gli esseri particolari e particolari settori della realtà. Ma non serve più neppure al metafisico, perché il suo campo è lo studio di quegli esseri che non cadono dentro l'ambito della ricerca scientifica, ossia gli esseri spirituali: Dio, gli angeli, l'anima. Così dalla metafisica moderna scompaiono tutti i grandi temi della metafisica generale: la definizione del concetto di ente, le sue proprietà trascendentali, le distinzioni tra atto e potenza, essenza ed esistenza, materia e forma, l'esame delle cause e dei principi primi, lo studio degli accidenti ecc. In definitiva, la metafisica si riduce alla teologia naturale (teodicea) e alla psicologia razionale. Infine, la nuova metafisica non è né ontologica né henologica; non viene costruita né intorno all'essere né intorno all'uno, ma intorno a due oggetti principali: l'Io (l'anima, l'uomo, la natura umana) e Dio. Così è stato giustamente affermato che la metafisica moderna si risolve in tinologia (dal greco ti’, tinòs qualcosa e lcîgos studio: deIYaZiquid, della res, della substantiakfi «Scientia de aliquo et nihilo» è la definizione che dava Claubergdella metafisica?’ Altra caratteristica primaria della metafisica moderna è il condizionamento gnoseologico. Che la teoria della conoscenza (gnoseologia) sia decisiva per la metafisica è abbastanza ovvio, tanto che si può dire «qualis gnoseologia talis metaphysica». Infatti è la gnoseologia che decide come e quali realtà sia possibile conoscere. Non è possibile la metafisica se la =
=
6) 7)
Cf. I. F. COURTINE, 0p. cit, pp. 536 s. Cf. I. CLAUBERC, Elementi: philosophineseu
ontosophia, Groningen 1647.
108
Parte seconda
oltrepassa il mondo dell'esperienza sensibile, l'uomo è dotato soltanto di sensi esterni, memoria e fantasia come gli animali. La porta della metafisica si spalanca soltanto se si riconosce all'uomo anche una conoscenza intellettive: la conoscenza della mente (nous), della ragione (logus), dell'intelletto (intellectzis). Ma il solo possesso della ragione o intelletto non fornisce immediatamentela chiave della metafisica, perché il potere della ragione e il suo modo di operare può essere variamente interpretato: può essere ridotto a un mero potere critico, che proclama l'impotenza della ragione nel campo della metafisica e lo costringe dentro il campo della scienza. La ragione non è in grado di compiere la ”seconda navigazione”; può calcolare i concetti, i numeri, i fenomeni, ma non può scoprire la loro causa. Oppure si riconosce alla ragione la capacità di compiere la difficile traversata, ma anche qui ci sono varie possibilità: l'alternativa in definitiva è tra l'intuizione e Yastrazione. Se si utilizza l'intuizione (illuminazione)la sponda della realtà metafisica è raggiunta agevolmente. Invece se ci si affida alYastrazione l'operazione diviene molto più ardua: lflzscensus è duro e difficilee anche l'esplorazione diviene molto più faticosa. Con questa mappa delle molteplici soluzioni del problema della conoscenza si comprende come il preambolo gnoseologico condizioni tutto il restante lavoro del filosofo. Dell'importanza capitale del problema della conoscenza avevano chiara coscienza sia Platone che Aristotele, sia Agostino che Tommaso, ma tutti questi grandi metafisici l'avevano risolto in modo positivo o con la via delfintuizione (illuminazione)o con la via dell'astrazione. Invece Occam che negava sia l'intuizione intellettuale sia Pastrazione aveva già sbarrato la strada alla metafisica. Così l'epoca moderna porta il problema gnoseologico in primo piano e ne fa la questione preliminare e decisiva di ogni altro discorso. Il fatto sorprendente è che tra le varie soluzioni possibili viene scartata la soluzione intermedia dell’astrazione, e così rimangono soltanto due soluzioni decisamente antitetiche: l'intuizione intellettuale da una parte e l'intuizìone sensibiledall'altra. La prima soluzione apre l'accesso alla metafisica, la seconda la chiude. La prima è la gnoseoltigia dei razionalisti, la seconda ‘e la gnoseologia degli empiristi. Inoltre la gnoseologia non condiziona soltanto la possibilità della metafisica ma anche il paradigma: escludendo l’astrazione rimane soltanto il paradigma platonico e viene meno il paradigma aristotelico. E, in effetti, tutte le metafisiche dei razionalisti sono sostanzialmente metafisiche platoniche. Così fino a Kant, il quale darà un assetto completamente nuovo e rivoluzionario (è la famosa rivoluzione copernicana!) al problema gnoseologico, e di conseguenza anche al problema metafisico.
nostra conoscenza non
cioè
se
CARTESIO, IL PADRE DELLA METAFISICAMODERNA
Vita e opere
_Î
Rene Descartes (Cartesio) nacque il 31 marzo 1596/3‘ La Ijaye in Ionrainecda nobilefamiglia: suo padre era il presidente del parlamento della Bretagna. Fece i primi studi nel collegio La Flèche,a_uno dei più famosi Collegi per i nobilifltenutodai Gesuiti. Presto si rese conto della vacuità delle dottrine scientifiche correnti e non tardo a biasimareil metodo aristotelico e la fisica di Aristotele quali responsabili del mancato progres_so delle scienze. Disgustato da questa situazione nel 1612 lasciò ilmeollegio per darsi alla carriera delle armi. Si arruolù al servizio di rali e partecipò a numerose campagne militari, più per girare il mondo che per Combattere. Nell'inverno 1619, forzato a starsene chiuso in casa, cominciò a riflettere seriamente sullo scopo della sua vita. Tre volte sogno che la sua vocazione era di riformare la scienza e di ricercare la verità basandosi sulla sola ragione: «Cercare il vero metodo per pervenire alla conoscenza di tutte le cose» di cui la mente umana è capacefl Però fino al 1624 continuò nella carriera militare. Nel 1625 andò a Roma per l’anno santo e fece un pellegrinaggio alla Madonna di Loreto. Poi ritornò a Parigi, dove il cardinale De Berulle lo incoraggiò a dedicarsi allo studio della scienza. Per mettere in pratica questo proposito compero una casa in Olanda, e vi si ritiro lontano dalle distrazioni della vita mondana di Parigi. l’ortò presto a termine un'opera intitolata Tmite’ du monde, in cui sosteneva nuove teorie scientifiche. Ma, avendo saputo della condanna di Galileo, per prudenza non lo diede alle stampe. Nel 1636 pubblicò alcuni saggi e il Discorso sul metodo come prefazione di quegli scritti. ll saggio principale è quello sulla geometria dove Cartesio pone le basi delia geometria analitica. Una delle particolarità dei saggi e il fatto che furono pubblicati in lingua francese, mentre fino ad allora era costume usare il latino per qualsiasi opera seria.
variigene-
1)
Discorso sul metodo, 2.
110
Parte seconda
Nel 1641 diede alle stampe Le meditazioni, il suo capolavoro filosofico. Un amico dell'autore, il P. Mersenne, per farlo conoscere distribuì l’opera alle maggiori personalità nel campo filosofico e scientifici) del tempo e sollecito le loro critiche. Le obiezioni dei filosofi, dei teologi, di Hobbes, Arnauld e Gassendi, seguite dalla risposta di Cartesio, furono poi pubblicate insieme alle Meditazioni, come appendice. Voetius, rettore dell'università di Utrecht, attaccò violentemente Cartesio accusandolo di ateismo. Alla calunnia il filosofo rispose adeguatamente. Allora fu denunciato all'autorità civile e per poco non finì in prigione. Nel 1644 pubblicò lprincipi della filosofia in cui l'Autore presenta una sintesi di tutto il suo sapere filosoficoe scientifico. Intanto la fama di Cartesio si era sparsa in tutto il mondo ed egli la teneva viva con una corrispondenza vastissima (neIYOpera Omnia l’Epistolario occupa quasi metà della pubblicazione). Sollecitato dalla regina Cristina di Svezia a scrivere un libro sul Sommo Bene, Cartesio compose un'opera intitolata Trattato sulle passioni dell'anima. In seguito la regina lo invito ad andare in Svezia a fondarvi un’Accademia delle scienze. Il filosofo accolse l'invito nel 1649. In Svezia Cartesio trovo un clima molto rigido. All'inizio del 1650 fu preso dalla febbre e in capo a due settimane morì. Allora un suo discepolo scrisse a Parigi: «U11 febbraio abbiamo perso Cartesio. Piango ancora mentre vi scrivo, perché la sua dottrina e la sua mente superavano il candore e la semplicità, la bontà e l'innocenza della sua vita». Delle opere di Cartesio le più celebri sono il Discorso sul metodo e le Meditazioni. Queste approfondiscono le questioni trattate nel Discorso. Il Discorso è un'opera di modesta mole, ma ricca di contenuto: vi sono trattati tutti i principali problemi filosofici, da quello logico a quello etico, a quello teologico. È un'opera celebre per la sua insuperabilechiarezza, per la semplicità dello stile, per la bellezza delle immagini. È nota anche per un'altra peculiarità: è la prima opera filosofica importante scritta in lingua volgare. Meno celebri del Metodo e delle Meditazioni sono le Regole per la guida dell'intelligenza e i Principi della filosofia, e tuttavia sono due opere importanti, che si affiancano e completano le due opere maggiori: le Regole come introduzione al Metodo, e i Principi come integrazione delle Meditazzonzfl
2)
Le versioni italiane da noi utilizzate sono le seguenti: Regole per la guida dell'intelligenza. Ricerca della Lverità. Discorso sul metodo, a cura di G. Galli e A. Carlini, Bari 1954; Meditazioni filosofiche, a cura di G. De Giuli, Milano 1954; l principi della filosofia, a cura di G. Colli, Torino 1967.
Cartesio, il padre della metafisica moderna La
nuova
111
metafisica di Cartesio
”Padre della filosofia moderna” è la definizione che tutti gli storici riconoscono a Cartesio. Ma si può assegnargli anche il titolo di “padre della metafisica moderna”? Credo di sì. Infatti i tre tratti caratteristici della metafisica moderna si ritrovano tutti insieme per la prima volta nel pensiero di Cartesio. 1) La sua metafisica è nettamente sganciata sia dalla teologia sia dal
testo
aristotelico. Si tratta indubbiamentedi
uno
sganciamento parziale e
si incontra in nessuno profondo, dei pensatori che l'hanno preceduto: assai più completo e radicale che in Cusano e Suarez. Le sue Meditazioni filosofiche sono un modello perfetto della nuova metafisica: autonoma sia rispetto alla teologia sia rispetto ad Aristotele. Ma come hanno evidenziato Gilson e Koyré in Cartesio i legami con la teologia scolastica e con Aristotele non sono ancora totalmente recisi. Grande è il debito che egli paga alla Scolastica non soltanto per quanto attiene il linguaggio filosofico, ma anche per quanto concerne le problematiche e non di rado le stesse soluzioni. Quanto poi ad Aristotele, nonostante la forte allergia che Cartesio manifesta verso il suo pensiero, non soltanto egli si appropria di alcune categorie fondamentali della sua metafisica, ma anche dell'indirizzo realistico della filosofia aristotelica. Pur partendo dal Cogito tutta la speculazione cartesiana ha di mira il raggiungimento della verità, che sta nella conoscenza oggettiva della realtàfi 2) La metafisica generale, intesa come ontologia, scompare e rimangono soltanto le metafisiche speciali, che trattano di Dio, dell'anima (e del mondo). È quanto è chiaramente insinuato dal titolo che Cartesio dà alle sue Meditazioni che nell'edizione del 1641 era: Meditationes de prima phiiosophia, in qua Dei existentia et anirnae immortalitas demonstrantur, e nell'edizione del 1642 era leggermente modificato nel modo seguente: Meditationes de prima phiiosophia, in quibus Dei existentia et animac humanae a corpore distinctio demonstrantur. Nell’enunciato cartesiano prima philosaphia non significa philosophiagcneralis, bensì prote philosophia: la filosofia del divino, in quanto esso costituisce Velemento primario della realtà. Le due parti della metafisica indicate dal titolo delle Meditazioni corrispondono alla teologia naturale e alla psicologia razionale. Nelle Meditazioni si parla anche del mondo materiale. E così si può cogliere in quest'opera il primo abbozzo della tripartizione della metafisica speciale, divenuta immediatamente classica, la quale comprende oltre alla teolonon
3)
totale; tuttavia è effettivo
e
e non
Cf. E. CiisoN, La doctrine cartésienne de la libertà et la théologie, Paris 1913; lD., Index
schoiastico-cartésien, Paris 1913,- lo., Etudes sur le rrîie de la penséc médiévale dans la formation da systèine cartésien, Strasbourg 1921; A. KOYRÉ, Essai sur Fidée de Dieu et les preuzzes de son esistence dans Descartes, Paris 1922.
112
Parte seconda
gia naturale e la psicologia anche la cosmologia, la quale si occupa de re materiali. La eliminazione delrontologia fa parte del progetto cartesiano di superare Vastratta speculazione di Aristotele per concentrare l'atten-
zione esclusivamente sulle cose realmente esistenti: Dio, l'anima, il mondo. Tutto questo corrisponde a quella che è stata chiamata la "vita empiristica" del pensiero di Cartesio. 3) Il terzo tratto caratteristico della metafisica moderna che si inaugura con Cartesio è la subordinazione della metafisica alla gnoseologia: c'e un preambolo gnoseologico che la metafisica non può omettere. Così, soltanto dopo aver attraversato il deserto dei dubbio Cartesio può tentare la sua veloce navigazione verso il sicuro porto della trascendenza. Grazie a questa nuova impostazione Cartesio diviene il nuovo Platone, il nuovo Aristotele, il nuovo Agostino, il nuovo Tommaso. Con Cartesio la metafisica inizia un cammino nuovo: essa abbandona le vie tracciate dai grandi metafisici dell'antichità e dai metafisici cristiani. Non cammina più lungo i sentieri delVUno, del Bello, della Sostanza, della Verità, dell'Essere. Cartesio traccia un sentiero nuovo, o adoperando l'immagi-
platonica della navigazione, segue una rotta nuova, che sposta il punto di partenza dal terreno ontologico a quello gnoseologico. Così nel padre della metafisica moderna la ”metafisica generale” non è più l'ontologia, bensì la gnoseologia. ne
Il preambolo gnoseologico La necessità di tracciare un nuovo itinerario per 1a metafisica assumendo un nuovo metodo ispira tutti gli scritti di Cartesio. Già nelle Regole, che è la sua prima opera filosofica leggiamo: «Affinché non siamo sempre incerti su ciò che possa l'animo nostro e affinché questo non si affatichi invano e sconsideratamente, prima che noi ci accingiamo alla conoscenza delle cose particolari, bisogna una volta nella vita aver ricercato diligentemente di quali cognizioni l’umana ragione sia capace (...). Veramente nulla si può cercare di più utile di ciò che sia l’umana conoscenza, e fin dove essa si estenda. E quindi ora noi riuniamo ciò in un'unica questione, la quale pensiamo che sia da esaminare prima di tutte; e pensiamo che
almeno
ciò si debba fare almeno una volta nella vita di ognuno di quelli che poco poco amino la verità, poiché in tale indagine sono compresi i veri strumenti del sapere e tutto il metodo. Niente poi mi sembra più sciocco che discutere accanitamente intorno agli arcani della natura, all’influsso dei cieli su questo basso mondo, alla predizione degli avvenimenti futuri, e simili, come molti fanno, e tuttavia non essersi mai chiesti se la ragione umana basti a scoprire tali c0se».4
4) Regole VIII, pp. 32-33.
Cartesio, il ‘madre della metafisica moderna Ma
come
procedere
113
alla verifica del valore della nostra conoscenza?
È del tutto inutile controllare le singole scienze e conoscenze. Il procedimento migliore è quello di affrontare il problema alla radice: controllando la capacità conoscitiva di cui l'uomo dispone, la sua mente. «Infatti,poiché tutte le scienze non sono nient'altro che l’umano sape-
re, il quale permane sempre uno e medesimo, per differenti che siano gii oggetti a cui si applica, né prende da essi maggior distinzione di quanta ne prenda il lume del sole dalla Varietà delle cose che illumina, non c'è bisogno di racchiudere la mente in alcun limite; e invero la
di un’ unica verità non ci disvia, come fa invece l'esercizio di un mestiere, dal ritrovamento di un'altra, ma piuttosto ci è di aiuto. E mi sembra cosa da destar proprio meraviglia, che gran numero di persone indaghi dilìgentissimamente i costumi degli uomini, le virtù delle piante, i moti degli astri, le trasformazioni dei metalli, e gli oggetti di altre simili discipline, e che pertanto quasi nessuno volga il pensiero alla retta mente, ossia a questa universale sapienza, quando nondimeno tutte le altre cose sono degne di stima non tanto di per sé, quanto perché portano qualche tributo ad essa. E per fermo proponiamo prima di tutto questa regola, poiché niente ci allontana maggiormente dalla retta via di ricerca della verità, che dirigere gli studi non già a tal fine generale, ma a qualche fine particolare (...). Se uno pertanto vuole indagare sul serio la verità delle cose, non deve scegliere una qualche scienza particolare, poiché sono tutte congiunte tra loro e dipendenti ciascuna dalle altre; ma egli pensi soltanto ad aumentare il natural lume della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma affinché nei singoli casi della Vita l'intelletto additi alla volontà che cosa sia da scegliere».5 Conoscenza
Affermando che
prima di usare uno strumento, un attrezzo, è oppor-
tuno verificare se è in condizione di ben funzionare, Cartesio
non insenulla di straordinario. il Anche contadino di mettersi a falciaprima gna re il fieno controlla se la lama della sua falce è abbastanza tagliente, altrimenti provvede ad affilarla; così chi Vuole intraprendere un lungo viaggio, prima fa controllare il motore, le gomme, la benzina della sua auto. Ciò che è nuovo in Cartesio è la radicalità dei controlli a cui egli intende sottoporre gli strumenti conoscitivi di cui l'uomo dispone. Egli procede a una decostruzione completa, a uno smontamento totale di ogni conoscenza accumulata in passato: non solo delle sue Conoscenze personali, ma di tutte le conoscenze accumulate dall’umana ragione, quindi di tutte le conoscenze scientifiche e filosofiche (non di quelle religiose, in quanto queste non sono frutto della ragione, ma di qualche divina rivelazione). Egli fa piazza pulita di tutto quello che aveva imparato dai gesuiti al collegio La Flèche: tutte le teorie scientifiche, tutti i sistemi filoso-
5)
Ibid. l, pp. 3-5.
1 14
Parte seconda
fici vengono spazzati via con una buona dose di tracotanza. È la grande conversione, la rivoluzione che sta alla base di ogni metafisica. Senon— ché nella metafisica Classica e nella metafisica cristiana la conversione che dava il via alla seconda navigazione riguardava il mondo materiale, il mondo sensibile e contingente e la navigazione portava Verso la sponda del mondo trascendente. La metafisica cartesiana inizia con l'abbandono non del mondo materiale, ma del mondo culturale, che in realtà non e meno fragile, caduco e contingente del mondo materiale. E cosi, tutta la ricerca di Cartesio si concentra sul valore delle nostre facoltà conoscitive: sensi, fantasia, ragionamento. Per accertare il loro valore, secondo Cartesio, non c'è via migliore del dubbio: sottoponiamo al vaglio del dubbio tutte le nostre conoscenze fino a quando ne scopriamo qualcuna di assolutamente certa. Su questa si potrà poi innalzare tutto l'edificio metafisico. Il dubbio è pertanto il metodo per scoprire la verità. servendosi del dubbio ntetodico Cartesio mette in disparte come malsicure tutte le conoscenze acquistate con i sensi e con l'immaginazione,perché queste facoltà molto spesso ci ingannano. Ma non c'è da fidarsi neppure delle conoscenze ottenute mediante il ragionamento, perché anche nel ragionare molte volte erriamo. Così non c'è nessuna conoscenza particolare che possa resistere alla prova del dubbio. Anche nelle cose apparentemente più semplici e più evidenti è ancora possibileche noi ci inganniamo. Infatti tutto quello che esperimentiamo da svegli possiamo sperirnentarlo anche dormendo nel sogno e non disponiamo di nessun criterio per stabilire quando siamo svegli e quando siamo addormentati. E poi, ammesso pure che fossimo in grado di farlo, ci potrebbe benissimo essere un Dio onnipotente e ingannatore della mente che ci ha creati in modo che ci inganniamo anche quando diciamo che due più due è uguale a quattro, oppure facendocicredere che due per due fa sei anziché quattro. Giunti a questo punto è evidente che il dubbio ha preso nella sua rete tutte le cose. Proprio tutto? No, questo non è possibile. Scrive Cartesio nella Quarta parte del Discorso sul metodo:
«Infine, considerando che gli stessi pensieri che noi abbiamo quando siamo desti possono tutti venirci anche quando dormiamo benché allora non ve ne sia alcuno vero, mi misi a fingere che tutto quanto era entrato nel mio spirito sino a quaîe momento, non fosse più vero delle illusioni dei miei sogni. Ma, subito dopo, mi accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pure qualcosa. Per cui, dato che questa verità: Io penso, dunque sono (Ego cogito, ergo sum, sive existo), è così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stra-
vaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senesitazione come il principio primo della nzia fllosofiamé
za
6)
Discorso sul metodo, p. 147.
Cartesio, il padre della nzetafisica moderna
115
Come dichiara solennemente Cartesio, il Cogito ergo sum è il principio primo della sua filosofia, il fondamento di tutto il suo edificio filosoficoe metafisico. Si tratta infatti di una verità che non ha soltanto un valore gnoseologico ma anche ontologico, poiché il cogito è strettamente legato al sum; non c'è soltanto il pensiero (più o meno fittizio, più 0 meno certo) ma anche l'essere. E ciò che interessa qui è proprio il sum, Fexistere, l'essere, e si tratta di "essere” reale, le cui condizioni di esistenza vanno verificate dato che fanno da supporto a un conoscere errabondo, che spesso cade nel dubbio e nell'errore. C'è Comunque un punto di partenza solidissimo: la verità dell'esistenza del soggetto cogitante: «Ripugna infatti ritenere che colui che pensa, in quello stesso tempo in cui pensa, non esi-
quindi questa conoscenza, io penso, dunque sono, è la prima e la più quelle verità che incontri chiunque filosofi con ordine».7
sta. E certa di tutte
La metafisica del
Cogito e la mathesisuniversalis
Ciò che caratterizza la metafisica è sempre lo studio dell'Intero e la ricerca del Principio primo. Ma all'lnter0 e al Principio primo si può accedere da molti versanti, considerandoli da molte prospettive: dell'Essere, del Bello, del Vero, del Bene, della Perfezione, della Contingenza, della Possibilità, dell'Ordine ecc. Cartesio, come si vedrà, non ignora alcuni di questi versanti, ma da scalatore molto ardito vuole tentare la scalata del Principio primo considerandolo da un nuovo versante, quello del Cogito. Così la metafisica diviene in Cartesio uno studio dell'essere in quanto cogitabilefi Il cogitabile abbraccia un orizzonte vastissimo ancora più vasto di quello dell'ente; infatti, mentre l'ente abbraccia tutto ciò che è (id quod revera est, diceva Suarez), il cogitabile abbraccia tutto ciò che è pensabile: 0mm: quod Cogitari potest. Il versante metafisico del Cogitabile è completamente nuovo: coincide solo parzialmente col versante agostìnìano della verità, poiché la verità da Cartesio è vista più dal punto di vista soggettivo del cogitante (dell'ago Cogito) che dal punto di vista oggettivo, anche se in definitiva ciò che Cartesio ricerca è la verità oggettiva. Dunque il Cogito ergo sum è il fondamento di tutto l'edificio speculativo del padre della metafisica moderna. Ma per costruire un buon edificio non basta disporre di un buon fondamento; è necessario anche un buon metodo, occorre procedere con ordine nella costruzione e far uso di strumenti adeguati e di buon materiale. Finché tutto questo non è pronto, compreso il progetto dell'edificio, è da stolti iniziare la costru-
7) Principi, p. 77. 3) Cf. I. L. MARION, Sur le prisma nzétaphysique de Dcscartcs, Paris 1983.
l 16
[Jarte seconda
questo Cartesio lo sapeva benissimo e così dopo la coragdi tutte le costruzioni precedenti e dopo aver posto le demolizione giosa basi della nuova costruzione, prima di andare avanti egli si premura di scegliere ancora tre Cose: l'ordine, gli strumenti dell'induzione e della deduzione, e il materiale delle idee innate. Di questi argomenti Cartesio si occupa oltre che nel Discorso e nelle Regole, anche nelle Meditazioni zione. Tutto
(I-III) e nei Principi (l, 1-10).
L'insieme dell'ordine (regole), dellînduzione e della deduzione e delle idee innate costituisce ciò che Cartesio chiama irmthesis univcrsalis o sapìentia universalis. È stato giustamente detto che nella metafisica cartesiana la matlzesis LlHÎUEfSfllÎS prende il posto che aveva avuto Yontologia nella metafisica classica e cristiana. Noi sappiamo che Cartesio costruisce una metafisica senza ontologia; però egli non accede immediatamente alla metafisica speciale di Dio e dell'anima senza aver prima accuratamente elaborato una disciplina generale, la mathesis uniziersalìs, una matematica che non abbraccia soltanto Yaritmetica, la geometria, l'astronomia, la meccanica, l'ottica, la musica, ma moltissime altre discipline: praticamente come scrive Cartesio nelle Regole «tutte quelle cose nelle quali si esamina l'ordine o misura, e non ha interesse se tale misura si debba ricercare nei numeri o nelle figure, o negli astri, o nei suoi o in qualsiasi altro oggetto, e perciò ci deve essere una scienza generale, che spieghi tutto ciò che si può chiedere circa l'ordine e la misura non riferita ad alcuna speciale materia, ed essa, non già con un vocabolo straniero, ma con uno già antico e accettato dall'uso, ha da essere chiamata matematica universale (matliesis uniîxersalis), poiché in questa si contiene tutto ciò per cui altre scienze sono dette parti della matematica. Quanto poi questa superi in utilità e facilitàle altre che le sono subordinate, è manifestato da ciò, che essa si estende a tutte le cose a cui si estendono quelle, e per di più a molte altre, e che se Contiene alcune difficoltà, le medesime esistono anche in quelle, e per di più altre ce ne sono derivanti dalla particolarità degli oggetti, le quali in essa non sonow Nelredificio speculativo cartesiano la mathcsis univcrsnlis svolge chiaramente il ruolo di una metafisica generale, al posto della ontologia. La mathesis Lmiversalis è un metodo generale in grado di trattare di tutte le cose (rcs onznes), ma in quanto conoscibili:de onmi re scibili o meglio de omni re in quantum scibilifi“ -
-
") Regola’ IV, p. 17. l“) Ci. ]. F. COURTINE, 0p. ciafl, pp. 489492.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
Le REGOLE
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DEI. MFTODO
La mathesis unioersalis è essenzialmente il nuovo metodo cartesiano. «Per metodo scrive Cartesio intendo delle regole certe e facili,osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso, e senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte le cosewì Nel suo primo saggio filosofico, intitolato precisamente Regole per la guida dellîntelligenza, Cartesio formula e spiega per esteso ben XXI rego-
—
le. Poi nel Metodo compie un taglio netto e le riduce a quattro, che vale la pena di riportare alla lettera: «La prima era di non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza: di evitare, cioè, accuratamente la precipita-
e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilitàdi dubbio. La seconda era di dividere ogni problema preso a studiare in tante parti minori, quante fosse possibilee necessario per meglio risolverlo. La terza, di condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli di cui gli uni non procedono naturalmente da altri. L'ultima (quarta), di far dovunque enumerazioni così complete e revisioni Così generali da esser sicuro di non aver omesso nullamlî
zione
Come si vede Cartesio elabora un metodo semplicissimo, che vale per qualsiasi genere di ricerca e di scienza. Nella prima regola egli fissa il criterio di verità. Questo consiste nel non accogliere mai nulla di vero che non sia conosciuto evidentemente come tale; ossia nell’accoglicrc nella mente solo ciò che è talmente chiaro e distinto da escludere qualsiasi possibilitàdi dubbio. È il Celebre Cri terio della chiarezza e distinzione. Questo criterio sarà criticato da molti filosofi soprattutto da Pascal e da Vico. Da Pascal perché troppo limitato in quanto ci sono molte verità che si devono accettare anche se alla mente non sembrano chiare e distinte; p. es. l'esistenza di Dio. Da Vico perché troppo largo, in quanto non basta a giustificare neppure il principio fondamentale di Cartesio: il
Cogito ergo sum.
11) Regole IV, p. 13. 12) Discorso sul ntetodo II, p. 137.
Parte seconda
118
Comunque la chiarezza e la distinzione, pur non essendo sufficienti a garantire la verità obiettiva di una proposizione, sono però utili indizi e meritano, pertanto, di essere presi in attenta considerazione quando si vuole giudicare della verità di qualche conoscenza. Le altre tre regole fissano come lo studioso si deve
comportare du-
principali dell'indagine. Nella prima fase occorre divideproblemi in tante parti quante è possibile. Nella seconda bisogna condurre con ordine la ricerca, Cominciando dagli oggetti più semplici, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più composti. Infine, nella terza, è necessario fare dappertutto delle enumerazioni così Complete e delle rassegne così generali da essere sicuro di rante le tre fasi
re
i
non
omettere nulla.
Confrontando il metodo di Cartesio con i metodi di Bacone e di Calilei è facile constatare che quello di Cartesio mette in rilievo alcuni elementi che sono stati tralasciati negli altri due, ossia il criterio di verità, la divisione delle difficoltà e la gradualità dell'indagine. Quanto invece Cartesio enuncia nella quarta regola in maniera vaga e astratta, trova il suo necessario complemento nelle regole di Galileo e nelle tavole di Bacone.
UINTLIIZIONE E
LA DEDUZIONE
Queste quattro regole aiutano l'intelligenza a far buon
uso
dei suoi
strumenti conoscitivi, che Cartesio riduce a due: l'intuizione e la deduzione. Egli scarta decisamente il procedimento dellflistrazione e questa volta non lo fa per la sua congenita allergia verso tutto ciò che proviene da
Aristotele, ma perché, dipendendo dai sensi e dalla fantasia, Pastrazione è continuamente esposta alle debolezze e agli inganni di queste facoltà.
Sia dell'intuizione come della deduzione Cartesio fornisce definizioni molto precise. Eccole: «Per intuito o
(intuizione) intendo non la incostante attenzione dei
sensi
ingannevole giudizio dell'immaginazionemalamente combinatrice,
bensì un concetto della mente pura e attenta tanto ovvio e distinto, che intorno a ciò pensiamo non rimanga assolutamente alcun dubbio; ossia, il che è il medesimo, un concetto non dubbio della mente pura e attenta, il quale nasce dalla luce della sola ragiona.”
«Per deduzione intendiamo tutto ciò che Viene concluso necessariacose conosciute con certezzaau.”
mente da certe altre
13) Regole III, p. 10. 14) IblLL, p. 11.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
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presente anche nel prodeduttivo: infatti senza l'intuizione questo non potrebbe avanzare; ma l'atto dell'intuizi0ne esplode soprattutto nel momento in cui la deduzione raggiunge la conclusione: Come precisa lo stesso Cartesio, l'intuizione è
cesso
«Invero la deduzione non sembra che abbia luogo tutta simultaneamente, bensì implica un certo movimento della nostra intelligenza, inferente una cosa da un'altra; e per questo fu giusto distinguerla dall'intuito. Se però volgiamo ad essa, quando è già compiuta, l’attenzione, allora non presenta più un movimento, bensì il termine del movimento, e perciò supponemmo che essa si potesse veder per intuito,
quando è semplice e perspicua, ma non se è complicata e oscuranti
Decidendo di voler utilizzare per la costruzione del proprio edificio metafisico esclusivamente gli strumenti sicurissimi della intuizione e della deduzione, implicitamente Cartesio opera una scelta anche per quanto attiene il tipo di sistema metafisico che egli intende costruire: è il tipo assiomatico-deduttivo dei neoplatonici e non il tipo problematicoinduttivo degli aristotelici. Come i neoplatonici costruivano il loro sistema deduttivamente partendo da alcuni principi fondamentali, detti assiomi o dignitates, così Cartesio: egli pone, come abbiamo visto, una prima verità certissima, fondamentale e da quella poi ricava deduttivamente e analiticamente tutto il resto del suo sistema. Ma diversamente dai neoplatonici che costruivano i loro sistemi assumendo come intuizione di partenza l'intuizione dell’Uno, del Massimo, del Vero ecc. Cartesio assume come punto di partenza e come base di tutta la sua costruzione Yintuizione dell'Io. Così in Cartesio c'è un miscuglio di empirismo, che è il frutto del Cogito e di platonismo che proviene dalle istanze metafisiche che sorreggono tutto il sistema.“
LE e
IDEF. INNATE
Il terzo e ultimo elemento del metodo cartesiano sono le "idee chiare distinte”: è con idee chiare e distinte che egli intende innalzare il suo
solido edificio metafisico. Ma dove la mente può attingere queste idee che con la chiarezza e distinzione hanno il carattere della securitas? AbbiamoVisto che l'idea basilare, il cardine di tutta la nuova metafisica cartesiana è il Cogito ergo sum: si tratta della chiara intuizione della propria esistenza all'interno dell'atto del cogitare. Questa non è un'idea innata ma acquisita: acquisita mediante un atto di riflessione che sfocia nella intuizione del sum. Ma per costruire l'edificio metafisico la pietra
15) Ibid. XI, p. 41. 16) Cf. I. LAPORTE, Le rationalismcde Descartes, Paris 1945, pp. 476 ss.
Parte seconda
120
angolare del cogito non basta, occorrono molte altre pietre e mattoni, ossia molte altre idee che siano anch'esse chiare e distinte come il cogito: in particolare sono necessarie le idee di Dio, dell'anima e del mondo.
Come acquisirle? Sul problema dell'origine delle idee Cartesio ha formulato la famosa teoria delle idee innate, aziventizic efattizie. Ecco il Celebre testo delle Meditazioni su questo argomento:
«Ora di queste idee, le une mi sembrano essere nate in me, altre essermi estranee ed essermi venute dal di fuori, altre essere formate e trovate da me stesso. Difatti la facoltà di concepire quel che in generale si chiama una cosa 0 una verità o un pensiero mi sembra di non averla da altro che dalla mia propria natura; ma se io ora odo un rumore, se vedo il sole, se avverto il colore, finora ho giudicato che questi sentimenti derivano da qualche cosa che è fuori di noi; e infine mi sembra che le sirene, gli ippogrifi e tutte le altre simili chimere sono finzioni e invenzioni del mio spirito. Ma forse mi posso anche persuadere che queste idee sono tutte del genere di quelle che io chiamo estranee e che mi vengono dal di fuori (avventizie) o che sono tutte nate con me, o
che
sono
tutte
origina.”
prodotte da me: poiché non ho ancora trovato la loro ‘Uflm
Abbiamosottolineato l'ultima frase perché da essa risulta che Cartesio proponeva la sua teoria sulle idee innate, avventizie e fattizie non come una tesi sicura bensì come una ipotesi su cui aveva ancora delle perplessità. Inoltre, per quanto concerne le idee innate da questo testo risulta che più che a singole idee egli si riferisce alle facoltà di cui la natura ha dotato Ia mente umana per farla pensare. Di fatto però altrove Cartesio parla espressamente di idee innate che sono germinalmentc presenti nella nostra mente: ’
«Uumana mente ha un qualcosa di divino, in cui i semi delle idee utili sono sparsi (in quo prima cogitationtim utilium semina ita jacta sunt) in maniera che sovente, quantunque negletti e soffocati da mal diretti
studi, producono messe spontaneamlfi
questa teoria delle idee innate, che ha formato uno dei luoghi concui più violente si appuntarono le critiche degli empiristi posteriori
In tro
(di Locke e Hume in particolare), è visibile una derivazione platonica: per idea, Cartesio intende "la forma di ogni pensiero”; l'idea di un oggetto (per es. del sole) è l'oggetto stesso in quanto pensato, cioè l'idea del sole è il sole stesso esistente nell’intellett0, non formalmente, ma
oggettivamente e intenzionalmente. 17) Meditazioni III, p. 40. 18) Regole IV, pp. 13-14.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
121
Ciò che è ovvio è che sia le idee innate sia le avventizie hanno caratoggettivo: non sono cioè invenzioni del soggetto come la chimera e Fippogrifo, ma chiari rispecchiamenti della realtà. Cartesio non è un idealista ma un realista, però un realista platonico e non un realista aristotelico. La mente non si forma le idee mediante l'azione astrattiva del soggetto, ma mediante l'azione illuminativadell'oggetto. Nellapprendimento della verità la mente è sempre passiva e se la Volontà 0 le paSf-EÌOni non oppongono qualche ostacolo la verità si impone con tutta la sua chiarezza e distinzione. Pero le verità trascendenti o metafisiche l'aninon si offrono alla nostra intuizione immediatamente: sono ma e Dio certamente innate ma non ovvie e completamente elaborate. Sono presenti sin dall'inizio, ma sono innate alla maniera di germi o di sementi. Basta coltivare la mente con ordine e questa a un certo punto fa crescere e maturare le idee innate fino a coglierle con chiarezza e distinzione. Nella metodologia cartesiana non è la maieutica socratica che svolge questa funzione, bensì la mathesis imiversalis. tere
-
-
La metafisica di Dio A questo punto Cartesio ha esaurito i compiti che sono propri di una metafisica generale che affronta il problema dell'intero e del Principio primo più dal versante del soggetto conoscente e del cogitabile che da quello dell'oggetto conosciuto e dell'ente. Ora dispone di una verità basilare: l'esistenza dell'Io, di un metodo: l'induzione e la deduzione, e di un criterio per selezionare il materiale della costruzione: le idee chiare e distinte. Ormai 1o scetticismo è stato debellato e si può procedere alla costruzione dell'edificio metafisico. Ma qui a Cartesio si prospettano due possibilità: quella psicologica riflessiva e quella ontologico-deduttiva. Sia nella questione della esistenza di Dio come in quella dell'anima umana egli decide di sfruttarle entrambe. Tre sono le esposizioni sistematiche che Cartesio ci ha lasciato del suo pensiero filosofico e metafisico: il Discorso, le Meditazioni e i Principi. In tutte egli presenta una costruzione metafisica piccola ed essenziale. ll suo De Deo et de anima non ha nulla di paragonabilecon le imponenti trattazioni di S. Tommaso, Duns Scoto e Suarez. Quelli di Cartesio sono brevi saggi, opuscoli più che trattati. L'esposizione più esauriente per quanto attiene le questioni metafisiche sono le Meditazioni che, come abbiamo ricordato, portano un titolo molto eloquente: Meditationes de prinza philasophia, in qua Dei existentia et animae irnmertalitas demanstrantzir. L'intento di scrivere un nuovo trattato di metafisica è chiaramente attestato da Cartesio stesso nella Prefazione di quest'opera: «Ora, dopo avere a sufficienza conosciuto le opinioni
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Parte seconda
degli uomini, intraprendo di nuovo a trattare di Dio e dell'anima umana, e insieme a gettare le fondamenta della filosofia prima». Uobiettivo specifico del suo trattato è spiegato più dettagliatamente da Cartesio nella ”Lettera ai Signori Decani e Dottori della Sacra Facoltà di Teologia di Parigi”. In questo importante documento l'autore, nel Chiede-
la collaborazione delle massime autorità della cultura francese per leggere e correggere il suo testo e suggerirgli le cose più opportune per una revisione, conferma la sua tesi che le somme verità dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima possono essere provate tanto con la filosofia quanto con 1a teologia. La teologia procede sul fondamento della fede rivelata, che è un dono di Dio; le prove di ragione della filosofia sono invece appropriate per gli infedeli e per le persone di fede vacillante. Ecco il passo più importante della lettera: re
«lo ho sempre ritenuto che i due problemi di Dio e dell'anima siano i principali fra quelli che debbono essere dimostrati dalle ragioni della filosofia piuttosto che della teologia; giacché, sebbene a noi che siamo
credenti basti credere per fede all'esistenza di Dio e allîmmortalità certo non sembra possibile di poter mai convincere gli infedeli della verità di una religione, e forse neppure di alcuna virtù morale, se prima non si dimostrano loro due cose per mezzo della ragione naturale (...). E sebbene io creda che è quasi impossibileinventare nuove dimostrazioni, pure io credo che non si possa fare nulla di più utile in filosofia che ricercare ancora una volta con cura le migliori ragioni e disporle in un ordine così chiaro ed esatto, in modo che tutti siano ormai persuasi che sono delle dimostrazioni Vere e propriem”
dell'anima,
A tal fine, per rendere più cogenti e rigorose le sue dimostrazioni, Cartesio ha optato per il metodo della deduzione consecutiva propria delle dimostrazioni della geometria classica, convinto come era che queste sue nuove dimostrazioni metafisiche superavano in certezza le stesse
dimostrazioni matematiche. Però, di fatto, nelle Meditazioni, per provare l'esistenza di Dio, Cartesio ricorre oltre che alla dimostrazione assiomatico-deduttiva (nell'argomento ontologico), anche alla argomentazione esperienzialeinduttiva (nell'argomento riflessivo sulla natura del Cogito). E in effetti nella teoiogia naturale cartesiana le nuove vie per provare l'esistenza di
Dio sono due: la via
19) Meditazioni, pp. 3-5.
psicologico-riflessivae la via ontologico-deduttiva.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
LA
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VIA PSÌCOLOGICO-RIFLESSIVA
Con logico rigore Cartesio costruisce la prima prova dell'esistenza di Dio basandosi sull'unica verità che resiste al tarlo di qualsiasi dubbio, il Cogito ergo sum. Qui c'è un sum innegabile, il sum del mio lo. Ma di che
si tratta? È forse un'esistenza assoluta, infinita, perfetta, eterna? È il altra sum originario e inderivato, è il Principio primo da cui deriva ogni che soluzione la spocosa? Certo, questa è una soluzione possibile, ed è seranno gli idealisti, ma non Cartesio. Egli invece riflette sul proprio lo come aveva fatto Agostino, e nel proprio lo trova l'accesso a Dio, non attraverso la memoria e la percezione di una suprema Verità, come accadeva in Agostino, ma attraverso la riflessione sulla contingenza e sulla finitezza dell'Io, quella contingenza e finitezza che si manifestano nel dubbio. Infatti «riflettendo sul fatto che io dubitavo e che per conseguenza il mio essere non era tutto perfetto, perché vedevo chiaramente che era una più gran perfezione conoscere che dubitare, mi proposi di cercare donde avessi imparato a pensare qualche cosa di più perfetto che io non fossi e conobbi con evidenza che doveva essere da qualche natura che fosse in realtà più perfetta». Infatti, insiste Cartesio, l'Io può prendere coscienza della propria finitezza e imperfezione soltanto commisurandosi con le idee di infinito e di perfetto. Ora, idee così grandi devono avere una causa proporzionata e la causa proporzionata in definitiva non può essere altri che Dio. Ecco il celebre testo delle Medi fazioni dove Cartesio dà la compiuta formulazione di questa dimostrazione:
sum
«Col nome di Dio io intendo una sostanza
infinita, eterna, immutabi-
le, indipendente, onnisciente, onnipotente, e da cui io e tutte le altre cose che sono (se è Vero che ve ne sono di esistenti) sono state create e prodotte. Ora, queste qualità sono così grandi ed eminenti che, quan-
to più attentamente le considero, tanto meno mi persuado che l'idea che io ne ho possa avere la sua origine da me solo. E di conseguenza è necessario concludere, da tutto quello che ho detto prima, che Dio
esiste: difatti, sebbene l'idea di sostanza sia in me per il fatto stesso che io sono una sostanza, non potrei tuttavia avere l'idea di una sostanza infinita, io che sono un essere finito, se essa non fosse stata messa in me da qualche sostanza che fosse veramente infinita. E non debbo immaginare di non concepire l'infinito per mezzo di una vera idea, ma solo come negazione del finito, così come intendo il riposo e le tenebre come negazione del movimento e della luce; giacché al contrario, vedo manifestamente che si ritrova in me più realtà nella sostanza infinita che nella sostanza finita, e pertanto io ho in me la nozione di infinito prima di quella del finito, cioè di Dio prima di me stesso; difatti, come sarebbe possibile conoscere che io dubito e desiclero, cioè che mi manca qualche cosa e che non sono perfetto, se non avessi in me l'idea di un essere più perfetto di me, al cui confronto io conosco i difetti della mia natura?
124
Parte seconda
(<10) Questa idea, dico, di un essere sovranamente perfetto e infinito, e verissima: difatti, sebbene forse si possa immaginare che un tal essere
non si può tuttavia immaginare che la sua idea non rapnulla di reale. Essa è anche molto chiara e distinta, perché tutto ciò che il mio spirito concepisce chiaramente e distintamente di reale e di vero, e che contiene in sé qualche perfezione, è contenuto e racchiuso tutto in questa idea. E questo non cessa d'essere vero, sebbene io non comprenda l'infinito c sebbene si trovino in Dio un'infinità di cose che non posso capire, né forse raggiungere col mio pensiero poiché è nella natura dell'infinito che non lo possa comprendere io che sono finito e limitato: basta che io capisca bene questo, e che ritenga che tutto quello che concepisce chiaramente e in cui so essere qualche perfezione, e forse anche infinite altre che ignoro, è in Dio formalmente ed eminentemente, affinché l'idea che io ne ho sia la più vera, la più chiara e la più distinta di tutte quelle che sono nel mio
non
esista,
presenti
spirito».2“
La forza di questa argomentazione di Cartesio è legata alla validità di due affermazioni: la prima è che l'uomo è in possesso di un'idea chiara e distinta di Dio; la seconda è che un'idea chiara e distinta dev'essere necessariamente vera e che, quindi, esiste realmente l'oggetto che vi
viene rappresentato. Si tratta di due postulati assai controversi, contro cui i critici di Cartesio solleveranno innumerevoli obiezioni. Poco più avanti, nella Terza Meditazione, Cartesio propone una seconda formulazione dello stesso argomento psicologico riflessivo in cui si osserva che non solo l'idea di perfetto e prodotta nella nostra mente da Dio, ma che la nostra stessa esistenza deve a Lui la sua origine, perché altrimenti, possedendo l'idea di perfetto, l'uomo si sarebbe data un'esistenza perfetta. Ecco il testo di questa seconda argomentazione:
«Per questo voglio qui passare oltre e considerare se io stesso, che ho questa idea di Dio, potrei essere qualora non vi fosse Dio. E domando, da chi avrei la mia esistenza? Forse da me stesso o dai miei geni-
tori, o da qualche altra causa meno perfetta di Dio, poiché non si può immaginare nulla di perfetto quanto e più di lui. Ora, se io fossi indipendente da ogni altro e fossi io stesso l'autore del mio essere, non
dubiterei di nulla, non avrei desideri, insomma non mancherei di alcuna perfezione, poiché mi sarei dato da me stesso tutte quelle perfezioni di cui ho l'idea in me, e così sarei Dio. Né mi debbo immaginare che le cose che mi mancano siano forse più difficili da acquistare di tutte quelle che già possiedo: al contrario e certissimo che sarebbe molto più difficileche i0, cioè una cosa o una sostanza pensante, sia uscito dal nulla, di quel che sarebbe Facquistarmi la luce e la conoscenza di molte cose che ignoro, e che non sono altro che accidenti di
m)
una. 111, pp. 49-50.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
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e, certo, se mi fosse stato dato in più questo che ho io stesso l'autore del mio essere, non mi sarei negafossi cioè detto, se to almeno le cose che si possono avere con la maggiore facilità, come sono una quantità di conoscenze di cui la mia natura si trova privamì‘
questa sostanza;
Corollario di tutto ciò che ‘e stato detto è che l'idea di Dio non può venire acquisita in un momento determinato della vita spirituale; bensì dev'essere innata, data da Dio all'uomo nell'atto stesso della creazione dell'uomo, e cioè in una con la facoltà di conoscere. LA
VIA ONTOLOGlCO-DEDUTTIVA
Assumendo come strumenti della conoscenza l'intuizione e la deduzione, Cartesio avrebbe potuto costruire il suo edificio metafisico partendo direttamente dalla intuizione di Dio, come aveva fatto S. Anselmo, visto che l'affermazione dell'idea innata di Dio fa parte del suo sistema. Però il preambolo gnoseologico lo costringe a costruire l'edificio sulla pietra angolare del Cogito e, quindi, a servirsi anzitutto della via
psicologico-riflessiva.Ma Cartesio non poteva trascurare la viadiontologi-
co-deduttiva, la quale,
tra
l'altro, ha il grandissimo Vantaggio
scansa-
re le difficoltà della prima via: l'ipotesi di una mente che pur disponendo di un'idea chiara e distinta di Dio si lascia tuttavia torturare dal dubbio universale, e il circolo vizioso di un Dio che si fa garante della verità delle idee chiare e distinte, dopo che la sua stessa esistenza viene fondata sulla chiarezza e distinzione dell'idea di Dio. Tutte queste difficoltà scompaiono immediatamente nella via ontologica. Nella via ontologico-deduttiva l'esistenza di Dio è tratta direttamente dalla definizione della sua natura. È la famosa prova ontologica di S. Anselmo, il quale mostra che una volta che si definisce Dio come «colui di cui non si può pensare nulla di più grande», non si può più negarne l'esistenza. Cartesio modifica leggermente la definizione anselmiana di Dio: Dio viene definito come «essere sovranamente perfetto». Ma, argomenta Cartesio, per essere veramente tale dev'essere concepito come esistente, altrimenti si potrebbe pensarlo ancora più perfetto (cioè esistente): il che sarebbe contraddittorio col suo stesso concetto. Ecco il testo della prova ontologica di Cartesio:
«È certo che io trovo in me l'idea di Dio, cioè l'idea di un essere sovranamente perfetto, non meno di quella di un numero o di un'idea o figura qualsiasi: e riconosco che un'attuale ed eterna esistenza
appartiene alla sua natura, non meno chiaramente e distintamente di quel che io conosca che tutto quel che io posso dimostrare di qualche
21) Ibial, p. 52.
126
Parte seconda
figura 0 di qualche numero appartiene veramente alla natura di quella figura 0 di quel numero. Pertanto, anche se tutto quel che ho concluso nelle Meditazioni precedenti non fosse riconosciuto vero, l'esistenza di Dio dovrebbe essere nel mio spirito certa almeno quanto tutte le verità matematiche le quali riguardano i numeri e le figure, sebbene in verità questo non sembri a prima vista completamente manifesto, ma sembri avere l'apparenza di un sofisma. Essendomi abituato a fare distinzione in tutte le altre cose fra l'esistenza e l'essenza, mi sono facilmentepersuaso che l'esistenza di Dio
può
separata dalla sua essenza, e così si può concepire Dio esistente attualmente. Nondimeno quando vi penso con maggiore attenzione, riconosco manifestamente che l'esistenza di Dio non può essere separata dalla sua essenza come non può in un triangolo rettilineo l'essenza essere separata dalla uguaglianza degli angoli a due retti, né l'idea di montagna essere separata dall'idea di valle: cosicché c'è altrettanta ripugnanza a concepire un Dio, cioè un essere sovranamente perfetto, al quale manchi Pesistenzamîl essere
come non
La prova ontologica che dopo le incisive critiche di S. Tommaso avesubito un considerevole declino, col rilancio di Cartesio torna a trionfare e diviene una delle dimostrazioni più quotate della metafisica moderna: se ne servono Malebranche, Spinoza, Leibniz, Wolff e lo stesso Hegel. Ma anche alla prova ontologica sarà fatale il colpo che le viene inferto da Kant all'interno del più ampio discorso da lui svolto contro le pretese teoretiche della metafisica. Ad ogni modo, anche nella prova ontologica la metafisica moderna è figlia di Cartesio. Concludendo la Quinta Meditazione, Cartesio torna sul problema del supposto circolo vizioso che grava sulla chiarezza e distinzione delle idee. A questo punto il circolo vizioso è stato rimosso: l'esistenza di Dio diviene il principio e il fondamento di ogni certezza e quindi anche del valore delle idee chiare e distinte: «La certezza e verità di ogni scienza dipende dalla conoscenza del vero Dio». Ma qualcuno si domanderà: stando così le cose, valeva la pena percorrere la lunga e tortuosa via del dubbio e del Cogito? Non sarebbe stato meglio seguire una rotta più veloce e navigare dritti su Dio, sul Principio primo di ogni cosa? Ma allora dove sarebbe andata a finire la modernità di Cartesio e il suo dialogare con gli scettici e i libertini del suo tempo? Ad ogni modo, nonostante il lungo girovagare, quella di Cartesio è una metaphysica brevis, che trascura ogni ulteriore approfondimento sugli attributi di Dio, sulle sue facoltà e operazioni, sulla creazione e sulla provvidenza. Più che fornire un trattato completo di teologia naturale Cartesio ambiva a comprovare la bontà e l'efficacia del suo metodo; voleva inoltre dimostrare che il suo era un autentico filosofare cristiano, va
22) ibiaî, v, pp. 71-72.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
127
in grado di prestare un buon servizio alla religione e alla teologia, senza minimamente ledere i diritti della ragione e della scienza. Come rileva A. Del Noce, «le Meditazioni rappresentano per lui (Cartesio) l'adempimento di quell’incontro tra la garanzia logica della sua scienza e l’apologetica del cristianesimo che aveva pensato nel 163D. Lo stesso processo di pensiero che permette di fondare la sua nuova fisica riduce 1'ateo all'insipicns nel senso di ignorante (non può avere certezza delle stesse verità matematiche) e di pazzo (non può avere certezza delle stesse affermazioni del senso comune). Metodo di questa ricerca è il dubbio in quanto esercizio della libertà Vista come potere di negatività: strumento
per isolare realtà
ontologiche, per far cogliere nel confuso (Pimplicito)
ontologico delle sostanze. Questo dubbio si scettico non semplicemente perché provvisorio e destiquello nella nato a essere superato certezza; in realtà esso è già dall'inizio incliche è la condizione dello scetticismo. E destiil naturalismo nato contro nato a fare emergere la situazione ontologica dell'uomo ntedium tra il mondo e Dio dalla sua trascendenza rispetto al mondo (provata dalla sua capacità di negarlo); trascendenza che mi è possibilericonoscere per quella presenza al mio pensiero dell'idea di Dio, che la successiva riflessione renderà esplicita».23
dell'esperienza l'ordine separa da
La metafisica dell'uomo e il primato della libertà La seconda grande questione metafisica che Cartesio affronta nelle Meditazioni filosofiche è quella relativa all'anima umana: la sua natura, i suoi rapporti col corpo (animaehumanae a «torpore distinctio, come dice il titolo della Seconda Edizione), e l'immortalità (Dei existentia et animae immortalitas demonstrantur, come è scritto nel titolo della Prima Edizione). Anche nella questione antropologica, come in quella teologica Cartesio ha a disposizione due vie: la via psicologico-riflessivae la via ontologico-deduttiva, e vuole avvalersi di entrambe. Nei Principi dichiara di voler seguire la via ontologico-deduttiva:
«Orbene, poiché Dio solo è la
vera causa di tutte le cose che sono e che noi seguiremo la miglior via del filosofare, se tenteremo di dedurre dalla conoscenza di Dio stesso la spiegazione delle cose da lui create, in modo tale da acquistare la scienza più perfetta, che è quella degli effetti dalle cause. E affinché ci addentriamo qui abbastanza al sicuro e senza pericolo di errate, dovremo usare la precauzione di ricordarci sempre quanto più è possibile che Dio, autore delle cose, è infinito, e noi affatto finiti>>24
possono essere, è ben chiaro
l‘) A. ‘DEL _NOCE, "Descartes", in Enciclopediafilosofica l, 1509-1510. 24) Principi l, p. 85.
Parte seconda
128
Pero, di fatto, sia nel Discorso sia nelle Meditazioni, l'unica via che
egli quella psicologico-riflessiva. Egli assume come sicuro punto di partenza il suo Cogito ergo sum e riflettendo su questa verità trae tutte le conclusioni circa la natura dell'anima e i suoi rapporti col corpo. La prima Conclusione è che il Cogito rivela il carattere pensante dell'anima. Di per sé questa è una verità molto ovvia e innegabile, ma Cartesio si spinge molto più in là: non solo l'anima svolge l'attività del pensare, ma la sua stessa sostanza consiste nel pensare: è res cogitarzs, e l'uomo stesso si identifica, come insegnava Platone, con la sola sostanza spirituale: l'anima. Certo l'uomo possiede anche il corpo, ma questo non fa parte dell'essenza della natura umana. Scrive Cartesio in una nota pagipercorre è
na
del Discorso:
«Poi, esaminando con attenzione ciò che io ero, e vedendo che potevo
fingere, sì, di non avere nessun corpo, e che non esistesse il mondo o altro luogo dove io fossi, ma non perciò potevo fingere di non esserci io, perché, anzi, dal fatto stesso di dubitare delle altre cose seguiva
nel modo più evidente e certo che io esistevo; laddove, se io avessi solamente cessato di pensare, ancorché tutto il resto di quel che io avevo immaginato fosse stato Veramente, non avrei avuto ragione alcuna di credere d'esser mai esistito: ne conclusi essere io una sostanza, di cui tutta l'essenza o natura consiste solo nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale. Questo che dico "Io”, dunque, cioè, l'anima, per cui sono quel che sono, è qualcosa di interamente distinto dal corpo, ed è anzi tanto più facilmenteconosciuto, sì che, anche se il corpo non esistesse, non perciò cesserebbe di essere tutto ciò che è».25
Ma,
l'essenza dell'uomo è l'anima, in che rapporto viene a trovarsi l'anima col corpo? Cartesio considera il corpo come una sostanza completa per conto suo, una sostanza diversa e opposta a quella dell'anima: mentre l'anima è una res cogitans, il corpo è una res extensa. Però nell'uomo queste due sostanze, pur radicalmente diverse, si trovano congiunte. La loro unione non ‘e così profonda come aveva pensato Aristotele, secondo il quale l'anima e il corpo formano una unità profonda, un sinolo, essendo unite tra loro sostanzialmente; ma neppure così superficiale come aveva pensato Platone, che aveva paragonato l'anima a un cavaliere e il corpo al suo cavallo. Secondo Cartesio l'unione tra anima e corpo ha luogo nel cervello (più precisamente nella ghiandola pineale). Sostanzialmente, Cartesio non pone alcuna differenza tra il corpo se
umano e i corpi degli animali: sono tutti automi, OSSÌB macchine semoventi. Il movimento è causato dagli spiriti animali, «che sono come un vento sottilissimo, o piuttosto come una fiamma purissima e molto viva,
25)
Discorso sul metodo IV, p. 147.
Cartesio, il padre della metafisica moderna la
129
quale salendo continuamente e in grande abbondanza dal cuore al e di là passando per mezzo dei nervi nei muscoli, mette in
cervello,
movimento tutte le membramìé Ciò che distingue l'uomo dagli animali è l'anima. Gli animali non hanno nessun'anima; l'uomo invece ha un'anima creata da Dio. E si tratta di un'anima immortale. Nella polemica con gli scettici e i libertini la questione dell'immortalità dell'anima non era meno scottante e decisiva della questione dell'esistenza di Dio: dalla sua soluzione non dipendeva soltanto il proseguimento dell'esistenza dell'uomo dopo la vita terrena, ma anche tutta la sua condotta morale e religiosa in questo mondo. Così questa questione nelle Meditazioni doveva essere affrontata direttamente con grande impegno, quanto meno tale sembrava essere l'intenzione di Cartesio, dal momento che l'argomento compariva nel titolo stesso dell'opera: Meditationes de. prima philosophia, irz qua Dei existentia et animae inzmortalitas demonstrantttr. Di fatto poi la questione della immortalità dell'anima era stata talmente trascurata da costringere l'autore a modificare il titolo dell'opera che, come sappiamo, divenne il seguente: Meditcztiones de prima philosophia, in quibus Dei existentia et animae humanae a corpore dis tinctio demonstrantur. All’irnperdonabileomissione Cartesio cercò di riparare aggiungendo una nuova prefazione alla seconda edizione delle Meditazioni, dove Cerca di mettere in chiaro il suo pensiero sulla questione dell'immortalità dell'anima, dichiarando che essa è indubbiamente immortale anche se per provare questa verità non ci sono argomenti basati su idee chiare e distinte. Ecco quanto egli scrive a questo riguardo: «Poiché può succedere che qualcuno aspetti da me, a questo punto delle ragioni che dimostrino l'immortalità dell'anima, credo di doverli avvertire che, avendo cercato di non scrivere in questo trattato nulla di cui non avessi una esattissima dimostrazione, mi sono visto obbligato a seguire un ordine simile a quello di cui si servono i geometri, cioè premettere anzitutto quelle cose da cui dipende la proposizione che si ricerca, prima di concludere. Ora, la prima e principale cosa che è necessaria per ben conoscere Fimmortalità dell'anima è quella di farsene un concetto chiaro e netto e completamente distinto da ogni concetto che si può avere del corpo, cosa che ho fatto. E necessario, inoltre, sapere che tutto ciò che noi concepiamo chiaramente e distintamente è vero per il modo con cui lo concepiamo: cosa che non ho potuto provare prima nella quarta Meditazione. Di più occorre avere un concetto distinto della natura del corpo, concetto che si forma in parte nella seconda, in parte nella quinta e nella sesta Meditazione.
26)
Ibid. v, p. 164.
130
Parte seconda
questo che le cose che si concepichiaramente come sostanze diverse, così come si concepiscono lo spirito e il corpo, sono di fatto sostanze realmente distinte le une dalle altre, e questa è la conclusione della sesta Meditazione (...). Non ho trattato più innanzi questo argomento in questo scritto, sia perché questo basta a mostrare abbastanza chiaramente che dalla corruzione del corpo non segue la morte dell'anima, e basta quindi a dare agli uomini la speranza di una seconda vita dopo la morte; sia ancora perché le premesse da cui si può trarre come conseguenza l'immortalità dell'anima dipendono dalla spiegazione di tutta la fisica. Anzitutto per sapere che tutte le sostanze in generale, cioè tutte le cose che non possono esistere senza essere create da Dio, sono per loro natura incorruttibilie non possono mai cessare di esistere, a meno che Dio non le riduca al nulla negando loro il suo aiuto, e poi per osservare che il corpo, in generale, è una sostanza, e per questo anch'esso non perisce; ma il corpo umano, in quanto differisce dagli altri corpi, è composto di un certo insieme di membra e di altri simili accidenti, mentre l'anima umana non è composta di accidenti, ma è una pura sostanza. E sebbene tutti i suoi accidenti si mutino, sebbene, E infine si deve concludere da tutto scono
per
esempio, essa concepisca certe
cose,
ne
voglia altre, ne senta altre
pure l'anima non cambia: mentre il corpo umano cambia per il solo fatto del cambiarsi della figura di qualcuna delle sue parti. Dal che deriva che il corpo umano può morire facilissimamente, mentre ecc,
lo spirito o l'anima dell'uomo (io parole) e per natura immortale»?
non
faccio distinzione tra le due
A questo punto la parte strettamente metafisica dell'antropologia è di per se’ conclusa. È stato infatti dimostrato che l'essere dell'uomo nella
parte primaria e veramente essenziale, l'anima, trascende questo mondo: è immateriale, spirituale, immortale. Ma Cartesio sa molto bene che, benché immortale, l'anima decide del proprio destino in questo mondo, attraverso il proprio agire. Tutta la realtà umana è in gestazione, non solo quella del corpo, ma anche quella dell'anima. Già si è visto che l'anima, per quanto riguarda il conoscere, possiede idee germinali: esse si sviluppano e raggiungono il livello della chiarezza attraverso la riflessione e la deduzione. È quindi importante esaminare quali sono le facoltà di Cui l'anima dispone. Abbiamogià notato che Cartesio ignora la memoria, e così egli riduce tutte le operazioni dell'anima a due facoltà principali: «una è la percezione, ossia l'operazione dell'intelletto; l'altra la volizione, ossia l'operazione della volontà. Giacché sentire, immaginare, e intendere puramente, sono soltanto modi diversi di percepire, come pure desiderare, avversare, affermare, negare, dubitare, sono modi diversi di voleremîs
sua
37’) Meditazioni, pp. 13-14. 38) Principi I, n. 32.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
131
Ciò che caratterizza l'antropologia cartesiana è il ruolo che vi si assegna alla libertà, e anche in questo Cartesio è il padre della filosofia moderna. Questa avrà particolare cura nel trattare della libertà, preparando il terreno all'uomo rivoluzionario che spezzerà tutte le catene politiche, culturali, sociali, religiose che l'avevano tenuto prigioniero non soltanto
nell'antichità e nel medioevo ma anche durante l'epoca moderna. Nell'uomo di Cartesio la libertà è la facoltà sovrana; i suoi poteri sono illimitati. La libertà rende l'uomo signore di se stesso e delle proprie azioni. Egli può liberamentedecidere se dubitare o uscire dal dubbio, se credere o non credere, se studiare o non studiare. L'uomo ha la libertà di resistere alle tentazioni del demonio come pure alla grazia di Dio. Ma l'uomo è veramente libero?
Che l'uomo sia libero per Cartesio è verità certissima, anzi ovvia. Per averne la prova non c'è bisogno di appoggiarsi sulla Scrittura, né sulla
metafisica, né sulla morale, né sul diritto. Basta interrogare la coscienza: questa non ci dice soltanto che esistiamo (Cogito ergo sunz) ma anche che siamo liberi.
«ll fatto che vi sia libertà nella nostra volontà e che ad arbitrio possiamo assentire o non assentire a molte cose, è manifesto al punto che è da annoverarsi fra le nozioni prime e affatto comuni che ci sono innate. E ciò fu palese al massimo poco fa quando Cercando di dubitare di tutto, ci spingemmo al punto di figurarci che qualche potentissimo autore della nostra origine tentasse con ogni mezzo di ingannarci; nondimeno infatti esperimentavamo esservi in noi la libertà di poterci astenere dal credere quelle cose che non erano senz'altro Certe ed esaminate a fondo; e nessuna cosa può essere per sé nota e meglio veduta che allora parevano non dubbie».29
Muovendosi sulla linea di Scoto, al quale Cartesio è debitore di alcutesi fondamentali della sua dottrina sulla libertàfi“ egli vede in essa la più grande, la più eccellente, la più perfetta di tutte le facoltà umane. Essa è decisamente più eccellente dello stesso intelletto: ne
«Fra tutte le cose che sono in me, non ve n'è alcuna tanto grande e perfetta che non riconosca che possa essere più grande e più perfetta ancora. Se infatti considero la mia facoltà di concepire, trovo che essa
è molto poco estesa e limitata, e insieme mi rappresenta l'idea di una facoltà più ampia e anche infinita; e dal fatto solo che me ne posso
rappresentare l'idea, concepisce
natura di Dio. Allo stesso modo
nazione o un'altra facoltà qualsiasi
29) lbid, n. 39. 3°)
difficoltà che appartiene alla esamino la memoria e l'immagiche sia in me, non ne trovo alcuna
senza
ne
L'evidenza della libertà viene ribadita poco più avanti al n. 41: <4... della libertà poi e della indifferenza che è in noi, siamo così coscienti che non vi è nulla che comprendiamo più evidentemente e più perfettamente». Cf. E. GILsoN, La dottrine cartésienne de la libertà“, cit.
132
Parte seconda
che
non
sia molto
piccola. e limitata, mentre in Dio è immensa e infini-
0 la libertà dellarbitrio che sento in me così e altra idea più grande ed estesa, cosicché essa concepisce fa che mi i0 porto l'immagine e la somiglianza conoscere soprattutto
ta. Vi ‘e solo la volontà
di cui
non
di DÌOm“
A
questo argomento di matrice scotista Cartesio
a
sostegno della
supremazia della volontà sull’intelletto ne aggiunge un altro suo proprio:
l'assegnazione alla volontà di alcune azioni che i filosofi precedenti avevano attribuito all'intelletto: il dubbio, l'opinione, l'affermazione, la negazione, il giudizio. Secondo Cartesio spetta alla volontà non soltanto fare o non fare, ma anche «affermare o negare, ricercare o fuggire le cose che l'intelletto ci presenta»? l'affermazione e la negazione che costituiscono propriamente il giudizio possono essere proposte dall'intelletto ma sono sempre pronunciate dalla volontà. Il giudizio dal quale può nascere l'errore trae origine dal concorso simultaneo di due cause: la facoltà del conoscere o intelletto e la facoltà dello scegliere o libero arbitrio: seguito a ciò, venendo a considerare più da vicino me e i miei errori, i quali soli testimoniano che c'è in me della imperfezione, «In
che essi dipendono dal concorso di due cause, cioè dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scelta o libero arbitrio, cioè dal mio intelletto e insieme dalla mia volontà. Difatti con l'intelletto solo non affermo ne’ nego alcuna cosa, ma soltanto concepisce le idee delle cose che posso affermare o negare>>.33 trovo
Da queste considerazioni già emerge che nonostante il tanto conclamato razionalismo cartesiano, in effetti il padre della filosofia moderna è
essenzialmente un volontarista e con la sua teoria che l'affermazione, la negazione e il giudizio sono atti della Volontà piuttosto che dell'intelletto, egli spalanca la strada a quella concezione della ragione strumentale (ragione strumento della volontà di potenza) che diventerà uno dei tratti specifici della cultura moderna, una cultura che anziché illuministica finisce per diventare meramente tecnologica, mentre contemporaneamente l'h0m0 sapiens subisce la metamorfosi in homo faber. Mentre Cartesio ‘e noto per la chiarezza e distinzione del suo metodo, il linguaggio di cui egli fa uso per definire la libertà è tutt'altro che chiaro e distinto. Egli parla indifferentemente di "volontà”, "libertà”, ”libero arbitrio", "assenza di costrizione", "indifferenza di fronte a due alternative”, espressioni che per gii scolastici non erano affatto equivalenti. Questa confusione di linguaggio nasce probabilmente dal trasferimentodelle più importanti attività dell'intelletto (affermazione, negazione, giudizio)
3‘) Meditazioni IV, pp. 62-63. 33) lbid, p. 63. 33) Ibid, pp. 61-62.
Cartesio, il padre della metafisica moderna
133
alla volontà. Questo fa sì che l'atto libero non segua ma preceda il giudizio stesso. Così la libertà finisce necessariamente per coincidere con la volontà, come dice testualmente Cartesio: «la volontà o la libertà dell'arconsiste soltanto in questo: che noi possiamo fare o non fare bitrio una cosa, cioè affermare o negare, ricercare o fuggire una cosam“ Mentre Aristotele e Tommaso distinguevant) nettamente tra volontà e libertà e ritenevano liberi soltanto gli atti che sono guida dalla ragione, Cartesio, sull'esempio di Scoto, sovverte il rapporto tra ragione e vo-
lontà; quest'ultima presiede alle
stesse funzioni fondamentali della raad le essa leggi del suo arbitrio. In questo dominio gione, imponendo della volontà sulla ragione sta, secondo Cartesio, il cuore della libertà. La volontà non sottostà a nessuna norma, nessun criterio, nessun giudizio che le venga presentato dalla ragione, ma è essa stessa invece a decidere del valore di qualsiasi giudizio, di ogni criterio e verità. L'errore fondamentale di Cartesio sta nellbquiparare l'azione della volontà a quella dell'intelletto, il giudizio. In tal modo la funzione della volontà non è più limitata a integrare col suo impulso una cognizione ancora lacunosa o inadeguata e a determinare così l'attuazione del giudizio, ma viene estesa alla formazione del giudizio nella sua universalità. In questo senso si potrebbe dire che ogni cognizione, data la Volitività del giudizio, è un atto di fede. In realtà Cartesio concepisce tutti gli assensi sul tipo dell'assenso di fede del sistema scolastico. In tal modo egli estende quel primato assoluto del Volere sul comprendere che è proprio dell'atto di fede a tutta la sfera della conoscenza umana. Ci troviamo così davanti a una nuova concezione della libertà, la quale implica «l'autonomia dell'uomo di fronte alla verità in quanto egli è responsabile della verità. È questa autonomia che costituisce l'essenza del Cogito e attesta che la verità è cosa umana, per il fatto che io devo attuarla perché esista: di qui per Cartesio, il giudizio consiste nell'adeguazione della volontà e nell'impegno (engagement) libero del mio essere>>fi5
La
cosmologia: scienza e metafisica
La filosofia della natura (cosmologia) gioca un ruolo importante, anzi decisivo, in una metafisica di stampo sperimentale-risolutivo come quello aristotelico: una metafisica che muove i suoi passi da questo mondo e trova in questo stesso mondo la ragione per cui esso non può essere tutto, non può coincidere con l'Intero né essere il Principio primo di ogni cosa. Ma, come abbiamo già avuto modo di osservare in precedenza, una filosofiadella natura non si deve mai trasformare in una fisi-
33)
Ibiii, p. 63. C. FAsRo, Introduzione {IÌÙIÉGÌSHJO moderno, Roma 1969, 2*’ ed., p. 977.
134
Parte seconda
ca e neppure in una cosmologia. Infatti non è la descrizione di questo mondo che interessa il metafisico, ma semplicemente la scoperta di quei principi e di quei fenomeni fondamentali che lo inducono a intraprendere la ”seconda navigazione”. In una metafisica di stampo aristotelico la filosofia della natura è indispensabile, ma non è fine a se stessa, bensì funge da pedana di lancio verso la realtà trascendente.
Invece nella metafisica di
stampo platonico che,
come
sappiamo,
è
metafisica assiomatico-deduttiva, la filosofia della natura è un'appendice del tutto secondaria. Tutto sommato, per un platonico, quando si è esaurito il discorso su Dio e le realtà spirituali (le intelligenze) e si è stabilito che anche l'uomo appartiene a questo mondo in quanto spirito, la speculazione metafisica potrebbe anche arrestarsi, tralasciando ogni ulteriore discorso sul mondo, sulla corporeità e sulla materia. Senonché poi ci si scontra anche col fenomeno della realtà materiale, una realtà oscura e in un certo senso assurda, in quanto inderivabiledallo spirito. Così per i platonici è necessario inventare un peccato degli spiriti e delle anime, per spiegare la loro presenza in questo mondo: una tenebrosa caverna dalle cui pesanti catene occorre tentare di liberarsi. La costruzione metafisica cartesiana è essenzialmente platonica: Cartesio non sale a Dio partendo dal mondo fisico, materiale, ma dalla idea chiara e distinta di Dio Cerca di dedurre ogni altra realtà. Perciò di fatto nel suo pensiero non esiste una filosofia della natura, ma soltanto una scienza della natura, una fisica, ed è una fisica a cui egli tiene moltissimo, perché sa di essere uno scienziato di valore, che ha contribuito al progresso della fisica e della matematica. Per questo motivo, oltre che in saggi specificamente scientifici (i suoi trattati sulla luce) egli espone la sua cosmologia in tutte le sue opere filosofiche: nella quinta parte del Metodo, nella quinta Meditazione e, più estesamente, nelle ultime tre parti dei Principi della filosofia. Nella filosofia della natura fondamentale è la decisione di Cartesio di non prendere in considerazione la causalità finale ma soltanto la causalità efficiente: una
«Così non desumeremo mai nessuna ragione circa le Cose naturali, dal fine che si è proposto Dio o la natura nel farle; poiché non dobbiamo essere tanto arroganti da ritenerci partecipi delle sue decisioni: ma
considerandolo come
causa
efficiente di tutte le
cose,
vedremo
si dovrà concludere, in base al lume naturale che egli ha in posto noi, da quei suoi attributi di cui ha voluto che noi avessimo qualche nozione, riguardo a quei suoi effetti che appaiono ai nostri sensi; memori tuttavia, come già si è detto, che a questo lume naturale si deve credere sino a tanto che non venga rivelato nulla in contrario da DÌ0».3"
che
cosa
36) [Ìrincipi I, n. 28, p. s7.
Cartesio, il padre della metafisica moderna Secondo Cartesio,
gli elementi costitutivi del
135
mondo fisico sono due:
l'estensione e il movimento:
«La natura del corpo considerato universalmente non consiste nel fatto che sia una cosa dura 0 pesante o colorata, o che in qualche altro modo tocca i sensi; ma soltanto nel fatto che è cosa estesa in lungo, in largo e in profondità. Infatti, quanto alla durezza il senso non ci indica di essa null'altro, se non che le parti dei corpi duri resistono al moto delle nostre mani, quando si incontrano con esse (...). Per la stessa ragione si può mostrare che il peso, il colore, e tutte le altre simili qualità, che si sentono nella materia corporea, possono essere tolte da essa, rimanendo essa intera: donde segue che la sua natura non dipende da nessuna di esse»?
Unica causa della formazione dei corpi è il moto: il moto dà all'estensione le diverse forme e, in tal modo, dà origine alle varie cose. Delle varie proprietà che noi attribuiamo alle cose solo quelle primarie (spazio, figura, numero) sono oggettive, ossia appartengono effettivamente alle cose; invece quelle secondarie (odore, colore, sapore, calore, durezza ecc.) sono soggettive. Così, per es., in un pezzo di cera messa al fuoco è facile constatare che il colore cambia, l'odore se ne va, ecc. e che rimane solo qualcosa che occupa spazio, ha una figura ed è capace di essere divisa. E ovvio che questa interpretazione estremamente meccanicistica del mondo naturale, di cui si pretende di spiegare tutti i fenomeni solo col movimento e con le particelle materiali, come facevano gli atomisti greci, non può risultare molto soddisfacente, anche se metodologicamente, almeno per alcuni rami della scienza, l'esclusione della causa finale e dell'aspetto qualitativo, può rivelarsi molto proficua. Qui, però, Cartesio più che all'osservazione scientifica obbedisce alla ferrea logica della spartizione dell'universo in due mondi: il mondo della res cogitans che è quello degli spiriti, e il mondo della res extensa che è quello dei corpi. Del primo si occupa la metafisica, del secondo la scienza. Dal che risulta che in Cartesio c'è una netta distinzione tra scienza e metafisica, e il legame che lega queste due forme di sapere è tutto sommato accidentale, e può giovare più alla scienza che alla metafisica. Il passaggio dalla scienza alla metafisica ha un solo scopo: rassicurare, su base incrollabile,la fede della scienza in se stessa. Una volta autonoma, la scienza è ricondotta alla metafisica non come alla sua causa, ma come a una sua garanzia. Pertanto, come scrive Hamelin, «nel piano sistemati— co della filosofia cartesiana, la metafisica procede e fonda la fisica, cui si connettono, quali applicazioni complementari, le tre scienze pratiche della meccanica, della medicina e della morale»,38
37) 3“)
Ibfd. Il, n. 4, p. 131. O. HAMELIN, Le système de
Descartes, Paris 1921, 2*‘ ed, p. 2].
Parte seconda
136
Questo ‘e innegabile dal punto di
vista teoretico,
ma
dal punto di vi-
prima abbiamo il Cartesio scienziato e poi il Cartesio metafisico. Prima del 1630 egli ricerca soluzioni precise di problemi particolari di matematica e di fisica-matematica; dopo il 1630 abbandona queste ricerche e procede alla costruzione di un vasto sistema di sapere universale, da cui sono assenti le soluzioni di dettaglio e la tecnica matematica. Di fatto, però, pur mantenendo formalmente distinsta storico l'ordine è invertito:
te scienza
e
metafisica, Cartesio finisce per costruire un sistema unitario,
sistema totale di sapere Certo, insieme metafisico e scientifico: «sistema fondamentalmente diverso da quello aristotelico, dato che è del tutto immanente alla certezza matematica implicita nel1’intelletto chiaro un
e
distinto; ma non è per questo, meno totale, ed è anzi più unitario, nella
esigenza di rigore assoluto. Questa totalità sistematica non è affatto quella richiesta da un'enciclopedia delle Conoscenze materiali realmente acquisite, ma è l'unità fondamentale dei principi primi, da cui discendono tutte le conoscenze certe possibilim-i‘? sua
Obiezioni e
risposte
più completa della vastissima risonanza che riscosse la nuova metafisica di Cartesio già tra i suoi contemporanei è utile dare Per farci un’idea
uno
sguardo alle obiezioni che
furono
mosse
—
su
richiesta dello
stesso
Cartesio alle dottrine da lui esposte nelle Meditazioni dai più illustri rappresentanti di tutte le Correnti filosofiche del suo tempo. Tutto il materiale della discussione venne raccolto nel volume Obiectiones et responsioncs, edito insieme alle Meditazioni. Si tratta di sette gruppi di obiezioni che sono state inviate a Cartesio rispettivamente da: Giovanni Katerus (Catero), teologo dei Paesi Bassi, padre Marino Mersenne, eminente teologo cattolico, amico di Cartesio, Tommaso Hobbes, il noto autore del Leviatano, Antonio Amauld, famoso giansenista e portorealista, Pietro -
Gassendi, noto filosofo e fisico francese, un gruppo di teologi e filosofi della Sorbona, e Pietro Bourdin, un gesuita professore di matematica al collegio di La Flèche, dove come sappiamo aveva studiato Cartesio. Molte discussioni riguardano le definizioni dei termini usati da Cartesio, che molte volte si allontanano dalle note definizioni degli scolastici. Ma in quella stessa polemica ci sono momenti più decisivi per la comprensione del pensiero cartesiano sia in generale sia su punti particolari.
39)
M.
CUEROULT, Descarfes selon l'anime des raisnns, vol. l,
Paris 1953, p. 18.
Cartesio, il padre della metafisica rrzoderna
137
PRIME OBIEZlONl Le obiezioni di Katerus riguardano le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Katerus rileva che la dimostrazione dell'esistenza di Dio basata sulla sua causazione delle idee in noi, implica il ricorso alla via della causa efficiente, proposta da Aristotele e da S. Tommaso. Ma Cartesio osserva che la causalità di Dio è nell'atto stesso della creazione, mentre Egli ò causa di se stesso (nel senso di fondamento); e che dunque Dio come causa supera la serie delle cause efficienti, che per se stessa si produrrebbe all'infinito, e non può condurre alla conoscenza di Dio se non è posta in rapporto con la prova ontologica.
SECONDE OBIEZIONI Padre Mersenne, a nome dei suoi amici, fa osservare a Cartesio che non si trovava nelle Meditationes una sola parola intorno a1l'immortalità dell'anima. Cartesio, pur preparandosi ad accettare le critiche rivoltegli modificando il titolo della seconda edizione, gli offre, a conclusione della sua Responsio, uno schema molto interessante di «Ragioni che provano l'esistenza di Dio e la distinzione che vi è tra lo spirito e il corpo umano, disposte in ordine geometrico». Mediante definizioni, postulati e assiomi, che utilizzerà nella redazione dei Principi, egli dimostra, con un primo saggio di quel metodo filosofico geometrizzante che aveva sempre designato come suo ideale, quattro proposizioni: 1) l'esistenza di Dio si conosce dalla sola considerazione della sua natura; 2) essa è dimostrata anche dai suoi effetti, per ciò solo che la sua idea è in noi; 3) ed è anche dimostrata dal fatto che noi stessi, che abbiamo in noi la sua idea, esistiamo; 4) lo spirito e il corpo sono realmente distinti. TERzE OBIEZIONI Le obiezioni di Hobbes, ribattute da Cartesio punto per punto, si riducono in ultima analisi allo svolgimento di questa alternativa dialettica: se la cosa pensante (res Cogitans) e la cosa estesa (res extensa) occupano nella natura due linee parallele, l'una con le idee e l'altra con i corpi, la loro relazione più ragionevole sarebbe di riconoscere l'esistenza delle idee come altrettanti attributi dei corpi e a questi appartenenti. Ma il pensiero di un corpo, come oggetto del pensiero replica Cartesio non è reversibilenel corpo di un pensiero, poiché il corpo include, nella sua nozione, qualità immaginabili,eppure non pensabili distintamente, e le loro cause meccaniche, che il pensiero puro non contiene. -
-
138
Parte seconda
QUARTE OBIEZIONI Arnauld, nelle
obiezioni, chiede
a Cartesio ulteriori chiarimenti naturale: "la natura dello spirito problemi più teologia che "Dio" “le turbare i umano”, e cose teologi”. Cartesio ampossono mette che non avrebbe potuto desiderare maggiore chiaroveggenza circa il significato dei suoi scritti, ma secondo lui egli aveva già soddisfatto pienamente a queste difficoltà. La sua concezione del corpo non era sminuita dalla sua metafisica, ma resa invece "completa": quella di una sostanza con i suoi attributi. La sua concezione dell'anima era superiore a questa nella certezza, e appunto la certezza intima la rendeva ancora più concreta. Il concetto di perfezione nella dimostrazione dell'esistenza di Dio era del tutto conforme alla teoria classica, aristotelica e tomistica. La sua teologia razionale era, senza dubbio, appropriata a menti esercitate e a spiriti forti, tuttavia poteva permettere di risolvere le difficoltà sue
scottanti della
sui
dei dogmi allo scopo di persuadere le intelligenze più deboli.
QUINTE OBIEZIONI Radicali erano le obiezioni del materialista Gassendi, il quale aggrediva il cartesianesimo lungo tutto il suo fronte dottrinale: il dubbio metodico, il "Cogito”, l'idea di Dio, i rapporti tra anima e corpo. Riguar— do alla dimostrazione dell'esistenza di Dio, Gassendi contestava l'universalità di fatto dell'idea di Dio e quindi l'universalità di diritto della dimostrazione della sua esistenza. Cartesio gli rispose Cortesemente e pazientemente ricostruendovi a riscontro le proprie posizioni. È un fatto però che i due avversari non si erano incontrati: neppure letteralmente, perché Gassendi, per designare Cartesio, aveva usato l'appellativo "o Animal", e Cartesio per designare Gassendi quello di ”o Carne!". Così avevano parlato la Carne e lo Spirito, non i due filosofi. SEsTE OBIEZIONI
Queste obiezioni, raccolte dal padre Mersenne, comprendono una ”scrupoli” teologici che sono in sostanza del tipo di quelli rias-
serie di
sunti da Arnaud e delle difficoltà circa la cognizione dell'anima e la sua distinzione dal corpo, che erano già state proposte dallo stesso Mersenne; infine una sola obiezione ma ben ragionata di "alcuni filosofi e geometri”, se sia possibile cioè togliere ogni e qualsiasi elemento corporeo dal concetto dello spirito umano. Per rispondere anche a questa dubitazione, Cartesio traccia una breve storia del processo per cui era passata la sua mente nell'accogliere l'idea comune di corpo, dapprima, poi depurarla via via secondo la scienza, infine trascenderla nell'idea di esten-
Cartesio, il padre della metafisica moderna
139
sione reale: sviluppando con tono autobiograficol'analisi dello stesso processo fatta nella seconda Meditazione. In questo excursus è addotto il famoso argomento del bastone che appare spezzato per la rifrazione dell'acqua, per provare che la realtà fisica può essere differente dai fenomeni sensibili.
SETTIME OBIEZIONI A giudizio unanime gli studiosi, oltre che prolisse e superficialissime, le obiezioni del Bourdin sono assurde perché attribuiscono a Cartesio opinioni quasi sempre diverse da quelle che gli sono proprie. In una lettera a Mersenne del 3D luglio 1640 Cartesio scrive, a proposito della critica del Bourdin alla Diottrica: «Egli non obietta neppure una parola contro ciò che ho scritto, ma mi fa dire sciocchezze a cui non ho mai pensato, per poi confutarle...» Il medesimo si può affermare di queste obiezioni alle Meditazioni.
Recezione e
interpretazione del pensiero di Cartesio
Cartesio è il padre della filosofia e della metafisica moderna. Quasi tutti gli indirizzi filosofici moderni hanno trovato in lui una copiosa fonte di ispirazione e un importante alleato: i razionalisti e gli illuministi, gli idealisti e gli spiritualisti, i positivisti e i neoscolastici,gli esistenzialisti e i fenomenologi. Così, tante sono le correnti della filosofia moderna e altrettante sono le interpretazioni che sono state date del
pensiero cartesiano.
La varietà delle interpretazioni dipende dalla qualità delle risposte che vengono date ai seguenti interrogativi: quella di Cartesio è una filosofia religiosa oppure laica? è una fisica oppure una metafisica? e se è una metafisica, è una metafisica realista oppure idealista? o è semplice-
mente una fenomenologia?
A1
primo interrogativo, filosofia religiosa
o
laica, numerosi studiosi
una filosofiaprofondamente religiosa, maturata all'interno della Controriforma, in polemica con i libertini e i miscredenti. Questa era già l'interpretazione di Arnauld che aveva elogiato Cartesio per la sua presa di posizione contro gli scettici e contro i libertini. Questa interpretazione è stata ribadita in tempi moderni da H. Gouhier“ e da A. Espinas.“ Gouhier considera il pensiero di Cartesio come rivolto esclusivamente all'affermazionedelle Verità" religiose, e anzi
hanno risposto che la filosofiadi Cartesio è
4") 41)
H. GoUHIER, La pensée religieuse de Descartes, Pari-s 1924. A. ESPINAS, Descartes et la morale, 2 voll., Paris 1925.
140
Parte seconda
al servizio delle cose spirituali, e giunge ad attribuire a Cartesio l'atteggiamento di chi ha ricevuto la visita dello Spirito divino, e dopo quell'ora sacra (inverno 1619-1620), quando Cartesio dice di avere avuto la mirabile Visione della matematica universale, cammina da certezza a certezza. Pertanto Cartesio e Pascal non sono due nemici, ma lavorano per la stessa causa: il primo più con la ragione, il secondo più col cuore. A. Espinas riafferma l'ispirazione religiosa di Cartesio, ponendola anche in rapporto, oltre che con le tendenze religiose del tempo, con quelle politiche sociali, letterarie e artistiche e riconducendola specialmente a S. Agostino, a imitazione del quale, e in funzione antiscolastica, Cartesio avrebbe dedicato la propria attività a servizio della Chiesa, del dogma e
dell'ortodossia.
A questa interpretazione già gli illuministi contrapposero una interpretazione laica e ostile non solo alla scolastica ma al cattolicesimo stesso. Secondo tale interpretazione la religiosità di Cartesio è solo apparente, una religiosità di facciata e interessata, una maschera per sfuggire alle accuse dell'lnquisizione.Il Gioberti“ ha presentato la filosofia di Cartesio come irreligiiusa e, in particolare, luterana, perché basata sulla ragione soggettiva. E nonostante che anche tra i cattolici si levassero nel secolo XIX alcune voci a difesa almeno parziale, il giudizio di irreligiosità prevalse in campo cattolico e venne largamente condiviso dalla maggior parte degli storici francesi (Ch. Renouvier, L. Liard, E. Brehier, M. Leroy). Senza accusare Cartesio di malafede anche M. Blondel, E. (jilson e I. Maritain hanno sottolineato la sostanziale laicità del pensiero cartesiano. Al secondo interrogativo: fisica o metafisica, la risposta più comune è che nella filosofia di Cartesio il primato spetta alla metafisica. Questa è l'interpretazione che hanno dato i razionalisti (già a partire da Spinoza), gli idealisti, gli spiritualisti, i neoscolastici, gli esistenzialisti (Sartre in
particolare). All’interpretazione metafisica i positivìsti hanno contrapposto l'interpretazione scientifica. Secondo questa interpretazione tutta la grandezza di Cartesio sta nei suoi apporti alla fisica e alla matematica; la sua metafisica sarebbe un eclettismo pasticciato di filosofiascolastica e di psicologismo. Secondo Ch. Renouvier, che è uno dei principali esponenti di questa linea interpretativa, «Cartesio ‘e eminentemente fisico e matematico, e si distingue da Bacone per il fatto che prende le mosse da un metodo generale, che gli permette di sottrarre immediatamente la fisica alle ”qualità reali” e alle ”forme sostanziali" per legarla in modo definitivo alle leggi matematiche del numero, della figura e del movimentom” 43) V. CIOBERTI, Introduzione allo studio dcllafìlosofia, Capolago 1845. “) CH. RENOUVIER, Manuel de philosophiemoderne, Paris 1842, p. 53.
Cartesio, il padre della metafisica nzodermz
ve
fra:
141
Il capostipite della interpretazione idealistica ‘e ovviamente Hegel. ScriHegel in un'importante pagina delle sue Lezioni sulla storia dellafiloso«Soltanto con Cartesio, dopo la scuola neoplatonica e ciò che ad essa si collega, perveniamo propriamente a una filosofia autonoma, consapevole di derivare in modo indipendente dalla ragione, consapevole che Pautocoscienza è momento essenziale del vero. La filosofia, che ha ormai una base sua propria, peculiare, abbandona completamente quanto al principio, la teologia filosofeggiante, e la colloca dall'altra parte. Ormai possiamo dire di trovarci in essa proprio a casa nostra e, come il navigatore dopo lungo errare sul pelago infuriato, possiamo gridar ”terra!”: a Cartesio difatti mette capo veramente la cultura de]l’età moderna, il pensiero della filosofia moderna, dopo che a lungo si era andati avanti sulla vecchia via».44
A giudizio di I-Iegel, Cartesio conferendo forza e incisività alla filosofia che succede allo scolasticismo e al teologismo, afferma il principio dell'unità tra pensiero ed essere e, con il Cogito e la prova ontologica dell'esistenza di Dio, orienta chiaramente la ricerca filosofica verso l'autofondazione nella dimensione della interiorità, ossia verso l’idealismo. Sulla strada aperta da Hegel si sono poi incamminati gli idealisti (F. W. I. Schelling), gli spiritualisti francesi (V. Cousin, Maine de Biran), i neokantiani (E. Cassirer), i neohegeliani (O. Hamelin), gli esistenzialisti (I. P. Sartre). Una nuova linea interpretativa, quella fenomenologica è stata prospettata da E. Husserlfi e da M. Merleau-Pontytîé anche se ne’ l'uno né l'altro condivide la fenomenologia cartesiana del Cogito, in quanto viziata da preoccupazioni soggettivistiche e psicologistiche. In base al nostro studio sulla metafisica cartesiana, ci pare che ai tre interrogativi che hanno dato luogo alle molteplici interpretazioni di cui abbiamo tracciato una piccola mappa sia giusto dare le seguenti risposte: 1) Quella di Cartesio è una filosofia laica e non una filosofia religiosa; ma non è laicista, perché anzi cerca l'accordo con la teologia, volendo però rag iungere le verità religiose con i soli strumenti del lume della ragione. una filosofia che ricusa il misticismo e Pintimismo, come pure lo scetticismo e Fagnosticismo. Sostanzialmente si può qualificare come filosofia cristiana, la quale in quanto filosofia rimane pur sempre laica. E una filosofia cristiana perché fa suoi gli apporti filosofici del cristianesimo: unicità di Dio, divina provvidenza, libertà, valore assoluto della
44) 45
46)
0 G‘
F. HECFI, Lezioni’ sulla storia dcllafilosofia, Firenze 1967, vol. III, p. 73. f. E. HUSSERL, Méditations cartésienncs, Paris 1931. f M. ERLEAU-PONTY, Phénonzénologie de la perccption, Paris 1945.
'.
.
142
Parte seconda
persona ecc. Scrive bene Del Noce: «Tutto il suo pensiero (di Cartesio) si forma perciò entro la tesi tradizionale, mai da lui posta in discussione (non perché si tratti di un residuo, ma perché mai ebbe l'impressione di un dissidio), della distinzione metodica della ragione e della fede. Domandarsi perciò che cosa egli avrebbe fatto se la ragione gli avesse manifestato delle verità che gli fossero apparse come non componibili con quelle della fede; se avrebbe fatto propri i dettati della ragione o se vi avrebbe rinunciato in nome della fede, ecc, è porsi una questione che non ha senso, perché mai gli si affaccio il problema di questo scontro. Bisogna guardarsi dall’attribuirgli una posizione illuministica in anticipo, l'idea di un'assoluta sovranità della ragione: il campo della ragione è per lui limitato, tra il sovrarazionalee l'infrarazionale».+7 2) È una metafisica che nonostante cronologicamente, come si è visto, sia venuta dopo la fisica, non dipende minimamente da essa; anzi, dal punto di vista teoretico se c'è una dipendenza ‘e quella della fisica nei confronti della metafisica e non viceversa. Si tratta di una metafisica platonica e ontologistica, costruita tutta dall'alto al basso: dalla Verità certa ed evidente di Dio sono derivate tutte le altre verità e realtà. 3) È una metafisica di stampo realistico e non idealistico. Il criterio di verità per Cartesio è l'evidenza con cui l'oggetto si manifesta e si impone al soggetto, e quando l'evidenza è chiara il soggetto non può ricusarla, come l'occhio non può rifiutarsi di vedere una montagna illuminata dalla luce del sole. Non e una metafisica immanentistica bensì trascendentistica, anche se l'itinerario cartesiano è quello delfimmanenza, in quanto procede dal soggetto, dall’lo, e va verso il mondo e verso Dio. Ciò che distingue la metafisica cartesiana dalla metafisica classica non è tanto il punto di arrivo (Dio), quanto il punto di partenza, che non è più il mondo, la natura fisica, materiale, ma l'Io nella sua operazione speculativa, l'Io pensante (res cogitans). Pertanto è una metafisica antropocentrica anziché cosmocentrica come era la metafisica classica in tutte le sue versioni. In quanto antropocentrica la metafisica cartesiana si distingue anche dalla metafisica cristiana che era essenzialmente teocentrica. L'antropocentrismo sarà uno dei caratteri fondamentali di tutta la metafisica moderna.
47)
A. DEL NOCE, "Dcscartes", cit., 1496-1497.
Cartesio, il padre della nzetafisica moderna
143
Suggerimenti bibliografici EDIZIONI Oeuvres de Descartes, ed. C. Adam e P. Tannery, 11 v0ll., Paris 18971900; della Correspondance fu curata una nuova edizione da C. Adam e G. Milhaud,5 v0ll., Paris 1936 ss.
STUDI Sterminata è la letteratura su Cartesio. Qui ci limitiamo solo a pochi studi di carattere generale, e agli studi più importanti sul pensiero metafisico.
a) Studi generali C. H. BECK, Descartes erste Philosophic, Miìnchen 1971. A. CARLINI, Il problema di Cartesio, Bari 1938. E. CASSIRER, Descartes, Goteborg 1939. A. DEL NOCE, Riforma cattolica e filosofia moderna, Bologna 1965. H. COUHIER, Essai sur Descartes, Paris 1937. ID., Les premières pensées de Descartes, Paris 1979. J. LAPORTE, Le rationalismede Descartes, Paris 1945. F. OLGIATI, La filosofia di Descartes, Milano 1937. W. ROED, Descartes erste Philosophie, Bonn 1987. b) Studi sulla metafisica cartesiana F. ALQUIÈ, La découverte métaplzysique de l'homme chez Descartes, Paris 1950.
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144
MALEBRANCHE E UONTOLOGISMO
Tutta la metafisica moderna cammina dentro il solco tracciato da contro gli antimetafisici (Pascal, Hume, Vico) vedono in Cartesio il loro principale nemico. Però tra gli eredi spiritiuali di Cartesio non c'e concordia. Ci sono discepoli che cercano di mantenere pressoché inalterata l'eredità del Maestro: questo è il caso ci Malebranche; mentre altri la sfruttano con grande libertà: così faranno Spinoza, Leibniz, Wolff e gli spiritualisti francesi dell'Ottocento. Vediamo anzitutto il pensiero del suo discepolo più fedele, Malebranche.
Cartesio; per
Vita e opere Nato a Parigi nel 1638, Nicolas Malebranche era figlio di un consigliere. Di salute cagionevole fece i primi studi in casa. Sedicenne entrò nel collegio di la Marche dove studiò filosofia sotto la guida di un aristotelico che però non riuscì a fargli apprezzare la materia. Successivamente passò alla Sorbona per lo studio della teologia, senza trarne grande soddisfazione, Nel 1664 entrò nell'”Oratorio", dove trovò un ambiente molto congeniale a un temperamento come il suo, portato al raccoglimento dell'anima e alla concentrazione del pensiero. Nel 1664, l'anno della sua ordinazione sacerdotale, Malebranche scoprì in una libreria l'opera postuma di Cartesio, che aveva come titolo Tmité de l'homme. Lo lesse con grande interesse, e da quel momento si impegnò totalmente nello studio della filosofia e anche della scienza. Divenne così uno scienziato e un filosofo di valore e di prestigio. sporadicamente si dedicò re
del
anche alla predicazione; ma usualmente egli realizzava la sua vocazione sacerdotale essenzialmente attraverso la sua attività di studioso. Ma pro-
prio questa
attività lo trascinò in
numerose e
aspre
polemiche, in
cui
dimostrò molta vivacità e molto ardore nel difendere il proprio pensiero.
Fin dal 1675, dopo il primo tomo de La Récherche de la Vérite’, l'abate di S. Foucher, con la Critique de la Récherche de la Verité lo induceva a precisare i rapporti fra ragione e fede, come pure la sua opposizione a Cartesio sulle verità eterne, e sulle idee, essenze necessarie e non semplici modi di fatto inerenti al nostro pensiero. Il Traité de la nature et de la grcîce (1680) suscitò le riserve di Bossuet, di Fénélon e soprattutto di Amauld. Ne seguì una lunga serie di Risposte,
Malebranclze e Fontolngisma
145
Difese, Lettere, che si trascinarono avanti per oltre un ventennio. Le repliche di Malebranche, da lui ristampate nel 1709, costituiscono già di
un'opera di gran mole. egli aveva difeso Poccasionalismo contro Fontenelle una e aveva pubblicato Réponse à Regia, un cartesiano dal quale era stato criticato nel Système de philosoplzie (1690), particolarmente riguardo alla percezione e alla visione di Dio. Avendoglirichiesto il benedettino F. Lamy di intervenire a favore del quietismo, egli invece critico questa dottrina nel Traité de l'amour de Dieu, cercando tuttavia di evitare qualsiasi polemica personale. La stessa avversione per le dispute si manifesta nella sua ultima opera, le Réflexions sur la préntotion physique, che confutava il Traité de l ‘astio-n de Dieu sur les créatures del padre Boursier (1713). Malebranche, durante gli ultimi mesi della sua esistenza fu un esempio per tutti con l'esercizio delle virtù cristiane e con le manifestazioni della sua pietà sacerdotale e sorprese tutti quelli che 10 circondavano con la lucidità di spirito con cui si informava delfevolversi della sua malattia. Morì a Parigi il 13 ottobre 1715. Oltre alle opere già ricordate, nella vasta produzione letteraria del Malebranche vanno segnalate anche le seguenti: Convcrsations chrétienper sé
Intanto nel 1696
(1676); Méditations chrétiennes (1683); Traité de morale (1684); Entrétiens sur la métaphysique (1688). ncs
Le opere che interessano più direttamente la metafisica La Recherche de la Vérité e Entrétiens sur la métaphysique.
sono
due:
Malebranche e Cartesio
molteplici e profonde divergenze dalle dottrine del Maestro, Malebranche Continua ad essere considerato, oltre che il più geniale, anche il più fedele tra i ”cartesiani”, cioè tra i filosofi per i quali Cartesio è stato un punto di riferimento e, in qualche modo, un ”capoNonostante le
scuola". «Uortodossia cartesiana di Malebranche, sempre affermata ma anche sempre contestata giustamente Blondel ha parlato di un "anticartesianesimo” di Malebranche su tutti i punti del sistema filosofico non è mai forse così esplicita e così innegabile, pur non essendo né pedissequa né ripetitiva, come nel problema della priorità della certezza di Dio rispetto alla certezza di tutti gli esseri che sono oggetto della nostra -
-
Conoscenzaml
1)
S. NICOLOSI, Mudernità e ricerca di Dio, Roma 1997, p. 94.
146
Parte seconda
Ma, forse, ancora più che a Cartesio, Malebranche ‘e debitore ad Agostino. Uagostinismo che era già forte in Cartesio, in Malebranche diviene ancora più accentuato, guadagnando inoltre in genuinità. Ad ogni modo, a questi due maestri Malebranche fa riferimento in modo esplicito e con grande frequenza, cercando di sviluppare e approfondire quanto essi avevano insegnato.
Il prolegomeno gnoseologico Anche la metafisica di Malebranche, come già quella del suo maestro Cartesio, dispone di un consistente prolegomeno gnoseologico, che però è molto diverso da quello dell'autore del Discorso sul metodo, il cui lungo preambolo passa attraverso il crogiolo del dubbio metodico. Ora, Cartesio aveva affermato che per conoscere la Verità la ragione dispone essen-
zialmente di due strumenti: l'intuizione e la deduzione. Ma poiché l'intuizione, mettendo direttamente a contatto con la realtà (è infatti una Visione della verità), ‘e di per sé incompatibilecon il dubbio (qualsiasi dubbio, sia reale sia metodico), Malebranche oltrepassa la via tortuosa del dubbio, e comincia di là dove Cartesio aveva finito: partendo dalle posizioni raggiunte dal Maestro cerca di enucleare tutta la dottrina contenuta in mite nell'insegnamento cartesiano, applicando rigorosamente il metodo deduttivo. Questo fa capo all’intuizione di una verità primaria onnicomprensiva, da cui procedono tutte le altre. Ecco la ragione per cui Malebranche afferma che la nostra mente conosce direttamente Dio: infatti l'idea di Dio è la più ricca, la più comprensiva di tutte le idee e include ogni altra idea. Secondo Malebranche la conoscenza intellettiva non ha luogo per astrazione come insegnavano Aristotele e gli scolastici, né per innatismo come voleva Cartesio, bensì per visione diretta delle idee di Dio. Malebranche ha polemizzato a lungo con Cartesio sia sull'origine sia sulla natura delle idee. Le idee in Dio sono eterne e non create come pretendeva Cartesio: «lo sono certo che le idee delle cose sono immutabili e che le verità e le leggi eterne sono necessarie: è impossibileche esse non siano quali sono. Ebbene io non vedo niente di immutabilee di necessario in me; io posso non essere affatto, e non essere quale sono; può accadere che esistano degli spiriti che non si rassomigliano assolutamente, eppure sono certo che non possono esserci spiriti che Vedano delle verità e delle leggi diverse da quelle che io vedo: difatti ogni spirito vede necessariamente che due e due fanno quattro e che è da preferirsi l'amico al cane. Si deve quindi concludere che la ragione che tutti gli spiriti consultano è la Ragione immutabilee necessaria»;
3)
Rechercîhe III, parte II, c. 10.
Malebranche e Vontologiszno
147
Il motivo per cui la nostra conoscenza gode di assoluta certezza è precisamente questo: che vede le idee e i principi primi in Dio: «Noi vediamo tutte le cose in Dìo».3 Comunque voglia intendersi qui l'espressione ”visione in Dio", è innegabile che qui si afferma che ogni conoscenza umana si fonda in una certa conoscenza di Dio, cioè nella certezza che Dio esiste, che ‘e "visibile” alla nostra mente e che questa "visi0ne" è condizione previa e irrecusabile di tutto il nostro conoscere.
La prova ontologica dell'esistenza di Dio
Questo preambolo gnoseologico consente a Malebranche di costruire un sistema metafisico perfettamente deduttivo, che ha come punto di partenza l'intuizione di Dio e della sua esistenza. L'intuizione di Dio gli permette di elaborare una prova ontologica della sua esistenza. Malebranche riconosce che ci sono molte prove valide dell'esistenza di Dio, ma risulta evidente che la sua preferenza va all'argomento che, nel solco dell'insegnamento cartesiano, parte dalla presenza nella nostra mente dell'idea dell'Essere perfettissimo. Questa idea, però, si può presentare sotto vari aspetti: come id quo maius cogitari
nequit (Anselmo), come infinito (Scoto), come massimo (Cusano) ecc. e ciascuna di queste idee si può utilizzare per effettuare la ”deduzione" dell'esistenza di Dio. Quella che Malebranche predilige è l'idea di infinito: dal possesso di questa idea egli ricava la prova della esistenza ”reale" di Dio. «La più bella prova dell'esistenza di Dio egli argomenta la più alta, la più consistente, la prima prova, ossia quella che presuppone meno cose, è l'idea che abbiamo dell'infinito. E manifesto infatti, che lo spirito percepisce l'infinito, pur non comprendendolo, e che ha un'idea molto distinta di Dio, che può venirgli solo dall'unione che ha con lui, perché non si può concepire che l'idea di un essere infinitamente perfetto, come quella che abbiamo di Dio sia qualcosa di creato».4 l passaggi di questa prova sono due. Il primo è che l'idea di infinito non può essere tratta da quella di finito; viceversa è l'idea di finito che viene ritagliata da quella di infinito. Di conseguenza ogni nostra idea di finito rimanda all'idea di infinito. «Lo spirito scrive Malebranche non percepisce nulla se non nell’idea che ha dell'infinito e una tale idea non è affatto formata dal confuso accozzo di tutte le idee degli esseri particolari, come pensano i filosofi; al contrario, tutte queste idee particolari sono quelle che sono, perché partecipano dell'idea generale dell'infinito; allo stesso modo, Dio non trae il pro—
-
3) Ibid, c. 6. 4) Ibid.
-
-
148
Parte seconda
prio essere dalle creature, ma tutte le creature sono solo partecipazioni imperfette dell'essere divino>>5 Il secondo passaggio è che l'idea di infinito include necessariamente l'esistenza. Ecco come Malebranche formula questo passaggio: «L'infinito non si può vedere che in se stesso, poiché nulla di finito può rappresentare l'infinito. Se si pensa a Dio, bisogna che egli esista.
Un essere, benché conosciuto, uò non esistere affatto. E P ossibile sua essenza, la sua esistenza, la sua idea senza di lui. Ma non
vedere la e
possibile vedere l'essenza dell'infinito senza
la
sua
esistenza, l'idea
dell'essere, dato che l'essere non ha idea alcuna che lo rappresenti‘. Non ha un archetipo che contenga tutta la sua realtà intelligibile. E
Parchetìpo di se stesso e racchiude in sé Parchetipo di tutti gli esseriw
Come aveva già rilevato S. Tommaso, criticando S. Anselmo, la difficoltà della prova (mtologica non sta tanto nel secondo passaggio (la deduzione dell'esistenza di Dio dalla definizione della sua essenza), quanto nel primo che riguarda la definizione stessa di Dio. S. Tommaso aveva osservato che noi non possediamo che un concetto negativo dell'id quo nzaius cogitari nequit. Molti filosofi obiettano a Malebranche che lo spirito umano non ha l'idea di un Essere infinitamente perfetto. Al che Malebranche replica domandando loro se un essere infinitamente perfetto sia rotondo o quadrato 0 qualcosa d'altro. Dovrebbero coerentemente confessare che non sanno rispondere affatto, se è vero che non hanno l'idea di quell'essere. Se invece rispondono, come in realtà fanno sempre, che l'Essere perfettissimo non è né rotondo, né quadrato, questo è segno che essi ne hanno l'idea? Molti altri filosofi obiettano con Gaunilone che la deduzione dell'esistenza di Dio dalla definizione della sua essenza è un sofisma. Malebranche ammette che ciò accadrebbe nel caso che l'idea di Dio fosse solo una "finzione dello spirito", così come lo sono le idee complesse, le quali possono essere persino false o contraddittorie, come per es., l'idea di un corpo infinitamente perfetto: idea contraddittoria, perché la corporeità esclude la perfezione assoluta. Ma l'idea di Dio, dell'essere infinito, non e una semplice finzione dello spirito, non è neppure un'idea complessa che possa contenere una contraddizione. Non c'è nulla di più semplice di essa, quantunque essa comprenda tutto ciò che è e tutto ciò che può essere. L'idea dell'essere in generale, o dell'infinito, racchiude in se’ l'esistenza necessaria, giacché è evidente che l'Essere non un "tale essere" determinato e perciò "finito" ha l'esistenza da se stesso, e non può -
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-
—
5) 5) 7)
Ibid. Enlreticns II, 4. Cf. Rcchcrclie IV, 11.
Malebranche e I bntolagismo
149
attualmente, perché sarebbe impossibilee contraddittorio che il vero essere fosse senza esistenza, cioè che fosse "non essere”. Si può ammettere che i corpi non esistano, dato che i corpi sono dei "tali esseri”
non essere
partecipano dell'essere e ne dipendono. Ma l'essere senza limitazio(sans restriction) e necessario e indipendente da ogni altro essere, ha il
che ne
stesso, ed è anzi il fondamento di tutto ciò riescono a capire che Dio esiste in realtà non non considerano l'Essere assoluto, bensì un "tale essere", determinato e finito, cioè un essere che, logicamente, può tanto esistere quanto non esistere. «Ma l'essere senza restrizioni argomenta Malebranche è necessario; è indipendente; trae solo da sé ciò che e; tutto ciò che è Viene da lui. Se c'è qualcosa, egli è, poiché tutto ciò che è viene da lui; ma quand'anche non vi fosse nessuna cosa particolare, egli sarebbe, perché ‘e per se stesso, e non lo si può concepire chiaramente come esistente, a meno di suo
fondamento solo in
se
che esiste. Quelli che
-
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rappresentarselo come un essere particolare, 0 come un essere qualunque, considerando così un'idea che non ha nulla a che fare con la suaw‘ Bisogna ricordarsi prosegue Malebranche che quando si vede una —
-
creatura non la si vede affatto in se stessa né per se stessa: la si vede solo attraverso certe perfezioni che sono in Dio, nelle quali essa è rappresentata. Di conseguenza, si può Vedere «l'essenza di una creatura senza vederne l'esistenza», giacché si può vedere in Dio ciò che la rappresenta, senza che di fatto quella creatura esista. Tutto diverso, invece, è il caso dell'Essere infinitamente perfetto: non lo si può Vedere che in se stesso, perché non c'è nulla di finito che possa rappresentare l'infinito. Non si può Vedere Dio se non esiste; non si può vedere l'essenza di un Essere infinitamente perfetto senza vederne l'esistenza; non lo si può Vedere soltanto come un essere "possibile",giacché nulla lo comprende e nulla lo può rappresentare. Se quindi si pensa all'Essere infinitamente perfetto, è necessario che esso esista realmente, e non soltanto che sia puramente possibile}!
di equivoci e per proteggersi da possibili accuse di misticidi panteismo, Malebranche ha cura di precisare che la ”visione di Dio” di cui egli parla, non è una Visione chiara e distinta, come quella dei beati, bensì oscura e confusa. Non è possibile, infatti, «scoprire la proprietà che è essenziale all'infinito, di essere allo stesso tempo uno e ogni cosa, composto, per così dire di un'infinità di perfezioni diverse, eppure così semplici da racchiudere ogni sua singola perfezione, tutte le altre senza alcuna distinzione realemm A
scanso
smo o
8) Ibid. 9) Cf. Ibid. 1°) Entretiens Il, 4.
150
Parte seconda
L'argomento ontologico, come si è visto, per Malebranche non solo è gli argomenti, ma nella sua metafisica è anche l'unico argomento possibile, mentre ogni altro argomento cosmologico, antropologico, teleologico, etico, deontologico, ecc. diviene inaccettabile. L’Oratoriano, infatti, si trova costretto a "ignorare" le prove tradizionali fondate sulla contingenza del mondo corporeo specialmente quelle che presuppongono l'esperienza diretta del mondo sensibile, come ad es. quella del Primo Motore e quella dell'ordine universale anche perché egli afferma chiaramente e in modo ancora più perentorio di quanto non avesse fatto Cartesio, l'evanescenza e la problematicità della stessa esiil migliore di tutti
-
—
-
-
stenza del mondo corporeo.
La polemica intorno all'argomento ontologico, che si riaccende tutte le volte in cui questo argomento Viene proposto, non potrà mai avere né vinti né vincitori e quindi non vedrà mai la fine. Tutto dipende dalla opzione iniziale tra il paradigma metafisico platonico e il paradigma metafisico aristotelico. In quello platonico la prima realtà (le Idee, l’Uno, il Necessario, il Massimo, l’Infinito, il Perfetto ecc.) viene colta immediatamente e integralmente sin dall'inizio, e da quel Primo procede poi tutto sia nell'ordine noetico (logico) che in quello ontologico. Qui l'argomento ontologico diventa perfettamente legittimo. «Nelle filosofie che accettano l'argomento ontologico, la certezza della esistenza di Dio non è la verità che "conclude" l'itinerario filosofico, bensì quella da cui esso prende l'avvio, e in cui il sistema delle certezze trova uno dei suoi pilastri fondamentalim“ Nel paradigma metafisico aristotelico il vertice della realtà, Dio, si raggiunge soltanto dopo un'accurata esplorazione del mondo che ci circonda, sia esso il mondo fisico oppure il mondo umano: ma in questo paradigma c'è un'autentica ascesa o un'autentica navigazione, a seconda della metafora che si preferisca usare. Evidentemente nel paradigma aristotelico dove non esiste altra partenza che quella dal basso l'argomento ontologico diviene improponibile, e gli unici argomenti accettabilisono quelli della risoluzione (resolutio) degli effetti nella loro Causa suprema. Indipendentemente dalle considerazioni di carattere generale a proposito del "preambolo" gnoseologico di Malebranche si deve constatare in lui, come in Cartesio, l'eliminazione della operazione del giudizio, per ridurre tutto alla intuizione e alla deduzione. Di qui la pretesa che la nostra mente possa avere una "visione di Dio" e un’intuizione della sua realtà; mentre di fatto l'unico livello veritativo a cui essa può arrivare è quello di affermare che a Dio appartengono determinati attributi, senza tuttavia mai intuire che cosa essi siano effettivamente in Dio.
11) SNICOLOSI, 0p. ci}, p. 108.
Malebranche e
Dio
e
Fontologismo
151
il mondo
«Il mondo non può essere un'emanazionenecessaria della divinitàmîî Con questa lapidaria dichiarazione Malebranche respinge categoricamente la tentazione, comune a tutti i sistemi metafisici neoplatonizzanti, di fare del mondo ufiemanazionedi Dio, e difende uno dei cardini della filosofia cristiana: ”ilteorema della creazione”. Secondo tale teorema la creazione procede dalla saggezza e dalla potenza di Dio, il quale sceglie liberamente di rendere le creature partecipi del proprio essere. Scrive
Malebranche a questo proposito:
«Quesfidea dell'Essere infinitamente perfetto racchiude due attributi
assolutamente necessari per creare il mondo: una saggezza senza limiti e una potenza alla quale nulla può resistere. La saggezza di Dio gli rivela un'infinità di idee di diverse opere e tutte le vie possibiliper eseguire i suoi disegni. La sua potenza lo rende a tal punto padrone di ogni cosa, e così indipendente da qualsiasi intervento estraneo, da far sì che le sue volontà siano eseguite, se soltanto egli lo desidero.”
ll criterio a cui Dio si attiene nella creazione è quello di «non fare per Vie molto complesse quello che può fare per vie più semplici», infatti «la sua saggezza gli impedisce di prendere di tutti i disegni possibili,quello che non è più saggio». Così Dio avrebbe indubbiamente potuto creare un mondo più perfetto di quello attuale, ma pagando il prezzo di leggi
più complesse e intricate:
«Dio poteva, senza dubbio, fare un mondo più perfetto di quello da noi abitato. Per es., egli poteva fare in modo che la pioggia, che serve a rendere feconda la terra, cadesse più regolarmente sui campi lavorati anziché nel mare dove non è così indispensabile.Ma per realizzare questo mondo più perfetto sarebbe occorso che egli modificasse la semplicità delle sue vie, che moltiplicasse le leggi della comunicazione dei movimenti mediante i quali il mondo si regge, e allora non ci sarebbe più stata tra l'azione di Dio e la sua opera, la proporzione necessaria per indurre un Essere infinitamente saggio ad agire o, per lo meno, non ci sarebbe stata la stessa proporzione tra l'azione di Dio e questo mondo così perfetto, che c'è tra le leggi della natura e il mondo che noi abitiamo. Difatti il nostro mondo, per quanto impertetto lo si voglia immaginare, è fondato su delle leggi di movimento così semplici e così naturali da essere perfettamente degno dell'infinita saggezza del suo Artefice».|4
12) Traité sur la nature et la gràce l, 12. 13) Entretiens III, 10. 14) Traité sur la nature et la grcîce l, 18.
152
Parte seconda
Fine unico della creazione è la gloria di Dio: «Egli vuole che la sua opera, per la sua bellezza e la sua magnificenza, porti il carattere della sua eccellenza e della sua grandezza, e che le sue vie non smentiscano la sua infinita saggezza e la sua immutabilità (...). Egli ha fatto per la bellezza dell'universo e la salvezza degli uomini tutto ciò che può fare, non assolutamente, ma agendo come deve agire, agendo per la sua gloria secondo tutto ciò che è>>J5 Fin qui Malebranche riprende le classiche dottrine della metafisica cristiana. Egli propone invece insegnamenti nuovi, pur ispirandosi parzialmente ad Agostino, quando passa a trattare della causalità divina. A questo riguardo tutti i metafisici Cristiani riconoscono che Dio ‘e l'unica causa dell'essere, mentre dell'agire Dio è la causa principale e le creature sono cause secondarie o strumentali. Malebranche spazza via le cause seconde e riduce l'apporto delle creature a mere occasioni. Tutto questo e la logica conseguenza del suo ontologismo. Fedele al principio secondo cui lo spirito vede tutte le cose in Dio, Malebranche rende superflue le creature non solo nell'ordine logico-gnoseologico per conoscere Dio,
ma anche nell'ordine dinamico—causale, nelle operazioni e trasformazioni che hanno luogo in questo mondo. Non solo Malebranche elimina dal suo sistema la lunga serie di intermediari che si incontra in tutti i sistemi neoplatonici, ma fa di Dio l'unico agente di tutto quanto accade nel mondo. Causare, per Malebranche, è sempre un creare, e creare è un gesto divino. Chiamando Cause le creature, la filosofia dei pagani si rende colpevole di una contraddizione e insieme di un sacrilegio. Malebranche denuncia «l'errore più pericoloso della filosofia degli antichi» e di coloro che seguono Aristotele. Ammettere infatti che le creature siano dotate di attività causale significa farne altrettante piccole divinità: Dio solo è Atto e fonte di ogni efficacia causale sia nei corpi che negli spiriti. Dio fa tutto come causa verace, e non comunica la sua potenza alle creature se non stabilendolecome cause occasionali in conseguenza delle leggi generali. Pertanto non sono dotati di un proprio potere causale né i corpi né gli spiriti, né l'uomo, né gli angeli. Ecco un passo significativo in Cui Malebranche esclude il potere causale dei corpi:
«Dunque la forza motrice di un corpo non è altro che l'efficacia della volontà di Dio che lo conserva successivamente in luoghi diversi. Una volta supposto ciò, stabiliamoche questa boccia si metta in moto e che lungo il suo percorso ne incontri un'altra immobile:l'esperienza ci insegna che immancabilmentequest'ultima si metterà pure in movimento e secondo delle leggi precise sempre esattamente rispettate. Tutto ciò è chiaro per principio. Difatti un corpo non può muover15)
Entretiens XII, 21.
Malebranche e
Frmtolagìsmo
153
altro senza trasmettergli un po’ della sua forza motrice. Ora, la forza motrice di un corpo in movimento altro non è se non la volontà di Dio creatore che lo conserva successivamente in diversi luoghi. Perciò non è affatto una qualità che appartenga a questo corpo: gli appartengono soltanto le sue modalità; e queste sono inseparabili dalle sostanze. I corpi dunque non possono muoversi vicendevolmente, e il loro incontro 0 urto è soltanto una causa occasionale della distribuzione del loro movimento. E ciò perché essendo impenetrabili, è una specie di necessità il fatto che Dio, il quale a mio giudizio agisce sempre con la stessa efficacia o la stessa quantità di forza motrice, distribuisca per così dire nel corpo urtato la forza motrice di quella che urta e in proporzione alla grandezza dell'urto».16
ne un
Anche
l'agire dell'uomo, lo
altra causa sufficiente che Dio:
stesso
agire della
sua
volontà,
non
ha
le volontà sono impotenti in se stesse, non producono niente, non impediscono affatto che Dio faccia tutto, poiché è lo stesso Dio che crea in noi le nostre volontà con la spinta che ci dà verso il bene in generale, poiché senza questa spinta noi non potremmo voler niente. L'uomo in se stesso trova solo l'errore e il peccato che non sono niente».17 «L'uomo vuole,
ma
Ma questa totale dipendenza del movimento della volontà umana dal volere divino non conduce necessariamente alla negazione della libertà della volontà? Questa è una conseguenza che Malebranche vuole assolutamente scongiurare, perché sa molto bene che «se noi non avessimo libertà alcuna, non ci sarebbero né pene né ricompense future, poiché senza libertà non ci sono né buone né cattive azioni, di modo che la religione sarebbe un'illusione e un fantasmaz-xîs A questo punto l'Oratoriano introduce la fondamentale distinzione tra movimento generale della volontà verso il bene, che è sempre causato da Dio, e movimento verso i beni particolari, che è invece prodotto dalla libertà. Ciò che preme maggiormente a Malebranche è l'esclusione di qualsiasi rapporto causale tra l'anima e il corpo. Egli fa sua la posizione di Cartesio sulla totale separazione tra res cogitans e res extensa, la quale ha come inevitabileconseguenza che né l'anima possa essere causa di alcun movimento nel corpo, né il corpo possa generare delle passioni nell'anima: si tratta soltanto e sempre di rapporti occasionali. Qualsiasi altra spiegazione, secondo Malebranche, è arbitraria e Conduce a un circolo vizioso, poiché «non si ha affatto un'idea chiara della forza che l'anima ha sul corpo, né quella che il corpo ha sull’anima: non si sa troppo bene
16) Ibid, VII, 11. 17) Recherclte, XV. 13) Ibîd.
154
Parte seconda
ciò che si dice
quando lo si afferma positivamente. Si è entrati in questa opinione con un pregiudizio; si è creduto che così fosse da bambini e da quando si è stati capaci di sentire; ma lo spirito, la ragione, la riflessione
vi
estranei».19 Nelle ultime frasi troviamo una chiara anticipazione degli argomenti con cui Hume negherà il principio di causalità. Ma le ragioni di Hume saranno esattamente opposte a quelle di Malebranche: Hume negherà il principio di causalità per sgretolare le fondamenta della teologia naturale (e di qualsiasi metafisica), invece Malebranche nega il principio di causalità per ricondurre tutto alla volontà di Dio e alla sua gloria. sono
'
C'è però ancora lo scoglio del male, che mette sempre a dura prova qualsiasi metafisica. Malebranche rifiuta le soluzioni facili (di cui secondo lui si è accontentato lo stesso Agostino), le quali fanno del male un elemento puramente negativo, rispetto a un bene maggiore. Dio, infinitamente buono, non può volere la moltitudine dei dannati: infinitamente potente, Egli può e vuole salvare tutti gli uomini. Ma Dio ha verso di sé il dovere di agire sempre secondo l'ordine delle perfezioni: la regola della semplicità delle vie, insieme con quella dell'eccellenza dell'opera, costituisce il fondamento dell’audace costruzione che Malebranche sviluppa nel Traite’ de la nature et de la gnîce. Solo l'incarnazione del Verbo di
Dio dà alla creazione un valore infinito: Dio ha permesso il peccato peravesse la gloria di edificare la sua Chiesa partendo da una natura totalmente priva di santità. La Redenzione quindi arricchisce il disegno primordiale subordinandosi ad esso. Nella elaborazione della dottrina della grazia di Malebranche ci sono indubbiamente dei punti discutibili:con Yoccasionalismo egli indebolisce l'azione di Cristo, mentre col parallelismo tra concupiscenza e grazia egli sminuisce il potere e il valore della grazia. Tuttavia, a ben vedere, la concezione di Malebranche è molto vicina alla concezione agostiniana. «Per lo meno le si avvicina di più di quella di Giansenio e della maggior parte degli scolastici. Si potrebbe dunque dire senza tradire il suo pensiero che la natura, la quale, per meritare, deve andare più in là di quanto non sia spinta dalla grazia medicinale; in realtà utilizza un'altra grazia, più radicale e più intima, la forza di questo nuovo slancio. Comunque si prendano questi correttivi, si confesserà tuttavia che la posizione di Malebranche è per lo meno "delicata” e che non è, neppure lui, un interprete assolutamente sicuro di S. Agostino. Leggendolo da cartesiano, come Giansenio lo leggeva, benché egli, come scolastico, lo avversasse, non era inevitabileche come Giansenio lo tradisse un po'?».2”
ché il Salvatore
—
19) 2“)
Ibid. H. DF LUBAC,
—
Agostino e la teologia moderna, Bologna 1968, pp. 93-94.
Malebranche e l bntologismo
155
Rapporti tra fede e ragione, tra filosofia e religione aveva posto una netta separazione tra fede e rafilosofia e religione. Grande merito di Malebranche è di essersi gione, le tutte sue forze a questa posizione, benché in Cartesio non con opposto fosse affatto dettata da ragioni di disprezzo o svalutazione della fede e della religione. Malebranche ricusa anche di giustapporre semplicemente i due settori della fede e della ragione e si propone invece di operare una sintesi tra gli elementi tratti dalla fede e quelli ricavati dalla filosofia, una sintesi in cui gli elementi componenti svolgono un ruolo di reciproco influsso e compenetrazione. Malebranche considera conveniente e necessaria una collaborazione tra religione e filosofia, una Collaborazione vantaggiosa per entrambe. Infatti, da una parte i dogmi rivelati danno conto di determinati fatti: essi possono diventare principi di spiegazione metafisica. Da un'altra parte, senza scoprire questi dogmi come fatti realmente accaduti e senza sopprimere questi misteri, la nostra ragione può applicarsi utilmente ad essi per chiarirli in qualche misura. Riaffermando la tesi della filosofia cristiana Malebranche ricalca le orme di Clemente, Origene, Agostino, Bonaventura. Per questi autori il cristianesimo era la vera filosofia. Ma essi concepivano la comunione tra fede e ragione come una specie di sposalizio di fatto, in concreto. Nel loro pensiero c'è semplicemente l'assorbimento di fatto di tutte le verità parziali e subordinate nella verità totale e superiore del mistero del Verbo Incarnato. Malebranche invece tende a far prevalere la concezione di una specie di unità di diritto tra i due ordini. Egli inclina, infatti, a identificare il Verbo e la Ragione. È precisamente su questo punto che il suo atteggiamento, di per sé lodevole, solleva delle riserve ed esige delle
Com'è noto, Cartesio tra
spiegazioni. «Egli non naturalizza il soprannaturale: su questo non c'è alcun dubbio. Ma non è altrettanto certo che egli non soprannaturalizzi il naturale. La posizione che egli occupa in una materia così delicata è non di rado equivoca. Facciamo un esempio. In qualche parte egli dichiara che ”‘e la stessa Sapienza che parla immediatamente a coloro che scoprono la verità nell’evidenza dei ragionamenti e che parla median-
a coloro che ne capiscono bene il senso”. Come non sospettare che qui ci sia una certa confusione di ordini, mediante una segreta esaltazione della natura fino al livello della grazia? Tuttavia il malessere che si prova leggendo testi come questo viene corretto dalla buona impressione che lasciano altre dichiarazioni dell'autore.
te le Scritture
In esse egli si esprime con formule che fanno capire che non è caduto negli errori che gli vengono rìmproveratì. E tuttavia, sui rapporti tra natura e grazia egli non ha mai proposto una soluzione interamente esente da ambiguità>>2î
21) ]. WEHRLÉ, "Malebranche” in DTC IX, 1800-1801.
156
Parte seconda
L'accusa più grave che si muove a Malebranche è quella del panteiQuesta accusa viene collegata al suo ontologismo: la visione di Dio e di tutte le Cose in Dio sembra condurre necessariamente alla identificazione delle cose con Dio stesso. «Questa teoria della conoscenza immediata di Dio è considerata nella storia della filosofia sia come un corollario necessario del panteismo, sia come un suo principio necessario (...). Essa si mostra come principio del panteismo nel sistema di Malebranche e nei suoi discepoli fino a Giobertimîl Ma se si tiene conto che in Malebranche l'identificazionedelle creature con Dio avviene sul piano ideale non su quello reale, storico, pare che l'accusa di panteismo sia del tutto smo.
gratuita.
La critica recente si divide tra coloro che vedono in Malebranche un discepolo di Cartesio e quelli invece che vedono in lui un discepolo e continuatore di Pascal23 In realtà la sua "apologetica del cristianesimo" lo contrappone sia a Cartesio sia a Pascal: a Cartesio, il quale si disinteressa totalmente delle verità della religione e dei dogmi della fede cristiana; a Pascal, a motivo del suo sforzo costante di operare una profonda osmosi tra fede e ragione. Ad ogni modo nella sostanza e nel suo insieme l'opera di Malebranche è molto più vicina a Cartesio che a Pascal. La sua apologetica del cristianesimo, proprio perché diversamente da quella di Pascal cercò di dialogare eccessivamente col suo tempo, col cartesianesimo e col razionalismo, si rivelò necessariamente più caduca di quella dell'autore dei Pensieri. La gloria di Malebranche ha eclissatc) per la posterità tanti altri cartesiani minori i quali, in quell'epoca medesima, tentarono con un'operazione analoga di realizzare una sintesi tra cartesianesimo e cristianesimo. Tra costoro ricordiamo altri due preti dell'Oratorio: Francois de Lamy e Nicolas Poisson. Il padre Lamy, nominato nel 1673 professore di filosofia alla facoltà delle arti di Angers, con l'obbligo di insegnare la dottrina tradizionaledi Aristotele e di S. Tommaso, introdusse nei suoi corsi alcune proposizioni nettamente favorevoli al cartesianesimo. Il padre Poisson, nel 1671, pubblicò i suoi Commentaires 014 renzarque sur la métlzode de M. Descartes, che ebbero una parte considerevole nella storia del. cartesianesimo. «Ma questi non sono che rappresentanti privilegiati di tutto un movimento, la cui vera storia rimane ancora da scrivere e che, sicuramente, senza averlo voluto, preparò le vie del razionalismo del secolo XVIII»?
fedele
Z2 ) 23)
24)
A. FONCK,
"Ontologisme", in DTC XI, 1058.
Sulla linea pascaliana del pensiero di Malebranche si veda l'autorevole saggio di M. BLONDEL, [Janticartésiarxisnte de Nlalebranche, «Revue de metaphysique et de morale», gennaio 1916 (numero dedicato a Malebranche). Invece sul cartesianesimo di Malebranche si veda H. GOUHIER, La vocation de MHlBlJHZìIClIE, Paris 1926. La tesi di Gouhier è che «Malebranche non parte da Cartesio ma lo incontra». l-l. IEDIN
(ed), Storia della Chiesa VII, Milano 1977, p. 123.
Malebranclze e l'0rzt0I0g;I'sin0
157
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158
SPINOZA E LA METAFISICADELLA SOSTANZA
Il ritorno di
Spinoza
Benedetto Spinoza fu
quasi interamente ignorato fino a un secolo do-
po la sua morte. Fu grandemente rivalutato dai tedeschi (Lessing, Iacobi, Mendelsohn, Herder, e gli Idealisti) che diventarono suoi entusiastici
ammiratori e gli assicurarono un posto tra i più grandi pensatori di tutta la storia. Mentre i contemporanei avevano accusato Spinoza di ateismo, i tedeschi 10 esaltarono per il suo misticismo. La discussione sull'ateismo e misticismo di Spinoza non è ancora conclusa. Oggi però nessuno osa più mettere in dubbio la grande statura filosofica del rabbino scomunicato di Amsterdam. Egli fu un filosofo che alla luce di una sola grande idea (quella di sostanza) ha tentato di spiegare l'enorme complessità
dell'universo.
Vita
e
opere
Baruch (Benedetto) De Spinoza nacque ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia ebrea che era stata costretta ad abbandonare la Spagna per l'intolleranza religiosa di quel paese. Fu educato nella comunità israelita di Amsterdam. Il padre voleva fare del piccolo Benedetto un rabbino e per questo lo mandò alla scuola della Sinagoga. Però, oltre lo studio delle Sacre Scritture e dei rabbini, Benedetto coltivò anche lo studio della filosofia (Giordano Bruno, Bacone e soprattutto Cartesio) e della teologia protestante. Lentamente si convinse che l'interpretazione tradizionale della Sacra Scrittura era errata. Nel 1656 fu scomunicato dalla comunità israelita ed espulso per "eresie praticate e insegnate". A1lora Spinoza abbandonò Amsterdam e si recò a Leida, dove si mise a fare il levigatore di lenti ottiche. Nel tempo che gli sopravanzava attendeva allo studio della filosofia. Da allora Spinoza, di salute cagionevtìle, geloso della sua indipendenza spirituale, condusse una vita modesta,
tranquilla e riservata. Quando
un suo
amico
e
scolaro, Simone de Vries, volie assicurargli
pensione di 500 fiorini annui, Spinoza affermò che non volle accettarne più di 300. una
erano
troppi e
Spinoza e la metafisica della sostanza
159
Nel 1658 scrisse il suo primo libro, Breve trattato su Dio e sull'uomo sulla felicità, che pero fu pubblicato solo due secoli più tardi. Nel 1663 fu pubblicato il solo scritto a cui Spinoza abbia giudicato giusto apporre
e
il suo
nome:
Renati Cartesii
principia philosoplzìae.Cogitata metaplzisica.
Nel 1670 comparve anonimo il Tractatits teologico
politicus in
cui si sosteneva che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito a ognuno pensare quello che vuole e dire ciò che pensa». Il libro fu subito condannato dalla Chiesa protestante e da quella cattolica. Precedentemente Spinoza aveva portato a termine la sua opera prin-
cipale, Ethica ordine geometrico demonstrata, ma ne aveva rinviato la pubblicazione per timore di una condanna. L’Etica fu pubblicata nel 1677, subito dopo la morte del suo autore, insieme al Tractatus politicus e al Tractatits de cmertdatitme ÌHÌCUGCÌZJS. Spinoza morì il 21 febbraio 1677 di tubercolosi.
Spinoza e Cartesio Cartesio aveva pensato che la metafisica assioinatico-deduttiva che era il paradigma caro ai neoplatonici fosse l'unica in grado di fornire verità sicure e incontrovertibili.Però, poi di fatto, egli non aveva per nulla elaborato la sua metafisica secondo quel rigore matematico che egli stesso aveva auspicato, mescolando insieme procedimenti induttivi e deduttivi. il progetto cartesiano fu portato a compimento da Spinoza, che di Cartesio era stato un attento e assiduo lettore‘ Anche Spinoza è affascinato dai nuovi metodi scientifici elaborati da Bacone, Galileo e Cartesio, e avverte la necessità di assicurare solide basi gnoseologiche al suo edificio metafisico. Così scrive il suo Tractatus de emendatione intellectus. Ma tutto questo è visto in funzione metafisica. Oltre che il metodo assiomatico Spinoza riprende da Cartesio le due dottrine che fanno da sostegno a tutta la costruzione metafisica: la definizione di Dio come sostanza infinita, e la divisione della realtà nei due grandi settori della res cogitans e della res extensa. Senonché egli si affretta a rivoluzionare la metafisica cartesiana, ponendo Dio come unica sostanza e facendodel pensiero (res cogitans) e della estensione (res extensa) non due realtà distinte, a cui fanno capo due generi di sostanze, gli spiriti e i corpi, bensì due attributi dell'unica sostanza, infinita ed eterna. In questo modo, pur raccogliendo la comune eredità cartesiana, di questa eredità Spinoza fa sua la parte ”laica", mentre Malebranche si era accaparrato quella ”religiosa". Così Spinoza approfondisce ulteriormente il distacco e la separazione tra fede e ragione, tra filosofia e teologia, che era già in atto in Cartesio; mentre proprio su questo punto Malebranche aveva già criticato il suo maestro, e aveva rinsaldato i legami tra ragione e rivelazione, tra filosofia e teologia. —
—
160
Parte seconda
L'ispirazione di costruire una metafisica monistica a Spinoza più che
dal Cusano e da Giordano Bruno. Le loro filosofie germi di un monismo ontologico: i germi maturarono, dissimulati nel grembo del cartesianesimo, poi vennero immediatamente alla luce, portati a maturazione dal razionalismo impietoso del pensa-
da Cartesio
venne
contenevano i
tore olandese. Nel sottofondo del
pensiero di Spinoza c'è anche un tono mistico, la cui ultima matrice più che il neoplatonismo è la religione in cui era nato e cresciuto, il giudaismo, sia filosofico sia religioso. Però pur tenendo conto di tutti questi influssi parziali, «essi impallidiscono dinanzi al genio cartesiano, che abbraccia e compenetra tutto il pensiero di Spinoza nell’Etica. Qui, non solo egli adotta il razionalismo di Cartesio, ma lo spinge fino alle estreme conseguenze: egli non combatte la metafisica di Cartesio che per superarla, appoggiandosi sul metodo cartesianoml Il prolegomeno gnoseologico Costruire o non costruire una metafisica, costruire una metafisica di indirizzo non platonico, aristotelico, agostiniano, tomistico, cartesiano ecc., in definitiva dipende sempre dalla teoria della conoscenza che si condivide. Questo spiega perché un preambolo gnoseologico è sempre necessario se non si vuole costruire un edificio metafisico sulla sabbia. Di questa esigenza i metafisici moderni, che considerano come assolutamente prioritario il problema gnoseologico, sono tutti pienamente consapevoli, anche Spinoza. Egli avverte l'importanza di questo problema, ma il suo modo cli affrontarlo è molto diverso da quello di Cartesio. Profondamente cartesiano in metafisica e anche nella metodologia (assiomatico-deduttiva) della metafisica, Spinoza non lo è altrettanto in gnoseologia, e questo perché egli vuole essere più fedele al metodo geometrico dello stesso Cartesio. Così egli si libera velocemente dalla insidia del dubbio metodico, a cui dedica soltanto il seguente paragrafo del De emendatione intellectus: «Se qualche scettico resta ancora dubbioso di fronte alla prima verità (la cui luce si impone da sé immediatamente) e a ciò che da essa deriva, o egli parla sicuramente contro ciò che egli pensa realmente, o dobbiamo riconoscere che qualcuno è accecato nel suo spirito sin dalla nascita oppure a causa di pregiudizi dovuti a qualche fattore esterno»?
1) I. MARÉCHAL, Le poinf de déparz‘ de la nzéthaphysique II, Paris 1942, p. 89. 3) De emendatione intellectus, ed. Van Vloten-N. Land, L’Aia 1914, vol. I, p. 14.
Spinoza e la metafisica della sostanza
161
Nella sua gnoseologia Spinoza prende in considerazione le Varie forme di conoscenza, stabilisce il loro grado di Verità e indica il metodo da seguire per ottenere il grado più elevato, mediante la conoscenza intuitiva. Della questione gnoseologica Spinoza si occupa incidentalmente anche nellîìtica, ma è nel De entendatione intellectus che egli affronta il
problema in modo sistematico e approfondito. L'obiettivo che il filosofo olandese si propone in quest'opera è agli antipodi di quello che aveva
indotto Cartesio a scrivere il suo Discorso sul metodo. Cartesio voleva dimostrare che la nostra conoscenza ha un indubbio Valore per assicurare un solido fondamento non alla metafisica bensì alla scienza, alla sua fisica in modo particolare. Così il suo obiettivo è scoprire una verità che funga da cardine di tutte le altre. Per contro, in Spinoza il problema gnoseologico ed epistemologico è finalizzatoall'etica; così la sua ricerca non è rivolta alla scoperta di una verità primaria e inconcussa, bensì del vero bene, di quel bene che procura all'uomo la piena realizzazione di se stesso e quindi la felicità. Ecco quanto scrive Spinoza nell’esordio del De emendatione:
«Dopo che l'esperienza mi ebbe insegnato che tutto ciò che suole accadere nella vita ordinaria è Vano e futile, poiché mi accorgevo che tutte le cose per le quali temevo o che temevo non erano in sé né
buone né cattive, se non in quanto il mio animo si faceva da esse stimolare, decisi alla fine di cercare, se ci fosse un bene vero e capace di comunicarsi, e dal quale soltanto l'animo potesse essere soddisfatto, una volta rigettati tutti gli altri beni; se ci fosse per giunta qualcosa, grazie al cui ritrovamento e acquisizioneio potessi godere per sempre una gioia continua e grandissima (continua ac sunrma in aeternum fruerer
laetitia)».3
Non solo la gnoseologia, ma anche tutta la metafisica, come si Vedrà, in Spinoza, è finalizzata all'etica; di qui il titolo del capolavoro spin0zia— no Ethicaordine geometrico demonstrata. Così, logicamente, il primo quesito di Spinoza Verte sul Vero bene e Fagevole dimostrazione del vero bene non può consistere nelle ricchezze, negli onori o nel piacere; ma neppure il vero bene viene riposto da Spinoza in qualche supremo principio del bene, esterno all'uomo; il Vero bene è relativo all'uomo: è il bene che consente all'uomo la piena realizzazione di se stesso, «L'uomo è stimolato a ricercare i mezzi che possano condurlo a tale perfezione: tutto ciò che può servire a questo scopo come mezzo si chiama vero bene: è sommo bene poi giungere al punto di fruire di tale natura, se ciò può avvenirem‘:
3) una, 13.3. 4) 11nd,, p. 6.
162
Parte seconda
Ma la ricerca del
vero
bene
-
come
la ricerca della verità per Cartesio
-
esige un esame accurato degli strumenti conoscitivi di cui l'uomo dispola verifica di quale di essi sia in grado di svelargli quale sia il Vero bene. A questo punto Spinoza compie una sua rassegna dei vari modi di conoscenza di cui l'intelligenza umana è dotata, conoscenza che nel De emendatinnechiama perceptio e nellfthicacognitio. Nel De emendatione egli distingue quattro generi di perceptio: 1) ex auditu; 2) ab experientia zaalqa; 3) raziocìnativa (essentia rei ex alia re concluditur); 4) intuitiva (res percipitur per solam suam essentiamfi NelYEthicai primi due generi sono unificati e ridotti a uno solo; così si hanno soltanto tre tipi fondamentali di conoscenza, che sono Collegati rispettivamente alla immaginazione(imaginatio), alla ragione (ratio) e alla scientia intuitiva. Alla immaginazione (anticipando Hume) Spinoza ascrive la formazione delle idee universali (che egli chiama indistintamente imagines universales, notiones u-niversales, ideae surmne Confusae). A questo genere non appartengono soltanto le idee dei generi (animalità) e delle specie (umanità) ma anche dei trascendentali (bontà, bellezza, essere, verità ecc.).6 La ratio è la conoscenza raziocinativa o dimostrativa, la quale ottiene idee adeguate dell'essenza delle cose e delle loro proprietà, mediante il ragionamento. Infine la scientia intuilitva fa conoscere direttamente e adeguatamente l'essenza della realtà e tutto ciò che essa include: proprietà, attributi, modi, ossia tutta la realtà: «Questo genere di conoscenza procede dall’idea adeguata della essenza formale di alcuni attributi di Dio alla conoscenza adeguata della essenza delle Cose»? «Tutte le idee sono in Dio e in quanto si riferiscono a Dio sono vere e adeguata.“ Ovviamente dei tre generi di conoscenza il migliore è l'ultimo, perché solo questo «fa comprendere l'essenza adeguata della cose (comprehendit essentiam rei adaequatam) senza incorrere in alcun pericolo»? perciò è quello che va maggiormente ricercato. ne e
Piantato fermamente il chiodo robusto della conoscenza intuitiva, unica conoscenza vera e adeguata, Spinoza passa a trattare del metodo per conoscere le cose mediante questo tipo di conoscenza: «Postquam novimus quaenam Cognitio nobis sit necessaria, tradenda est Via et Methudus, qua res, quae sunt Cognoscendae, tali cogrzitiorze cognoscamus (Dopo aver conosciuto quale Conoscenza sia necessaria per noi, bisogna indicare la Via e il Metodo con il quale possiamo conoscere con tale conoscenza le cose che si devono conoscere)>>.10
s) Cf. ibid, p. 7. 6) Cf. Ethica Il, XL, sch. 1 et 2. 7) Ibid, sch. 2. S) lbid. Il, XXVI dem. 9) De emcndatione, p. 10. m) Ibia‘.
Spinoza e la metafisica della sostanza
163
Il metodo di Spinoza non può essere che il metodo assiomatico-deduttivo, ossia il metodo geometrico cartesiano che Spinoza chiama anche ”riflessivo" -, che però egli è intenzionato ad applicare più rigorosamente e alla lettera di quanto non avesse fatto l'autore del Discorso sul metodo. In che cosa consista il metodo riflessivo è detto chiaramente nel seguente passo del De ernendatione intellectus: —
«Il metodo
non
è altro che
conoscenza
riflessiva o idea della idea;
e
poiché non si dà idea della idea, se prima non si dia l'idea, non ci sarà metodo, se prima non si dia l'idea. Perciò sarà buon metodo quello che mostra come sia da guidare la mente secondo le regole della idea vera data. Dunque, dal momento che il rapporto che intercorre fra due idee è il medesimo che quello sussistente fra le rispettive essenze formali, segue che la conoscenza riflessiva (cognitinnenz. reflexizram) dell'idea dell'Essere perfettissimo sarà superiore alla conoscenza riflessiva di tutte le altre idee; ossia sarà più perfetto il metodo, che mostra come sia da guidare la mente secondo la norma dell'idea data daìYEssere perfettissimo».11 Ciò che
questo metodo presuppone è l'intuizione dell'idea madre di
tutte le idee, da cui poi si ricavano riflessivamente e deduttivamente tutte le altre. Per Platone erano le Idee del Bello e del Bene, per Plotino
l'Idea dell’Uno, per Cusano l'idea del Massimo, per Cartesio le Idee del Perfetto e dell'Infinito. Per Spinoza è l'Idea di Dio inteso come Sostanza. Questa è un'idea innata e non acquisita perché soltanto un'idea innata può essere intuita. Scrive Spinoza a questo proposito: «Allo stesso modo che
gli uomini al principio con strumenti innati a fatica e imperfettamente, e con queste cose così fatte ne fecero altre più difficili con minore fatica e più perfettamente, e in tal modo gradualmente procedendo da opere molto semplici a strumenti e dagli strumenti ad altre opere e strumenti sono giunti al punto di produrre tante cose e assai difficili poterono fare alcune cose molto facili,seppure
poca fatica, così anche l'intelletto per la sua forza innata (in tellectus nativa) si procura strumenti intellettuali, e da queste opere altri strumenti, ossia la potenza di ricercare ulteriormente, e così procede grado per grado fino a raggiungere il culmine della sapienzam” con
m’
sua
Così, posto il cardine della madre di tutte le idee, Dio, partendo da questa stessa idea Spinoza può costruire ”geometricamente" tutto il suo edificio metafisico, un edificio molto più sobrio dei grandiosi edifici assiomatico-deduttivi di Plotino, Porfirio, Proclo, Cusano, Bruno e dello
H) Ibid.,p.12. l?) lbxd, p. lO.
Parte seconda
164
suo edificio si concentra infatti esclusivamente due realtà: Dio e l'uomo. Le considerazioni precedenti contengono praticamente tutta la dottrina della conoscenza di Spinoza. Essa presuppone l'immediatezza della verità, là dove l'oggetto e colto dall'intelligenza intuitivamente: «Ad probandam veritatem et bonum ratiociniiznz, nullis n05 egere instrmizerztîs, nisi ipsa meritate et bono ratiocinio (Per provare la verità e il buon ragionamento noi non abbiamo bisogno di alcun altro strumento se non la verità stessa e il buon ragionamento)».13 Infatti «il buon ragionamento viene comprovato soltanto ragionando benem“ La verità non ha bisogno di garanti esterni e diviene palese mediante la perfetta coerenza razionale
stesso Cartesio: tutto il su
del pensiero.
principi generali Spinoza passa a studiare le loro applicaziodistinguere Ideam ni: «Incipim-rzrrs itaqrle a prima parte methodi, quae est Veram a coetcris perceptionibzis (Iniziamo perciò dalla prima parte del metodo che è distinguere l’Idea vera dalle altre percezioni)>>.15 Il De antendatione sviluppa soltanto questa parte, che tuttavia è la più importante poiché virtualmente comprende tutte le altre. Spinoza distingue tra idee fittizie e idee vere. L'idea fittizia (idea fitta) è frutto della immaginazione, mentre l'idea vera è prodotta dall’intelletto oppure dalla ragione. L'idea fittizia è sempre confusa e complessa. Invece l'idea vera è chiara e distinta, è semplice, o nell'eventualità che sia composta, sono chiari gli elemenDa questi
ti che la compongono. L'idea vera è innata oppure è il risultato della riflessione. L'idea vera si ottiene riproducendo l'ordine oggettivo della natura, onde sarà necessario, per rispettare il giusto processo dell'intelligenza, ricavare le idee dalle cose reali secondo la successione delle cause. A scanso di malintesi Spinoza precisa che le cose reali non sono le cose come
mutevoli, bensì le cose fisse ed eterne ossia le essenze e le leggi che
secondo le quali le cose mutevoli mutano. Distinguendo la conoscenza sensibile da quella razionale e intuitiva, Spinoza da un lato mostra i limiti del sapere fondato sulle sensazioni e sull’immaginazione e, dall'altro, stringe in unità il sapere razionale e quello intuitivo, cioè scienza e metafisica, da cui unicamente è garantita la verità. Tuttavia si deve aggiungere che il rigore razionale di Spinoza è impregnato di motivi misticheggianti e neoplatonìzzanti, ad esempio, quando nel Breve Trattato si dice che l'uomo si trova in comunione con Dio e la conoscenza intuitiva della cosa è godimento della cosa stessa, e nella Parte Quinta dell'Etica si afferma che dal terzo genere di conoscenza deriva Pamore intellettuale dell'uomo per Dio, ma questo amore altro non è che l'amore di Dio col quale Egli ama se stesso.
vi sono iscritte
13) Ibid, p. 14.
14)
Ihid.
l5) Ibid, p. 15.
e
Spinoza e la metafisica della sostanza
165
Lo scopo della filosofia di Spinoza, che coincide anche con una precisa scelta metodologica, è di dare una definizione del mondo e delle cose umane, che sia sostenuta nel modo più rigoroso da ragioni scientifiche e sia, perciò, libera da pregiudizi, superstizioni, arbitri e fantasticherie. E questo il motivo principale per cui Spinoza nell'Etica adotta il tipico mos geometricus, che è l'espressione formale, nei limiti della cultura secentesca, dell'interpretazione scientifica dell'universo. «ln generale si deve dire come osserva giustamente G. Semerari che Spinoza elabora le sue tesi sforzandosi di sviluppare logicamente, conducendole sino alle estreme conseguenze, le proposte che gli vengono dalle fonti alle quali si riferisce. Tale sforzo, mentre caratterizza nella maniera più originale la filosofia spinoziana la mette nondimeno in una altrettanto caratteristica posizione di ambiguità per la quale essa, pur sotto la superficie di una straordinaria coerenza, risulta legata a motivi contraddittori, sicché della filosofia di Spinoza si può dire, ad esempio, come infatti è accaduto, tanto che è ateismo quanto che è acosmismo.Da ciò deriva quel tipico oscillare della filosofia spinoziana tra punti di vista opposti, tra teologismo e antropologismo, tra monismo e pluralismo, tra sostanzialismo e -
—
fenomenologismo, tra razionalismoe antropomorfismo>>fl6 La metafisica della Sostanza La metafisica è sempre
un
tentativo di visualizzare l’Intero, ma
non
è
contemplazione, bensì uno sguardo sull'intero da un determinato punto di vista: quel punto di vista che è ritenuto massimamente comprensivo ed esplicativo di tutto ciò che l'intero abbraccia. una
I due creatori della metafisica classica, Platone e Aristotele, non erano riusciti ad avere una visualizzazionedell'intero pienamente soddisfacente perché mancava loro un'unica causa suprema del tutto. Nell’epoca classica, alla visualizzazioneonnicomprensiva e onniesplicatìva giunsero i neoplatonici ponendo l’Uno quale principio supremo ed esclusivo di ogni realtà. Ma nella costruzione della loro metafisica unitaria i neoplatonici erano già debitori d.ella metafisica religiosa di Filone e di Origene. Nella metafisica cristiana che poteva contare sul concetto dell'unico Dio, la visualizzazione dell'Intero avviene molto più agevolmente, perché è ovvio che Dio è principio unico di ogni cosa, poiché tutte le cose sono conosciute, volute e create da Lui, e che l'uomo riesce ad avere una comprensione piena della realtà nel mondo in cui riesce a vedere tutte le cose in Dio. La metafisica cristiana, oltre che sulla verità dell'unico Dio, poteva contare anche su molte altre verità rivelate, che le consentivano
16)
G.
SEMERARI, Benedetto Spinoza, in Grande antologiafilnsofîca,XIII, p. 6.
166
Parte seconda
di allargare il suo sguardo sull'Intero. Tuttavia erano sempre considerazioni limitate, fatte da determinati punti di vista, attraverso determinati attributi di Dio. Così l'Intero veniva visto attraverso l'attributo della Verità (Agostino), della Bontà (Pseudo-Dionigi), della Grandezza (S. Anselmo), della Perfezione (Bonaventura), dell'Essere (Tommaso), dell’lnfinità (Scoto) ecc. N el1'Intero tali perfezioni si presentano in tutto il loro fulgore in Dio, e con luminosità più o meno grande anche nelle creature. Tutte le metafisiche cristiane hanno una visione dell’Intero che è sempre rispettosa oltre che di Dio anche delle sue creature, di quelle immateriali (Angeli) e di quelle materiali; soprattutto è attenta e rispettosa verso l'uomo, la creatura più amata da Dio, {mago Dei, e vicario di Dio in questo mondo. Tutta la metafisica cristiana è costruita sullarmonia tra fede e ragione. Spinoza è un rrzetafisico moderno, che fa camminare la metafisica sulle sue gambe, tagliando il cordone ombelicale che l'aveva tenuta legata alla teologia e ignorando completamente il discorso che la ”Torà" e il Vangelo avevano fatto su Dio. Come i neoplatonici anche Spinoza pone al vertice di tutta la realtà un unico principio. Ma visto da quale prospettiva? Spinoza assume la prospettiva della sostanza: quella prospettiva che aveva già consentito ad Aristotele di costruire un Vasto e robusto sistema metafisico. Anche la metafisica di Spinoza è sostanzialmente una usiologia; ma mentre la usiologia di Aristotele era induttiva e pluralistica, quella di Spinoza è deduttiva e monistica. Egli pone a fondamento di tutto un'unica sostanza che assorbe ed esaurisce in se stessa qualsiasi altra realtà. Così l'ebreo olandese costruisce il più compatto e più costruita rigoroso monismo usiologico che si potesse immaginare. Pur deduttivamente, nella metafisica spinoziana di per se’ non c'è nessuna deduzione, perché non c'è nulla da dedurre al di fuori della divina sostanza. C'è solo un'intuizione fondamentale, l'intuizione di quella
perfettamente adeguata idea che abbraccia ogni altra idea: l'intuizione dell'idea di Dio. Così quella visione di tutte le cose in Dio di cui parlava Malebranche, è pienamente riuscita a Spinoza che vede tutte le cose sub specie aeternitatis. la chiave di Dopo queste considerazioni preliminari che ci forniscono viene strutlettura della metafisica spinoziana, vediamo ora come essa assiomaticometodo turata, con rigorosità matematica ricorrendo al deduttivo proprio della geometria euclidea. Il titolo del capolavoro di Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstruta la parte conclusiva dellbpenon deve trarre in inganno, poiché anche se che la precedono sono ra riguarda propriamente l'etica, le quattro parti dedicate alla teologia naturale e alla antropologia filosofica. Di fatto l’Ethica è la "summa” filosofica di Spinoza. Come abbiamo già detto, ]’EthiCa è divisa in cinque parti che trattano rispettivamente:
somma,
chiarissima e
Spinoza e la metafisica della sostanza
Se
167
PARTE PRIMA: De Dea. Dio viene studiato sotto il nome di "sostanza". ne dà la definizione e poi si esaminano i suoi attributi (pensiero ed
estensione) e
le
nità, ecc.
sue
proprietà: unità, causalità, semplicità, libertà, eter-
origine mentis. Qui si parla della natura particolare riguardo per la sua parte spirituale, l'anima,
PARTE SECONDA: De natura et
dell'uomo, e
con
i suoi rapporti col corpo. PARTE TERZA: De origine et natura
natura delle passioni. PARTE QUARTA: De servitute
aficctuum. Tratta dell'origine e
della
immuni: seu de afiectuum viribus. Studia la forza delle passioni e la soggezione dell'uomo alle medesime. Alla fine si illustrano le Virtù dell'uomo libero. PARTE QUINTA: De potentia intellectus seu de iibertate humana. Questa ultima parte tratta della libertà che l'uomo può acquistare sottomettendo le passioni al dominio delia ragione. Una volta soggiogate le passioni l'uomo è in grado di raggiungere la felicità, il Sommo Bene, che consiste nell'Am0r intellectuaiis Dei. Soltanto le prime due parti riguardano la metafisica, che è una metafisica ridotta all'osso, in quanto prende in considerazione solo due realtà, Dio e l'anima (la mente). Noi qui ci occuperemo soprattutto della prima, che è quella che caratterizza maggiormente lo spinozismo. LE DEFINIZIONI E GLI ASSIOMI DI PARTENZA
Volendo costruire il suo sistema metafisico deduttivamente e geometricamente, all'inizio Spinoza pone una serie di definizioni e di assiomi che fungono da fondamento e da base di tutta la costruzione. Li trascriviamo così come sono disposti da Spinoza anche se l'ordine delle definizioni e degli assiomi potrebbe essere diverso, perché in sede logica si potevano collocare al primo posto la definizione di sostanza come la definizione di Dio, essendo queste le Idee madri da cui Spinoza ricava tutte le altre idee. Le definizioni sono otto e sono le seguenti: I. Per causa di sé
(causam sui) intendo ciò la cui essenza implica l'esisten-
za, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente.
II. Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere delimitata da un'altra della stessa natura. Per es., il corpo si dice finito, perché ne concepiamo un altro sempre più grande. Così un pensiero Viene limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo. III. Intendo per sostanza ciò che è in sé e per sé viene concepito (quod in se est et per se concipit-ur): vale a dire ciò il cui concetto non abbisogna del concetto di un'altra cosa da cui debba essere formato.
168
Parte seconda
IV. Per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza, come costituente la sua essenza. V. Per modo intendo le affezioni della sostanza (substantîae afiectìones) ossia ciò che è in altro per il cui mezzo viene anche concepito. VI. Per Dio intendo un essere assolutamente infinito, cioè una sostanza costante di infiniti attributi, Ciascuno dei quali esprime l'essenza infinita ed eterna.
VII. Si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura ed è determinata soltanto da sé ad agire; si dice invece necessaria o piuttosto coatta quella che Viene determinata a esistere e operare in una certa e determinata maniera. VIII. Per eternità intendo la stessa esistenza, in quanto si pensa che segua necessariamente dalla sola definizione da una cosa eterna. Gli assiomi sono sette
e sono
i
seguenti:
l. Tutte le cose che sono, sono o in sé o in un altro. II. Ciò che non può essere concepito per altro, deve essere concepito per se. III. Da una data causa determinata segue necessariamente un effetto, e al contrario, ove non sia data alcuna causa determinata è impossibile
che segua un effetto. IV. La
conoscenza
la implica. V. Le cose che
dell'effetto
dipende dalla conoscenza della causa e
non hanno nulla di Comune tra loro non possono nemintese l'una per mezzo dell'altra, ossia il concetto dell'una non implica il concetto dell'altra. VI. L'idea vcra deve accordarsi col suo ideato. VII. L'essenza di ciò che può essere pensato come non esistente non meno essere
implica l'esistenza. In precedenza abbiamo Visto che nella metafisica cartesiana scompare la distinzione tra metafisica generale (ontologia) e speciale (teologia naturale, antropologica, cosmologia), e il posto di quella generale viene preso dallepistemologia: risolto il problema della conoscenza Cartesio affronta immediatamente il problema di Dio e il problema dell'anima. La stessa semplificazione la ritroviamo nella metafisica spinoziana: non c'è nessun discorso generale sull'essere, mentre, come si è visto, c'è un articolato discorso sul conoscere (De emendatione irztellectus). Però, con un po’ di buona volontà, una "mini-ontologia" si può ricavare dalle definizioni e dagli assiomi della Parte Prima dell'Etica. Vi si definisce, infatti, l’Essere che viene identificato con la sostanza, si definiscono inoltre le grandi ripartizioni dell'essere, in finito e infinito, in necessario e libero; si definiscono i concetti di causa, eternità, accidente (modo), attributo, essenza, esistenza. Meno i concetti di materia e forma, di atto e
Spinoza e la nzetafisica della sostanza
169
potenza, in questa ”mini-ontologia" abbiamo praticamente tutti gli elementi essenziali dellbntologia aristotelica. Tutte le definizioni di Spinoza meriterebbero un lungo esame, sia storico sia teoretico,” per scoprire le fonti scolastiche da cui il filosofo olandese le ha ricavate e le variazioni che egli vi ha apportato per farle quadrare con il proprio sistema; ma questa ricerca va ben oltre l'economia del presente lavoro. Così ci limiteremo a qualche breve segnalazione. Osserviamo anzitutto che sostanzialmente conformi alla tradizione scolastica sono le definizioni che Spinoza dà di Dio, attributo, infinito e finito; mentre importanti innovazioni compaiono nelle sue definizioni di causa, sostanza e libertà.
Causa Aristotele aveva distinto quattro Cause: materiale, formale, efficiente finale. In Spinoza scompaiono completamente sia la causa materiale sia la causa finale: uno dei punti forti della sua metafisica è la negazione del finalismo, frutto, a suo parere, di una immaginazioneinfantile; mentre la materia viene assorbita nella res extensa. Così Spinoza nel suo concetto di causa fa confluire la causa efficiente, come principio della produttività di una cosa, e la causa formale, come principio di intelligibilità. Ecco, allora, che causa di se stesso (causa sui) è ciò la cui natura è concee
pita necessariamente come esistente,‘ mentre «causa adeguata è quella il cui effetto è conosciuto chiaramente e distintamente per mezzo di essa»;18 ma e vero anche il contrario: causa adeguata è quella che rende pienamente intelligibileil suo effetto fino ai minimi dettagli, inclusa la sua esistenza. IJEssere primo, Dio, è perfettamente intelligibile in se stesso e da se stesso: conoscerlo è riconoscere immediatamente la sua esistenza. Pertanto egli è propriamente causa sui: l'essere la cui essenza implica l'esistenza. Sostanza Alla definizione che Spinoza dà di questo concetto occorre prestare grande attenzione, perché è su tale concetto che egli costruisce geometri-
tutto il suo edificio metafisico. La
sua metafisica, come abbiagià detto, è una usiologia, e una usiologia radicale, ossia monistica. Anche nella definizione di sostanza Spinoza fa confluire due elementi: il classico elemento della sussistenza (in se est) e il nuovo elemento della intelligibilità (per se concipitur). Il secondo elemento per Spinoza
camente
-
mo
I7) l“)
Per un'accurata analisi delle matrici dei termini chiavi della metafisica spinoziacf. H. A. WOLFSON, The Philosophy of Spinoza, New York 1958, pp. 61-158. Etlzica III, def. 1. na
17D
Parte seconda
conta
più
se
est,
del
definizione egli tralascia il in soltanto il secondo: «id cuius conceptus non indigct con-
primo; infatti nella seconda
e conserva
ceptu alterius rei».
Per dare una pregnanza così forte al concetto di sostanza Spinoza poteva richiamarsi a Cartesio, il quale aveva definito la sostanza come «n35 quae ita existit, ut nulla alia re indigcat ad existendum». Però 10 stesso Cartesio aveva osservato che, preso alla lettera, questo concetto era applicabilesolo a Dio; e che per applicarlo alle creature analogicamente era necessario apporvi la seguente aggiunta: «res quae solo Dei concursu egcnt ad existendum». La definizione di Cartesio salvaguarda le distinzioni essenziali che -
-
non
può
sacrificare nessuna metafisica
non
panteista.
Perché
Spinoza,
sicuramente queste distinzioni, ritiene necessario abbandonarle e restringere la nozione di sostanza a quella di indipendenza assoluta? Ciò è dovuto certamente a una ragione profonda e non a scelte
che
conosceva
arbitrarie; una ragione profonda che esigeva la modifica, chiaramente
voluta, della definizione cartesiana.
aveva bisogno di un concetto duttile, analogico di sostanza la sua metafisica, ancorché separata dalla teologia, non voleva perché entrare in conflitto con la scienza sacra. Questi scrupoli dottrinali nel
Cartesio
"laicissimo”
come
Spinoza scompaiono completamente; egli lascia cadere
superate le concessioni che Cartesio
aveva
fatto alla Scolastica per
integralmente fedele ai suoi principi gnoseoltigici e metafisici. Il filosofo olandese abbandona, quindi, anche il principio dell’analogia. l suoi concetti rigorosamente scientifici sono tutti univoci e descrivono adeguatamente la realtà che rappresentano. Pertanto il concetto di sostanza si applica esclusivamente e univocamente all’Essere primo e non c'è posto per un'applicazione analogica di tale concetto ad altre sostanze ”seconde” o ”participate".
restare
Libertà Ancora più profonda è la revisione operata da Spinoza nella definizione del concetto di libertà. Egli esclude categoricamente che la libertà consista nel liberum arbitrium o nella electio (scelta) perché a suo giudizio un
arbitrio o
una
scelta suppongono una inadeguata conoscenza delle cose.
Perciò Spinoza riduce la libertà alla spontaneità, e questa ‘e una qualità di chi opera secondo le leggi della propria natura, e non subisce nessuna costrizione dall'esterno. Questa libertà, che coincide con la necessità della natura, non esclude il determinismo interno, e non appartiene che a Dio: «Sequitur... solum Deum esse causam Ziberamm”
19) lbiii,I, Prop. XVII, coroll. 2.
Spinoza e la metafisica della sostanza
171
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI SULLA SOSTANZA Benché la Parte prima dell'Ethica sia intitolata a Dio, De Dea, avendo Spinoza assunto come idea chiave della sua metafisica l'idea di sostanza, egli inizia logicamente la sua TIflESSÎOHE’ (deduzione) illustrando alcune proprietà fondamentali della sostanza: la priorità della sostanza rispetto agli accidenti (Prop. I); la necessità della sua esistenza, perché questo rientra nella sua stessa definizione (Prop. VII); l'impossibilitàche una sostanza sia prodotta da altre sostanze (Prop. VI), perché anche questo rientra nella definizione stessa della sostanza (di essere concepita da se stessa); impossibilità che esistano due sostanze della stessa natura e con i medesimi attributi, perché sarebbero indistinguibili(Prop. V). Ogni sostanza è necessariamente infinita perché non c'è nulla che la possa limitare. Ecco come Spinoza prova questo punto: «Non esiste se non una sola sostanza di un solo attributo (per la Prop. V) e alla sua natura appartiene Pesistere (per la Prop. VII). Sarà dunque proprio della sua natura l'esistere o come finita o come infinita. Ma non esiste come finita. Infatti (per la Def. II) dovrebbe essere limitata
da un'altra della stessa natura, che dovrebbe pure esistere
(per
neces-
la Prop. VII); e così vi sarebbero due sostanze del medesimo attributo la qual cosa è assurda (per la Prop. V). Esiste
sariamente
dunque come infinitamî" Ovviamente, poiché la
sostanza è infinita non potendo esserci due sala sostanza. Con questo solido retroterra usiologico Spinoza può agevolmente impostare e svolgere il suo discorso su Dio, al quale unicamente spetta il titolo di sostanza perché Dio solo è colui che «esiste per sé ed è concepito da se stesso». Il discorso su Dio inizia con la bella definizione che Spinoza aveva già inclusa tra le definizioni generali con cui apre la Parte Prima dell'Etica: «Dio è la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna e infinita>>.21
infiniti esiste —
—
una
PROVE DELUESISTENZA DI DIO L'obiettivo che stenza di Dio è di
Spinoza
si. propone nella sua dimostrazione dell'esiprovare che quella di Dio non è un'idea ”fittizia", una
creazione della fantasia, una illusione, un fantasma, un miraggio, bensì idea vera, reale, cioè un'idea che rispecchia, rappresenta, riproduce una realtà, la realtà dell'Essere assoluto, della Sostanza infinita. Le idee fittizie non sono mai idee di cose, perché nessuna ha un oggetto reale una
20) Ibirt, Prop. VIII, dim. 21) lbidî, Prop. XI.
172
Parte seconda
come
principio e nulla hanno
stenze extramentali
sono
mente nella misura in cui
reali
di fronte, fuori dello spirito. Solo le esie le idee dello spirito sono reali unica-
rappresentano queste
esistenze extramentali.
prove dell'esistenza di Dio vuole associare che Dio non è un essere fittizio, non un essere verbale, non un essere di ragione, bensì un essere reale il quale esiste fuori della nostra mente ed è la fonte e la contropartita dell'idea che ne abbiamo. La sostanza, dice Spinoza, è fuori dell'intelletto, vale a dire non è foggiata dall'intelletto; e soggiunge: ‘e fittizia soltanto quella concezione di Dio la quale usa il nome di Dio fuori di ogni coerenza con la sua natura reale. Spinoza non si stanca di ripetere che l'idea di Dio è un'idea vera, chiara e distinta, intuita direttamente e non acquisita per Via di ragionamento, un'idea adeguata: «la conoscenza dell'eterna e infinita essenza di Dio, che ogni idea racchiude, è adeguata e vera»,22 e, precisa Spinoza, «per idea adeguata io intendo un'idea la quale, considerata in sé, a prescindere dall'oggetto, possiede tutte le proprietà o tutti i segni interni di un'idea vera».33 Per Spinoza dunque la realtà dell'idea di Dio, in altri termini l'esistenza di Dio, è di per se evidente come un dato di conoscenza immediata, poiché noi possiamo attingere una conoscenza di Dio «altrettanto chiara che quella del nostro corpo».24 Stando così le cose, di per sé, qualsiasi dimostrazione della esistenza di Dio diviene superflua. Ma poiché Spinoza sa che questo è un argomento importante che nessun filosofo può trascurare e che esiste sempre qualche ateo che finge che Dio non c'e, egli si sente in dovere di addurre delle buone prove che attestano che Dio esiste. Dell'argomento egli si occupa in tre opere: Cogliate metaphysira, Breve trattato ed Etica. Nelle Propositiorzes dei Cogitata metaphysica espone e commenta le tre prove cartesiane dell'esistenza di Dio. La quinta proposizione è così enunciata: «Conosciamo l'esistenza di Dio dalla sola considerazione della sua natura»; la sesta proposizione: «L'esistenza di Dio si dimostra a posteriori dal solo fatto che c'è in noi l'idea di lui»; la settima proposizione: «L'esistenza di Dio si dimostra anche dal fatto che noi stessi, che ne abbiamo l'idea, esistiamo». Nel Breve trattato elabora un suo schema delle prove dell'esistenza di Dio, dividendole in: a priori e a posteriori. Della prova a priori presenta due versioni: 1) «Tutto ciò che noi chiaramente e distintamente intendiamo appartenere alla natura di una cosa, possiamo affermarlo di essa con Verità. Ma che l'esistenza appartenga aila natura di Dio noi possiamo
Spinoza pertanto,
con
32) Ittici, ll, Prop. XLlV. 33) lbiCL, Clef. IV. 24) Traci brev. ll, 19.
le
sue
Spinoza e la metafisica della sostanza
173
chiaramente e distintamente intendere. Dunque Dio esiste». 2) «Le essenze delle cose sono ab aeterno e per tutta l'eternità devono restare immutabili.L'esistenza di Dio e essenza. Dunque l'esistenza di Dio è eter-
immutabile».25Della prova a posteriori presenta una sola versione ma ampiamente articolata: in essa Spinoza fa vedere che dei/esserci una causa del possesso dell'idea di Dio da parte dell'uomo, e che l'unica Causa adeguata non può essere che Dio stesso. Alla fine del capitolo, valutando i due procedimenti, Spinoza dichiara apertamente che il più valido è quello a priori: na e
questo, dunque, segue chiaramente che Dio può essere dimostrato tanto a priori quanto a posteriori. Anzi molto meglio a priori che a posteriori: poiché la dimostrazione a posteriori delle cose avviene per una causa ad esse inferiore: ciò che è in loro un'evidente imperfezione, perché esse non possono farsi conoscere da se stesse, ma soltanto in forza di cause esterne. Dio, tuttavia, prima causa di tutte le cose e anche causa di se stesso si fa conoscere per se stesso. Perciò non ha molto Valore quanto fu detto da Tommaso d'Aquino, che cioè Dio non può essere dimostrato a priori, perché non ha causa»?!
«Da tutto
NelPEtica per dimostrare che Dio esiste Spinoza adduce quattro prove di cui le prime due e l'ultima sono ontologiche o a priori, mentre la terza è a posteriori. Quest'ultima è riferita più per compiacere i lettori e per rispetto alla tradizione che tanto spazio aveva sempre concesso alle prove a posteriori, che per il suo intrinseco valore. In effetti, in una costruzione assiomatico-deduttiva come la sua, dove tutto si basa sull’intuizione dell'idea adeguata di Dio, la sola prova legittima è di per sé la prova ontologica o a priori. La Proposizione XI recita: «Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime una essenza eterna e infinita, esiste necessariamente». Nella dimostrazione della verità di questa proposizione Spinoza, come si è detto, adduce quattro argomenti.
Primo argomento
È molto conciso ed è una delle enunciazioni più Stringate della prova
ontologica, basata sulla impensabilitàche Dio non esista: «Se neghi (che la sostanza esista necessariamente), pensa, se ciò può accadere, che Dio non esista. La sua essenza allora non implica l'esistenza. E
questo ‘e assurdo. Dunque Dio esiste necessariamente».
25) Ibid., pars I, c. 1. 35) Îbid.
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Parte seconda
Secondo argomento
È molto più ampio e più articolato del primo, e procede, sviluppando ulteriormente, in modo analitico il concetto di sostanza e quello di cauafferma Spinoza si deve assegnare, se esiste, perché sa. Di ogni cosa esiste; se invece non esiste, perché non esiste. Questa causa o ragione, 0 -
è contenuta nella natura della cosa,
-
0
si trova al di fuori di
essa:
«E ciò è di per sé manifesto. Da ciò segue che esiste necessariamente ciò di cui non si dà alcuna ragione né causa, che impedisca che esso esista. Se pertanto non si può dare alcuna ragione né causa che impedisca che Dio esiste o che sopprima la sua esistenza, si deve senz'altro concludere che egli necessariamente esiste».
Terzo argomento
È l'argomento a posteriori basato sul fatto della nostra esistenza, un'e-
sistenza finita che ha bisogno di una noi potremmo anche non esistere:
causa
affinché abbia luogo. Infatti
esistere è impotenza; per contro poter esistere è potenza di per sé noto). Se pertanto ciò che già esiste necessariamente sono soltanto gli esseri finiti, gli esseri finiti sono dunque più potenti dell'Essere assolutamente infinito: e questo (com'è di per sé noto) è assurdo: dunque o non esiste nulla, o esiste anche necessariamente l'Essere assolutamente infinito. E noi esistiamo o in noi, o in altro che esiste necessariamente. Dunque esiste Plîssere assolutamente infinito, cioè Dio».
«Poter
non
(come è
Quarto argomento È basato sull'idea di perfezione: perfezione di una cosa non ne toglie l'esistenza, al contrario la l’imperfezione, invece, la sopprime e così noi della esistenza di nessuna cosa possiamo essere più certi che dell'esistenza dell'Essere assolutamente infinito, ossia perfetto, cioè di Dio. infatti, poiché la sua essenza esclude ogni imperfezione e implica assoluta perfezione, essa toglie ogni ragione di dubbio intorno alla sua esistenza, la qual cosa la pone; «...
credo sarà chiara a colui che, anche per poco, Vi faccia attenzione».
Qui non vale la pena di rifare la storia dell'argomento ontologico e della sua straordinaria riviviscenza nella metafisica moderna a partire da Cartesio.” Come abbiamo già detto e ripetuto, soprattutto in Spinoza, questo è l'unico argomento legittimo e possibile: è una "riflessione" su ciò che l'idea di Dio include necessariamente, e si tratta di quella idea chiara e distinta, adeguata e vera che Spinoza reclama di possedere. 27)
riguardo l'eccellente capitolo di H. A. WOLI-‘SON, The Philosoprhy of Spinoza, cit., sulle prove dell'esistenza di Dio, pp. 158-212.
Si veda al
Spinoza e la metafisica della sostanza
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Spinoza non sta o cade, a seconda del valore che viericonosciuto all'argomentoontologico, ma sta 0 cade a seconda che si accettino 0 si rifiutino i suoi postulati fondamentali, tra cui il postulato di un'idea adeguata, chiara e distinta di Dio. La metafisica di
ne
PROPRIETÀ E ATTRIBUTIDI DIO Nella metafisica cristiana si
pariava di proprietà e di
attributi di Dio
si trattasse della stessa cosa: cosi erano allo stesso tempo sia proprietà sia attributi l'unità, la semplicità, l’infinità, Pimmutabilità, l'eternità, l’immaterialità, la sapienza, la potenza, la bontà, la verità ecc. Spinoza, invece, pone una distinzione tra proprietà e attributi, e riserva il nome di attributo alla capacità di rappresentare totalmente la divina sostanza, mentre chiama proprietà quelle caratteristiche che distinguono Dio da ogni altra realtà. Le proprietà divine su cui Spinoza pone maggiormente l'accento sono tre: infinità, unicità, necessità. È già stato dimostrato, parlando della sostanza, che essa è di diritto infinita: «est necessario infinita»; ora, poiché tale sostanza è Dio stesso, egli è a sua volta infinito. Lo stesso argomento vale anche per la dimostrazione che Dio non può essere che uno solo: «Di qui segue chiarissimamente che Dio ‘e zmfco, cioè in natura non si dà se non una sola sostanza, e che essa è assolutamente infinita, come abbiamo già accencome se
nato nello Scolio della
Prop. X».28
Altra proprietà della divina sostanza è la necessita. Questa non riguarda soltanto il suo essere come insegnava la metafisica cristiana ma anche il suo agire, come affermava la metafisica neoplatonica: tutto Ciò che procede da Dio procede da lui necessariamente. Perciò Spinoza nega la contingenza: «In rerum natura nullum datur contingens (In natura non c'è nulla di contingentebfl-‘ì Contingente è, per lui, un fatto necessario di cui ignoriamo la necessità. Nella proposizione «voluntas non potesz‘ vocari causa liberased tantum necessaria (la volontà non può essere chiamata causa libera ma soltanto necessaria)», Spinoza dimostra che Dio non è libero in quanto abbia libertà di scelta, ma in quanto agisce spontaneamente. Per il filosofo olandese «le cose non avrebbero potuto essere prodotte da Dio in ordine e modo diverso da quello con cui sono state prodotte>>fiflperché le cose procedono necessariamente dalla divina natura, e sono determinate all'esistenza e all'azione dalla necessità della natura di Dio. Di tutte le proprietà che Spinoza assegna alla sostanza, quella che decide del destino della sua metafisica è la proprietà della unicità. Infat-
25) Ethica I, Prop. XIV, coroll. 1. 29) lbid, Prop. XXIX. 3”) Ibid, Prop. XXXIII.
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Parte seconda
che una sola, è evidente che che nessun'altra cosa dispone di può una propria consistenza né logica né ontologica: tutto si trova assorbito e incorporato in Dio; ogni realtà diviene divina, fa parte di Dio, è una modificazione di Dio. Il panteismo è una conseguenza inevitabile. Stabilita l'unicità e l'infinita della sostanza, dato che non si tratta di una realtà amorfa, di un oceano vastissimo piatto e incolore, bensì di un
ti, asserito che la solo Dio
sostanza non
meritare
può
questo titolo,
essere e
universo pieno di vita e di ogni sorta di esseri, il problema con cui Spideve fare i conti è quello della molteplicità delle manifestazioni della sostanza. La metafisica classica aveva risolto il problema con la dottrina della emanazione; la metafisica cristiana con la dottrina della creazione. Spinoza rifiuta fermamente la dottrina della creazione e ritorna praticamente alla dottrina platonica della emanazione. Secondo il filosofo olandese la dottrina della creazione è un'ipotesi insostenibile (Prop. II-VI). La relazione della sostanza con gli altri esseri non è una relazione tra sostanza infinita e sostanze finite, bensì tra la sostanza e i suoi modi. Ora la relazione tra sostanza e modi non è la relazione tra creatore e creatura, bensì la relazione fra il tutto e le parti, o più esattamente tra l’universale e il particolare (Def. V, Prop. l). Per dar conto della molteplicità e ricchezza delle manifestazioni dell'unica sostanza, di fatto Spinoza ricorre a due grandi coordinate: la coordinata verticale degli attributi che gli permette di segmentare la sostanza secondo infinite prospettive; la coordinata orizzontale dei modi, che gli consente di distinguere tra natura natumns e natura maturata. Ricordiamo anzitutto la definizione spinoziana di attributo: «Per attributo intendo ci?) che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza». Ricordiamo inoltre che definendo Dio Spinoza ha già affermato che è «una sostanza costante di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime l'essenza infinita ed eterna». A sostegno di questa tesi, cioè dell'appartenenza a Dio di un numero infinito di attributi, Spinoza adduce la seguente argomentazione:
noza
«... tutti gli attributi che la sostanza possiede furono in essa sempre insieme, né l'uno può essere prodotto dall'altro; ma ciascuno esprime
la realtà, ossia l'essere della sostanza. Non è dunque per niente assurdo attribuire più attributi a una sola sostanza; Ché anzi in natura niente è più chiaro di ciò, che ogni ente debba essere concepito sotto qualche attributo, e quanta più realtà o essere abbia, tanti più attributi possegga, che esprimono la necessità o eternità e l'infinita; e in conseguenza, niente ancora è più chiaro del fatto che l'ente assolutamente infinito sia da definirsi necessariamente (come abbiamo detto nella definizione VI) come un essere costituito di infiniti attributi, ognuno dei quali esprime una certa essenza infinita ed eternam“
31) Ibid, Prop. IX, col.
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Gli attributi di Dio accessibilialla nostra conoscenza sono però soltanto due: l'estensione e il pensiero. Questa restrizione per chi reclama d'avere un'idea adeguata di Dio è piuttosto sorprendente. Ad ogni modo, il metodo geometrico, che esige allo stesso tempo anche una rigorosa fedeltà ai dati delle scienze, non consente a Spinoza di dedurne di più. Ciò che qui va rimarcato è che gli attributi non sono altro che prospettive del nostro pensiero (id quod intellectas de substantiu percipit) e non dei modi di essere della sostanza stessa: sono nostre vedute su Dio e non parti dell'essere divino (come i modi), sono considerazioni e non rappresentazioni reali. Su questo punto Spinoza è categorico: «Fuori dell'intelletto nulla vi è oltre la sostanza e le sue affezioni>>fi2 Agli attributi divini Spinoza riconosce le stesse proprietà che gli scolastici assegnavano ai trascendentali: sono coestensivi con la sostanza divina, e inoltre ciascuno di_ essi rispecchia completamente e perfettamente tutto ciò che è espresso negli altri attributi. Perciò tutta la sostanza divina è allo stesso tempo sia pensiero sia estensione e il pensiero rispecchia tutto ciò che c'è nella estensione e viceversa. Discorrendo degli attributi del pensiero (cogitatio) e della estensione (extensio) Spinoza si ricollega alla distinzione cartesiana tra res cogitans e
extensa, ma modificando profondamente il senso che queste categorie avevano per l'autore del Discorso sul metodo, per il quale esse denotavano due generi di sostanze: le sostanze spirituali e le sostanze materiali. Inres
vece Spinoza trasforma sia la res cogitans come la res extensa in due attributi divini, operando in tal modo l'assorbimentocompleto di ogni cosa in Dio. Spinoza sa bene che l'assegnazione dell'attributo della estensione alla sostanza divina va contro una delle tesi fondamentali della metafisica sia classica sia cristiana, ma il suo monìsmo usiologico non gli consente altra scelta e così afferma categoricamente: «Extensio attributum est Dei, sive Deus est res extensa>>.33 E agli scolastici che sostengono che la sostanza corporea è stata creata da Dio egli replica che «ignorano del tutto da quale potenza divina può essere creata: il che chiaramente mostra che essi non intendono ciò che essi stessi dicono. Io almeno, secondo il mio giudizio, ho dimostrato (vedi Coroll. Prop. VI e Scoiio II Prop. VIII) che nessuna sostanza può essere prodotta o creata da altro essere. Inoltre nella Prop. XIV abbiamo mostrato che oltre Dio non si può dare né pensare alcuna sostanza; e da qui abbiamo concluso che la sostanza estesa (sabstantiam extensam) è uno degli attributi infiniti di Dio».34
32) lbìd, Prop. IV, clim. 33) lbitt, II, Prop. II. 34) Ibid, l, Prop. XV, scol.
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Parte seconda
La sostanza
con
i suoi attributi costituisce ciò che
Spinoza chiama na-
tura naturans, di cui egli dà la seguente definizione: «Per natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sé e per sé viene concepito, ossia tali attributi della sostanza che ne esprimono l'eterna e infinita essenza,
quei
cioè Dio in quanto viene considerato come causa 1ibera>>.35 I MODI
DELLA SOSTANZA DIVINAI
L'UOMO
Esaurito il discorso sulla sostanza divina, su Dio e i suoi attributi, Spinoza passa a trattare dell'agire divino e dei suoi effetti. Le tesi più originali della metafisica spinoziana a questo riguardo sono due: 1) la
negazione della
dottrina della creazione e il ripristino della dottrina della emanazione spontanea e necessaria; 2) l'affermazione dell’infinità degli effetti dell'agire divino. Gli effetti, come sappiamo, sono chiamati affezioni (afiectiones) o modificazioni (modi). Già abbiamo Visto che Spinoza considera impraticabilela via della creazione, perché a suo giudizio questa via è intrisa di antropomorfismi e conduce a vicoli ciechi (specialmente nei problemi del male e della libertà). Pertanto via abbordabile che tra l'altro quadra perfettamente col metodo geometrico, dove tutto procede necessariamente è quella della emanazione: la generazione spontanea da parte della natura naturans: «Tutte le Cose sono in Dio e tutte le cose che accadono accadono per le sole leggi della natura infinita di Dio>>;36 «Dio agisce per le sole leggi della sua natura, e non costretto da alcuno»? Dio e la sostanza generante (natura natumns) ed è generante attraverso il suo pensiero, l'intelletto divino. Il mondo è la natura rzaturata, ‘e l’ideato dell'intelletto divino. La natura divina e prodigiosamente feconda e pertanto infinite sono le sue affezioni e le sue modificazioni: «Dalla necessità della natura divina devono seguire infinite cose, in infiniti modi (cioè tutto quello che può accadere sotto un intelletto infinito)».38 E nello Scolio della Prop. XVII —
-
Spinoza soggiunge:
«lo credo di aver mostrato abbastanza chiaramente (Prop. XVI) che dalla somma potenza di Dio, ossia dalla infinita natura in infiniti modi infinite cose, cioè tutte le cose sono necessariamente derivate, o sempre seguono con la medesima necessità, allo stesso modo che dalla natura del triangolo dalla eternità, e per l'eternità, segue che i
35) Ibiclfi, Prop. XXIX, scol. 3") Ibid, Prop. XV, scol. 37) Ilîid, Prop. XVII. 3”) Ibiaî, Prop. XVI.
Spinoza e la nzetafisica della sostanza
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suoi tre angoli sono eguali a due retti. Per questo Ponnipotenza di Dio fu in atto daltetemità e per l'eternità resterà, nella stessa attualità. E in questo modo, almeno secondo il mio parere, viene stabilita una onnipotenza di Dio di gran lunga più perfetta»?
Caratterizzando ulteriormente la natura della causalità divina, Spinoza, coerentemente, afferma che essa ha carattere immanente e non transeunte: «Deus est omnium rerum causa immanens, non vero transienmxfifi Successivamente egli spiega che in Dio essenza ed esistenza coincidono, mentre nelle cose da Dio prodotte essenza ed esistenza sono distinte, che tutto ciò che segue dalla natura di un attributo di Dio è eterno e infinito, e che tutte le cose sono determinate ad operare da Dio stesso. Quindi Spinoza ribadisce che nella natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della natura divina a esistere e a operare in una Certa maniera. E finalmente conclude: «Le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun altro modo né in nessun altro ordine se non nel modo e nell'ordine in cui sono state prodotte (res nullo alia modo, neque alia ordine produci potuerunt, quam productae sunt)».4' Spinoza suddivide i modi in due grandi categorie: infiniti e finiti. l modi infiniti sono quattro: due prodotti immediatamente da Dio: il movimento (motus) e l'intelletto infinito (intellectus absolute infinitus); e due prodotti da Dio mediatamente: il volto di tutto l'universo (facies totius universi), che è prodotto dal movimento, e l'idea di Dio (idea Dei), che è prodotta dallîntelletto infinito. I modi finiti sono infiniti. Essi non sono altro che le cose particolari: «Queste cose particolari altro non sono che affezioni degli attributi di Dio, ossia modi per mezzo dei quali vengono espressi in una certa e determinata maniera gli attributi di Dio».4î Tutto il grande apparato dei modi messi insieme costituisce la natura naturata. Di questo Spinoza dà la seguente definizione: «Tutto ciò che procede dalla necessità della natura di Dio o di ciascuno degli attributi di Dio, in quanto vengono considerati come Cose che sono in Dio e che non possono esistere né essere concepite indipendentemente da Dio».43 La natura maturata non è disgiunta dalla tintura naturans alla stregua di una nuova sostanza, come quando il padre genera il figlio, ma è il modo di essere globale della natura natumns in quanto effetto del suo eterno autoporsi. Rispetto alla natura maturata la natura naturans merita più che mai l'appellativo di causa sui.
3°) Ibid, Prop. XVII, scol. 40) Ibizt, Prop. XVIII. 41) Ibid., Prop. XXXIII. 42) Ibid, Prop. XXV, coroll. 43) lbid, Prop. XXIX, scol.
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Parte seconda
Una metafisica che come quella di Spinoza riduce tutta la realtà a un'unica sostanza e che non distingue come faceva Aristotele tra sostanze prime e sostanze seconde, propriamente parlando non e più una metafisica, ma semplicemente un monismo usiologico. Tuttavia, ponendo una distinzione radicale tra la Sostanza e i suoi modi, in fondo Spinoza riesce a salvaguardare quella differenza qualitativa tra la causa e i suoi effetti, tra l'infinito e il finito, tra il tutto e le sue parti che caratterizza
l'autenticametafisica. All'interno del suo disegno metafisico, a un tempo semplice e grandioso, come si conviene a una costruzione deduttiva basata su un unico principio (la Sostanza, Dio) e due soli attributi, dove tutto accade secondo le leggi della necessità, Spinoza colloca l'Uomo. Questi è una perfetta immagine di Dio, in quanto riproduce in sé in modo eccellente i due attributi divini della res cogitans, nella mente (anima) e della res extensa
(corpo).
Come abbiamo visto, allo studio della natura umana Spinoza dedica la Parte seconda dell'Etica, mentre riserva alle ultime tre Parti l'esame dell'agire umano. Anche la trattazione della natura umana, delle sue azioni e delle sue passioni è condotta secondo il procedimento assiomatico-dedut-
tivo, caratteristico del
mos
geometricus. Il procedimento deduttivo porta
Spinoza anzitutto a negare che l'uomo sia una sostanza: «La sostanza egli afferma non costituisce la forma dell'uomo, infatti l'essenza della sostanza implica l'esistenza; ora se la sostanza fosse la forma dell'uomo, questi dovrebbe esistere necessariamente. Ma ciò è aSSurdOm“ -
-
è una sostanza e certamente neppure un attributo della sostanza occorre concludere che l'uomo è un modo, anzi la sintesi di due modificazioni della sostanza divina, e precisamente della modificazione dell'attributo del pensiero e della modificazionedell'attributo dell'estensione. La modificazione dell'attributo del pensiero ‘e la mente o anima, la quale, secondo Spinoza, «non ‘e altro che l'idea di una cosa esistente di fatto».45 La modificazione della estensione è il corpo, che Spinoza definisce come «l'oggetto della idea che costituisce l'oggetto della mentewb «La mente dell'uomo spiega l'autore dell'Etica è una parte dell'infinito intelletto di Dio (e il corpo una parte della infinita estensione di Dio). Perciò quando diciamo che la mente contisce questa o quella cosa non diciamo altro che Dio, non in quanto è infinito, ma in quanto si manifesta nella natura della mente, ossia in quanto costituisce l'essenza della mente, ha questa o quella ideam‘?
Dato che
non
—
44) lbiri,H, Prop. X dim. 45) Ibid., Prop. XI. 46) lbirl, Prop. XIII. 47) Itali, Prop. Xl, coroll.
-
Spinoza e la metafisica della sostanza
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la difficile questione dei rapporti tra anima e corpo ha con la teoria del perfetto parallelismo e l'esatta coincidenza che egli della divini res attributi cogitans introdotto per spiegare i rapporti tra gli il corpo agisce e la res extensa. Pertanto l'anima non agisce sul corpo né sull’anima. Però tutto quello che accade nel corpo avviene parallelamente anche nell’anima e viceversa. Tra idea e ideato c'è perfetta corrispondenza, come c'è perfetta corrispondenza tra ras cogitans e res extensa nella Mente divina.“ Come la mente è il corrispettivo del corpo nell’attributo del pensiero, così le cognizioni che la mente acquista sono il corrispettivo dei movimenti che succedono nel corpo. Se i movimenti del corpo sono chiari e distinti, nella mente ci sarà un'idea chiara e precisa (cioè adeguata); se invece i movimenti sono complicati e confusi, anche nella mente si registrerà un'idea inadeguata e confusa. Tale è sempre la conoscenza sensitiva. Impropriamente questa conoscenza può essere detta falsa. Invece la conoscenza della intuizione e della ragione è sempre adeguata e quindi vera.” Una delle tesi caratteristiche e basilari dello spinozismo è la negazione della libertà umana. A sostegno di questa tesi Spinoza adduce vari argomenti, di cui il principale è l'ignoranza delle vere cause. L'illusione di in cui una libertà, che non sia il riconoscimento dell'ordine necessario, cui è da governato, l’uomo come ogni altro essere naturale è collocato e discende dal fatto che gli uomini generalmente conoscono le proprie azioni, ma ignorano le cause di queste azioni. Però il motivo vero non è di ordine psicologico, ma ontologico. La volontà umana non può essere libera per la ragione seguente: la volontà non è una facoltà a sé stante, il pensiero. Non ma una modalità del pensiero e come tale ha per causa può quindi essere libera.“ Come si vede, su questo punto Spinoza ribalta completamente la posizione di Cartesio, che subordinava pienamente l'intelletto alla Volontà, e faceva della libertà la massima perfezione dell'essere umano. D’altronde anche qui Spinoza doveva e voleva essere coerente col suo metodo geometrico, che è il metodo della ragione ed esige che tutte le cose accadano necessariamente. In questo quadro si dispiega la concezione propriamente etica di Spinoza, imperniata su tre punti fondamentali. Il primo è il rapporto sussistente tra esperienza conoscitiva ed esperienza morale, per cui le possibilità del comportamento morale variano col variare delle possibilità conoscitive: a una conoscenza fatta di idee inadeguate corrisponde uno stato di passività della mente, mentre a una conoscenza basata su idee adeguate fa riscontro una condizione di attività della mente. Il se-
Spinoza spiega
48) Cf. ibid., Prop. Xll. 49) Cf. ibiaî, Prop. LI. 5°) Cf. ibiti,Prop. XLVIII-L.
182
Parte seconda
condo punto è il concetto di conatus essendi, che è lo sforzo con il quale ciascuna cosa cerca di perseverare nel suo essere secondo le possibilità della propria natura: anzi l'essenza attuale di una cosa non è altro che questo sforzo di durare. Il terzo punto è la riduzione nominalistica di bene e male a enti di ragione, che esprimono il rapporto in cui qualcosa si trova rispetto alle esigenze di conservazione di un determinato essere. Nel Breve trattata, buono e cattivo denotano ciò che si accorda e non si accorda con l'idea generale che si ha di un essere, mentre nell'Etica, buono cattie vo vengono più specificamente identificati con l'utile e il dannoso.
Compito della morale è il ‘governo degli affetti. Gli "affetti" (afiectus) sono le affezioni del corpo per le quali è aumentata o diminuita la potenza d'a-
zione del corpo: «Per affetto intendo le modificazioni del corpo, dalle
quali la potenza di agire dello stesso corpo Viene aumentata o diminuita, viene aiutata o impedita, e nello stesso tempo le idee di queste modificazioni».51 ljaffetto si chiama propriamente azione quando noi ne siamo la causa adeguata; quando invece di un affetto noi siamo solo parzialmente causa, l'affetto si chiama passione. Il grande tema dell'etica spinoziana è la trasformazionedelle passioni in azioni, dello stato passivo della mente in uno stato attivo o, più genericamente detto, il passaggio da una condi-
zione in cui l'uomo è eteronomo e schiavo (de servitute birmana, è il titolo della Quarta parte dell'Etica) a una condizione in cui l'uomo gode di piena autonomia e libertà (da libertate humana è l'argomento della Quinta Parte). Per la migliore intelligenza di ciò non va dimenticatoche nel concetto di affetto Spinoza include anche l'idea di affezione. Conseguentemente la conoscenza, nei suoi vari gradi, è il presupposto principale e decisivo del passaggio dalla passione all'azione: la conoscenza ristretta all'opinione e alla fantasia manterrà la mente al livello della passione, mentre la conoscenza scientifica e quella filosofica porteranno la mente al livello dell'azione, che Spinoza chiama libertà o beatitudine. Nel Breve trattato Spinoza afferma che l'anima continua a essere schiava delle passioni finché ha una conoscenza inadeguata delle cose, ma quando giunge a conoscere Dio, allora non può più essere disturbata da alcuna passionefiî Questa dottrina è ampiamente sviluppata nella Parte Quinta dell'Etica. Qui Spinoza dimostra che l'affetto prodotto nell'anima dall'idea di Dio è l'affetto più forte, capace quindi di controllare tutte le passioni. Pertanto, la perfezione massima cui l'uomo può e deve aspirare è la conoscenza di Dio: «Mentis summa virtus est Deum intelligere seu cognosceremfl Dalla conoscenza di Dio nasce l'amore intellettuale di Dio,
51) una, 111, dei. 111. 53) Cf. Traci. lare-ti. Il, 19. 53) Ethica V, Prop. XXVII, dim.
Spinoza e la nretafisica della sostanza
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in cui consiste il sommo bene e la felicità dell'uomo: «Nostra salus seu beatitudo seu Iibertas consistit... in. constarzti et aeterno ergo Deum am0rc>>.54 Così per una via assai macchinosa e arida, contrastante non solo con le opinioni del volgo, rna anche con quelle dei dotti, alla fine Spinoza raggiunge una sublime conclusione che era già stata quella a cui erano giunti i massimi esponenti sia della metafisica classica sia di quella cristiana: la contemplazione e l'unione con Dio sommo Bene.
Conclusione La metafisica ha sempre come obiettivo la conoscenza dell'intero. La metafisica di Spinoza realizza questo obiettivo in modo, apparentemente, perfetto. Alla mente lucida e penetrante di Spinoza l’Intero dischiude tutti i suoi misteri e rivela tutti i suoi tesori. Dinanzi all’Intero Spinoza non viene mai assalito da quel timore e tremore da cui sono colti Pascal e Kierkegaard. Spinoza lo contempla con matematica freddezza nella sua immensa e infinita grandezza. L'intero da Spinoza non è visto guardando dal basso verso l'alto, ma dall'alto verso il basso; non è Visto guardando dalle parti verso il tutto, bensì dal tutto verso le parti; non procedendo dagli effetti alla causa, ma dalla causa agli effetti. Anzitutto è contemplata la Sostanza nei suoi infiniti attributi e, poi, in essa sono chiaramente percepiti anche tutti i suoi infiniti modi. Nell'anno geometricus, rigoroso e inarrestabile,non c'è nessuna incertezza, nessun dubbio, nessuna confusione: ogni cosa trova la sua esatta posizione e la sua perfetta spiegazione. L'ordine geometrico consente a Spinoza di realizzare un razionalismo assoluto, che si spinge molto più in là degli altri razionalismielaborati da Cartesio, Malebranche e Leibniz. In Cartesio, Dio è senza dubbio l'oggetto della più chiara e distinta delle idee, ma questa idea ce lo fa conoscere come incomprensibile. Tocchiamo l'infinito, non lo comprendiamo. Tale incomprensibilitàrisulta evidente nellbnnipotenza, la quale, elevata al di sopra della nostra ragione, ne rende precari i principi stessi, e non le lascia altro Valore che quello di cui l'ha investita un arbitrario decreto. Da Dio il decreto si espande sulle cose. Fatto per conoscere il finito, il nostro intelletto, incapace di decidere se esse siano finite o infinite, si trova ridotto alla prudente affermazionedella indefinita. In Malebranche la ragione guadagna ulteriore terreno nella sua conquista di Dio. Non solo raggiunge un'idea chiara e distinta di Lui, ma vede tutte le cose in Dio. Di fatto però anche Malebranche riconosce che
54) Ibid, Prop. XXXVI,scol.
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Parte seconda
può costruirsi soltanto una rappresentazione estrinseca partire dai suoi effetti. Così, <
lità di trasformare la nostra
conoscenza
chiara
e
distinta in
conoscenza
adeguata, e questo impone una severa restrizione al potere della ragione
Non c'è quindi da meravigliarsi se il contatto intimo con le cose sia cercato alla fine da Leibniz nel profondo delle percezioni oscure, che consente una comunicazione più vera e più diretta con la natura e con Dio. Ogni riserva di fronte al mistero di Dio scompare in Spinoza. Il razionalismo assoluto, imponendo la totale intelligibilità di Dio, chiave della totale intelligenza delle cose, è per Spinoza il primo articolo di fede, il primo postulato della sua metafisica. Per esso soltanto, l'anima, purgata dalle tante ”superstizioni” cui la nozione di un Dio incomprensibileè il supremo asilo, compie quella unione perfetta di Dio e dell'uomo che condiziona la sua salvezza. In conseguenza, ogni interpretazione dell'insieme o di un dettaglio dell'Etica, che reintroduca più o meno qualche incomprensibilitàin Dio e nelle cose, è un grave tradimento della metafisica spinoziana. Tutto il sistema è una costruzione della pura ragione e vuole essere una costruzione perfetta. Perciò, nonostante Spinoza proclami l'amor intellectualis Dei, nella sua metafisica nulla è sopravvissuto della mistica dei neoplatonici, dove nella unione del ”solo col Solo" tutti i veli della ragione sono stati rimossi e tutti i concetti sono stati cancellati e ciò che rimane è una mistica unione senza visione. Ma tutto questo per Spinoza è puro oscurantismo: senza ragione non c'è visione, e senza visione non c'è unione e quindo neppure amore.55 umana.
55)
Cf. M. GUEROULT, Spinoza, I: Dieu, Paris 1971, pp. 9-15.
Spinoza e la metafisica della sostanza
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Suggerimenti bibliografici OPERE
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186
PASCAL E LA METAFISICA DEL ”CUORE”
Pascal è
un
grande metafisico
Chi ricostruisce la storia della metafisica, quando si imbatte in Pascal si chiede se c'è un posto anche per lui in questa storia gloriosa e affascinante. A mio parere la risposta non può essere che positiva. Infatti nel corso dei secoli pochi altri pensatori si sono cimentati con i massimi problemi metafisici che riguardano l'anima e Dio con lo stesso veemente ardore di Pascal. Per lui questi sono problemi vitali, problemi decisivi a cui l'uomo non si può affatto sottrarre. Non sono problemi indifferenti o di poco conto come sostenevano gli scettici e i libertini, gli avversari con i quali Pascal non si stanca mai di polemizzare. Ma, ovviamente, Pascal non rientra nei quadri speculativi della metafisica moderna. Anzi, Pascal è essenzialmente un anti-moderno; il più deciso e più energico degli antimoderni. Egli combatte con tutte le sue forze contro tutto ciò che col nome modernità si vuole esaltare e sbandierare. Egli contesta decisamente Cartesio e il suo modo di fare metafie lo squalifica come pensatore ‘inutile e incerto"; condanna la sua separazione della ragione dalla fede, della metafisica dalla religione, rifiuta energicamente il metodo geometrico e matematico nelle questioni metafisiche, morali e religiose, e lo sostituisce con il metodo dialettico. Ciononostante la metafisica pascaliana non è meno esigente della metafisica di Cartesio e Spinoza; anzi, a ben vedere lo è molto più, perché muove da una visione più completa delle risorse conoscitive dell'uomo e da una più profonda coscienza del mistero di Dio. La riflessione filosofica di Pascal nasce dall'esigenza di porre una diga alla marea montante degli scettici e dei libertini che invadeva la Francia nel secolo XVII. A codesti razionalisti altezzosi Pascal non si oppone con la fuga nel fideismo e nel pietismo, come facevano molti suoi contemporanei, invece si affida egli stesso alle armi della ragione, e le adopera con grande abilità.Pascal difende i diritti della fede e del cristianesimo, anzitutto, in nome dei diritti e delle esigenze della ragione stessa, combatte contro la ragione dei razionalisti in nome di una ragione superiore. Così contro Cartesio e contro Spinoza, che con il loro esprit de géometric, avevano costruito una metafisica chiusa e autosufficiente, Pascal con il suo esprit de finesse elabora una metafisica aperta. Con la
sica,
Pascal e la nzetafisica del "cuore"
187
ragione superiore Pascal conduce l'uomo oltre l'uomo («l'uomo suoltre pera infinitamente l'uomo» recita un famoso pensiero pascaliano) e il mondo. La metafisica pascaliana ‘e una metafisica del mistero dell'uo-
sua
del mistero di Dio; è una metafisica che cammina nelle orme agostiniane della insaziabilitàdello spirito e della docta ignorantia; è la metafisica della «miseria e della grandezza dell'uomo». Pascal è un metafisico atipico non solo per la sua epoca ma nell'intero arco della storia della metafisica: egli affronta i problemi metafisici in un modo assolutamente nuovo e personalissimo. Pascal non si richiama a nessuna scuola, né a quella degli aristotelici, né a quella dei platonici. Le categorie con cui egli lavora non sono né quelle cosmologiche né quelle
mo e
ontologiche, ma sono piuttosto categorie essenzialmente personalistiche. Nel secolo del razionalismo dogmatico messo in moto da Cartesio e Spinoza, Pascal si staglia come una figura solitaria, capace di sintetizzare nell’origina1ità del pensiero e della scelta di vita il rigore della ricerca scientifica, l'intensità della vita spirituale, l'inquietudine di un'esistenza
bruciata dall'amore per l'uomo e per Dio. Il suo ingegno ha lasciato tracce nei testi classici di fisica e la sua riflessione filosofica ha aperto, nella speculazione antropologica occidentale, un varco attraverso il quale la ricerca del senso dell'uomo e del suo destino è passata senza più arrestarsi sino ai giorni nostri, percorrendo gli itinerari sia della filosofia agnostica e atea, sia della filosofia di ispirazione cristiana sia della teologia. Del suo grandissimo ingegno a noi qui interessa il fondamentale apporto allo sviluppo della metafisica moderna.
Vita e opere Blaise Pascal ebbe una vita breve, ma ricca di vicende che interessano direttamente la storia religiosa del suo paese e che hanno rilevanza anche per la storia della filosofia e della teologia. Nacque a Clermont Ferrand il 16 giugno 1623; a 7 anni si trasferì a Parigi insieme al padre, alto magistrato e uomo di vasti interessi culturali, particolarmente portato per gli studi scientifici, matematici e fisici. Studente assai precoce e in gran parte autodidatta, a soli 12 anni di età Pascal scoprì da solo (avendogli il padre sottratto i libri di matematica per fargli studiare il latino) la geometria fino alla trentaduesima proposizione di Euclide. A 16 anni compose un Trattato sulla sezioni coniche; a 18 anni ebbe la prima idea della macchina calcolatrice, che volle costruire per aiutare il padre nei suoi conteggi. Nello stesso tempo confermò le scoperte di Torricelli sulla pressione atmosferica. Ma l'eccessivo lavoro mino la sua salute già debole per costituzione e finì col farlo ammalare
gravemente.
188
Parte seconda
All'inizio del 1646 accadde un fatto che doveva avere importanti conseguenze per la vita di Pascal: suo padre scivolando sul ghiaccio si era Slogato un femore. Per curarlo furono chiamati due chirurghi giansenisti, i quali mentre prestavano la loro assistenza all’atnmalato, discutevano con lui di problemi teologici, in particolare dei problemi sulla grazia di cui si era occupato Giansenio nel suo Azigustinzis, pubblicato nel 1640. Naturalmente il giovane Pascal assistette a queste discussioni e vi trovò un terreno di speculazione che fino a quel momento non aveva mai affrontato. Qui si situa quella che fu chiamata la prinm conversione di Pascal, che non ha nulla a che vedere con la seconda vera conversione. Blaise Pascal nel 1647 fu visitato due volte da Cartesio. Nel primo incontro i due filosofi discussero sul vuoto; nel secondo Cartesio diede a Pascal qualche consiglio medico per la sua salute. Nel 1648 Pascal frequento con la sorella Jaqueline i seguaci di SaintCyran che lo guidarono al misticismo di Port-Royal. Ma dopo la morte del padre (1651) che l'aveva lasciato erede di un'enorme fortuna, il suo fervore religioso sembrò scemare ed ebbe inizio quello che fu chiamato il periodo mondano di Pascal, dovuto in parte alla proibizione dei suoi medici di dedicarsi a qualsiasi lavoro intellettuale, pregiudizievole alla sua salute già tanto precaria e al loro divieto di praticare esercizi di penitenza. Madame Perier, sua sorella, tiene però a precisare che durante quel periodo «per grazia di Dio, Blaise si tenne lontano dai vizi». La crisi venne superata nella notte del 23 novembre 1654, durante la quale Pascal ebbe una sorta di visione mistica. A ricordo di quella notte indimenticabilePascal scrisse il suo famoso Memoriale, che termina con le seguenti dichiarazioni:
«Questa è la vita eterna, che conoscano te solo vero Dio e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Gesù Cristo. Gesù Cristo. Io me ne sono separato; l'ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che non sia mai separato da lui. Lo si conserva soltanto per le vie insegnate dal Vangelo. Rinunzia totale e dolce. Completa sottomissione a Gesù Cristo e al mio direttore. La gioia in eterno per un giorno di prova sulla terra. Non obliviscar sermones ÎUOS. Amen».
Dopo la conversione, documentata in maniera commovente nel Mcmoriala, Pascal fece grandi progressi nella vita spirituale, come si può rilevare anche dalla Preghiera per donzandare a Dio difare buon uso delle malattie, uno scritto molto edificante. Alla conversione seguì la ripresa di rapporti sempre più frequenti e intensi con Port-Royal che, a quel tempo, aveva accolto tra le sue mura un piccolo gruppo di laici desiderosi di
condurre una vita di penitenza e di santificazione.
130150111 e la metafisica del ”cu0re"
189
Nel 1656 Pascal viene chiamato dai portorealisti in aiuto di Arnauld, minacciato di scomunica a causa delle sue posizioni giansenistiche, e a difendere il giansenismo dagli attacchi dei gesuiti. Pascal accolse l'invito e compose le Lettere provinciali, che fece circolare anonime, in cui con dialettica abilissimae con ironia ora sottile ora spietata, metteva a nudo
aspetti discutibilidella dottrina tipica della Compagnia di Gesù, special-
mente nel campo morale.
In quegli stessi anni gli venne in mente di scrivere unflàpologia del cristianesimo contro i libertini, un Vasto progetto che non poté realizzare a causa della sua morte. I frammenti di quest'opera furono raccolti nel Volume intitolato Pensées (Pensieri). Pascal morì a Parigi il 19 giugno 1662 dopo atroci sofferenze, che seppe sopportare con grande rassegnazione. Le sue ultime parole furono: ”Che Dio non mi abbandoni mai".
La
questione dei metodi
Non può costituire una sorpresa se nel secolo in cui la questione del metodo è diventata di moda e in cui tutti, scienziati (Galilei) e filosofi (Bacone, Cartesio, Spinoza, Leibniz) si occupano di questo problema ed elaborano nuovi metodi, anche Pascal, scienziato geniale e filosofo profondo, interviene nel dibattito e lo fa in modo originale e coraggioso, manifestando subito la sua antimodernità. Egli reagisce vigorosamente contro la tendenza di fare del metodo geometrico della pura ragione l'unico metodo per lo studio della realtà, di qualsiasi realtà, e per la ricerca della verità. Per conseguire questi obiettivi, sostiene Pascal, esiste un metodo migliore, più conforme alle esigenze della realtà e della verità: è il metodo del ”cuore”. Il suo criterio non è quello delle idee chiare e distinte, della esattezza e della precisione, della deduzione rigorosa; ma è la "finezza", l'umile e docile ascolto della voce delle cose, il ‘sentimento" della verità. Nella edizione Brunschwicg dei Pensieri, molto opportunamente tutti i "pensieri” che riguardano il metodo sono opportunamente raggruppati nella Prima Sezione (nn. 1-59). Ecco come Pascal, con quel suo stile conciso e sentenzioso che caratterizza una mente molto lucida e penetrante, descrive la differenza tra i due approcci alie cose, quello dell'esprit de géonzetrie e quello dellrsprit dcfinesse: «..
(Gli spiriti) abituati ai principi precisi e appariscenti di geometria,
ragionare solo dopo averli ben visti e maneggiati, si perdono nelle di finesse, dove i principi non si lasciano maneggiare allo stesso modo. Questi si vedono appena, e si sentono più che non si vedono; è una fatica improba cercare di farli sentire a coloro che non li sentono e a
cose
da
se
dono
stessi:
talmente delicate e così numerose, che richiedelicatissimo e acuto per essere sentite e per giudicare
sono cose
un senso
190
Parte seconda
giustamente secondo questo sentimento; senza per lo ordinatamente come in geometria perché non se ne dimostrare più stesso modo) i principi; inoltre una simile impresa (nello possiedono sarebbe interminabile. Bisogna vedere la cosa con un solo sguardo e non per graduale ragionamento, fino a un certo punto. E così è raro che i geometri siano fini e che i fini siano geometri, per il fatto che i geometri vogliono trattare geometricamente le cose fini e si rendono rettamente e
ridicoli pretendendo di cominciare dalle definizioni prima e dai principi poi, mentre non è questo il modo di procedere in tal genere di ragionamento. Non che lo spirito non segua tale procedimento; ma lo fa tacitamente, naturalmente, senza regole: spiegarlo non è dato ad alcuno; sentirlo è di pochi I geometri che sono soltanto geometri hanno dunque la mente capace di veder chiaro purché si spieghi loro minuziosamente ogni cosa, mediante definizioni e principi; altrimenti sono miopi e insopportabili, perché sanno ragionare soltanto rettamente su principi ben chiari. E i fini che sono soltanto fini non possono avere la pazienza di scendere fino ai principi primi delle cose speculative e di immaginazione, che non hanno mai visto nella vita reale e che sono completamente
fuori dell'uso comune».1
I due procedimenti sono talmente diversi, che chi pratica quello geometrico di solito non capisce e anzi rifiuta l'esprit de fùiesse, e chi invece si lascia condurre dall'estate} definesse di solito non comprende e si oppone allfiasprit de géomctrie: «Coloro ì quali sono abituati a giudicare col sentimento non comprendono nulla delle cose di puro ragionamento, perché vogliono penetrare subito tutto con un colpo d'occhio e non sono abituati a cercare i principi. Gli altri invece che sono soliti ragionare secondo principi
comprendono nulla delle cose di sentimento, perché vi cercano i principi e non possono vedere con un sol colpo d'occhio. (...) All'intuìto appartiene il sentimento, come le scienze appartengono all’intelletto. La finezza è della intuizione, la geometria dell'intelnon
l€ttO».2
A quali oggetti si addice l'esprit de géometrie? Ovviamente a tutto il mondo della materia, della estensione, della quantità, dei numeri. Invece l'ambito dellflasprit de finesse e il mondo dello spirito, quindi dell'anima e di Dio, della morale, della metafisica e della religione. Mentre l'esprit de géometrie appartiene alla ragione, l'esprit de finesse appartiene al cuore. «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce», sentenzia Pascal in un celeberrimo pensierofi e le intuizioni del cuore sono più importanti
1)
2) 3)
B. PASCAL, Pensieri, Torino
lbid. 3-4. lbid. 277.
1956, tr. di M. F. Sciacca.
Pascal e la metafisica del ”cu0re”
191
dei concetti della ragione. Occorre però evitare due eccessi, avverte lo stesso Pascal: «escludere la ragione, non ammettere che la ragionew Il cuore, secondo Pascal, spalanca all'uomo la porta di realtà e di verità, altrimenti precluse alla ragione e sono le realtà e le verità più importanti in quanto riguardano l'anima e Dio. «Conosciamo la verità non soltanto con la ragione ma anche con il cuore; per questa seconda via conosciamo i principi primi, e invano il ragionamento, che non vi ha parte alcuna, cerca di combatterli».5 «È il cuore che sente Dio, non la ragione».f= «Il cuore ha il suo ordine; l’intelletto ha il suo (...). Non si prova che si debba essere amati, esponendo secondo un ordine razionale le cause dell'amore: sarebbe ridicolo»? Anche nel suo dominio la ragione è costretta a riconoscere la propria insufficienza e a far dipendere i suoi principi dalla conoscenza del cuore. Infatti, questi si possono giustificare solo indirettamente, per negazione, cioè col riconoscere come errore il contrario; invece il cuore sente direttamente che lo spazio ha tre dimensioni, che i numeri sono infiniti; è tale certezza che non dimostra se stessa, precisamente perché è diversa dalla dimostrazione. E come ì principi della matematica, anche quelli della metafisica e della religione sono conosciuti dal cuore, la conoscenza vera e suprema. Qui però vale la pena di precisare che affermando che esiste una seconda via di accesso alla verità, quella del cuore, una via ancora più importante di quella della ragione, Pascal non intende affatto sostenere che quella del cuore è una via più pulita e incontaminata di quella della ragione, che invece sarebbe insozzata e pervertita. Anzi al pericolo della perversione e della sozzura è molto più esposto il cuore che la ragione. Annota Pascal. «Quanto fondo e pieno di lordure il cuore umanolmfl La ragione stessa risente assai della perversione del cuore, e molti suoi traviamenti sono dovuti alle passioni del cuore. In effetti, «Come ci si guasta l'intelletto, così ci si guasta anche il sentimento. L'uno e l'altro si formano con la conversazione e con la conversazione si guastano. Così le buone o le cattive lo formano o lo guastano. Importa dunque moltissimo saper bene scegliere per formarlo e non guastarlo, ma non è possibile fare questa scelta se intelletto e sentimento non sono già formati e non guastati. Circolo vizioso, fortunato chi sa uscirne»?
4) 5) e) 7) 8) 9)
127111253. lbid. 282. Ibiczî278. lbid. 283. lbid. 146. Ibid. 6.
192
Parte seconda
Dopo la prima Sezione sul Metodo, l'edizione Brunschvicg colloca le riguardano i quattro grandi temi dell'apologetica pascaliana: l'Uomo, Dio, Cristo e la Chiesa. In questa sede le Sezioni che ci riguardano sono quelle che vanno dalla Seconda alla Ottava, che lo stesso Pascal suddivide in due parti: «Prinm parte: Miseria dell'uomo senza Dio. Sezioni che
Seconda parte: Felicità dell'uomo Con Dio.
Oppure:
Prima parte: La natura è corrotta. Dimostrarlo con la natura stessa. Seconda parte: Vi è un Redentore. Dimostrarlo Con la Scritturaw”
L'enigma umano Come Agostino e come Cartesio, anche Pascal inizia la sua riflessione metafisica con lo studio dell'uomo (e non del mondo). Con questo studio vivace e penetrante egli fa vedere che l'uomo non può essere tutto: egli è certamente un essere di una straordinaria grandezza ma allo stesso tempo è anche afflitto da una estrema miseria; è un essere intermedio tra l'angelo e la bestia. Nello studio deIl’enigma-uomo Pascal fa toccare con mano quale mostruoso paradosso sia l'uomo: un impasto impressionante di grandezza e miseria, di potenza e debolezza, di virtù e Vizio, di intelligenza e insipienza, un ibrido di materia e spirito. Ma quali sono i titoli della sua grandezza e quali gli indizi della sua miseria? Questi sono gli interrogativi su cui Pascal ama soffermarsi e lo fa in modo geniale e magistrale. Il massimo titolo della grandezza dell'uomo è i1 pensiero. Ecco un piccolo florilegio di ”pensieri" che illustrano efficacemente questo profondo convincimentodi Pascal: «Il pensiero fa la «L'uomo canna
non
è
grandezza dell'uomo».“ che una canna, la più debole della
natura;
ma
è
una
pensante. Non occorre che l'universo intero si armi per schiac-
un vapore, una goccia d'acqua bastano per ucciderlo. Ma, quand'anche l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobiledi ciò che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità
ciarlo:
che l'universo ha
di lui; l'universo non ne sa nulla. Tutta la nostra lì che dobbiamo elevarci e non nello spazio e nel tempo, che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare, ecco il principio della moralemlî su
dignità consiste ziunque nel pensiero. È
N) Ibid. 60. H) Îhid. 346. 12) lbid. 347.
Pascal e la
metafisica del
”cu0re"
193
«Non è nello spazio che debbo cercare la mia dignità, ma nella disciplina del mio pensiero. Non avrei alcuna superiorità a possedere delle terre: con lo spazio l'universo mi comprende e m’inghiotte come un punto; col pensiero io lo comprendo>>fl3
Nella
categoria del pensiero Pascal fa rientrare non soltanto la ragio-
ne e l'intelletto, ma anche il cuore e il sentimento. Con queste facoltà l'uomo può penetrare oltre che nel mondo della materia anche in quello dello spirito: nel mondo dell'anima e nel mondo di Dio. Grandi quindi sono le altezze a cui può giungere l'uomo col suo pensiero; ma sono altezze ch'egli riesce appena a sfiorare e di cui non può mai impadronirsi. «L'anima non sosta a lungo a quelle grandi altezze spirituali, che tocca qualche volta; vi balza solamente, non come su di un trono, per sempre, ma per un attimo soltanto>>.'4 Ma Pascal si mostra ancora più abilenello smascherare le miserie dell'uomo. Per fare uscire il libertino dalla sua superbia e dal suo torpore egli cerca di fargli toccare con mano quanto sia tragicamente assurda la vita dell'uomo su questa terra. Ecco alcuni ”pensieri" a questo riguardo:
«lo non so chi mi abbia messo al mondo, né cosa sia il mondo, né cosa sia io stesso: io sono in una terribileignoranza di tutte le Cose; io non so che cosa sia il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e quella parte di me stesso che pensa quello che dico, che riflette su tutto e su se
si conosce più delle altre cose. Contemplo questi spavenche mi chiudono e mi trovo legato a un angodell'universo spazi lo di questa estensione, senza che io sappia perché io sono piuttosto in questo luogo che in un altro, né perché questo poco tempo che mi è concesso di vivere mi sia stato assegnato in questo punto piuttosto che in un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di quella che mi seguirà. Non vedo che infiniti da tutte le parti, che mi chiudono come un atomo e come un'ombra che dura un solo istante senza ritorno. Tutto quello che s0 è che ben presto dovrò morire, ma quello che più ignoro è questa stessa morte che non potrò evitare. Come non so donde vengo, così non so dove vado; so soltanto che, uscendo da questo mondo, precipito per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio irato, senza sapere a quale di queste due condizioni dovrò partecipare per Yeternità. Ecco il mio stato, pieno di debolezza e di incertezza. E da tutto questo, dunque, io concludo che debbo passare tutti i giorni della mia vita senza preoccuparmi e senza cercare quello che
stessa
e non
tosi
mi
13) 14) 15)
capiterà».15
Ibid. 348.
Ibid. 352. Ibid. 194.
194
Parte seconda
«Riconosciamo dunque i nostri limiti: siamo e non siamo tutto; quel che abbiamo di essere ci ruba la conoscenza dei princìpi primi, che nascono dal nulla; e il poco che abbiamo di essere ci nasconde la vista dell'infinito. La nostra intelligenza occupa nell'ordine delle cose intelligibili lo stesso posto del nostro corpo nella estensione della natura. Limitati in ogni modo, questo stato intermedio tra due estremi si trova in tutte le nostre facoltà. l nostri sensi non percepiscono nulla di
estremo: troppo rumore ci assorda; troppa luce ci abbaglia; troppa lontananza e troppa vicinanza impediscono la vista, troppa lunghez— za e troppa brevità rendono oscuro un discorso; un eccesso di verità ci stupisce (...). Ecco la nostra condizione: essa ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Navighiamo per un vasto spazio, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un capo all'altro. Qualsiasi termine al quale pensiamo di attaccarci per star fermi vacilla e ci abbandona; e se lo seguiamo si sottrae alle nostre prese: sguscia e sfugge in una fuga eterna. Nulla si arresta per noi. Questa è la nostra naturale condizione; e tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; ardiamo dal desiderio di trovare una posizione stabile, un'ultima base costante per edificarvi sopra una torre, che si innalzi verso l'infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre fino agli abissiw‘!
La miseria dell'uomo risulta da una capacità beante, aperta sullinfinito, mai soddisfatta, e da uno slancio che non raggiunge mai il suo fine. «L'uomo supera infinitamente l'uomo»,17 poiché vi è nell'uomo più che nell'uomo stesso. Ma allora che cos'è l'uomo? «Che novità, che mostro, che
soggetto di contraddizioni, che prodigio: giudice di tutte le cose, imbelle verme della terra, depositario del vero, cloaca di incertezze e di errore, gloria e rifiuto dell'universo. Chi sbroglierà questo imbroglìo?».1* Montaigne aveva scritto con grande compiacimento di se stesso: «Non ho visto mostro e miracolo al mondo più palese di me stesso». Il mostro era dunque per lui ciò che conveniva svelare per sottolinearne il carattere eccezionale e unico. Per Pascal il mostro l'enigma umano rinvia alia difformità e al male, e in questo senso l'uomo è davvero mostruoso: ma questa mostruosità si trova strettamente mescolata a ciò che vi è di divino nell'uomo, poiché Dio lo giudica degno di portargli la buona novella. Perciò l'uomo non deve disperare della propria miseria; poiché «la grandezza dell'uomo è grande proprio in quanto conosce di essere miserabile. Un albero non si riconosce miserabilemw «Le miserie stesse delcaos, che
-
I6) I7) m) W)
Ibid. 72. Ibid. 434. Ibid. Ibid. 397.
-
Pascal e la
nzetafilsica del "cuore"
195
l'uomo, tutte, provano la sua grandezza. Sono miserie di
un gran signole sue, miserie di un re spodestatomîo Pertanto, non si deve calcare troppo la mano sulla miseria dell'uomo perché questo 10 sprofonderebbe nella disperazione; ma si deve evitare allo stesso tempo di esaltare eccessivamente la sua grandezza perché questo gli monterebbe la testa e lo insuperbirebbe. Scrive Pascal in due noti frammenti dei Pensieri:
re
«È pericoloso mostrare troppo all'uomo come
sia uguale alle bestie, E grandezza. anche pericoloso fargli notare la sua grandezza senza la sua bassezza. E ancora più pericoloso fargli ignorare l'una e l'altra. Non bisogna che l'uomo creda di essere eguale alle bestie, né agli angeli, né che ignori l'una e l'altra cosa, ma che l'una e l'altra conosca».21 senza
mostrargli la
sua
«Che ora l'uomo giudichi il proprio Valore. Ami se stesso, perché in lui c'è una natura capace di bene; ma non ami perciò le miserie che sono in essa. Si disprezzi perché questa capacità è vuota, ma non disprezzi per questo la sua naturale capacità. Si odi, si ami; ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice, ma non ha la verità costante e
soddisfacente>>22
Per quanto grande sia Yenigmaticità dell'essere umano, l'uomo ha il dovere di cercare la soluzione di tale enigma. La cosa peggiore secondo Pascal è nascondersi dietro al paravento o dello scetticismo di Pirrone oppure della evasione di Montaigne: <
Pascal:
«Io vorrei condurre l'uomo a desiderare di trovare la verità, a essere e libero dalle passioni per seguirla dove la troverà, sapendo quanto la sua conoscenza si sia oscurata per le passioni; ben vorrei che odiasse in sé la concupiscenza che da se stessa lo determina, affinché non Yaccecasse nel fare la sua scelta e non Fimmobilizzasse quando avrà scelto>>24
pronto
Nella visione antropologica pascaliana c'è un dualismo che ricalca da vicino il dualismo dei platonici, ma con uno spostamento dal piano ontologico al piano morale. In entrambi i casi si chiede all'uomo di uscire da se stesso: dal corpo e dalla pesantezza della materia, i platonici; dalla miseria, dalle passioni, dalla concupiscenza e dal vizio, Pascal. Prendere
20) lbid. 39s. 21) lbid. 417. 22) lbid. 423.
23) 24)
lbid. 421. Ibid. 423.
196
Parte seconda
condizione alienata costituisce per entrambi il punto di partenza per intraprendere la grande e faticosa ascesa verso la Verità, la salvezza, la felicità. Le vie dei platonici per compiere la difficile e ardimentosa impresa erano la metafisica, la mistica e la religione. Queste sono anche le vie di Pascal.
coscienza di
una
Il mistero divino L'uomo che rimane chiuso in se stesso o per rassegnazione, o per disperazione, o per evasione o per compiacenza, non troverà mai la soluzione del proprio enigma. La soluzione conclusiva può fornirgliela sol-
tanto la religione, e per un credente come Pascal, soltanto il cristianesimo. Ma c’è una soluzione preliminare e parziale Che spetta alla metafisica. Della importanza e della necessità della metafisica avevano già parlato Aristotele e molti altri dopo di lui, tra cui Avicenna, Tommaso d'Aquino e Cartesio. Essenzialmente si trattava di una necessità epistemologica: quella di una scienza superiore, una scienza primaria (la prete philosophia) che fungesse da fondamento e completamento di tutte le altre scienze. Pascal è un antirazionalista, ma non un antimetafisico: solo che a una metafisica della ragione egli preferisce una metafisica del ”cuore".. Espressamente egli non si occupa della metafisica, ma quando vuole portare l'uomo fuori dalla sua pesante e vischiosa miseria per mostrargli la verità, egli compie una navigazione analoga a quella di Platone e quindi fa dell’autentica metafisica. Per l'autore dei Pensieri ciò che giustifica la metafisica non è un'esigenza epistemologica bensì morale: è il primo passo per condurre l'uomo fuori dalla sua miseria. Sia la grandezza sia la miseria inducono l'uomo a cimentarsi col mistero di Dio; un mistero ineludibilema allo stesso tempo insondabile. La grandezza dell'uomo, che come si è visto sta nel pensiero, non può sottrarsi al mistero di Dio. Su questo punto Pascal ha scritto pagine meravigliose e di uno straordinario vigore. Nessuno ha mai denunciato con altrettanta forza la viltà del pensiero debole come ha fatto Pascal. C'è una pagina dei Pensieri che ha un singolare profumo di attualità e che merita di essere letta attentamente. Scrive Pascal: «... Uimmortalità dell'anima è cosa che ci importa tanto, che ci riguarda così profondamente, che bisogna aver perduto ogni buon senso per rimanere indifferenti alla conoscenza del suo destino. Tutte le nostre azioni e i nostri pensieri devono prendere strade ben diverse secondo che si abbia o no la speranza di beni eterni, che è addirittura impossibile fare un solo passo con criterio e con giudizio se non orientandosi su quel punto, che deve essere il nostro supremo oggetto. Perciò il nostro primo interesse e il nostro primo dovere è di veder chiaro intorno a questo argomento da cui dipende tutta la nostra con-
Pascal e la
metafisica del
"cuore"
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dotta. Pertanto tra coloro che non ne sono persuasi, io faccio una grande differenza tra quelli che si impegnano con tutte le loro forze per istruirsene e gli altri che Vivono senza darsene pena o pensiero.
coloro che gemono sincerache considerano lo come l'estremo dei mali e questo dubbio, nulla risparmiano per uscirne e fanno di questa ricerca la loro princi-
Non posso mente in
non avere
compassione per
pale e più seria occupazione.
Ma per quelli che trascorrono la vita senza pensare a questo fine ultimo e per il solo fatto che non trovano in se stessi argomenti persuasivi trascurano di cercarli altrove, e di esaminare a fondo tale opinione per stabilire se è di quelle che il popolo riceve per semplicità credula, 0 di quelle che, quantunque oscure per se stesse, hanno tuttavia un fondamento solidissimo e incrollabile;per costoro ho una considerazione ben diversa. Questa negligenza, in una cosa che riguarda e loro stessi e la loro eternità, e il loro tutto, mi irrita più che commuovermi; mi stupisce e mi sgomenta: la trovo mostruosa. E non parlo così per pio zelo di una devozione spirituale. Al contrario, penso che si dovrebbe avere questo sentimento per un principio di interesse umano e d'amor proprio: non occorre per questo, veder meglio di quel che vedono le persone meno illuminate. E dunque sicuramente un gran male l'essere in tale dubbio; ma quando si è in tale stato e almeno dovere indispensabilecercare. E così colui che dubita e che non cerca è, nello stesso tempo, molto infelice e molto ingiusto. Che se poi se ne resta tranquillo e soddisfatto, e lo professi e si glori cli questo suo stato, e ne faccia motivo di gioia e di vanto, io non trovo parole per qualificare un essere così insensato».25
Nell'uomo il problema metafisico riguarda principalmente l'anima, la natura spirituale e immortale. Nell’univers0 il problema metafisico numero uno è Yesistenza di Dio, un Dio creatore e provvidente. Certo il primo è un problema metafisico di capitale importanza e solo un insensato, come dice Pascal, può disattenderlo, perché dalla sua soluzione dipende la grandezza e la miseria dell'uomo: enorme infatti è la sua grandezza se l'anima è immortale; estrema ‘e la sua miseria se l'anima è mortale. Però, alla fine, per trovare una valida risposta al proprio enigma l'uomo deve uscire da se stesso e rivolgersi a Dio. Per Pascal rimane sempre valido il celebre detto di Agostino: «lnquietum esi cor nostrmri donec requiescat in te». Ma per rivolgersi a Dio si esige da parte della ragione il riconoscimento della verità della sua esistenza: una verità per nulla evidente, dato che molti la negano. Occorre quindi dimostrarla. Con quale sua
procedimento?
25)
Ibid. 194.
198
Parte seconda
Pascal giudica troppo presuntuosi i procedimenti tradizionali con cui i filosofi hanno Cercato di provare l'esistenza di Dio. Sono procedimenti troppo astrusi e inefficaci: «Sono prove che convincono solo l'intelletto».Z6 «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal ragionamento degli uomini e così complicate, che colpiscono poco. E quand'anche servissero ad alcuni, non servirebbero che nel1’attim0 in cui afferrano la dimostrazione; un'ora dopo subentrerebbe il timore di essersi sbagliati»? Con le loro prove i filosofi pretendono di fornire l'evidenza di una realtà che rimane sempre profondamente occulta e misteriosa. Nel mondo, insiste Pascal, non c'è una chiara trasparenza dell'esistenza di Dio: «Se il mondo sussistesse per istruire l'uomo intorno a Dio, la sua divinità risplenderebbe da tutte le parti in maniera incontestabile (...). Ciò che vi appare non indica né esclusione totale, né una presenza manifesta della divinità, ma la presenza di un Dio che si nasconde. Tutto porta questa improntamî“ «È dunque vero che tutto istruisce l'uomo della sua condizione, ma bisogna intendere bene; perché non è vero che tutto riveli Dio, e non è vero che tutto nasconda Dio. Ma è vero che insieme si nasconde a quelli che lo tentano e che si rivela a coloro che lo cercano, perché gli uomini sono insieme indegni di Dio e capaci di Dio; indegni per la loro
corruzione, capaci perla loro primitiva natura».2° L'uomo rimane dunque sempre capax Dei, anche dopo la caduta, grazie alla sua natura originaria; però non essendoci un'eVidenza schiacciante della realtà di Dio, l'uomo, a causa della sua corruzione può anche ricusarla. Pertanto il riconoscimento dell'esistenza di Dio appartiene più all'ordine delle decisioni che a quello delle dimostrazioni. Non si tratta però di un atto di fede, ma di una decisione razionale ponderata e calcolata. Così al posto delle classiche prove rigorosamente dimostrative Pascal propone la sua celebre scommessa su Dio, la quale si basa sul calcolo delle probabilità. «In base al calcolo delle probabilità scrive Pascal dovete cercare con tutte le vostre forze la verità; perché se rnorrete senza adorare il vero Principio, sarete perduto» .3" Il famoso argomento di Pascal, nella sostanza, suona così: nessuno può sottrarsi al dilemma: «Dio è, o non è». È un problema di vita, non un problema puramente speculativo, perché bisogna agire 0 come se Dio esistesse o come se non esistesse. La neutralità è impossibile. Dunque «scommettere bisogna, non è nostro arbitrio; siete obbligato; quale via -
dunque prendete?».31
26) Ibid. 252. 37) lhid. 243. 23) lbid. 556. 3°) Ibid. 557. 3”) Ibid. 236. 3T) Ibìd. 233.
—
Pascal e la metafisica del "citare"
199
Consideriamo l'alternativa come un gioco nel quale uscirà testa o cro«Per quale scommettere?» Secondo ragione non si può scommettere né per l'una né per l'altra parte, perché secondo ragione nessuna delle ce.
due
può essere esclusa. «La ragione in ciò non può decidere; c'è un Caos
infinito che ci divide. Si fa un gioco, all'estremità di questa distanza infinita che darà croce o testa. Per quale scommettere? Secondo ragione, non potete farlo né per l'una né per l'altra; secondo ragione non potete escludere nessuna delle due».32 Allora, la scommessa Va fatta su ciò che maggiormente risponde al proprio interesse. «Ammettiamo: Dio esiste. Che cosa si rischia a vivere come se Dio esistesse? I piaceri e i beni del mondo, cioè un bene finito. Che cosa si guadagna? Un guadagno infinito». Allora, se si Vince si guadagna tutto; se si perde si perde tutto. Non resta che scommettere che Dio è, senza esitare. Anche ammesse infinite possibilità negative contro una sola favorevole sarebbe sempre conveniente scommettere per l'esistenza di Dio, perché c'è di contro una eternità di vita e di felicità. Ma in realtà le probabilità sono finite e quel che si rischia è finito di fronte a una infinità di vita infinitamente felice. «Ciò pone fine al gioco: dove si tratta dell'infinito e dove non c'è infinità di probabilità di perdita contro quella di vincita, non c'è pareggio: bisogna dare tutto (ossia tutti i beni di questo mondo per la vita eterna)».33 A conferma della bontà della scommessa su Dio e sullîmmortalità dell'anima alla fine Pascal elenca i vantaggi che tale scommessa frutta già nella vita presente: «Ma per convincervi che questa è la strada, vi dico che così diminuile passioni, che sono il vostro grande ostacolo (...). Voi sarete
ranno
fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico, sincero, verace.
verità, non vi muoverete nei morbosi piaceri, nella vanagloria, negli allettamenti; ma non ne godrete degli altri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e a ogni nuovo passo che farete in questa strada, vedrete tanta certezza di vincere e sempre più il nulla di quello che arrischiate, che riconoscerete alla fine di aver scommesso per una cosa certa, infinita, in cambio della quale non avete offerto nul1a».34 Non c'è studioso di Pascal che non abbia fornito una sua interpretazione di questo famosissimo frammento detto "della scommessa" .35 Noi qui ci limiteremo a poche osservazioni tese a far cogliere il senso e la portata dell'argomento pascaliano. ln
32) Ibid. 33) lbid.
34g 35
Ibid. Tra gli altri ricordiamo C. BESSE, Le pari, Paris 1923; A. DUCAS, Le pari de Pascal. Les sources possibles de Fargament da pari, Paris 1951; R. GUARDINI, Pascal, Brescia 1956, pp. 157 ss.; CH. JOURNET, Verità di Pascal Saggio sul valore apologetico dei "Pensieri", Alba 1960; M. F. SCIACCA, Pascal, Milano 1962, 3a ecl., pp. 186 ss. —
200
Parte seconda
Ricordiamo anzitutto che l'argomento della scommessa era già stato utilizzatodagli apologisti della prima metà del Seicento per provare l'immortalità dell'anima.“ Pascal è il primo a usarlo oltre che per l'immortalità dell'anima anche per l'esistenza di Dio, collegando così strettamente tra loro i due massimi problemi della metafisica, come avevano già fatto prima di lui S. Agostino e Cartesio. Per l'autore dei Pensieri l'esistenza di Dio infinitamente buono e l'immortalità dell'anima sono due aspetti della medesima problematica metafisica e religiosa, quale era accettata o rifiutata dai suoi contemporanei. ln secondo luogo, l'argomento della scommessa era perfettamente intonato con lo stile di una metafisica esistenziale e non semplicemente speculativa, che toccasse il cuore oltre che la mente, quale voleva essere quella di Pascal. Abbiamo già visto il giudizio sostanzialmente negativo di Pascal sulle tradizionali prove metafisiche della esistenza di Dio. Non sono
inefficaci e pertanto inutili,oltre che difficilie tante volte incomprensibili.Esse possono appagare l'intelletto di qualcuno,di ma lasciano indifferente il cuore dell’ateo. Possono provare l'esistenza un Assoluto, di un Infinito, cli un Principio primo, di una divinità impersonale, ma non di un Dio personale, Creatore e Provvidente. Nel frammento 229 Pascal afferma chiaramente che la natura cioè la scienza della natura che riguarda le cose secondo gli schemi della metafisica speculativa della pura ragione ci dà luce sufficiente per ripudiare l'ateismo, ma addensa anche tante nubi da non darci la certezza per riposare in pace nel possesso dell'idea di Dio.
prove false,
ma
-
-
e che mi turba. Guardo da tutte le parti e dapLa natura non mi offre nulla che non oscurità. che vedo pertutto sia materia di dubbio e di inquietudine. Se io non vi scorgessi nulla che denotasse una Divinità, mi determinerei alla negativa; se vedessi dappertutto gli indizi di un Creatore, riposerei in pace nella fede. Ma, poiché vedo troppo per negare e troppo poco per rassicurarmi, mi trovo in una condizione compassionevole, e nella quale cento volte ho desiderato che la natura, se c'è un Dio che la sostiene, ce ne desse indizio senza equivoco».37
«Ecco quel che io vedo non
Ancora più chiaro è
quanto si legge nel successivo frammento 230, nel
quale Yincomprensibilìtàè applicata non soltanto a Dio, ma anche ai problemi dell'immortalità dell’anima, della creazione, oltre che, ovviamente, ina quello del peccato originale. «Incomprensibileche Dio esista, e noi che non al sia unita l'anima che corpo, comprensibileche non esista; 36) Cf. ]. 37)
E. DANGERS, Ijapolagétique précurseurs, Paris 1954. lbid. 229.
cn
France de 1580 à 1670
-
Pascal et
ses
Pascal e In
rrzetafisica del "cuore”
201
abbiamo anima, che il mondo sia creato, che non 10 sia ecc., che il peccaoriginale sia, e che non esista affattom-‘S A questo giunge la metafisica della pura ragione: a un Dio neutrale e impersonale che lascia del tutto indifferente il negatore di Dio, l’ateo. Per stanare l’ateo dal suo fortilizio, da dove reclama prove ”scientifiche" della esistenza di Dio, la metafisica della pura ragione non basta; occorre la metafisica del "cuore”. Questa non presenta argomenti che rischiarano ulteriormente l'intelletto, ma un argomento che induce il cuore alla ”decisione”. L'argomento della scommessa ha precisamente questa funzione: indurre l'uomo alla decisione per Dio, accantonando per il momento sia gli argomenti del deista a favore di Dio sia gli argomenti dell’ateo contro Dio. La scommessa spezza la logica angusta della metafisica speculativa, e fornisce al cuore ragioni decisive per scommettere per Dio: per il Sommo Bene va pagato qualsiasi prezzo, ancorché la probabilità della sua esistenza fosse minima. La scommessa esige una scelta esistenziale, impegna la logica del cuore, e prepara l'incontro con Cristo oltre che con to
Dio. In terzo luogo, l'argomento della scommessa non va letto come un rifiuto delle prove metafisiche tradizionali,ma come un importante supplemento e una integrazione di quelle. Esso si affianca agli argomenti della ragione, di per sé severi ma non efficaci, per renderli oltre che veri anche efficaci. La metafisica speculativa è già un esodo da questo mondo e un primo ingresso nel territorio della verità, ma è ancora una verità molto incerta e insicura. Un passo ulteriore viene compiuto dalla metafisica del cuore con la sua scommessa: questa aiuta a dare l'assenso alle due verità fondamentali, delfesistenza di Dio e della immortalità dell'anima, verità di per sé accessibilianche ai filosofi, ma che per diventare efficaci e persuasive sul piano esistenziale richiedono la conversione del cuore.
Parlando dei metodi, abbiamo visto che
esprit de géonzetrie e esprit de alternativi ma complementari: come le forme di verità a finesse non sono ciascuno di essi corrispondenti, non solo non si contraddicono, ma sono compresenti nella pienezza concreta e assoluta dell'unica verità. La stessa Considerazione vale per le argomentazioni metafisiche della pura ragione e le argomentazioni metafisiche che toccano il cuore e il sentimento. Uantropologia della grandezza e della miseria e, analogamente, la metafisica della ragione e del cuore non sono vedute opposte e antinomiche, ma due aspetti essenziali della stessa realtà. Tutte e due sono valide e sul piano della verità la grandezza dell'uomo e la ragione possono vantare un primato, ma sul piano spirituale e dell'autenticità dell'incontro con un Dio personale, nella condizione attuale dell'umanità, 33)
Ibid. 230.
Parte seconda
202
risulta più efficace la consapevolezza della nostra miseria, e conta di più il cuore e la sua conversione. E questo è il punto decisivo: la conversione del cuore. Il grande balzo, la svolta decisiva non è la scoperta dell'esistenza di Dio ma la conversione: la scommessa che vale la pena di rinunciare a tutti i beni di questo mondo per affidarsi e impegnarsi esclusivamente per l'unico vero Bene, Dio. Ma a questo punto affiora un serio interrogativo: È proprio vero che una volta che l'uomo vede che è più vantaggioso scommettere su Dio, ha anche la volontà e il coraggio di fare questa grossissima scommessa? O anche i sottili ragionamenti pascaliani sulla probabilità del bene infinito che per molta gente non sono meno astrusi delle prove metafisiche dell'esistenza di Dio continuano a lasciare l'uomo prigioniero delle sue incertezze, perplessità, dubbi, indecisioni? Ci sarà sempre chi dirà: ”megli0 un uovo oggi che una gallina domani". Se la miseria dell'uomo è davvero così grande come la dipinge Pascal, essa continuerà a ottenebrare la mente e a corrompere il cuore anche dopo il macchinoso calcolo delle probabilità e, perciò, gli impedirà di decidersi seriamente per Dio. La logica della miseria non può essere sopraffatta ne’ dalle ragioni della mente né da quelle del cuore. L'ultimo passo verso Dio è un passo che l'uomo non può compiere con i soli strumenti dellkrsprit de finesse oppure dell'esprz't de geometrie. La condizionedella miseria, che è quella in cui tutta l'umanità è piombata dopo il peccato di Adamo, impedisce sia al cuore sia alla ragione di scommettere seriamente su Dio. Questa è certamente la posizione di Pascal. La dicotomia di fondo che attraversa tutta la sua antropologia non ‘e tra ia ragione e il cuore, bensì tra il peccato e la grazia, tra l'amore di sé e l'amore di Dio. L'uomo decaduto può certamente conoscere Dio, ma rifiuta di amarlo con tutto il suo cuore, mentre si attacca con cupidigia alle creature. «Dunque tutto ciò che ci spinge ad attaccarci alle creature è male, perché ci impedisce di servire Dio, se lo conosciamo, o di cercarlo se non lo conosciamo. Ora noi siamo pieni di concupiscenza; dunque siamo pieni di male, dunque dobbiamo odiare noi stessi e tutto ciò che ci spinge ad attaccarci ad altro -
-
che a Dio>>.39
Secondo Pascal la metafisica dei filosofi, per quanto volenterosa, rimane sempre una metafisica sostanzialmente alienata e alienante. Essa non riesce neppure a convincere l'uomo di trovarsi in una condizione di perdizione. La metafisica dei filosofi può indubbiamente lasciarsi alle spalle questo mondo e intraprendere la seconda navigazione, ma è destinata a incagliarsi su qualche scoglio e quindi al fallimento.
39)
Ibia’. 479.
Pascal e la metafisica del "cu0re”
203
Nella sua severa pars destruens a cui è dedicata tutta la Prima parte dei Pensieri -, Pascal fa vedere che i filosofi sono impotenti a chiarire veramente il mistero dell'uomo. Gli stoici hanno optato per la grandezza e sono Caduti nellbrgoglio; gli scettici per la miseria e sono caduti in unîndifferenza riprovevole. «Tutti i vostri lumi possono arrivare a conoscere che non in voi troverete la verità e il bene. I filosofi ve l'hanno promesso e non l'hanno potuto fare. Essi non conoscono né quale sia il vero bene, né quale il vostro vero stato. Come avrebbero dato rimedi ai vostri mali, che essi non hanno neppure conosciuti? Le vostre malattie principali sono l'orgoglio che vi sottrae a Dio, la concupiscenza che vi attacca alla terra; ed essi non hanno fatto altro se non conservare almeno una di queste due malattie. Se vi hanno dato Dio per oggetto, è stato per alimentare la vostra superbia; vi hanno fatto pensare che siete simili e conformi a lui per vostra natura. E quelli che hanno visto la vanità di questa pretesa vi hanno gettato nell'altro precipizio, facendoviintendere che la vostra natura è simile a quella delle bestie, e vi hanno portato a cercare il vostro bene nelle concupiscenze che sono retaggio degli animali. Non è questo il mezzo per farvi guarire dalle vostre ingiustizie, che questi saggi non hanno affatto conosciuto» (430). Ciò che non è possibile ai filosofi non lo è nemmeno alle grandi religioni dell'umanità. Pascal interroga uno per uno, brevemente, Yislamismo, il buddhismo, la religione pagana. Ma invano. Per quanto si esaminino tutte le religioni del mondo, conclude Pascal, non ce n'è alcuna che porti una risposta davvero decisiva al mistero dell'uomo e del suo destino. «Si considerino a questo riguardo tutte le religioni del mondo e si veda se ce n'è un'altra, oltre a quella cristiana, che ci soddisfi (...). Quale religione, dunque, ci insegnerà a guarire l'orgoglio e la concupiscenza? quale religione finalmente ci mostrerà il nostro bene, i nostri doveri, le debolezze che da esso ci distolgono, la causa di queste debolezze, i rimedi che le possono guarire e i mezzi per ottenere questi rimedi? Tutte le -
religioni non l'hanno potuto» (ibid.).
La soluzione cristiana dell'enigma umano La soluzione definitiva e completa dellenigma umano viene da Gesù Cristo: «In Gesù Cristo tutte le soluzioni si accordano» (688). Egli è il punto di riconciliazionedi tutti i nostri paradossi, di tutte le nostre antinomie. Per Pascal, Cristo è il centro di tutto, la ragione e il senso di tutto, dell’uomo e di Dio (cf. 673). Di conseguenza la verità dell’uomo si trova solo in lui. Solo Cristo chiarisce il paradosso della grandezza-miseria dell'uomo. Da una parte infatti, «l'incarnazione mostra all'uomo la grandezza della sua miseria con la grandezza del rimedio che ci è volu-
Parte seconda
204
to»
(526); dall'altra, la croce rivela la grandezza dell'anima umana, chiadalla misericordia a condividere ia stessa vita divina (Mermorialc).
mata
«La conoscenza di Dio senza quella della propria miseria inorgoglisce. La conoscenza della propria miseria senza quella di Dio genera la disperazione. La conoscenza di Gesù Cristo realizza il giusto mezzo, perché vi troviamo Dio e la nostra miseria» (527). «Non conosciamo Dio che per
Gesù Cristo. Senza questo Mediatore, è abolita ogni comunicazione con Dio; per Gesù Cristo conosciamo Dio. Tutti coloro che hanno preteso conoscere
Dio
e
provarlo senza
Gesù Cristo
non
possedevano che
prove
impotenti» (547). «Senza Gesù Cristo l'uomo è necessariamente nel vizio
nella miseria; con Gesù Cristo è esente da vizio e da miseria. In lui la nostra virtù e la nostra felicità. Fuori di lui non v'è che vizio, miseria, errore, tenebre, morte, disperazione» (546). «Non solo conosciamo Dio solo in Gesù Cristo, ma conosciamo noi stessi solo in Gesù Cristo. Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo né che cos'è la vita, né la morte, né Dio, né noi stessi» (548). Utilizzandola figura paolina e agostiniana del nzeditrtorv, Pascal sottolinea la duplice mediazione svolta da Cristo nei confronti dell'umanità. Egli è mediatore sul piano oggettivo, poiché rivela all'uomo l'immagine del Dio vivente e l'immagine dell'uomo secondo Dio; e inoltre mediatore sul piano soggettivo, poiché dà all'uomo, che si apre a Dio, il solido punto d'appoggio della sua esistenza; gli conferisce l'atteggiamento amante e filialeche lo salva. Cristo è Veramente la totalità del senso dell'uomo: egli decifra e salva. È luce e rimedio, Verità e Vita. L'uomo non si scopre e non si realizza né nella figura del saggio, né in quella dell'eroe, ma in Gesù Cristo crocifisso. In lui il peccato è assunto ma e anche espiato e superato nell'amore; la nostra colpa è riconosciuta, perdonata e superata dalla grazia. Per Pascal esiste quindi una sola spiegazione dell'uomo: quella della fede cristiana. Ma la bontà della soluzione cristiana dellenigma umano oltre che dalla perfetta rispondenza tra la soluzione e l'enigma stesso trova ulteriori conferme in tutta una serie di solidi indizi: le profezie, i miracoli, lo sviluppo prodigioso e pacifico del cristianesimo ecc. «Preferisco seguire Gesù Cristo, che qualsiasi altro, perclfegli ha miracoli, profezie, dottrina, perpetuità ecc.» (822). «Gesù Cristo prima, e dopo gli apostoli e i primi santi hanno fatto miracoli e in gran numero, perché non essendo le profezie ancora compiute, e adempiendosi anzi, per loro mezzo, nessuna testimonianza poteva esservi tranne i miracoli (...). Le profezie adempiute sono un miracolo permanente» (638). Tratti caratteristici della vera religione sono: «perpetuità, santità di costumi, miracoli» (844). Gli eretici hanno sempre combattuto questi contrassegni perché non li posseggono. e
tutta
-
—
Pascal e la
Conversione del
cuore e
metafisica del ”cu0re"
205
follia della croce
Ma Pascal è perfettamente consapevole che tutte le belle argomentazioni da lui ingegnosamente costruite nella sua apologetica del cristianesimo non bastano a indurre il libertino ad abbracciare Cristo. Per questo occorre anche e soprattutto la conversione del cuore; occorre la follia della croce. La ragione può condurre alla conoscenza, ma è incapace di condurre all'amore. «Quanta distanza tra il conoscere Dio e Pamarlo!» (280), esclama Pascal. «È il cuore che sente Dio, non la ragione. Ecco cos'è la fede: Dio sensibileal cuore, non alla ragione» (278). <
pascaliana procede
coestruttura argomentativa l’apologetica rentemente dal basso: dallenigma umano al faro luminoso di Cristo; daltutta dall'all’intelligenza verso l'amore; Yefficaciasoteriologica
nella
sua
procede
to. «Vi dichiariamo che niente di tutto ciò (miracoli, profezie ecc.) può trasformarci e renderci capaci di amare e conoscere Dio fuorché la virtù e la follia della croce, senza sapienza né segni; non mai i segni senza questa virtù. Così la nostra religione è folle se si guarda alla sua causa effettiva, savia se si guarda alla sapienza che prepara ad essa» (587). «La nostra religione è savia e folle. Savia perché è la più sapiente e la meglio fondata in miracoli e profezie ecc. Folle perché non sono affatto tutte queste cose che fan sì che si sia cristiani. Esse valgono a far condannare quelli che ne restano al di fuori, ma non a far credere quelli che vi sono dentro. Ciò che fa credere è la croce, ne {macuata sii crux (I Cor 1, 17). E infatti S. Paolo, che pur era in saggezza e in segni, dice di non essere venuto né in saggezza né in segni: perché veniva per convertire» (588). L'itinerario apologetico pascaliano è quello dellirttellige ut credas che alla fine si coniuga con il crede ut irttelligas; in effetti soltanto il credere rende efficace Vin telligere. In tutto questo Pascal è profondamente agostiniano. La sua sintonia spirituale e intellettuale con Agostino lo portò a schierarsi apertamente con gli agostiniani del suo tempo, i giansenisti, anche se il loro agostinismo tradiva su alcuni punti importanti il Dottore di lppona.
Conclusione La metafisica di Pascal è una metafisica cristiana molto diversa dalla grande metafisica cristiana del medioevo, sempre basata non solo in Anselmo e S. Tommaso, ma anche in Agostino, Bonaventura e Scoto sull’arm0nia tra fede e ragione consistente in una felice sintesi tra Verità -
—
206
Parte seconda
mutuate della metafisica classica
(di Platone o di Aristotele) e verità attinte dal cristianesimo. Quella di Pascal è una metafisica basata piuttosto sul conflitto e l’antinomia tra fede e ragione, sulla critica dei filosofi e delle loro teorie e sulla rivendicazione dell'assoluta singolarità ed esclusività della verità cristiana. «Dio d'Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, e non dei filosofi e dei sapienti. Dio di Cristo», avrebbe scritto Pascal nel suo famoso Memoriale. Questa dichiarazione viene ripresa e ribadita anche in uno dei frammenti più belli dei Pensieri: «Il Dio dei cristiani
non
consiste solamente in
un
Dio
semplicemente
geometriche e dell'ordine degli elementi; questa è la posizione dei pagani o degli epicurei. Non consiste solo in un Dio che esercita la sua provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini, per donare una felice serie di anni a quelli che lo adorano. Ma il Dio di autore delle verità
Abramo, d’Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio d'adi consolazione, è un Dio che riempie l'anima e il cuore di
more e
quelli che egli possiede, è un Dio che fa sentire loro interiormente la
loro miseria e la sua misericordia infinita; che compenetra la loro anima; che la riempie di umiltà, di gioia, di confidenza, d'amore, che li rende incapaci di altro fine che non sia lui medesimo» (556).
La metafisica cristiana medievale era basata sull'idea della sostanziale integrità della natura umana anche dopo il peccato originale, una natura che la grazia non distrugge ma perfeziona. Invece la metafisica di Pascal si basa su una concezione fortemente negativa della natura umana, che egli considera profondamente e irreparabilmente corrotta dalla miseria del peccato. «A Pascal mancò il senso creatumle: visse così intensamente la negatività del peccato da non poter vivere altrettanto intensamente la positività della creazione. Il Dio-Padre, che crea per amore ed è provvidenza, è offuscato dal Dio-Figlio, che è crocifisso per gli uomini. Quella che possiamo chiamare la sua antropologia teologica è incentrata tutta sulla follia del peccato e sulla follia della croce; manca quasi del tutto una corrispondente antropologia che abbia come centro l'altro aspetto delle possibilità della libertà umana e dell'opera dell'uomo nel mondo, anche ai fini della sua salvezza. Non è Agostino, ma agostinismo unilaterale e manchevole, che va subito e sempre corretto» fio Tutta la metafisica di Pascal è essenzialmente una metafisica della indigenza e della miseria, che fa intuire la grandezza dell'uomo, ma allo stesso tempo rende palese la necessità della redenzione e della grazia di Cristo, per consentire all'uomo di diventare effettivamente grande. «Tutto quello che ci importa conoscere è che siamo miserabili, corrotti, separati da Dio; ma riscattati da Gesù Cristo; e di ciò abbiamo prove mirabilisulla terra» (560).
4°)
M. F. SCIACCA, Pascal, cit., pp. 218.
Pascal c la
metafisica del
”cuore”
207
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di
Brunschvicg, Boutroux c Gazier,
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LEIBNIZ E LA METAFISICA DELLA MONADE
Vita e opere Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia il 1 luglio 1646. Suo padre giureconsulto e professore di morale all'università di Lipsia. Leibniz fece i primi studi sotto la sua guida. La sua materia preferita era la filosofia: leggeva con lo stesso entusiasmo gli Antichi (Platone e Aristotele) e i Moderni (Bacone, Campanella, Hobbes, Locke, Galileo e Cartesio). A 16 anni fece l'ingresso alla università di Lipsia dove continuò gli studi filosofici. Poi passò all'università di Iena, dove si diede con preferenza alla matematica; gli Venne l'idea di applicare il metodo matematico alla filosofia e a tale fine scrisse la Dissertatio de arte combinatoria (il suo "Discorso sul metodo"). Nel 1666 si laureò in legge secondo i desideri del padre. Per qualche anno continuò gli studi giuridici e scrisse opere di morale e diritto. Col 1672 inizia per Leibniz un periodo di viaggi. Prima va a Parigi dove, dopo il fallito tentativo di indurre Luigi XIV a intraprendere una crociata contro i Turchi, riprende lo studio della matematica, in cui diviene uno degli studiosi più celebri del tempo‘ Scopre il calcolo differenziale e il regolo calcolatore. In questo tempo si incontra con Bossuet col quale entra in trattative per la riunione delle Chiese protestanti con quella cattolica. Leibniz non tardò ad accorgersi dellînattuabilitàdella riunione e tuttavia continuò a lavorare per appianare le diversità tra le varie confessioni cristiane fino alla morte. Nel 1676 torna in Hannover ove, come bibliotecario e consigliere del duca Gianni Federico, gode grande stima e influenza. In questo periodo disegna e realizza le sue grandi opere filosofiche. Scrive il Discorso di metafisica (1686) e la Monadolotgia (1714). La fine di Leibniz fu tuttavia solitaria e triste. Nel 1714, morta la principessa Sofia, elettrice di Hannover, il grande filosofo si vide abbandonato. Morì due anni dopo e fu sepolto senza accompagnamentofunebre. Fra le opere scientifiche ricordiamo i suoi scritti sul calcolo infinitesimale: Nova methodus pro ntaxirnis et minimis e De Geometria TECOHdÎÉLI et anali/si" irtdivisibiliumutque infinitorum, pubblicati nel 1684 e nel 1686, che diedero luogo alla polemica con Newton. Il Newton infatti nei suoi Philosophiae naturalis principia mathematica,pubblicati nel 1687, enunciava gli era
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stessi concetti del Leibniz sul calcolo infinitesimale, ma li aveva già esposti molti anni prima in alcune lettere. Il giudizio più sereno dei posteri ha assodato che ognuno dei due pensatori era giunto indipendentemente dall'altro alla medesima scoperta. Fra le opere filosofiche, che sono numerosissime, e tra le quali hanno grande importanza le lettere, ricordiamo il Discorso di Metafisica (1686), il Nuovo sistema sulla natura e la comunicazione delle sostanze (1695), i Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione e la Monadologia, scritta nel 1714, ma pubblicata postuma nel 1721. Le opere che abbiamo ora citate, tutte brevi, hanno in comune il carattere di sistematicità; anzi, ognuna riassume gli elementi fondamentali della filosofia leibniziana. Le opere filosofiche di più grande mole: I Nuovi saggi sullfinteiletto zmiano, scritti nel 1704, ma non pubblicati da Leibniz, e i Saggi di Teodicea (1710) sono scritti di occasione e polemici: il primo è una discussione del Saggio sullîntelletto anrano di G. Locke, il secondo è una polemica con P.
Bayle.
Il programma metafisico leibniziano Leibniz è l'ultimo grande esponente della corrente razionalista, nonché il padre della filosofia tedesca, che con lui maturo rapidamente e in breve tempo superò di gran lunga la filosofia di tutti gli altri paesi dell'Europa e del mondo. Scienziato insigne, al quale si devono alcune importanti scoperte come il calcolo infinitesimale, e filosofo geniale, partendo da Aristotele, Leibniz ha cercato di rinnovare la metafisica nei due rami fondamentali della cosmologia (filosofia della natura) e della teologia naturale, facendo un'opera di mediazione tra il monismo di Spinoza e il pluralismo dualistico di Cartesio. In cosmologia con la dottrina sulla monade egli pone alla base del mondo materiale un principio spirituale altamente dinamico, dotato di coscienza e di volontà. Nella teologia naturale, grazie al suo innato ottimismo, egli sostiene che questo è il migliore dei mondi possibili. Leibniz non ha elaborato un sistema completo di metafisica; tuttavia egli «è uno dei più profondi metafisici di tutti i tempi e ha preso posizione per la metafisica come scienza deduttiva, come essa stava davanti agli occhi dei suoi contemporanei secondo la tradizionew «Una qualità caratteristica di Leibniz rispetto a molti pensatori del suo tempo è che egli intende pensare ancora ontologicamente, secondo il modo della
1)
P. PETERSEN, Geschichte dar aristoteliscîien
Deutscizland, Leìpzig 1921, p. 377.
Philosophie in: protestantiscizcn
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Parte seconda
scuola antica. Nel secolo XVIII possono farlo ancora solamente Wolff e una parte dei wolffiani; nel secolo XIX non può farlo più nessuno: allora tutta la riflessione teoretica diventò gnoseologia»? Come Pascal anche Leibniz pone una netta distinzione tra scienza e metafisica, e come Pascal egli si ispira spesso ad Agostino, ma diversamente da Pascal che aveva un'idea pessimistica e tragica dell'uomo e del mondo, Leibniz ha un'idea sostanzialmente positiva e ottimisticafi
Egli non conosce nessun insanabilecontrasto tra fede e ragione; concepila fede soltanto come l'ultimo stadio di una ragione totalmente
sce
informata, che si muove spontaneamente verso Dio, senza che interven-
richiamo dall'alto al quale l'amore dell'uomo debba umilmente aprirsi. Leibniz ha piena fiducia nella ragione, che ha in sé le idee innate dei principi primi e delle verità fondamentali e se ne avvale per costruire un sistema metafisico in cui ogni cosa funziona egregiamente secondo le leggi immutabilidi un'armonia prestabilita da Dio. All'epoca in cui Leibniz formò la sua cultura, la filosofia che si insegnava nelle università, specialmente in quelle tedesche, era quella scolastica. Più precisamente quella che Giacòn chiama la "seconda scolastica", che come sappiamo aveva ricevuto la sua elaborazione ufficiale per mano di F. Suarez. Egli poi lesse anche gli scolastici medievali (dei quali del resto trovava riferite le opinioni anche dal Suarez), e opere di Platone e di Aristotele, che trovava nella biblioteca paterna. Il primo scritto filosofico di Leibniz, la tesi per il baccalaureatosostenuta davanti alla Facoltà di filosofia dell'università di Lipsia nel 1663, tratta di un argomento tipicamente scolastico: il principio di individuazione, ed è intitolato Disputatio metaphysica de principio individui. Ma se la filosofia scolastica era quella insegnata nelle università, non si può dire che essa dominasse la cultura del secolo XVII, la quale della scolastica avversava sia il metodo sia l'applicazione che questa faceva dei principi della metafisica allo studio della natura. Galilei, Bacone e Cartesio avevano rimpiazzato il metodo sillogistico deduttivo degli scolastici con il metodo sperimentale della osservazione e della induzione e avevano introdotto una nuova scienza della natura, basata esclusivamente sugli aspetti quantitativi e calcolabili delle cose, distaccandola dalla metafisica della sostanza e delle forme sostanziali. Leibniz, dopo aver studiato la filosofia scolastica, conobbe la nuova scienza della natura e abbracciò per un certo periodo anche la concezione filosofica che ne era il presupposto teoretico, cioè il meccanicismo, ma poi ne vide l'insufficienza e comprese la necessità di una sintesi che ‘tenesse conto delle verità messe in luce dai moderni e di quelle contenuga
2) 3)
un
HARTMANN, Leibniz als Metaphysiker, Berlin 1946, p. 13. Cf. J. CUl'I"I‘()l\', Pascal et Leibniz, Paris 1951.
N.
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te nella filosofia aristotelica. Fatte queste premesse, e ricordando che presso alcuni moderni il meccanicismo prendeva la forma di atomismo, potremo capire meglio il significato dei seguenti passi leibniziani:
«Ero
penetrato ben avanti nel paese degli Scolastici, quando le mate-
gli autori moderni me ne fecero uscire ch'era ancora molto loro bei modi di spiegare la natura meccanicamente mi affascinarono e disprezzai con ragione il metodo di quelli che ricorrono solo alle forme o facoltà dalle quali non si impara nulla. Ma poi, avendo cercato di approfondire i principi stessi della meccanica, per rendere ragione delle leggi di natura che l'esperienza ci fa conoscere, mi accorsi che la sola considerazione di una massa estesa non era sufficiente e che bisognava usare anche la nozione di forza, che è perfettamente intelligibilebenché appartenga alla metafisicam matiche e
giovane. l
E altrove: «So che metto innanzi un gran paradosso quando pretendo di riabiliqualche modo la filosofia antica e di reintegrare nei loro diritti le forme sostanziali che sono state quasi bandite, ma forse non mi si condannerà così alla leggera, quando si saprà che ho molto meditato sulla filosofia moderna, che ho dedicato molto tempo alle esperienze della fisica e alle dimostrazioni della geometria, che per lungo tempo sono stato persuaso della vanità di questi esseri e che sono stato infine obbligato a riammetterli contro mia voglia e quasi per forza, dopo aver fatto io stesso delle ricerche, le quali mi hanno indotto a riconoscere che i nostri moderni non rendono giustizia a S. Tommaso e ad altri grandi uomini di quel tempo e che vi è nelle opinioni dei filosofi e teologi scolastici molta più solidità di quel che si pensi».5 tare in
Ma che cosa cercava e trovava Leibniz nelle ”forme sostanziali”? Il principio che dà unità all'essere e il principio intrinseco di attività. Ora, Patomismo non salvaguardava il principio di unità; mentre il meccanicismo non dava conto del principio di attività. Scrive ancora Leibniz a
questo proposito:
«Da principio, quando mi fui liberato dal giogo di Aristotele, mi incontrai col Vuoto e con gli atomi, poiché sono le cose che più soddisfano Yimmaginazione. Ma, essendone uscito, dopo molte meditazioni, mi accorsi che è impossibile trovare i principi cli una vera unità nella materia sola o in ciò che e solo passivo, poiché in essa tutto è collezione o ammasso di parti all'infinito. Ora, poiché la moltitudine non trae la sua realtà se non dalle vere unità che vengono da altra
4)
5)
Système, in C. GERHARDT, Die philosophische Schrifterz von C. W. Leibniz in avanti indicheremo questa edizione con la dicitura "Gerhardtfi, vol. IV, p. 478. Cf. Discours de Métaphysique, ediz. Gerhardt, IV, p. 435. NOHÎJELZL!
(da qui
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è evidente che il continuo non può essere composto. Sicché per trovare queste unità reali fui costretto a ricorrere a un punto reale e per così dire animato, o a un atomo di sostanza che deve includere in sé qualche cosa di formale e di attivo per costituire un essere completo. Conclusi dunque che la loro natura consiste nella forza, e che da
parte,
di analogo alla sensazione, alla tendenza, sicché bisognava concepire le forze a somiglianza della nozione che abbiamo delle anime. Aristotele le chiama ‘Qantelechie prima"; io le
questa segue qualche chiamereiforze,
cosa
più intelligibilmente,forze prfiîliffîfflm“
Questo principio di unità e di attività è quello che più tardi Leibniz chiamerà HIOTHÌdE. La monade sarà infatti definita da Leibniz come una
semplice, senza parti e capace di azione. Leibniz, pero, non ha studiato invano i moderni "riformatori"? Dopo averli analizzati attentamente, non può più ritornare alla posizione aristotelica pura e semplice, ma giunge a una sintesi geniale tra il finalismo tradizionalee la nuova concezione della natura. Del primo egli accetta la tesi che è necessario risalire a un principio immanente di attività (forma, entelechia, monade) se si vuole trovare la ragione HÎÌÎTÌIII dei fatti naturali, e fare una filosofia della natura; della concezione moderna egli accetta l'affermazione che se si vuole conoscere come si svolga l'attività delle cose, se si vuole una conoscenza specifica della natura bisogna limitarsi a considerare solo gli aspetti quantitativi, misurabili,calcolabili,matematizzabili(grandezza, forma, numero), ossia estensione e moto locale. Ecco come si esprime Leibniz: «Chi potrebbe negare la forma sostanziale, ossia ciò per cui la sostanza di un corpo differisce da quella di un altro? Questo solo è in questione: se ciò che Aristotele ha detto in generale sulla materia, la forma, la mutazione si debba spiegare in particolare con grandezza,
sostanza
forma e moto (...). Sono d'accordo che la considerazione di queste forme sostanziali non serve a nulla nelle dottrine particolari della fisica e non deve essere usata per spiegare i fenomeni in particolare. E in questo hanno sbagliato gli scolastici e i medici dei tempi passati che ne seguivano l'esempio, credendo di spiegare le proprietà dei corpi col ricorrere a forme e qualità, senza preoccuparsi di esaminare il modo dell'operazione, come se uno si accontentasse di dire che l'orosenza logio ha la proprietà orodittica che proviene dalla sua forma, cattivo uso Ma tale consista che cosa considerare in questo qualità... delle forme non deve farci negare una cosa la cui conoscenza è così necessaria in metafisica, che senza di essa non si potrebbero conoscere i principi costitutivi della realtà, né elevare lo spirito alla conoscenza delle nature incorporee e delle meraviglie di Dio>>.==‘
5) Nouveau Sysfème, cit., pp. 478-479. 7) Cf. Discours de Métaphysiqitc, cit., pp. 445-446. 8) zbid, pp. 434-435‘
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metafisica della monade
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Ma nel programma metafisico di Leibniz c'è molto di più della creazione di una filosofia della natura che sa accogliere le istanze dei moderni mantenendo saldi i principi metafisici degli antichi. La sua preoccupazione fondamentale è salvare dall’idra dell'unica sostanza di Spinoza, la dignità e l'autonomia degli individui. Nelle sue celebri Lezioni sulla storia della filosofiaHegel dichiara che ciò che c'è di grande in Leibniz è il principio di individualità. Secondo l-I. Heimsoeth, «la dottrina leibniziana della monade offre il sistema classico dell’individualismo».°In effetti ciò che c'è di singolare nella metafisica della monade è l'affermazione del valore assoluto dell'individuo e la sua assoluta priorità rispetto a qualsiasi principio universale, si chiami Uno, Intelletto, Bene, Sostanza, Volontà, Essere. Per Leibniz, che su questo punto si rifà ad Occam, l'universale è sempre un'astrazione e mai una realtà; questa è sempre individuale, particolare, singola. L'individuo non può sorgere dall’universale né mediante aggiunte né mediante negazioni. «Ciascun individuo è individuato da tutta la sua entità». L'individuo non è una evanescente manifestazione dell’universale, ma ciò che c'è di più reale nell'universo. E il mondo è meraviglioso non perché è un'unica sostanza, ma perché è l'insieme armonioso di infiniti individui o monadi, ciascuna delle quali rispecchia in sé tutti gli altri individui o monadi. Secondo la concezione di Leibniz, il polo opposto della vera filosofia è rappresentato dal ”monopsichismo” degli averroisti, dove una sola anima universale, come un oceano spirituale, inghiotte le anime singole. Al monopsichismo di Averroè e al monismo usiologico di Spinoza Leibniz contrappone il suo individualismo pluralistico che presenta la realtà come costituita di un numero infinito di sostanze tutte viventi, conoscenti e attive. Siamo davvero agli antipodi dei sistemi monistici. Qui c'è la consacrazione di un pluralismo oceanico. Il mondo leibniziano si espande verso una infinità di galassie, e ogni individuo (monade) è già per conto suo una galassia. L'universo è come un'orchestra enorme in cui ogni suonatore esegue perfettamente la sua parte, in sintonia con tutti gli altri. Punto di partenza della metafisica leibniziana è la dottrina aristotelica della sostanza, a cui pero Leibniz apporta modifiche profonde, abbandonando alcuni principi fondamentali della metafisica dello Stagirita. Infatti la monade leibniziana non ‘e solo un principio di unità e di attività, come lmentelechia” aristotelica, ma è un ”tutto". L’entelechia aristotelica è principio determinatore della materia; la monade leibniziana non ha una materia da determinare, e ciò perché Leibniz ritiene inintelligibilii caratteri della materia aristotelica: molteplicità e potenzialità. La molteplicità deve ridursi all'unità, secondo Leibniz: la molteplicità non può essere concepita se non come una somma di unità, e la potenza
9)
H. HEIMSOETH, I grandi temi della
metafisica occidentale, Milano 1973, p. 212.
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deve ridursi a un’attualità non ancora manifesta. I primi
paragrafi della Monadologia affermano la riduzione dall’esteso al semplice, dal molteplice all’uno, e ogni volta che Leibniz si troverà di fronte al concetto di potenza lo scarterà come inintelligibile. «Le facoltà senza qualche atto, in una parola, le pure potenze della Scuola non sono altro che funzioni
che la natura non conosce e che si ottengono solo a forza di astrazioni. Infatti dove si troverà mai al mondo una facoltà che sia pura potenza e
eserciti anche qualche atto? C'è sempre una disposizione particolare all'azione e a un'azione piuttosto che un'altra. E oltre alla disposizione c'è una tendenza all’azione, anzi un'infinità di tali tendenze in ogni soggetto e queste tendenze non sono mai senza qualche effetto».10 La negazione della realtà della potenza porta Leibniz ad affermare che ogni sostanza ha in sé fin da principio tutta l'attività di cui è capace, anzi è addirittura la sua attività. Si capisce allora perché le monadi siano isolate, senza comunicazione tra loro, senza porte né finestre come dice Leibniz. Non hanno bisogno di comunicare fra loro, perché ognuna porta già in sé tutto quello di cui è capace per essere specchio dell'universo. Al suo programma metafisico Leibniz ha dato perfetta esecuzione nella Monadologia. L'opera, che non è un monumentale trattato bensì un breve saggio, è una splendida sintesi di tutto il pensiero filosofico leibniziano. Lo scritto si compone di cinque parti, così distribuite: Parte Prima: la sostanza, Parte Seconda: la conoscenza, non
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Parte Terza: Dio, Parte Quarta: la struttura dell'universo, Parte Quinta: la Società degli spiriti. Qui noi ci permettiamo di modificare leggermente l'ordine della Monadologia, dando la precedenza alla dottrina della conoscenza, poiché questa, come sappiamo, è un prologo indispensabiledi ogni metafisica. Per le altre parti, poi, terremo conto anche degli sviluppi che Leibniz ha dato al suo pensiero in altre opere. -
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Dottrina della conoscenza Le dottrine che caratterizzanola gnoseologia leibniziana sono due: le idee innate e il principio di ragion sufficiente. Come sappiamo, quella delle idee innate è una teoria che risale ad Agostino e che tra i moderni era stata ripresa da Cartesio e Malebranche, ma che aveva suscitato oltre che le antiche riserve e critiche di S. Tommaso, anche quelle recenti di Locke, che se ne era occupato espres-
1°) Nuovi saggi II, cap. 1, 2.
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famoso Saggio sullfintelletto umano. Su questo punto capitale Leibniz interviene in vari scritti e, specialmente, oltre che nella Seconda Parte della Movmdologia, nei Nuovi saggi sullîntelletto umano. Giustamente, anzitutto, Leibniz si preoccupa di respingere la critica lockiana alle idee innate. L'errore di Locke, a parere di Leibniz, sta nel concepire le idee innate come idee già completamente sviluppate e quindi come idee chiare e distinte. Invece, ribatte Leibniz, le idee innate non sono chiare e distinte, cioè idee di cui siamo pienamente consapevoli; sono piuttosto confuse e oscure, piccole percezioni, idee in germe; sono simili alle venature che in un blocco di marmo delineino, per es., la figura di Ercole, sicché sono sufficienti pochi colpi di martello per togliere il marmo superfluo e fare apparire la statua. L'esperienza compie appunto la funzione di martello per togliere il marmo superfluo: rende attuali, cioè pienamente chiare e distinte le idee che nell'anima erano solamente
samente nel
suo
germi.
Quali sono le idee innate? Sono i primi principi (di identità, di non contraddizione, di ragion sufficiente): quei principi che non potrebbero
derivare dall'esperienza perché sono dotati di una evidenza e di una necessità che le conoscenze empiriche non possono avere. Leibniz divide le conoscenze della ragione umana in due grandi gruppi: quelle che fanno capo al principio di non contraddizione e quelle che fanno capo al principio di ragion sufficiente. Le prime sono le Verità di ragione (necessarie); le seconde sono le verità di fatto (contingenti); le prime riguardano la logica, le seconde la metafisica. Il principio di ragion sufiicicnte è quello in forza del quale «riteniamo che nessun fatto potrebbe essere vero o reale, nessuna proposizione vera, senza che vi sia una ragion sufficiente perché sia così e non altrimenti. Per quanto siffatte ragioni il più delle volte non possono venire conosciutem“ E secondo la formulazione dei Principi della natura e della grazia: «Nulla accade senza che sia possibile, per chi conosce perfettamente le cose, di dare una ragione sufficiente a determinare perché è così e non altrimentimìî È certo, per es., che ogni sostanza è la ragion d'essere delle sue qualità, ma noi non possiamo penetrare a fondo la natura delle cose e leggere in esse tutti i loro attributi: alcuni li troviamo lì, nell'esperienza, senza vederli sgorgare, per dir così, da una natura; sappiamo però che da una natura debbono sgorgare, pur senza sapere da quale. Il principio di ragion sufficiente è una delle grandi scoperte di Leibniz. Questo principio gli consente di dare un sicuro fondamento alla intelligibilitàdelle cose, non tanto delle essenze, la cui intelligibilitàè ovvia in quanto corrisponde alla loro stessa definizione, ma dei fatti, delle esi-
11) Monadologia, n. 32. 12) Principes de la natura et de la gnîce, 7, ed. Gerhardt, VI, p. 602.
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Parte seconda
stenze. ne
Infatti, poiché nelle cose create l'esistenza non ha una connessiol'essenza, l'uomo non può conoscere 0 provare a prio-
necessaria con
(cioè appellandosi alla definizione dell'essenza delle cose) le verità di non privare completamente l'intelligenza umana di una Vera conoscenza di tali verità, Leibniz ricorre al principio di ragion sufficiente, il quale assicura che vi e senz'altro una ragione per tutto ciò che accade, anche se non la vediamo. Come precisa lo stesso Leibniz, il principio di ragion sufficiente è un principio direttivo e non uno costitutivo del conoscere: esso non produce nessuna conoscenza specifica di questa o quella cosa, ma garantendo la razionalità del reale, invita a studiarlo e promette al ricercatore che la sua fatica non sarà vana. Kant e altri filori
fatto. Per
sofi identificheranno il principio di ragion sufficiente con il principio di causalità. In realtà in Leibniz questo principio ha una portata maggiore, e non interessa soltanto la fisica e la metafisica ma anche la logica e la matematica. Come vedremo più avanti Leibniz metterà a buon frutto il principio di ragion sufficiente per risolvere l'arduo problema dell'origine delle cose da Dio. Con questo principio egli si apre un varco tra il cieco necessitarismo di Spinoza e Valtrettanto cieco libertinismo di Cartesio. Per Spinoza l'origine delle cose è dovuta a cieca necessità; per Cartesio, invece, a una libertà senza regole. Nessuna delle due soluzioni, a giudizio di Leibniz, è soddisfacente. La prima perché non salvaguarda la libertà di Dio, la seconda perché non spiega l'ordine stabile delle cose. Una spiegazione esauriente non può essere basata su una cieca necessità, né su una libertà spregiudicata, bensì su una certa convenienza e ragionevolezza. Leibniz crede di trovare questa convenienza e ragionevolezza nel principio di ragion sufficiente, per il quale tutto ciò che avviene non avviene né necessariamente né arbitrariamente, ma per un giusto motivo. Ad esso sottostà anche Dio in tutte le sue operazioni.
La monade Nella Monadologia Leibniz, a fondamento di tutto il suo edificio metafisico pone la monade, di cui dà anzitutto la definizione, poi ne prova l'esistenza, quindi ne enumera le proprietà, e infine esamina i suoi rapporti con le altre monadi e con il corpo. Della monade egli dà la seguente definizione: «Una monade altro
non è se non una sostanza semplice che entra nei composti: semplice, ossia senza parti».13 Che la monade esiste lo prova così: «Debbono esserci le sostanze semplici dal momento che vi sono dei composti; il compo-
l‘) Monadologia, n. 1.
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aggregato di semplici».14 Proprietà primaria della monade è la senzplicità: «nelle monadi non vi sono parti e sto infatti
non sono
non
è che
un ammasso 0
possibiliné estensione, né figura, né divisibilità>>jlîDalla sem-
plicità della monade deriva la sua ingenerabilità(e quindi può aver origine solo per creazione) e tflCOTTIlÌÌÎbÎlÎÌà.Le monadi devono possedere
qualità. Infatti «se le sostanze semplici non differissero per le loro qualità non vi sarebbe modo di accorgersi di alcuna diversità nelle cose. [...] Inoltre, se le monadi fossero senza qualità, non potrebbero distinguersi l’una dall’altra».16 Questa proposizione è chiamata principio degli delle
indiscemibili. In altri termini: Non ci sono due monadi uguali tra di loro: «Bisogna proprio che ogni monade sia differente da qualsiasi altra. Poiché non vi sono mai in natura due enti perfettamente uguali l'uno all'altro e fra i quali non sia possibile trovare una differenza interna e fondata su una denominazione intrinseca».17 Appetizione: tutte le monadi sono dotate di appetizione,” ossia della proprietà di Volere e desiderare. Percezione: tutte le monadi sono dotate di percezione (da distinguere dalfappercezione o coscienza), ossia della facoltà di conoscere. L'esistenza della percezione in tutte le monadi è provata dalla presen2a nell'uomo di piccole percezioni indistinte. «Noi sperimentiamo di fatto in noi stessi uno stato nel quale non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo nessuna percezione distinta, come quando ci coglie uno svenimento o siamo in un sonno profondo e senza sogni. In tale stato l'anima non differisce sensibilmente da una semplice monade; ma siccome non si tratta di uno stato duraturo e l'anima se ne libera, essa è qualche Cosa di più (di una semplice monade). Non si deve però inferirc che in quello stato la sostanza semplice non rimanga senza percezioni. Ciò non può essere, anche solo per le ragioni dette prima, perché ella non può perire e neppure può sussistere senza qualche affezione, che non è poi se non la sua percezione». «Nello stordimento, anzi, si ha una grande moltitudine di piccole percezioni sebbene non vi sia in esse nulla di distinto: come quando si gira parecchie volte di seguito sempre in uno stesso senso ci Viene una vertigine che può farci svenire e non ci lascia distinguere nulla. La morte può appunto mettere gli animali per un certo tempo in tale stato. E siccome lo stato presente di una sostanza semplice è sempre conseguenza naturale del suo stato precedente, così che il presente è
14) Ibid, n. 2. 15) Ibid., n. 3. N‘) Ibiti,nn. 5, 8. 17) Ibid., n. 9. l“) Cf. ibìd, n. 15.
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Parte seconda
gravido dell'avvenire, si vede che, poiché allo svegliarsi dallo stordimento ci si accorge delle proprie percezioni, bisogna pure averne avute immediatamente prima senza che ci siamo accorti; una percezione infatti non potrebbe sorgere naturalmente se non da un'altra percezione, così come un movimento non può sorgere naturalmente se non da un altro movimento. Di qui si vede che, se non avessimo nelle percezioni nulla di distinto e, per così dire, in rilievo e di un
gusto più spiccato, ci ritroveremmo sempre nello stordimento. Questo appunto è lo stato delle monadi pure e semplicimw
Alla diversità di grado di appetizione e percezione è dovuta la diversificazione fra le monadi. La monade è specchio dell'universo. Sebbene non abbia finestre, essa ha rapporti con tutte le altre, perché ciascuna monade rispecchia a suo modo le altre. Quindi ogni monade ha con le altre monadi una relazione di rappresentazione. Inoltre, ogni monade ha con le altre monadi una relazione di convenienza, in quanto Dio, scegliendo una monade, ha tenuto presenti le esigenze di tutte le altre. «Ora [...] questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia dei rapporti esprimenti tutte le altre e sia di conseguenza uno specchio vivo e perpetuo dell'universo. «Come una medesima città, guardata da diversi lati, sembra ben diversa e viene come moltiplicata prospettìcamente, allo stesso modo, in grazia della moltitudine infinita di sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi, che non sono pertanto se non le prospettive di uno solo dei differenti punti di vista delle singole monadi. Questo è il mezzo di ottenere tanta varietà quanta è possibile, insieme con il massimo ordine che si possa; ciò che significa che è il mezzo per ottenere tutta la per-
fezione p0ssìbile>>.20
Anima e corpo: armonia prestabilita Tutte le cose di questo mondo, secondo Leibniz, sono costituite di entelécheia (principio attivo) e materia prima (principio passivo). La materia è il corpo, il quale non è altro che una costellazione di monadi subordinate a una monade principale (la quale nei loro riguardi funge da anima): «Ogni corpo ha una entelecheia dominante che costituisce l'anima dell’animale>>.21 Ogni parte del corpo, anche se piccola, costituisce un
19) Ibid, nn. 20-24. 20) Ibid, nn. 56-58. 21) ibid, n.. 70.
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organismo meraviglioso; questo perché ogni frammento di materia è animato. «Ogni frammento di materia può essere raffigurato come un giardino pieno di piante e come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo della pianta e ciascun membro dell'animale e ciascuna goccia dei suoi umori e a sua volta un tale giardino e un tale stagnomìl Nel problema dei rapporti tra anima e corpo, Leibniz distingue due aspetti: quello dell'unione tra anima e corpo e quello dell'azione reciproca. A suo parere l'unione dell’anima alle singole monadi a lei subordinate è instabile, «poiché tutti i corpi sono in perpetuo flusso come i fiumi; e delle parti Vi entrano e Vi escono senza interruzione. Così l'anima non cambia corpo se non a poco a poco di modo che essa non si trova mai d'un tratto spogliata di tutti i suoi organi; e negli animali vi è sì sovente metamorfosi, ma non mai metempsicosi né trasmigrazione delle anime; né tanto meno si danno anime separate, né geni senza corpo. Solo Dio è completamente senza».23 Però l'unione dell'anima con un corpo è stabile, perché non si danno anime affatto separate; quindi tanto il corpo,î4 come l'anima,25 e tutto ne
l'essere della monadefié sono immortali, indistruttibili. Singolare è la posizione che assume Leibniz di fronte al problema dei rapporti fra anima e corpo. Egli respinge le soluzioni celebri di Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio, Spinoza e Malebranche. I primi quattro, anche se in maniera diversa, avevano tutti ritenuto che fra anima e Corpo esistesse un rapporto causale, almeno dell’anima sul corpo; Spinoza aveva affermato l'esistenza di un rapporto di semplice parallelismo: accade nell'anima quanto accade nel corpo, senza interventi superiori e senza influssi reciproci. Infine Malebranche aveva dato la sua versione con la dottrina dellbccasionalismo:l'azione apparente dell'anima sul corpo, e viceversa, viene esplicata da Dio allorché anima e corpo si trovano in certe circostanze (occasioni). Leibniz respinge tutte queste soluzioni. A suo avviso, fra anima e corpo c'è un rapporto effettivo; questo non viene però da una delle due parti (anima e corpo) ma da un'armonia prestabilita da Dio. «L'anima segue le sue proprie leggi e anche il corpo le sue; e si incontrano in virtù dell'armonia prestabilita fra tutte le anime, perché tutte sono rappresentazioni di un medesimo universo»? L'anima e il corpo si comportano come due orologi perfettamente sincronizzati: segnano lo stesso tempo senza che uno eserciti alcun influsso sull'altro. «Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali per appe-
22) una, n. 67. 23) Ibiaî, nn. 71-72. 24) Ibid, n. 73. 25) Cf. ibid., n. 76. 26) Cf. ibid, n. 77. 37) Ittici, n. 78.
220
Parte seconda
tizione, fini e mezzi. l corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono fra loro in armoniamît‘ «Questo sistema pone che i corpi agiscono come se per assurdo non vi fossero anime e che le —
-
vi fossero corpi; e che ambedue agiscono agiscono influenzassero>>fì9 si come se reciprocamente L'anima comunica con le altre monadi attraverso il corpo: «Sebbene ogni monade creata rappresenti tutto l'universo, essa rappresenta in maniera più distinta il corpo che le è particolarmente adibito e del quale essa costituisce Pentelecheia: e come questo corpo esprime tutto l'universo in grazia della connessione di tutta la materia nel pieno, così l'anima pure rappresenta tutto l'universo rappresentando quel corpo che le appartiene in maniera particolare».3“ Ma l'anima razionale o spirito oltre che col corpo e con le altre anime si trova in stretto rapporto con Dio. infatti «gli spiriti sono anche immagini della Divinità stessa o dell'Autore della natura; sono capaci di conoscere il sistema dell'universo e di imitarlo in qualche cosa con dei saggi architettonici, poiché ogni spirito è come una piccola divinità nella sua sfera d’azione>>.31 Il fatto che gli spiriti siano immagini di Dio e capaci di conoscerlo dà luogo a una speciale relazione tra essi e Dio; li mette in società con Dio oltre che tra di loro, e così costituiscono la città di Dio. «Donde si conclude che l'unione di tutti gli spiriti deve costituire la Città di Dio, (ìssia il più perfetto Stato possibile sotto il più perfetto monarca. Questa Città di Dio, questa monarchia veramente universale, e un mondo morale nel mondo naturale, ed è ciò che di più elevato e di più divino esista nell'opera di Dio. In essa consiste Veramente la gloria di Dio, poiché tale gloria non ci sarebbe se la grandezza e la bontà di Dio non fossero conosciute e ammirate dagli spiriti. Anzi solo rispetto a questa Città di Dio, Dio ha manifestato propriamente la sua bontà, mentre la sua sapienza e la sua potenza si manifestano dovunquewî anime
come se non
L'esistenza di Dio In ogni sistema metafisico Dio occupa un posto privilegiato, sia che lo si coilochi al punto terminale della faticosa scalata oppure al punto di partenza da cui ha inizio la processione delle cose: Dio e sempre i primo o come causa finale o come causa efficiente. Per questo motivo Aristotele diceva che la metafisica è scienza divina, teologia.
28) Ibid, n.79. 29) Ibid, n. 81. 30) Ibid, n. 62. 31) 117111., n.83. 32) lbid.,1‘in.85—86.
Leibniz e la metafisica della nzonade
221
Fondamentalmente platonico in ontologia e così platonico da ricoeffettivamente reale soltanto la sostanza spirituale, la monade Leibniz non è meno platonico nella elaborazione del suo sistema metafisico, tutto costruito dall'alto al basso. Così egli pone alla base dell'intero edificio l'idea di Dio. Per chi come Leibniz (e prima di lui Cartesio, Spinoza e Malebranche) in metafisica assume l'impostazione assiomatico-deduttiva Dio non può costituire un problema: non è una verità oscura, dubbia, incerta, da ricercare pazientemente con la lanterna di Diogene, ma è una verità chiara e distinta, evidentissima, una verità imponente, grandiosa, onnicomprensiva; e quanto più è vasta e generosa la contemplazione che si ha di questa verità, tanto più è vasto e generoso lo sguardo sull'universo che procede da Dio. Leibniz appartiene alla prima modernità che è l'epoca della ragione forte. Allora il pericolo non era ancora quello della negazione di Dio, l'ateismo, bensì quello della presunzione di sapere tutto su Dio. Dio viene trattato come un fratello maggiore, del quale si conoscono tutti i pensieri, progetti e decisioni. Questa è l'epoca in cui tutti i filosofi più prestigiosi credono di poter provare l'esistenza di Dio a priori, partendo da una qualche definizione della sua essenza. Si definisce Dio come perfetto, come massimo, come infinito, come sostanza ecc, e si conclude che non può essere tale se non esiste. Sia il clima culturale sia la sua metafisica assiomatico deduttiva portano Leibniz a privilegiare l'argomento ontologico. Questo argomento come dirà Blondel costituisce la “chiave di volta" del suo sistemafl? La discussione sull'esistenza di Dio ritorna a più riprese negli scritti leibniziani,quasi sempre stimolata dagli incontri Culturali e da circostanze occasionali. Il moltiplicarsi degli scritti "occasionali" lettere, memorie, opuscoli sull'esistenza di Dio lascia intendere come il dibattito nell'ambiente culturale dell'epoca fosse molto vivace e come l'autorità di Leibniz costituisse un punto di riferimento per i pensatori del suo tempo. Nelle pagine di Leibniz convivono insieme due tipi di argomenti, tanto diversi tra loro: da una parte, gli argomenti a posteriori della tradizione —
noscere come -
—
-
-
-
aristotelico-tomista, dall'altra, l'argomento ontologico, ripreso e discusso
nella forma che
aveva assunto nella quinta delle Meditazioni metafisiche di Cartesio. Il caso paradigmatico è quello della Monadologia,“ in cui l'argomentazione tomista a contingentia mundi, quella agostiniana della presenza delle verità eterne nella nostra mente, e quella anselmiano-cartesiana dell'idea dell'Essere perfettissimo, si susseguono l'una all'altra,
m) 34)
CÎ- M. BLONDFL, La clijf de zioutr du systènze cczrtésien, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 29 (1937), pp. 69-77.
Cf. Monadologia, nn. 36-45.
222
Parte seconda
non come
contrapposte, bensì come prove complementari 0, addirittura,
parti di un'unica, complessa dimostrazione. Ma, come si è detto, l'argomento principe del sistema metafisico leib-
come
niziano rimane quello
ontologico, ed
‘e da
questo che dobbiamo comin-
ciare.
LA
PROVA ONTOLOGICA
La prova ontologica viene presentata da Leibniz oltre che nella nota versione cartesiana basata sulla definizione di Dio come essere perfetto, anche in una nuova originalissima versione che si fonda sulla definizione dì Dio come essere possibile. La formulazione più stringata di questa prova è quella che Leibniz presenta nella Monadotogiu ed è la seguente. «Dio solo ha questo privilegio, di dover esistere, se è possibile. E poiché nulla può essere di ostacolo alla possibilità di ciò che non ha nessun
negazione e quindi nessuna contraddizione, basta questo solo per conoscere l'esistenza di Dio a pri0ri>>fi5 Infatti, se Dio non esistesse, nessun altro potrebbe farlo esistere e allora Dio sarebbe impossibile,il che è contro l'ipotesi. limite,
nessuna
più elaborata è la formulazione che Leibniz presenta di questo argomento in un breve scritto, a cui qualche editore ha dato il titolo Dio e i possibilifié In questo opuscolo il ragionamento e articolato in ventiquattro proposizioni, che hanno una struttura assiomatico-deduttiva Molto
come
si addice
a una
metafisica che
muove
dall'alto anziché dal basso.
La dimostrazione ha inizio con un'affermazione di principio, che forma la prima proposizione: «Vi ‘e una ragione, nella natura, perché esista qualcosa piuttosto che niente. Ciò consegue da quel gran principio, che nulla avviene senza ragione; e allo stesso modo deve esserci anche una ragione perché esista questo piuttosto che quell'altro»?
Dopo questa affermazione programmatica segue una considerazione: "Qualcosa esiste", dalla quale si ricava la necessità di rendere ragione di ciò che l'esperienza ci fa constatare. Punto di partenza, quindi, è la certezza irrecusabile che qualche cosa esiste: occorre spiegare perché l'essere esista, e sia, di conseguenza, più potente del nulla. La seconda proposizione è così formulata: «Quella ragione deve trovarsi in qualche ente reale o causa>>fi8 È evidente, spiega Leibniz, che la causa di un ente reale non può essere che reale, giacché la pura possibilità non avrebbe alcuna efficacia, se la possibilità non si fondasse su qualcosa di esistente in atto. 35) Ibid., n. 45. 36) Ed. Gerhardt, vu, pp. 289-291. 37) 112111., p. 289. 38) Ibid.
Leibniz e la nzetafisica della nzonade
223
proposizione costituisce il nodo centrale del ragionamento: «Questa (la ragione reale) occorre che sia un essere necessario altrimenti La terza
si dovrebbe di
anziché
non
nuovo cercare una causa
esistere,
contro
fuori di esso, per cui
l'ipotesi. Quell’ente è,
ragione ultima delle cose: con una sola parola, Di0».39
esso
esista,
in altri termini, la
Dall'esistenza dell'Essere necessario si ricava che esso è "datore di esistenza". «L’ Essere necessario è esistentificante», afferma Leibniz, e ogni possibile «può essere detto existiturire, in quanto si fonda sulYEssere necessario esistente in atto, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per cui il possibilepervenga all'atto».40 La possibilità è, quindi, secondo Leibniz, non una semplice non-con-
traddizione a esistere. Accanto al concetto di essenza come quod quid est, accanto al concetto di esistenza come actus essendi, occorre considerare anche la "possibiIità", come il conato di un'essenza verso l'esistenza. Ogni
essenza, infatti, implica una positiva tendenza a esistere. La possibilità come conato verso l'esistenza si fonda, in definitiva, sull'Essere necessa-
rio che esiste in atto, giacché solo l'esistenza reale dell'Essere necessario, ragione ultima di ogni esistenza finita, rende comprensibileche il possibile pervenga alla realtà, che la potenza passi all'atto, che l'essenza si realizzi nell'esistenza. Questa dottrina conferisce una inflessione nuova all'argomentazione classica sull'Essere necessario. Infatti, insistendo sull'affermazione che ogni possibile è un conato di esistenza, ed è un conato tanto più forte quanto più perfetta è l'essenza a cui la possibilità si rapporta, di conseguenza, una possibilitàinfinita si deve intendere come un conato infinito all'esistenza, e perciò si identifica con l'esistenza reale. Il conato di esistenza, infatti, può essere reso inefficace, secondo Leibniz, solo dalla presenza di qualche essere o di qualche serie "incompossibile",e la cui incompossibilitàsia preminente rispetto alla essenza in questione. Nella prospettiva leibniziana, tra due essenze incompossibili,o tra due serie di essenze incompossibili,giunge all'esistenza quella che non trova ostacolo nell'altra, perché contiene una maggiore "possibilità", cioè un maggior conato all'esistenza. Ma nessun incompossibilepotrebbe impedire l'esistenza reale dell'essere infinitamente possibile. E se nessun essere può rendere vano questo conato, l'essere che ha un'essenza infinita, appunto perché ciò comporta un conato infinito all'esistenza, non può non esistere realmente. In caso diverso, la sua possibilità sarebbe limitata da una possibilità inferiore, e il suo conato sarebbe reso vano da un conato meno forte: ma ciò sarebbe evidentemente contraddittorio. La conclusione non può essere se non quella che una possibilitàinfinita esiste realmente e necessariamente.
39) 40)
Ibid. Ibid.
Parte seconda
224
Già Avicenna e S. Tommaso avevano costruito una prova ma si trattava di una prova a stenza di Dio sulla
possibilità,
della esi-
posteriori e
priori, basata sulla esperienza che la realtà che ci circonda è una realtà ”possibile”,che può essere e non essere, che nasce e perisce e che, quindi, rimanda come a sua giustificazione al necessario. Leibniz non parte dal fenomeno del possibile, bensì dall'idea di possibilità, e fa Vedere che una possibilità che non sia apparente, ma autentica, effettiva, esige l'esistenza. L'esistenza diviene quindi un attributo, una qualità della possibilità (così come per Anselmo era una qualità del Massimo, per Cartesio del Perfetto, per Spinoza della Sostanza), nel caso in cui si tratti ed è il Caso di Dio di una possibilità infinita, poiché se è infinita, tra gli altri attributi, essa include necessariamente anche quello dell'esistenza.
non a
-
-
LE PROVE COSMOLOGICHE
Benché all'interno del sistema leibniziano l'unica argomentazione coerente sia quella ontologica, Leibniz, nel suo intento di conciliare l'antico col nuovo, Aristotele con Cartesio, non trascura le prove cosmologiche. Sono prove che egli desume dalla metafisica classica, attraverso la mediazione della Scolastica, di S. Tommaso in modo particolare, ma che rilegge alla luce delle dottrine specifiche del suo sistema. Delle "cinque
vie" di S. Tommaso Leibniz ricorre ampiamente alle prime tre, raramente utilizzala quinta (dell'ordine) e mai la quarta (i gradi di perfezione). Nella prima fase della sua speculazione la sua preferenza Va alla prima via, quella del moto; invece nella fase della maturità, il suo interesse si sposta maggiormente verso la terza via, quella della contingenza. I percorsi delle diverse vie nelle pagine leibniziane si intrecciano continuamente fra loro, formando un solo grandioso argomento cosmologico, in cui Viene messo in rilievo, di volta in volta, ora l'uno ora l'altro aspetto del problema. «Nelle pagine di S. Tommaso, le cinque vie procedono in modo autonomo, per incontrarsi alla fine del cammino; nei testi leibniziani, invece, si intrecciano continuamente, non solo per il carattere "occasionale" degli scritti, ma anche per una sempre più netta tendenza dell'autore a riportare tutte le argomentazioni di tipo cosmologico al principio generale di ragion sufficientem“ Nella Monadologia, nel suo trittico delle prove dell'esistenza di Dio, alla prova ontologica e alla prova agostiniana delle Verità eterne, Leibniz affianca una prova cosmologica basata sul fenomeno della contingenza. Ma questo classico argomento viene rielaborato nel contesto del principio di ragion sufficiente. Così la prova assume il seguente svolgimento:
4‘)
S. NICOLOSI, 0p. cit, p. 158.
Leibniz c la nzetafisica della monade
225
0 di ragion sufficiente deve esserci anche per le verità contingentinelle l'universo creato, delle serie cose nella sparse per fatto, cioè potrebbe andare all'infinito quali la risoluzione in ragioni particolaridella natura e della divisione delle cose immensa varietà della Via per tutti all'infinito dei corpi (...). E poiché questi particolari presuppongodei quali ha no altri contingenti anteriori 0 più particolari, ognuno si ‘e fatto non simile essere un'analisi di spiegato, per ancora bisogno ultima sia un passo avanti: ed è necessario che la ragion sufficiente o fuori della serie di questi particolari contingenti, per quanto infinita in una possa essere. Perciò la ragione ultima delle cose deve essere si trovi mutamenti dei la nella sostanza necessaria, quale particolarità solo eminentemente, come nella sua fonte, e questa è quel che noi chiamiamo Dio. Ora, poiché tale sostanza è ragion sufficiente di tutti i particolari, i quali sono pure tutti connessi tra loro, esiste un Dio solo e questo Dio basta a tutto».42
«La
Creazione, provvidenza, male e libertà Mentre Dio, possibilità infinita, esiste necessariamente, tutti gli altri la loro esipossibili,che sono dotati di una possibilità limitata, derivano stenza da Dio, per creazione. Ma poiché i possibili sono numericamente
infiniti che cosa fa sì che non tutti ricevano l'esistenza ma soltanto alcuni? Perché Dio crea alcuni possibilie altri no? Nel breve saggio Dio e i possibiliLeibniz spiega che Dio darebbe l'esistenza a tutti i possibili se fossero tutti ”compossibili" tra loro; ma, giacché alcuni sono incompossibilicon gli altri, ne consegue che solo alcuni che esipossibili giungono all'esistenza. Dal conflitto tra tutti i possibili di cose serie solo di che fatto, esiste, quella gono l'esistenza, consegue la Leibniz Secondo che realizza la più grande perfezione possibilcfl di maggiore perfezione possibile della maggiore quantità possibile realtà costituisce l'ordine perfetto dell'universo: esso è frutto dell'azione dell'Essere che è la ”ragione di tutte le cose". Esiste dunque scrive Leibniz nella proposizione undicesima ciò che ha la più grande perfezione possibile, con la quale espressione non si intende dire altro che esiste la maggiore quantità possibile di realtà: «Existit ergo perfectissimum, cum nihil aliud sit quanz quantitas realitatis>>.44 C'è pertanto un numero infinito di serie possibili,composte ciascuna di essenze compossibili,serie che, tuttavia, non sono compossibilitra loro, in quanto una serie esclude l'altra. Tra tutte le serie che racchiudono dei compossibili,ma che non sono compossibilitra loro, Dio porta all'e—
-
42) Monadologia, nn. 36-38. 43) Cf. Dio c i possibili,cit., p. 290. 4") Îbid.
226
Parte seconda
sistenza solo la serie che racchiude la maggiore possibilità, cioè, secondo essenze realizzabilifiCosì si giunge alla conclusione che quello che Dio ha creato è il migliore dei mondi possibili. Ecco quanto scrive Leibniz a questo riguardo nella Monadologia: «Siccome vi è un'infinità di universi possibilinelle idee divine, e non ne può esistere che uno solo, occorre che la scelta di Dio abbia una ragione sufficiente che lo determini all'uno piuttosto che all’altro».4h La ragione sufficiente è l'ottimo; Dio sceglie l'universo che realizza più perfezione di qualsiasi altro e nella scelta degli esseri particolari Dio dà la preferenza a quegli esseri che meglio concorrono alla perfezione globale dell'universo. In altri termini, Dio sceglie il migliore tra i mondi possibili, cioè quello che contiene la minima parte di male. L'azione con cui Dio crea il mondo è detta da Leibniz folgorazione:
Leibniz, la maggior quantità di
«Dio solo è l'unità primitiva o la natura semplice originaria, della quale tutte le monadi, create o derivate, sono produzioni e nascono, per così dire, per via di continue folgorazioni della Divinità, momento per momento limitate dalla ricettività della natura, cui è essenziale essere
li1nitata>>fl7
Il termine folgorazione fa pensare a scintille luminose lanciate da una sorgente di luce, o a particelle incandescenti che sprizzano da un corpo infuocato. L'immagine sensibiledestata dalla parola ”folgorazione", che si trova nella Mortadologia, richiama a sua volta il concetto di emanazione, che si trova nel Discours de métagihysiayue: le sostanze create dipendono da Dio, che le produce mediante una specie di emanazione, come noi produciamo i nostri pensieri.“ Leibniz fu avversario dichiarato del monismo e del panteismo di Spinoza; però i termini: folgorazione ed emanazione, nonché il paragone con il nostro modo di produrre i pensieri, non erano certamente adatti a porre in rilievo la differenza tra la ”creazione” spinoziana e la sua, tanto più che il paragone della emanazione dei pensieri dalla mente era stato preparato proprio da Spinoza, per illustrare il concetto di causa immanente, da attribuirsi all'unica sostanza-causa, Dio, nei riguardi degli effetti-modi. Eppure Leibniz non tralascia di ritornare sull'idea della emanazione, e di accennareallîmmanenzadi Dio nelle creature e delle creature in Dio: il principio, egli dice, della perfezione delle operazioni divine, e la nozione della sostanza che contiene in sé tutti i suoi avvenimenti, giovano alla religione e alla pietà, poiché fanno vedere
45) Cf. iliid. 45) Monadologia, n. 53. 47) Ibid., n. 47. 4*‘) Cf. Discours de métaphysiqize, n. 14.
Leibniz e la
metafisica della monade
227
dipendono
da Dio come i tutte le sostanze particolari pensieri che emanano dalla nostra sostanza, e che Dio è tutto in tutti, che è unito intimamente a tutte le creature, che è il legame e la comunicazione di tutte le sostanze.”
chiaramente che
Mentre Dio è sostanza infinita e pertanto anche infinitamente perfetta, tutte le creature sono sostanze limitate e quindi anche relativamente
imperfette.
La loro
stessa essenza in
perfezione viene da Dio, l’imperfezione dalla loro
quanto
limitata:
«Segue ancora che le creature
-
scrive
dall’influsso di Dio,
Leibniz nella Manadologia hanno le loro perfezioni ma le loro imperfezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza limiti. In questo appunto sono distinte da Dio. Tale imperfezione originale nelle creature si nota nella inerzia naturale dei corpi>>.5" Nel contesto dei limiti delle creature Leibniz affronta il problema della provvidenza e del male. Di questo spinosissimo problema scandalo tremendo per la ragione Leibniz si occupa specialmente nei Saggi di tendicea. Qui egli distingue tre accezioni del termine ”male” e quindi tre forme di male: metafisico, fisico e morale: «Il male può essere inteso in senso metafisico, fisico e morale. Il male metafisico consiste nella semplice imperfezione, il male fisico nel dolore, il male morale nel peccato».5l In senso metafisico, ossia nell'ordine dell'essere, il male non è qualcoil Creatore abbia impresso sa di positivo, non è una proprietà reale nelle cose e che gli possa essere imputata. E semplicemente privazione della perfezione assoluta. E il male metafisico corrisponde esattamente a tale assenza della perfezione assoluta. Il male fisico o dolore e il peccato sono pernzessi da Dio, non voluti. Il peccato dipende dalla libertà dell'uomo di sottrarsi alla volontà di Dio, di ribellarsi a Lui; Dio permette la possibilità del peccato (non lo vuole), nell'atto in cui produce un essere libero, ossia un bene. Il dolore e il male fisico sono conseguenza del peccato, a cominciare dal peccato originale. Dunque neppure esso può essere imputato a Dio. E poi, in generale, dai mali fisici la bontà di Dio sa trarre dei beni, come quando attraverso di essi egli purifica i peccatori. E, comunque, nell'economia generale dell'universo, che a noi non è nota, certamente mali fisici e mali morali contribuiscono al trionfo finale e complessivo del bene. Secondo Leibniz non soltanto Dio riesce a far rientrare il male nell'ordine generale del bene, ma, come abbiamo visto, nella sua infinita sapienza, egli conosce quale di tutti i mondi è il migliore possibile, e nella sua bontà provvidenziale fa cadere la sua scelta su tale mondo. Così il mondo attuale è il migliore di tutti i mondi possibili. -
—
—
che‘
49) Cf. C. GIACÒN, La causalità nel razionalismonzodernv, Milano-Roma 1954, pp. 352-354. 5") Monadologia, n. 42. 5') Saggi di teodicea I, 2î.
228
Parte seconda
problema del male coincide sostanzialquella Agostino, il quale faceva risalire al cattivo uso della libertà (da parte degli angeli e dell’uom0) l'origine di ogni male, tranne quello metafisico, e allo stesso tempo affermava che la divina provvidenza sa trarre profitto anche dal male. Con questa tesi né Agostino né Leibniz pretendono di dissipare l'oscuLa soluzione leibniziana del
di
mente con
mistero del male. Dire che Dio riesce
a cavare il bene anche dal male che infatti Dio ad riesce addomesticare il male e piegarlo al significa bene. Il male morale, il peccato, l'odio, Dio può soltanto permetterlo; non può mai inquadrarlo nel suo ordine provvidenziale, perché i suoi disegni sono fatti esclusivamente per il bene, non per il male. La presenza del male nel mondo non si deve al padrone, ma al suo nemico, che durante la notte ha seminato la zizzania nel suo terreno (Mt 13, 24 ss.). Manca però in Leibniz il senso della drammaticità e della tragicità del male, che invece caratterizza tutto il pensiero di Agostino; manca il senso di quella lotta perenne tra la civitas Dei e la civitas diaboli che costituisce i leitnzotizr della visione agostiniana della storia. In effetti in Leibniz non c'è una civims diaboli, ma soltanto una civitas Dei. A questo proposito osserva giustamente I. Guitton: «La cosa più strana della Tecndicca è la sua tranquillità tra gli abissi che egli apre, l'assenza di inquietudine di fronte al male eterno. Il suo Dio più che amare governa, il suo Cristo più che amare illumina; la sua anima più che amare scruta, calcola, somma, si trova d'accordo. La Tcodicea, l'opera di tutta la vita di Leibniz, è in fondo la traduzione in linguaggio razionale della predestinazione luterana, come lo sarà più tardi la Critica della ragion pura>x52 ro
non
Conclusione La metafisica intesa come compimento della seconda navigazione e sempre una soluzione positiva, ottimistica del problema della esistenza. Questa non è la condizione insensata, assurda, di chi si trova sprofondato in uifoscura caverna, bensì la condizione esaltante e impegnativa di chi si autotrascende continuamente, sconfina oltre questo mondo verso l'infinito e si incammina verso la Patria beata. Ogni metafisica è un'impresa razionale: è l'opera di una ragione forte. Ma ci sono metafisiche più o meno forti, più o meno pretenziose, più o meno ottimistiche. Ci può essere in metafisica una razionalità modesta oppure una razionalità eccessiva. Così ci sono metafisiche umili, ossequienti nei confronti della realtà; e metafisiche prepotenti che assoggettano la realtà alla logica del pensiero: non del pensiero divino, ma del -
pensiero umano.
53) j. GUITrON, Pascal et Leibniz, cit, p. 121.
—
Leibniz e la vizetafisica della nzonade
La metafisica classica e cristiana sono
229
generalmente metafisiche umi-
li, figlie di una ragione moderatamente forte, metafisiche razionali e non razionalistiche. Per contro la metafisica moderna, che prende le distanze
anche dallîimiltà, è una metafisica superba, figlia di una ragione troppo forte, che non è consapevole dei propri limiti; di una ragione che rivendica per se’ poteri e titoli divini, che pur non identificandosi con Ylntelletto divino, crede di poter vedere tutte le cose in Dio e come Dio. Uonniscienza di Dio diviene un attributo anche della ragiodalla fede
e
ne umana.
Espressioni emblematiche di queste costruzioni razionalistiche sono Spinoza e Leibniz. Sia l'ebreo olandese sia il luterano tedesco pretendono di Vedere tutto sub specie aeternifatis. Così le differenze tra i due sono più apparenti che reali. Certo Spinoza è monista e panteista, mentre Leibniz è pluralista e "politeista” (ogni monade è una piccola divinità). Per entrambi il divino si trova diffuso ovunque: nei modi per Spinoza, nelle monadi per Leibniz. Per entrambi il mondo è il migliore dei mondi possibili,è perfetto, e il male e soltanto un’apparenza. Ma proprio questa pretesa della ragione di disfarsi del problema del male segna la sconfitta di ogni meta fisica razionalistica. «Il problema del male è il granitico scoglio, su cui si infrange ogni forma di razionalismo. È un problema che mette a durissima prova ogni filosofare; è tale che le metafisiche di
forse
sistema filosofico riesce a risolvere del tutto, data soprattutto la sconfinata vastità del male medesimo; è tale che forse Veleggiando con altra nave da quella della pura ragione, l’uomo potrà avere una nessun
qualche migliore risp0sta».53 Il monismo usiologico di Spinoza e il pluralismo usiologico di Leibniz sono le due ultime grandi costruzioni a cui ha dato vita la meta-
fisica moderna. Gli eccessi di questi due sistemi filosofici razionalistici susciteranno ben presto le dure reazioni degli empiristi e di Kant, che porteranno al crollo della metafisica. La solidità di un sistema metafisico oltre che dalle forze della ragione, dipende da ciò che si pone alla base dell'edificio. Come sappiamo, la base dell'edificio leibniziano è la monade; tutto il resto dell'edificio è legato alla definizione che Leibniz dà di questa realtà: «la monade è una sostanza semplice che entra a costituire i composti». Leibniz identifica il semplice con Yimmateriale, ossia con lo spirituale. Ma questa è una confusione imperdonabile.Infatti semplice è ciò che è privo di parti, mentre immateriale o spirituale dice la non dipendenza intrinseca dalla materia nell'esistenza. La definizione della monade consente a Leibniz la negazione dell'estensione e quindi della materia, e la risoluzione di tutta la realtà in un mondo di spiriti. La sua diviene così una costruzione logica
53)
C, GIACÒN, La causalità... cit., p. 380.
230
Parte seconda
perfetta,
viene smentita a ogni istante dalla esperienza di un mondo ovviamente e incontestabilmente materiale, corporeo, esteso. Una metafisica che cambia le carte in tavola come la metafisica leibnizia— na, non risolve i problemi, ma li spazza via. Anche la dottrina dell'armonia prestabilita e così poco plausibileche fin dall'inizio incontrò energici oppositori ed ebbe solo pochissimi fervidi sostenitori, sicché dopo la morte di Leibniz nessuno l'ha più propugnata. L'autore della Munadologia fu indotto ad accettarla oltre che per
che
però
esigenze di sistema, per una sua incomprensione della soluzione scola-
stica della causalità transitiva. Questa, infatti, non consiste, come credeLeibniz, in passaggi di forme, siano esse sostanziali o accidentali, dalYagente al paziente (dalla causa all'effetto) perché la forma non transita da un ente a un altro, ma viene edotta dalla potenzialità della materia. L'attività non è tanto una comunicazione di realtà da parte dell'agente quanto una stimolazione esercitata sul paziente onde indurlo a tradurre in atto le sue potenzialità. Al pensiero leibniziano si devono però riconoscere alcuni meriti importanti, tra i quali, in particolare: la rivendicazione della dignità del-
va
l'individuo, naufragata nel monismo panteistico di Spinoza, e la rivendi-
cazione dell'attività dello spirito, compromessa dal dualismo cartesiano. Come scrive Olgiati: «Le sue stesse esagerazioni ebbero questo significato e questa utile funzione: di infondere il senso dinamico della realtà, di risvegliarlo, di propagarlo nel campo della cultura. In un'atmosfera ricchissima di quei microbi spirituali che si chiamavano gli atomi morti e la materia inerte, dopo Pubriacatura quasi universale di meccanicismo cartesiano; dopo un Hobbes che elevava il movimento meccanico a suprema spiegazione dell'universo e persino del pensiero; dopo un Malebranche, che, nonostante la sua delicata finezza, concepiva anche il nostro Io come passivo e osava negare che noi ci sentiamo agire, pensare e volere; dopo l'Ethica di Spinoza, secondo la quale noi non siamo se non modi della Sostanza trascinati deterministicamente dal suo svolgimento, che non è uno sviluppo storico, ma che solo è paragonabile allo sviluppo di una formula matematica, ecco Leibniz col suo attivismo. Era un grande bagno nuovo di cui la mentalità moderna necessitavaM-î Alla fine tra i meriti di Leibniz dobbiamo ricordare il suo impegno "ecumenico", che egli ha profuso non solo per promuovere la riunione delle Chiese Cristiane, ma anche per conciliare l'antico e il moderno, Aristotele e Cartesio. Leibniz è il genio del dialogo e della tolleranza, che ha cercato di superare tutti i dualismi lasciati in eredità da Cartesio.
54)
F.
OLGIATI, Il significato storico di Leibniz, Milano 1929, pp. 130-131.
Leibniz e la
metafisica della monade
231
Suggerimenti bibliografici OPERE G. W. LFIBNIZ, Die philosophische Schrifien, ed. C. I. Gerhardt, 7 V011, Berlin 1875-1890. ID., Die matheinatische Schrifien, ed. C. I. Gerhardt, 7 v0l1., Berlin 18491863.
TRADUZIONI
Saggi filosoficie lettere, a cura di V. Mathieu, Bari 1963. Teodicea, a cura di V. Mathieu, Bologna 1973. Monadologia, a cura di S. Vanni Rovighi, Brescia 1963. Scritti filosofici,a cura di D. O. Bianca, 2 volL, Torino 1967. Principi della natura e della graziafondati sulla ragione, a Cura di L. Pozzi, Padova 1966. Nuovi saggi sali‘intelletto Firenze 1947.
umano
(pref. e Libro I)
,
a cura
di A. Giannotti,
STUDI D. CAMPANALF, La finalità morale nel pensiero di Leibniz, Bari 1966.
E. CIONE, Leibniz, Napoli 1964. G. GALLI, Studi sulla filosofia di Leibniz, Padova 1948. j. GUITToN, Pascal ei Leibniz, Paris 1951. N. HARTMANN, Leibniz als Metaphysiker, Berlin 1946. I. IALABERT, La ihéorie lcibniziennede la sabstance, Paris 1947. G. MARTIN, Leibniz. Logik una! Metaphysik, Berlin 1967, 2*‘ ed. V. MATHIEU, Introduzione a Leibniz, Bari 1976. I. MOREAU, Lîinivers Zeibnizieiz, Paris 1956. M. MUGNAI, Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz, Bari 1976. E. NAERT, Mémoire et conscience de soi selon Leibniz, Paris 1965. S. NICOLOSI, Modernità e ricerca di Dio, Roma 1977. F. OLGIATI, Il significati) storico di Leibniz, Milano 1929. C. OTTAVIANO, Le basi fisico-metafisiche della filosofia di Leibniz, Padova 1952. G. H. R. PARKINSON, Logic and Reaiity in Leibniz? Meiaphysics, Oxford 1969. I. VITALE, L'armonia prestabilita in Leibniz, Padova 1959.
232
I SEGUACI DI LEIBNIZ: WOLFF E BAUMGARTEN
Sebbene con l'imminente avvento di Kant e della sua "rivoluzione co pernicana" il destino della metafisica risultasse ormai segnato, per quasi ferventi un secolo in Germania Leibniz poté contare su uno stuolo di ammiratori e di zelanti seguaci, tra cui spiccano i nomi di Wolff e
Baumgarten.
Christian Wolff Christian Wolff nacque a Breslau nel 1679. Dapprima venne avviato agli studi teologici, ma il suo interesse maggiore era per la filosofia e per
la medicina. Divenuto discepolo e amico di Leibniz, grazie alla sua raccomandazione ottenne la cattedra di matematica ad Halle, dove tenne lezioni oltre che di matematica anche nei vari rami della filosofia. Ma le sue posizioni giudicate eccessivamente razionalistiche dai pietisti causarono nei suoi confronti sospetti di ateismo e questo indusse il sovrano Federico Guglielmo I a privarlo della cattedra (1723) e ad allontanarlo dalla Prussia. Fu accolto a Marburgo, dove continuò la sua attività di docente e di scrittore, mentre il suo caso faceva assai scalpore in Germania e alimentava vivaci discussioni. Nel 1740 Federico Il lo chiamò ad I-Ialle e gli restituì i suoi titoli accademici. Nel contempo le sue idee si diffondevano in tutta la Germania. Morì ad Halle nel 1754. La sua vasta produzione letteraria abbraccia tutti i trattati fondamentali di filosofia: Philosophia rationalis seu logica (1728); Philosnphicz prima sive Ontologia (1729); Cosmologia generalis (1731); Philosophia pratica 1miversalis, 2 voll. (1738-1739); Psychologia empirica (1732); Psychologia rationalis (1734); Theologia rationalis, 2 voll. (1736-1737); Ius gentium (1750); Oeconomica (1750); Philosophia moralis seu E thica, 5 voll. (1750-1753). In queste opere Wolff ha cercato di realizzare una sintesi poderosa tra il pensiero filosofico tradizionale di stampo razionalistico e le scoperte scientifiche del suo tempo, e qui sta la ragione del suo enorme successo. Più ancora del suo maestro Leibniz, Wolff è un grande ammiratore di Aristotele e degli Scolastici, specialmente di Suarez. Per questo motivo egli intende conservare, a ggiornandolo, il loro prezioso tesoro. Egli divide la metafisica in generale, a cui dà il nome di ontologia, e in speciale, che suddivide in psicologia, cosmologia e teologia razionale. Così grazie a Wolff, Yontologia riprende il suo posto di filosofia prima. Ma nella sua
I seguaci di Leibniz: Woljfe Baumgarten
233
ontologia egli non si rifà né ad Aristotele né a S. Tommaso, bensì a Scoto Suarez, dai quali mutua il concetto essenzialistico dell'essere, come
e a
ha mostrato E. Gilson.‘
sua filosofia è sostanzialmente leibniziana. Come Wolff elabora una spiegazione della realtà partendo da tre prinLeibniz, cipi: ragion sujficiente, armonia prestabilitae ottimismo. Pur evitando il termine ”monade", Wolff postula l'esistenza di sostanze semplici impercettibili,prive di estensione e figura e di cui nessuna può essere identica a un'altra. Le cose che noi percepiamo nel mondo materiale sono aggregati di queste sostanze, e l'estensione diviene per lui come per Leibniz "un fenomeno bene fondato”. Ovviamente anche il corpo umano è un aggregato di sostanze. Ma nell'uomo c'è un'anima, che è una sostanza semplice, la cui esistenza può essere provata attraverso il fenomeno della coscienza, dell’autocoscienza e della coscienza del mondo esterno. Per quanto attiene la relazione tra il corpo e l'anima Wolff riprende la teoria leibnizianadell'armonia prestabilita. Per la dimostrazione dell’esistenza di Dio Wolff considera valide sia le prove ontologiche (a priori) sia le prove cosmologiche (a posteriori). La prova cosmologica si basa sulla constatazione che il mondo, essendo un
Nei contenuti la
finite, esige una ragione sufficiente della sua esistenza e natura, e questa non può essere che Dio, e più precisamente la volontà sistema di realtà
divina, la quale
proprio agire.
volta trova ne1l’ottimo la ragione Sufficiente del Nella teodicea Wolff ricalca le linee della teodicea leibnia sua
ziana. Come Leibniz egli distingue tra male metafisico, fisico e morale. Il primo fa parte della natura stessa di ogni realtà finita, che mai può essere assolutamente perfetta. Quanto al male fisico e morale, è necessario che ne sia quanto meno prevista la possibilità.La questione non è se Dio avrebbe potuto creare un mondo senza il male, ma se c’è una ragion sufficiente per creare un mondo da cui il male, o almeno la sua possibilità, non può essere assente. La risposta di Wolff ‘e che Dio ha creato il mondo in vista di essere conosciuto, onorato e lodato dall'uomo. Già dal poco che si è detto si vede quanto fosse assurda l'accusa di ateismo che Venne mossa a Wolff. L'unica spiegazione di questa accusa era il timore da parte dei teologi che Wolff ponesse la ragione davanti alla fede, minando in tal modo le radici del cristianesimo (come stavano effettivamente facendo gli illuministidel suo tempo). Benché privo di originalità, Wolff divenne una delle figure dominanti della filosofia tedesca del secolo XVIII. Quando Kant parlerà di metafisica ed esaminerà le dimostrazioni metafisiche sull’anima, sul mondo e Dio, lo farà quasi sempre riferendosi a Wolff. In effetti nel periodo precritico i suoi autori preferiti furono Wolff e Baumgarten.
1)
Cf. E. GILSON, Beirzg and some philosophers, Toronto 1952.
234
Parte seconda
Alexander Gottlieb Baumgarten Alexander Cottlieb Baumgarten (1714-1762) fu per molti anni profesdi filosofia a Francoforte sull’Oder. Egli viene ricordato nella storia della filosofia soprattutto perché autore di un'opera, la Metaphysica, di cui Kant si servì per le sue lezioni accademiche, postiliandolaa margine. Discepolo di Wolff, nella sua Metaphysica Baumgarten presenta una esposizione organica del pensiero del maestro. In un'altra opera, le Meditatioizes, Baumgartcn studia le questioni relative alla bellezza e introduce, per la prima volta nella storia della filosofia, il termine estetica, per denominate la dottrina dell'arte. Questa viene da lui concepita come una ”conoscenza sensibile chiara", ed è pertanto qualcosa di intermedio tra l'oscuro sentire della semplice sensazione, e il distinto intendere della pura ragione. Baumgarten anticipa un concetto dell'arte che sarà ripreso da Kant e godrà molta fortuna nella filosofia moderna, soprattutto tra gli idealìsti. sore
Suggerimenti bibliografici CAMPO, Ch. Wolffe il razionalismoprecritico, 2 volL, Milano 1939. I. ECOLE, La métaphysique de Christian Wolff, Hildesheim 199D. H. LEVY, Die ReligionsphilosophieCh. Wolffs, Wiirzburg 1928. B. A. POPPE, A. G. Baumgarten, seine Bedeutimg und Stellung in der LeibnizM.
wolfischen Philosophie,Berne-Leipzig 1907.
UEMPIRISMO: LA METAFISICA PRIGIONIERA DEI SENSI
La reazione degli empiristi al razionalismo L’avanzata trionfale della metafisica moderna finisce con Leibniz: all'improvviso i monumentali sistemi metafisici costruiti da Cartesio, Malebranche, Spinoza e Leibniz cominciano a vacillare dopo che si scopre che non sono stati costruiti sulla solida roccia, ma sulia mobilesabbia.
Uavanzata della metafisica moderna subisce un subitaneo arresto per opera degli empiristi inglesi, che criticano aspramente le metafisiche dei razionalisti; e i loro attacchi sono talmente furiosi e massicci che non colpiscono soltanto le metafisiche di Cartesio, Malebranche, Spinoza e Leibniz, ma coinvolgono e sembrano trascinare nella rovina la metafisica in quanto tale. Infatti essi ridimensionano i poteri della ragione a tal punto che a questa viene tolto ogni capacità di superare il mondo della esperienza sensibile per inoltrarsi in quello immateriale e intelligibile della trascendenza. Nella storia della metafisica gli empiristi entrano nella schiera che negli ultimi secoli si è andata ingrossando sempre più dei suoi nemici, vale a dire di coloro che non solo si rifiutano di costruire qualsiasi sistema metafisico, ma cercano di dimostrare che l'avventura stessa della metafisica è di per sé destinata al fallimento. Non tutti gli empiristi sono così radicali. Ma chi, come Hume, è fedele alle premesse dell’empirismo e le applica con coerenza, esclude perentoriamente che l'indagine metafisica possa approdare a esiti positivi. Gli empiristi rovesciano completamente le pretese dei razionalisti e la loro polemica antimetafisica va letta in chiave antirazionalistica. Mentre i razionalisti avevano esaltato eccessivamente i poteri della ragione, e avevano sfornato una bella sequenza di costruzioni metafisiche, in cui sembra che la ragione sappia tutto su Dio e sull'ordine dell’universo, gli empiristi, seguendo l'esempio di Occam, negano più o meno radicalmente alla ragione la capacità di penetrare nel mondo trascendente, cioè di costruire un sapere metafisico. Lo scontro tra razionalìsti ed empiristi avviene anzitutto e soprattutto sul terreno gnoseologico. l razionalisti avevano sostenuto che la cono— scenza sensibile è fallace e che, quindi, dev'essere totalmente disattesa e accantonata; ma allo stesso tempo avevano affermato che la ragione ha un contatto diretto e immediato con la realtà e quindi con la verità; ciò -
-
236
Parte seconda
avviene mediante la intuizione che le procura
quelle idee chiare e distinte, che sono il suo materiale per le deduzioni e per le costruzioni dei suoi sistemi. Gli empiristi ribaltano completamente il quadro del processo conoscitivo. Unica fonte della conoscenza è l'esperienza sensibile, la quale ò essenzialmente legata a oggetti particolari del mondo materiale. La ragione non possiede nessun potere intuitivo, ma soltanto quello di collezionare idee, di sintetizzarle o scomporle. Le sue argomentazioni restano però sempre fragilissime, perché fragili sono le idee con cui lavora. È evidente che il preambolo gnoseologico dellempirismo mina le basi della metafisica e la rende praticamente impossibile. Senonché il processo conoscitivo non Viene inteso allo stesso modo dai tre grandi padri dell'empirismo inglese: Locke, Berkeley e Hurne. In Locke c'è un tentativo di conciliare l’empirismo con le esigenze della metafisica. In Hume c'e un aperto rifiuto della metafisica e un completo sradicamento dei suoi principi, in primo luogo del principio di causalità. Nel ”pio" Berkely, che pure accetta le premesse gnoseologiche degli empiristi, c"e infine una fuga verso la trascendenza a cui si attribuisce anche l'origine di tutta la nostra conoscenza. Nella storia della metafisica il capitolo dell’empirismo ‘e molto importante, perché dà il via a una corrente filosofica che tornerà di moda dopo Kant, prima nelle vesti del positivismo di Comte e Spencer e più tardi in quelle del neopositivismo di Carnap, Ayer, Russell.
Iohn Locke VITA E OPERE
John Locke nacque a Wrington, in Inghilterra, il 29 agosto 1632. Fece i primi studi in famiglia, fino a 14 anni. Poi il padre riuscì a farlo entrare nella scuola di Westminster e nella università di Oxford, dove il giovane Locke si dedicò con passione agli studi della filosofia, della medicina e delle scienze sperimentali. La cultura che Locke assorbì a scuola, soprattutto a Oxford era una cultura ispirata al classico anglicanesimo liberale. Dopo la laurea, per molti anni fu professore a Oxford. Poi si trasferì a Londra, dove incontrò Shaftesbury e divenneil medico personale del futuro cancelliere d'Inghilterra. A Londra i suoi legami con la cultura tradizionale si attenuarono e si rafforzarono invece quelli con la cultura scientifica militante e con la politica attiva. Fu poi spinto a occuparsi di
tecnica finanziaria e di economia monetaria. Shaftesbury credeva nell'espansione coloniale inglese, e vedeva nelle imprese coloniali uno degli aspetti dell'attività principale cui lo stato doveva mirare: l'incremento della ricchezza attraverso il commercio. La casa di Shaftesbury era
Lfmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi anche
un
uomini
centro di ritrovo della
237
Londra intellettuale: vi convenivano
politici, scienziati, ecclesiastici illuminati. Locke
era
l’animatore
queste riunioni: da una di queste riunioni doveva nascere la sua opera più importante, il Saggio sullîrztelligenza umana. Era l'inverno 1670-167]. Si discutevano i vecchi problemi incontrati a Oxford e che allora erano assai dibattuti dai filosofi e dai teologi: la conoscibilìtàdella legge naturale e delle verità religiose. Durante la discussione con gli amici, Locke fece loro presente che sarebbe stato del tutto inutile continuare la discussione, finché non si fosse accertato il valore della conoscenza «determinando quali cose è atta a conoscere e quali no». Locke si persuase che quella era la sua nuova vocazione e, da quel momento, per oltre vent'anni, si
di
occupò soprattutto del problema della conoscenza, sul quale, prima della stesura definitiva del famoso Saggio sullîntelligenza umana, scrisse due importanti abbozzi di quella che sarebbe stata l'opera definitiva. Quando, dopo la salita al trono di Carlo Il, il suo protettore Shaftesbury cadde in disgrazia e dovette andare in esilio in Olanda, Locke, sospettato e spiato dai partigiani del re, decise a sua volta di cercare rifugio in quel paese, allora terra di libertà per gli uomini di pensiero, dove Shaftesbury era morto da pochi mesi. Ma la parentesi olandese per Locke non fu del tutto tranquilla: il governo inglese aveva chiesto la sua estradizione, perché accusato di aver partecipato alla congiura per detronizzare il re. Dovette perciò, per precauzione, tenersi nascosto,
mutando spesso residenza e nome. Qui, come in Francia, poteva contare sull'aiuto di vari amici, tra cui il Bayle e il Le Clerc, suo futuro biografo. In questo anni lavorò intensamente alla redazione definitiva del suo capolavoro, il Saggio sali‘ ’intelligenza umana e alla stesura di altri scritti che apparvero più tardi. Tornato in patria dopo sei anni cli esilio (1683-1689), diede alle stampe le sue opere principali: Due trattati sul governo, Lettere sulla tolleranza religiosa, Saggio sullîntellîgenza umana. Partecipò per qualche tempo alla vita pubblica, all'inizio del regno di Guglielmo d’Orange; poi si ritirò a Oates, dove morì il 28 ottobre 1704. Di lui il suo primo biografo, Le Clerc, traccia il seguente profilo: «Era
un uomo
dotato di
un
ingegno rapido e
acuto, di
un
giudizio
solido, di una memoria tenace, di nobili e generosi sentimenti, di un temperamento gaio e contento, che conservava anche nei accurato e
momenti di grande difficoltà. Aveva letto e viaggiato molto. In breve tempo accumulo una vasta conoscenza ed esperienza, e divenne il migliore uomo di Stato in Inghilterra, a un’età in cui gli altri a stento cominciano a capire qualcosa dei pubblici affari (...). Era talmente veloce nell'apprendere che, dopo la lettura di un libro, anche se effettuata in fretta, poteva coglierne i pregi e i difetti meglio di coloro che lo avevano letto lentamente e con grande cura. Era un uomo dal portamento franco e libero, nemico dei complimenti, per nulla cerimonioso, di modo che tutti potevano conversare con lui con libertà e
238
Parte seconda
senza soggezione. Si comportava familiarmente con tutti ma non fece mai nulla di disdicevole e non all'altezza del suo carattere. Non poteva assolutamente sopportare alcunché che avesse la minima parvenza di schiavitù o in se stesso o nei suoi ìnferioriml
LOCKE F. CARTESIO Mentre Cartesio e universalmente riconosciuto come il padre della filosofia moderna in tutte le sue forme ed espressioni, a Locke spetta il titolo di padre di quella importante e influente espressione della filosofia moderna che porta il nome di empirismo. Il punto di partenza di Cartesio e Locke ‘e lo stesso: il problema della conoscenza e del suo valore. Ma, come si vedrà, il loro punto d'arrivo è molto diverso. Locke «si riallaccia immediatamente al problema che Descartes aveva proposto, con impareggiabile chiarezza, alla filosofia moderna. Voler abbracciare e misurare la totalità delle cose sarebbe un’impresa vana: dovrà però essere possibileil determinare con precisione e sicurezza i limiti dell'intelletto, di cui noi acquistiamo un’intima coscienza... Il problema del metodo afferra anche Locke, pur essendo destinato ad assumere ben presto in lui caratteri nuovi e particolari»? Così, per entrambi il punto di partenza è l'origine della conoscenza, perché dalla sua origine dipende anche il suo valore. Per Cartesio l'origine e innata: l'anima porta con sé sin dalla nascita i principi primi d'ogni conoscenza, e le idee chiare e distinte di tutte le verità fondamentali: quindi il valore della conoscenza risulta assoluto e infallibile.Locke respinge 1’innatismo cartesiano e assegna a tutta la conoscenza un'origine empirica: ogni idea si forma a partire dai sensi. Delle cose di cui non si ha una conoscenza empirica si può ottenere qualche idea mediante il ragionamento, la quale però diviene un'idea più fittizia che vera. Locke è senz'altro un empirista ma un empirista moderato che lascia ancora la porta aperta alla speculazione metafisica. La sua gnoseologia non spodesta la metafisica ma la precede e ne fissa i limiti che sono molto meno angusti di quelli che le assegnerà Kant. Come abbiamo già visto nei precedenti capitoli il prolegomeno gnoseologico alla metafisica era già un fatto acquisito anche nel razionalismo, ma in Locke acquista un ruolo ancora più esplicito e decisivo. Infatti i razionalisti costruttori di monumentali sistemi metafisici avevano senza dubbio analizzato, ma solo come introduzione al loro proprio sistema, la natura e il processo del pensiero. -
1) 7-)
-
M. LE CLERL’, The Lifc miri Character ofMr. 101m Locke, in J. LOCKE. An Essay concernirtg lzuman Llnderstanding,Chicago-London 1933, pp. XIV-XV. E. CAsslRER, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1953, vol. Il, p. 262.
Lfmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
239
«Con precipitazione dogmatica essi si erano affrettati dall'esame del pensiero verso la ricerca della soluzione dell'esistenza. L'importanza della scuola classica inglese nella storia della filosofia sta in ciò che essa fa dell'indagine sullo sviluppo della conoscenza umana, sulle forme e sulle presupposizioni di cui quest'ultima dispone, un problema indipendente. Iohn Locke e i suoi seguaci assicurano al problema della conoscenza la sua indipendenza di fronte al problema dell'esistenza, dal quale nei grandi sistemi era stato assolutamente posto nel-
l'ombra. Essi posero la teoria della Conoscenza innanzi alla metafisica. Se (per usare il linguaggio di Kant) per dogmatismo si intende un indirizzo che senza un sufficiente esame delle Condizioni e dei limiti della conoscenza si serve dei nostri concetti per stabilire l'essenza delle cose, laddove la filosofia critica esamina la facoltà della conoscenza prima di accingersi a speculare sull'esistenza, la filosofia critica incomincia definitivamente con Locke>>fi
In Locke si incontrano e si confondono due importanti eredità: quella del razionalismo cartesiano e quella clell'empirismo inglese, ma con il netto sopravvento della seconda sulla prima. Locke si forma intellettualmente e scrive le sue opere nell'ambiente inglese dove, grazie a Hobbes e a Bacone, la experimental philosoplzy aveva già posto solide radici. Locke fece suo il punto di partenza di questa filosofia, e mai l’abbandonerà neppure dopo l'incontro con Cartesio: l'uomo trae tutte le informazioniiniziali dalla sensibilità. L'incontro con Cartesio ebbe luogo a Oxford durante gli studi universitari. La lettura delle sue opere, secondo testimonianze attendibili, impressione vivamente il giovane Locke. La nuova filosofia gli sembrava molto più attendibiledella filosofia imparata a scuola, non foss'altro per il desiderio di chiarezza e semplicità che la ispirava. «Non c'è dubbio che la filosofia cartesiana era apprezzata (negli ambienti inglesi) come il tentativo di rompere definitivamente con la filosofia delle scuole, con le entità fittizie che popolavano le spiegazioni da essa fornite, come il maggiore tentativo di costruire una spiegazione unitaria della natura ispirata alla chiarezza, semplicità e attendibilità delle nozioni usate».4
Ma il canone empirìstico impedì a Locke di sottoscrivere le ambizioni di Cartesio di costruire, in base a mere intuizioni e deduzioni, un monumentale edificio metafisico, dove con catene deduttive interminabili,si parte dall'uomo come essere pensante, si sale fino alla divinità, per fare finalmente ritorno alle cose come entità estese e materiali. Locke capovolge questa impostazione: l'uomo conosce i dettagli: le idee semplici,
3) 4)
H. HOEFFDING, Storia dellafilosofia moderna, Firenze 1970, p. 1. C. A. VIANO, Introduzione a ]. LOCÎKE, Saggio sullîntelligenza abbozzo, Bari 1988, p. 22.
umana.
Secondo
240
Parte seconda
che costituiscono il punto di partenza del nostro conoscere,
sono
infor-
periferiche delle cose; l'essenza però gli sfugge. Le costruzioni intellettuali nelle quali l'uomo può fare sbizzarrirela propria immaginazione non valgono nulla, se non gli permettono di tornare ai dettagli, di prevederli, di coglierne le associazioni. La conclusione era che sul conto mazioni
delle Cose esistenti l'uomo può fornire soltanto proposizioni particolari e raggiungere solo verità parziali. In breve, possiamo dire che Locke parte con Cartesio, ma finisce per rovesciare il suo razionalismoin empirismo.
LÎORÎGINE DELLE
IDEE E LA NUOVA MAPPA DEL MONDO CONOSCITÎVO
Ci sono tre premesse (o ”pregiudizi" nel senso gadameriano del termine) che fissano l'orizzonte gnoseologico lockiano e di cui occorre tener conto per comprendere esattamente il senso e la portata della nuova
gnoseologia disegnata da Locke.
Uoggettività della conoscenza Locke fa chiara e aperta professione cli realismo. Nel secondo abbozzo del Saggio leggiamo: della conoscenza è la verità (m) e questa non è altro che l'apprendere che le cose sono come realmente sono ed esistono, e nell'esprimerla con le parole adatte a farla comprendere agli altri come noi (...)». «Con l'attuale accoglienza cli queste idee noi abbiamo una conoscenza sicura che qualche cosa esiste realmente in quel momento fuori di noi, che è causa dell'idea dentro di noi».5
«Oggetto
Pertanto le idee non si riferiscono a stati di coscienza, a modificazioni soggettive, ma alla realtà. Le idee hanno carattere intenzionale e pertanto oggettivo, come ha sempre insegnato il realismo.
Dipendenza essenziale di ogni conoscenza umana dai sensi Tutte le nostre conoscenze sono legate all'esperienza sensitiva. Su
questo punto Locke non ha mai
primo ”Abbozzo" del
avuto
dubbi o tentennamenti. Già nel
Saggio scriveva:
«Ogni nostro ragionamento si fonda e riposa interamente sull'esperienza e sulla sensazione umana, ossia sui pochi modi del pensiero che troviamo in noi stessi, e sulle idee che accogliamo mediante l'esercizio dei nostri sensi, sì che di nessuna verità o probabilitàpossiamo essere assicurati per altra ziìa che questa. Questa sola è per l'intel5) ]. LOCKE, Saggio sull'intelligenza umana. Secondo abbozzo, cit., c. lll, l
e
5.
Dlîmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
241
ligenza l'origine delle sue prove ultime non meno che delle sue idee primitive, e sempre alla stessa fonte essa ricorre ogni volta che voglia razionalmente ed efficacemente esaminare la verità di qualsiasi attestazione, opinione 0 problemamb Locke esclude qualsiasi altro accesso, via, fonte a cui l'intelligenza umana possa attingere al di fuori dei sensi. Per lui sono vie e fonti del tutto fantastiche e arbitrarie quelle escogitate da Platone, Agostino, Avicenna,Cartesio, per attribuire all'uomo la conoscenza di "Verità eterne", che di fatto non ha. Sul necessario collegamento di tutto quanto l'intelletto conosce con le facoltà sensitive Locke riprende la famosa dottrina aristotelica: nihil est in intellectu iguin prius fuerit in sensibus. Senonché Aristotele col suo intelletto agente e con l'operazione dell'astrazione dava all'intelligenza umana il potere di andare ben oltre i sensi e formarsi nuove idee. Locke invece ignora la via dell'astrazione; pertanto nella sua teoria l'intelletto può soltanto o comporre o scomporre idee e classificarle.
La
conoscenza
delle idee
La Conoscenza delle idee di tutte le idee è un'operazione dell'anima, dello spirito, non dei sensi. I sensi sono lo strumento, non la causa efficiente delle idee. Le idee sono sempre un atto dello spirito. Perciò la dipendenza dai sensi non compromette il carattere spirituale delle idee, ma soltanto delimita il mondo delle idee accessibili all'intelligenza umana. Locke non è affatto un sensista, ma appartiene decisamente alla corrente degli spiritualisti e degli intellettualisti. In effetti tutta la sua indagine si concentra sull’intelletto e l'intelletto è chiaramente concepito come facoltà spirituale. Questo è detto espressamente nei primi capoversi della ”Introduzione” al Saggio: -
-
«È l'intelligenza quella che pone l'uomo sopra tutti gli altri esseri sen-
sibili,e gli dà il vantaggio del dominio che ha sopra di essi. Perciò vale certamente la pena di farne argomento di ricerca, anche per la
nobiltà. L'intelligenza come l'occhio mentre ci fa vedere e percetutte le cose, non ha consapevolezza di se stessa, e ci vogliono arte e fatiche per porsi a una certa distanza da essa e farne oggetto della nostra considerazione. Ma per quanto grandi siano le difficoltà che si trovano sulla via della nostra ricerca, per quanto pesanti le tenebre che ci tengono così profondamente all'oscuro di noi stessi, sono certo che tutta la luce che riusciremo a far entrare nella nostra mente, tutte le informazioni che otterremo intorno alla nostra intelligenza, non solo saranno assai gradevoli, ma ci daranno un grande vantaggio nel dirigere i nostri pensieri nello studio delle altre cose»? sua
pire
6) Citazione in C. A. VIANO, 0p. cit., p. 34. 7) J. LOCKE, An Essay corzcerning Human Understanding, cit., I, 1, 1.
242
Parte seconda
Dopo queste importanti chiarificazioni preliminari, possiamo procedere all'esame dell'opera. L'obiettivo che Locke si propone nel Saggio è esclusivamente gnoseologico: accertare l'origine e il valore delle nostre idee. La sua indagine verte anzitutto sull'origine delle idee, ossia sulle vie e i modi con cui la mente si forma le idee; questa indagine ha carattere "storico", come lo definisce lo stesso Locke; noi oggi lo chiameremo fenomenologico. Non si basa su postulati ma su descrizioni obiettive, su osservazioni meticolose, per vedere come stanno veramente le cose per quanto concerne l'origine delle nostre conoscenze. Ecco come si esprime Locke, nel capitolo introduttivo al Saggio: <<... Credo che non avrò completamente buttato via i pensieri impiegati in questo argomento, se, con questo nzetodo semplice e storico, posso dare in qualche modo conto delle vie attraverso le quali il nostro
intelletto arriva alle nozioni che abbiamo delle cose, e posso stabilire una qualche misura della certezza della nostra conoscenza, o i fondamenti delle persuasioni che si possono trovare tra gli uomini, così varie, differenti e completamente contraddittorie, e tuttavia asserite da una parte e dall'altra con tanta sicurezza e fiducia, che chi getta uno sguardo sulle opinioni dell'umanità osserva la loro opposizione e, neìlo stesso tempo, considera la passione e la devozione con cui esse sono accolte, la risolutezza e l'energia con cui sono mantenute, può forse avere ragione di sospettare che o non esiste affatto una cosa come la verità o l'umanità non ha mezzi sufficienti per ottenere una conoscenza di essa. In primo luogo esaminerà l'origine delle idee, nozioni o qualunque altro nome vi piaccia dare ad esse, che un uomo osserva ed è consapevole di avere nel proprio spirito, e i modi in cui l'intelligenza giunge a essere fornita di esse. In secondo luogo, tenterò di mostrare quale conoscenza l'intelligenza ha per mezzo di quelle idee, e la certezza, l'evidenza e l'estensione di
quella conoscenza.
In terzo luogo, condurrò qualche ricerca sulla natura e sui fondamenti della Credenza (faitiz) o opinione; con credenza o opinione intendo l'assenso che diamo a una proposizione, considerandola come vera, anche se della sua verità non possediamo conoscenza certa. Conducendo questa ricerca avremo occasione di esaminare le ragioni e i gradi da? l'assenso. Se con questa ricerca sulla natura dell'intelligenza potrò scoprire i poteri (powers) dellinteiligenza, la loro estensione, a quali cose essi sono adatti in un grado qualsiasi, dove essi vengono meno, suppongo che ciò possa essere di qualche utilità per convincere l’industrioso spirito dell'uomo a essere più attento nellimmischiarsi in cose che vanno al di là della sua comprensione, a fermarsi quando è arrivato all'ultimo confine dei suoi poteri, a starsene tranquillo in una quieta ignoranza delle cose che, ben esaminate, vengono riconosciute come cose che stanno al di là del raggio delle nostre capacità. Forse non dovremmo essere cosi pronti, per affettare una conoscenza universa-
Elîmpirismo: l'a metafisica prigioniera dei sensi
243
le, a sollevare questioni 0
a tormentate noi stessi e gli altri con dispuper le quali la nostra intelligenza non è fatta, delle quali non possiamo costruire nel nostro spirito percezioni (perceptions) chiare e distinte, o delle quali, come troppo spesso forse è accaduto, non abbiamo nessuna nozione affatto. Se ci riesce di trovare fin dove l'intelligenza può spingere il proprio sguardo, fin dove l'intelligenza ha facoltà per raggiungere la certezza, in quali casi essa può soltanto
te intorno
a cose
esprimere giudizi e congetture, possiamo imparare ad accontentarci di ciò che è raggiungibileda noi nello stato in cui attualmente ci troViamo».3
questo testo programmatico risulta chiaramente come il modo di procedere di Locke nella ricognizione dei poteri (ivowers) conoscitivi dell'uomo sia assai diverso da quello di Cartesio. L'autore del Discorso del metodo parte dal sospetto che qualsiasi nostra conoscenza possa essere falsa, e poiché la fonte principale dei nostri errori sono i sensi, egli scarta Da
tutte le conoscenze
sensitive
tutte le insidie del
dubbio, e che
e va
alla ricerca di
una
una
Verità che resista
a
scoperta tale verità, avanza l'universo come se il potere della volta
trionfalmente alla conquista di tutto ragione fosse infinito: di qui il razionalismocartesiano. Per contro l'autore del Saggio non ha l’assillo del dubbio, ma avverte il bisogno di fare un'attenta ricognizione dell'origine delle nostre idee, una precisa verifica delle vie per cui le raggiungiamo, e di accertare quindi anche quali sono i nostri effettivi poteri. Questi, alla fine dell'indagine lockiana risulteranno piuttosto modesti. Di qui il semi-enîpirìsmo o sentirazionalismo di Locke, il quale non disdegna bensì accoglie serenamente «una quieta ignoranza delle cose che, ben esaminate, vengono riconosciute come cose che stanno al di là dell'orizzontedelle sue capacità». Il Saggio sullîntellîgerzza zimana è diviso in quattro libri che trattano rispettivamente delle idee innate, del processo della conoscenza, del linguaggio e del valore della conoscenza.
Nel Primo Libro Lockc conduce una critica decisa e meticolosa della dottrina cartesiana delle idee innate e fa vedere che questa dottrina è insostenibile per i seguenti motivi. 1) Essa contraddice l'esperienza: infatti se ci fossero idee innate, dovrebbero essere presenti già nella mente del bambino e del selvaggio cresciuto lontano dalla civiltà. Ma l'esperienza mostra decisamente il contrario. 2) È impossibile accertare la verità di una conoscenza innata. Infatti qualora si riconosca l'esistenza di idee innate e, quindi, non provenienti dall'esperienza, non sarà mai possibile verificare il loro valore e non potremo mai distinguere il vero dal falso, non potendo confrontarle con l'esperienza, che è l'unico modo di stabilire se qualche cosa è vera o falsa. 3) Nessuno degli argo-
3) Ibid., I, 1, 2-4.
244
Parte seconda
menti addotti da Cartesio è convincente e probativo. l suoi argomenti principali sono due: a) il consenso universale: tutti gli uomini accettano i primi principi fin dal primo uso della ragione; b) l'identità della natura umana in tutti gli uomini. Ma, secondo Locke, l'identità della natura umana non è dimostrata; e il consenso universale non dice nulla riguardo all'origine delle idee. Accantonata la spiegazione innatistica dell'origine delle idee, nel Secondo Libro, Locke effettua la sua esplorazione del mondo della conoscenza, per accertare come effettivamente, ”storicamente" si formano nella nostra mente le idee. Egli constata che al momento della nascita la mente non possiede nessuna idea, è un tabula rasa in qua nihil Scriptnm est. La conoscenza umana inizia con l'esperienza sensibile ed e da essa sempre condizionata. Nel processo conoscitivo Locke distingue quattro fasi: l'intuizione, la sintesi, l'analisi e la comparazione. Dall'esperienza immediata, per intuizione, si percepiscono le idee senzplici. Queste sono di due tipi: idee semplici che si riferiscono ai corpi esterni e sono frutto della sensazione, e che riproducono le qualità primarie e secondarie dei corpi; idee semplici che si riferiscono al nostro essere, come le idee del pensare, volere, soffrire, vedere ecc. Le prime si chiamano idee di percezione, le seconde idee di riflessione. Ecco il celebre testo in cui Locke descrive la fase iniziale di tutta la nostra conoscenza:
«Supponiamo che lo spirito sia, come si dice, un foglio di carta bianca, essere forla nostra fondata nella tutta è quale Dall'esperienza In analisi deriva. in ultima dalla essa primo luogo Conoscenza, e quale i nostri sensi, avendo rapporti con oggetti sensibili particolari, convogliano nello spirito diverse percezioni distinte dalle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono coi sensi... Chiamo sensazione (sensation) questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, poiché essa dipende completamente dai nostri sensi e perché attraverso i sensi agisce sull'intellett0. In secondo luogo, l'altra fonte dalla quale l'esperienza fornisce l'intelletto con idee, è la percezione delle operazioni del nostro spirito dentro di noi, quando esso è impiegato intorno alle idee che ha ottenuto... Ma come chiamo sensazione la prima fonte delle idee, così chiamo riflessione (reflectinn) questa seconda fonte, perché le idee che essa fornisce sono soltanto quelle che lo spirito ottiene riflettendosulle proprie operazioni dentro se stesso>>fi
privo di qualsiasi segno, senza nessuna idea; come viene a
nita di idee?...
Dalle idee semplici, per sintesi cioè per combinazione,la mente si forma le idee complesse: «Quando si è fornito di queste idee semplici, l'intelletto ha il potere di ripeterle, paragonarle e unjrle, in una varietà di modi che si può dire infinita, e così può produrre nuove idee complesseMD
L'En2pirisnz0: la metafisica prigioniera dei sensi
245
Dalle Varie idee complesse, per analisi, si formano le idee astratte. Analizzando varie idee complesse (cioè idee di cose particolari) simili tra loro, ritenendo gli elementi comuni, l'intelligenza si forma una nuova idea molto più schematica delle singole idee complesse, a nessuna delle quali essa corrisponde pienamente, ma è capace di rappresentarle tutte. In questo modo dalle idee complesse di Pietro, Paolo, Giovanni... si forma l'idea astratta di uomo. L'idea astratta non rappresenta l'essenza, perché l'essenza è incono— scibile. Gli elementi contenuti nell'idea astratta non sono elementi necessari, ma solo elementi comuni, quelli che dalle ripetute idee complesse hanno segnato una traccia più profonda nella mente. Sostanza: secondo Locke la più importante idea astratta e quella di sostanza in generale. Egli distingue tra sostanze particolari (cui corrispondono le idee complesse) e sostanza in generale, cui corrisponde la idea astratta di sostanza. Locke ammette che l'uomo ha idee chiare delle sostanze particolari, ma afferma che l’uomo non ha nessuna idea chiara della sostanza in generale. Infatti, dice Locke, «se ciascuno di noi si esamina riguardo alla nozione di sostanza in generale, troverà di non avere altra idea che la supposizione di un non so che, che fa sostegno alle qualità che producono in noi delle idee semplici. Queste qualità sono comunemente chiamate accidenti. Se qualcuno chiederà che cosa è il substrato al quale il colore o il peso ineriscono si risponderà che tale substrato sono le stesse parti estese e
solide, e se si domanda a che
cosa ineriscono la solidità e l'estensione si potrà rispondere nel migliore dei casi, se non come quellîndiano, il quale, dopo aver affermato che il mondo è sostenuto da un grande elefante, fu richiesto su che cosa l'elefante poggiasse; al che rispose: Su una grande tartaruga. Ma essendogli ancora domandato quale appoggio avesse la tartaruga, rispose: Qualcosa che io non conosco affatto... L'idea alla quale noi diamo il nome generale di sostanza non è altro che tale supposto, ma sconosciuto sostegno delle qualità esistenti di fattom“
non
L'idea generale di sostanza non ci fa conoscere delle cose niente di più di quanto conosciamo mediante le idee semplici. E un'idea che non ci dà nessuna conoscenza delle cose. Essa sta a postulare qualcosa che siamo certi che esiste, ma che non conosciamo. Infatti siamo certi che ci sono sostanze corporee e sostanze spirituali, ma non abbiamo nessuna idea chiara né della sostanza spirituale, né della sostanza materiale. Dio non ci ha concesso la conoscenza della sostanza delle cose, perché all'uomo non è necessario conoscere le cose con tanta profondità.
H) Saggio Il, 23, 2.
246
Parte seconda
«Noi siamo stati
provveduti di
facoltà
capaci di
conoscere
nelle
cose
compimen-
tanto quanto occorre per arrivare alla conoscenza di Dio e al dovere».13 to del fini non occorre conoscere la sostanza Per
proprio delle cose. conseguire questi Da questa critica della conoscibilitàdella sostanza alla negazione della sua esistenza, cioè alla negazione della esistenza di ogni realtà soggiacen-
sensi, il passo è breve. Però Locke non ha fatto questo passo, e si è accontentato di affermare che la sostanza non è inconoscibile in se stessa, ma solo per linettitudine della mente umana. Ma lo faranno dopo di lui Berkeley e Hume: Berkeley per ciò che riguarda la sostanza materiale, Hume per ciò che riguarda anche la sostanza spirituale. In realtà il concetto di sostanza è estraneo alrempirismo, così come è stato impostato da Locke. Comparazione: Accostando un'idea a un'altra idea (senza associarle, senza operare una sintesi) e paragonandole tra loro si formano le relazioni: le idee che esprimono una relazione. Così paragonando l'idea di causa con quella di effetto si forma l'idea di causalità: l'idea che esprime la relazione di causa ed effetto. Come si vede, per Locke, le relazioni non sono delle proprietà delle Cose, ma semplici idee di ragione. Prima di affrontare il difficile problema del valore della conoscenza, nel Terzo Libro Locke studia il linguaggio che è lo strumento con cui noi comunichiamo le nostre idee agli altri. Riprendendo la dottrina di Aristotele, Locke dice che le parole sono segni convenzionali che hanno come referente immediato le idee; mentre le idee sono segni delle cose. Secondo Locke i nomi singolari indicano idee complesse, invece i nomi generali indicano idee astratte. Locke esalta il grande valore pratico del linguaggio, in quanto semplifica il processo conoscitivo, unendo sotto il medesimo segno la parola intere colonie di oggetti particolari. Pero ammonisce anche contro i pericoli del linguaggio, in quanto esso tende te ai fenomeni dei
-
a
-
sostituirsi al pensiero.
IL VALORE DELLA CONOSCENZA Come sappiamo, l'obiettivo principale che Locke si prefigge con l'esame dellbrigine della Conoscenza è quello di determinare la sua estensione e il suo valore. Per quali realtà lo sguardo della nostra intelligenza è proporzionato e con quale grado di certezza può conoscerle? Una volta riconosciuto che le idee semplici che la nostra mente acquisisce riguardano le qualità primarie e secondarie dei corpi e gli atti che si svolgono nel nostro spirito, e ammesso che l'idea di sostanza non riguarda l'essenza ma soltanto l'esistenza delle cose, Locke si chiede:
12) lbid., 23, 12.
Uiîmpirismo: la nzetafisica prigioniera dei sensi
247
quali
sono le cose che noi possiamo realmente conoscere? Solo le cose materiali o anche quelle spirituali; solo i corpi o anche gli spiriti; solo questo mondo e il nostro io o anche Dio? Sappiamo che Locke non reclama per la ragione poteri eccessivi che di fatto non ha. Egli fa professione di una ”quieta ignoranza” rispetto a realtà e a verità che superano i poteri della ragione. Su questo punto egli fa un passo indietro rispetto ai razionalisti che reclamavano per la ragione poteri assoluti e ricupcra la dacia ignorantia dei metafisici cristiani. Senonché quella di Locke è una ignoranza quieta, rassegnata, che ha ben poco in comune con l'ignoranza ansiosa, irrequieta, che cerca di colmare con l'affetto del cuore il vuoto della ragione. Non c'è nessun "pathos? mistico nella quieta ignoranza del filosofo inglese, bensì una fredda constatazione dei limitati poteri conoscitivi dell'intelletto umano. Ma vediamo precisamente qual è l'insegnamento di Locke intorno al
valore della nostra conoscenza. interrogarsi sul valore della conoscenza equivale a chiedersi quale sia il suo grado di verità. Il concetto che Locke ha di verità è il classico concetto di adeguazione, ossia di corrispondenza tra ciò che la mente pensa o dice e le cose. Locke pone una netta distinzione tra verità mentale (o logica, del pensiero) e verità verbale (o semantica, delle parole): «La verità appartiene propriamente soltanto a proposizioni e di esse ci sono due specie, cioè quella mentale e quella zierbale, come ci sono due specie di segni comunemente usati, cioè le idee e le parole. Quando le idee sono poste insieme o separate nello spirito secondo che esse o le cose, in luogo delle quali stanno, sono in accordo o disaccordo, si ha quella che potrei chiamare la verità mentale; ma la verità delle parole è qualcosa di più, e consiste nell'affermare o negare le parole l’una dell'altra, secondo che le idee, in luogo delle quali le parole stanno, sono in accordo o disaccordo (...). La verità consiste nel tradurre in segni mediante parole l'accordo o disaccordo tra le idee, come esso è; il falso consiste nel tradurre in segni con parole l'accordo o disaccordo tra le idee in modo diverso da quello in cui esso è».î3
L'accordo o disaccordo tra le idee viene a sua volta suddiviso in quat-
specie: 1) identità o diversità; 2) relazione; 3) coesistenza o connessione necessaria; 4) esistenza reale. La prima specie di accordo (identità o diversità) si ha nel momento stesso in cui lo spirito percepisce un'idea e conosce di ciascuna ciò che essa è, e allo stesso tempo percepisce ciò che la differenzia dalle altre. La seconda specie di accordo (relazione) che lo spirito percepisce, non è altro che la percezione della relazione tra due idee qualsiasi, quale che sia la tro
13) Ibid., IV, 5, 2 s.
Parte seconda
248
loro specie, siano esse sostanze, modi 0 qualche altra cosa. La terza specie di accordo 0 disaccordo che può essere trovata tra le nostre idee è la coesistenza 0 non-coesistenza nello stesso soggetto; e questa specie appartiene in particolar modo alle sostanze. La quarta e ultima specie di accordo è quella dell'esistenza reale effettiva con un'idea qualsiasiflé La convenienza o sconvenienza, l'accordo o disaccordo tra le idee può essere colto in due modi: direttamente (intuitivamente) oppure indirettamente mediante la dimostrazione. Come si vede qui Locke ritorna ai due classici procedimenti usati da Cartesio per la formazione delle idee chiare e distinte, che Locke trasferisce alla questione della verità.
qui non si va oltre la Verità soggettiva: come passare a quella oggettiva? A questo scopo Locke ricorre al classico criterio dell’evidenza: le idee hanno carattere intenzionale: esse non rappresentano se stesMa fin
la realtà. Per le cose materiali l'evidenza è molto un'esperienza immediata e intuitiva: se ma
forte, perché di
esse
si ha
più certo che l'idea che riceviamo da un oggetto nella nostra mente, si tratta in effetti di una conoscenza intuitiva. Ma se ci sia soltanto quella idea nella nostra mente 0 anche l'esistenza di qualche cosa al di fuori della nostra mente che corrisponda a tale idea, questo per alcuni ‘e oggetto di discussione, poiché gli uomini possono avere siffatte idee nella loro mente mentre non c'è nessuna cosa, nessun oggetto che colpisce i nostri sensi. Ma a mio avviso, noi siamo provvisti di un'evidenza che ci libera da ogni dubbio; è sufficiente chiedere a qualcuno se non sia invincibilmenteconvinto che altra è la sua percezione del sole di notte e di giorno, quando assaggìa Yassenzio oppure odora una rosa...».15 «Non c'è nulla di
esterno è
proprio io: «Per quel che riguarda la nostra esistenza propria, la percepiamo così chiaramente e con tale certezza, che essa né ha bisogno né è capace di qualsiasi prova. Perché nulla può essere più evidente a noi della nostra propria esistenza. Penso, ragiono, sento piacere e dolore: può una di queste cose essere più evidente della mia propria esistenza? Se dubito di tutte le altre cose, proprio questo dubbio fa si che io percepiscala mia esistenza, e non mi lascerà dubitare di essa (...). L'esperienza
Ancora maggiore l'evidenza dell'esistenza del
perciò ci convince che abbiamo una conoscenza intuitiva della nostra esistenza propria, e una percezione interna infallibileche esistiamomîfi
14) Cf. ibid., 1, 2-7. 15) Ibid., 2, 14.
16) Ibid., 9, 3.
IJEmpiriSmO: la nzetqfisica prigioniera dei sensi
249
Per via dimostrativa, secondo Locke, l’uomo può giungere anche all'esistenza di Dio. Certo di lui la nostra intelligenza non possiede idee innate, nelle quali possiamo leggere la sua esistenza, come pretendono gli ontologisti (Cartesio, Spinoza, Malebranche). Tuttavia, avendoci fornito delle facoltà di cui il nostro spirito è dotato, non ci ha lasciato senza una testimonianza di se stesso: dal momento che abbiamo senso, percezione e ragione, non possiamo mancare di una Chiara prova della sua esistenza, fino a quando portiamo noi stessi con noi. Ecco come Locke argomenta l'esistenza di Dio, partendo dalla necessità che qualcosa deve esistere ab aeterno:
questa, che qualcosa deve esistere dalevident than thai sonzethinlg must be from
«Non c'è verità più evidente di
lrternità
(there i5
no
frutti
more
eternity). Non ho mai sentito parlare di nessuno così irragionevole o
che potesse supporre una contraddizione così manifesta come un tempo nel quale non ci fosse assolutamente nulla, perché questa è la più grande di tutte le assurdità, immaginare che il puro nulla, la per-
negazione e assenza di tutte le cose producano mai qualche esipertanto inevitabileper qualsiasi creatura razionale concludere che qualche essere è esistito dall’eternità».17 fetta
stenza reale. E
Provata l'esistenza necessaria di un essere eterno, Locke passa a illustrare i suoi attributi, che sono quelli che tutte le metafisiche hanno sempre riconosciuto a Dio. In primo luogo egli è dotato di intelligenza: «infatti pensare che una semplice materia non pensante produca un essere pensante intelligente è altrettanto impossibilequanto pensare che il nulla produca da se stesso materiamlfi Poi avvalendosi del classico criterio delle perfezioni trascendentali Locke riconosce a Dio tutte le perfezioni assolutamente semplici. Queste a lui appartengono in modo infinito mentre alle creature in modo finito. «Chi viene prima di ogni altra cosa deve necessariamente contenere, quanto meno, tutte le perfezioni che hanno la possibilità di esistere; né è possibileche conceda ad altri perfezioni che non ha, o in maniera attuale oppure in grado superiore».1° Tra gli attributi primari di Dio Locke annovera la sapienza e poi l'onniscienza, Yonnipotenza e la provvidenza e «tutti gli altri attributi che seguono necessariamentemî" Ma, osserva Locke, non c'è assolutamente da meravigliarsi se noi abbiamo una conoscenza molto limitata di Dio e delle sue operazioni: «Poiché non comprendi le operazioni della tua mente finita, di quella realtà pensante che è dentro di te, non ritenere
17) 11nd,, 10,8. m) una, 10, 10. w) lbid. 20) 11nd,, 10, 12.
250
Parte seconda
le operazioni della Mente eterna e infinita strano di non riuscire a conteneremzl che fece e governa tutte le cose, e che il cielo dei cieli non
capire
può può conoscere avvalendosi esclusivamente dei suoi poteri. Per sapere di più di Dio è necessario dar credito e prestare il proprio assenso a qualche divina rivelazione. Ma questo non rientra più nell'ambito della ragione ma in quello della fede. La Questo è quanto la
mente
umana
fede è l'assenso che si presta a una verità rivelata. Uassenso è certo, secondo Locke, se si è sicuri che ci si trova di fronte a una rivelazione divina; invece «se l'evidenza che si tratti di una rivelazione e che quello è il suo vero significato, non supera la probabilità, noi non possiamo andare più in là di essa col nostro assenso>>.22 Negli ultimi capitoli del Quarto Libro del Saggio, dedicati al problema dei rapporti tra fede e ragione, apparentemente Locke sposa la tesi tradizionale che la fede non può andare contro alla ragione,‘ di fatto però egli subordina la fede alla ragione. Infatti della rivelazione è disposto ad accogliere soltanto ciò che è dotato di una certa "ragionevolezza" (recisonableness): «Qualsiasi cosa Dio abbia rivelato è indubbiamente vero, ma se qualcosa appartenga alla divina rivelazione o no, questo spetta alla ragione decidere e giudicare; alla mente non è mai consentito di respingere una maggiore evidenza, e neppure le è consentito di aderire alla probabilità in opposizione alla conoscenza e alla certezza>>23 Pertanto alla fede Locke non concede altri fatti che quelli che pur ponendosi al di fuori dal1’0rdinario sono tuttavia ancora compatibili con ciò che la ragione ritiene possibile. Locke stesso scrive che la fede «è una rivelazione naturale ampliata da un nuovo fondo di scoperte comunicate immediatamente da Dio».24 Il soprannaturale è, così, inteso naturalisticamente secondo un'ottica di positivista in anticipo sui tempi. Il resto è superstizione, fanatismo, come qui si ragiona a lungo. Come si vede, il principio della modernità, che è quello di sottoporre tutto al vaglio della ragione, è per Locke la molla di ogni sua considerazione sulla religione, sulla fede, sulla rivelazione e sul cristianesimo. Della fede cristiana e della Sacra Scrittura egli è disposto ad accogliere soltanto quanto rientra nei limiti della pura ragione. A questo proposito va ricordato anche quanto Locke scrive in Ragionevolezza del cristianesimo quale risulta dalle Scritture (Reasonablerzess of Christianity a5 delitiered in Scriptures). In questa, che è la sua ultima opera, Locke si propone di trasformare le evidenze esterne del cristianesimo in evidenze interne, cioè in evidenze non fondate sull’autorità di fatti esteriori, bensì riconoscibili
21) Ibid.,10, 19. 22) lbid, 16. 23) lhid. 34) Ibid., 19, 4.
Ijlîmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
251
quali verità da qualsiasi uomo dotato di ragione. Tutto l'ampio Volume di Locke è dedicato a dimostrare che ogni pagina della Bibbia può essere intesa in maniera non miracolosa, ma ragionevole e Conforme al criterio intellettuale di ciascuno di noi. Si apre a questo punto il problema cruciale destinato a diventare la vexata quaestio di tutto il deismo: se le verità del cristianesimo sono riconoscibilicome evidenti da Ciascun uomo attraverso le sole forze della ragione, che bisogno c'è allora di una rivelazione divina? Locke, pur provando disgusto per Festeriorità del puro dogmatismo cristiano, tuttavia non vuole negare l'autorevolezzae l'importanza della rivelazione perché non vuole uscire dall'ambitodel cristianesimo. Perciò egli escogita le seguenti due soluzioni: in primo luogo, se gli uomini intelligenti possono giungere facilmente ai principi della religione; per la massa invece, senza la rivelazione la cosa sarebbe abbastanza difficile. In secondo luogo, se le Verità della religione apparissero alla sola ragione come pure verità filosofiche, esse non avrebbero la forza coercitiva di una legislazione. Il cristianesimo, invece, proprio grazie alla forza persuasiva della rivelazione, poté operare una grande "riforma legislativa". In tal modo Locke, pur non rinnegando l'impianto dogmatico del cristianesimo, ne faceva scomparire l'aspetto
propriamente teologico, tra-
sformando il dato non puramente razionale, cioè la rivelazione, in funzione soltanto divulgativa e legislativa. LOCKE E
una
LA METAFISICA
produzione filosofica Locke,
diversamente dai sistema metafisico. Neppure fa della ontologia, tracciando una mappa dell'essere. Egli si limita a quel prologo gnoseologico che nella metafisica moderna ha preso, come sappiamo, il posto della metafisica generale o ontologia. Nella
sua
pur vasta
razionalisti, non elabora
nessun
Nella gnoseologia lockiana i poteri dell'intelletto sono rigorosamente delimitati dall'esperienza sensitive, ma non al punto da impedire alla mente di oltrepassare il mondo sensibile e di volgere lo sguardo anche alle realtà intelligibili e a Dio. Così, pur non costruendo un sistema metafisico, Locke accoglie nella sua filosofia della conoscenza Verità importanti che riguardano l'anima e Dio, cioè le due realtà che da sempre costituiscono l'oggetto primario della ricerca metafisica. Però fortemente limitata dalla sensibilità, di queste supreme realtà l'intelligenza non si può formare delle idee vere e proprie ma soltanto delle supposizioni e delle finzioni. Così da Locke la metafisica è appena sfiorata e viene ammessa nel territorio dell'intelligenza umana quasi clandestinamente, più in ossequio alla tradizione che per titoli legittimi.
252
Parte seconda
In Locke convivono, non sempre pacificamente, due anime: l'anima empirista che ‘e ccintraria alla metafisica, e l'anima razionalista che intende far sue le verità fondamentali della metafisica. Il risuitato di questa difficile coabitazione è l'ambiguità e ambivalenza del pensiero lockiano. Per questo motivo all'autorità di Locke si sono potuti richiamare sia i cartesiani che i baconiani, sia i razionalisti che gli empiristi, sia i miscredenti che gli spiriti religiosi, sia i liberali sia i conservatori. Alla filosofia
di Locke si rifece, ancora durante la sua vita, la prima generazione del deismo settecentesco e in lui i polemisti ortodossi videro una delle fonti moderne della miscredenza. Ma ben presto, accanto all'utilizzazionedel suo pensiero in chiave deista, si profilo una sua possibile utilizzazione in chiave apologetica e il principale interprete di tale tendenza sarà
Ceorge Berkeley.
Come scrive I. W. Yolton,
Locke,
uno
dei
migliori conoscitori del pensiero di
«Yepistemologia che Locke eredito dai suoi predecessori, e alla quale si rivolse in un primo tempo per certe difficoltà, non specificate, incontrate in discussioni religiose, ebbe una parte di primo piano nelle discussioni che turbarono i suoi contemporanei, provocando dapprima reazione violenta e condanna e poi accettazione graduale a applicazione in ugual misura da parte dei radicali e dei conservatori. Il dualismo di questa tradizione, che insegnò insieme il limite fenomenalistico della conoscenza umana e la necessita di porre essenze reali in natura, condusse ad alcune confusioni; ma, come quelle questioni irrisolte sulla realtà della conoscenza e della rappresentazione, questo aspetto della nuova via delle idee fu messo da parte. Locke non appartenne ai deisti, anche se provò simpatia per molte delle loro credenze; ma, chiaramente, egli apparteneva al gruppo di teologi e laici che lavoravano dentro la tradizione per apportare modificazioni nella teoria e nel dogma, che diventarono effettive più tardi nel corso del XVIII secolo. Apparteneva a questo gruppo non solo per le sue
e dichiarazioni specificamente religiose, ma soprattutto perché Yepistemologia che formulò nel Saggio sullîiitclligeriza innanzi si muoveva nella stessa direzione delle tendenze teologiche dei tradizionalisti meno rigidi>>.î5
convinzioni
25) l. W. YoLToN, 101m Locke una‘ the Way ofldeas, Oxford 1956, p. 207.
ljlîmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
253
George Berkeley VITA E
OPERE
George Berkeley nacque nel 1685 in Irlanda. Studiò al TrinityCollege di Dublino e vi fu nominato professore subito dopo la laurea in filosofia. Entrò in controversia con i materialisti, seguaci di Hobbes, contro i quali compose la sua prima opera filosofica, il Trattato sui principi della conoscenza umana (1710). In seguito ripresentò gli argomenti del Trattato in forma più popolare nei Tre dialoghi tra Hylas e Plzilonozis. Dal 1713 al 1720 viaggio in Inghilterra, Francia e Italia per allargare le sue Conoscenze. Nel 1721 ritornò a insegnare al Trinity College e, contemporaneamente, cominciò a interessarsi dell'istruzione religiosa degli immigrati in America. Nel 1721 si recò colà con l'intento di erigervi un seminario; però, non avendo ricevuto il sovvenzionamento promesso il progetto falli e Berkeley fu costretto a rientrare in Irlanda, dove portò a termine e pubblicò l'Alcifr0ne, la sua opera maggiore. Un paio d'anni dopo il suo ritorno in patria, fu nominato vescovo di Cloyne, carica che ricoprì con grande zelo, distinguendosi nella premura per il benessere non soltanto spirituale ma anche materiale dei suoi fedeli. Le sue riflessioni non avevano soltanto carattere speculativo ma anche pratico, come risulta dalla sua ultima opera, Siris, caterta di riflessioni e ricerche filosofiche sulle virtù dell'acqua di catrame (1744). Morì a Oxford nel 1753. IL ROVESCIAMENTO DELUEMPIRISMO IN
IDEALISMO
La speculazione filosoficadi Berkeley è strettamente legata ai presupposti empiristici della filosofia inglese, ma gli esiti del suo pensiero si trovano agli antipodi dell’empirismo. Infatti, mentre l’empirismo, svolto con logica coerenza, sfocia inevitabilmentenel sensismo e quindi nel materialismo, Berkeley trasforma invece Yempirismo in una professione
di assoluto immaterialismo. Così le sue conclusioni finiscono per coincidere con quelle di Leibniz. Il sistema di Berkeley è una combinazionedi empirismo e di razionalismo ancora più paradossale di quella di Locke; infatti ò allo stesso tempo più empiristica e più idealista del filosofo inglese. È più empirista nella negazione delle idee astratte e nella riduzione di tutte le idee a idee particolari; ma allo stesso tempo è molto più idealista perché non riconosce altra realtà che quella immateriale. L'obiettivo principale di Berkeley è scalzare il materialismodi Hobbes e dei suoi seguaci dalle fondamenta, dimostrando che la materia non esiste affatto e che la realtà si risolve tutta nello spirito. Seguiamo il suo ragionamento così com’egli l'ha esposto nel Trattato Sul principi della cono-
254
SCEHZIZ
cità.
Parte seconda
umana,
che è
un'opera esemplare per nitidezza, logicità e sempli-
Berkeley ritiene di riuscire a
demolire il materialismo con due argoquale consiste tutta nell'essere pensata: esse est izercipi, l'altro basato sulla distinzione, ammessa dagli stessi materialisti, tra qualità primarie e secondarie. Da Galileo in poi si era affermato che le qualità primarie (estensione, figura e movimento) sono oggettive e che quelle secondarie (odore, colore, sapore, ecc.) sono soggettive, e che, tuttavia, le prime sono percepite per mezzo delle seconde. Da questa dottrina Berkeley ricava la seguente argomentazione: dato che le qualità primarie sono percepite per mezzo delle secondarie, essendo queste soggettive (ossia causate dal soggetto) devono essere soggettive anche quelle; e poiché la materia (come ammettono anche i materialisti) non è altro che il risultato delle qualità primarie essa è a sua volta soggettiva, ossia è null'altro che un'idea. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous Berkeley sviluppa un altro argomento, derivato dal concetto cartesiano di materia, concetto condiviso anche dai suoi avversari materialisti. Secondo tale concetto la materia è qualcosa di assolutamente inerte e passiva. Ora, argomenta Berkeley, com'è possibile che qualcosa di inerte e passivo possa suscitare in noi delle sensazioni? Poiché quest’ipotesì è assurda è evidente che, se anche la materia ci fosse, così com'è concepita dai suoi sostenitori, essa non sarebbe mai capace di produrre quelleffetto che quelli le ascrivono. Pertanto la materia è incapace sia di produrre come di ricevere pensieri. In conclusione: l'essere della realtà si esaurisce nell'essere percepita. Ciò però non significa che esiste soltanto il soggetto pensante. Infatti almeno rispetto ad alcune delle nostre conoscenze noi ci comportiamo passivamente. Di tali conoscenze non siamo noi stessi la causa; perciò la causa non può essere che un essere spirituale e, in definitiva, non può essere che Dio.
menti, uno basato sulla
natura delle cose, la
«Per quanto potere io abbia sui miei pensieri, devo constatare che le idee percepite col senso non dipendono dalla mia volontà. Quando nella piena luce del giorno io apro gli occhi, non è in mio potere di scegliere se vedrò o no, o di determinare quali particolari oggetti si presenteranno alla mia vista; e così per l'udito e per gli altri sensi, le idee impresse su di essi non sono creature della mia volontà. Vi è perciò qualche altra volontà o spirito che le produce... Le idee impresse sui sensi dall'Autore della natura sono chiamate cose reali; queile eccitate dallfimmaginazione,essendo meno regolari, vivaci e costanti, sono più propriamente chiamate idee o immagini di cose da essa copiate o rappresentate. Ma qualunque sia la vivacità e nitidezza delle nostre sensazioni, esse sono tuttavia idee, esistono cioè nella mente come pure percezioni al pari delle idee che essa forma da sé. Si ammette che le idee del senso
L'Ernpiris1'rz0: la metafisica prigioniera dei sensi siano
255
più reali, cioè più forti, ordinate e coerenti di quelle create dalla
un argomento per asserire che esistono senza la mente. E pur vero che esse dipendono meno delle altre dallo spirito che le percepisce, essendo provocate dal volere di uno spirito più potente, ma ciò non toglie che siano idee; e le idee, deboli o forti che siano, non possono esistere altro che in una mente che le percepiscamîò
mente, ma questo non è
ESISTENZA DELLO SPIRITO: IO, ALTRI,DIO
L'esistenza dell'io, degli altri e di Dio è indubitabile.Diverso, però, è il modo di conoscerli. La propria esistenza è conosciuta immediatamente, nei propri atti di conoscere e di volere. La conoscenza dell'esistenza degli altri spiriti non è immediata, ma mediata e indiretta, cioè attraverso le idee che producono in noi, combinazioni di idee che rappresentano qualcosa di simile a noi e di cui argomentiamo che concepiscono certi esseri particolari simili a noi.27 Anche la conoscenza dell'esistenza di Dio è soltanto mediata, cioè attraverso le idee che Egli produce in noi (e dell'ordine delle cose). Però la esistenza di Dio è più evidente di quella degli uomini: «Possiamo perfino asserire che l'esistenza di Dio è percepita in modo assai più evidente che non la esistenza degli uomini, perché le cose della natura sono infinitamente più numerose e più notevoli che non quelle che si attribuiscono all'opera di agenti umani. Non vi è nessun segno che denoti la presenza di un uomo o di un effetto da lui prodotto il quale non valga maggiormente a provare la presenza di quello Spirito che è l'autore
della natura>>.28 Mentre l'esistenza degli Spiriti (io, altri e Dio) appare evidente, la loro natura risulta inconoscibile:«Non vi può essere alcuna idea definita di un'anima o spirito, perché tutte le idee sono passive e inerti e non possono quindi servire a darci un'immagine di ciò che agisce>>29 Siccome la natura delle idee è di essere inerti, labilie mutevoli, mentre la natura dello spirito è di essere attivo, permanente ed eterno, lo spirito non può essere conosciuto per mezzo di idee. C'è però una conoscenza anche dello spirito, quella che Berkeley chiama nozione.
26) Trattato sui principi della conoscenza umana, nn. 29-33. 27) Cf. ibial, n. 145. 33) lbiLL, n. 147. 39) lbid, n. 27.
256
Parte seconda
NOMINALISMO
Contro Locke, che
aveva ammesso
la
percezione di
idee
generali e generale
astratte e contro i materialisti che credevano di possedere l'idea
Berkeley, conseguente con le sue premesse empiristiche che conoscenza proceda esclusivamente dalla sensazione e dalla fantasia, sostiene che noi non possediamo nessuna idea universale: di materia,
vogliono che la
qualcosa di particolare. Non è possibile, p. es., rappresentare un triangolo che non sia né equilatero, né isoscele, né scaleno. Duniversalità gnoseologica è un'utopia. Se si parla di idee universali ciò accade perché, trascurando alcune particolarità, assumiamo un'idea singola (ad es., un determinato triangolo) come indicativa di tutte le idee simili ad essa (di tutte le figure con tre lati e tre angoli). La universalità non è una proprietà delle idee ma una funzione delle parole. Per ragioni di convenienza scegliamo un'unica parola per designare molte idee diverse, p. es., la parola "uomo", per designare l'idea
tutte le idee sono rappresentazioni di
di Pietro, Paolo, Giovanni, ecc. Come si vede, con Berkeley la tendenza nominalistica costantemente presente nella filosofia inglese sin dal Medioevo (con Ockham) viene sviluppata fino alle conseguenze estreme, fino al nominalismo assoluto.
David Hume non avendo fornito alcun contributo merita speciale attenzione per un della alla storia metafisica, positivo titolo. essa Anzitutto, rappresenta il punto di arrivo dei filosofi duplice empiristi. Dopo Hume, 1'empirismo, sotto i nomi di positivisrno o di neopositivismo, si perfezionerà su punti secondari ma quanto all'essenziale non potrà che stare fermo o regredire. Il secondo titolo che ci induce a occuparci per esteso di Hume è il considerevole influsso da lui esercitato sullo sviluppo dello spirito critico in Kant. Hume è un empirìsta conseguente fino in fondo. Questa breve formula riassume tutte le caratteristiche del suo pensiero. Mentre Locke e Berkeley erano degli ibridi, in cui empirismo e razionalismo si trovavano presenti nello stesso tempo, Hume cancella ogni traccia di razionalismo e presenta Vempirismo nella sua forma più pura e più rigorosa.
La filosofia di David Hume, pur
VITA e
OPERE
David Hume nacque a Edimburgo, in Scozia, il 26 aprile 1711. La sua famiglia voleva fare di lui un avvocato, ma senza successo. Più tardi gli fece tentare la carriera commerciale, però con lo stesso risultato. Nel
Lfmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
257
1735 si recò in Francia per continuare gli studi. A un certo punto della vita decise di dedicarsi completamente alla composizione delle sue opere e si mise al lavoro con molto impegno. Nel 1739 riuscì a portare a termine il suo capolavoro, il Trattatosulla natura umana, che porta un sottotitolo molto eloquente: A Treatise of human Nature, being an Attempt to introduce the Experimental Method of Reasoning into Moral Subjects (Tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionare nelle scienze morali). L'ambizionedi Hume in quest'opera era quella di applicare allo studio della natura umana quel metodo sperimentale che Newton aveva adoperato con tanto successo nello studio della natura fisica. Ma fu molto deluso dalla fredda accoglienza che la sua opera ricevette sia in Francia sia in Inghilterra. Per qualche anno fu segretario del generale St. Clair e lo seguì in varie missioni all'estero. Nel 1748 pubblicò i Saggi sullîrztelletto umano. Nel 1749 ritornò a Londra. Seguirono alcuni anni di intensa produzione: tra il 1751 e il 1757 pubblicò Ricerche sui principi della morale, Storia dell'Inghilterra e Storia naturale della religione, tutte opere che ebbero buon sua
successo.
Nel 1756 ritornò in Francia come segretario dell'ambasciatore inglese Parigi; qui fece la conoscenza di Rousseau. Tornato in Inghilterra nel 1766 ospitò Rousseau nella sua casa: ma il carattere scontroso del filosofo francese provocò una rottura fra i due che però, più tardi, si riconciliarono. Per due anni fu anche sottosegretario di stato. Si ritirò a vita pria
Vata nel 1769 e morì nella sua città natale il 25
agosto 1776.
IL PRINCIPIO FONDAMENTALE DELLA FILOSOFIA Dl HUME Il principio fondamentale della filosofia di Hume è il principio di immanenza interpretato empiristicamente. Secondo tale principio l'unica fonte di conoscenza è l'esperienza e l'oggetto dell'esperienza non è la cosa esterna, ma la rappresentazione. In base a questo principio Hume afferma che le rappresentazioni o le impressioni costituiscono il dato ultimo della conoscenza umana, il limite contro cui l'uomo deve urtare e fermarsi. Se e che cosa possa esserci al di là delle impressioni non è possibiledire.
Anche Locke
e
Berkeley erano partiti
da questo
avuto il coraggio di applicarlo fino in seguenze disastrose cui esso conduce.
avevano
Dopo
principio, ma non
fondo, frenati dalle con-
che l'unico oggetto della conoscenza umana è riconosciuto al di là dell'idea la realtà dell'io, del
aver ammesso
l'idea, Locke
aveva
mondo e di Dio. Berkeley, pur negando l'esistenza delle cose naturali, aveva ammessa la realtà degli spiriti finiti e dello spirito infinito di Dio, realtà entrambe irriducibilialle idee.
Parte seconda
258
Hume invece si tiene strettamente fedele ai principio che il dato ultimo della nostra conoscenza è l'impressione e, applicando questo principio coerentemente fino in fondo, senza paura delle conclusioni cui esso porta, risolve tutta la realtà nel mondo delle idee attuali (cioè delle impressioni sensibilie nelle loro copie) e nulla ammette al di là di esse. Dichiarando che l'esperienza non è che una serie di impressioni e di idee, un fluire di apparenze nel quale si risolve la realtà del soggetto che
pensa, e dell'oggetto sentito e pensato, Hume trasforma l'empirìin fenomenalismo. Nessun'altra cosa può conoscere il pensiero se
sente e smo
non se sue
fuggevoli determinazioni costituite dalle impressioni, o dalle immagini sbiadite di
stesso nelle sue attuali e
percezioni presenti,
le
quelle ossia le idee. I predecessori di Hume erano sfuggiti al fenomenismo attribuendo ai
Concetti di esistenza, sostanza e causa un valore oggettivo. Hume mostra che ciò ‘e inammissibilein una dottrina della conoscenza come quella degli empiristi, la quale sostiene che il suo oggetto ultimo sono le impressioni e le idee. Ma allora come si spiega l'origine di questi concetti? Questo è il problema da risolvere e a risolverlo mira tutta la ricerca filosofica di Hume. Abbiamogià detto, nei cenni biografici,che l'opera principale di Hume è il Trattato sulla natura umana. I Saggi siilVintelletto umano e le Ricerche sui principi della morale riprendono, sviluppano e precisano le posizioni già delineate e sostanzialmente definite in quell'opera. Per introdursi nel pensiero di H ume occorre prendere in esame il suo Trattato, che è diviso in tre libri: il primo tratta dell'intelletto (della conoscenza), il secondo delle passioni (della psicologia) e il terzo della morale.
ORIGINE
DELLA CONOSCENZA
Hume inizia la trattazione con una distinzione che dà per scontata: quella tra impressioni e idee. Le impressioni sono percezioni forti e vivaci, per esempio la sensazione di calore; le idee sono percezioni deboli e sbiadite, per esempio l'idea di calore. «Io credo» afferma Hume «che non ci sia bisogno di molte parole per spiegare questa distinzione. Ciascuno afferrerà facilmenteda sé la differenza che esiste tra sentire e pensare>>.30 Tanto le impressioni che le idee si dividono in semplici, quelle che non ammettono divisione, e complesse, quelle divisibiliin semplici; per esempio, l'impressione della mela è divisibilenelle impressioni di colore, odore, sapore, ecc.
3°)
D. HUME, A Treatise qfHuman Nature, Everymaifs Library, London-New-Yorks. d., vol. I, p. 11.
la meta isica ri ioniera dei sensi Dlînz-zirismo: I L
259
Tra impressioni e idee esistono dei rapporti, di cui due sono i principali: sonziglianza e causalità. Anzitutto somiglianza: le idee semplici sono rappresentazioni esatte delle impressioni semplici; invece le idee Complesse, pur conservando una certa somiglianza con le impressioni originarie, tuttavia posseggono di esse una somiglianza assai imperfetta: per esempio, l'idea di chimera rispetto alle impressioni di capra, leone e serpente. In secondo luogo, causalità: le idee dipendono dalle impressioni e non viceversa, perché «le impressioni sono causa delle idee>>.31 Ciò è vero anche quando, immediatamente, un'idea ‘e causata da un'altra idea. «Noi ci possiamo fare idee secondarie, immagini di quelle primarie. (...) Questo avviene quando le idee producono immagini di sé in altre idee. Però, poiché le idee primarie sono derivate dalle impressioni, rimane ancora vero che tutte le idee semplici procedono, mediatamente o
immediatamente, dalle impressioni corrispondenti».32 Premessa la divisione
generale della
conoscenza
in
impressioni e
idee, e accertata la dipendenza delle idee dalle impressioni, Hume passa a spiegare l'origine delle impressioni. Occorre tenere presente, avverte il filosofo scozzese, che le impressioni possono essere divise in due grup-
pi: impressioni di sensazione e impressioni di riflessione. Le impressioni di sensazione nascono nell'anima originariamente, ma non sappiamo da quale causa. Memoria e immaginazione
Dopo aver trattato dell'origine delle impressioni, Hume esamina due operazioni: la memoria e l'immaginazione. A differenza dei sensi, memoria e immaginazione non percepiscono impressioni, ma idee; però, mentre le idee della memoria sono forti e vivaci,quelle dell'immaginazionesono deboli e languide. «La facoltà per cui le impressioni ricompaiono nella mente come idee della prima maniera è la memoria; l'altra è l’immaginazione».33 Però, mentre le idee della memoria sono strettamente dipendenti dalle impressioni corrispondenti, le idee dell'immaginazione spesso non ritengono le caratteristiche delle impressioni originarie; e questo perché «l'immaginazionenon è legata allo stesso ordine e forma delle impressioni»?! L'immaginazione, nel mutare l'ordine e la forma delle impressioni originarie, non agisce arbitrariamente, ma segue alcuni principi universali, per cui la sua attività è sostanzialmente la stessa in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Questi principi o leggi universali che guidano l'immagina-
zione nell’associare le idee sono tre:
31) Ibid, p. 14. 32) ami, p. 16. s3) Ibid, pp. 17-18. 34) ami, p. 18.
260
Parte seconda
sonziglianza: la fantasia associa un ritratto con l'originale per la somiglianza che esiste tra i due; contiguità: nel tempo e nello spazio: la fantasia associa Cesare con Cicerone per la loro contiguità temporale; associa la campana col campanile per la loro contiguità spaziale; -
-
causalità: la fantasia associa la ferita col dolore per il loro sale: la ferita ‘e causa del dolore. —
nesso cau-
Operando secondo le leggi dell'associazione l'immaginazione si for-
le idee di sostanza, accidenti e relazioni. «L'idea di sostanza, come quella di modo (accidente) è null'altro che una collezione di idee semplici, riunite dall'immaginazione e chiamate con nome speciale col quale siamo capaci di richiamare a noi stessi e agli altri tale co|lezione».35 Come Berkeley, Hume afferma che non ci sono idee universali: «Le idee universali non sono altro che idee particolari che sono state Congiunte con una parola che dà loro un significato più esteso e all’occasione fa loro richiamare altri individui simili a lorowfi Hume divide le relazioni in due grandi gruppi: le relazioni che nascono dal semplice esame delle idee e le relazioni che si possono istituire soltanto basandosi su fatti, cioè sull'esperienza, Ecco il passo in cui Hume espone questa dottrina: «Le relazioni si possono dividere in due classi: quelle che dipendono esclusivamente dalle idee, mettendole a confronto tra di loro, e quelle che possono mutare senza alcun cambiamento nelle idee. E dall'idea di triangolo che arriviamo a scoprire la relazione di uguaglianza tra ì suoi tre angoli e l'angolo piatto, e questa relazione e immutabilefino a quando l'idea di triangolo rimane eguale. Invece le relazioni di contiguità e distanza tra due oggetti possono cambiarecol solo cambiare di posto dei loro oggetti pur rimanendo gli oggetti e le loro idee inalterati (...). Lo stesso accade per le relazioni di identità e di causalità. Due oggetti sebbene perfettamente simili tra loro e pur apparendo nello stesso posto in tempi diversi, possono essere numericamente diversi, e poiché la ragione per cui un oggetto ne produce un altro non è mai scopribile col solo esame dell'idea di quell'oggetto, è evidente che causa ed effetto sono relazioni di cui siamo informati solo dall'esperienza e non dal puro ragionamento o dalla riflessione»? ma
Al gruppo delle relazioni che
dal solo esame delle idee appartengono: somiglianza, contrarietà, grado di qualità e numero. Invece al gruppo delle relazioni che nascono dall'esperienza appartengono: identità, relazioni di spazio e tempo, e relazione di causalità. Hume
35) Ibrd, p. 24. i“) Ib1d., p. 25. 37) Ibid, p. 73.
nascono
Ulîmyiirisnzo: la nretafisica prigioniera dei sensi
261
di
questa divisione delle relazioni per classificare le scienze, e per distinguere le scienze matematiche da quelle sperimentali. Le relazioni che si fondano esclusivamente sull'esame delle idee posseggono la massima certezza e formano il dominio della conoscenza vera. Ad esso appartengono la geometria, Faritmetica e l'algebra. Di queste tre solo Yalgebra e l'aritmetica sono scienze infallibili.«Ualgebra e Yaritmetica sono le sole scienze nelle quali possiamo muoverci attraverso una serie di ragionamenti con perfetta esattezza e certezza. Noi possediamo un criterio preciso, coI quale possiamo giudicare deIFeguaglianza e della proporzione dei numeri; e secondo ch'essi corrispondono o no a quel criterio, ne determiniamo le relazioni senza possibilità di errori (m). È appunto perché non disponiamo di un simile criterio di uguaglianza nel1'estensione che la geometria non può affatto essere ritenuta si
serve
scienza perfetta e infallibile>>fi8 Tutte le relazioni che si basano sull'esperienza (identità, relazione spazio-temporale, causalità), a parere di Hume, fanno capo alla relazione di causalità: una
«La causalità (causatimz) produce una tale connessione da darci la cerche all'esistenza o all'azione di un oggetto seguì o precedette un'altra esistenza o un'altra azione; e anche le altre due relazioni non possono entrare in un ragionamento se non in quanto entrano in quella di causalità. Non c'e niente in un oggetto che ci possa persuadere ch’esso debba essere sempre lontano o contiguo a un altro e quando con l'esperienza e con l'osservazione scopriamo che in ciò la loro relazione è invariabile, noi concludiamo sempre che c'è una causa segreta che così li separa o unisce. Dicasi lo stesso per l'identità: noi supponiamo senz'altro che un oggetto continua a essere numericamente il medesimo, benché più volte presente e assente ai sensi, e gli attribuiamo un'identità nonostante l'interruzione delle percezioni, perché pensiamo che, se avessimo tenuto l'occhio o la mano costantemente su di esso, ci avrebbe prodotto una percezione invariabilee ininterrotta. A questa conclusione che va al di là delle impressioni dei sensi, possiamo giungere soltanto perché ci fondiamo sulla connessione di causa ed efietto: altrimenti non potremmo avere la certezza che l'oggetto è sempre lo stesso, e non uno nuovo, per quanto questo possa rassomigliare a quello che era prima presente ai sensi (...). Di qui si vede che, delle tre relazioni che non dipendono meramente dalle idee, la causalità ‘e la sola che possa spingersi al di là dei sensi e informarci dell'esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo. Cercheremo quindi di spiegare questa relazione esaurientemente, prima di abbandonare il nostro esame dell'intelletto».39 tezza
35) Ibioi, p. 75. 39) ibid, pp. 77-78.
262
Parte seconda
ORIGINE
DELLA RELAZIONE DI CAUSA ED EFFETTO
Per tutte le metafisiche, sia quelle costruite dall'alto (a priori) sia quelle costruite dal basso (a posteriori), il principio di causalità riveste somma importanza. Ma mentre nelle prime questo principio è importante soltanto in sede ontologica, nelle seconde lo è anche in sede gnoseologica, in quanto consente di realizzare la grande resoliztio di tutti gli effetti nell'unica causa suprema d'ogni cosa. Pertanto mettere in dubbio o negare il valore oggettivo del principio di causalità significa sottrarre alla nave della metafisica le vele di cui ha bisogno per effettuare la seconda navigazione. Tra i moderni Hume è il primo a sottoporre al vaglio della critica il principio di causalità e a dimostrare che esso può avere soltanto un valore soggettivo. Per difenderlo dagli attacchi di Hume, Kant dimostrerà che il principio di causalità è un principio a priori, ma ne limiterà l'applicazione al mondo dei fenomeni. Ma anche nella versione kantiana, le conseguenze per la metafisica saranno devastanti, poiché rimosso il principio di causalità dalla sfera della realtà sensibile qualsiasi costruzione metafisica diviene impossibile. In effetti la critica humiana e kantiana del principio di causalità segna la fine della metafisica. Per questo motivo dobbiamo considerare più attentamente il pensiero di Hume su questo punto fondamentale. Come riferisce lo stesso Hume, la definizione che comunemente si dà del principio di causalità è la seguente: «Whatever begins i0 exist, HTHSÎ have a caus of existence (Tutto ciò che inizia a esistere deve avere una causa della sua esistenza)».4U Da tutti i metafisici questa proposizione è ritenuta evidentissima, sia che la considerino conosciuta per via intuitiva oppure per via dimostrativa (riconducendolaal principio di non contraddizione). Hume nega che il principio di causalità sia evidente e nega inoltre che lo si possa giustificare mediante una rigorosa dimostrazione. Anzitutto Hume prova che la relazione tra Causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, cioè col puro esame dei concetti implicati nella relazione, ma soltanto per esperienza. Nessuno, di fronte a un oggetto nuovo, è in grado di scoprire le sue cause e i suoi effetti prima di averli sperimentati, soltanto ragionando su di essi. Per esempio, Adamo, anche ammettendo che le sue facoltà fossero perfette, non avrebbe mai potuto dedurre dalla fluidità e trasparenza dell'acqua che essa poteva soffocarlo; o dalla luce e dal calore del fuoco
che esso poteva bruciarlosfl
4“) lbid, p. 81. con 41) Nei Saggi sulVintelletto 14111:1110, Hume scrive: «La mente, anche con l'esame e l'efla ricerca più accurata non può trovare l'effetto nella causa supposta: poiché
Ulînzpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
263
Perciò, la relazione di causalità nasce dall'esperienza: «È solo basandoci sull'esperienza che noi siamo in grado di dedurre l'esistenza di una cosa
da un'altra».
Di che natura è
l'esperienza da
cui H
nasce
il
nesso
causale? Secondo
Hume, il nesso causale non nasce da un'esperienza conoscitiva ma istintiva. Quando passiamo dall'idea di una cosa all'idea di un'altra cosa e stabiliamo tra loro un nesso Causale, vi siamo determinati da un'esperienza di carattere istintivo, ossia dall’abitudine: l'abitudine di Vedere
susseguirsi sempre allo stesso modo due oggetti; tale abitudine suscita propensione a credere che comparirà anche il secondo appena è comparso il primo. È da questa propensione che nasce l'idea del nesso in noi la
causale. Hume è stato condotto a questa soluzione dal canone fondamentale della sua epistemologia, il quale esige che ogni idea tragga origine da
Lmîmpressione.
In conclusione: «La necessità ed efficacia delle cause non va posta né nelle cause stesse, né in Dio, ne’ nella collaborazione tra loro due, ma va posta solo nella mente che considera l'unione tra due o più oggetti nei casi precedenti. È qui che si deve riporre l'efficacia, la connessione e la necessità delle cause».4î Da tutto quanto è stato sin qui detto appare evidente che la connessione causale (la relazione tra causa ed effetto) ha un valore solamente soggettivo. Non si tratta, infatti, di una proprietà dell'oggetto ma di una disposizione, di una abitudine del soggetto: l'abitudine di attribuire la relazione di causalità a oggetti che si susseguono, dopo avere constatato vari casi del loro succedersi. Per Hume, la necessità del rapporto causale non riguarda più gli oggetti posti in relazione, ma il soggetto che li concepisce come tali. Questa è un'affermazione di capitale importanza, per le conseguenze che essa implica; per esempio, la negazione della dimostrabilità dell'esistenza delle cose, dell'io e di Dio. Esplorata l'origine della relazione causale, Hume può dare della causa la seguente, celebre definizione: «Causa è un oggetto precedente e contiguo a un altro e così unito ad. esso che l'idea di uno determina la fetto è totalmente differente dalla causa e perciò non può mai essere scoperto in (...) Per dirlo in poche parole, dunque, ogni effetto è un avvenimento distinto dalla sua causa. Né potrebbequindi essere scoperto nella causa. E il suo ritrovamento o concepimento a priori dovrà dunque essere interamente arbitrario» (Bari 1910, pp. 35-36). La falsità della posizione humiana è giustamente fatta risalire dal Masnovo al travisamento dell'operazione che dell'astrazi0ne, non sta affatto, come vuole il filosofo scozzese, in una cieca analisi di un tutto nelle sue parti senza possibilitàd'uscirne (cf. A. MAsNovo, Il significato storico del neatamismo, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 1940, pp. 25-30). lbid., pp. 162-164. essa.
42)
Parte seconda
264
mente
a
formare l'idea dell'altro, vivace dell'altro>>.43
e
l'impressione di uno a formare un'i-
dea più Da quanto si e detto, si traggono le seguenti conclusioni: eliminazione della distinzione delle cause in materiale, formale, efficiente, finale: «Tutte le cause sono della stessa specie. L'unica causa è quella efficiente, le altre non sono affatto Cause»,44 -
eliminazione della distinzione tra occasione e causa: «Se per occasione intendiamo una congiunzione costante, allora si tratta veramente di una causa; diversamente, non è una relazione, e non può servire per —
fare alcun ragionamento»;45 quanto all'origine e all'uso del principio di causalità, uomini e animali sono sullo stesso piano. Un cane evita il fuoco, i precipizi, le persone estranee, come fa l'uomo. Il cane non può essersi formato il principio di causalità per mezzo della ragione, ma solo per mezzo dell'abitudine. Questo conferma pienamente la dottrina precedente.“ -
LA CONOSCENZA DELUESISTENZA DELLE cosa, osruro
E DI
DIO
Con la critica al Valore oggettivo del principio di causalità crolla l'argomento sul quale Locke e Berkeley avevano fondato l'esistenza delle sostanze sia materiali che spirituali (la sostanza esiste come causa delle mie conoscenze). Rimane però sempre il fatto che noi crediamo nell'esistenza continua del nostro io e nell'esistenza separata delle cose. Come si giustifica questa credenza, da cosa trae origine questa convinzione?
Esistenza delle cose
possibili della credenza nell'esistenza continuata e distinta delle cose, sono tre: sensi, ragione e immaginazione. Le
cause
Per via di esclusione Hume dimostra che di fatto né i sensi, né la ragione possono dare origine a tale credenza. Non rimane perciò altra all'idea delcausa che l'immaginazione, la quale, secondo Hume, arriva l'esistenza continuata e distinta nel modo seguente:
«Quando ci siamo fatti l'abitudine di osservare una certa
sostanza in
certe impressioni, e abbiamo constatato che la percezione del sole e dell'oceano, per esempio, ci si ripresenta, dopo un periodo di assenza o annientamento, con le stesse parti o lo stesso ordine, come prima, interrotte come non siamo capaci di considerare queste percezioni distinte (come di fatto sono), ma a causa della loro somiglianza cre-
43) 112111., p. 167. 44) 1bid., p. 168. 45) Ibid. 46) Cf. ibìd, pp. 174-175.
L'Empirisnm: la nzetafisica prigioniera dei sensi
265
diamo che sia sempre la stessa percezione. Però, dato che l'interruziodella loro esistenza è contraria alla loro perfetta identità, e questo ci fa ritenere che la prima impressione sia stata annientata e la seconda creata di nuovo, ci troviamo a disagio, coinvolti in una specie di contraddizione. Per liberarci da questa difficoltà cerchiamo di passare sopra all'interruzione, anzi facciamo di tutto per eliminarla, supponendo che queste percezioni interrotte siano tenute assieme da un'esistenza reale, di cui non siamo consapevolim"
ne
Da
quanto si è detto risulta che la credenza nell'esistenza delle
cose
non ha nessun valore oggettivo. La sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni; le sole inferenze possibili sono quelle fondate sul rapporto tra causa ed effetto, che si verifica, a sua volta, solo tra percezioni. Una realtà che sia diversa dalle percezioni ed estranea ad esse non si può affermare né sulla base delle impressioni dei sensi, né sulla base
del rapporto causale.
La realtà esterna è ‘e ineliminabile.
dunque ingiustificabile;ma
l'istinto
a
credere in
essa
Esistenza dell'io Per Hume il problema non è di sapere se esista o no una realtà che noi chiamiamo io; nella dottrina della conoscenza qualsiasi questione a proposito dell'esistenza dell'io non ha nessun senso. L'esistenza è al di là della cortina delle idee e rimane assolutamente inaccessibile;la questione non è quindi se noi possiamo conoscere l'esistenza del nostro io, ma come si formi in noi la convinzione dell'esistenza continuata del nostro io. Si badi bene che il problema verte sull'esistenza continuata, non sull'esistenza puntualizzata, momentanea. L'esistenza puntualizzata, quella del mio io in questo momento, è data immediatamente e non costituisce nessun problema. Non così l'esistenza continuata; del mio io, infatti, non posso avere che immagini l'una staccata dall'altra. Ciascuna di tali immagini, di queste idee, ha un'esistenza propria, distinta da quella delle altre. Come si spiega la nostra convinzione che questa serie di percezioni costituisca un'unità, che formi un tutt'uno, per cui è un solo, identico essere, quello rappresentato dalle varie idee? La formazione di questa convinzione si spiega in modo analogo a quello dell'esistenza delle cose: essa nasce dall'attività della memoria e della fantasia che, operando secondo le leggi dell'associazione, uniscono e congiungono ciò che in realtà è separato e distinto. Frutto della memoria e della fantasia è l'identità dell'io, il quale non è, quindi, una sostanza di cui le varie idee sia-
47) Ibici, p. 193; cf. anche p. 198.
266
no
Parte seconda
delle
manifestazioni, ma solo una sequela
di
percezioni:
«Il mio io è
Composto dalle percezioni: esse lo compongono, dico, non gli apparten-
non è una sostanza alla quale le percezioni sarebbero inerenti. (...) Noi non percepiamo che attraverso le impressioni ed esse non ci rappresentano mai una sostanza né materiale né spirituale>>fl8 È evidente, dunque, che la credenza nell'esistenza continuata dell'io non ha Valore oggettivo, essendo essa il risultato dell'azione associativa della fantasia: non esiste nessun io oggettivamente identico a se stesso di cui i0 abbia una consapevolezza continuata; oggettivamente esistono solo delle esistenze puntualizzate, atomiche, le quali per opera della fantasia vengono unificate; quindi l'esistenza continuata dell'io ha valore
gono. Il mio io
soggettivo.
Come per le cose, così per l'io, l'unificazione delle percezioni non e un oggetto, del quale esse sarebbero rappresentazioni diverse, al ma soggetto, il quale, in definitiva, è l'unica causa di tali percezioni.
dovuta a
Esistenza di Dio
L'argomento dell'esistenza
di Dio
non
è discusso nel Trattato, ma
nelle opere successive (Dialoghi della religione naturale, Storia naturale della
religione); però già nel Trattato ci sono tutti gli elementi atti a fornire una risposta esauriente al problema. Da quanto detto a proposito dell'esistenza delle cose e dell'io, risulta che l'esistenza è un concetto privo di Valore oggettivo, avendo esso origine soggettiva, dall'abitudine; quindi, in fatto di esistenza reale non possiamo far altro che "lavarci le mani" perché «tutto ciò che noi concepiamo come esistente, possiamo anche concepirlo come non esistente». A questa sorte non ‘e possibilesottrarre neppure l'esistenza di Dio. La non-esistenza di un essere qualsiasi (incluso Dio) è un'idea tanto chiara e distinta quanto quella della sua esistenza; quindi qualsiasi discussione sulla dimostrabilitàdi essa è fuori luogo. Anche perché la maggior parte degli argomenti è basata sul principio di causalità che, come si è visto, ha valore solamente soggettivo. La causalità non dimostra nulla in alcun settore; è soltanto un'abitudine che ci porta a stabilire certi rapporti. Ma non potremmo fidarci dell'istinto anche nel caso dell'esistenza di Dio come ci fidiamo di esso riguardo all'esistenza delle cose e degli altri? No, perché basandoci sull'associazione, l'istinto non può mai superare quei dati empirici che poco alla volta lo hanno costituito; non può guidarci in un dominio che trascende la comune esperienza, né può, tanto meno, parlarci di Dio «essere fuori del tempo e dell'umanità».
45) lbid., p. 245.
L'Emp'irisrrz0: la metafisica prigioniera dei sensi
267
Nei Dialoghi della religione naturale, Hume riserva una critica speciale alla prova dell'esistenza di Dio basata sulla causa finale o, più precisamente, sull'ordine, il quale, nella dottrina comune, implica un fine. L'ordine della natura, afferma in sostanza Hume, non attesta un disegno e un principio intelligente; è semplicemente la fissità della natura quale si presenta alla nostra esperienza. Ogni avvenimento può avere un'infinità di cause, e a priori non possiamo sapere se proprio 10 spirito e non la materia sia la causa dell'ordine cosmico. Non è possibilestabilire un parallelo tra l'uomo e Dio, né dimostrare che ci sovrasti un essere unico creatore e onnipotente. La prova teleulogica, secondo Hume, si fonda sull'analogia con il procedimento che dalla constatazione di un artefatto ci fa risalire al suo artefice, per es. dalla constatazione di un ponte risaliamo all'architetto che l'ha costruito. L'argomento, anche se apparentemente plausibile,a parere di Hume, è molto fragile e, tutto sommato, insostenibile.Oltre a peccare di antropomorfismo (di prosopopea secondo il linguaggio di Hume), tale prova sembra non possa giungere a un artefice sommo e infinitamente perfetto, perché l'ordine del mondo da cui si parte è finito e imperfetto. L'analogia non ha inoltre nessun fondamento. Infatti, secondo Hurne, noi possiamo indurre una relazione di causa-effetto solo là dove abbiamo più volte constatato un tale collegamento, come avviene per es. a proposito di tutte le volte che abbiamo visto il fumo e poi la cosa che bruciava. il caso dell'ordine del mondo è invece un caso unico, che non può farci indurre in nessun modo l'esistenza di un sommo artefice non visto mai da noi all'opera. E tuttavia nei Dialoghi si ammette che l'analogia su cui si fonda la prova dell'ordine si impone all'uomo con tanta immediatezza che è impossibilenon esserne presi e convinti istintivamente. Nella Storia naturale della religione Hume si interroga sull'origine della religione. La sua risposta è che la religione si radica negli interessi vitali dell'uomo: l'ansia per la felicità, il timore della miseria, il terrore della morte. Immerso originariamente in un cosmo che gli riserva innumerevoli sorprese e ignorando la natura delle cause da cui dipende la sua vita e la sua morte, l'uomo tende a immaginarsi in qualche modo queste cause con caratteri antropomorfici. Si formano così le idee delle divinità, da cui l'uomo pensa dipenda il proprio destino e a cui quindi rivolge onori e preghiere. La prima religione fu politeista. Solo in seguito, per la tendenza ad adulare la divinità al fine di averne maggiori favori, si sarebbero attribuiti sommi poteri a un'unica divinità, pervenendo al monoteismo. Ma anche nel monoteismo i titoli che si assegnano alla divinità sono del tutto ingiustificati e, in definitiva, sono anch'essi frutto della immaginazione e dell'ignoranza. In questo il filosofo non è migliore del volgo, essendo anch'egli vittima degli stessi sentimenti e degli stessi processi psichici e mentali propri della natura umana. «Perciò non
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Parte seconda
bisogna meravigliarsi che gli uomini, trovandosi nella più completa ignoranza delle cause, ed essendo nello stesso tempo tanto preoccupati per il loro destino futuro, riconoscano immediatamente una loro dipendenza da potenze invisibili,dotate di sentimento e di intelligenza». «L'ignoranza è madre della devozione: è una massima proverbiale, che l'esperienza conferma. Ma cercate un popolo interamente privo di religione. Se lo troverete, siate certi che vi apparirà di poco superiore ai bruti». Hume, in conclusione, per un verso ammette l'origine naturale della religione in quanto e l'istinto stesso che fa dell'uomo un essere religioso; per un altro verso egli nega valore razionale a tutte le espressioni simboliche della religione, in quanto sarebbero esclusivamente dovute all'azione della immaginazione. Hume non riesce a compiere una scelta tra istinto e ragione perché la ragione non abolisce l'istinto e perché l'istinto non e confortato dalla ragione. Unico rifugio sembra essere la tranquilla serenità del filosofo che ha visto tutto questo e lo accetta senza più stupirsene. È quanto Hume stesso scrive nella celebre conclusione della Storia naturale della religione: «Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l'unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibiledelle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille». Tutto quanto scrive Hume riguardo all'esistenza di Dio e all'origine della religione sta o cade insieme col resto del suo sistema, con cui anche la sua filosofia della religione è strettamente legata. Così, per es., la sua critica delle prove dell'esistenza di Dio (in particolare delle prove cosmologica e teleologica) regge solo a patto che il principio di causalità
pretende Hume, una mera connessione soggettiva tra eventi che si succedono regolarmente. Ora, pare abbastanza evidente che qui Hume ha confuso una possibileorigine psicologica del principio di causia,
come
salità con il suo valore intenzionale, che vuole essere chiaramente obiettivo, come hanno osservato Brentano, Husserl, Popper e molti altri filosofi. Quanto poi alla spiegazione dell'origine della religione fornita da Hume, e una spiegazione che non resiste né dal punto di vista storico né dal punto di vista fenomenologico. Storicamente, oggi pare accertato che il monoteismo precede il politeìsmo e non viceversa. Fenomenologicamente, la religione, come tutte le altre attività umane, si spiega soltanto se la realtà stessa è dotata di una speciale qualità (il numinoso, il sacro, il divino), e quindi non si radica, come pretende Hume, solo negli interessi e nei sentimenti umani-i‘)
49)
Cf. A. SABETTl, Hume, filosofo della
religione, Napoli 1965.
Lfnzpirisnzo: la metafisica prigioniera dei sensi
269
CONCLUSIONE
logico dell'analisi humiana della conoscenza è lo scetticisi può smo. Eppure, nonostante Pasprezza di certe sue affermazioni, non di con dottrina Hume; nella più esatparlare di uno scetticismo radicale in L0 sbocco
può parlare di uno sperimentalismo che ha favorito il dubbio tutti i settori dell'indagine scientifica e ha mostrato 1’incompetenza della ragione a decidere sui problemi che esorbitano dalla sfera della nuda esperienza. Assurdo è per I-Iume 10 scetticismo assoluto dei pirroniani. Il loro dubbio sarebbe legittimo se l'uomo fosse dotato soltanto di facoltà conoscitive; ma in lui sono presenti anche le tendenze istintive, le quali hanno il potere di guidarlo con sicurezza nelle sue decisioni e nelle sue
tezza si
azioni. L'istinto libera l'uomo dalla morsa dello scetticismo, in cui la ragione sarebbe condannata a stringerlo. Qui troviamo un'anticipazione della profonda scissione kantiana tra ciò che è in potere della ragione speculativa e ciò che è in potere della ragion pratica; senonché nel sistema humiano il posto della ragion pratica è preso dall'istinto. Per quanto attiene alla metafisica, mediante la sua analisi dell'origine della Conoscenza I-lume giunge per primo alla sua negazione e al suo superamento. I neopositivisti seguiranno il suo esempio, ma raggiungemediante l'analisi ranno Ia negazione e il superamento della metafisica
logica del linguaggio. Isaac Newton
capitolo sulrempirismo e nella storia della metafisica raramente si include Newton, il cui nome è indubbiamente legato più alle geniali scoperte scientifiche che alle ricerche filosofiche. Eppure il suo è un ai suoi nome che merita di essere ricordato anche tra i filosofi, perché ambienti anche filosofici,e l'innegli tempi egli godette di grande fama flusso che egli esercito sullo stesso Kant fu considerevole. Va inoltre completamente rivisto il giudizio della storiografia ufficiaNel
presenta Newton come antimetafisico. Certamente Newton critico aspramente le costruzioni metafisiche dei razionalisti, ma mostrò grande apprezzamento per la metafisica in quanto tale, vale a dire come superamento del mondo dei fenomeni e come ricerca di Dio. Prova ne è le che
più grandi estimatori di Newton, considera il pensatore inglese come un grande metafisico, anzi come "il metafisico” dei tempi nuovi. È proprio Voltaire che scrive un'opera filosofica, intitolan-
che Voltaire,
uno
dei
dola La metafisica di Neuaton; lo stesso Voltaire, del resto, scrive con spirito newtoniano un suo Trattato di metafisica. Nel grande scienziato inglese
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Parte seconda
Voltaire vedeva incarnato l'ideale dell'uomo moderno: scienziato, filosofo, deista; vedeva in lui un uomo che, dotato di un grandissimo ingegno, aveva utilizzatoal meglio, per il bene dell'umanità intera, le sue do-
ti eccezionali.
VITA E OPERE Isaac Newton nacque in un piccolo centro del Lincolnshire nel 1642. sua vita e la sua carriera in Inghilterra. Compi gli studi al TrinityCollege di Cambridge sotto la guida di J. Barrow, insigne matematico, che nel 1667, in seguito alla scoperta da parte del suo eccezionale allievo della legge di gravitazione universale, gli cedette spontaneamente la propria cattedra. Nel 1671 divenne membro della ”Royal Society”, dove l'anno successivo lesse un'importante comunicazione sulla teoria dei colori. Nel 1703, alla morte di R. I-Iooke, Newton fu fatto residente della "Royal Society" e come tale esercitò fino alla morte una vera e propria ”dittatura culturale” sul mondo scientifico inglese. Durante gli ultimi anni della sua vita Newton fu al centro di varie controversie, fra le quali andrà per lo meno menzionata quella con Leibniz circa la priorità nell'invenzione del calcolo infinitesimale. Newton morì a Londra nel 1727 e fu seppellito nella cattedrale di Westminster. Due sono le opere maggiori di Newton: Philosophiaenaturalis principia niathenzatzica del 1687 (a cui nella terza edizione aggiunse lo Sciioliunz generale) e Optiks (Ottica) del 1704. I Philosophiae naturalis principia mathematica hanno come presupposto metodologico la riduzione dei fenomeni del movimento ad atti quantitativi e misurabili,e prendono le mosse dall'esposizione delle nozioni fondamentali della meccanica razionale (massa, quantità di moto, inerzia,
Trascorse tutta la
forza impressa, forza centripeta, tempo e spazio assoluti e relativi) e, a partire da questi, elaborano ”gli assiomi o leggi del moto" già similmente formulati da Galileo e Cartesio. Newton passa poi alla trattazione generale delle leggi dinamiche e infine, nell'ultimo libro, dopo una parte di carattere metodologico che porta il titolo Regulae philosophandi, alla pre-
sentazione del ”sistema del mondo”. Entro lo schema della legge di gravitazione, che si configura come la legge suprema dell'universo, Newton è in grado di inquadrare e spiegare un’amplissima serie di fenomeni, dando finalmente unitarietà e coerenza al sistema copernicano e riuscendo anche a risolvere una gran quantità di questioni fisiche e astronomiche rimaste fino ad allora senza una risposta adeguata (citiamo fra le altre la spiegazione del fenomeno delle comete e la teoria delle maree).
Ulîmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi
271
L'UNIVERSO NEWTONIANO
gli elementi costitutivi dell'universo newtoniano: la materia, il movimento, lo spazio: nello spazio agisce la forza di attrazione universale. Su questi tre elementi si sviluppa la peculiarità della concezione Tre sono
newtoniana dell'universo, e si opera il distacco tra Newton e i suoi predecessori, in particolare da Cartesio. Newton ritiene logico affermare l'esistenza di un tempo e di uno spazio assoluti. Pur riconoscendo la difficoltà di definire queste entità «non definisco il tempo, lo spazio, il luogo e il moto, che sono ben noti a tutti» se ne serve continuamente. Newton distingue tra tempo assoluto e relativo. Il tempo assoluto, quello Vero e matematico, scorre uniformemente, senza alcuna relazione con alcunché di esterno, ed è detto anche ”durata”. Il tempo relativo, invece, che è quello ‘apparente e comune", è una misura, sensibile ed esterna, della durata, in funzione del movimento: misura che è comunemente usata in luogo del tempo vero e matematico. Tali sono le misure di ora, giorno, mese e anno. Analoga distinzione pone Newton tra spazio assoluto e relativo. Lo spazio assoluto che, per sua natura, non ha relazione con alcunché di esterno, rimane sempre simile a se stesso e immobile. Lo spazio relativo, invece, è una misura, ossia una qualsiasi dimensione mobiledello spazio assoluto, che i nostri sensi determinano secondo la sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente confuso per lo spazio immobile. ll luogo è, a sua Volta, la parte dello spazio che un corpo occupa ed è, secondo che si tratti dello spazio assoluto o di quello relativo, anch'esso luogo assoluto o relativo. Il movimento assoluto, infine, è la traslazione di un corpo da un luogo assoluto a un altro luogo assoluto. Il movimento relativo è, invece, la traslazione di un corpo da un luogo relativo a un altro luogo relativo. Poste queste premesse Newton si chiede quale sia il centro dell'universo fisico. A suo parere, l'universo deve avere un centro assoluto, centro che Newton ritiene il sole, anzi il centro stesso del sole, pur dichiarando con molta prudenza, che non è possibile dare una dimostrazione convincente di questa affermazione. Due sono, nell'universo newtoniano, le forze fondamentali della natura: quella dell'attrazione e quella dell'espansione. L'attenzione di Newton, tuttavia, è rivolta in modo precipuo a quella dell'attrazione, giacché in funzione di essa, cioè della gravitazione, si spiega il movimento ordinato dei corpi nello spazio. Ciò che Colpisce Newton è soprattutto la complessità, praticamente infinita, delle combinazioni possibili dei rapporti spaziali tra i corpi dell'universo. Dinanzi a un numero di combinazioni che supera ogni fantasia Newton resta in stupita ammirazione. A questo punto il suo studio scientifico dell'universo si allarga in direzione metafisica, il cui coronamento è la dimostrazione dell'esistenza di Dio. -
-
272
Parte seconda
UESISTENZA DI D10 E Il metodo della
LA CREAZIONE DEL MONDO
nzetafisica
Sia nella ricerca scientifica sia in quella filosofica Newton è contrario all'uso del metodo assiomatico-deduttivo (0 metodo compositivo) tanto caro ai razionalisti. Questo metodo funziona egregiamente nel campo delle matematiche ma è del tutto improprio nel campo della filosofia naturale (sia fisica sia metafisica). In questo campo si deve ricorrere al nzetodo analitico o risolutivo, che parte dall'esperienza dei singoli fenomeni e va alla ricerca delle loro cause e principi. «L'analisi spiega Newton consiste nel fare esperimenti e osservae nel trarre da essi conclusioni generali con l'induzione e nel non accettare obiezioni a queste conclusioni, perché sono tratte dall'esperienza o da altre verità certe. Perciò nella filosofia sperimentale sono da considerarsi le ipotesi. Quantunque Pargomentazione da esperimenti e osservazioni per mezzo deltinduzione non valga a dimostrare conclusioni generali, tuttavia è il metodo migliore di argomentare che la natura delle cose ammette, e può essere considerato tanto più solido, quanto più l'induzione è generale. E, se non interviene una eccezione da parte dei fenomeni, la conclusione può essere generalmente accettata. Ma se in seguito dovesse presentarsi qualche eccezione dagli esperimenti, la conclusione si può cominciare ad accettarla con le eccezioni così come si presentano. Con un tal metodo di analisi possiamo procedere dal composto agli ingredienti, e dai moti alle forze che le producono e, in generale, dagli effetti alle loro cause, e dalle cause particolari alle cause più generali, finché l’argomentazio— ne non termini nella maniera più generale. Questo è il nzetodo armlitico. E la sintesi consiste nell'assunzione delle cause scoperte e stabilite come principi, e nella spiegazione dei fenomeni che da esse derivano e nella dimostrazione di queste spiegazionimfl -
-
zioni
Come si vede la metodologia newtoniana tiene conto del legittimo richiamo di Locke all'esperienza, ma senza cadere nell'esasperazione
soggettiva dell'esperienza di cui era rimasto vittima Hume. L'esperienza è l'inizio e la base della ricerca ma non la sua conclusione. Su questo punto Newton fa sue le posizioni del sano realismo di Aristotele e di S. Tommaso d'Aquino.
L'argomento teleologico dell'esistenza di Dio Per provare l'esistenza di Dio Newton non ricorre a una delle varie versioni della prova ontologica, che è inconciliabilecol suo metodo ana-
litico, ma si avvale dell'argomento cosmo-teleologico, il quale giunge a
5D) Optiks, Quaestione XXXI.
Dlîmpirîsnzo: la nzetafisica prigioniera dei sensi
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Dio muovendo dalla presenza nella natura di un ordine finalistico. Ecco il passo più interessante dell'Oman a questo riguardo: Sembra che tutte le cose materiali siano state composte dalle particelle dure e solide sopra ricordate, variamente associate, nella prima creazione, dal saggio consiglio di un Agente intelligente. Perciò convenne a chi le creò disporle in ordine. E, se Egli agì così, non spetta al filosofo cercare un'altra origine del mondo 0 pretendere che sia scaturito dal caos per mere leggi della natura, anche se, una volta formato, può, per quelle leggi, durare per molte eta. Perciò, muovendosi le Comete in tutte le posizioni in orbite del tutto eccentriche un cieco Fato non avrebbe mai potuto far muovere, in un solo e medesimo modo, tutti i pianeti in orbite concentriche, fatta eccezione per alcune non considerevoli irregolarità, che possono essere derivate dalle azioni che comete e pianeti esercitano reciprocamente l'uno sull'altro, e che sono suscettibili d’auamento, finché questo sistema ha bisogno di una riforma. Una tale uniformità tanto mirabile nel sistema planetario dev'essere considerata l'effetto di una scelta. E così dev'essere considerata l'uniformità dei corpi degli animali, i quali hanno generalmente un fianco destro e un fianco sinistro formato alla stessa maniera, hanno da un lato due gambe e dall'altra due braccia o due gambe o due ali sulle spalle e tra le spalle un collo che si attacca alla spina dorsale e su di esso la testa, e nella testa due orecchi, due occhi,il un naso, una bocca e una lingua collocata nello stesso modo. Così primo disegno di quelle parti artificiali degli animali, gli occhi, gli orecchi, il cervello, i muscoli, la laringe, le mani, le vesciche natatorie, gli occhiali naturali e altri organi del senso e del moto, e gli istinti dei bruti e degli insetti non possono essere se non gli effetti della saggezza e della capacità di un potente Agente sempre Vivo. Il quale, essendo in ogni posto, è capace con la sua volontà di muovere i corpi con il suo sconfinato uniforme sensorio e quindi di formare e riformare le parti dell'universo più di quanto noi siamo capaci di muovere con la nostra volontà le parti dei nostri corpi».51 (<10;
Con la prova finalistica Newton è in grado non solo di dimostrare l'esistenza di Dio, ma anche di enucleare alcuni attributi della sua natura, in particolare l'intelligenza, la volontà, la potenza, la libertà e l'incorporeità, nonché la sua assoluta trascendenza rispetto al mondo: «Egli è un essere uniforme, privo di organi, di membra e parti: questi sono le sue creature subordinate e sono soggette alla sua volontà; ed Egli non è l'anima di esse più di quanto l'anima dell'uomo sia l'anima di ogni cosa trasportata attraverso gli organi sensoriali nella sensazione (...). Dio non ha bisogno di tali organi perché è presente dappertutto alle stesse cose»?
51) Ibfd. 52) lbid.
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Parte seconda
Creazione del 111011110 Newton non si pone in modo
esplicito il problema dell'origine dell'u-
niverso, cioè della sua creazione dal nulla. Ciò non significa che egli non accetti la dottrina della creazione, ma da scienziato qual era, egli si limi-
considerare i fatti che cadono sotto il controllo dell'esperienza, per risalire, di causa in causa, fino alla Causa prima. Egli ha ben chiara la distinzione tra scienza e metafisica, e diversamente da Cartesio egli non intende fondare sulla metafisica le sue ipotesi fisiche. Egli ritiene che le sue concezioni metafisiche pur non contrastando, ma quasi naturalmente proseguendo, il corpus della scienza sperimentalmente stabilito, non debbano essere poste alla base di esso. Nelle opere di Newton l'evento della creazione, come fatto unico e come prova irrefutabiledell'esistenza di Dio, è sempre presupposto, mai però esplicitamente dimostrato. Newton insiste sulla "signoria di Dio", sul dominio che Dio esercita sul mondo intero, come suo ordinatore: signoria che implica una sapienza infinita, la quale rimanda a una onnipotenza creatrice. Con senso di profondo rispetto per la grandezza di Dio, Newton dichiara che non sta al "filosofo" indagare sull'origine dell'universo. «Spettò a Lui che le creo, disporle secondo un ordine. Se Egli agì in questo modo, non sta al filosofo cercare altra spiegazione dell'origine del mondo, o pretendere che sia scaturiti) dal Caos per mere leggi della natura>>f3 Secondo Newton l'intervento di un agente divino è necessario oltre che per l'origine dell'universo anche per il suo sviluppo. Egli ritiene che ci siano stati diversi passaggi successivi nella formazione del sistema degli astri: sono proprio questi passaggi che non si possono attribuire all'azione delle sole leggi naturali, ma hanno richiesto l'intervento diretto di una causa infinita, intelligente e libera. Il primo di questi passaggi, secondo il geniale scienziato inglese, è stato quello per cui, da una materia originaria, formata da un ammasso caotico di parti luminose e di parti opache, si è operata la divisione delle parti luminose, che hanno formato il sole, e delle parti opache che hanno formato i pianeti. Il secondo passaggio ‘e stato quello per cui i pianeti cominciarono a muoversi e continuano tuttora a muoversi, nello stesso modo e sullo stesso piano senza variazioni apprezzabili. Questo movimento non può insiste essere sorto solo per effetto di qualche causa naturale, ma Newton deve essere stato impresso da un Agente intelligente. ta
a
—
-
LT-Érnpirismo: la nrzetafisica prigioniera dei sensi
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ultimo passaggio è quello del movimento circolare. La forma di attrazione, secondo Newton, potrebbe mettere in movimento gli astri, ma senza l'intervento divino, non potrà mai conferire ad essi il movimento circolare, con cui dovranno muoversi ordinatamente intorno al sole. La conseguenza, secondo Newton, è di assoluta evidenza. Bisogna attribuire la costruzione del sistema dell'universo a un Agente intelligente e libero, oltreché, ovviamente, onnipotente. In tal modo Newton ritiene di avere saldato in unità le concezioni scientifiche della sua fisica e le verità fondamentali della metafisica e Il terzo
della
e
religione.
CONCLUSIONE
Dopo Aristotele e prima di Teilhard de Chardin, nessun altro pensatore, come Newton ha cercato di unire così strettamente i ponti tra fisica e
metafisica, tanto da fare di
esse un
unico sapere. Costruire
una nuova
filosofia naturale (cosmologia) che sapesse recepire l'eredità di Keplero e di Cartesio, senza rinunciare alle grandi verità della metafisica e della religione: questo fu l'obiettivo costantemente perseguito da Newton. L'intento ”apologetico” nel senso più ampio del termine, fu in lui esplici— to, come lo era stato in Cartesio, ma fu da lui ricercato con maggiore convinzione e tenacia. Conoscendo la potenza della Causa prima, saremo in grado afferma Newton di comprendere meglio, alla luce della ragione, —
-
quale sia il nostro dovere Verso di Lui. Conoscere il mondo e le sue leggi significa conoscere la potenza del Creatore e la saggezza del Legislatore e, di conseguenza, capire qual è il nostro posto nell'universo creato, ponendoci in atteggiamento di adorazione dinanzi all'Autore del nostro di fraternità nei confronti delle altre creature umane. Questa profonda convinzione religiosa spiega il tono "edificante" della parte
essere,
e
conclusiva della Questione XXXI deIYOttiCa: «Se la filosofia naturale, seguendo questo metodo, diventerà alla fine scienza perfetta in tutte le sue parti, si allargheranno anche i confini della filosofia morale. Giacché quanto più potremo capire, per mezzo della filosofia naturale, quale sia la Causa delle cose, quale potere essa abbia su di noi e quali benefici riceviamo da essa, tanto più conosceremo per lume naturale quale sia il nostro dovere Verso di Lui e anche Verso il nostro prossimo>>.54
54)
Ibid.
276
Parte seconda
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cura
di A.
Pala,
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VICO E LA METAFISICADELLA STORIA
Nello scontro frontale tra i due grandi movimenti filosofici dell'epoca moderna, il razionalismo e l’empirismo, il discorso metafisico era giunto a uno stallo da cui si poteva uscire soltanto in due modi: o con una revisione completa della teoria della conoscenza, oppure con un cambiamento radicale dell'oggetto stesso della metafisica. La prima è la via seguita da Kant, con la sua ‘Tivoluzione copernicana” dei rapporti soggetto-oggetto e con la dottrina della ”sintesi a priori"; la seconda è quella seguita da Vico, il quale trasferisce l'oggetto della metafisica dall'essere al fare, alfieri, all'operare umano e alla sua storia: l'oggetto della metafisica non sono più le sostanze bensì le nazioni: il loro sorgere, divenire e tramonto. La navigazione del Vico verso il mondo intelligibile,verso la Trascendenza, Dio, non avviene risalendo alla sorgente dell'essere, ma a quella della storia umana. Vico riesce così a coniugare le esigenze dell'empirismo con quelle del razionalismo. Egli esamina ciò che fa da ricettacolo di ogni empiria, cioè la storia, ma lo fa con l'intento di trovare una spiegazione ultima di questo grandioso fenomeno. Pertanto Vico occupa legittimamente un posto importante non soltanto nella storia della filosofia in generale, ma anche, più specificamente, nella storia della metafisica.
Vita e opere Giovan Battista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668. Suo padre umile libraio. Dopo gli studi elementari e qualche sporadica frequentazione di una scuola dei padri Gesuiti, studiò in casa furiosamente e disordinatamente, tanto che, piuttosto confuso, abbandonò gli studi di fino un in a anno, per più quando, occasione di una disputa accademica, l'esempio di tanti illustri e nobili uomini che si erano dedicati allo studio e alle lettere lo riscosse e lo stimolo a riprendere il cammino. Si dedicò allora con slancio allo studio della filosofia, sotto la guida del gesuita P. Ricci, e vi pose tanto ardore che, insofferente di indugi, abbandonò il suo maestro e «si chiuse un anno in casa a studiare il Suarez». Conobbe allora la filosofia della tradizione scolastica, studiò Aristotele e Platone, per il quale ebbe fin dalla prima lettura una chiara propensione. era un
Vico e la metafisica della storia
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Terminati gli studi servi per nove anni come precettore presso la famiglia Rocca. I nove anni che passò presso quella famiglia furono i momenti più fecondi e decisivi della sua formazioneintellettuale e spirituale. Un po’ alla volta venne sempre più nettamente determinando l'oggetto dei suoi studi e delle sue indagini preferite: quello del diritto, delle leggi, dei costumi degli uomini, quello che diventerà più tardi il Campo
della «Storia delle nazioni».
Nel 1699 vinse il concorso per la cattedra di retorica presso l'università di Napoli. Cominciò allora la sua monotona vita di professore che durerà per tutto il resto della sua esistenza. Iniziò a farsi conoscere dapprima come letterato con componimenti d'occasione, con sonetti c poemetti, ecc. La prima pubblicazione importante apparve nel 1708. Il titolo dell'opera era: De nostri terrzporis studioruni ratione. Maggior fama si guadagno l'opera del 1710. De antiquissima ÎÌQÌOTIUH sapientia. Nel l72() pubblico il De universi izrris una principio et fine urto. Nel 1725 fu invitato da una casa editrice veneziana che aveva iniziato la pubblicazione delle vite ed esperienze degli uomini illustri del tempo a scrivere la sua autobiografia.Lflutobiografiafu pubblicata nel 1728. Nel 1725 fu presentata anche la prima edizione della sua opera fon-
damentale Principi di una scienza nuova intorno a una comune natura delle nazioni. Gli ultimi venti anni della vita del Vico furono quasi interamente spesi a riscrivere, apportare Variazioni e correzioni alla Scienza nuova. Ancora negli ultimi giorni della sua vita era occupato nella preparazione della terza edizione del suo capolavoro. Il Vico amava trovarsi in compagnia dei dotti suoi discepoli o suoi colleghi, dei circoli colti della città, nella speranza di trovare appoggi, consensi e aiuti nella grande opera che rivolgeva nella mente. Ma dai contemporanei il Vico ebbe poche soddisfazioni e molte amarezze, abbandoni, misconoscimenti, spesso per invidia, qualche volta per incomprensione. Il suo stesso carattere non gli favoriva il successo. Piuttosto scontroso e suscettibile, portato alla collera e al risentimento, cercava invano presso i contemporanei quel riconoscimento che egli sapeva di meritare e che solo ì posteri sentirono il dovere di tributargli. Né la fortuna ha mai sorriso alla sua lunga e onesta esistenza. Come tarda ammenda a tante incomprensioni gli giunse sul finire della carriera la nomina a regio storiografo da parte di Carlo di Borbone, divenuto re di Napoli nel 1734, il quale aveva ammirato le qualità di storiografo del Vico in un libro apparso nel 1714: la biografia di Antonio Carafa, generale napoletano al servizio dell'Impero. Il Vico, padre di otto figli, dai quali ebbe solo magre consolazioni, visse umilmente. Spesso venne a trovarsi se non in vere e proprie ristrettezze, certo in non liete situazioni economiche.
Parte seconda
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Morì il 23 gennaio dell'anno 1744, dopo Vari anni di acciacchi e malattie nella sua casetta di Napoli «con la più perfetta uniformità al divino volere» come dice il suo biografo «e chiesto perdono al cielo dei commessi falli, riconfortati coi potenti soccorsi che la Chiesa Santa presta ai suoi figlioli e che egli stesso avidamente richiese, recitando sempre i salmi di Davide».
Opere: Orazioni inaugurizli,tenute tra il 1699 e il 1707; De nostri temporis studiorum ratione, del 1708; De antiquissiriia italomzn sapientia, del 1710; De universi iuris uno principio affine Uno, del 1720; Autobiografia, del 1728,‘ Principi di una scienza nuova intorno a una Comune naiura delle nazioni, prima edizione 1725; seconda 1730; terza 1744.
L'Autobi0grafia:le fonti del pensiero di Vico ljzflutobìaggrzlfiu è il miglior documento sulle fonti del pensiero di G. B. Vico. Da essa sappiamo quali autori egli ha studiato e quali tra essi ha preferito. Tra i filosofi studiò specialmente Cartesio, Malebranche, Aristotele, S. Agostino. Ma i suoi autori preferiti furono Platone, Bacone, Tacito e Grozio. Costoro costituiscono veramente le fonti del suo pensiero: Platone e
Bacone per la
il diritto.
filosofia, Tacito (S. Agostino) per la storia, Grozio per
Tra tutti i filosofi il Vico ha amato e studiato soprattutto Platone. Lo degli altri gli è servito «per conservarsi sempre più nei dogmi di
studio
Platone». Ciò che rendeva Platone così importante agli occhi del Vico era la dottrina delle idee, perché con essa il filosofo greco era riuscito a rendere razionale ciò che meno sembrava ammettere una spiegazione razionale, cioè il mondo materiale tutto soggetto a uno sfrenato mutamento. Però il Vico non tardo a osservare che Platone non si era preoccupato di applicare la dottrina delle idee agli avvenimenti storici. Egli aveva dato una spiegazione solo della natura, non della storia. Questo interessamento per la storia venne al Vico dalla lettura di Tacito, lo storico più scientifico dell'antichità. Questi però non aveva saputo innalzarsi a una visione universale della storia, che la sapesse rendere tutta intelligibile.A questo arrivò il Vico applicando la dottrina platonica delle idee ai fatti storici. Se noi ammettiamo, osserva il Vico, che c'è un'idea, un piano per i fatti storici così come per le cose materiali, se noi ammettiamo che i fatti storici non sono che la realizzazione di un piano, di una idea, ecco che la razionalità della storia non presenta più nessuna difficoltà. Si tratterà poi di decifrare quale sia quel piano (e alla sua scoperta tenderà tutta l'opera del Vico). Ma in linea di massima la razionalità della storia è già pienamente assicurata.
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metafisica della storia
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NelYAutobiqgrz/ifiail Vico ci informa che avendo osservato «non essernel mondo delle lettere un sistema in cui accordasse la mi gliore filosofia qual è la platonica, subordinata alla religione cristiana, Con una filologia (studio dei fatti storici) che portasse necessità di scienza in entrambe le parti» gli venne in mente «un abbozzo di quel disegno su cui poi lavorò, una storia ideale eterna, sulla quale corresse una storia universale di tutti i tempi, conducendovi sopra certe eterne proprietà delle cose civili, i surgimenti, stati, decadenza di tutte le nazioni». Il nuovo sistema che Vico intende creare non è più una sintesi tra fisi-
vi
ancora
ca e metafisica come in Aristotele, oppure una sintesi di matematica e metafisica come in Cartesio, bensì una sintesi tra filosofia (i fatti storici) e metafisica platonica. Attraverso la storia e con la storia Vico vuole raggiungere 1’Intero: una spiegazioneglobale e conclusiva di ogni cosa.
Una nuova gnoseologia Come sappiamo, nell'epoca moderna il ruolo della filosofia prima e della metafisica generale non è più svolto dall'ont0l0gia, bensì dalla gnoseologia. Il punto di partenza per l'indagine sui grandi problemi metafisici dell'anima, del mondo e di Dio non è più lo studio del1’essere ma
del
conoscere.
A questo canone della filosofia moderna si attiene anche il Vico. Così egli inizia la sua ricerca filosofica, prendendo in esame il criterio di verità di Cartesio, Uerum est CEFÉLHH, al quale Vico contrappone un nuovo criterio: verum est factimr (il vero è il fatto). Secondo il filosofo napoletano, per conoscere veramente una cosa, ‘e necessario conoscere i] modo di farla, e per Conoscere il modo di farla è necessario essere in grado di farla: «Scire est tenere genus (modum) seu formam (ideam), quo res fiat. Scientia est cognitio generis seu modi quo res fiat et qua, dum mens cognoscit modum, quid elenrenti componit, reni facit»; «Conoscere significa possedere il genere (modo) o forma (idea) con cui viene fatta una cosa. La scienza è la conoscenza del genere o del modo in cui viene fatta una cosa e attraverso la quale fa la cosa, mentre la mente conosce il modo perché compone (gli elementi?)».1 Da tale criterio di verità derivano tre conseguenze: Distinzione tra certezza e verità. Secondo Vico l'uomo raggiunge certezza in molte cose, ma in poche la verità; poche infatti sono le cose che egli ha la capacità di produrre. —
1)
De mi tiquissiizia 1, 3.
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Parte seconda
S010 Dio può conoscere la verità di tutte le cose; egli infatti produce tutte le cose. «In Dio si trova il primo vero, poiché Dio è il primo creatore, e infinito perché è il creatore di ogni cosa»; «In D80 est primum UBYHHI, quia Deus primusfactor,infinimrti quia onzrziur/n factor»? Nell 3401710 la conoscenza si può presentare sotto tre forme: la teologia in cui la verità ci è rivelata ma non è fatta da noi; le matematiche che rea-
-
lizzano l'unità del
vero e
del
fatto, perché
sono
costruzioni della nostra
mente; la fisica in cui il vero si scinde dal fatto, perché l'uomo non è creatore della natura; pertanto nella fisica si danno ipotesi ma non certezze, né verità. È chiaro che questa dottrina sul criterio di verità è elaborata in diretta antitesi con Cartesio. In effetti Vico critica ripetutamente il filosofo francese in varie sue opere. La critica è diretta tanto contro il cogito quanto contro la certezza come criterio di verità. Il Cogito ergo sum non può affatto essere un argomento contro gli scettici: «Nani scepticus non dubimt se dubitarew Il cogito è coscienza, non scienza del proprio essere; è la constatazione di un dato, non una nostra produzionefl Quanto poi alla certezza cartesiana, essa è una certezza vuota: non è la vera certezza. La certezza deve contenere la spiegazione, deve fornire la ragione, la
vera
solo a tale condizione si ha la garanzia della Verità. L'idea chiara e distinta non dà Verità, e neppure certezza perché non spiega nulla. L'unico campo di ricerca in cui, oltre alle matematiche, si può dare l'unità del vero con il fatto è la storia; senonché la storia ha a che fare con fatti particolari e non universali e pertanto diviene problematica la dimostrazione della sua scientificità. Stabilire la scientificità della storia, secondo il principio verum est factum, è quanto ha cercato di fare Vico nella sua Scienza nuova. Egli credette di conseguire questo importante obiettivo applicando alla storia la teoria platonica di un mondo ideale. Platone se ne era servito per elaborare una scienza della fisica, cioè del mondo materiale, Vico invece la adopera per elaborare una scienza del mondo umano: il mondo delle vicende umane diviene intelligibile in quanto attuazione di un piano ideale eterno. causa;
La Scienza Nuova e i fondamenti metafisici della storia La Scienza Nuova , che è il grande
capolavoro di Vico, si compone di 5 libri. Il primo, dopo un lungo elenco di assiomi (dignità) espone gli inizi (principi) della storia umana,- il secondo tratta dell'età poetica; il terzo si occupa della questione omerica; il quarto espone il «corso che fanno le 2) 3) 4)
Ibid. 1, 6. Ibid. 1, 2. Ibid. 1, 3.
Vico e la metafisica della storia
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nazioni» (attraverso le tre età, dei sensi, della fantasia e della ragione); il quinto tratta del «ricorso delle Cose umane nel risurgere che fanno le naziom».
La "scienza nuova" del Vico è una filosofia dello spirito umano nella storia. Essa esige l'unione della filologia, che fornisce i fatti, e della filosofia, che ricerca la verità dei fatti. Tre sono gli elementi fondamentali nella spiegazione vichiana della storia: gli attori (Dio con la sua provvidenza e l'uomo con la sua intraprendenza), l'unità storica che è il corso, e 1a legge storica del ricorso. Ogni corso storico e costituito da tre età o epoche: quella degli dèi 0 giganti, quella degli eroi e quella degli uomini. Ogni epoca va interpretata secondo la mentalità (cultura) che le è propria. La legge universale che regola la storia è la ritmica ripetizione (ricorso) delle tre epoche, ripetizione voluta da Dio, ma senza elid ere la sua
libertà umana.
In un'epoca dominata dal cartesianesimo, Vico ha avuto il grande merito di rivendicare l'importanza dello studio della storia nei con fronti dell'interesse preminente per le scienze naturali, assumendo a oggetto della sua speculazione i principi e lo sviluppo della civiltà. Nel quadro della filosofia moderna Vico appare come una figura solitaria. l razionalisti e gli empiristi sono una falange, Vico è un isolato. Ciò non significa che egli vivesse fuori del suo tempo. Anzi egli avverte acutamente i problemi della cultura e della società moderna, ma li affronta in modo diverso e su un terreni) diverso, proponendo soluzioni differenti da tutti i suoi contemporanei. Vico sa bene che il problema del suo tempo è il problema gnOSEOlOgÌco, ma a questo problema dà una risposta storica e culturale anziché soggettiva e personale. Egli sa inoltre che la soluzione dei grandi problemi che angustiano la ragione umana va ricercata in una metafisica e in un sapere trascendente, ma anziché una metafisica fisicalistica, che parte cioè dalla natura, egli elabora una metafisica storica, una metafisica della cultura e della civiltà delle nazioni. Come nel platonismo la Trascendenza (Dio) non ha bisogno di essere dimostrata, ma è già presupposta sin dall'inizio, così anche in Vico Dio (la Provvidenza) costituisce il postulato iniziale di tutta la sua interpretazione e ricostruzione della storia. Dio è visto come la Provvidenza che pone il piano ideale eterno, su cui scorrono tutte le epoche della storia. Vico vede una presenza costante della divina Provvidenza nella storia, ma la sottolinea in modo particolare nei passaggi cruciali da epoca a epoca, da corso a corso. Nella prima età, quella del senso e delle passioni, «è sommamente da ammirare la Provvidenza divina la quale, intengli uomini tutfaltro fare, ella portogli prima a temere la divinità (con il primo fulmine). Appresso con la religione medesima, li dispose a unirsi con certe donne in perpetua compagnia di vita: che
dendo
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Parte seconda
potestà; di poi con quefamiglie, che sono il seminario delle repubbliche. Finalmente, con l’aprirsi degli asili (per dar rifugio a quei giganti che non si erano piegati alla religione), si tru0varono aver fondato le clientele onde fussero apparecchiate le materie tali che poi, per la prima legge agraria, nascessero le città sopra due i matrimoni, riconosciuti fonte di tutte le ste donne si ritrovavano aver fondato le
sono
comuni d'uomini che le componessero: una di nobili che vi dassero; l'altra di plebei che ubbidisserom"
Coman-
L'azione di Dio nella storia per il Vico è talmente forte e costante che la vera storia dev'essere «una dimostrazione, per così dire, del fatto storico della Provvidenza, perché dev'essere una storia degli ordini che
quella, senza veruno umano scorgimento o consiglio, ha dato a questa grande città del genere umano: che, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini che ella vi ha posto sono
universali ed eterni».6 Per questo motivo la vera storia si può chiamare «teologia divina ragionata ciella Provvidenza divina»? Vico scandisce la storia delle nazioni in due grandi cicli (corsi): il ciclo precristiano e quello cristiano, suddividendoli entrambi in tre epoche: giganti, eroi, uomini. La diversità dei due cicli e determinata da due distinte forme di rivelazione: naturale nel primo ciclo,‘ soprannaturale (cristiana) nel secondo. Invece la diversità delle epoche all'interno del corso e del ricorso è determinata dai rapporti assunti dall'uomo nei riguardi di Dio: rapporti basati sul senso e sulle passioni (giganti); sulla fantasia (eroi); sulla ragione (uomini). Dal rapporto nato sulla ragione nasce la teologia, che è filosofica o naturale nel primo corso, soprannaturale 0 rivelata nel ricorso. Molto si è discusso intorno allbrtodossia del pensiero del Vico, soprattutto dopo che Croce e Gentile avevano fatto di lui un precursore dellîdealismo e dello storicismo. Il nodo intorno a cui verte tutta la questione è il concetto Vichiano di Provvidenza: la Provvidenza è opera di un Dio trascendente oppure è una legge immanente della storia come il Logos degli stoici o la Ragione di Hegel? Che Vico abbia aperto una strada che Venne poi dirottata verso l'idealismo e lo storicismo, è un fatto innegabile; ma ciò non autorizza a fare di lui né un ideaìista né uno storicista. La sua Visione della storia e
5) C. B. VICO, Scienza nuova, Bari 1934, p. 629. 5) lbid, p. 342. 7) lbìd.
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metafisica della storia
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genuinarnente religiosa, cristiana, cattolica. La giusta qualifica del suo pensiero è quella che egli stesso le ha assegnato: è «una teologia divina ragionata della Provvidenza divina». Nella Scienza nuova la storia è con-
siderata dal punto di Vista di Dio come in Agostino; più precisamente dal punto di vista della sua rivelazione, che è quella dell'Antico Testamento, nel "corso"; del Nuovo Testamento, nel "ricorso". Ma poiché è una storia umana e una storia delle civiltà e delle nazioni, lo schema di lettura Vico lo assume dalla psicologia umana, che è fatta di senso, fantasia, ragione. Però i contenuti sono essenzialmente quelli del cristianesimo. Quindi, corne è stato giustamente scritto da E. Chiocchetti, Vico «non è precursore né di Kant ne’ di Hegel, se non nel senso che ogni filosofia pone dei problemi o enuncia esigenze che le filosofie posteriori sono Chiamate a risolvere e a soddisfare, data la continuità del pensiero
speculativo. Per il Vico, ogni filosofia degna di questo nome deve affermare la verità dell'esistenza di Dio, della Provvidenza personale, dell'immortalità dell’ani1na, della umana depravazione per il peccato di Adamo, della redenzione e della morale cristiana, sola capace di regola-
la vita dell'uomo. Il Vico è un pensatore cristiano. È cattolico. Non solo egli ha affermato energicamente l'armonia delle sue dottrine con la fede cattolica, ma dalle dottrine cattoliche ha attinto lo spirito e la lettera di buona parte delle sue teorie, e la sua avversione al luteranesimo e al calvinismo, da lui accusati di sostituire il fatalismo e la società alla Provvidenza e al libero arbitrio e di essere quindi incapaci di fondare una filosofia che soddisfi la ragione del genere umano (...).Vico è cattolico nella vita e nel pensiero, congiunti dalla ragione e dalla fede».8 ljermeneutica vichiana della storia è indubbiamente interessante e geniale. Essa può aiutare a decifrare lo sviluppo delle singole civiltà e anche a scoprire il senso della civiltà occidentale nel suo insieme. Ma per un’ermeneutica cristiana della storia come quella del Vico, e per qualsiasi teologia cristiana della storia e per qualsiasi storia universale (come quella di Hegel), il grande e irrisolto problema è quello di dare un senso alle grandi civiltà dell'Oriente (induismo, buddismo). Come farle rientrare in un ”piano ideale eterno"? A quale "corso” appartengono: a quello dell'Antico Testamento o a quello del Nuovo, oppure a un altro ”corso" ancora? A questi interrogativi Vico con la sua Scienza nuova non ha dato nessuna risposta perché la sua ‘Teologia divina ragionata" non si interessa della storia dell'Oriente, ma soltanto della storia dell'Occidente.
re
E. CHIOCCIIETTT, Lnfilosofia di G. B.
Vico, Milano 1935, pp. 195-196.
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Parte seconda
Conclusione Uambizionedel Vico era quella di costruire non solo una scienza nuova, ma un grande edificio metafisico capace di abbracciare sia le verità di fatto sia le loro ragioni supreme. Alla base del suo edificio Vico non pone la fisica né quella antica di -
Aristotele, né quella moderna di Galilei, Cartesio e Newton In entrambi -.
i casi l'esplorazione del mondo dei fatti (fisici o storici) e la loro sistemazione conduce soltanto a ipotesi generali più o meno feconde e suggestive ma mai a dottrine assolutamente certe. Di questo Aristotele era molto più consapevole sia di Cartesio che di Vico. Così né la scienza antica né la scienza nuova può fungere da solida base dell'edificio metafisico. La metafisica è una scienza autonoma che si avvale di principi e procedimenti propri. Il suo obiettivo non è fornire una scienza delle cose di questo mondo, né di quelle naturali né di quelle umane, ma soltanto una giustificazione conclusiva del loro esistere: la metafisica tratta delle
fenomeni, non della loro natura. Cosi le verità a cui approda la seconda navigazione, percorrendo il mare della natura oppure quello più tumultuoso della storia, sono di un altro genere e hanno un valore superiore rispetto a ogni ipotesi scientifica. Ancora una volta risulta che la metafisica è il sapere più nobilee più prezioso. Di questo era convinto anche Vico, e per questo motivo ha posto la metafisica al di sopra e a coronamento della sua filologia degli umani eventi. cause dei
Vico e la nzetafiéica della storia
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Suggerimenti bibliografici EDIZIONI
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PARTE TERZA
LA SECONDA
MODERNITÀ
LA METAFISICA DA KANT FINO AI NOSTRI GIORNI
KANT: DECOSTRUZIONEDELLA METAFISICATEORETICA E COSTRUZIONE DELLA METAFISICA PRATICA
Immanuel Kant è un gigante della storia della filosofia e una figura di primissimo piano della storia della metafisica. Con Kant la metafisica volta pagina: si chiude un'epoca e se ne inizia un'altra. Con la sua "rivoluzione copernicana” egli trasforma profondamente la elaborazione di tutte le discipline filosofiche. Certo, il grande albero della filosofia rimane ancora vivo ma i frutti che producono i suoi rami non sono più gli stessi, ne’ quelli della matematica, né quelli della fisica, né quelli della metafisica, né quelli della morale e dell'estetica. Di tutto il vasto orizzonte che abbraccia la filosofia a noi qui interessa soltanto il settore della metafisica, e a questo proposito ci poniamo due interrogativi: 1) perché per Kant la metafisica teoretica è impossibile?; 2) quale altra metafisica è possibilenel sistema kantiano? Premettiamo che Kant non è affatto un nemico della metafisica come in molti ambienti si crede, ma soltanto di un determinato tipo di metafisica: la metafisica dogmatica dei razionalisti. Kant non è un empirista: nulla e più contrario allo spirito kantiano dell'empirismo. Kant ha un senso vivissimo dei valori assoluti, il senso della trascendenza, del mondo dello spirito, di Dio. E c'è in lui l'ansia di trovare una rotta sicura per compiere la difficile traversata verso queste supreme realtà. Ma Kant non è neppure un razionalista spregiudicato. Egli contesta quella eccessiva fiducia nei poteri della ragione che aveva portato Cartesio, Spinoza, Malebranche e Leibniz a "sedersi sul trono di Dio”, con la pretesa di vedere tutto sub specie aeternitatis. Per Kant la metafisica è un'esigenza profondamente radicata nell'essere umano. Questi è l'essere metafisico per eccellenza. Ma fare della metafisica è una cosa; un'altra cosa è approdare a delle certezze assolute nel territorio della metafisica. Diversamente da Cartesio e da Leibniz egli è ben consapevole di non possedere l'intuizione degli spiriti angelici, bensì un'intelligenza strettamente legata alle intuizioni della sensibilità. Ciononostante Kant si incammina fiducioso verso l'altra sponda, la sponda dell'universo intelligibile, ma lo fa portando con sé, oltre alla navicella della ragione speculativa anche quella della ragion pratica, pronto a usarla nell'eventualità che la prima non basti allo scopo.
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Parte terza
Kant è un grandissimo appassionato della metafisica. Per lui tutto l'onore dell'uomo non sta nella matematica, nella fisica, nella politica, nell'economia, nell'arte bensì nella metafisica. E così ogni sforzo speculativo di Kant è rivolto alla seconda navigazione, e per effettuarla si avvale di ogni mezzo. l grandi mezzi di cui l'uomo dispone per compiere questa grande impresa secondo Kant sono tre: la teoria, la prassi (la morale) tranne pochissime eccezioni e l'arte. Prima di Kant, tutti i metafisici seconda la navigazione si erano avvalsi (p. es. Pascal) per compiere della navicella del pensiero speculativo. Kant la trova inadeguata allo scopo e si vede costretto ad abbandonare questo metodo. Ma non per questo egli si rassegna a fare marcia indietro e a tornare alla sponda dei fenomeni. Il noumeno è la sponda che l'uomo deve raggiungere se vuole dare un senso alla propria esistenza e trovare la salvezza. Per questo motivo Kant utilizza i due metodi di cui dispone: la prassi (la morale) e l'estetica (l'arte): esse lo trasportano verso il noumeno, verso Dio -
-
con
grande rapidità e con singolare successo.
Le vie della metafisica sono innumerevoli. Kant abbandona le vie tradizionalidella ragione speculativa e inaugura nuove vie che rispondono alle esigenze della volontà e del sentimento. In breve: Kant decostruisce la metafisica tradizionale che era la metafisica speculativa basata o su astratte definizioni o sui fenomeni della natura, però non uccide la metafisica. Egli sostituisce il Vecchio edificio con uno nuovo, costruito con gli strumenti della ragion pratica e del sentimento.
Vita e opere Immanuel Kant nacque a Kònigsberg, nella Prussia orientale, il 22 aprile 1724, da famiglia povera, appartenente alla setta dei pietisti, dalla quale ricevette una profonda educazione religiosa. Durante tutta la vita Kant conserverà una solida e viva fede in Dio e un moralismo rigido conforme ai principi del pietismo. Uscito dalla severa disciplina del Collegium Fridericìanum, nel 1740, si iscrisse all'università Albertina della sua città natale, dove si intrecciavano orientamenti aristotelici, pietisti e wolffiani. Il suo primo scritto è un intervento nella disputa tra leibniziani e cartesiani attorno al concetto di forza: Pensieri sulla vera zuilutazione delle forze vive (1746, edito nel 1749). Dopo la morte del padre (1746), Kant svolse I'attività di precettore per parecchi anni. Nel 1755 conseguì il dottorato con la dissertazione De igne, e la libera docenza con la dissertazione Principiorum primorum cogrzitionis mctaphysicae nova dilucidatio. Nello stesso anno uscì anonima la sua Storia zmiversale della natura e teoria del cielo in cui, per mezzo della teoria newtoniana delle forze attrattiva e repulsiva, è esposta l'ipotesi della formazione del sistema solare da una nebulosa originaria, ipotesi che allora passò
Kant: metafisica teoretica e
metafisica pratica
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inosservata ma che è assai vicina a quella formulata nel 1796 dal fisico francese Laplace, così che essa va comunemente sotto il nome di ”ipotesi
Kant-Laplace".
Col 1755 iniziò per Kant un periodo di quindici anni, socialmente assai vivace durante il quale egli tenne una grande quantità di lezioni in discipline disparate, dalla logica alla geografia fisica. Del 1756 è la Monadologia physica, tentativo di conciliare, a proposito della divisibilità dell'esteso, il monadismo di Leibniz con la dottrina dell'attrazione di Newton. Del 1762 è L'unico argomento possibileper una dimostrazione dell'esistenza di Dio, a cui seguirono tra l'altro: lo Studio sull evidenza dei principi della teologia naturale e della morale (1764); le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (l 764); i Sogni di un itisionario chiariti con isogni della metafisica (1766), contro E. Swedenborg, d’intonazione ironico-scetticheggiante nei confronti della metafisica; Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio (1768). Finalmente nel 1770, con la dissertazione De mandi sensibilis atque intelligibilisforma et principiis, Kant ottenne la nomina a professore ordinario di logica e metafisica nell'università di Kònigsberg, dove continuerà a insegnare fino al 1796, rifiutando numerose chiamate da altre università. Il progetto lungamente meditato di elaborare una nuova dottrina della conoscenza sottoponendo la ragione a una critica sistematica trovò, dopo un percorso non lineare, la prima, fondamentale realizzazione nella Kritik der reinen Vernunft (Critica della ragion para) (1781). Tra la prima edizione di questa, che è l'opera maggiore di Kant, e la seconda edizione (1787), notevolmente modificata, uscirono i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza (1783), un'esposizione più divulgativa (nella quale, tra l'altro, c'è il celebre riconoscimento a Hume di averlo destato dal ”sonno dogmatico") e i Principi" metafisici della scienza della natura (1786), un'analisi del concetto generale di materia, intesa a dare conto della parte della fisica che non è matematica e che tuttavia è pura. La nuova impostazione venne proseguita in campo morale con la Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragione pratica) (1788), preceduta dalla Fondazione della nzetafisica dei costumi (1785), e seguita dalla Metafisica dei costumi (1797), suddivisa in due parti: Principi metafisici della dottrina del diritto e Principi nzetafiiaici’ della dottrina della virtù. Nel 1790 uscì, terza e ultima, la Kritik der Urtlzeilskraft (Critica del giudizio), consacrata al giudizio estetico e al giudizio teleologico (che riguarda la finalità intrinseca alla natura). Nel 1793 diede alle stampe La religione nei limiti della para ragione. L'opera provocò una forte reazione negli ambienti religiosi e laici, e il 4 ottobre 1794 giunse a Kant una lettera del re di Prussia con la quale gli si proibiva di insegnare ulteriormente le idee irreligiose esposte nel libro,
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Parte terza
sotto pena di gravi sanzioni. Kant promise di attenersi al divieto e mantenne la parola non tenendo più corsi sulla filosofia della religione. Nel
pubblico Per la pace perpetua, un progetto di costituzione repubblicana fondata, in primo luogo ”sul principio della libertà dei membri di una società, come uomini; in secondo luogo, sul principio di dipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge di uguaglianza, come citta1795
dini". E del 1798 la
pubblicazione della Antropologia da
un
punto di ZJÎSÌLI
pragmatico, sintesi di trent'anni di corsi universitari, subito popolarissima. Negli ultimi anni, gravemente debilitato,Kant attese a un'ampia trattazione del passaggio dalla metafisica della scienza della natura alla fisica, in pratica a una ridelineazione del suo sistema, rimasta però incompiuta: i frammenti sono stati editi successivamente sotto il titolo Opus postumum (1882-1884).
Kant morì nella sua città natale, che non aveva mai abbandonato neppure per una sola volta, il 12 febbraio 1804. Pochi giorni prima, in uno dei rari momenti di lucidità, aveva confidato ad alcuni amici: «Signori, io non temo la morte e saprò morire. Vi assicuro davanti a Dio che se sentissi che questa notte morirò, alzerei le mani giunte e direi: "Dio sia lodato!" ». Dalla biografia di Kant emerge un dato importante: Kant è un filosofo di vecchio stampo: egli è competente non solo nei vari campi della filosofia, ma anche in quelli della scienza. Dai tempi di Pitagora, Platone e Aristotele, il filosofo era sempre stato uno studioso enciclopedico, esperto in tutti i campi del sapere: dalla matematica alla medicina, dalla musica all'astr0nomia, dalla logica alla retorica, dalla psicologia alla morale, alla politica, alla metafisica. Come i grandi filosofi dell'antichità (Platone, Aristotele), del medioevo (Avicenna, Averroè) e dell'epoca moderna (Cartesio, Leibniz) anche Kant, prima di cimentarsi con i grandi problemi della metafisica, si dedicò con successo allo studio della fisica e dell'astronomia. Avere personalmente constatato i grandi progressi che aveva compiuto la scienza ebbe il suo peso nella decisione di Kant di rivedere il metodo della metafisica e di elaborare una nuova teoria di tutto il sapere filosofico.
Gli sviluppi del
pensiero di Kant nel periodo precritico
sviluppo del pensiero kantiano nel periodo precritico si sono prospettate due ipotesi divergenti, la prima fa capo a Kuno Fischerl e la Sullo
seconda ad Aloìs Riehl?
I h.)
)
K FISCHER, Ceschichte der neueren Philosophie, Bd III 8: IV. A. RIEHL, Der philosophìscheKritizismus, Bd I, Leipzig 1908. .
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
295
Fischer nell'evoluzionedella filosofia di Kant distingue tre periodi: 1) degli inizi, dominato dall’influsso razionalista di LeibnizWolff (1740-1760); 2) il periodo della deviazione verso Fempirismo, detto anche ”peri0do inglese" (1760-1770), ispirato soprattutto dalla lettura di Locke e Hume, e che culminerebbein un vero e proprio ‘scetticismo" nei confronti della metafisica; 3) il periodo del ritorno verso un moderato razionalismo, sotto l'influsso dei Nuovi saggi di Leibniz, e che colloca Kant nella direzione definitiva della filosofiatrascendentale. A questa teoria clellbscillazione,Riehl oppone la sua teoria dell'evoluzione continua, sulla base del razionalismo wolffiano, ma corretto dagli stimolanti influssi dell’empirismo lockiano e humiano. Propriamente parlando non ci sarebbe mai stata in Kant una sostituzione del punto di vista di Hume a quello di Wolff, ma soltanto una critica progressiva del razionalismo wolffiano, mai abbandonato, attraverso lo scetticismo di Hume, mai totalmente condiviso. Pur non accettando in pieno Pipotesi del F ischer, Ioseph Maréchal nel Kant precritico distingue tre fasi: wolffiana, lockiana, criticismo incipiente. In questa breve ricostruzione degli sviluppi del pensiero kantiano nel periodo precritico noi ci baseremo sullo studio sintetico ma ben documentato del Maréchalfi il periodo
PRIMA TAPPA: IL DOGMATISMO METAFlSlCOLEÎBNIZIANO
-
WOLFFIANO
La formazione filosofica di Kant avviene in un contesto culturale in imperava incontrastato il razionalismo leibniziano codificato da Christian Wolff. Il primo scritto filosofico di Kant si intitola Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio. Esso comprende la trattazione dei principi logici di non-contraddizione (Sectio I), di ragion cui
determinante, detta ragion sufficiente (Sectio H) e dei due principi metafisici conseguenti a questo, quello di successione e quello di coesistenza (Scctio III). L'articolazionestessa della trattazione manifesta la sostanziale adesione di Kant al razionalismo allora di moda, che costruiva tutta la metafisica deduttivamente, assumendo come postulati di base i principi primi della conoscenza. Ma già in questo scritto Kant dà qualche segno
di autonomia rispetto al1’ortodossia wolffiana. Secondo Wolff le nozioni di Ragion sufficiente (Grund) e di Causa (Ursache) sono convertibili; così la Ragione logica (der logische Grand) è sempre anche Causa ontologica (tmtologisclzer Grand; Ursache). Ma proprio su questo punto di capitale importanza Kant dissente da Wolff; egli nega la reciprocità della ‘Ragione logica” e della “Ragione reale” e di-
3) I. MARÉCHAL, Le point de déprart de la métczphysique III, Bruxelles-Paris1944, pp. 18-83.
296
Parte terza
la ratio essendi ve! fiendi di una cosa. E la ragione ontologica non è mai una nostri concetti conclude: «In base ai ragione logica»; «non è il principio di identità che fa concludere dal vento all'acqua». Nello stesso scritto prendono forma tre categorie che saranno fondamentali per il Criticismo: la determinazione (Bestimnzang), la quale nell'applicazione di un predicato con esclusione dell’opposto ‘e quella che conferisce agli atti del pensiero un valore realistico implicito, analogo a quello degli atti fisici, e la successione e la coesistenza, che saranno poi per Kant gli attributi tipici intuitivi del tempo e dello spazio.
stingue tra
LA
la ratio
cognoscendi e
SECONDA TAPPA:
IL PUNTO DI VISTA DELLA
"PHILOSOPHIAEXPERIMENTALIS"
L'incontro con Hume fu indubbiamente decisivo per Kant: infatti fu proprio questi a risvegliarlo dal suo "sonno dogmatico”. Nel 1756 era apparsa la traduzione tedesca delle Ricerche sullîntelletto umano. Nel 1762 Herder segnala Hume tra i filosofi studiati da Kant in quell'anno; mentre lo stesso Kant nel 1765 annuncia nel programma dei suoi corsi l'esame delle dottrine etiche di Hurne, Shaftesbury e Hutcheson. Nei Sogni di un visionario del 1766 l'accostamento di Kant a Hume è visibile nella coincidenza stessa di alcune formule. Negli stessi anni Kant è visibilmentepreoccupato di scoprire il vero metodo della metafisica. In una lettura a Lambert del dicembre 1765 Kant gli annuncia il suo progetto di pubblicare un libro "sul metodo proprio della metafisica”. La sua intenzione è di dare a questa disciplina un metodo così preciso come quello della philosopîiiaexperimentalis che Newton aveva applicato alla fisica. La satira impietosa della metafisica dogmatica dei suoi tempi contenuta nei Sogni di un visionario non va considerata, come ha creduto Fischer, una capitolazione dinanzi allo scetticismo di Hurne, ma una acuta crisi intellettuale di
un
metafisico disincantato che,
pero non Vuole
dubitare della "metafisica in quanto tale”. Egli non se la prende con la metafisica in se stessa, "trattata oggettivamente" confida all'amico Mendelssohn -, perché questa metafisica "appartiene al bene vero e duraturo dell'umanità". Uno degli obiettivi dei Sogni era quello di far capire ai metafisici la necessità di «esaminare attentamente se il compito che affrontano è sufficientemente determinato, tenuto conto delle nostre capacità conoscitive, e quale rapporto i problemi posti hanno con i concetti d'esperienza, sui quali devono ad ogni caso appoggiarsi tutti i nostri giudizi. In questa misura, la metafisica è una scienza dei limiti della ragione umana». Ecco qui lanciato il grande motto: "i limiti della ragione”. La metafisica, essendo analitica e non sintetica, come pretendono i razionalisti, non può avere altro contenuto che quello che le viene fornito dall'esperienza. Sempre nella lettera a Mendelssohn, Kant soggiunge che la —
Kam‘: metafisica teoretica e
metafisica pratica
297
ragi.one non è limitata in quanto ragione; ma occorre chiedersi «se non ci sono qui dei limiti, che non sono imposti dai confini della nostra ragione ma da quelli dell'esperienza che fornisce alla ragione i dati». Le verità metafisiche non crollano: ciò che Kant
mette in
discussione è la via per
raggiungerle: egli esclude la via sintetica dei razionalisti e abbraccia la via analitica, che era già di Aristotele e di S. Tommaso: fatto che Kant pare ignorare. Nelle battute finali, molto eloquenti, dei Sogni Kant esalta la ”fede morale” al di sopra delle sottigliezze e astruserie dei ragionamenti professorali. Questi possono suscitare gli applausi degli studenti; ma alla fin fine a che cosa giovano, avendo noi nella "fede morale” una guida sicura, ”la sola adatta alla condizione presente dell'umanità" e di cui si può dire che ”ci conduce, senza deviazioni,al nostro vero fine ultimo”?
In queste ultime frasi troviamo una chiara anticipazione di due motivi dominanti del Kant critico. Il primo è la sua profonda avversione per i sofismi e le astruserie della metafisica delle scuole, che a nulla giovano, ma solamente complicano la soluzione di problemi che la "metafisica del buon senso” (l'espressione è nostra e non di Kant) riesce a risolvere molto più agevolmente e chiaramente. Il secondo è la convinzione che esiste una via pratica, morale per la soluzione dei problemi della metafisica, molto più sicura della via speculativa. Un'altra acquisizione definitiva di Kant durante questo periodo precritico, di transizione dal razionalismo dogmatico alla filosofia trascendentale, di cui troviamo chiara conferma nel trattato L'unico argomento possibile per una dinzostrazione dell'esistenza di Dio, è la chiara distinzione tra essenza ed esistenza di una cosa; cosicché il semplice procedimento
analitico della definizione di una cosa non può bastare a provare la sua esistenza. Per esistenza (Dasein) Kant intende "la posizione assoluta di una cosa" (Das Dasein ist die absolute Position eines Dinges). «Negare l'esistcnza di una cosa (di cui si è definita l'esistenza) non comporta nessuna contraddizione». Da Hume Kant mutua anche la tesi della impossibilità di provare analiticamente il principio di causalità: come qualche cosa possa essere una causa, o possedere una forza, questo è un concetto che la nostra ragione non è proprio in grado di comprendere; relazioni come quelle causali non possono essere ricavate che dalla esperienza. TERZA TAPPA: IL CRITICISMO INCIPIENTE DELLA DISSERTAZIONE DE MUNDI SENSIBILIS ATQUE INTELLIGIBILIS FORMA ET PRINCIPIIS Il passaggio imminente alla filosofia trascendentale è segnato dalla famosa dissertazione del 1770, su "I principi e la forma del mondo sensibile ed intelligibile". Kant stesso dichiara che nel 1769 aveva avuto una "grande illuminazione";e questa era stata la scoperta della "idealità del-
298
Parte terza
10 spazio e del tempo” con il suo corollario: la distinzione tra sensibilitàe intelletto. Sin dall'inizio della Dissertazione Kant pone una netta distinzione tra ciò che è rappresentabile (mediante l'intuizione sensitiva) e ciò che è intelligibilemediante l'intelletto e la ragione. Indubbiamente il mondo sensibile (nrundus sensibilis) non può usufruire delle stesse certezze del mondo intelligibile(nzundrcs intelligibilis),ma ciò non significa, come sosteneva la scuola cartesiana, che la scienza sia solo dell'intelligibilee mai del sensibile. Infatti anche il sensibile è soggetto a forme universali a priori, le forme di spazio e tempo. Kant procede quindi alla dimostrazione che spazio e tempo sono forme ideali e non proprietà più o meno accidentali delle cose materiali. l passaggi della dimostrazione della idealità dello spazio sono i seguenti: 1) il Concetto di spazio non è astratto da percezioni esterne, ma è presupposto come una condizione della loro possibilità; 2) il concetto di spazio è un’intuizi0ne pirra: intuizione perché non è un concetto discorsivo, astratto; pura, perché non è composta di sensazioni, ma costituisce la forma previa necessaria (a priori) delle sensazioni esterne; è l'intuizione pura dello spazio che Costituisce l'oggetto della geometria; 3) lo spazio non è qualche cosa di oggettivo e di reale (sostanza, accidente o relazione) ma qualche cosa di soggettivo e di ideale, ossia una specie di schema coordinatore delle nostre sensazioni esterne, derivato dalla natura stessa del nostro spirito; 4) benché lo spazio in se stesso, confrontato con la "realtà in sé" si debba dire soltanto immaginario, tuttavia, rapportato ai "fenomeni sensibili" non è soltanto assolutamente vero (verissimus), ma è il fondamento della verità dei sensi esterni. Con lo stesso procedimento Kant prova l'idealità del tempo, con la sola variante che esso riguarda i sensi interni, e costituisce l'oggetto della matematica. Il "principio della idealità dello spazio e del tempo” diviene ormai ufiacquisizionedefinitiva della filosofia critica. Esso significa che lungi dal formare una condizione ontologica degli oggetti, spazio e tempo non sono altra cosa, nella nostra conoscenza, delle condizioni generali e necessarie della sensibilità,le leggi a priori del fenomeno. Successivamente, trattando del mundus intelligibilis Kant prende in esame alcuni concetti fondamentali della "filosofia prima", quali 1a possibilità, l'esistenza, la necessità, la sostanza, la causa ecc. Sono concetti che in se stessi non contengono nessun elemento sensibile e non fanno parte di nessuna rappresentazione sensibile, e perciò non possono essere ricavati dall'esperienza. Il loro contenuto è puramente intellettivo. Questi concetti fondamentali della metafisica sono spesso classificati come ”concetti astratti". Kant respinge questa terminologia. Infatti, benché il "concetto intellettivo" faccia astrazione dal sensibile, non viene assolu-
Kant: metafisica teoretica e metafisica pratica
299
tamente astratto da esso. Più che di un concetto astratto (abstractus) si tratta di un concetto astraente (abstraheris), che prescinde, cioè, dall'a-
strazione. Per evitare ogni ambiguità Kant preferisce chiamare i concetti strettamente intellcttivi idee pure; egli esclude che queste idee siano innate (conceptus centrati): esse sono "acquisite" in quanto esprimono leggi generali dell'attività che il nostro intelletto svolge nell’impatto con l'esperienza. Sono determinazioni ontologiche riferite ai fenomeni. Maréchal riassume in quattro proposizioni i punti salienti della "Propedeutica” filosofica che Kant cercava di abbozzare nella Dissertazione del 1770: 1. Gli oggetti sono rappresentati dalla nostra coscienza in due maniere: a) fenomenalmente‘, come essi ci "appaiono"; b) intelligibilwnente, come “sono in se stessi". 2. Gli oggetti fenomenici sono colti nei "concetti empirici”. 3. Gli oggetti intelligibilisono colti nei ”concetti puri". Questi esprimono, sotto la norma logica dell'identità, un contenuto proprio dell'intelletto. Non sono tuttavia "intuizioni intellettuali”, ma determinazioni intelligibiligenerali, che noi riferiamo agli individui attraverso i concetti
empirici di questi ultimi.
4. La confusione dell'oggetto fenomenico con l'oggetto intelligibilegenera le antinomie. Questa confusione deriva sempre da un errore sul.la natura dello spazio e del tempo, intuizioni pure della sensibilità,la cui apriorità e necessità dà l'apparenza illusoriadi intclligibili’puri o di noumenifl Come osserva Maréchalfi la Chiara ripartizione degli oggetti della conoscenza in fenomenici e rzounzenici che Kant elabora nella Dissertazione del 1770 non va ancora intesa nel senso che assumerà nella Critica della ragion pura, perché a questo stadio del suo pensiero Kant ha ancora una concezione realistica della conoscenza. Secondo Kant l'intelletto è, di natura sua, la facoltà del "reale ontologico", del "reale in se stesso”. Nel 1770 Kant ammette ancora che le determinazioni del nostro intelletto rappresentano un contenuto oggettivo, una specie di ”dato a priori”. ll problema del "rapporto delle rappresentazioni della mente con l'oggetto" si presenta a Kant con estrema acutezza poco dopo la pubblicazione della Dissertazione del 1770. In una lettera a Markus Herz del 1772, Kant si chiede se le determinazioni intellettuali, che egli aveva considerato come contenuto oggettivo del pensiero puro, non fossero che strutture funzionali di una intelligenza costretta a esercitarsi su dati esterni e, in tal caso, se questi "concetti puri", anziché imporsi come ”dati intelligìbili",immediati che si constatano senza spiegarli non —
4) 5)
Cf.
lbiri,p. 73.
Cf. 117111., pp. 74-75.
-
300
Parte terza
procedano piuttosto dalla intelligenza come funzioni necessarie dell'u-
nità radicale del soggetto conoscente. Se tale è il vero valore dei ”concetti puri" un compito del tutto nuovo si impone alla filosofia. Ecco il brano centrale della lettera: «Cercando le fonti della conoscenza intellettiva, prescindendo dalle quali è impossibile determinare la natura e i limiti della metafisica, decisi di dividere questa scienza in parti essenzialmente distinte e mi sforzai di ricondurre la filosofia trascendentale ossia l'insieme dei concetti della ragione totalmente pura a un numero fisso di categorie. Tuttavia, invece di procedere come Aristotele, che prende i concetti così come li trova e poi li giustappone in maniera approssimativa nei suoi predicamenti, io mi sono conformato alla ripartizione dei concetti in classi, radunandoli sotto un piccolo numero di principi fondamentali dell'intelletto. Senza dilungarmi qui su tutte le tappe di questa ricerca, fino alla sua conclusione, posso ben dire che, per l'essenziale, sono riuscito nel mio disegno, e che sono attualmente nella condizione di presentare una "Critica della ragion pura" esponendo la natura della conoscenza sia teorica sia pratica, nella misura in cui sono entrambe puramente intellettive. Di quest'opera pubblicherò anzitutto la prima parte, che tratta delle fonti, del nzetodo e dei limiti della nzetafisica; successivamente elaborerò i principi a priori della morale; per quanto concerne la prima parte, la sua pubblicazione si potrà effettuare entro tre mesi». —
-
Nel momento in cui scriveva questa lettera, Kant riteneva di essere molto più avanti nella stesura della Critica della ragion pura di quanto di fatto lo fosse. infatti prima della sua pubblicazione dovranno trascorrere ben nove anni. Ad ogni modo gli obiettivi dell'opera come la sua ripartiZione gli risultavano ormai molto chiari: elaborare una critica della ragione al fine di determinare "le fonti, il metodo e i limiti della metafisica”. Diversamente da Locke, il quale aveva scritto il suo Saggio sullîntelligenza Lumina con una finalità esclusivamente gnoseologica (esplorare cioè l'origine della conoscenza, ossia le vie e i modi con cui la mente si forma le idee), la finalità che Kant persegue nella Critica della ragion pura è metafisica: non la sua negazione, ma la determinazione dei suoi confini. Indubbiamente, oggetto della ricerca sono i procedimenti delia ragione, mail fine della ricerca è la metafisica. Pertanto, benché ai più la cosa risulti abbastanza paradossale, non si tradisce Kant ma si resta fedeli alle sue intenzioni se non si prende la Critica della ragion pura come un trattato di gnoseologia, bensì come un trattato di metafisica. Del resto che questo sia il punto di vista di Kant, risulta pienamente confermato, come vedremo immediatamente, anche dalle due importantissime Prefazioni dell'opera.
Kant:
nzetafisica teoretica e metafisica pratica
301
I limiti della metafisica teoretica nelle due ”Prefazioni” della Critica della ragion purm» per tutti i filosofi moderni a partire da Carteè più l’ontologia ma la gnoseologia. Il primo problema da risolvere non è quello dell'essere ma quello del conoscere: chiarire l'origine e il valore della conoscenza. Ma questa ricerca gnosetilogica è sempre intesa da lui come un prolegomeno della metafisica, anzi la metafisica costituisce il coronamento del discorso gnoseologico, in quanto essa rappresenta l'espressione più alta del conoscere umano. Non c'è nulla di meglio per conoscere il pensiero di Kant intorno alle
Anche per Kant,
come
sio, la filosofia prinm
non
delle due Prefazioni (A e B) della RV. Questo è il motivo per cui analizzeremo attentamente questi due interessantissimi documenti del pensiero kantiano. Che la metafisica sia il tema dominante della RV è detto espressamente da Kant sin dall’esordio della Prefazione alla prima edizione.
possibilità metafisiche della ragion pura
Leggiamolo insieme:
«In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino di venire assediata da questioni, che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana. Essa incorre in questo imbarazzo senza sua colpa. Muove da proposizioni fondamentali, il cui uso è inevitabilenel corso dell'esperienza e insieme è da questa sufficientemente convalidato. Con tali proposizioni essa sale sempre più in alto (come in verità chiede la sua natura), a condizioni più remote. Ma poiché si accorge, che a questo modo la sua attività deve rimanere ognora senza compimento, poiché le questioni non cessano mai di ripresentarsi, essa si vede allora costretta a rifugiarsi in proposizioni fondamentali, che oltrepassano ogni possibileuso di esperienza e nondimeno sembrano tanto superiori a ogni sospetto che anche la comune ragione umana si trova d'accordo su di esse. Così facendo tuttavia essa cade in oscurità e contraddizioni, dalle quali a dire il vero può inferire che alla base devono sussistere da qualche parte errori nascosti; essa tuttavia non può scoprirli, poiché le proposizioni fondamentali, di cui si serve, non riconoscono più alcuna pietra di paragone nell'esperienza, dal momento che oltrepassano il confine di ogni esperienza. Ebbene, il campo di battaglia di questi contrasti senza fine si chiama ntetafisica.
F‘)
prosieguo di questo capitolo per le tre Critiche utilizzeremole seguenti sigle, dai titoli tedeschi: RV (C. della ragion pura), PV (C. della ragion pratica) e UK (C. del giudizio). La migliore traduzione italiana della Critica della ragion pura è que.lla di G. Colli: l. KANT, Critica della ragion pura, Adelphi,Milano 1995. Da essa attingeremo le nostre citazioni.
Nel
tratte
302
Parte terza
Vi fu un tempo, in cui essa era chiamata la regina di tutte le Scienze, e se si considerano le intenzioni come fatti, essa meritava certo questo nome onorifico a causa della importanza preminente del suo oggetto. Ora la moda dell'epoca è incline a dimostrarle un totale disprezzo, e la matrona si lamenta, scacciata e abbandonata, come Ecuba: modo maxima rerum, tot generis nutìsque potens nunc trahur exul, inops (OVID., -
Meta1n.)».7
Kant ricorda quindi velocemente i momenti salienti della storia della metafisica: i suoi trionfi con i dogmatici quando il suo dominio era incontrastato e, poi, le sue disavventure, con gli scettici e gli agnostici. In tale contesto risulta chiaro il compito attuale del metafisico: verificare quali siano gli effettivi poteri della ragione nel suo triplice uso: teoretico (speculativo), pratico (morale) ed estetico (artistico). La metafisica costituisce il tema dominante della RV, perché è la ragion pura che con le sue speculazioni ha l'ambizionedi oltrepassare i confini dell'esperienza, per inoltrarsi nella sfera del trascendente. Del resto, lo scontro tra razionalistied empiristi riguarda esattamente i poteri della ragione nel territorio della metafisica. Per i razionalisti l'origine della conoscenza è tutta dall'alto, senza alcun ricorso all'esperienza e quindi il suo valore è assoluto e così come la sua competenza nel territorio della metafisica è assoluta. Invece per gli empiristi, l'origine è tutta dal basso (dall'esperienza sensibile),e quindi il suo valore è limitato al mondo sensibile (nonostante qualche sconfinamento nel trascendente di Locke). La metafisica non può essere che un'impresa stolta
destinata al fallimento. Per uscire "da questo campo di battaglia di contrasti senza fine” Kant
decide di sottoporre a rinnovata analisi i processi conoscitivi di cui è dotata l'umana ragione, con l'obiettivo preciso di scoprirne i limiti. Questo è un compito a cui l'intelligenza umana non si può sottrarre; infatti è una materia di estrema gravità dinanzi alla quale nessuna mente sensata può restare indifferente:
«È difatti vano, il volere fingere indifierenza al riguardo di quelle indagini, il cui oggetto non può essere indifferente alla natura umana. Anche quei pretesi indifferenti, per quanto sperino di rendersi inconoscibìli mutando il linguaggio di scuola in un tono popolare, Cadono irrimediabilmente,ogni volta che essi pensano qualcosa, in affermazioni metafisiche, contro le quali pure avevano messo in mostra tanto disprezzo. Tuttavia questa indifferenza che si presenta in mezzo alla fioritura di tutte le scienze e colpisce proprio quella alle cui conoscenze, se si potessero possedere, si rinunzierebbe meno che a tutte le altre —
7) RV, pp. 7-8.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
303
pure ‘e un fenomeno, che merita attenzione e riflessione. Essa è evidentemente l'effetto non della leggerezza bensì della maturata capacità di giudizio dell'epoca, la quale non si fa trattenere più a lungo da un sapere apparente; essa ‘e inoltre un incitamento alla ragione, perché assuma di nuovo la più gravosa di tutte le incombenze, ossia quella della conoscenza di sé, e perché istituisca un tribunale, che la garantisca nelle sue giuste pretese, ma possa per contro sbrigarsi di tutte le pretensioni senza fondamento, non mediante sentenze d'autorità, bensì in base alle sue eterne e immutabilileggi. E questo tribunale non è altro se non proprio la critica della ragion pura (Kritik der reinen Vernurift)>>.8 -
Kant ribadisce nuovamente la
sua
intenzione di
sottoporre la ragione
un'accurata indagine critica, per verificare quali siano i suoi effettivi poteri nel terreno della metafisica: a
«Con ciò non intendo una critica dei libri e dei sistemi, bensì la critica della facoltà di ragione in generale, riguardo a tutte le conoscenze, cui la ra ione 13.. uò as irare, indi endentenzente da 0 ni es erienza; intendo della possibzlita 0 imposszbilita di una metafisica m la decisione quindi tanto delle fonti, quanto dellfiznzpiezza e la determinazione e generale, dei limiti di essa, il tutto P erò stabilito sulla base di P rinciP i».9 .
Che la ragione abbia dei limiti e non dei poteri illimitati che le attribuiscono i razionalisti, Kant non nutre nessun dubbio e lo dichiara a chiare lettere già nella prima Prefazione alla RV. E sono limiti tali da far crollare l'illusione coltivata dai dogmatici di fornire una risposta chiara e sicura ai grandi interrogativi che angustiano la ragione umana, interrogativi a cui non può sfuggire, ma che non ‘e neppure in grado di risolvere.
Infatti,
«la risposta a quelle domande non ha preso certo la forma, che poteva attendersi un desiderio dogmaticamente esaltato di sapere. Tale desiderio non potrebbe infatti venir soddisfatto che mediante arti magiche: ma io non mi intendo di ciò. Tuttavia anche la destinazione naturale della nostra ragione non aveva davvero di mira taie risposta, e il dovere della filosofia consisteva nell’eliminare la costruzione apparente, che sorgeva da un equivoco, quand'anche dovesse andare distrutta con ciò una illusione tanto lodata e tanto cara. In questo lavoro ho mirato soprattutto a un'ampiezza circostanziata, e oso dire, che non. deve sussistere un solo problema metafisico che qui non sia stato risolto, o alla cui soluzione per lo meno non sia stata fornita la chiavemw
3) RV, pp. 9-10. 9) RV, p. 10. l”) RV, pp. 10-11.
304
Parte terza
La demarcazione dei limiti della ragione nelle questioni che riguardala metafisica viene immediatamente fissata da Kant con il postulato dell'esperienza, che è il nuovo "rasoio di Occam" con cui Kant taglia le gambe a tutte le ambizionidella metafisica dogmatica, mentre tiene aperno
metafisica aporetica. Il dogmatico, osserva Kant, «s'impegna ad ampliare la conoscenza umana al di là di tutti i limiti di un'esperienza possibile: al riguardo io confesso umilmente che ciò supera del tutto il mio potere».11 Nonostante questa ferma decisione di non oltrepassare mai i confini dell'esperienza (vale a dire quanto l'intelletto può apprendere con il concorso insostituibiledella sensibilità),Kant nella conclusione della prima Prefazione ribadisce il suo impegno metafisico: il suo obiettivo è quello di elaborare un sistema completo dell'umano sapere e questo è precisamente un compito della metafisica. Ecco le parole testuali di Kant: ta la
porta soltanto
a una
metafisica, secondo i concetti che in uesta nostra indagine daredi essa, è l'unica tra tutte le scienze, c e si possa ripromettere una tale compiutezza, e ciò in breve tempo e soltanto con uno sforzo piccolo, ma concentrato; cosicché non rimane alla posterità null'altro se non accomodare tutto quanto, secondo le sue intenzioni in maniera didattica, senza per questo poterne accrescere minimamente il contenuto. Si tratta infatti di null'altro che dell'inventario, ordinato sistematicamente, di tutto ciò che noi possiamo possedere mediante la ragione pura. A questo proposito nulla può sfuggirci, poiché ciò che la ragione trae completamente da se stessa non può nascondersi, ed è piuttosto messo alla luce proprio dalla ragione, non appena si è scoperto il principio comune di tutto ciò. La perfetta unità di questa specie di conoscenze, e precisamente l'unità che sorge soltanto da concetti puri senza che su di essi, nell'ampliarli e nell'accrescerli,possa avere un Certo influsso un qualsiasi elemento di esperienza, o anche soltanto una intuizione particolare, che dovesse condurre a un'esperienza determinata rende questa compiutezza incondizionatanon soltanto realizzabile,ma anche necessaria. Tecum habita et noris, quam sit tibi «La
mo
—
-
curia supellex (PERSIUS). Spero io stesso di fornire un tale sistema della ragione pura (speculativa), sotto il titolo: metafisica della natura».12
ragion pura si occupa della metafisica della natura Kant lascia già intendere quanto spiegherà altrove che, cioè, non esiste una sola metafisica. In effetti Kant stesso compilerà un'altra opera intitolata: Metafisica dei costumi, la quale corrisponde alle esigenze della raPrecisando che la
gion pratica.
n) RV, p. 11. l?) RV, pp. 15-16.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
305
Nella Prefazione alla Seconda edizione della RV Kant traccia un quadro generale delle scienze, distinguendole in teoretiche, che determinano l'oggetto mediante concetti, e pratiche, che rendono reali i loro oggetti. Inil entrambe c'è una parte pura, che è quella in cui «la ragione determina suo oggetto completamente a pri0ri».I3 Le scienze teoretiche sono a loro volta suddivise in matematica e fisica. Secondo Kant, il loro carattere scientifico si instaura, storicamente, nel momento in cui si comincia a comprendere che delle cose noi conosciamo a priori, vale a dire necessariamente e universalmente, soltanto ciò che noi stessi poniamo in esse. In entrambi i casi si tratta di una grande «rivoluzione nel modo di pensala quale fu molto più importante che la scoperta del passaggio del re famoso capo di Buona Speranzam” Per quanto attiene la matematica, autore della rivoluzione fu, probabilmente, Talete. A lui improvvisamente «si presentò una luce» che gli fece capire che «non doveva attribuire alla cosa alcunché, all'infuori di quanto seguiva necessariamente da ciò che egli stesso, conformemente al suo concetto, aveva posto in essa>>fl5 Invece, per quanto riguarda la fisica, autori della rivoluzione furono Galilei e Torricelli: anch'essi «furono colpiti da una luce. Essi compresero che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno, e capirono che essa deve procedere innanzi con i principi dei suoi giudizi basati su stabili leggi e deve costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza lasciarsi guidare da essa sola, per così dire, con le dande».16 Solo dopo che gli studiosi compresero la vera natura della matematica e della fisica, queste scienze si avviarono verso un inarrestabilesviluppo. Chiarita così la ragione dei successi della matematica e della fisica, Kant si interroga sui motivi dell’insuccesso della metafisica. -
metafisica non ha avuto sinora un destino tanto favorevole, da più permetterle di prendere la via sicura di una scienza; eppure essale èaltre antica di tutte le altre scienze e sussistercbbe ancora, quand'anche tutte assieme dovessero venire completamente inghiottite nell'abisso di una barbarie che sterminasse ogni cosa. In essa, infatti, la ragione si arena continuamente, persino quando vuole scorgere a priori (tale è la sua pretesa) quelle leggi, che sono confermate dalla più comune espe«La
rienza. Nella metafisica si deve percorrere indietro la strada infinite volte, poiché si scopre che il cammino non conduce nella direzione voluta. E per quanto riguarda la concordia nelle affermazioni dei suoi seguaci, essa è ancora così lontana dall’averla raggiunta, che risulta
piuttosto un campo di battaglia: quest'ultimo
13) RV, p. 19. 14) RV, p. 20. 15) Ibid. le») RV, p. 21.
sembra
propriamente
306
Parte terza
destinato a esercitare le forze dei partecipanti in un combattimento fitnessun combattente è mai riuscito a conquistarsi neppure il più piccolo vantaggio territoriale e a fondare sulla sua vittoria un possesso durevole. Non vi è dunque alcun dubbio che il modo di procedere della metafisica sia stato sinora un semplice brancolare, e quel che è peggio, un camminare a tastonì tra semplici concetti».17
tizio, in cui finora
Perché,
si
chiede Kant, le scienze matematica e fisica hanno —
-
com-
piuto progressi sensazionali, mentre la metafisica è sempre rimasta ferma alla linea di partenza? La sua risposta è che l'insuccesso della metafisica non è causato dall’altezza e dall’asprezza delle vette a cui essa mira, bensì dalla scelta errata del cammino da percorrere. La ragione speculativa (la pura ragione) presume di aprirsi un varco verso le radici ultime dell'essere scavando nel terreno dell'esperienza. Ma l'errore sta proprio qui, perché l'esperienza può fornire informazioni sul mondo sensibilema non sulle sue cause. L'errore capitale della metafisica, che Kant denuncia con insistenza nella Prefazione alla seconda edizione della RV è quello di non aver capito come funzioni la conoscenza della realtà: di non aver compreso che nel rapporto soggetto-oggetto il primato non spetta all'oggetto bensì al soggetto. Ecco come si esprime Kant a questo proposito: «Si ‘e ritenuto sinora, che ogni nostra conoscenza debba regolarsi secondo gli oggetti: tutti i tentativi di stabilire su di essi, attraverso concetti, qualcosa a priori, mediante cui fosse allargata la nostra conocaddero tuttavia, dato tale presupposto, nel nulla. Per una dunque, se nei problemi della nretafisica possiamo procedere meglio, ritenendo che gli oggetti debbano conformarsi alla nostra conoscenza. Già così, tutto si accorda meglio con la desiderata possibilitàdi una conoscenza a priori degli oggetti, la quale voglia stabilirc qualcosa su di essi, prima che ci vengano dati. La situazione al riguardo è la stessa che si è presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché la spiegazione dei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a che egli sosteneva che tutto quanto l'ordinamento delle stelle ruotasse intorno allo spettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio, quando egli facesse ruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle. Nella metafisica, orbene, si può fare un analogo tentativo, per quanto riguarda scenza,
volta si tenti
l'intuizione degli oggettìmîs
Senonché, osserva Kant, mentre la fisica dispone di una intuizione proprio oggetto e grazie ad essa riesce a dare un contenuto ai suoi concetti a priori; la metafisica non dispone di nessuna intuizione intellettiva del suo oggetto, il noumeno, e di conseguenza non può dare
sensibiledel
17) RV, p. 22. 18) RV, pp. 23-24.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
307
un contenuto alle sue idee. La strada della metafisica dovrebbe essere l'intuizione intellettiva, ma poiché l'uomo non la possiede, la metafisica non potrà mai raggiungere il suo traguardo. Siamo di nuovo al "rasoio di Occam"; senza esperienza non è possibile nessuna conoscenza ma la
metafisica non ha nessuna risulta inconoscibile:
esperienza del
suo
oggetto: perciò questo
«Con tale facoltà (del conoscere) non possiamo mai oltrepassare il limite di un'esperienza possibile, mentre proprio questo è ciò che interessa nel modo più essenziale tale scienza (la metafisica). Proprio qui, peraltro, la verità del risultato di quel primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione viene sperimentata mediante una controprova, consistente cioè nel fatto che la conoscenza della ragione si rivolge soltanto ad apparenze, lasciando per contro che la cosa in se sussista come per sé reale, ma sia da noi sconosciuta. Ciò che ci spinge necessariamente a oltrepassare il limite dell'esperienza e di tutte le apparenze è infatti l’inc0ndizi0i1at0, che rispetto a ogni oggetto condizionatola ragione esige, necessariamente e a buon diritto, nelle cose in se stesse, pretendendo in tal modo la compiutezza della serie delle condizioni»)?
denuncia l'impossibilità di qualsiasi progresso d'una metafisica che batte il sentiero impercorribiledella ragione speculativa, già nella Prefazione alla seconda edizione della RV egli anticipa che esiste un'altra via, quella della ragion pratica che la metafisica può percorrere con successo. Ecco il passo esemplare in cui Kant propone questa importantissima alternativa alla metafisica:
Però,
mentre Kant
«Dopo che è stato precluso alla ragione speculativa ogni progresso in questo campo del soprasensibile, ci rimane ancor sempre da tentare, se nella sua conoscenza pratica non si trovino dei dati, per determinare quel concetto razionale trascendente dell’incondizionat0, e per giungere in tal modo, conformemente al desiderio della metafisica, al di là del limite di ogni esperienza possibilecon la nostra conoscenza a priori, la quale però è possibile soltanto secondo unîntenzione pratica. Con un tale modo di procedere, la ragione speculativa, per lo meno ci ha sempre procurato dello spazio per questo ampliamento, ha dovuto lasciarlo vuoto, e ci è quindi ancora lecito anzi a ciò noi siamo addirittura esortati da essa di riempirlo con dei dati pratici della ragione, se lo possiamomî"
anche se
essa
—
-
Così Kant può concludere che i risultati della ragione nel suo uso speculativo che attiene la metafisica non possono essere che negativi, in quanto non procurano nessuna conoscenza del mondo intelligibile.Allo
19) RV, pp. 25-26. 3°) RV, pp. 26-27.
308
Parte terza
stesso tempo pero egli afferma con decisione che anche l'uso speculativo ha un’utilità positiva assai rilevante non appena ci si accorge che della ragion pura esiste anche un uso pratico, l'uso morale, nel quale la ragione si estende inevitabilmenteal di là dei limiti della sensibilità. Indubbiamente, la ragion pratica non ha bisogno di alcun appoggio da parte della ragione speculativa, ma nondimeno dev'essere messa al sicuro di
fronte all'azione contraria di quest'ultima, per non incorrere izn contradse stessa. «Il contestare un'utiIità positiva a questo servizio della critica sarebbe equivalente a dire che la polizia non procura alcun Vantaggio positivo poiché la sua principale incombenza consiste soltanto nel mettere il catenaccio alla violenza, che i cittadini hanno da temere da parte dei cittadini, affinché ciascuno possa occuparsi tranquillo e sicuro dei suoi affari».21 Una importante precisazione che lascia intendere più chiaramente a quale livello Kant intende tracciare i limiti della metafisica Viene fatta più avanti, quando afferma che sebbene la conoscenza speculativa sia ristretta ai semplici oggetti dell'esperienza, «nondimeno viene pur sempre fatta al riguardo una riserva, che occorre tenere bene a mente: proprio quei medesimi oggetti, noi dobbiamo almeno avere la possibilità di pensarli (erkerznen) anche come cose in se stesse, per quanto non possiamo conoscerli (kenrzen) come tali. Altrimenti infatti deriverebbe da ciò la proposizione assurda, che sussiste un’apparenza senza un qualcosa che in essa appaia».22 Ciò che preoccupa Kant non è soddisfare le ambizionidella ragione, ma tutelare l’uomo dalle sue illegittime pretese. Ecco un testo molto significativo in merito:
dizione con
dunque eliminare il sapere (Wissen), per fare posto alla fede (Glauben). ll dogmatismo della metafisica, cioè il pregiudizio di poter progredire in essa senza una critica della ragione pura, e la vera fonte di ogni incredulità in contrasto con la moralità che è sempre spiccatamente dogmatica. Se dunque con una metafisica sistematica, composta seguendo la critica della ragione pura, può essere per l'appunto non difficileil lasciare un legato alla posterità; certo però non si «Ho dovuto
-
tratta di
un
-
dono spregevolemlî
«Il valore di tale dono risulterà tuttavia massimamente quando si l’inestimabilevantaggio, di porre un termine per ogni tempo avvenire a tutte le obiezioni contro la moralità e la religione e ciò in modo socratico, ossia mediante la più chiara dimostrazione dell'ignoranza degli avversari. In effetti, una qualche metafisica è sempre metta in conto
731°“
Kant: metafisica teoretica e
metafisica pratica
309
esistita nel mondo, e certo vi si ritroverà anche in avvenire; con essa tuttavia si ritroverà pure una dialettica della ragione pura, poiché le è connaturata. La prima e più importante incombenza della filosofia consiste dunque nell’eliminare una volta per tutte ogni influsso dannoso della metafisica, con Yestinguere le fonti degli errori».24
Alla metafisica sofisticata e astrusa delle scuole, che non ‘e di alcun giovamento all'interesse generale dell'umanità, Kant contrappone la metafisica del "senso comune", che ha convinzioni solidissime intorno alle due massime verità relative al mondo intelligibile:l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. Né si tratta di convinzioni arbitrarie ma "fondate su basi razionali”. Così la speranza di una vita futura è fondata sulla «tendenza della natura umana percepibile in ogni uomo a non potersi mai appagare di ciò che è temporale».25 Mentre la certezza dell'esistenza di Dio è fondata «sull'ordine mirabile, la bellezza e la previdenza che traspariscono ovunque nella naturamîò Poiché tali acquisizioni —
-
soltanto non risultano turbate, ma guadagnano piuttosto un ulteriore prestigio, per il fatto che le scuole vengano ormai ammaestrate a non arrogarsi in alcun modo, su di un argomento che riguarda il generale interesse umano, una conoscenza più alta e più estesa di quella cui può giungere altresì, con altrettanta facilità, la grande massa degli uomini (per noi degnissima di considerazione) e a limitarsi quindi soltanto al perfezionamento di queste ragioni dimostrative, universalmente comprensibili e sufficienti dal punto di vista morale».27 «non
Nella parte conclusiva della Prefazione alla seconda edizione della RV Kant ribadisce ancora una volta la sua convinzione che una metafisiper quanto neppure essa ca che fissi i limiti della ragione speculativa possa avere la pretesa di essere popolare e accessibilea tutti è molto più utile della metafisica dogmatica dei razionalisti. Infatti «solo mediante la critica è possibile rescindere proprio alla radice il materialismo, il fatalisrno, Pateismo, Pincredulità dei liberi pensatori, la stravaganza e la superstizione, che possono essere universalmente dannose, e infine anche lfidealisnzo e lo scetticismo, che sono più pericolosi per le scuole e che difficilmente possono estendersi al pubblicowî‘ La critica della metafisica speculativa è inoltre indispensabileper promuovere l'unica vera metafisica che è quella della ragion pratica.” -
—
24) 25) 26)
RV, pp. 33-34. RV, p. 35.
Ibid.
27) Ibid. 28) RV, p. 38. 29) RV, p. 39.
310
Parte terza
A questo punto, di per se, sappiamo già tutto su ciò che pensa Kant riguardo alla metafisica speculativa, che è la metafisica così come è stata pensata ed elaborata dai tempi di Platone e Aristotele fino a Leibniz e Wolff. Tutta la Critica della ragion pura ha come unico obiettivo la decostruzione di questo genere di metafisica. Potremmo quindi passare immediatamente alla Critica della ragion pratica dove Kant elabora un
nuovo genere di metafisica, la metafisica pratica, costruita su basi pratiche, morali. Ma è un salto inopportuno, che ci lascerebbe all'oscuro della parte più interessante e più originale di tutto il sistema kantiano: la dottrina della conoscenza. In effetti la sua grande intuizione, la sua "rivoluzione scientifica", riguarda proprio la dottrina della conoscenza. Con la sua dottrina Kant cerca di conciliarele opposte posizioni dei platonici e dei razionalisti da una parte, e degli aristotelici e degli empiristi dall'altra. È con questa nuova dottrina della conoscenza che Kant cerca di uscire dal difficile terreno in cui si era lasciata portare la metafisica dei suoi
predecessori.
La rivoluzione copernicana nella dottrina della conoscenza
Segno distintivo della modernità è la soggettività. Da questo punto di vista, la rivoluzione copernicana, che segna il primato del conoscere rispetto all'essere e dell'uomo rispetto a Dio (antropocentrismo), era già in atto molto prima di Kant. Ma prima di lui, nella dottrina della conoscenza la rivoluzione era soltanto parziale: il soggetto, preposto all'oggetto, non veniva ancora a condizionare la realtà dell'oggetto stesso. Cartesio, Locke, Hume partivano dal soggetto soltanto per verificare le sue attitudini e le sue possibilità in ordine all'oggetto. La rivoluzione copernicana di Kant non si limita a ribaltare i rapporti, ma assegna al soggetto delle condizioni o strutture trascendentali le quali oltre che ad accogliere l'oggetto contribuiscono anche a modificarlo profondamente: operando una sintesi a priori tra le condizioni (strutture) del soggetto e i
dati dell'oggetto. Su questa tesi basilare che ogni conoscenza è una sintesi tra dati della sensibilità e condizioni a priori, Kant costruisce la sua straordinaria e ingegnosa talvolta anche forzatamente macchinosa teoria della cono-
-
scenza.
La RV si articola in tre
parti, in quanto Kant fa sua la tradizionale rifacoltà conoscitive dell'uomo: sensi, intelletto, ragione. Esse svolgono tre distinte operazioni: sensazione, giudizio, ragionamento. Il compito che Kant svolge nel suo capolavoro è quello di dedurre e analizzare le condizioni a priori di queste tre operazioni. Ma tutto è strettamente subordinato al ”rasoio di Occam”, il quale prescrive che senza esperienza sensitiva non si possa dare nessuna conoscenza. partizione triadica delle
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
311
Ebbene, tutta la ricerca di Kant si concentra nella deduzione delle condizioni a propri della sensibilità, che corrispondono alle forme di spazio e tempo; dell'intelletto, che corrispondono alle dodici categorie; e della
ragione, che corrispondono alle tre idee: anima, mondo e Dio; e,le inoltre nella verifica che si realizzi la sintesi tra i dati dell'esperienza e condizioni a priori. La prima deduzione forma l'oggetto dell’Estetica trascendentale; la seconda dell’Analitica trascendentale (la quale è suddivisa in Analitica dei concetti
e
Analitica dei
scendentale.
principi) e la terza della Dialettica tra-
Mentre Cartesio costruiva tutto il suo edificio metafisico sull'intuiziosia dotato di ne intellettive e la deduzione, Kant esclude che l'uomo così l'intuizione sensitiva; soltanto intuizione intellettiva e gli riconosce nell’intellet— sensazione nella e soltanto la sintesi a priori risulta restano prive di contenuti. Pertanto della idee le mentre ragione pure _to; la ragione può produrre soltanto degli ideali, non degli oggetti. Gli intelligibilirimangono sempre delle forme vuote, poiché ad esse non corrisponde nessuna realtà. Un presupposto fondamentale della gnoseologia kantiana è che la conoscenza ha la funzione di informare l'uomo sul mondo che lo circonda. L'uomo non crea il mondo ma cerca di conoscerlo. L'uomo è il soggetto conoscente; il mondo, la realtà conosciuta. Il mondo fornisce i dati, l'uomo con le sue facoltà li raccoglie e lì ordina. Con le sue facoltà conoscitive l'uomo opera una graduale unificazione dell'esperienza; tale unificazione è resa possibile perché esiste una condizione unificante supredi una unificazioma, l'Io trascendentale. Si tratta pertanto, ovviamente kantiano metafisico Il sistema e non oggettiva. ne suprema soggettiva non e sistema necessariamente oggettivo. un soggettivo diviene quindi
possibile
L’ ESTETICA TRASCENDENTALE Per comprendere il pensiero di Kant è bene familiarizzarsisubito con che egli pone fra trascendentale e trascendente. distinzione la Kant intende una «condizione universale a priori trascendentale Per sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra codi noscenza in generale». Come è agevole notare, la nozione kantiana classica e metrascendentale si allontana considerevolmente da quella in ente che a è ciò trascendentale qualsiasi cui secondo compete dievale, esicosa deve sottostare cui condizioni le cioè qualsiasi per quanto ente, stere. Per Kant, invece, trascendentale è ciò che compete a qualsiasi essere in quanto conosciuto, cioè le condizioni cui deve sottostare qualsiasi oggetto per essere conosciuto; in altre parole, le formalità incluse in
qualsiasi conoscenza.
Per trascendente Kant intende ciò che oltrepassa qualsiasi esperienza, ciò che esiste fuori di ogni esperienza, cioè la cosa in sé, il noumeno. i
312
Parte terza
Mentre il trascendentale è incluso in ogni esperienza come suo eleformale, il trascendente è escluso da qualsiasi esperienza. Anche la filosofia classica il trascendente è ciò che supera, che è al di sopra per di ogni esperienza. Ma, per la filosofia classica, questa realtà non è la cosa in sé, ma Dio. La prima parte della Critica della ragion pura, l'estetica trascendentale, ha lo scopo di studiare come la matematica e la geometria siano possibili (che siano possibiliè un fatto fuori discussione). Kant muove dalla constatazione che la matematica e la geometria sono costituite da conoscenze universali che hanno carattere intuitivo; per accertarne la possibilità è necessario spiegare l'origine di tali universalità e intuitività. Esse nascono dal fatto che la mente dell'uomo è dotata di due forme a priori aventi precisamente le caratteristiche dell'universalità e dell'intuitività: sono le forme di spazio e tempo, e vengono apposte a tutte le conoscenze della matematica e della geometria. Vediamo come Kant spiega questo processo di sovrapposizione e come giustifica la priorità delle due forme. La sensazione è un’intuizione, cioè consiste nella percezione immediata dell'oggetto come appare, e avviene nel modo seguente: fuori c'è la cosa, l'oggetto che stimola i sensi. I sensi esterni raccolgono gli stimoli sotto la forma di spazio per cui ogni sensazione esterna appare estesa. I sensi interni raccolgono gli stimoli sotto la forma di tempo, per cui ogni sensazione occupa un posto nel tempo: la sintesi dei dati sensoriali (materia), sotto le forme di spazio e di tempo, dà come risultato ilfenomeno. Kant sostiene che l'intuizione sensitiva è l'unica forma di intuizione di cui è dotato l'uomo. Dio ha un’intuizione intellettuale, ma l'uomo no: la mente umana non è in contatto con l'oggetto mediante l'intelletto, bensì mediante i sensi. Si può notare una conseguenza importantissima della concezione kantiana della conoscenza: essa viene posta tra due termini entrambi in sé sconosciuti e inconoscibili:il soggetto in sé e l'oggetto in sé. Noi non possiamo conoscere né l'oggetto né il soggetto quali sono in se stessi; li conosci amo unicamente rivestiti dalle condizioni trascendentali della conoscenza. La sola realtà conosciuta in se stessa è la funzione del pensiero, indipendentemente dal soggetto che lo produce e dall'oggetto cui si riferisce. Percepiamo il fenomeno, cioè la cosa in rapporto a noi, entrata in noi e non più in sé; la cosa in se’ non è conoscibilema solo pensabile, cioè nonmeno. Perché spazio e tempo non sono prodotti dall'esperienza ma sono condizioni a priori di qualsiasi esperienza? Qualsiasi sensazione che si riferisca a qualche cosa di esterno presuppone la percezione dello spazio; il tempo, a sua Volta, è presente in tutte le intuizioni: non si può conoscere la coesistenza e la successione di due cose senza la percezione del tempo. mento
_
-
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
313
Non si può percepire lo spazio attraverso un processo di astrazione, perché lo spazio non è un'immagine né completa né schematica di alcun oggetto esterno: non esiste alcun oggetto nel mondo esteriore che si possa chiamare spazio. La medesima osservazione vale per il tempo. Inoltre -
spazio e tempo sono qualcosa di illimitato, che non può essere racchiuso
in
un
concetto. Spazio
e
tempo non sono prodotti dall'esperienza e nep-
pure concetti. Non esiste allora altra alternativa che considerare spazio e tempo forme a priori, forme della nostra mente, schemi in sé vuoti, presenti in qualsiasi esperienza e che si rendono percettibili nell'atto in cui formano un
empirico. spazio è niente altro che la forma di tutto ciò che è percepito dal
contenuto
«Lo senso
esterno>>.3°
«Il tempo‘ non è altro che la forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e dei nostri stati interni» ,31 Posti questi principi circa la natura dello spazio e del tempo, Kant trae la conclusione che la matematica e la geometria sono scienze valide in quanto sono costituite da proposizioni universali ed estensivo della nostra conoscenza. Kant mostra che l'universalità è possibile, provando che spazio e tempo, elementi che accompagnano tutte le proposizioni
matematiche e geometriche, sono forme a priori e quindi universali. Quanto all’estensività, Kant la prova indirettamente, mostrando
possibilescoprire le proposizioni matematiche e geometrisemplice analisi dei concetti; esse richiedono l'uso dei sensi, i quali soli, e non l'intelletto, hanno la proprietà di fornirci nuove informazioni. Tra i vari esempi addotti come prova ne ricordiamo due: senza l'uso dei sensi, cioè con la sola analisi dei concetti, non sarebbe possibile scoprire la proposizione che su una superficie piana non più di due linee rette possono incrociarsi ad angolo retto in un medesimo punto; senza l'uso delle cinque dita o senza qualche altro simile artificio non è possibileapprendere la proposizione che sette più cinque è uguale a come non
che
Con
sia
la
dodici.
UANALITICA TRASCENDENTALE Kant inizia YLIYMÌÌÌÌCH trascendentale precisando la distinzione tra sensazione e giudizio. Sensazione e giudizio sono due operazioni distinte: l'una produce intuizioni, l'altro produce concetti. Tuttavia essi non sono separabili. «Né i concetti senza le intuizioni, né le intuizioni senza i concetti
e39C, 3 W7C.<.< "53"? 30 >9!“
314
Parte terza
fanno conoscenza. (...) I concetti senza le intuizioni sono vuoti e le intuizioni senza i concetti sono ciechivfi? Nonostante questa esigenza reciproca la distinzione tra concetto e intuizione, tra giudizio e sensazione è tale che essi non possono mettersi in contatto senza un tramite. Questo compito spetta all'immaginazione0 fantasia, che inizia l'unificazione delle intuizioni associandole; l'associazione Viene condotta secondo quattro schemi fondamentali: quantità, qualità, relazione, modalitàfi Nellîznalitîca Kant si propone di provare "come" le scienze sperimen— tali, e soprattutto la fisica, siano valide. Il problema è, dunque, il seguente: «Come è possibileconoscere a priori che il campo dell'esperienza con tutti i suoi avvenimenti presenti e futuri è sottoposto a una necessaria conformità alla legge?>>.34 Ossia, come sono possibili le leggi della natura, della fisica? Esse sono possibili solo quando sia il soggetto a dettarle alla natura e quando riguardino non la natura in se stessa, ma la natura come appare (cioè la natura fenomenica). Se le leggi non venissero dal soggetto, ma dall'esperienza, non potrebbero mai rivestire carattere universale; d'altra parte, l'imposizione delle leggi alla natura sarebbe impossibile se per natura s'intendesse il mondo delle cose in sé. Il problema, quindi, di come sia possibile una scienza fisica non conosce che una soluzione: essa è possibile perché l'intelletto impone le sue
leggi all'esperienza.
quali siano le leggi dell'intelletto e come esse applicano all'esperienza. Si tratta, ora, di vedere
si
L'attività dell'intelletto secondo Kant non consiste nell'intuire, ma nel riflettere e nel giudicare; non spetta all'intelletto apprendere nuovi 0ggetti, ma, riflettendo sulle intuizioni acquisite dai sensi e associate dalla fantasia, l'intelletto deve giudicare il modo secondo cui una certa proprietà appartiene a un determinato oggetto. Come è possibile conoscere tale appartenenza? Ciò non avviene in forza dell'esperienza, perché i giudizi formulati in base all'esperienza sono sempre particolari, cioè sintetici a posteriori. Uintelletto può formarsi giudizi universali imponendo all'esperienza condizioni universalizzatrici: le categorie. Secondo Kant, il giudizio avviene con la sovrapposizione di una o più categorie all'associazionedi un predicato con un soggetto. Così, per esempio, il giudizio «gli italiani sono bianchi» acquista valore universale quando venga investito della categoria della totalità: allora si potrà dire «tutti gli italiani sono bianchi».
32) RV,pp.108-109. 33) RV, pp. 188-189. 34) l. KANT, Prolegorrzeni ad ogni metafisicafiztura, par. 17.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
315
Stabilito che l'attività dell'intelletto risiede nel giudizio, e che il giudizio consiste nel sovrapporre all'esperienza condizioni (categorie) universalizzatrici,Kant si chiede quali e quante siano le categorie. Egli ritiene di poterne stabilire il numero in base ai diversi tipi di giudizi. Esistono, a suo avviso, dodici specie supreme di giudizi; quindi, le categorie (o condizioni universalizzatrici dei giudizi) sono dodici, così distribuite: tre nello schema della quantità (unità, molteplicità, totalità); tre nello schema della qualità (essere, non essere, limitazione); tre nello
schema della relazione (sostanzia-inerzia, causalità-dipendenza, comu-
nanza-reciprocità) e tre nello schema della modalità (possibilità-impossibilità,realtà-irrealtà, necessità-contingenza). Collegando le categorie ai loro rispettivi giudizi si ottiene il quadro seguente
SCHEMI
GIUDIZI
CATEGORIE
Nello schema della
singolari particolari
unità
quantità (ampiezza
del soggetto) Nello schema della
universali affermativi
molteplicità totalità essere
qualità (della copula)
negativi
non essere
indefiniti
limitazione
Nello schema della relazione (tra predicato
categorici ipotetici disgiunfivi problematici
causalità-dipendenza comunanza-reciprocità possibilità-impossibilità
apodittici
necessità-contingenza
e
soggetto)
Nello schema della modalità (della copula)
assertori
sostanza-inerenza
realtà-irrealtà
Ogni categoria opera secondo un suo principio; per esempio, la categoria della sostanza-inerenza opera secondo il principio: «in qualsiasi cambiamentola sostanza rimane immutata»; la categoria della causalitàdipendenza opera secondo il principio: «tutti i cambiamenti avvengono secondo la legge del nesso di causalità». Le categorie e i principi che ne regolano l'uso, soprattutto il principio di causalità, non sono prodotti dall'esperienza, ma sono condizioni a priori di qualsiasi esperienza. Contro Hume, Kant sostiene che le categorie e i principi, soprattutto il principio di causalità, non sono il risultato di un'abitudine prodotta dall'esperienza.
316
Parte terza
«Sono ben lungi daliafferrnare che questi concetti sono prodotti dall'esperienza e che la necessità che li caratterizza è solo immaginaria,
pura illusione fatta sorgere in noi dalPabitudine. Ho invece dimostrato ampiamente che essi hanno origine a priori. Cioè prima di qualsiasi esperienza, e che hanno valore oggettivo; sebbene solo entro
una
i limiti dell’esperienza>>.35
no
Sebbene abbiano origine a priori, categorie e principi hanno nondimevalore oggettivo; anzi sono essi a dare valore oggettivo alla cono-
scenza,
accompagnandola sempre come condizioni universalizzatrici
della medesima.
«La validità oggettiva delle categorie dipende dal fatto Che, per quanriguarda la forma del pensiero, è solo per mezzo loro che l'esperienza diviene possibile. Esse si riferiscono necessariamente e a priori agli oggetti dell'espeto
rienza,
perché
rienza essere
Le in sé.
solo per
mezzo
pensato».36
loro
può qualsiasi oggetto dell'espe-
categorie e i principi si applicano sono ai fenomeni e non alle cose si riferiscono agli oggetti dell'esperienza ma alle cose in se (noumcno) non hanno nessun significato. Esse servono, per così dire, per decifrare i fenomeni, perché li possiamo considerare come parte dell'esperienza. l principi cui esse danno origine applicandole al mondo sensibile hanno valore puramente empirico. Se si va oltre l'uso empirico diventano combinazioniarbitrarie, senza realtà ogget-
«Se
non
stesse
tiva».37
Le categorie, considerate a sé stanti, non costituiscono conoscenza; da sole sono forme vuote e incapaci di offrire il concetto di qualsiasi oggetto. Per dare origine a un concetto di un oggetto necessitano di qualche intuizione sensibile. La loro funzione «consiste nel determinare giudizi empirici che altrimenti resterebbero indeterminati (...) e dar loro validità universale>>fi8 Da questa teoria sulle categorie e sul loro valore, Kant trae la conclusione che la fisica è valida come scienza dei fenomeni e non come scienza delle Cose in sé: «Tutti i principi sintetici a priori non sono altro che principi che riguardano l'esperienza e non possono quindi mai essere attribuiti alle cose in se stesse, ma solo ai fenomeni come oggetto dell'esperienza.
35) 35) 37) 35)
Ibid, par. 27. RV, p. 149. l. KANT, Prolegomeni 111111., par. 39.
...,
cit., par. 30.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
317
Quindi la scienza della natura non può avere altro oggetto che i fenome-
una scienza perché ha tutti e due i Caratteri della conoscientifica: l'universalità e la novità. Uunivcrsalità è dovuta alle intuizioni sensibili. I giudizi che esprimono le leggi della fisica sono giudizi sintetici a priori. Fin qui Kant, con le forme di spazio e di tempo, ha spiegato Punificazione dei dati empirici nellîntuizionesensitiva, e con le dodici categorie ha spiegato l'unificazione degli stessi dati nel giudizio. Però egli stesso rileva che la nostra conoscenza non è composta di elementi separati l'uno dall'altro, ma è un tutto unitario. Che cosa rende possibiletale unificazione superiore? Quale altra condizione trascendentale occorre postulare, oltre le forme e le categorie? La condizione suprema unificatrice di tutta la nostra esperienza, presupposta da qualsiasi esperienza, è l'io trascendentale. Infatti, che cosa lega tutte le mie rappresentazioni? Il fatto che tutte possono essere riferite ad un io. «L'io-penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni (...) poiché le molteplici rappresentazioni che sono date in una determinata intuizione non sarebbero tutte le mie rappresentazioni, se non appartenessero tutte a un'autocoscienza. (...) Altrimenti avrei un i0 tanto vario e multicolore quante sono le rappresentazioni che ho».4° La coscienza della continuata dell"'iclentità" dell'io e definita da Kant "appercezione trascendentale". Nell’appercezìone, l'io trascendentale, come le forme a priori e le categorie, non si manifesta mai solo, ma sempre come elemento costitutivo di qualche esperienza; perciò l'io trascendentale quale che sia in se stesso rimane inconoscibile.Nell'io—penso l'uomo conosce se stesso non quale è, ma quale appare. Conosce se stesso, cioè, come conosce tutti gli altri oggetti, come semplice fenomeno. Con tale concezione dell"’io-penso", Kant ha tentato una soluzione intermedia tra Cartesio e Hume. Cartesio aveva affermato che l'io è conoscibileimmediatamente e in sé: Hume aveva sostenuto che l'io è un'idea fittizia, una pura illusione. Kant ammette con Cartesio la realtà dell'io, ma ne esclude, con Hume, la conoscenza in sé. Al termine dellfiznalitica, Kant affronta il problema della cosa in se’ o noumeno (o oggetto trascendentale). Sulla natura del noumeno egli ha lasciato due dottrine sensibilmentediverse. Nella prima edizione della Critica della ragion pura Kant scrive che il noumeno è inconoscibile quanto alla sua natura, perché si manifesta a noi solo con le sovrastrutture delle forme a priori; la sua esistenza però ‘e indiscutibile, perché senza il noumeno non ci sarebbe neppure il fenomeno. Il noumeno è causa del fenomeno, perciò se esiste il fenomeno esiste anche il noumeno.
ni».39 La fisica è scenza
39) lbid., par. 30. 40) RV, pp. 135 ss.
318
Parte terza
«Tutte le nostre rappresentazioni vengono in realtà dallìntelletto riferite a un qualche oggetto e poiché i fenomeni non sono altro che rappresentazioni, Yintelletto li riferisce a qualche cosa come oggetto dell’intuizione sensibile, ma questo qualche cosa in quanto tale non è se non l'oggetto trascendentale. Il quale significa un semplice X di cui non sappiamo nulla e di cui (per la presente costituzione del nostro intelletto) nulla possiamo assolutamente sapere, ma che può servire soltanto come un correlato dell'unità dell’appercezione a quell'unìtà del molteplice dellîntuizione sensibile per mezzo della quale l'intel-
letto unifica il molteplice nel concetto d'un oggetton.”
Alloggetto trascendentale si attribuisce la funzione di essere il subcorpi materiali empiricamente concepiti.
strato dei
Nella seconda edizione Kant scrive che il noumeno non deve essere considerato qualche cosa di esistente di cui non si conosce la natura, ma un concetto negativo, un concetto limite (Grenzhcgrfi) che circoscrive le pretese della sensibilità. Il noumeno è ciò che non costituisce oggetto della nostra intuizione sensibile.
LA DIALIÉFIICA TRASCENDENTALE Nella dialettica trascendentale Kant studia il funzionamento della
ra-
gione al fine di determinare le possibilitàdella metafisica. L'attività della ragione, secondo Kant, consiste nell’unificare col raziocinio tutta l'esperienza sotto alcune idee fondamentali. Quali? Il raziocinio può essere categorico, ipotetico e disgiuntivo; a ciascuna forma di raziocinio corrisponde un'idea, che costituisce la condizione trascendentale della sua possibilità. Al sillogismo categorico corrisponde l'idea del soggetto completo (sostanziale): l'anima; al sillogismo ipotetico corrisponde l'idea della serie completa delle condizioni: il mondo; al sillogismo disgiuntivo corrisponde l'idea di un insieme perfetto di tutti i concetti possibili:Dio. Le idee fondamentali che unificano tutta l'esperienza da tre punti di
Vista diversi sono: anima, nzorzdo, Dio. L'idea dell'anima rappresenta la totalità dell'esperienza in rapporto al soggetto; l'idea del mondo rappresenta la medesima totalità in rapporto agli oggetti fenomenici; l'idea di Dio la rappresenta in rapporto a ogni oggetto possibileinterno o esterno. Kant ricava l'esistenza di queste tre idee dalle varie specie di raziocinio della mente umana.
41} RV, pp. 176-177.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
319
Le idee di anima, mondo e Dio, non sono, come aveva ritenuto Hume, delle abitudini. Esse non nascono dall'esperienza, la precedono: sono le condizioni a priori dell'unità dell'esperienza. Perciò tali idee non sono neppure rappresentazioni delle cose in sé, come avevano creduto Cartesio e i razionalisti; esse uniscono semplicemente i concetti e non le cose. La mente umana tende naturalmente a credere che esse si riferiscano a cose in sé; tale credenza è fondata sullesigenza metafisica dell'uomo, l'esigenza di superare i limiti della conoscenza fenomenica. Per provarne il valore oggettivo, trascendente, noumenico, la ragione ha elaborato numerosi argomenti, che però sono tutti o errati o inconcludenti; sono errati gli argomenti che riguardano l'anima e Dio (si tratta di argomentazioni non dimostrative); sono inconcludenti gli argomenti che riguardano il mondo (si tratta di antinomie).
L'anima Gli argomenti con cui la ragione cerca di provare che l'anima è una sostanza, che è semplice, razionale, ecc., sono sillogismi che peccano contro la regola secondo la quale non si può mutare la supposizione del termine medio: sono paralogismi. Si veda, per esempio, l'argomento: ciò che può essere pensato solo come soggetto è una sostanza; ma l'io pensante può essere pensato solo come soggetto. Quindi l'io pensante è una sostanza. È chiaro che in questo sillogismo il termine ”s0ggetto" ha nelle due premesse un significato diverso: nella maggiore indica l'io noumenico, trascendente; nella minore indica l'io fenomenico, trascendentale; quindi il sillogismo è errato, fallace.
Il mondo Gli
argomenti con cui la ragione cerca
eguale
tempo,
di determinare l'origine del
sua natura sono inconcludenti. Infatti ci sono argomenti di peso a favore e contro la tesi che il mondo abbia origine nel che le parti di cui esso è composto siano semplici, ecc.; Kant defi-
mondo e la
nisce questi
argomenti contrastanti antinomie. A suo parere, le antinomie quattro e corrispondono ai quattro modi: quantità, qualità, relazione c modalità. In forma schematica appaiono così: sono
Arttinomia della quantità
(limitata o illimitata)
Antinomia della qualità
(semplice o composta)
TESI: il mondo ha inizio nel tempo ed è limitato nello spazio. ANTITESI: il mondo non ha principio nel tempo e non ha limiti nello spazio. TESI: non ogni sostanza è composta di parti. ANTITESI: non esiste niente di ce nel mondo.
sempli-
Parte terza
320
Antinomia della relazione (causalità necessaria 0 libera)
TESI: oltre la causalità necessaria delle leggi naturali esiste una causalità libera. ANTITESI: non c'è nessuna libertà, ma tutto accade secondo le leggi
di natura.
TESI: nel mondo c'è
Antirzomia della modalità
(essere contingente 0 necessario)
come
parte o come causa.
ANTITESI: né nel mondo né fuori del mondo esiste un essere necessario.
Argomenti inconcludenti, dunque,
presupposto falso che
un essere
assolutamente necessario,
ed errati,
si possa affermare
0
perché muovono dal qualche cosa del
negare
mondo in se stesso; e tale è, per l'appunto, il presupposto da cui partono i razionalisti che, giudicando le forme a priori idee innate della cosa in sé, ritengono di poter chiarire quale sia l'origine e la natura del mondo. Gli argomenti delle antitesi sono quelli degli empiristi i quali, in nome dell'esperienza, non si accontentano di affermare che non è possibileconoscere nulla sull'origine e sulla natura del mondo, ma pretendono di precisare come il mondo abbia certe proprietà e non altre. Secondo Kant, l’empirismo è legittimo solo come critica alle pretese del razionalismo; «ma quando invece (come accade per 1o più) l’empirismo diviene esso stesso dogmatico a riguardo delle idee, e nega accanitamente ciò che è fuori della sfera della sua conoscenza intuitiva, anch'esso cade allora nel difetto dell’immodestia, che è qui tanto più biasimevole, in quanto viene recato così un danno irreparabile all'interesse pratico della ragionemîl
Dio
ragione speculativa si conclude con l'esame possibilità della ragione teoretica in ordine alla conoscenza di Dio, argomento principe di ogni metafisica. Nella impostazione gnoseologica kantiana la soluzione di questo problema è già segnata in partenza: una rappresentazione di Dio, realtà supremamente intelligibile, è impossibile e, pertanto, anche ogni dimoLo studio dei limiti della
delle
strazione della
esistenza diviene inconcludente e invalida. Ma, allotutte quelle innumerevoli argomentazioni sia a priori sia a posteriori che i metafisici d'ogni tempo hanno elaborato per mostrare che Dio esiste? ra, a
che
sua
cosa servono
43) RV, p. 527.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
321
Kant opera una classificazione delle prove che è divenuta classica, riducendole a tre prove fondamentali,denominate ontologica, cosmologica e fisico-teologica (detta anche teleologica). Vediamo come l'autore della RV formula queste tre celebri prove e come le decostruisce sistematicamente. -
Prova ontologica
Come sappiamo, la prova ontologica ‘e quella che dimostra l'esistenza di Dio partendo dalla definizione della sua essenza. Così si definisce che Dio è il massimo (id quo nzaius cogitari nequit), l'infinito, il perfetto, l'ente necessario, la sostanza ecc. e si conclude che esiste, perché l'infinito, il
perfetto, il massimo, l'ente necessario, la sostanza esistono. Ai tempi di Kant la prova ontologica più in voga era quella che parte
dalla definizione di Dio come ente assolutamente necessario ed è a tale dimostrazioneche egli muove le sue critiche. Kant ammette che l'uomo può formarsi il concetto di un «ente assolutamente necessario», ma osserva immediatamente che questo «è un concetto puro della ragione, cioè una semplice idea, la cui realtà oggettiva è ben lungi dall'essere dimostrata per il fatto che la ragione ne abbia bisogno. Tale idea, d'altronde, non fa altro che accennare a una Certa compiutezza, tuttavia irraggiungibile,e serve propriamente a limitare l'intelletto, più che ad estenderlo a nuovi oggetti. Si trova qui peraltro la seguente stranezza e assurdità: l’inferenza da una data esistenza in generale a una qualche esistenza assolutamente necessaria sembra essere perentoria e corretta, ma d'altra parte tutte le condizioni dell'intelletto, per formarsi un concetto di siffatta necessità, sono completamente contro di noi».43
Già S. Tommaso, criticando il famoso argomento di S. Anselmo aveva dimostrato che questa prova, dal punto di vista logico, è debole e inconcludente: da puri concetti, che non fanno alcun riferimento all'esistenza reale, analiticamente non si potrà mai dedurre l'esistenza attuale di una cosa, essendoci una palese sproporzione tra l’antecedente e la conclusione. Questa è anche la sostanza della critica kantiana alla prova ontologica. Kant osserva che l'appartenenza necessaria di un predicato a un soggetto può essere sia logica sia reale. Però ciò che è necessario nell'ordine logico non diviene automaticamente tale anche nell'ordine reale. Così nell'ordine logico è evidente che il triangolo possiede necessariamente tre angoli, ma ciò non prova l'esistenza di alcun triangolo. Eppure, osserva
Kant,
43) RV, pp. 618-619.
322
Parte terza
«questa necessità logica ha dimostrato una così grande potenza di illusione che, una volta formato un concetto a priori di una cosa con—
cetto costituito in modo da dare l'illusione di contenere nella
sua
si è creduto di poter dedurre da ciò con sicurezza che, in quanto l'oggetto di questo concetto tocca necessariamente l'esistenza a condizione, cioè, che io ponga questa cosa come data (come esistente) verrà posta altresì necessariamente (secondo la regola dell'identità) la sua esistenza, e perciò questo ente sarà esso stesso assolutamente necessariowtil
sfera l'esistenza
-
—
—
Kant osserva: «voi siete già caduti in contraddizione quando avete introdotto nel concetto di una cosa che volete pensare esclusivamente nella sua possibilità il concetto della sua esistenza, sia pure celato sotto altro nome>>.45 Nell'uso logico "essere” non è un predicato reale, ossia di non è un concetto di un qualcosa che possa aggiungersi al concetto una cosa. «Essere è semplicemente la posizione di una cosa, o di certe determinazioni in se stesse. Nell'uso logico è unicamente la copula di un giudiziowé Pertanto quando dico "Dio è" non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, e dunque -
—
«il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono nulla più di cento talleri possibili (...). Riguardo alla realtà l'oggetto non è semplicemente contenuto in modo analitico nel mio concetto, ma si aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza tuttavia che i cento talleri pensati vengano essi stessi minimamente accresciuti da questo essere, il quale è al di fuori del mio concettowfi caso di Dio, l’Essere perfettissimo, l'esistenza non può sinteticamente, perché Dio non è un contenuto sensibile, aggiunta conclude la sua decostruzione dell'arKant di là al è ed dell'esperienza. voler ricavare l'esistenza di Dio da che dicendo gomento ontologico un'idea tracciata in modo del tutto arbitrario, e cosa affatto innaturale e una semplice invenzione della sottigliezza scolastica.”
Senonché nel
essere
-
Prova cosmologica
ricava l'esistenza di Dio dalla cosmolog ico si assume come uello in sua essenza, fatto di un ente peraltro finito e conesistente l'ente di partenza
Mentre
nell'argomento ontologico si
definizione della
punto 44) 45) 46) 47) 48)
.
RV, p. 620. 12v, p. 622. RV, p. 623. RV, p. 624. RV, p. 627.
-
n
n
—
u
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
323
tingente (per questo
la prova cosmologica è detta prova a contingentia si conclude alla realtà attuale di un ente assolutamente necessario. Ecco come Kant riassume questo argomento:
mundi)
—
e
«Se qualcosa esiste, deve esistere altresì un ente assolutamente necessario. Ma i0 stesso, almeno, esisto: dunque esiste un ente assolutamente necessario. La premessa minore contiene un'esperienza; la premessa maggiore contiene Villazione da un'esperienza in generale all'esistenza del necessario. Quindi la dimostrazione comincia propriamente dall'esperienza, ossia non è condotta del tutto a priori, ontologicamente. E poiché l'oggetto di ogni esperienza possibile si chiama mondo, la dimostrazione suddetta viene per questo chiamata la prova c0srrz0l0gica>>s49
Kant riconosce l'importanza di questa prova, a sostegno della quale ragione speculativa ha dispiegato tutta la sua arte dialettica. E riconosce inoltre, che diversamente dalla prova ontologica, quella cosmologica dispone di un aggancio iniziale con l'esperienza, l'ente contingente; senonché, a suo giudizio, tale aggancio non è sufficiente a liberare la prova cosmologica da una pesante ipoteca nei confronti di quella ontola
logica. Infatti,
«la prova cosmologica si serve di tale esperienza solo per compiere unico passo, il passo cioè che la conduca all'esistenza di un ente necessario in generale. Quali proprietà abbia tale ente non può essere un
insegnato dall'argomento empirico: da quest'ultimo piuttosto la ragione si stacca completamente, per indagare sulle tracce di semplici concetti, quali proprietà in generale debba avere un ente assolutamente necessario, ossia quale cosa tra tutte quelle possibili, contenga in sé le condizioni richieste (requisita) per una necessità assoluta. La ragione poi crede di trovare tali requisiti unicamente nel concetto di un ente realissimo (ens realissimmn) e conclude senz'altro: tale ente è
l'ente assolutamente necessariomm
Qui Kant descrive obbiettivamente il procedimento della metafisica costruita dal basso, con argomenti a posteriori (come le cinque vie di S. Tommaso), la quale una volta dimostrata la realtà del primo Principio, passa alla delucidazione dei suoi attributi, e lo fa procedendo deduttivamente più
che induttivamente. Contro questo procedimento Kant solleva due obiezioni. La prima è che esso cade nuovamente nell'errore della prova ontologica, perché i concetti "essere necessario" e ”ente realissimo" non si equivalgono e, pertanto, la deduzione dell'ente realissimo dal concetto di essere necessario è illegittima.
w) RV, p. 648. w) RV, pp. 649-650.
324
Parte terza
La seconda obiezione è la mancanza di un concetto "costitutivo" dell'essere necessarioffl Questo e soltanto un concetto regolativi) della ragione: è il marchio della necessità posto sull'esistenza in generale e non la rappresentazione di un'esistenza privilegiata. e al tempo «L'oggetto trascendentale che sta alla base delle apparenze, condizioni
fondamento per cui la nostra sensibilità ha certe supreme piuttosto che altre, sono e rimarranno per noi insondabili. Senza dubbio la cosa stessa è data ma risulta incomprensibile.Un ideale della ragione pura, peraltro, non può dirsi insondabiic, poiché non può far valere alcun altro titolo della sua realtà, se non il bisogno della ragione di portare a compimento, mediante tale ideale, ogni unità sintetica. Di conseguenza, poiché esso non è neppure dato come oggetto pensabile, non può d'altronde dirsi insondabilecome oggetto trovare pensabile; tale ideale piuttosto, in quanto semplice idea, deve deve della nella natura e risoluzione sede la quindi ragione, sua e una nel fatto, consiste la in realtà, proprio essere ragione indagato. poter che noi possiamo rendere conto di tutti i nostri concetti, opinioni e asserzioni, sia in base a fondamenti oggettivi, sia anche quando si tratti di semplici illusioni in base a fondamenti soggettivimî stesso il
—
-
Siamo di nuovo all'arma micidiale che Kant non cessa mai di brandire: il rasoio di Occam. L'assenza di dati empirici relativi alla realtà di Dio impediscono alla ragione umana di dare contenuti alla sua idea. —
La prova
fisico-teologica
Questa è la prova basata sull'ordine e il finalismo della natura. Nella
metafisica prekantiana essa figurava tra le prove cosmologiche. Kant ne fa una prova distinta, perché quella cosmologica tratta dell'essere in generale, mentre quella fisico-teologica si occupa dell'essere sotto un aspetto particolare, quello dell'ordine. Appellandosi ancora una volta al "rasoio di Occam" Kant mostra subito che anche questa ultima prova è destinata al fallimento, in quanto risulta impossibile alla ragione provare «l'esistenza di un ente corrispondente alla nostra idea trascendentale (di Dio)». Ecco la vigorosa dichiarazione di Kant:
«Dopo quanto è stato detto sopra, si comprenderà senz'altro, che rispetto a questa questione ci si può attendere una soluzione assai facile e rigorosa. In effetti, come potrà mai essere data un'esperienza, la quale sia destinata a risultare adeguata a un'idea? La peculiarità dell'idea consiste appunto nel fatto che ad essa non potrà mai adeguarsi una qualsiasi esperienza. L'idea trascendentale di un origina51) Cf. RV, pp. 637-640. 52) RV, p. 635.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
325
rio ente necessario, sufficiente per tutte le cose, è cosi smisuratamente così sublimamente al di sopra di tutto ciò che è empirico (sempre condizionato),che da un lato non si potrà mai trovare abbastanza rnateria nell'esperienza, per riempire un tale concetto, e d'altro lato si procederà sempre a tastoni fra ciò che è condizionato, e si cercherà sempre invano Fincondizionato, di cui nessuna legge di una qualsiasi sintesi empirica potrà mai fornirci né un esempio ne’ la minima indicazionemî?‘
grande,
Secondo Kant la ragione si trova qui dinanzi alfalternativa: 0 l'ente supremo fa parte della catena delle condizioni, e allora ‘c necessaria un'ulteriore indagine riguardo al suo fondamento superiore; o si trova fuori della catena, e allora diviene semplicemente intelligibile ossia un'idea limite, un principio regolativo in quanto «ogni sintesi e ogni estensione della nostra conoscenza in generale, non si fondano su altro se non sull'esperienza possibile, cioè soltanto su oggetti del mondo sensibile, e possono avere significato solo riguardo a tali oggettì».54 Ma Kant sa bene che la metafisica ha cercato di uscire da questa strettoia elaborando un concetto di Dio che riunisce come in un'unica —
—
ogni perfezione possibile. «Tale concetto è adeguato alle categorie della nostra ragione, che è parsimoniosa di principi, non è sotto-
sostanza
messo in se stesso ad alcuna contraddizione; è favorevole altresì all'estensione dell'uso della ragione nel campo della esperienza, servendosi della guida fornita da una tale idea verso l'ordine e la finalità; e infine non è mai decisamente contrario ad alcuna esperienza».55 Kant manifesta la sua ammirazione per questa prova: —
—
«Questa dimostrazione merita sempre di essere esaminata con rispet-
più antica, la più chiara, quella massimamente conforme alla ragione unzana. Essa rianima lo studio della natura, e d'altra riceve la propria esistenza da tale studio, acquistando così essa parte to. Essa è la
comune
forze sempre nuove. Essa riesce a mostrare fini e intenzioni, là dove la nostra osservazione non li avrebbe scoperti da sé, ed estende le nostre conoscenze della natura, guidandoci con un'unità peculiare, il cui principio è al di fuori della natura. Queste conoscenze, peraltro, reagiscono sulla loro causa, cioè sull'idea che le ha prodotte, ed accrescono la fede in un supremo creatore, sino a trasformarla in una convinzione irresistibile.Sarebbe quindi non soltanto desolante, ma altresì del tutto inutile, il voler sottrarre qualcosa all'autorità di questa dimostrazione. La ragione che si rafforza incessantemente mediante argomenti dimostrativi così potenti (i quali, sebbene soltanto empiri-
ci, in essa si potenziano ancor sempre) non può venir scoraggiata dai
53) RV, p. 641. 54) Ibia‘. 55) RV, pp. 642-643.
326
Parte terza
dubbi di una speculazione sottile e astratta, sino al punto di non sapersi strappare da ogni indecisione cavillosa, come da un sogno: alla ragione basta gettare uno sguardo alle meraviglie della natura, e basta ammirare la maestà dell'universo per sollevarsi da grandezza a grandezza sino alla più alta di tutte, e dal condizionatoalla condizione
sino al creatore supremo e incondizionato».56
solenne encomio sui pregi e sulle virtù della prova fisico-teologica, con la sua dottrina gnoseologica che non è in grado di fornire dati empirici alle idee ma soltanto ai concetti, Kant non Ma nonostante
questo
può riconoscerle alcun valore teoretico. E così si
vede costretto a decostruire anche questo argomento. Ammettiamo pure, dice Kant, che ci sia un ordine intenzionale impresso nelle cose e un'unità finale nell'universo: che cosa se ne può concludere immediatamente? Tutt'al più l'esistenza di un sublime ordinatore, un "architetto del mondo", ma mai di un "creatore del mondo"; ossia l'esistenza di un essere cui converrà <
—
-
-
) RV, p. 643. 7) Cf. RV, p. 646. U1 s) RV, p. 644. un
Kant:
scenza
umana,
e
la cui realtà
nzetafisica teoretica e metafisica pratica oggettiva non può
327
certo venir dimostrata
per questa Via, ma neppure può essere confutata. E se dovrà esservi una teologia morale, che possa integrare questa mancanza, in tal caso la teologia trascendentale, prima soltanto problematica, si dimostrerà indispensa-
bile mediante la determinazione del suo concetto, e mediante la continua censura rivolta a una ragione, che così spesso è ingannata dalla sensibilitàe che non sempre si trova d'accordo con le proprie idee».59 Da questo passo luminoso emergono due insegnamenti. Primo, che là dove la metafisica speculativa non può giungere, interviene la metafisica pratica (la teologia morale) che riesce a dare concretezza all'idea trascendentale di Dio. Secondo, che la teologia trascendentale, pur fallendo l'obiettivo di dimostrare l'esistenza di Dio, assolve a una importante e legittima funzione, quella di dimostrare l'impossibilitàdi negarla. Senza porre atei e deisti alla pari, la teologia trascendentale toglie ogni fondamento alla pretesa degli atei di dimostrare l'inesistenza di Dio. Infatti
ragioni, mediante cui viene chiarita l'impotenza della ragione rispetto alla asserzione dell'esistenza di un tale ente, sono necessariamente sufficienti altresì per dimostrare l'invalidità di ogni asserzione contraria. Mediante la speculazione pura della ragione, onde si potrà «le stesse
umana
mai desumere la convinzione che non esiste alcun ente supremo, come fondamento originario di tutte le cose, oppure che ad esso non tocca nessuna delle proprietà da noi rappresentate, in base alle loro conseguenze, come analoghe alle realtà dinamiche di un ente pensante?>>.60
La metafisica della ragion pratica Abbiamovisto più volte che Kant rinvia alla ragion pratica quei compiti metafisici per i quali egli considera la ragion pura del tutto inade-
guata.
Che la ragion pratica, cioè la morale, possa assolvere molto meglio della ragion pura (speculativa) compiti metafisici ‘e uno dei convincimenti più profondi e più radicati di Kant. D'altronde la sua fede in Dio, nella immortalità dell'anima e nella libertà e sempre stata salda e inconcussa. Ma con una dottrina della conoscenza, che fa della sintesi a priori (tra le categorie dell'intelletto e i dati dell'esperienza) l'unico procedimento atto a conoscere le cose, delle verità attinenti il mondo intelligibile non si può ottenere nessuna conoscenza speculativa. Ma, come sappiamo, Kant ha ristretto le ambizionidel sapere (Wissen) per tutelare i diritti della fede (Glauben),che per lui è anzitutto una fede morale e solo secondariamente una fede religiosa.
59) RV, p. 657. 60) RV, pp. 656-657.
328
Parte terza
posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sperare?»; questi, secondo Kant, sono i tre grandi interrogativi per i quali la ragione deve trovare un'adeguata risposta. Per Kant l'interrogativo basilare è il secondo. Risolvendo positivamente il secondo, implicitamente si dà una risposta positiva anche al primo e al terzo. Per il filosofo di Kònigsberg, la morale è tutto: lui stesso è l'incarnazione dell'ideale morale. Nella prospettiva kantiana, l'uomo è anzitutto un essere morale: un essere responsabile delle proprie azioni e soggetto alla legge. Per Kant essere morale significa obbedire alla legge, una legge che l'uomo non riceve dall'esterno ma che dà a se stesso: l'imperativo categorico: "obbedisci alla legge per la legge stessa e non per altro motivo". L'obbedienzaaltimperativti categorico costituisce l'essenza della morale.
«Che
cosa
«L'essenziale di ogni determinazione della volontà mediante la legge morale è: che essa come volontà libera e quindi non solo senza il concorso degli impulsi sensibili,ma anche con l'esclusione di tutti quegli impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni,in quanto possano essere contrarie a quella legge, venga determinata solo mediante la leggemòì
Uimperativo categorico trova una formulazione assai meno astratta e meno urtante quando Viene tradotta da Kant stesso nella formula seguente: «Agisci in modo tale da trattare l'umanità sia nella tua persona che negli altri come fine e mai come mezzomfi? ossia tratta il tuo prossimo, qualsiasi prossimo, come un valore assoluto e non come uno strumento per il conseguimento di altri fini. Qui non è il caso di esporre dettagliatamente l'etica kantiana, un'etica elaborata secondo il metodo della ragion pura pratica, e che quindi nella
determinazione di cio che l'uomo deve fare non ricorre alle pratiche morali o alla legge positiva, ma cerca di stabilire a priori le condizioni supreme della moralità. A noi interessano le implicazioni metafisiche della morale kantiana che l'autore della PV ha magistralmente enucleato nei tre postulati della libertà, della immortalità e dell'esistenza di Dio. Mentre nei filosofi precedenti, che separano nettamente la metafisica dalla morale, quest'ultima si limitava a fissare le norme dell'agire umano e restava dentro i confini ristretti di ciò che l'uomo deve fare e deve evitare per autorealizzarsi; in Kant la filosofia morale svolge anche un compito squisitamente metafisico: quello di dimostrare che libertà, immortalità dell'anima e Dio non sono soltanto idee regolatrici del conoscere ma idee di vere e autentiche realtà. Così la ragione dalla sua funzione pratica svolge quel compito metafisico che la ragione speculativa aveva fallito.
b") Critica della ragion pratica, tr, di F. Capra, Bari, 1924, p. 87. 52) PV, p. 104.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
329
LIBERTÀ La libertà è un requisito e un presupposto essenziale della morale, e poiché l'uomo è un essere morale, la libertà gli appartiene come sua prerogativa essenziale. Questa è una verità che la filosofia aveva acquisito sin da quando Aristotele aveva scritto l'Etica Nicomaclzea. Dopo Aristotele, Origene, Agostino, Tommaso, Scoto, Cartesio avevano cercato di fornire prove dell'esistenza della libertà e di chiarire la natura di questa complessa operazione. Il discorso di Kant riguarda più l'esistenza della libertà che la natura dell'atto libero. Per provare l'esistenza della libertà Cartesio era ricorso al1'autocoscienza ed era giunto alla conclusione che «il fatto che vi sia libertà nella nostra volontà e che ad arbitrio possiamo assentire o non assentire a molte cose, è manifesto al punto che è da annoverare fra le nozioni prime e affatto comuni che ci sono innate».63 Per Kant questo argomento è invalido, perché tutto il mondo, compreso quello dell'Io inteso come fenomeno, sottostà rigidamente alla legge della necessità. Perciò, la libertà non può essere ricavata dall'esperienza ma va dedotta dal mondo morale dimostrando che gli appartiene necessariamente come condizioneessenziale. Ecco i passaggi più importanti delrargomentazione della PV: «La necessità naturale, la quale non può coesistere con la libertà del soggetto, è inerente semplicemente alle determinazioni della cosa, che è sotto le condizioni del tempo, e quindi soltanto alle determinazioni del soggetto agente come fenomeno (m). Ma lo stesso soggetto, che d'altronde è anche conscio di sé, come di cosa in sé, considera anche la sua esistenza, in quanto essa non sta sotto le condizioni del tempo, e considera se stesso soltanto come determinabile secondo leggi, che si dà mediante la ragione stessa, e in questa sua esistenza niente è per lui anteriore alla determinazione della sua v0lontà».64
Ora, «come essere
ragionevole e quindi appartenente al mondo intelligibi-
le, l'uomo non può mai pensare la causalità della sua propria volontà altrimenti che sotto l'idea della libertà; poiché l'indipendenza dalle
cause determinanti del mondo sensibile (che la ragione deve sempre attribuirsi) è libertà. Con l'idea di libertà è indissolubilmentecongiunto il concetto di autonomia; con questo a sua volta il principio universale della moralità, il quale idealmente sta a fondamento di tutte le
azioni degli esseri
to di tutti i
ragionevoli, come la legge naturale sta a fondamen-
fenomeni».65
53) CARTESIO, Principi della filosofia, n. 39. 54) PV, p. 116. 65) Fondamenti della metafisica dei costumi, tr. A. Volpicelli, Firenze 1925, p. 116.
330
Parte terza
parole, la libertà è impossibileda concepire se viene considestregua delle causalità naturali empiriche che operano secondo necessità; ma se l'anima viene considerata come noumeno non è più sottomessa a tale necessità e può essere considerata come libera ed è ciò che la morale esige a suo fondamento ossia, secondo il linguaggio kantiano, come suo presupposto (Voraussctzung). Talvolta Kant si spinge ancora più in là e afferma che la libertà non è In altre
rata alla
soltanto richiesta come presupposto della morale, ma è anche rivelata dalla realtà della legge morale, anche se è impossibile farsene un concetto: poiché è la condizionedella legge morale, e attraverso il condizionato (la legge morale) noi possiamo risalire alla sua condizione (la libertà). In una nota importante della Critica della ragion praticaéé Kant si difende dall'accusa di cadere in un circolo vizioso, affermando prima che la libertà e la condizione della legge morale e successivamente che la legge morale è la condizione sotto la quale possiamo diventare consci della libertà; poiché, mentre prima la libertà è senza dubbio la ratio essendi della legge morale, l'evidenza della legge morale diventa poi la ratio cognoscendr‘ della libertà. Infatti se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci riterremmo mai autorizzatiad ammettere qualcosa come la libertà. Ma se non ci fosse nessuna libertà, allora non si potrebbe neppure cogliere in noi la legge morale. Si potrebbe dire pertanto che come la legge morale è il primum objectivum della ragion pratica, così la libertà è il primum subjectivzcm, ossia una ‘esigenza della legge". Nella "osservazione critica" con cui conclude l’AnaIitica della Critica della ragion pratica, Kant insiste nel chiarire l'originalità della libertà come causalità propria dell'essere spirituale in quanto sottratto al tempo e allo spazio: altrimenti cadrebbe anch'esso sotto la legge della necessità. E ancora: è l'esistenza indiscutibiledella legge morale che postula la libertà del soggetto, il quale è inteso ormai non più come fenomeno condizionato da spazio e tempo ma come noumeno. Si tratta perciò della ”libertà pratica", che Kant intende in senso negativo, ossia come l'indipendenza della volontà da ogni altra legge eccetto che dalla legge morale.” Essa è detta perciò ”libertà trascendentale", indipendente da ogni rapporto di spazio e tempo, cioè da ogni tempo empirico: essa è noumenale e perciò è inconoscibile.Il suo fondamento è appunto trascendentale in quanto senza libertà non è possibile concepire una legge. Della libertà allora noi non abbiamo né possiamo avere Conoscenza né diretta né indiretta: essa, cioè la sua esistenza, è postulata dalla legge morale che è costitutiva del soggetto razionale.“
6°) PV, p. 3, nota. 67) PV, p. 110. 53) Per un ulteriore approfondimento del pensiero di Kant su questo punto cf. C. FABRO, Riflessioni sulla libertà, Rimini 1983, pp. 286-314.
Kant: metafisica teoretica e nzetafisica pratica
331
ÎMMORTALITÀ DELU ANIMA La Virtù, che Consiste nella perfetta osservanza dellimperativo categorico, e il bene morale incondizionato,ma non è il sommo bene dell'uomo: occorre che al bene morale si aggiunga la felicità. Però questo è un traguardo irraggiungibilein questo mondo, dove troppo spesso tra bene morale e felicità c'è un abisso spaventoso. Dal bisogno di realizzare la
perfezione e cli conseguire il sommo bene e dalla impossibilità di realizquesta vita, nasce la fede nella immortalità dell'anima (secondo postulato della morale), che ci fa credere di continuare oltre questa vita il progresso verso la perfezione, e di raggiungere la felicità. Ecco il passaggio più importante della PV al riguardo: «La volontà determinabilemediante la legge morale ha come oggetto zarlo in
necessario la realizzazionedel sommo bene nel mondo. Ma la condizione suprema di questo è Vadeguazione completa dell'intenzione della legge (m). Ma Yadeguazione Completa della volontà della legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale nel mondo sensibile, eppure l'uomo non solo può ma deve protendersi in questo perfezionamento senza limiti, in questo sforzo incessante all'osservanza esatta e Continua di una legge razionale inflessibilee tuttavia reale come abbiamo Visto; se così non facesse la legge morale Verrebbe negata. Ma questo progresso infinito è possibile soltanto qualora si postuli una durata indefinita dell'esistenza e della personalità dell'essere razionale, il che si chiama immortalità dell'anima>>.59
ESISTENZA DI D10
ultimo postulato della ragion pratica è l'esistenza di Dio. Questo postulato deriva logicamente dagli altri due. Infatti siccome nulla nella natura garantisce l'unione di Virtù e di felicità, è necessario postulare l'esistenza di una causa del mondo, distinta dal mondo stesso, come principio della connessione di felicità e di virtù. Questa causa è Dio. Ecco i passaggi fondamentali di questa dimostrazione: Il terzo
e
«Nella precedente analisi la legge morale ha condotto alla necessità che l'elemento primo del sommo bene la moralità sia completo e perciò al postulato della immortalità. Appunto questa legge conduce alla possibilità anche del secondo elemento del sommo bene, cioe al presupposto dell'esistenza di una delle cause adeguate a questo effetto necessario del sommo bene (...). Infatti la felicità è la situazione di un essere razionale in cui tutto Va secondo il suo desiderio e i suoi Voleri, e si fonda perciò sulla condizioneche il complesso dei suoi fini e il motivo determinante della sua volontà coincidano con la natura. -
69) PV, pp. 146-148.
-
332
Parte terza
Ora, la legge morale comanda in virtù di motivi che devono
essere
del tutto indipendenti dalla natura (...). Dunque, nella legge morale non Vi è nemmeno il fondamento di una connessione necessaria tra la moralità e la felicità proporzionata a questa. Eppure nel problema pratico della ragione una Connessione siffatta viene postulata come necessaria (...). Dunque soltanto in quanto si ammette una natura suprema capace di una causalità adeguata alla sua intenzione morale, è possibile il sommo bene nel mondo. Ma un essere che sia capace di agire secondo la rappresentazione della legge, è un'intelligenza, e la causalità che un essere cosiffatto determina mediante la rappresentazione della legge è la sua volontà. Dunque, la causa suprema della natura è un essere che, in virtù del suo intelletto e della sua volontà, e la causa e perciò l'autore della natura, cioè Dio. Quindi postulare la possibilità del sommo bene derivato (cioè la massima bontà dell'uomo) significa postulare insieme la realtà di un sommo bene originario e cioè DÌO>>.7Ù
VALORE EPISTEMOLOGICO DEI POSTULATI Nella PV Kant ritiene di riuscire non solamente a dedurre tre ideali, idee supreme regolative della ragione, come aveva già fatto nella RV ma anche di dimostrare la loro effettiva esistenza. Però a queste tre verità egli dà il nome di postulati e non di asserti evidenti, oggettivamente incontestabili.Perché Kant chiama la libertà, la immortalità dell'anima e Yesistenza di Dio postulati?
Il postulato è essenzialmente per lui un elemento teorico implicato in un'azione. L’elemento teorico postulato non porta con sé la garanzia oggettiva di un’intuizione: altrimenti sarebbe più che un postulato.
D'altra parte,
esso
deve avere almeno il valore speculativo di un noume-
no negativo (di un oggetto "problematico”)e rispondere dunque a un bisogno della ragione, altrimenti il suo valore teorico sarebbe nullo. Il postulato nasce dalla coincidenza d'una esigenza (ipotetica) della ragione speculativa con un'esigenza (assoluta) della ragion pratica. «Un bisogno della ragion pura nel suo uso speculativo conduce soltanto a ipotesi, ma quello della ragion pura pratica a postulatiwl I postulati, senza riunire in sé le condizioni essenziali di un "oggetto”, ricevono tuttavia, in virtù di una necessità oggettiva ineluttabile, quella del ”dovere” da compiersi, una oggettività indiretta e nzutzaatafiî propria delle condizioni oggettive sotto cui la nostra ragione può giudicare possibile il compi-
mento del dovere.
70) PV, pp. 149-150. 71) PV, p. 169. 72) Cf. PV, pp. 158 ss.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
333
può affermare che le idee trascendentali «diventano immanenti" e costitutive, perché sono principi della possibi-
A questo punto Kant
lità di realizzare l'oggetto necessario della sommo
bene), giacché senza
di ciò,
sono
ragion pura pratica (il
principi troscendenti e
sem-
piicemente regolativi della ragione speculativa, i quali le impongono, non di ammettere un nuovo oggetto oltre l'esperienza, ma soltanto di avvicinare alla perfezione il suo uso nell'esperienza»?
Le idee trascendentali, postulate dall’imperativ0 categorico, non sono più soltanto regolative delragire morale, ma, secondo Kant, sono realmente «costitutive dell'oggetto necessario della ragione pratica», perché esse prendono posto tra "i principi della possibilità” interna dell'oggetto del dovere. Su queste tre verità: libertà, immortalità, Dio, la ragione pratica non usufruisce di una maggiore evidenza della ragion speculativa, poiché non dispone di alcuna intuizione del mondo intelligibile,ma gode certamente di una assoìuta certezza, a cui corrisponde la fede morale. Dunque,
persuasione pratica (sono ‘soggettivamente’ persuaso che sono libero, che Dio esiste e che l'anima è immortale) e non dimostrazione razionale valida ”oggettivamente". La "teologia trascendentale” autorizza solo la ”teologia morale” e non la ‘Teologia naturale" o "razionale”. La metafisica nella Critica del giudizio Ciò che Kant si propone nella terza critica, la Critica del giudizio (Kritik der Urteilskraft UK) è la elaborazione di una dottrina trascendentale del bello e del gusto estetico, e più precisamente una teoria trascendentale intorno ai giudizi estetici. Si tratta di giudizi soggettivi, come pensano i più, o reclamano, invece, anch'essi una validità oggettiva, e quale? A noi qui non interessano i dettagli della complessa elaborazione kantiana della filosofia dell'arte, ma intendiamo solo cogliere gli ingredienti metafisici che Kant dissemina lungo la sua trattazione. Come sappiamo, diversamente dalla filosofia tradizionale che attribuiva all'uomo soltanto due facoltà spirituali, la ragione (intelletto) e la volontà, Kant gliene accredita tre, aggiungendo il sentimento. In ognuna di esse, secondo Kant, l'uomo vive la sua esigenza metafisica, ma lo fa con vario successo. L'esito della ragione speculativa è essenzialmente negativo; invece quello della ragion pratica è sostanzialmente positivo. Benché non sia in grado di formarsi dei concetti di libertà, di anima immortale e di Dio, la ragion pratica acquista un'assoluta certezza della loro esistenza. Come stanno le cose nel ”sentimento" e nel giudizio estetico? =
73) PV, p. 162.
334
Parte terza
Nell’UK Kant pone una netta e fondamentale distinzione tra giudizio determinante e giudizio riflettente. Il giudizio determinante consiste nella sussunzione dei dati particolari in un universale (le categorie); mentre il giudizio riflettente comporta la subordinazione della molteplicità empirica a principi sempre più generali nella ricerca di una universalità onnicomprensiva.” Resta qui implicita la differenza più rilevante dovuta al fatto che nel giudizio determinante la sussunzione è un processo logico necessario, automaticoe quindi estraneo alla volontà e al sentimento, mentre il giudizio riflettente risponde a un bisogno, esige un impegno e perciò si colora di quel sentimento di piacere e dispiacere che resta estraneo al processo della semplice determinazione. Il giudizio determinante ha carattere apodittico perché la legge di sussunzione del particolare nell'universale gli è prescritta a priori dall'intelletto, non ha bisogno di principi particolari, ma il suo schematizzare si lascia dedurre a priori dall'attività categoriale dell'intelletto. Il giudizio riflettente invece, proprio a causa dell'iniziale debolezza di non poter disporre dell’universaie corrispondente al particolare che gli è dato, ‘e obbligato a risalire dal particolare e dal contingente alla ricerca di una ”legalità" che non può essere né inventata arbitrariamentené ricavata a posteriori dall'esperienza, ma deve manifestare piuttosto, caso per caso, l'efficacia euristica di un principio a priori che il giudizio riflettente trova in sé e dà a se stesso come legge del proprio operare, vale a dire il principio della finalità. In modo diverso questo principio è presente sia nel giudizio estetico sia nel giudizio teleologieo, che sono le due forme principali del giudizio riflettente. Ogni giudizio in generale, sia esso riflettente o determinante, si fonda su una condizione soggettiva formale che consiste nell'accordo tra l'immaginazione e l'intelletto. Ma, come si ‘e detto, l'accordo non avviene allo stesso modo. Nel giudizio determinante, intelletto e immaginazione concorrono a formare una conoscenza e allora l'accordo tra le due facoltà è legale, proprio perché è fondato sulla costrizione dei concetti determinanti. Invece nel giudizio riflettente, intelletto e immaginazione non mirano alla conoscenza, ma unicamente a suscitare un sentimento di piacere: l'accordo non ha nulla di costrittivo ma è un ”libero gioco" che non può essere comunicato nella sua potenza nativa come pensiero, ma solo come sentimento interiore di uno stato armoniosamente finalistico delle facoltà. Questo accade specialmente nell'esperienza estetica della bellezza, quando il giudizio riflettente riferisce la rappresentazione di un oggetto non all'oggetto stesso per ottenere una conoscenza, ma unicamente al sentimento complessivo con cui il soggetto avverte la propria esistenza (Lebensgefuizl)e si specifica così nel giudizio di gusto.
74)
Cf. Critica dei giudizio, tr. A. Gargiulo, Bari 1984, pp. 19 ss.
Kant: metafisica teoretica e
itnetafisica pratica
335
L'esperienza del bello sta qui in un rapporto costitutivo con le facoltà conoscitive dell'uomo, ma questo non significa affatto una intellettualizzazione del giudizio estetico, perché il modo di operare con cui le facoltà sono presenti in esso prescinde proprio dall'aspetto per cui esse producono conoscenza.” Questa indipendenza dalle determinazioni conoscitive conferisce al giudizio di gusto caratteristiche che sarebbero impensabili o contraddittorie per il giudizio determinante. Il giudizio estetico è infatti universale, ma senza concetto, è necessario, ma la sua necessità non è fondata su prove, bensì semplicemente sull'accordo tra il rapporto finalistico delle facoltà e la forma dell'oggetto. Scrive Kant: «Il piacere del bello non e un piacere né un godimento, né di un'attività conforme a leggi, né della contemplazione ragionante secondo idee, ma un piacere della semplice riflessione; e senza aver per guida ne’ uno scopo né un principio, accompagna la comune apprensione di un oggetto mediante l'immaginazione, in quanto facoltà dell'intuizione, in relazione con l'intelletto, in quanto facoltà dei concetti, con un procedimento del Giudizio, che esso deve usare anche nella più comune esperienza; con la differenza però che in quest'ultimo caso il Giudizio mira a un concetto oggettivo empirico, mentre nel primo (il giudizio estetico) ha soltanto lo scopo di percepire la finalità della rappresentazione rispetto all'azione armonica (soggettivamente finale) delle due facoltà conoscitive nella loro libertà, cioè di sentir con
piacere lo stato rappresentativmîb
'
Questo piacere della semplice riflessione ‘e un godimento disinteres-
accordo tra la natura e la nostra facoltà del conoscere, come se la natura fosse costituita per suscitare in noi questo godimento. Il sentimento estetico (come sentimento e piacere) è soggettività non soggettiva ma oggettiva, in quanto per Kant il bello è forma universale come il vero e il bene. Questa rispondenza tra noi e le cose è ancora più manifesta negli organismi viventi dove l'accordo tra le varie parti di un essere è da noi pensato come determinato dal concetto di fine (giudizio teleologico). L'esempio fatto da Kant a questo proposito è il processo di crescita di un albero, che non si può spiegare come un meccanico accrescimento, ma implica una appropriazione della materia circostante che la pianta sceglie ed elabora in maniera da produrre uri organismo di parti interdipendenti. È quel processo che Kant paragona, più che a un'opera d'arte, alla "impresa di un grande popolo”, che si trasforma in uno stato, dove «ogni membro deve essere non soltanto mezzo ma anche scopo>>.77 sato
che fa pensare
UK, pp. 64 i5) m) UK, 149.
77)
p. UK, p. 243,
55.
nota l.
a un
336
Parte terza
Kant avverte che
questa riflessione «non ‘e a vantaggio della conodella natura 0 della sua origine, ma piuttosto di quella stessa facolta pratica della ragione con la quale analogicamente consideriamo la causa di quella fina1ità».78 In realtà la riflessione non riguarda l'esistenza di una cosa, bensì solo il rapporto con noi uomini, con la nostra finalità e in funzione di essa. Dal giudizio riflettente noi riceviamo «solo una guida per considerare le cose della natura relativamente a un fondamento di determinazione già dato, secondo un nuovo ordine di leggi, e per estendere 1a scienza della natura secondo un altro principio, cioè quello delle cause finali, senza pregiudizio, per altro, di quello del meccanismo della sua causalità».79 Pertanto i giudizi riflettenti hanno sempre un valore "regolativo" e non conoscitivo e costitutivo. Nell’importante ”Appendice" dell'UK Kant ritorna sulla questione delle prove dell'esistenza di Dio e del loro valore. In primo luogo esamina la prova basata sul finalismo della natura: egli osserva che il principio del finalismo benché soggettivamente universale e necessario, rimane pur sempre "regolativo” ed ”euristic0”. Così alla prova teleologica, in sede teoretica, può esser attribuito soltanto un Valore "ipotetico". Egli prende quindi in esame le prove dell'esistenza di Dio di cui si era occupato nelle due precedenti Critiche. Riguardo alle prove ontologica e cosmologica già accuratamente esaminate e decostruite nella RV, Kant ribadisce che «se tali prove si possono difendere con ogni sorta di sottigliezze dialettiche, esse non potrebbero mai passare dalla scuola al pubblico, e avere il minimo influsso sul semplice senso C0mune>>.50 Questo è un argomento ad hominem che non può non sorprendere il lettore di Kant, che in fatto di “sottigliezze dialettiche" non è certo l'ultimo arrivato. Molto spazio il filosofo di Kònigsberg dedica alla "prova morale dell'esistenza di Dio" (che nella PV aveva presentato come terzo postulato della ragion pratica). Egli fa vedere nuovamente che l'esistenza di Dio è un postulato della morale. Infatti la legge morale va osservata per se stessa e, tuttavia, sotto la legge morale l'uomo si propone, come scopo finale, la felicità. Senonché l'osservanza della legge morale non fornisce nessuna garanzia di conseguire la felicità in questo mondo. «Dobbiamo dunque ammettere una causa morale del mondo (un autore del mondo), per proporci uno scopo finale, conformemente alla legge morale; e per quanto questo scopo è necessario, altrettanto (vale a dire allo stesso scenza
73) UK, p. 244. 79) UK, p. 248. 3“) UK, p. 360.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
337
grado e per la stessa ragione) è necessario ammettere quella causa: cioè che vi è un Dio».81
Riguardo al valore epistemologico di questa prova Kant mostra nuo-
che il suo valore non è teoretico, ma pratico, in quanto Dio, scopo finale dell'uomo e del mondo, è semplicemente un concetto della ragione morale. Infatti
vamente come
«lo scopo finale non è
se non un concetto della nostra ragion pratica, può essere desunto da alcun dato dell'esperienza che serve al giudizio teoretico della natura, né essere applicato alla conoscenza di questa. Non è possibile alcun uso di questo concetto, oltre quello della ragion pratica secondo le leggi morali; e scopo finale della creazione è quella costituzione del mondo che si accorda con ciò che noi possiamo determinare solo mediante leggi, cioè con lo scopo finale della nostra ragion pratica, e in quanto dev'essere pratica (...). Ma possiamo ben dire che, secondo la natura della nostra ragione, ci è impossibileconcepire la possibilità di una tale finalità relativa alla legge morale e al suo oggetto, quale si trova in questo scopo finale, senza un autore c sovrano del mondo che sia al tempo stesso un legislatoe non
re
nz0rale>>fi2
In questo quadro della determinazionedel valore epistemologico delle varie prove dell'esistenza di Dio, in un'interessantissima pagina del-
l'Appendice, Kant
riassume e conclude tutto il suo lavoro intorno ai limiti metafisici della ragione umana. Leggiamola insieme:
«La limitazione della ragione, circa tutte le idee del sovrasensibile, alle condizioni del suo uso pratico, ha, per ciò che riguarda l'idea di Dio, questa utilità indiscutibile:impedisce che la teologia si elevi alla teosofia (a concetti trascendenti in cui la ragione si smarrisce), o cada nella demonologia (in una rappresentazione antropomorfica dell'essere supremo); che la religione si converta in teurgia (quella illusione
fantastica per cui si crede di poter avere un sentimento di altri esseri soprasensibili e un influsso su di essi), o in idolatria (qu_ell'illusione superstiziosa per cui si crede di poter riuscire graditi all'essere supremo per via di altri mezzi, anziché con l'intenzione morale). Perché difatti, se alla vanità o alla temerità del sofisticare su ciò che supera il mondo sensibilesi concede la facoltà di determinare teoreticamente anche la minima cosa (e in modo che estenda la conoscenza); se si permette che si vanti della sua conoscenza dell'esistenza e della costituzione della natura divina dell'intelletto e della Volontà di questi, delle leggi di questi due attributi e delle proprietà che ne derivano nel mondo: io vorrei ben saper dove e in qual punto si vorranno arrestare le pretese della ragione; giacché, quando siano ammesse tali
81) UK, p. 330. 82) UK, pp. 335-336.
338
Parte terza
possono aspettare ancora parecchie altre (sol che, costringa la riflessione). La limitazione di tali pretese dovrebbe però esser data da un principio certo, non dalla semplice ragione che finora tutte le ricerche in questo senso sono fallite; perché ciò non dimostra niente contro la possibilità di un miglior risultato. Ma qui non v'è altro principio possibile oltre l’ammettere, o che relativamente al soprasensibilenon possa esser determinato assolutaconoscenze, se come
si
mente
crede,
ne
vi si
niente dal
punto di
vista teoretico
(se non in modo puramente
negativo), oppure che la nostra ragione contenga una miniera, non ancora utilizzata, di chi sa quali grandi conoscenze estensive riservate per noi e la nostra posterità. Ma per ciò che riguarda la religione, cioè a dire la morale in rapporto con Dio in quanto legislatore, se la conoscenza teoretica di Dio dovesse precedere, la morale dovrebbe regolarsi sulla teologia; e non soltanto a una legislazione interna necessaria della ragione verrebbe a sostituirsi quella esterna e arbitraria di un essere supremo: ma tutto ciò che vi è di difettoso nella nostra conoscenza di questo essere, si estenderebbe al precetto morale, rendendo così immorale e pervertendo la religione>>fi3
Prolegomeni a ogni metafisica futura e la conoscenza analogica di Dio
I
Per completare l'esposizione del pensiero metafisico di Kant dobbiamo dare un rapido sguardo a un'altra opera, che porta un titolo assai eloquente: Prolcgorwieni a (igni metafisica firtura. Pubblicata nel 1783, quest'opera fu scritta per respingere le critiche di alcuni recensori della Critica della ragion pura, che l'avevano accusata di idealismo berkeleyano. In questo scritto Kant ribadisce ancora una volta l'altissimo concetto che aveva della metafisica e della perenne validità di questa ricerca che nessun progresso delle scienze potrà mai attenuare. Ecco un passo significativo a questo riguardo: «La scienza naturale non ci scoprirà mai l'intimo essere delle cose, ciò non è fenomeno, e tuttavia serve alla esplicazione suprema dei fenomeni; ma essa non ne ha alcun bisogno per le sue esplicazioni fisiche: anzi se qualcosa di simile le venisse offerto per altra via (per es. l'influenza degli esseri immateriali) essa dovrebbe respingerlo e non inserirlo nella catena delle sue applicazioni, le quali debbono sempre essere fondate soltanto su ciò che può appartenere, come oggetto dei sensi, all'esperienza e che può venir connesso secondo leggi empiriche con le nostre percezioni reali. La metafisica invece nei tentativi dialettici della ragione (che non sono intrapresi arbitrariamente o per capriccio, ma hanno la loro ragion d'essere nella natura stessa della ragione) ci conduce a dei veri
che
33) UK, pp. 340-342.
Kant:
limiti: e le idee
metafisica teoretica e metafisica pratica
339
trascendentali, appunto perciò che
non si può fare di possiamo realizzarle mai in concreto, servono a indicarci non solo i limiti dell'uso della ragion pura, ma anche il modo di determinarli: e questo è il vero fine e l'utilità di questa disposizione naturale della ragione che ha generato la metafisica, come il suo figlio prediletto: generazione che, come in ogni altra circostanza, non è dovuta al capriccio del caso, ma a un germe originaesse a
meno, mentre pure noi
non
rio, preformato saggiamente in vista di altissimi fini. Poiché la metafisica èforse più di olsgm’ altra scienza già predisposta, nei suoi tratti principali, nell'essere nostra, e non può assolutamente venir considerata come il prodotto di uifelezione arbitraria o come una estensione accidentale nel progresso delle esperienze>>fi4 Nessuno si è mai espresso meglio di Kant sulla connaturalità della metafisica rispetto all'uomo e alla ragione umana: essa fa parte del suo DNA, del suo codice genetico, per usare il linguaggio dei biologi. Dire uomo e dire esigenza metafisica è la stessa cosa. La metafisica non nasce casualmente né viene dopo le scienze, ma le precorre e le rende possibili. Nei Prolegomeni Kant riconosce alla ragione speculativa anche il potedi re raggiungere una certa, se pur minima, conoscenza di Dio. Si tratta di una conoscenza che Kant Stesso definisce simbolica o analogica. Questa, a suo giudizio, ‘e l'unica forma di conoscenza che corrisponde alle attitudini della ragione umana (che non ha nessun potere intuitivo, nessuna Visione diretta di Dio), e che è in grado di evitare entrambi gli scogli dellìlntropomorfisnzo dogmatico e dello scetticismo radicale (di Hume). È una conoscenza che non ha nessuna pretesa di dire ciò che Dio è in se stesso, ma si limita «al rapporto che può avere il mondo empirico con un essere il cui concetto giace al di là di tutte le conoscenze delle quali possiamo essere capaci nel mondo. Perché allora noi non applichiamo all’Essere supremo in se stesso nessuna delle proprietà per mezzo delle quali pensiamo gli oggetti empirici ed evitiamo così Yantropomorfismo dogmatico: ma le riferiamo tuttavia al rapporto di questo Essere col mondo e ci permettiamo così un antropomorfismo simbolico che in realtà concerne solo il linguaggio e non l'oggetto stesso>>fi5 Kant stesso dichiara che il criterio dellanalogia ci autorizzaad applicare a Dio i nostri concetti e il nostro linguaggio. Ma di che analogia si
tratta? Leggiamo quanto scrive Kant
a
questo proposito:
«Una tale conoscenza (dell'Essere supremo) è la conoscenza per analogia: la quale parola non esprime, come generalmente si intende, una
somiglianza di due cose, ma una somiglianzaperfetta di due rapporti fra
34) Prolegome-ni a ogni metafisica futura, 85)
Milano 1995, pp. 221-223. Ibia, p. 231.
a cura
di P. Martinetti
e
M.
Roncoroni,
340
Parte terza
del tutto dissimili. Per mezzo di questa analogia ci rimane pur semconcetto per noi abbastanza determinato deltEssere supremo, pre anche se abbiamo lasciato da parte tutto ciò che poteva servire a determinarlo assolutamente e in se stesso: poiché noi lo determiniamu in rispetto al mondo e quindi a noi, e più non ci occorre. Le obbiezioni che Hume muove a coloro che vogliono determinare questo concetto asso— lutamente e ne traggono i materiali da sé e dal mondo, non ci colpiscono; e nemmeno può egli opporci che, eliminato Pantropomorfismo oggettivo del concetto di Essere supremo, non ci rimanga più nulla>>fi6 cose
un
lfinzalogia di proporzionalità, basata sulla di due rapporti non ‘e Tanalogia di proporzionalità somiglianza perfetta alla riferisce somiglianza nell'essere), ma di proporzionapropria (che si lità metaforica, che si riferisce alla somiglianza nellagire. Gli esempi stessi addotti da Kant (Orologiaio, architetto, pilota ecc.) confermano questa interpretazione. Dire che Dio è sapiente ‘e esattamente come dire che Ercole è un leone: vale a dire nel suo agire Dio si comporta come il sapiente così come Ercole si comporta come il leone. Uagire divino che si rivela alla ragione mediante la legge morale, l'ordine delle cose, la contingentia mundi ci impone di riconoscere a Dio certi attributi ma non ci permette di conoscerli. Più avanti Kant chiarisce ulteriormente la sua posizione spiegando il motivo per cui la ”ragione” è un attributo di Dio: Dal testo di Kant risulta che
ragione (Vernunft) non è riferita come proprietà all’Essere primo in se stesso, ma solo al rapporto suo col mondo sensibile e così viene evitato Yantropomorfisrno. Poiché noi qui consideriamo l'Essere supremo come la causa della razionalità che troviamo dappertutto nel mondo, lo facciamo solo in senso analogico, in quanto questa espressio«La
indica il rapporto in cui deve stare col mondo la Causa suprema, a noi ignota, per determinare in esso tutto secondo la più perfetta razionalità. Con questo noi evitiamo di servirci dell'attributo della ragione per pensare (denken) Dio, ma riusciamo per mezzo di esso a pensare il mondo come dobbiamo pensarlo se vogliamo sottoporlo alla più alta unificazione razionale sotto un unico principio. Noi confessiamo per questa via che l’Essere supremo è per noi nell'intimo essere suo imperscrutabile e impossibile a essere pensato in forma determinata e siamo così trattenuti dal fare un uso trascendente dei concetti che noi abbiamo della ragione come d'una causa agente (per mezzo della Volontà) e dal determinare la natura divina per mezzo di attributi che sono pur sempre derivati dalla natura umana, perdendoci cosi in
ne
superstizioni più o meno grossolane>>f37
86) lbid. 87) una, pp. 233-235.
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
341
L'analogia di proporzionalità metaforica non toglie qualsiasi conoscenza di Dio, ma produce una conoscenza veramente esigua, evanescente e quasi esclusivamente negativa, e Kant non a caso accoglie soltanto questo tipo di analogia perché è quella che gli consente di affermare il suo agnosticismo teologico (”la Causa suprema è a noi ignota”) che ignora quello che Dio è in se stesso, e ammette soltanto quello che Dio è per noi. Ciò che Kant nega non è l'applicazione di certi concetti a Dio, perché una volta che si ammette che Dio è il creatore del mondo occorre ricono-
scergli determinati attributi, come l'intelligenza, la sapienza, la volontà, la potenza, la bontà, ecc. Ciò che Kant nega è che la ragione umana sia in grado di conoscere il modo di essere intelligente, sapiente, potente, buono ecc. di Dio. Infatti il suo modo di essere intelligente, sapiente, potente ecc. supera infinitamente il nostro modo e qualsiasi altro modo a noi accessibile.Ecco come Kant si esprime a questo riguardo nellflflppendicealla Critica del giudizio:
«Se voglio pensare un essere sovrasensibile(Dio) come intelligenza, ciò non soltanto mi è permesso, da un certo punto di vista dell'uso della mia ragione, ma è anche inevitabile; quello che non mi è permesso ‘e attribuirgli l'intelligenza e il lusingarmi di poterlo perciò conoscere mediante questa sua proprietà; perché allora devo abbandonare tutte quelle condizioni sotto le quali soltanto conosco un intelletto, e quindi quel predicato che serve soltanto alla determinazione dell’uomo, non può essere punto riferito a un essere soprasensibile, e non si può conoscere mediante una causalità così determinata, che cosa è Dio>>fi8 Su questo punto la posizione di Kant è assai vicina a quella di S. Tommaso. Questi nell'attribuire a Dio certe perfezioni positive come intelligenza, sapienza, potenza, bontà, ecc. distingueva la res dal modus,
e affermava che mentre possiamo e dobbiamo attribuirgli la res della perfectii) praedicata, dobbiamo escludere il modus praedicandi. Per questo motivo il Dottore Angelico diceva che la teologia negativa è preferibilea quella positiva.
Ma S. Tommaso non avrebbe mai sottoscritto la tesi kantiana secondo cui quando diciamo che Dio è vita, bontà, sapienza, potenza ecc. Vogliamo semplicemente dire che Dio è causa della vita, della bontà, della sapienza ecc. Questi nomi non indicherebberonulla di ciò che è la natura divina in se stessa. Questa era già la tesi di Maimonide, e S. Tommaso la rifiuta categoricamente nella Summa Theologiae. Tra i vari argomenti addotti dall’Angelico il più calzante è il seguente:
83) UK, p. 370.
342
Parte terza
«(Questa tesi) ‘e in contrasto COl pensiero di chi parla di Dio. Difatti chi dice che Dio è vivente non intende affermare semplicemente che sia causa della nostra vita 0 che differisca dai corpi inanimati. Perciò bisogna dire diversamente, che cioè tali nomi significano si la divina sostanza e si attribuiscono altessenza di Dio, ma che lo rappresentano in modo insufficiente (...). Sicché quando si dice: ”Dio è buono”, non si vuol già dire che Dio e causa del bene o che Dio non ò cattivo; ma il senso è questo; ”qucllo che noi chiamiamo bontà nelle creature, preesìste in Dio” e in modo ben più alto. Quindi a Dio conviene la bontà non perché è causa del bene; ma piuttosto è tutto il contrario: per il fatto che è buono effonde la bontà nelle cose; secondo il detto di S. Agostino "poiché Dio è buono noi esistiamo" n89 Il dissenso di S. Tommaso con Maimonide (e, implicitamente con Kant) riguarda Yanalogia. Mentre Maimonide e Kant ammettono soltanto Fanalogia di proporzionalità metaforica, basata esclusivamente sull'agire, S. Tommaso riconosce e afferma anche Panalogia di proporzionalità propria, fondata direttamente sull'essere e sulla natura delle cose. Anche su questo punto S. Tommaso era più chiaro e più preciso di
Kant: S. Tommaso distingue tra perfezioni semplici e perfezioni miste: semplici sono quelle che possono prescindere dalla materia (come essere, Vita, conoscenza, volontà, potenza ecc.), miste sono quelle legate alla materia (come corporeità, estensione, vista, udito, pulsazione, sensazione, movimento ecc.). Così può affermare che mentre le perfezioni miste si possono attribuire a Dio soltanto metaforicamente; quelle semplici gli appartengono propriamente, anche se è vero, come afferma Kant e come S. Tommaso riconosce, che dal punto di Vista euristico (inventivo), tutti i concetti che noi proiettiamo su Dio sono ricavati dalla nostra conoscenza
dell'uomo e del mondo.
Dell’analogia, strumento indispensabileper chiarire il significato e il valore del linguaggio metafisico e teologico, S. Tommaso ha una dottrina molto più elaborata e più ricca di quella di Kant. Tale dottrina è in grado di smentire «la tesi kantiana secondo cui la mente umana può acquisire soltanto una conoscenza metaforica e non propria della natura divina. È Vero che una conoscenza basata sulla analogia metaforica del "come se" è sempre meglio di nulla ed è preferibilea un completo agnosticismo. Ma è decisamente troppo poco per soddisfare le esigenze della religione e per dar conto di quel Vasto e ricco patrimonio di cognizioni di Dio che l'umanità si è costruito nel corso dei secoli>>.9° 89) 9*‘)
S. TOMMASO D'AoU1No, Summa Thenlogiae I, 13, 2. B. MONDIN, Ermeneutica, metafisica e analogia in S. Tomnzaso, numero speciale in «Divus Thomas», fiCttrdlC. 1995, p. 117. Sulla dottrina kantiana dellanalogia si veda l’eccellente studio di P. FAGGIOTTO, Introduzione alla metafisica kantiana dellîmalogia, Milano 1989. —
Kant:
nzetafisica teoretica e metafisica pratica
343
Conclusione: l'ambiguità della metafisica kantiana La chiave di tutto il sistema kantiano, un sistema geniale, imponente conclude un'epoca della storia della filosofia e della metafisica e inizia una nuova epoca, per cui Kant e diventato il punto di passaggio obbligato della ricerca filosofica e ha influenzato il pensiero mondiale, è il concetto dell'11 priori come trascendentale, vale a dire come condizione e forma di un contenuto sensibile. Da qui Consegue: a) la conoscenza è del fenomenico; b) l'esperienza è limite della conoscenza; c) dunque non è possibile una metafisica come scienza, ma solo come fede morale. Come si vede, Kant si giova del concetto di esperienza per ”criticare” Yassolutezza della ragione ‘dogmatica’ del razionalismo, ma se ne serve pure per porre un limite all’empirismo con il concetto di trascendentalità, per cui il fenomenico non è contenuto della coscienza empirica, ma della coscienza trascendentale, cioè il soggetto pensante. Perciò il concetto di trascendentalità esclude la possibilità di una "metafisica come scienza” e include la riduzione della filosofia alle proporzioni di una dottrina della conoscenza, intesa come metodologia delle scienze fisico—matematiche e di una morale che si fonda su ”postulati” (libertà, immortalità dell'anima, Dio) razionalmenteindimostrabiliflî Il nocciolo del sistema kantiano sta tutto qui. Di fronte a questo sistema che rivoluzionava profondamente sia la gnoseologia sia la metafisica, ricostruendo la prima su nuove basi, e ampiamente decostruendo la seconda, si possono prendere e, di fatto, sono state prese tre posizioni: a) posizione di rifiuto e di critica radicale, tesa a dimostrare Yintrinseca inconsistenza del sistema. Questa è stata la posizione di Galluppi, Rosmini, Romagnosi, Cousin e di molti autori cattolici del secolo scorso. b) Posizione di adesione sostanziale e di sviluppo del sistema o secondo la linea idealistica, e così hanno fatto Fichte, Schelling e Hegel, oppure secondo la linea volontaristica, e così ha fatto Schopenhauer. c) Posizione di rivisitazione del pensiero di Kant elementi non soltanto per ricuperarne il pathos metafisico, ma E metafisica. la di un'autentica elaborazione quanto hanno positivi per fatto nel nostro secolo M. Wundt, G. Kriìger, G. Martin, l. Maréchal, ]. B. Lotz e altri ancora.” A noi sembra che pure essendo ragionevolmente motivate tantissime critiche che si muovono al sistema kantiano, come pure gli sviluppi che esso ha assunto sia nel volontarismoda una parte e e
vigoroso, che
‘anche
91) Cf. C. FABRO (ed), Storia della filosofia, Roma 1954, pp. 536 ss. 92) Cf. M. WUNDT, Kant als Metaphysiker, Stuttgart 1924; G. KRUEGER, Philosophie und Moral in der Kantischen Kritik, Tiibingen 1.931; G. MARTIN, I. Kant. Ontologie und Wissenschaftstheorie, Kòln 1951; I. MARÉCHAL, Le point de départ de la métalziizysique, voll. Ill-V, Bruxelles-Paris 1941-1947; Pullach 1955.
j.
B.
LOTZ, Kant und die Scholastik heute,
344
Parte terza
nellîdealìsmo dall'altra, la terza posizione sia sostanzialmente corretta, che se non si prende Kant troppo alla lettera e se si tiene conto delle sue intenzioni, si può affermare che egli è stato un grande avvocato
e
della metafisica e lui stesso un metafisico autentico. Sul fatto che sia stato un grande e appassionato avvocato della metafisica non v'è nessun dubbio; nelle sue opere abbiamo incontrato molti panegirici su questa che è stata e di per sé rimane di diritto la regina di tutte le scienze, una ricerca che sta iscritta nel codice genetico dell'umanità e che perciò non verrà mai meno neppure nel caso che tutte le scienze si dissolvessero nel nulla. Ma con quale diritto possiamo affermare che Kant è stato un autenti-
metafisico? Sappiamo che autentico metafisico non è chi si limita a trascendere il mondo empirico, limitandosi ad affermare che questo non è l'essere autentico ma un puro fenomeno: non basta uscire dal mondo sensibile, co
è necessario portare a termine la seconda navigazione e raggiungere l'altro mondo, quello intelligìbile.Ma questo si può fare in vari modi, e così si danno vari generi di metafisica. Fondamentalmente si possono ridurre a tre, a cui diamo i nomi di fortissime, forti e deboli. Sono metafisiche fortissime quelle costruite dall'alto al basso col metodo assiomatico-deduttìvo, detto anche sintetico o compositivo. Sono le metafisiche dei neoplatoriici e dei razionalisti (Cartesio, Spinoza, Lebniz). Sono metafisicheforti quelle costruite dal basso, sulla base di una concezione empirico-realistica della conoscenza e praticando il metodo analitico o risolutivo. Sono le metafisiche di Aristotele e S. Tommaso, e parzialmente anche di S. Agostino e Duns Scoto. Sono metafisiche deboli quelle che sono costruite dal basso, ma con una concezione empirico-criticistica della conoscenza, però sempre attraverso il metodo analitico-risolutivo.Tale è precisamente la metafisica kantiana. Il punto da verificare è se la metafisica kantiana è davvero risolutiva, se cioè riesce a portare a compimento la scalata all’Essere supremo, Dio, e la traversata della seconda navigazione, che conduce al porto del monma
do intelligibile. Abbiamo visto che per Kant l'uomo e un ”animale metafisico" che con tutto il suo essere trascende se stesso. Per realizzare questa operazione l'uomo, secondo Kant, dispone di tre facoltà: la ragione speculativa, la ragione pratica (volontà) e il sentimento. Tutte le metafisiche precedenti erano state costruite con la ragione speculativa: Kant apre una
via. Da tutto l'insieme della riflessione kantiana intorno alla metafisica risulta chiaro il duplice intento di Kant: da una parte decostruire quella '
nuova
metafisica troppo forte, apparentemente fortissima ma di fatto illusoria, che era la metafisica dei razionalisti; e dall'altra difendere la legittimità
Kant:
metafisica teoretica e metafisica pratica
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di una metafisica assai più modesta sotto il profilo speculativo, ma pur sempre costruita con procedimenti razionali che Kant ritiene propri della ragione pratica e della ragione estetica (attraverso il giudizio riflettente), però effettivamente razionali e non semplicemente fideistici. La fede morale di cui parla Kant è una fede razionale e non una fede religiosa. A nostro avviso 1a metafisica pratica che Kant elabora è assai meno pratica e molto più teoretica di quanto egli stesso fosse disposto a concedere. E questo per vari motivi. Primo, l'oggetto dell'indagine kantiana è indubbiamentepratico: è l'agire umano, ma il procedimento e teoretico: è la riflessione speculativa sulle implicazioni dell'agire morale, sul dovere come forma della moralità. Agire moralmente è prassi, ma speculare sulle implicazioni di tale agire è teoria. Pertanto, nonostante le convinzioni di Kant, la sua non è affatto una metafisica ”pratica” ma ”teoretica”. È una speculazione che prende in esame determinati fenomeni, per trovare la loro giustificazione conclusiva. E questa non è né scienza né fede, ma metafisica. Non è una metafisica teoretica, nel senso che non è né ontologia, né cosmologia, né teologia, ma è essenzialmente una antropologia, intesa non come analisi descrittiva, esistenziale, del fenomeno umano, ma come ricerca delle sue ragioni ultime. Il fenomeno che Kant prende in esame è quello dell'agire umano, nella sua triplice forma: del conoscere, del Volere e del fare (arte). Egli mostra che l'agire speculativo non può risolvere i problemi della metafisica e allora si rivolge all’agire pratico e all'agire estetico, e qui egli ritiene di trovare una risposta positiva e sicura ai problemi della metafisica. Secondo, il metodo di ricerca che Kant oppone al metodo dei razionalisti, non è un metodo pratico, ma rimane ancora un metodo speculativo. Egli rifiuta il metodo sintetico o compositivo, che è il metodo assiomatico-deduttivo, di Cartesio e compagni, e dà la preferenza al metodo analitico-risolutivo, che muove dalla esperienza, dai fatti, dagli effetti, per risalire alle cause e ai principi. E questo è il metodo praticato da Aristotele e Tommaso d'Aquino nella elaborazione delle loro metafisiche. Terzo, nella sua metafisica teoretica (e a fortiori in quella pratica) Kant non si limita a indicare alla ragione degli ideali irraggiungibili. Infatti Kant stesso ritiene che la ragione sia in grado di raggiungere l'esistenza del noumeno, di Dio. Il noumeno non è soltanto un limite, ma è un oggetto reale, altrimenti sarebbe una contraddizione chiamare gli oggetti sensibili ”fenomeni". Indubbiamente la ragione non dispone di concetti propri e adeguati per descrivere la natura del noumeno, Dio. Però la stessa dottrina deltanalogia che Kant accetta non avrebbe alcun senso e sarebbe una dottrina contraddittoria se Dio non esistesse. Benché la dottrina kantiana dellanalogia limiti i nostri concetti a un uso metafori-
346
co,
ci
Parte terza
tale uso risulta
comportiamo
legittimo soltanto se Dio esiste. Kant non dice che noi
come se
Dio esistesse;
esistenza, ci raffiguriamo Dio
ma
che, essendo
certi della
sua
intelligente, potente, saggio, provvidente, giusto ecc., dato che possiamo definire Dio soltanto in base ai suoi rapporti col mondo. Nella RV Kant OSSBTVHZ come un essere
«Le categorie del nostro pensiero non sono vincolate dalle condizioni della nostra intuizione sensibile ma hanno un campo illimitato (ein unbegrenzfes Feld); e soltanto la conoscenza di Ciò che pensiamo, la determinazione dell'oggetto, ha bisogno di una intuizione; laddove in mancanza di questa, il pensiero dell'oggetto può del resto aver sempre le sue conseguenze vere e utili nell'uso che il soggetto fa della
ragi0ne».93
Pertanto i concetti che la mente si fa di Dio
non
restano
Vuoti, ma
indeterminati, indefiniti, illimitati, incapaci quindi di definire chiaramente la realtà di Dio. Questi rimane sostanzialmente ignoto quanto alla sua natura, ma certissimo quanto alla sua esistenza. Così la metafisica kantiana risulta necessariamente povera nei suoi contenuti, ma la navigazione metafisica del filosofo di Konigsberg raggiunge il porto della trascendenza, passando indenne tra i due pericolosissimi scogli di Scilla e Cariddi, ossia tra il razionalismo e l’empirism0. È quanto Kant stesso ritiene di essere riuscito a fare:
ragione
qui
«La critica della la vera via di mezzo tra segna smo combattuto da Hume e lo scetticismo da lui di mezzo che non è come le altre vie di mezzo, le si da no un una meccanicamente, poco
quasi
prendendo
poco dall'altra e finiscono per servire a ben poco, ciata esattamente partendo da principi>>fi4
La
il dogmati-
propugnato; una via
quali
ma
può
determina-
parte
e un
venire trac-
posizione metafisica di Kant è molto più vicina a quella di Maimo-
nide, Scoto e Occam, che a quella di Aristotele e Tommaso, ma è sempre una metafisica valida, teoreticamente fondata, e non soltanto una 1neta-
fisica pratica, come Kant supponeva. Con il suo preambolo gnoseologic0 e con la sua rivoluzione copernicana della dottrina della conoscenza Kant non poteva fare di più. Riguardo al preambolo gnoseologico ci limitiamo a osservare che qualsiasi preambolo di tal tipo condiziona inevitabilmentela metafisica, la stessa sua possibilità e a fortiori i suoi risultati. Un preambolo scettico o eccessivamente empiristico pregiudica totalmente il superamento di questo mondo e rende impossibilela seconda navigazione. Il preambolo
93) RV (ed. Laterza 1972), p. 115. 94) Prolegomeni cit, p. 235.
Kant:
metafisica teoretica e nzetafisica pratica
347
”dogmatico", platonico, cartesiano, rende molto agevole l'uscita da queluogo a una metafisica estremamente forte: la metafisica assiomatico-deduttiva.Il preambolo realistico-inquisitivo, di stampo ari-
sto mondo e dà
stotelico-tomistico rende faticosa Yascesa 0 la navigazione ma consente l'elaborazione di una metafisica forte: la metafisica ipotetico-deduttiva. Kant pone un preambolo gnoseologico del tutto singolare, e indubbiamente geniale, che mentre per un Verso riduce alla impotenza metafisica la ragione speculativa, per un altro verso abilita alla seconda navigazione la ragione pratica e produce, come risultato conclusivo, una metafisica debole. Nella sua revisione critica della storia della metafisica Kant ha perfettamente ragione di opporsi energicamente alle assurde pretese dei razionalisti, e di fissare dei limiti all'indagine metafisica evidenziando i confini della ragione umana. Ma per ottenere questo risultato non è necessario fabbricare una complicata teoria della conoscenza come fa Kant, il quale riesce a bloccare la ragione dentro il mondo dei fenomeni e a impedirle l'accesso al mondo intelligibiledel noumeno escogitando una macchinosa e artificiosa teoria intorno alle condizioni trascendentali a priori della intuizione sensitiva, dell'intelletto e della ragione. I limiti della metafisica sono egualmente grandi e invalicabìli anche nel preambolo gnoseologico di Aristotele e di S. Tommaso, dove la conoscenza intellettiva è legata alla sensibilità e ai dati sensitivi (i fantasmi), dove non c'è nessuna intuizione intellettiva delle realtà immateriali (anima, angeli, Dio). Per spiegare i limiti della metafisica non è necessario creare il fantoccio del ”fenomeno", ma basta riconoscere Vabisso che separa il mondo sensibile da quello intelligibile e sostenere, come hanno sempre fatto i metafisici classici e cristiani, che del mondo intelligibile la ragione umana può formarsi concetti o idee prevalentemente negativi. Anche per il metafisico cristiano e non soltanto per Kant Dio resta sostanzialmente ignoto. La divina trascendenza è stata proclamata da tutti i metafisici sia classici sia cristiani. Vale per tutti ciò che dice Agostino in un suo Sermone: «Se si comprende ciò che si vuol dire di Dio, non è Dio; non è lui se si Vuol comprendere ma qualche altra cosa al posto di lui; e se si crede di avere afferrato lui stesso, si è zimbello della fantasia. Egli è ciò che non si può comprendere: è ciò che non si
comprende>>fl5
95)
Sermo 52, 16. Altrove Agostino scrive: «Ciò che Egli è in se stesso è impossibile pensare, anzi lo ignoriamo; perciò qualsiasi concetto noi ci formiamo di Lui, dobbiamo respingerlo e allontanarlo» (Epist. 130, Ad Probam; PL 33, 505).
348
Parte terza
Suggerimenti bibliografici EDIZIONI
KANT, Sànzmtliche Werke, edite da F. Cross, in 6 volumi, Leipzig 1912-21; ID., Werke, edite da E. Cassirer, in 10 volumi, Berlin 1912-22; Kanfs scînzmtliche Werkc, edite a cura della «Preuss. Akademie der Wissenschaften», in 23 volumi, Berlin 1902-1955. È la migliore e più I.
completa edizione delle opere kantiane, che vi sono disposte nell'ordine
seguente: V01. V01. V01. V01.
I: Vorkritische Schnften (1747-1756); II: Vorkritische Schriften (1757-1777); III: Kritik der reinen Vemzmft, II edizione; IV: Kritik der reinen Vernunft, I ediz, Pralegomena, Crundlegzzng dei‘
Metaphysik der Sitten. Metaphysisclze Anfangsgrizendc dar Naturzuissenschaft; V01. V: Kritik der praktischen Vernzuift. Kritik der Urteilskraft; V01. VI: Die Religion innerhalb der Grenzen dar blossen Vermmft, Die Metaphysik der Sitterl; V01. VII: Der Streit der Facultcîten, Antlzropologie in pragmatischer Hìnsicht; V01. VIII: Abhandhmgennach 1781; V01. IX: Logik, Physische Gcograpltie und Pddagogik; V011. X, XI, XII, XIII: Briefzuechsel; V01. XIV: Handschrfitlicher Nachlass: Mathemcatik, Physik una’ Chemie, Physische Geograplzie; V01. XV: Handschrzftlicher Nachlass: Anthropologie; V01. XVI: HandschriftlicilerNachlass: Logik; V011. XVII, XVIII: Handschrfitliclzer Nachiass: Metaphysik; V01. XIX: Handschrzftlicîzer Nachlass: Mnralphilosophic, Rechtsphilosophie, und Relzgionsplzilosophie; V01. XX: Handschriftlicher Nachlass; V011. XXI, XXII: Opus postumum; V01. XXIII: Vararbeiter: Imd Nachtrfige. PRINCIPALI TRADUZIONIITALIANE Critica della ragion pura, di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Bari 1910; riveduta da V. Mathieu, ivi 1958; G. Colli, Torino 1957; Milano 1995. Critica della ragion pratica, di F. Capra, Bari 1909; riveduta da E. Garin, Bari 1955.
Critica del 1960.
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metafisica teoretica e metafisica pratica
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(Mass),
LE CARATTERISTICHEDELLA SECONDA MODERNITÀ DOPO KANT
La linea di demarcazione che separa la prima dalla seconda modernità è la rivoluzione francese, che inizia come tutti sappiamo nel 1789. In effetti i cambiamenti politici, sociali, economici, religiosi, culturali che coincidono con questo evento sono veramente epocali. Nel campo politico il motto della rivoluzione francese: <
luzione francese inizia anche la lotta contro il colonialismo, che lentamente porterà all'indipendenza tutte le nazioni del secondo e del terzo mondo. Ma la fine del colonialismo segnerà la nascita dei due grandi blocchi, facenti capo alle grandi potenze economiche, U.S.A. e U.R.S.S. Dopo il crollo dell’U.R.S.S. si acutizzeranno ulteriormente la sperequazione e i contrasti tra i paesi dell'Europa e dell'America del Nord con i paesi sottosviluppatidegli altri continenti. Nella sfera sociale, la seconda modernità fa registrare la fine dell'individualismo, che nella prima era così marcato che Leibniz poteva definire l'anima come una ”monade senza porte e senza finestre”. Ora non è più possibile vivere nell'isolamento né per l'individuo né per le città né per gli stati. Un evento politico, economico, artistico, religioso che ha luogo in qualsiasi parte della terra, oggi può avere riflessi profondi su tutta
l'umanità. In effetti, a motivo dell'eccezionale sviluppo dei mezzi di trasporto (treni, auto, aerei, navicelle spaziali) e di quelli di comunicazione, i cosiddetti mass-media (giornali, telefono, cinema, radio, televisione, internet), l'umanità intera, la quale viveva isolata e statica in piccoli nuclei (paesi e città) ha raggiunto nel giro di pochi decenni un livello di socialità eccezionale, tanto che si può affermare che il pianeta è diventato un villaggio globale. Questa enorme socializzazione crea tra le nazioni e tra gli stessi continenti una osmosi culturale senza precedenti. L'orizzonte di ogni essere umano ha raggiunto ormai un valore planetario.
352
Parte terza
Nel campo tecnologico la seconda modernità è diventata l'età della macchina. Oggi l'umanità vive sotto l'impero della macchina. Invenzioni prodigiose di ogni genere e specie hanno consentito all'uomo di sfruttare le energie più recondite non solo della natura ma anche della materia (energia nucleare). Esse hanno reso possibile un elevato livello di benessere a molti abitanti del pianeta; hanno modificato profondamente le abitudini e i comportamenti delle persone, ma allo stesso tempo hanno creato problemi ecologici di difficile soluzione nonché il gravissimo problema della disoccupazione. In passato era homo homini lupus; attualmente madrina est ÎIOHIÎHÌ lupus.
L'ingegneria genetica ora può fab-
bricare uomini in provetta e clonare individui della specie umana, creando gravi problemi a molte coscienze. Nell'ambito religioso la seconda modernità conosce un nuovo fenomeno, quello dell'ateismo. La secolarizzazione, già presente nella prima modernità, diventa il tratto dominante della seconda. E mentre prima della rivoluzione francese secolarizzazione era soltanto la proclamazione dell'autonomia e della maturità dell'uomo, nell'epoca successiva essa si trasforma in negazione di Dio. Mentre fino alla rivoluzione francese, nellîtncien regime, Chiesa e Stato erano profondamente solidali tra di loro e la religione era sempre una componente essenziale dello Stato, ora assistiamo non soltanto alla laicizzazione dello Stato, ma sorgono Stati che fanno aperta professione di ateismo. Un altro fenomeno religioso della seconda modernità è l'esplosione delle sètte e la nascita di nuove religioni, nelle quali tolleranza e intolleranza si contendono la palma del
primato.
Sotto il profilo culturale la seconda modernità fa esplodere la crisi della cultura moderna. Questo fenomeno inizia già alla fine dell'Ottocento, e Nietzsche ne ‘e il più lungimirante profeta; ma si aggrava rapidamente nei primi decenni del Novecento. Ciò che entra in crisi è l'idea di un illimitato progresso dell'umanità, un progresso che oltre che scientifico e tecnologico dovrebbe essere anche morale. Invece le guerre mondiali, che hanno fatto del secolo ventesimo il secolo più sanguinario della storia, costituiscono una chiara smentita di questa utopia. La seconda modernità vive una crisi sempre più vasta e profonda di ciò che era stato per secoli il patrimonio fecondo dell'Europa cristiana; essa è stata determinata da fermenti intellettuali e morali tra di essi contraddittori. lnfatti da un lato c'è la ricerca di un dominio sempre più sofisticato dell'universo (fisica nucleare, sperimentazioni spaziali, indagini e applicazioni genetiche) e, dall'altro, l'orrore della guerra atomica, i genocidi, la sperequazione tra Nord e Sud del pianeta, la perdita del senso del valore della vita (aborto, stermini di massa, eutanasia). E ancora, da una parte, l'esigenza di ricercare uno stile più autentico di esistenza, di formazione autonoma e responsabile della persona umana, di comunica-
Le caratteristiche della seconda modernità
353
interpersonale, di consapevolezza piena del proprio i0 (fatto di spirito ma anche di corporeità), dall'altra la perdita di ogni sicuro punto di riferimento (probabilismo e contingentismo conoscitivo, soggettivizione
relativismo morale, concezione spesso esclusivamente materialipulsionale dell'uomo e della sua affettività), gravissima crisi di tutti i valori assoluti e talvolta degli stessi valori strumentali (scienza e
smo e
stica
e
tecnica).1 Infine, in sede‘ filosofica, la
seconda modernità segna il passaggio dalla debole. Il crocevia di questo passaggio è rappreragione forte ragione da Kant. Con lui, nonostante il marcato antropocentrismo del sentato suo pensiero, la ragione forte che da Cartesio fino a Voltaire aveva Vantato i titoli divini dellbnniscienza e che si era ritenuta in grado di risolvere tutti i problemi e di dissipare tutti i misteri, comincia a battere in ritirata. Certo la ragione “strumentale” continua la sua marcia trionfale: copiose e strepitose sono le sue conquiste; le sue scoperte scientifiche e tecnologiche nel giro di un secolo cambieranno completamente la faccia del pianeta. Ma la ragione speculativa, proprio a partire da Kant, comincia a riconoscere la sua debolezza e a proclamare la sua impotenza. Questo passaggio dalla ragione forte alla ragione debole non è repentina né coinvolge subito tutti i pensatori. Ma le critiche kantiane alle illusorie pretese della razionalità illuministica penetrano progressivamente nello sfondo filosofico e avranno molti seguaci. Nel precedente capitolo abbiamo visto che Kant non fu un nemico ma un convinto e zelante avvocato della metafisica. Tuttavia le sue critiche alla metafisica speculativa ebbero effetti disastrosi sulla metafisica e di fatto segnarono la sua fine. Nonostante le sue buone intenzioni, la sua strenua difesa della necessità della metafisica e la sua costruzione di una "metafisica pratica” (la metafisica dei costumi), Kant chiude la pagina non soltanto della metafisica moderna, ma della metafisica qua talis. Dopo di lui non si costruiscono più metafisiche né dall'alto né dal basso. Si costruiscono imponenti cosmovisioni e arnbizioseideologie, ma non metafisiche. L’Intero viene rinchiuso dentro il mondo, dentro l'uomo, dentro la natura, dentro la storia. L’Intero non è più costituito di due mondi, sensibile e intelligibile,ma di un mondo solo che è il mondo dell'uomo. La soggettività, l'antropocentrismo e l'immanenza, tratti tipici della prima modernità, nella seconda assumono accenti nuovi e più spregiudicati: se nella prima modernità potevano ancora dialogare con il mondo della trascendenza, nella seconda modernità si chiudono totalmente su se stessi, e sfociano lentamente in un oggettivismo totale, in un completo relativismo e alla fine nel più tenebroso nichilismo. Non ci
alla
l)
Cf. B. MONDIN, Lina nuova cultura per una nuova società. Analisi della crisi epocale della cultura moderna e dei progetti per superaria, 2° ed., Massimo, Milano 1982.
354
Parte terza
poteva essere parabola peggiore per la metafisica: dall’ascesa all'essere
precipita nella voragine del nulla. Con Kant inizia il grande crepuscolo della metafisica, un crepuscolo che presenta svariati aspetti. Dalla elaborazione del kantismo scaturiscono molteplici direzioni speculative in senso fideistico e scettico; in senso idealistico nella triplice forma dellîdealismo etico di Fichte, estetico di Schelling e logico di Hegel; in senso volontaristico (Schopenhauer) con tendenze che preannunziano il positivismo (Herbart). In breve, le fila del complesso tessuto del pensiero contemporaneo si riallacciano al criticismo kantiano, o perché ne derivano, attraverso un suo ripensamento critico, o perché se ne discostano, attraverso una ripresa critica di quel filone del pensiero moderno che da Malebranche a Vico ha approfondito
si
il Concetto di trascendenza e i terni della metafisica patristica-scolastica. Così anche dopo Kant, la metafisica non muore, perché non può morire. Ma quando riprende il suo cammino non lo fa ritornando alla metafisica moderna, bensì ricuperando i grandi progetti della metafisica classica e della metafisica cristiana. Poiché oggetto del nostro studio è la storia della metafisica, parlando dei filosofi della seconda modernità cercheremo di attenerci al nostro tema e, di conseguenza e concederemo poco spazio a certe figure maggiori, il cui apporto alla metafisica è stato però esiguo e trascurabile, mentre riserveremo una più larga considerazione a figure relativamente piccole, ma importanti per lo sviluppo della metafisica nell'epoca con-
temporanea.
LA DISSOLUZIONE DELLA METAFISICA NEGLI IDEALISTI
La dissoluzione della metafisica può avvenire in mille modi. Quella più semplice e più frequente, che ritorna spesso nella storia della metafisica, è lo scetticismo, il quale proclama categoricamente l'impotenza della ragione umana in ordine alla verità, in particolare della verità
suprema ed eterna. Ma si può eliminare la metafisica anche proponendo soluzioni alternative ad essa, soluzioni in cui l’Intero viene ridotto a un mondo solo, per cui viene tolta in radice ogni necessità di superare "questo" mondo per attingere ”1’altro”. L'intero può essere identificato 0 col pensiero oppure con la materia, con l'Io oppure con Dio, con la natura oppure con la storia. In effetti eliminano la metafisica sia i mistici sia i positivisti, sia gli idealisti sia i materialisti, sia i naturalisti sia gli storicisti. Come sappiamo, nella seconda modernità, la dissoluzione della metafisica è legata a Kant, e fu opera, anzitutto, di alcuni suoi valenti discepoli, i quali dei due mondi, sensibile e intelligibile, che l'autore della Critica della ragion pura aveva sempre difeso, sopprimono il mondo sensibile per conservare esclusivamente quello intelligibile. Così il figlio primogenito del criticismo kantiano è Videalismo. Nella storia della filosofia si incontrano numerose forme di idealismo. La prima è quella "metafisica" di Platone: la celeberrima dottrina delle Idee. Poi abbiamo Fidealismo emanatistico dei Neoplatonici. Più tardi sotto l'influsso di costoro si sviluppano visioni più o meno marcatamente idealistiche anche in seno al Cristianesimo: memorabilisoprattutto quelle di S. Agostino e S. Bonaventura. Si tratta però sempre di idealismo metafisico: alle Idee viene attribuita una solidità che sorpassa quella tenue del pensiero ed è identica a quella forte dell'essere. In effetti la radice ultima delle cose resta sempre l'essere e non il pensiero per tutti i filosofidell'antichità e del Medio Evo. Nella filosofia moderna si Sviluppa già a partire da Cartesio un nuovo tipo di idealismo che per distinguerlo da quello precedente possiamo chiamare "noetico". È un idealismo nato dall’orientamento della filosofia post-rinascimentale, un orientamento critico epistemologico o noetico (e non più metafisico). Questo indirizzo ha avuto inizio, come sappiamo, con Cartesio: il padre della filosofia moderna perviene già a una concezione idealistica dell'uomo quando lo definisce una res Cogitans. La
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prima forma di idealismo integrale è però quella elaborata da Berkeley, grazie al principio esse est percipi (l'essere di una cosa consiste nell'essere
perché affonpercepita); il suo è stato chiamato ”idealismo soggettivo" della filosofia da le radici nelle premesse empiristiche soggettivistiche inglese.
Allîdealismo soggettivo di
”trascendentale". In
questa
Berkeley Kant
oppone il suo idealismo
forma di idealismo il
soggetto
è ”creatore"
del mondo dell'esperienza, come insegnava Berkeley, ma solo delle Condizioni supreme del conoscere (le forme e le categorie trascendentali). Però questa restrizione dell'idealismo ai soli aspetti trascendentali è rite-
non
illegittima dai grandi discepoli di Kant, Fichte, Schelling e Hegel, i quali pertanto, criticando il loro maestro, arrivano al1’idealismo assoluto. In realtà l'esigenza del passaggio all'idealismo assoluto era già insita
nuta
nel sistema kantiano stesso. Infatti Kant si era salvato dallidealismo totale solo postulando come causa degli stimoli delle sensazioni esterne la cosa in sé (una realtà indipendente dal soggetto pensante). Ma questo postulato era stato possibile solo a prezzo di una grave contraddizione, l'attribuzione del concetto di causa, che secondo i princìpi della Critica della ragion pura è applicabilesolo ai fenomeni, anche alla cosa in sé. Per gli idealisti fu quindi semplice arrivare all'idealismo assoluto. Basti) liberare il criticismo dalla contraddizione in cui l'aveva lasciato Kant, cioè bastò abbandonare l'uso indebito del principio di causalità e, di conscguenza, la cosa in sé e spingere il concetto kantiano dell'Io come attività ordinatrice della natura costitutiva del mondo dell'esperienza esterna e interna fino in fondo. Con questa operazione il soggetto da semplice legislatore del mondo dell'esperienza (com'era in Kant) diviene creatore di tutta la realtà; esso non incontra più nessun limite né nel contenuto sensibileda una parte né nel mondo nournenico del soprasensibiledall'altra: l'Io è il creatore non solo della forma ma anche del contenuto dell'esperienza e non c'è nessuna realtà nournenica fuori di esso; l'autocescienza è il principio assoluto del reale e di tuttociò che è; ogni limite del pensiero non può essere posto che dal pensiero stesso e dal pensiero può anche essere superato. In breve, l'Io penso è esso stesso il mondo e Dio, il fenomeno e il noumeno, il soggetto e l'oggetto. Questi princìpi sono comuni a tutti e tre i grandi idealisti: Fichte, Schelling e Hegel, i quali però li sviluppano in modo diverso: in direzione etica il primo, estetica il secondo, logica il terzo. Anche in questo, tuttavia, essi dipendono da Kant, il quale nelle sue celebri tre Critiche affronta rispettivamente il problema del sapere (nella Critica ciella ragion pura), il problema dell'agire (nella Critica della ragion pratica) e il problema del piacere (nella Critica del giudizio). Hegel sviluppa Fidealismo logico partendo dalla prima Critica; Fichte sviluppa quello etico partendo dalla seconda, e Schelling sviluppa Yidealismo estetico partendo dalla terza.
La dissoluzione della nretafisiaa negli idealista"
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Iohann Gottlieb Fichte e l'idealismo etico Johann Gottlieb Fichte ‘e il primo dei tre grandi idealisti tedeschi e si può anzi dire che egli è il padre dell'idealismo in quanto fu lui il primo ad avvertire le gravi contraddizioni che minavano il criticismo kantiano
risolverle in direzione dellîdealismo. L'idealismo di Fichte si distingue da quello di Schelling e di Hegel per il suo carattere pratico e morale. Il punto di partenza della speculazione fichtiana non è una domanda speculativa ma una domanda pratica. Essa chiede: «Cosa deve fare l'uomo, il dotto, l’io?». Solo più tardi incontriamo l'interrogativo <
speculativo e pratico non intercorre nessun rapporto. Il carattere pratico della filosofia fichtiana è evidenziato anche da
altri due motivi: 1) l'essenza dell'Io non consiste nel conoscere ma nel volere: «la ragion pratica è la radice di qualsiasi altra ragione»; 2) il mondo non è concepito come oggetto da conoscere ma come ostacolo da superare: «noi non incontriamo mai l'essere per il piacere di contemplarlo. Il mondo mi si presenta sempre come sfera dei miei doveri. Un mondo diverso da questo per me non esiste».
VITA Fichte nacque a Rammenau in Sassonia, nel 1762.
Compi gli studi
superiori all'università di Iena. Conseguita la laurea lavorò in qualità di
tutore presso varie famiglie dedicandosi nel
frattempo allo studio della filosofia moderna, soprattutto di Kant che cercò anche di conoscere personalmente rendendogli visita nella sua Kònigsberg. Ma Kant lo accolse molto freddamente. Allora, per destare l'interesse dell'autore della Critica della ragion pura decise di comporre un saggio intitolato Critica di ogni rivelazione. Lo portò a termine a tempo di record, in cinque settimane e lo fece uscire anonimo. Tutti lo attribuirono a Kant il quale si affrettò a correggere l'errore non risparmiando lodi all'autore, il quale, in tal modo, guadagnò improvvisamente una enorme celebrità. L'università di Iena gli offrì, su raccomandazionedi Goethe, la cattedra di filosofia che Fichte accettò prontamente. Però nel 1799, dopo appena cinque anni di insegnamento, dovette lasciare la cattedra per motivi politici e religiosi, accusato di giacobinismoe di panteismo. Tornò però nuovamente alla ribalta nel 1807, al tempo della invasione napoleonica della Prussia, con i famosi Discorsi alla nazione tedesca. Nel 1810, anno in cui fu
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di Berlino vi è nominato professore di filosofia. Morì nel 1814 di colera, contratto dalla moglie la quale, durante la campagna napoleonica contro la Prussia, si era prodigata ad assistere come infermiera i soldati prussiani.
eretta l'Università
OPERE Nell'arco piuttosto breve della sua vita Fichte ha prodotto un numero cospicuo di opere di cui le principali sono tutte legate alla elaborazione di una nuova dottrina della scienza, una dottrina che abbraccia tutto il sistema fichtiano, perché per Fichte il sapere sta all'origine di tutto. Ecco i titoli: Sul concetto di dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia (1794); Fondamenti dell'intera dottrina della scienza (1794); Compendio di ciò che è proprio della dottrina della scienza (1798); La seconda dottrina della scienza (1801); La dottrina della scienza nei suoi lineamenti generali (1810); Il rapporto della scienza con lafilosofia, ovvero la logica trascendentale (1812). Altre opere importanti di Fichte sono: Sul fondanzento della nostra fede in un governo divino del mondo (1798), dove Dio sembra venire a coincidere con l'ordinamento morale del mondo: da qui scaturirono le gravi accuse di ateismo che costrinsero Fichte a dimettersi e a lasciare Vienna; La missione dei dotto (1794), una delle esposizioni più limpide e accessibili della sua concezione della filosofia e dei suoi rapporti con la vita; I tratti fondamentali dellepoca presente (1806), che contiene la sua filosofia dela storia; Introduzione alla vita beata (1806), un'opera di filosofia della religione; Discorsi alla nazione tedesca (1808). IL SAPERE ASSOLUTO
Fichte è
un
filosofo ”politico",
ma non
politicizzato, e
per
questo
motivo mai fu disposto a piegare le proprie idee alle imposizioni dei poteri costituiti. Egli Vive intensamente i problemi della sua epoca storica, facendo suo il motto della rivoluzione francese: ”libertà, eguaglianza, fraternità". Questo diviene il motto, oltre che del suo agire, anche del suo filosofare. La sua riflessione filosofica si muove tra due fuochi: la filosofia di Kant, il suo ammirato maestro, da una parte, e l'istanza fondamentale della libertà, dall'altra. Correggendo il criticismo kantiano Fichte elabora la sua filosofia della libertà. Quello che Fichte costruisce è un sistema ambizioso che intende abbracciare l’Intero, ma è un Intero
trascendenza e quindi senza metafisica. Nel sistema filosofico di Fichte confluiscono importanti motivi platonici, cartesiani e kantiani. Come Plotino, Fichte deriva l'essere e la libertà da1l’Assoluto; come Cartesio, egli si avvale del metodo assiomatico-deduttivo e costruisce tutto il sistema sulla base di pochissimi princì-
senza
La dissoluzione della
metafisica negli idealisti
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pi; come Kant assegna il primato alla filosofia pratica togliendolo a quelspeculativa. L'obiettivo principale e costante di Fichte fu la elaborazione di una dottrina rigorosa del sapere, non di questo o quel sapere particolare, bensì del sapere assoluto. Di per sé questo è stato da sempre anche l'obiettila
della metafisica; ma l'esito della ricerca fichtiana non è metafisico, trascendente, bensì immanente, e questo per il semplicissimo motivo che del conoscere Fichte non ha un Concetto realistico, bensì idealistico: il conoscere non è un rappresentare, ma un creare e un porre Poggetto. Fichte inizia la sua trattazione della dottrina della scienza con la seguente affermazione che tutti possiamo condividere: vo
ossia
principio assolutamente primo di tutto il sapere umano non può dimostrato o determinato. Esso deve esprimere quellflxtto che non si presenta né può presentarsi, fra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma che piuttosto è a fondamento di ogni coscienza e, solo, la rende possibilew «ll
essere
Ma come giungere alla determinazione di siffatto principio? Le vie possibili,ben note a tutti i metafisici, erano due: la Via dell'analisi dei fatti e della resolutio, che era la via dal basso, e la via della sintesi e della riflessione, cioè la via dall'alto. Fichte sposa logicamente la seconda via: «Sulla via della riflessione noi dobbiamo partire da qualche proposizione che ci sia concessa da ognuno senza contraddizione»! Una proposizione di questo genere è il principio di identità A=Az questa è una proposizione ammessa da tutti: «invero senza menomamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa e indubitabilew Senonché, osserva Fichte, qui non ci troviamo ancora di fronte a un principio assoluto, perché l'A preso in se stesso non è ancora, è un nulla, c rimanda quindi a un principio ulteriore che lo ponga. Così Fichte giunge all’Io, principio primo del pensiero; ma non l'Io particolare bensì l'Io universale, la Egoità (Ichheit). Eccoci, quindi, giunti al principio primo, fondamento assoluto del Sapere. Riflettendo sulla proposizione A=A Fichte arriva alla «posizione dell'Io per opera di se stesso», questa purissima attività, da cui ogni cosa sprigiona come dalYUno plotiniano: «L'ID pone se stesso; ed esso è in forza di questo mero porre ad opera di stesso; e viceversa: l'Io è ed esso pone il suo essere in forza del suo mero essere. Esso ‘e, al tempo stesso, l'agente e il prodotto dell'azione; l'attivo e ciò che è prodotto dall'attività; azione e fatto sono una sola e
se
1)
Fondazione di tutta la dottrina della scienza, tr. L.
sofica, Milano 1972, vol. XVII, p. 912.
2) lbid. 3) 11nd,, p. 913.
Pareyson, in Grande antologia jîlo-
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medesima cosa; e pertanto l'Io sono è espressione di un atto; ma anche del solo atto possibile, come dovrà risultare da tutta la dottrina della scienza».4 Il plotinismo di Fichte emerge in modo ancora più chiaro e trasparenSeconda dottrina della scienza. Qui egli introduce nel principio nella te è il Sapere assoluto, due coefficienti essenziali: Vessere e la che primo, libertà (che corrispondono all’Essere e alla Intelligenza di Porfirio e svolgono lo stesso ruolo che questi due principi svolgono nel suo sistema). Leggiamo un passo in cui questi principi vengono esposti da Fichte con estrema chiarezza:
«Il Sapere assoluto dev'essere quindi compreso mediante una [ntuizione (Ansclzammg) di se medesimo ugualmente assoluta. Inoltre è chiaro che tale intuizione assoluta del Sapere assoluto dev'esserci, e per conseguenza [annunciata spiegazione reale del Sapere assoluto dev'essere possibile, se in generale dev’esserci una Teoria della Scienza. Poiché nelldntuizione in cui questa consiste, la Ragione (Vernunft) o il Sapere (Wisscrx) dev'essere compreso assolutamente con uno sguardo solo. Ma il Sapere particolare non si può comprendere con uno sguardo solo, ma soltanto con sguardi particolari e diversi fra loro. Per conseguenza il Sapere dovrebbe essere concepito così com'è, assolutamente uno e identico a se stesso, cioè l'assoluto Sapere. Nella descrizione stessa serviamoei del seguente procedimento. ll lettore pensi innanzi tutto lZ/lssoluto, assolutamente come tale, come di sopra fu determinato il suo concetto. Noi affermiamo che troverà che lo potrà pensare soltanto sotto le due note seguenti, l'una: che esso è assolutamente ciò che è, riposa su e in se medesimo assolutamente senza mutazione o oscillazione, saldo, chiuso, completo in se stesso; l'altra: che esso è ciò che è, assolutamente perché è da se stesso, in forza di se stesso, senza niun influsso straniero, poiché accanto all’Ass0luto niente di estraneo rimane, ma tutto ciò che non ‘e l’Assoluto medesimo svanisce (...). Noi possiamo chiamare il primo esistenza assoluta, essere quiescente (ruhendes Sein) e così via; il secondo divenire assoluto (IZÙSOÌLIÎES Werden) o libertà (Freiheit). Entrambe le espressioni, come si intende di una schietta e solida esposizione, non dovrebbe indicare nulla di più di quanto è realmente nella Intuìzione (che si suppone nel lettore) dei due caratteri de1l’Assoluto. Ora il Sapere dev'essere assoluto, come Uno, precisamente Sapere identico a se stesso e che rimane eternamente identico, come unità di una e proprio della suprema intuizione, come pura, assoluta qualità. Nel Sapere dunque i due supremi caratteri dell’Assoluto dovrebbero assolutamente coincidere e fondersi, sì da non essere più distinguibili; e proprio in quesfassoluta fusione consisterebbe l'essenza del Sa-
pere come tale,
o
l'assoluto SIÌlpETBL-É
4) lbid, p. 915. 5) La seconda dottrina della scienza, tr. A. Tilgher, Padova 1939, p. 21.
La dissoluzione della metafisica negli idealisti
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IL SISTEMA DELLA LIBERTÀ Il sistema di Fichte è un "sistema della libertà", come l'ha definito Pareysonfi In effetti, come risulta dal passo testé citato, per Fichte la libertà non è soltanto uno dei tanti attributi di Dio, ma è il suo costitutivo metafisico. Di per sé non si tratta di una tesi nuova. L'abbiamo già incontrata in Scoto e Cartesio, ma in un contesto molto diverso, essendo quello il contesto di una concezione ancora realistica del conoscere e di una visione metafisica dell'universo. Fichte fa sua la tesi di Scoto e Cartesio e la applica all'10 puro per caratterizzareil suo "assoluto divenire”. L'Assoluto, l'Io di Fichte è essenzialmente dinamico, è atto che è sempre in atto, è in perpetuo divenire, ed è atto libero perché totalmente spontaL.
neo, «senza niun influsso straniero, estraneo rimane».
perché accanto all’Assoluto nulla di
Senonche’ per l'esercizio della propria libertà l'lo puro deve avere un campo d'azione. Tale campo viene detto da Fichte Non-lo: «lo oppongo nell'lo all'10 divisibile un non-lo divisibiloflIl Non-Io è l'ostacolo (Anstoss) da sormontate e da soggiogare che l'Io trova sempre davanti a se stesso. Però il Non-Io non va inteso come un mondo esterno all'10 né come una "cosa in sé" distinta dall’Io. Scrive Fichte a questo riguardo: «L'essenza della filosofia critica sta in questo, che è posto un lo assoluto come assolutamente incondizionatoe non determinabileda nulla di superiore, e, se questa filosofia conclude conseguentemente da questo principio, allora diventa dottrina della scienza. Al contrario, è invece dogtnaticzz quella filosofia che ponc qualcosa di uguale e di opposto all'10 in sé; e ciò avviene nel concetto inteso come superiore di cosa (Ens), che in pari tempo, è posto come il concetto assolutamente supremo. Nel sistema critico la cosa è ciò che è posto nell’lo, in quello dogmatico, ciò in cui l'lo stesso è posto; il criticismo è perciò immanente, perché pone tutto nell’lo," il dogmatismo è trascendente, -
-
perché procede ancora oltre l’Io».8
L’Io è il principio esclusivo e dominante di tutta la filosofia fichtiana. Ogni determinazione che tocca la coscienza dipende dall'lo, nella sua origine e nel suo perseverare: «tutto, senza eccezione, deve essere posto nell’Io» (lm Ich soll alles gcsetzt werden). questo è ciò che Fichte stesso chiama "un principio regolatore generale" della sua filosofia. Elimìnando la cosa in sé Fichte non elimina soltanto il dogmatismo ma qualsiasi metafisica, in quanto elimina proprio "quel procedere oltre” in cui consiste essenzialmente l'indagine metafisica.
6) L. PAREYSON, Fichte. Il sistema della libertà, Milano 1976. 7) Fondazione di tutta la dottrina della scienza cit., p. 995. s) raid, p. 925.
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Così l'universo fichtiano diviene un universo chiuso dentro la grande monade dell'Io, veramente una monade senza porte e senza finestre; è un universo monolitico, ancorché non statico ma estremamente dinamico, dove l'unico motto è: Agire, Agire, Agire}? In tale universo tutto è frutto della irrzmaneiite operazione dell'Io; perciò tutto è espressione di un unico soggetto. E un universo in cui non c'è nessuna ascesa e nessuna discesa. Non C'è discesa nel senso di una creazione di un nuovo mondo. Non c'è ascesa dal finito verso l’Infinito, dal contingente verso l'Assoluto; non c'è nessuna navigazione dal mondo sensibileal mondo intelligibile.C'è soltanto (l) l'intuizione del Sapere assoluto. C'è una visione mistica e panteistica dell'universo, ma non c'è nessuna metafisica. Nonostante la sua profonda antimetafisicità, il sistema fichtiano non elimina l'essere. Come risulta dal bel testo della Seconda dottrina della stienza, che abbiamo citato più sopra, Fichte riconosce l'essere come uno dei due princìpi costitutivi dell'Assoluto e del Sapere assoluto. L'essere è la condizione originaria, il substrato quiescente su cui si innestano la coscienza e la libertà; Fichte non rinuncia a nessuno dei due termini essere-pensiero, ma rifiuta di concepire i loro rapporti in termini di soggetto-oggetto. Entrambi sono soggetto e oggetto ma in modo diverso. Si potrebbe dire che l'essere e l'oggetto (mediante la riflessione). Un'idea importante su cui Fìchte torna più volte è quella di una fenomenologia che è vera perché "riflesso" dellbntologia e di un'ontologia che va costruita geneticamente onde fungere da modello della fenomenologia. Sì potrebbe dire che, essendo tutto ciò che si può "dire" derivante dal pensiero come coscienza, la fenomenologia debba avere la precedenza, ma Fichte non segue questa strada, perché la coscienza non è un originario; essa ricava dall'essere la legge di ragione che la guida; e anche perché la coscienza ha il compito di completare, a livello fenomenico, l'esistere dell'essere, introducendo accanto alla necessità ontologica della "estrinsecazione", la libertà non "di fare, ma nel fare". La libertà compare qui in una prospettiva non morale, bensì "ontologica": l'essere è necessario nella sua essenza, e possibilequanto alla sua esistenza; ogni atto esistenziale è un riconoscimento "libero", anzi "voluto", dell'operare
dell'Assoluto. La
possibilità, ontologicamente più povera dell'essere,
se collocata prima di lui, lo arricchisce invece se collocata dopo, in quanto ne contiene una ripetizione, un raddoppio. L'ontologico diviene fenomenico (ma non "fenomeno”) mediante la libertà. La zona del fenomeno è la zona tipicamente umana dell'Io come forma pura, che attinge una certezza, che intuisce, che si fa inizio di un mondo fenomenico progettato sul modello della "legge originaria della ragione", di un mondo che e un arzalagum "della ragione e della spiritua-
9) È il famoso motto della conclusione dell'ultima lezione de La missione del dotto.
La dissoluzione della metafisica negli idealisti
363
lità". Con queste formulazioni qualcuno che le ascoltò durante le lezioni trovò in esse curiose assonanze platoniche Fichte riteneva di avere illustrato la comune natura di intelligibile(uno) e sensibile (molteplice). La ”fenditura” tra i due andava mantenuta, ma senza la conflittualità che l'aveva caratterizzata nella metafisica classica, perché nel molteplice, che e contingente, c'è la possibilità della libera scelta e «Dio può apparire soltanto in un che di libero»; la natura di Dio, la ”vita", si può esplicare dunque nell’opera dell’uomo che si vuole libero: la creazione, si potrebbe dire, continua. -
—
LA
FILOSOFIA DELLA RELIGIONE
Nel sistema di Fichte risulta gravemente compromessa la trascendendell’Assolut0, dell'uno, del Principio primo, dell'Io puro, di Dio. L'Io puro, infatti non gode di un’esistenza autonoma rispetto ai due termini (Io empirico e Non-lo) in cui si attua storicamente. Rispetto all'10 empirico, per esempio, l'Io puro non è altro che il dover essere, un ideale da perseguire. Di qui le accuse di ateismo sollevate contro Fichte da Schelling e dai pensatori romantici, già suoi amici. Queste accuse indussero Fichte a riprendere i problemi e a formularli secondo una diversa prospettiva. Tale riflessione diede origine alla seconda filosofia, nella quale l’Assolut0 viene considerato in modo nuovo: non più semplicemente ordine morale del mondo, non puro ideale o dover essere, ma fondamento reale dell'Io empirico; l’Assoluto guadagna una sussistenza propria e acquista le proprietà di Dio. Ma non si tratta del Dio-persona del cristianesimo, bensì di un Dio sussistente e, a suo modo, trascendente, paragonabileper certi aspetti all'uno plotiniano e alla Scistnnza spinozista. Il pensiero religioso di Fichte va, così, da una posizione inizialmente ateistica a una posizione conclusiva di stampo panteistico. Molte le dottrine cristiane che Fichte riesce a incorporare nel suo sistema: Trinità, Incarnazione del Verbo, peccato, redenzione ecc., ma l'accostamento al cristianesimo non ha per nulla il carattere di una conversione, non è una professione di fede; ma è semplicemente un’abile manovra per dare maggior credito alle proprie posizioni filosofiche. Infatti il cristianesimo, secondo Fichte, non rivela nulla che lo spirito umano non abbia già in se stesso e che la ragione non sia già in grado di dimostrare. Perciò il sistema fichtiano non e vero perché è conforme al cristianesimo, ma viceversa il cristianesimo è vero perché è conforme alla dottrina fìchtiana. Nella Sesta Lezione delldntroduzione alla vita beata leggiamo: za
«Va da sé che mostrando l'accordo della nostra dottrina col cristianesimo non intendiamo in nessun modo dimostrare la verità di questa dottrina o fornirle un appoggio esteriore. Essa dev'essere già dimostrata e palesata come assolutamente evidente in ciò che precede, e
364
Parte terza
ulteriore. E allo stesso modo il qualsiasi validità, deve dimola ragione, fuori della quale concordante con strare se stesso come non v'è verità. Non aspettatevi dal filosofo che riconduca i suoi interlocutori nei vincoli della cieca aut0rità>>.“’ non
ha
bisogno di
nessun
appoggio
cristianesimo, se pretende di
avere una
Commentando il Prologo al Vangelo di Giovanni, con cui Fichte sente di accordarsi profondamente, egli dichiara di essere disposto ad accogliere di questo scritto «ciò che è vero in sé, assoluto e valido per tutti i tempi», lasciando in disparte ciò che riflette «il punto di vista di Gesù e il modo di vedere della sua epoca». Cadono pertanto, sotto il rasoio della ragione, tutti i miracoli che si incontrano nei Vangeli. E così, praticamente come personaggio storico, Cristo svanisce per assumere il ruolo di modello ideale valido per tutti gli uomini. Per Fichte Cristo non è l'unica incarnazione del Verbo, ma soltanto l'attuazione più perfetta e quindi emblematica dell'unione dell'umanità con la divinità. Infatti, «in Chiunque senza eccezione riconosca in modo vivente la propria unità con Dio, e realmente e veramente sacrifichi tutta la propria vita individuale alla vita divina di lui, il Verbo eterno si fa carne, senza riserva né restrizione, in tutto e per tutto come in Gesù Cristo, e diventa un'esistenza
personale, sensibilee umanamll
Tuttavia Fichte riconosce
Gesù e al cristianesimo il merito di avere affermato per la prima volta nella storia il vincolo profondo che unisce Dio all'uomo e l'uomo a Dio. a
«Certamente la visione dell'assoluta unità dell'esistenza umana con la divina è la più profonda conoscenza che l'uomo possa conseguire. Prima di Gesù non si è verificata in nessun luogo, e dal suo tempo fino ad oggi si potrebbe dire che, almeno nella conoscenza profana, essa e di nuovo andata perduta, come se fosse stata estirpata. Gesù pero l'ha manifestamente avuta, come ci parrà indiscutibileappena lavremo noi stessi, fossanche soltanto nel Vangelo di Giovanniwî
Per questo motivo Fichte si dichiara convinto del valore perenne del cristianesimo: «Fino alla fine dei giorni tutti gli uomini sensati si inchineranno profondamente di fronte a questo Gesù di Nazareth e tutti, quanto più saranno solo se stessi, tanto più umilmente riconosceranno lo straordinario splendore di questa grande apparizionewì L'unione dell'uomo con Dio non è letta da Fichte in chiave ontologica (sulla base della dottrina della grazia santificante) bensì in chiave etica.
l") Tr. it. di L. PAREYSON, in Grande antologiafilosofica,XVII, p. l‘) Ibitì. p. 1070. 12) Ibmî, p. 1071. H) Ibid.
1065.
La dissoluzione della metafisica negli idealisti
365
Essa si realizza facendo la volontà di Dio. Chi, come Gesù, fa la volontà di Dio raggiunge il regno dei cieli e la vita beata, non in un altro mondo 0 nella vita futura ma già nella vita presente e in questo mondo. Fare la volontà di Dio diviene «la propria e autentica partecipazione all'essere. E così la vita scorre in una totale semplicità e purezza, senza conoscere, volere o desiderare null'altro, senza uscire mai da questo punto centrale, non turbata né agitata da nulla che le sia estraneom” Così, in generale, le verità dogmatiche del cristianesimo sono risolte in princìpi filosoficiconformi alle esigenze dell’idealismo etico di Fichte, con il risultato ben poco incoraggiante per il cristianesimo e per la teologia che, alla fine, più che ufiapologetica del cristianesimo Fichte opera un'apologetica del proprio sistema servendosi del cristianesimo. Seppure in modo diverso anche in Fichte come negli illuministi è sempre la dea ragione a tenere in mano le briglie della verità. Secondo H. Berkhof «il merito teologico permanente di Fichte sta nel suo rifiuto della necessità di una concezione deistica di Dio qual era quella kantiana, rifiuto basato sullantropologia (la stessa di Kant). Egli si è reso conto che questa antropologia poteva dopo tutto fare a meno di qualsiasi concezione di Dio, ma è ben presto rìfuggìto da questa veduta radicale per sviluppare il proprio idealismo assoluto in direzione di una concezione panenteistica di Dio. Così facendo ha rinviato di alcuni decenni il confronto con Vateismo nella cultura (tedesca) moderna».15
Friedrich Wilhelm Ioseph Schelling VITA E OPERE
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nacque a Leonberg nel 1775. Studiò nel seminario teologico di Tubinga, dove ebbe come condisccpoli Hòlderlin e Hegel. Genio eclettico, non attese esclusivamente agli studi teologici, ma coltivò con passione anche quelli filosofici e scientifici. Nel 1799 fu chiamato a sostituire Fichte a Jena. A quel tempo si era già reso famoso con alcuni scritti filosofici, particolarmente con le Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo (1796), in cui tracciava le linee essenziali del proprio sistema filosofico, proponendo un idealismo che tentava di conciliareil determinismo assoluto di Spinoza con Pidealismo assertore della libertà di Fichte. Nel 1803 passò a insegnare a Wùrzburg e successivamente a Monaco. In questo tempo, offeso dalle accuse di ateismo che erano state mosse al suo pensiero e dalle critiche di l-legel, Schelling sospese quasi completa-
“) Ibid, p. 1101. 15) H. BERKHOF, 200 anni di teologia efilosqfia, Torino 1992, p. 52.
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Parte terza
mente ogni produzione letteraria e concentrò il suo interesse sulla mistica, la mitologia e la teosofia. Torno clamorosamente alla Celebrità nel
quando fu chiamato a succedere a Hegel sulla cattedra di Berlino; dal disinteresse degli studenti per le sue lezioni, dopo poco deluso ma tempo lascio definitivamente l'insegnamento. Si ritirò a Monaco dove completò la sua ultima opera, Introduzione alla filosofia della mitologia. Morì a Ragaz, in Svizzera, nel 1854. Oltre alle due opere già menzionate di Schelling ricordiamo: Ideen zu einer Philosophie der Natur (Idee per una filosofia della natura), 1797; Brutto odor ziber das gòttlicfie und mztiirliche Prinzii: der Dirige (Bruno ossia il principio naturale e divino delle cose), 1802; Darstellting ÌÌIFÎHCS Systems dei‘ IDIîÎÌUSOp/IÎC (Esposizione del mio sistema di filosofia), 1802; Sijstenz der gesamten Pltilosotihie (Sistema dell'intera filosofia), 1803; Philosophie und Religion (Filosofia e religione), 1804; Freihcitsscîirfit (Ricerche filosofiche sulla libertà umana), 1809; Philosophie der Ojjfetibarizng (Filosofia della rivelazione), 1821; Zur Geschichte der metterei: Philosophie (Per la storia della nuova filosofia), 1822; Grundlegunig dei‘ positiven Philosophie (Fondamenti della filosofia positiva), 1832-1833. 1841
Il, PRIMO SCl-IELLINGZ LA
FILOSOFIA DELUIDENTITÀ
l'orizzonte speculativo dentro cui si muove Schelling; in esso si ritrovano i molteplici fermenti di pensiero che pullulano in Europa alla fine del secolo XVIII e nella prima metà del secolo XIX: Yinteriorità della ricerca filosofica, la passione per la libertà, l'ansia per lfiàssoluto, la fiducia nel progresso delle scienze, il fascino della natura, della religione, dell’arte, della poesia e della storia. Schelling raccoglie nei suoi scritti tutti questi impulsi e si studia di sistemarli nel quadro di una filosofia dell’Assoluto, concepito come sintesi di tutti gli opposti, Vale a dire sintesi dell'Io e della natura, del soggetto e dell'oggetto, dello spirito e della materia. Nello sviluppo del pensiero di Schelling si distinguono varie fasi e periodi. La suddivisione in periodi non deve essere sopravvalutata, però è necessaria. Le mutazioni della sua filosofia non sono comparabili a quelle della Dottrina della scienza di Fichte. Mentre questi elaborò più e più volte sempre un unico e identico complesso di problemi, Schelling fa entrare sempre nuove problematiche nel suo pensiero, e ciascuna di queste variazioni significa un mutamento nel contenuto della sua direzione di ricerca. N. Hartmann distingue in Schelling cinque periodi a cui Vasto
e
complesso è
corrispondono cinque sistemi:
1) la filosofiadella natura fino al 1799; 2) Yidealìsmo trascendentale nel 1800; 3) la filosofia dell'identità (1801-1804);
La dissoluzionedella
nzetafisica negli idealisti
367
4) la filosofia della libertà nel 1809;
5) il sistema della filosofia della religione nell'ultimo Schelling a partire, all'incirca, dal 1815.16 Generalmente però ci si accontenta di distinguere in Schelling due
periodi: quello della filosofia della identità, detta anche ‘filosofia negativa”, e che corrisponde al "primo" Schelling; e quello della filosofia della religione, detta anche ”filosofia positiva", e che Corrisponde al ”secondo” Schelling." I punti più originali della ”fil0sofia negativa” del primo Schelling sono: il concetto di Assoluto, concepito come unità indifferenziata di tutti gli opposti, e anzitutto come unità di natura e di spirito: la natura non è delimitata dall’esteriorità, né lo spirito dall’interiorità; ma è anche soli
unità di luce e tenebre, di intelletto e desiderio (volontà), di bene e male. Il Fondamento originario (Ur-Grund) è detto da Schelling anche UnGruizd, in quanto privo di qualsiasi fondamento e precedente tutte le antitesi; queste non possono essere in esso distinguibili e nemmeno essere presenti in qualche modo. Esso non può dunque essere indicato come identità degli opposti ma come assoluta indifferenza: «L'indifferenza non è un prodotto deIPantitesi, né gli opposti sono contenuti in essa implicitamente, ma essa è un essere proprio separato da tutte le antitesi, nel quale tutte le antitesi si infrangono, che non è altro appunto che il non essere delle medesime, e che perciò non ha altro predicato che l'essere privo di predicati, senza per questo essere un nulla o un inconsistente (...). Il reale e l'ideale, le tenebre e la luce o come altrimenti vogliamo chiamare i due princìpi non possono essere predicati del non-fondamento (Un-Grand) come opposti. Ma questo non impedisce che essi vengano predicati di esso come non-opposti, cioè nella disgiunzione e ciascuno per sé, con il che viene posta la dualità (la reale duplicità dei princìpi). Nel non-fondamento stesso non Vi è nulla che lo impedisca».'8
Altro punto importante della "filosofianegativa" è la spiegazione che Schelling dà del passaggio dall’indifferenza originaria alle molteplici differenziazioni: tale passaggio è il risultato della coscienza. Con l'autocoscienza compaiono sia la libertà sia il male (la caduta, il peccato). Solo Pautocoscienza divina, che è coscienza di infinito amore, è esente dal male. [l male è potenzialmente e radicalmente presente anche se in mo-
l“) Cf. N. HARTMANN, Die Philosophie des 17)
18)
pp. 111 ss. Ci. A. BAUSOLA, 1963.
Metafisica e
F. SCHELLING, Scritti sulla Milano 1974, pp. 129-130.
deutschen ldealismus, l, Berlin 1960, 2“ ed.,
rivelazione nella filosofia positiva di
filosofia, la religione,
la libertà,
Scheliing, Milano
a cura
di L.
Pareyson,
368
Parte terza
do indifferenziato nell’Assoluto, ma non in Dio. Secondo l'insegnamento di Schelling, il male non si incontra in nessun modo in Dio, nel cui essere non si registra alcun dissidio tra intelletto e Volontà, mentre la luce dell'intelletto attraversa e soggioga tutto il mondo oscuro del desiderio. Dio è pienamente, perfettamente luce, e pertanto sommo bene. «Dio solo che ‘e l'esistente medesimo abita nella pura luce, poiché egli solo è per se stesso». Invece la caduta, il male, il peccato sono inseparabili dall’autocoscienza umana. Questa affermando se stessa proclama la propria libertà, che è necessariamente una libertà finita. Questo causa il suo allontanamento dal bene, la sua caduta, il peccato. Però all'inizio, nel primo uomo, la libertà è pura e innocente: c’è in essa come nella libertà divina, accordo tra luce e tenebre, tra desiderio e intelletto. Ma successivamente essa subisce un guasto profondo. Ciò accade nel momento in cui prende coscienza di se stessa e rivendica la propria autonomia, la propria individualità. Allora in lei il desiderio prende il sopravvento sulla ragione, e cosi la piaga del male entra nell'uomo e, con l'uomo, nel mondo. -
—
«Che quellînsorgere del particolare sia il male, si chiarisce da quanto segue. Il volere, che esce dalla sua soprannaturalità, per farsi particolare e creaturale rimanendo volere universale, tende a sovvertire il rapporto dei princìpi, a innalzare il fondamento sopra la causa, a usare lo spirito, che aveva soltanto per rimanere dentro, fuori di esso e contro la creatura, dal che segue disordine in lui stesso e fuori di lui».19 «L'anima che,
to alla
cogliendosi nella sua indipendenza, subordina l'infini-
finitezza, cade così dal modello originario e, fatalmente, va
subito incontro alla pena; l’elemento positivo dell'essere in se stesso diventa per lei negazione e l'anima non può più produrre l’Ass0luto e l'eterno, ma soltanto il non-Assoluto e il temporalemîfl causa della propria perdizione, ma è impotente a la procurare propria salvezza. Su questo punto Schelling prende le distanze da Plotino e da Spinoza che sono i due filosofi a cui si ispira maggiormente nel modo di concepire l'Assoluto e nella spiegazione dell'origine del male, e riprende le tesi dei pensatori cristiani. La redenzione della libertà i’uomo non può guadagnarsela né con pratiche ascetiche (Plotino) né con operazioni intellettualistiche, considerando le cose sub specie aeternitatis, come raccomandavaSpinoza. Per tornare pura e innocente, la libertà umana ha bisogno della grazia divina. Perché l'uomo sia riscattato dal male è necessario che Dio si manifesti nella storia ed è quanto ha fatto prendendo forma umana in Gesù di Nazareth.
La libertà umana è
19) Ibid, p. 101. 20) lbzd., p. 53.
La dissoluzione della
metafisica negli idealisti
369
«Per contrapporsi al male personale e spirituale, appare anch'esso (lo Spirito) in forma personale e umana, e come mediatore, per ristabilire il rapporto della creazione con Dio sul piano più elevato, e Dio deve
divenire uomo, affinché l'uomo vada di nuovo a Dio. Ristabilito il rapporto del fondamento con Dio, solo allora è data di nuovo la pos-
sibilitàdella guarigione (redenzionebfil
Il volere di Dio, che si fa uomo, è di innalzare tutto all'unità con la ludi conservarlo in essa. Così il traguardo della storia è il superamento della finitudine nella perfetta unità divinafiî ce e
IL SECONDO SCHELLINGZ
LA FILOSOFIA POSITIVA E LA CRISTOLOGIA
Nella seconda fase, quella della "filosofia positiva", Schelling tenta di uscire dallfidealismo a cui veniva giustamente rimproverato di non tenere in debito conto né l'individuo ne’ l'esistenza concreta delle cose e cerca di integrare le, esigenze della ragione con quelle del ”mito" e della ”rivelazione”. Riprendendo una distinzione cara alla filosofia scolastica, Schelling osserva che il pensiero coglie l'essenza (il Was) ma non l'esistenza (il Dass); pertanto ogni filosofia delle essenze è filosofia soltanto negativa, nel senso che si limita a indicare le condizioni senza di cui il reale non può essere pensato: le condizioni negative della realtà. Ma per avere il reale, occorrono condizioni positive che pongano le cose nell'esistenza: esse non possono essere identificate con una pura necessità logica, ma devono consistere in qualche atto non necessario ma volontariamente posto. Il pensiero filosofico da solo non è sufficiente a spiegare l'esistenza delle cose: deve essere integrato da conoscenze di altra indole, possibili soltanto nel mito e nella rivelazione; da qui l'argomento dei corsi schellinghiani di ”fìlosofia positiva":filosofia della mitologia e filosofia della rivelazione. Per mitologia Schelling non intende il fantasticare dei primitivi al riguardo delle cose divine e delle cause ultime, ma Pattuarsì progressivo di Dio nella natura e nella religione naturale. Quando questo movimento abbia raggiunto nell'uomo una consapevolezza riflessa, alla mitologia può subentrare la rivelazione, culminante nella incarnazionedel Figlio, in cui Dio manifesta pienamente la propria libera personalità. Come è stato rilevato da alcuni studiosi (da Ertel e da Bausola in particolare), il "secondo Schelling” riprende alcune tesi fondamentali della metafisica classica e cristiana, come la tesi per la quale l'essere per se’ è, e il non essere non può limitare originariamente l'essere, e la tesi della
21) Ibid, p. 111. 12) Cf. W. KASPER, [Jassolato nella storia aell‘ultimafilosofia di Sclzelling, Milano 1986.
370
Parte terza
distinzione reale tra
essere
ed esistenza;
ma
poi, di fatto, per risolvere il
problema dei rapporti tra essenza ed esistenza e dell'Essere stesso, Schelling non percorre la via della metafisica, ma sposta la ricerca nel terreno della religione, accogliendo soluzioni fideistiche anziché razionali. Scrive Ertel a questo riguardo: «Schelling pretende che il realmente esistente non sia il razionale, che ”essere" non sia sinonimo di ”essere razionale" nel senso hegeliano; di conseguenza, non gli rimane possibile che dichiarare irrazionale ciò che e reale. Esso è qualcosa che si sottrae completamente alla ragione: Schelling parla della "natura extralogica della esistenza". Ora l'esistenza deve venire compresa filosoficamente, deve
essere
contenuto della ragione; ma, d'altro canto, l'esistenza è fondamentalmente irrazionale. Dove trovare un ponte? Nella singola cosa esistente, così come la si trova nell'esperienza, il ponte non può trovarsi, secondo Schelling. Poiché l'esistenza è fondamentalmente
posta
come
irrazionale, non è neppure possibile giungere ad
ragione. L'esistenza e
l'oggetto di
una
essa
partendo dalla
esigenza: l'uomo, alla fine dello
sviluppo negativo della filosofia, sperimentando in se la sua disperazione, esige con la sua volontà l'esistenza di un supremo principio, la sua effettiva esistenza. Schelling, in verità, afferma che questa pura
esistenza è ciò che fa cessare ogni pensiero razionale. Con ciò questa esistenza non viene in alcun modo riconosciuta, Compresa, dalla
ragione: essa rimane solo un'esigenza».î3
Questi sono i motivi per cui Schelling, abbandonato Yidealismo trascendentale non imbocca la via speculativa della metafisica, ma abbraccia la via positiva della religione.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel VITA
E OPERE
Georg Wilhelm Friedrich Hegel nacque a Stoccarda il 27 agosto 1770. Compiuti gli studi ginnasiali nella città natale, entrò nel seminario teologico di Tubingadove coltivi) assai più lo studio della teologia che quello
della filosofia (fatto questo decisivo per la sua formazione e il suo orientamento intellettuale) e dove godette del particolare privilegio di poter vivere del tutto libero da preoccupazioni finanziarie come borsista ducale e di usufruire come seminarista di una guida esemplare e accurata per i suoi studi. Ma, come riferisce il suo massimo biografo, il Rosenkranz, a TubingaHegel non ascoltava solo lezioni di filosofia e teologia, ma leg-
33)
C. ERTEL, Schellings posifizre Philosophie. Ihr Weralrn und Wesen, p. 160; cf. A. BAUSOLA, 0p. cif, pp. 185-186.
Limburg 1933,
La dissoluzione della
geva
giornali politici, si iscrisse
a un
club
metafisica negli idealisti
371
politico studentesco in cui
si
ammirava ed esaltava la rivoluzione francese e strinse fervide amicizie con il poeta Holderlin e con Schelling. I compagni lo chiamavano "il vecchio" per una certa seriosità non priva di professorale pedanteria.
Negli studi appariva più diligente che intelligente, e, riferisce sempre il Rosenkranz, «nessuno dei suoi compagni vedeva in lui alcunché di geniale (...) tanto che i suoi coetanei svevi rimasero sbalorditi quando egli più tardi li colpì con la sua fama». A differenza, ad esempio, di Schelling, genio precocissimo, che, cinque anni più giovane di lui, entrò all'università a quindici anni e scrisse i suoi capolavori filosofici a vent'anni. Hegel maturo lentamente ma con Yinesorabilitàdi un sistema logico vivente. Nel 1793 conseguì la laurea in teologia e, dopo un periodo trascorso come precettore a Berna e a Francoforte, venne nominato professore presso l'università di Iena nel 1801. Qui nel 1807 portò a termine quello che può essere considerato il suo capolavoro: Phenomeizologie des Geistes (Fenomenologia dello spirito). Dopo la battaglia di Iena (1806), in cui perdette tutti i suoi averi, Hegel fu costretto a lasciare la città per recarsi a Norimberga dove ricoprì la carica di direttore del liceo col compito di insegnarvi filosofia e religione. Nel 1808 elaborò la Wissenschaft der Logik (Scienza della logica). Dal 1816 al 1818 fu professore di enciclopedia delle scienze filosofiche a Heidelberg. Risultato di questo insegnamento fu un'altra sua opera famosa, Enzyklopàdie der philosophischen Wissensclzaften (Enciclopedia delle scienze filosofiche),edita per la prima volta nel 1817, ma pubblicata nuovamente nel 1830 in una seconda edizione riveduta e migliorata. Nel 1818 accadde il grande evento della vita e della carriera di Hegel: fu chiamato a Berlino a ricoprire la cattedra universitaria che fu di Fichte. Qui tenne corsi seguiti e applauditi da molti studenti e da uditori anche illustri e soprattutto potenti; divenne una celebrità e un'attrazione cuìturale suoi
germanica ed europea. Sulle cattedre universitarie salivano solo
discepoli e protetti. Si considerava il filosofo ufficiale dello stato prussiano e non tollerava che ci si ribellasse a questo, in cui Hegel vedeva il migliore degli stati possibili,l'autorità migliore possibileper l'ordine migliore possibile. Durante questo periodo di strepitoso successo pubblicò o preparò molte opere importanti e famose, tra cui primeggiano: Grundlinien dei’ Plzilosophie des Rerlzts (Lineamenti della filosofia del diritto); Vorlesungen iiber dei Weltgeschichte (Lezioni di filosofia della storia); Vorlesungen iiber dei Philosophie der Religion (Lezioni di filosofiadella religione); Vorlesungen iiber dei Geschichte dar {Jhilosoplzie (Lezioni di storia della filosofia). Colpito dal colera morì a Berlino il 14 novembre 1831 al culmine della
sua
fama, a soli 61
anni di età.
372
Parte terza
lL SISTEMA DELL' IDEALISMO ASSOLUTO Le idee direttrici del romanticismo si possono ricondurre a tre: 1) la rivalutazione dell'arte, della religione e della rivelazione come momenti decisivi dello sviluppo della cultura e nella civilizzazione dell'uomo; 2) il sentimento del divino immediatamente presente nella realtà come
mondo, scorto, colto e goduto dalle grandi personalità religiose e dalla Comunità degli spiriti religiosamente eletti; 3) l'intuizione estetica dell'armonia della totalità del reale, nonostante la molteplicità dei conflitti e delle contrapposizioni. l principi basilari del romanticismo divennero anche i presupposti dell’idealismo etico di Fichte, dellidealismo estetico di Schelling e dell'idealismo religioso di Schleiermacher.Anche Hegel si inserisce nel tentativo di questo ricupero di concretezza e di realtà espresso dal romanticismo, ma, per attuarlo fino in fondo, prende distanza critica dalle posizioni romantiche pur rimanendo all'interno del loro contesto. Di qui la posizione di I-Iegel come coscienza critica del romanticismo, analoga a quella svolta da Kant nei confronti dell'illuminismo.Hegel, infatti, polernizza a fondo con le tendenze romantiche accusandole in generale di anima del
dogmatismo postulatorio; in particolare rimprovera a per l'edificazione del
Kant di aver scelto, sistema filosofico, una forma logica insuffidell'intelletto e non della ragione, cioè il giudi-
suo
ciente, in quanto tipica
zio; quindi accusa la filosofia di Fichte di volontarismo astratto, la filo-
sofia di Schelling di estetismo astratto, e la filosofia di Schleiermacher di sentimentalismo astrattofl‘! Hegel valorizza il momento idealistico riscoperto e rivalutato da queste posizioni, ossia la funzione e il valore di principio da esso attribuito alla creatività del pensiero umano, alla libertà dell'uomo, alla sua capacità di concepire (= dare alla luce) la realtà, cercando di ricondurre la creatività umana al suo fondamento logico obiettivo. Ma ciò che nelle precedenti posizioni era frutto di un puro atto di volontà, di intuizione, di sentimenti, doveva divenire un atto di ragione, un atto assolutamente fondato in quanto razionale e ragionevole, pensabile e vivibilesenza contraddizione. Occorreva, pertanto, ricondurre Yidealismo alla sua base storico-concreta: volontà, intuizione, sentimento, fede, andavano innestati nell'esperienza intera dell'uomo, fatta di vita e di coscienza della vita, sintesi dialettica di vita pensata e di pensiero vissuto.
34)
Documento importante della polemica di Hegel contro Pilluminismoe contro il romanticismo, in particolare contro Kant, Fichte e Schelling, è il saggio Glaubcn und Wissen (Fede e sapere) pubblicato dal Kritisches Iournal dar Philosophie del i802.
La dissoluzione della
metafisica Negli idealisti
373
La posizione hegeliana, presa globalmente, può essere definita come idealismo logico e storico: la realtà è concepita infatti come costruzione logica del mondo da parte dell’uomo, il quale di epoca in epoca, vivendo, assume e sviluppa la propria storia, la propria esperienza concreta in tutte le sue dimensioni. Il pensiero hegeliano si presenta, così, come esito finale di tutto il processo storico-culturale moderno; lungo il quale, attraverso il Rinascimento, la Riforma protestante, Yllluminismoe la Rivoluzione francese, si passa da un umanesimo teocentrico a un umanesimo antropocentrico: si passa da Dio come fondamento trascendente della totalità del reale all'uomo come fondamento immanente della totalità del reale. Non più Dio, ma l'uomo è contemplato come creatore della realtà. Hegel è così il punto culminante e insuperabiledella cultura e della storia moderna: epoca che si consuma nell’ateismo assoluto, come esito dell’umanesimo assoluto; o Dio si identifica con l'uomo e con il mondo, oppure, come realtà in sé e per sé è negato. Delhmponente e complesso sistema hegeliano qui possiamo offrire soltanto una traccia breve ed essenziale: per un'esposizione più dettaglìata e completa rinviamo ai testi di storia della filosofia. Premettiamo che ciò che Hegel ha inteso offrire con il suo sistema non è una specie di finzione poetica, bensì lo specchio della realtà, la verità delle cose. Non la verità come è colta dal sentimento, dall’intuizione o dal giudizio, bensì come è conosciuta dalla ragione, la quale riesce a cogliere i nessi logici e quindi necessari (che sono sempre anche i nessi reali) delle cose. Secondo K. Barth tre sono i segni distintivi del sistema hegeliano: «verità, conoscenza della verità come movimento, carattere dialettico di questo movimentom!‘ L'unità del sistema hegeliano è assicurato dal metodo e non dai contenuti: è la dialettica (tesi-antitesi-sintesi), che è presente ovunque e si attua sempre allo stesso modo. «Non questa o quella disciplina, non un ambito particolare della vita o un ambito di materia scientifica, e neppure l'ambito dello Stato, né della storia, né della religione sono qui il centro che organizza in sé, bensì soltanto il metodo che va applicato a tutte le discipline, a tutti gli ambiti della vita e delle discipline scientifiche, e lì deve provarsi validomîò Il metodo di I-legel è un contenitore comodo che può ospitare tutti indistintamente: sassi, piante, animali, uomini, popoli,
nazioni, ricchi e poveri, giovani e vecchi, imperatori e straccioni, sani e ammalati, artisti e letterati, preti e poeti, scienziati e filosofi. Il metodo dialettico consente a Hegel di non trascurare nulla, proprio nulla, neppure il male, il negativo, perché anche questo è uno degli elementi essenziali che costituiscono l'essere e il divenire dell'universo.
25) K. BARTH, La teologia protestante nel XX secolo, vol. l, Milano 1979, p. 461. 26) Ibid, p. 450.
374
Parte terza
l'autore del sistema filosofico più ambizioso che mente abbia mai concepito e costruito. Diversamente dagli altri grandi umana impianti metafisici (di Platone, Aristotele, Zenone, Plotino, Agostino, Tommaso, Cartesio, Spinoza, Leibniz ecc.), i quali non pretendevano di spiegare i fenomeni singoli, i casi individuali, ma si accontentavano di delineare la struttura essenziale dell'universo, il sistema hegeliano vuole
Ilegel è
ogni singolo fenomeno, di ogni frammento di realtà, anche il più piccolo (sia positivo che negativo, sia buono sia cattivo) che si presenti sulla scena della storia. Di qui le scelte teoretiche di Hegel, che sono essenzialmente quattro: 1) il principio primo e unico di ogni cosa è la Ragione, lo Spirito; 2) la Ragione (lo Spirito) nella sua azione non ha altra finalità che quella di porre in atto e di manifestare se stessa; 3) tutto il reale si identifica necessariamente con l'ideale, perciò nella realtà non vi è nulla di irrazionale: tutto è razionale; 4) la via seguita dalla Ragione per automanifestarsi è la dialettica che comprende tre momenti: tesi, antitesi, sintesi (mediante la sublimazione, Auflielîuizg, dellantitesi). La dialettica dar conto di
Ragione di uscire da se stessa, per ritrovarsi più tardi a un livello superiore: Idea in sé; Idea "extra se", Idea in sé e per sé. NelH-Ìnciclopedia delle scienze filosofiche Hegel presenta la realtà come un'immensa piramide che esplode dalV/Xssoluto (la Ragione, l'Idea) e si sviluppa in un numero infinito di piani triadici. La triade fondamentale è costituita dall’Essere, la Natura, lo Spirito. L’Essere è oggetto di studio della Logica, la Natura della Filosofia della natia/a e lo Spirito della Filosofia della spirito. La Logica studia l'idea in se’, così come si invera nell'essere, nel nonessere e nel divenire. L'essere è il primo momento dell’Idea in se’, è il concetto più povero di determinazioni, anzi è talmente povero che qualsiasi determinazione, in quanto particolare, costituisce già una negazione dell'essere nella sua pura e astratta generalità. Appunto perché privo di determinazioni, l'essere richiama il suo opposto, il non-essere, il nulla, consente alla
confondendosi con esso. Da1l’unione dell'essere e del non essere sorge il divenire; nel divenire infatti ciò che non è incomincia a essere e viceversa. L'oggetto della Filosofia della natura è l'alienazione della Idea da se stessa, ossia l'idea extra se che è per l'appunto la Natura. Per I-Iegel, «la
l'idea nella forma dell'essere altro». In essa non soltanto l’Idea è presente come negazione di sé, ossia ‘e esterna a sé, ma ”l’esteriorità” costituisce il modo di essere proprio della natura, in cui ogni cosa è esterna all'altra, in un apparente isolamento. sull'esempio di Leibniz e di Schelling, Hegel critica e condanna perentoriamente il meccanicismo, l’atomismo e l'impostazione stessa della scienza moderna che, tendendo a considerare la natura secondo modelli fisico-matematici,regredisce a un livello inferiore della concezione aristotelica, neoplatonica e rinascimentale che avevano considerato la natura un tutto vivente. natura ‘e
La dissoluzione della
nzetafisica negli idcaiisti
375
La forma in cui l'Idea si attua pienamente, ritornando in sé dalla ”alienazione” della natura, è lo Spirito. Lo Spirito rappresenta l'Idea reale divenuta consapevole di sé: idealità realizzata non più fuori di sé, bensì in se stessa. Esso supera quindi le opposte limitazioni inerenti ai
momenti precedenti dell’irz sé e dellextra se, e si ritrova a un livello più alto, in una realtà più piena. Si incontra anche qui una triade di base, corrispondente ai tre momenti dello sviluppo dello Spirito: Spirito soggettivo, oggettivo, assoluto. Lo Spirito soggettivo si attua nei singoli individui; lo Spirito oggettivo si attua nei vari popoli; lo Spirito assoluto si attua nelle opere artistiche, religiose, filosofiche. L'arte esprime l’Assoluto in forma sensibile. Un'opera è artistica solo quando è una manifestazione concreta dell’Assoluto. Il valore artistico di un'opera ‘e proporzionato alla sua capacità di rendere visibilel’Assoluto. Nella religione l’Assoluto acquisisce coscienza di se stesso come spirito. La dialettica della religione si dispiega in tre gradi. Nel primo «lo spirito si conosce come oggetto in figura naturale e immediata». Tale forma delrimmediatezza non è però adatta allo spirito: è più adatta a un Dio sostanza che a un Dio soggetto. Ecco perché il primo grado è superato nel secondo, dove lo spirito si conosce «nella figura della naturalità superata», ossia dell'uomo. Dio inizia ad essere concepito come soggetto, ma come un soggetto finito; però «anche una tale forma di rappresentazione finita viene superata nella fede nell'unico spirito e nella devozione del culto». Di qui la necessità di un terzo grado, che superi i due precedenti e corrisponda alla forma della ragione: è il momento cristiano che Hegel definisce «religione riVelata>>. Essa è la religione assoluta grazie alla dottrina dell’incarnazione, del Dio fatto uomo, dell'umanizzarsi di Dio e dell'identificarsi dell'uomo con Dio. Nel momento filosofico del sapere, ossia nella filosofia, l’Assoluto prende coscienza di sé in forma concettuale riflessa. La filosofia «è l'idea che pensa se stessa, la verità che sa», è l'idea eterna, in se’ e per sé, che si attua, si produce e si fruisce eternamente, come spirito assoluto. Non si tratta di nessun particolare sistema filosofico, ma di tutto l'iter filosofico dell'umanità. In tal modo, in Hegel, la filosofia si identifica con la storia della filosofia, la quale è definita «la storia del pensiero che trova se stesso». «Le manifestazioni di questo processo sono le filosofie e la serie delle scoperte alle quali si accinge il pensiero per scoprire se stesso; è il lavoro di due millenni e mezzo»? Hegel Considera la propria filosofia come il momento in cui Yflissolum prende pienamente e perfettamente coscienza di se stesso, di tutta la propria storia e di tutto il proprio divenire. Il filosofo presenta il proprio sistema come punto d'arrivo e come
27)
G. W. F. HEGEL, introduzione alla storia della ‘filosofia, Bari 1925, p. 21.
376
Parte terza
speculazione precedente e di tutti i filosofi che sono venuti prima di lui, da Talete a Schelling, preparatori e precurmeta conclusiva di tutta la
sori del
suo
luppo della
sistema. Con le loro dottrine essi hanno contribuito allo svi-
appunto, nel LA
filosofia fino alla maturazione completa che si suo
sistema.
compie,
DISSOLUZIONE DELLA METAFISICA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA
Hegel, autore del più ambiziosoe colossale progetto filosofico che sia escogitato e realizzato, costruisce il suo imponente edificio, detronizzando ed estromettendo la regina di tutte le scienze, la metafisica. E lo fa in due modi: sia quando chiama la sua ricostruzione della storia della filosofia "fenomenologia dello Spirito", sia quando fa coincidere Tesistenza dello Spirito con il suo divenire storico. Come in Fichte e Schelling, anche in Hegel sparisce la distinzione tra i due mondi, sensibilee intelligìbile.Così nel suo pensiero viene meno il movimento verso una trascendenza assoluta (anche se rimane una trascendenza storica); anzi l’Assoluto come realtà trascendente non esiste più. Hegel supera ogni distinzione tra essere e pensiero; per lui tutto il mai stato
razionale è reale e Viceversa. I-Iegel cancella i due piani della realtà, i due mondi, ma non per salvail mondo ideale, bensì per storicizzarlo: il mondo platonico delle Idee re è calato nella storia. Questo era quello che aveva fatto anche Vico; ma la sua storia era l'attuazione di un piano ideale eterno; questo piano in Hegel non c'è più. Inoltre nel filosofo tedesco il divenire dell’ldea non si attua come nei neoplatonici mediante una gerarchia più o meno ricca e complessa delle intelligenze, bensì attraverso lo sviluppo dell’ldea nella coscienza storica, la quale dà luogo alla fenomenologia dello Spirito. Il sistema hegeliano non è una metafisica o un sistema metafisico, perché manca la seconda navigazione: tutta la ”navigazione" di Hegel si realizza all’interno di questo mondo, di cui cerca di comprendere e spiegare la storia attraverso Yautocoscienzadello Spirito. Quella hegeliana è una colossale cosmovisione, è ufiantropologia universale, è una filosofia della cultura e della storia e anche della religione: è una fenomenologia dello Spirito, attraverso le varie forme della coscienza. Ciò che a Hegel interessa non è il divenire della natura e del cosmo, ma il divenire dell'uomo: è un divenire però che racchiude tutte le sue ragioni d'essere in se stesso: la sua teleologia è puramente immanente: non c'è nessun movimento verso il motore immobile,verso Dio. La storia dell'umanità può essere anche intesa come epifanizzazione di Dio. E questa può essere anche una chiave di lettura della filosofia hegeliana della storia, perché certamente I-Iegel non è un ateo. Ma il suo obiettivo non è mai la ricerca di Dio,‘ non è mai la fondazione ulteriore
La dissoluzione della
metafisica negli idealisti
377
della storia in un principio trascendente: Hegel cerca le leggi immanenti della storia e non le sue ragioni trascendenti. La metafisica hegeliana si dissolve nella storia e più precisamente nella storia della filosofia, poiché lo Spirito non ha mai cessato di filosofarc, e il progresso della filosofia coincide con il progresso dell'autocoscienza dello Spirito. In Hegel rimane assai viva e acuta la preoccupazione dei neoplatonici di razionalizzare la realtà. Però il "logos" di Hegel non percorre le vie della metafisica, ma quelle della storia. La triade hegeliana non è più la triade dell'Uno, del Nous e della Psyché, ma la triplice ipostasi deIYIdea: in sé, ”extra se" e in se’ e per se’. Ma, di nuovo, questa triplice ipostasi non ha luogo a livello metafisico, bensì storico e, più precisamente, coincide con i grandi momenti dello sviluppo storico dello Spirito, che non è lo Spirito di Dio, ma lo spirito dell'uomo, dei popoli e delle nazioni. TEOLOClClZZAZIONEDELLA FILOSOFIA O FILOSOFICIZZAZIONE DELLA
TEOLOGIA?
pensiero di Hegel e al suo sistema sorge la domanda: è un pensiero (sistema) filosofico o teologico? La perplessità è legittima e nasce dal fatto che tutte le verità fondamentali del cristianesimo (Trinità, Incarnazione, caduta, redenzione, divinizzazione dell'uomo, comunione con Dio ecc.) vi sono incluse e vi occupano un posto di rilievo. Lo stesso Hegel nella Filosofia della religione Di fronte al
scrive: «Le dottrine fondamentali del cristianesimo sono scomparse nella dogmatica. Non è solamente la filosofia, ma soprattutto la filosofia che ora è essenzialmente ortodossa. Quelle proposizioni che sono state sempre valide, le verità fondamentali del cristianesimo sono completate e sostenute da essa». «Nella filosofia è contenuto molto di più che nella dogmatica». Così, infatti, stanno le cose, «che il contenuto della filosofia, la sua esigenza e i suoi interessi sono del tutto comuni con la religione; il suo oggetto è l'eterna verità, niente altro che Dio e la sua esplicitazione. La filosofia si rende esplicita solo in quanto si rende esplicita la religione e, rendendosi esplicita, fa esplicita la religione (...). Così vengono a coincidere religione e filosofia. La filosofia stessa è servizio di Dio». Di fatto, come mostra K. Barth in un suo celebre studio su Hegel, il pensiero hegeliano può essere interpretato sia come ”la teologizzazione della filosofia” sia come ‘Tilosoficizzazionedella teologia".28 Personal— mente sono più propenso a considerare il sistema hegeliano come un abile innesto delle verità del cristianesimo in una spettacolare cosmovisione filosofica che ritiene di poter trarre dal cristianesimo stesso un
3*)
Cf. K. BARTH, La
teologia protestante nel XIX secolo, l, cit., pp. 429-465.
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argomento a favore della propria verità, anziché come un ingegnoso siteologico che, seguendo l'economia della salvezza, ordina e spie-
stema
ga le verità fondamentali della rivelazione cristiana.
non sono disposto a sottoscrivere il seguente giudizio, decisamente troppo generoso, di Barth: «Egli (Hegel) ha saputo
Per
questo
motivo
condurre a una conclusione sommamente soddisfacente il grande conflitto tra ragione e rivelazione, tra coscienza culturale puramente mondana e cristianesimo, fra il Dio in noi e il Dio in Cristo»? Certo il conflitto è stato composto, ma a quale prezzo? Facendo sparire la distinzione dei contendenti: con la immanentizzazionedi Dio nella storia, della rivelazione nella ragione, con l'identificazione della coscienza mondana con
quella cristiana.
L'unica soluzione soddisfacente del difficilissimoe perenne problema della conciliazione del finito con l'infinito, del naturale col soprannaturale, della ragione con la fede non è quella della sublimazione degli opposti in una unità superiore e nella loro conclusiva identificazione, bensì quella della loro armonizzazioneottenuta, da una parte, mediante il riconoscimento dell'infinita differenza qualitativa tra elemento naturale e soprannaturale, tra finito e infinito, tra fede e ragione, tra Dio e l'uomo, e, dall'altra, mediante l'affermazione della loro analogia, intesa anzitutto come analogia entis e successivamente (in teologia) come analo-
giafidei. Uincorporazione, anzi l'assorbimento della teologia nella filosofia per Hegel era un'operazione estremamente agevole, grazie alla sua riso-
luzione della realtà nella storia, l'identificazione della filosofia con la storia della filosofia, e il riconoscimento della rilevanza storica del cristianesimo, sicché l'elemento storico del cristianesimo non solo viene posto in un rapporto tollerabile, in qualche modo corrispondente alla sua dignità, con il razionale, ma è elevato addirittura a valore decisivo, supremo. Anche per la ragione e per la filosofia, la verità è Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo. Ma l'eccessiva teologizzazione della filosofia non ha trovato lo ammette con rincrescimento anche Barth buona accoglienza né nei circoli filosofici né in quelli teologici. «La coscienza culturale moderna di fatto ha respinto Hegel. Non ha voluto né comprendere se stessa in quella profondità, né in quella profondità lasciarsi riconciliare con la coscienza cristiana, come era opinione di Hegel. Perché no? Perché la pretesa era troppo grave, troppo condizionata dalla teologia? Così si sentì, e così si è soliti di fatto rappresentarla. Ma potrebbe anche essere diversamente, cioè che la pretesa non fosse abbastanza radicale, che alla -
-
29) Ibid., p. 453.
La dissoluzione della nzetafisica negli idealisti
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teologia fosse dato non troppo, ma piuttosto troppo poco, perché si potesse presentare come degna di fede».30 Ed è esattamente questa la ragione per cui «la teologia non poteva accettare la filosofiadi Hegel, più di quanto potesse accettare la coscien-
culturale moderna».31 Così la fulgidissima stella di Hegel, che per un decennio aveva dominato tutto il firmamento culturale tedesco e sembrava destinata a irradiare la sua luce su tutto il continente europeo, si eclissò rapidamente... Pochi anni dopo la repentina scomparsa del filosofo la scuola hegeliana si disgregò dando origine a una Destra e a una Sinistra hegeliana. Entrambe reclamavano di essere interpreti fedeli del pensiero del maestro, quando invece lo tradivano gravemente, sopprìmendo uno degli opposti che l-Iegel con tanta pazienza e abilità aveva cercato di riconciliare e tenere saldamente uniti. La "santa alleanza" creata da Hegel tra fede e ragione, tra cultura e religione, tra filosofia e teologia, tra Dio e l'uomo si spezzò definitivamente, con il trionfo finale di quell’a1a culturale che era la figlia più legittima della modernità: dell’umanesimo antropocentrico, della secolarizzazitme,dell'illuminismo,dell'ateismo.
za
VALUTAZIONE CONCLUSIVA
Hegel è stato uno dei grandi interpreti della modernità. Genio enciclopedico, egli cercò di soddisfare l'aspirazione dell'uomo moderno a estendere il dominio della ragione su tutta la realtà e su ogni singola realtà: naturale e storica, fisica e metafisica, umana e divina, terrestre e celeste, dando al sapere una forma unitaria, Pregio indiscutibile di
I-Iegel è l'aver rivendicato alla filosofia la totalità del suo oggetto, la concretezza dell'essere nella complessità delle sue manifestazioni e della sua storia, reagendo contro Yastrattismo. Tutta la realtà, tutta la storia,
manifestazioni dell’Assoluto, hanno carattere razionale: il che implica una condanna dell'interpretazione manichea 0 fatalistica, da una parte, e di quella illuministicadall'altra. Anche il teologo Barth riconosce la grandezza filosofica di Hegel. La filosofia hegeliana risulta grande sotto un duplice rapporto: innanzitutto considerata in se stessa,
sono
«perché ha colto e sviluppato un pensiero a un tempo semplice e comprensivo, la cui relativa verità parla da sé in maniera cosi energica che, qualunque atteggiamento si prenda nei suoi confronti, non si può in ogni caso evitare di ascoltarla e di confrontarsi con essa. Si possono trascurare Fichte e Schelling, ma Hegel, come Kant, non si
può
trascurare. E la
3°) Ibid, p. 459. 31) Ibtaî, pp. 464-465.
capacità di esemplare, il carattere di
promessa
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della verità espressa da Hegel, sarà, forse proprio per colui che alla fine come teologo dovrà dire no a Hegel, ancor più grande che non in Kant. ll secondo aspetto della grandezza della filosofia hegeliana consiste nel fatto che essa non è stata affatto la scoperta casuale di un singolo individuo genialmente dotato proprio questo, a differenza di Schelling Hegel non voleva essere bensì la voce possente e impressionante di un'intera epoca, la voce dell'uomo moderno, o di quello che, dal 1700 al 1914, si chiamò l'uomo moderno».32 -
-
Hegel
costruì un sistema colossale e non una semplice summa, un sistema onniconclusivo che pretendeva di porre l'ultimo sigillo sul lavoro compiuto precedentemente dagli altri filosofi e teologi. Ma, come si è già rilevatopiù sopra, la pretesa di Hegel si rivelò ben presto illusoria: il sontuoso castello hegeliano fu attaccato da ogni parte e ben presto demolito. «Perché Hegel non divenne per il mondo protestante qualcosa di simile a ciò che Tommaso d'Aquino era diventato per quello cattolico?»,33 si chiede Barth. A mio avviso le ragioni sono due: l) Tommaso elaborò la sua cosmovisione assoggettando la ragione alla fede e non la fede alla ragione come ha fatto I-Iegel; 2) Tommaso elaborò una metafisica della natura e della storia, una metafisica dell'essere, e non semplicemente una storia della metafisica e una metafisica della coscienza come ha fatto Hegel. Tommaso è diventato il teologo della Chiesa cattolica perché elaborò una interpretazione della rivelazione avvalendosi di una buona filosofia; Hegel non poté diventare il teologo del protestantesimo perché asservì la rivelazione alla filosofia e di una filosofia molto discutibile, anzi profondamente errata proprio sulla questione fondamentale, dei rapporti tra finito e infinito, tra uomo e Dio. Il fallimento di Hegel è il fallimento di un'epoca, l'epoca della immanenza; è il fallimento de|l'antropocentrismo prometeico, del tentativo di dare la scalata al Cielo. Il tentativo di assolutizzare l'uomo e la sua storia non poteva essere portato a compimento. La via era sbagliata, anche se Hegel, persuaso che fosse giusta, riuscì a fare qualche passo in più Verso la vetta. Ma proprio perché la via era profondamente errata, anche Hegel finì per fermarsi e questa volta definitivamente. La teologia trasformata da Hegel in storia dell’autocoscienza dell'Assoluto decade inevitabilmentein una prometeica speculazione filosofica. Di fatto in Hegel si dissolvono i principi fondamentali del teologare che sono l'assoluta trascendenza di Dio, la piena libertà di ogni sua iniziativa, la gratuità della grazia, di ogni sua grazia (a partire dalla grazia della rivelazione), il primato dell'autorità (di Dio, di Cristo, della Chiesa) e
33) lbid, p. 441. 33) lbzd, p. 43D.
La dissoluzione della
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quindi della fede sulla ragione, la serietà e la gravità del peccato ecc. Nel suo sforzo di razionalizzare tutto (religione, Dio, Trinità, Cristo, Chiesa) Hegel finisce inevitabilmenteper uccidere la teologia. Ma l'impresa che non era riuscita a I-Iegel tanto meno poté riuscire ai suoi epigoni o ai suoi avversari. «Dopo che si ritenne di avere lasciato l'epoca di Hegel alle proprie spalle, non si giunse più a una sintesi e, con questa, a una coscienza dell'epoca così forse come l'aveva avuta l'epoca di Hegel. Nell'atto in cui si allontanava da Hegel, l'epoca confessava che, giunta al culmine del
suo
Volere
questo
non era essa tenta
di
del suo operare, essa era insoddisfatta di sé, e che ciò che essa aveva inteso. Mettendo da parte Hegel
e
raggiungere, ancora una volta, una simile vetta, ma non
la raggiunge più, e chiaramente può essere ancor meno soddisfatta di sé che non prima, sebbene essa si comporti come se lo fosse».34
34) Ibid, p. 433.
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Parte terza
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Hegel,
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SCHLEIERMACHER E LA FUGA VERSO UERMENEUTICA
Vita e opere Friedrich Daniel Ernst Schlcicrmacher nacque a Breslavia il 21 novembre 1768. Ebbe una formazione di stampo pietistico, sia in famiglia che nei collegi da lui frequentati (il Paedagogium di Niesky e il seminario dell'Unione Fraterna di Barby). Studiò teologia all'università di Berlino. Fu quindi precettore presso il conte Dobna, che lo avvicino a Schlegel, al quale si legò in stretta amicizia e si aprì per il suo tramite all’influsso del romanticismo. In questo periodo tenne i suoi celebri Discorsi sulla religione (1799) e scrisse i Monologhi (1800). Allontanatosi da Berlino nel 1806, vi fece ritorno durante l'occupazione napoleonica e, insieme a Fichte, divenne uno dei più ardenti difensori del nazionalismo tedesco. Dopo la caduta di Napoleone riprese l'insegnamento nell'università di Berlino, dove fu anche direttore della facoltà di teologia per oltre vent'anni. Morì nel 1834. Della sua vastissima produzione filosofico- teologica ricordiamo le seguenti opere: Discorsi sulla religione (1799); La fede cristiana secondo le proposizionifondamentali" della Chiesa evangelica (1821-1822); Prediche (10 voli). E, inoltre, pubblicate postume, la Storia della filosofia, 1’Estefica, la Dialettica e la Pedagogia. Dellermeneutica Schleiermacher si è occupato durante tutto l'ultimo trentennio della sua Vita, senza mai giungere a risultati conclusivi e senza dare alle stampe i vari scritti che aveva dedicato a questo tema. I principali sono: i ”Mano5critti" del 1805, che contengono il primo abbozzo di un trattato sull'ermeneutica; YEI/nzencutica generale del 18091810; i Discorsi accademici del 1829 e le Lezioni del 1832-1833. Tutti questi testi sono stati raccolti, ordinati, datati ed editi per la prima Volta da Heinz Kimmerle nel 1959: Hermeneitiik naclz dea Handschrfiten neu heraasgeggeben; nelle successive edizioni dello stesso Kimmerle la raccolta è stata ampliata e migliorata. La traduzione italiana di tutti gli scritti di Schleiermacher sullermencutica è stata curata da Massimo Marassi e pubblicata da Rusconi nel 1996.
Schleiernîachere la fuga verso Fermcrieutica
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L'importanza di Schleiermacher La grandezza e l'importanza di Schleiermacher non sfuggirono ai suoi contemporanei. Un suo collega di insegnamento, A. Neander, il giorno dopo la sua morte disse ai suoi studenti: «Da lui un giorno avrà inizio un nuovo periodo nella storia della chiesa». Queste predizioni si sono in larga misura avverare, quanto meno per la Chiesa evangelica. «Il nome di Schleiermacher, e nessun altro accanto a lui, sta e starà in ogni tempo al culmine di una storia della teologia dell'epoca contemporanea» (K. Barth). Schleiermacher è indubbiamente la figura più presti-
giosa e più influente del secolo scorso, e il suo pensiero attraverso Bultmann, Tillich, Bonhoeffer, Pannenberge lo stesso Barth ha continuato e continua tuttora a movimentare la teologia protestante e ultima-
teologia cattolica. «Non tutto è riuscito a Schleiermacher: la sua opera in complesso è così grande da poter essere minacciata nella sua sostanza solo da un'opera opposta di eguale portata, non da critiche singole» (H. Scholz). I titoli principali per cui Schleiermachcr occupa un posto così elevato sono vari (padre della filosofia della religione, fondatore della ermeneutica ecc.) ma essi si riducono praticamente a uno solo: la realizzazione della svolta antropologica della teologia, applicando in maniera originale la ‘rivoluzione copernicana” voluta da Kant tra il soggetto umano e il mondo delle cose. Così nella rivelazione, nella parola di Dio (che è l'oggetto proprio della teologia) il primato non spetta più a Dio che parla o che si rivela, bensì all'uomo che si apre alla mente la stessa ma
sua
rivelazione, alla sua parola.
Schleiermacherè più teologo che filosofo, anche se ha scritto cose apprezzabili in campo filosofico, specialmente riguardo all'estetica. I suoi
argomenti preferiti sono infatti la Scrittura, la fede, il cristianesimo, la rivelazione, la religione, ai quali si accosta da una prospettiva che fonde insieme istanze razionalistiche, romantiche, criticistiche e idealistiche. Così il suo apporto maggiore riguarda la teologia, e il suo insegnamento in questo campo eserciterà, come si è detto, un influsso rimarchevole, dando origine a quel movimento teologico che va sotto il nome di prote-
stantesimo liberale.
Ma in tempi recenti, con lo sviluppo di quella importante corrente filosofica che ha preso il nome di "nuova ermeneutica", si è scoperto in Schleiermacher un aspetto del suo pensiero che in precedenza era stato trascurato e sottovalutato: quello che riguarda il rinnovamento dell'ermeneutica. Questa operazione interessa anche la storia della metafisica, e questa è la ragione per cui ce ne occupiamo nel presente volume.
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Parte terza
Il rinnovamento dell’ermeneutica ”Ermeneutica” proviene dal termine greco hermertezicin che significa interpretare. Una delle opere logiche di Aristotele ha per titolo Peri hermeneias (De interpretatione): è il primo elaborato di una teoria del linguaggio e la prima formulazione dei canoni fondamentali dell'interpretazione. Successivamente Yermeneutica entrò a far parte delle scienze ecclesiastiche: era la disciplina teologica che fissava le regole e i metodi per la corretta interpretazione della Sacra Scrittura. Attualmente, grazie allo sviluppo della nuova ermenczctica il termine "ermeneutica” ha acquisito un significato più esteso e più profondo e sta a indicare una prospettiva di pensiero che assegna sia alla filosofia sia alla teologia il compito di interpretare, poiché l'uomo stesso è un essere che vive nella precomprensione e nella interpretazione delle cose e della storia. La nuova ermeneutica fa quindi un passo indietro (verso le radici) rispetto alla ermeneutica tradizionale, e diviene una specie di epistemologia della esegesi e delle scienze storiche in generale; è per l'appunto la teoria generale della conoscenza storica, 0 «metodica generale delle scienze dello spirito», come l'ha definita Emilio Betti. Lo scopritore del ruolo capitale che ha svolto Schleiermacher nel rinnovamento de1l’ermeneutica fu Wilhelrn Dilthey. questi, nel suo monumentale Leben Schleierrviachers (1867-1870) e nel saggio Entstelzung der Hermenezitik (1900) riscontro in Schleiermacher la prima arte dell'interpretazione veramente originale e, più a fondo, «la costituzione definitiva di unermeneutica scientifica» e designò Schleiermacher come il più grande rappresentante del pensiero ermeneutico della modernità. La storiografia successiva ha confermato pienamente i riconoscimenti di Dilthey relativi al ruolo svolto da Schleiermachernella creazione di una nuova scienza della interpretazione. Nessuna cosa, però, nasce dal nulla, neppure le idee e le teorie. La revisione radicale dell’ermeneutica parte di Schleiermacher, in effetti, è stata propiziata dal momento culturale che regnava in Germania ai suoi tempi. La cultura tedesca all'epoca di Schleiermacher, vale a dire nel primo Ottocento, era attratta dal problema delle espressioni libere e creative dello spirito umano. Accanto alle scienze della natura, dove il legame con Yobiettività è prevalente, si stavano costituendo le scienze dello spirito, creatore di storia, di Cultura, di simboli interpretativi, di sistemi, di idee, di istituzioni politiche, di codici morali, di miti religiosi. Alla relativamente stabile schematizzazione della natura si sovrappone la continua mobilità della storia propriamente umana e Schleiermacher colloca le proprie ricerche filosofiche e teologiche nell'ambito della ”nuova scienza storica”.
Schleiermachere lafuga verso l ‘ermeneutica «Gli individui e le comunità nella
389
lingua, nella poesia, nell'arte, nella
filosofia e nella religione, nel diritto e nella politica, creano una serie di interpretazioni del mondo che non sono affatto il rispecchiamento di un dato obiettivo. Il dinamismo dell'essere spirituale originario si riflette nella creazione di linguaggi, parziali ma ricchi di contenuti e irriducibili a dati impersonali e prefissati. L'universo contemplato
nella sua struttura spirituale diventa prodotto culturale, interpretazione soggettiva, costruzione di prospettive peculiari. Il rapporto tra finito e infinito si mostra nella sua mediazione, che nasce nella psicologia umana e che si fa espressione peculiare dello spirito che interpreta se stesso, che si dà forma, che si esprime. Uastrazione dei concetti dialettici si traduce nella varietà e molteplicità delle forme espressive dell’autocoscienza. Tutti i prodotti della cultura umana creano così il mondo proprio dello spirito finito e connesso con la materia. L'esperienza continua di ogni essere umano, nella sua condizione intermedia tra il puro spirito e la pura materia, crea il mondo propriamente storico dei linguaggi umani. Ogni essere spirituale vive e afferma la propria peculiare prospettiva, dà forma a se stesso nella struttura culturale dei simboliml
È della mobile realtà della cultura e non semplicemente della fissa realtà dei documenti scritti che Schleiermacher Cerca di individuare, determinare, classificarele condizioni a priori che danno vita alla scienza dell'interpretazione, o ermeneutica. Egli cerca di raggiungere il rinnovamento dell’ermeneutica, elaborando dapprima una critica serrata della filologia e della metodologia fini a se stesse come scienze per l'interpretazione di qualsiasi testo; e, in secondo luogo, formulando per la prima volta una ”teoria generale della ermeneutica” (Die Allgemeine Hermcizeutik), volta a far comprendere il significatogenerale dell”’interpretare" e del ”compren— dere" e a delineare precisi princìpi e canoni di ermeneutica di carattere linguistico e filosofico. E proprio in questa estensione massima del compito ermeneutico che va letta la proposta di Schleiermacher: l'interpretazione non si occupa soltanto di testi, bensì elabora ipotesi non solo plausibili, ma corrette, intersoggettive e controllabili,il cui campo di applicazione è l'estensione stessa della filosofia. Ed è da queste ipotesi filosofiche che Vermeneutica riceve forza e dignità, altrimenti, in quanto tecnica, sarebbe certo una forma di sapere, ma senza alcuna specificità e dignità. «Ciò contro cui Schleiermacher ha sempre combattuto non senza tentennamenti, come avviene di solito in colui che per primo avverte la novità di un compito -, è la concezione dell’ermeneutica come —
disciplina deputata a spiegare, come subtilitas explicandi (...). In realtà essa non e soltanto una ”tecnica”, ma deve ritagliarsi il compito spex
1)
R. OSCULATI, Ermeneutica, filosofia e teologia in Ermeneutira e metafisica, Roma 1996, pp. 86-87.
Schleiermacher, in B. MONDlN (ed.),
390
Parte terza
cifico della subtilitas intelligendi, e il comprendere, quando ha di mira la formulazione della filosofia come problema, non è possibile senza
modelli, applicazioni, regole, canoni, argomentazioni e dispositivi; non è possibile come Schleìermacher afferma alia fine del primo discorso accademico senza "esperienze ermeneutiche". In tal modo —
—
lermeneutica non è riducibilea ciò che già tutti fanno di fronte a un testo e neppure alla storiografia, ché anzi questa ha inizio come lavoro scientifico soltanto allorquando la comprensione è già in atto. Solo apparentemente, dunque, l’ermeneutica compie le stesse operazioni della filologia; in realtà essa punta all'intelligere filosofico e, di conseguenza, a diventare una vera e propria ”metodo]ogia" della filosofia»?
DEFINIZIONE E
DIVISIONE
DELUERMENEUTICA
Uermeneutica è l'arte dell'interpretazione (Auslegitngskzrmst). Di questa Schleiermacher dà la seguente definizione: «L'arte dell'interpretazione è l'arte di entrare in possesso di tutte le condizioni proprie della comprensione (di un testo, di un discorso)».3 Pertanto, il fine dell'ermeneutica è "la comprensione del senso supremo". Di capitale importanza, nella teoria della interpretazione di Schleiermacher, e ìa distinzione tra interpretazione grammaticale e interpretazione tecnica o psicologrica. Questa è una distinzione che ritorna in tutti gli scritti di Schleiermacher sultermeneutica, con una costante sottolineatura di tre punti: l) il legame stretto che unisce queste due forme di interpretazione; 2) la superiorità della interpretazione tecnica (psicologica) su quella grammaticale; 3) la inesauribilitàdel processo interpretativo sia sotto l'aspetto grammaticale sia sotto l'aspetto tecnico o psicologico. Nella interpretazione grammaticale, ciò che conta è l'aspetto linguistico: essa ricerca la comprensione del testo mediante lo studio delle strutture linguistiche usate dall'autore. Essa «comprende il discorso a partire dalla lingua».4 Nella interpretazione tecnica o psicologica ciò che conta maggiormente sono i pensieri, la psicologia, la visione della realtà propri dell'autore: essa <
3)
3) 4) 5)
M. MARASSI, Introduzione a F. D. E. SCHLEIERMACHER, Ermeneuticu, Milano 1996, p. 10. F. D. E. SCHLEIERMACIIER, Ernzencatica, cit., p. 195. IbicL, p. 133. lbicì, p. 497.
Schleiermacher e Zafuga verso Fermeneutica
391
so, mentre la seconda è "soggettiva", in quanto fa attenzione alle condizioni soggettive, psicologiche, sia intellettuali sia morali dell’autore.6 C'e una pagina del primo abbozzo del trattato di ermeneutica (del 1805) sui rapporti e distinzioni dei due tipi di ermeneutica di una chiarezza esemplare e che merita pertanto di essere trascritta integralmente.
«Interpretazione grammaticale: comprendere il discorso è ciò che è composto a partire dalla lingua. Interpretazione tecnica: comprendere come esposizione dei pensieri; comprendere ciò che è composto attraverso l'uomo. E dunque anche a partire dall'uomo. Interpretazione grammaticale: l'uomo con la sua attività scompare e appare soltanto come organo della lingua. Interpretazione tecnica: la lingua con la sua forza determinante scompare e appare unicamente quale organo dell'uomo al servizio della sua individualità, così come, nell'interpretazione grammaticale, la personalità è al servizio della lingua. Interpretazione grammaticale: non è possibile senza l'interpretazione tecnica. Interpretazione tecnica: non è possibile senza l'interpretazione grammaticale. Infatti come posso conoscere l'uomo se non soltanto dal suo discorso, e più precisamente in rapporto a questo discorso? interpretazione grammaticale: l'ideale del compito nella sua unilateralità è tuttavia il comprendere che fa del tutto astrazione dall'interpretazione tecnica. Lo stesso succede anche nell'interpretazione tecnica. L'ideale: comprendere facendo del tutto astrazione dall'interpretazione grammaticale. (...) Interpretazione grammaticale: la comprensione è raggiunta solo a partire dalla connessione di tutti i contesti. Interpretazione tecnica: la ricostruzione della combinazionesi compie solamente con la progressione nel dettaglio, in modo simultaneo e immediato. L'interpretazione grammaticale si divide in due compiti opposti; lo stesso succede nella interpretazione tecnica. Si deve trovare l'unità dell'uomo e si devono conoscere determinatamente le espressioni di questa unità. Interpretazione grammaticale: il primo compito che mira all'unità è un'intuizi0ne generale; l'altro che mira alla pluralità è una limitazione parziale. L0 stesso succede nell'interpretazione tecnica: l'unità è l'intuizione generale della totalità letteraria dell'uomo; la pluralità è costituita dalle applicazioni limitate di questa unità a casi limitati».7
6) Cf. ibid.,p. 49. 7) Ibici, pp. 133-135. Ho modificato leggermente la punteggiatura per rendere più scorrevole il testo.
392
Parte terza
I PRINCIPI GENERALI DELUERMENEUTÎCADI SCHLEIERMACI lER
principi generali su cui poggia l’ermeneutica di Schleiermacher sono quattro. l
a) Il primato dell'interpretazione nella gerarchia del sapere
grande novità dellermeneutica schleiermacheriana è l'importanza enorme che la scienza dell'interpretazione viene ad assumere nella gerarchia delle scienze: essa non è più un’ancella, importante sì ma pur sempre un’ancella, della filosofia e della teologia, ma un metodo fondaLa
preambolo indispensabile di ogni forma di sapere. Nella di prospettiva Schleiermacher Yermeneutica viene a occupare il posto di "filosofia prima”. Sappiamo che il posto della “filosofia prima”, nella metafisica classica era occupato dalla ontologia e nella filosofia moderna dalla gnoseologia; ora, in Schleiermacher il posto viene preso dalla ermeneutica. L'orizzonte filosofico di Schleiermacher rimane sempre quello moderno, che è l'orizzonte del Cogito, della soggettività. Ma ora la soggettività del conoscere e del comprendere assume uno spessore ermeneutico. Il conoscere diviene sempre più un interpretare e l'interpretare viene sempre determinato dalle condizioni soggettive, che però ora non sono più le condizioni universali stabilite da Kant con le sue forme, categorie, idee, bensì le condizioni storico-culturali che determinano "la totalità letteraria de|l'uomo". Nella prospettiva filosofica di Schleiermacher l'uomo non viene più visto come homo sapiens, volerzs e! vivens come nella antropologia classica, e neppure come homo cogitans e homo liber come nella antropologia moderna; ma come homo loquens e homo interpretans. La sua figura mitologica non è più né Apollo né Prometeo, ma Ermete. L'uomo di Schleiermacherè un recettore e un trasmettitoredi messaggi. Ma i suoi messaggi non sono né quelli della natura e, fondamentalmente, neppure quelli della divinità, bensì i messaggi della cultura e della storia. Così Fermeneutica diviene una filosofia della cultura, e nella sua universalità e fondamentalità si sostituisce alla metafisica. mentale e
un
”s0ggettivo” della interpretazione Come abbiamo visto, nell'interpretazione Schleiermacher distingue due momenti: il momento grammaticale e il momento psicologico; il primo è oggettivo e il secondo è ”soggettivo"; e dei due quello che ha maggior peso nella totalità dell'operazione ermeneutica è il momento soggettivo. Su questo punto Schleiermacher si appropria della grande "rivoluzione copernicana” operata da Kant, il quale come sappiamo ha b) L0 spessore
rovesciato i rapporti tra oggetto conosciuto e soggetto conoscente, considerando non più passivo ma attivo il soggetto rispetto all'oggetto; non è il soggetto che riceve e subisce le forme dell'oggetto; ma viceversa è il
soggetto che imprime le sue forme e le sue categorie sull'oggetto.
Schleiernzacher e
È
esattamente
applica so,
un
alla
testo
393
questo ribaltamento dei rapporti che Schleiermacher
dell'interpretazione: per comprendere un discorqualsiasi altro monumento storico 0 letterario non basta
sua
o
lafuga ZJETSO l ermeneutica
teoria
prendere in Considerazione i dati oggettivi presenti nel testo; contano più i dati "soggettivi", vale a dire i pensieri, la psicologia, il
molto di
complesso di idee, la cosmovisione dell'autore del testo. c) La reciprocità
le parti e il tutto: il circolo ermeneutica NelYErmeneuticagenerale Schleiermacherfissa tre canoni che valgono sia per l'interpretazione grammaticale sia per l'interpretazione tecnica (psicologica): 1) «Nessun discorso dato può essere compreso solamente mediante se stesso»; 2) «Ogni discorso o scritto può essere compreso unicamente in un Contesto più ampio»; 3) «Non solo la comprensione del tutto è condizionata da quella del singolo elemento, ma anche, viceversa, la comprensione del singolo elemento è condizionata da quella tra
del tutto»! Il terzo canone, che stabilisce che si può comprendere la parte solo mediante il tutto e viceversa che si può comprendere il tutto solo mediante la parte, descrive il famoso "circolo ermeneutica”, che costituisce l'asse portante di tutta l’ermeneutica di Schleiermacher, ed è inoltre la dottrina più importante che egli ha lasciato in eredità alla riflessione ermeneutica contemporanea. Come spiega G. Mura, un eccellente studioso della storia della erme-
neutica,
«il circolo ermeneutico vuol dire il movimento circolare che nella
interpretazione di qualsiasi testo, letterario, filosofico, religioso, lega la comprensione della totalità del testo alla comprensione delle sue singole parti, e a sua volta condiziona l'intelligenza delle singole parti alla comprensione di tutto il testo. Si tratta certamente di un antico principio dellesegesi scritturistica, secondo cui il significato di un singolo passo della Scrittura può essere autenticamente compreso solo alla luce di tutta la Scrittura e, a sua volta, la comprensione della
Scrittura nella sua interezza viene nutrita intimamente dalla corretta intelligenza di ogni sua singola parte, in un movimento circolare che non cessa di rimandare le parti al tutto e il tutto alle parti in una dinamica di interpretazione sempre più profonda (...). Con Schleierrnacher questo antico canone dellesegesi diviene il principio errnenetiticofondamentale che regola l'interpretazione di qualsiasi testo scritto»?
8) IbicL, pp. 203205. 9) C. MURA, Ernzcneutica e zaerità. Storia e problemi della filosofia della interpretazione, Roma 1990, pp. 173-174.
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Parte terza
Siccome, come vuole il primo principio dell'ermeneutica schleierma-
cheriana, Pinterpretare costituisce l'essenza stessa del
conoscere umano,
prospettiva epistemologica il circolo ermeneutico viene ad assudi mere una portata universale: esso Vale per qualsiasi genere di ricerca, l'esela filosofia, per Conoscenza e di disciplina: per la scienza come per la morale, per diritto il come la biblica come per teologia, per per gesi l'arte come per la musica, per la storia come per la religione. Ogni ricerca ha di mira la comprensione piena (das Verstelzen in hòchsten Sinne) di in tale
avvenimenti, dati, azioni, pensieri, leggi, costumi, riti
ecc.
particolari.
Ma «la comprensione del dettaglio e condizionata dalla comprensione del tutto»;10 mentre, allo stesso tempo, la comprensione del tutto migliora nella misura in cui aumenta la comprensione delle singole parti.
d) Uinesauribilitàdell'impresa ermeneutica Il circolo ermeneutico è un circolo sempre aperto, poiché è la struttura stessa del circolo che si configura sempre come un continuo movimento che percorre all'infinito i poli opposti e l'un l'altro relativi: per quanto riguarda il testo i poli di parte—tutto, lingua-pensiero; e per quanto riguarda l'autore i poli individuale-universale, differenza-identità. Anche per questo motivo il compito della comprensione risulta infinito, poiché il senso che si vuole conseguire abita in un luogo determinato, mentre l'interpretazione a cui viene assoggettato lo rimuove dalla determinazione e lo colloca piuttosto nella sua inconseguibile destinazione all’universalità. Lo scopo che si prefigge l'ermeneutica, come sappiamo, consiste nel riuscire a tematizzarela comprensione cercando di venire in possesso di tutte le sue condizioni. E proprio perché la comprensione
vuole essere "perfetta", "vera", "fondamentale", "esatta", "completa" secondo la sequenza abilmente ricostruita da Schnur“ essa non ò uno stato acquisito una volta per tutte, ma un compito dinamico e in definitiva unicamente un "voler comprendere". Questo è dovuto al fatto che il rapporto tra parte e tutto non è un rapporto fisso, definito una Volta per sempre, ma è un rapporto dialettico, che subisce continui cambiamenti. È una specie di partita a baseball in cui il battitore non riesce mai ad avere la meglio sul lanciatore, così da porre fine all'incontro. l contesti in cui viene inserita la parte aumentano e così si allarga anche l'orizzonte del tutto. Ma qual è il tutto a cui deve fare riferimento l'interprete per cogliere pienamente il senso del testo? —
-
1°) F. D. E. ScHLEwRMAci-IER, op. ciifl, p. 217. 11) H. SCHNUR, Schleiermachers Hermeneictik und p. 172.
ihre
Vorgeschichte, Stuttgart
1994,
Schleiernzacher e la fizga verso l ’crnzencutica
395
risponde Schleiermacher è l'uomo. E per "uomo” egli inl'umanità in astratto, bensì l'autore del testo, con tutta la sua ricchezza spirituale, la sua personalità, i suoi progetti, la sua cultura, i suoi ideali. Per cogliere il senso del testo «si deve trovare l'unità dell’uomo»12 e per «trovare l'unità dell'uomo si devono conoscere determinatamente le espressioni di questa unità>>.13 Senonché il singolo autore è sempre un individuo, una monade, una parte di un mondo intelligibile,spirituale e culturale molto più grande di lui, un mondo sconfinato, infinito. La monade umana riflette a suo modo l'infinita di un mondo ristretto e secondario e pertanto irriducibile all’Assoluto. Tra la parte e il Tutto c'è sempre uno jatus incolmabile,e, tuttavia, senza una qualche "intuizione" o ”precomprensione" del Tutto l'impresa ermeneutica è destinata al fallimento. Senza una "prec0mprensione" generale della realtà, in altre parole, senza una "cosmovisione",nessuna porzione di essa risulta intelligibile. Questo è anche un postulato di tutte le metafisiche. Senonché il metafisico gioca a carte scoperte e va quindi alla ricerca (nel caso delle metafisiche induttive) oppure pone (nel caso delle metafisiche deduttive) quel principio che rende possibilela subtilitas intelligendi e la Clara explzl catio delle parti. Invece, Permeneutica di Schleiermacher non definisce mai l'orizzonte ultimo che fa da contesto al testo e al suo autore e lo lascia sempre aperto, anzi lo ritiene indeterminabilein quanto la sua linea si sposta sempre più indietro e sempre più lontano. Lmintelligibile" che funge da retroterra al ”sensibile" esiste certamente, e merita di essere ricercato, proprio al fine di conseguire la comprensione del sensibile. Ma come nel criticismo kantiano, così nella ermeneutica schleiermacheriana la seconda navigazione resta sempre in alto mare e non riesce mai a raggiungere l'altra sponda. Gadamer ha accusato Schleiermacher di soggettivismo in quanto nella sua ermeneutica privilegia il "soggetto” (l'autore) rispetto allmoggetto" (il testo) e, così, si preoccupa più dei pensieri e dei sentimenti dell'autore che della verità del testo.” A nostro avviso l'errore più grave di Schleiermacher, che è anche la causa del suo soggettivismo e relativismo, sta nella sua pretesa di elevare Permeneutica dal grado di preziosa ancella di ogni sapere al rango di regina, assegnandole il trono che prima era stato della metafisica. L'ermeneutica non è più la grande cornice in cui si inscrivono le varie scienze, metafisica compresa, bensì la sostanza stessa del sapere: Permeneutica generale coincide, come si è visto, con la "filosofia prima". Questa è Il tutto
tende
-
-
non
12) F. D. E. SCHLEIERMACHER, 0p. ciL, p. 135. 13) Ibid, 14) Ct. H. G. GADAMER, Wahrheit Imd Methodc, Tiibingen 1960, pp. 167 ss.; M. SIMON, Ijhéritage herméneutique de Schleiermacher, in "Archivio di filosofia" 53 (1984), pp. 195-224.
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Parte terza
cui gli alfieri della ”nuova ermeneutica” riconoscono in Schleiermacher il loro lontano progenitore. La decapitazione della metafisica compiuta da Kant comincia ad avere i suoi nefasti effetti. Ma la negazione della metafisica non conduce, certo, Schleiermacher alla negazione di Dio, nel quale egli continua a credere sempre fermamente; con grande zelo e con (igni mezzo Cerca di
la
ragione per
fede, in Dio e in Gesù Cristo, nei suoi contemporanei. Però, diversamente da Kant, il quale aveva cercato di ricostruire i ponti tra l'uomo e Dio attraverso la morale, Schleiermacher ritiene che l'unico ravvivare la
ponte solido sia quello della religione, proprio quel ponte contro cui gli
illuministi concentravano i loro assalti. Così Schleiermacher elabora una nuova filosofia della religione spostando le sue basi al di fuori sia della metafisica sia della morale.
ÌJESSENZA DELLA
RELIGIONE
Uno dei massimi meriti di Schleiermacher è senza dubbio quello di aver definito l'essenza della religione, distinguendola nettamente sia dalla filosofia sia dalla morale, assegnandole una facoltà specifica, che non è né la ragione (metafisica) né la Volontà (morale), bensì il sentimento. Schleiermacher, in contrapposizione al razionalismo della filosofia della religione che accettava della religione solo quanto può essere ricondotto alle verità metafisiche stabilite autonomamentedalla ragione, rivendica l'originalità e la peculiarità dell'esperienza religiosa, la quale, come mostra Schleiermacher, e essenzialmente diversa da quella metafisica. Anche se l'oggetto e identico, l'Assoluto, la metafisica si propone un compito esclusivamente speculativo, teorico: «essa classifica l'univer— so e lo distingue nelle tali e tali essenze, ricerca le ragioni di ciò che esiste e deduce la necessità del reale, svolge da sé la realtà del mondo e delle sue leggi» (Discorsi sulla religione). In tal modo però, 1’Infinito va perso, ridotto entro gli schemi finiti della spiegazione; il rapporto irrigidito che la metafisica stabilisce con l’Infinito non e adeguato perché non è immediato. Di tutt'altro genere è il rapporto che si assume con l'infinito nella religione: è un rapporto immediato, diretto. La religione è il modo soggettivo di toccare l'infinito,- l'organo della religione è il sentimento (Gefiihl) (non la speculazione, il ragionamento, la volonta). Il sentimento FClÌgÌOSCJ, dichiara Schleiermacher, è l'unico modo autentico di mettersi in rapporto con 1’Infinito, perché sa lasciarlo sussistente e incontaminato nella sua infinita. La religione tende a vedere nell'uomo e in tutte le cose particolari 1’Infinito: «l'immagine, l'impronta, l'espressione deltlnfinito» (lbid) Fondamentali per il concetto che Schleiermacher ha della religione sono due proposizioni diventate giustamente celebri:
Schleiermachere la fuga zierso l’ern1eneutica
397
1) «La religiosità non è né scienza né azione ma piuttosto una determinazione del sentimento e della immediata autocoscienza. 2) Ciò che c'è nel comune, anche nelle più differenti manifestazioni religiose, e ciò per cui queste al tempo stesso si distinguono da tutti gli altri sentimenti, in altre parole, l'essenza invariabiledella religiosità consiste nel fatto che noi siamo semplicemente coscienti della nostra dipendenza da Dio; cioè
(Ibid.). Questa è pertanto la peculiarità specifica della religione: il sentimento di radicale dipendenza nei confronti de1l'Assoluto. Questo sentimento, spiega Schleiermacher, nasce nel momento in cui l'uomo diviene Consadella nostra relazione con Lui»
pevole di se stesso e dell'universo che lo circonda. Allora egli si accorge di dipendere radicalmente da un Altro", cioè da Dio, il quale viene pertanto raggiunto non mediante la conoscenza concettuale come affermavano i razionalisti, ma per mezzo della intuizione e del sentimento: «Se l’uomo non si unisce all'Eterno nell'unità della intuizione e del sentimento egli ne resterà eternamente separato» (Haiti). Qui va ricordato che, come già in Pascal e in Kant, anche in Schleiermacher il termine ”senti— mento" assume una valenza semantica assai più ricca e profonda di quanto non abbia normalmente in italiano; non designa semplicemente uno stato d'animo gradevole o sgradevole, gioioso o penoso, bensì una facoltà di vaste proporzioni che si colloca tra la ragione e la volontà, e coglie dati distinti da quelli della ragione e della volontà. Il sentimento (Gefiihl) è un Erlebnis, un'esperienza vissuta che prende le radici del nostro essere e, pur non essendo concettualizzabile,è fortemente percepita e capita. Il sentimento religioso ha appunto il carattere di Erlebnis e consiste ne1l'avvertire la propria finitezza di fronte all'infinito, la propria precarietà e contingenza di fronte all’Assoluto, e di sentirsi dipendenti da Lui. Ed è in questo sentimento di dipendenza (Abhàîrzgzlqkeitsgefiihl) che consiste precisamente la religione. E immediatamente, secondo Schleiermacher, l'essenza della religione si esaurisce in tale sentimento (anche se poi aggiungerà che di fatto non rimane mai un sentimento indeterminato e inogettivato, ma diviene sempre determinato e oggettivato mediante qualche intuizione). Come si è detto tale sentimento sorge nel momento in cui l'uomo avverte la propria dipendenza nei confronti de1l’Assoluto: allora egli è pio, allora egli è cosciente della sua relazione con Dio. L'altro, il principio della nostra esistenza, di fronte al quale ci sentiamo assolutamente dipendenti è Dio. Ma "di fronte a chi" propriamente non può dirsi, perché il sentimento, a differenza del conoscere e del fare, non ha propriamente nessun dirimpettaio, nessun oggetto. Dio è dato come causa solo nel sentimento della sua efiicacia in noi, non altrimenti. Se si fosse dato altrimenti, in qualche modo oggettivato, allora si darebbe anche una contro-efficacia da parte nostra nei suoi confronti, e dunque libertà e dunque non dipendenza assoluta. Avremmo allora a che fare non con Dio, ma con il mondo. Dunque Dio non è dato ”
398
Parte terza
oggettivata: Dio piuttosto significa l'elemento condetermìnante nel sentimento, al quale noi rinviamo la sua determinazione di sentimento ”pio". La coscienza di Dio resta perciò “inclusa” nel sentimento, e perciò l'espressione della rappresentazione ”Dio" altro non può significare che l'espressione del sentimento su se stesso, la più immediata autoriflessione. E questo darsi in forma non oggettivabile di Dio come principio della noin forma
stra esistenza ‘e, secondo una espressa spiegazione di Schleiermacher, identico con la ‘briginaria rivelazione" di Dio. Con la sua assoluta dipendenza della sua esistenza, insita nell'uomo come in ogni essere, è data a lui come uomo l'autoscienza immediata; nell'atto del suo divenire coscienza di Dio, è dato dunque Dio, e la sua pietà è solo il progredire di questo caratteristico divenire della sua esistenza umana come tale. Radicalmente la religione consiste quindi nel sentimento di dipendenza. Di fatto però essa non si presenta mai nella forma del sentimento di dipendenza allo stato puro, ma sempre nella forma di sentimenti accompagnati da intuizioni particolari, che sono quelle che spiegano la varietà del fenomeno religioso e la molteplicità delle religioni. Infatti «intuizione senza sentimento è nulla (...) sentimento senza intuizione è pure nulla: ambedue sono qualcosa solo se e perché originariamente sono una cosa unitaria e indìvìsa» (Discorsi sulla religione). Ma in un'epoca in cui la critica della religione e del cristianesimo sta già iniziando la loro rimozione dalla cultura e dalla società, trattandoli come prodotti di un'umanità irnmatura e infantile, Schleiermacher non si accontenta di dare una precisa definizione della religione, ma si preoccupa anche e soprattutto di mettere in luce il Valore primario, fondamentale, insostituibile, il valore vitale (Lebertszivert) sommo della religione e quindi del cristianesimo, che della religione è l'espressione più alta e perfetta. La religione ‘e un Valore sommo, vicino, ma non certamente inferiore, alla scienza, all'arte, alla patria ecc. Pertanto, conclude Schleiermacher, la cultura senza religione, in particolare senza la religione cristiana, non può mai essere una cultura completa. ll pensiero filosofico, religioso e teologico di Schleiermacher trova le proprie motivazioni, ma anche i suoi limiti, in quel clima culturale romantico in cui si è sviluppato, che era un clima di reazione e rifiuto contro i presuntuosi dogmatismi del razionalismo e dell'illuminismo. Valido nella misura in cui riesce a riscattare un'attività tipicamente umana come quella religiosa (tra le più duramente colpite dagli attacchi del
dell’empirismo), il pensiero di Schleiermacher risulta in quanto riconduce questa attività alla sola attività inadeguato, peraltro del sentimento. Qui il suo errore è ancora più grave di quello di Kant. Infatti, oltre che il sentimento, all'attività religiosa è interessata anche la ragione. E solo questa è in grado di determinare Yobiettività dei Conte-
razionalismo e
nuti del sentimento religioso, ma è necessaria la metafisica.
e
per fare questo
non
basta l’ermeneutica
Schleiernzacher e la fuga verso [ermeneutica
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R.
400
Parte terza
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LA DISSOLUZIONE DELLA METAFISICA NEI VOLONTARISTI E NEI MATERIALISTI: SCHOPENHAUER, FEUERBACH, MARX E COMTE
Le vie della dissoluzione della metafisica sono innumerevoli,e possono riguardare sia i preamboli gnoseologici sia le strutture ontologiche. Infatti, la metafisica vien meno sia quando si nega alla ragione la capacità di uscire dalla caverna e di effettuare la "seconda navigazione”, sia quando si nega l'esistenza dei due mondi, sensibilee intelligibile.Dopo Kant, più che per ragioni gnoseologiche, la metafisica viene rimossa per
ragioni ontologiche. La prima rimozione della
metafisica è quella degli idealisti, i quali, come abbiamo visto, riducevano tutta la realtà al mondo intelligibilc. Ma 1’idealismo scatenò immediatamente tutta una serie di reazioni di segno opposto, che, in Vario modo, spazzano via il mondo intelligibilee riconoscono come reale soltanto il mondo sensibile. I principali artefici di questo movimento, che, intorno alla metà dell'Ott0cent0, elimina in modo ancora più drastico la metafisica, furono Schopenhauer, Feuerbach, Marx e Comte. Questi quattro affossatori della metafisica esercitarono un grande influsso sui loro Contemporanei e, specialmente Marx, anche sui posteri. Qui noi li ricordiamo non tanto per la costruzione dei loro sistemi antimetafisici, quanto per le ragioni che li hanno indotti a detronizzarc e a sopprimere la regina di ognj sapere.
Arthur Schopenhauer VITA E OPERE
Arthur Schopenhauer nacque il 22 febbraio 1788
a Danzica da famila madre il scrittrice. Nonostante l'inclibanchiere, era glia agiata: padre nazione agli studi, Schopenhauer fu costretto dai genitori a seguire la carriera commerciale. Solo dopo la morte dei padre poté riprendere gli studi presso l'università di Gottinga e poi presso quella di lena dove, nel 1831, si laureò in filosofia con la tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Nel 1819 pubblicò l'opera principale Il mondo come volontà e rappresentazione. Nel 1820 ottenne la libera docenza presso l’u-
402
Parte terza
niversità di Berlino, dove insegnò senza alcun successo sino al 1832, quando decise di abbandonare l'insegnamento e di ritirarsi a Francoforte sul Meno, dove rimase fino alla morte (1860). L'ultima sua opera, Parerga e paralipomena, venne pubblicata nel 1851 ed ebbe un grande successo.
IL VOLONTARISMO
Schopenhauer fu tra i primi critici dell’idealismo e in particolare di
Hegel. Contro la tesi esaltante il dominio assoluto e incontrastato della ragione sulla natura e sulla storia, egli evidenzia l'irrazionalità dell'esistenza umana e della storia: il male, il doiore, le guerre, le disgrazie, l'o-
dio, la vendetta, la crudeltà, ecc., e ne attribuisce la causa al governo di volontà cicca, spietata, crudele. Schopenhauer dà forma sistematica
una
alla sua visione pessimistica della realtà nell'opera Il mondo come volontà e rappresentazione, il cui titolo stesso esprime la sua intuizione di base. Muovendo dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, ma rovesciandone i significati, egli identifica il mondo dei fenomeni (della rappresentazione) col mondo della ragione, e il mondo noumenico (il mondo Vero, reale) con quello della volontà. Se Hegel aveva affermato che la realtà suprema è il pensiero e che tutto le cose, manifestazioni di quello, costituiscono un universo razionale e, in definitiva, buono, Schopenhauer rileva che l'esperienza insegna esattamente l'opposto: l'esperienza evidenzia disgrazie, malvagità, fatalità, orrori. Dunque la realtà suprema, origine di tutte le cose, non è l'idea, la ragione, il pensiero, ma una volontà cieca. È da essa che traggono origine tutte le cose e tutti gli avvenimenti; questo spiega il loro carattere completamente irrazionale. L'argomento con cui Schopenhauer prova la priorità della volontà su qualsiasi altra realtà è il seguente:
«Questa ‘volontà, ben lungi dall'essere, come ainmettevano tutti i filosofi anteriori, inseparabile dalla conoscenza e anzi puro risultato di essa, è radicalmente distinta e del tutto indipendente da questa, la quale ‘e affatto secondaria e di origine posteriore e, per conseguenza, può stare ed esprimersi anche senza di essa, come è realmente il caso in tutta la natura, da quella animale in giù; anzi, questa volontà, come l'unica cosa in sé, la sola vera realtà, il solo principio originario e metafisico in un mondo ove tutto il resto è puramente apparenza, ossia mera rappresentazione, conferisce a ogni cosa, quel che essa sia, la forza in virtù della quale essa esiste, la forza in virtù della quale essa è e opera; ché quindi non solo le azioni arbitrarie degli esseri animali, ma anche le funzioni organiche del loro corpo animato, persino
forma e natura, di più anche la vegetazione, da ultimo nello mondo inorganico la cristallizzazione sono precisamente identiche con ciò che troviamo in noi medesimi come volontà, della
la
sua
stesso
Schoperzhauer, Fezzerbach, Marx e Comte
403
quale noi abbiamo la conoscenza più diretta e intima che sia possibile (...). All'incontro la conoscenza e il suo substrato, l'intelletto, e un fenointeramente diverso dalla volontà, affatto secondario, concomitante solo ai più alti gradi di oggettivazione della volontà stessa, non importante per questa, indipendente dalla manifestazione di essa nell'organismo animale, quindi non metafisico come questa, ma fisicoml
meno
Uoriginalità della concezione schopenhaueriana non sta nell'affermazione della priorità della volontà sul resto della realtà. Già lo avevano insegnato Scoto, Occam e Cartesio; la sua originalità consiste nella caratterizzazione della volontà come forza cieca, arbitraria, tirannica e bruta-
le, e nella derivazione di qualsiasi altra realtà da essa.
Gli individui non sono altro che Yoggettivazione della volontà. L'individualità è pura illusione, mediante la quale la volontà universale tende a perpetuarsi nelle sue estrìnsecazionì. Per Schopenhauer, per raggiungere i suoi fini, negli esseri inferiori la volontà si serve dell’istinto, nell'uomo della ragione; la ragione dell'uomo è al servizio dellîrrazionalità della volontà universale, perciò la razionalità che l'uomo coglie nelle cose è puramente illusoria. La ragione stessa e un inganno della volontà universale; infatti ci illude di possedere un valore personale, ci fa credere di essere liberi, di tendere a fini personali, di ricercare la nostra felicità, e invece è la volontà universale che si serve di tutto questo per perseguire i suoi fini di conservazione e di progresso della specie umana. Anche l'amore è un inganno; l'amore di sé è l'inganno di cui la volontà si serve per la conservazione dell'individuo; l'amore sessuale è l'inganno di cui essa si serve per conservare la specie umana. Tutto quello che all'uomo appare buono, bello, piacevole, amabile è illusione e inganno: lo conferma il fatto che non riusciamo mai a raggiungere la felicità. Radice di tale inganno è l'illusione dell'individualità. Risultato della scoperta dell'inganno è il dolore, l'angoscia disperata cui non si può sfuggire nel momento in cui si avverte che questo mondo è il peggioroche possa esistere. La vita morale dell'uomo, secondo Schopenhauer, consiste nella rinuncia della propria individualità, nel riconoscersi come pura espressione della volontà universale, nell'abbandonare la pretesa di avere una propria personalità e di aspirare a una felicità personale. La Vita morale consiste nella liberazione dello
spirito dalla individualità egocentrica
mediante l'arte, la simpatia e Yascesi. La dottrina pessimistica schopenhaueriana si motiva come reazione all'idealismo hegeliano (il cui canone fondamentale "tutto il reale è razionale" appariva in stridente conflitto con l'esperienza) in nome degli aspetti irrazionali e fatalistici della realtà.
1)
A.
SCHOPENHAUER, La volontà della natura, Milano 1927, pp. 10-12.
404
Parte terza
Tuttavia, la formula opposta "tutto il reale è irrazionale" è altrettanto costrittiva e unilaterale. Infatti nelle cose si incontrano alcuni aspetti razionali e altri irrazionali: si dà il bene e si dà il male; nella realtà la ricchezza è tale che le formule semplicistiche, come quelle dellbttimismo e del pessimismo, sono assolutamente incapaci di esaurirla. L'ottimismo di Hegel (e di Leibniz) e il pessimismo di Schopenhauer sono punti di vista estremi, che manifestano ciascuno solo un aspetto della realtà. Solo la spiegazione dialettica della metafisica è in grado di fornire un quadro
completo della complessità clell’lntero.
Ludwig Feuerbach VITA E
OPERE
Feuerbach nacque a Landshut, in Baviera, il 29 luglio 1804. Nel 1823 iniziò a Heidelberg 10 studio della teologia, che poi lasciò per dedicarsi alla filosofia. Nel 1824 iniziò a frequentare i corsi di Hegel a Berlino; nel 1828 conseguì presso l'università cli Erlangen la libera docenza con 1a dissertazione De ratione una, universolis, infinita, in cui già sviluppa il suo pensiero in polemica con I-Iegel. Il carattere indipendente e Yestremismo delle sue concezioni religiose gli preclusero la Carriera accademica; questo, peraltro, gli consentì di dedicarsi con maggiore impegno alla riflessione e alla redazione dei suoi scritti. Morì a Rechemberg, nei pressi di Norimberga, il 13 settembre 1872.
principali sono: Critica della filosofia liegeliana (1839); religione (1845); Il nristero del sacrificio o l Uomo è ciò che mangia (1862); Spiritualismo e materialismo (1866). Le
sue
opere
L'essenza della
IJANTROPOCENTRISMORADICALE DI FEUERBACH
Feuerbach compie un altro passo decisivo verso la dissoluzione della metafisica colpendo a morte la religione, un'attività che con la metafisica ha moltissimi elementi in comune, tanto che già Plotino, Bruno e Spinoza avevano potuto affermare che per il filosofo la vera religione è la metafisica. Feuerbach è soprattutto un filosofo della religione; ma, decostruendo la religione e facendo di questa attività non Pautomanifestazionedel Sacro (Dio), bensì una proiezione dei bisogni e degli ideali dell'uomo, egli dissolve inevitabilmenteanche la metafisica. Il postulato basilare del sistema di Feuerbach che riguarda la risoluzione della teologia in antropologia vale anche per la metafisica: la quale viene a sua volta risolta in antropologia. In effetti, Feuerbach non elimina solo Dio, quale oggetto di culto e di adorazione, ma qualsiasi altro principio trascenden-
Schopenlzauer, Feuerbach, Marx e Comte
405
la Verità, il Bene, il Perfetto, l'Infinito, l'Assoluto, il Necessario ecc. Il loro posto viene preso da11'U0mo. Secondo Feuerbach la seconda navigazione non conduce da nessuna parte, ma approda a un porto illusorio e chimerico. La metafisica non contiene altro che "i sogni di un visionario", come aveva detto Kant. Nella sua opera principale, L'essenza del cristianesimo, Feuerbach afferil ma contro Hegel che «il fondamento della vera filosofia non è porre filofinito nell'infinito ma l'infinito nel finito», ossia che il compito della sofia non è provare che l'uomo ‘e prodotto da Dio, ma, viceversa, Dio dall'uomo: non l'idea (Dio) ha creato l'uomo, ma l'uomo ha creato l'idea (Dio). Nella risoluzione della teologia in antropologia sta la rivoluzione copernicana operata da Feuerbach. La filosofia religiosa di Feuerbach è essenzialmente uno studio dell'origine dell'idea di Dio e dei suoi attributi. L'origine della idea di Dio ha il carattere di unfipostutizzazione: l'uomo proietta tutte le qualità positive che ha in sé in una persona divina e ne fa una realtà sussistente, di fronte alla quale si sente schiacciato come un nulla o, almeno, come un miserabilepeccatore. Così, per es., l'idea di Dio come padre nasce dal bisogno di sicurezza degli uomini; l'idea di Dio fatto carne esprime l'eccellenza dell'amore per gli altri; l'idea di un essere perfettissimo nasce per rappresentare all'uomo ciò che egli dovrebbe essere; la Trinità adombra le tre facoltà supreme dell'uomo (volontà, ragione, amore) prese nella loro unità e proiettate al di sopra dell'uomo, e così via. C'è però da osservare, per intendere rettamente il pensiero di Feuerbach, che con questo smantellamento dei concetti religiosi tradizionali egli non intende sopprimere la religione, che, anzi, egli considera necessaria in quanto fa presenti all'uomo i suoi ideali. Feuerbach si propone invece di mettere in guardia contro le illusioni create dalla religione, in particolare contro l'illusione di concepire l'Essere in cui si ipostatizzano gli ideali dell'uomo come se fosse altro dall'uomo, come fosse qualcosa di esistente in se stesso. Questa è in effetti, per Feuerbach, la grande debolezza della religione, la causa di ogni errore e fanatismo. In L'essenza del cristianesimo egli afferma che il sentimento di radicale dipendenza, in cui egli, sulla scia di Schleiermachcr, ripone l'essenza della religione, va inteso come dipendenza di fronte alla natura, le cui forze sconvolgenti terrorizzano l'uomo. Per sottrarsi al dominio della natura, l'uomo ha inventato Dio, ossia un Essere cui nulla è impossibile. Dio è, quindi, la raffigurazione fantastica di un assoluto dominio della volontà umana sulla natura e di una completa soddisfazione dei desideri umani. A Dio si attribuiscono la creazione del mondo e la provvidenza proprio per affìdargli il più assoluto dominio sulla natura e quindi la capacità di volgere questo dominio a servizio degli uomini. te: l'Esse
ipsum,
406
Parte terza
L'opera
si conclude
con
la
perentoria affermazione che «la divinità
degli uomini è lo scopo finale della religione». Nei Principi della filosofia dellkzvzwenire Feuerbach teorizza il suo umanesimo assoluto quale ateismo assoluto. L'uomo completo, infatti, è colui che ha cessato di proiettare nel divino ciò che è proprio di un’infinita
possibilità di realizzazione della sua natura e non esclude da sé nulla di ciò che è umano: arte, religione, etica, filosofia e scienza. L'uomo che ha acquistato pienamente coscienza di se stesso e delle sue possibilità non
ha più bisogno né di religione né di cristianesimo. Scrive Feuerbach:
«Il cristianesimo non è più adeguato ne’ all'uomo teoretico né a quello pratico: non soddisfa più lo spirito, ma nemmeno il cuore, perché il
nostro
cuore
si interessa
a cose
diverse dall’eterna beatitudine celeste
(...). I] cristianesimo è negato: è negato nello spirito e nel cuore, nella scienza e nella vita, nell'arte e nell'industria, ed è negato radicalmente, senza scampo, ìrrevocabilmente, perché gli uomini hanno fatto loro il vero, l'umano, Fantisacro, l'hanno posto in loro stessi cosicché
al cristianesimo è stata tolta qualsiasi capacità di resistenza. Finora la negazione era incosciente. Solo adesso è o sta diventando un atteggiamento cosciente, volontario, a cui direttamente si aspira, e ciò tanto più in quanto il cristianesimo si è confuso con le forze che vogliono ostacolare quella che è l'aspirazione essenziale della umanità del nostro tempo, l'aspirazione alla libertà politica. La negazione cosciente getta le fondamenta di una nuova età, pone la necessità di una filosofia schietta, non più cristiana, decisamente anticristiana»?
Feuerbach opera unermeneutiea della religione e del cristianesimo a dischiuderne Vintenzionalità profondamente e intensamente antropologica. Così li svuota e li priva del loro significato autentico. Ma la religione e il cristianesimo rappresentano un sogno meraviglioso (la divinizzazionedell'uomo) che non deve essere distrutto. Feuerbach non reclama né predica "la morte di Dio". Semplicemente si sforza di spiegare il senso che si deve dare alla categoria del divino, quando si prende sul serio la svolta antropologica. È stato scritto che Feuerbach è il padre dell’ateismo moderno. Da lui discendono più o meno direttamente tutti gli ateismi successivi: direttamente l’ateismo vitalistico di Nietzsche, l’ateismo utopico di Bloch, l’ateismo teologico di Altizer e Hamilton; indirettamente l’ateismo socio-politico di Marx e Engels, e l’ateismo scientifico di Comte e degli altri positivisti e neopositivisti, nonché l’ateismo psicanalitico di Freud. tesa
1’)
L. FEUERBACH, Principi della filosofia dellîzzrzrenire, tr. hegeliana, Laterza, Bari 1966, pp. 308-309.
it. di C. CESA, in La sinistra
Schopenhaaer, Feuerbach, Marx e Comte
407
Karl Marx VITA r:
OPERE
Marx nacque a Treviri, in
Germania, il 5 maggio 1818, da
una
fami-
glia ebrea. Compi gli studi superiori presso l'università di Berlino dove, in un primo tempo, seguì con entusiasmo la filosofia di Hegel. Dopo la laurea (1841) si dedicò al giornalismo, rivolgendo aspre critiche ai governi assolutisti del tempo. Ne fu ripagato con frequenti perquisizioni e continue minacce di arresto. Per sfuggire alla caccia della polizia tedesca, nel 1843 si rifugio a Parigi, dove incontrò Engels e strinse con lui legami di profonda, duratura amicizia. Nel 1848, insieme a Engels, pubblicò il Mamfesto dei comunisti, una vibrante sintesi del suo programma politico. Nel 1849 fu costretto a riparare in Inghilterra. Qui fece diretta esperienza della disperata miseria in cui la grande industria aveva gettato gli operai. Tale esperienza lo scosse profondamente e divenne l'elemento animatore della sua attività di scrittore e di agitatore politico. Nel
1864 convocò a Londra la Prima Internazionale, per coordinare l'attività proletariato di tutto il mondo. Nel 1867 diede alle stampe il primo volume del Capitale (gli ultimi due furono pubblicati postumi da Engels). Morì il 14 marzo 1883. Le opere principali di Marx, oltre al Capitale, sono: Critica della filosofia
rivoluzionaria del
Iiegeliana del diritto (1843); Manoscritti economico-filosofici (1844); Tesi su Feaerbach (1845); Miseria della filosofia (1847). Tra gli scritti composti in collaborazione con Engels meritano di essere menzionati, oltre al Manifesto dei conzunisti, La sacrafamiglia (1845); L'ideologia tedesca (1846). IJALIENAZIONE RELIGIOSA E
IL MATERIALISMO STÙRlCO-DIALETTICO
Per la metafisica Marx, come il suo maestro Feuerbach, direttamente mostra alcun interesse. Indubbiamente, la metafisica fa parte delle molteplici sovrastrutture di una società (insieme al diritto, alla morale, alla religione, alla politica, all'arte, alla educazione ecc), ma non è affatto una struttura vitale e fondamentale, qual è invece la religione, che svolge sempre un ruolo decisivo nel cammino della storia e nelle trasformazioni della società. Però radendo al suolo la religione, Marx sotterra inevitabilmentela metafisica, e in effetti al posto di una cosmovisione metafisica egli pone una cosmovisione materialistica storico—dia-
non
lettica, che non può essere che una visione immanentistica.
appropriarsi della teoria di Feuerbach sull'origidella religione e a utilizzarla in senso apertamente ateistico. Egli infatti non si limita a negare Dio come aveva fatto Feuerbach, ma vuole porre fine anche alla religione. Questa a suo giudizio non può contribuiMarx fu il primo ad
ne
408
Parte terza
in nessun modo alla elevazione e alla realizzazione dell'uomo, perché è essenzialmente uno strumento di oppressione di cui si servono le classi dominanti a danno delle classi inferiori. La religione è ”0ppio del popolo”. Perciò la sua critica della religione, della Chiesa e del cristianesimo è molto più ferma e radicale della critica di Feuerbach. In Marx la critica della religione «perviene all'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, asservito, abbanre
donato, spregevole»?
Nella Questione ebraica leggiamo: «La religione per noi non costituisce il fondamento, bensì il fenomeno della limitazione mondana. Per questo, noi spieghiamo la soggezione religiosa dei liberi cittadini non la loro soggezione terrena (...). Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti terreni. Noi non trasformiamo le questioni terrene in questioni teologiche. Trasformiamo le questioni teologiche in questioni terrenewî Ancora più perentorie e più esplicite le dichiarazioni che Marx pre-
nella Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto, dove si dice tra l'altro:
senta
«La religione è la ancora
essere
consapevolezza e la coscienza dell’uomo che non ha acquisito o ha di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un
astratto, isolato dal mondo. L’uomo è il mondo dell'uomo, lo
Stato, la società. Questo Stato, questa
società producono la religione, coscienza capovolta del mondo, proprio perché essi sono un mondo capovolto. La religione e la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point dfihonnettr spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione una
morale, il suo completamento solenne, la sua fondamentale ragione di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una vera realtà. La lotta contro la religione è quindi indirettamente la lotta con-
quel mondo del quale la religione è l'amore spirituale (...). La religiosa è a un tempo espressione della miseria reale e protesta contro di essa. La religione è il gemito delloppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è loppio del popolo. La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della tro
miseria
sua vera
felicità».5
3) K. MARX, La questione ebraica, Roma 1966, p. 82. 4) lhiii, pp. 81-82. K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 57-58.
Schopenhauer, Feuerbaclz, Marx e Comte
409
Nelle opere di Marx abbondano anche i passi in cui egli denuncia le Chiese e loro rappresentanti come alleati dei governi, delle classi privilegiate, dei padroni, in cui mette a nudo le loro colpe e le loro miserie, e ne invoca la soppressione. Ma dalfinsieme dei suoi scritti risulta che per Marx i nemici dell'uomo non sono i preti e le Chiese, bensì la religione in quanto tale. È proprio la religione nella sua essenza più pura, e non nelle deviazioni dei suoi rappresentanti, che costituisce l'ostacolo principale della promozione umana, alla liberazionedell'uomo, alla conquista della sua maturità. Marx ha anche buone ragioni metafisiche (il materialismo storico e dialettico) per negare la religione, ma le ragioni decisive sono di natura sociale e politica. Marx vede la religione con gli occhi del sociologo e del
politica; è una strutpuò essere eguadi ci ci non non essere diritti, sociale, parità può essere comuglianza può nismo finché resiste la religione. Questa, infatti, secondo Marx, difende lo status quo, si oppone alla lotta di classe, predica l'amore e il perdono, anziché la giustizia e la rivoluzione, procrastina la soluzione dei problemi di questo mondo a un altro mondo. Perciò per risolvere i problemi sociali e politici e realizzare il disegno di una ‘società senza classi” occorre sopprimere la religione; occorre imporre e praticare l'ateismo. Così Marx diviene il padre dell’ateismo socio-politico, cioè di quella forma di ateismo che con Lenin diventerà lo strumento ideologico principale per attuare la ”dittatura del proletariato" e per preparare l'avven-
politico:
è una struttura della società a servizio della tura alienante e uno strumento di oppressione. Non ci
to delle "società senza classi".
Si è spesso parlato di ingredienti cristiani e persino di ”un’anima cristiana” del pensiero marxista: alcune categorie fondamentali del marxismo sarebbero categorie cristiane, per es. i concetti di alienazione (peccato), di salvezza, di liberazione, il senso escatologico della storia ecc. Si è detto che Marx avrebbe conservato l'idea centrale della storia, secondo la concezione ebraico-cristiana, come ”storia della salvezza” (Heilsgesclzichte), e della interpretazione della storia, come ”dottrina della salvezza” (Heilslehre) nel suo senso escatologico di rivoluzione della storia nella società socialista come ”società senza classi”.6 Ma noi siamo perfettamente d'accordo con C. Fabro quando afferma che «il marxismo è "strutturalmente” ateismo
e
nel
senso
più
forte
e
secondo tutte le dimensioni o direzioni intenzionali che si possono in
esso delineare: come immanentismo, radicalmente, e quindi come sensualismo e antropologismo, come materialismo dialettico e storico, come umanesimo scientifico, tecnico ed economico... o che altro si
f‘)
Cf. K. LOEWITH, Weltgesclzichte zmd Heilsgescheia, Stuttgart 1953, pp. 42 s.
41D
Parte terza
voglia. Si può affermare anzi, almeno è questa la convinzione a cui siamo giunti risalendo al fondamento o ai fondamenti (poiché sono più d'uno) del marxismo, che esso potrebbe modificare anche profondamente le proprie dottrine economiche ma non potrà mai rinunciare all’ateismo nel senso che è stato indicato, poiché esso coincide e si identifica (come "formula negativa") con la nuova concezione del-
l'uomo che è Fumanesimo positivo e costruttivo. ll principio fondamentale del pensiero moderno che fa scaturire dall'uomo e non dall'essere stesso il fondamento della verità e del valore ha avuto nell'ultimo secolo svariate "risoluzioni" atee: questo fatto se attesta da una parte l'ambiguità del principio di immanenza e quindi la polivalenza antitetica dei suoi sviluppi e delle sue conclusioni di razionalismo, -
empirismo, idealismo, materialismo, positivismo e neopositivismo,
pessimismo, titanismo, pragmatismo, esistenzialismo
...- afferma anzitutto lfiateismo come presa di possesso che l'uomo ha fatto di sé mediante il principio di immanenza. L’ateismo perciò non è più un problema né per Marx e i giovani hegeliani, né per il pensiero contemporaneo: è un fatto acquisito e sta come un punto di partenza»?
La tesi fondamentale dell'ateismo socio—politico di Marx è che la religione è una sovrastruttura della società classista. Ora, questa tesi è falsa ed è stata solennemente smentita dalla fenomenologia della religione e
dalla sociologia. Queste hanno mostrato che la religione non è una s0vrastruttura, bensì una struttura, una dimensione fondamentale non solo dell'essere personale ma anche dell'essere sociale. I fenomenologi e i sociologi hanno ampiamente dimostrato che nelle società tradizionali la religione è la struttura portante che permea, feconda e sostiene tutte le altre strutture, e che nelle società più progredite, allorché la religione diviene una struttura specializzata, il suo compito rimane sempre essenziale, in quanto spetta alla religione garantire un solido fondamento ai principi della morale e ai valori assoluti.“ Un altro errore dell’ateismo marxista, derivato da Feuerbach «è di considerare il concetto di Dio come un'illusione psicologica e di ricondurre il monoteismo a un "precipitato" del politeismo, mentre in realtà si tratta di stabilireil primo Principio dell'essere e l'ultimo Fondamento della verità o della giustizia senza il quale l'uomo non può essere uomo»?
7) C. FARRO, Introduzione allnteîsnzo moderno, Studium, Roma 1969, pp. 772-773. F‘) Questa verità è stata apertamente riconosciuta anche dal Presidente dell'URSS, Michail Corbaciov, nel discorso tenuto in Campidoglio il 30 novembre 1989. «Ci
Vuole una rivoluzione della coscienza» ha affermato il leader sovietico una svolta in cui «i Valori morali che la religione ha elaborato e portato in sé, possono servire e già servono alla causa del rinnovamento, anche nel nostro Paese». C. FABRO, 0p. cit., p. 775. —
9)
-
Schopcnhaaer, Feuerbach, Marx e Comte
411
Ma a monte di tutti gli errori dell’ateismo marxista (come del resto di tutti gli ateismi) c'è un concetto errato dell'uomo, e nel caso specifico di Marx l'errore è triplice: 1) la subordinazione dell'essere personale (dell'individuo) all'essere sociale (la società, con le terribili conseguenze di tale subordinazione, attestate dai campi di concentramento, i gulag, i
lager ecc.); 2) la subordinazione della dimensione dello spirito a quella della materia, dell'ironia sapiens all'arma) faber, dell'anima al corpo (col tentativo di soffocare i bisogni spirituali dell'uomo, bisogni insopprimibili);3) negazione della creaturalità dell'uomo con la conseguente elimi-
nazione del Creatore, dellflàssoluto, del Totalmente Altro, di Dio, e l'affermazione prometeica dellassolutezza dell'uomo (affermazione smentita quotidianamente dal fenomeno della morte).
Auguste Comte VITA E OPERE Comte nacque a Montpellier il 19 gennaio 1798 da genitori cattolici, ma perdette la fede quand'era ancora molto giovane, Studiò all'Eeole Polytechnique di Parigi, dove più tardi tornò come docente, e dalla quale in seguito fu espulso per le sue idee. Per qualche tempo fu condisce— polo e collaboratore di Saint-Simon, dal quale apprese l'interesse per la sociologia e la storia, ma poi, per divergenze di opinioni, si staccò da lui. Nel 1830 incominciò la pubblicazione del Corso di filosofia positiva, un'opera in sei volumi (che terminò nel 1842), in cui sviluppava una nuova scienza della umanità. Nel 1826-1827 era stato afflitto da una grave crisi nervosa tanto che cercò di togliersi la vita. Più tardi, nel 1845, ebbe una seconda crisi nervosa e nel frattempo si legò a Clotilde De Vaux, che però la morte gli porto via dopo poco tempo, nel 1846. Da questo legame trasse l'ispirazione per una religione mistica umanitaria che presentò in Sistema di p0litica positiva o trattato di sociologia che istituisce la religione dellîinzanità, pubblicato in quattro volumi dal 1851 al 1854. Era la sua seconda grande opera dopo il Corso di filosofia positiva. Nel 1852, per meglio far conoscere la sua "religione della umanità", pubblicò il Catechismo positivista. Nel Calendario positioista (1856) stabilivale regole e le festività del culto della nuova religione, che ricopiava esattamente il cattolicesimo, mettendo l'umanità al posto di Dio. Questa sua linea misticheggiante fu però rifiutata dalla maggioranza dei suoi discepoli, che erano numerosi sia in Francia che in altri paesi europei. Morì a Parigi nel 1857, mentre era intento a comporre la Sintesi soggettiva, un'opera in cui si proponeva di offrire una sintesi completa di tutto il sapere scientifico.
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Nell'elenco delle opere di Comte, oltre a quelle già menzionate figura anche il Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società
(1822).
IL SUPERAMENTO DELLA METAFISICA MEDIANTE. LA SCIENZA Il superamento e l'eliminazione della metafisica può avvenire in tre modi principali: dichiarando che la metafisica è impossibile0 che ò falsa 0 che è superata. Che è impossibile l'hanno sostenuto Hume e Kant, dichiarando che la ragione non è in grado di compiere la ”seconda navigazione”; che è falsa l'hanno affermato Feuerbach e Marx, asserendo che la metafisica si aggrappa a realtà inesistenti e illusorie; che è superata ha cercato di dimostrarlo Auguste Comte. Comte ‘e un discendente deltilluminismofrancese. Come tutti gli illuministi egli ripone la massima fiducia nella ragione. Inoltre nutre una grande ammirazione per i successi della scienza, alla quale si devono tutte le grandi conquiste che hanno consentito all'umanità di progredire rapidamente ed enormemente e di diventare sempre più padrona della natura. I successi della scienza, secondo Comte, sono dovuti al suo metodo: il metodo positivo, che ha nell'esperienza un criterio infallibile.Questo metodo non si basa su principi astratti, bensì su fenomeni concreti, reali, controllabili,e soltanto di tali fenomeni accerta le leggi universali. Ma alla spiegazione scientifica della realtà Fumanità è giunta soltanto al termine di un lungo processo di evoluzione e maturazione. A questo riguardo Comte introduce la sua famosa ”legge dei tre stadi”, per la quale il progresso della società umana e del sapere si è svolto e si svolge ognora, anche per le singole istituzioni e scienze, in tre fasi: stadio teologico, stadio metafisico e stadio scientifico. Soltanto il terzo stadio, proprio dell'epoca della scienza, è "positivo", cioè rappresenta un progresso
realmente acquisito e innegabile.
I tre stadi sono caratterizzati dal predominio di una forma mentis, che corrisponde alloggettivazione di momenti soggettivi del sapere: il mito, la ragione, l'esperienza. Ogni progresso umano è quindi dovuto passare e deve sempre passare per questi tre stadi, e condurre con l'ultimo, nella forma della scienza. Comte trasse la prima idea di questa triplice ripartizione del sapere dalla teoria delle epoche storiche progressive elaborata nel secolo XVIII. Il Vico per primo le aveva definite come il corso e ricorso delle nazioni attraverso una "età degli dei” che ha per legge l'istinto e il senso; una ”età degli eroi", la quale ha per categorie la fantasia mitologica e la forza passionale, e un'“età degli uomini" che attua la ragione e il diritto. I Principes dîme philosophie de l'histoire secondo il testo della Scienza Nuova Vennero
Schopenhauer, Feuerbaclz, Marx e Comte
413
fatti conoscere ai Francesi da Iules Michelet soltanto nel 1827. Tutta la storiografia francese del Settecento è per altro, da Voltaire a Condorcet, impegnata a delineare nella vita dell'umanità fasi di barbarie e di civiltà,
fasi di decadenza
e di progresso. E il Romanticismo inglese e tedesco, da Herder e Schiller a Schelling e Hegel, è pervaso dal problema della distinzione del primitivo e del colto, dell'uomo intuitivo e dell'uomo razionale. Il Saint-Simon, maestro di Comte, distingueva nella storia una successione continua di ”epoche storiche” ed ”epoche critiche", cioè di epoche di formazione e di ricostruzione, e di epoche di revisione e di rivoluzione. Con tutti questi precedenti (ultimo e pure vicino quello della triade hegeliana, teorica e storica insieme, di arte-religione-filosofia)la legge comtiana dei tre stadi ha questo di nuovo: che essa li definisce oggettivamente, come momenti progressivi del sapere, in confronto dello stadio definitivo, scientifico, e attribuisce loro l'organizzazionee la determinazione non solo della società umana, ma delle forme storiche della scienza. Nello stadio teologico il sapere umano è ingenuo e spontaneamente credulo: esso forma dei miti, e determina idoli e feticci, ricavati da esperienze soggettive, e spiega quindi i fenomeni della natura con linguaggio antropomorfico. La superiorità dei fenomeni naturali sulle manifestazioni dell'uomo dà luogo alla superstizione, che progredisce nella credenza in esseri divini, autori e arbitri di quei fenomeni. Il culto delle divinità è la conseguenza di questa visione del mondo, e il sacerdozio che lo esercita esige che la società assuma ordinamenti teocratici. Lo stadio teologico è ”fittivo" (finzionistico),perché la forma di conoscenza da esso preferita è l'immaginazione: il sapere è rivolto, in esso, alla ricerca di cause ultime dei fenomeni nella natura stessa, ma tutte le Cause, anche quelle, sono poste nell'opera di agenti soprannaturali e volontari. La forma teologica raggiunge la sua perfezione quando questi agenti divini sono ridotti dalla religione a un unico dio. Nello stadio metafisico prevale la ragione come potere di astrazione: le cause dei fenomeni si cercano anche, e nei principi e nei fini, fuori della natura sensibile, e sono rappresentate da enti astratti, da forze concepite per astrazione ma entificate, quasi personificate; alle quali viene attribuita, e distributivamente, la produzione dei fenomeni. Il controllo della cultura e i poteri sociali direttivi vengono ora a spettare a gerarchie rappresentanti tali astrazioni, come la società feudale e gli ordini cavallereschi. La concezione della Natura come un sistema unico di principi metafisici e l'ordinamento della società sotto un potere assoluto rappresentano la forma più progredita dello stadio metafisico. «Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l'impossibilitàdi ottenere delle nozioni assolute, rinuncia a cercare l'origine e il destino dell'universo, e a conoscere le cause intime dei fenomeni, per dedicarsi unicamente a scoprire, con l'uso ben Combinato del ragiona-
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mento e dell'osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabilidi successione e di similìtudine>>gmNon è posto più niente, in ciò, di superiore ai fenomeni, se non la ricerca dei loro rapporti con alcuni fatti generali, che potrebbero anche ridursi a uno solo; l'unica forma di astrazione concessa è la misura matematica; la forma sociale conseguente al libero sviluppo della scienza e al suo impiego come criterio di
vita
pratica è la democrazia.
storia e della coscienza nelle loro proiefu presentata da Comte sotto vari ed epistemologiche oggettive diversi anche che determinarono atteggiamenti culturali del posiaspetti, tivismo. Il suo primo significato era puramente progressivo e critico: la scienza sostituisce la metafisica, come questa aveva sostituito la teologia, nel dominio della civiltà, ed elimina i residui del passato che esse rappresentano. L'orizzonte della scienza pura, libera da miti e astrazioni entificati, è l'ideale del sapere e della vita. La stessa esigenza di una trattazione della filosofia in generale, oltre la sintesi del sapere scientifico, o di una filosofia dello spirito, oltre la psicologia fisiologicamente interpretata, è un residuo di metafisica e di teologia. La società democratica, governata dalla scienza, si afferma analogamente vincendo Faristocrazia e la teocrazia e sostituendole definitivamente nella storia. Un atteggiamento acristiano, anzi areligioso, e in processo di tempo una tendenza polemica anticlericale erano le conseguenze più vicine di quella prospettiva. Il sistema dei tre stadi non era pero soltanto di indole metodologica e culturale: era anche un sistema storico. Sotto questo punto di vista esso riconosceva forme intermedie e persistenti dei tre stadi principali: momenti teologico-metafisici, come il monoteismo classico, e momenti metafisico-positivi, come la filosofia cartesiana; e riconosceva già nell'ambito della teologia e della metafisica dei progressi acquisiti, come l'abitudine di unificare l'esperienza e la capacità di analisi e di critica. Comte non riteneva, inoltre, che il positivismo dovesse passare all’ateismo né all’anarchia (come fecero alcuni dei suoi seguaci), ma solo sostituire la fede in un creatore e reggitore personale del mondo, e la teoria della dipendenza della Natura da una causa volontaria e intelligente, con l'ipotesi di un disegno costitutivo dell'universo secondo leggi fisse e ordine costante, che pur sempre era da ritenere più probabile di quella di un meccanismo cieco e fatale. Dopo la rivoluzione del 1848, il Comte venne a considerare invece le tre forme definite dagli stadi storici come forme trascendentali, condizionanti il processo evolutivo della società: esse quindi, pur mantenendo sempre il differente valore che hanno dimostrato nella storia, si ripresentano anche l'una accanto all'altra per integrarsi. Ciò spiega come il
Questa visione trifasica della
zioni
1")
Cours de
Philosophiepositiva, t. I, lecon le; t. VI, lecons 55'357?
Schopenhauer, Feuerbach, Marx e Comte
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già il sapere teologico e metafisico ad aspetti positivi, ma soprattutto come compaiano ancora nello stadio positivo, pur affermandosi senza restrizione l'ideale della scienza pura, la religione come tradizione promotrice di buoni costumi e la metafisica come filosofia storicista ed evoluzionistica precorritrice della sociologia. Il positivismo, per coerenza alle sue finalità scientifiche, chiedeva però, per ammettere la convivenza nella pratica, che la teologia e la metafisica si accordassero con la scienza: anche per reagire alla tendenza spontanea (e positiva) del loro ritorno nelle forme più primitive sopravviventi (feticismo) e più contraddittorie (dialettica). Comte quindi fondò, per accompagnare religione e scienza, una "religione positivista”, desiderio della scienza muovesse
assumere
consistente nella venerazione e nellimitazione dei grandi eroi dell'umanità, compresi i fondatori delle grandi religioni e delle grandi dottrine, e avente la propria unità metafisica nell’idea del ”Grand Etre", che è il genere umano concepito come un tutto continuo di esistenza infinita, e il suo feticcio nella Terra, e i suoi sacerdoti nei filosofi positivisti: con un "catechismo" per l'istruzione del popolo secondo gli stessi concetti teorici e sociali del positivismo. La sua formula era: «l'amore per principio, l'ordine per base, e il progresso per fine». Questa ”religione senza teologia" doveva dare origine a una fede in verità dimostrate, anziché soltanto dimostrabili. Finalmente, nella formula conclusiva della ”sintesi soggettiva", ma da molti ritenuta frutto di decadenza, Comte pensò a un sistema di equilibrio delle tre funzioni, teologica, metafisica e scientifica, del sapere umano, ridotte alle loro espressioni più perfette e più reciprocamente conciliabili(coscienza della personalità umana, ontologia, metodologia sperimentale). Questo equilibrio avrebbe dovuto integrare il progresso delia storia in una forma di perfezione finale, non più progressiva, ma anche non più regressiva. Senonché, come si vede da queste conseguenze, l'esigenza trascendentale dei tre stadi rimane identificata essa stessa con uno stato di fatto. La concezione della scienza rimane costante in tutto il pensiero del Comte. Essa svolge in atto il tema fondamentale della filosofia positiva, lo studio dei fenomeni nella loro dipendenza da leggi naturali invariabili, da determinarsi con precisione e da ridurre al minimo numero (principio delle leggi) a esclusione di ogni ricerca metafisica e teologica di cause prime o finali. «La vera scienza consiste nelle relazioni esatte stabilitetra i fatti osservati, affine di dedurre, dal minor numero possibile di fenomeni fondamentali, la più estesa derivazione di fenomeni secondari».11 La scienza adempie in questa funzione a un doppio compito: quello soggettivo, di trovare nelle leggi della natura le stesse leggi dello spirito
11) Ibid, t. III, lec. 359 (1935).
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umano, eliminando ogni differenza di
metodo tra le conoscenze psicolo-
giche e la filosofia naturale, e di riordinare tutti i programmi e i metodi
della cultura e dell'educazione in rapporto alla natura dell'uomo e all'ordinamento del sapere scientifico; quello oggettivo, di promuovere il progresso delle scienze particolari, in senso sperimentale, e di esigere il riordinamento e la riforma della società in relazione allo sviluppo dello stesso sapere scientifico, in quanto esso ha un potere di organizzazionee
riorganizzazionedella vita umana. La direttiva principale della scienza è sempre quella dello "spirito positivo", che ha ispirato la formazione e l'affermazione della scienza
moderna. Esso si riconosce nell'avere superato la critica, che è propria dello spirito metafisico e alla quale spetta l'avere disciolto l'ordine delle idee teologiche; e nell'avere subordinato l'immaginazione all'osservazione dei fatti e all'induzionedi leggi invariabili,accettando l'ordine dei fenomeni come oggetto del sapere e dell'azione. Lo sviluppo dello spirito positivo è relativo all'organismo umano e alla sua organizzazione pratica, che ne devono sostenere lo sforzo fisico, mentale, economico; e quindi ‘e relativo anche all'evoluzione sociale e alla forma di civiltà in cui fiorisce la scienza. Non deve superare questa relatività col cercare dei risultati assoluti, ma regolarla con la formazione di una "armonia mentale", che costituisce la vera soggettività e la vera sintesi della scienza dal punto di vista teoretico e dal punto di vista pratico. Nella teoria, l'armonia mentale produce l'equilibrio delle nozioni scientifiche considerandole, in termini simmetrici, nel loro aspetto statico e dinamico, e nella loro evoluzione storica e nella sistematica dottrinaria (dogmatica). E genera un ordine intrinseco delle leggi naturali da noi conosciute, determinandone la continuità e riducendole a leggi e concezioni più generali e "omogenee", cioè riferite a dati e principi costanti. Questordine dell'armonia mentale è destinato a superare l'unità intellettuale costruita in passato dalla teologia e dalla metafisica, anche nel loro maggiore sforzo sistematico, sulla base del positivismo, con l'organismo logico della solidarietà che sorge fra le singole scienze e in favore delle ricerche speculative. L'armonia mentale ha la sua unità nelfidentità fra la logica in atto e la scienza consapevole dei suoi interessi universali, identità che produce in Comte una idealizzazione continua del sapere fattuale nella sua forma scientifica. L'esigenza della "realtà" della conoscenza scientifica (che nella prospettiva relativistica del positivismo prende il posto del problema della ”verità") limita tuttavia il potere soggettivo dell'armonia mentale. L'intelligenza umana tende a concatenare i fenomeni in rapporto a forme invarianti, e a classificarli secondo tipi di esistenza ritenuti indipendenti dal soggetto. L'analisi delle conoscenze scientifiche, e del mondo fenomenico da esse conosciuto, dimostra però che la validità di quelle è nella
Schnpenhaucr, Feuerbach, Marx e Comte
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all'ordine e al sistema della scienza, e che l'oggettività di questo è plurilaterale e irriducibilealla unità assoluta di una sola legge positiva. Noi applichiamo «una ben debole intelligenza a un universo
loro
coerenza
assai
complicatomu Tuttavia questa necessaria limitazione della scienza
impedisce né di costituire, mirando a convergenze e omogeneità determinate, una certa unità filosoficadelle "scienze" analoga e sostitu-
non
le
quella a cui tendevano la teologia e la metafisica; né di stabilire una Corrispondenza armonica tra le leggi formali (matematiche) del pensiero e le leggi fisiche dei fenomeni, e tra le leggi soggettivamente considerate (secondo la distinzione kantiana) e i fenomeni come oggetti di esperienza. La verità scientifica è in questa armonia sub-obbiettiva del sapere, e il suo massimo grado è nella "previsione" dei fenomeni, neltesattezza dell'anticipazione della scienza sui propri dati. Dal punto di vista pratico, l'armonia mentale regola lo sviluppo della tiva di
vita attiva in conformità al suo ordine naturale. Questo deve essere conosciuto a fondo per potervi appoggiare o adattare la nostra condotta, o anche modificarlo a suo vantaggio. Ciò richiede armonia fra la scienza e l'arte, fra conoscenze teoriche e Conoscenze pratiche, tra le previsioni che noi possiamo fare e le azioni che noi possiamo svolgere verso la natura. L'arte è questo grande principio umano di applicazione e modificazione del risultato della scienza secondo le esigenze dell'umanità: le sue più alte manifestazioni, per Comte e poi per tutti i positivisti, non sono tuttavia soltanto di ordine tecnico, ma di ordine morale e politico (per esempio nell'educazione e nell'economia). Si potrà raggiungere così una piena armonia tra la vita speculativa e la vita attiva, armonia che è «il più felice privilegio dello spirito positivo». Considerata invece nella sua armonia interiore, la scienza presenta sei grandi categorie del sapere, alle quali corrispondono altrettante categorie di conoscibilitàscientifica dei fenomeni. Esse sono: la matematica, conoscenza delle relazioni quantitative; l'astronomia, conoscenza dei fenomeni celesti; la meccanica, conoscenza dei movimenti dei corpi; la fisica, conoscenza dei fenomeni terrestri, inorganici e organici; la psicologia, conoscenza dei fenomeni coscienti; la sociologia o "fisica sociale", conoscenza dei fenomeni della vita associata. Le prime cinque, dopo la lunga stagnazione d.ello stadio teologico e metafisico, secondo Comte, sono già pervenute allo stadio positivo. Soltanto la sociologia non è ancora stata elaborata: ecco «la grande lacuna che si tratta di colmare per costituire la vera filosofia positiva». Essa deve costituirsi nella forma di scienza rigorosa; nelle attese di Comte, la sociologia unifica e rigenera l'umanità a patto che diventi un corpo dottrinale imponente come il
W)
Discours sur [Esprit positif, 19 Partie, g IV.
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[Jarte terza
dogma cattolico nell'epoca teologica. Tale è l'obiettivo che egli cerca di conseguire mediante uno "studio sistematico dell'umanità", uno studio che lo porta alle seguenti conclusioni: 1) l'umanità è "il grande essere" in quanto “insieme degli esseri passati, futuri e presenti che concorrono
liberamente a formare l'ordine universale"; 2) l'umanità ‘e, pertanto, anche il valore supremo: al di sopra dell'umanità non esistono altri Valori, né metafisici, né religiosi; 3) l'umanità è, quindi, l'unico dio che sia meritevole del nostro culto e della nostra adorazione; 4) ciò non significa che la religione deve scomparire, ma soltanto che deve cambiare oggetto: nello stadio positivo, scomparso il Dio trascendente, la religione indirizza i suoi riti al dio immanente, l’Umanità. Nella prima parte della sua carriera, Comte aveva lavorato soprattutto come filosofo. Poi il nuovo Aristotele si era mutato in un nuovo S. Paolo, per condurre a termine l'edificio. Ecco come egli stesso si esprime nel Sistema di politica positiva: «Ho sistematicamente votata la rnia vita a trarre dalla scienza reale le basi necessarie della sana filosofia, secondo la quale io dovevo in seguito costruire la vera religione». Egli fu, dice ancora, «colui che il Grande Essere incarico di istituire la Vera religione». Dopo di essere «nata come una semplice filosofia, destinata solo a stabilire un'armonia reale e durevole tra tutte le nostre sane concezioni logiche e scientifiche», ”la religione dell'Umanità" si è svelata, e una volta che essa ebbe pienamente assicurato allo spirito «le normali soddisfazioni richieste dalla insurrezione moderna» essa l'ha «liberamente ricondotto sotto il giusto dominio del cuore». Così, finalmente, l'immenso sforzo di tutte le generazioni trova in Comte il suo coronamento. Egli riesce ad assorbire, per realizzarli epurandoli, «tutti i programmi che l'Umanità si è proposti». Pertanto la religione non viene eliminata da Comte ma con lui raggiunge il suo effettivo inveramento, mediante la scoperta di quello che è l'unico oggetto meritevole di culto e di adorazione, l'Umanità. Contrariamente a quello che hanno potuto pensare osservatori superficiali, l'uomo, nel corso della storia, è divenuto "sempre più religioso": questo è il riassunto generale della evoluzione umana, questa è anzi "l'unica legge”. Dopo il periodo delle lontane preparazioni, l'Occidente, da venti secoli, cercava a tentoni «la religione universale, impotente a rinunciare a questa religione, come a stabilirla»: ecco
che l'ha finalmente trovata.
Comte a questo proposito come abbiamo già notato non si accontenta di qualche vaga indicazione, ma delinea con dovizie di particolari il culto positivistico dell'umanità. Stabilisce un calendario positivista in cui i mesi, le settimane e i giorni sono dedicati alle maggiori figure della religione, della filosofia,dell'arte, della politica, della scienza e della letteratura. Propone persino un nuovo "segno" in sostituzione del segno della Croce dei cristiani: «Dogmi e pratiche; cerimonie e sentimenti inti-
-
Schopenhauer, Feucrbach, Marx e Comte
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mi: il fondatore tutto ha minuziosamente previsto e regolato. Questo S. Paolo fu anche un nuovo Mosè».13 Costruito sullo scientismo, l'imponente sistema filosofico-religioso di Auguste Comte riscosse vasti consensi e trionfo durante la seconda metà
nuovo
dell'Ottocento. Non solo in Francia, ma anche in vari Paesi dell'Europa e dell'America Latina, oltre che scuole positiviste, sorsero anche Chiese che praticavano il culto dell'Umanità secondo il credo comtiano. Soprattutto
la Massoneria riconobbe in Comte il Suo novello Mosè. Ma già nei primi decenni del Novecento, l'ambiziosoedificio costruito da Comte palesi) tutta la sua fragilità e inconsistenza quando Boutroux, Iames, Bergson, Husserl ecc. mostrarono i limiti e la fallibilitàdella scienza. Essi provarono con argomenti irrecusabili che tutte le premesse epistemologiche del positivismo erano false. Infatti non si dà un'unica forma di sapere, quello scientifico, né un unico tipo di scienza, quella sperimentale, né un'unica specie di metodo, quello positivo, come affermava Comte, ma i saperi sono molteplici, come pure le scienze e i metodi. Sapere, scienza e metodo non sono termini univoci ma analoghi, e variano proporzionalmente in conformità con la natura degli oggetti a cui si applicano. L'errore gravissimo in cui sono Caduti Comte e i suoi seguaci è di avere esagerato la portata del metodo scientifico e di avere preteso di applicarlo non solo al mondo della quantità e della materia, ma anche a quello della qualità e dello spirito. Più tardi gli epistemologi (Bachelard, Kuhm, Popper ecc.) mostreranno che non solo la scienza (in tutte le sue forme ed espressioni) non è onnisciente e onnipotente, e non può pertanto pretendere di risolvere tutti i problemi che assillano la mente umana, ma la scienza è incapace di garantirsi le sue stesse basi e conserva sempre un carattere ipotetico: la scienza è sempre falsificabile. Per quanto attiene la metafisica è vero che per molti secoli essa ha svolto un ruolo di supplenza rispetto alla scienza, quando questa non disponeva ancora di un proprio metodo e di strumenti di ricerca e di controllo adeguati. Ma, con l'avvento della scienza questa funzione di supplenza della metafisica è cessata. Su questo punto Comte aveva perfettamente ragione. I1 suo errore è di avere fatto assumere alla scienza
funzioni che
non le competono e che sono proprie esclusivamente della metafisica, come la giustificazione e la fondazione dei principi primi su cui si regge la scienza e, inoltre, la conoscenza dell’Intero e non soltanto
di settori particolari della realtà. Solo la metafisica è fondativa di tutto il sapere e soltanto la metafisica può aspirare a fornire una conoscenza globale ed esaustiva della realtà: soltanto essa è scienza del Principio Primo ed è scienza de1l'Intero. Nessuna scienza possiede i remi e le vele per effettuare la ‘Îseconda navigazione”. Di questi mezzi è in possesso soltanto la metafisica.
13)
H. DI?
LUBAC, ljumanesiflroateo, Brescia 1949, p. 225.
420
Parte terza
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421
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422
Parte terza
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Studi: C. BEDESCH], Introduzione a Marx, Bari 1981; M. BERTRAND, Le statut et la religion cliez Marx et Engels, Paris 1979; W. BRUGGER, Der dialektische Materialisnzus und dei F rage nach Gott, Mùnchen 1981; G. COTTlER, Uathéisnzedu jcune Marx. Ses origines religieuses, Paris 1960; P. D. DAGNINI, Introduzione a Karl Marx, Roma 1972; G. GIRARDI, Marxismo e cristianesimo, Assisi 1966; W. POST, La critica de la religion en Marx, Barcelona 1972; CH. WACKENHEIM, La faillite de la religion d 'après K. Marx, Paris 1963. CoMTE Edizioni: Oeuvres, 12 v0ll., Paris 1968-1971. Traduzioni italiane: Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, Torino 1967; Opuscoli di filosofia sociale e discorsi sul positioismo, Firenze 1969.
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ANTONIO ROSMINI: UNA NUOVA METAFISICA DELUESSERE
Nel secolo XIX, che è un secolo decisamente antimetafisico, la "regina di ogni sapere" trova ancora qualche valido difensore, specialmente nel mondo cattolico, ma si tratta quasi sempre di avvocati della vecchia metafisica scolastica, così come era stata riciclata da Suarez. Da questo quadro piuttosto opaco emerge la figura prestigiosa di Antonio Rosmini, un pensatore cattolico che possedeva le qualità dell’autentico metafisico. L'obiettivo principale di tutto il suo lavoro filosofico fu quello di costruire una nuova metafisica, che fosse in grado di affrontare e di rispondere a tutte le sfide del pensiero moderno, sia a quelle di Cartesio e di Spinoza, sia a quelle di Hume, di Kant e di Hegel. Rosmini è l'unico grande metafisico dell'Ottocento e merita pertanto un'adeguata trattazione. È quanto cercheremo di fare nel presente capitolo.
Vita Antonio Rosmini nacque a Rovereto il 24 marzo 1797 da una famiglia patrizia. Compie gli studi elementari, medi e ginnasiali nella città natale, manifestando fin da giovanissimo un'intelligenza di tipo enciclopedico, che progressivamente si affina e matura, nel corso degli anni, passando dal taglio ancora prevalentemente classificatorio (risale a questo periodo l’impegnativo progetto di pubblicare un'edizione riveduta e corretta del Vocabolario della Crusca) dei progetti giovanili, a una concezione organico-sistematica del sapere, teorizzata compiutamente nel periodo della maturità. Nel 1816, terminati gli studi liceali, lascia Rovereto per entrare nell'università di Padova, dove, nel 1822, si laurea in teologia e diritto canonico. A Padova l'insegnamento della teologia dogmatica era tenuto dal domenicano Tommasoni "uomo dottissimo e di pietà singolare", orientato tomisticamente, che, pero, nel suo insegnamento si era adeguato al nuovo sistema di studi imposto dall'Austria, in cui si dava larga prevalenza alla storia ecclesiastica, con particolare riguardo alla patrologia e alla storia letteraria teologica, alla lingua ebraica e all'archeologia ebraica, alla esegesi biblica e al diritto canonico pubblico e privato. La teolo-
424
Parte terza
così istituzionalmente declassata, ma veniva anche offerta la possibilità di una maggiore giustificazione documentaria per quella corrente di teologia apologetica e polemica, di difesa e illustrazionc del dogma, che il Tommasoni, perfettamente in linea con l'in-
gia dogmatica risultava
dirizzo della scolastica post-tridentina e controriformatoria, andava elaborando. «Conseguita la laurea in teologia, il Rosmini continuò a vedere nella cultura il bisogno e l'orizzonte della fede in un'atmosfera di decisa e profonda ascesi» (G. Di Napoli). Il giovane Rosmini era già persona assai pia e profondamente credente. Nel suo Diario personale, nel 1813 annotava: «Quesfanno fu per me un anno di grazia: Iddio m’aperse gli occhi su molte cose e conobbi che non eravi altra Vera sapienza Che in Dio». E credente profondo e ascetico Rosmini restò durante tutta la sua vita. Dedito alla costante purificazione di sé, desideroso di vivere nella santità, era tutto proteso alla "salvezza dell'anima”. Le sue Massime di perfezione cristiana rappresentavano il paradigma sintetico e denso di una vita assorbita da un teocentrismo radicale, fondata su eminenti principi di umiltà (principio di passività), nell’abbandono incondizionato a Dio, nel quale soltanto è la sapienza vera da amare e da ricercare. La vita di Rosmini fu una esperienza teologica: è il "Rosmini asceta e mistico" di cui parla C. Rebora (Rosmini asceta e ntistico, Vicenza 1980). Nel 1827 venne ordinato sacerdote. Trasferitosi a Milano (dove strinse profonda e duratura amicizia col Manzoni) e successivamente a Domodossola, vi fondò una congregazionereligiosa (l'Istituto della Carità), i cui adepti, dopo la sua morte, avrebbero assunto il nome di rosmiiziani. Nel 1848 Carlo Alberto lo mandò in missione diplomatica a Roma per indurre Pio IX a partecipare alla guerra contro l'Austria. Per varie complicazioni la missione falli e quel che è peggio, due opere in cui Rosmini propugnava il rinnovamento della Chiesa, la Costituzione e Le cinque piaghe, furono messe all'Indice, perché ritenute inopportune. In conseguenza di ciò, Rosmini, caduto in disgrazia sia presso il Papa sia presso il Re, si ritirò a Stresa, dove, abbandonata la politica, si dedicò esclusivamente alla filosofia e alla teologia. Ivi morì il 1° luglio 1855. Uostilità nei confronti del Rosmini non si placò neppure dopo la sua morte. Mentre un esame delle sue opere si era concluso nel 1854 senza nessuna condanna ecclesiastica, nel 1880 il decreto Post obitum condannò 40 proposizioni estratte da opere, specialmente postume, del Rosmini. Propriamcnte il decreto condanna quaranta proposizioni tratte non solo dalle opere pubblicate postume, ma anche da quelle già esaminate e dimesse, ponendo il problema storicamente rilevante, della eventuale contraddizione o della auspicabileconciliazione con il Dimittantitr di 30 anni prima. Le condanna semplicemente, senza apporre alcuna nota teologica, stimolando la necessità di capire il senso e la portata dottrinale di
Antonio Rosmini: una nuova nzetafisica dell'essere
425
questo fatto. Infine, le condanna in proprio auctoris sensu,
immunizzanchi non vordi l'obiezione dosi da un suo eventuale svuotamento per il rebbe rilevare e vedere nelle proposizioni condannate senso autentico di Rosmini, ma solo un senso travisato. La ragione ultima della condanna non va ricercata tanto nella presenza nel pensiero di Rosmini di qualche eresia particolare e specifica, quanto in quella di una linea innovatrice di pensiero che, in un'epoca di profonda unità e uniformità del pensiero cattolico, era ritenuta inammissibile. «L'idea che nell'ambito del cattolicesimo fosse possibile un pluralismo filosofico (e teologico) non era accettata dai neotomisti (allora assai influenti): di qui la loro aggressività verso il pensiero rosminiano, che non era solo discusso razionalmente, ma accusato di eterodossia» (S. Vanni Rovighi).
Opere Rosmini fu scrittore fecondissimo. Le sue opere si possono ripartire in tre sezioni: filosofiche, teologiche e ascetiche. Molti scritti uscirono postumi. Ecco l'elenco delle opere principali.
A) SCRITTI FILOSOFICI Nuovo saggio sull'origine delle idee (1830); Principi della scienza morale (1831); Storia comparata e critica dei sistemi intorno al principio della morale (1838); Trattato della coscienza morale (1839); Filosofia del diritto (1845); Psicologia (1850); Teosofia (post.): quest'ultima è l'espressione più compiuta del sistema metafisico di Rosmini (comprende ben otto volumi): iniziata nel 1846 è rimasta incompiuta.
B) SCRITTI TEOLOGICI Il linguaggio teologico; Antropologia soprannaturale; Introduzione al Vangelo secondo Giovanni (tutti e tre pubblicati postumi); Della divina prowidenza nel governo dei beni temporali (1826); Teodicea (1845). C) SCRITTI ASCETIC1 Ascetica (1840); Massime di perfezione cristiana adattate ad ogni condizione di persone (1830); Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848). Per completare il quadro degli scritti di Rosmini va infine ricordato il suo
vastissimo epistolario che occupa ben 13 volumi: Epistolario completo
(1887-1894).
426
Parte terza
Gli obiettividi Rosmini L'obiettivo primario di tutto il lavoro intellettuale del Rosmini è teso al rinnovamento profondo della filosofia, della teologia e, in generale, della cultura cattolica che, dopo la rivoluzione francese, stava attraversando una crisi seria, profonda e allarmante, sopraffatta e talvolta adescata dal razionalismo e dallfilluminismo.Per conseguire questo obiettivo Rosmini riprende e fa sua l'idea che era già stata di Agostino e di Tommaso, di presentare una ”enciclopedia cristiana” di tutto il sapere, e di conti-apporta alla enciclopedia laica degli illuministi francesi, tentando allo stesso tempo un difficilissimo dialogo con il pensiero post-cartesiano, intrinsecamente immanentistico. L’immanentismo moderno desumeva il principio unificatore di tutto il sapere dalla soggettività, che poteva essere l’Io trascendentale di Fichte, lo Spirito di I-legel, la Volontà di Schopenhauer, la Classe di Marx... Ma la soggettività è (di per sé) incapace di sostenere l'onere di una unificazione del sapere, perché la soggettività rimanda di per sé all'oggetto che la regola e la rende possibile. A questo oggetto inteso naturalmente nella sua accezione più ampia e universale, cioè come dimensione metafisica fa ricorso dunque Rosmini per ricreare le condizioni filosofiche di un'enciclopedia che garantisca e non comprometta la coerenza del pensare; e ciò spiega il ruolo fondamentale che viene ad assumere nel sistema rosminiano la nozione di "essere ideale", che si ricollega esplicitamente alla nozione tommasiana di "esse conmiune rerum’? Nel secolo XIX nessun altro studioso avvertì l'istanza di un rinnovamento sostanziale della cultura cattolica come Rosmini. Egli prende sul serio il movimento ideale europeo noto sotto il nome di ”secolo dei Lumi”. Tale cultura illuminata si vantava di avere posto fine al mito cristiano e di avere accantonato una tradizione considerata morta per sempre. Rosmini si sforza di interrogare codesta filosofia, di penetrarne le profonde esigenze, di studiarne la problematica per proporre una nuova formulazione filosofica capace di presentare la verità del passato come risposta contemporanea. Rosmini capì l'urgenza di un profondo rinno-
-
pensiero cattolico nell'ambito filosofico e teologico, e progetto una specie di enciclopedia di ispirazione cristiana per rispondere quella di Diderot e d’Alembert e degli altri illuministi francesi. Sostanzialmente sono questi gli obiettivi prefissati da Rosmini stesso nella sua Introduzione alla filosofia, dove enuncia quattro scopi dei propri studi: 1. combattere gli errori; 2. ridurre la verità a sistema; 3. elaborare vamento del
una
1)
filosofia che possa
essere
solida base della scienza; 4.
e
di cui possa
Si veda in merito il saggio di R. BESSERI BELTI, Rosmini e lo studio di S. Tommaso nel! Ottocento, in ‘Cultura e Libri" 1984, pp. 101-108.
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
427
teologia. Egli bramava, come scrive nel Linguaggio teologico, rispondere alla pressante e ininterrotta domanda della Chiesa di una valersi la
filosofia che servisse sia allo scopo «di ribattere le obiezioni dei miscredenti, sia altresì per l'altro non meno importante di ordinare, e di
sana
penetrare nellintelligenza della verità rivelata»! Così, l'impegno costante di Rosmini in filosofia, teologia, pastorale, liturgia, fu quello di "ammodernare", nei limiti del possibile, la grande tradizione cattolica, tenendo conto delle nuove istanze culturali, sociali e politiche che erano emerse nel mondo contemporaneo dopo l'esperienza del razionalismo, dell'illuminismo, del criticismo e della rivoluzione francese. Alcune soluzioni prospettate dal Rosmini sul terreno liturgico e pastorale non furono comprese in quanto premature; altre di ordine speculativo furono avversate in quanto intrinsecamente discutibili; tuttavia la sua opera, nell'insieme, costituisce uno dei tentativi più lucidi e coraggiosi di realizzare, con il rinnovamento della filosofia e della teolo-
gia, un incontro tra cristianesimo e mondo moderno. In campo filosofico l'obiettivo principale di Rosmini è
rilanciare la metafisica, erano state scosse dall'empirismo humiano e dal criticismo kantiano, proponendo una nuova dottrina della conoscenza, la quale ha come oggetto primario, anzi unico, l'essere. Contro Hume e Kant che avevano affermato che l'essere è inconoscibilee che, di conseguenza, ogni tentativo di ricerca intorno all'essere in quanto tale è vano, Rosmini riafferma la classica tesi di Aristotele, Avicenna, Tommaso, Scoto secondo cui il primo oggetto della mente è l'essere. Pertanto la metafisica di Rosmini è essenzialmente una metafisica dell'essere, la quale tuttavia si distingue dalle grandi metafisiche dell'essere di Aristotele e Tommaso non tanto nei contenuti quanto nel metodo: diversamente da Aristotele e Tommaso i quali utilizzavano il metodo induttivo-risolutivo, Rosmini ricorre al metodo sintetico (sintesismo è il nome che Rosmini dà al suo sistema). L'incontro con la realtà è opera dell'intelletto come in Aristotele e Tommaso; senonché dal Rosmini tale incontro non è concepito come un'indagine e una resolutio del reale l'ente finito, contingente, partecipato da parte dell'intelletto; bensì come una sintesi tra l'essere ideale e l'essere reale. Di qui l'importanza capitale che ha il capitolo della gnoseologia (ideologia) nel sistema rosmile cui basi
—
—
l)
Nel Sistema filosofico il programma rosminjano di rinnovamento della filosofia si precisa ulteriormente suddividendo le scienze filosofiche in tre grandi classi: 1) le scienze di intuizione ideologia e logica che trattano del mezzo del conoscere, cioè l'essere ideale; 2) le scienze della percezione psicologia e cosmologia che trattano della realtà esterna, ossia dell'essere reale; 3) le scienze del ragionamento, che si suddividono in ontologichc (trattano degli enti come sono) e deontologiche (che si occupano degli enti come devono essere). -
-
-
-
Parte terza
428
niano. In effetti tutto questo sistema sta o cade nella misura in cui sta 0 cade la sua teoria intorno all'essere ideale. Al rinnovamento della ideologia fa seguito il rinnovamento delle altre parti della metafisica: l'antropologia e la teologia naturale.
Il prologo
gnoseologico: l'essere ideale
Noi sappiamo che già la metafisica classica prestava grande attenzioal problema gnoseologico e lo affrontava come prologo della ricerca metafisica, per metterla al riparo da ogni cattiva sorpresa. Di fatto, un saggio marinaio prima di cimentarsi in una difficile e impegnativa traversata ha cura di verificare le condizioni della propria barca; egli si accerta che tutto sia in ordine: i remi, la chiglia, le vele ecc. ll metafisico, prima di iniziare la seconda navigazione deve fare altrettanto: deve controllare la bontà della sua nave che è la ragione e sottoporre a severo controllo le attrezzature di cui essa dispone. È quanto fecero Platone e Aristotele nell'antichità, Agostino e Tommaso nel Medioevo, Cartesio e Kant nell'epoca moderna. Rosmini prima di prendere il largo con la sua nave e lanciarsi nell'impresa della seconda navigazione fa lo stesso. Rosmini costruisce tutto il
ne
—
-
imponente edificio filosofico sull'essere, nel quale distingue tre forme o manifestazioni principali: la forma ideale, la forma reale e la forma morale} Della forma ideale si occupa nella ideologia (gnoseologia), della forma reale nella metafisica e della forma morale nell’etica. Pertanto nel sistema rosminiano la gnoseologia è molto più di un semplice prologo alla metafisica come poteva essere in Aristotele o in suo
Cartesio,
perché ciò di cui si occupa Rosmini in questa parte della filoso-
è tanto la bontà dei processi conoscitivi (la ragione e i sensi), quanto la qualità e la natura del loro oggetto, che in definitiva è sempre l'essere. Questo dà una valenza tmtologica oltre che logica a tutta la dottrina rosminiana della conoscenza. L'ideologia del Rosmini poggia su tre tesi fondamentali: l) l'intuizione dell'essere ideale; 2) la sintesi dell'essere reale; 3) i concetti di sostanza e di causa. Vediamole una per una.
fia
non
[ÎINTUIZIONE DELUESSERÈ IDEALE Per il Rosmini, quella dell'essere è la "madre di tutte le idee"; essa è quindi la primogenita di tutte le idee, la prima idea che si affaccia alla nostra
3)
intelligenza.
Cf. Il sistmmîfllnsqfico,nn. 178-182.
Antonio Rosmiiii: una nuova metafisica dell'essere
429
Che l'idea dell'essere (ente) goda di un primato rispetto a tutte le altre idee era tesi comunemente ammessa dalla metafisica classica e medievale. Avicenna all'inizio della sua Metafisica aveva scritto che «l'ente è il primo universale che comprende ogni cosa nella sua intellezione universale» (ens est primum universale aggregaris omnia in sua interztione universali). Queste celebri affermazioni del filosofo arabo furono riprese e condivise da tutti i medievali. Rosmini ritorna a questa tesi classica, ma la ripropone in un nuovo contesto che è quello di Kant, il quale, come sappiamo, per dare valore assoluto alla conoscenza intellettiva la forniva di un certo numero di concetti fondamentali, a priori, le categorie, alle quali tuttavia assegnava un valore soggettivo e non oggettivo. Rosmini è d'accordo sulla necessità che nella conoscenza ci sia un elemento a priori, che però egli riduce alla sola idea dell'essere; ma contro Kant egli afferma l'assoluta oggettività di questo elemento a priori. Nella Introduzione alla Antropologia in servizio della rrzorale Rosmini riassume felicemente i suoi "postulati" intorno al suo concetto di essere, che assume dei connotati molto diversi da quelli delle categorie kantiane. Ecco le sue tesi fondamentali:
primo noto; perocché tutte le altre notizie suppongono quella dell'essere (...) perciocché qualsiasi oggetto del nostro pensiero è una entità, un essere o reale o possibile (m). Se dunque l'essere è noto per se stesso, non si può esigere che venga «L'essere è il
sempre dinanzi a sé
definito, ma è necessario che si conceda la notizia di esso per data antecedentemente a qualsivoglia ragionamento: è dunque equo il postulato da noi premesso».4 «L'essere viene supposto noto da tutto il sistema dello scibile umano: dunque egli ha in sé la proprietà e la natura di lame della mente, ossia l'idea»?
«L'essere in quanto ‘e lume della mente chiamasi propriamente essere ideale o semplicemente idea. Noi lo chiamiamo oltracciò idea dell'essere o essere
possibilem
«Se l'essere è per se stesso lume, idea: dunque esso costituisce l'essenza, la forma del conoscere; e perciò egli stesso è ancora la sede dell'evidenza, a cui si devono condurre come a ultimo termine tutte le dimostrazioni delle scienze, acciocché siano perfette»? «Tutta l'attività dell'uomo in quanto è un essere dotato di intelligenza, ha la sua sorgente in quell'atto primo, onde lo spirito umano intuisce l’essere».8
t) 5) ) 7) )
Antropologia in servizio della scienza morale, n. 10. lbid, n. i2.
lbid., nota al n. 12. lbid, n. 13. lbid, n. 508.
430
In to
Parte terza
precedenza, nei Principi della scienza morale, Rosmini aveva spiega-
con
tutta
chiarezza che cos'è l'essere ideale nel modo seguente:
«Vha nell'uomo un'idea prima, anteriore a tutte le altre, con la quale regola suprema tutti gli altri giudizi si formano (...). Quesfidea con la quale la mente umana forma tutti i giudizi è l'idea dell'ente in generale, idea congenita dello spirito umano e forma del-
come con
l'intelligenza. Dico forma dell'intelligenza: perocché dall'analisi di tutti i pensieri umani risulta che tutti i pensieri si informano con la presenza di quella idea; sicché senza quell'idea non è più concepibile alcun pensiero, e però lo spirito privo di essa rimane sfornito di inteliigenza (...) e Veramente occorre osservare che tutte le cose, tutte le parti delle cose, tutte le loro perfezioni, tutti i loro pregi non sono
finalmente altro se non altrettanti atti di essere: è sempre l'essere diversamente attuato e limitato che piglia diversi nomi nelle diverse cose perocché questa parola essere non significa altro che la prima attività di ogni attività».9 L'essere ideale
considerato in se stesso e in relazione alla mente, perché «la natura dell'essere ideale ‘e tale che unendo in se stessa, senzalcuna contraddizione, due modi di esistenza, uno in se e l'altro relativo alla mente, 0 per dire meglio, avendo un modo di esistenza che abbraccia questi due, rende possibile la Comunicazione di sé a una mente». L'essere in rapporto alla mente è l'essere intuito e in esso «giacciono nascosti tutti i suoi termini, unito ai quali presenta al pensiero i concetti degli enti».10 Dire che l'essere ‘e intuito è dire che è presente al nostro spirito e lo comprendiamo con un "senso intellettuale sui generis"; esso non ha soltanto il Valore funzionale di forma della Conoscenza. La sua natura è forma oggettiva, e quindi «accade che abbia le due relazioni, di cui abbiamo parlato (forma della cognizione e a un tempo della potenza del conoscere), cioè che essa sia a un tempo manifestante e rrzanifestata. Sotto la relazione di manifestante, dicesi forma della mente, perocché senlessa la mente non sarebbe mente, la facoltà di conoscere non sarebbe conoscitiva. Sotto la relazione di manifestata, dicesi forma della cognizione, perocché costituisce l'oggetto cognito, ciò che si ha di oggettivo e però di formale in ogni cognizione».11 Ma come viene colta l'idea dell'essere dalla nostra mente? Nei passi citati finora abbiamo trovato più volte le espressioni ”intui— zione", "intuito"; E questa è precisamente la tesi che Rosmini sostiene vigorosamente contro coloro che affermano che l'idea di essere ‘e frutto deltastrazione oppure che l'essere è colto soltanto nel giudizio. va
9) Principi della scienza morale l, 2. 1°) Teosofia I, n. 213. u) lbid. IV, p. 461.
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
431
Nel Nuovo Saggio sull'origine delle idee Rosmini dedica un ampio capitolo alla questione della "origine dell'idea dell'essere", dove fa vedere che essa non può essere il risultato di un giudizio, in quanto ogni giudizio la presuppone, e neppure dell’astrazione. Indubbiamentel’astrazione è un'operazione con cui noi ci formiamo molte idee, ma non l'idea dell'essere. Infatti «se dopo aver tolte via da un ente tutte le altre qualità, sì le proprie che le comuni, togliete via ancora la più universale di tutte, l'essere; allora non vi rimane più nulla nella vostra mente, ogni vostro pensiero è spento, è impossibile che voi più abbiate idea alcuna di quell’ente».12 Con Fastrazione si scopre che in ogni idea quella dell'essere è contenuta, ma l'idea dell'essere non è un prodotto Clell'astrazi0ne, bensì è ad essa anteriore. Infatti «l'idea dell'essere è così necessaria, ch’entra essenzialmente nella formazione di tutte le nostre idee, sicché noi non abbiamo la facoltà di pensare se non mediante il suo uso>>J3 Pertanto l'idea dell'essere non è un parto della nostra mente. Di qui la conclusione del Rosmini: «rimane che l'idea dell'essere sia innata nell'anima nostra; sicché noi conosciamo colla presenza e colla visione dell'essere possibile (z idea dell'essere), sebbene non Ci badiamo che assai tardi>>fl4 L'idea dell'essere che si trova da sempre presente nel nostro spirito Viene colta intuitivamente: «Lo spirito umano intuisce per natura l essere
idealesxlî
Qualsiasi ulteriore
è altro che l'essere.
non
una
conoscenza,
qualsiasi pensiero, secondo Rosmini, "esplicitazioiìe" dell'idea, del-
determinazione e una
per natura l'essere ideale indeterminato. è potenza, ma è atto: e un atto essenziale allo spirito, è l'intelletto in quanto entra a costituire un elemento della umana natura. Ma se l'essere ideale, presente naturalmente allo spirito umano, acquista qualche rapporto col mondo reale mediante le sensazioni; allora l'intelletto intuisce l'essere ideale fornito di qualche determinazione, e a questo nuovo atto intellettivo egli è in potenza. Questa è quella che si chiama la potenza dell'intelletto>>.‘6
«Lo
spirito umano intuisce
Questa
non
12) Nuovo saggio, II, n. 412. H) Ibid, n. 468. i4) Ibid. 15) Antropologia in servizio della scienza iriorale, n. 51D. 15) Ibid.
432
Parte terza
LA
SINTESI PRIMÌTIVA
(DELIKESSERE CON LA REALTÀ DEL GIUDIZIO)
Secondo Rosmini, dall'intuizione nativa dell'essere procedono tutte le conoscenze mediante un processo di sintesi. La "sintesi primitiva" è quella che l'intelletto realizza mediante l'applicazione della idea dell'essere ai dati della sensazione. Tale applicazione ha luogo nel giudizio. Su questo punto Rosmini si riavvicina a Kant, il quale, come sappiaaltre
mo,
concepiva tutti i giudizi come sintesi, e i giudizi sintetici a posteriori, sintesi tra le categorie dell'intelletto e i dati dei sensi. Da parte sua
come
Rosmini afferma che «l'idea dell'ente in generale è l'idea con la quale la mente forma tutti i giudizi»; mentre la sintesi primitiva ha luogo quan-
do «Pessere ideale, presente naturalmente allo
spirito umano, acquista
qualche rapporto col mondo mediante le sensazioni».l7
Sulla scia di Kant, Rosmini caratterizza l'elemento fornito dell'intelletto come forma e quello fornito dalla sensazione come materia. La sintesi dell'una e dell'altra è la percezione inteilettiva o giudizio primitivo, «mediante il quale lo spirito afferma esistente qualche cosa percepita dai sensi». La sintesi di materia e forma è la conoscenza effettiva e oggettiva delle cose; infatti la percezione intellettiva, come "percezione" coglie sensibilmentel'ente che è fuori e, come "intellettiva", quale determina-
zione dell'essere ideale, come idea dell'ente particolare. Percepire un ente intellettualmente significa pronunciare un giudizio esistenziale, ”que— sta cosa è".
Secondo Rosmini la
delle cose avviene nel modo seguenun "sentimento fondamentale" Con cui noi percepiamo immediatamente il nostro corpo ”Come una cosa con noi"; e poi, attraverso il corpo, riceviamo l'impressione delle cose distinte da noi. Quando applichiamo l'idea dell'essere al sentimento fondamentale otteniamo l'idea di noi stessi, Tautocoscienza; quando applichiamo l'idea conoscenza
te. Noi abbiamo anzitutto
dell'essere
coscienza. LA
allîmpressione delle cose distinte da noi, acquistiamo l'etero-
RAGIONE
Il giudizio non genera nuove idee, ma dà un corpo, una materia all'idea dell'essere, e forma così concetti delle cose singole, che possono essere sia concetti generali che particolari: «Colla percezione intellettiva l'uomo apprende gli esseri realimîs
17) Ibid. m) ibiaî, n. 512.
Antonio Rosmini: una nziozia nzetaflsica dell'essere
Invece la
433
ragione ha la funzione di procurare nuove idee: «La ragione
applica quesvessere ideale e indeterminato a illustrare e a rendere conoscibilile cose che non sono note all'uomo per se stesse».19 A questa categoria di cose non immediatamente conoscibili appartengono ovviamente tutte le realtà immateriali, e spirituali, e in modo speciale, Dio. Scrive Rosmini in un passo significativodell’Arztr0p0l0gia: «Acquistate in tal modo le percezioni degli Enti reali la ragione può a questi delle nuove applicazioni dell'essere ideale. Con una di queste applicazioni egli può passare dalla loro contingenza e dalla loro limitazione a riconoscere l'esistenza di un primo essere necessario e illimitato. Questa è una seconda funzione della ragione, l'integrazione, la quale si fa mediante il principio di assolutità. Con un sì nobileuso della ragione l'uomo venne in possesso di nuova ricchezza intellettiva, della Cognizione della esistenza di Dio; questa egli ha completato in qualche modo le sue cognizioni intorno agli fare
esseri reali».20
Come per Kant, anche per Rosmini, la metafisica è un territorio riservato alla ragione; ma diversamente da Kant, il Roveretano ritiene che in questo territorio la ragione possa lavorare con successo, e non in modo fallimentare come sosteneva l'autore della Critica della ragion pura. Ma della ragione Rosmini non ha quel concetto trionfalistico che avevano i razionalisti. La sua ragione è strettamente legata a11’inte1letto il quale, a sua volta, è essenzialmente legato al senso (sentimento). Alla sopravvalutazione della ragione dei razionalisti che la rendevano del tutto autonoma e indipendente rispetto ai sensi e all'esperienza sensibile, Rosmini contrappone una concezione ”eteronorna" della ragione, che la vincola strettamente alla esperienza sensoriale. Appartiene alla ragione oltre che lo studio della metafisica anche quello della logica e della ideologia. Duplice è infatti la riflessione che si può fare intorno all'essere: una lo vede come inizio di tutte le idee, in quanto è ”i1 primo noto", e questo appartiene alla ideologia; l'altra riflessione lo considera invece come inizio di tutte le cose, in quanto l'essere è "il primo ontologico”, e ciò appartiene allîmtoltìgia. Ecco come Rosmini giustifica questa divisione della filosofia in ideologia e in ontologia in un bel passo della Teosofia: «Ijessere iniziale dunque è inizio tanto dello scibile quanto del sussistente; ma con questa differenza però, che l'essere iniziale rispetto allo scibile si può dire anche principio, quando si considera nella sua virtualità, cioè perché contiene implicitamente tutte le intelligibili cose.
19) Ibid., n. 511. 20) una, n. 513.
434
Parte terza
questfiîssere si vede nell'idea, benché lo si consideri astraendo dall'idea, onde quand’egli poi si prende come inizio dell'ordine ideale, si trova che tutto questbrdìne è in lui stesso ingenerato, e di lui si trae, come il filo dal bozzolo, purché ci siano le condizioni; laddove quando si considera come inizio dell'essere reale, quest’inizio è puro inizio antecedente a questa forma dell'essere, e il Già abbiamo detto che
non si può trarre da lui, se non gli saggiunge un atto, che esce dalla sfera dell'idea, in cui l'essere ideale si contempla. L'essere iniziale dunque si conosce come inizio dell'ordine ideale, considerandolo solo in relazione colla forrna ideale, perché è quella che abbiamo insieme con lui, e nella quale lo vediamo; ma per conoscerlo altresì
reale
inizio della realtà, non basta che lo consideriamo in relazione c0ll’idea che ci e data insieme con lui, ma dobbiamo paragonarlo al reale sentimento, il quale esige un principio a causa reale, da aversi al di fuori da quella prima idea (...)».2' come
ÎJONTOLOGIA Dalla ideologia, dove si è studiata l'origine e la natura delle idee, in particolare dell'idea dell'essere, Rosmini passa alla ontologia, nella quale si propone un duplice obiettivo: 1) «procurarsi la Teoria universale dell'ente (cssere)»;22 2) «dimostrare i limiti necessari di questa risoluzione u1nana».23 Seguendo l'esempio di Suarez e Wolff, Rosmini divide la metafisica in due parti: una parte generale, che studia l'essere in generale, ed è quella che spetta allontologia; e una parte speciale, che studia le tre principali realizzazioni dell'essere, Dio, l'uomo e il mondo, che sono rispettivamente l'oggetto della Teologia, dellflkntropologiae della Cosmologia. Inoltre, seguendo l'esempio di Kant, ma proprio per prendere posizione contro di lui, Rosmini intende dimostrare i limiti della metafisica, limiti reali ma che non rendono vana la sua ricerca. Secondo Rosmini i problemi fondamentali dell'Ontologia sono cinque: 1) trovare la conciliazionedelle manifestazioni dell'ente (essere) con il concetto dell'ente (essere); 2) trovare una ragione sufficiente delle diverse manifestazioni dell'ente (essere); 3) trovare l'equazione tra la cognizione intuitiva e quella di predicazione; 4) conciliare le antinomie presenti nel pensiero umano; 5) che cosa sia ente (essere) e che cosa sia non
ente
(non essere)”
Rosmini adopera i termini "ente" ed "essere" come sinonimi e interscambiabili.Su questo punto il suo linguaggio ontologico corrisponde più a quello di Aristotele che a quello di S. Tommaso, il quale general-
21) Tcosofia, ed. nazionale, I, n. 287. 23) Ibid, n. 72. 33) Ibid, n. 76.
24)
Cf. ìbìd, n. 74.
Antonio Rosmini: una nuova ntetafisfca dell'essere
435
distingue l'ente dall'essere: l'essere (Vactus essendi) è l'attuazione piena e assoluta della perfezione dell'essere, mentre l'ente è "ciò che possiede l'essere" (id quod habet esse) ed e quindi una partecipazione del-
mente
l'essere.
L'esplorazione del
mistero
dell'essere, insiste il Rosmini, dev'essere
up iutahateoria bisodell'essere con un solo atto Cll riflessione, ma con molti, e quindi gno di rompere il pensiero in una serie di moltissime proposizioni particolari e universali connesse tra loro, prima di arrivare a quello che noi chiamiamo pensare assoluto, dove sta l'apice dell'Ontologia».25 raduale, p erehé l'intelligenza n
umana, «non arriva
s
n
alla a
com
q
n
I sei passi dellfizscesa ontologica L'ascesa Verso l'essere è lunga, difficile e pericolosa: non ci si tuffa nell'essere ma lo si conquista gradualmente. Su questo punto Rosmini pare schierarsi con coloro che costruiscono la metafisica dal basso; ma non è così, perché ciò che Rosmini mette a punto nella sua Ontologia non è ancora un'indagine metafisica intorno al fondamento reale degli enti che noi incontriamo nella nostra esperienza, bensì un'indagine gnoseologica. Rosmini intende spiegare come la nostra mente partendo dal concetto minimo dell'essere, l'essere indeterminato che essa possiede da sempre, riesce a salire fino al concetto dell'essere ideale, l essenza dell'essere. Che tale sia il suo obiettivo è detto chiaramente in un testo molto significativo della Teosofia, che vale la pena di leggere insieme. Scrive dunque il Roveretano: «Abbiamo un punto fermo, da cui cominciare l'Ontologia (l'idea dell'essere e il sentimento): e abbiamo un mezzo, pel quale da questo punto fermo possiamo muovere spingendoci a sempre nove cognizioni (l'essere ideale, l'essenza dell'essere); e finalmente sappiamo, che ci è lecito procedere da una di queste cognizioni ad altre per via di proposizioni connesse tra loro, con sicurezza che ciascuna, quando risponde alle leggi dell'antica ed eterna logica, è vera, e tutte insieme mediante le accennate connessioni possono darci quel sistema della verità che cerchiamo. Questo solo vogliamo aggiungere a encomio della scienza ontologica, che appunto perché tutti i giudizi e le proposizioni particolari hanno qualche cosa di negativo, niuna di esse facendo conoscere intieramente l'essere, l'Ontologia, che si propone di congiungere insieme una serie di proposizioni da farne riuscire la teoria dell'essere, è quella che perfeziona lo stesso sapere umano, e pero el.la si può chiamare a un tempo "la teoria del sapere"».36
25) 1bid., n. 78. 26) lbid, n. 79.
436
Parte terza
Dunque il punto di partenza è l'essere indeterminato, carico di infinipossibilità: «La mente intuisce l'essere indeterminato: l'essere indeterminato è il primo oggetto, che sfiaffaccia all’Ontologia, e il suo punto di
te
partenza»?
Nell’ascesa ontologica Rosmini distingue sei passi: sono i passi che dall'essere massimamente indeterminato portano verso l'essere massimamente determinato. 1) Il primo passo verso la determinazione dell'essere indeterminato è l'impatto della mente con enti finiti reali. Grazie a tale incontro la mente comincia a scoprire alcune determinazioni dell'essere, conosce più di prima l'essere indeterminato, perché conosce in qualche parte la natura delle sue determinazioni. Dalla percezione dunque degli enti finiti riceve una prima illustrazione l'essere inde-
«così
terminato, che
sta
presente naturalmente alla
mente umana,
e
allora
a
ciò si
può incominciare il discorso della mente, che esige pluralità di notizie; poiché non si conosce più il solo essere colla possibilità delle
solo sue
determinazioni e dei suoi termini in universale,
ma
oltre
qualcuno di questi termini, e perciò si conosce in parte la natura di quello, a cui la possibilità si riferisce, ossia la natura di qual-
conosce
che determinazione dell'essere».3*
2) Nel secondo passo la mente opera un confronto tra le possibilità limitate dell'essere quali si incontrano nelle realtà finite e la possibilità universale, che presenta l'essere stesso. Da questo confronto Pontologo rileva: a) che le realtà finite considerate come determinazioni possibili
esauriscono la possibilità universale dell'essere, la quale limite non ammette alcuno; b) e di più rileva che l'essere con tutta la sua possibilità infinita sarebbe, ancorché non esistessero quelle realtà: perciò queste realtà non costituiscono l'essenza dell'essere, non sono necessarie all'essere, onde le chiama Contìrzgentzflîg 3) ll terzo passo consente alla mente di ottenere qualche conoscenza dell'essere infinito e necessario mediante lflznalogin, poiché tutti gli enti ("i termini dell'essere") hanno egualmente per principio l'essere e dalla natura dell'essere dipendono, e quanto meno alcuni elementi di questi termini finiti devono necessariamente trovarsi nell'essere stesso. «Con queste e simili riflessioni giunge la riflessione ontologica a formarsi una dottrina intorno alle determinazioni e ai termini in universale dell’essere».ît“
dell'essere
non
37) 117111., n. 81. 23) llîlti, n. 86. 29) Cf. iflld, n. 87. 3“) Il7id., n. 88.
’
Arttonio Rosmini; una nuova metafisica dell'essere
437
4) L'analogia consente di fare un passo ulteriore, ed è il seguente: «l'essere non può essere in se stesso se non è pienamente determinato, e quindi egli deve avere delle determinazioni e dei termini propri e necessari, ai quali applica la dottrina universale intorno alla natura dei termini cavata dai termini finiti per analogia»; e inoltre, «i termini propri e necessari dell'essere non possono avere limitazione alcuna, perché l'essere non ne ha, e devono entrare anch'essi a costituire l'essenza dell'essere, altrimenti si cadrebbe in contraddizione, cioè l'essere sarebbe negato, quando la sua natura importa che non possa non esserewl 5) Il quinto passo «è quello che stabiliscela tiecessità dei termini pro-
pri dell'essere».32 6) Il sesto e ultimo passo «rimuove da questi termini tutto ciò che non
può loro convenire, come sarebbe appunto la limitazione»? Questa ascesa Verso la pienezza dell'essere, conclude Rosmini, consente alla mente anche di giungere alla definizione del concetto di Dio: «In questo modo la mente perviene alla teoria dell'essere assoli/ilo, che ha i caratteri della divinità, i quali mancavano ancora all'essere indeterminato».34
Chi ha una certa familiarità con la metafisica di S. Tommaso può agevolmente constatare che i passi dellbntologia rosminiana coincidono sostanzialmente con quelli dell'-ontologia tommasiana:si parte dallo studio degli enti finiti, si risale all'essere assoluto e poi col metodo dell'analogia, con i suoi due momenti dell'affermazione (via positiva) e della rimozione (via negativa) si cerca di determinare gli attributi dell'essere assoluto, e quindi di Dio. Ma mentre la resolutio di S. Tommaso ha un Carattere chiaramente reale e metafisico, la resolutio di Rosmini è di stampo logico-gnoseologìco. L'esplorazione del Rosmini non si svolge nell'ambito della realtà (degli enti e dell'essere), ma nell'ambito delle possibilità dell'essere indeterminato (che sono tutte da determinare) e le possibilità dell'essere assoluto (che sono tutte determinatissime).
ontologico e la circumnaviggazimzc dell'essere Tracciandol'itinerario che deve percorrere Vontologo per compiere la sua difficile ascesa verso l'essere Rosmini fornisce due importanti precisazioni che caratterizzano ulteriormente la sua ontologia in senso neoplatonizzante. Il Circolo
3') Ibirl, n. 89. 33) Ibid. 33) Ibid. 34) Ibid.
Parte terza
438
prima precisazione riguarda il circolo ontologico. Uontologia è chiaramente un'ermeneutica dell'essere, ossia una interpretazione dei documenti che ci presenta la realtà in vista di una comprensione dell'essere. Trattando di Schleiermacher, padre della ermeLa
neutica, abbiamovisto che uno dei canoni fondamentali della
sua dottriil il ”circolo è na dell'interpretazione ermeneutico", quale prescrive di le alla luce del studiare parti tutto e, viceversa, di studiare il tutto alla luce delle parti. Rosminì si avvale di questo canone nella sua ermeneutica dell'essere e lo descrive egregiamente nel testo seguente della Teosofia:
«Il ragionamento ontologico si volge necessariamente in circolo. Poiché l'oggetto dell'Ontologia è tutto l'ente, e il ragionamento non può ascendere alla cognizione del tutto senza ricorrere alla dottrina delle parti che lo compongono se non ricorrendo alla cognizione del tutto. Il tutto e le parti sono correlative; e i correlativi si intendono dalla mente con un solo atto. Ma il ragionamento abbisogna d'esaminare i termini della correlazione, e non li può esaminare ambedue in uno stesso tempo. Chi volesse parlare del tutto senza analizzarlo, avrebbe finito il discorso in una sola parola; poiché dopo aver pronunciato la parola tutto, non potrebbe più dir altro (...). Vi ‘e dunque in quest'ordine di ragionare un circolo inevitabile, essendovi bisogno della teoria dell'ente finito per ristabilire la teoria dell'essere in universale e dell'essere assoluto, ed essendovi bisogno di queste due teorie per clare quella dell'ente finito».35
Il circolo di cui parla Rosrnini è il circolo ClGlYLISCEHSLIS e del desrensus praticato dai neoplatonici e dallo stesso S. Tommaso nella componente neoplatonica del suo pensiero. La seconda precisazione chiarisce ulteriormente la natura dell'itinera-
ontologico rosminiano. Non si tratta di un'ascensione come l'abbiamo descritta fin qui e neppure di una seconda navigazione come la definiva Platone, bensì di una Circumnavigazione. Uontologia rosminiana non lascia la pianura degli enti per salire sulla vetta dell'essere, e neppure abbandona il porto degli enti per raggiungere il più lontano porto del-
rio
l'essere, ma è tutto un viaggio interno all'essere, e dentro il mare dell'es-
sere.
Ecco il bel testo di Rosmini a
questo riguardo:
«Il nostro ragionare dunque nell'esposizione della Teosofia sarà simile al procedere di quelli che navigano in uno stagno, i quali quantunque solchino lo stagno colla loro navicella in una sola linea, tuttavia, o vadano o vengano o si muovano per una retta o per linee curve serpeggiando, non escono mai dallo stagno, e se non ci fosse tutto lo stagno non potrebbero punto solcarlo per lungo e per largo nelle diverse direzioni, benché traccino sempre delle linee angustissime in quell'acqua. Così noi qualunque cosa veniam ragionando per le diverse parti
35) Ihùi, nn. 91-92.
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
di questa opera,
non
439
potremo uscire giammai dal mare dell'essere che
ristretto sia il sentiero che ci apriamo in converrà ci aver sempre tutto l'essere presenesso colla nostra carena,
esploriamo, e quantunque te non alla
lingua ma alla mente, che ogni nostra parola, ogni parziale
trattazione lo domanda necessariamente come un presupposto, acciocché o possa essere da noi detta, o da altri intesa».5fi
Per fare muovere la navicella del pensiero dentro il mare dell'essere e condurla dall'essere indeterminato all'essere assoluto attraverso gli enti, Yontologo ha bisogno di buoni remi, e tali sono i principi primi, che Rosmini riduce a tre: il principio di cognizione, il principio di tien-contraddizione e il principio di causalità. Il primo dice: «l'oggetto del pensiero è l'essere». Questo principio, secondo Rosmini, «è il principio di tutti i principi, la legge della natura intelligente, l'essenza della intelligenza»? Del secondo principio il Roveretano dà la seguente definizione: «Non si può pensare l'essere e a un tempo il non essere».38 Infine, per il principio di causalità adopera la seguente formulazione: «Non si può pensare una
entità senza una causa».39 Mentre i primi due principi sono sempre stati condivisi da quasi tutti i filosofi (tranne gli scettici), il terzo, quello di causalità, nell'epoca moderna aveva subito pesanti attacchi da parte di Hume e di Kant: per il primo si trattava di una finzione della memoria e della fantasia, per il secondo, di un principio a priori dell'intelletto. Poiché sul valore oggettivo del principio di causalità poggia tutta la metafisica, prima di procedere alla sua costruzione, era necessario dimostrare che il suo valore oggettivo è assolutamente innegabile. È quanto Rosmini cercò di fare in diversi scritti, dimostrando che il principio di causalità si fonda direttamente sul principio di non contraddizione. Infatti dire che un avvenimento non è causato equivale a dire che non è un avvenimento, perché per avvenimento si intende "tutto ciò che comincia". Ecco in breve ufiargomentazìonedel Rosmini: nuova
«Per dimostrare che "un avvenimento senza una causa non si può convien dimostrare che "il concetto di un avvenimento sfornito di una causa involge contraddizione". Quando ciò sia dimostrato, allora, si avrà il principio di causa dedotto dal principio di contraddizione. Ecco come si dimostra. Dire che ciò che non esiste opera, è contraddizione. Ma un avvenimento senza causa equivale a un dire: ciò che non esiste, opera. Dunque un avvenimento senza causa è contraddizione (...). Quindi il principio di causa discende dal
pensare",
36) lbicL, n. 96. 37) Nuovo saggio, IV, n. 568.
3*‘) 39)
Ibid. Ibid.
440
Parte terza
principio di contraddizione, come tutte e due questi principi discendono dal principio di cognizione: e questo non è che l'idea dell'essere applicata, la quale prende forma di principio, e s'esprime in una proposizione, quando ella si considera in relazione col ragionamento dell'uomo, del quaìe essa è la causa universaleMU Le tre forme prinrzitizze dell'essere e il sintesismo
Molteplici sono le manifestazioni dell'essere. Compito dellbntologo è ridurle ad alcune manifestazioni fondamentali. Aristotele con la sua celebre dottrina delle categorie le aveva ridotte a dieci. La classificazione aristotelica riguarda sia la logica, sia la metafisica; infatti le dieci categorie sono sia i dieci modi di concepire l'essere, sia i dieci modi di realizzare l'essere. Rosmini ritiene di riuscire a operare una classificazione ancora
più breve, riducendo tutte le manifestazioni dell'essere a tre forme pri-
mitive, a cui dà i nomi di forma reale o subiettiva, forma ideale od obiettiva,
forma morale. Credo che sulla classificazionein sé non esistano problemi: essa corrisponde alla classificazionedella verità, la quale assume tre forme principali: Iogica, ontologica e morale. Ciò che invece fa problema è la pretesa del Rosmini di stabilire non solo che le forme dell'essere sono tre, ma che devono essere necessariamente tre e soltanto tre, né una di più né una di meno. In altre parole ciò che fa problema ‘e la deduzione delle tre forme. Su questo punto il Roveretano non segue Aristotele, il quale aveva ottenuto la sua classificazione non col procedimento deduttivo, ma con quello induttivo: egli si era servito dello stesso procedimento con cui aveva ottenuto la classificazione degli animali e delle piante, cioè basandosi esclusivamente sulla osservazione empirica. Anziché Aristotele, Rosmini segue Kant, il quale aveva dedotto le sue categorie, dai dodici tipi di giudizi dell'intelletto, ma battendo una via totalmente nuova e inusitata. Egli deduce le tre forme dell'essere dal modello del mistero trinitario: nella Trinità il Padre genera il Verbo; e il Verbo e il Padre si legano tra loro mediante il vincolo dell'eterno e sussistente Amore, che è lo Spirito Santo. Ecco il passo in cui Rosmini deduce le tre forme primitive dell'essere: e
stesso che, sebbene tutt'intediversi, a lui essenziali”. Ci sono dunque queste forme?
«Chiamiamo forme dell'essere "l'essere ro, è in modi
essere è egli in un modo solo, o in in modo tutto l'essere? Questa ciascun egli si può risolvere, se non per via della contempla-
L'essere, per la propria
più?
e se
è la questione e non zione della mente.
4°) Ibid., n. 570.
natura di
è in più modi, è
-
Antonio Rosmini: una
nuova
metafisica dell'essere
441
queste forme ci sono e sono tre, cioè che l'essere tale è identico in tre modi diversi a lui essenziali. Noi denominiamo queste tre forme subieftiva, obiettiva e morale. Che poi ci siano le due prime, risulta dalla Ideologia e dalle osservazioni, che pur ora facevamo sugli elementi: giacché è evidente che si possono concepire alcuni di tali elementi, ugualmente come esistenti in sé realmente, quanto nella loro essenza, senza che realmente esistano; e questa essenza ‘e la forma obiettiva, come la sussistenza è la forma subiettiva, a cui si riduce pure, come Vedremo, quella che si dice da noi extrasubicttizia. Ma se l'essere è identico nella forma obiettiva e nella subiettiva, queste due forme sono congiunte nell'idenfità dell'essere. Se dunque sono congiunte, c'è tra di esse un vincolo. Ma questo vincolo non risulta dalla considerazione di ciascuna delle due forme presa l'una in separato dall'altra. Dunque questo vincolo costituisce una terza forma, nella quale l'essere è. Poiché questo vincolo non è nulla: dunque è esso stesso l'essere. E poiché in ciascuna delle due forme c'è l'essere intero, l'unione di esse deve abbracciare tutto l'essere sotto una forma unitamente a tutto l'essere sotto l'altra forma: dunque c'è tutto l'essere sotto la forma di unione, poiché non c'è nessuna particella dell'essere che ne vada immune, e però non si dà distinzione tra il subietto che ammette l'unione, e ciò che rimane unito, ma tutt'e unito e tutt'e unione... Le due forme, dunque, l'una delle quali non è l'altra, ma ciascuna è tutto l'essere, devono avere una comunicazione tra loro senza confondersi. Questa comunicazione suppone che l'essere sia per se’ amato, cioè a dire che quell'essere che è assolutamente essente, e che è anche per sé noto, sia anche per sé amato. Ma in quanto è per sé amato, non ‘e per sé assolutamente essente, né per sé noto; dunque l'essere per se’ amato è una terza forma in cui è lo stesso essere. E, appunto perché l'essere per sé amato è lo stesso essere che è nelle due prime forme, né pure questa terza forma toglie l'unità perfettissima dell'essere. V'ha dunque nell'essere necessariamente un'unità perfettissima d'essenza e una trinità di forme».41
Ora noi diciamo che come
questa argomentazione si può restare molto perplessi. Non c'è dubbio, infatti, che esiste anche una forma morale dell'essere, che è quella che corrisponde al bene; ma si tratta ancora di una forma ideale. E lo stesso essere visto come fine da raggiungere. Non è quindi, come pensa Rosmini, un frutto dell'incontro tra l'essere ideale e l'essere reale, ma è l'essere in attesa di diventare reale, oppure l'essere che nel compiDavanti a
mento di un'azione perfeziona la volontà stesso, e allora si tratta dell'essere reale.
41) Teosofîa 1, nn. 148-154.
e
mediante la volontà l'uomo
442
Parte terza
È quindi più convincente la teoria di S. Tommaso il quale distingue le categorie dai trascendentali dell'essere: le categorie sono sempre modi limitati di esprimere 0 di attuare l'essere, mentre i trascendentali sono espressioni globali dell'essere e per questo sono convertibilitra di loro; mentre la convertibilità ‘e esclusa dalle
categorie. S. Tommaso deduce i principali trascendentali dell'essere, il verum e il bonum, dalle due facoltà spirituali dell'uomo: il verum esprime lîntelligibilitàdell'essere, mentre il bomim esprime la sua appetibilità. Nella sostanza la dottrina rosminìana delle tre forme primitive dell'essere corrisponde alla dottrina tomistica dei trascendentali ens, Uerum, bonum. In effetti anche Rosmini collega la forma ideale allîntelletto, come due
fa S. Tommaso col verum, e la forma morale con la Volontà e con l'amore, come fa l’Angelico col bomm-z. Mentre la forma reale corrisponde all'ens
reale, ossia all'essere assoluto.
Ma Rosmini non chiama le forme primitive dell'essere trascendentali, bensì categorie, preferendo il linguaggio kantiano a quello aristotelico— tomistico: «le forme immutabili e incomunicabilidell'essere costituiscono le nostre Categoriewì L'ontol0gia tratta dell'essere in generale e non delle sue concrete attuazioni. Pertanto, una volta dimostrata la necessità che l'essere assuma le tre forme dell'essere ideale, reale e morale Pontologia ha esaurito il suo compito. L0 studio delle Concrete realizzazionidell'essere spetta ai tre grandi rami della metafisica speciale, la Teologia naturale, l'Antropologia e la Cosmologia. Concludendo la sua introduzione generale alla metafisica, Rosmini trova un nome per il suo sistema e lo chiama sintesisrno. La ragione di questo nome è tratto dalla verità che «l'ente non può esistere sotto una sola delle tre forme, se non esiste anche sotto le altre due, quantunque al pensiero umano l'ente, anche sotto la sola forma, si rappresenti come stante da e percettibile in un modo distint0».43 Che cosa dire dell'ermeneutica rosminìana dell'essere, di cui abbiamo riassunto le linee essenziali? A questo quesito daremo una risposta più accurata e articolata alla fine del capitolo, dopo avere esposto il pensiero metafisico del Roveretano intorno all'uomo e intorno a Dio. Per il momento, dobbiamo riconoscere al Rosmini il merito di avere scritto pagine memorabilisul problema fondamentale dell'essere, su cui era da tempo sceso l'oblio dei
filosofi, come è stato notato da Heidegger (il quale peraltro ignora sia S. Tommaso sia Rosmini, che sono i due massimi esponenti della filoso-
42) una, n. 167.
43) Raid, n. 173.
Antonio Rosmini: una nuova nzetafisica dell'essere
443
fia dell'essere, da quando l'interesse per la metafisica è passata dai greci ai cristiani). Nella metafisica moderna {di Cartesio, Spinoza, Pascal, Leibniz, Kant) l'ontologia era praticamente scomparsa e il suo posto era stato preso dalla gnoseologia e dalla critica. Così tutta l'attenzione dei filosofi era rivolta al soggetto conoscente anziché all'oggetto conosciuto, e quindi alle sue certezze piuttosto che alla verità. Rosmini restituisce allbntologia quella dignità che le compete in ogni metafisica che si accosti all’Intero passando attraverso la finestra dell'essere. Questo giustifica il titolo di "massimo metafisico del secolo XIX", che qualche storico ha voluto dare al Rosmini.
UANTROPOLOGIA FILOSOFICA L'uomo e Dio sono le due grandi realtà intorno a cui gira tutta la riflessione filosofica del Rosmini: l'uomo è colui sul quale si irradia la luce dell'essere; Dio è colui dal quale quella stupenda luce promana. Così, gran parte della sua produzione filosofica si concentra su questi due terni. Dell’uomo egli si occupa HEIYAHÌFOpOlOgÎH in servizio della m0rale, nellbàntropologia teologica, nella Psicologia, nei Principi della morale. Di Dio tratta nella Teodicea e nella Teosofia. Nella sua vastissima trattazione Rosmini si propone di rispondere a tre interrogativi fondamentali: Chi è l'uomo? Chi è Dio? Quali sono i rapporti tra l'uomo e Dio? Vediamo anzitutto la sua risposta al primo
interrogativo. Come
osserva
lo stesso Rosmini“ ci
sono
due
tipi
fondamentali di
antropologia: l'antropologia platonica che considera l'uomo dall'alto e, perciò, lo identifica con l'anima e quindi con lo spirito; l'antropologia aristotelica, che considera l'uomo dal basso e lo definisce come una specie del regno animale, vale a dire come un animale ragionevole. Kant aveva utilizzato entrambi questi paradigmi. Nella Critica della ragion pura egli si avvale del paradigma aristotelico, ma così non riesce a trovare una sicura risposta per l'arduo problema della immortalità dell'anima. Invece nella Critica della ragion pratica si serve del paradigma platonico e questo gli consente di salvare la legge morale, la libertà umana e la spiritualità dell'anima. Scnonché gli esiti dualistici del pensiero —
-
kantiano non risolvevano, anzi aggravavano ulteriormente Yantinomia tra la posizione platonica e quella aristotelica.
44)
Cf. nn.
Antropologia in
24
s5.
servizio della scienza morale, Ediz. nazionale, Milano 1954,
444
Parte terza
Rosmini, che ha
lità", della sintesi
uno
spiccato senso dell'armonia, della
"unità
e
tota-
della completezza, considera l'uomo sia come animale sia come spirito e studia l'uomo come «soggetto in cui convengono Panimalità e l'intelligenza».45 Egli critica quindi le tradizionalidefinizioni di Platone e Aristotele. Secondo la definizione platonica, «l'uomo è un'intelligenza servita di e
organi». Questa definizione, osserva tamente l'uomo
il Rosmini, non distingue adeguaaddice più all'angelo che all'uomo, fornito di «un corpo come di una macchina
dall'ange|o; anzi si
perché e angelo un essere
informarlo di sé>>.46 Secondo la definizione aristotelica, «l'uomo è un animale ragionevole». A questa definizione Rosmini rimprovera i seguenti difetti: 1) dicendo che è un animale ragionevole si esprime la parte intelligente di questo animale, ma si trascura la parte volitiva che nell'uomo non è meno importante della prima; 2) dire semplicemente che «l'uomo è un animale ragionevole» può «indurre a credere che nell'uomo il soggetto fosse un animale e nulla più, e che la ragionevolezza non fosse altro che una proprietà o facoltà, o attributo di questo animale>>.47 Contro queste due definizioni che Rosmini considera unilaterali, essendo la prima troppo sbilanciata verso lo spirito e la seconda verso Panimalità, egli propone la seguente definizione dell'uomo: <
>.49 Più avanti Rosmini propone una seconda definizione più ampia, che esplicita alcuni elementi caratteristici della sua antropologia. Ecco la seconda formulazione: «L'uomo è un soggetto, animale, dotato dell'intuizione dell'essere ideale-indeterminato, e della percezione del sentimento fondamentale-corporeo, e agente in modo conforme alla animalità e all'intelligenza che possiedeMD senza
45) Epistolario IV, p. 614.
4t‘) Antropologia cit., n. 26. 47) lbid, nn. 27 e 31. i“) lbiti,n. 34. 49) lbid. 5") lirici, n.37. ...,
Antonio Rosa-tini: una nuova metafisica dell'essere
445
Come si vede, in tutte queste definizioni Rosmini evita scrupolosaparlare di anima e di corpo, i due termini con cui aveva semlavorato l'antropologia classica; e si avvale di un linguaggio che è pre alla sua ideologia, la quale, come sappiamo, pone Conforme pienamente l'intuizione dell'essere ideale alla base di tutto. Allora, l'uomo è anzitutto Pintelligenza che coglie l'essere ideale. Ma poiché questa è un'intui— zione astratta, pura forma del conoscere, l'uomo raggiunge il reale mediante il sentimento fondamentale-corporeo. Ecco quindi i due ingredienti principali dell'antropologia rosminiana: l'intuizione dell'essere ideale che e proprietà dello spirito, e il sentimento fondamentale-corporeo che è proprietà deltanimalità. Dopo aver definito l'uomo Rosmini affronta l'analisi della sua parte animale. Qui la sua attenzione si concentra sugli istinti che sono i dinamismi nei quali prende corpo e si esprime il sentimento fondamentale corporeo. L'attività dell'animale, secondo il Roveretano, si può ridurre a due forme: l'azione con cui l'animale aumenta se stesso e quella con cui logora la sua energia, ossia «quella colla quale esso concorre alla produzione del sentimento, e quella colla quale opera dietro il sentimento già prodotto>>.51 La prima è chiamata istinto vitale, la seconda istinto sensuale. L'istinto vitale è, si potrebbe dire, quell'atteggiamento dell'anima sensitiva che continuamente è tesa nel produrre la Vita, nel riparare i danni e le perdite che l'animale subisce. «L'istinto vitale in tutte le sue operazioni non ha altro scopo che di produrre il sentimento eccitato e unico, e così di dar vita al corpo» ,52 Perciò l'istinto vitale è essenzialmente vivificatore. Invece l'istinto sensuale va in cerca di sensazioni e procura le sensazioni della vista, dell'udito, del gusto, dell’odorato e del tatto. Come si è detto questi istinti sono i canali del sentimento fondamentale corporeo. Come tutte le idee presuppongono l'idea dell'essere, così tutte le sensazioni presuppongono il sentimento fondamentale corporeo: l'idea dell'essere è il primo pensato o prima logico, oltre che ontologico; il sentimento fondamentale corporeo è il primo psicologico o sentito, di cui le sensazioni sono modificazioni, e che rende possibile la percezione degli oggetti esterni mentre ci dà la coscienza di noi come uniti a un corpo; ci mette a contatto con le cose e ci pone come sensibilità pura di noi a noi stessi. Nel Terzo Libro dellfintropologia in servizio della scienza morale Rosmini studia la parte spirituale (la spiritualità) dell'uomo la quale si avvale di due attività: intellettiva e volitiva. mente di
51) lbid, n.369. 51) lbid, n. 403.
446
Parte terza
L'attività intellettiva oltre che
con l'intelletto si esercita anche con la Mentre ‘e l'intelletto ragione. pura intuizione dell'essere ideale; la ragione applica l'essere ideale alle sensazioni, e in questo modo raggiunge il mondo reale. La ragione ha più funzioni: la percezione, 1'astrazione, la deduzione di scienze pure (ossia quelle che riguardano gli esseri ideali), e la deduzione delle scienze complete (ossia riguardanti gli esseri reali). Ciò che caratterizza la volontà umana è di essere libera. La libertà è una facoltà con cui l'essere intelligente sceglie un bene vero o apparente con pieno dominio del proprio atto. La libertà può essere, come è di fatto nell'uomo viatore, libertà bilaterale.Questa si dà, quando l'uomo è posto nell'alternativa di scegliere tra un bene oggettivo conosciuto intellettivamente e un bene soggettivo che stimola e alletta piacevolmente la sua sensitività. Secondo che l'atto di scelta è conforme al bene oggettivo, oppure è difforme, la libertà diventa meritoria o demeritoria. La libertà è la facoltà più sublime dell'uomo, quella che gli conferisce la più alta dignità. ljanimalità e l'intelligenza, con le loro rispettive funzioni, non sono due binariche corrono paralleli senza incontrarsi mai, ma sono due attività che appartengono al medesimo soggetto, allo stesso individuo. È nella definizione del soggetto umano come persona di cui Rosmini tratta nel Quarto Libro dellflntropologia che si rivela lo spirito cristiano del suo filosofare. Come tutti sappiamo il concetto di persona è una delle grandi acquisizioni del cristianesimo. Esso dice essenzialmente che l'essere umano appartiene all'ordine dello spirito, che è l'ordine della intelligenza e della volontà. Il fulcro dell'antropologia rosminiana si trova nel capitolo dedicato alla definizione della persona. È qui che Rosmini elabora la sua dottrina metafisica della persona in genere e della persona umana in specie.“ «Si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supremo e incomunicabilemfl Il concetto di persona dice di più del concetto di soggetto. Soggetto dice semplicemente un principio supremo di attività in un individuo senziente qualsiasi, sia esso intelligente o no. Invece persona dice un principio supremo in un individuo intelligente. Sicché la differenza tra soggetto e persona è quella che corre tra il genere e la specie. Le proprietà principali della persona sono quelle indicate dalla sua stessa definizione: 1. principio attivo, 2. supremo, 3. incomunicabile. In primo luogo si tratta di un principio attivo. Qui attivo viene inteso dal Rosmini nel suo significato più esteso, «nel quale abbraccia in qualche modo, anche la passività, sicché la persona è quel principio a cui si —
—
53) Cf. G. BOZZETTI, La persona rmiana, Domodossola 1946. 54) ROSMINI, Antropologia, n. 832.
Antonio Rosmini: una nuova rrzetafisica dell'essere
riferisce
da cui
447
parte ultimamente tutta la passività
e tutta l'attività del1’inclividuo>>.55 In secondo luogo è un principio supremo, cioè «tale che nell’individuo non se ne trovi altro che gli stia sopra onde egli mutui l'esistenza; anzi tale che se vi sono nell’individuo degli altri principi, questi dipendono da lui e non possono sussistere in quelfindividuo se non per il nesso che hanno con lui».56 Infine dev'essere incomurzicabile: questa proprietà deriva dalla nozione di individuo, dato che «l'individuo non può comunicarsi senza cessare di essere quell’individuo ch'egli era prima, e allo stesso modo deve intendersi l’incomunicabilitàdel soggetto e della persona».57 La persona, incomunicabile,«è essenzialmente una», cioè ogni persona è un'unità, una singolarità irriducibile: vi è molteplicità nelle Cose, non nelle persone. Ogni persona è se stessa e irripetibile,più persone sono più unità che non formano una massa. L'esistenza di ogni persona come persona «comincia e finisce in sé»; ciascuna di esse è «un uno subiettivo»; di quest'uno, che è la persona singola, non esistono due e
esemplari, ma uno solo. In quanto principio attivo supremo intelligente la persona è «causa delle proprie azioni» ed è quindi autonoma. Di qui anche la completezza della persona: «l'ente che è dotato di intelligenza è un ente completo, e però questa sola maniera di enti, cioè gli intelligenti, meritano la denominazione aristotelica di entelechie, che significa perfezione, denominazione ontologica perché tratta dell’intima costituzione degli enti stessi». Dunque tutto ciò che è e non ha intelligenza è relativo alla persona, che è ente intelligente. Da qui la forte affermazione della Logica: «Ciò che è ma non è persona, non può stare senza che ci sia una persona: principio
di persona». In questo senso, solo alla persona conviene l'esistenza, ad essa è relativo tutto il reale, che ‘e appartenenza della persona. L'unità dell'essere umano proviene dal suo principio spirituale, il quale è in grado di aggregare a se’ e di informare il principio materiale. Qui si affaccia l'eterno problema dei rapporti tra anima e corpo, o tra spiritualità e animalità come talvolta ama esprimersi Rosmini. A questo difficile problema il Roveretano dedica molte attenzione sia nel|'Antr0— pologia a servizio della scienza morale sia nella Psicologia. Il problema dei rapporti tra anima e corpo è il più classico e dibattuto di tutti i problemi antropologici. Rosmini ne conosce perfettamente tutta la storia e tutte le principali soluzioni: di Platone, Aristotele, Agostino,
Tommaso, Cartesio, Malebranche, Leibniz, ecc.
55) una, n. 834. se») Ibid. 57) una, n. 836.
448
Parte terza
Il pericolo in cui incorrono quasi tutti i filosofi è 0 di accentuare eccessivamente la discontinuità tra anima e corpo (è i! caso dei platonici) oppure di mettere troppo l'accento sulla loro unione (è il caso degli aristotelici): i platonici propendono per una unione accidentale; mentre gli aristotelici affermano l'unione sostanziale. A questi pericoli sono esposte tutte le antropologie dicotomiche. Questo rischio si può scongiurare se il problema si gioca con tre carte anziché con solo due: se al corpo e all'anima si aggiunge lo spirito, e si concepisce lo spirito non come una qualità dell'anima, ma, viceversa si considera l'anima come una funzione dello spirito. Questa è, sostanzialmente, la soluzione che sposa il Rosmini, anche se il suo linguaggio su questo punto risulta alquanto incerto e oscillante. Ecco alcuni passi in cui Rosmini parla dello spirito come principio ontologico fondamentale, che unifica e sostiene tutto l'essere umano:
«Questo principio unico e semplicissimo, il quale da
una
parte sog-
giace alla passività prodottagli dall'azione del corpo, dall'altra soggiace alla passività o meglio ricettività dell'essere universale, è appunto ciò che si chiama lo spirito umano. Nello spirito umano adunque, principio senziente intellettivo, giacciono virtualmente tutte le potenze, che poscia, date le occasioni opportune, si distinguono manifcstandosi con determinate operazioni. Perocché l'atto stesso col quale esso spirito esiste, ‘e la virtù universale di operare in tanti modi diversi, in quanti l'attività sua poscia si svolge e appalesa».58 «Le parti in cui noi abbiamo diviso la definizione dell'essere umano furono tre: Yanimalità, l'intelligenza e il principio comune dell'animalità e dell'intelligenza, il soggetto (lo spirito umano)».59 «D'altra parte, tutto ciò che appartiene all'intelletto è immune da qualsiasi concrezione e contatto di corpo, e perciò costituisce da solo una sostanza spirituale>>fi0 «Una sostanza che non abbia niuna proprietà del corpo e della materia, si dice spirituale, ossia spirito: dunque l'anima umana è uno spiritomm Come sappiamo, l'antropologia rosminiana è costruita dall'alto. Ma diversamente dalle costruzioni platoniche che si avvalgono soltanto di due elementi e cosi si trovano in grandi difficoltà quando si tratta di spiegare i rapporti tra anima e corpo, Rosmini, introducendo lo spirito come terzo elemento distinto sia dall'anima sia dal corpo, è in grado di offrire una concezione profondamente unitaria dell'essere umano.
58) IbicL, nn. 529-53Ù.
59) Ibid, n. 770. 6°) 111111., n. 502. 61) Psicologia, n. 133.
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
449
Rosmini critica esplicitamente le due versioni più moderne del platonismo: l'armonia prestabilita (Leibniz) e lbccasionalismo(Malebranche). Secondo il Roveretano con queste ipotesi «noi non potremmo avere nessuna cognizione del corpo; perocche’ ogni cognizione nostra del corpo si
conoscere che il corpo è termine del sentimento dell'aninella nozione stessa di corpo si involge come essenziale una ma; e però relazione di unione con l'anima».6Z Dei rapporti tra anima e corpo Rosmini si limita a dare una spiegazione psicologica. La sua tesi è che «l'anima e il corpo sono congiunti per via di sentimento>>fi3 «Nella prima e fondamentale percezione del termine corporeo consiste appunto il nesso dell'anima col corpo, che costituisce l'uomo come ente razionale>>fi4 A questa percezione fondamentale Rosmini dà il nome di sentimento fondamentale. Il sentimento fondamentale con cui l'anima conosce il proprio corpo ha un duplice risvolto, intellettivo e sensitivo. Scrive il Rosmini:
riduce
a
farci
«L'unità dell'uomo consiste in un sentimento unico, proprio del princisentimento unico non è soltanto il sentimento animale, ma anche il sentimento razionale, per modo che in questo si contiene quello come nel più si contiene il meno; sicché l'uomo nel primo suo stato non ha già più sentimenti, cioè il sentimento animale e il razionale, ma un unico e semplicissimo sentimento, avente un principio e un termine. Egli ha un principio, ed è lo stesso principio razionale, e ha un termine, che è l'idea dell'essere, e in quell'essere vede il sentimento animale, che esperimenta; giacché nella percezione accade, per dirlo di nuovo, che del sussistente sentito e dell'essere si formi un solo ente, oggetto dell'unico principio razionale. Questa percezione primitiva e fondamentale di tutto il sentito (principio e termine) è il talamo per così dire, dove il reale (sentimento animale-spirituale) e l'essenza, che si intuisce nell'idea, formano una cosa; e questa cosa è l’uomo».65 «Ma l'anima umana non è soltanto sensitiva, ma anche intellettiva. Ella è un principio intellettivo e sensitivo a un tempo. In quanto è principio sensitivo ha per termine il proprio corpo; ma poiché il principio intellettivo è unificato col sensitivo, di maniera che è un principio solo con due attività, perciò l'anima intellettiva e sensitiva, o in una sola parola l'anima razionale, ha per suo termine il corpo. In quanto sensitiva, l'ha come termine sentito, in quanto è intellettiva, l'ha come termine inteso; il corpo dunque è un termine dell'anima umana sentito-inteso. V’ha dunque una percezione intellettiva del proprio corpo, primigenia e immanente, e in questa percezione consiste il nesso fra l'anima umana e il corpo>>fi6
pio razionale, nel qual
62) lbili,n. 252. 63) lbid, n. 250. 54) Teosofia, cit., III, p. 11. 65) Psicologia, n. 264. 55) Sistema filosofico, n. 140.
450
Parte terza
problema del rapporto tra anima e corpo ò strettamente connesso quello della spiritualità e immortalità dell'anima, che è il problema più spinoso dellbntologia antropologica. L'anima muore col corpo, come Al
sembrano suggerire le immediate apparenze, oppure
se ne
vola via
e
fa
ritorno alla patria beata? Esiste un ampio accordo tra i filosofi che l'anima
0 in toto (Platone) 0 spirituale. Rosmini, assegnando all'anima lo statuto di persona e quindi di un essere il cui supposito (soggetto, principio ultimo) è di ordine spirituale, si colloca con coloro che affermano la natura spirituale dell'anima umana e difendonol'immortalità personale. L'argomento principale su cui il Rosmini fonda l'immortalità dell'anima è strutturato sulla falsariga dell'argomento platonico dell'affinità (parentela) dell'anima Col mondo delle Idee e dell'argomento agostinia-
in
parte (Aristotele) è di
natura
dell'affinità (parentela) dell'anima con la Verità. Rosmini deriva l'immortalità dell'anima dalla sua affinità (parentela) con l'idea dell'essere e ultimamente con l'essere stesso. Ecco un paio di testi in cui viene propo-
no
sta
questa argomentazione:
«Non essendo l'anima umana che ”un principio senziente che ha per termine del suo sentire l'ente in universale", egli è manifesto che attenendosi questa immobilmenteunita all'ente e questo essendo eterno, semplicissimo, fuor di luogo e di tempo, anch'essa, l'anima, si fa par-
tecipe di tutte queste nobilissimeprerogative>>fi7
«Abbiamoveduto che i termini (gli elementi costitutivi dell'uomo) due, il corpo e l'essere in universale. Ora, qual ente straniero potrebbe distruggere questi termini dell'ente dell'uomo? Gli enti stranieri sono Iddio e le cose contingenti. ln quanto a Dio abbiamo già supposto che egli non annienti alcuna delle cose da lui create: dunque la distruzione dell'uomo non può venire da Dio. Ma che cosa possono a distruzione dell'uomo le attività, di cui sono fornite le cose contingenti? Che cosa possono a distruzione dei due termini dell'atto primo, per il quale l'uomo è? Il corpo dell'uomo, uno dei termini, e un complesso di elementi organici nel più perfetto modo specifico, e cosi individuati. Ora le forze della natura possono disciogliere questa organizzazione, e quindi distruggere con essa il sentimento animale proprio dell'uomo. Ma sull'essere universale tutte le forze della natura nulla possono; perocché l'essere universale ‘e impassibile, immutabile, eterno, né soggiace all'attività di alcun ente. Dunque quella virtù, colla quale l'uomo intuisce l'essere universale, non può perire. Ma questa virtù, questo primo atto è l'anima intellettiva; dunque l'anìma intellettiva non può cessare di esistere nella sua propria individualità, giacché ha la realtà sua propria che la individua; il che volgarmente si esprime dicendo che è in1mortale>>f=5 sono
67) Antropologia, n. 820. 63) Psicologia, n. 679.
Antonio Rosmini: una nuova nzetafisica dell'essere
451
qui
abbiamo esaminato la risposta del Rosmini al primo interroChi è l'uomo? Passiamo ora al secondo: Chi è Dio? gativo: Fin
LA
TEOLOGIA NATURALE
Della questione di Dio si occupa la
teologia naturale. Essa si distingue dell'ente considerato in tutta la sua estensione dallîmtologia. Questa tratta così come è conosciuto dall'uomo: «tratta dell'ente nella sua essenza e nelle tre forme in cui è l'essenza dell'ente, la forma ideale, la forma reale e la forma nmrale». Invece la teologia naturale <
a
posteriori (Tommaso, Scoto, Locke), era
particolarmente arduo e spinoso. Rosmini consapevole dell'importanza dell'argomento e della sua difficoltà non cessò di cimentarsi in mille modi in molti suoi scritti, tanto che qualcuno ha potuto scrivere che in Rosmini si avverte Yassillo dell'esistenza di Dio.” In effetti il Roveretano non si stanca mai, qualunque sia l'argomento che sta trattando, di mettere in rilievo nuove formulazioni raziocinative riguardanti l'esistenza dell'Assoluto, onde spesso ricorre, col tono entusiasta del ricercatore appassionato, Yesclamazionesoddisfatta: ecco una nuova prova! Lo stesso assillo quand'era ancora giovane l'aveva indotto a proporsi di ricercare e di accumulare tutte le prove dell'esistenza di Dio che erano state formulate dai filosofi e che comunque si potessero formulare, convinto com'era che ogni processo argomentativo portasse nuovi elementi al discorso sull’Essere assoluto?‘ Rosmini esclude categoricamente che l'uomo abbia una intuizione diretta di Dio. L'ente che noi naturalmente intuiamo «è illimitato, perché è l'essenza stessa dell'ente ma non ‘e tuttavia l'ente assoluto, perché l'intuizione non coglie l'essenza dell'ente se non sotto una delle sue tre forme, la forma ideale (...). L'ente dunque nella sua totalità e pienezza non è dato naturalmente all'esperienza dell'uomo, l'uomo non può sadiventato
59) 7°) 71)
Sistema filosofico, n. 176. Cf. F. PERCIVALf-î, L'ascesa naturale a Dio
Cf.
Teologia giovanile.
nellafilosofladi Rosmini, Roma 1977.
452
Parte terza
pere come egli sia, benché egli possa sapere che è in una guisa travalicante l'umana
intelligenza».72
Rosmini non nega il valore delle cinque vie di S. Tommaso ma pensa che in fondo, gli argomenti a posteriori si tondino su un principio a priori, poiché quegli argomenti hanno valore se sono validi i principi, i quali non possono derivare dall'esperienza, altrimenti essi, che sono la condizione della conoscibilità,deriverebbero dal condizionato, e non avrebbero che un Valore soggettivo. Le dimostrazioni a posteriori hanno dunque la loro base in un principio cli ragione evidente in se stesso. Di fatto su questo punto non esiste nessun disaccordo con S. Tommaso, il quale riconosce ovviamente il valore assoluto e quindi a priori dei principi su cui fonda le cinque vie. Ma non per questo le sue vie diventano a priori: perché il punto di partenza non ‘e un principio, ma un fatto, un fenomeno suscettibiledi esperienza sensibile. Tra le tante vie elaborate dal Rosmini le più note sono quelle che egli propone nel Sistema filosofico, che sono quattro. La prima parte dall'essenza dellente intuito, che è eterna e necessaria; la seconda dalla forma ideale, che a sua volta è un oggetto eterno; la terza dalla forma reale, in quanto contingente; la quarta dalla forma morale che è legge eterna, necessaria, assoluta. Leggiamo insieme queste quattro argomentazioni: si intuisce: dimostrando che ella Ora non potrebbe essere necessaria. eterna è e cosa non è nulla, ma tale s’ella non sussistesse identica anche sotto la forma di realtà e di moralità. Ma l'essenza dell'ente è infinita; ed essa esistente sotto le tre forme è l'essere da ogni parte infinito, assoluto Dio. La seconda dimostrazione dell'esistenza di Dio si trae dalla forma ideale. Questa forma ideale ‘e la luce che crea le intelligenze, ed è luce «La
prima dall'essenza dell'ente che
eterna e oggetto eterno; dunque dev'esserci una mente, un soggetto eterno (...). Quesfessere è dunque assoluto, è Dio. La terza dimostrazione si trae dall'essere reale percepito dall'uomo ed è quella che abbiamo accennata, con cui la mente sale dal contingente al necessario, alla prima causa e ragione di tutto. La quarta dimostrazione si trae dalla forma morale conosciuta all'uo-
Infinita e insuperabile è l'autorità della legge morale, infinito il pregio della virtù e Pignobilità del vizio. Questa forza obbligante, questa dignità della legge morale, non è nulla, dunque ella è eterna, necessaria, assoluta. Ma nulla sarebbe se ella non esistesse in un essere assoluto. L'essenza della santità appartiene all'essenza dell'essere, di cui è l'ultimo compimento; come all'essenza dell'essere appartengono l'altre due forme. Vi ha dunque un essere assoluto, Dio».73
mo.
72) Teodieea, n. 73. 73) Sistemafilosofico, nn. 178-181.
Antonio Rosmini: una
nuova
nîetafiìsica dell'essere
453
Le quattro vie rosminiane sono tutte basate sulla dignità, il Valore, Yeminenza dell'essere in tutte le sue manifestazioni o forme, ideale, reale, morale, una dignità che lo pone al di sopra del pensare e dell'agire umano, del quale l'essere in sé è il criterio, la misura, la forma. Perciò l'essere da noi intuito non è un essere puramente relativo alla mente intuente, ma è prima di tutto e necessariamente un essere in sé, un essere
sussistente, Dio.
Ecco un altro testo, uno dei più belli, in cui Rosmini argomenta la sussistenza dell'essere a partire dalla intuizione dell'essere ideale da parte della nostra mente:
«L'essere in universale, pensato per natura dall’umana mente, è di così fatta natura, abbiamo detto, che da una parte non mostra alcuna sussistenza fuori della mente, e quindi si può denominare essere logico; e dall'altra ripugna che sia una modificazione del nostro spirito, anzi spiega tale autorità, a cui il nostro spirito è interamente suddito: noi siamo consci a noi medesimi di nulla potere contro l'essere, di non poterlo immutare menomamente; di più egli è assolutamente immutabile, egli è l'atto conoscibiledi tutte le cose, il fonte di tutte le cognizioni; non ha nulla che sia contingente, come noi siamo: è un lume che noi percepiamo naturalmente, ma che ci signoreggia, ci vince, ci nobilita col sottometterci interamente a sé. Oltracciò noi possiamo pensare che noi non fossimo; sarebbe impossibileche l'essere in universale, cioè la possibilità, la verità non fosse. Avanti a me il vero fu vero, né poté mai essere un tempo che fosse altro che così. E questo nulla? No certamente: che il nulla non mi costringe, non mi necessita a pronunziar nulla: ma la natura della verità che risplende in me, mi obbliga a dire: "Ciò è", e ove io non lo volessi dire, saprei tuttavia che la cosa sarebbe egualmente, anche a mio dispetto. La verità dunque, l'essere, la possibilità mi si presenta come una natura eterna, necessaria, tale contro a cui non può alcuna potenza che valga a disfare la verità (...). Questo fatto dunque della verità, che mi sta presente ed è il mio lume intellettuale mi dice: l) che v’ha un effetto in me che non può essere prodotto né da me stesso, né da nessuna causa finita; 2) che questo effetto è l'intuizione di un oggetto a me presente, che è intrinsecamente necessario, immutabile, indipendente dalla mia mente e da ogni mente finita. Questi due elementi mi conducono per due Vie a conoscere l'esistenza di Dio>>.74
In breve, la trascendenza dell'essere
(e della verità) rispetto all'uomo
chiaramente che il suo fondamento si trova altrove: nell'essere sussistente, necessario, assoluto, eterno, Dio. L'argomento rosminiaruo è, palesemente, una parafrasi del celebre argomento agostiniano basato sulla verità, che essendo superiore a noi, non può trarre origine che da Dio stesso, col quale si identifica. attesta
74)
Nuovo Saggio, III, Roma 1934, pp. 268-269.
454
Parte terza
L'argomento del Rosmini, come lo stesso argomento di Agostino, non può essere classificato tra gli argomenti ontologici (di Anselmo, Cartesio, Spinoza, Leibniz). Infatti non è costruito sulla definizione di Dio (il massimo, ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, il perfetto ecc.), bensì su un fenomeno: la manifestazione dell'essere (della verità) alla nostra mente, una manifestazione che esige una ragione, una causa adeguata. Per questo motivo Rosmini si richiama apertamente al principio di causalità. «Esiste una causa che manifesta una virtù infinita, e che perciò deve essere infinita».75 Ciononostante, Rosmini pretende che l'esistenza di Dio si argomenti a priori anche se non è per se nota: «"Dio esiste” si deve dire dimostrabilea priori, ma non per sé nota, perché ha bisogno di un'altra proposizione precedente nella mente nostra, dalla quale e colla quale si argomenti; benché non abbia bisogno di essere dedotta a posteriori dalle notizie ricevute dai sensi esterni» .7‘?
ragione per cui il Roveretano ritiene di poter considerare la sua dimostrazione a priori e non a posteriori è che l'idea dell'essere da cui prende il via Pargomentazione non è ricavata dall'esperienza sensitiva, ma è il frutto di unîntuizione immediata e originaria della nostra mente. Oltre all'argomento fondato sull'idea dell'essere che in Rosmini è l'argomento principe, il Roveretano talvolta presenta anche un altro argomento originale, che ‘e perfettamente in linea con la sua psicologia, La
dove, come si è visto, oltre all'idea dell'essere c'è anche un altro concetto
il "sentimento fondamentale" del proprio esistere. Su questo concetto Rosmini basa quella che egli stesso chiama prova di sentimento. In che consiste la prova? Nella concatenazione necessaria del sentimento del nostro esistere, che non possiamo non avvertire che come limitato e contingente, con l’esistere di colui che, possedendo l'essere pienamente e identificandosi con l'essere stesso, dà conto del nostro esistere. Grazie a tale sentimento «l'esistenza di Dio diviene per ogni uomo la più facilee luminosa verità». Mentre la prima via è di tipo "ontologico” e a priori, la seconda quella fondata sul sentimento è chiaramente di tipo antropologico e ila posteriori. Ad ogni modo sia attraverso l'idea dell'essere sia attraverso sentimento del proprio esistere non v'è dubbio che per Rosmini l'uomo può rendersi facilmenteconto razionalmente dell'esistenza di Dio. di Di tutt'altro genere è la conoscenza che l'uomo ha della natura Dio. Su questo punto Rosmini condivide la posizione della teologia negativa di Agostino e dello Pseudo Dionigi. Nel Sistema filosofico il Roveretano scrive: «Di questo Essere assoluto che non intuiamo, che non per-
importante,
-
-
-
75) lbid. 76) Teosofia I, Roma 1938, p. 217.
—
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
455
cepiamo, nulla possiamo sapere cli più di quanto ci mostra la stessa esigenza della cognizione che possiamo avere di Dio nell'ordine naturale: e perciò la cognizione nostra della divina natura si potrebbe chiamare negatiVa-ideale». La stessa tesi viene ribadita nella Teosofia dove leggiamo: «Riguardo alla mente umana, questa nella presente vita non intuisce
Flîssere assoluto, ma se ne forma un concetto per via di determinazioni logiche, concetto vero ma negativo. Con questo concetto dunque si può definire l’Essere assoluto in modo che non si confonda con nessun altro. E poiché ciò che si esprime nella definizione della cosa è l'essenza (...) perciò l'uomo conosce in qualche grado l'essenza di Dio. Ma questa essenza è puramente logica e negativa; tuttavia non è falsa, perché ciò che ha di limitato e difettoso non può ingannare, per-
ché l'uomo ne riconosce il difetto»?
Un'accusa da cui Rosmini si è sempre difeso è quella di ontologisrno. Secondo i suoi avversari, se si attribuisce all'uomo, come fa il Roveretano, un'intuizione dell'essere ideale, bisogna ammettere che l'uomo conosce direttamente Dio. Fin dal 1830, nel Nuovo saggio sull'origine delle idee Rosmini precisa come si debba negare che l'essere dato immediatamente alla mente possa identificarsi con Dio: «Se codesto si dispiegasse in modo più manifesto dinanzi alla nostra mente, facendo scaturire dal proprio fondo la propria attività, e con ciò si terminasse e si compìsse, noi vedremmo Dio. Ma, ben lungi da ciò, noi non vediamo naturalmente l'essere se non in modo imperfetto, e la sua attività iniziale ci nasconde il suo terminewfi Tra l'essere ideale indeterminato all'essere reale infinito non esiste nessun passaggio immediato: c'è bisogno del ponte dell'essere reale finito, e questo è solo un simbolo e non uno specchio dell'essere reale infinito. Scrive il Rosmini nella sua Teosofia:
«(L'essere ideale) contiene il reale virtualmente nei propri visceri, e questo basta a fare ch'egli si possa comunicare, e a dare indizio della necessità del reale corrispondente; ma non basta a fare che si percepi-
sca attualmente il reale stesso. Contenere nei propri visceri virtualmente il reale, e averne in sé la ragione, viene al medesimo. Quindi è che sabbia nel solo reale un punto nel quale la mente appoggiandosi si può slanciare a indovinare, per così dire, che un reale corrispondente all'ideale debba esistere, benché non lo percepisca, né sappia determinarne le positive qualità. Ma la mente però non può elevarsi a tale induzione, se prima non è messa in movimento e se non ha conosciuto per esperienza qualche reale finito. Vi è dunque nellideale una cotal scienza di semplice indicazione (...) del reale: scienza che noi diciamo negativa, perché non sa
77) 75)
lbld. V, 1939, p. 88. Nuovo saggio, n. 1179.
456
I’arte terza
indicare le positive qualità del reale, di cui però quasi divina la necessaria esistenza (...). E dunque da conchiudersi che l'essere reale infinito non può essere
percepito da nessun essere finito per sua propria natura; ma solo l'infinito reale può percepire se stesso per sua natura. Se dunque l'essere finito percepisce il reale infinito, non può percepirlo che come cosa strana alla sua natura e perciò come cosa sopraggiunta e datagli altronde. E questo è quello che insegnano anco i teologi cristiani quando dicono che niun essere finito può vedere Iddio per natura, ma solo per grazia>x79 Escluso dunque che l'oggetto clell’intuito naturale sia Dio, Rosmini passa a vedere quali possano essere le cognizioni che noi ci procacciamo naturalmente di questo Essere superiore alla natura. Per risolvere questo problema la maggior parte degli Scolastici aveva fatto appello al principio del! ‘analogia. E quello che fa anche Rosmini. Per ciò che riguarda la conoscenza di Dio il Roveretano distingue tre fonti: la rivelazione, la creazione e il ”ragionamento ontologico". In tutti e tre i casi si tratta di "cognizioni analogiche”. Secondo Rosmini la "via tortuosa" dell'analogia comprende due momenti, uno positivo e uno negativo. Nel primo si «ragiona di Dio colle idee imperfette e analogiche cavate dalle contingenti nature, le sole che abbiamo». Nel secondo «si riconosce che questo nostro discorso è imperfetto, limitato, inadeguato, senza poterlo tuttavia mutare in un altro perfetto, illimitato, adeguato al grande argomento>>fi0 A sostegno di questa sua interpretazione della dottrina dellanalogia che è un'interpretazione riduttiva rispetto alla dottrina dionisiana e tomista, che al momento positivo e negativo affianca un terzo momento, quello eminenziale Rosmini analizza idee quali sapienza, bontà, potenza ecc., e giunge ai seguenti risultati: -
-
«Non avendo noi quaggiù altro mezzo di conoscere che l'uso di quelle idee, siamo costretti di tentare di conoscere con esse anche Dio, e in parte lo veniamo a conoscere veramente, perché sopraggiunge il ragionamento ontologico, il quale ci dice che ciascuna di quelle perfezioni che sono separate fuori di Dio, in Dio sono lo stesso Dio (...). Ma il ragionamento ci dice che così dev'essere rispetto al1’Essere supremo, non ci spiega però come ciò sia, vale a dire non ci mostra nessuna perfezione sussistente; onde ci dice quello che Iddio non è, ma non ci dice già quello che è: "una sussistenza, che nella sua semplicità racchiude ciò che ha la specie e il genere"; non ci mostra, non ci fa percepire, pensare una tale sussistenza, più che la definizione del colore lo faccia pensare al cieco; ci mostra i termini, ma non il loro nesso, nel quale consiste l'essere divino>>fiî
79) Ttèosrfia V, Roma 1939, p. 379. 5°) Psicologia III, Milano 1949, pp. 23 ss. m) lbid, pp. 25-26.
Antonio Rosmini: una HHOUH
metafisica dell'essere
457
che l'uomo ha di Dio sia estremamente povera, limitata e sostanzialmente negativa, egli sa comunque che Dio non può essere privo di quelle potenze spirituali di cui è egli stesso dotato, l'in-
Benché la
conoscenza
telletto e la volontà e di una lunga serie di perfezioni come la sapienza, la bontà, la bellezza, l'essere stesso, la semplicità, l'eternità, l'infinita ecc. Di tutte le operazioni divine, in qualsiasi sistema metafisico, quella che conta maggiormente è la creazione. Questa operazione è il risultato dell'amore di Dio ad extra, verso le creature, un amore che presuppone un atto della divina sapienza, che predispone un esenzplare del mondo che intende creare. Ecco come Rosmini descrive i due momenti, della concezione e della realizzazione della creazione: «Abbiamodetto che (la creazione) è l'opera della libertà creatrice di Dio. La libertà creatrice è una virtù, un potere dell'Essere assoluto nella sua forma subiettiva. ljlîssere assoluto nella sua forma subiettiva ama infinitamente se stesso inteso nella sua forma obiettiva: l'Essere ama infinitamente l'Essere. Quesfamore lo porta ad amar l'essere in tutti i modi nei quali è amabile,nei quali può essere amato. Per amarlo in tutti i modi egli fama non solo come Essere assoluto e infinito, ma anche come essere relativo e finito: questîirnore è l'atto creativo. Crea dunque a se stesso un oggetto finito amabile, per l’espansione dell'amore e questo è il Mondo. Per crearlo deve: 1°, concepirlo, sì perché questo principio creativo è intelligenza, sì perché non si può amare quello che non s'intende; 2°, realizzarlo, perché se non fosse realmente in sé l'oggetto dell'amore non esisterebbe, ma solo sarebbe possibile, e ciò che si ama visto nella sua possibilità, si Vuole che esista. Quindi i due elementi dell'essenza e del reale, nati a un parto e formanti gli enti mondialbzfi?
Nel primo momento Dio vede in se stesso ab aeterno l'essere finito, tutto virtualmente in esso compreso. Questa visione dell'essere finito nel-
l'infinito non è ancora l'atto libero della creazione, ma appartiene all'atto necessario della divina intelligenza con cui conosce l'essere finito possibile: è l'atto con cui la Mente divina concepisce l'esemplare del mondo, ossia il complesso delle essenze delle cose finite. Successivamente la libertà divina, "guidata dall'amabilitàdell'essere limitato” procede alla
creazione del mondo.
RAPPORTI TRA L'UOMO E DIO
rapporti che intercorrono tra l'uomo e Dio sono di logici, etici, religiosi. I
32) Teosofia II, ed. cit., n. 460.
tre
generi: onto-
458
Parte terza
Al gruppo dei
rapporti ontologici appartengono quelle grandissime
espressioni dell'amore divino che si chiamano creazione, conservazione, provvidenza e redenzione. Per ogni uomo, che è un sussistente nell'ordine dello spirito, Dio nutre un amore personale. Come si è visto Rosmini sottolinea l'aspetto agapico già nell'atto creativo, ma lo evidenzia anche in tutti gli altri rapporti che Dio ha con l'uomo. L'uomo ha rapporti etici già con se stesso e con il prossimo, ma il rapporto etico più importante è quello che ha con Dio. Norma fondamentale della morale rosminiana è il riconoscimento dell'essere. Ora, tale riconoscimento è massimamente esigente nel caso di Dio, che è l'Essere sussistente stesso. A lui l'uomo oltre che riconoscimento deve obbedienza. Facendola volontà di Dio l'uomo progredisce verso la piena realizzazione del proprio essere. Ancora più intimamente l'uomo si unisce a Dìo mediante i rapporti religiosi. Questi si esprimono nel culto, nella preghiera, nell’adorazione, nel sacrificio. La religione è un dovere di giustizia che la creatura ha verso il suo creatore, ma acquista un carattere ancora più nobilequando viene corroborata dalle virtù cristiane della fede, speranza e carità. Grazie a queste virtù l'uomo viene interiormente ontologicamente trasformato, e viene introdotto in un mondo nuovo, il mondo soprannaturale. La religione stessa passa dall'ordine naturale all'ordine soprannaturale. Come spiega il Rosmini nellflirztropoiogia soprannaturale, l'elemento che specifica una religione soprannaturale rispetto a tutte le religioni naturali, consiste in una «azione reale che Dio stesso opera nello spirito dell'uomo», congiungendo «lo spirito umano a intima e reale unione con la divinità». Quest'azione divina reale, che l'uomo riceve nell’essenza dell'anima, dove essa produce un principio attivo nuovo "supremo, nobilissimo, potentissimo", è la grazia. Il primo atto della grazia è la fede, la quale, secondo Rosmini, risulta composta dalla percezione divina incipiente e dall'assenso della volontà umana. La grazia ha un modo di operare deiforîne: essa cioè, «non solo ha per principio Dio, ma essa stessa e il suo termine è Dio». Dio, poi, opera nell'anima umana come causa formale oggettiva; egli, cioè, «è forma oggettiva dello spirito elevato allo stato di grazia, non già COl suo modo ideale ma si bene con se stesso immediatamente, colla sua propria sostanza».83 Qui non ci è possibileseguire il Rosmini nella sua dotta e interessantissima analisi della vita dell'anima elevata all'ordine soprannaturale. Ci basti leggere insieme la pagina in cui egli stesso riassume questa parte
dell'Antr0p0l0gia soprannaturale:
83) Antropologia soprannaturale, Roma 1983, p. 131.
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
459
«L'essere nell'uomo naturalmente si trova in uno stato molto impera dire l'uomo fino che non oltrepassa l'ordine della natura non vede l'essere che imperfettamente, inizialmente, in un modo universale, indeterminato, senza una sussistenza in sé e perciò come possibile.Quesfessere possibile e indeterminato che l'uomo vede per natura e che applica poi ai sentimenti l'abbiamo chiamato "issere ideale" ovvero "modo ideale dell'essere". L'essere nell'uomo prende un nuovo stato allorché l'uomo vien sollevato dall'ordine naturale all'ordine soprannaturale: quesfessere opera nell'uomo non più in un modo puramente ideale, ma in un modo sostanziale e reale, l'uomo prova allora un vero sentimento non più una tenue idea, prova l'azione dell'essere reale che si manifesta in tal modo a lui presente; non è più solo la possibilità indeterminata dell'essere che ha in sé, ma la sussistenza medesima: insomma allora l'idea si cangia in percezione. L'essere reale che percepisce l'uomo in un tale stato non è però limitato, ma bensì è determinato dalla propria sussistenza, non è possibile ma tuttavia è universale in quanto il tutto in lui si trova, non ‘e iniziale ma anzi è completo. Quesfessere completo e reale è Dio stesso, il quale a questo mondo non si mostra se non in un cotal modo velato; e solo nell'altro si Vede svelatamente
fetto, cioè
e con
pienezzam“
Con la pratica delle virtù soprannaturali della fede, speranza e Carità l'uomo si unisce sempre più intimamente a Dio e si avvicina al traguardo della felicità eterna, un traguardo dove tutto è Amore. Ecco come il Rosmini descrive, in una pagina lirica, il traguardo della beatitudine eterna:
«Di che si Vede quale ruota di perpetuo movimento luminoso e gaudioso si giri nell'anime beate di quei santi che hanno in se stessi la Trinità. Imperocché l'Amore è sempre in attività dentro essi a contemplare la Sapienza, nella quale si vede il principio di lei come infinito e necessario: alla vista del quale l'anima si congiunge più ed è tratta alla sapienza sussistente che emana di sé un Amore infinito, il quale ritorna a riflettersi in quella sapienza che è lume che mostra l'eterno primordiale principio altissimo il quale operando perpetua questa dilettosa vicenda e quasi ondulazione di recondito e secretissimo godimento. Conciosiaché la fede negativa della Trinità che s'ha per la rivelazione esterna non è ancora l'immensa azione interiore e il positivo sentimento delle persone divine. Ma allora quando lo Spirito da principio operando dà l'efficacia a quelle idee negative che già in essa
"per la rivelazione esterna", un tutto veramente positivo si percepisce, tosto già comincia quella perpetua azione e circolare rivolgimento dei "trini" forme che è una cotal partecipazione ineffa-
erano,
biledella vita di Di0».35
84) Ibid, p. 278. 65) 11nd,, p. 226.
460
Parte terza
Così il circolo dell'umana avventura che si snoda attraverso lîvzitus e il rcditus si consuma alla fine, grazie all'azione redentrice del Cristo, nel circolo agapico, e infinitamente gratificante, della Santissima Trinità.
Conclusione Verità e amore: su questo binomio specificamente cristiano, Antonio Rosmini ha operato un profondo rinnovamento della filosofia cristiana, in dialogo con la cultura moderna. Senonché ai suoi tempi la sua fatica non fu apprezzata né dentro né fuori la Chiesa. La sua fu la voce "di chi grida nel deserto". Di fatto, proprio nel momento in cui Rosmini compiva il suo coraggioso tentativo, la cultura moderna, sotto le durissime critiche di Marx e di Nietzsche, si
rapidamente sgretolando e dissolvendo. Non può perciò costituire una sorpresa se la nuova filosofia cristiana del Rosmini non ebbe un'accoglienza favorevole da parte di un mondo laico sempre più secolarizzatoe avviato a una scristianizzazionemassiccia. Ciò che sorprende e talvolta scandalizza gli storici ‘e l'ostilità con cui Rosmini fu accolto negli ambienti cattolici. Nei suoi confronti si delineò ben presto un’accentuata opposizione, e si sviluppò così la cosiddetta ”questione rosminiana". Le prime sue opere erano state accolte con simpatia negli ambienti ecclesiastici: Gregorio XVl, approvando l'istituto della Carità (1839), presentava Rosmini, tra l'altro, come uomo "rerum divinarum atque humanarum scientia summopere illustrem”. Ma la sua critica al probabilismomorale (nel Trattato della coscienza), l'aria di novità e certi atteggiamenti politici troppo ”liberali", parvero un'offesa alla tradizione. La prima fase polemica tra seguaci e avversari del Rosmini, nel campo ecclesiastico, si ebbe negli anni 1840-43, e terminò con un decreto di Gregorio XVI che imponeva silenzio a tutti i contendenti. Ma venne ripresa nel 1849, prendendo lo spunto dalle vicende politiche e dalla condanna all'Indice di due opere rosminiane: Delle Cinque piagghe della Santa Chiesa e Costituzioni? secondo la giustizia sociale. Nel 1851 Pio lX avocò a sé l'intera questione, e dopo un accurato esame di tutte le sue opere, nel 1854 le ammise alla lettura dei fedeli con la formula Dimittantzir, vietando di ripetere le vecchie accuse al Rosmini e di accamparne delle nuove. La polemica però riesplose sotto il pontificato di Leone XIII, dopo la pubblicazione di alcune opere postume, e così nel 1888 usciva un nuovo decreto della Congregazione del S. Ufficio, Post obitum, in cui 40 proposizioni, 29 tratte dalle sue opere postume e 11 dalle antecedenti, segnalate ad essa, perché ”catholicaeveritati haud consonae Videbantur", venivano proibitefi“ stava
3h)
Cf. il DTC lll, col. 2929 ss., che fornisce il testo completo delle proposizioni proibite.
Antonio Rosmini.‘ una nuova metafisica dell'essere
461
significato di quel decreto molto si è discusso, con interpretazioni rigide e restrittive da parte degli avversari del Rosmini, e con interpretazioni più aperte e inclulgenti da parte dei suoi difensori. Le indagini più recenti sembrano giustificare la tesi di coloro che affermano che anche quelle proposizioni che potevano sembrare persino eterodosse, si possono interpretare secondo un significato pienamente ortoSul valore
e
sul
dossofi?
Per noi
qui la ‘questione rosminiana" conta molto poco. In una storia
della metafisica, come quella che andiamo ricostruendo, le cose che interessano, in definitiva, sono soltanto due: 1) il posto che occupa Rosmini in questa affascinante storia,- 2) il rapporto della metafisica del Rosmini con quella di Tommaso d'Aquino. Riguardo al primo punto, non c'è dubbio che il posto che occupa Rosmini è molto importante. Anzitutto perché Rosmini è l'unico grande metafisico del secolo XIX, l'unico che abbia avuto il coraggio dopo Kant di affrontare nuovamente il problema dell'essere. In secondo luogo perché è riuscito a farlo in modo originale, elaborando una ontologia triadica, che presenta l'essere sotto una triplice forma (ideale, reale, morale) e assegnando la stessa dignità a ciascuna forma. Ciò che caratterizza una metafisica è sempre il principio primo che funge da base all'intero edificio. ll filosofo Roveretano non costruisce il suo edificio sull'Uno o sul Bene, o sul Vero, o su1l'Infinito, o sulla Sostanza, ma direttamente sull'essere, così come avevano fatto Parmenide, Aristotele e Tommaso d'Aquino. Ma mentre i suoi illustri predecessori avevano costruito tutto l'edificio sulla forma reale dell'essere, Rosmini rinnova l'edificio metafisico ponendo a fondamento l'essere trino, ossia le tre forme primarie dell'essere. In questo modo il Roveretano dà alla sua "enciclopedia filosofica" una profonda unità, incorporando praticamente l'ideologia nella metafisica e facendo della morale una necessaria appendice della metafisica: infatti l'essere non può non essere conosciuto (ideo-
logia) e non può non essere amato (morale). Più che per la sua ideologia e per la sua morale, Rosmini è grande e originale per la sua metafisica. Questo e il punto più forte e più robusto di tutto il suo pensiero, e non l'ideologia, come spesso si crede. Direi, anzi, che l'ideologia è il suo punto più debole e meno originale. L'ideologia rosminiana è chiaramente di stampo agostiniano e bonaVenturiano, i due grandi sostenitori della dottrina della illuminazione -
che pertanto poteva vantare una prestigiosa e nobile paternità che la rendeva degna di rispetto anche agli occhi della filosofia tomista.
37)
Cf. C. FABKO, L'enigma Rosmini, Napoli 1988.
462
Parte terza
Ora, mentre è indubbiamentevalida la tesi che afferma che l’idea dell'essere è l'idea primigenia, primordiale, la prima che si affaccia all'intelligenza umana, tanto che in un certo senso si può dire che essa accende la luce della nostra intelligenza, rimane, per contro, dubbia la spiegazione (di Agostino, Bonaventura, e Rosmini) che Vuole che questa sia un'idea innata, frutto cli una illuminazioneesterna della nostra mente, la quale di fronte a tale idea si comporterebbe in modo totalmente passivo.
Questa spiegazione, che nega l’attività dell'intelletto proprio nel momento in cui prende il via la conoscenza intellettiva, mentre procura
all’intelletto un più sicuro accesso alla conoscenza della verità, opera grave detrazione nei confronti della sua grandezza e della sua autonomia. Rosmini sposò questa soluzione perché voleva assecondare Kant nella tesi dell’apriorità di alcune idee (categorie) fondamentali, ma allo stesso tempo Voleva liberare questa tesi dall’ìpoteca del soggettivismo kantiano. E, così, la teoria della illuminazionegli parve un'ottima soluuna
ripeto, non sta qui né la grandezza né l'originalità del Rosmini. Riguardo il secondo punto, cioè i rapporti tra Rosmini e S. Tommaso, c'è un forte contrasto tra gli studiosi. Rosmini conosceva abbastanza bene S. Tommaso e lo cita abbastanza spesso. Però una delle ragioni della condanna del Roveretano sta in un contrasto, a prima vista abbastanza netto, tra le sue posizioni e quelle del Dottore Angelico. Una strada, che è stata abitualmente percorsa, dai seguaci e dai difensori del Rosmini, per provare l’ortodossia del suo pensiero, è stata quella di metterlo a confronto con il pensiero di S. Tommaso, e di mostrare «un sostanziale accordo di S. Tommaso con Rosmini» (G. Muzio). Questo cammino può sembrare intelligente e fruttuoso, ma a mio avviso e un cammino errato e tutto sommato anche controproducente. ll tentativo di salvare Rosmini cercando i suoi punti di contatto con S. Tommaso è abbastanza comprensibile, perché S. Tommaso è il doctor zione. Ma,
commzmis, riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa come tale e additato sempre ad esempio a tutti i pensatori cattolici, in quanto è riuscito a
dare di ogni verità una spiegazione razionale convincente e plausibile. Così e parso logico ai seguaci di Agostino, Bonaventura, Scoto e Rosmini, cercare di mostrare che il pensiero di questi eccellenti pensatori cristiani coincide sostanzialmente con quello di S. Tommaso. Ora questo è verissimo per quanto attiene la teologia: sono tutti teologi ortodossi e maestri insigni della ortodossia cattolica. Ma non si può dire altrettanto della filosofia, la quale, come sappiamo, è una libera speculazione della ragione umana intorno alla realtà e alla verità e una ricerca di una soluzione razionale dei maggiori problemi che assillano l'intelligenza umana. Mentre la teologia lavora su verità già date dalla riVel.azione (i suoi principi sono i misteri rivelati), la filosofia va alla ricerca della verità, come qualche cosa di ignoto e difficilmenteattingibile.
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere
463
Tuttavia, anche per quanto attiene le conclusioni della ricerca metafi(intorno all'anima, a Dio e al mondo), c'è un sostanziale accordo tra Agostino, Tommaso, Bonaventura, Scoto e Rosmini. Ma rivendicare, come hanno fatto e continuano a fare molti rosminiani,un sostanziale accorsica
sbagliato. possibile far coincidere ne’ l'ideologia né di Rosmini con l'ideologia e l'ontologia delYAquinate. Non è Fontologia possibile fare coincidere le loro gnoseologie. Indubbiamente sono entrambe gnoseologie realistiche e non soggettivistiche, che affermano
do tra Tommaso e Rosmini è
È sbagliato, perché
non
è
che la Verità è la misura della nostra conoscenza e non la conoscenza metro della verità. Ma quello di S. Tommaso è un realismo moderato di
stampo aristotelico; mentre quello di Rosmini è un ultrarealismo di stampo platonico. Tanto meno e possibile fare coincidere la metafisica rosminiana con
metodo.
quella
Quello del
tomista. C'è anzitutto una profonda diversità di Rosmini va dall'alto al basso ed è circolare, e perciò
circumnavigazione del grande mare dell'essere. Quello dell'Angelico dal basso all'alto, dagli enti all'asse ipsimz Subsistens e ciò che realizza è la seconda navigazione. si conclude
con una
Va
Ma tra le due metafisiche c'è anche una differenza di fondo, che è differenza sostanziale e non affatto secondaria. Infatti nella metafisica rosminiana sono assenti due dottrine capitali della metafisica tomistica: la dottrina della distinzione reale tra l'essenza e Yactus essendz’ (una distinzione che Rosmini non ignora, ma alla quale di fatto non dà alcuna importanza), e la dottrina dell'atto e della potenza. Queste due dottrine sorreggono tutto l'edificio metafisici) tommasiano e consentono al Dottore Angelico di elaborare una metafisica "esistenzialistica", come è stato detto da Gilson e da Maritain, e una metafisica fortemente ontologica in senso realistico. Rosmini lavora piuttosto con la coppia possibilità-necessità e ricava la necessità dalla possibilità, così come aveva fatto Leibniz. Di conseguenza Yargomentare rosminiano assume un andamento ontologistico e la metafisica del Roveretano diventa necessariamente una metafisica degli esistenti. L'essere, anziché come actus essendi, è concepito dal Rosmini come una essenza imiversale che contiene tutte le essenze possibiliparticolari; e come scrive lo stesso Rosmini, «tutto l'ordine dell'essere viene tratto dall'essere come il filo del bozzolo». Ciò che è certo è che anche la metafisica del Rosmini è, come quella di S. Tommaso, una metafisica cristiana e una metafisica dell'essere. Ma ridurre la metafisica del Rosmini a quella dell’Angelico è un'operazione controproducente, che non reca nessun Vantaggio al nome del Rovcretano. Come ha mostrato E. Gilson nella sua magistrale Storia della filosofia medievale, nel cristianesimo c'è posto per molte metafisiche, e anche per molte metafisiche dell'essere, perché, a livello riflesso, dell'essere è possibileelaborare vari concetti, e assumere ogni concetto come fondamenuna
464
Parte terza
to dell'edificio metafisico. Tutte le metafisiche dell'essere costruite sulla base del canone della sostanziale armonia tra fede e ragione, come hanno fatto Tommaso, Bonaventura, Scoto e Rosrnini, sono perfettamente legittime, anche se, all'indagine critica, il loro valore può risultare diseguale. Però ogni edificio metafisico merita di essere studiato e apprezzato per se stesso, evitando di fare degli edifici più recenti delle ricostruzioni di quelli più antichi. l_a clonazione metafisica è altrettanto illecita quanto la clonazione umana. Rosmini ha un concetto molto elevato dell'essere. Alcune sue espressioni lo avvicinano al concetto intensivo di S. Tommaso. Anche per il Roveretano l'essere è la perfezione massima, la perfezione di tutte le perfezioni, l'attività di tutte le attività. E, tuttavia, egli non costruisce la sua metafisica sullflczcms essendi bensì sulla idea dell'essere. E questo rende sostanzialmente diversa la sua metafisica da quella di S. Tommaso.
Antonio Rosmini: una nuova rrzetafisica dell'essere
465
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KIERKEGAARDE LA METAFISICADELUESISTENZA
Sòren Kierkegaard è un contemporaneo di Rosmini, ma a prima vista abisso li separa. Uno è cattolico, l'altro è protestante; uno ama appassionatamente la filosofia e progetta un rinnovamento della filosofia cristiana, l'altro disprezza la filosofia e la combatte accanitamente; uno intende elaborare una grande enciclopedia del sapere, l'altro si accontenta di raccogliere le "briciole della filosofia”. Eppure Rosmini e Kierkegaard hanno alcuni importanti elementi in comune. Entrambi furono geni incompresi dai loro contemporanei. Come Rosmini fu incompreso e combattuto dal mondo cattolico, altrettanto e ancor più Kierkegaard fu incompreso e combattuto nel mondo protestante. L’ostilità nei loro confronti nasceva dal fatto che sia Kierkegaard sia Rosmini erano difensori sinceri e decisi del cristianesimo: di un cristianesimo autentico e genuino e non "un p0’ annacquato”, ed erano profeti di una Chiesa fedele a se stessa e alla sua missione salvifica, senza interessi politici e senza ambizionimondane. Rosmini e Kierkegaard erano inoltre legati da una spiccata passione per la metafisica, benché avessero un'idea molto diversa riguardo al cammino che essa deve percorrere. Alla pari del Rosmini, nel mondo filosofico e teologico dell'Ottocento, Kierkegaard fu un solitario, non meno lontano dalla filosofia ”cristiana" degli idealisti che dall’ateismo dei ”maestri del sospetto”. Contro i negatori di Dio e di Cristo Kierkegaard, come Rosmini, pronuncia una professione di fede sincera, Viva, profonda, inattaccabile;contro le manipolazioni filosofiche del cristianesimo operate dagli idealìsti, egli proclama la trascendenza di Dio e dei misteri del cristianesimo. «Filosofia e cristianesimo non si lasciano unificare» è il motto che Kierkegaard fece suo sin dalla prima giovinezza. Sottraendo il cristianesimo alla ragione e alla filosofia e affidandolo esclusivamente alla fede, Kierkegaard si libera contemporaneamente sia dalla morsa hegeliana della risoluzione del cristianesimo in filosofia, sia di quella della negazione del cristianesimo in nome della filosofia utilizzata dai "maestri del sospetto" (Feuerbach, Marx). Con gli scrittori romantici Kierkegaard afferma che il cristianesimo non appartiene al campo della filosofia, ma a quello della storia e che la sua accettazione non dipende da argomentazioni speculative o scientifiche, ma dalla libera adesione della fede. Occorre prendere il cristianesimo per quello che è: un dono di Dio. un
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Parte terza
disperata battaglia contro la ragione e la filosofia in nome della una specie di Don Chisciotte: egli non fu preso sul serio né dalla Chiesa né dai suoi nemici. Nel suo secolo «Kierkegaard diventò la voce profetica. Il profeta parla sempre dalla dimensione verticale e non si cura di ciò che accade nella dimensione orizzontale. Ma, poi, Kierkegaard diventò una parte della filosofia esistenzialista, della teologia neo-ortodossa e di gran parte della psicologia del profondow Solo nel secolo XX il messaggio di Kierkegaard fu compreso e apprezzato. A partire dagli Anni Venti le sue opere furono lette avidamente e vennero tradotte in moltissime lingue, e così, in breve tempo, Kierkegaard divenne la figura dominante sia nel mondo dei filosofi che in quello dei teologi, e si guadagnò il titolo di padre sia deltesistenzialismo filosofico (I-Ieidegger, Iaspers, Sartre, Marcel ecc.) che deltesistenzialismo teologico (Barth, Brunner, Tillich, Gogarten ecc.).2 Nella
fede, nel mondo protestante ottocentesco, Kierkegaard fu
Vita Soren Kierkegaard nacque a Copenhagen nel 1813, ultimo di sette figli, da un padre vecchio e malinconico, angosciato dal pensiero della colpa, sentita come qualche cosa di incombente e di inevitabile.Ebbe quindi un'infanzia priva di spensieratezza e di sana vitalità. Dice P. Mesnard: «Non ebbe quella religione puerile nella quale il bambino si familiarizzaprima di tutto con Gesù Bambinonel presepio e scopre solo a poco a poco l'identità dell'Incarnazione e della Redenzione. Il cristianesimo è Cristo e Cristo morente in croce. Il sangue, il dolore, il peccato, la massa dannata: tali sono i lari di questa strana famiglia nella quale la formazione morale e religiosa di Kierkegaard si attua nel segno dell'angoscia». Kierkegaard ricevette, comunque, un'educazione profondamente religiosa, incentrata sugli aspetti più rigidi del cristianesimo riformato. Da ragazzo aveva avuto per il padre grande venerazione e affetto, ma verso i Vent'anni, allorché venne a scoprire la sua condotta peccaminosa, cominciò a nutrire avversione e disprezzo nei suoi confronti. La morte aveva cominciato a colpire i suoi fratelli e sorelle; da Vari indizi Kierkegaard aveva concluso che sulla famiglia pesasse la vendetta di Dio per i delitti commessi dal padre, e sospettava che la sua religiosità non fosse dovuta a santità autentica, bensì alla necessità di espiare i propri peccati. Ma quando il padre gli confessò umilmente le proprie colpe si riconciliòcon lui e10 amò teneramente per tutta la vita.
1) 3)
I’.
TILLICH, Perspectiixes
on
Evanston 1967, p. 178. Cf. H. BERKHOF, 200 anni di
XIX and XX
Ceniury Protestant Theology, New York-
teologia efilosofiir, Torino 1992, pp. 102 ss.
Kierkegaard e la metafisica dellcsistenza
469
Nel 183D si iscrisse all'università di Copenhagen, nella facoltà di Teologia; si interessò vivamente anche di filosofia e di letteratura. Solo nel 1840 sostiene gli esami di teologia per diventare pastore. Nello stesso anno si fidanza con Regina Olsen, ma dopo un anno interrompe il fidanzamento, forse per essere più libero di adempiere la missione religiosa a cui si sentiva chiamato. Nel 1841 è a Berlino, dove ascolta le lezioni di Schelling, che da principio lo entusiasmano, ma poi lo deludono. Durante gli ultimi anni della sua breve esistenza Kierkegaard lotta a fondo contro la Chiesa ufficiale, colpevole, a suo dire, di aver tradito il cristianesimo riducendolo a mero convonzionalismo e a formalismo ritualistico. Ovviamente «religiosamente Kierkegaard era dentro la chiesa, ma come critico della chiesa egli fu forse ancora più radicale di Marx e Nietzsche messi insieme» (P. Tillich). Morì l'11 novembre 1855. Prima di morire gli era stato chiesto se le sue speranze fossero riposte nella grazia di Dio, in Gesù Cristo, ed egli rispose: «Naturalmente, in chi altro?»
Opere Dopo la pubblicazione, nel 1841, della tesi per il dottorato in filosofia, Sul concetto di ironia, seguirono a breve distanza di tempo tutte le altre opere, apparse quasi tutte con vari pseudonimi: nel 1843 Aut-Aut, negli anni 1844-1845 Timore e tremore, La ripetizione, Il concetto di angoscia, Briciole filosofiche, Stadi sul cammino della vita, l discorsi edificanti. Nel 1846 uscì con lo pseudonimo di Ioannes Climacus, la Postilla conclusiva non scientifica alle ”Briciole filosofiche”, che è la sua opera filosoficamente più impegnata e più profonda. Nel 1849 uscirono La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo. Postumo è uscito il suo vastissimo Diario (in 12 volumi).
Il primato dell'esistenza nella riflessionemetafisica di Kierkegaard
Kierkegaard occupa un posto importante sia nella storia della filosofia sia nella storia della teologia. Sua, infatti, è la paternità dell'esistenzialismo filosofico e di quello teologico. Ma esiste un suo apporto significativo anche alla metafisica, un apporto tale che giustifichi la sua inclusione nella storia della metafisica? Direi proprio di sì. Perché, la metafisica è anzitutto una passione: è la passione per la Trascendenza; è la passione di chi, avendo scoperto che il mondo non è tutto, che l'uomo non è tutto, che la cultura, il progresso, la storia non sono tutto e che, invece, tutto proviene da Dio, con ”timore e tremore" si affida a Lui e cammina verso di Lui. Ora, Kierkegaard ha sentito e vissuto questa passione per la Trascendenza come pochissimi altri pensatori cristiani e non cristiani
47D
Parte terza
di tutti i
tempi. Questa passione lo ha condotto a compiere una singolare interessantissima avventura metafisica. Sappiamo che i modi di fare metafisica sono innumerevoli e che esistono anche molte metafisiche dell'essere. Rosmini, contemporaneo di Kierkegaard, aveva elaborato una imponente metafisica dell'essere, e
prendendo in esame la triade ontologica dell'essere ideale, reale e morale. Per una siffatta speculazione metafisica Kierkegaard non ha nessunissimo interesse. Nel suo pensiero non c'è posto per una "circumnavigazione dentro il mare dell'essere”. Il suo mare non ‘e quello calmo e pacifico dell'essere, bensì il mare tempestoso e tragico della esistenza. E da questo mare che egli avverte la necessità di uscire, compiendo una seconda navigazione. Così, la metafisica per Kierkegaard non è una piace-
vole crociera bensì una rischiosa e burrascosa attraversata. La metafisica di Kierkegaard è una metafisica cristiana, che presenta molte consonanze con le metafisiche cristiane di S. Agostino e Pascal. La sua è una metafisica cristiana dell'esistenza; perciò non è né una ontologia né una cosmologia, bensì un'antropologia cristiana, fortemente e intimamente legata al dramma personale del "singolo davanti a Dio". Come ogni metafisica anche quella di Kierkegaard ha i suoi limiti. ll suo limite principale, come nota C. Fabro, non è l'affermazione della soggettività essenziale per ogni metafisica personalistica «quanto nell'aVerla chiusa nel ”singolo", staccandola dalla famiglia umana e dalla Chiesa che è il Corpo mistico di Cristo») I cardini su cui si regge l'edificio della metafisica esistenziale cristiana di Kierkegaard sono cinque: il Singolo, l'esistenza, la libertà, l'angoscia (peccato), la fede. Anzitutto Viene il Singolo, e per "Singolo" Kierkegaard non intende l'uomo in quanto animale ragionevole, come individuo dotato di anima e corpo, come membro della famiglia umana, ma il credente che ha operato, nella fede, la sua scelta per Dio, ottenendo cosi la salvezza del suo essere della sua libertà con l'inserzione nell'Onnipotente che salva. Il Singolo è la specificazione "positiva" di quello che Kierkegaard chiama anche "l'uomo essenziale" in quanto ogni uomo ha, nel fondo ontologico della sua natura ragionevole, la capacità di scelta del|'Assoluto e di rivolgersi a Dio per divenire ”spirito". Quella del Singolo non è una categoria elitaria, ma è la condizione comune di tutti gli uomini. È una dottrina imparziale che «non offende nessuno, neppure uno, che non fa distinzione neppure per uno. La moltitudine ‘e formata di singoli: deve quindi essere in potere di ognuno di divenire ciò che egli è: un Singolo. DalYessere un singolo, nessuno, nessunissimo è escluso, se non colui che si esclude da sé col divenire molti».4 —
—
-
—
-
3) 4)
C. FARRO, Introduzione a S. Diario VII, A 176.
KIERKEGAARD, Diario, Brescia 1962, l, p. 103.
Kierkegaard c la nzetafisiua dell'esistenza
471
Singolo, ciò che conta per Kierkegaard non è l'essenza, che egli ritiene una categoria astratta, vuota, ma l'esistenza: è proprio grazie all'esistenza che egli diviene singolo. L'esistenza è intesa sia in senso ontoloNel
collocazione nel mondo della storia, sia in senso teologico inserimento nel mondo della fede. L'essenza costituisce la sfera del necessario nella quale nulla diviene, ma tutto è e in esso la scienza cerca le sue leggi. L'esistenza è invece la sfera del divenire e del contingente e quindi della storia. L'esistenza riguarda la realtà di fatto, ovvero la sfera delle cose che possono non essere e tuttavia esistono, dove la possibilità ha preceduto la realtà. Per Kierkegaard fra possibilità e realtà non c'è rapporto di causa, ma esse indicano due "stati" dell'essere stesso che sono separati come non-essere ed essere e quindi da11'infinito. In questa incommensurabilitàdi possibilità e realtà che il divenire "trascende" nell'attuazione della storia, consiste l'originalità della "fede". Decisiva per la realizzazione del Singolo come Singolo è la libertà. Questa, la libertà, è prerogativa dello spirito, e perciò anche dell'uomo in quanto spirito. Ma contrariamente a Kant e a l-legel che conferivano allo spirito dell'uomo un potere infinito e che gli accreditavano un'assoluta autonomia in ogni sua decisione, Kierkegaard sottolinea il carattere fallibiledella libertà del Singolo, in quanto egli è uno spirito finito. Tutto il destino dell'uomo, il Singolo, viene deciso dall'uso della sua libertà: se si decide per la propria finitudine e sceglie se stesso, è perduto; se si decide per l'infinito, Dio, è salvo. Kierkegaard non ha concepito la libertà dello spirito finito che sul fondamento di una trascendenza teologica che è Dio stesso. «La struttura del suo spiritualismc) teologico è decisamente teoretica, e sta agli antipodi delle teorie del Glaubedi derivazione kantiana, che egli critica espressamente, come delle teorie vitalistiche e irrazionalistiche proliferate dopo di lui dalle varie filosofie della vita, dell'intuizione e consimili».5 La libertà che Kierkegaard intende difendere non è una "funzione assoluta" né dell'intelletto né della Vita universale, ma scaturisce dalla decisione del Singolo che si fonda in Dio. Egli critica risolutamente la "morale autonoma" dì Kant come illusione e cosa poco seria, «alla stregua delle frustate che Sancio Panza si dava da argose stesso sulla schiena>>fi Infatti il fondamento della libertà finita menta lucidamente Kierkegaard nel suo Diario può essere soltanto la "divina onnipotenza", perché «soltanto un essere onnipotente può riprendere completamente se stesso mentre si dona e questo rapporto costituisce appunto l'indipendenza di colui che riceve»?
gico,
come
come
-
—
5) 5)
7)
C. FABRO, Antologia kierkcgaardiana,Torino 1952, p. XIX. Diario X2, A 396. lbid. VII, A 171.
472
Parte terza
Uangoscia e la fede Dalla presa di coscienza della propria fallibilelibertà nasce nel Singolo l'angoscia circa le sorti del proprio essere e del proprio destino. In tale angoscia che può essere tolta soltanto dalla fede Kierkegaard fa consistere l’essenza del peccato, la nzalattia mortale. Kierkegaard distingue l'angoscia dalla paura: diversamente da questa, quella non ha un oggetto determinato esterno a se stessa. Nell’angoscia l'uomo teme per se stesso. Uangoscia è strettamente legata alla libertà. Essa esplode proprio nel momento in cui l'uomo scopre di essere arbitro di se stesso e si rende conto del rischio tremendo che tale privilegio comporta. L'uomo viene descritto da Kierkegaard come sintesi di finitudine (corpo) e infinitudine (spirito), di tempo e di eternità, che vive nell’angoscia dal momento in cui si avvede dell’impotenza rispetto a tale compito. La sintesi tra finitudine e infinitudine nell'I0 si pone come «compito di diventare se stessi, qualcosa che si può realizzare soltanto nel rapporto con Dio».8 Dato però che l’uomo, con la sua libertà, deve realizzare qualcosa mediante le proprie forze, si profila quella situazione esistenziale contraddittoria che sfocia necessariamente nel1’angoscia dell'uomo peccatore, il quale o vuole disperatamente essere se stesso, cioè rimanere legato ai limiti dell'umano, o vuole disperatamente non essere se stesso, misconoscendo la dimensione eterna che si porta dentro. Peccato e angoscia sono la stessa cosa: il tentativo di basarsi su se stessi anziché su Dio. Si tratta infatti di un tentativo insubordinato e disperato, perché in tal modo l’uomo, invece di conseguirla smarrisce la sua identità, «quel Sé che egli disperatamente vuole essere, ‘e un Sé che egli non è (...), egli vuole cioè strappare il proprio Sé da quel potere che lo ha posto».9 Per Kierkegaard l'angoscia (la disperazione) non è tanto un peccato, quanto il peccato: il peccato coincide con la stessa disperazione.” Precisamente esso consiste nel ‘disperatamente voler essere se stesso” (disperazione nella ”debolezza”)o nel ‘disperatamente non voler essere se stesso” (disperazione nella "ostinazione"), in quanto però si è disperati (= deboli oppure ostinati) davanti a Dio. La precisazione davanti a Dio è della massima importanza, perché designa l'elemento formale del peccato: essa esprime ciò per cui il peccato è tale. È infatti semplicemente contraddittorio parlare di peccato astraendoda Dio: se Dio non c'è, non c'è peccato, e, se c'è peccato, c'è Dio. -
—
3) S. KIFRKECAARD,ll concetto di angoscia La ntalattia mortale, Firenze 1953, p. 25. 9) Ibia‘. 1°) Cf. M. GIGANTE, Religiosità in Kierkegaard, Napoli 1982, cap. IX. —
Kierkegaard c la metafisica dell'esistenza
473
quanto concerne l'idea di peccato, Kierkegaard dà ragione alla «dogmatica antica»,11 che ne aveva colto la vera essenza: se è tale, il pecPer
cato non può non essere davanti a Dio. Ed esprimendo la clausola davanti a Dio Come costitutivo formale del peccato, ogni peccato la implica necessariamente e universalmente. Inoltre, poiché il terminus ad quem del peccato è Dio che è infinito, il peccato in quanto commesso «contro Dio
davanti a Dio»,12 assume il valore di un'offesa infinita. La perfetta coincidenza tra peccato e disperazione Kierkegaard la conferma esplorando la radice ultima del peccato che egli colloca nella disubbidienza, cioè nella difformità dalla volontà di Dio. Ora, tutto ciò è precisamente la disperazione, questa consistendo proprio nel voler essere se stessi non come vuole Dio, o nel non voler essere come Dio Vorrebbe che lo si fosseflî La disperazione, perciò, in quanto peccato, si riduce alla disubbidienza:la disperazione (= peccato) è il non conformarsi alla volontà di Dio. Secondo Kierkegaard, l'interpretazione del peccato come disubbidienzaè l'unica che corrisponde alla Scrittura, perché la Scrittura definisce sempre il peccato come disubbidienza.“ Dal peccato (l'angoscia, la disperazione) il Singolo esce soltanto mediante la fede, riponendo cioè tutta la propria fiducia in Dio. In Kierkegaard la fede gioca lo stesso ruolo centrale che questa categoria svolge nella teologia di Lutero. Iastus exfide vivit è il cardine che sorregge tutto l'edificio teologico sia di Kierkegaard sia di Lutero. Ne Il concetto di angoscia leggiamo: «Il contrario del peccato è la fede, come si dice nella lettera ai Romani: "Tutto ciò che non è dalla fede è peccato" (Rm 14, 23)».15 La fede di cui parla Kierkegaard si riferisce ovviamente alla fede soprannaturale. Il suo oggetto è l'inver0simile.16 La fede non è una possibilità che si schiude all'uomo in forza della sua libertà, ma è sempre attesa come dono di Dio. Per l'uomo disperato l'unica salvezza è credere che tutto è possibile. «Credere vuol dire perdere l'intelletto, onde conquistare Dio>>.17 Per alcune situazioni si può delineare una soluzione; ma quando ci si dibatte in un labirinto senza via di scampo, o quando si ritorna sempre sui propri passi come in un vicolo cieco, è allora che si presenta la fede come unica possibilità. Occorrerà decidere se credere e guarire o non credere e inabissarsi nei gorghi della disperazione. Questa e la lotta per la fede. «Così è la serietà della fede, la cui vera lotta è lotta-
ovvero
11) S. KIERKEGAARD, Il concetto di angoscia, cit., p. 298. 12) Ibid. m) Cf. ibid, p. 299.
l‘) Cf. ibzd, p. 300. 15) lbid, p. 302. l“) Cf. Diario VIl, A 203. 17) ll concetto di angoscia, cit., p. 246.
474
Parte terza
re con
Dio; la lotta col mondo, i suoi dolori e le sue gioie, sono come uno
scherzo. Per questo la fede è la vittoria che vince il mondo; anzi fa più che vincere, perché riduce questa lotta a qualcosa di trascurabilemlì‘«Se colui che è impegnato in questa lotta debba soccombere, ciò dipende esclusivamente dalla questione se riuscirà a trovare la possibilità, cioè se
egli vuole credere. Eppure egli comprende che, la
umanamente parlando,
rovina è sicurissima. Questo è il momento dialettico della cioè se si voglia credere o no.
fede»,19
sua
«Credere nella
propria rovina è impossibile; ma comprendere di
varsi, umanamente, di fronte alla propria rovina
tro-
credere tuttavia nella possibilità, è credere. E allora Dio aiuta l'uomo, forse facendogli scampare l'orrore, forse per mezzo dell'orrore stesso, il quale in modo miracoloso... si presenta per aiuto. Se un uomo sia stato aiutato con un miracolo, ciò dipende essenzialmente dalla passione della ragione con la quale ha compreso che l'aiuto era impossibile, e poi dal contegno onesto che egli dimostra verso la potenza che l'ha aiutato. Ma di solito gli uomini non fanno né l'uno né l'altro; si mettono a gridare che l'aiuto è impossibile, senza avere una sola volta impiegato la loro intelligenza per trovare l'aiuto e poi, eccoli questi ingrati che si mettono a dir bugie. Il credente possiede il contravveleno eternamente sicuro contro la disperazione: la possibilità, perché a Dio tutto è possibilein qualunque momento. Questa è la sanità della fede che risolve le contraddizionimîo e
La fede è
concepita da Kierkegaard come un salto dal mondo delle a un mondo senza prove e senza garanzie. La mancanza di garanzie oggettive fa sì che la fede sia vissuta come un rischio, ma, secondo Kierkegaard, la sua accettazione non è irrazionale, bensì semplicemente paradossale. La fede è un rischio perché il suo oggetto è il paradosso, una verità priva di evidenza oggettiva. «ll credente scrive Kierkegaard nella Postilia conclusiva non solo possiede ma usa la ragione... Per quello che riguarda la religione cristiana egli crede contro la ragione e in questo caso usa la ragione per accertarsi che crede contro la ragione... Il cristiano non può accettare Yassurdo contro la ragione perché questa si accorgerebbe che è assurdo e lo respingerebbe.Egli adopera quindi la ragione, per diventare consapevole dellincomprensibilee poi si attacca ad esso e crede anche contro ragionemîì certezze razionali
-
—
l”) Diario VII, A 207. l”) Il concetto di angoscia, cit., p. 247. 3”) 1bid., p. 248. 21) S. KIERKEGAARD, Concluding Unscientzfic POSÌSCFIPÎ, tr. ingl. Cll '
Lowrie, Princeton 1944, p. 604.
_
S. Swenson
e
W.
Kierkegazzrd e la ruetafisica dell'esistenza
475
Uinfinita differenza qualitativa tra l'uomo e Dio La fede, nonostante il grande rischio che essa comporta, fa fare al Singolo il salto decisivo: dal mondo Con tutte le Sue sicurezze, i suoi trionfi, le sue conquiste, verso Dio, Yinverosimile. Ma chi è Dio che chiama l'uomo a rischiare tutto il temporale in vista dell'eterno, del finito in vista
dell'infinito? Decisamente importante è la trattazione che Kierkegaard riserva al tema di Dio dove emerge ancor meglio la consistente portata metafisica del suo pensiero. Il principio primo, la verità fondamentale su cui poggia tutto l'edificio teologico kierkegaardiano è che Dio è separato dall'uomo e da ogni altra creatura da un’infinita differenza qualitativa. Scrive Kierkegaard in una pagina giustamente celebre: differenza eterna, essenziale, qualitativa, presunzione può permettersi di annullare mediante Yasserzione blasfema che Dio e l'uomo sarebbero certamente differenti nel momento transitorio dell'esistenza temporale, cosicché in questa vita l'uomo dovrebbeobbedire e adorare Dio, ma nell'eternità la differenza si annullerebbe nelteguaglianza essenziale, così che Dio e l'uomo diventerebbero eguali, come avviene tra il re e il suo servo. Ciò non è possibile perché tra Dio e l'uomo c'è e rimane una differenza eterna essenziale e qualitativamîî «Fra Dio
tale che
e l'uomo c'è una nessuno senza
Con l'affermazione categorica dell'infinita differenza qualitativa Kierkegaard prende decisamente posizione contro Hegel e contro Schleiermacher, i quali avevano entrambi eliminata la distanza infinita che separa Dio dall'uomo, il primo con la teoria che l'uomo è l'automanifestazione dell’Assoluto, il secondo con la tesi che il sentimento religioso è suscitato immediatamente e necessariamente dal manifestarsi di Dio nella natura.
32) ID., On Atrthority and Retvelation, tr. ingL, Princeton 1955, p. 112. Uguali afferma-
zioni si trovano anche nella Pasfilla e nel Diario. Nel Diario (tr. C. Fabro, Brescia 1951, vol. l, p. 381), Kierkegaard dice che la confusione tielfidealismo consiste nel porre solo una differenza quantitativa tra il finito e l'infinito e, di conseguenza, nel sopprimere l'immenso abisso che la differenza qualitativa scava tra Dio e l'uomo. Alcuni studiosi del pensatore danese hanno preteso che l'infinita differenza qualitativa sia dovuta al peccato originale e perciò sostengono che essa non esisteva prima della caduta. Cf. MIÎLCHIORRIÌ, Il principio di analogia come categoria metafisica della filosofia di Kicrkegaard, "Giornale critico della filosofia italiana", 1955, p. 57; COLLINS, The Mina’ ofKierkegaard, Chicago 1954, p. 150. Noi però non riusciamo a Vedere come questa interpretazione possa armonizzarsi con la Chiara e categorica affermazione della infinita differenza qualitativa, indipendentemente dal peccato, di On Authority anni Revelation, testé citata.
476
Parte terza
Tuttavia, l'affermazione dell'infinita differenza qualitativa non impedisce a Kierkegaard di mantenere una relazione positiva fra Dio e l'uomo. In effetti egli ammette che l'uomo, prima del peccato originale, essendo stato creato a immagine di Dio, aveva una somiglianza con lui.î3 Ma più che la somiglianza egli è preoccupato di sottolineare la differenza e contro chi pone fra Dio e l’uomo una somiglianza diretta proclama: «Fra Dio e dell'uomo
c'è una differenza assoluta. Il rapporto assoluto Dio deve perciò esprimere la differenza assoluta, e la somiglianza diretta diventa impertinenza, villania, arroganza, ecc. Proprio perché fra Dio e l'uomo c'è la differenza assoluta, l'uomo si esprime perfettamente quando esprime assolutamente la differenza. Lfizdorazione è il maximum per esprimere il rapporto dell'uomo a Dio e insieme la sua somiglianza con Dio, poiché le qualità sono assolutaun uomo a
mente dìfferentimîè
Certo, con una sottolineatura così marcata dell'assoluta differenza diviene assai difficileper Kierkegaard indicare in che cosa consiste la somiglianza fra uomo e Dio che egli pure afferma esserci. In effetti questo è un problema che egli non è mai riuscito a risolvere adeguatamenteflîi Nonostante il margine minimo di somiglianza che egli pone tra l'uomo e Dio, Kierkegaard ascrive all'uomo la possibilità di attingere Dio
mediante l'interiorizzazitme.Afferma Kierkegaard:
«Dio è nella creazione, dappertutto nella creazione, ma
non
Vi ò diret-
tamente, e soltanto quando Pindividuo si ripiega su se stesso (quindi soltanto nell'interiorità dellautoattività) egli diventa attento e in grado di vedere Dio... Certamente la natura è un'opera di Dio, ma l'opera soltanto è presente direttamente, non Dio. Rispetto a ogni uomo
singolo non è questo
un comportarsi come di uno scrittore pieno di astuzia che in nessuna parte espone i suoi risultati in grossi caratteri, né li anticipa nella prefazione? E perché Dio e astuto? precisamente perché Egli è la verità e, coll’esserlo, Vuole stornare gli uomini dall’errore. Se Dio potesse permettere un rapporto diretto, l'uomo se ne sarebbe certamente accorto. Se per esempio Dio avesse preso la figura di uno strano smisurato uccello Verde con il becco rosso, che si fosse appollaiato su di un albero dei bastioni della città e magari si fosse messo a zufolare in un modo finora inaùdito: allora il nostro brav'uomo di società avrebbe probabilmentealzato gli occhi per guardarlo: si sarebbe trovato per la prima volta nella vita a essere il primo. Ma il
23) 24) 25)
Cf. S. KIERKECAARD, Briciole di filosofia e postilla non scientifica, tr. C. Fabro, Bologna 1962, Vol. ll, p. 70, nota. lbid, vol. ll, p. 219. Cf. C. FABRO, Ijexistence de Dieu dans l'oratore de Kierkegaizrd, in Lîàxistence de Dieu, Tournai 196], pp. 45 ss.
Kierkegaard e la metafisica dell'esistenza
477
rapporto spirituale a Dio nella verità, cioè lfinteriorità, è precisamente
condizionato anzitutto dall’irruzione della interiorizzazione, che corrisponde all’astuzia divina che Dio non è nulla, assolutamente nulla di esotico. Egli è così lungi dall'essere qualcosa di sorprendente ch'è invisibile, al punto che non ci accorge neppure ch’Egli esiste, mentre a sua volta la Sua invisibilitàè la Sua onniprensenzamîò «Così Dio è un'ldea altissima che non si può spiegare con qualche cosa di altro, ma si può spiegare soltanto con Papprofondirsi in sé; i supremi principi d'ogni pensiero si possono dimostrare soltanto indirettamente (in modo negativo»?
Qui ci sarebbe da dire
in che
modo, secondo Kierkegaard, l'uomo
perviene all'acquisto della "conoscenza" di Dio mediante Yinteriorizzazione. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano, perché occorrerebbe partire dalla sua teoria degli stadi della vita (estetico, etico e religioso) e dalla sua concezione della verità soggettiva, e questo comporterebbe sviluppare un po’ tutto il sistema kierkegaardiano. Perciò, per attenerci rigorosamente al nostro tema, diremo soltanto in che modo qualsiasi conoscenza di Dio, secondo Kierkegaard, viene impedita dal peccato e,
in un secondo tempo, in che modo la Parola di Dio restituisce all'uomo la possibilità di comunicare con Lui. La distanza fra l'uomo e Dio, l'oscurità, Yinconoscibilità e l'ineffabilità di Dio si è accentuata ulteriormente col peccato originale. Seguendo Lutero e Calvino, Kierkegaard ritiene che con la cadu_ta, l'immagine di Dio si corrompa: così il debole vestigio della divinità che l'uomo portava con sé originariamente scompare. Perdendo l'image Dei, la quale rendeva possibile il riconoscimento deIYinfinita differenza qualitativa che lo separava da Dio, l'uomo pretende di innalzarsi fino a Lui, di essere come Lui (eritis sicut Dezts). Invece di restare in relazione con Dio come adoratore l'uomo ora diviene un idolatra che crede in una relazione immediata con Diofis Il peccato è proprio questo orgoglio di immediatezza, il cui frutto più amaro è il fatto di scavare un nuovo abisso tra Dio e l'uomo, più profondo di quello della infinita differenza qualitativa. «Se la distanza è infinita tra Dio, che è in cielo, e te, che sei sulla terra, infinitamente più grande è la distanza tra il Solo Santo e te peccatore»? Tutto, nell'uomo, è stato contaminato dal peccato. Per questo non solo il peccato, ma tutto ciò che appartiene all'uomo non può essere pre-
26) KIERKEGAARD, Briciole... cit., vol. II, pp. 53-54. 27) Ibìd? pp. 30-3]. 3“) Cf. 18nd, pp. 53 ss. 39) Cit. in H. R. MACKINTOSH, Types uf modem theology,New York 1937, p. 237.
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Parte terza
dicato di Diofi" Dell'uomo, per es., possiamo dire che pensa, che esiste. Questo, invece, di Dio non si può dire: «Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno».31 A causa del peccato si stabilisce fra Dio e l'uomo un'assoluta eteroge-
neità non solo a livello ontologico ma anche epistemologico: «ljinteriorità del peccato... è la distanza più grande possibile e più dolorosa della verità, quando la verità ‘e interiorità>>fi2 Dopo la caduta, la ragione non è più in grado di raggiungere la vera conoscenza di Dio; al più essa può dare una definizione astratta di Lui, come quando lo chiama «il primo motore immobile>>fi3In breve, dopo la caduta, l'uomo si trova in una relazione puramente negativa con Dio sia sul piano ontologico, sia su quello
epistemologico, e di conseguenza anche su quello semantico e linguistico: non esistono più nel linguaggio umano espressioni atte a significare Dio degnamente, perché sono state tutte insozzate dal peccato.
Ma con la Redenzione Dio stabilisce nuovamente con l'uomo una relazione positiva. Per opera di Gesù Cristo l'uomo è ricreato da Dio, il quale «annulla la dissomiglianza che esiste fra di loro>>34 offrendosi all'uomo come oggetto di conoscenza e di amore. Specialmente nell'amore si realizza una nuova analogia fra Dio e l'uomo, perché «la natura di Dio è amore»? «È per amore che Dio si è deciso fin dall’eternità a rivelarsi; ma come il suo amore è la causa, parimenti l'amore deve essere il fine; perché sarebbe Veramente una contraddizione che Dio avesse una causa di movimento e un fine che non fosse ad essa corrispondente. Bisogna allora che l'amore si indirizzi al discepolo e il fine sia quello di guadagnarselo; perché solo nell'amore il diverso diventa eguale, solo nell’uguaglianza ovvero nell'unità c'e comprensione; ma senza la perfetta comprensione Dio non è il Maestro, a meno che la causa sia da cercare da parte del discepolo che non vuole ciò che è stato reso possibileper Iui».36
Il paradosso: Gesù Cristo La fede per la quale Kierkegaard ha combattuto la sua strenua battaglia è la fede in Cristo: non la fede nel Dio della teologia naturale ma nel Dio della rivelazione. Il paradosso dinanzi al quale la ragione deve chinare il capo è quello dell'Uomo—Dio, dell'eternità che si cala nel tempo e
3”) Talvolta Kierkegaard giunge fino al punto di identificare l'esistenza col peccato. Cf. S. KIERKEGAARD, The concepì ofdread, tr. ingl. di W. Lowrie, Princeton 1957. 3‘) S. KIFRKEGAARD, Briciole... cit., vol. I1, p. 14D. 32) IbicL, p. 78. 33) Diario, cit., vol. l, p. 184. 34) Briciole... cit., vol. I, p. 115. 35) Ibid, p. 331. 36) lbid, p. 115.
Kierkegaard e la nzetafisicn cielfesistenza si fa storia. «L'Uomo-Dio è il paradosso, il paradosso assolutamente certo che la ragione finirà per arenarsi»
stianesimo).
479
assoluto; perciò
è
(L'esercizio del cri-
«La venuta di Cristo è e resterà sempre un paradosso. Per i suoi contemporanei, il paradosso consisteva nel fatto che quesfUomo, cotesta figura determinata, dall'apparenza esterna identica agli altri uomini, per la loro lingua e i loro usi e costumi, fosse il Figlio di Dio. Per le epoche posteriori il paradosso ‘e un altro, perché non Vedendo più Cristo con gli occhi della carne, esse possono più facilmente rappresentarselo come il Figlio di Dio».37
Trattando del mistero di Cristo Kierkegaard deve prendere posizione sia contro i negatori della sua divinità (gli illuministi, i positivisti, i materialisti ecc.) sia contro coloro che pretendono di risucchiare anche la sua divinità dentro gli schemi della filosofia (gli idealisti). Sia gli uni che gli altri assumono la ragione come metro assoluto di Verità. Ma ò esattamente in questo che consiste non semplicemente l'errore ma anche il peccato. La figura di Cristo appartiene a un ordine di cose l'ordine soprannaturale, Yinverosimile che sfugge a tutti i criteri della ragione: è un paradosso che soltanto la fede può accettare. Kierkegaard distingue due tipi di religiosità: A e B. Alla prima si accede con la ragione, alla seconda con la fede. La religiosità A, quella della religione naturale non è in grado di vincere il dubbio, l'angoscia, il peccato. Il massimo a cui può arrivare è il "pentimento" del peccato e —
-
lmaspirazione" all'ideale. Solo nella religiosità
B l'uomo ottiene la sal-
per la fede nell'Uomo-Dio, Gesù Cristo. L'oggetto della fede è il "paradosso assoluto", come si è visto, la persona dell’Uomo-Dio in quanto essa presenta Dio che è entrato nel tempo e si è fatto storia. Kierkegaard nota che Cristo ‘e apparso nella forma dellmuomo comune" per salvare ogni uomo e poter essere il "modello" di ciascuno. L'accettazione dell'Incarnazione nella sfera esistenziale costituisce il cosiddetto "problema di Lessing”, che è proposto per la prima volta con chiarezza nella Pastilia e ricorre di frequente nei "Diari" degli ultimi anni: «La felicità eterna di un uomo è mai commensurabilecon una decisione presa nel tempo, per via di un fatto storico accaduto nel tempo?».38 Eppure è questa la situazione che Costituisce precisamente l'essenza del cristianesimo, mentre la filosofia pura la deve negare (illuminismo, deismo, spinozismo, positivismo ecc.), perché non riconosce la religione fuori di sé. vezza
37) 38)
Diario IV, A 47. Îiîid. Xll, A 296.
480
Parte terza
La posizione cristiana implica un duplice paradosso e quindi un duplice scandalo: «L'uno nel
senso
della elevatezza e ci si scandalizza che
un uomo
sin-
golo dica di essere Dio, agisca o parli in maniera che riveli Dio; oppu-
lo scandalo è in direzione dell’abbassamento che Colui che è Dio è quell'uomo umile che soffre come uno umile. Nel primo caso lo scandalo è tale che io non sono per nulla scandalizzato da cruesfumile, ma dalla sua pretesa che io lo creda Dio. E se io l'ho creduto, lo scanre
dalo si mostra dall'altra parte, nella pretesa di essere Dio, accampata da quest’uomo insignificante, impotente, il quale nel momento di passare ai fatti, si mostra assolutamente incapace di tutto. Nella prima forma, si parte dal termine uomo; nell'altra si parte dalla determinazione in Dio e lo scandalo poggia sull’Uomo—Dio».39
Questa verità paradossale che Cristo è allo stesso tempo Uomo e
Dio furberie. alla lettera non senza e senza sotterfugi Kierkegaard presa ama né apprezza le acrobazie con cui i padri e gli scolastici hanno cercato di spiegare il mistero di Cristo e ha parole molto severe nei confronti delle speculazioni teologiche dei propri contemporanei. Egli scrive: va
«La speculazione ha, naturalmente creduto di poter "concepire" l'Uomo-Dio e, s'intende, perché la speculazione lo spoglia delle determinazioni di temporalità, di contemporaneità, di realtà. Insomma, non si esagera a dire che ciò significa semplicemente abbandonarsi a delle buffonate e farsi beffe della gente: è triste e terribilevedere che questetteggiamento è stato celebrato come profondità appartenente all’Uomo—Dio. No, e la situazione, quella situazione in cui l'individuo che ti sta a lato è l'Uomo-Dio. L'Uomo-Dio non è l'unità di Dio e dell'uomo, una simile terminologia è una profonda illusione ottica. L'Uomo-Dio è l'unità di Dio e di un individuo particolare. Che il genere umano sia o debba essere imparentato con Dio è concezione del paganesimo antico; ma che un uomo particolare sia Dio è dottrina del cristianesimo, e quest'uomo particolare è l'Uomo-Dio. Né in cielo, ne’ in terra, né all'inferno, né nei traviamenti del pensiero più fantastico si incontra la possibilità di una associazione così pazzesca per la nostra ragione. Lo si riconosce quando si è nella situazione della contemporaneità, e non c'è possibilità di rapporto con l'Uomo-Dio senza mettersi prima in questa situazionewfl «L'uomo-Dio e un uomo singolo e non una unione fantastica che non è giammai esistita se non sub specie aeterni>>.41
3") Lîzsercîzin del cristianesimo, in Antologiaw cit., p. 192. 4“) Ibid, p. 103. 41) Ibzd., p. 204.
Kierkegaard e la metafisica dell'esistenza
481
Il Cristo di Kierkegaard non ha nulla a che vedere con i Cristi romantici, edulcorati dei quali è prodigo l'immaginario del XIX sec. Egli possiede Fausterità e l'integrità del profondo Medio Evo. ll Diario non risparmia la disputa con l’Amico celeste che condivide la riprovazione per un cristianesimo troppo zuccheroso e sdolcinato, con 1a sua ”aria mefitica”, le sue ”rappresentazioni asmatiche”: in breve un cristianesimo da parroci. «Il Cristo di Kierkegaard risente dei rudi assalti condotti contro la Chiesa stabilita. Ma Kierkegaard non è unilaterale, è anche capace di tenerezza; sa, lui il camminatore solitario, camminare con il Cristo che si commuove per i gigli dei campi e gli uccelli del cielo».42
La grandezza di Kierkegaard «La grandezza di Kierkegaard, quel senso di ricchezza e di profondità che dà la sua opera sono in gran parte dovute alla strettissima relazione che intercorre tra questa e la sua vita. Sono le sue esperienze quelle da cui ha cercato di trarre il contenuto concettuale, appena concettuale. E l'angoscia della sua giovinezza che gli ha fatto comprendere il ruolo dell'angoscia, è il suo fidanzamento e la rottura del suo fidanzamento che gli ha fatto trovare la sua teoria dell'espressione indiretta e dellîncognito divino. E la sua lotta con il ”C0rsaire" che gli ha rivelato meglio che mai la sofferenza del cristiano e 1a sofferenza di Cristo».43
pensiero religioso di Kierkegaard si incontra un duplice radicalismo: un radicalismo ”teologìco”, che riguarda il carattere della sua fede Nel
totale, assoluta, sconfinata, assorbente in Dio; un radicalismo ”cristiano" che riguarda il suo amore ardente e incondizionato a Cristo, il Cristo crocifisso. In questo duplice radicalismo sta, forse, la specificità della
teologia di S. Kierkegaard. Kierkegaard è Yantinzoderno per antonomasia, ed è sicuramente per questo motivo che egli non fu né compreso né accettato dai suoi contemporanei. Egli è antimoderno in modo non meno radicale di Nietzsche, ma mentre questi combatterà la modernità in nome di Dioniso e dell’Anticristo, Kierkegaard la combatte in nome di Cristo. La passione per l'uomo collega il geniale pensatore danese alla modernità, ma allo stesso tempo fa di lui il critico più severo, il nemico più irriducibiledella modernità. Mentre infatti il vessillo della modernità è
l’immanenza, il vessillo di Kierkegaard è la trascendenza; la bandiera della modernità è la secolarizzazione, la bandiera di Kierkegaard è il cristianesimo. La modernità è l'esaltazione esasperata dell'uomo ”senza
42) X. TILLIETTE, Filosofi davanti a Cristo, Brescia 1991, p. 213. 43) ]. WAHL, E tudes kierkcgaardiennes, Paris 1949, pp. 449-450.
482
Parte terza
(che
viene sistematicamente ignorato anche quando non viene negato); Kierkegaard è la meditazione incessante e profonda sull'uomo davanti a Dio. Si è considerato Kierkegaard il padre dell'esistenzialisrn0 sia filosofico sia teologico, ma questo titolo non rende pienamente giustizia al suo pensiero, perché il suo esistenzialismo è estraneo sia alla sistematicità dell’esistenzialismo teologico di Barth e Tillich sia alla laicità dell'esiDio"
stenzialismo filosofico di Heidegger e Sartre. Uesistente, il Singolo di cui si occupa Kierkegaard con tanta passione in tutti i suoi scritti è l'uomo, il Singolo davanti a Dio. Per questo il suo uomo non ha nulla a che
con l'uomo della modernità. L'uomo di cui egli si occupa non è della quello soggettività e dell'immanenza, l'uomo sovrano di se stesso e del mondo (il microcosmo) degli umanisti, l'uomo miscredente degli illuministi,l'uomo maturo e autonomo di Kant. Questo per Kierkegaard non è il vero uomo, ma l'uomo decaduto, l'uomo peccatore. Difendere il cristianesimo e la teologia dalle insidie della filosofia, specialmente dalle insidie della filosofia hegeliana, fu l'obiettivo principale di Kierkegaard. Su questo punto la sua dissociazione da Sch1eier— macher e dalla teologia liberale del suo tempo è totale. La loro preoccupazione era identica: rendere comprensibile il rinnovamento dell'uomo per opera di Dio ai propri contemporanei. Ma mentre Schleiermacher cercava di conseguire questo risultato percorrendo la strada dell'armonia, Kierkegaard lo fa percorrendo la strada del conflitto.
vedere
«L'intenzione di Schleiermacher e, sulle sue tracce, del liberalismo e della teologia della mediazione, è stata quella di utilizzareFidealismo in funzione apologetica, per condurlo, con atteggiamento sacerdotale, alla sua segreta meta; l'intenzione di Kierkegaard, invece, è stata quella di smascherarlo, con atteggiamento profetico, scoprendovi una forma dello scandalo interminabiledestato dal paradosso dell'evangelo (...). Schleiermacher venne accettato dalla chiesa e utilizzato dalla teologia della mediazione in forma addomesticata. Kierkegaard aveva attaccato proprio questa teologia in quanto ideologia mediatrice dellkstablìslimerzt ecclesiastico, e venne quindi respinto anche dalla
Chiesaw”
Kierkegaard non è una dialettica truccata e pasticciata la dialettica di come Hegel, dove presto o tardi tutti finiscono per trovarsi d'accordo grazie a una sintesi superiore. Quello di Kierkegaard ‘e un autentico AllÎ-ALIÌZ o fede o ragione, o filosofia o Cristianesimo. Per Kierkegaard è impossibileservire due padroni: Dio e il mondo, la verità La dialettica di
44)
H. BskKHor, 0p. cih, p. 109.
Kierkegaard e la metafisica dell esistenza
483
la menzogna, Cristo e Hegel. E la sua scelta rischiosa e coraggiosa, in mondo che aveva già abbandonato Cristo e che si avviava alla "morte di Dio", fu per la via, «che è Cristo, questa via stretta, essa è stretta fin dal suo inizio» (Per Pesante di se stessi). La protesta di Kierkegaard contro Hegel (Yilluminismo, il razionalismo, l’idealismo) in nome della sola fides presenta molte affinità con la protesta di Lutero contro Aristotele e la Scolastica. Ma la sua protesta non è fatta in nome della Sola Scriptura e non è pertanto una protesta specificamente teologica, bensì in nome della esistenza credente e della fede vissuta, la quale conosce una sola verità: che l'uomo trova la sua vera misura e la sua sicura dimensione solo vivendo nella cosciente presenza di Dio e nella sequela di Cristo. Profetico e inattuale al suo tempo, Kierkegaard divenne improvvisamente molto attuale e solennemente celebrato nei primi decenni del secolo XX, nel momento in cui, con la prima tragica guerra mondiale, crollò l'utopia illuministica, razionalistica, kantiana, idealistica di un'umanità felice incamminata verso un continuo e inarrestabile progresso, in grado di esercitare il suo dominio sulla natura e di gestire il corso della sua storia. Questa menzogna era già stata denunciata da Kierkegaard da quasi un secolo. Ma questa era soltanto una parte e sicuramente la parte meno rilevante del suo messaggio, che riguardava la via maestra da seguire per conseguire la pace e la riconciliazionecon Dio, la difficile sequela di Cristo. Sotto questo aspetto, il suo annuncio che la salvezza dell'uomo dipende esclusivamente dal paradosso cristiano continua a essere inattuale e profetico più che mai, perché l'uomo informatico e cibernetico del secolo XX rifiuta con altrettanta tracotanza dell'uomo illuminato e razionalista del secolo XIX, quella fede in Cristo che solamente lo può condurre fuori dalla prigione dell'angoscia e della disperazione e dalla caverna delle fatue illusioni. e
un
484
Parte terza
Suggerimenti bibliografici EDIZIONI
Samlede Voerker, ed. A. B. Drachmann, J. L. Heilberg, H. O. Lange, 14 voll., Kobenhavn 1901-1906. Papier, ed. P. A. Heilberg, V. Kuhr, E. Trosting, 20 volL, Kobenhavn 19091948.
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Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972.
di K. M. Guldbransen e R. Cantoni, Milano 1975. Briciole difilosofia e postilla non scientifica, a cura di C. Fabro, 2 vo1I., Bologna 1962. Il concetto dellîziigoscia. La malattia nmrtale, Firenze 1953. Diario, a cura di C. Fabro, 3*‘ ed., Brescia 1980. Esercizio del cristianesimo, a cura di C. Fabro, Roma 1971. Timore e tremore, Milano 1952.
Aut-Aut, a
cura
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FRIEDRICH NIETZSCHE E LA DISTRUZIONE DELLA METAFISICA
Vita e opere Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque a Ròcken, presso Lùtzen, il 15 ottobre del 1844, dal pastore protestante Karl Ludwig e da Franziska Oehler, figlia del pastore di un villaggio vicino. Dopo la morte del padre, nel 1850 la famiglia si trasferì a Naumburg. L'infanzia e l'adolescenza furono caratterizzate dalla passione per la musica e da precoci interessi per la poesia, la storia e la mitologia greca e germanica. Dal 1859 al 1864 Nietzsche frequentò la scuola di Pforta e nel 1864 si iscrisse all'Università di Bonn, frequentando dapprima i corsi di teologia, per dedicarsi poi allo studio della filologia sotto la guida di Friedrich Ritschl, che seguì a Lipsia nel 1865. Probabilmenterisale al periodo universitario di Lipsia l'infezione luetica che lo porterà alla follia e alla paralisi. Nel novembre del 1868 conobbe Richard Wagner e rimase affascinato dalla sua personalità; l'anno seguente, a soli 24 anni, fu chiamato a insegnare lingua e letteratura greca all'università di Basilea, dove strinse amicizia con Jacob Burckhardt e con il teologo liberale Franz Overbeck. Nel 1870, in occasione del conflitto franco-prussiano, si arruolò volontario come infermiere, ma una forte dissenteria e la difterite lo costrinsero,
dopo poche settimane, a lasciare l'esercito. Ripresa l'attività didattica, dopo la pubblicazione de La nascita della tragedia, nel gennaio 1872, i rapporti Con i colleghi filologi andarono deteriorandosi, mentre si rafforzavano quelli con Wagner. Al 1873 risale l'amicizia col filosofo Paul Rée e il giovane musicista Heinrich Koselitz (noto con lo pseudonimo di Peter Cast), che diventerà uno dei suoi più fedeli discepoli. Durante il soggiorno a Sorrento progettò con alcuni amici una sorta di moderno convento per ”spiriti liberi”. Nel 1876 i rapporti con Wagner furono seriamente compromessi: il musicista si presentava sempre più come il portatore di quegli ideali metafisici che il filosofo andava ormai abbandonando; con la pubblicazione di Umano, troppo umano la rottura con Wagner diventò definitiva. A causa del peggioramento delle sue condizioni di salute, nel 1879 Nietzsche abbandonò definitivamente l'insegnamento; a partire da questo momento condusse una vita errabonda, alla ricerca di un luogo il cui clima e il cui ambiente fossero adatti alle sue
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condizioni. Grande giovamento, non soltanto fisico, trasse dai soggiorni estivi a Sils-Maria, in Engadina, e dai molti viaggi e soggiorni in Italia
(Riva del Garda, Genova, Messina, Venezia, Recoaro, Rapallo); durante uno di questi, nel 1882 a Roma, fece la conoscenza di Lou von Salomé,
dalla quale rimase profondamente colpito. Nel 1882 pubblicò La (gaia scienza, da cui sperava di ottenere un grande Successo, ma che invece passò quasi inosservata. Questa delusione e quella ancor più grave derivatagli dal fatto che Lou von Salomé, che sperava di sposare, non ricambioil suo affetto, aggravarono rapidamente la sua malattia mentale. Però, prima di piombare completamente nella notte della pazzia, Nietzsche era riuscito a portare a termine i suoi capolavori: AI di là del bene e del male (1885); La genealogia della morale (1887); Così parlò Zaratustra (1891). Solo La volontà di potenza rimase
incompiuta.
Nel 1897 morì la madre; la sorella Elisabeth, che nel 1894 aveva fondato l'Archivio Nietzsche e che avrebbe pubblicato non senza gravi manipolazioni i suoi ultimi scritti, portò con sé il malato a Weimar. Nietzsche si spense in questa città nel 1900. -
-
La rivoluzione culturale di Nietzsche Indubbiamentela pagina più nera della storia della metafisica è quella che ha scritto Nietzsche nella sua esuberante produzione letteraria. Nel mondo del pensiero Nietzsche è l'autore di una rivoluzione ben più profonda e radicale della piccola ”rivo1uzi0ne copernicana" operata da Kant. Questi, come sappiamo, non aveva distrutto la metafisica, ma semplicemente cambiato le sue fondamenta, né aveva distrutto i valori assoluti, perché anzi li aveva posti alla base della sua esigente morale. Invece, uno degli obiettivi primari di Nietzsche è demolire la metafisica e capovolgere la tradizionale tavola dei valori, che dava importanza solamente ai valori assoluti. Nietzsche è indubbiamente un pensatore geniale, che è riuscito a C0gliere meglio dei suoi contemporanei la situazione culturale del proprio tempo. Egli percepisce chiaramente che la cultura occidentale costruita sulle basi della metafisica classica e del cristianesimo volgeva ormai al tramonto, e con la sua analisi penetrante e con le sue proposte ardite egli contribuì ad affrettarne la fine. Insieme a Marx e a Freud, Nietzsche è uno dei grandi ”maestri del sospetto", uno dei padri dellateismo moderno, uno dei maggiori demistificatori del pensiero tradizionale; egli è uno dei massimi fautori della travolgente rivoluzione culturale che ha avuto luogo nel secolo XX in tutto l'Occidente: dico ”rivoluzione cu1turale", che comprende molto più di una rivoluzione politica, sociale, economica o religiosa.
Friedrich Nietzsche e la distruzione della metafisica
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Mentre la rivoluzione culturale di Marx era diretta alla società e all'uomo come essere sociale (il singolo è totalmente disatteso), la rivoluzione culturale di Nietzsche riguarda eminentemente il singolo: l'uomo come individuo, fuori dal "gregge", fuori dalla società. In entrambi i casi la rivoluzione e la transvalutazione è radicale, completa, totale: il trascendente è annientato e l'uomo diviene l'essere supremo: fonte unica e arbitrariadi tutti i doveri, senza alcun diritto, nella concezione marxista; fonte unica e arbitraria di tutti i diritti senza nessun dovere, nella concezione nietzschiana. L'epoca in cui viviamo, anche
grazie al crollo del marxismo, è un'epoca apertamente dionìsiaca: l'epoca dell'homo ludens e non più dell'homo sapiens. Questa è esattamente l'epoca di cui Nietzsche è stato un lungimirante profeta: è l'epoca post-metafisica e post-cristiana che egli aveva sognato. Del ricco e turbolento pensiero di Nietzsche a noi qui interessano due aspetti: 1) la distruzione della metafisica; 2) la celebrazione del nichilismo e
della visione dionisiaca della realtà.
La distruzione della metafisica Per Nietzsche i grandi nemici dell'uomo sono tre: la religione, la morale e la metafisica: la religione che sottomette l'uomo a quell'onnipotente padrone che si chiama Dio, la morale che sottomette l'uomo alla legge, la metafisica che sottomette l'uomo a un mondo superiore. Col pesante martello della sua critica Nietzsche cerca di spezzare queste tre pesantissime catene, onde restituire all'uomo la piena libertà. Il suo Zaratustra predica la "morte di Dio", la fine della morale e la falsità della metafisica. l suoi attacchi a Dio e alla morale sono ben noti; meno conosciuti i suoi attacchi alla metafisica, che sono quelli che a noi qui interessano più direttamentefl Secondo Nietzsche la metafisica è tre volte falsa: falsa con se stessa, falsa con le cose, falsa con l'uomo. Anzitutto è falsa con se stessa, perché ignora o misconosce le motivazioni delle proprie teorie. I metafisici «si comportano tutti come se avessero scoperto e raggiunto le proprie opinioni attraverso Pautoevoluzionedi una dialettica fredda, pura e divinamente serena (...), mentre in fondo essi difendono con argomenti cercati a posteriori una tesi preconcetta, una trovata, una ispirazione, molto spesso un desiderio del cuore astrattizzato e filtrato; sono tutti avvocati
1)
Per un'esposizione completa delle critiche mosse da Nietzsche alla religione, alla morale e alla metafisica cf. B. MONDIN, Il valore ziomo, Roma 1987, 2“ ed., pp. 70-91.
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che non vogliono che lo si dica, e in realtà sono per lo più scaltri sostenitori dei loro pregiudizi, che essi chiamano ”verità”».2 In secondo luogo, è falsa con le cose, perché introducendo un secondo piano della realtà (le Idee, Dio, le sostanze separate, lo Spirito Assoluto ecc.), essa svalorizza, mortifica, annienta il loro effettivo valore. «Il principio di contraddizione fornì lo schema: il mondo vero, verso il quale si cerca la via, non può essere in contraddizione con se stesso,
può mutare, non può divenire, non ha né principio né fine. E questo il più grande errore che si sia commesso, la vera e propria sciagura dell'errore sulla terra: si credé di avere nelle forme della ragione un
non
criterio della realtà, mentre le si aveva per dominare la realtà, per fiaintenziere la realtà in modo avveduto (...). E guarda un po’: ecco che il mondo divenne falso, e proprio a causa delle qualità che ne costituiscono la realtà: mutamento, divenire, pluralità, contraddizione, guerra. E allora avvenne tutto il disastro: 1) come ci si libera dal mondo falso, del mondo meramente apparente? (era quello reale, l'unico); 2) come possiamo diventare noi stessi al massimo il contrario rispetto al carattere del mondo apparente? (concetto dell'essere perfetto come opposto a ogni essere reale, o meglio come contraddizione alla vita"); 3) tutto l'orientamento dei valori andò verso la denigrazione della vita».3
perché
vuole gettare un velo o addirittura sopprimere la parte più importante e più autentica del suo essere, che è quella che riguarda gli affetti, gli istinti, i sentimenti, le passioni, la volontà di potenza, riducendo tutto alla testa, alla ragione, al pensiero. Tutto quanto ‘e pertinente alla non-ragione, allarbitrario, al casuale, all’istintiv0 è stato odiato dai metafisici. Conseguentemente «essi hanno negato questo elemento all'essere in sé, hanno concepito quest'ultimo come ”razionalità" e ”finalism0" assoluti».4 Secondo Nietzsche il padre di tutte queste menzogne metafisiche è stato Platone, sul quale egli non si stanca di pronunciare sentenze di condanna e di disprezzo; egli è infatti «l'autore dell'errore più grave, più tenace e più pericoloso fino a oggi, quello di inventare uno Spirito e un Bene in sé».5
Infine, la metafisica è falsa
3) 3)
4) 5)
verso
l'uomo,
Aldilà del bene e del male, Milano 1968, p. 23. Frammenti pnstunti 1888-1889, Milano 1974, p. 126. Ibid, p. 12s. 12nd, p. 238.
Friedrich Nietzsche e la distruzione della metafisica
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La concezione estetica della filosofia
questi argomenti Nietzsche distrugge la metafisica ma non la filosofia, perché l'uomo è un essere pensante ed è quindi naturalmente filosofo. Ma della filosofia Nietzsche ha un concetto ben diverso da quello Con
che
avevano
avuto i suoi
predecessori. A una concezione teoretica della
filosofia, che è quella che trova nella metafisica la sua massima espressione, Nietzsche contrappone una concezione estetica, la quale concepisce la filosofia come arte: i suoi intenti non sono speculativi e astratti,
pratici e concreti. «I veri filosofi scrive Nietzsche sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano ”così deve essere”! Essi determinano in primo luogo il "dove" e l'"a che scopo" degli uomini, e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ma
-
-
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ed è stato diventa per essi
strumento, martello. Il loro "conoscelegislazione, la loro volontà di verità è
mezzo,
re" è creare, il loro creare è una volontà di potenzaw‘ Le funzioni delfautenticflfilosofia per Nietzsche sono quelle dell'arte: essa opera una profonda trasformazione delle cose, ma non per farle belle, bensì per far loro rispecchiare la potenza dell'uomo, la potenza della vita. Essa possiede il potere magico di trasfigurare ogni cosa, di trasvalutare tutti i valori, di affrancare l'uomo da tutte le catene della metafisica, della morale, del cristianesimo, così da consentirgli di dire "sì a tutte le cose, anche a tutto quanto in passato è stato proibito, disprezzato, maledetto”. In uno dei frammenti postumi Nietzsche assegna all'arte filosofica tre compiti fondamentali: «1) la redenzione dell'uomo della conoscenza: di colui che scorge il carattere spaventoso e problematico dell'esistenza, anzi lo vuole scorgere, di colui che ha la conoscenza tragica; 2) la redenzione dell'uomo d'azione: di colui che non solo scorge e vuole scorgere il carattere spaventoso e problematico della esistenza, ma anche lo vive, vuol viverlo, dell'uom0 tragico bellicoso, dell'eroe; 3) lo redenzione del sofierente: come la via condizioni nelle quali la sofferenza è voluta, trasfigurata, divinizzata, in cui la sofferenza è una forma della grande delizia»?
verso
Tipo ideale dell'artista filosofo è di nuovo Dioniso: lui è l'unico, vero, autentico filosofo, che sa partecipare creativamente alla danza eterna del divenire e sa farsi "creatore, amante, benefattore di tutte le cose". Così non a caso nell'ultimo, conclusivo frammento dei manoscritti Nietzsche 6) 7)
Al di là del bene e del nzale, cit., pp. 147-148. Frammenti postumi 1888-1889, cit., p. 31].
490
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sceglie per sé il titolo di "Dionysos philosophos". Sotto questo titolo egli così riassume il senso della sua attività letteraria: «I miei libri, riga per riga, sono libri vissuti per una volontà di vita e con ciò stesso, in quanto creazione, rappresentano una aggiunta reale, un di più di quella vita stessaw‘ Il nichilismo dati a Nietzsche figura anche quello di "padre del nichilismo”. Si tratta di un titolo ch'egli avrebbe ricusato sdegnosamente, perché quella che egli considerava nichilistica è la concezione platonico-cristiana del mondo, la quale, a suo giudizio, ha un atteggiamento e una valutazione fortemente negativi nei confronti di questo mondo e della vita dell'uomo su questa terra. Di fatto però nell'uso corrente, il nichilismo è una visione della realtà che nega l'esistenza di principi primi trascendenti e di valori assoluti. E di tale visione Nietzsche è indubbiamenteuno degli assertori più categorici. La concezione estetica che Nietzsche ha della filosofia abbraccia due momenti: uno nichilisticoe l'altro vitalistico. Il primo momento è quello in cui egli fa tabula rasa della vecchia concezione dell'uomo, visto come umile "cammello" sottomesso a Dio e ai suoi comandamenti; fa tabitla rasa delle sovrastrutture religiose, etiche e metafisiche che fanno da supporto a tale concezione; e, infine, demolisce la tavola platonico-cristiana dei valori che riconosce dignità soltanto ai valori assoluti e disprezza e condanna i valori relativi. Poco prima di morire Nietzsche ha dichiarato che nella sua vita aveva avuto un unico scopo e una sola grande passione: distruggere i valori trascendenti, i valori spirituali che stanno alla base della cultura occidentale, operare una "transvalutazione dei valori" e iniziare, in questo modo, la costruzione di un nuovo umanesimo (quello del supepuomo); «risalire dall’ottica del malato a più sani concetti e valori e poi discendere, Viceversa, dalla ricchezza e certezza di sé della vita piena, a scrutare il lavoro di filigrana deIl'istinto di decadenza: è stato questo il mio più grande esercizio, la mia più lunga esperienza: e se sono maestro in qualche cosa, lo sono in ciò. E cosa che tengo in pugno, ho la mano per rove— sciare le prospettive; ragion per cui solo a me era possibile una transvaIutazione dei zval0ri».9 Come risulta dal volume che raccoglie i frammenti degli ultimi due anni (1888-1889) della sua attività letteraria, Nietzsche, prima che la sua mente soccombesse per sempre alle tenebre della pazzia, era tutto preso dall'idea di comporre un'opera sistematica sul nichilismo dei valori e Tra i titoli che si
8) Ibid,, p. 379. 9) Ibiat, p. 399.
sono
Friedrich Nietzsche e la distruzione della
metafisica
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sulla loro transvalutazione. Di tale opera egli ci ha lasciato una dozzina di schemi, i quali comprendono tutti due parti: una pars destruens, intesa alla distruzione dei valori assoluti e di tutte quelle forme di sapere (soprattutto la morale, la religione e la filosofia) che fanno loro da supporto, e una pars construens che riguarda l'esposizione di una nuova teoria dei valori e, conseguentemente, anche di una nuova Concezione della realtà (la concezione vitalistica-dionisiaca) e dell'uomo. Quasi tutti gli schemi prevedono quattro libri, tre destinati alla distruzione dei valori assoluti e uno alla fondazione dei nuovi valori. L'opera doveva avere per titolo o "Volontà di potenza" (che è quello che ricorre più spesso negli schemi) oppure "Trasvalutazionedi tutti i valori". Un progetto che porta il secondo titolo divide la materia come segue: Libro primo: L'anticristo. Tentativo di una critica del cristianesimo; Libro secondo: L0 spirito libero. Critica della filosofia come movimento nichilistico; Libro terzo: Uimmoralista. Critica della forma di ignoranza più funesta, la morale; Libru quarto: Dioniso. Filosofia dell'eterno ritorno.” Come abbiamo visto, momento saliente del nichilismo è la distruzione della metafisica. Questa distruzione però non è intesa da Nietzsche come distruzione dell'essere per rimpiazzarlo col nulla. Gli opposti che interessano all'autore di Così parlò Zaratustra non sono essere-nulla, bensì essere-dìvenire. Ciò che Nietzsche intende uccidere è il Cuore della metafisica, vale a dire la divisione della realtà in due piani: il piano superiore abitato dall'essere immobile,immateriale, eterno, divino, e il piano inferiore abitato dal divenire, dal corporeo, dal contingente. Togliendo il piano dell'essere, Nietzsche cancella il piano della trascendenza e della eternità e conserva soltanto il piano della vita e della storia.
Visione vitalistica e ludica del mondo Del mondo Nietzsche ha una visione che è allo stesso tempo vitalistiludica: vitalistica in quanto principio supremo d'ogni cosa è la vita; e ludica in quanto la vita è un gioco: la vita gioca, e, quindi va presa come ca e
un
gioco.
Nella visione di Nietzsche la realtà si presenta come un'esplosione potente di vita, "un mostro di forze senza principio e senza fine", uno sprigionarsi esuberante di bellezza, potenza, odio e amore, gioia e dolore, viltà e coraggio, libertà e rassegnazione, senza nessuna legge, senza nessun controllo. La realtà è la vita in tutte le sue spettacolari, affascinanti o agghiaccianti espressioni, e la vita è una smìsurata "volontà di potenza". Ecco pertanto il valore supremo per Nietzsche: la volontà di
10) Ibid, p.
339. Altri schemi si trovano alle
304-305, 311 (due schemi), 329, 339, 359.
pagine 4-5, 47, 110-111, 129, 207, 254,
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Parte terza
potenza, più
esattamente «il massimo quantum di potenza che l’uomo riesce a incorporare>>flî La filosofia di Nietzsche è quindi un frenetico e incondizionato "sì” alla vita, un ”sì” universale che fa piazza pulita di tutti i ”no", di tutti i divieti, proibizioni, condanne. Per Nietzsche la distinzione tra ”sì” e ”no", tra positivo e negativo, tra ”bene e male" è un delitto mortale contro la Vita. Dire di sì alla Vita è potenza, dire di no alla vita è (Ìecndeizza, è nichilismo. Chi dice di sì alla vita è libero anche se immorale, chi dice di no alla vita è schiavo anche se morale.
«Per gli uomini divenuti liberi, più niente è vietato (...) tutto quanto in passato ci era vietato, come empio, proibito, spregevole, nefasto, tutti
questi fiori crescono oggi lungo il ridente sentiero della veritàmlî «Per ogni tipo d'uomo forte e rimasto natura, fanno tutt'uno amore e odio, gratitudine e vendetta, bontà e collera, affermazione e negazione nella prassi. Si è buoni a patto di saper essere anche cattivi; si è cattivi, perché altrimenti non si saprebbe essere buoni>>.13 «La legge suprema della vita, formulata da Zaratustra per primo, vuole che si sia senza conzpassionc per ogni scarto e rifiuto della vita, che si distrugga ciò che per la vita ascendente non sarebbe che ostacolo, veleno, cospirazione, sotterranea ostilità in una parola: cristiartesiE immorale, è contro natura nel senso più profondo dire ”non m0 uCcidere”. Il divieto biblico ”non uccidere” ‘e un’ingenuità a paragone del mio divieto ai decadenti ”non generate” è qualcosa ancora peggiore Contro lo scarto e il rifiuto della vita c'e un solo dovere, distruggere; essere qui pietosi, volere qui conservare a tutti i costi, sarebbe la forma suprema dellìmmoralità, la vera e propria c0ntrona—
-
tura, Yinimicizia mortale contro la vita stessam“
Nella concezione nietzschiana della realtà il buono, colui che pratica la giustizia e rispetta le leggi della morale, è un parassita: «vive a spese della vita: come uno che liquida la realtà con la menzogna come avversario dei grandi istinti propulsori della vita, come epicureo di una piccola felicità, che rifiuta come inznzorale la grande forma di felicità».15 Il buono è necessariamente una vittima dell’istinto nichilistico il quale dice di no: «la sua affermazione più attenuata è che non essere è meglio di essere, che la volontà del nulla ha più valore della volontà di vivere; quella più rigorosa è che il nulla è la cosa più desiderabile, che questa vita, come opposto del nulla, è assolutamente priva di valorewb
n) una, p. 12. 11’) Ibid, p. 242. 13) lbùl, p. 259. H) lbizi,pp. 376-377. 15) Ibid, p. 373. m) Ibid, p. 318.
Friedrich Nietzsche e la distruzione della metafisica
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dei confini ben precisi: ‘e la vita in la questo mondo, su questa terra, Vita fisica, la Vita del corpo e nel corpo, perché a suo giudizio, non c'è altro mondo al di fuori del mondo materiale, né altra vita umana al di fuori di quella che opera nel nostro corpo. L'uomo è nato per esistere sulla terra e non c'è nessun altro mondo per lui al di fuori di questo. L'anima che dovrebbe essere il soggetto dell'esistenza ultramondana è inesistente; l'uomo è soltanto corpo: «Io sono corpo tutt'intero e nient'altro». Il mondo di Nietzsche si esaurisce nell'immanenza terrestre. Separarvi un mondo vero da uno apparente, come se questo mondo non fosse già il mondo vero è la grossolana menzogna di Platone e del cristianesimo. Il mondo è uno solo: quello che si spalanca davanti ai nostri occhi. Questo è un mondo nel quale, ovviamente, non c'è posto per Dio. «Dio è morto», annuncia Zaratustra all'umanità; in verità Dio non è mai esistito, perché non può esistere. Dio è una proiezione dei bisogni dei deboli, del "gregge"; è stato inventato da un'anima malata e meschina, avvelenata di risentimento contro i La vita di cui
parla Nietzsche ha
sani, i forti, i potenti.
«Dio è la folle opera di
l'impotenza
crearono
tutti gli dei (...). La svofferenza e di là del mondo (...). La stanchezza, salto mortale vorrebbe raggiungere il
un uomo come
tutte le
cose
che d'un sol balzo con un culmine, la povera stanchezza ignorante, che non sa nemmeno volere, -
—
sola creò tutti gli dei e il soprannaturale. Credetelo fratelli miei! Fu il corpo che disperava di se e che con le dita di uno spirito annebbiato tastava annebbiando le ultime pareti. Credetelo miei fratelli! Fu il corpo che disperava della terra, e credeva di udir parlare l'utero dell'Essere. E allora volle cacciar la testa oltre le ultime pareti e non solo la testa per arrivare a quellmaltro mondo". Ma ”quel mondo" è troppo ben celato agli uomini. Quel mondo umano e disumano è un celeste nulla; e l'utero dell'Essere non parla affatto agli uomini (...). Ammalati e morituri furono coloro che spregiarono il corpo e la terra e inventarono il cielo e le gocce di sangue redentrici; ma anche questi veleni dolci e tristi essi li tolsero dal corpo e dalla terram” essa
-
-
sua marcia trionfale insegue un unico traguardo: il pasal super-uomo. «Il supemomo è il senso della terra. La dall'uomo saggio volontà nostra proclami: il superuomo sia il senso della terra>>,18 è l'annuncio di Zaratustra all'umanità. «Io voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: che è il superuomom” precisa più avanti lo stesso Zaratustra. La vita, volontà di potenza, raggiunge nel super-uomo la massima realizzazione di questo valore: essa diviene volontà di potenza esi-
La vita nella
17) FgNIETZSCIIE, Così parlò Zaratusfra, Bocca, Milano 1906, pp. 24-25. 13) Ìbial, p. 6. 1°) 112151., p. 13.
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stenzializzata, nelle tensioni aggressive e plasmanti che si
scatenano nel dell'uomo. ll superuomo è l'uomo che si sa adeguare al passo di danza della vita, che accetta tutto, apprezza tutto, esalta tutto e non oppone mai nessun rifiuto a quello che la vita gli offre: il bene come il male, il bello come il brutto, il dolore come la gioia. Il superuomo è, per Nietzsche, «la formula dell'affermazione suprema, nata dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l'esistenza ha di problematico e ignotomîf‘ Per raggiungere il traguardo del superuomo, l'uomo deve passare attraverso una duplice metamorfosi: la prima lo trasforma da rassegnato cammello (l'uomo buono, obbediente, umile, religioso, moralista) in aggressivo leone (lo spirito libero, autonomo, legislatore di se stesso, padrone assoluto dei propri atti); la seconda metanzorfosi lo tramuta da furioso leone in innocente fanciullo, il quale ammira e ama la realtà in tutte le sue manifestazioni, e pronuncia un «gioiosissimo, straripante sì alla vita».21 La vita, che ha nel superuomo il suo supremo traguardo, ha anche, allo stesso tempo, leggi ferree, inesorabili,che Nietzsche esprime con la formula dell'eterno ritorno: cuore
«Tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi già fummo mille volte, e tutte le cose con noi. Esiste un grande anno del divenire, il quale, simile a una clessidra, deve capovolgersi sempre, per poter scorrere ed esaurirsi. Sicché tutti questi anni sono eguali tra loro, nelle cose più grandi e nelle più piccole (...). Tutto dilegua, tutto ritorna; eternamente gira la ruota dell'esistenza. Tutto muore, tutto risorge; eternamente scorre l'anno dell'esistenza. Tutto si spezza, tutto si ricongiunge; eternamente s'edifica la stessa casa dell'esistenza. Tutto si separa e tutto si rinsalda; sempre fedele a se stesso è l'anello dell'esistenza. A ogni attimo l'esistenza ricomincìa».23
L'oceano della Vita non può partorire che una certa serie di esistenze, queste si rinnovano eternamente, secondo un circolo chiuso ben preciso. Alla legge dell'eterno ritorno è, ovviamente, legato anche l'uomo, sia l'uomo piccolo, l'uomo buono, l'uomo vile, come l'uomo grande, forte, coraggioso, il superuomo. «L'uomo eternamente ritorna! L'uomo più vile ritorna eternamente>>.23 Ma anche il superuomo: entrambi fanno parte del gioco della volontà di potenza della vita. «Quelle mani d'acciaio della necessità, che scuotono il bossolo dei casi, giuocano per un ma
20) 10., Ecce homo, Adelphi,Milano 1969, p. 73. 3") Cf. Così parlò Zaratuslm, ”Le tre metamorfosi". 22) Ibid, pp. 205-208. 23) Ibìat, p. 207.
Friedrirh Nietzsche e la distruzione della
metafisica
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tempo infinito il loro giuoco» e l'uomo rientra «fra le più inaspettate e
stimolanti mosse che giuoca il grande fanciullo eraclite0>>24 Raffigurazione ideale e modello supremo del sì alla vita così come essa si snoda prepotentemente lungo l'anello dell'eterno ritorno è Dioniso: «Qui io colloco il Dioniso dei greci: la religiosa affermazione della vita, della vita intera, non negata né dimezzate». Dioniso è a un tempo simbolo della esuberanza della Vita e della sua gioiosa accettazione. Dioniso simboleggia il divenire delle cose che, nella sua necessità, lega insieme dolore e gioia, viltà e coraggio, amore e vendetta, ma simboleggia pure la condizione del superuomo che accetta con esultanza tutte le espressioni contraddittorie dell'esistenza. Negli schemi dell'opera TTLIHSULIÎHÎGZÌOTÌEdei valori Nietzsche contrappone sistematicamente la figura di Dioniso a quella di Cristo; questa viene intesa come massima espressione del nichilismo, del no alla vita, dello spirito di rassegnazione e di abnegazione. Si può ben dire che Dioniso ‘e il Dio di Nietzsche. In uno degli ultimissimi frammenti postumi, dopo avere colpito col suo pesantissimo "martello" il Dio di Gesù,25 Nietzsche annota che, anche dopo la «morte del Dio dei Cristiani», «nuovi dei sono ancora possibili» e che lui stesso ha avvertito a volte ravvivarsi nel suo cuore «l'istinto religioso, cioè l'istinto plasmatore di dei». Qualora dovesse tentare di plasmare un Dio lo farebbe nella forma di Dioniso, dotandolo di "piedi leggeri", capaci di eseguire le vorticose danze del divenirefifi Un'altra figura che Nietzsche ama contrapporre a Cristo è Zaratustra, il predicatore del "nuovo vangelo". «Uantitesi tra Gesù e Zaratustra costituisce pertanto il centro del messaggio lirico e polemico di Nietzsche»)? Zaratustra è Yantagonista di Gesù, del quale viene a contrastare o,
meglio, a liquidare l'opera moribonda, come mostrano gli episodi
dellînvestitura: A riposo, ll saluto, Del! ìzomo superiore. Zaratustra ‘e colui che capovolge radicalmente tutti gli insegnamenti di Cristo, che rovescia la sua scala dei valori, che dice di no al cristianesimo in misura inaudita, che «mette in opera il no di fronte a tutto ciò a cui finora e stato detto sì», che impugna il martello per demolire la prigione in cui l'uomo è stato rinchiuso dal cristianesimo?“ In una nota pagina di Ecce Homo, Nietzsche canta così le Virtù del suo eroe, Zaratustra: su cui egli sale e scende; più di qualunque uomo ha voluto oltre, ha potuto oltre. Contraddice oltre, egli guardato con ogni sua parola, lui, lo spirito più affermatore di tutti; in lui tutti
«Enorme è la scala
ha
mJ— Id U1
h) G\ lx) \‘l h) m
xgzì/r-
gli opposti sono legati in una nuova unità. Le forze supreme e infime
F. NIETZSCHE, Genealogia della morale ll, 16. Cf. Frammenti postumi 1888-1889, cit, pp. 314-315. Cf. fbid., pp. 315-316. X. TILLIETTE,0p. cit, p. 246. Cf. F. NIETZSCHE, Ecce Homo, Milano 1969, pp. 116-117.
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Parte terza
della natura umana, quanto c'è di più dolce, di più leggero e tremendo sgorga da una sola sorgente con immortale sicurezza. Fino ad allora non si sapeva che cos'è l'altezza, che cos'è la profondità; ancor meno, che cos'è la verità (m). Prima di Zaratustra non c’è saggezza, non c'è ricerca sull'anima, non c'è arte del discorso (...). Tutto ciò che finora fu chiamato grande è infinitamente lontano, al di sotto di lui».29 Zaratustra
possiede la virtù di Dioniso. La sua anima si immerge nel
divenire: «l'anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto, la più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro Corso e ricorso, flusso e riflusso».30 Zaratustra, come Dioniso, ha come proprietà caratteristiche la danza e il riso. E leggero, atletico, elastico. «L'elemento alcionico, i piedi leggeri, Yonnipresenza della cattiveria e della tracotan— za è tipico di Zaratustra>>fi1 Egli è nomade che percorre i deserti, con la lunga falcata silenziosa del cacciatore, abituato a una vita rude e frugale. «Sembra avvolto nella sua natura lustrale, bagnato di fuoco come la salamandra. Ride di un riso che mostra tutta la gamma del riso: leggero,
beffardo, sottile, irridente, incoraggiante, parlato, sonoro, trasformarsi in
un
sogghigno>>fi2
ma
che
può
Danzatore, ridente, musico, Zaratustra è inaccessibile,distante. Nietzsche l'ha incastonato in unbrgogliosa solitudine, nella «solitudine azzurrina in cui vive l'opera» (secondo il panegirico di Ecce Homo) e che traduce la stessa solitudine del poeta. «Zaratustra costituisce il prestigiogo doppio di Nietzsche e il poema è un ritratto allo specchio (in enigma)».33 Infatti il nuovo vangelo di Zaratustra non è altro che il vangelo di Nietzsche: Zaratustra è il suo portavoce. Il nuovo dio danzante, che Zaratustra annuncia e rappresenta, è il nuovo dio di Nietzsche. D'altronde, nella sua delirante pazzia, Nietzsche era convinto di essere la nuova incarnazionedel divino, il vero redentore dell'uomo, l'Anticristo. Nel 1888 in una lettera all’amico Carl Fuchs, Nietzsche dichiarava: «... dopo Fabdicazione del vecchio Dio, sono i0 ormai a governare il mondo». All’amico Overbeck, che si reca a Basilea per riportarlo a casa, Nietzsche calmo e apparentemente lucido, parla a bassa voce del compito molto pesante che incombe su di lui, quale sostituto di Dio.
29) lbid, pp. 110-111. 3D) una, p. 111. 31) lbid. 32) X. TlLLlETTE, 0p. cit, p. 270. 33) 11nd, p. 271.
Friedrich Nietzsche e la distruzione della metafisica
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Conclusione La dottrina di Nietzsche, specie nella figurazione del ”superuomo”, è stata oggetto di una grave mistificazione, favorita dalla manipolazione
compiuta su alcuni scritti fondamentali dalla sorella Elisabetta, durante la fase acuta della malattia del filosofo. Tale manipolazione, operata a scopo di lucro, determinò il successo del pensiero nietzschiano tra le
due guerre, anche a motivo della utilizzazione arbitraria che ne fecero Hitler e Mussolini a giustificazione dei loro sistemi politici. Questo fatto ne comporto il successivo ostracismo e solo recentemente il pensiero di Nietzsche ha risvegliato l'interesse degli studiosi, sino a indurli a una rivalutazione e a una revisione filologica dei testi originari. Oggi, nelle sue dottrine etiche e religiose, non si vede più un attacco globale alla religione e alla morale in se stesse, ma alle loro deviazioni. Quella di Nietzsche sarebbe una demitizzazione piuttosto che una demolizione. Egli, infatti, non parla di eliminazione di ogni morale, ma professa una transvalutazione della morale tradizionale in vista di una morale eroica e liberatoria, il cui limite resta quello di essere totalmente affidata alle risorse della natura umana e di essere aristocraticamente limitata a pochi uomini eletti. In fondo in Nietzsche, che malgrado suo, resta sempre per tradizioneculturale un "criptoteologo”, il senso morale più profondo e quello di un suo aforisma: «ciò che si fa per amore è al di là del bene e del male». Però, anche interpretando Nietzsche secondo i canoni della nuova esegesi non si può nascondere il proprio stupore davanti alle sue dottrine. Come infatti giustificare la "transvalutazione" di qualsiasi codice morale al fine di rendere autentica la propria decisione? Così facendo, non si annienta la moralità stessa? Ma più che come critico della religione, della morale e della metafisica, e come teorico del superuomo, Nietzsche fu grande e geniale come interprete della situazione culturale del proprio tempo: per aver saputo intravvedere e anticipare Yuragano che stava per abbattersi sulla modernità e la sua cultura; per aver compreso che le energie morali e spirituali dell'Occidente si stavano esaurendo, e che i pilastri assiologici e metafisici su cui si reggeva la sua cultura si stavano sgretolando, e che era ormai prossimo il passaggio dall’h0rrz0 sapiens all'home ludens. Mentre Kierkegaard aveva lavorato per l’inattuale, la fede in Cristo, Nietzsche ha lavorato per l'attuale, la fede in Dioniso, una fede molto più conforme alle esigenze del neopaganesimo che si stava approssimando. La renaissance dell'autore di Così parlò Zaratustra verificatasi nella seconda metà del Novecento, è stata accolta con favore anche da qualche studioso cattolico. Sono ora condivise le sue critiche a un cristianesimo anchilosato e mummificato, a una religione troppo manichea nei
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Confronti della corporeità e della sessualità, a un Dio oppressore e ”tap— pabuchi”, a una morale alienante che fa violenza alle coscienze. Indubbiamente anche lo studioso cattolico può fare qualche passo in compagnia di Nietzsche nella critica di certe immagini troppo antropomorfiche di Dio, di certe deviazioni superstiziose della religione, di certe concezioni troppo autoritariedella morale, però non può spingersi trop-
senza rischiare il suicidio. Infatti del Dio della rivelazione biblica e del cristianesimo, in Nietzsche non rimane assolutamente nulla; nulla delle verità annunciate da Cristo. Il cristianesimo è il mortale nemico di Nietzsche. Egli si oppone con lo stesso accanimento e durezza sia al Dio della giustizia di Mosè, sia al Dio dell'amore di Gesù Cristo. Trovo quindi perfettamente legittima la preoccupazione di X. Tilliette dinanzi a certe riabilitazionidi Nietzsche e a certi facili concordismi. Scrive Tilliette:
po avanti
«Un
pericolo minaccia oggi l'opera di
Nietzsche soprattutto sul
ver-
sante cattolico, per l'orribiletentativo d’intimidazione nei confronti del sereno possesso della fede; il pericolo, cioè, che sia surrettiziamente arruolato e annesso. Nietzsche diventa così, suo malgrado, lo strumento di una vera sovversione, che consiste nel fare di lui l'alleato, il purificatore, il rigeneratore segreto di un cristianesimo ultrapudico, che
ardirà più dichiarare il proprio nome e si accontenterà del minimo istituzionale. Questo ipercristianesimo nietzschiano costituisce uno dei maggiori allettamenti, tesi alla pusillanimità clericale. Questo non è fare onore a Nietzsche ma cadere nella sua trappola. Vi sono momenti nei quali bisogna sapere pronunciare il no che salva, deporre le illusioni anche a costo di passare per grossolani e complessati>>fi4 non
34) una, p. 245.
Priedrich Nietzsche e la distruzione della metafisica
499
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Werke, Grofioktav-Ausgabe, 19 voll. più
di N. Millcr, A. Pieper, I. Salaquarda. Sàmtliche Bricfe. Kritisclte Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1986. C. P. JANZ, F. Nietzsche. Der nzusikaliscize Nachlass. Schweizerische Musikforschende Gesellschaft, Bàrenreiter, Basel-Kassel 1976.
a Cura
TRADUZIONI Tutte le opere di Nietzsche sono state tradotte in italiano; le traduziopiù recenti e attendibilisono quelle apparse contemporaneamente ai Werkc curati da G. Colli e M. Montinari, Opere, Adelphi, Milano 1964 ss., ed Epistolario, ivi 1976 ss. (contemporanea anche la trad. francese presso Gallimard). L'edizione prosegue a cura di F. Gerratana, M. Carpìtella e G. Campioni. ni
STUDI AA. VV., Nietzsche. Contemporaneo 0 inattuale ?, Brescia 1980. E. BISER, ”Gott is tot". Nietzsches Dcstruktìan dcs christliches Bewusstsein, Miinchen 1962.
500
Parte terza
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LA POLVERIZZAZIONEDELLA FILOSOFIA DOPO NIETZSCHE
Dopo Kant fare metafisica era già
diventata
impresa
difficile. Dopo
Nietzsche questa impresa diviene praticamente impossibile,quanto meno fino a quando l'hanno ludens mantiene il sopravvento sull’h0m0 sapiens. Kant aveva conservato ancora in vita la realtà trascendente del nou-
la considerava raggiungibilesoltanto mediante la ragion pratica, postulato della morale. Nietzsche cancella la morale e demoliallo stesso sce tempo anche la metafisica. Con Nietzsche la parabola della metafisica moderna raggiunge la sua fatale conclusione. C'è una pagina del Crepuscolo degli idoli in cui Nietzsche scandisce lucidamente le tappe di questa lunga parabola, che ha fatto sì che il mondo Vero alla fine diventasse favola:
meno, ma
come
«1. Il mondo vero, raggiungibiledai saggi, dai pii, dai virtuosi che vive in essi, è loro stessi. 2. Il mondo vero, irraggiungibileper ora, ma promesso ai saggi, ai pii, ai virtuosi (l'idea progredisce, si fa più fine, più sfuggente e insidiosa si femminizza, diventa cristiana). 3 ll mondo vero non raggiungibilené dimostrabile, non più oggetto di promessa, ma già, in quanto pensato, presente come consolazione, obbligazione, imperativo (In fondo sempre il vecchio sole, ma attra-
-
-
—
la nebbia della scepsi; l'idea divenuta sublime, pallida, nordica, kònigsberghese). 4. Il mondo vero: irraggiungibile?Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto ancora sconosciuto. E di conseguenza neanche capace di consolare, redimere, obbligare: a che potrebbe obbligarci qualche cosa di sconosciuto? E di conseguenza neanche capace di consolare, redimere, obbligare: a che potrebbe obbligarci qualche cosa di sconosciuto? (Albeggiare. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del posìtivismo). 5. Il mondo vero: un'idea che non serve più a nulla, neanche più capace di obbligare a qualcosa; un'idea divenuta inutile e superflua, quindi un'idea confutaverso
-
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ta: aboliamola! (Giorno fatto; ora di
colazione; ritorno del buon senso e della serenità; Platone rosso di vergogna; grande strepitare di tutti gli spiriti liberi). 6. Abbiamoabolito il mondo vero. Che mondo resta? Forse il mondo apparente? No: con il mondo vero abbiamo abolito anche il mondo apparente! (Mezzogiorno; ora delle ombre corte; fine del lungo errore; punto culminante dell'umanità; incipit Zaratustra)». -
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Parte terza
L'assalto decisivo alla metafisica viene sferrato da Nietzsche con la dura critica al mondo dell'essere e al mondo della verità: il mondo vero non è quello dell'essere bensì quello del divenire; e il mondo del divenire non può più essere il mondo trascendente ma coincide col mondo immanente, il mondo dell'uomo e della sua storia. La fine della metafisica segna la fine anche del grande sogno di costruire un sapere assoluto, unitario, onniconclusivo e onniesplicativo. La fine della metafisica dà, quindi, il via alla polverizzazione del sapere: nascono nuove scienze e ogni scienza diviene perfettamente autonoma. Intorno alla metafisica spuntano ora vari cespugli che cercano di prendere il suo posto. I cespugli più importanti e più ambiziosi sono l'assiologia (filosofia dei valori), la fenomenologia, l'analisi esistenziale, l'analisi linguistica, lo strutturalismo, la psicanalisi, la nuova ermeneutica. Non mancano però cespugli che richiamano in vita il pensiero metafisico, sia nelle forme classiche di Aristotele e di S. Tommaso sia nelle nuove forme del personalismo. Si tratta comunque sempre di cespugli e non di alberi possenti e rigogliosi, ma sufficienti per mantenere in vita quella ricerca di un sapere assoluto Che, come scriveva Kant, fa parte dell'essenza stessa dello spirito umano. Delle filosofie della seconda modernità noi parleremo soltanto nella misura in cui conservano qualche interesse per la metafisica, e per quanto possono diventare sue alleate. sua
Le filosofie dei valori Cacciata dalla scena filosofica la primadonna la metafisica il suo ruolo è stato assunto da varie attrici di secondo piano, che hanno cercato di colmare come hanno potuto il grande vuoto che essa aveva lasciato. La prima a entrare in scena è stata Passiologia, Vale a dire la filosofia dei valori. Il problema dei valori aveva accompagnato tutta la storia della filosofia, da Platone a Plotino, da Agostino a Tommaso, da Hume a Kant, ma fino a Nietzsche non era mai stato studiato come problema distinto dal bene, con il quale veniva generalmente confuso. All'inizio del Novecento la filosofia dei valori si afferma come una corrente filosofica di primo piano, anzitutto in Germania, per diffondersi poi anche in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e altrove. Tre sono le ragioni principali che hanno favorito la nascita di questa nuova filosofia: 1) Anzitutto la necessità di dare una risposta a Nietzsche, il quale con la sua transvalutazione dei valori aveva cercato di radere al suolo tutti i valori trascendenti e di imporre una nuova tavola dei valori, che comprendeva soltanto quelli immanenti. 2) In secondo luogo, l'urgenza di costruire intorno ai valori assoluti una diga che li mettesse al —
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La
polverizzazionedella filosofiadopo Nietzsche
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riparo dall'uragano che stava ormai per investire e travolgere la cultura moderna. 3) In terzo luogo, la prospettiva di elaborare intorno ai valori una nuova metafisica che prendesse il posto della metafisica dell'essere che, dopo Kant e Nietzsche, sembrava ormai impraticabile. Rudolf Hermann Lotze Per consenso quasi universale a Lotze (1817-1881) appartiene la paternità della filosofia dei valori. Chiamato a succedere a Herbart nel 1844 alla università di Tubinga, Lotze, che era un appassionato cultore delle scienze, specialmente della fisiologia e della medicina, per contrastare lo scientismo positivista ormai imperante avvertiva la necessità di porre dei limiti alla scienza. Questo è l'obiettivo della sua opera principale, Microcosnro, dove egli distingue tre regni di ricerca: regno dei fatti, regno delle leggi universali, regno dei valori. I primi due riguardano soltanto i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono studiati dalla ragione col metodo analitico e possono essere considerati in prospettiva meccanicistica; il terzo è appreso dal sentimento e implica necessariamente una prospettiva spiritualistica. Lotze ritiene che l'assegnazione di un ruolo importante al sentimento tra le facoltà umane non sia affatto arbitraria ma pienamente giustificata: «Se è una originaria dello spirito quella di non solamente sottostare a delle modificazioni, ma ancora di percepirle per via di rappresentazione, così del pari è un carattere primitivo del medesimo di non solamente rappresentarle, ma anche sperimentare per via del piacere e del dispiacere il valore che quelle hanno per lui»! Si deve infatti abbandonare il pregiudizio che fa dei sentimenti puri fatti accessori: essi sono presenti in ogni nostra attività psichica? E il sentimento è alla base «di quella ragione che vuole vedere la totalità del reale regolata su tali forme che sole per suo avviso assicurano al reale stesso un valore».3 Lotze concepisce i valori alla stregua delle monadi leibniziane, come centri spirituali di energia, analoghi a quella che è la sola realtà immediatamente intuibile per noi, il nostro io, che rimane appunto uno pur nel variare dei suoi atti e stati. Per Lotze i valori assoluti hanno carattere trascendente e hanno come ultimo fondamento Dio stesso. La sua vasta e meticolosa ricerca si conclude con l'esplicita affermazione dell’esistenza di Dio. La sua realtà argomenta Lotze non può essere messa in dubbio «perché è una certez-
proprietà
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1) R. H. LOTZE, Microcosmo, tr. ìt., i, Torino 191 l, p. 252. 2) Cf. ibid, p. 255. s) Ibid, p. 256.
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Parte terza
grande, il più bello, il più ricco di valopuò puro pensiero, ma deve essere realtà, perché sarebbe in sé insopportabile credere che l’Ideale sia una rappresentazione che il pensiero si foggia nel suo lavoro, ma che non ha esistenza, forza e vali-
za
immediata che ciò che è il più
re non
essere
dità nella realtà».4 A questo argomento di chiara marca anselmiana Lotze rifiuta di dare il nome di argomento ontologico. Questo, a suo avviso, è un ”raziocinio sbagliato”, per il quale, dopo Kant, ogni difesa è inutile. Non si tratta infatti di dedurre dalla perfezione dell'essere divino la sua esistenza come una necessità logica, cosa impossibile, bensì si sente che Dio non può non esistere e «ogni apparenza di deduzione in forma sillogistica serve soltanto a rendere più evidente l'immediatezza di questa certezza».5 Si direbbe che questa ”certezza sentita" surroghi e quasi superi la conoscenza teoretica: ma non è Così. Molti scritti lotzìani esprimono vivacemente il dramma che è nell'intimo: la natura non può considerarsi che come una condizione preliminare per la manifestazione del valore eterno del bene, ma questa "persuasione" indica soltanto uno scopo, che può dirigere il nostro pensiero, non già una "cognizione", una ”dottrina dimostrabile”, che "meriti il nome di scienza”. Un abisso insuperabile per la nostra ragione divide "l'ordine dei valori dall'ordine delle forme" per cui sebbene noi siamo "coni/inti” che tra i primi e le seconde ”esiste una indivisa unità”, ”crediamo con piena coscienza che tale unità non possa essere conosciuta”. Così i massimi problemi restano per noi insolubili:la presenza del male nella realtà è uno di questi, per cui dobbiamo dire che la nostra umana sapienza tocca i suoi confini e si arresta.“ Secondo Hessen Lotze è il primo che ha visto chiaramente ed elaborato la conoscenza dei valori come un conoscere sui generis, intuitivo ed emozionale, diverso dalla rappresentazione e dal pensiero, ed essenzialmente Iegatti al sentimento del piacere e del dolore? Ma il merito maggiore di Lotze è quello di avere assicurato alla Categoria del valore una struttura
globale (analoga a quella del vero e del bene), con una precisa
gerarchia che si conclude al vertice con un Massimo, un Valore assoluto, che è al di fuori e al di sopra della gerarchia stessa. In tal modo Lotze è
riuscito a fare col valore ciò che prima di lui avevano fatto Platone e Plotino col Bello e col Bene, S. Agostino con la verità. Lotze ha elevato il valore a una dimensione primaria della realtà e ne ha fatto uno dei grandi poli di attrazione dello spirito umano.
a
U1 G\ \l
xjgu/
Ibial, III (Lipsia 1858), p. 557. lbial, pp. 560-561. Cf. ibid., p. 601. Cf. ]. HESSEN, Wcrtplzilnsnphic,Paderborn 1937, p. 116.
La
polimerizzazionedella filosofia dopo Nietzsche
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Intorno ai valori Lotze avrebbe potuto Costruire un solido edificio metafisico, ma non l'ha fatto. Egli si è limitato a elaborare una ”epistemologia" dei valori, assegnando la percezione dei Valori non alla ragione bensì al sentimento, così come Kant aveva fatto per il piacere del bello. Secondo Lotze il sentimento è superiore alla ragione, perché noi siamo «qualcosa di più di un essere che produce rappresentazioni». Il sentimento, immanente alla realtà umana, tende a penetrare i suoi meandri più riposti, e a svilupparla verso il meglio, poiché la scienza non garantisce un effettivo progresso dell'umanità. Lotze era infatti un critico della società tecnico-industriale, di cui riconosceva i pregi, ma di cui poneva in luce anche i lati negativi, in particolare il pericolo di trasformare il lavoro in una forma di schiavitù dell'uomo, divenuto parte delle macchineche utilizza.“
Wilhelm Windelband Tra i primi ad avvertire gli effetti deila scossa inferta da Nietzsche alla visuale assiologica della cultura occidentale fu Wilhelm Windelband
(1848-1915), professore a Zurigo, poi a Strasburgo e infine a Heidelberg,
universalmente noto un
come
storico della
filosofia, ma che ha dato anche
apporto significativo alla filosofia dei valori. In un'opera che ò stata
tradotta anche in italiano, Preludi, apparsa nel 1884, Windelband scrive: <
3) 9)
Cf. C. ROSSO, Figure e dottrine dellafilosofia dei valori, Napoli 1973, pp. 11-27. W. WINDELBAND, Preludì, tr. it., Milano 1947, p. 19. Il Corsivo è nostro.
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Parte terza
condo le scienze storiche. «Le
une sono
scienze della
legge, le altre del-
l'avvenimento; quelle insegnano ciò che è sempre, queste ciò che fu una
pensiero scientifico ‘e se posso comporre una espressione nel primo caso nmnotetico, nel secondo idiograficomlv La storia è caratterizzata e resa tale dal suo metodo idiografico. Ignorare il suo vero metodo, introdurvi il metodo opposto, ricercare ”leggi” al posto di ”figure”, tutto ciò condurrebbe alla esposizione «di poche, banali generalità che si salverebbero solo con la accurata distinzione delle loro numerose eccezioni».11 A questa stessa conclusione giunge il Windelband partendo dai valori che, a suo giudizio, sono i principi guida a cui deve fare attenzione lo storico. Le valutazioni si riferiscono, infatti, sempre a cose singole e univolta. Il nuova
—
-
che:
«Il nostro sentimento rapidamente si ottunde quando il suo oggetto si ripete più volte o non è altro che un caso tra mille (...). Quanto l'uomo nel valutare un oggetto tenga presente e ami la sua unicità si rivela soprattutto nelle nostre relazioni con le persone. Non è pensiero insopportabile che un essere caro, adorato esista anche una sola volta ancora
assolutamenteidentico?».12
Contro la teoria greca dellmeterno ritorno”, Windelband afferma con vigore il principio cristiano, secondo cui «ha valore solo ciò che è unico>>13 e irripetibile,vale a dire la persona. Ma chi è in grado di stabilire quali sono i valori per giudicare le cose? A questo punto Windelband introduce il concetto di ”coscienza normale”. Questa è in grado di pronunciare giudizi aventi validità universale. La coscienza normale è universalmente valida non perché sia effettivamente riconosciuta nel suo diritto da ogni uomo, ma perché dovrebbe esserlo, «ideale misura del valore di ogni realtà empiricamM Questa coscienza normale è dunque un sistema di norme che, come valgono oggettivamente, così devono valere anche soggettivamente, pur realizzandosi soltanto parzialmente nella realtà empirica della vita spirituale dell'uomo. E poiché l'attività della filosofia non può consistere in altro che nel far emergere questa coscienza normale dalla coscienza empirica, la filosofia risulta la scienza della coscienza normalefl-‘r Successivamente, passando a trattare del principio morale in particolare, Windelband
10) 1bid., p. 163. 11) Ibiaî, p. 170. 12) Ibid. 13) Ibid.’ p. l7l. l‘) Ibid, p. 65. 15) Cf. ibici,p. 66.
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enuncia chiaramente un'etica della cultura che avrà vasta risonanza nel pensiero successivo. Il valore morale di una società sta tutto nella sua cultura: la società singola deve elevarsi a ciò che in essa vale universalmente, alla cultura. Di conseguenza il dovere dell'individuo è di operare
al servizio della società, affinché questa produca, nel comune lavoro, la sua cultura. Il principio concreto dell'etica suona dunque così: <
T5) 15111., p. 197. 17) lbid, p. 31. '15) CE. C. Rosso, 0p. citi, p. 66.
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Parte terza
Heinrich Rickert Allievo di Windelband, Heinrich Rickert (1863-1936) succedette al maestro sulla cattedra di Heidelberg e alla direzione della Scuola di Baden, dove diede grande impulso alla "filosofia dei Valori”, tanto da farne la nota distintiva di questa Scuola. Secondo Rickert la realtà si tripartisce in "regno dei valori”, i quali valgono (gelten) ma non esistono, ”mondo della realtà” che e oggetto della scienza, e "regno del senso” (Sinn). ll soggetto appartiene al regno del ”senso" o "significato", e pertanto costituisce il ponte tra i due regni, cioè quello dei valori e quello delle realtà. Nell'atto concreto della valutazione (Sinndebtturzg) si compie il congiungimento dei due regni. La Sinmîeutung (valutazione)è al di là dell'essere perché e rivolta al valore, ma tuttavia non appartiene al regno dei valori, poiché non è un valore. Il campo in cui si svolge questa attività è chiamato da Rickert ”profisica”, poiché pur non appartenendo al regno dei valori, supera quello della mera realtà. Quanto alla natura dei valori, Rickert spiega che essi non sono realtà, né fisica né psichica. La loro essenza consiste nella loro validità (Geltung) e non nella loro effettualità (Tatszîclzliclzkeit).Tuttavia i valori sono legati alla realtà: inerendo in un soggetto essi lo rendono un bene (Gut) e, riferendosi al|’atteggiamento del soggetto, rendono tale atteggiamento una valutazione. Perciò, quando ci si pone di fronte ai beni e alle valutazioni, ci si chiede se quelli sono veramente tali, se Cioè si legano effettivamente a un Valore, e se queste avvengono secondo verità e giustizia. Ma la storia non abbraccia nella sua competenza il problema della validità dei beni e delle Valutazioni. Questo compito spetta alla filosofia. E, tuttavia, a giudizio di Rickert, la filosofia può elaborare il sistema dei UflfDff soltanto estraendolo dalla concreta vita storica in un lento processo. E questi valori posseggono una validità che nessuno si sentirebbe di mettere in discussione. A esprimere questo concetto Rickert fa appello alle parole di Riehl: «Senza avere un Ideale sopra di se’, l'uomo, nel senso spirituale della parola, non può camminare eretto. I valori di cui questo Ideale con— siste, vengono scoperti e, a poco a poco, come le stelle nel cielo, col progresso della cultura, entrano nel campo visivo dell'uomo. Non sono vecchi valori, non sono nuovi Valori, sono i val0ri».19 Tuttavia Rickert esclude come fanno tutti i kantiani e i neokantiani che dei valori assoluti si possa fornire una giustificazione teoretica. Secondo Rickert la pretesa di giustificare o dimostrare razionalmente i valori assoluti (afeoretici) è intellettualismo o razionalismoin senso deteriore. suo
—
19)
A.
RIEHL, Friedrich Nietzsche,
p. 170.
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in Frommmis Klassikcr der
Philosophie, Bd,
6
(1897),
La
polverizzazionedella filosofia dopo Nietzsche
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«Si è veramente superato il razionalismo quando si è capaci di comvalori ateoretici, nonostante l'impossibilità di fondarli teoreticamente (...). Bisogna distinguere comprensione teoretica dei valori ateoreticì da valutazione ateoretica (una); bisogna proprio capire il valore ateoretico nella sua irriducibilitàa essere fondato teoreticamentemî"
prendere teoreticamente i
maggiore apporto di Rickert allassiologia riguarda il problema gnoseologico, che tuttavia egli risolve soltanto a metà, spiegando come ha luogo la valutazione. Infatti ancor prima della valutazione, che è indubbiamente quelYattività con cui il soggetto applica i valori alla realtà (ai fatti), c'è l'apprendimento dei valori. Rickert dice che i valori non possono essere fondati o giustificati razionalmente. E, per un kantiano, sta bene così. Ma come vengono riconosciuti 0 percepiti: col sentimento, come insegna Lotze, oppure con la reminiscenza (Platone), o con l'illuminazione (Agostino), o con l'intuizione? Per questo aspetto del probleIl
Rickert non offre nessuna soluzione. Altro limite evidente della filosofia del Rickert (ma è un limite comune a tutta Vassiologia neokantiana) è quello di non assicurare un adeguato statuto ontologico ai valori (indipendentemente dal problema della fondazione). Di che realtà sono dotati i valori: sono aspirazioni, idee o realtà sussistenti? Rickert pare propenso ad accogliere la posizione ultrarealistica (di Platone), ma non lo confessa mai apertamente. ma
Max Scheler Max Scheler (1874-1928) è senza dubbio il massimo assiologo del secolo XX. Ma mentre gli assiologi che l'avevano preceduto muovevano tutti dalle prospettive del criticismo kantiano e della conseguente dicotomia tra ragione speculativa e ragione pratica, e così avevano ridotto i valori assoluti a postulati della ragione pratica e a creature del sentimento, Scheler si libera risolutamente dalla morsa del criticismo e punta diritto alla realtà (zu der Sache selbst) secondo il motto della fenomenologia. Scheler apprese da Husserl il metodo fenomenologico e ne fece largo uso nella elaborazione delia filosofiadei valori. La sua opera principale si intitola Der Formalisnius in der E thik zmd dei materiale Wcrtetlzik (Il formalismo in etica e l'etica materiale dei Valori), «l'opera di gran lunga più significativa apparsa da molto tempo» (Hildebrand).In effetti l'analisi fenomenologica della esperienza morale effettuata da Scheler, assumendo la prospettiva assiologica è stata tra le più fertili del pensiero contemporaneo. Mediante l'elaborazione di un'e-
30)
H. RKJKEKJ‘, Allgemeine Grimdlegung dar Philosophie, Tubinga 1921, p. 152.
510
Parte terza
fica dei valori, in cui si rivendica a questo entità una dimensione ontologica che sfugge a tutte le minacce dello psicologismo, Scheler sottrae la morale a quelle visuali soggettivistiche o positivistiche che erano diventate di moda alla fine dell'Ottocento: nominalismo, psicologismo, pragmatismo, formalismo kantiano, idealismo neokantiano, positivismo ecc. Scheler definisce i valori come «oggetti autenticamente oggettivi, di-
sposti in ordine eterno e gerarchico». La sua assiologìa si caratterizza mediante quattro note: e realistica, gerarchica, personalistica e teocentrica. Anzitutto è realistica in quanto afferma l'assoluta oggettività dei valori: questi godono di una piena autonomia rispetto all'uomo, al quale spetta soltanto il dovere di riconoscerli. In secondo luogo è gerarchica in quanto, per definizione, i valori
disposti in ordine eterno e gerarchico». Per fissare la gerarchia dei suggerisce i criteri seguenti: durata, indivisibilità, fondamentalità, soddisfazione e grado di relatività. l valori sono tanto più alti quanto più durano e quanto più sono indivisibili,cioè mentre la partecipazione di più individui a beni di carattere materiale (p. es. una torta) è possibilesoltanto mediante la suddivisione di tali beni, vi sono opere di cultura e di arte per le quali la fruizione di più individui non richiede tale divisione. Ancora, i valori sono tanto più alti quanto più profonda e la soddisfazione da essi prodotta. Inoltre il valore che fonda è ovviamente più alto rispetto al valore fondato. Infine, ci sono valori relativi a «sono
zialori Scheler
determinate sfere, come, per es. i valori vitali; e ci sono valori assoluti, cioè indipendenti da una determinata sfera, come per es. i valori morali. Grazie a questi criteri Scheler fissa una gerarchia di valori che comprende quattro livelli: valori sensibili(gradevole-sgradevole);valori vitali (salute-malattia); Valori spirituali (vero-falso, buono-Cattivo, giustoingiusto ecc); valori religiosi (sacro-profano,beatitudine-infelicitàecc). La terza caratteristica delfassiologia scheleriana è di essere personalistica. Nella prefazione della seconda edizione di Der Formalisnuts leggiamo: «il principio fondamentale secondo cui tutti i valori debbono essere subordinati ai valori di persona (...) è così importante per l'autore che egli, nel titolo del libro, ha anche qualificato il suo saggio come un ”nuovo tentativo di personalismo"». Il carattere personalistico dell'assiologia scheleriana emerge anche dalla teoria dei modelli personali. Secondo Scheler ai valori danno sostanza, concretezza, si potrebbe dire corporeità, i modelli personali. Così per apprezzare e praticare il Valore della giustizia occorre guardare al Giusto, per il valore della fortezza all'Er0e, per il valore della santità al Santo. La quarta caratteristica è di essere teocerztrica. Per Scheler, nella scala dei valori, Dio occupa il primo posto sia come persona sia come valore e fa da fondamento e da sostegno di ogni altra persona come pure di ogni altro valore. «Tutti i valori possibili scrive Scheler sono fondati sul valo-
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La polverizzazionedella filosofiadopo Nietzsche
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Spirito infinito e sul ”mondo dei valori" che gli sta di fronte. Gli comprendono i valori, in tanto comprendono i Valori assolutamente oggettivi in quanto vengono compiuti "in" Lui, e i valori sono vare
di
uno
atti che
quanto compaiono in questo regno». Dal punto fenomenologico Dio fonda tutti i valori in quanto lui solo può
lori assoluti soltanto in
di vista
garantire loro quella assoluta oggettività che non può essere assicurata mediante una misura valutativa semplicemente umana: soltanto il valore del Sacro fa sì che Yassiologia trascenda la sfera antropomorfica e afortiori quella vitalistica. Il rischio più grosso a cui si espone Scheler assumendo una impostazione esclusivamente fenomenologica nella elaborazione di un'etica dei valori è l'immanentismo. Nel Der Formalisntus egli riesce ancora a sottrarsi a questo pericolo mantenendo una netta distinzione tra fenomenologia dei valori e filosofiadella religione, ma quando negli scritti successivi questa distinzione viene abbandonata, il pericolo diviene mortale e la sua filosofia si risolve in una metafisica chiaramente immanentisticafl Altro limite che si riscontra nell'assiologia scheleriana è la scarsa attenzione che vi viene riservata al capitale problema dei rapporti tra cultura e valori.
Nicolaj Hartmann Molto simile a quella di Scheler sia nella metodologia sia nei Contenuti è Passiologia di Nicolaj Hartmann (1882-1950), professore in diverse università tedesche, tra le quali quelle di Marburgo, Colonia, Berlino e Gottinga. Il metodo da lui praticato per determinare l'essenza dei valori è quello fenomenologico; con questo metodo egli stabilisce il carattere (contenuto) assolutamente oggettivo dei Valori. Anche Hartmann, come Scheler, lega strettamente il problema di valori al problema morale; e la sua monumentale Ethik (746 pagine) è tutta incentrata sui valori. Nella sfera morale, alla domanda che Cosa siano i valori, per Hartmann la risposta più seria è questa: i valori sono essenze, (Wesenheiten), ossia qualcosa di nettamente distinto sia dalle esistenze sia dai concetti (coscienza): «che vi sia un altro regno dell'essere, oltre quello dell'esistenza, cioè delle cose reali, e della non meno reale coscienza, è una vecchia certezza. Platone lo chiamava il regno dell'idea, Aristotele quello delteidos; gli Scolastici quello dell'essentia».22 Questo regno delle essenze, dopo il dispregio che su di esso si era abbattuto per opera dell'idealismo e del soggettivismo, riacquista ora la sua —
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21) Cf. G. FERRETTI, Max Scheler. Filosofia della religione, Vita e Pensiero, Milano 1972. 22) N. HARTMANN, Ethik, Berlino 1926, p. 108.
512
Parte terza
validità in Virtù della fenomenologia. L'essere dei valori è un "essere in sé” (Ansichsein), indipendentemente dalla coscienza.23 A sostegno della tesi dell'autonomia ontologica dei valori Hartmann adduce due argomenti: 1) il valore sussiste indipendentemente dall'essere riconosciuto, cosi come 2 + 2 continua a fare 4 anche se nessun uomo ne ha coscienza; 2) ci si può sbagliare e anche riconoscere d'avere
sbagliato nella valutazione dei
valori: «non il valore bensì la
percezione
del valore è variabile». Hartmann colloca i valori assoluti in una specie di "iperuranio" platonico dove regna assoluta parità. Contro Scheler egli nega sia il principio della gerarchia sia la loro dipendenza da Dio. Egli rifiuta di dar consistenza ontologica ai valori fondandoli in Dio, perché Dio non esiste né può esistere se l'uomo è libero. Secondo Hartmann l'esistenza di Dio renderebbe impossibilela libertà e la responsabilità dell'uomo, quindi il Valore morale. La moralità postula che Dio non ci sia: «l'essere morale non è né Dio né lo Stato, né qualcos'altro al mondo, ma unicamente il primo portatore dei valori morali e dei disvalori, l’Uomo».24 llapprensione dei valori, anche per Hartmann (come già per Lotze, Windelband e Scheler) è di carattere emozionale e intuitivo: «il motivo platonico del contemplare (schauen) ben s’adatta a ciò che l'etica materiale denomina come sentimento dei valori>>25 «l valori debbono sentirsi e contemplarsi concretamente in base al sentimento (ffihlelî); non v'è altro modo d’assicurarsi del loro essere ideale».26 Si tratta insomma di un conoscere non nel senso usuale del termine, non cioè d'un conoscere neutrale, bensì d'un particolare conoscere (simile alle "ragioni del cuore" di Pascal) in cui non solo si è presi, ma afferrati e trascinati dal valore. Tuttavia Hartmann ammette che i valori non fanno presa sulla gente mediante una visione diretta, ma attraverso modelli che li incarnano. I modelli i grandi apostoli della moralità (ethisclze F iìhrer) portano in sé i Valori e, concretandoli nella espressione e nelle opere, li fanno presenti e li suscitano anche nella massa (Menge). L'apostolo è dunque il "maieutico della massa": quando egli vuole introdurre valori ancora immaturi nel seno della massa, è condannato al fallimento. Un problema su cui Hartmann si sofferma puntlgllOSamente è quello che riguarda il conflitto dei "valori. Poiché, come si è visto, Hartmann è contrario al principio della gerarchia dei valori, egli esclude che questo problema possa essere risolto in base alla tavola dei valori. -
23) Cf. ibid, p. 134. 14) Ihid, p. 226. 25) Ibid, p. 109. 1°) Ibid, p. 528.
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La polverizzazionedella filosofia dopo Nietzsche
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«Ciò significa che non può venire "risolto" (...) ma esso può tuttavia venir "deciso", attraverso un atto di forza, attraverso l'iniziativa, attraverso l'intervento autonomo di un essere che prende su di se responsabilitàe colpa. E il conflitto viene effettivamente "deciso” proprio in questo modo, senz’essere risolto (...). Se l'uomo potesse risolvere il conflitto, cioè intuire la sua soluzione assiologicamente sufficiente, egli non avrebbe affatto da decidere: avrebbe soltanto da seguire la soluzione intuita. Ma le situazioni della vita non sono così. L'uomo le deve, di volta in volta, decidere (...). Capita dunque che, ovunque agiscono persone vengono effettivamente prese decisioni. La potenza che esprime tali decisioni deve evidentemente essere una potenza reale, poiché determina realmente la reale volontà e il comportamento della persona reale (...). Questa volontà dunque, almeno relativamente ai valori in conflitto, dev'essere libera»? «L'etica dell’Hartmann, accanto a quella dello Scheler, segna il più importante contributo della fenomenologia alla filosofia dei Valori. Essa ha suscitato ovunque largo interesse e vivaci discussioni, così per l'intransigenza del suo realismo ontologico come per il suo ateismo morale; inoltre l’applicazione del metodo aporetico all'analisi dell'esperienza morale ha posto in luce aspetti nuovi e interessanti della problematica etica. Ma è soprattutto l'estremo ontologismo dell’Hartmann che ha provocato le critiche più energiche e, anche, i consensi più vivaci»,33
Per quanto ci concerne, le riserve più gravi riguardano la "manipolazione" del metodo fenomenologico. Infatti, se praticata rigorosamente, 1a fenomenologia nulla dice e nulla può dire a proposito dello statuto ontologico delle essenze prese in esame: se siano puri concetti, idee a priori, essenze possibilioppure enti reali. Il suo compito è semplicemente fotografare le essenze, ma non può stabilire se si tratta dell'originale oppure di una copia, se si tratta di un fantasma oppure di una persona. Per trasferire gli oggetti della fenomenologia dal mondo della coscienza a quello della realtà è necessaria la speculazione filosofica, in particolare la risoluzionemetafisica (almeno per quanto concerne i valori assoluti). In secondo luogo il giudizio sulla esistenza o inesistenza di Dio spetta alla metafisica e non alla fenomenologia dei valori e non possono essere "pregiudizi" etici o antropologici a condizionarlo o impedirlo.
Infine, l'obbligatorietà dei valori e l'esempio stesso dei modelli decado-
garantiti a monte da quella autorità e esemplarità Veramente supreme e vincolanti che sono proprie di Dio. Nella prospettiva atea di Hartmann «noi siamo come dei viaggiatori che percorrono
no se non sono
37) Ibid, p. 695. 35) C. Rosso, 0p. cit., p. 274.
quella
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Parte terza
landa sconosciuta e tenebrosa con un lume che rischiara debolmente pochi passi intorno. Essi vedono il terreno sul quale camminano: ma la via percorsa e quella che si apre loro dinanzi sono egualmente avvolte nelle tenebre più impenetrabili»?
una
Diffusione della filosofia dei valori in Europa e in America
seguita solo dai filosofi di lingua tedesca; a partire dagli anni venti però spalanca i suoi cancelli a tutti e di questa apertura hanno potuto approfittare specialmente: gli italiani: A. Guzzo, M. F. Sciacca, N. Abbagnano, N. Petruzzellisfio gli spagnoli: l. Ortega y Gassetfil gli statunitensi: R. B. Perry, ]. Dewey, E. S. Brightmanfiî gli anglosassoni:I. Laird, H. Osborne, G. E. Moore;33 gli argentini: N. Derisi;34 La filosofia dei valori per molto
tempo era
stata
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i francesi: R. Le Senne, L.
Lavelle, ]. De Finance ecc.35
Qui, per completare il tracciato delle tappe percorse dalla assiologia
nel secolo XX ci limiteremo a esporre il pensiero di L. Lavelle e R. Le Senne, che sono senza dubbio quelli che hanno avuto maggior risonanza e dato gli apporti più significativi.
Louis Lavelle
(1883-1951), filosofo francese, insegnò alla Sorbona dal 1932 al 1934 e al College de France dal 1941 fino alla morte. Egli conceLouis Lavelle
pisce la filosofia essenzialmente come metafisica, ossia come riflessione sull'essere. Questo però non viene da lui inteso in modo statico, bensì 29) 3°) 31) 32)
33) 34) 35)
P. MARTINETH, Ragione e fede, Torino 1942, p. 271. A. Gozzo, Sic 00s non vabis, 2 voll. Napoli 1939-1940; N. ABBAGNANO, Filosofia, Religione, Scienza, Torino 1947; M. F. SCIACCA, Atto e essere, Milano 1956; F. BATTAGLIA, I tralori tra la nzctafisica e la storia, Nuova ed., Bologna 1967; N. PETRUZZELLIS, Valori e libertà, Napoli-Roma 1988. J. ORTEGA Y GASSET, El tema de nuestro tienzpn, Madrid 1923. ]. DEWEY, Tlieory ofzzalualinn, in lnterimtional Encyclupedia of Unified Science, V01. H, Chicago 1939,- R. B. PERKY, Realms of zmlize, Cambridge Mass. 1954; E. S. BRICHTMAN, Moral Laws, New York 1938. f. LAIRD, The Idea of Value, Cambridge 1929,- H. OsHDRNh, Foundations of the philosophy of Vahm. An cxainiizntivn af Value llfld Vrlfllfi and Value Thearies, Cambridge 1933; G. E. MUORE, Philosvphictzl Stiuiites, Londra 1960 (interessante soprattutto il capitolo VIII: «The conception of intrinsic Value»). N. DERlSI, Filosofia della cilltura yh de los t-alores, Buenos Aires 1963. L. LAVELLE, Traité des aalcurs, 2 voll., Parigi 1950-1955; R. L1: SENNE, Obstacle et Imicztr, Parigi 1934; ]. DE FINANCE, Essai sur l'ago‘ humain, Parigi 1966.
La polverizzaziorze della filosofiadopo Nietzsche
515
accentuatamente dinamico: è inteso come Atto e come Valore. Il fatto che per Lavelle l'Atto sia l'essenza dell'essere e non semplicemente una sua operazione comporta molteplici conseguenze. Innanzitutto l'essere non abbisogna di giustificazioni esterne, né può averne in quanto l'Atto, ponendosi, si autogiustifica, ossia segna la continua soppressione del nulla. E tale essere coincide col valore e col bene, perché dice immediatamente la propria eccellenza; ‘e sufficiente a se stesso, perfetta intimità e soprattutto persona, cioè «ciò per cui possiamo tutto attribuirci e che non può essere attributo di nulla». Approfondendo il concetto di Valore Lavelle osserva che questo non si identifica col Bene (come affermano la maggior parte degli scolastici), tuttavia ha col Bene un rapporto molto stretto e profondo, analogo a quello che ha l'esistenza con l'essere. Come l'esistenza è l'essere stesso in quanto questo si incarna e diventa concreto, così il valore è il bene in quanto riferito a un oggetto di Cui facciamo uso, a una volontà che si sforza di coglierlo; e come l'esistenza è l'essere in quanto riceve una forma particolare, così il valore è il bene, in quanto implica un'attività che tende a realizzarlo. Pertanto il valore non è urfidealità astratta, da ammirare e contemplare (come insegnava Hartmann) ma qualcosa che provoca il soggetto e lo trascina all'azione. «L'errore più grave dichiara Lavelle è pensare che il valore sia un oggetto che si contempla, mentre al contrario e sempre un'azione da farsi e una pratica da seguire». In tal modo risulta chiaro anche il rapporto che il Valore ha col tempo. A una prima, iinmatura riflessione, parrebbe che il valore sia al di là del tempo; poiché il valore si lega al bene, il quale sfugge a ogni tentativo di fissarlo in un momento preciso del tempo. Ma, al contrario, il valore non ha senso che relativamente alla sua incarnazionenel tempo. Il tempo misura le tappe successive della realiz— zazione del valore; se cioè il valore deve realizzarsi in un'esperienza spazio-temporale, il tempo scandisce il ritmo della realizzazionedel Valore. Nella conoscenza del valore anche Lavelle sottolinea come in generale tutti gli assiologi la componente affettiva. Secondo Lavelle soltanto dal punto di vista dell'affettività è gnoseologicamente possibile il concetto del valore. Per l'intelligenza, infatti, tutte le cose si trovano sullo stesso piano. Essa considera con lo stesso sguardo tutti gli aspetti della realtà. Ma da quando Yaffettività interviene si vede apparire nel mondo questa differenza di livello che ci obbliga a collocare gli uni più in alto e gli altri più in basso. Così si introduce un ordine nuovo che potremmo denominare "verticale o ascensionale" in opposizione all'ordine ”oriz— zontale o spettacolare" (spectaciilaire). E questa stessa espressione ”verti— cale" mostra bene che quest'ordine non può essere realizzato se non da un'attività che noi esercitiamo, e attraverso uno sforzo, in modo che scoprirlo già significa instaurarlo, farlo regnare. -
-
-
—
516
Parte terza
punti di maggior pregio che si incontrano nella assiologia del Lavelle. Il primo riguarda i rapporti tra essere e valore (questione che Tassiologia dei neokantiani non aveva mai potuto né affrontare né risolvere). Il valore non è disgiunto e tanto meno contrapposto all'essere, ma gli è intrinseco: è l’eccellenza stessa dell'essere. Il secondo, è la distinzione del valore dal bene; la distinzione però non vuol dire separazione bensì incarnazione. Infatti Lavelle concepisce il rapporto tra valore e bene secondo lo schema della partecipazione: i valori sono partecipazioni, ossia attuazioni concrete ma limitate del bene. A nostro giudizio la categoria della partecipazione è molto utile per stabilire la gerarchia dei valori (come si può vedere in Platone dove la partecipazione spiega i rapporti tra le cose belle e la bellezza, le cose buone e la bontà; e in S. Tommaso dove la partecipazione spiega i rapporti tra gli enti e l'essere) ma non per spiegare i rapporti tra valore e bene. Perché, come si Due i
vedrà, il valore intrattiene un rapporto diretto con l'essere e non ha bisogno di essere mediato dal bene. Caso mai, nella nostra assiologia, l'ordine
viene ribaltato:
prima il valore e poi il bene e pertanto se si deve am-
mettere una mediazione questa avviene attraverso il valore e non viceversa. Dal momento in cui una realtà, un'attività, un atto, una persona
Viene apprezzata ossia classificata come anche come un bene. -
un
valore
—,
allora si
presenta
René Le Senne
(1883-1954), filosofo e psicologo francese, insegnò filosofia morale alla Sorbona. La sua filosofia, detta philosoplziede l ‘Esprit, è di ispirazione squisitamente etica e presenta un forte indirizzo assiologico. Nel suo Breviario di metafisica assiologicafié che è un breve trattato sui valori, Le Senne respinge sia il naturalismo sia il nichilismo,e si oppone sia al sociologismo che allo psicologismo per affermare a un tempo tanto la trascendenza quanto Pimmanenza, sia il carattere oggettivo che soggettivo dei valori: «il valore deve, per la sua origine, esserci trascenRene Le Senne
tale estrinsicità resterebbe sterile se il valore non fosse fatto per discendere nella nostra esperienza: tale discesa può essere spirituale solo grazie al concorso degli spiriti umani per i quali il valore deve ren-
dente,
ma
dersi umano». La prima verità che Le Senne si preoccupa di difendere riguardo ai valori è la loro oggettività, e lo fa con non minor fermezza di Lotze, Scheler e Hartmann. Scrive Le Senne: «Dipende da noi dimostrare o no che la somma dei tre angoli di un triangolo euclideo è uguale a due retti;
3b) R.
LE SENNE, Bréviaire de
1947, nn. 4-5.
métaphysique axiologique, in
"Giornale di metafisica”
La polverizzazionedella filosofiadopo Nietzsche
517
dipende da noi che vi sia questo valore». Per cui Le Senne può affermare che <>fi8 L'inserimento di una persona nel mondo dei valori avviene per mezzo di quel valore determinato che le è più congeniale: «Come potremmo assimilarci a un valore se esso non si adattasse alla nostra natura e alla nostra elezione? Uno è nato per amare; un altro per pensare; il carattere fa di uno un uomo di azione che non potrà essere soddisfatto che dal comando; d'un altro un fisico. L'epoca, la formazione giovanile, la scelta, specificando le disposizioni congenite, predestinano un uomo ad accogliere la grazia di un valore e, se si rinchiude in se stesso, a rifiutarne altri». Ora, il pericolo è proprio questo: di fare di un valore particolare l'Ass0lut0, mentre «i valori non sono l’Uno, ma uno dei modi dcll'Uno; non possono essere infiniti in ogni genere, ma lo sono ciascuno in un genere>>fi9 Nella misura in cui non lo si evita, si cede al fanatismo, che trova la sua essenza proprio nel fatto di innalzare un valore particolare a unico modello di vita c nel servirsi dell'energia che esso sprigiona per combattere altri valori. Dal fanatismo non ci si salva se non usando del valore che ci è più congeniale come prospettiva per aprirci su altri valori, così che tutti i valori ci appaiono "segretamente o visibilmente, come interiori gli uni agli altri”, e di conseguenza, come espressione del Valore primo, eterno e universale. Poiché l'esplorazione del Valore avviene nell'ambito di un'esistenza data, essa deve fare i conti anzitutto con una situazione di partenza, ossia con un insieme di condizionamenti,quali il luogo di nascita, la ma non
37) s8) 39)
Ilaid. ibid. Ibid.
518
Parte terza
salute, il carattere, il senso, la condizione sociale, che ci vengono imposti. Si ha così il primo apparire di quella dialettica di ostacolo e ÌJHÎOTE che costituisce la legge di sviluppo della vita e che Le Senne analizza molto acutamente: se, da una parte, la situazione di partenza ci coinvolge, dall'altra siamo noi a coinvolgerla in un nostro piano di azione; e questo
conferisce un duplice significato al nostro essere nel mondo. «È vero che noi siamo impegnati nel mondo scrive Le Senne ma e meglio dire che noi siamo impegnati a metà per rispettare i due aspetti di questa nozione di impegno; quello che indica la nostra attività, come nel caso in cui prendiamo un impegno, e l'altro secondo cui essere impegnati è come essere presi in un ingranaggio. Dovunque, siamo sempre al di sopra e al di sotto delle cose, e abbiamo il potere di lasciarci andare in un senso o di elevarci nell'altro>>.40 E quello che si dice della situazione di partenza vale per tutte le altre situazioni nelle quali la persona viene di volta in volta a trovarsi. La conclusione di tutto ciò è che, per Le Senne, «abbiamo dei metodi per servire la vita,‘ ve ne possono essere molti: non v'è metodo di vita (...). Nessuno può vivere al posto di un altro. E, pertanto, se i metodi sono per essenza generali, poiché non sono definiti e utilizzabili che a questa condizione, la vita a cui si offrono li sopravanza definitivamentem" E quello che si dice dei metodi di vita, vale pure per le dottrine metafisiche che da essi derivano: «Come ogni valore determinato può essere l'energia di quella trasmutazione sacramentale grazie a cui uno spirito può essere guidato da un valore a Dio; così vi devono essere non soltanto delle metafisiche intellettualistiche, estetiche, pragmatiche, religiose, secondo che cercano l'unione con Dio mediante il pensiero, l'emozione artistica, l'azione e l'amore; ma anche altrettante metafisiche che possono essere di valori derivati, come lo sarebbero le metafisiche dei fiori o, allegiziana,degli animali>>.42 Le lezioni più suggestive che si possono raccogliere dall’assiologia di Le Senne sono tre: l) la persona si realizza mediante l'assimilazionedei Valori; 2) il grande peso che la cultura esercita nella determinazione del quadro dei valori che stanno alla base delle scelte personali; 3) la possibilitàdi aprire una pista metafisica seguendo la traccia dei valori. -
4”) lbid.
4l) 43)
Ibid. Ibid.
—
La polverizzazionedella filosofiadopo Nietzsche
519
Conclusione La filosofia dei valori è una filosofia che può intrecciare il suo discorquello della metafisica. Di fatto, come abbiamo visto, mentre
so con
esponenti della filosofia dei Valori (Lotze, Windelband, Rickert) hanno elaborato le loro dottrine in polemica con la metafisica; altri (Hartmann, Le Senne, Lavelle) hanno concepito Yassiologia come una vera e propria metafisica: hanno assunto il dato concreto della finitezza dei valori, quali sono esperiti dall'uomo in questo mondo, per intraprendere la "seconda navigazione” verso un valore assoluto sussistente (Dio) oppure Verso una costellazione di valori assoluti. Come ha scritto Le Senne, qualsiasi realtà e qualsiasi aspetto della realtà (anche i fiori, le piante e gli animali) può accendere nella mente lo stupore e incalzarla alla scoperta della ragione ultima del suo essere. A siffatta indagine la mente viene sollecitata soprattutto nel momento in cui scopre la dignità, la nobiltà, la preziosità, ossia il valore di una Cosa oppure di una persona o di un'azione. Il valore è una grande facciata dell'essere, un trascendentale che ha le stesse proporzioni della verità, alcuni
della bontà e della bellezza. E come sui trascendentali della Verità, della bontà e della bellezza sono state scritte delle ottime metafisiche, altrettanto si può fare con il trascendentale del valore. Ciò che occorre è una buona nave, e tale non può essere il puro sentimento, benché indubbiamente, il sentimento sia un coefficiente essenziale per la captazione dei valori. Organo principe della metafisica rimane sempre la ragioneflîv
'13)
Cf. B. MONDIN, Filosofia della cultura e dei valori, Milano 1994, pp. 201
ss.
52D
Parte terza
Suggerimenti bibliografici Le opere principali dei filosofi dei valori sono già state segnalate nel del presente capitolo. Qui il nostro elenco si limiterà ai più importanti studi storici sulla filosofia dei valori e sui suoi principali esponenti.
COTSO
A. BABOLIN, W. Wildelband, Perugia 1984. F. BARONE, N. Harlmann nella filosofia del novecento, Torino 1957. S. BESOLI, Il valore della verità. Stadio sulla ”logica della validità” nel pensiero di Lotze, Firenze 1992. B. CENTl, Alle origini del concetto di valore. Metafisica, logica e scienze della natura in R. H. Lotze, Milano 1993. E. CENTINEO, R. Le Senna, Palermo 1952. F. FEDERICI, La filosofia dei valori di H. Rickert, Firenze 1933. G. FERRETTI, M. Scheler, Milano 1972. G. GURVITCH, Les tendances actuelles de la philosophieallemande, Paris 1930. ]. HESSEN, Wertphilosophie, Paderborn 1937. O. KRAUS, Die Werttlieorien, Gesclziclite und Kritik, Briinn 1937. A. LAMBERTINO, M. Scheler. Fondazione fenomenologiea dell'etica dei valori, Firenze 1977. L. LAVELLE, Tmite des zaalears, voi. I, Paris 1950. G. MAGNANI, Itinerario al valore in R. Le Senne, Roma 1971. A. MESSER, Wertphilosopliie der Gegenuvart, Berlin 1930. A. METRAUX, M. Sclieler on la phénoménologie des valears, Paris 1973. B. MONDIN, Filosofia della cultura e dei valori, Milano 1994. H. OSBORNE, Foandations of the Pliilosophy of Value, ari Examination of Valae arid Valae Theories, Cambridge 1933. D. H. PARKER, The Philosophy of Valae, Ann Harbor 1957. N. PETRUZZÈLUS, Valore e libertà, Napoli-Roma 1988. W. PIERSOL, La oalenr dans la pliilosopliie de L. Laoelle, Paris 1959. F. ]. V. RINTELEN, Der Wertgedanke in der europdisclien Geistesentzoicklung, l-Ialle 1932. P. ROMANO, Ontologia del valore, studio storico-critico sulla filosofia dei valori, Padova 1949. C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Napoli 1973. A. STFRN, La philosopliie des valeurs, regard sar ses tendances aciuelles en Allemagne, 2 voll., Paris 1936. M. WITTMANN, Die moderne Werteilzik, Mùnster 1940.
LE FILOSOFIE DELLA VITA E DELUAZIONE
importante della filosofia del Novecento è il vitalicategoria fondamentale e di di di chiave lettura come e interpretazione tutta la realtà, così come avevano fatto altri filosofi con le categorie dell'essere, del divenire, della verità, del bene, dell'uno, della monade, dello spirito, della sostanza ecc. Un'altra corrente
smo.
Questa
corrente assume la vita come
Prendendo la vita come punto di partenza della ricerca, questa corrente di pensiero fa della vita sia l'oggetto sia il metodo della filosofia. La vita è l'oggetto della filosofia perché solo la vita, intesa da questi pensatori come divenire perenne, come attività senza termine, come creatività infinita, come storia sempre in cammino, è capace di esprimere in modo adeguato l'insie1ne del mondo possibile. La filosofia deve perciò essere fedele alla vita: non deve avere altro oggetto che questa, né altro presupposto. Ma la vita è anche il metodo della filosofia, nel senso che l'unico modo di intendere la vita è di guardarla non con l'atteggiamento oggettivo e distaccato della ragione, ma con Yempatia, con la comprensione e l'intuizione che muovono dall'interno della vita stessa. Comprendere la vita significa assai più che il semplice capire, perché vuol dire partecipare del flusso della vita. Gli schemi intellettualistici rivelano allora la Ìoro inadeguatezza perché incapaci di seguire la vita nel suo variare perenne. La vita non può essere intesa fissandola, ma seguendone lo sviluppo incessante. La filosofia non può fermarsi al fatto della vita, ma deve sforzarsi di trascendere questo fatto, di andare al di là di esso per cogliere la vita vera che è incessante mutamento. Come la filosofia dei valori, anche la filosofia della‘ vita è sorta come logica reazione contro il posìtivisrno il quale pretendeva di ridurre tutto alla quantità e al calcolo scientifico; essa fa vedere che la realtà non è riducibilealla espansione ed evoluzione della materia, né la conoscenza alla scienza. Per i filosofi della vita non è l'evoluzione che determina meccanicisticamente la vita, dandole senso e direzione, ma al contrario è la vita che disegna e descrive nel suo corso 1'cvoluzione. Conseguentemente non è la scienza a costituire il modello cui la filosofia deve adattarsi, ma viceversa è la filosofia che, unica tra le varie forme del sapere, si mostra capace di assumere la vita come oggetto e come metodo, a
522
Parte terza
dover attribuire alle scienze limiti e condizioni di validità. La filosofia della vita rappresenta in questo senso un tentativo di rivendicare il valore di ciò che è più propriamente umano contro ogni pretesa di riduzione intellettualistica o scientistica.
Gli inizi della filosofia della vita
grande esponente della filosofia della vita è stato Nietzsche, quale abbiamo già trattato ampiamente in un precedente capitolo.
Il primo
del
energicamente contestato le tesi del positivismo e del meccanicìsmo, e aveva esaltato il primato della vita e la sua travolgente
Nietzsche
aveva
vulcanica potenza. In tutti i suoi scritti Nietzsche sostiene che la vita in generale, e la vita umana in particolare, è uno sforzo costante di superamento di se stessa. La vita, spingendosi fino in fondo alle proprie possibilità, si supera affermando la propria potenza nel movimento del proprio compimento. «La stessa vita annuncia Zaratustra mi ha confidato questo segreto: vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessamî E insiste: «Salire vuole la vita, e salendo superare se stessa»? Anche l'uomo è preso dentro il vortice di questo movimento ascensionale, e così anche l'uomo deve superare se stesso: «lo vi insegno il super-uomo, l'uomo deve essere superato».3 Di fatto però la corrente della filosofia della vita non si collega né si ispira a Nietzsche, ma si sviluppa nell'ambiente filosofico francese, che grazie alle forti ascendenze cristiane e spiritualistiche avvertiva maggiormente il bisogno di uscire dalla miopia e dagli errori del positivismo di Cornte, che era diventata la filosofia imperante nella seconda metà dell'Ottocento. Già Ravaisson-Mollien (1813-1900) aveva preso le distanze dal positivismo e in Metafisica e morale aveva presentato lo spiritualismo cristiano come ”filosofia aristocratica ed eroica", contrapponendola al positivismo ”filosofia plebea". Ma fu soprattutto Emile Boutroux (1845-1921), con le sue pungenti critiche del posìtivismo, a gettare le basi della filosofiadella vita. La principale ragione del trionfo del positivismo era legata alla supposizione che le leggi delle scienze sperimentali fossero necessarie e immutabilie che, quindi, la conoscenza di tali leggi fosse certa e sicura. È esattamente questo mito che Boutroux cercò di demolire sin dal suo primo scritto, che portava il titolo assai eloquente Sulla contingenza delle leggi della natura (1874). Tutta la sua critica è volta a scalzare questa sup-
1) F. NIETZSCHE, Così parlò Zaratustra, cit., p. 92. 2) lbid, p. ma. 3) una, p. 3.
-
Le filosofie della vita e dell'azione
523
posizione (della necessità e immutabilitàdelle leggi naturali), sia dimostrando che nelle cose non c'è nulla di necessario, sia provando ”la contingenza delle leggi della natura”. In effetti, secondo Boutroux, il Valore delle leggi naturali è puramente approssimativo, in quanto esse si verificano solo imperfettamente e a condizione di prescindere dal cambiamento qualitativo che costituisce la vita reale. Boutroux poteva quindi concludere che quanto più la scienza è vicina alla realtà, tanto più le leggi scientifiche sono prive del carattere di necessità; mentre quanto più le leggi della scienza hanno il carattere della necessità, tanto più astraggono dalla realtà e la rappresentano imperfettamente. In nessun caso la scienza può sperare di darci una conoscenza completa della realtà, poiché gli aspetti più interessanti della realtà, quali la morale, la metafisica e la religione, sfuggono alla sua ricerca. Ma anche questi aspetti sono accessibiliall'uomo, perché oltre che di spirito scientifico egli è dotato anche di ragione. Qui Boutroux si appropria della celebre distinzione pascaliana tra esprit de finesse e esprit de géonzétric, e assegna allo spirito scientifico lo studio dei fenomeni naturali, e alla ragione le azioni umane e divine. Della vittoriosa campagna di Boutroux contro lo scientismo chi seppe trarre il massimo profitto fu Henri Bergson, che col suo principio dell'élan vital divenne il massimo teorico della filosofiadella vita. Henri Bergson VITA E OPERE
Parigi il 18 ottobre 1859 da famiglia israelitica d'origine irlandese. Conclusi gli studi al liceo Condorcet nel 1878, fu ammesso all'Ecole Normale, dove si guadagnò la fama di ingegno originale e brillante.Si laureò con la tesi Saggio sui dati immediati della coscienza, una ricerca impostata sulla intuizione fondamentale del suo pensiero, secondo cui il tempo di cui si occupa la filosofia positivista non ha durata e pertanto non ha nulla a che vedere con il tempo reale, quello Henri Bergson nacque a
che ci viene testimoniato dalla nostra coscienza, e che ha per caratteristica essenziale appunto la durata. Nel 1886, Bergson pubblicò Materia e meritoria, in cui applicava la sua nozione di tempo alle facoltà umane, specialmente alla memoria, per provarne la spiritualità. Nel 1900 ottenne la cattedra di filosofia al Collegio di Francia dove le sue lezioni ebbero un successo senza confronti. Nel 1907 portò a termine il suo capolavoro, Plîvoluzione creatrice, in cui, applicando il principio della durata, spiega la vita come una corrente di coscienza (élan vital) che si insinua nella materia asservendola a sé, ma rimanendone anche limitata e condizionata.
524
Parte terza
Nel 1927 Bergson ricevette il premio Nobel per la letteratura. Nel 1932 pubblicò Le alue sorgenti tiella nzorale e della religione, in cui distingue tra morale conformista e morale autentica e tra religione organizzata e religione mistica. Nel 1934 diede alle stampe La pensée et le mouvaavzt, una raccolta di saggi sul metodo, tra cui l'importante articolo “Introduction à la métaphysiqiie”, già pubblicato nel 1903 su Revue de ntétaphysique et morale. Negli ultimi anni le sue meditazioni religiose lo avvicinarono sempre più alla Chiesa cattolica. ln un passo del suo testamento (8 febbraio 1937) dichiara che si sarebbe convertito, se non avesse sentito avvicinarsi da ogni parte una terribile ondata di antisemitismo che lo induceva a non abbandonare i perseguitati. Mori il 4 gennaio 1941.
lL
PROLEGOMENO EPISTEMOLOGICO
Il campo di battaglia su cui i filosofi non hanno mai cessato di cimentarsi sin dai tempi di Parmenide ed Eraclito è quello della conoscenza. Si tratta di stabilire quali siano le principali forme di conoscenza di cui l'uomo è dotato, quale sia la loro origine e quale il loro valore. È abbastanza ovvio che l’uomo è dotato sia di conoscenze sensitive (esterne e interne) sia intellettive. Ma in lui ci sono anche varie forme di conoscenze intellettive: l'intuizione, il giudizio, il ragionamento; ci sono idee chiare e distinte, e ci sono idee oscure e confuse. Già Platone e Aristotele avevano proposto le loro classificazioni della conoscenza intellettiva, distinguendo in questa tre livelli: l'opinione, la scienza, la sapienza, una distinzione che incontrò il consenso di quasi tutti i filosofi. Ma com'è noto diverso era il loro modo di spiegare l'origine delle idee che formano sia la scienza sia la sapienza. Secondo Aristotele anche queste idee sono ricavate dall'esperienza, invece secondo Platone esse sono frutto dell'anamnesi, di ciò che l'anima aveva già conosciuto nell'lperuranio. Seguendo la storia della metafisica abbiamo visto che tutti i filosofi moderni al discorso metafisico premettono un preambolo gnoseologico: preambolo che si rivela decisivo per le stesse sorti della metafisica. Infatti, col suo preambolo gnoseologico Hume aveva decretato la fine della metafisica e Kant con un preambolo analogo a quello di Hume, anche se di segno contrario, aveva posto fine alla metafisica speculativa. A questo punto chi, come Kant voleva mettere al sicuro le basi della morale, allargava i confini della ragione potenziando la sua funzione pratica, e chi, come Schleiermachervoleva salvare le basi della religione, affiancava la ragione con un'altra facoltà conoscitiva, quella del senti— mento. Successivamente i materialisti e i positivisti hanno fatto piazza pulita sia della religione sia della metafisica e hanno consegnato tutto alla scienza. A questo punto, di per sé, scompariva anche il bisogno di un
prolegomeno gnoseologico.
Le filosofie della vita e dell'azione
525
quando risultò evidente che il positivismo è ben lungi dal far quadrare i conti con la realtà, la questione del prolegomeno gnoseologico ed epistemologico si riapre. Questa riapertura Venne avviata in Germania per opera di Lotze, Dilthey e Windelband, ma trovò il suo più Valente esecutore in Francia per mano di Boutroux, il quale fece crollare il positivismo demolendo la presunta infallibilità,oggettività e universalità delle leggi scientifiche, e dimostrando la loro "contingenza". Sulla strada aperta da Boutroux si incammina anche Bergson. Il suo obiettivo è elaborare una nuova "cosmologia", ossia una nuova spiegazione del mondo, che non sia più né la spiegazione di Aristotele, che si Ma
su concetti metafisici (materia-forma, sostanza-accidenti, attopotenza ecc.) né la spiegazione di Galilei, Cartesio e Newton, che ricor-
basava
esclusivamente alle leggi della meccanica. La sua spiegazione volescientifica, ma non meccanicistica. Per conseguire questo intento era necessario affrontare anzitutto la questione gnoseologica: occuparsi prima ancora che della natura delle cose, del rapporto conoscitivo che l'uomo ha con esse. L'uomo è dotato soltanto di intelletto e di ragione, di idee pure e astratte, di concetti chiari e precisi, o il suo incontro con la realtà avviene anche per altre vie, quelle che Pascal chiamava vie del cuore, e Kant, Schleiermacher e Lotze vie del sentimento? Che tale sia il primo problema da risolvere Bergson lo dice a chiare lettere nella "Introduzione" allfvoluzione creatrice, dove afferma che la teoria della Conoscenza e la teoria della vita sono inseparabili: reva
va essere
«La teoria della conoscenza e la teoria della vita risultano inseparabili l'una dall'altra. Una teoria della vita che non si accompagna con una Critica della conoscenza e obbligata ad accettare tali e quali i concetti che l'intelletto mette a sua disposizione; non può che rinchiudere i fatti, spontaneamente o forzatamente, nei quadri preesistenti che essa considera definitivi. Ottiene così un simbolismo comodo, persino necessario a una scienza positiva, ma che non è una visione diretta del suo oggetto. D'altra parte, una teoria della conoscenza, che non sostituisce l'intelletto nell'evoluzione generale della vita, non ci permetterà di capire né come i quadri della conoscenza si sono formati, né come noi possiamo ampliarli o superarli. E pertanto necessario che queste due ricerche, teoria della conoscenza e teoria della vita si riuniscano, e, mediante un processo circolare, si spingano avanti reciprocamente all'infinito. Insieme esse potranno risolvere, grazie a un metodo più sicuro, più vicino all'esperienza, i grandi problemi che sono posti dalla filosofia».4
4)
Eonlutimz creatrice, Paris 1948, pp. ix-x.
526
Parte terza
IL CONCETTO FONDAMENTALE DI BERGSONZ
LA DURATA
Il concetto fondamentale di Bergson, quello che ha alimentato tutta la speculazione filosofica è il concetto di ritirata. Questo concetto ha permesso a Bergson di individuare lo strumento gnoseologico capace di superare lo scientismo deterministico e di invertire il processo spazioquantitativo del pensare tipico della scienza. Tale strumento è l'infrazione. Il concetto di durata si e imposto alla sua attenzione studiando la natura del tempo. Questa indagine lo porto alla conclusione che "il tempo non è atomico ma durevole”. Che sia stata questa proposizione ad aprirgli una nuova Visione delle cose lo ha attestato Bergson stesso in una lettera a Hòffding: sua
«Il cuore di tutta la mia filosofia è l'intuizione della durata: la rappreuna molteplicità di penetrazione reciproca assolutamente diversa dalla molteplicità numerica la rappresentazione di è il punto da cui sono una durata eterogenea, qualitativa, creatrice partito e a cui sono costantemente ritornato. (...) Le maggiori difficoltà al progresso del pensiero sono state causate dal fatto che i filosofi hanno messo tempo e spazio sullo stesso piano (...) (Nella mia concezione) la maggior parte di tali difficoltà svanisce». sentazione di
-
—
Ai tempi di Bergson non si concepiva il tempo come durata: seguendo la concezione positivistica e scientifica si considerava il tempo alla stregua dello spazio. Si vedeva in esso una realtà omogenea, divisibile in parti, distinte fra loro solo perché occupanti una posizione diversa: il passato era considerato diverso dal presente e dal futuro solo perché
precede entrambi. Bergson inizia la sua critica del positivismo mostrando che tale concezione del tempo è insostenibile.Per provarlo egli ricorre ai dati immediati della coscienza, i quali rivelano che la coscienza non è qualcosa di puntualizzato come una luce intermittente, bensì qualcosa di continuo
ed esteso. Le sue dimensioni sono il passato, il presente e il futuro. Riesaminando i dati della coscienza, constatiamo che essi non sono omogenei. Nessuno stato di coscienza si ripete in modo identico; gli stati di coscienza non sono una successione di atomi tutti eguali, ma di momenti essenzialmente eterogenei compenetrantisi a vicenda, i quali non costituiscono un allineamento di elementi semplici reversibili,ma una successione sempre più ricca e varia. In altre parole, i dati immediati della coscienza costituiscono una durata che è compenetrazione ed eterogeneità. Il tempo è la successione degli stati di coscienza e quindi è essenzialmente dllfflhî e non può essere ridotto a spazialità. Non è un insieme di stadi che si succedono, ma è un processo in continuo arricchimento e non è perciò divisibile. Il passato è nel presente e il presente è carico di futuro.
Le filosofie della trita e dell'azione
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IL NIETODO DELLA FILOSOFIA: L'l.'\."l‘l,llZIOI\’E La durata caratterizza non solo i dati della coscienza ma tutta la realtà. Questa, infatti, per Bergson, non ha come principio costitutivo supremo l'essere 0 la sostanza o la materia 0 l'idea come avevano detto Platone, Aristotele, Tommaso, Spinoza, Cartesio, Hegel, Cornte e Marx, bensì la vita, lo slancio vitale, l'evoluzione creatrice. Ora, non ci può
vita, slancio vitale, evoluzione creatrice, senza durata. Ma, stando così le cose, se la realtà è vita, slancio vitale, evoluzione creatrice, se la sua caratteristica essenziale è la durata, quale sarà il
essere
metodo appropriato per studiarla? Il metodo, risponde Bergson, non può essere quello positivistico. Questo va bene per la scienza, che per studiare le cose le spezzetta, le schematizza, le riduce ai soli aspetti quantitativi. Ma non si presta ai compiti della filosofia, perché questa intende cogliere la realtà così com'essa è effettivamente, in tutto il suo dinamismo, in tutta la sua Vitalità. E questo è impossibilese la realtà viene sezionata e schematizzata. Ci vuole quindi un altro metodo, un metodo in grado di avvicinare la realtà senza sottoporla a nessuna forzatura, a nessuna distorsione, a nessuna astrazione. Il metodo che, secondo Bergson, ha queste qualità è l'intuizione. Nella Evoluzione creatrice egli descrive a lungo la natura e la necessità dell’intuizione quale metodo della filosofia. Un passo particolarmente indicativo è il seguente: «Tiriamo una linea di demarcazione tra la natura inerte e quella vivente. Troveremo che quella inerte si confà naturalmente agli schemi della ragione, ma quella vivente non può essere forzata dentro di essi se non artificialmente, sicché noi dobbiamo adottare verso la natura vivente un atteggiamento diverso ed esaminarla con occhi diversi da quelli con cui la esamina la scienza positiva (...). La scienza può vantarsi del valore uniforme attribuito alle sue affermazioni su tutto il dominio della esperienza. Ma proprio perché esse sono poste tutte sullo stesso piano, hanno preso tutte la tinta di una certa relatività. Questo non accade se si comincia a fare quella distinzione, che a nostro parere è inevitabile.La ragione si trova a casa sua nel dominio della materia inorganica (...). Invece è solo accidentalmente per caso o convenzione, come a voi piace meglio che la scienza si applica al vivente in maniera analoga alla materia bruta. Qui l'uso degli schemi della ragione non è più naturale. Non voglio dire che l'uso sia illegittimo secondo il significato scientifico della parola. Se la scienza mira a estendere la nostra attività sulle cose e se possiamo agire soltanto usando della materia inerte come strumento, la scienza deve continuare a trattare la natura vivente come natura inerte. -
-
528
Parte terza
bisogna che sia chiaro che quanto più essa penenella profondità della vita, tanto più simbolica, tanto più relativa alle contingenze dell'azione diventa la conoscenza che essa ci fornisce. La filosofia seguirà dunque la scienza su questo nuovo terreno per sovrapporre alla verità scientifica un altro genere di conoscenza che si potrà chiamare metafisico. Questo genere di conoscenza è ottenuto per intuizione».5 Ma facendo questo, tra
LE
DIFFERENTI DÌREZIONI
osufi-îvoiiizioixis CREATRICE
L'evoluzione creatrice (lo slancio vitale, il divenire) ha come punto di partenza una realtà ricolma di possenti energie. Partendo da questa realtà, il cammino prende direzioni differenti: la direzione della materia inorganica, la direzione della vita vegetativa, la direzione della vita intellettiva. Contro l'opinione di tutti i pensatori che l'avevano preceduto, i quali avevano visto nella vita vegetativa, sensitiva, intellettiva, tre tappe successive d'un unico sforzo, Bergson vede in esse tre espressioni diverse, tre vie differenti d'un unico slancio. Secondo Bergson, a un certo punto dello spazio e del tempo lo slancio Vitale nel suo divenire si suddivide in linee divergenti. In ciascuna linea è lo stesso slancio che si attua, ma in forma diversa. Per esempio, il regno delle piante, col torpore vegetativo, e il regno degli animali, con la mobilità e la coscienza, sono due tendenze caratteristiche e divergenti, ma coesistono entrambe, in diverse proporzioni, nella pianta e nell’animale. La medesima cosa si verifica nell’animale e nell'uomo, ne|l'intelligenza cioè e nell’istinto. Per quanto siano qualità di diversa natura, non c'è intelligenza ove non si scoprano tracce di istinto, non c'è istinto che non sia circondato da una frangia d'intelligenza. Ora, questo non si può spiegare se non ammettendo l'unità di un impulso iniziale, nel quale intelligenza e istinto si implicavano e si compenetravano. Pertanto, è legittimo ritenere che, data l'origine comune di tutte le forme di vita, non ci sia organismo che non contenga allo stato rudimentale, o latente o virtuale, i caratteri essenziali della maggior parte degli altri. La differenza è solo nelle proporzioni, e basta a definire un gruppo rispetto agli altri. Mettendoci da questo punto di vista ci convinciamo subito che vegetali e animali corrispondono a due sviluppi divergenti della vita. I primi, infatti, ricavano direttamente le sostanze organiche dalle sostanze minerali; gli altri invece, non potendo fissare direttamente il carbonio e l'azoto, che sono presenti dappertutto, sono obbligati a cercare, per nutrirsi, i vegetali che hanno già fissato questi elementi, oppure gli ani-
5) Ibìd, pp. 199-200.
Le filosofie della vita e dell'azione
529
mali che li hanno ottenuti a loro volta dal regno vegetale. L’attitudine dei Vegetali li dispensa in generale dal movimento: essi sono condannati all’immobilitàe quindi all'incoscienza; invece gli animali, costretti ad andare alla ricerca del loro nutrimento, si sono evoluti nel senso dell'attività motrice, e di una coscienza sempre più ampia, sempre più distinta, fino a raggiungere l'intelligenza umana. In conclusione, torpore vegetativo, istinto e intelligenza sono tre elementi che coincidevano nell'impulso vitale iniziale e che, nel corso dello sviluppo, si dissociarono per il solo fatto della loro crescita. L'errore capitale che, trasmettendosi da Aristotele in poi, ha viziato la maggior parte delle filosofie della natura, è quello di vedere nella vita istintiva, vegetativa e ragionevole tre gradi successivi di una stessa tendenza che si evolve, mentre sono tre direzioni divergenti d'una attività che si è scissa sviluppandosi. Dalla realtà iniziale, lungo la marcia evolutiva, non nascono delle linee divergenti solo in direzione ascensionale ma anche in direzione discendente; in direzione ascensionale nasce la vita; in direzione discendente nasce la materia. La materia e la realtà che si disfa, la vita è la realtà che si fa. Però tra vita e materia non c'è frattura. È piuttosto la vita che, con la sua interruzione, crea la materia, la quale, simile alla condensazione e alla caduta delle gocce di vapore, rappresenta sempre la perdita di
qualche cosa.
LO SLANCIO VITALE COME OGGETTO DELLA FILOSOFIA Per Bergson l'oggetto della filosofia è, come si è detto, lo slancio vitale, il quale si manifesta nel continuo divenire degli esseri, un divenire
che non procede a salti irregolari, ma è caratterizzato da uno sviluppo in cui il passato permane nel divenire. Pertanto, l'oggetto della filosofia è lo slancio vitale che ha come sua caratteristica la durata. La filosofia, al di là del tempo spazializzato (...) la durata concreta dove si opera incessantemente un rifacimentoradicale di tutto». «La filosofia è lo studio approfondito del divenire in generale, del vero
dice
Bergson,
«cerca
evoluzionismo». Il divenire è la categoria suprema delle cose, il divenire è l'essere stesso della realtà. Il divenire non è un aspetto caduco delle cose, ma la loro stessa natura. Al di là del divenire non esiste aicun’altra realtà, né l'essere né la sostanza. «Occorre convincersi una volta per sempre che la realtà è divenire, che il divenire è indivisibilee che in un divenire indivisibileil passato fa Corpo col presente». Questo divenire da cui traggono origine tutte le cose è chiamato da Bergson evoluzione creatrice.
530
Parte terza
Per fondare la
sua
«Ascoltiamo allora la
una
primarietà del divenire, egli si esempio, l'esperienza dell'ascolto di un
tesi dell'assoluta
rifà all'esperienza e invoca, per brano di musica.
melodia lasciandoci cullare da
essa: non
abbiamo
percezione netta di un movimento che non è attaccato a nes-
mobile, d’un movimento senza alcunché che cambi? Questo diveautosufficiente, è la cosa stessa. Facciamo astrazione da questo immagini spaziali: rimane il puro divenire, autosufficiente, per nulla
sun
nire è
attaccato a
qualche cosa che diviene. Ma la sostanzialità del divenire caso è così manifesta, così palpabile come nella vita
in nessun altro interiore (...).
Quindi, tanto
si esamina la realtà interiore come se si esamina tratta di me stesso come delle cose esterne, la realtà è il movimento stesso. Davanti a tale spettacolo del divenire universale (...) qualcuno potrà pensare che se tutto passa nulla esiste (...). Stiano pur tranquilli! Se hanno la bontà di guardare in faccia il divenire, senza coprirlo di veli, il divenire apparirà loro come ciò che può esserci al mondo di più sostanziale e duraturow se
quella esteriore, tanto se si
In che direzione si muove il divenire? Esso ha una duplice direzione: dal basso all'alto e dall'alto al basso, dalla materia allo spirito e dallo spirito alla materia. La realtà è come un grande calderone da cui si sviluppa Vapore acqueo, il quale fino a quando rimane vapore acqueo s’innalza, quando poi si condensa cade e ritorna allo status quo. Dalla tesi della primordialità del divenire segue, ovviamente, la negazione della sostanza come qualcosa di distinto dal divenire stesso. «Ci sono dei cambiamenti, ma sotto ai cambiamenti non ci sono delle cose che cambiano: il cambiamento non ha bisogno di un sostegno. Ci sono dei cambiamenti,ma non c'è un soggetto inerte, invariabile,che si muove: il movimento non implica nessun mobile».7Solo se si concepisce come qualcosa di contingente e caduco bisogna postulare qualcosa che faccia da sostegno. Ma quando si concepisce il divenire come la suprema realtà non c'è più bisogno di ricorrere alla sostanza per dargli consistenza. Bergson collega il concetto di divenire con quello di durata: il divenire è durata e la durata è divenire. E la durata è, come si è visto, la matrice stessa della realtà. Di qui anche la critica del Bergson al concetto tradizionaledi creazione, che presenta Forigine delle cose come un salto dal nulla all'essere, mentre per Bergson si tratta di una esplosione, di una evoluzione creatrice, da un vulcanico punto di partenza in cui si trovava concentrata tutta l'energia vitale dell'universo.
6) H. BERGSON, La pensée et le mnuvant, Paris 1960, pp. 185-189. 7) Ibid, p. 185.
Lefilosqfie della vita e dell'azione
531
L'UOMO COME HNE DELL'EVOLUZIONE
Bergson si oppone a quelle concezioni antropiche che finalizzano lo sviluppo dell'universo all'uomo: senza l'uomo l'universo sarebbe privo di senso. Ma non e così perché, secondo Bergson, la vita ha un senso in se stessa, e perciò ha sempre avuto un senso anche quando l'uomo non esi-
La vita trascende la finalità come pure tutte le altre categocorrente lanciata attraverso la materia, da cui cava ciò che può. Non c'è stato dunque né un progetto né un piano. D'altronde è evidente che il resto della natura non è stato rapportato all'uomo: noi combattiamo come le altre specie, e abbiamo combattuto contro le altre specie. Infine, se l'evoluzione della vita avesse urtato contro ostacoli differenti lungo il suo corso, in tal modo che la corrente della vita si fosse divisa diversamente, noi saremmo stati, per quanto concerne sia il fisico che il morale, molto differenti da ciò che siamo. Conclude steva
rie.
ancora.
È essenzialmente una
Bergson:
«Per queste ragioni si sbaglierebbe a considerare l'umanità, quale l'abbiamo Sotto gli occhi, come preformata nel momento evolutivo. Non si può neppure dire che essa sia il coronamento dell'intera evoluzione, poiché l'evoluzione si è realizzata lungo molte linee divergenti, e se la specie umana è all'estremità rispetto a una di esse, altre linee hanno trovato compimento per mezzo di altre specie. E in un senso del tutto diverso che noi consideriamo l'umanità come ragion d'essere dell'evoluzione. Dal nostro punto di Vista, la Vita appare globalmente come una sola onda immensa che si propaga a partire da un centro che, in quasi la totalità della circonferenza si arresta e si converte in oscillazioni che segnano il passo: in un solo punto l'ostacolo è stato forzato e l'impulso è passato liberamente. E questa libertà che registra lîforma umana. Dappertutto, eccetto che nell'uomo, la coscienza si è vista ridotta a un vicolo chiuso; solo con l'uomo ha
potuto proseguire il suo cammino. L'uomo dunque continua il movimento vitale, sebbene non trascini con sé tutto ciò che la vita portava
in sé. In altre linee dell'evoluzione si sono affermate altre tendenze che la vita implicava, di cui l'uomo ha senza dubbio conservato qualche cosa (giacché tutto si compenetra), ma di cui non ha conservato che una minima parte. Tutto si sviluppa come se un essere indeciso e plastico che si potrà chiamare come si vuole, uomo o superuonzo, avesse cercato di realizzarsi e non ci fosse riuscito che abbandonando durante il cammino una parte di se stesso. Questi detriti sono rappresentati dal resto dellanimalità e anche dal mondo Vegetale, almeno in ciò che essi hanno di positivo e di superiore rispetto agli accidenti
del1'evoluzione>>.8
S)
Ijévolution creatrice, ciL, pp. 266-267.
532
Parte terza
Tratti distintivi dell'uomo sono la libertà di cui si è già detto e la spiritualità. Ma non si tratta di una spiritualità separata dalla materia e dal Corpo, bensì ad essi strettamente congiunta, poiché la materia fa sempre da contrappeso allo spirito. Secondo Bergson il grande errore delle dottrine spiritualistiche è stato quello di credere che, isolando la vita spirituale da tutto il resto e sospendendola nello spazio a quanto più in alto possibile al di sopra della terra, l'avrebbero messa al riparo da ogni ostacolo; mentre di fatto non facevano altro che semplicemente -
—
scambiarla per un'illusione. Bergson parla anche dell'immortalità ma sembra concepirla alla maniera averroistica, come una prerogativa della specie e non della persona singola: ‘e l'avanzata dell'umanità che forse, a un certo punto, è in grado di rovesciare e di superare moltissimi ostacoli, forse anche la morte. L'avanzata dell'umanità è un'ascesa della vita, è la vita nel corpo «si trova sulla via che conduce alla vita dello spirito. Ma in tal caso, non avrà
più da fare con questo o quel particolare essere vivente». SCIENZA
F METAFISICA
Mentre gli antichi avevano incorporato la scienza nella metafisica e i moderni avevano scavato un fossato sempre più profondo tra scienza e metafisica, Bergson si propone di unificarle, considerando la scienza e la metafisica semplicemente come due modi diversi di osservare la stessa realtà: la scienza studia la realtà guardandola con uno sguardo atomizZante e "costruttivo"; la metafisica ha invece uno sguardo unitario che vede la realtà come un tutto. Tra scienza e metafisica Bergson sembra tracciare una linea di demarcazione molto netta che riguarda sia il metodo sia l'oggetto. Il metodo della scienza è quello dell'atomizzazione e della costruzione, il suo oggetto è la materia; invece il metodo della metafisica ‘e l'intuizione e il suo oggetto e lo spirito. Ecco un bel testo in cui Bergson spiega le differenze tra scienza e metafisica: «Noi assegniamo alla metafisica un oggetto limitato, lo spirito, e un metodo speciale, l'intuizione. Con ciò noi distinguiamo nettamente la metafisica dalla scienza. Tuttavia noi assegniamo loro un eguale valore. Noi crediamo che esse possono entrambe toccare il fondo della realtà. Noi rigettiamo la tesi sostenuta dai filosofi e accettata dagli scienziati sulla relatività della conoscenza e l'impossibilitàdi cogliere
l'assoluto. La scienza positiva si rivolge all'osservazione sensibile. Essa ottiene così dei materiali la cui elaborazione essa affida alla facoltà di astrarre e di generalizzare, al giudizio, al ragionamento, all'intelligenza. Partita già dalle matematiche pure, essa continua con la meccanica, poi con la fisica e la chimica e arriva infine alla biologia.
Lefilosqfîe della vita e dell'azione
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Il suo primitivo dominio, che è anche rimasto il suo dominio preferito è quello della materia inerte. Ma grande è il suo imbarazzo quando essa giunge allo spirito (...). E impossibile considerare il meccanismo della nostra intelligenza e il progresso della scienza senza arrivare alla conclusione che tra la intel-
ligenza e la materia c'è effettivamente una simmetria, una concordancorrispondenza. Da una parte la materia si risolve sempre più agli occhi dello scienziato in relazioni matematiche, e dall'altra le facoltà essenziali della nostra intelligenza non funzionano con tanta precisione come quando si applicano alla materia (...). Ma quando noi riconduciamo l'intelligenza ai suoi contorni precisi e approfondiamo abbastanza le nostre impressioni sensibili affinché la materia cominci a darci l’interiorità della sua struttura, troviamo che le articolazioni dellîntelligenza vengono ad applicarsi esattamente a quelle della materia. Noi perciò non vediamo perche’ la scienza della materia non colga l’assoluto».‘* za, una
Anche da
quanto Viene detto in questo testo, risulta che nella prospet-
tiva bergsoniana le differenze tra scienza e metafisica sono meno profonde di quelle che aveva posto, per es., Aristotele tra scienze efilosofia printa. Infatti, secondo Bergson, «entrambe possono toccare il fondo della realtà»; una tesi questa che Aristotele (e nessun altro metafisico) avrebbe mai sottoscritto. Per Bergson, in definitiva si tratta soltanto di due diversi
punti di vista, di due sguardi differenti che cercano di cogliere la stessa
realtà, la vita. La scienza la considera dal punto di vista della materia, e quindi dei traguardi già raggiunti dalla vita; invece la metafisica considera la vita dal punto di vista della sua continua ascesa verso lo spirito. Assumendo questo punto di vista, il metafisico «vedrà il mondo materiale risolversi in un semplice flusso, una continuità di scorrimento, un divenire... anche la materia resta solidale con ciò che ascende (monte). Ma la vita e la coscienza sono questa stessa ascesa. Quando finalmente saranno colte nella loro essenza seguendo il loro movimento, si capisce come il resto della realtà derivi da esse. Nel seno di questa evoluzione, l'evoluzione stessa appare la determinazione progressiva della materialità e della intellettualità, mediante la consolidazione graduale dell'una e dell'altra. Ma è allora in questo movimento evolutivo che ci si inserisce, per seguirlo fino ai suoi risultati attuali, anziché ricomporre artificiosamente questi risultati con qualche loro frammento. Tale ci pare essere la funzione propria della filosofirz. Così intesa, la filosofia non è semplicemente il ritorno dello spirito a se stesso, la coincidenza della coscienza umana col principio -vivente da cui essa emana, una presa di contatto con lo sforzo creatore. Essa ‘e lapprofondimento del divenire in generale, l’ev0luzi0nismo
9)
La
pensée et le mouvant, cit., pp. 33-36.
534
Parte terza
vero, e di conseguenza il vero prolungamento della scienza purché si intenda con questa ultima parola un insieme di verità constatate o dimostrate, e non una certa nuova scolastica che si è costituita nella seconda metà del secolo XIX intorno alla fisica di Galileo, come aveva fatto l'antica intorno a quella di Aristotelew" —
ljinterrogativo che qui si affaccia alla mente è se ciò che Bergson chiama ”filosofia" oppure ”metafisica", non sia nient’a1tro che una diversa concezione della scienza, un ”nuovo positivismo”, una concezione organìcistica, che privilegia la visione d'insieme rispetto a quella delle parti, e che Cerca di applicare anche alla scienza quel circolo ermeneutico di cui avevano parlato Schleiermachere Rosmini. A noi risulta difficile Condividere il concetto che Bergson ha della metafisica. Questa ‘e essenzialmente una seconda navigazione. E vero che Bergson parla continuamente, come facevano i neoplatonici, di ascesa e di discesa, e vuole aggregare continuamente la conoscenza dell’ascesa e della discesa, ma questa partecipazione ‘e un inserimento "mistico” nella realtà, e non una ricerca speculativa, una partecipazione empatica, e non uno studio. Metafisica e scienza non sono semplicemente, come afferma Bergson, due sguardi diversi della stessa realtà. Pur iniziando con lo stesso oggetto, il mondo materiale, la scienza concentra la sua attenzione su questo mondo, per coglierne tutti gli elementi, strutture e leggi; invece la metafisica indirizza la sua ricerca verso un'altra realtà che oltrepassa il mondo della scienza, il mondo empirico, il mondo materiale. La metafisica è la ricerca di un secondo mondo, un mondo trascendente, il mondo dello spirito. Certo, Bergson ha perfettamente ragione contro i positivisti, quando sostiene che la Coscienza e lo spirito si trovano già in questo mondo; ma si tratta sempre di coscienze e di spiriti finiti. Ciò che Bergson fa non è metafisica ma e sempre scienza, un nuovo e più autentico positivismo, una scienza "spiritualistica" più conforme ai dati dell'esperienza della scienza positivistica. Ciò che Bergson elabora è una nuova epistemologia scientifica e con essa una nuova cosmologia vitalistica, in contrapposizione con la cosmologia metafisica di Aristotele e alla cosmologia meccanicistica di Galileo, Cartesio e Newton. Ma né in L15001 ution creatrice, né in altre opere Bergson ha elaborato e, probabilmente, neppure intendeva elaborare una nuova metafisica.
1”) Cf. ljévolutìmz créatrice, cit., pp. 368-369. l corsivi sono nostri.
Lefilosofie della trita e dell'azione
535
RILIEVI CRlTlCl La sostanza delle nostre critiche al bergsonismo l'abbiamo già espressa: esso non è un sistema metafisico ma scientifico; è costruito su due postulati fondamentali: 1) la legge della evoluzione che sottopone tutta la realtà a un continuo cambiamento; 2) la vita e la coscienza, insieme alla materia, sono gli elementi primordiali della realtà cosmica e non fanno la loro entrata in scena a una determinata fase dell'evoluzione. Il
Darwin (ma poteva ricavarlo il è secondo Il suo grande, personale contributo anche dai neoplatonici). all'evoluzionismo. Bergson ricorre a questo postulato per eliminare il problema dei passaggi da un regno all'altro (dal regno minerale, a quello vegetale, a quello animale, all'uomo). L'evoluzionismo è una questione scientifica e non filosofica o metafisica. Perciò non spetta al metafisico pronunciarsi su tale questione. Le principali critiche che sono state mosse al bergsonismo sono due: è stato accusato di irrazionalismo e inoltre di panteismo e monismo. A nostro avviso sono tutt'e due ingiustificate. È infondata la prima critica: Bergson non distrugge la ragione ma proprio con la ragione avverte che l'uomo non e dotato soltanto di poteri astrattivi e raziocinativi,ma anche di poteri intuitivi e che molti segreti delle cose li raggiunge con i secondi e non con i primi. A questo riguardo ha scritto molto bene Peguy:
primo postulato Bergson lo prende da
«Anche il bergsorusmo ha una ragione. Anche il bergsonismo è un partito della ragione. Non si vede che cosa potrebbe essere una filosofia che non fosse un partito della ragione. Il bergsonismo si propone anzi di servire ancora meglio la ragione, perché intende, per dir così, servirla ancora più da vicino. Ogni filosofia è, evidentemente, un razionalismo. Anche una filosofia che fosse, o volesse essere contro la ragione, sarebbe, cionondimeno, razionalista. Una filosofia non può mai portare che ragioni. Il cartesianesimo è stato, nel suo principio, uno sforzo per guidare la ragione nella ricerca della verità nelle scienze (...). Il bergsonismo è stato, nel suo principio, uno sforzo per guidare la ragione a stringere la realtà (nelle scienze, nelle metafisiche delle scienze, nella metafisica). Già il platonismo era stato, nel suo principio, uno sforzo per con-
ragione attraverso la dialettica ideale o, se si preferisce, ideica, alla fonte stessa dell'essere. Il bergsonismoè stato uno sforzo altrettanto grande, uno sforzo dello stesso ordine, e vorrei dire uno sforzo nello stesso senso. Non c'è filosofia contro la ragione, più di quanto ci sia una battaglia contro la guerra, un'arte contro la bellezza, una fede contro Dio. Il bergsonismo non e mai stato né un irrazionalismo né un antirazionalismo. E stato un nuovo razionalismowl durre la
H) C. PEGUY, Notes sur H. Bergson et la pliilosophfebergsonienne (1914), dalla edizione ”La
Pléiade", Paris 1958, pp. 1286 s.
536
Parte terza
Tanto meno credo che si possa
accusare Bergson di panteismo. Quecade nel momento stesso in cui si Vede nel suo evoluzionismo non un sistema metafisico ma una teoria scientifica, la quale non si interroga sui principi primi dell'universo ma, come precisa lo stesso Bergson, sull'origine del sistema solare e in definitiva sull'origine del nostro pianetaflî La preoccupazione di Bergson non riguarda la causa ultima del cosmo, ma il suo intrinseco dinamismo, la ragione irnrnanente e non quella trascendente del suo sviluppo. Pertanto tutta la ricerca che Bergson sviluppa nella Evoluzione creatrice rimane dentro l'ambito della scienza ed esclude qualsiasi incursione nel terreno della metafisica. Del problema di Dio Bergson si occupa espressamente in un'altra opera, Le
sta
accusa
due fOÌIÌÌ della morale e della religione; ma anche là il problema non viene affrontato sul terreno della metafisica ma su quello della fenomenologia. A nostro avviso tutto il dibattito intorno al monismo e al panteismo di Bergson è assolutamente ingiustificato e senza fondamenti. La sua fede profonda in un Dio personale risulta assolutamente indiscutibile, ma sarebbe errato cercarne la prova ne L'evoluzione creatrice, dove Bergson persegue obiettivi scientifici e non metafisici ‘o teologici.” Il pensiero di Bergson ha rappresentato la voce più autorevole della filosofia francese; ma più che una Vera e propria scuola Bergson ha lasciato dietro di sé un'ispirazione che si è sviluppata in modi e campi diversi. Assai importanti sono state le sue influenze nel campo della psicologia, e il famoso psicologo Piaget (per tanti aspetti così lontano dal pensiero di Bergson) riconobbe di averne in un primo tempo subito l'influenza. Nel campo filosofico grande è stato l'influsso che Bergson ha esercitato su Blondel e Whitehead; mentre nel campo teologico la visione evoluzionistica di Bergson ha avuto una grandissima incidenza sulla riflessione di Teilhard de Chardin e sulla sua elaborazione del Fenomeno unzano.
Wilhelm Dilthey VITA E OPERE
Wilhelm Diltheynacque a Bielbrich, nella Renania, nel 1833. Si formò in un ambiente fortemente influenzato dalle dispute religiose fra la Renania cattolica e la Prussia luterana: egli stesso era figlio di un pastore della Chiesa protestante. Studiò presso le università di Heidelberg e di
12) Cf. Dévolutioiz creatrice, cit., p. 242. 13) Cf. ]. CHEVALIER, Bergson, Paris 1926; A. SEKriLLANoEs, Aver H. Bergson, 1941.
Paris
Le filosofie della zaita e dell'azione
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Berlino, dove seguì Corsi di teologia, di filosofia e di storia. Fu Adolf
Trendelenburgad avviarlo allo studio della storia della filosofia e in particolare di Schleiermacher, su cui scrisse uno dei libri tuttora più validi, apparso in due volumi, nel 1867 e nel 1870: la Vita di Schleiermacher. Esso rimase anche uno degli unici tre libri pubblicati da Dilthey durante la vita, perché le altre sue opere, di cui alcune fondamentali, apparvero soltanto postume, in un'edizione completa delle sue opere a cura di alcuni suoi allievi (questa edizione venne pubblicata a partire dal 1914; le altre opere edite in vita furono l'introduzione alle scienze dello spirito del 1883, e una raccolta di saggi dal titolo Esperienza vissuta e poesia del 1895). Da Schleiermacher Dilthey apprese soprattutto l'importanza dell'ermeneutica, cioè la scienza del comprendere l'attività spirituale dell'uomo. Dopo avere ottenuto l'abilitazionea Berlino, Diltheyiniziò nel 1867 la carriera accademica a Basilea, da dove passò l'anno dopo a Kiel e nel 1871 a Breslau. Nel 1882 fu chiamato a Berlino quale successore di Lotze. Vi insegnò fino al 1906 svolgendo un ruolo di primo piano nell’Accademia prussiana delle Scienze, nella quale ebbe modo di riunire intorno a sé una schiera di allievi che, come si è detto, ne raccolsero l'opera e ne continuarono l'insegnamento. Morì nel 1911 a Siusi (Bolzano), dove si trovava in vacanza.
LA
DISTINZIONE TRA LE SCIENZE DELLA NATURA
E LE SCIENZE DELLO SPIRITO:
IÎERMENEUTICA
Nella storia della filosofia Diltheyè una figura importante, soprattutto per i suoi insegnamenti che riguardano la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, Permeneutica come studio della storia e la vita come principio motore della storia. Le sue dottrine sul metodo delle scienze dello spirito e sull'ermeneutica hanno rilevanza anche per la metafisica, ancorché per questa disciplina Dilthey non abbia mai mostrato speciale interesse. Dilthey fu il primo a tracciare una netta linea di demarcazione tra scienze della natura (Natttrwissensclzaften) e scienze dello spirito (Geistesteissenschaften). Contro la pretesa dei positivisti di applicare un unico metodo, quello oggettivo dell'analisi e della classificazione dei dati e della formulazione delle leggi, a tutti gli ambiti del sapere, Dilthey osserva che questo metodo soddisfa appena alle esigenze dello studio dei fenomeni naturali e materiali, mentre è assolutamente inadeguato per lo studio e la comprensione dei fenomeni culturali, storici e spirituali. Ci sono pertanto due gruppi di scienze: il gruppo delle scienze della cultura e il gruppo delle scienze dello spirito, ciascuno dotato di un proprio oggetto e di un proprio metodo:
538
Parte terza
«Accanto alle scienze della natura si è sviluppato spontaneamente, compiti stessi della vita, un gruppo di discipline che sono legate
dai
tra loro dalla comunanza dell'oggetto: tali discipline sono la storia, l'economia politica, le scienze del diritto e dello stato (...) e infine la psicologia. Tutte queste scienze si riferiscono al medesimo grande fatto: il genere umano. Esse descrivono e narrano, giudicano, formano concetti e teorie in relazione a questi fattim”
Non c'è dubbio che il punto di partenza della distinzione sia rappresentato, per Dilthey,da una differenza di oggetti. La delimitazione delle scienze dello spirito rispetto alle scienze della natura «è radicata nella profondità e nell’autocoscienza umana>>fl5E ciò in quanto «l'uomo trova in questa autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni, una Capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto nella libertà della sua persona, mediante cui si distingue da tutta la natura. Egli si ritrova infatti, in questa natura per impiegare un'espressione spinoziana come un impcrium in inzperio (...). Così egli distingue dal regno della natura un regno della storia, nel quale in mezzo alla connessione di una necessità oggettiva, che costituisce la natura la libertà emerge in innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico dei mutamenti naturali, il quale già contiene fin dall'inizio tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro sacrifici, del cui significato l'individuo è consapevole nella propria esperienzamîé —
-
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La natura è il mondo della necessità meccanica, esprimibile in forma di leggi; la storia è invece secondo una prospettiva che riprende, cercando di tradurla in termini epistemologia, l'impostazione del Kant della Critica della ragion pratica il dominio della libertà intesa come possibilità di dare inizio a una serie causale. È vero che questa si presenta anch'essa, a differenza che in Kant, come una possibilità condizionata dalla contemporanea appartenenza dell'uomo al mondo della natura; tuttavia «processi materiali» e «processi spirituali» sono tra loro incomparabili,e i secondi non possono venir «derivati» dai primi.” A questa distinzione su base oggettiva ne corrisponde un'altra di carattere gnoseologìco. Essa rimanda infatti alla differenziazione di chiara origine lockiana, ma ripresa poi da Kant tra due forme di esperienza, tra esperienza interna ed esperienza esterna. I processi naturali —
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“) W. DILTHEY, Critica della ragione storica, tr. it., Torino 1954, p. 145. l") 11)., Introduzione alle scienze della spirito, tr. it., Firenze 1974, p. 18. 16) Ibict, pp. 18-19. 17) Ibid., p. 25.
Lefilixsofiedella trita e dell'azione
539
possono essere conosciuti soltanto attraverso la percezione, in quanto la per noi soltanto qualcosa di esterno, non di interno»; invece i processi storico-sociali «sono comprensibili dallînterno», in quanto «la società è il nostro mondom“ L'uomo ha un'esperienza immediata della vita spirituale nella propria interiorità. un'esperienza che non comporta alcuna mediazione concettuale: in tale esperienza, che Dilthey designa col termine Erlebnìs, «è immediatamente data in se stessa l'unità» del mondo umano, che costituisce Poggetto della scienza dello spirito. Ma qual è esattamente il metodo che si addice allo studio delle attività e dei prodotti dello spiritoÎ’, visto che il metodo positivo non è idoneo? Dilthey ritiene che per le scienze dello spirito il metodo più adeguato sia quello ermeneutico, il quale è in grado di cogliere il senso anche di ciò che ha carattere individuale, personale, unico. Scrive Dilthey: «La certezza di queste scienze, come quelle della storia, dipende dalla possibilità che la comprensione del singolare possa elevarsi alla validità universale>>jl° Proponendosi di compiere per le scienze dello spirito (in particolare per le scienze storiche) quello che Kant aveva fatto per le scienze della natura, Dilthey va alla ricerca di un principio categoriale che gli consenta di assumere nell’universale quanto ci è dato come individuo. Questa categoria dev'essere tratta direttamente dalla vita, dev'essere udesperienza vitale, ed è ciò che Dilthey chiama Erlebnìs. Il comprendere (verstehen) è possibilein quanto è esso stesso un Erlelvnis, che si appropria di quanto viene a lui presentato; lfrlebnìs rende partecipe l'interprete dell'evento storico, del fenomeno umano di cui si Cerca di natura «è
comprensione. comprensione ermeneutica come comprensione storica si realizza Dilthey non mediante Yintrospezione, ma fondamentalmente me-
ottenere una
La
per diante la ricostruzione di tutti quegli elementi che sono le testimonianze effettive della soggettività. Ciò comporta che per conoscere la natura storica dell'uomo non si deve compiere tanto un processo di introspezione, quanto piuttosto un processo di ricostruzione ermeneutica, ossia di ricostruzione storica. I prodotti creativi dell'uomo, quali l'arte, la filosofia, la scienza, la religione, il diritto, costituiscono il materiale principale che permette all’u0mo di conoscere che cosa egli è come essere storico, e tale processo di ricognizione costituisce l’autentico processo di comprensione ermeneutica come conoscenza storicaîfi
13) Ibid, p. 56. T9) Ermeneutica e religione, tr. it., Bologna 1970, p. 5D. 2°) Cf. G. MURA, Ermeneutica e verità, cit., pp. 213-214.
540
Parte terza
LA VITA COME
PRINCIPIO MOTORE DELLA STORIA
E LA DIMENSIONE STORICA
DELL/UOMO
Come Bergson anche Dilthey vede nella vita un principio primario da cui è necessario partire per capire la realtà, ma mentre la realtà di cui si interessa il filosofo francese è il cosmo, la realtà di cui si occupa il filosofo tedesco è l'universo umano e, quindi, la storia del genere umano. Cosi mentre ciò che ci dà Bergson ‘e essenzialmente una cosmologia, ciò che elabora Dilthey è un’antropologia storica, in cui la vita umana fa corpo con la storia, e a sua volta la storia fa corpo con la vita. Mentre Bergson crea un sistema evoluzìonistico, Dilthey crea un sistema vitalistico e storicistico. Dilthey studia la vita umana non dal punto di vista biologico, ossia come principio soggettivo dell'esistenza dell'individuo, ma dal punto di vista storico, ossia come principio oggettivo di tutte le impronte lasciate dall’umanità nel mondo nel corso dei secoli: tutto quanto è sorto dall'attività spirituale dell'uomo e reca quindi il carattere di storicità: dalla distribuzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case in una strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino alla sentenza di un tribunale. «Ciò che io spirito immette del proprio carattere oggi nella sua manifestazionedi vita è, domani, quanto ci sta dinanzi, storia». Tra vita e storia c'è un nesso essenziale: non c'è vita senza storia, e Viceversa non c’è storia senza vita. E poiché la vita si può comprendere soltanto attraverso la storia, l'unica vera filosofia, secondo Dilthey,è la storia. Ogni altra spiegazione è destinata al fallimento. Infatti, per arrivare alla vita occorre seguire lo stesso cammino che essa ha tracciato; come chi si trova sperduto nella foresta, il filosofo deve cercare i segnali che la vita ha lasciato nel suo corso millenario.All'inizio c'è stata la vita. E chi sente il desiderio pungente di una soddisfacente giustificazione, non la cerchi al di fuori della vita perché non la troverà. Il decorso storico della vita contiene la sua giustificazione. Chi non vuole smarrirsi deve andare incontro a quella giustificazione che la vita è venuta lasciando di se stessa nei prodotto storici. È quindi necessario esaminare attentamente il corso totale della vita e, quindi, il corso totale della storia, senza permettersi di trascurare o disprezzare alcun elemento. L'interpretazione della storia come oggettivazione della vita dello spirito salvaguarda Diltheydal pericolo di considerare il processo storico come un tutto organico sempre in evoluzione verso il meglio; lfrlebitis non si oggettiva sempre in manifestazioni positive, e questo esclude un ottimismo assoluto. D'altra parte Fabbandono di una visione totalizzante della storia non intende frantumate i fatti storici in tanti avvenimenti privi fra loro di connessione. Per Dilthey tra i fatti esiste una relazione che, senza essere quella deterministica di causa ed effetto,
Lefilosofie della vita e dell'azione
541
li connette tra loro in modo unitario. Questo è quanto egli intende con l'espressione connessione dinamica. Grazie ad essi i fatti costituiscono un'epoca, la quale è una sorta di totalità conclusa che ha il centro in se stessa e trae da sé il proprio significato. Ma anche nei confronti delle epoche si deve ripetere il ragionamento ora svolto. L'epoca non è né un tutto isolato dal più ampio fluire della storia, né un semplice anello di passaggio di un processo infinito. Essa è in relazione con il proprio passato e il proprio futuro; le epoche cioè, come i fatti, sono tra loro in connessione dinamica: sono infatti in una relazione che, senza trascurare le dipendenze, non ne fa delle conseguenze necessarie. Tutte queste considerazioni di Dilthey hanno grande rilevanza oltre che per la storiografia anche per l'antropologia: infatti è una nuova concezione dell'uomo quella che egli ci presenta: non più l'uomo considerato nella sua natura immutabile, nella sua essenza ma nel suo inarrestabile sviluppo storico. Dilthey è uno dei primi filosofi a fare della storicità uno dei connotati essenziali dell'uomo. L'uomo non è mai "fatto", ma e sempre in cammino: «il tipo "uomo" si dissolve e cambia nel processo della storia». L'uomo, per Dilthey,è attraversato dalla temporalità da parte a parte, nel senso che la sua essenziale storicità riguarda non soltanto la sua natura non determinata, che viene poi plasmata dalla cultura, ma concerne direttamente l'essenza delle sue modalità di comprensione, nel senso che il suo conoscere e il suo comprendere sono essenzialmente storici, e quindi profondamente segnati dai vari orizzonti culturali. Di qui la necessità dellermeneutica, quale autocomprensione storica dell'uomo. Anche qui, dando rilievo alla storicità, Diltheysi accontenta di arricchire il quadro fenomenologico dell'essere umano; egli non si azzarda a
intraprendere una "seconda navigazione", per cimentarsi con i problemi
metafisici che scaturiscono dalla dimensione storica dell'uomo, come da tutte le altre sue dimensioni fondamentali. Tra gli esponenti della filosofia della vita va qui ricordato anche George Simmel (1858-1918), che a Berlino fu per molti anni collega di insegnamento di Dilthey.Le sue opere principali sono: Problemi principali della filosofia (1910); Filosofia della cultura (1911); Il conflitto della cultura moderna (1918); Intuizione della tiita (1918). Dei due termini tenuti in connessione da Dilthey,vita e storia, Simmel accentua la vita, affermandone la radicale intrascendibilità,e conseguentemente sostenendo Yìmpossibilitàdi Comprenderla in modo oggettivo. In Dilthey la vita è storia: ma essa si esprime pur sempre in modo intelligibileall'uomo, suo protagonista e interprete al tempo stesso. In Simmel invece la vita si separa dalla storia: la vita è continuità atemporale, flusso ininterrotto, da cui emergono le varie forme della civiltà che, nate dal suo divenire perenne, le si oppongono. Ma tale oppo-
542
Parte terza
sizione è destinata al fallimento, perché la vita tende a eliminare e superare costantemente le forme che vorrebbero indipendenza e autonomia. Da questa impossibilità di liberarsi della vita nasce la sua tragicità, e l'impossibilità di cogliere gli avvenimenti storici, se non per mezzo di semplici connessioni casuali, concepite in modo isolato: «La vita è affetta dalla contraddizione di potersi realizzare solamente in forme e di non potersi esaurire in essere, dovendo superare e rompere ogni cosa che ha creato».
MauriceBlondel VITA E OPERE Maurice Blondel è nato il 22 novembre 1861 a Digione, dove compì tutti i suoi studi. Entrato nell’Ecole normale supérieure, fu discepolo di Boutroux e soprattutto di Ollé-Laprune, del quale divenne anche intimo amico. Dopo vari anni di insegnamento ai collegi di Montauban e di Chaumont e all'università di Lilla, nel 1897 fu invitato alla facoltà di lettere di Aix dove si stabilì definitivamente, fino all'anno del suo ritiro (1927). Nel 1893, Blondel si impone all'improvviso all'attenzione di tutti con la sua tesi divenuta poi celebre, L'Amore. Essai d'une criticyzie de la vie et d'une science de la pratiqrte, tesi decisamente originale nel metodo oltre che nel soggetto e nelle conclusioni. L'opera ebbe un'accoglienza molto contrastata. A causa della sua affermazione di un'apertura inevitabileal Trascendente e al Soprannaturale, essa inquietava allo stesso tempo i filosofi, che difendevano i diritti della ragione, e i teologi, che difende— vano la gratuità del soprannaturale. Così l'opera di Blondel fu condannata dalla Chiesa e messa all'Indice perché sospetta di modernismo. In molti ambienti l'opera fu però accolta favorevolmente, per la Capacità dell'autore di proporre una nuova apologetica del Cristianesimo. Le riserve della Chiesa costrinsero Blondel a un prolungato periodo di silenzio e di meditazione, che gli servì per mettere a punto un'esposizione sistematica e completa di tutto il suo pensiero, in piena armonia con la filosofia cristiana insegnata dalla Chiesa. Ai suoi critici Blondel aveva replicato: «IJ/lction non è una Summa. Per completarla e mettere fine ai malintesi provocati dall'uso del termine equivoco di "filosofia dell'azione", avrei bisogno di un'opera analoga sul pensiero e di un'altra sull'essere. Alla fine vorrei coronare questa trilogia con uno studio sullo spirito cristiano». Il progetto fu realizzato interamente tra gli anni 1934 e 1949, con la pubblicazione delle seguenti opere: Il pensiero (1934); L'essere e gli esseri (1935); L'azione (nuova redazione in due volumi editi nel 1936 e nel 1937); La filosofia c lo spirito cristiano (2 voll., 1944-1946). Blondel morì il 4 giugno 1949.
Le filosofie della vita e dell'azione
L'IMPEGNO METAFISICO E
ANTROPOLOGICO DI
543
BLONDEL
In un periodo di vuoto metafisico qual è stato il secolo XX Blondel costituisce una rara eccezione. In effetti, egli fu un valente avvocato della metafisica, di cui cercò di rinnovare sia il metodo sia i contenuti così da rendere le verità metafisiche più accessibiliall'uomo della seconda modernità. È vero che il suo obiettivo principale e primario non fu la metafisica, bensì Yapologetica; ma la sua apologetica, alla stregua dell'apologetica di Pascal, è di stampo squisitamente filosoficoe metafisico. Con i suoi contemporanei (Boutroux, Dilthey)Blondel condivide l'interesse per il metodo; ma il suo interesse non è dettato dalle esigenze di una nuova scienza della natura (Bergson) o della storia (Dilthey),bensì
esigenze della metafisica (della Trascendenza) e dell’apologetica (della rivelazione cristiana). Così il problema metodologico in Blondel viene a occupare il posto di quel prolegomeno epistemologico che nella metafisica moderna aveva preso il posto dellbntologia.
delle
L'altro tratto che la ricerca del Blondel ha in comune con tutta la metafisica moderna è Vantropocentrismo. La sua ricerca assume come punto di partenza non la natura o il cosmo, bensì l'uomo. Scrive Blondel nell'lntroduzionea L'Azione: «Questa materia preziosa che debbo esporre, sono io, ché non posso fare la scienza dell'uomo, senza l'uomo». IL METODO DELUIMMANENZA
«Metodo delrìmmanenza» è il nome che lo stesso Blondel ha scelto per designare il proprio metodofil Questo è un metodo introspettivo, che scruta nelle profondità del mistero dell'uomo, prendendo in esame non i suoi prodotti culturali, come faceva Dilthey,bensì il suo agire, vale a dire la sua azione morale, che è un'azione libera e volontaria. Qui Blondel scopre uno jatits incolmabiletra ciò che l'uomo cerca di raggiungere e ciò che di fatto di volta in volta ottiene. Esiste, infatti, una sproporzione tra l'opera e la volontà, tra il reale e l'ideale, tra volontà voluta e volontà volente. Ma tale sproporzione non esclude una certa adeguazione, anche se questa non tarderà a svelare il proprio carattere provvisorio e parziale. I successi, infatti, sembrano non mancare: prima afferriamo l'oggetto nella sensazione, poi, di fronte allînsufficienza di questa, ci apriamo alla scienza, poi tentiamo la via della creatività nell'arte, nella morale, nella metafisica. Sembra così che l'oggetto più alto sia stato raggiunto, ma, ancora una volta, la presenza in noi del bisogno di infinito ci mostra la caducità di tutti questi risultati. Di qui l'alternativa
2') CÎ- M. BLONDEL, Lettera sulla esigenze del pensiero contemporaneo in materia di apologctica (1896).
544
Parte terza
fondamentale dell'uomo: o egli infinitizza ciò che è relativo, trasformando le sue realizzazioni caduche in idoli, o si mantiene aperto alrinsaziabilespinta verso l'infinito.
Mantenere aperto questo jatus, questa sproporzione e analizzarla è proprio ciò che si propone il metodo dellîmmanenza: «In che dunque consisterà il metodo dell’immanenza, se non nel mettere in equazione nella coscienza stessa, quello che sembriamo pensare e volere fare, con ciò che facciamo, vogliamo e pensiamo realmente: in tal modo che nelle negazioni fittizie o nei fatti artificialmente voluti si ritroveranno ancora le affermazioni profonde e i bisogni incoercibiliche essi Ìmplicanwnlî In tal modo, muovendo dalla fedeltà al principio dell'immanenza, che Blondel ritiene caratteristico del pensiero moderno, si scopre proprio all'interno della vita, il suo bisogno d'essere trascesa. L'infinito verso cui tendiamo con insaziabiledesiderio altro non è se non il soprannaturale, che si presenta come simultaneamente inaccessibile(perché nulla quaggiù mai lo può adeguare) e necessario (perché costituisce la
radice stessa di ogni forma di agire). L’ "AZIONE"
Il nucleo essenziale del pensiero di Blondel si trova tutto racchiuso nel suo capolavoro, L'Azione (L’Acti0n). Argomento della ricerca ‘e l'azione, più precisamente il senso del nostro agire: «Ha o no un senso la vita
umana, e l'uomo ha una destinazione?».23 Si tratta di una ricerca ineludibile:«Il problema è inevitabile:l'uomo lo risolve inevitabilmente;e questa soluzione, esatta 0 errata, volontaria e
necessaria a
un
tempo, ognuno la
cerca
nelle
sue
azioni. Ecco
bisogna studiare l'azione: il significato medesimo della parola e
perché
la rìC-
contenuto si a poco a poco. È bene mettere dinanzi all'uomo tutte le esigenze della vita, tutta la pienezza occulta delle sue opere, per rinfrancare in lui, insieme con la forza di afferma-
chezza del
suo
dispiegheranno
di credere, il coraggio d'agire».24 L'opera si compone di cinque parti. La prima corrisponde alla quinta, la seconda alla quarta. La prima si occupa del "dilettantismo"del tipo di Renan e Barrès, il quale esecra e dichiara insensata ogni azione rìsoluta e, in particolare, la pratica religiosa, mentre la quinta parte, con movimento inverso, dimostra la serietà della pratica religiosa e mette in luce Findispensabilitàdell'azione decisiva per l'ottenimento della vera conoscenza dell'essere. Nell'ambito di un secondo piano problematico, la re
22) Ibia‘. 33) L'Acti0n, Paris 1893, p. 7 (dell'edizione fotostatica). 24) 11nd, pp. 7-8.
Le filosofie della vita e dell'azione
545
seconda parte discute del nichilismo di ascendenza schopenhaueriana, che fa del Nulla il fine di ogni azione (un fine che è da raggiungere con Yautodistruzione ascetica della volontà), e, inversamente, la quarta parte si basa sulla impossibilitàdi tale soluzione nichilistica, per mostrare che nell'azione si trova l”’unico necessario", al cospetto del quale anche il sacrificiodi sé diviene l'unica via al possesso di sé. La terza, che e la parte Centrale dell'opera, è dedicata allo studio del ”fenomeno del-
l'azione”.
parti più interessanti di L'Azione sono la terza e la quarta, delle diamo quali qui un breve resoconto. Nella terza parte, che è di gran lunga la più estesa (pp. 43-323), mediante un'accurata analisi di tutte le forme dell'agire umano, sia individuale che sociale, Blondel fa vedere che nessuna di esse è in grado di esaurire il volere profondo dell'uomo. La conclusione si impone: «È impossibilenon riconoscere l'inadeguatezza di tutto l'ordine naturale e non percepire alcun bisogno ulteriore; è impossibiletrovare in se stessi il modo di soddisfare a questo bisogno religioso. E necessario e non è possibile: ecco, nuda e cruda, la conclusione del determinismo dell'azione».25 Qui viene chiaramente alla luce lo jatus incolmabiletra l'esigenza di infinito dell'impulso della volontà (la volonta’ voulante) e la sua determinazione tramite Qualcosa (la volontà voulue): Le
«C'è solo
una conclusione che ci importuna immancabilmentesul del necessario sviluppo dell'azione. Ed essa è in tutta la sua brutalità, senza nulla aggiungere e nulla togliere -: nel suo agire volontario l'uomo è al di là del mondo dei fenomeni; non riesce a far
nome
pari
con
—
le
proprie esigenze; porta
in sé
più
di
quanto egli stesso
possa utilizzare; non riesce, partendo dalle sue forze, a realizzare Lm’azione libera che abbracci tutto quello che è contenuto nel princi-
pio della sua azione volontaria>>26
Nella quarta parte Blondel Cerca la risposta agli interrogativi sollevati nella terza. Poiché il Qualcosa in tutte le forme in cui entra in gioco è sfruttato come oggetto possibile ma insufficiente della volontà, quest'ultima appare nuovamente gettata nella decisione fondamentale tra il Nulla e il Qualcosa della seconda parte de L'Acti0n. La parte che segue, la quarta, si riallaccia effettivamente a questa decisione fondamentale; tuttavia, già il suo titolo, «L'essere necessario dell'azione», indica che la ricerca si svolge ora su un nuovo piano. Entrambe le possibilità di decisione sono ora chiuse: sia che la volontà si getti nel Nulla, sia che essa trovi in un
25) lbicL, p. 319. 3t‘) lbiii,p. 321.
546
Parte terza
Qualcosa la
sua
‘
realizzazione. Con ciò,
non
soltanto i
singoli contenuti
e noi non antinomie ad teoriche, dinanzi già risolsiamo più posti semplicemente risolviconflitto non te nella pratica, ma dinanzi a una "antibolìa”, a un della alternativa, bile nella dinamica della volontà stessa. «Gli antipoli che possono essere considerati insieme nella conoscenza, si escludono reciprocamente nella realtà; poiché ora non si tratta più di ciò che appare, ma di ciò che ‘e>>.27 Così, questa antibolia appare innanzi tutto come conflitto tra due enunciati fondamentali riguardo alla volontà, entrambi necessari ma inconciliabili,per poi risolversi in una alternativa tra due atteggiamenti fondamentali della volontà che si escludono in modo assoluto. Tra il conflitto e l'alternativa c'è, a fare da mediatrice, la conoscenza dell'“Unico Necessario", la cooperazione di Dio a fondamento dell’azione. Un conflitto sussiste tra i due enunciati ugualmente ineludibiliper cui la volontà è tanto irrealizzabilequartto indistruttibileflfiPer quanto conalle cerne Pirrealizzabilitàdella volontà, Blondel rinvia non soltanto si cui in interne contraddizioni le analisi condotte fin qui, ma raggruppa ho «lo non voglio, ma imbatte la volontà in tre enunciati fondamentali: voluto Volere»? io non posso mai realizzare ciò che veramente voglio: un'incapacità che trova la sua espressione nel dolore; e non posso nepfatto per mia pure rendere non avvenuto o anche cambiare ciò che ho smentito su tutta la venire libera volontà. Il mio volere sembra perciò la Volontà cui linea. Questa considerazione si oppone però all'altra per continua a imporsi su tutta la linea. Anche per questo ultimo punto Blondel rimanda non solo alla innegabilitàdella volontà, già dimostrata nella prima e seconda parte, ma introduce tre nuove considerazioni: lo stesso stabilire che la mia volontà viene apparentemente smentita risulta soltanto sullo sfondo di una volontà che rifiuta di fallire; il Qualcosa che la volontà non riesce ad appagare non ricade tuttavia nel nulla, indica piuttosto qualcosa oltre da sé, perché anche il desiderio insoddisfatto resta desiderio, esso vuole se stesso. Là dove ogni ”volontà voluta” cozza contro i suoi limiti, la "Volontà fondamentale" viene tanto più chiaramente alla luce nella sua ineliminabilità.«Ciò che abbiamo dell'esdi approsere ci è imposto; al tempo stesso non possiamo fare a meno priarcene come per libero impulso».30
della Volontà
appaiono contraddittori, ma la volontà stessa,
27) lbid, p. 323, nota. 33) I sottotitoli dei due "momenti” del conflitto parlano di «palese fallimento dell'agire voluto» e di «indistruttibilitàdell'agire volontario» (L’Action, pp. 323 e 333). 29) L'Acti0n, p. 326. 3°) lbiat, p. 333.
Le filosofie della vita e dell'azione
547
Questo conflitto non è risolvibileteoricamente; esso conduce tuttavia scoperta che al fondo della mia volontà si trova una realtà che è più
alla
di me stesso. Blondel la definisce con un'espressione cristiana alla quale attribuisce un significato filosofico, l’«Unic0 Necessario» (Ftmiquc amica.saire). È la presenza attiva di Dio nel mio agire che Blondel mette in luce in una nuova interpretazione delle prove classiche dell'esistenza di Dio (nella loro versione kantiana). Le prove dell'esistenza di Dio non sono per Bionde] ragionamenti teorici in sé conclusi e indipendenti l'uno dall'altro, esse rappresentano piuttosto Yintrecciato, progressivo rendersi visibiledi ciò che in modo recondito è sempre all'opera nel mio agire e viene così sperimentato. Esse articolano così l‘indicare-qualcosa-oltrewdasé dell'azione umana. Le prove dell'esistenza di Dio di Blondel sono collegate a un'analisi del Nulla che Blondel stesso definisce come rinnovato argomento ontologico?‘ il Nulla può essere pensato solo come negazione di qualcosa; è il non-qualcosa ciò che non può essere pensato al di sopra di ogni qualcosa. Questa teologia negativa mantiene un contenuto positivo nell'argomento cosmologico, che, dall'essere relativo e dalla relativa necessità del Qualcosa, dei fenomeni, che non sono nulla e che non si lasciano annientare, conclude l'assoluta necessità dell'Unico Necessario. La sua natura viene infine determinata più da vicino attraverso l'argomento teleologico, che dalla puntuale e mai determinabile identità di idealità e realtà nel nostro agire conclude la loro assoluta identità in Dio. «Nella nostra
azione permane una costante discrepanza oggetto pensiero, opera e Volontà. La reale attuazione supera continuamente l'ideale prefissato, mentre un ideale che sorge sempre di nuovo supera la realtà raggiunta. A turno il pensiero sorpassa l'azione e l'azione il pensiero, di conseguenza ideale e realtà devono essere una sola cosa; poiché questa unità ci è data veramente, ma soltanto per sfuggirci continuamente... Non da noi stessi traiamo dunque la luce per il nostro pensiero e la forza per le nostre azioni. Una capacità che si cela al fondo della nostra anima, una verità che è più interiore in noi della nostra stessa conoscenza, una energia che in ogni momento della nostra evoluzione ci dona la necessaria forza, libertà e chiarezza: tutto ciò è in noi senza provenire da noi. Questo mistero ci si impone nella sua realtà soltanto perché scopriamo in esso una forza e una saggezza infinitamente più grandi di noi stessi»? tra
conoscenza e
e
Con ciò è stato
approntato un concetto positivo della perfezione per seconda, positiva forma della prova dell'esistenza di Dio: l’Unic0 Necessario non può essere pensato in altro modo che come perfetta una
31)
ibid, p‘ 341. Un commento alle prove dell'esistenza di Dio di Blondel è offerI. C. DHOTEL, Actiun et dialcctique. Les preuves de Dieu dans «IJ/lction» de 1893, in ArPh 26 (1963), pp. 5-26. Cf.
to da
33) L'Action, pp. 344 s.
548
Parte terza
identità di essere, conoscere e agire, «un soggetto in cui tutto è soggetto>>,33 cioè il Dio personalefi-‘r Con questa scoperta della realtà di Dio al fondo di ogni azione, la Volontà si vede posta di fronte a una alternativa. O perseverare nella sua autonomia e autarchia e chiudersi così la possibilità di arrivare alla perfezione, oppure essa, rinunciando all'autonomia e all’autarchia, si manterrà aperta a ricevere in dono da Dio la perfezione che da parte sua è agostiirraggiungibile. Blondel riveste questa alternativa della formula al fino Dio di di amore Dio, al fino se di disprezzo niana «amore che questo disprezzo di se» e aggiunge subito dopo: «Ciò non significa ed eviviolenza tanta uomini con tragico conflitto si manifesti a tutti gli vita della sorge in denza. Ma se il pensiero che è possibile fare qualcosa ad esitanti i anche più ogni uomo, questo è già abbastanza per esortare assolvere il compito più grande, dell'Unico Necessario».35 Ma per ricevere il dono di Dio occorrono certe disposizioni interiori. A
estrequeste disposizioni Blondel, come Pascal, annette una importanza ritiene che ciò tutto ritiene che buono, ciò ma: 1) che l'uomo faccia tutto conforme alla sua coscienza. 2) Se il distacco sta alla base dell'azione buona, non sorprende che la Vita morale sia accompagnata dal sacrificio e
dalla rinuncia. La misura del cuore dell'uomo è data dalla capacità di la sofferenza accogliere 1a sofferenza. 3) Agire con abnegazione, accettare è necesda Dio, nulla aspettarsi non basta. «Dopo avere fatto tutto senza
sario aspettarsi tutto da Dio, come se noi non avessimo fatto njente>>fi6 La conclusione di questa profonda riflessione di Blondel sul carattere deldell'agire umano si può formulare così: ciò che emerge dallo studioanche l'azione umana è l'idea generica di un Assoluto, che ogni uomo, che non si senza conoscere il cristianesimo, oscuramente vuole, ma dell'unico necesdell'idea si tratta termini acquista come una cosa. In altri dell'isi tratta ad esso; sario che non si ottiene se non abbandonandosi sotto forma la sia dea dell'azione divina cui ci si deve aprire, qualunque «L'inla quale essa si presenta. A conclusione dell'opera Blondel scrive. tera questione sta tutta in questo conflitto necessario che sorge nel cuore della volontà umana e le impone di optare praticamente tra i termini di cui l'uomo o cerca di una alternativa inevitabile, di una alternativa per restare padrone di se stesso e di conservarsi integro, o si abbandona alla volontà divina più o meno oscuramente rivelata alla sua coscienza»?
33) Ibid, p. 359. 34) Cf. ibizi.,p.350. 35) 15:11., p. 355. se») 11nd,, p. 385. 37) 122111., p. 487.
Lefilosqfie della vita e dell'azione
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APOLOGETICA o METAFISICA? Scienza della prassi è il sottotitolo che lo stesso Blondel ha dato a L'Acti0n. Pertanto Ciò che egli presenta in questa opera non è soltanto una
fenomenologia dell'agire umano, ma una vera e propria scienza, che
intende chiarire le ragioni profonde, ultime di tale agire. Ciò che costituisce la forza della dialettica di Blondel è che essa non costruisce un ideale che possa fungere da termine dell'azione umana. La tensione all'infinito del volere non è il punto di partenza della sua ricerca, ma il suo punto di arrivo. Blondel non confronta le diverse tappe dell'azione con l'ampiezza, data per supposta, del volere; al contrario, ‘e l'evolversi inesorabile dell'azione umana che rivela in modo progressivo l'ampiezza del dinamismo spirituale da cui il volere è segretamente animato dall'origine. Ogni volta si rivela una inadeguatezza, una discordanza tra la volontà volente e la volontà voluta. Ma tale discordanza suppone a monte un Sommo Bene, che mentre per un verso, con la sua ineffabilesegreta presenza dà luogo al conflitto tra volontà volente e volontà voluta, per un altro verso, sostiene la spinta della Volontà volente verso il traguardo del Sommo Bene stesso. La filosofia di Blondel non è una semplice apologetica del cristianesimo, né una semplice filosofia della religione: essa è in Verità una "apologetica filosofica", che svolge esattamente le stesse funzioni e segue gli stessi procedimenti della metafisica. Quella di Blondel è essenzialmente una ricerca intorno alla seconda navigazione, della quale egli mette in luce l'assoluta necessità. Contro l'h0m0 ludens dei "libertini" e dei "dilettanti", che amano stare rinchiusi nella caverna, Blondel mostra la necessità di abbandonare questa tenebrosa prigione e di sospingere la propria navicella verso l'Unico Necessario, anche se il raggiungimento del porto dell'Unico Necessario risulta impossibile senza i venti favorevoli della divina bontà. La scienza della prassi di Blondel è una metafisica della prassi che presenta molte analogie con la metafisica della prassi di Kant. In entrambe, l'analisi dell'agire umano conduce al postulato della esistenza di Dio. Ma, alla base delle loro metafisiche c'è un concetto diametralmente opposto dell'uomo e quindi del ruolo svolto da Dio in relazione all'uomo. Kant vede l'uomo come autosufficiente e autonomo e fa intervenire il buon Dio come sapiente reggitore dell'ordine dell'universo. Blondel, invece, fa emergere l'assoluta indigenza dell'uomo, indigenza che riguarda non solo il suo essere ma anche il suo agire, in particolare il suo agire morale, e così Dio viene incontro all'uomo per aiutarlo nel compimento del bene e nel raggiungimento della felicità.
550
Parte terza
Non credo che si possa mettere in dubbio la sostanziale bontà dei risultati della metafisica blondelliana per quanto attiene la necessità dell’Unico Necessario e, allo stesso tempo, l'incapacità dell'uomo a raggiungerlo. Questa è una tesi classica non solo dewagostinìsmo ma di tutti i filosofi cristiani. Ed è inoltre in perfetta sintonia con la tesi parallela che riguarda la conoscibilità di Dio. Di lui l'intelligenza umana non può elaborare concetti positivi ma semplicemente negativi. Anche questa
non
è
una
tesi
specifica dellagostinismo, ma è
condivisa da tutti i
metafisici cristiani .3?!
33) Dell'impotenza della ragione nei
confronti della conoscenza di Dio e della necessità della rivelazione Blondel si è occupato ampiamente in La pensée (1934). Sul carattere essenzialmente cristiano della metafisica di Blondel si veda l'ottimo studio di C. TRESMONTANT, Introduction à la métaphysique de Blondel, Paris 1963. In una delle pagine conclusive del suo saggio, l'autore scrive: «Par ses thèses constitutives la métaphysique de Bionde] est foncièrement chrétienne; elle est chrétienne par structure, dest-à-dire que les thèses métaphysiques qui la définissent et la Caractérisent sont congénitalement ouvertes au christianisme et compatibles avec lui (Quanto alle sue tesi costitutive la metafisica di Blondel ‘e profonda mente cristiana; essa è cristiana quanto alla struttura, cioè le tesi metafisiche che la definiscono e la caratterizzano sono di loro natura aperte al cristianesimo e
compatibilicon esso)» (p. 315).
Le filosofie della vita e dell'azione
551
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Parte terza
552
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BLONDEL
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Lefilosofie della vita e dell'azione
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554
IL RITORNO A HEGEL
Un momento importante della filosofia del primo Novecento è quello segnato dal ritorno di l-Iegel. Questo ritorno è stato favorito da varie ragioni, in particolare dal crollo del positivismo, dallo sviluppo delle scienze dello spirito e dal grande interesse per la storia. Ora, quale altro filosofo era riuscito a far meglio di Hegel nellbperare una profonda unificazione tra scienze dello spirito e storia, facendo di questa il grande pal-
coscenico su cui lo Spirito continua a dare spettacolo? Il ritorno a Hegel oltre che dalla crisi del positivismo e dello scientismo era dettato dal proposito di opporsi alla frammentazionedella filosofia nei molteplici rivoli delle filosofie della vita, dell'azione, dei valori ecc. e di ridare unità al sapere filosofico, ricuperando il primato della ragione teoretica sulla ragion pratica. Ora, a quesflansia di ricuperare il molteplice, frantumato nei vari ”primati" dell'immediato, a un'unità da concepirsi come assoluta, Hegel era in grado di dare una risposta più adeguata di Kant. Hegel, infatti,offriva una via già tutta precostituita da ricalcarsi con relativa facilità,più di quanto Yoffrisse il kantismo, problematicamente e tematicamente diviso tra fenomeno e noumeno; risalire a Hegel significava tuttavia anche il modo più saldo per ancorarsi all'unità trascendentale del soggetto kantiano considerato quale principio e forma del sapere e quale giustificazione assoluta della restituzione o della rinascita della filosofia a se stessa. In tal modo, «il neoidealismo svolge una funzione storica, che, da un lato, può essere detta di reazione allo spirito positivistico nato dalle sedimentazioni e dalle elaborazioni dello scientismo illuministico, che Kant stesso aveva favorito; e, insieme, di opposizione alla concezione pes-
simistica che, dallo Schopenhauer in poi, traduceva la distinzione tra fenomeno e noumeno in esplicita e irresolubilitàteoretica di ogni problematica possibile. Né spirito scientistico, né pessimismo sembra essere il motto del neoidealismo; bensì fiducia nella possibilità del e dell'epensiero di superare tutti gli aspetti problematici della realtà del carattere considerazione sperienza. Questa fiducia riposa sulla intimamente contingente di ogni opposizione; la stessa attività capace di riconoscere il contingente come tale è anche in grado di superare tutte le opposizioni problematiche che la contingenza offre; così che si rivela il presupposto di una siffatta dialettica nellhffermazione, prettamente ”idealistica” del carattere universale del giudizioml
l)
M. A. RASCHINI, Uidealisrna anglo-americano,francese e dia filosqfica, p. 558.
italiano, in Lìmnde enciclope-
Il ritomo a
Hegel
555
suggestione hegeliana suggestione speculativa operò sul neoidealismo con massiccia influenza, anche grazie al fatto che essa suggeriva un metodo e una soluzione insieme, per affrontare tematiche che ”la crisi della filosofia” non riconosceva più come attuali, quando addirittura come non valide; o opponeva una situazione di rifiuto alla funzione stessa della filosofia di fronte al premere delle condizioni storiche e dei bisogni che queste suscitavano. Alla storia della metafisica il ritorno a Hegel ha ben poco da aggiungere, anche e soprattutto perché la storicizzazione dell'Assoluto operata da Hegel non concede nessuno spazio alla metafisica, anzi è Yantitesi della metafisica stessa. Da Hegel tutto viene imprigionato dentro la clausura del tempo, e il tempo conosce una sola direzione, quella della sua inesorabileprogressione. La progressione del tempo viene fatta poi coincidere con la progressione dello Spirito, della Coscienza, della Ragione, delYIdea; ma si tratta dello Spirito della Coscienza, della Ragione, dell’Idea che albergano nell'uomo. Nella filosofia hegeliana tutto viene assorbito dalla e nella soggettività, e la filosofia stessa non è altro che la storia della soggettività. Ovviamente, in siffatta concezione della realtà non c’è posto per la seconda navigazione. La storia è tutto e, quindi, la navigazione ha luogo unicamente nel mare della storia. Perciò, benché il ritorno a Hegel rappresenti una pagina importante della filosofia del Novecento, noi qui ne parleremo succintamente, proprio per la sua scarsa rilevanzaper la storia della metafisica. Il ritorno a I-legel ò stato un fenomeno di vaste proporzioni che ha coinvolto molte nazioni, specialmente la Francia (con j. Lachelier, F. Ravaisson, O. Hamelin, L. Brunschvicg), i paesi anglosassoni (con E. Caird, F. H. Bradley, F. E. McTaggart, R. C. Collingwood, R. W. Emerson, I. Royce, W. E. Hocking) e Yltalia (con B. Spaventa, R. Varisco, P. Martinetti, P. Carabellese, Benedetto Croce e G. Gentile). Noi qui ci limiteremo a una breve esposizione del pensiero di Croce e Gentile che del neoidealismo furono gli esponenti più rappresentativi non solo in Italia, ma a livello mondiale. La
—
—
Benedetto Croce VITA E OPERE
Benedetto Croce nacque a Pescasseroli il 25 febbraio 1866. Fu educato Napoli presso i Barnabiti; perduti i genitori e la sorella nel terremoto di Casamicciola, Visse quasi sempre a Roma presso lo zio Silvio Spaventa. Per un paio d'anni seguì corsi di giurisprudenza e di filosofia morale all'università di Napoli. Ma poi abbandonò gli studi accademici, non avendo necessità di dedicarsi all'insegnamento, anche per l’ingente a
556
Parte terza
patrimonio che gli consentiva di consacrarsiesclusivamente allo studio di quelle discipline per le quali si sentiva più portato, come la filosofia, l'estetica, la storia e la letteratura. L'interesse per la filosofia gli nacque sia dalla lettura di Vico, sia dalla conoscenza, maturatasi poi in amicizia, con
Giovanni Gentile, che ebbe come collaboratore per un ventennio alla Critica, da lui fondata. In seguito, però, i rapporti tra i due maggiori esponenti della nostra filosofia si fecero tesi, sia per motivi teoretici specialmente i discepoli di Gentile facevano oggetto di critica le posizioni filosofiche di Croce —, sia per motivi politici; il Croce, che dal 1910 era Senatore —
partecipò al governo del 1920-2], appoggiò la Riforma Gentile, ma si può dire che questo fu l'ultimo atto manifesto della reciproca stima e amicizia. Dopo il 1924 si ebbe la rottura tra i due, seguita da polemiche durate per anni; il consolidarsi del regime fascista trovò Croce, prima consenziente, in aperta opposizione; il regime, del resto, gli consentì vita tranquilla e una certa libertà di critica, che indubbiamente giovò al regi-
e
che
me
stesso, e allo stesso tempo servì ad alimentare la fama di Croce.
Intanto nel 1917 Croce aveva portato a termine la sua opera principale, La Filosofia dello spirito, che si articola in quattro parti: Estetica come scienza dell ‘espressione e linguistica generale; Logica come scienza del concetto puro; Filosofia della pratica: economia ed etica; Teoria e storia della storiografia. Durante il fascismo, ritiratosi dalla vita politica, poté dedicarsi esclusivamente alla ricerca storica e filosofica. Fu il periodo più fecondo della sua vita: pubblicò numerose opere, per lo più dedicate a una più profonda elaborazione della dottrina della storia: La storia come pensiero e come azione (1938); Filosofia e storiografia (1949); Storiografia e irlealita morale (1950). Continuò a interessarsi anche di estetica: del resto già nel 1913 aveva pubblicato il famosissimo Breviario di estetica. Nel 1920 pubblicò i Nuovi saggi di estetica e nel 1935 gli Ultimi saggi. Nel 1948 fu eletto senatore a vita. Morì a Napoli il 20 novembre 1952.
LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO dei primi numeri de La criticaî Croce dichiarava «essere sua ferma convinzione che la filosofia non potesse progredire se non riattaccandosi in qualche modo allo Hegel», perché Hegel «era stato l'ultimo e insieme il principale rappresentante del movimento idealistico seguito alla critica kantiana la quale aveva bensì acquistato l'idea della sintesi a priori, ma aveva lasciato il capiti morluum della ragion pratica, fondamento di affermazioni teoretiche». ln
7-)
uno
Cf. La critica, n. 2, p. 262.
Il ritorno a
Hegel
557
Risalire perciò a Hegel, inteso come correttore del pensiero di Kant, risalirvi tenendo presente Yincessante progresso e sviluppo dello spirito umano: ecco, in poche parole, il programma che Croce si propose di svolgere con la sua attività. Hegel, come sappiamo, aveva insegnato che l'idea (il pensiero, la ragione, lo spirito) costituisce l'essenza della realtà e che questa non è altro che il complesso dei momenti del divenire dell'idea. Questa, infatti, per prendere piena coscienza di se’ ha bisogno prima di alienarsi, di costituirsi come oggetto e, poi, di recuperarsi nella sua originaria identità. Le fasi conclusive in cui l'idea prende piena coscienza di se stessa sono l'arte, la religione e la filosofia; nell'arte prende coscienza sotto forma di rappresentazione sensibile, nella religione sotto forma di un oggetto separato dalla sua essenziale relazione col soggetto, nella filosofia sotto forma di sapere assoluto. Della filosofia hegeliana Croce accoglie la tesi che la realtà è essenzialmente spirito e che questo è in perpetuo divenire, ma respinge la metafisica hegeliana dell'idea: sia le tre fasi del suo divenire (idea in se, idea extra se, e idea in se e per se) sia i tre momenti finali del ritorno all'idea (arte, religione e filosofia). Secondo Croce, questa visione cuspidale dello spirito rimane «troppo contaminata e viziata dal vecchiume teologico accademico della metafisica tradizionale». Al posto della visione cuspidale egli ne propone una circolare, in cui arte e religione non sono momenti preparatori della filosofia, ma attività dello spirito coesistenti in qualsiasi momento del suo sviluppo e in rapporto di reciproco influsso. Pertanto i punti essenziali della dottrina crociana dello spirito sono i ma
seguenti. Lo spirito, nella ricerca della sua piena autocoscienza, esercita quattro attività: estetica, logica, economica ed etica. Le prime due sono attività teoretiche (conoscitive), le altre due sono attività pratiche (cioè riguardano la volontà). Le attività estetica ed economica hanno per oggetto l'individuale; le
attività logica ed etica hanno per oggetto Funiversale. La legge che regola le singole attività dello spirito e la dialettica degli opposti, la quale si sviluppa come segue: nell’estetica i termini della dialettica sono il bello e il brutto; nella logica, il vero e il falso; nell'economia, Yutilee il dannoso; nell'etica, il bene e il male. Il rapporto fra le varie attività è regolato dal principio del «nesso dei distinti», Con questo principio Croce vuol significare anzitutto che ciascuna delle quattro attività è irriducibilee originaria. Ogni attività ha un suo proprio valore in quanto è espressione primaria e inconfondibile dello spirito. Ma con la legge del nesso egli vuole soprattutto dare espressione al fatto che le attività, pur essendo distinte, non sono separate né opposte: fra di loro esiste un nesso di implicazione reciproca, per
558
Parte terza
logica, l'etica e l'economia; l'etica richiama l'economia, la logica e l'estetica e così via. Nesso e distinzione non si contrappongono ma formano insieme l'u-
cui l'estetica richiama la
spirito. Il rapporto fra i diversi gradi è chiamato «circolarità dello spirito» per significare come i gradi si implicano e presuppongono a vicenda, senza annullarsi, come circoli concentrici, nei quali ogni punto suppone tutti gli altri. nità dello
UESTETICA Delle
quattro attività dello spirito quella che Croce ha analizzato più
gli aspetti e a più riprequella Della complessa e ricca dottrina crociana intorno a questo tema noi ci limiteremo a offrire una breve sintesi sui punti seguenti: definizione, acutamente ed efficacemente, studiandone tutti estetica. se, ‘e
Valore e autonomia dell'arte. Croce definisce l'arte intuizione lirica del particolare. Da questa definizione risulta che due sono gli elementi essenziali dell'arte: intuizione (conoscenza, rappresentazione, immagine) e liricità (sentimento, stato
d'animo).
L'arte è, anzitutto, intuizione, ossia contatto immediato con la realtà. L'arte «non classifica gli oggetti, non li pronunzia reali o immaginari, non li definisce: li sente e rappresenta. Niente di più. E, perciò, in quanto essa e contiscenza non astratta ma concreta, e tale che coglie il reale senza alterazioni e falsificazioni, l'arte è intuizione; e in quanto lo porge nella sua immediatezza, non ancora, cioè, mediato e rischiarato dal concetto, si deve dire intuizione pura: ecco l’arte».3 L'arte è poi anche sentimento, liricità. Per essere artistica una intuizione deve avere carattere lirico. L'immagine estetica dev'essere pertanto una sintesi di intuizione e sentimento. In questa sintesi il sentimento costituisce l'elemento materiale mentre l'immagine costituisce quello formale. Sentimento e immagine sono perciò un tutto inscindibile.L'arte non è materia più forma, O forma più materia, come se si trattasse di due elementi precostituiti che si congiungono l'uno all'altro con l'applicazione meccanica della forma o dell'intuizione al sentimento: l'arte è sintesi di materia e forma. Dell'arte si può ripetere quanto Kant diceva dei giudizi sintetici a priori: il sentimento senza l'immagine è cieco, e l'immagine senza il sentimento è vuota. «Senza qualcosa da intuire e da esprimere sarebbe mai il poeta? e sarebbe poeta, se ripetesse materialmente quel qualche cosa, senza trasfor-
3)
B.
CROLE, Nuovi saggi di estetica, Laterza, Bari 192D, p. 28.
Il ritorno a Hegel
marlo in intuizione pura? Nella
quale intuizione pura
C'è
e non
559
C'è la
materia; non c'è come materia bruta, c'e come materia formata, ossia come forma; cosicché a ragione si dice che (...) materia e forma, contenu-
forma, in arte fanno tutt’uno».4 Con la teoria dell’intuizione lirica, Croce risolve finalmente il famoso contrasto tra romanticismo, che chiede all'arte soprattutto Peffusione spontanea e violenta degli affetti, degli amori e degli odi, delle angosce e delle gioie, che tende insomma a far prevalere il sentimento e si accontenta di immagini Vaporose e indeterminate, e classicismo, che ama l'animo pacato, il disegno sapiente, le figure studiate nel loro carattere e precise nei loro contorni e tende verso la rappresentazione. Nella dottrina crociana del1’intuizione lirica l'arte è sintesi di tutti e due gli elementi: è sentimento che si è fatto tutto rappresentazione. Qui, però, bisogna stare attenti a non interpretare questa definizione erroneamente. Infatti, sebbene Croce parlando dell'arte spesso la chiami rappresentazione, non dobbiamo credere che egli concepisce l'opera d'arte come una pura e semplice rappresentazione degli stati d'animo dell'artista. Egli afferma anzi categoricamente che «espressione e parola (poetica) non sono già manifestazioni o rispecchiamento del sentire (espressione naturalistica) e nemmeno rimodellamento del sentire sopra un concetto (falsa idealizzazione), ma posizione e risoluzione di un pro— blema: un problema che il mero sentimento, la Vita immediata, non risolve e non pone. Quel che è vita e sentimento, merce l'espressione artistica, deve farsi verità; e verità vuol dire superamento dell’immediatezza della vita nella mediazione della fantasia, creazione di un fantasma che è quel sentimento collocato nelle sue relazioni, quella vita particolare collocata nella vita universale, e cosi innalzata a nuova vita non più passionale, ma teoretica, non più finita, ma infinita. Il sentimento, la volizione, l'azione, per nobiliche ne siano le scaturigini e la foce, assumono sempre la forma della particolarità, o, come si dice, della passione, e, in quanto tali, sono senza verità: e verità acquistano solo col farsi problemi di visione artistica, i quali problemi si risolvono con mentali costruzioni, che sono per l'appunto i fantasmi estetici». La conclusione è patente: «Come posizione e risoluzione dei problemi (fantastici o estetici), l'arte mm riproduce alcunché di esistente, ma produce sempre alcunché di nuovo, forma una nuova situazione spirituale e perciò non è mutazione ma creazione».5 Oltre questa definizione originale dell'arte, nella dottrina estetica crociana troviamo interessanti affermazioni sul valore e sull'autonomia di questa attività.
to
e
4) lbid, Lafilosvfirt della spirito. La logica, Laterza, Bari 1928, pp, 154-155. 5) 1D,, L'estetica, p. 8.
560
Parte terza
Quanto al essere
suo
valore, Croce afferma categoricamente che
pratico (né pedagogico
né
edonistico), e
non
può
neppure intellettualistico
(l'arte non va intesa come un insieme di verità facili e popolari, una semiscienza), ma teoretico, conoscitivo. L'arte, secondo Croce, è la manifestazione più semplice, più primitiva dello spirito teoretico.
«C0ll'arte l'uomo si schiude alla vita teoretica in una ingenua e meravigliata contemplazione della realtà, e in quella contemplazione si
sprofonda e
si
perde
tutto.
E, contemplando, crea le rappresentazioni
che contempla, e creando esprime, ed
esprimendo crea: visione, creazio-
di Visione ed espressione di visione è tutt'uno: è l'attività estetica>>fi Quanto all'autonomia dell'arte, Croce ne è uno dei più convinti assertori; tesi, questa, che nel suo sistema è pienamente giustificata, dato che l'attività estetica è una delle quattro fondamentali attività dello spirito, nessuna delle quali è riducibilealle altre. L'arte è autonoma; non è quindi soggetta né alla filosofia, né alla morale, né alla pratica. L'arte come arte ‘e amorale, cioè al di qua del bene e del male. «L'arte, per avere carattere d'arte, per essere vera arte, deve essere vera espressione. Espressione di che? Che volete che esprima l'artista se non le sue impressioni, i sentimenti che prova?».7 Per fare vera arte bisogna esprimere ciò che si ha in sé: chi lo esprime bene è un artista. Ma l'uomo e l'artista sono due cose distinte. Per essere artista basta esprimere bene i propri sentimenti, mentre l'uomo deve essere anche economico, morale e logico. Quindi, pur non essendo soggetto alla morale come artista, l'artista è soggetto alla morale come uomo. «Se l'arte è al di là della morale, non né di qua, né di là, ma sotto l'impero di lei l'artista in quanto uomo, che ai doveri dell'uomo non può sottrarsi, e l'arte stessa l'arte che non è e non sarà mai la morale deve considerare come una missione, esercitare come un sacerdoziow‘ ne
-
-
Lo STORICISMO L'elemento unificatore delle quattro attività dello spirito, secondo Croce, è la filosofia, però non la filosofia trascendentale (che oltrepassa i fatti) bensì la filosofia-storia, che egli chiama anche semplicemente “storia": «Quella che ha preso il posto della filosofiatrascendentale non è più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia:la filosofia-storia, che ha per suo principio Yidentità universale e individuale d'intelletto e dîntuizione, e dichia-
6) Ibid. 7) B. CROCE, Breviario di estetica, Laterza, Bari 1933, p. 49. 3) lbfd, p. 33.
Il ritorno a
Hcgcl
561
distacco dei due elementi, i quali realsolo»)? uno Questa identificazione della filosofia con la storia è una peculiarità introdotta nel pensiero contemporaneo dall'idealismo. Prima, in tutta la filosofia antica, medievale e moderna, sapere storico e sapere filosofico erano stati sempre mantenuti distinti: al primo era affidato lo studio della realtà contingente, temporale; al secondo quello della realtà assora
arbitrario e
illegittimo ogni
mente sono
luta, intemporale.
I due saperi vengono invece fatti coincidere da I-legel in seguito alla sua identificazione della realtà storica con la realtà assoluta. La tesi hegeliana è ripresa e perfezionata da Croce in molte sue opere, in particolare in La storia come pensiero e come azione. In quest'opera egli giustifica l'identificazionedi tutto il sapere con il sapere storico mediante il seguente argomento: «Il giudizio storico non è già un ordine di conoscenze, ma è la conosenz'altro, la forma che tutto riempie ed esaurisce il campo conoscitivo, non lasciando posto per altro. In effetti ogni concreto conoscere non può non essere, al pari del giudizio storico, legato alla vita, ossia all'azione, momento della sospensione o aspettazione di questa, rivolto a rimuovere, come si è detto, l'ostacolo che incontra quando non scorge chiara la situazione da cui essa dovrà prorompere nella sua determinatezza e particolarità. Un conoscere per il conoscere non solo, diversamente da quello che taluni immaginano, non ha punto delfaristocratico, né del sublime, esemplato come e in effetti sul passatempo idiota degli idioti, e dei momenti di idiozia che sono in ciascuno di noi, ma realmente non accade mai in quanto è intrinsecamente impossibile, venendogli meno con lo stimolo della pratica la materia stessa ed il fine del conosceremî" scenza
L'identificazione della filosofia con la storia porta il nome di storicismo. Di esso Croce dà la seguente definizione: «storicismo nell'uso scientifico della parola è l'affermazione che la vita e la realtà è storia e
nient’a|tro».11
Ma, posta questa identificazione della filosofia con la storia, quali
vengono a essere i compiti del filosofo? Ovviamente non potranno più essere quelli tradizionali di indagare le cause ultime della realtà temporale, dato che la storia è essa stessa I'Assoluto. Il suo ufficio non consisterà neppure nel ricercare una spiegazione per i singoli eventi, perché anche per questi non c'è nessuna giustificazioneal di là della loro realtà: presi in concreto, dichiara Croce,
9) B. CROCE, La storia conte‘ pensiero e coi-ne azione, Laterza, Bari 1954. 1°) lbid, pp. 19-20. 11) Ibzd, p. 53.
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Parte terza
«tutti i fatti sono assoluti», e non possono venire né giudicati né condannati. «Dio stesso (ossia le leggi della storia), se li ha voluti così, li ha approvati come razionali e conformi all'andamento del mondo». Perciò il compito che spetta al filosofo è soltanto quello di capire i fatti storici, di comprenderli mediante un giudizio logico (è così 0 non è così) e non mediante un giudizio di valore (è bene o è male). Come si Vede qui Croce riprende e fa sua la tesi hegeliana dell'assoluta razionalità della storia. Come il filosofo tedesco, egli sostiene che sia come azione vissuta, sia come conoscenza, la storia è sempre razionalità piena, progresso incessante. Quanto alla decadenza, essa si riferisce soltanto a determinate opere o ideali; «ma in senso assoluto in storia non c'è mai decadenza che non sia insieme formazione e preparazione di nuova Vita e, pertanto, pro-
gressomlî Né potrebbe essere diversamente perché il Vero soggetto della storia è sempre, in ultima analisi, lo spirito infinito. «La storia non è l'opera impotente e ad ogni istante interrotta dell’empirico ed ideale individuo, ma l'opera di quellîndividuo veramente reale che è lo spirito eternamente individuantesi. Perciò essa non ha avversario alcuno, ma ogni avversario è insieme suo suddito, vale a dire uno degli aspetti di quel dialettismo che costituisce il suo intimo esseremw Questa assolutizzazionedella storia, Vassolutizzazionedi questo fluire Costante degli eventi, impastati da una recondita razionalità, è il punto più debole di tutta la speculazione crociana. In tale concezione viene meno non solo la metafisica, ma la Vita stessa della filosofia, della quale non basta dire che vige ”un’idea antiquata" per codificarne la morte e la risurrezione come storiografia. «Con il Croce, l'idealismo, facendosi storicismo assoluto, si spegne filosofia; ciò ha implicanze metodologiche rilevantiperché ”crocianesimo” significò VÌVO senso delle questioni culturali all'atto stesso in cui segnò la fine del problema filosofico. l problemi della filosofia non hanno diritto di sussistenza come problemi autonomi e fondamentali; tanto meno legittimo pertanto l'accesso della filosofia alle questioni teologiche; sia pure speculativamente affrontate e risolte come in Hegel. Ciò, anche perché al Croce fu totalmente estranea la dimensione religiosa e dunque la necessità di giustificarla, come momento della viva esperienza dell'uomo: la religione non ha posto nelle forme della Vita dello spirito e quindi non offre spazio sufficiente al giudiziom“ come
12) una, p. 40. 13) Ibid, p. 148. 14) M. A. RASCHINI, 0p. cit, pp. 627-628.
Il ritorno a Hegel
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Giovanni Gentile VITA E
OPERE
Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano (Trapani) nel 1875. Compiu— ti gli studi alla Scuola Normale di Pisa, dove ebbe per maestro Phegeliano D. laja, insegnò poi nelle università di Palermo, Pisa e Roma, diventando, con Croce, il principale rappresentante della filosofia italiana. Di Croce fu, per un Ventennio, anche collaboratore nella redazione de La critica. Ma all'avvento del fascismo, le loro strade si divisero: Croce prese la via dell'opposizione, mentre Gentile aderì al regime. Egli vedeva nel fascismo un movimento atto a esprimere, sul piano dell'azione, il dinamismo della sua filosofia; accettò quindi di diventare un esponente
culturale del regime e contribuì a elaborarne la dottrina. Nel 1922 fu nominato ministro della Pubblica Istruzione e, nello stesso tempo, senatore del Regno. Nel 1923 varò la riforma della scuola che porta il suo nome, ispirata ai principi della formatività della educazione, della libertà d'insegnamento e della funzione essenziale della scuola nella vita dello Stato. Dotato di eccellenti capacità organizzative promosse molte iniziative culturali, fu direttore della Enciclopedia Italiana, un'opera vastissima e inforrnatissima, e fu anche presidente dell'Accademia d'italia. Si mantenne fedele al fascismo fino alla fine e, dopo la caduta del regime, aderì alla Repubblica Sociale di Salò. Fu ucciso dai partigiani a Firenze il 15 aprile 1944. Le sue opere più importanti sono: L'atto del pensare come atto puro (1912); La riforma della dialettica hegeliana (1913); Teoria generale della spirito come atto puro (1916); Sistema di logica (1917-1921); Genesi e struttura della società (1943); La mia religione (1943).
UATTUALISMO Già ne L'atto del pensare come atto puro (1912) Gentile esponeva il nucleo della dottrina che andò elaborando in tutte le opere teoretiche successive e che si configurerà, appunto, come attualismo. Esso si ispira alla visione idealista di Hegel e di Croce, pur avanzando delle riserve sulle loro teorie. Secondo Gentile, infatti, Fidealismo hegeliano e crociano sono difettosi, l'uno perché ammette una fase in cui l'idea è estranea a se stessa; l'altro perché privo di unità, in quanto scompone lo spirito in quattro attività radicalmente distinte. Per ovviare a questi due difetti, Gentile propone di concepire l'assoluto come alto puro. Di qui il nome di attualismo. Nell'atto puro, afferma Gentile, «l'idea si manifesta tutta spirito ed essenzialmente spirito (...). L'idea non ‘e avanti all'atto spirituale, ma è
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Parte terza
quesfatto». Nell'atto puro non v'è distinzione alcuna: né tra attività teoretica e attività pratica, né tra pensante e pensato. Lo spirito puro non può essere considerato come un pensante, ma deve essere considerato come
atto puro.
cose non sono altro che momenti di tale atto. Viste in relazione ad esso, sono l'atto puro stesso in un momento del suo generarsi; considerate in se stesse, sono delle astrazioni, dei pensati, degli oggetti. attuale che pone se stesso (autoctisi). Di fatto c'è solo il
Le
Credere che esista
pensiero
dato, il quale diventi termine di
conoscenza, pur restando in sé e per sé, nellbggettività che gli è propria, è come supporre che sia possibileun «conoscere davvero rimanendo, come si dice, alla superficie dell'oggetto che si vuol conoscere e considerandone soltanto le apparenze esteriori».15 Già con il saggio su L'atto del pensare come atto puro (1912), Gentile rilevava che la natura, ossia l'oggetto, non è altro che 10 stesso atto del pensare, «il pensiero che il pensiero comincia a pensare come altro da sé», In altri termini, anche ciò che noi comunemente crediamo indipendente dalla nostra facoltà del conoscere è il nostro conoscere stesso che, nell'atto del suo essere, riguarda sé come altro da sé, lo fa suo, lo identifica con se stesso in una unità che è alterità. La tesi dell'assoluta soggettività del reale è ribadita da Gentile nella sua opera maggiore, la Teoria generale della spirito come atto puro. Qui leggiamo sin dalla prima pagina: «La realtà non è pensabile se non in relazione con l'attività per cui ‘e pensabile; e in relazione con il quale non è solamente oggetto possibile, ma oggetto reale, attuale, di conoscenza». E più avanti: «Qualunque sforzo noi si faccia per pensare o immaginare altre cose o coscienze al di là della nostra coscienza, queste cose o coscienze rimangono dentro di essa perciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Questo "fuori" è sempre dentro. Niente c'è per noi senza che noi ci se ifaccorga, e cioè che si ammetta comunque definito (esterno o interno) dentro la sfera del nostro soggettowé Neppure lo spazio e il tempo sfuggono a questa legge: «Noi non siamo nello spazio e nel tempo; anzi lo spazio e il tempo, tutto ciò che si spiega spazialmente e succede a grado a grado nel tempo, è in noi: nell’io, che non è, beninteso, Yempirico, bensì il trascendentale. Lo spazio è attività; ed essere tutto ciò che è spaziale, nell’io, non significa altro se non che tutto ciò che è spaziale, è spaziale in virtù dell'attività dell'io, come dispiegamento attuale di questo io>>.17 un
15) G. GENTILE, Sommario di pedagogia, l, Bari 1926, pp. 3-4. 16) ID., Tetiriu generale della spirito come atto puro, Pisa 1918, 2“ ed., p. 29. 17) Ibid, p. 165.
Il ritorno a Hegel
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Perciò il conoscere, in cui coincidono realtà e spirito, è puro, cioè non misto di nulla che importi nel soggetto del conoscere l'intuizione di qualche cosa di estrinseco alla sua essenza; non ha fuori di sé il conosciuto: «Il conosciuto è l'atto stesso del conoscere: soggetto che è soggetto in quanto oggetto a se medesimo>>.18 «Non esiste che l'atto, atto presente, fuori del tempo, condizione anzi del tempo, che non è altro che l'attività temporalizzatrice dell'io (...). Il presente non è, né nell'individuo particolare né nella storia universale dello spirito, diviso dal passato per quellabisso che ordinariamente si immagina; (...) anzi è tutt'uno con esso, il passato essendo lo stesso presente nella sua intima sostanza, ed il presente lo stesso passato venuto, per così dire, a maturitàm”
Però la completa e perfetta soggettività della realtà nell'atto del pensarisolve il mondo in un puro e semplice blocco di pensiero, chiuso in se stesso, statico e immobile.L'io puro di Gentile non è l'Essere puro di Parmenide. L'io puro è essenzialmente atto e in quanto atto è in continua attività, in perpetuo divenire. L'io puro gentiliano rassomiglia piuttosto all’Uno dei neoplatonici, con la differenza, però, che questo nel suo divenire esce da se stesso, mentre quello rimane sempre dentro di sé. L'atto puro di Gentile, come l'idea di Hegel, svolge la sua attività secondo un processo triadico, che ha per momenti principali l'arte, la religione e la filosofia.
re non
ARTE, RELIGIONE E FILOSOFIA L'arte è il momento soggettivo, è la forma immediata dello spirito assoluto: «L'arte è coscienza di sé, pura, astratta autocoscienza che si dialettizza bensì (altrimenti non potrebbe realizzarsi), ma in se stessa, e astraendo dall’antitesi in cui si è realizzata; e quindi chiudendosi in un ideale che è sogno ma dentro di cui essa vive cibandosi di se medesima, o meglio creando un suo proprio mondomîflStabilito che l'arte è pensiero nel momento soggettivo, il pensiero preso nellîmmediatezza di sé a sé, Gentile rileva che «questa soggettività immediata, questa pura forma soggettiva di ogni pensiero, in cui l'arte consiste se si vuole chiamare con un nome del comune vocabolario, non può dirsi se non sentimento»? La religione è l’antitesi dell'arte, è il momento oggettivo: è l'esaltazione dell'oggetto come Dio, al quale il soggetto si sottomette, nel quale anzi misticamente tende ad annullarsi. L'antitesi tra arte e filosofia è così espressa da Gentile: «La religione può essere definita come Fantitesi dell'arte. Questa, esaltazione del soggetto, sottratto ai vincoli del reale, in
l“) G. GENTILE, Sistema di logica, 1, Bari 1926, p. 152. 19) 1D,, La riforma dell'educazione, Bari 1930, p. 131. 1°) 1D,, Teoria”, cit., XIV, 5. l‘) 1D,, Lafilosnfia dell'arte, Firenze 1950, 2“ ed., p. 166.
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cui il soggetto positivamente si pone; quella, esaltazione dell'oggetto, sottratto ai vincoli dello spirito, in cui consiste Yidealìtà, la conoscibilità e la razionalità dell'oggetto stesso».22 Diversamente da Croce, il quale aveva ignorato completamente la religione parlando delle attività dello spirito, Gentile le assegna un ruolo fondamentale e mette in luce la necessità di non lasciarla da parte nel concreto sviluppo dello spirito, ossia durante il processo educativo. Coerente con questi principi, divenuto ministro della Pubblica Istruzione, Gentile condusse un’attiva campa-
gna contro la scuola cosiddetta laica ed esaltò l'importanza de1l’insegna— mento religioso, insieme con quello artistico e filosofico, per la completa formazione dello spirito individuale. La filosofia costituisce l'assoluto nella coincidenza del momento soggettivo con lkiggettivo, riconoscendo l'assoluto nell'atto che pone se stesso attraverso una dialettica eterna. Questa sintesi tra arte e religione nella filosofia si realizza nella storia: «La storia si ricostruisce infatti riportando così la religione come l'arte nella storia universale dello svolgimento dialettico dello spirito, in cui arte e religione sono posizioni spirituali, concetti della realtà, e quindi essenzialmente storia della filosofia»23 Questa concezione della filosofia come sintesi degli opposti (arte e religione) è uno dei punti in cui Gentile si allontana maggiormente da Croce. Anche per quest'ultimo, come sappiamo, lo spirito era in movimento continuo attraverso le sue forme, ma tra queste forme non vi era una «dialettica degli opposti», bensì una dialettica circolare dei distinti, ciascuna forma avendo la capacità di concentrare in sé l'intero spirito. In tal modo, però, Croce non era riuscito a dare espressione adeguata all'unità dello spirito assoluto. Questo obiettivo è invece raggiunto da Gentile mediante l’applicazione della dialettica degli opposti alle tre attività supreme dello spirito. Arte e religione, antitetiche, pongono, a livello delle loro antitesi, un aut-aut: o il soggetto infinito o l'oggetto infinito, con esclusione reciproca. La conciliazionedegli opposti è data dalla filosofia intesa non storicamente ma come pienezza concreta dello spirito, il quale proprio nella filosofia trova la sua forma propria e conclusiva. La filosofia «in vero non è quella postuma contemplazione della realtà, che da Aristotele a Hegel si ritenne. Non c'è prima il mondo e poi il pensiero (...). L'uomo è uomo in quanto filosofo; e il mondo di cui l’uomo parla, in cui vive, di cui si dà pensiero, è il suo mondo, il mondo del pensiero, che non ci sarebbe senza il suo pensiero».24 Vale per la filosofia il concetto di perennità (philosophiaperenrzis), ma nel senso che perenne è sempre questa filosofia che si attua col valore di filosofia, non accanto o dopo la precedente, ma che non si dà fuori dell'attualità dello spirito, cioè fuori
22) lD., Teoria”, cit., XIV, 7. 23) ma, XIV, 9. 24) Sistema di logica, cit., Il, p. 252.
g
Il ritorno a Hegel
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dell’Autoconcetto, e dunque fuori della coscienza storica che essa ha del proprio sviluppo. Nulla vi è che trascenda la filosofia così intesa: nemmeno il suo concetto o definizione, poiché il concetto di filosofia coincide con la filosofia stessa: definibile in astratto, "in concreto bisogna farla". Filosofare è perciò il contrario di definire, perché è risolvere il concetto nell’autoconcetto, ossia
co
del
pensiero: «pensarla
ricondurre la realtà al processo dialettisenza residuo, che arresti il pensiero stesso
dialettismo». Perciò: «soltanto nella filosofia è l'intelligenza di l'intelligenza della filosofia, la quale è soggetto e oggetto di se stessa, e perciò stesso porta in se’ la coincidenza di sé come filosofare e come metodo di filosofare: il metodo del filosofare non altro essendo che 1o stesso pensare, intrascendibilea se stesso.25 Gentile sentì quasi religiosamente il carattere originario e il Valore assoluto del pensiero attraverso la teorizzazione della infinità del pensiero in atto: tanto che in alcuni scritti (Di una nuova dimostrazionedell'esistenza di Dio, 1932; La mia religione, 1943) giunse a sostenere la religiosità della sua filosofia, e addirittura l'accordo di essa col cristianesimo e col cattolicesimo; ma il principio di identità tra finito e infinito gli ribadisce l'impossibilitàdi quel superamento dell’immanenza che è indispensabile per ogni pensiero religioso. Né, del resto, egli volle rinunciare al principio di immanenza, riservandosi, se mai, di interpretare secondo quest'ultimo la stessa religione cristiana. Molte e gravi le accuse che sono state mosse al pensiero di Gentile. Fu accusato di misticismo e di ateismo, di ostilità alla scienza e allo stesso tempo di positivismo, di teologismo e di panteismo. Ma più che le accuse valgono le critiche alle quali internamente si presta Vattualismo. ln effetti il punto debole di tutto il sistema sta nella concezione attualistica del pensiero. In siffatta concezione il pensiero non è solo un'operazione immanente, ma è una operazione priva di qualsiasi intenzionalità. Ora, come già insegnavano gli Scolastici e come è stato ribadito da Brentano e da Husserl, il pensiero è sempre un'attività intenzionale, e quindi volta a un oggetto; e ciò che arricchisce il pensiero non è la sua autoctisi, ma l'oggetto che esso ospita. Come ha osservato Del Noce, l'errore fondamentale di Gentile consiste nella ipostatizzazione del pensiero. Ora, non esiste un pensiero che pensa se stesso, ma una persona che pensa, e quando pensa può pensare sia se stesso sia delle realtà distinte dasé. Inoltre l'uomo che pensa è un essere fatto di anima e di corpo, di spirito e di carne, e pertanto il suo pensiero conserva una connessione necessaria con il mondo della sensibilità, quel mondo che Gentile mostra di ignorare totalmente26 nel
suo
tutto», compresa
25) 36)
Cf. ibiaL, c. V, 7-9. Cf. A. DEL NOCE, Giovanni Gentile, Bologna 1990.
568
Parte terza
Suggerimenti bibliografici CROCE Edizioni: Gli scritti di Croce
sono
stati pubblicati da Laterza, Bari.
Stadi: M. ABBATE, La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana, Einaudi, Torino 1955; C. AN’1‘ONI, Commento a Croce, Neri Pozzo, Venezia 1955; A. BAusoLA, Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Vita e Pensiero, Milano 1966; F. CARACCIOLO, L'estetica e la religione di Benedetto Croce, Paldeia, Arona 1958; A. CIAKDO, L'infinito e la storia in Benedetto Croce, Napoli 1990; E. CIONE, Benedetto Croce e il pensiero conteniporaneo, Einaudi, Torino 1963; V. CLODOMIRO, Benedetto Croce e la politica scolastica dal dopoguerra al fascismo, Landi, Arezzo 1981; M. CORSI, Le origini del pensiero di Benedetto Croce, Giannini, Napoli 1974; l. DE FEO, Croce, l ’nonzo e l'opera, Mondadori, Milano 1975; L. DONDOLI, Benedetto Croce, intuizione, conoscenza storica e panteisnro etico, Roma 1984; D. FAUCCI, Storicismo e metafisica nel pensiero di Benedetto Croce, La Nuova Italia, Firenze 1950; G. GALAssO, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990; A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Editori Riuniti, Roma 1971; A. HERVÉ CAVALLERA, Attività educativa e teoria pedagogica in Benedetto Croce, Magistero, Bologna 1980; A. IANNAZZO, Croce e il comunismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1982; M. MAGGI, La logica di Croce, Napoli 1994; A. G. MANNO, Oltre Benedetto Croce, Napoli 1992; F. NICOLINI, Benedetto Croce, UTET, Torino 1962; F. OLGIATI, Benedetto Croce e lo storicismo, Vita e Pensiero, Milano 1953; N. PETRUZZELLlS, Il problema della storia nellîdealisnzo moderno, Sansoni, Firenze 1940; V. SAINATI, L'estetica crociana nel suo interiore svolgimento, Le Monnier, Firenze 1953; V. STELLA, Il giudizio su Croce, Trimestre, Pescara 1971 ; V. VETIORI, Benedetto Croce e il rinnovamento della cultura cristiana, Armando, Roma 1970; V. VITIELLO, Storiografia e storia nel pensiero di Benedetto Croce, Morano, Napoli 1968; ID., Croce trent'anni dopo, Laterza, Bari 1983.
GENTILE Edizioni: Opere complete, a cura della fondazione Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze, in 55 volumi. Studi: AA. VV., La vita e il pensiero di Giovanni Gentile, 12 voll., Sansoni,
Firenze 1948-1967; V. AGOSTI, Filosofia e religione nellattaalisnzo gentiliano, Paideia, Brescia 1977; L. AMBROSOLI, Libertà e religione nella riforma Gentile, Vallecchi, Firenze 1980; V. A. BELLEZZA, Lesistenzialismo positivo di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1954; M. CICALESE, La fornzazione nel pensiero politico di Giovanni Gentile, Marzorati, Milano 1973; A. DEL NOCE,
l l ritorno a
Hegel
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Giovanni Gentile, Bologna 1990,- A. Lo SCHIAVO, Introduzione a Gentile, Laterza, Bari 1974; ID., La filosofia politica di Giovanni Gentile, Armando, Roma 1971; A. NEGRI, Giovanni Gentile, Genova 1992; ID., Lînquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Firenze 1992; N. NICOLINI, Croce, Gentile e altri studi, Sansonì, Firenze 1973; U. SPIRITO, Note sul pensiero di Giovanni
Gentile, Sansoni, Firenze 1954.
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FENOMENOLOGIA E METAFISICA
L'ultima modernità, come sappiamo, ha fatto terra bruciata intorno alla metafisica. Il suo posto e stato preso dalle filosofie della vita, dell'azione, della storia, dei valori, dall'idealismo, dal pragmatismo, dal marxismo ecc., che sono quasi tutte filosofie incompatibilicon il discorso metafisico. Accanto a questi sistemi filosofici nel Novecento hanno fatto il loro ingresso due nuovi metodi di fare filosofia:il metodo fenomenologico e il metodo dell'analisi del linguaggio. Il primo si propone una lettura accurata dei fenomeni per cogliere il loro senso profondo; l'altro cerca di fornire validi criteri per l'uso del linguaggio. Trattandosi di metodi e non di sistemi è legittimo chiedersi se e in quale misura essi potranno venire utilizzati anche dalla metafisica. Questa questione è stata fortemente dibattuta, e gli esiti sono stati e sono tuttora piuttosto contrastanti: c'è chi li contrappone alla metafisica, mentre altri sostengono che sia la fenomenologia sia l'analisi linguistica possono essere delle buone alleate della metafisica. Nel presente capitolo esamineremo i rapporti tra fenomenologia e metafisica così come sono stati intesi da Husserl, Edith Stein e Heidegger; mentre nell'ultimo capitolo ci occuperemo dei rapporti tra analisi linguistica e metafisica così come sono stati interpretati da alcuni esponenti del neopositivismo e dagli analisti del linguaggio.
Edmund Husserl VITA E
OPERE
Edmund Husserl nacque a Prossnitz, nella Moravia (Cecoslovacchia), aprile i859, da una famiglia israelita, e si formò in ambiente culturale luterano. Dopo essersi laureato in scienze matematiche a Berlino nel T884, si trasferì per alcuni anni a Vienna, dove seguì i corsi di filosofia del filosofo tedesco Franz Brentano (1838-1917) che aveva da tempo abbandonato l'Ordine dei Domenicani. Per consiglio dello stesso filosofo, di cui era divenuto fedele discepolo, pubblicò nel 1891 l'opera Filosofia dellîzritmetica. Brentano, infatti, a seguito della sua formazione nell’Ordine dei Domenicani, aveva acquisito il solidissimo patrimonio filosofico-teologicodella tradizione scolastica, con particolare riferimenl'8
Fenomenologia e metafisica
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alla nozione di intenzionalità, come caratteristica propria della coscienza umana («la Coscienza è sempre coscienza di qualche Cosa»). Tuttavia Husserl eredita tale nozione come contenuto teoretico proprio del suo maestro, dimostrando di ignorare la matrice originaria e contribuendo, in tal modo, seppure involontariamente, a emarginare le elaborazioni fondamentali del pensiero medievale dai successivi sviluppi della to
filosofia moderna e contemporanea. I-Iusserl insegnò filosofia prima all'università di Gottinga e poi, dal 1916, a quella di Friburgo, in Brisgovia, sino all'avvento del nazismo. La prima opera che lo fece conoscere fu Ricerche logiche, in due volumi, pubblicata nel 1900 e 1901. Un'altra opera importante, in cui ebbe completa espressione la sua posizione filosofica fu Idee per una fenomenologia para e una filosofiafenomenologico, di cui la prima parte apparve nel 1913, mentre le altre due parti furono pubblicate postume nel 1952. Con l'avvento del nazismo, essendo ebreo, dovette rinunciare all'insegnamento in Germania e pote’ proseguire il suo lavoro fenomenologico con una serie di conferenze a Vienna e a Praga. Da queste elaborò la sua ultima grande opera: La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale che rimase incompiuta per la sua morte, avvenuta nel 1938, e fu pubblicata postuma nel 1950. I numerosi manoscritti non pubblicati prima della sua morte e salvati dalla distruzione dei nazisti furono pubblicati a cura degli «Archivi Husserl»: Idea della fenomenologia (1950); Filosofia prima (1956); Psicologiafenomenologico (1962); Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1966) e Analisi delle sintesi passive, apparsa nello stesso anno. L'opera di Husserl, che ne decretò l'ingresso incontestato nel vivo della cultura contemporanea, fu La crisi delle scienze europee. Essa rappresenta l'espressione matura e articolata del pensiero del filosofo, e la sintesi completa sia della sua interpretazione del pensiero occidentale sia della sua fondazione fenomenologica come rinnovato atteggiamento filosofico e nuova possibilità di dare significato teoretico e morale al sapere scientifico. La traduzione italiana dell'opera, curata da Enzo Paci, ha rappresentato una svolta decisiva della ricerca filosofica italiana sia in campo agnostico che in campo cattolico. LA FENOMENOLOGIA COME NUOVO "PREAMBOLO" DELLA METAFISICA Diversamente dalla metafisica classica e medievale, che davano per e quindi subordinavano la questione gnola filosofia moderna rovescia i rapalla metafisica, esplorazione seologica metafisica tra e gnoseologia e, praticamente, subordina la metafisica porti alla gnoseologia, la quale diviene un preambolo essenziale della metafisica. Questo rovesciamento dei rapporti tra metafisica e gnoseologia Conduce al primato del soggetto sull'oggetto, del Cogito sull'essere, della certa la conoscibilitàdell'essere
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Parte terza
soggettività sulla realtà. Sotto il segno di questa ”rivoluzione copernicana" hanno operato praticamente tutti i filosofi moderni: da Cartesio a I-Iume, da Kant a Hegel, da Rosmini a Comte, da Dilthey a Bergson, da Croce a Gentile, i quali, tuttavia, come sappiamo, hanno dato interpretazioni molto diverse, talvolta opposte, del fenomeno della conoscenza, con conseguenze quasi sempre molto negative per la metafisica. E sul problema centrale della modernità, il problema gnoseologico, ossia il problema della conoscenza e della coscienza che si inserisce la speculazione di Husserl, il quale scende in campo con propositi decisamente innovatori, mirati a far uscire la filosofia da quellfinzpasse in cui si era trovata nell'epoca moderna. Tale e l'intento della sua ferzonzenologia. In un modo o nell'altro tutta la filosofia moderna privilegiando il soggetto nei confronti dell’oggetto era incappata nella trappola dello psicologisnxo, il quale affermava che le leggi logiche non sono altro che espressioni della struttura mentale dell'uomo, della sua struttura psichica. Il principio di non-contraddizione, per es., le leggi del sillogismo, non sarebbero altro che espressioni del nostro modo di vedere le cose. Nei Prolegonzeni a una logica pura, Husserl si propone di eliminare questa nefasta dottrina, contro la quale rivolge due argomenti. Il primo è che le leggi logiche sono rigorosamente necessarie e uni-
versali; ora, se esse fossero espressione della nostra struttura psichica, se
dipendessero da leggi psicologiche, esse sarebbero proposizioni induzione, generalizzazioni di esperienze, come sono le leggi psicologiche. L'argomento si fonda dunque sulla differenza specifica fra proposizioni tali che il negarle implichi contraddizione e generalizzazionidi esperienze. Il secondo argomento è che lo psicologismo si contraddice, perché pretende di dire qualcosa di oggettivamente valido, pretende cioe di dire come stanno le cose (sia pure quell’unica cosa che sarebbe la psiche umana) adoperando una teoria secondo la quale noi non esprimeremmo mai come stanno le cose, ma solo il modo di reagire della nostra psiche. Le leggi logiche non esprimono dunque modi di comportamento, per dir così, della specie umana, ma esprimono relazioni tra oggetti ideali. «l fatti di coscienza sono singolarità reali, temporalmente determinati che sorgono e scompaiono. Ma la verità è ”eterna” o piuttosto: e una idea, e come tale sovratemporale (...). Non apprendiamo la verità come un contenuto empirico che emerge nel flusso degli stati psichici e poi scompare; essa non è un fenomeno tra fenomeni; è vissuta in quel senso totalmente diverso in cui è vissuto un universale, un'idea. cioè
ottenute per
Ne abbiamo coscienza
come
specie, per es., del rossom‘ Ì)
E. HLSSERL, Logischc’
abbiamo coscienza in universale di
Llnfersitc/izzngciz.Pirolcganieua, n. 39.
una
Fenomenologia e metafisica
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La critica dello psicoiogismo costituisce solamente la pars destruens. Occorreva completarla con una pars eostruerzs, elaborando una nuova spiegazione del fenomeno conoscitivo. E quanto Husserl fa in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologico e in La filosofia come
scienza rigorosa.
fenomenologia ha per motto 2M dei? Sachen selbst: ottenere cioè una conoscenza effettiva delle cose. Ciò è possibile soltanto se la conoscenza non viene viziata né dalla mutevolezza degli oggetti né dalla debolezza La
del soggetto. Ora, questo comporta anzitutto un determinato stato della Coscienza: essa deve trovarsi allo stato puro; quindi non la Coscienza di questo o quel soggetto, di questo o quellindividuo. Inoltre si richiede una particolare condizione nell'oggetto: non si può trattare di oggetti mondani sempre mutevoli, Vale a dire gli oggetti della fisica, ma di oggetti anch'essi allo stato puro, vale a dire le essenze. Un terzo elemento fondamentale per una fenomenologia pu m è che la coscienza sia perfettamente a disposizionedell'oggetto: tale disponibilitàsi chiama inteizzionizlitii. «Eccoci
quindi di fronte a una scienza (la cui grande estensione non è
oggi nemmeno avvertita) che, per essere scienza della coscienza non ‘e già psicologia; essa e "fenomenologia della coscienza", cui sta di contro la scienza naturale della coscienza. Non c'è qui solo un casuale equivoco; bisogna fin da ora aspettarsi che fenomenologia e psicologia stiano fra loro in intima relazione, poiché ambedue hanno a che fare con la coscienza, seppure in modo diverso e sotto atteggiamenti diversi. Possiamo dire qui che la psicologia tratta della "coscienza empirica", della coscienza sotto l'atteggiamento empirico, come qualcosa che esiste nella connessione naturale; la fenomenologia, invece, tratta della coscienza pura, quale risulta dall'atteggiamento fenomenologico»?
Per "fenomeno" Husserl intende tutto ciò che in qualsiasi modo si rende manifesto alla coscienza: «ogni intuizione che presenta originariamente qualche cosa che è di diritto fonte di conoscenza; tutto ciò che si offre a noi originariamente nellîntuizione (che ci si offre, i.n carne ed ossa) dev'essere assunto così come si offre, ma anche soltanto nei limiti in cui si offre») Pertanto la fenomenologia, per Husserl, non è né lo studio del fenomeno inteso come sintesi a priori, di kantiana memoria, e neppure l'itinerario della coscienza naturale al sapere assoluto cli cui parlava Hegel, bensì lo studio di ciò che effettivamente si manifesta. La fenomenologia si preoccupa di studiare l'oggetto quale si manifesta nella sua effettiva realtà, assolutamente pura, libera da qualsiasi scoria. Nella fenomenolo-
2) ID., La filosofia come scienza rigorosa, a cura di F. Costa, Torino 1958, p. 25. 3) ID., Ideen, l, 5 244
574
Parte terza
gia, la quale a fondamento della indagine filosofica non pone nulla di gratuito, nulla di arbitrario, ma solamente l'esperienza nella sua assoluta oggettività, Husserl ritiene di aver trovato un metodo che oltrepassa i presupposti naturalistici dei metodi di Aristotele e di Cartesio, un metodo capace, perciò, di (iffrire un solido fondamento alla scienza. [fintenzionalitìz Il pilastro su cui sì regge tutta la fenomenologia husserliana è la "teoria" della intenzionalità. «Uintenzionalità scrive l-lusserl e ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnantew Che la conoscenza abbia carattere intenzionale, Vale a dire che essa si -
-
riferisca sempre a un oggetto, era dottrina comune degli Scolastici, ma poi fu totalmente disattesa dai moderni. La sua riscoperta spetta a Brentano, il maestro di Husserl, il quale non si stanca mai di riconoscergli questo grande merito. Ecco un testo molto significativo su questo argomento: «Nella percezione viene percepito qualcosa, nella rappresentazione immaginativa qualcosa Viene rappresentato in immagine, nella enunciazione qualcosa viene enunciato, nell'amore qualcosa viene amato, nel desiderio qualcosa viene desiderato, ecc. Brentano pensa a ciò che si può cogliere di comune in questi esempi, quando dice: "Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli Scolastici nel medioevo hanno chiamato iii-esistenza intenzionale (o anche mentale) di un oggetto, e che noi chiameremmo, non senza qualche ambiguità, riferi-
mento a un contenuto, direzione Verso un oggetto (e ciò non vuol dire che si tratti di una realtà) oppure oggettualità immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, benché non sempre in egual modo" Il riferimento intenzionale, inteso in sede puramente descrittiva come peculiarità interna di certi vissuti, rappresenta per noi la determinazione essenziale dei ‘Tenomeni psichici" o degli ”atti”, cosicché consideriamo la definizione di Brentano, secondo cui essi sono "fenomenici che contengono in sé intenzionalmente un oggetto” come una definizione essenziale, la cui ”realtà" è naturalmente assicurata dagli esempi. In altri termini, e al tempo stesso in una formulazione puramente fenomenologica: l'ideazione effettuata sui casi particolari esemplificativi di tali vissuti ed effettuata in modo tale da escludere qualsiasi posizione esistenziale e qualsiasi interpretazione empirico-psicologica, tenendo conto solo dello statuto fenomenologico reale di questi vissuti ci presenta l'idea generica, puramente fenomenologica, di vissuto intenzionale o atto, nonché le sue specificazioni pure».5 -
-
i)
i)
Ihid. E. HussEKL, Ricerche logiche,
a cura
di G. Piana, vol. il, Milano 1968, pp. 158-160.
Fenomenologia e metafisica
575
Il riferimento a un oggetto che è proprio di tutti gli stati di coscienza (Erlebnis) non determina però in alcun modo la natura dell'oggetto stesso: se esso sia cioè un oggetto extramentale (reale) o un oggetto puramente mentale (immaginario). lfintenzionalità dice semplicemente che c'è un intenzionante e un intenzionato e che Yintenzionante è la coscienza e
Yintenzionato il suo oggetto.
«L'oggetto della rappresentazione, dell'intenzione non è altro e non significa altro che l'oggetto rappresentato, intenzionale. Se mi rappresento dio o un angelo, un essere intelligibilein sé, una cosa fisica 0 un quadrato rotondo ecc. questo oggetto trascendente, così denominato, viene appunto inteso, e quindi esso è (usando solo un altro termine) un
oggetto intenzionale; ed e allora indifferente che esso esista
esista, che sia fittizio o assurdomfi"
o non
Pertanto come risulta anche dall'ultimo testo citato il rilievo del carattere intenzionale della conoscenza non è un'affermazione di realismo nel così detto problema della conoscenza; non è cioè l'affermazione che esiste fuori di me una cosa; la questione del realismo o dell'idealism0 resta affatto impregiudicata dal rilievo del carattere intenzionale della -
conoscenza:
anche se
mio modo di essere,
che elimina alcuni
—
l'oggetto conosciuto è immaginario, esso non è un
ma
rimane pur sempre
un
oggetto. Rilievo questo
pseudo-problemi, quelio di come si fa a passare dalla coscienza alla realtà, poiché la coscienza è sempre presenza intenzionale di qualche cosa. Si tratterà di vedere di quale cosa, ma questo riguarda la concezione della realtà, non la teoria della conoscenza. come
L'intuizionedelle essenze Nel capitolo fondamentale con cui si apre l'opera Idee per una fenomeno-
logia pura, intitolato ”Fatti e essenze” Husserl spiega come si forma nella coscienza la percezione dei vari oggetti. Egli distingue anzitutto due generi di oggetti: particolari o fatti, universali o essenze: sia i primi sia i secondi sono colti intuitivamente, mediante una Anschauung. C'è pertanto una intuizione empirica, che è l'intuizione dell'individuo, e c'è un'intaizi0ne dell'essenza ( Wesens-Schauun g), che è l'intuizionedellkidos o ideazione? Ma come avviene il passaggio dalla intuizione empirica del particolare, del fatto, allintuizione universale, delle essenze? Qui gli Scolastici, e prima di loro Aristotele facevano intervenire l'azione dell'intelletto agente che mediante l'operazione dell'astrazione ricava Yuniversale, l'idea, dal particolare. Husserl ignora questa celebre teoria e dice semplicemente e
7)
categoricamente:
lbid, p. 209. Cf. ldeen, l, 2-3.
576
Parte terza
«Una intuizione fiìflplrlCfl 0 individuale può essere trasformata in intuizione dell'essenza (ideazione), dove questa stessa possibilità è da intendere come essenziale, e non empirica. L'elemento intuito consisterà quindi nella corrispondente essenza pura o eìdos, che può essere tanto una
categoria superiore quanto una sua particolarizzazione, discetndendo grado della piena concrezione. Questa visione che ci offre, talora originariamente, l'essenza, può essere adeguata, come ad esempio possiamo facilmente procurarcela della essenza del suono; ma può anche essere più o meno imperfetta, inadeguata, e ciò non soltanto riguardo alla sua maggiore o minore chiarezza e distinzione (... ). Ma, adeguata o no, l'intuizioneindividuale può essere trasformata in visione dell'essenza, e quest'ultima, che sarà corrispondentemente adeguata o non adeguata, ha il carattere di un atto offerente. Da ciò risulta: l'essenza (eidos) e un oggetto di nuova specie. Come il dato della intuizione individuale o empirica è un oggetto individuale, così il
fino al
dato della intuizione essenziale è una essenza pura. Non si tratta di un'analogia posteriore, ma di radicale affinità. Anche l'intuizione dell'essenza è appunto intuizione, come l'oggetto eidetico è appunto oggetto. La generalizzazionedei concetti correlativi ”intuizione” e "oggetto" non è arbitraria, ma richiesta necessariamente dalla natura delle cosem”
Sulla divisione degli oggetti della Coscienza in individuali e universali (essenze) I-Iusserl fonda la distinzione tra scienze naturali e scienze pure (logica pura, matematica pura, teoria pura dello spazio e del tempo ecc.) Tra le scienze naturali egli include la psicologia, tra le scienze pure delle essenze egli colloca la fenomenologia: «La fenomenologia pura o trascendentale non è una scienza che si riferisce a dei fatti ma a delle essenze (è una scienza eidetica); essa si propone soltanto di stabilire delle "conoscenze di essenza" e assolzitanzente mai dei "fatti ”».9 I-lusserl distingue essenze materiali o regionali ed essenze formali. Essenze formali sono quelle che si realizzano in un oggetto sperimentale, come il colore o l'estensione (ma anche il sentimento, che è oggetto di esperienza interna); essenze formali sono quelle riferentisi all'oggetto in generale. Husserl fa questi esempi: cosa, proprietà, relazione, insieme. La regione è il genere supremo di un certo tipo di oggetti, di un certo tipo di essenze materiali. Husserl dice: «Ogni oggetto empirico concreto si inserisce con la sua essenza materiale in un supremo genere, in una ”regione” di oggetti empiriciwtl In corrispondenza con questi due tipi di essenze ci sono due tipi di ontologia: Pontologìa formale che lHusserl identifica con la logica e le ontologie regionali.
F) lbirl, g 3. 9) lbid, lntroduz.
l“) lliiel, g 9.
Fenomenologia e nzetafisica
577
ljepoché Fin qui la fenomenologia husserliana della conoscenza dice cose molto generiche che potrebbero essere condivise praticamente da tutti: sia dai realisti come dagli empiristi, sia dai criticisti come dagli idealisti. Ma anche I-Iusserl come tutti i grandi filosofi, ha una intuizione geniale, che gli consente di tiperare la sua ”rivoluzione copernicana”: è il concetto di epoche; questo gli consente di elaborare non soltanto una nuova dottrina della conoscenza ma un nuovo sistema filosofico,una filosofiafenomenologrica. Per gli Scolastici Yoggetto della intenzionalità conoscitiva era la realtà, non qualche modificazione del soggetto conoscente (la species intellectualis): sensazioni e idee sono semplicemente i mezzi trasparenti con cui la mente coglie la realtà (fosse pure una realtà immaginaria). Husserl riconosce che questa teoria corrisponde allkitteggianzento naturalistico, ma a suo giudizio questo è un atteggiamento ingenuo e non vincolante, e che va messo "tra parentesi” (epoche vuol dire proprio questo), come tanti altri pregiudizi. Scrive Husserl: senz'altro le cose della natura: la realtà nel senso è senz'altro la realtà in generale, e quell'atto originariamente offerente che abitualmente, nella scienza moderna, diciamo ”esperienza" si riferisce soltanto alla realtà della natura. Compiere tali identificazioni e trattarle come nozioni ovvie, significa chiudere gli occhi dinanzi a distinzioni che si presentano nella visione più chiara (...). La scienza genuina e l'assenza di pregiudizi che le è propria esigono, come fondamento di tutte le prove dei giudizi immediatamente validi, che traggono direttamente la loro validità da intuizioni originalmente offerentimîl «Le
cose non sono
usuale
non
Qui Husserl si affretta a chiarire che la sua epoche non ha nulla a che vedere con il dubbio metodico di Cartesio, perché anche questo fa parte di una posizione naturalistica, poiché il dubbio verte sulla verità della propria conoscenza delle cose. Ora, precisa Husserl, «noi
prescindiamo da questo; non ci interessa ogni analitica compoquel tentativo di dubbio, e nemmeno la sua analisi esatta ed
nente di
esauriente. Noi
ne
ricaviamo soltanto il fenomeno della ”messa in
parentesi”, che evidentemente non è legato al fenomeno del tentativo di dubbio, sebbene ne possa essere facilmente ricavato, ma che piuttosto si può presentare anche in altre connessioni non meno che da solo. Riguardo a ogni tesi noi possiamo esercitare in piena libertà questa caratteristica epoche, una Certa sospensione di giudizio, che è compatibilecon i ‘indiscussa e magari indiscutibileed evidente, convinzione della verità. La tesi viene posta "fuori azione", messa in ”parentesi”».l2 u) 121111530. 12) Haiti, 5 31.
578
Parte terza
parentesi", l'epatite non è né una negazione né una affermazione, ma semplicemente la sospensione di qualsiasi giudizio. Ora, ciò su cui Husserl intende sospendere programmaticamente qualsiasi giudizio è l'esistenza del ”mondo della vita quotidiana", di La ”messa in
quel mondo in cui credo di vivere, un mondo fatto di Cose con un determinato valore per me, di cose con un significato pratico, cose da usare e da manipolare. l] filosofo qua ialis deve ”mettere fra parentesi" queste certezze, deve metterle fuori uso, quindi non servirsene come punto di partenza del suo filosofare. Dal mondo delle cose Husserl intende ritirarsi al mondo della Coscienza e delle sue idee. La sua epoche‘ consiste precisamente in questa riduzione__fermmen0l0gica. Ecco un passo in cui I-Iusserl spiega lucidamente in che cosa consiste Tepoflîéî
«Così attuo Yepochrî fenomenologica, la quale, dunque, €0 ipso, mi vieta qualsiasi presa di posizione predicativa, qualsiasi giudizio, nei confronti dell'essere e dell'essere-così e di tutte le modalità d'essere dell'esistenza spazio-temporale del ”reale". Così io neutralizzo tutte le scienze riferentisi al mondo naturale, e per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi di accusarle di alcun che, non ne faccio assolutamente uso. Non mi approprio di nemmeno una delle loro proposizioni, anche se sono di perfetta evidenza, non ne assumo nessuna e da nessuna di esse ricavo alcun fondamento beninteso, fintanto che esse vengono concepite, come avviene appunto in queste scienze, quali verità concernenti le realtà di questo mondo. Le posso assumere soltanto dopo aver loro applicate le parentesi, in conseguenza dei fatto che io ho già sottoposto alla modificazione della messa in parentesi qualunque esperienza naturale, alla quale in definitiva rimanda ogni fondazione scientifica, come a un'esperienza che manifesta l'esistenza. Vale a dire, soltanto nella modificazionedi coscienza della messa in parentesi del giudizio, dunque non come quelle proposizioni che sono Italia scienza, dove reclamano una validità che del resto i0 stesso riconosco e utilizzanti -
Sofia Vanni Rovighi osserva giustamente che questa ”messa» in parentesi" non solo del mondo della vita quotidiana ma anche del mondo delle scienze non implica nessuna svalutazione del sapere scientifico.“ Husserl stesso lo esclude espressamente nel testo che abbiamo testé riferito. Applicando Yepoché anche a tutte le teorie scientifiche egli non esprime nessun giudizio sul loro effettivo valore ma intende semplicemente escludere ogni loro utilizzazioneteoretica in sede filosofica, poiché anche le scienze della natura fanno proprio l'atteggiamento naturale nei confronti della realtà. Esse accettano ingenuamente questo fatto,
13) 14)
ll mi n. 32. Ci. S. VANNI ROVIGHI, Storia dellafllusqfin contenrporaizea, Brescia 1985, pp. 424-425. .,
Fenomenologia c metafisica
579
chiedersi
se questo dato sia la realtà ultima, indubitabile.La filosofia, invece, si pone questo problema, e per questo sospende inizial-
senza
mente Yassenso a tutto ciò di cui si può dubitare. Poiché con lflgvoclzrî è tutta la ”realtà” che viene
metodologicamente
segue che non sono soltanto le scienze che si riferiscono al mondo naturale che vengono neutralizzare, ma anche quella scienza che studia l'essere in quanto tale, ossia la metafisica.“ La nuova scienza che Husserl intende elaborare fa un passo indietro rispetto all’essere: essa non si occupa dei fenomeni dell'essere bensì dei fenomeni della coscienza.
sospesa,
ne
«Si comprende ora come effettivamente, di fronte altatteggiamento sperimentale e teoretico naturale, il cui correlato è il mondo, debba essere possibile un nuovo atteggiamento che, nonostante l'esclusione dell'intera sfera della natura psicofisica, ci conserva qualcosa di rimanente l'intero campo della coscienza assoluto. lnvece dunque di vivere ingenuamente nell'esperienza o di indagare teoreticamente Fesperito, la natura trascendente, compiamo la ”ridn2i0nefenomenologico”. In altre parole: invece di compiere in modo ingenuo gli atti costitutivi della natura con le loro tesi trascendenti (gli atti reali o, secondo una prefigurata potenzialità, possibili e da realizzare), e di passare, attra—
verso
le motivazioni in essi immanenti, a sempre
nuove
tesi trascen-
denti, mettiamo ”fuori azione” tutte queste tesi, quelle attuali e, prima,
quelle potenziali, non assecondiamole e dirigiamo piuttosto il nostro sguardo afferrante e teoreticamente indagativo sulla coscienza pura nel
assoluto. Questo è ciò che ci rimane come ”residuo fenomenologico", e rimane, sebbene abbiamo neutralizzato il mondo intero, con tutte le cose, gli esseri viventi e gli uomini, compresi noi stessbxîfi
suo essere
A
questo punto il dado e
spazio per della coscienza pura tro la sua sfera. lo
15)
l“)
tratto: Ormai Husserl e riuscito a ritagliarsi scienza: la fenomenologia come esplorazione di tutti gli oggetti (essenze, idee) che cadono den-
una nuova e
Nelle Meditazioni cartesiana Husserl precisa che la sua fenomenologia trascendentale «esclude ogni metafisica ingenua che abbia a che fare con le cose in sé che sono un controsenso, ma non esclude in generale la metafisica; essa non fa violenza alle istanze problematiche che animano interamente l'antica tradizione moventesi tra problemi e metodi errati,- la fenomenologia non dice affatto che essa si arresta di fronte ai problemi "ultimi e sommi". L'essere in se primo che precede ogni oggettività mondana e la comprende in sé, è Yìiîtersoggellività trascendentale, la totalità delle monadi che si articola in diverse forme di comunità» (Meditazioni cartesiana, a cura di F. Costa, Milano 1970, pp. 174-175). E. HussERI, ldeen, I, 5 33.
580
Parte terza
RIDUZIONE EIDETICA
F RIDUZIONE TRASCENDENTALE
La coscienza pura nel suo essere assoluto che Husserl circoscrive mediante la riduzione fenomenologica non dà origine a un nuovo ramo della filosofia da collocare tra la logica e la psicologia, ma diviene la nuova filosofia prima che prende il posto dell'antica filosofia prima di Aristotele. Alla sua filosofia prima Husserl dà il nome di filosofa:fenomenologico. Essa è anzitutto un'accurata esplorazione della coscienza quale sorgente prima e unica del conoscere. Alla visione complessiva della essenza Ilusserl arriva attraverso la pura "esperienza interna", la pura visione interna, della coscienza in generate.” La coscienza, per Husserl, non è soltanto la realtà più certa ma anche la più evidente, l'unica immediatamente evidente, ed è inoltre la realtà assoluta, il fondamento di ogni realtà, perché per esistere non ha bisogno di nessun'altra cosa: nulla re intiiget ad exiSterzdJtrizJS Con questa assolutizzazionedella coscienza la filosofia fenomenologica non è più filosofia prima soltanto dal punto di vista logico, ma anche ontologico. Cosi ciò che Husserl ci presenta non è più una nuova analogia ma una noontologia: una ontologia della coscienza. Infatti, avendo trovato nella coscienza il principio prnno, dalla coscienza egli fa derivare ogni altra realtà. Egli afferma esplicitamente che il mondo e "costituito" dalla coscienza. Cosa voglia dire il termine ”costituzione" ‘e discusso fra gli studiosi di Husserl. R. Sokolowski, che ha dedicato uno studio molto serio a questo argomento, conclude che "costituire" per l-lusseiîl vuol dire dar significato.” Resterebbe da vedere se "dar significato” vuol dire creare il significato, oppure rizielarlo. Ad ogni modo, la tesi che il mondo è costituito dalla coscienza spiega l'identità tra ontologia e logica affermata in Logica formale e logica trascendentale: Yontologia formale è la scienza dell'ente in generale, di quell'etwas iiberhaapt che è il soggetto logico implicito nel giudizio. Ma l'ente in generale, di qualunque specie esso sia, non viene dal di fuori del mio io, ossia l'ente è costituito dalla coscienza, e perciò le leggi dell'essere (ontologia) sono leggi del pensiero (logica). Ma seguiamo I-lusserl nel suo esame della coscienza. In questo studio egli distingue due momenti, chiamati rispettivamente riduzione eidetica e riduzione trascendentale. La distinzione si fonda sulla diversa funzione che vi svolge Tepoché. Nella riduzione eidetica, Yepoché riguarda la sospensione del giudizio circa l'esistenza dell'oggetto reale, onde esaminare esclusivamente le rappresentazioni. Nella riduzione trascendentale, l'epoché concerne la sospensione del giudizio su qualsiasi contenuto della conoscenza per concentrare tutta l'attenzione sulla conoscenza pura.
l'7) Cf. ibid. 18) Cf. ibid, I, 549. 1°) Cf. R. SOKOLOWSKI, The Formatiorz of IInsserFs Cuncept of Constititlion, The Hague 1964, p. 196.
Fenomenologia e metafisica
581
Nel momento della riduzione eidetica, la fenomenologia è applicata all'analisi delle rappresentazioni viste come pure rappresentazioni, prescindendo dall'esistenza sia del soggetto conoscente sia dell'oggetto conosciuto. Per esempio, si studiano le rappresentazioni del tavolo prese in se stesse, senza interessarsi né alla presenza reale di un tavolo, né ai processi psicologici che hanno generato tali rappresentazioni. In altre parole, la riduzione eidetica consiste nel mettere fra parentesi (epoché) tanto gli aspetti psicologici quanto la materia della conoscenza, per analizzare solo le rappresentazioni in quanto rappresentazioni. Nel momento della riduzione trascendentale, la fenomenologia viene applicata allo studio della conoscenza, isolandola da qualsiasi contenuto, da qualsiasi oggetto conosciuto o voluto. Non è più l'esame di quello che sento, conosco, vedo o voglio, ma dell'io conoscente, senziente,
volente, ecc. Da questa analisi risulta che l'io, in quanto coscienza pura, trascendentale, si manifesta in tutti i suoi atti (conoscitivi, appetitivi, volitivi,
ecc.), come intenzionalità, come tendenza a un oggetto. Uintenzionalità è precisamente questa proprietà della conoscenza e di tutte le sue manifestazioni, di tendere verso un oggetto.
Nelle ultime opere di Husserl Yintenzionalità diventa l'assoluto, la realtà suprema, di cui la coscienza e le cose rappresentano rispettivamente il polo soggettivo e il polo oggettivo. Da ciò vari studiosi di Husserl hanno preso argomento per accusarlo di idealismo. Ma, come abbiamo già osservato, per Husserl l'io è si la fonte e l'origine costitutiva dell'essere che ha senso, in quanto è datore di senso al mondo, ma la sua azione (Leistung) non ha un senso creativo come nellîdealismoclassico di Hegel. Altra conferma di questa interpretazione viene dalla concezione husserliana del soggetto, che non è qualcosa di preesistente che si collega all'oggetto in un secondo tempo. Il rapporto del soggetto all'oggetto costituisce il fenomeno veramente primo, ed è in esso che si ritrovano
soggetto e oggetto)”
La svolta idealistica che flusserl impresse al suo pensiero in Idee per fel-zomenologia pura raccolse pochissimi consensi e impedì ai suoi discepoli di creare una scuola fondata su concetti filosoficidel loro grandissimo maestro. Così ciò che della fenomenologia husserliana rimase fu lo spirito piuttosto che la lettera: andare direttamente alle cose e raccogliere tutte le loro manifestazioni (fenomeni). In questa versione più libera la fenomenologia trovò innumerevoli cultori e praticanti. In partiuna
ZÙ)
Cf. S. VANNI ROVIGHE, La filosofia di Edmmzd Hilsscrl, Milano 1939, pp. 164 55.,‘ cf. P. VALORI, Il nzetoaio fenomenologico u la ‘fiìndazirvnc? della filosofia, Roma 1959, pp. 193-196.
582
Parte terza
colare
gli esistenzialisti (Heidegger, Jaspers, Sartre, Marcel,
Merleau-
Ponty) ricorsero alla fenomenologia per elaborare uno studio più completo della realtà umana; ma anche molti altri indirizzi filosofici (il personalismo, il tomismo, la filosofia dei valori, la e,
praticamente,
tutte le scienze
umane
del metodo fenomenologico? Invece i
discepoli più
fedeli
a
fecero
nuova
un uso
ermeneutica ecc.)
più
I-Iusserl intesero la
0 meno
largo
fenomenologia
essenzialmente come un complesso di ”ontologie regionali” e si sforzarono di definire per ogni singola regione le ”essenze”. Così H. Conrad Martius cercò di cogliere le essenze materiali del mondo corporeo; mentre E. Stein fece altrettanto per le essenze delle realtà metafisiche (Angeli e
Dio).
Per quanto attiene la metafisica, qualora venga liberata dalla pregiudiziale idealistica, la fenomenologia può diventare una sua importante e preziosa alleata. In effetti, un'accurata lettura dei fenomeni è condizione essenziale per procedere poi al loro approfondimento metafisico.
Edith Stein VITA E
OPERE
Edith Stein nacque a Breslavia nel 1891. Undicesima figlia di genitori ebrei rimase orfana del padre a poco meno di due anni. Fu educata dalla madre all'osservanza delle tradizioni della religione ebraica, alla fede in un unico Dio e al rispetto di tutte le religioni. Laureatasi in filosofia, fece parte del gruppo di fenomenologi che si raccoglievanointorno a lI-Iusserl e ne divenne assistente assai devota e apprezzata per molti anni. Convertitasi al cattolicesimo nel 1922, entrò nell’Ordine carmelitano senza tuttavia rinunciare alla sua vocazione filosofica, dedicandosi specialmente allo studio di S. Tommaso. Diede, inoltre, un grande impulso all'integrazione della donna nella società moderna. Nel 1919 aveva inoltrato una petizione al ministero Competente di Berlino affinché anche le donne potessero conseguire la libera docenza. Nel 1933 Chiese al papa Pio XI di scrivere un’enciclica sulla questione ebraica, in previsione di una persecuzione degli ebrei da parte del nazionalsticialismo. Nel 1938 si trasferì nel Carmelo di Echt, in Olanda. Lì nel 1942 venne arrestata dalla Gestapo e trasferita nel lager di Auschwitz, in Polonia, dove pochi giorni dopo verrà uccisa in una camera a gas. L’1l ottobre 1998 Edith Stein è stata proclamata santa da Giovanni Paolo II.
21) Sugli sviluppi e sulla diffusione della fenomenologia si veda S. menologia, Torino 1983, specialmente i capitoli III e VI.
ZECCHI, La feno-
Fenomenologia e metafisica
583
I suoi scritti principali sono: Sul problema dellempatia (1917); La fenomenologia di Husserl e la filosofia di S. Tommaso d'Aquino (1929); Essere finito ed eterno (1950, postuma); La scienza della croce (1950, postuma).
HUSSERL E S. TOMMASO
Edith Stein, discepola
e
assistente di Husserl, apprese dal
fenomenologico
maestro il metodo in tutte le sue ricerche
e
filosofiche e
lo
pratico
essa
stessa
suo
grande
con successo
teologiche. Ma, ben presto, essa fu
affascinata anche dal pensiero dell’Aquinate, che finì per diventare il suo filosofo preferito. Raggiunse una conoscenza così avanzata del suo stile e del suo pensiero da realizzare una eccellente traduzione in lingua tedesca di una delle opere speculative più importanti e più difficili dell’Angelico, le Qaaestiones dispntatae de oeritate. Ammirava e stimava il pensiero di Tommaso a tal punto che ancora due anni prima di farsi carmelitana lasciò l'insegnamento, perché era convinta (come scrisse in una lettera) che «san Tommaso non si accontenta dei ritagli di tempo risparmiati tra i doveri dell'insegnamento: mi vuole tutta». Ottima conoscitrice sia di Husserl sia di S. Tommaso, la Stein era nelle condizioni ideali di fare un raffronto tra le loro dottrine. È quanto ha cercato di fare nel saggio La fenomenologia di Husserl e la filosofia di S. Tommaso d'Aquino. Tentativo di confrontofiî Secondo Edith Stein c'è anzitutto un accordo sostanziale tra Husserl e S. Tommaso, nell'intento di praticare la filosofia come scienza rigorosa: «Husserl e Tommaso sono profondamente convinti che un logos agisce in tutto ciò che esiste, e che la nostra conoscenza è in grado di scoprire progressivamente una parte e, poi, ancora un'altra parte di questo Iogos secondo 1a regola di una rigorosa onestà intellettuale».13 In secondo luogo, entrambi non hanno mai dubitato del potere della ragione, e hanno combattuto con decisione ogni forma di scetticismo.“ In terzo luogo, tutti e due sono persuasì che il compito della filosofia sia inesauribile, sia che la filosofia percorra la strada della metafisica, come S. Tommaso, oppure quella della fenomenologia, come Husserl.
23)
E. STEIN, flusserls Phdnotizcnologie nnd die Philosophie des heiligeir Thomas von Aquino. Versuch einer Gcgeniiberstellzltzg, in Festschrtft Edmund Hasserl zum 70. Gclmrstag, Tiibingen 1929, pp. 315-338. Traduzione italiana di A. Ales Bello, in E. STFIN, La ricerca della verità, dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, Roma
1993, pp. 61-90. Le nostre citazioni si riferiscono a questa traduzione.
23) Ibid, p. 63.
34) Ibid, pp. 63-64.
584
Parte terza
fenomenologia procede come se in linea di principio non ci fosseconfini ro per la nostra ragione. Certamente si concede che il compito della ricerca fenomenologica sia senza fine, che la conoscenza. sia un processo ininterrotto, ma essa si mette direttamente in cammino verso la meta, cioè la piena verità, che come idea regolativa p1'escrìve la direzione da seguire. Dal punto di vista di questa filosofia non e presa in considerazione nessun'altra strada per raggiunge-re tale scopo. Anche Tommaso è dell'avviso che questa sia la via della ragione naturale; il suo cammino è senza fine e ciò vuol dire che essa non potrà raggiungere la meta, ma soltanto avvicinarsi ad essa progressivamente; da ciò deriva anche il carattere necessariamente frammentario della speculazione umanam-î «La
\
divergenze tra Husserl e Tommaso non sono meno importanti e meno profonde delle convergenze. La prima divergenza riguarda l'orizzonte conoscitivo e il potere della ragione. Per Husserl l'orizzonte conoscitivo della ragione è Lmiversale, Ma le
nulla cade fuori del suo orizzonte, e il suo potere è assoluto e abbraccia tutta la verità. La ragione di cui parla Husserl è la ragione naturale: «La ragione non ha mai avuto per lui altro significato che quello di ragione naturale». Invece S. Tommaso distingue tra ragione naturale e soprannaturale, e assegna sia alla ragione naturale sia alla ragione soprannaturale (fede) poteri e orizzonti limitati. «La conoscenza naturale è solo Hllfl via. Sono posti ad essa confini stabiliti o più esattamente indicabilicon precisionemîh Certo la verità nella sua totalità esiste e c'è anche una conoscenza che la comprende interamente: «questa è la conoscenza divina»)? Una seconda divergenza ancora più profonda è la concezione che Husserl e Tommaso hanno dell'uomo: Husserl ha una concezione fortemente antropocentrica, anzi egocentrica, mentre S. Tommaso ha una concezione marcatamente teocentrica. Ecco quanto scrive la Stein a que-
sto
riguardo:
«La via della fenomenologia trascendentale ha condotto al risultato di porre il soggetto come punto di partenza e mezzo della ricerca filosofica. Tutto il resto è riferito al soggetto. Il mondo che esso ccistruisce nei suoi atti, rimane sempre unimondo per il soggetto. Per questa strada non può Liscire dalla sfera delfimmanenza come ripetutamente è stato obiettato al fondatore della fenomenologia proprio cla parte della cerchia dei suoi discepoli per riconquistare quelloggetti-
—
quale egli pur preso le mosse e che era necessario realtà libera da ogni relativismo sogverità una e una salvaguardare: risultante dalla ricerca diversa della A causa interpretazione gettivo. vità, dalla
35) lhid., pp. 64-65. In) una, p. 65. 37) llîid.
aveva
Fcnonzenologia e metafisica trascendentale, che confondeva l'esistenza
con
il mostrarsi
585
a una
conoscenza, l'intelletto indagante la verità non troverà mai un punto fermo. E tale ricerca prima di tutto perché relativizza Dio stesso è in contrasto con il credere. Questo è iI più aczito contrasto fra la fenome—
—
nologia trascendentale e la filosofia cattolica: Forientarnenla (eccentrico di quest'ultima e quello egocentrico ziellîiitrzbxl”
punto di contrasto riguarda la verità. Sia Husserl sia S. Tomhanno maso un concetto oggettivo della verità. Ma mentre per Husserl l'unico fondamento della verità è la coscienza, perché la ”costruzione del mondo" dipende da essa, per S. Tommaso «la Verità, il principio e criterio di tutta la Verità è Dio stesso. Questo è per Tommaso il primo assioma filosofico, se si vuole cosi denominarlo. Ogni verità della quale possiamo Un terzo
impadronirci deriva da Dio».29 Dopo avere mostrato che il metodo fenomenologico, il quale non è altro che «un processo della più acuta e penetrante analisi di un materiale dato>>30 può essere pienamente accolto e COTIdÎVÎSO anche dai seguaci di S. Tommaso, il quale, di fatto, nella sua metafisica lo ha spesso utiliz-
zato, E. Stein nel capoverso COHClUSÌVO riassume felicemente i risultati della sua ricerca in questi termini:
l’assoluto punto di partenza nella immanenza della S. coscienza, per Tommaso è rappresentato dalla fede. La fenomenologia vuol presentarsi come scienza di essenze e mostrare come si possa costruire un mondo ed eventualmente diversi mondi possibili per una coscienza grazie alle sue funzioni spirituali; in questo ambito il ”nostro” mondo sarebbe comprensibilecome una di queste possibilità; e la ricerca della sua caratteristica fattuale è ceduta dalla fenomenologia alle scienze positive, i cui presupposti di contenuto e di metodo sono indagati in quelle ricerche delle possibilità compiute dalla filosofia. Per Tommaso non si trattava di mondi possibili, ma di un'immagine la più completa possibile di questo mondo; le ricerche di essenza dovevano essere incluse come fondamento della comprensione, ma dovevano essere aggiunti i fatti che sono resi accessibili dall'esperienza naturale e dalla fede. Il punto di partenza unitario, dal quale deriva l'intera problematica filosofica e al quale sempre dì nuovo essa rimanda, è per Husserl la coscienza trasccndentalmente purificata, per Tommaso Dio e il suo rapporto con le creature>>.31 «Husserl
cerca
2?‘) lbid., p. 75. Il corsivo è nostro.
29) tinti, p. 73. 3”) ibid, p. 80. 3') Haiti, pp. 89-90.
586
Parte terza
LA RILETTURADELLA
METAFISICA DI
S. TOMMASO
IN CHIAVE FENOMENOLOGICA
Il contributo più originale della Stein alla metafisica è stato il suo tentativo di operare una rilettura della metafisica di S. Tommaso servendosi della fenomenologia husserliana concepita come scienza di essenze.
grandi problemi proposte dall'Aquinate; però, allo stesso anche consapevole che negli ambienti accademici che fretempo, era quentava, il tomismo godeva di scarso credito e addebitava questa disistima al linguaggio scolastico e al metodo ”ingenuo" di cui si avvaleva. Per conferire attualità al tomismo era perciò necessario compiere un lavoro di profondo aggiornamento sotto il profilo del linguaggio e del metodo, occorreva riesprimere nel linguaggio delle essenze e dei significati quanto S. Tommaso aveva espresso nel linguaggio dell'essere, e presentare col metodo fenomenologico quelle verità che S. Tommaso aveva scoperto servendosi dei metodi della resolutiu e della compositio: risoluzione degli effetti nelle cause e derivazione degli effetti dalle cause. Nel suo capolavoro speculativo, Endliclzes und eziviges Sein, la Stein dice di volere «fondere il pensiero medievale con il pensiero contemporaneo>>fi2 Logicamente, il quadro metafisico che la Stein ottiene non e quello del Dottor Angelico, bensì un quadro analogo, che ne rispecchia punto per punto le linee essenziali (anche se non tutte). Al quadro metafisico dell'essere la Stein affianca (e contrappone) un quadro altrettanto imponente e dettagliato, quello della evidenziazione fenomenologica delle essenze. Tutto quanto si trova in S. Tommaso: la materia, la forma, l'atto, la potenza, la sostanza, l'azione, l'anima, il corpo, Dio, gli angeli, la Trinità ecc. lo si ritrova anche nella Stein, ma sotto un profilo diverso: della eideticità essenziale (intuizione delle essenze) e non, come in S. Tommaso, sotto il profilo dell'attualità reale, che ‘e l'attualità dell'essere, lkzctus essendi. L'universo della Stein non e più quello reale bensì, come lo chiama essa stessa, un universo pre-reale, in quanto costituito da essenze, forme,
Essa riteneva sostanzialmente valide le soluzioni dei
metafisici che
erano
state
che attendono di essere informate. Anche la Stein studia tutte le categorie, tutti gli elementi fondamentali della metafisica, ma non come compo-
nenti della realtà, bensì come trame di significati. In tal modo esisa non può cogliere il valore dell'essere intensivo di S. Tommaso, che è l'elemento più proprio, specifico e irrinunciabiledel suo pensiero. Lo sforzo della Stein per costruire un universo delle intenzioni (essenze, significati) la induce a prospettare a fianco del mondo reale un secondo mondo, che pur non godendo di quella assoluta realtà che gli
33)
F,.
STFIN, Llître fini
stata
étemd, tr. fr., Louvain 1972, p. 2. Successivamente è la traduzione italiana, Fssirngfinitn e essere eterno, Roma le nostre citazioni si riferiscono a c1uella francese. et llître
pubblicata anche
1988; ma
Fenomenologia e nzetafisica
587
assegna Platone, è molto simile all'universo platonica. Certo il mondo ideale di Platone è ultra-reale, mentre quello della Stein è soltanto prereale, ma si tratta pur sempre di un secondo universo: l'universo delle essenze semplicemente affiancato a quello degli enti reali. La mancata subordinazione delle essenze all'essere, delle entità ideali a quelle reali le impedisce di giungere a una spiegazione unitaria della realtà. Nel contempo spostando dal terreno metafisico a quello fenomenologico concetti come sostanza, esistenza, persona, ecc. la Stein li sottopone a un grave ridimensionamento ontologico; così la sostanza finisce per significare semplicemente indipendenza e originalità; l'esistenza un modo di essere prioritario; la persona il supporto di una natura dotata di razionalità. Comunque bisogna riconoscere che nella ricognizione e rielaborazione fenomenologica del sistema metafisico aristotelico-tomistìco tutto è fatto con estrema coerenza, e questo mostra una capacità speculativa davvero straordinaria. Per fare un solo esempio, vediamo come viene trattato il problema di Dio. Fedele al suo indirizzo fenomenologico che considera la realtà sotto il profilo essenziale e semantico (del significato), E. Stein risale all'essere primo in quanto sorgente delle essenze e dei significati; in tal modo Dio viene colto come pienezza di senso e come archetipo, causa esemplare di tutte le essenze.” La riformulazione "eidetica" proposta dalla Stein non si limita ai temi principali della metafisica aristotelico-tomistica ma si estende anche ad alcuni dogmi fondamentali della teologia cristiana, in particolare alla Trinità e agli Angeli. Emblematica è la trattazione che ella riserva agli angeli: una delle più estese, profonde e interessanti che siano mai state
fatte.
Come spiega la Stein introducendo l'argomento dellhngelologia, il studio non Vuole affatto essere teologico o metafisico, ma semplicemente fenomenologico. Pertanto le affermazioni bibliche non sono assunte, come fanno i teologi, quali principi primi, architettonici della loro riflessione, bensì come narrazioni emblematiche che forniscono suo
informazioniinteressanti su certe
possibili essenze.“
L'essenza angelica, secondo l’acuta analisi della Stein, risulta dotata delle seguenti proprietà: indipendenza totale dalla materia, conoscenza intuitiva e non astrattiva, autodominio, libertà, perfetta unità di vita e unità di forzafl‘ Fin qui il pensiero della Stein coincide perfettamente con quello di S. Tommaso. C'è invece, in seguito, un punto fondamentale in cui la Stein si allontana drasticamente dal pensiero dell'Angelico.
n) l‘) 3?»)
Cf. 17nd,, pp. 336 ss. Cf. ibìd, pp. 382, 39D. CF. ibid, pp. 392-401.
588
Parte terza
Per quest'ultimo gli angeli sono puri spiriti, ossia forme pure, senza l'ingerenza di alcuna materia, né sottile ne’ pesante, né visibilené invisibile. Per spiegare la finitezza degli angeli Tommaso non ha nessun bisogno, come Bonaventura e Scoto, di ricorrere alla materia: gli basta concepire l'essenza come potenza e l'essere come atto. Gli angeli sono essenze che non si identificano come Dio col loro atto di essere, ma ne sono realmen-
distinte, e rispetto all’atto si trovano nello stato di potenza. La Stein che per principio, con una radicale eiroché, ha estromesso dal suo orizzonte speculativo l'essere attuale, l'essere intensivo di S. Tommaso, per spiegare la finitezza degli angeli ritorna alla posizione della scuola francescana e afferma che tutti gli angeli hanno una componente materiale che rispetto alla forma svolge un ruolo potenziale.“ Che dire di questo geniale tentativo di riesprimere nel linguaggio della fenomenologia le grandi verità della metafisica e della teologia? Preso in se stesso, lo si può considerare un tentativo interessante e avvincente. La Stein prende opportunamente in considerazione una importante dimensione della realtà: la dimensione del significato, che è uno "strato” che avvolge tutto l'universo, sia quello noetico sia quello ontico. Tutto quanto è, indipendentemente dal suo modo di essere, ha una sua eideticità, una sua significatività, una sua densità di senso. Quale sia propriamente la eideticità che consente a ogni cosa di avere un proprio senso la Stein ha cercato di spiegarlo nel suo magistrale Endliclics und crviges Sein. Ma ho l'impressione che in tale lavoro essa esageri la portata ontologica della eideticità, sostanzializzando eccessivamente le essenze. La Stein ne fa un mondo di sussistenze ideali, mentre, trattandosi di concetti, non possono vantare nessuna sussistenza: il loro essere consiste esclusivamente nell'essere pensate. Qui il celebre esse est percipz" di Berkeley vale indubbiamente. Perciò le essenze, i significati, non possono affatto costituire un mondo autonomo, parallelo al mondo dei sussistenti reali. Solo questi sono dotati di effettiva sussistenza; mentre quella dei significati e delle essenze è solo una sussistenza ipotetica. L'universo dei sussistenti reali gode di assoluta priorità su quello degli enti ideali. In effetti questi sono possibili soltanto grazie ai sussistenti intelligenti (Dio, angeli, uomini) che li pensano e pensandoli conferiscono loro un'esistenza ideale. Quanto poi al tentativo pur brillante della Stein di costruire un ”tomismo parallelo", ripresentando le tesi fondamentali dell'Aquinate in chiave eidetica, a me sembra votato al fallimento. Infatti ciò che dite
stingue il tomismo dalfagostinismo, dalfavicennismo, dallo scotismt) e il superamento del piano delle essenze, per stabilirsi direttamente nel piano dell'essere. Pertanto, voler reinterpretare in chiave eidetica quanto 3h)
Cf. iliizi,pp. 413-414.
Fenomenologia e Inetafisica
589
scoprire e a dire in chiave strettamente ontologi(alla luce del concetto intensivo di essere) non è un'operazione fattibi-
S. Tommaso è riuscito a ca
le. Ne abbiamo avuto una prova evidente esaminando la dottrina steiniana degli angeli. Tommaso ne aveva determinato egregiamente la natura con la sua dottrina dellìzctus esserzdi: ciò che fa degli angeli delle creature non è un principio materiale (perché allora non sarebbero più
puri spiriti), ma il semplice fatto che pur essendo essenze pure, prive di materia, restano pur sempre dei meri possibili (e pertanto realtà creaturali) finché non ricevono Pactus essendi. Tutta la forza e l'originalità del tomismo sta nell'essere concepito come atto e come atto primario, attua-
lità d'ogni altro atto. Della realtà lo "strato" veramente fondamentale, che sostiene e sostenta qualsiasi altro ”strato" compreso quello eidetico è lo strato dell'essere. Rinunciare a questo strato per fare un discorso analogo a quello di S. Tommaso dal punto di vista di altri strati è uscire dal tomismo: un tomismo parallelo è impraticabile. Oltre che nellangelologia la scarsa aderenza della Stein al tomismo si riscontra anche nella teologia naturale e nell’antropologia filosofica. Nella teologia naturale nutre serie perplessità sulla efficacia probativa delle "cinque vie". A suo giudizio queste non sono più solide e convincenti della prova ontologica anselmiana: «Quanti sono gli atei che hanno trovato la fede con le prove tomiste? Anche queste sono un salto oltre l'abisso: il credente lo supera facilmente; l’ateo si blocca giudicandolo insuperabile»? Qui ci sarebbero varie osservazioni da fare. La prima è che c'è una palese incongruenza tra gli obiettivi perseguiti dalla Stein che sono squisitamente fenomenologici, e i giudizi qui espressi, che appartengono all'area della metafisica. La metafisica non opera sui concetti come la fenomenologia, ma sugli enti, cioè su realtà concrete. Il passaggio, perciò, non è da concetti finiti a un concetto infinito, bensì da enti finiti, contingenti, precari, esistenti ma non giustificativi della propria esistenza, all’Esse ipsum, a colui che è totalmente essere, che è la pienezza dell'essere e pertanto la fonte e la causa di ogni esistente. Che un concetto infinito (più esattamente, un concetto dell'infinito) non sia in grado di dire tutta la realtà di Dio è verissimo, e su questo punto la Stein ha perfettamente ragione; ma che un finito e contingente non esiga a monte un essere infinito e sussistente, che si faccia garante della sua precaria esistenza, questo è semplicemente assurdo. Le cinque vie di S. Tommaso sono cogenti proprio perché non operano sul piano eidetico ma su quel-
lo metafisico e, di volta in volta, esibiscono tratti della creato che sono chiari segni dell'esistenza del creatore.
37) lbiaî, p. 115.
contingenza del
590
Parte terza
La seconda osservazione è che il riconoscimento di Dio tutto
coinvolge
l'uomo, e la semplice evidenza teoretica, prodotta dalle varie prove
dell'esistenza di Dio (evidenza tra l'altro non immediata ma mediata), certamente, da sola, non basta a creare un solido e profondo convincimento religioso. Le ragioni dell'ateismo sono molteplici e possono travolgere agevolmente quella scarsa luce di evidenza prodotta dagli argomenti elaborati dalla ragione speculativa. Nellentropologia filosofica, sempre a motivo della sua epoche nei confronti dellfiictus essendi, la Stein svuota il concetto tomisticr) di persona, ritornando alla definizione sostanzialistica boeziana, che la considera come «supporto di una natura dotata di razionalità». Per S. Tommaso la persona è ben altra Cosa: è il sussistente in una natura intelligente o razionalefi“ È il possesso di un proprio atto di essere, che e sempre ciò che conferisce a Lm’essenza reale concretezza, che fornisce a un'essenza umana oppure angelica la condizione della personalità. Senza l'atto di essere (artus esseizdi) nessuna sostanza, nessuna creatura, nessuna essenza (neppure quella di Dio) è persona. È per questo motivo che S. Tommaso può affermare che «persona significa ciò che è massimamente perfetto nell'universo (‘DEFSOIIH significa! id quod est pcijfectissitnztm in tota
natztra)».3‘*
I precedenti rilievi mettono in chiaro che l'impresa speculativa della Stein è indubbiamenteinteressante e originale, ma va presa per quello che ‘e: una trascrizione fenomenologica di alcune dottrine fondamentali della metafisica e del cristianesimo. Ma non e tomismo. L'universo della Stein è molto più Vicino a quello di Platone che a quello di S. Tommaso.
Martin Heidegger VITA E OPERE Martin
I-Ieidegger nacque a Messkirch, nel Baden, da genitori di fede
cattolica, il 26 settembre 1889. Compi i primi studi
a Costanza e a si iscrisse nel la maturità. A dove 1909, Friburgo, conseguì Friburgo oltre intanto allora Rickert. dove all'università, Frequentava insegnava di di anche di che le lezioni filosofia, quelle teologia, matematica, di scienze naturali, e di storia. Nel 1913 conseguì la laurea con la dissertazione: Die Lchrr’ "anni Llrfcil m: Psychologismus in cui prende posizione contro lo psìcologismo, insistendo sul fattore atemporale, per cui il mondo della logica si distingue da quello della esperienza vissuta. Due anni
35) 3”)
Ct’. S. Toiwxiasr), C. G. lv, 35. 1)., S. Tli.
l, 23, 3.
Fenomenologia e metafisica
591
più tardi (1915) consegue l'abilitazioneallailiberadocenza con la dissertazione Die Kategorien zmd Bedeutungslehre des Dims Scotas, nella quale, pur nella impostazione logico-gnoseologica dei problemi riguardanti le
categorie nel pensatore medievale, rivela un interesse metafisico che tende al recupero di posizioni extralogiche, e un concreto avvicinamento
problemi dell'esistenza. Nel marzo del 1916 Heidegger diventa assistente di Husserl, allora professore alla facoltà di filosofia di Friburgo. Inizia cosi un periodo di intensa collaborazione, durante il quale Heidegger tiene numerosi corsi e seminari: su Kant, sulla logica di Aristotele, su Ficbte, sulla mistica medievale, su Agostino e il Neoplatonismo; nonché numerose esercitazioni sulle Ideen. e sulle Logisctie Untei/sartiaiigen di Husserl. Nel 1923 diviene professore a Marburgo. Fra il 1923 e il 1927 tiene corsi e seminari sul Sqfista di Platone, su Aristotele, Cartesio, Hegel, sulla storia del concetto di tempo, sullbntologìa medievale. Dopo una lunga gestazione durata oltre un decennio, nel 1927 pubblica la sua opera più importante: Seiiz una Zeit (Essere e tempo). Secondo i piani originari quest'opera doveva constare di tre parti, ma la seconda e la terza non vedranno mai la luce, a causa di una profonda svolta (Kehre) del pensiero heideggeriano. ai
Nel 1928 fu chiamato a sostituire Husserl alla cattedra di filosofiadell'università di Friburgo. Di questa stessa università nel 1933 fu nominato rettore
magnifico. Nell’assumere l'incarico Heidegger pronunciò un
discorso che venne interpretato come uifaperta adesione al nazismo. Caduto però in disgrazia per motivi non chiari, rassegne le dimissioni da rettore. Nel 1944 dovette interrompere anche l'insegnamento per essere arruolato nell'esercito. Non potrà riprendcrlo che nel 1952 a causa del divieto posto dalle forze d'occupazione alleate. Morì nel 1976. Negli ultimi anni una più sicura documentazione intorno all'adesione di Heidegger al nazismo, da lui mai ritrattata, ha dato luogo a giudizi assai severi nei confronti del suo rigore morale. Ciò che inquieta maggiormente a questo proposito «è la riluttanza e l'incapacità del filosofo, dopo la fine del regime nazional-socialista, ad ammettere anche con ima sola frase il suo errore gravido di conseguenze» (I. l-Iabermas). Le sue opere principali, oltre Essere e tempo, sono: Che cos'è la metafisi-
(1929); L'essenza del fondamento (1929); Kant e il problema della nzetafisica (1929); introduzimie alla metafisica (1935); La dottrina platonica della zierità (1942); L'essenza della verità (1943); Lettera sali‘umanesinizo (1947); Sentieri interrotti (1950); In cammino verso il linguaggio (1959); Nietzsche (1961).
ca
592
Parte terza
IL RITORNO DELLA METAFISICA La metafisica è stata costantemente al centro degli interessi speculativi di Heidegger. Come già emerge dai titoli delle sue opere, quasi tutta
produzione letteraria riguarda la problematica dell'essere. e i compiti della metafisica, mentre altre del l'essenza fondamento, i rapporti dell'essere con opere esplorano l'ente, e in modo particolare con l'uomo, nonché i rapporti dell'essere col tempo, con la verità e con il linguaggio. Dopo Kant nessun altro filosofo moderno si è prodigato con tanta passione a favore della metafisica come Heidegger; ma mentre Kant non aveva mostrato nessun interesse per Yontologia e aveva prestato attenzione soltanto alle metafisiche speciali (anima, mondo, Dio), Heidegger riconduce la metafisica al suo compito primario: lo studio dell'essere. Il problema dell'essere è problema di capitale importanza, su cui non hanno mai cessato di dibattere i metafisici di tutti i tempi: da Parmenide, Platone, Aristotele, Tommaso, Scoto, Suarez fino a Hegel e Rosmini. Già Platone parlava di una «gigantesca battaglia sull'essere>>.4° È questa gigantesca battaglia che Heidegger intende riaccendere dopo secoli di oblio dell'essere. Scrive Heidegger nel paragrafo di apertura di Essere la
sua
vasta
Due opere studiano la natura
e
tempo:
«Benché la rinascita della "metafisica" sia considerata una conquista del nostro tempo, tuttavia il problema dell'essere è purtroppo dimenticato. In tal modo si continua nellîllusìone di potersi sottrarre a una nuova e necessaria gigantomachia intorno all'essere. Eppure la questione in oggetto non ha nulla di arbitrario. Essa ha agitato il pensiero filosofico da Platone ad Aristotele come il problema tematico di un'effettiva ricerca. Anche se l'istanza successivamente tacque, quanto essi raggiunsero perdurò nei secoli fino alla logica di Hegel, attraverso rifacimenti e "rammodernamenti". E ciò che quell'antico supremo sforzo del pensiero riuscì allora a strappare ai fenomeni, sia pure in forma frammentaria e primitiva, è ora del tutto trivializzatom“
Per ridare prestigio alla metafisica e ricondurla al suo nobile lavoro anzitutto riscattare il concetto di essere, un concetto che presso i greci (Parmenide, Platone, Aristotele) aveva una enorme pregnanza semantica, e che poi, da Scoto a Hegel, passando attraverso Suarez e Kant, aveva subito un continuo, gravissimo depotenziamento fino a diventare il più povero e vuoto di tutti i concetti, privo di ogni contenuto e quindi equipollente al nulla. «Si dice: quello di essere è il più unioccorre
40) 41)
Platone usa le espressioni: ‘Qqlzigantoirzachia peri tcs ousias" (Soph. 246 tomachia peri tou ontos” (Test. 179 d). M. HEIDEGGER, Essere e tenzpo, tr. P. Chiodi, Bocca, Milano 1953, p. 13.
e); "ghigan-
Fenomenologia e nzetafisica versale e vuoto dei concetti e, vo
di definizione; in
come
tale, contrario a
un
593
qualsiasi tentati-
quanto universalissimo, quindi indefinibile,non e
abbisogna neppure di definizione alcuna. Tutti lo usano e comprendono ciò che significa. In tal modo ciò che agito con la sua oscurità la filosofia antica si muta nella più solare delle ”evidenze”, sicché colui che tutt'oggi lo fa oggetto di ricerca Viene accusato di ingenuità metodologicawlî Di fatto però «a proposito del problema dell'essere non solo non possew diamo la soluzione, ma il problema stesso è oscuro e aggrovigliatom“ È quindi necessario riprendere il problema da capo «e impostare finalmente un’autentica posizione del problema>>xl4 IL METODO FENOMFNOLOGICO La scelta del metodo, di un buon metodo è di capitale importanza per tutte le scienze. Infatti, una ricerca per sortire un buon esito dev'esdelle sere condotta con metodo. La questione del metodo era stata una fatto a filosofi scienziati avevano e dai gara per più dibattute moderni: proporre nuovi metodi. In metafisica, sin dai tempi di Platone e Aristotele, esistevano due metodi: quello ”dall’alto” o compositivo, che scende dalle Idee, dai principi, dalle cause, dall’Uno, verso il basso: il mondo, la materia; e il metodo "dal basso” o risolutivo, il quale dal mondo sensibile,materiale, contingente, finito sale verso il Principio primo (il Motore immobile, Dio). All’uno o all'altro di questi due metodi si erano affidati tutti i metafisici sino a Kant: al metodo dall'alto i seguaci di Platone; a quello dal basso i seguaci di Aristotele. Un nuovo metodo, che non procedeva più né dall'alto, né dal basso, era
stato introdotto da Husserl.
Questi, come sappiamo,
aveva messo
”tra parentesi" e neutralizzato il mondo naturale della coscienza ordinaria, e di conseguenza aveva anche sospeso la metafisica, e per lo studio delle essenze aveva introdotto il metodo fenomenologico. Di questo metodo Husserl aveva fatto un uso trascendentale: se ne era servito per elaborare una scienza della coscienza. Heidegger fa suo il metodo del maestro ma ne fa un uso completamente diverso: ciò su cui intende far luce la sua fenomenologia non ‘e la coscienza, bensì l'essere. Così egli trasforma la fenomenologia trascendentale di I-Iusserl in fenomenologia ontologica. Permangono comunque, pur nel rovesciamento (per certo verso: una vera rivoluzione copernicana) della fenomenologia husserliana da parte di Heidegger, importanti punti di contatto e di sutura tra
42) lbid, p. 14. 43) IbicL, p.16. 44) lbid.
594
Parte terza
Husserl e Heidegger: entrambi si pongono ”al di qua" dell’idealismo e del realismo, malgrado la componente certo prevalentemente soggettivistica (e quindi implicitamente idealistica) del primo, e oggettivistica (implicitamente realistica) del secondo. Contro tutto l'indirizzo soggettivistico della filosofia moderna, la fenomenologia intende dare nuovamente la voce all'oggetto, al fenomeno: essa vuol far parlare i fenomeni. «La parola ai fatti stessil». Scienza dei "fenomeni" significa: «un movimento conoscitivo verso i propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad essi viene in discussione, debba essere trattato in un diretto far vedere e in un diretto dÌ-TT'I()SÎI'BI'G>>_45 Il fenomeno in questione nel caso della fenomenologia ontologica e l'essere. È questa misteriosa realtà, sempre presente ovunque e tuttavia sempre occulta, a cui Ileidegger intende cedere la parola per consentirle di manifestarsi. Ecco un passo di Essere e tempo in cui egli espone lucidamente i suoi obiettivi:
«Che cos'è che la fenomenologia deve "lasciar vedere"? Che cos'è che
in un senso specifico deve essere detto ”fenomeno"? Che cos'è ciò che si rivela come tema necessario di un esplicito mostrare? Evidentemente ciò che anzitutto e per lo più non si manifesta; ciò che, in contrapposto a ciò che anzitutto e per lo più si manifesta, è nascosto, ma tuttavia è tale da appartenere a ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta in quanto ne esprime il senso e il fondamento. Ma ciò che nel senso vero e proprio della parola rimane nascosto, oppure ricade di bel nuovo nel coprimento e si manifesta come "contraffatte", non è questo o quell’ente. Esso può essere così profondamente coperto da venir dimenticato e da far cadere il problema circa il suo senso. La fenomenologia comfprende" tematicamente, come suo oggetto, ciò che in un senso preciso esige di divenire fenomeno proprio in base alla sua consistenza contenutiva. La fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare dimostrando ciò che deve esser costituito a tema dellbntologia. L’ontologia è possibile solo come fenomenologia. Il concetto fenomenologi-
di fenomeno intende come automanifestantesi l'essere dell'ente, il senso, le sue modificazioni e i suoi derivati. E Yautomanifestarsi non è niente di arbitrario e tanto meno qualcosa come un sempliceapparire. L'essere dell'ente non può minimamente essere qualcosa ”dietr0" il quale stia ancora qualcos'altro "che non appare”. "Dietro" i fenomeni della fenomenologia non ci può assolutamente essere null'altro. Tutt’al più ci può essere nascosto qualcosa che deve divenire fenomeno. E proprio perché i fenomeni, innanzitutto e per lo co
suo
più, non sono dati, si
45) Haiti, p. 45. l”) finii, p. 46.
fenomenologia. Il concetto "esser-copertoWfih
rende necessaria la
opposto di ”fenomeno" è
Fenomenologia e tizetqfisica
595
questione dell'essere, secondo Heidegger, ha un duplice primato: ontologico e ontico. ll primato ontologico, come primato dell'intelligenza La
dell'essere (ente-logico), risulta evidente dalla sua radicalità di fronte a ogni altro sapere. Tutte le discipline scientifiche, nello stesso loro prodi-
in estensione e in profondità, e anzi proprio per questa crescita, stanno attraversando una crisi del loro fondamento (Grundiagertkrîsfs).
gioso crescere
La
questione sull'essere è la condizione a priori della possibilità di
tutte
le scienze.
«Il cercare ontologico è certamente più originario del cercare ontico proprio delle scienze positive. Esso rimane tuttavia ingenuo e intrasparente se le sue indagini intorno all'essere dell'ente lasciano indiscusso il senso dell'essere in generale. E proprio il compito ontologico
genealogia delle diverse possibili maniere di essere, genealoda costruirsi non deduttivamente, abbisogna di una precomprengia sione di ciò che noi intendiamo propriamente con l'espressione "esse— re". ll problema dell'essere tende quindi non solo alla determinazione delle condizioni a priori della possibilità delle scienze che studiano l'ente in quanto ente così e così e che perciò si muovono già sempre in una comprensione dell'essere, ma bensì anche alla determinazione delle condizioni della possibilità delle ontologie che precedono e "fondano" le scienze ontiche».47 di
una
Il prinmto cantico della questione dell'essere risulta dal fatto che «la comprensione dell'essere è una determinazione dell'essere dell'Esserci
(Dasein). La caratteristica ontica dell'Esserci consiste nel suo esser-ontologico>>.48 Esserci (Dasein) è l'espressione che Heidegger ha introdotto per designare l'uomo, il quale non è l'essere, ma u_n essere-là, un essere delimitato, definito, circoscritto nello spazio e nel tempo. L'esistenza (Existenz) è il rapporto caratteristico dell'uomo all'essere: «L'essere a cui l'Esserci può rapportarsi in un modo o nell'altro e cui sempre in qualche modo si rapporta lo chiamiamo esistenza» .4‘? L'esistenza può essere guardata nella mera individualità ontica, la quale è detta esistentiva (existentiell), ma può pure essere guardata nella sua intelligenza come comprensione della struttura dell'esistenza e nel complesso delle strutture e allora si ha Yesistenziale (Existenzial). Uanalitica della esistenzialità non può venire caratterizzata da un'intelligenza esistentiva ma esistenziale: «perciò l'antologia fondamentale, dalla quale possono sorgere tutte le altre, dev'essere cercata nellflznzilitictlesistenziale cielflîssercimî‘
47) lbizì‘, p. 22. 4*‘) lbid., p. 23. 49) lbid. 5”) lbicL, p. 24.
596
Parte terza
Di fatto della fenomenologia Heidegger fa un duplice uso. Il primo è quello di Essere e tempo, dove egli si serve del metodo fenomenologico per esplorare accuratamente l'Esserci (l'uomo) in tutto le sue mani-
uso
festazioni sia razionali sia irrazionali, sia emotive sia cognitive, e per far luce sui rapporti del Dasein con il Sein, rapporti di cura, preoccupazione, angoscia. Questo ‘e l'uso esistenziale. Il secondo uso che ha luogo dopo la grande svolta (Kehre), e che è già in atto in Introduzione alla nretafisira, ha di mira direttamente l'essere. La fenomenologia diviene esplicitazione dell'essere: il mostrarsi, rivelarsi, epifanizzarsi dell'essere negli enti. Questo e l'uso propriamente ontologico.
DANAUHCA ESISTENZIALE ostuEsssnci (UOMO) Far parlare l'essere attraverso
e
tenzpo. L'uomo, infatti, come
l'uomo, l'Esserci, è l'obiettivo di Essere si è visto, ha una Straordinaria intimità
l'essere: «attraverso il suo essere l'essere stesso gli è aperto». Egli si interroga sull'essere, interroga l'essere e vive la questione dell'essere come un suo personale problema. Heidegger ritiene che questa posizione di privilegio spetti all'uomo, perché l'uomo non è un ente qualsiasi ma un ente che ha con l'essere un rapporto singolare. con
«Questo
ente è caratterizzato dal
l'essere stesso
fatto che attraverso il suo essere,
gli e aperto. La comprensione dell'essere ‘e, nel contempo,
determinazionedell'essere dell'uomo».51 L'uomo ‘e, pertanto, la porta di accesso dell'essere. Però, per arrivare a vedere l'essere attraverso l'uomo, è necessario far sì che la nostra conoscenza dell'uomo sia scevra da ogni errore. Per essere sicuri di questo occorre mettere tra parentesi tutto quello che la filosofia, la psicologia, la storia, Yetnologia, la religione, ecc. ci dicono dell'uomo. Dobbiamo applicare l'epatite? a tutte queste informazioni e Cominciare da capo lo studio dell'uomo. I-Ieidegger applica allo studio dell'uomo il metodo fenomenologico: parte dall'uomo di fatto, lascia che l'uomo si manifesti, tale quale, e cerca di comprenderne il manifestarsi. Nella sua indagine antropologica, egli scopre nell'uomo alcuni tratti fondamentali caratteristici del suo essere, che chiama esistenziali. Il primo e quello di essere-riel-moizdo. Per "mondo" Heidegger non intende la natura, nell'insieme degli esseri materiali, bensì la cerchia di interessi, di preoccupazioni, di desideri, di affetti, di conoscenze, in cui l'uomo si trova sempre immerso. Per questo suo trovarsi sempre collocato in una situazione lleidegger chiama l'uomo Dasein, esserci. una
51) lbiaî, p.23.
Fenomenologia e metafisica
597
Uessere-nel-mondo, il trovarsi affetti e di interessi è la più importante.
in una situazione, in una cerchia di caratteristica fondamentale dell'uomo, ma non una
L'uomo, infatti, non è legato alla situazione in cui si trova, ma è aperto a diventare sempre qualcosa di nuovo. Anzi, la stessa situazione pre— sente è determinata da quello che l'uomo intende fare nel futuro: molto, se non tutto quello che fa oggi, lo fa in vista di quello che vuole essere domani.
Heidegger
chiama questa caratteristica dell'uomo di
essere
fuori di
sé, davanti a sé, nei propri ideali, nei propri piani, nelle proprie possibilità, esistenza. Ora, poiché l'uomo «si comprende dalla sua esistenza, dalla sua pos-
sibilità che gli è propria di essere o no se stesso>>,52 Heidegger afferma che l'essenza, cioè la natura, dell'uomo consiste nella sua esistenza.
ll terzo esistenziale e la temporalità. L'uomo è un esistente perché è legato essenzialmente al tempo. Questo fa sì che egli non riposi nell'essere, ma che nel suo vero essere egli si trovi sempre oltre se stesso, nelle sue possibilità future. E in questo senso l'uomo e futuro. Però, nell'attuare queste possibilità, egli parte sempre da una situazione di fatto in cui si trova già, e in questo senso è stato. ln quanto, infine, deve far uso delle cose che lo circondano, è presente. Alla temporalità spetta la funzione di unificare l'essenza con l'esistenza: «La temporalità rende possibile l'unità di esistenza, essere di fatto ed essere decaduto, e perciò costituisce originariamente la totalità
delle strutture dell’uomo».53 Alle tre "stasi" temporali (passato, futuro e presente) corrispondono nell'uomo tre modi di conoscere: il sentire, l'infermiere e il discorrere. Mediante il sentire è in comunicazione col passato; mediante l'infermiere è in comunicazione col futuro, con le sue possibilità; mediante il discorrere
è in comunicazionecol presente. Tra i due primi esistenziali, essere-nel-mrmdi) ed esistenza, c'è aperto contrasto: l'uno incatena l'altro al passato, l'altro lo proietta Verso il futuro. A seconda che l'uomo si lasci guidare dal primo o dal secondo la sua Vita sarà inautentica o autentica.
ruta inautentica o barmlechi si lascia dominare dalla situazione, dallessere-nel-rnondo, dalla "cura" per le cose. Nell'esistenza inautentica l'uomo si serve delle cose, il cui carattere essenziale e lmutilizzabilità",ne progetta l'uso attraverso la scienza, stabilisce rapConduce
52) lbid, p. 55. s3) non, p. 32s.
una
598
Parte terza
porti sociali con gli altri uomini, ecc., ma i rapporti con gli altri si fanno anonimi nella chiacchiera; l'aspirazione a sapere si vanifica nella Cirriosità; Pindividualità delle situazioni sfuma nellfleqitizioco. Nella vita ìnautentica chi detta legge è la massa (das Man): sappiamo quello che sa la massa, ci divertiamo come si diverte la massa, giudichiamo di letteratura, di arte, di sport, ecc. come giudica la massa. E noi ci sottomettiamo volentieri alla legge della massa, osserva Heidegger, perché essa ci libera dalla responsabilità di essere noi stessi responsabili di assumere noi stessi l'iniziativa, di prendere una decisione: nella vita quotidiana è già tutto deciso. Conduce invece una zitta autentica chi se Tassume come propria, se la forgia, se la costruisce secondo un proprio piano. Autentica è la vita di chi sente l'appello del futuro, delle proprie possibilità. E, poiché fra le possibilità umane quella estrema è la morte, vive autenticamente solo colui che conduce la sua esistenza in vista della morte, in vista della possibilitàdi non esserci più. Secondo Heidegger la morte appartiene alla struttura fondamentale dell'uomo, è un esistenziale; non è una possibilità lontana ma costantemente presente. L’essere è sempre consegnato a questa possibilità, al di là della quale non ne ha più altre. «La possibilità più propria, non relativa e non oltrepassabiledell'uomo, è la morte: egli non se la procura p0steriormente nel corso della vita, ma appena comincia a esistere è già gettato in questa possibilità>x54 Nella morte l'uomo conquista la totalità della sua Vita. Finché essa non arriva, all'uomo manca ancora qualche cosa che egli può essere e sarà. Ciò che ancora non c'è è la fine: anch'essa appartiene alle possibilità delYEsserci. È l'estrema possibilità che limita e determina la totalità del suo essere. L'uomo diventa consapevole della sua soggezione alla morte nella angoscia, che e un'altra disposizione fondamentale del suo essere. L'uomo non può sottrarsi alfangoscia. Se lo volesse, significherebbe che egli Vuole nascondere e negare il carattere finito del suo essere, reclamando uifinfinituciine che non gli compete. Heidegger, con Simmel e altri, chiama la morte principimii individuatioÌZÎS, il principio formale della vita umana: come il frutto è tenuto insieme dalla buccia che lo limita, così anche la vita umana diventa un tutto solo mediante la morte che la limita, la informa, la preserva dallo snaturarsi, dallo sfigurarsi. Solo la morte permette all'uomo di essere compiuto.
54) 112121., p. 275.
Fenomenologùz e nzetafisica
599
IL RICONOSCIMENTO DELLA FILOSOFIA L'essere nell'uomo ‘e essenzialmente legato alla temporalità e, perciò, sfocia inevitabilmentenel nulla. Così lo studio dell'essere condotto in Essere e tempo attraverso l'Esserci finisce in un vicolo cieco. Ciò che viene alla luce non è affatto l'essere, ma la totale precarietà del suo specchio, l'Esserci; e l'analisi esistenziale anziché svelare l'essere finisce per occultarlo completamente. Attraverso l'Esserci l'essere non Viene svelato ma celato. A questo punto Heidegger si accorge di aver sbagliato strada. Occorre operare una inversione totale, una Kelzre, una svolta completa. Occorre abbandonare la fenomenologia esistenziale per dare il Via a una autentica fenomenologia ontologica. È quanto Heidegger ha cercato di fare negli scritti posteriori a Essere e tempo, a partire da Introduzione alla nzetafisica, del 1935. Questo saggio, a parere di Vattimo, «occupa una posizione centrale e peculiare nello svolgimento del pensiero di Heidegger, posizione che risulta confermata se si passa dalla collocazione cronologica all'esame del contenuto. Gran parte dei temi che costituiscono la successiva speculazione heideggeriana fino agli anni più recenti sono infatti chiaramente annunciati e affrontati nella Eirzfiihrung, tanto che essa si può a buon diritto collocare accanto a Sein una’ Zeit come seconda opera chiave per la comprensione dell'intero suo pensiero>>.55 In Introduzione alla metafisica I-Ieidegger inverte la direzione, che non era stata soltanto sua, bensì quella di tutta la metafisica occidentale; non più dall'ente (Fessente) all'essere, ma dall'essere all'ente. L'essere è il punto di partenza, è il fondamento, la sorgente da cui tutto discende. Gli enti o essenti sono le parole, che allo stesso tempo dicono e legano l'essere, e perciò allo stesso tempo lo svelano e lo occultano. In questo modo Heidegger ritiene di sfuggire alla trappola in cui a suo avviso è caduta tutta la metafisica (greca, cristiana e moderna), che assumendo come punto di partenza questo e quell'ente, questa o quella modalità dell'essere, non era mai riuscita a oltrepassare l'orizzonte degli essenti ossia l'orizzonte della fisica e finiva regolarmente nella identificazione dell'essere con l'Ente supremo. Pertanto il cammino che Ileidegger percorre in Introduzione alla metafisica non è più quello della metafisica (che ha portato all'oblio dell'essere), bensì quello della fenomenologia e della storia, o meglio della fenomenologia attraverso la storia della comprensione dell'essere nella cultura occidentale. Solo la storia, secondo I-Ieidegger, riconducendoci alle origini dell'apparizione dell'essere può dischiuderne l'essenza. Scrive -
-
Heidegger a questo proposito: ‘i-i)
G. VATTIMD, "Presentazione" di M. HEIDEGGER, ÎHIFGCÌLIZIDHL’ alla G. Masi, Milano 1979, p. 6.
metafisica, tr.
di
600
Parte terza
«Ci accingiamo al lungo e gravoso compito di riportare alla luce un mondo nel frattempo invecchiato; onde veramente, vale a dire storicamente, rinnovarlo, ci necessita di conoscere la tradizione. Dobbiamo cercare di sapere di più, e in maniera più rigorosa e impegnativa: più di quanto si sapesse in qualsiasi altra epoca 0 precedente rivoluzione di pensiero. Solo il sapere più radicalmente storico può permetterci di intendere il carattere insolito dei nostri compiti e garantirci contro il
nuovo avvento
di
una
imitazione».56
restaurazione pura
e
semplice e di
una
sterile
riportare alla luce l'essere nella sua nativa sorgente, secondo Heidegger occorre districare e srotolare (eri twinden) tutta Vintricata matassa che la metafisica occidentale ha avviluppato intorno a lui. Questa operazione viene condotta esaminando le quattro principali delimitazioni che l'essere ha assunto nel pensiero occidentale a partire dalla filosofia greca: apparire, divenire, pensare, dovere. Queste quattro delimitazioni, a giudizio di Hcidegger, non sono affatto casuali: «Quanto attraverso di esse viene mantenuto in uno stato di separazione ha una tendenza originaria a raccogliersi in unità. Queste distinzioni hanno dunPer
que una loro necessità>>fi7 Introduzione alla nzetafisica
consta di quattro capitoli che trattano di: la domanda metafisica fondamentale; 2) grammarispettivamente 1) tica ed etimologia della parola "essere"; 3) la domanda sulla essenza dell'essere; 4) la limitazione dell'essere. Qui noi daremo un breve resoconto dei capitoli primo e terzo, che sono indubbiamente i più interessanti e più importanti per cogliere i nuovi sviluppi della fenomenologia
ontologica heideggeriana. La
domanda metafisicafondamentale
Questo è il titolo che lo stesso l-Ieidegger dà al primo capitolo. E la domanda metafisica fondamentale è il famosissimo interrogativo che già Leibniz si era posto: «Perché vi è, in generale, Passante e non iI 1mila?» Questa è la domanda metafisica per eccellenza e gode su qualsiasi altra domanda di una triplice priorità: in ordine all'ampiezza: "è la più vasta"; in ordine alla profondità: "è la più profonda"; in ordine all'origine: "è la più originaria". Uinterrogativo riguarda tutti gli enti senza nessuna distinzione: «In ragione della sua portata illimitata tutti gli enti per essa si equivalgono». Perciò «bisogna evitare di porre in primo piano un ente particolare, anche l'uomo (...). Non sussiste nessun motivo perché, per entro l'essente nella sua totalità, si debba porre in primo piano quel56)
M.
HEIDEGGER, Introduzione alla THCÎflfiSÎCH, cit., pp.
57) Ilzid, p. 204.
134-135.
Fenomenologia e metafisica Yessente chiamato uomo, alla cui mo»
(pp. 15-16).
specie noi stessi
per
caso
601
appartenia-
La domanda metafisica fondamentale, già singolare in se stessa, assume Capitale e Vitale importanza per colui che la solleva: è un evento nella sua esistenza. L'evento consiste in un salto, che comporta l'abbandono di tutte le precedenti certezze; ma si tratta di un salto singolarissimo, che si esplica più in maniera passiva che attiva, è un salto originario (Ur-
sprimg).
è szitsccttîbiîe di verifica; perciò non si può stabilire con certezza se essa e autentica oppure inautentìca. Tuttavia, almeno una cosa è certa: non è autentica quando si presta a ricevere una risposta sicura, precisa, definitiva; per esempio, la risposta biblica: c'e Yessente perché Dio l'ha creato. D'altronde questa ‘e una di quelle domande che si colloca fuori dalforizzonte della fede: Yinterrogarsi sullessente in rapporto al suo fondamento per il credente è «una follia» (p. 19). La domanda metafisica
non
Caratteristiche della filosofia La filosofia è un sapere: inattualc, cioè si colloca al di fuori e al di sopra del tempo; inutile, cioè disinteressato: «Non è un sapere da potersi immediatamente applicare come quello economico 0 quello, in genere, professionale, Che, di volta in volta, si può apprezzare in base alla sua Litilità» (p. 2D); è ambiguo cioè offre tutto e nulla; per questo motivo spesso si pretende dalla filosofia di più di quanto può dare; peraltro è un sapere fecondo, in quanto fornisce un orientamento nella Vita e una valutazione delle cose, ma non nel modo in cui generalmente si pensa. Rimane sempre un sapere dzflîcile, perché «è proprio dell'essenza della filosofia di rendere le cose non più facili ma più difficili. E questo non a caso: infatti il suo modo di comunicare appare inconcepibilee addirittura pazzesco per il senso comune. Il compito vero della filosofia Consiste in realtà piuttosto nelfappesantimento dell'esserci (Daseiiz) storico e, in ultima analisi, dell'essere stesso» (p. 22). Per questo motivo rimane sempre un sapere staraordinario: «Filosofare significa interrogarsi su ciò che è fuori dell'ordinario. (...) Ed è lo stesso domandare che è al di fuori dell'ordine. Esso è interamente libero e volontario, pienamente ed espressamente fondato su di una segreta base di libertà, su ciò che abbiamo denominato il salto» (p. 24).
Oggetto iniziale della filosofia e della nzetafisica La definizione di Aristotele dice che la filosofia studia l'ente in quanto ente. A questa disciplina è stato successivamente dato il nome di tritata-fisica. Ma se si risale al significato originale del termine physis, il quale voleva dire «ciò che si dischiude da se stesso (come, ad esempio,
Parte terza
602
lo sbocciare di una rosa), Paprentesi dispiegantesi e in tale dispiegamento l'entrare nell’apparire e il mantenersi in esso, in breve: 10 schiudentesi-permanente imporsi», allora si può ben dire che oggetto della filosofia è nient'altro che la physis, in quanto «la physis è 10 stesso essere, in forza del quale soltanto Pessente diventa osservabile e tale rimane» (p. 26); «Pessente come tale nella sua totalità è physis, cioè ha come essenza
Caratteristica lo
schiudentesi-permanente imporsi» (p. 28). Pertanto stu-
diare la physis e studiare l'essere è la stessa Cosa. Senonché non è a questo studio dell'essere come tale che ha atteso la metafisica tradizionale: volendo scavalcare la physis essa ha fallito il suo obiettivo, l'essere, fin dall'inizio. «Per chiunque si ponga dal nostro punto di vista, diviene chiaro che l'essere come tale risulta in realtà nascosto alla metafisica, resta obliato, e ciò in maniera così radicale che la dimenticanza dell'essere, col cadere essa stessa in oblio, viene a costituire l'impulso, ignoto ma costante, che sollecita il domandare metafisico»
(p. 30).
Il ricominciamenti)della filosofia Per fare autentica filosofia occorre ricominciare da capo, sollevando la domanda fondamentale: «Perché Vi è, in generale, Yessente e non il nulla?>>. Questa domanda ha carattere fortemente personale. Per affrontarla non ci sono né maestri, né guide, né compagni, né sostituti: «è un andare avanti domandando (...) che non conìporta nessuna compagnia» (p. 31). Essa ha, inoltre, carattere di ri-soluzione, di impegno: «interrogare significa voler-sapere. Chi vuole, chi pone tutto il suo essere in un volere, è risoluto» (p. 32). Infine, ha anche carattere di esercizio: l'atteggiamento interrogativo dev'essere sviluppato, fortificato con l'esercizio (p. 33).
di
nuovo
Svolgimento della domandafondanrentale Al fine di chiarirne il senso, Heidegger vi distingue tra Pinterrogato (l'essente) e ciò su cui verte l'interrogazione: il fondamenti) (Grand) delTessente. A prima vista, si ha l'impressione che la domanda sia tutta rinchiusa in "perché Yessente?" e che l'aggiunta "e non il nulla" abbia una funzione meramente pleonastica. Tuttavia, se si fa maggior attenzione si vede che c'e almeno
l'espressione ”e
una
ragione storica per integrare la
domanda con
il nulla": il fatto che la filosofia si è posta sin dall'inizio insieme alla domanda sull’essente anche la domanda sul nonassente, sul nulla. Ma c'è di più: il divieto di interpellare il nulla, perché il nulla è nulla, è sì legato alla logica del pensare, ma si tratta di una
logica
non
che opera all'interno di
una
determinata
precomprensione del-
Yessente, e potrebbe essere che «ogni pensiero che obbedisce solamente
Fenomenologia e nzefafisica
603
alle regole della logica tradizionale si trovi fin da principio nell'impossibilità anche solo di comprendere, in generale, la domanda circa l'essente, e tanto più nella impossibilità di svilupparla realmente e di pervenire a una
risposta» (p. 36).
Solo la
logica
del
pensiero scientifico vieta il
discorso del nulla. Ma (e questa è tesi assai cara a Heidegger) il sapere filosofico c il poetare godono di un'assoluta priorità sul sapere scientifico (pp. 36-37). Ci sono pertanto delle buone ragioni (storiche e teoretiche) per includere nella domanda fondamentalela frase "e non il nulla". Questa aggiunta conferisce alla domanda un più ampio respiro e le apre un orizzonte diverso. Nella forma abbreviata l'orizzonte e il respiro restano sempre quelli deltessente,‘ così, si e tentati di rinvenire il fondamento nello stesso ordine (un essente superiore). Invece, includendo il riferimento al nulla, ciò che si vuol scoprire è la ragione della Vittoria dell'essente sul nulla (cf. pp. 38-39). La
differenza ontologica tra assente ed essere
questa differenza basilare, primaria? Non è soltanto una differenza logica, concettuale, bensì una differenza reale. Anche se inafferrabile, l'essere rimane sempre distinto dall'essente, è altra cosa rispetto all'essente. E ciò implica una qualche comprensione dell'essere: Di che natura è
solo grazie a tale comprensione noi possiamo interrogare l'essente a proposito del suo essere (cf. p. 43). L'essere non è incluso nella definizione dell'essente (del cavallo, dell'uomo, del gesso, ecc.) eppure senza l'essere nessun essente è. E, tuttavia, Yessente non è percepibile immediatamente, non è qualcosa Che si vede (et. pp. 44-46). Ma tutto questo non giustifica la tesi nietzschiana secondo cui l'essere è "fumo, esalazione, errore". Quella sull'essere è una domanda estremamente seria, che tocca direttamente il destino dell'Occidente. Dal rapporto che l'umanità assume nei confronti dell'essere ne va del suo destino, della sua storia. In effetti, l'oblio dell'essere e la frenesia per Yessente sono la causa vera e profonda della crisi e della rovina dell'Occidente e del mondo intero (cf. pp. 48 35.). Del tutto singolare è la responsabilità del popolo tedesco che «è il popolo metafisico per eccellenza» (p. 49), nei confronti dell'essere.
ripetizione del cominciamento, superando gli errori della ontologia Dopo la "morte dell'essere" sentenziata da Nietzsche, solo un cominciamento nuovo, originario, può restituire allînterrogativo «che cosa è l'essere?», quella forza, quella rilevanza, quel peso che gli è proprio come interrogativo fondamentale. La ripetizione del fondamento riguarda anzitutto e soprattutto il concetto di "essere", sottraendolo a quelVappiattimento che l'ha ridotto a "concetto più generale di tutti", come La
604
Parte terza
ontologia (cf. pp. 49-51). Per realizzare la ripetizione del cominciamento occorre «ricollocare l'esistenza storica dell'uomo (...) nella potenza dell'essere da rivelarsi in modo originario: tutto ciò, beninteso, solo nei limiti del potere concesso alla filosofia» (p. 52). Porre questo nuovo cominciamento è una ”decisione storica" per l'Europa e per tutto il globo terrestre. Esso è indispensabileper vincere quel depoterzziainento della spirito che si registra ovunque oggi nel mondo. è stato normalmente inteso dalla
La donzanda sul! essenza: aiellîzssere
Questo è il titolo del terzo capitolo di Introduzione alla mtetafiflsica che stiamo analizzando. Per trovare una risposta a questo interrogativo, diventato sempre più oscuro e complesso dopo Voscuramento patito
dall'essere
lungo le peripezie della
metafisica occidentale,
Heidegger
anzitutto di chiarire i vari significati della parola "essere", di determinare poi l'orizzonte del senso dell'essere e di illustrare l'importanza della conoscenza dell'essere.
cerca
"Essere", questa parola apparentemente tanto vaga e indeterminata tuttavia è così densa di significato da fornire una sicura e decisiva linea di demarcazione sia nell'ordine del pensiero sia in quella del linguaggio: «Riflettendo più
attentamente
su
questa parola risulta alla fine que-
malgrado ogni obliterazione, mescolanza, genericità del suo significato, noi pensiamo in essa qualche cosa di determinato. Questo qualcosa di determinato è così determinato e unico nel suo genere che occorre fare la seguente aggiunta: quell'essere che tocca a qualsiasi ente e che si sperde in ciò che vi è di comune, è, per eccellenza, quanto vi è di più unico» (p. 88). sto:
Pertanto «proporsi di abbandonare l”’essere" come parola vuota di senso, per rivolgersi all'essente in particolare, è cosa non solo avventata ma oltretutto eminentemente incerta» (p. 89). E dopo gli esiti fallimentari dell'analitica esistenziale dell'Esserci, quella è una strada che Heidegger non giudica più percorribile. La conoscenza dell'essere si ottiene soltanto mirando all'essere e non agli essenti. D'altronde che ci sia una certa cognizione dell'essere lo si può provare quanto meno indirettamente. Infatti, senza una cognizione dell'essere risulterebbe impossibile qualsiasi dischiudersi dell’essente in quanto tale, e risulterebbe impossibileanche il linguaggio, perché parlare è sempre dire l'essere. «Dì contro al fatto che la parola "essere" rimane per noi, quanto al senso, un'ombra vaga, sta il fatto che noi, d'altra parte, comprendiamo l'essere e lo distinguiamo con sicurezza dal non essere» (p. 91). «Supposto che noi non comprendiamo per nulla l'essere, supposto che la parola "essere" non avesse nemmeno quel significato evanescente, ebbene, in tal caso non ci sarebbe più, assolutamente, nessuna parola. Noi stessi non potremmo
Fenomenologia e metafisica
605
in alcun modo dei dicenti. Non potremmo in alcun modo essere quello che siamo. Poiché essere uomo significa essere uno capace di dire (ein Saggender). L'uomo è uno che dice di sì o di no solo perché è, nel fondo della sua essenza, un dicente, è il dicente» (p. 92).
essere
Inzportanza e valore della comprensione dell'essere Il fatto che noi comprendiamo l'essere, anche se in modo indeterminato e opaco, «ha per il nostro esserci il più alto valore, in quanto vi si manifesta una forza nella quale si fonda tutta la possibilità essenziale del nostro esserci. Non si tratta di un fatto qualunque, ma di qualcosa che per il suo peso esige la più alta Valutazione, a patto che il nostro esserci, che è sempre qualcosa di storico, non rimanga per noi qualcosa di indifferente. D'altronde anche perché il nostro esserci possa rimanere per noi un'entità indifferente, occorre comprendere l'essere. Senza questa comprensione non saremmo neanche in grado di dire di no al nostro esserci» (p. 92). interrogare l'essere (non il rispecchiarlo o rappresentarlo 0 Yapprenderlo) è l'unica via da seguire per sottrarlo al suo nascondimento. E «il nostro interrogare risulta tanto più autentico quanto più ci atteniamo con aderenza e costanza a ciò che più merita di essere investigato, e precisamente al fatto che l'essere ‘e ciò che per noi risulta compreso in modo completamente indeterminato e tuttavia eminentemente determinato» (p. 93). ljinterrogare Verte sul senso dell'essere cioè sulla sua "aperti1ra”. La filosofia come accesso all'essere
Il dischiudersi dell'essere è un evento e un evento è anche la filosofia in quanto cerca di ri-effettuare tale dischiudimento. La via però che la filosofia ha da percorrere non è quella ascendente della metafisica tradizionale (d all’essente verso l'essere), bensì quella discendente: «dall'essere a ciò che si deve problematizzare della sua apertura» (p. 95). La "discesa" da seguire è quella tracciata dalla lingua, perché il dischiudersi dell'essere ha luogo nel linguaggio: «l'essere stesso e legato alla parola in un senso del tutto diverso e più essenziale di qualunque altro ente»
(p. 97).
L'orizzonte nel senso dell'essere
esemplificazione ed esplorazione dei vari sensi dell'essere, Heidegger perviene alla conclusione che essi si inscrivono tutti dentro un certo orizzonte, che corrisponde a quello del pensiero Mediante
una
vasta
certa linea unitaria che li percorre tutti. Essa orienta la dell'essere verso un determinato orizzonte dal quale trae comprensione
greco: «C'è
una
606
Parte terza
significato. La determinazione del senso dell'essere si circoscrive nell'ambito della presenza (Gcgentcvàrtigkeif) e della presenzialità (Antvescnheit), della consistenza (Bcstchcn) e della sussistenza (Bestand), della permanenza (Azifenthalt)e dell'avvenire (Vor-koznmen)» (p. 101). il
suo
LA VERITÀ DELUFSSERE
metafisica Heidegger ha evidenziato non soltanto il primato ontologico ma anche logico dell'essere: la conoscenza dell'essere si dà soltanto a partire dall'essere, non dagli enti. Ma quando e come l'essere si lascia veramente conoscere? Questo e l'interrogativo che Heidegger affronta nell’opuscolo Vom Wesen dar Wnhrheit (L'essenza Nellfllrztroduzioize alla
della verità).58 Che la verità abbia un rapporto con l'essere è sempre stato ammesso da tutti i filosofi, ma, come ricorda l-Ieidegger, la definizione tradizionale della verità la collega immediatamente alla conoscenza, secondo la celebre definizione: zieritas est ndaequatio rei et intcllectus. Ma, secondo Heidegger, l'essenza della verità non può consistere in questo: «la verità non risiede originariamente ne|l’enunciazione».5‘*Infatti, prima che pronunciarsi o enunciare, esiste un aprirsi all'essente che a sua volta si apre: «Dire che Passerzione (Aussnge) è vera vuol dire che essa scopre l'essente in se stesso. Essa asserisce, manifesta, ossia "lascia vedere" l'essente nel suo essere scoperto. Esser-tien) (verità) dellhsserzione, può intendersi solo come essere scoprente (ezitdcckenti-sein). La verità non è quindi affatto strutturata a guisa di una concordanza fra conoscere essente (soggetto) e un altro ente (oggetto) (...), La verità (lo scoprimento) deve sempre venir strappata all'essente. Uessente risulta sempre strappato allbccultamento. La messa allo scoperto effettiva è
sempre una specie difurto (...).
L'espressione lasciar-essere, necessariamente adoperata a proposito dellessente, non ha nulla a che fare col tralasciare o con l'indifferenza, al contrario. Il lasciar-essere e, nella fattispecie, un lasciarsi andaaffidarsi all'essente. ll che di rimando non si deve intendere come un semplice occuparsi, custodire, prendersi cura, disporre delFessente che via via si incontra o che si cerca. Lasciar-essere Yessente per quell'essente che è significa affidarsi a ciò che è aperto, manifesto, e alla sua apertura, manifestazione, in che ogni essente consiste e che porta con sé. Questo essere-aperto, questo manifestarsi, il pensiero occidentale l'ha concepito fin dall'inizio, come tà aletheia: il non
re, un
-
—
nasc0sto>>fi°
55) Ediz. Klosterman, Frankfurt 1949, da cui cito. 5°) Vom Wescn dei‘ Wahrlzeit, cit., p. 12. b“) lbizi,pp. 12 ss.
Fenomenologia e metqfisica
607
La verità è essenzialmente "scoprimento" (Entdeckung), il quale implica allo stesso tempo apertura, da parte dell'uomo, e manifestazione, rivelazione da parte dell'essere. Con ciò Heidegger intende ricuperare il valore dell’intuizione presocratica del logos come scoprimento della verità dal suo essere nascosta (alethòs non nascosto), col bandirne l'aspetto semplìcemente formaie dato alla adaequatio rei et intellectus, onde farcela apparire come l'espressione di ciò che, appunto, nel logos si manifesta: ossia dell"'essere" in quanto sottratto al nascondimento, in quanto scoperto. Ciò su cui insiste Heidegger è che il fatto di aprirsi alla verità, come un "lasciar essere l'essere" non è un atteggiamento che l'uomo, in assoluto, possa scegliere: in quanto egli si trova già costituzionalmente fondato nell'apertura dell'essere, ovvero nella verità che lo possiede più di quanto sia da lui posseduta. Ma lo stesso vale anche per la non-verità. La possibilità di smarrimento dell'uomo di fronte alla verità, ossia l'errore (das Irrtztm) è giustificato anzitutto dal fatto che l'essere non è mai del tutto aperto e svelato, onde si presta a un falso riconoscimento da parte dell'uomo che crede di =
ravvisarlo nelle sue manifestazioni semplicemente parziali agli enti, anziché perseguirlo nella sua totalità. Così l'errore e la falsità dipendono fondamentalmente da un atteggiarsi deiettivo e inautentico dell'uomo di fronte al mistero dell'essere, di fronte alla sua essenza sempre coperta e sempre svelata. Ciò significa non prenderlo in considerazione come tale ma lasciarlo cadere nell'oblio, fraintendendo così la stessa significazione degli enti e disperdendosi nelle mere occasioni di una vita banale. La non-verità come errare-errore è la «clis-trazione dell'uomo dal mistero e il suo rivolgersi a ciò che è corrente, sempre da una cosa all'altra e allontanandosi dal mlSter0>xÒl Nella nativa tendenza a offrirsi al disvelamento del mistero dell'essere l'uomo cerca di realizzare il disvelamento dell'ente, ponendo in esso la verità anziché nell'essere stesso. La filosofia, secondo Heidegger, si ‘e trovata sempre nellequivoco di scambiare il problema dell'essere dell'ente col problema dell'essere come tale: il trascendimento verso l'ente nella sua totalità ha fatto sì che si dimenticasse l'essere che è l'assoluto trascendens ponendo l'uomo in un
permanente sballottamento. Quando la filosofia, come metafisica, ve-
nisse tolta allequivoco, apparirebbe chiaro che il problema della essenza della verità è anche, come dev'essere, problema della verità dell'essenza come trascendenza vera di fronte all'ente; però tale ”essenza" non va intesa come puro significato (come avviene nella fenomenologia husserliana); l'essenza è l'essere, per cui, «nel concetto dell'essenza la filosofia pensa l'essere».62 Quello che_ noi siamo abituati a pensare come ente
m) 112121., p. 22. a2) 11.214., p. 25.
608
Parte terza
nella sua totalità deve cedere il posto all'essere; e allora si avverte che l'essenza della verità è «il sé—celante Unico nella ricorrente storia del disvelamento di ciò che chiamiamo l'essere e che da lungo tempo siamo abituati a pensare soltanto come ente nella totalitànfl‘ ll discorso heideggeriano intorno alla verità dell'essere, che è a un tempo manifestazione e occultamento, non fa altro che parafrasare il discorso teologico sulla divina rivelazione. Secondo i teologi l'iniziativa della divina rivelazione dipende tutta da Dio, ma la sua accoglienza dipende anche dalla libertà umana; ed e comunque una rivelazione che dischiude il mistero divino in maniera parziale, poiché la verità di Dio rimane sempre celata dietro lo schermo dello spetti/uni e l'enigma. La parafrasi heideggeriana risulta peraltro legittima perché le proprietà della verità soprannaturale, fatte le debite proporzioni, si ritrovano anche nella verità naturale.
LA
DIFFERENZA ONTOLOGICA E lL NULLA
Dopo la famosa Kehre (svolta) la speculazione heideggeriana si sposta sempre più Verso l'essere stesso: l'intelligenza dell'essere Viene fatta dipendere sempre più dall'essere anziché dalla ricerca dell'uomo. Così Heidegger opera un progressivo arretramento dal Dnseiiz al Seindes per raggiungere finalmente il Sein. È un arretramento, "un passo indietro" come lo chiama I-leidegger, che è allo stesso tempo storico (verso le remote origini della metafisica) e ontologico (verso le sorgenti dell'ente). Grazie a questo arretramento, alla fine, si supera l'ambiguità di ridurre la metafisica allo studio dell'ente nella sua totalità, e si giunge alla capitale scoperta della dtfierertza ontologica tra essere ed ente. Solo allora la verità dell'essere e le ragioni del suo svelarsi-occultarsi vengono alla luce. Della differenza ontologica, ultimo traguardo della sua fenomenologia ontologica, Heidegger tratta specialmente in Che cos'è la metafisica,
Essenza del fondamento, Lettera sullìmaanesizno, Identità e differenza. A prima vista non pare che si tratti di una grande conquista, perché tutti i filosofi riconoscono che gli enti e l'essere non sono la stessa cosa. Ma per molti la differenza non è ontologica ma semplicemente logica, in quanto l'essere ‘e il più generico di tutti i concetti, il più povero e vuoto di tutti, tanto povero e vuoto da confinare col nulla. Heidegger respinge questa teoria e vede in essa la causa principale dell'oblio dell'essere. Egli critica inoltre la posizione di quei filosofi (neoplatonici) che hanno visto nell'essere la prima creazione dell'Essente infinito. E quando finalmente
h‘)
lbid.
Fenomenologia e metafisica
609
ha colto l'assoluta trascendenza dell'essere rispetto agli enti,“ tutti gli enti, incluso il Dasein (l'Esserci), può affermare categoricamente che tra essere ed essenti esiste una differenza ontologica profonda e insuperabile: non e della stessa natura dell'essente. L'essere non si lascia l'essente rappresentare e presentare oggettivamente. Questo assolutamente altro dell'essente è il non-essente. Ma questo nulla si comporta come l'essere (...). Senza l'essere, la cui abissale e ancora indistinta essenza ci è offerta dal nulla nellangoscia essenziale, ogni essente rimarrebbe privo di realtà. E tuttavia, questo non è, di nuovo, un nulla nullificante se alla verità dell'essere compete che l'essere abbia sì realtà senza Yessente, ma non mai un essente senza l'essere» .65
«L'essere
come
«In conseguenza di quanto si è detto, penseremo realmente l'essere solo se lo penseremo nella differenza con l’essente e questo nella differenza con l'essere. Solo così emerge la differenza (...). Il nostro pensare è così libero di lasciare tale differenza impensata ovvero di pensarla realmente come tale (...). L'essere si mostra come il pervenire svelante. L'essente in quanto tale appare a guisa dell'arrivo (Artkunft) occultantesi nel non-nascondimento. Essere, nel senso del pervenire svelante, ed essente come tale, nel senso dell'arrivo occultantesi, sussistono come differenziati dallîdentìco a opera della differenza. Essa istituisce e mantiene fra loro il tramite dividente (das Zuvischen) in cui il pervenire e l'arrivo sono rapportati l'uno all'altro e mantenuti divisi e relazionati nello stesso tempo. La differenza di essere ed essente, come differenza di pervenire e di arrivo è il disvelante-Velante prodursi di entrambimfifi
Pertanto l'uomo non e arbitro dell'essere né il suo suo umile servo, il suo custode, il suo fedele pastore:
padrone, bensì il
non è il padrone dell'essere. Egli è il pastore dell'essere In questo "meno" l'uomo non ci perde, bensì ci guades Seins). (Hirt alla verità dell'essere. Egli guadagna l'essenmentre perviene dagna, ziale povertà del pastore, la cui dignità consiste in questo: nell'essere chiamato dall'essere stesso alla custodia della sua verità (...). L'uomo è nella sua essenza storica quell'essente il cui essere consiste come exsistere, in questo: nell'abitare in prossimità dell'essere. L'uomo ‘e il Vicino di casa (Nachbar) dell'essere».67
«Ma l'uomo
64) 65) 66) 67)
«Das Sein selbst irn Wesen endlich ist und sich nur in der Transzendenz des in das Nichts hinausgehtenen Daseins offenbart (L'essere stesso è per essenza finito e si manifesta solo nella trascendenza dell’Esserci che se ne esce fuori nel Nulla)» (Was ist Mctaphysik, Frankfurt 1949, p. 40). finii, p. 46. M. HEIDEGGER, Identitfit mzd Difiercnz, Pfulliiìgeiì 1957, pp. 59 s. lD., Ueber der: Humanîsmus, Frankfurt i947, p. 29.
610
Parte terza
qual è la ragione profonda della differenza ontologica? Che cos'è distingue l'essere dagli essenti? Nella storia della filosofia Heidegger poteva incontrare svariate soluzioni per questo difficile problema. Per alcuni (manichei e gnostici) la causa della differenza ontologica è il male; per altri (i neoplatonici) la materia; per altri ancora (i padri della Chiesa) la creatio ex nihilo; per S. Tommaso la ragione profonda della differenza mitologica consiste nella distinzione reale tra l'essenza e l'atto di essere negli enti. Heidegger ignora la genialissima soluzione dell’Aquinate, ed esclude le altre soluzioni in quanto decadono dal piano ontologico al piano ontico. A suo avviso l'unica ragione ontologica che risolve adeguatamente questo problema è il nulla: il nulla è il vero discrimcn che separa l'essente dall'essere; è il nulla che toglie allessente la possibilitàdi coincidere con l'essere: «ll nulla è il non dell’essente e, pertanto, partendo dallessente, lo sperimentato essere. La differenza ontologica è il non fra Yessente e l'essere».6* La differenza ontologica è proprio il non interposto tra l’es— sente e l'essere; in quanto l'uno non è l'altro; l'uno ha il nihil priîintivunz di fronte all'altro. Però, precisa Heidegger, la differenza ontologica non è un non come pura posizione logica o creatura del pensare (ens rationis), Ma
che separa e
bensì un effettivo stato di rapporto fra ente ed essere; il che viene a dire che il non del nulla e il non della differenza ontologica, benché concettualmente appaiano e siano distinti, effettualmente coincidono, sono la stessa cosa in quanto rientranti in ciò che essenzializza (Weseizdes) l'essere dell'ente. Il nulla caratterizza a un tempo sia l'ente sia l'essere: dell'ente connota l'assoluta precarietà ontologica, il suo non-essere; dell'essere connota la sua assoluta trascendenza, quella trascendenza ben nota ai neoplatonici che ponevano l'Uno nella zona del nulla: al di là di ogni qualità, ogni sostanza, ogni concettualizzazione.Perciò Heidegger può sottoscrivere Yidentità tra essere e nulla affermata da Hegel, dandole tuttavia un significato totalmente diverso: per Hegel essere e nulla sono due poli astratti di una dialettica che, configurandosi come divenire, fonda l'esserci come ente determinato; per Heidegger l'ente è l'altro dall'essere, il quale, ponendosi come non di fronte e di contro all'ente, si rivela come nulla. «Si è così ottenuta la risposta alla domanda sul nulla. [I nulla non è un oggetto, né, in generale un essente. Il nulla non si presenta di per sé neppure accanto all'essente, al quale pure inerisce. Il nulla è ciò che rende possibile la manifestazione dell'essente come tale, per l'esserci umano. Il nulla non costituisce semplicemente un concetto contrapposto all'essente, ma appartiene originariamente all'essere stessomfi"
h“) lD., Vani Wesvu des Grundes, cit., p. 5. r") ID., Was ist Metaplii/sik, cit., p. 35.
Fenomenologia e metafisica La me
duplice funzione trascendenza delnelfangoscia. Non però coAncor meno ci viene dato come un oggetto. Uangoscia non
potenza del nulla nella
l'essere
e
sua
precarietà dell’essente
essente.
611
costituisce affatto
una
—
-
«si rivela
comprensione del
nulla. Il nulla tuttavia si fa per
in essa manifesta, benché non come se il nulla si mostrasse separatamente "accanto" alfessente in totale, nellînsicurezza che l'accompagna. Piuttosto si deve dire che il nulla si presenta nellangoscia insieme con la totalità dell’essente>>.7° Nonostante la sua totale inanità ontologica, quello del nulla è un concetto fondamentale della metafisica, la quale, pertanto, si deve occupare oltre che dell'essere anche del nulla. E compito dell'uomo animale metafisico per eccellenza non è solo quello di fungere da "pastore dell'essere", ma anche da "sentinella del nulla" (Platzhalter des Nichts).71 essa e
-
-
IL LlN GUAGGlO DELL’ ESSERE Oltre che filosofia dell'uomo e dell'essere quella di Heidegger è, in maniera altrettanto fondamentale ed essenziale, anche filosofia del linguaggio. Diciamo in «maniera fondamentale ed essenziale» perché, come nella concezione heideggeriana non si dà unbntologia a se stante senza antropologia, dato che l'essere viene alla luce della consapevolezza nell'uomo, né unantropologia senza ontologia, perché l'uomo è essenzialmente Dasein (esserci, essere-là), così pure, sia l'antropologia che l’ontologia sono impossibili senza semantica, poiché l'epifania dell'essere si realizza attraverso il linguaggio. Allo studio del linguaggio Heidegger ha dedicato una delle sue ultime opere, Unterzvegs Z117’ Sprache (In cammino verso il linguaggio). In essa egli, coerente con l'impostazione generale della sua filosofia che è essenzialmente ontologica (ossia tesa alla riscoperta dell'essere), considera il linguaggio in rapporto all'essere (ossia nella sua funzione ontologica). Ma proprio in rapporto all'essere, Heidegger ritiene di dover distinguere due specie di linguaggio, uno originario e uno derivato. Il linguaggio originario dice immediatamente l'essere, lo mostra, lo
rivela, lo porta alla luce e, con tale azione, esso dice inoltre e porta alla luce le cose. Questo linguaggio, precisa Heidegger, non si basa su qual-
che segno particolare e,
semplice insieme di segni, ma da ll segni traggono origine esso. linguaggio originario è la fonte primordiale dell'apparire delle cose, del loro mostrarsi. «Quando si guardi alla struttura del Dire originario non è possibile attribuire il mostrare né esclusivamente né primieramente all’operare umano. Persitutti i
7”) lbill,p. 31. 71) Cf. ibid, p. 38; cf. p. 41.
tanto meno, è un
612
Parte terza
un nostro dire, c'è sempre un mostrare come additare e nostro che lasciarsi mostrare precede questo di alla base tutto il movimento dell'urilevare». Il parlare originario sta «Esso contiene, sostiene, porge niverso: è il rapporto di tutti i rapporti. come in dono e fa ricche le quattro regioni del mondo (terra e cielo, Dio e uomo) nel loro essere l'una di fronte all'altra, le regge e le custodisce,
no
là dove il mostrare si realizza grazie a
mentre
esso
-
il Dire
originario
-
resta in
se
stesso.
Dunque,
restando in
se stesso, il Linguaggio, quale Dio originario del quadrato del mondo, raggiunge e include nella sua sfera noi, noi che, in quanto mortali, siamo parte del quadrato, noi che possiamo parlare solo in quanto corrispondiamo al Linguaggio». Come si vede, Heidegger assegna al linguaggio originario una densità ontologica fondamentale: la parola non è soltanto segno di una cosa (come insegnava Aristotele) ma è il sostegno dell'essere stesso di ogni
cosa.
Oltre al linguaggio originale c'è poi un linguaggio derivato. Tale è appunto il linguaggio umano, il quale comprende due momenti, uno di risposta e l'altro di proclamazione. «Il parlare mortale presuppone l'ascolto della Chiamata... I mortali parlano in quanto ascoltano... Questo parlare ascoltando e recependo è il corrispondere... I mortali parlano in quanto corrispondono al linguaggio in duplice maniera: recependo e rispondendo. La parola mortale parla in quanto in molteplice senso corrisponde». Questi due tratti ovvi del parlare umano quotidiano (l'ascolto e la risposta) si radicano pertanto, a parere di Heidegger, sul piano più profondo del rapporto tra linguaggio originario e linguaggio umano: «Il dire dei mortali è ”rispondere”. Ogni parola che si pronuncia è sempre ”risposta": un dire di rimando, un dire ascoltando. Uappropriazione dei mortali al Dire originario fa si che l'essere entri in una servitù liberante, per la quale l'uomo è addetto a trasferire il Dire originario, che non ha suono, nel suono della parola»?! Queste, in breve, le grandi linee della filosofia del linguaggio svolte da Heidegger in Llnterztiegs zur Sivrache. È una filosofia per molti aspetti singolare, che si distingue nettamente dalle altre due concezioni linguistiche più influenti del nostro tempo, quella strutturalistica e quella analitica. Mentre queste due si ispirano al modello scientifico e, di conseguenza, comportano la negazione diretta della ontologia, la concezione heideggeriana nasce dalla contestazione, quanto mai opportuna, del modello scientifico e dalla difesa della ontologia, e dalla ricerca di un nuovo fondamento di quest'ultima nel linguaggio stesso. Anche se
73)
precedenti citazioni sono tratte da M. HEIDEQGI-jlì, In gio, Mursia, Milano 1973, pp. 199, 169, 42-43, 205. Le
catimziizo verso il linguag-
Fenomenologia e metafisica
613
Heidegger esclude qualsiasi rapporto tra filosofia e religione e contestando la possibilità di una teologia naturale, ci appare evidente l'influenza esercitata sul suo pensiero dalla formazione teologica giovanile.
Sottolineiamo, a riguardo, alcuni punti significativi, relativi all'accostamento che il filosofo compie tra ricerca dell'essere e la funzione del linguaggio, tra linguaggio originario e linguaggio derivato: 1) come ab-
biamo già ricordato per gli idealisti, l'atto della creazione, è "parola di Dio"; cosicché il dire originario di Heidegger è riconducibilealla parola
creatrice di Dio del Libro della Genesi: la parola di Dio è parola che si fa cosa; 2) il liizguaggio derivato proprio dell'uomo riecheggia perfettamente la relazione biblica tra l'uomo e Dio. L'uomo è colui che è fatto per ascoltare la parola di Dio, riceverne la chiamata ed esprimere, nei confronti di questa chiamata, una risposta. In tal caso l'uomo diviene un proclamatore della Parola. Nell’Appendice (scritta nel 1964 ed edita nel 1970) a un suo saggio dedicato al rapporto fra Fenomenologia e teologia risalente al 1927, l-Ieidegger precisa ulteriormente la natura di quel Linguaggio non oggettivante che ha per base l'esperienza del Dire originario come «Linguaggio della Differenza», che non ha bisogno di farsi udire per parlare e parla in ogni linguaggio come sua condizione, come il "mostrare” originario, quindi creativo e incondizionato. Egli addita tale linguaggio come l'unica Via che devono seguire sia la sua meditazione che la stessa teologia ”cristiana". Anche questa è basata sull'ascolto della Parola e sulla "partecipazione", nella fede, al mistero di Cristo crocifisso, che è pure un "farsi nulla” di Dio, perché in Lui l'uomo si faccia nulla per Dio e ne accolga la salvezza. Heidegger non ha esplicitato le conseguenze di questo accostamento di linguaggio filosofico e linguaggio teologico, non ha risolto esplicitamente il problema di Dio, ultima e prima verità. Ma ha configurato la sua situazione finale, e quella dell'umanità nel nostro tempo, come di attesa, nel silenzio e nell’ascolto, di una non certa ma possibile salvezza non umana, nell’avvento di un "altro Pensiero".73 È nel linguaggio, cioè in quello che nell'uomo è più umano, che Heidegger ravvisa il cammino da seguire per questo, certamente ultimo, fine: in cui è «l'avvento di una quiete capace di giungere a placare il vento dello spazio interminato» e un ”commiato” che sia «il raccogliersi di ciò che permane», cioè l'eternità,74 che compete all'Essere in quanto» Sacro e forse via al "divino", come lo fu in altri tempi per Aristotele, Agostino, Tommaso, Bonaventura, Scoto e Rosmini.
73) Cf. M. Hl-JDI-LGGPR, Ormai solo Dio ci può salvare, Parma 1987. 74) ID., In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 123-124.
614
Parte terza
RILIEVI CRITICI
Dopo un lungo decennio di studio e di meditazione, nel 1927 Heidegger si decise finalmente di pubblicare Essere e tenzpo, il primo volume di quella che doveva essere la sua "summa” filosofica. Ma, come abbiamo visto, poco dopo la pubblicazione del suo grande capolavoro, Heidegger si accorse che la via imboccata finora per elaborare un nuovo grande sistema ontologico era sbagliata. Così il progetto iniziale venne abbandonato e la "summa” non venne mai completata. Dopo la Kehre (svolta) Heidegger cercò di riimpostare tutto il discorso, ma non fu più in grado di comporre un'esposizione sistematica e completa del suo pensiero ontologico. Era stato folgorato da una nuova luce dell'essere, ma della quale, però, riuscì a cogliere soltanto alcuni sprazzi. Così ci ha lasciato numerosi saggi, che potevano diventare capitoli di una nuova summa, ma questa non è mai stata portata a termine. Nonostante questa grave lacuna, Heidegger rimane il più grande metafisico del XX secolo, e uno dei più grandi di tutti i tempi. «Il pensiero
Heidegger è senza dubbio improntato a una formidabile serietà, che confina con l'esercizio di una vera e propria ascesi. Partito da una fenomenologia, che aveva piuttosto carattere gnoseologico, egli ha compiuto uno sforzo potente per riportare l'interesse filosofico verso le profondità abissali dell'Essere; e di fronte allînvadenza e al sussiego di un conoscere razionale, che presumeva di addomesticare la realtà, egli ha scelto
di
constatare il dramma delessere-nel-mondo».75 strutturale l'umano nel suo Mentre nel progetto iniziale la metafisica di Heidegger era sostanzialmente antropocentrica, nel nuovo progetto, elaborato dopo la Kehre, essa diviene assolutamente ontocentrica. Inoltre, mentre in Essere e tempo egli aveva tentato di costruire una metafisica dal basso (partendo dalYEssercì), negli scritti successivi, a partire dall'introduzione alla nzctafisica, egli costruisce tutta la sua metafisica dall'alto (partendo dall’Essere). Così mentre nella prima versione, nonostante le molte critiche mosse ad Aristotele, Heidegger aveva seguito l'impostazione aristotelica, poi, nella seconda versione, egli sposa l'impostazione platonica. Ma diversamente da Platone e dai neoplatonici, i quali avevano inteso l'alto in senso verticale e atemporale, Heìdegger concepisce l'alto in senso orizzontale e storico. Sostanzialmente tutta la costruzione ontologica di Heidegger riproduce il paradigma neoplatonico. Egli condivide il concetto neoplatonico dell'assoluta trascendenza (ontologica, logica e semantica) del principio primo e quello del progressivo impoverimento
quasi eroicamente la via dell’irrazionale, del
75)
C. DI NAPOLI, La concezione ziellkssere nella filosofia conlenzporartea, Roma p. 106.
1953,
Fenomenologia e metafisica
615
degli enti, man mano che questi
si allontanano dalla loro fonte origina(sia essa l’Uno oppure l'Essere). Ma come ho già rilevato, Heidegger trasferisce questi giudizi dal piano metafisico al piano storico: la decadenza dell'essere non è dovuta alla prolungata serie delle emanazioni, che alla fine sono destinate a esaurirsi nel nulla (la materia), bensì alla progressiva dimenticanza dell'essere che ha segnato la storia dell'Occidente. Mentre agli inizi, durante l'età dei poeti, la cultura occidentale aveva vissuto nella luce radiosa dell'essere, successivamente, prima per colpa dei filosofi e più tardi degli scienziati, tutta l'attenzione si è spostata dall'essere verso gli enti, e alla fine, dalla stessa Verità degli enti si è passati al dominio della tecnica. ria
fenomenologia ontologica di Heidegger è il rovesciamento della fenomenologia dello Spirito di Hegel. Hegel, che era figlio dell'illuminismo, concepisce la storia come un La
ininterrotto progresso della Ragione, dell’Idea, dello Spirito, fino alla completa manifestazione oggettiva nello Stato germanico. Nel sistema hegeliano la storia procede dallîmperfettc) verso il perfetto, dalla dispersione verso l'unità: la condizione ideale, l'età dell'oro, non si trova all'inizio ma alla fine. Per contro Heidegger ha una concezione romantica e nostalgica della storia. Nella sua fenomenologia ontologica la condizione ideale dell'essere e dell'umanità, l'età del.l'oro, si trova agli inizi: là il contatto con l'essere era diretto, immediato, estatico, mistico, contemplativo. Poi inizia la scissione, la separazione, l'allontanamento, la decadenza, l'occultamento dell'essere; subentra il nulla, la divisione, la manipolazione. Il peccato originale della umanità consiste nell'oblio dell'essere. La storia dell'occidente, che coincide con la storia della metafisica, è Ia storia di sua
questa progressiva alienazione ontologica.
speculazione di Heidegger è indubbiamente geniale e talvolta affascinante, ma dà luogo a molti interrogativi, che riguardano sia il piano storico che il piano teoretico. Per quanto attiene il piano storico, è estremamente difficileimbrigliare quel vasto e complesso fenomeno che è la storia della umanità dentro uno schema concettuale unitario. La storia dell'umanità non può essere La
ridotta alla sola storia dell'Occidente; e nella storia dell'Occidente non c'è stata una sola ma molte civiltà, che hanno conosciuto sviluppi autonomi, ispirandosi a valori fondamentali molto differenti. Ne’ il concetto hegeliano di spirito ne’ il concetto heideggeriano di essere hanno il potere di fornire una spiegazione unitaria delle grandi civiltà che hanno animato la storia dell'Occidente e tanto meno quelle che hanno illustrato la storia dell'Oriente. Inoltre la storia della metafisica fatta da Heidegger risulta troppo schematica e sommaria, e viene ridotta praticamente a due sole tappe:
616
Parte terza
quella di Platone e Aristotele (dove dall'essere si passa agli essenti) e quella di Suarez e Wolff (dove l'essere viene ridotto al più generico di
tutti i concetti). Così tutta la grande metafisica araba e cristiana del Medioevo Viene completamente ignorata. Il metro scelto poi da Heidegger per giudicare dell'oblio dell'essere, che e il metro irrazionale della mistica e dell'estetica, è decisamente discutibile. Se è vero, come afferma Heidegger che l'uomo è essenzialmente un animale metafisico, egli gode di questa qualità grazie alla ragione, non grazie a qualche sentimento, come l'angoscia. La sollecitazione metafisica può trovare le sue radici anche in un sentimento, lo stupore, come dice Aristotele, ma la speculazione metafisica e la fenomeno-
del sentimento bensì della è evidentissimo nella stessa analisi sia esistenziale sia
logia ontologica non sono opera
questo
ragione, e
ontologica
di Heidegger. Sul piano strettamente teoretico ciò che fa problema è la storicizzazione dell'ontologia e allo stesso tempo la ontologizzazione della storia. Per Heidegger non esiste altra ontologia al di fuori della epifanizzazione storica dell'essere; viceversa nel suo fondamento (Grilnd) la storia altro non è che epifania dell'essere. Questa storicizzazione dell'essere conduce ovviamente e necessariamente alla sua radicale immanenza e a una specie di panteismo ontologico.
«Heidegger è completamente estraneo alla tradizione cristiana di un Dio-creatore e gli è perciò preclusa ogni chiara affermazione circa una creazione da parte di Dio come circa ogni questione sulla prima origi-
dell'essere e dello spirito. Heidegger che ha impostato tutta la sua opera nella denuncia dell'oblio dell'essere a causa della soggettività dell'essenza in cui la Filosofia occidentale l'ha confinato, non ha trovato per conto suo altra soluzione che di affidare la verità a una (nuova) forma di soggettività. ancora più comprensiva e radicale cioè insuperabileche non quella dell’immanentismoe realismo metafisicow"
ne
Karl Iaspers VITA s
OPERE
Oldenburg nel 1883 da agiata famiglia borghese, Karl jaspers nella sua Autobiografiafilosofica, «educato dal padre all'ascrive fu, come more della verità, della fedeltà e del lavoro», ma al di fuori di ogni influsso della religione ufficiale, se si eccettuano le poche formalità della Nato
Chiesa
75)
a
evangelica. Compi gli studi liceali nella città natale, iscrivendosi
C. FARRO, Iiztrodltzioizeallhteisnio moderno, cit., II, p. 964.
Fenomenologia e nzetafisica
617
nel 1901 alla facoltà di Legge, che abbandonò dopo tre trimestri per iscriversi a Medicina. Si laureò nel 1909, divenendo poi assistente volontario nella clinica psichiatrica dell'università di Heidelberg. Nel 1913 pubblica un monumentale lavoro col titolo Allgcntcinc Psychopatilologie, dove fa sua, nel metodo e nella sostanza, non però fino alle estreme conseguenze dell'indagine ontologica, la fenomenologia di llusserl. Più che le analisi descrittive, l'opera ha di mira la totalità dell'uomo denotandone l'inafferrabilità oggettiva e la irriducibilitàesistenziale. Così, mentre in un primo tempo Iaspers era stato piuttosto contrario a una filosofia che giudicava un sapere astratto, privo di qualsiasi contatto col reale, successivamente la stessa ricerca psicopatologica lo sospinse verso la ricerca di quelle regioni profonde dell'essere umano e della realtà in generale che costituiscono il terreno specifico della filosofia. Nel 1913 si compie ufficialmente il passaggio di Jaspers dal "mondo della medicina al mondo filosofico dell'UniVersità", con il conseguimento della libera docenza in psicologia (con Wìndelband). Nel 1922 assume la cattedra di ordinario di filosofia a Heidelberg. A questo punto la filosofia diviene la professione della sua vita. Ma la coscienza di "essere in cammino" lo spinge a una vasta e
profonda assimilazione non passiva ma critica, della grande tradizione filosoficaoccidentale. il suo studio si concentra su Platone, Plotino, Agostino, Cusano, Bruno, Kant, Schelling, Hegel. Da questo studio nasceranno i suoi eccellenti profili dei Grandi filosofi (1957). Dopo un decennio di intensi studi filosofici ormai Iaspers non ha soltanto assimìlato la tradizione ma ha anche chiaramente intravisto i lineamenti di una nuova filosofia, capace di inserirsi nel clima culturale del suo tempo. In Die geistige Situation cicr Zeif (La situazione spirituale del nostro tempo) (1931) enuncia i compiti della nuova filosofia nel modo seguente: «Il pensiero che pur utilizzandola sorpassa ogni cognizione oggettiva, il pensiero in cui l'uomo vuol diventare se stesso. Siffatto pensiero che non vuol riconoscere oggetti, illumina Contemporaneamente e realizza l'essere di colui che pensa in tal modo. Sospesa in questo suo oltrepassamento, ogni concezione del mondo che fissi l'essere (quale orientamento filosofici)nel mondo), esso si appella alla sua libertà (come illuminazionedell'esistenza), creando così lo spazio del suo assoluto agire, appellandosi alla Trascendenza (come metafisica)». Tale schema risulta alla base della sua prima grande opera di filosofia esistenziale intitolata Philosophie,pubblicata in tre volumi nel 1932. Costretto dal regime nazionalsocialista a lasciare l'insegnamento universitario, non lo riprese che nel 1945, per trasferirsi due anni dopo a Basilea, dove insegnò all'università e abitò sino aila morte, avvenuta nel 1969. Diversamente da Heidegger che non pronunciò mai una parola di rimorso per le tante atrocità commesse dal popolo tedesco prima e durante il secondo conflitto mondiale, nel 1946 Iaspers pubblicò uno
618
Parte terza
Schizldfrage: quest'opera costituisce non solo un'ascoraggiosa di corresponsabilità, da parte di una delle vittime del nazismo, nella colpa del proprio popolo, ma offre insieme uno schema valido per l'analisi di qualsiasi coscienza collettiva esaminata sulla base del concetto di solidarietà nella colpa. Dopo la pubblicazione dei tre volumi di Philosophie, Jaspers attese a due grandi opere: anzitutto una logica filosofica, di cui resta il primo scritto intitolato Die
sunzione
Volume,
Van der Wahrheit (Della verità) del 1947, e di cui sono dati accenni nelle opere minori: Vemunft und Existenz (Ragione ed esistenza) del 1935, Existenzphilosophie(Filosofiadella esistenza) del 1938, Der plzilosoplzische Glaube (La fede filosofica) del 1948, Einfiihrizrzg in dei Philosophic (Introduzione alla filosofia) del 1950; in secondo luogo, una grande storia universale del pensiero filosofico, di cui possediamo il primo volume, I grandi filosofi, del 1957, e una serie di monografie che si inseriscono in questo progetto (Niccolò Cusano, Cartesio, Schelling, Kierkegaard, Nietzsche) e che ora sono pubblicate separatamente. Un accenno meritano anche gli scritti con cui jaspers entra nella polemica intorno alla demitizzazione e all'attualità del cristianesimo, fra cui specialmente Der philostiphisclze Glaube angesichts dei‘ Offenbaritng (La fede filosofica rispetto alla rivelazione) del 1962.
IL PREAMBOLO "CNOSEOLOCICO" E
IL METODO FENOMENOLOGICO
Le sorti della metafisica sono sempre strettamente legate a quelle della gnoseologia. Fare o non fare metafisica, fare una metafisica piuttosto che un'altra dipende dal genere di apertura e di contatto che l'intelligenza umana ritiene di poter avere con la realtà. Chi fa metafisica, generalmente, riconosce un potere illimitato alla ragione, e, in effetti, tutti i metafisici appartengono alla categoria dei ”razionalisti”. La metafisica è stata la grande passione di Karl Iaspers, il quale però non vede in essa una forma di sapere riservata a pochi privilegiati,ma la forma esistenziale in cui si trova l'uomo in quanto uomo: egli è l'animale metafisico per eccellenza. La metafisica è la condizione di autotrascendimento e di sconfinamento verso l'infinito che l'uomo esperisce ed esprime in tantissimi modi e non soltanto in quelli della ragione. Nel suo "preambolo gnoseologico" Iaspers respinge la pretesa di chi vuole fare della metafisica una forma di sapere riservato a una ristrettissima élite. La metafisica è affare di tutti, perché l'uomo supera costantemente se stesso. La metafisica è l'orizzonte onnicomprensìvo di ogni sforzo compiuto dall'uomo per raggiungere la Trascendenza mediante il mito, la religione, l'arte, la riflessione filosofica, la vita ascetica e mistica. Per questo motivo Iaspers rifiuta i vaniloqui di un certo idealismo immanentistico, Yorgogliosa presunzione delle filosofie che pretendono di
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detto tutto, di essere conclusive (Hegel); confuta i positivisti che negano qualsiasi Trascendenza, e che riducono la storia umana a una sorta di storia biologica. Così pure ripudia il fanatismo filosofico, ma in genere di qualsiasi tipo come il maggiore ostacolo alla comprensione tra gli uomini, alla solidarietà, al dialogo Veramente costruttivo ed efficace. Ma mentre da un lato Iaspers spalanca molte porte nuove alla metafisica, dall'altro fissa limiti invalicabilialla ricerca umana, rendendone praticamente inaccessibilel'oggetto. Il suo oggetto, infatti,l’Essere, ha il carattere di essere onnicomprensivo (Umgrezjfende) e, allo stesso tempo, di sottrarsi a qualsiasi comprensione. {Jirriducibilitàdell'Essere alla comprensione concettuale (Begrfif) conduce Jaspers a rivalutare tutte quelle forme di pensiero svalutate dalla logica ontica (onta-logia) che, nel suo progressivo affermarsi nel1’Occidente, si è curata solo dell'ente e delle sue cause. Tali sono il mito, la tautologia, la comunicazione indiretta, il paradosso, l'ironia, la fede, la gioia tragica, il naufragio che ”la filosofia delle università” rifiuta come errori logici, mentre la filosofia di jaspers ricupera e interpreta come cifre a cui occorre ispirarsi per comprendere l’essenza della filosofia e le possibilità del suo avvenire che un tempo erano state compromesse dalla religione, e oggi lo sono dalla scienza e dalla tecnica. Il clima culturale in cui Jaspers matura la sua metafisica è quello della fenomenologia husserliana e dell'analisi esistenziale di Heidegger. Jaspers si appropria del metodo fenomenologico ma non lo usa per definire le essenze eidetiche, bensì, come aveva fatto Heidegger, per analizzare accuratamente la realtà umana nelle sue molteplici manifestazioni. La sua analisi, però, non è rivolta come in Heidegger all'esistenza individuale del Dasein, ma alla storia, allo scopo di rintracciarvi le molteplici espressioni che ha assunto l'incontro dell'uomo con la Trascendenza nel corso dei secoli. Così la metafisica di Iaspers è una metafisica "storica", perché a suo parere non esiste altra uscita verso la Trascendenza che quella che l'umanità ha compiuto nel corso dei secoli. La manifestazione più diretta e immediata della Trascendenza è quella che ebbe luogo agli inizi dell'umanità, e i simboli (cifre) più eloquenti sono i simboli primitivi. Su questo punto c'è una sostanziale identità di vedute tra jaspers e Heidegger: per entrambi l'età dell'oro della ”metafisica” è quella dei poeti: solo a loro la Verità si manifestò in tutto il suo splendore. Ma mentre l'attenzione di Heidegger è tutta concentrata sull’Essere, quella di Iaspers è tutta rivolta alla Trascendenza. Della Trascendenza Iaspers ha un concetto neoplatonico: è una Trascendenza che opera a tutti i livelli: ontologico, gnoseologìco e semantico. Essa supera tutte le sostanze, tutti i concetti e tutti i nomi. Così, sinteticamente, la metafisica jaspersiana può essere definita come una metafisica fenomenologica, storica e neoplatonica. aver
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Parte terza
L'esposizionepiù organica e più completa della metafisica di Iaspers si Filosofia. Di quest'opera sono state tradotte in italiano Ylntrodzzzione generale e la Metafisica. La nostra esposizione del pensiero metafisico di Jaspers si basa principalmente su questi due scritti. trova nei tre volumi di
ORIGINE
E LIMITI DELLA RICERCA METAFISICA
Ciò di cui si OCCupa la metafisica ‘e la Trascendenza. «La metafisica espressamente a tema i rapporti esistenziali con la trascendenzam” La trascendenza è un tema comune a tutte le metafisiche, perché andare oltre il mondo dei fenomeni verso un mondo superiore, trascendente, fa parte della essenza stessa della metafisica. Ciò che distingue le metafisiche tra di loro è la Via per compiere Voltrepassamento, per effettuare la "seconda navigazione”, nonché i risultati che l'operazione del-
mette
Yoltrepassamento riesce a conseguire.
Nelle metafisiche costruite dall'alto la Trascendenza e il punto di paressa con procedimento deduttivo viene ricavata ogni altra realtà. Invece nelle metafisiche costruite dal basso la Trascendenza è il punto d'arrivo. Jaspers costruisce una metafisica "storica" (e non ontologica), dove l'alto viene fatto coincidere con la manifestazione originaria della Trascendenza all'umanità. Nella sua metafisica la Trascendenza si trova "giustapposta" sin dall'inizio all'esistenza possibile dell'uomo. Questi infatti non può sottrarsi altinterrogativo: «Che cos'è l'essere? perché esiste qualcosa, perché non esiste il nulla? (...). Destandomi alla coscienza di me stesso, mi colgo in un mondo in cui mi oriento; avevo afferrato le cose e le avevo lasciate cadere di nuovo; tutto era evidente, era senza problemi, era pura presenza. Ora, con mia grande sorpresa mi domando che cosa propriamente esiste, perché tutto è transitorio; io non ero all'inizio e non sono alla fine. Eppure, compreso tra l'inizio e la fine, domando di questo inizio e di questa fine>>.78 Iaspers ricorda anche che la metafisica viene generalmente definita con riferimento all'essere: «è 10 studio dell'essere in quanto tale». Ma, riprendendo il giudizio di Heidegger, Jaspers sostiene che la metafisica ben presto si è convertita dall'essere all'ente e si è trasformata in antologia, la quale, «come dottrina dell'essere, non può giungere ad altro risultato che quello di tradurre l'essere nella conoscenza dei modi dell'essere che si presentano e si fanno incontro al pensiero. Nella realizzazione di questo compito non sarà mai possibile incontrare l'essere unico, ma solo rendere libero il cammino per giungere all'accertamento di sé. Oggi l’ontologia non vale più come metafisica, ma come teoria delle categoriewei tenza: da
-
77) K. JASPERS, Nletafisica, tr. di U. Galimberti, Milano 1972, p. 127. 79) lbîd, p. 15. 7") lliid, pp. 41-42.
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Se l'essere viene assunto come nome della Trascendenza, allora occorre riconoscere che mentre noi conosciamo un'infinità di enti, l'essere in quanto tale risulta del tutto inaccessibile.Scrive Jaspers a questo pro—
posito:
«Occorre
distinguere tra
ciò che e direttamente
presente nella
sua
immediatezza, tra ciò che esiste ed è da scoprire, sicché se ne può parlare direttamente in categorie, e ciò che cosi non esiste, sicché se ne parla solo indirettamente, fraintendendolo, e quindi, in ogni caso,
necessariamente in categorie. La contrapposizione può essere formulata schematicamente in questi termini: Lo svelanzento dell'essere è conoscenza scientifica nell’orientamento del mondo, e coglie di volta in volta un essere determinato, in maniera più o meno adeguata. L'acCertanzento dell'essere invece è il filosofare come trascendere oltre l'oggettività: per il tramite delle categorie, esso coglie inadeguatamente in oggettività che lo rappresentano ciò che in sé non può mai diventare
oggettomfl“
DALL/ESISTENZAALLA TRASCENDENZA Nessun ente è l'essere e neppure tutti gli enti di questo mondo messi insieme coincidono con l'essere. Questo mondo non ‘e tutto. La percezione della insufficienza di questo mondo e la ragione che ha indotto i metafisici di tutti i tempi a compiere il grande balzo (Sprung) verso un altro mondo, un mondo superiore, immateriale, eterno. La metafisica consiste essenzialmente in questo "balzo". L'uscita dagli enti anche dal proprio esistere è una necessità inderogabile: la seconda navigazione è un
obbligo.
La necessità per l'uomo di aprirsi alla Trascendenza Iaspers la coglie nella libertà, questa singolarissima qualità che trasforma l'esistenza umana in una esistenza possibile anziché necessaria. Ora, l'uomo dappertutto incontra limiti quando è mosso da ciò che gli e concesso mediante la libertà.
consapevole che, in uno stato di assoluta autosufficiendovrebbe precipitare nel vuoto. Quindi, se deve realizzarsi da sé non ha altra possibilità se non quella di rendersi conto che ciò che la conduce al compimento le proviene dal di fuori. L'esistenza non è se stessa quando le accade di venir meno a se stessa, di fronte a sé sta come se fosse stata a sé donata. Custodisce la sua possibilità solo se si sa fondata nella Trascendenza. Perde la sua apertura per il suo proprio divenire, se ritiene se stessa per l'essere autentico. Per questo la libertà, nell'aprirsi un varco attraverso l'esserci del mondo, e presa ancora dalla passione di decidere dentro di sé l'essere, ma la libertà «L'esistenza è
za,
m) Ibiafl, p. 40.
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Parte terza
non può considerare se stessa come la realtà ultima e suprema. Essa infatti esiste solo nel tempo, sulla via lungo la quale, ancora, l'esistenza possibilesi realizza: pertanto non è l'essere in sé. Nella TrascendenZa poi la libertà cessa perché non c'è più nulla da decidere; là non esiste né la libertà ne’ la mancanza di libertà. L'essere come libertà che, nella nostra interiorità, è l'appello più profondo, finché dipende ancora da noi ciò che noi siamo, non è l'essere della Trascendenza. Anche
la libertà, se è ridotta a se stessa, si rattrappisce. Nella Trascendenza che come tale solo ad essa si manifesta, la libertà cerca la sua pienezza, il cui essere diventa per essa la possibilità del compimento, della realizzazione, della salvezza, oppure, la possibilità del dolore nell'essere della Trascendenza. In ogni caso la soppressione della possibile autosufficienza in sé è la suprema soddisfazione nellesserci-temporale»R“
Il passaggio dall'esistenza possibile alla Trascendenza attraverso la libertà precisa Jaspers non è una prova apodittica, una dimostrazione logica, ma un'esperienza, però un'esperienza siti generis, diversa dalle percezioni sensibilidi oggetti spazio-temporali. Si tratta di un'esperienza vissuta del tutto speciale a cui Jaspers dà il nome di esperienza nretafisica. «In essa io sto dinanzi allabisso; ne esperimento la mancanza sconsolata quando l'esperienza rimane mera esperienza dellesserci; vi trovo l'esperienza che riempie se, rendendosi trasparente, diventa cifra (...). L'esperienza metafisica non è un accertamento razionale, ma al di là di questo, una trasparenza dell'essere nell'esserci; questa trasparenza incomincia nell’immediatezza più primitiva dell'esistenza e, nella mediazione più alta del pensiero non è mai pensiero ma, per suo tramite, nuova immediatezza>>fi2 Pertanto, conclude Jaspers, «l'esperienza metafisica si sottrae a ogni possibilità di UEYIfÎCII capace di convertirla in qualcosa di valido per tutti. Se pensassi di poter disporre di lei si da poterla condurre a piacere nella coscienza in generale, se la considerassi alla stregua di un sapere, o anche solo se la trattassi con leggerezza come se fosse un sentimento puramente soggettivo, mi ingannerei. In essa si coglie un modo dell'essere, diverso da quello che è solo positivo esserci. In essa l'essere, da mero esserci, si traduce in eternità dove nessun sapere può penetrare>>fi3 Nella navigazione metafisica di Iaspers non c'è grande originalità: è una navigazione come tante altre. Solo che invece di percorrere le famose rotte dell'ordine, della verità, della bontà, del divenire, della contingenza, Iaspers preferisce seguire la rotta della libertà. Non è una via cosmologica né ontologica, ma una via antropologica di stampo agostiniano e cartesiano. —
51) lirici‘, pp. 92-93. 33) lbid, p. 244. 33) lbid,
—
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Neppure per quanto concerne gli esiti della seconda navigazione Jaspers propone tesi originali. Gli esiti della sua navigazione sono quelli marcatamente negativi dei neoplatonici. L'unica Certezza che si raggiunge è l'esistenza della Trascendenza, ma della sua natura nulla si può conoscere, e di essa si può parlare solo in modo cifrato, mediante il linguaggio dei simboli. Ma anche se l'impianto generale della metafisica jaspersiana non può essere diverso da quello di ogni altra metafisica, ci sono in essa alcuni tratti specifici che le danno una configurazione particolare, e che la
distinguono da qualsiasi altra metafisica antica o moderna. Vediamoli. l Tl{A'l"l'lORIGINALI DELLA METAFÌSICA DI IASPERS
punti originali della metafisica jaspersiana si possono ridurre a quattro: 1) la storicità; 2) l'ampiezza degli itinerari metafisici; 3) la svalutazione dell'itinerario speculativo, che tenta di ingabbiare la Trascendenza in concetti; 4) il linguaggio cifrato. I
La storicità della metafisica metafisica come storica. Che cosa intende dire? Se con questa espressione si vuol dire che ogni metafisica è figlia del proprio tempo, allora la metafisica porta necessariamente il marchio della storicità. Senonché l'ambizionedel metafisico è quella di elaborare una visione della realtà che ha valore assoluto: l'obiettivo della seconda navigazione è attingere un Principio primo che sta al di fuori del tempo e domina tutti i tempi. Anche Iaspers colloca la Trascendenza nell'eternità, ma non la metafisica. Questo è un cammino che l'umanità compie nel tempo e che procede con fasi alterne lungo l'arco della storia. Non è un cammino isolato di qualche geniale pensatore, ma una faticosa traversata del Mar Rosso che l'umanità compie tutta insieme. L'incontro con la Trascendenza non può avvenire che nella storia, e pertanto soggiace ai limiti di una manifestazione storica; non può rivendicare titoli di assolutezza ed esclusività, ma esige l'apertura e l'accoglienza degli altri incontri con la Trascendenza. Ecco un passo interessante in cui Iaspers illustra la storicità della metafisica:
Iaspers
caratterizza la
sua
«Poiché la verità della Trascendenza non è per l'esistenza che si realizza nell'esserci una verità intemporale che si lascia cogliere nella forma dell’evidenza razionale, la verità della Trascendenza deve avere questa forma storica. Ma fino a quando, per sua virtù, si anima una comunione di libere esistenze, l'esistenza, se non fraintende il
senso dell’universale, si tiene aperta alla verità altrui, e nella incondizionatezza con cui si affida alla propria verità, ha la possibilità di evitare, con la coscienza della sua storicità, Pescludenza delle altre e la
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Parte terza
della universalità; questo, ovviamente, alla sola condizione che le verità, nella loro forma storica, non rivendichino il carattere di Verità di ragione valide fuori del tempo. Quanto poi alla domanda se l'essere del se stesso nel suo rapporto trascendente può essere fondato su una circostanza storica, si deve rispondere affermativamente. La storicità, infatti, è il fondamento del sentimento del nostro non essere tutto che conduce a non considerare se stessi come il tipo di essere che, solo, ha il diritto di esistere-w“-
pretesa
La mancanza della percezione del carattere storico della metafisica conduce al fanatismo coloro che pretendono di impone a tutti gli altri le proprie idee intorno alla Trascendenza. «Ma l'autentica Verità della Trascendenza è in grado di prender coscienza del suo carattere storico e quindi non-universale, incondizionatoe quindi non-universalmente validonfi“ L'incontro con la Trascendenza è concepito da Iaspers non come una conquista bensì come un dono. Si incontra la Trascendenza quando e dove essa si rivela. «Al singolo individuo non è possibile, incominciando Con le sue forze, giungere a scoprire che cos'è la Trascendenza. Ma una insondabile tradizione, nel linguaggio delloggettività metafisica, gli permette di ascoltare ciò che, legato ad essa, può Sperimentare nel proprio presente come realtàmfit‘? La rivelazione della Trascendenza, secondo Jaspers, che qui, seguendo Heidegger, secolarizza gli insegnamenti della Bibbia, fu particolarmente luminosa agli inizi del genere umano. Allora la Trascendenza si rendeva trasparente ovunque. Perciò non esiste altra metafisica migliore di quella che percorre il cammino a ritroso fino al ricupero della rivelazione originaria. «La metafisica, come pensiero filosofico riferito alla Trascendenza, ha tutto il suo contenuto nelle origini, e la sua serietà nella possibilità che la sua esperienza dischiude. La metafisica, come possibilità tramandata, non è qualcosa di simile a una assurda traduzione della realtà della Trascendenza in possibilità logica e psicologica, ma è possibilità per l'esistenza che, grazie ad essa, può chiarificarsi a contatto con la realtà assolutam”
Ampiezza e molteplicità degli itinerari della metafisica La storia della metafisica ci ha fatto conoscere una grande varietà di itinerari metafisici, che riguardano sia l'ascesa del mondo dei fenomeni dal Principio primo, sia la discesa dal Principio primo al mondo dei
fenomeni.
m) Ibid., p. 115. 85) Ibia’. se) lbid, p. 98. s7) lbid, p. 99.
Fenmizenologiti e metafisica
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La metafisica jaspersiana, essendo una metafisica storica, è in grado accogliere tutti gli itinerari che sono stati percorsi nel corso dei secoli. Ma non si tratta tanto di itinerari che l'uomo si è aperto con la sua industria, quanto delle modalità con cui la Trascendenza è venuta incontro
di
all'uomo. Infatti
«la Trascendenza, che è
presente solo quando l'esistenza, nelle situa-
verso di essa partendo dalla propria origine, che fuoco tutto consuma o il silenzio che dice ancora il può essere tutto e poi di nuovo tace come se la Trascendenza proprio non ci fosse. Legate alla propria coscienza dell'essere, la Trascendenza si manifesta nella stessa forma che io adotto per rivolgermi ad essa; da parte mia sono in grado di cogliere il suo essere nella misura in cui, agendo interiormente divengo me stesso; essa mi tende la mano finché l'afferro; ma non deve essere forzata. Il problema ‘e di sapere quando e come la Trascendenza si palesa. L'atteggiamento che si mantiene nella disposizione, che non è passività, può essere decisivo tanto quanto l'abbracciarefreneticamente l'esserci del destinomg“
zioni-limìte, si dirige
Per parlare della Trascendenza, molto prima del linguaggio speculativo della metafisica l'umanità si è servita del linguaggio immaginifico del mito, dell'arte e della poesia. La metafisica
«comprende i miti, l'arte,
la
poesia come manifestazioni della Traappropria di ciò che la oltrepassa. La sua volta creatrice quando, da parte
scendenza e tramite concetti si metafisica filosofica diventa a
sua, legge la scrittura cifrata dell'esserci del mondo e la traduce in costruzioni concettuali. Il suo concetto diventa elemento di un mito. Tali pensieri si collocano come qualcosa di differente e nello stesso tempo di analogo, accanto alle visioni dei poeti e degli artisti e accanto ai miti autentici. Essi, pur avendo una forza di penetrazione incomparabilmentepiù piccola, possiedono in cambio una chiarezza unica e insostituibile. Non sono apodittici come le argomentazioni, sono lontani da tutte le ipotesi formulate a proposito di un essere sussistente, considerati logicamente sono circoli e paradossi e alla fine naufraganonel dissolversi di tutto il pensato>>fi9
Innumerevoli sono i metodi che sono stati utilizzatidai metafisici, in particolare durante l'epoca moderna. Iaspers li riduce a tre: il metodo profetico, il metodo scientifico e il metodo della riappropriazione, ossia dell'anamnesi storica. Nella nzetafisica profetica, ciò che nell'istante esistenziale esiste storicamente e per un singolo come assoluta certezza della Trascendenza, «quando viene espresso nel linguaggio oggettivo pretende di imporsi in
35) Ibiri,p. 171. 3") lbid, p. 83.
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Parte terza
verità universalmente valida, e così, prodotti intellettuali, la metafisica profetica perde il suo fondamento autentictwfl" Nella metafisica scientifica, le tesi metafisiche rivendicano un carattere oggettivo e verificabile,come se si trattasse di tesi scientifiche. «Le tesi metafisiche che si presentano nella storia vengono assimilate esteriormente, esaminate nella loro esattezza e nella loro falsità in relazione alla termini vincolanti
come se
fosse
una
mentre sta formando i suoi
propria norma razionale, vengono corrette, modificate e assunte nella propria costruzione. Questi criteri rispondono a una supposta scientificità, ma in realtà offendono la metafisica nella sua compiutezza, perché quest'ultima, senza la condizione della propria libertà e del proprio pericolo, non può essere posseduta dalla pura teoria».°' L'unico metodo che si addice alla nzetaflsica storica è quello della riappropriazione degli incontri con la Trascendenza che sono stati realizzati nel
corso
dei secoli. «La metafisica è sempre la storia della metafisica di
appropriati a partire dal proprio presente, ed è a un tempo il che si manifesta a partire dalla storia della metafisica. Essa reapresente lizza il suo compimento partendo dalla tradizione e sviluppandosi attraverso l'esistenza del singolo che diventa se stesso quando ascolta il lincui ci si è
guaggio del mondo, enormemente ricco e profondo, in cui entra tutto l'essere a lui essenzialewl Mentre la metafisica profetica e la metafisica scientifica riducono il mondo a una mera schematica del mondo e abbandonano l'esistenza al proprio sviluppo violento e privo di comunicazione, quella appropriatrice è prodotta sempre di nuovo dal sapere del mondo e dalla comunicazioneesistenziale. Il ridimensionamentodella
metafisica speculativa
Assumendo carattere storico ed esistenziale la metafisica jaspersiana si lascia più inquadrare dentro gli spazi ristretti della metafisica speculativa, ma si appropria di tutte le forme che l'incontro con la Trascendenza ha assunto nel corso dei secoli. Così Iaspers riconosce valenza metafisica al mito, alla metafora, al simbolo, all'arte, alla poesia non
speculativa.
QueecC., mentre ridimensiona la valenza della metafisica di della Trascendenzain modo oggettivo, unista versale, definitivo, assoluto. Ma questa cattura risulta assolutamente
pretende impadronirsi
impossibile, poiché «nell’esserci non c'è in generale l'unico cammino e oggettivamente certo dell'esistenza, ma una incertezza della
sicuro
90) una, p. 122. 91) Ibid, p. 124. 92) 12nd,
Fenomenologia e metafisica
627
possibilità in cui la Trascendenza, se la Vuol conoscere rimane equivoca e problematicam” «Col pensiero noi possiamo chiarire solo a tratti ciò che, come totalità, rimane inconoscibileal pensiero».94 Jaspers fa
coincidere la metafisica
speculativa con la legge del (giorno,
che è la legge della scienza, la quale vuol vedere e spiegare tutto con rigore e chiarezza. Mentre la vera metafisica fa sua la legge della notte: questa
raggiungere la verità soltanto nelle tenebre. Ecco un testo molto significativo sulla distinzione tra legge del giorno e legge della notte:
consente di
«La legge del giorno mette ordine nel nostro esserci, esige chiarezza, consequenzialità e fedeltà, lega alla ragione e all'idea, all’Uno e a noi
stessi. Essa esige la realizzazione del mondo, la costruzione del tempo, il compimento dell'esserci lungo una via che va all'infinito. Ma ai confini del giorno ci parla qualcos'altro. [faverlo respinto non ci lascia quieti. La passione per la tratte sconvolge ogni ordine. Si precipita nell'abisso senza tempo del nulla, che tutto trascina nel suo vortice. Ogni costruzione che si manifesta storicamente nel tempo le appa-
nella forma della illusione. Al
cospetto la chiarezza non può dimentica di sé, abbraccia ciò che non ha chiarezza, in quanto è l'oscurità intemporale dell’autentico. Per una necessità che non si lascia comprendere, che non cerca neppure la possibilità di una giustificazione, diventa incredula e infedele di fronte al giorno. Per essa non esistono né compiti né fini; essa e la forza che con impeto rovina nel mondo, per raggiungere il suo compimento nell'abisso dell’annichilarnentodel mondo>>f>5 re
penetrare nulla di essenziale,
suo
ma,
La svalutazione della metafisica speculativa colpisce soprattutto la teodicea, la quale rappresenta il coronamento della indagine metafisica. Il suo obbiettivo è dimostrare l'esistenza di Dio e far luce sulla sua natura e sui suoi attributi. Secondo Jaspers l'esistenza di Dio può essere soltanto esperita, mai dimostrata: «Nessuna giustificazione empirica e nessuna deduzione apodittica è in grado di garantire in generale l'esistenza della Trascendenza. L'essere della Trascendenza è colto nel trascendere, ma non è né osservato, né pensato».96 Ma allora che valore hanno le innumerevoli prove dell'esistenza di Dio che tutti i grandi metafisici hanno ideato nel corso dei secoli? Per Iaspers praticamente nessuno: «Queste dimostrazioni, che nelle loro forme tipiche hanno percorso i millenni, naufragano. Infatti la Trascendenza non esiste in generale, ma soltanto nella cifra storica per l'esistenza.”
93) Haiti, p. 172. 94) una, p. 173.
95) Ibid, p. 210. 96) Hard, p. 325. 97) Ibid.
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Parte terza
Mentre le prove dell'esistenza di Dio non hanno valore come dimostrazioni apodittiche, esse sono utili come chiarificazioni intellettuali dello «slancio dell'esistenza nella relativizzazionedi tutto l’esserci, che come esserci è nulla».‘”‘
Il linguaggio cifrato della Trascendenza Secondo Iaspers per
parlare della Trascendenza non si può mai usare
linguaggio immediato, diretto, descrittivo, ma esclusivamente un linguaggio ”cifrato”. «La Trascendenza, nella figurazione mitica e nella speculazione, è resa in un certo senso più vicina, ma questo avvicinamento e falso se con ciò invece di una cifra, si crede di cogliere direttaun
mente la Trascendenza stessamg‘?
L’asso1uta trascendenza ontologica
esige
i1n’a1trettanto radicale tra-
scendenza gnoseologica e linguistica. Questa è una tesi classica cara non soltanto ai neoplatonici,ma anche a Maimonide, a Eckhart, a Cusano e allo stesso Kant. In parte essa corrisponde alla dottrina dell’analogia, la quale, come è noto, oltre al mo-
positivo include anche un momento negativo ed eminenziale. È a questa dottrina che Iaspers si riferisce quando scrive: «Uindeterminata profondità dell'essere della Trascendenza si lascia formulare solo nella negazioni; è l’Altissinzt) come ideale assoluto, come il massimo che si possa pensare, il massimo in ogni senso, che, a dire il vero, non posso né immaginare né rappresentare, ma solo rendere presente nella rappresentazione che procede lungo la via della esaltazione di tutto ciò che mi riempie e mi soddisfwxm“ Doriginalità della posizione di Jaspers nella questione del Valore dei "nomi divini", più che nella sostanza si trova nel linguaggio: anziché di simboli e di analogie egli parla di cifre. La cifra è un simbolo. Ma col termine ”cifra" Iaspers intende sottolimento
il carattere non noetico del simbolismo metafisici) e di tutti i simboli che si riferiscono alla Trascendenza. La cifra non ha nessun valore conoscitivo, ma vale soltanto come richiamo di un'altra realtà. La cifra non conosce nulla della realtà a cui si riferisce. In essa «è presente una manifestazione che conosce certamente una pienezza più profonda, ma nient'altro attraverso cui poterla concepire. Questo simbolismo fin dall'inizio non è centrato sull'essere già conosciuto, di cui sarebbe fenomeneare
no, ma resta
propria manifestazione insondabile, da cui, per sua non è possibile alcuna simbolo, ma solo una sua captazione e una sua creazione. neìla
virtù, l'essere determinato rilucemlm Per questo
indagine del
"lfilbid. "Ùlbiti,p. 283. "llfiltfid, p. 326. “llfllritfl, p. 263.
Fenomenologia e metafisica
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Siamo sempre saldamente ancorati al principio che la Trascendenza non è traducibilein alcun concetto ma può essere soltanto incontrata in una speciale esperienza la quale ha luogo nelle situazioni-limite. «La «La
cifra ‘e l'essere che porta la Trascendenza alla presenzammî cifra è l'essere del limite come linguaggio della Trascendenza, in la Trascendenza si avvicina all'uomo, ma
non in se stessa. Queil mondo letto totalmente come nostro non essere perché può cifra, perché parlando miticamente la cifra del diavolo è evidente come quella della divinità, perché il mondo non è assolutamente una rivelazione diretta, ma solo un linguaggio che, senza diventare universalmente valido, si lascia percepire di volta in volta storicamente dall'esistenza e si lascia decifrare in una maniera che non è definitiva, per cui la Trascerldenzzz si rivela conte nascosta. Essa è lontana, essendo
essa
sto
inaccessibileè anche estranea, e non potendo essere paragonata a nulla è Yincomprensibilmentealtro. Viene in questo mondo come da un suo lontano essere a guisa di potenza estranea, parla all'esistenza, le si avvicina, ma le si rivela solo COME ciframW-î Per la corretta interpretazione della cifra Iaspers fissa quattro principi:
«Primo, nella cifra non si deve anticipare nulla di ciò che potrà essere successivamente conosciuto, piuttosto è il sapere nella sua totalità che concorre a rendere la cifra più decisiva, nel senso che questa si accende e vive a contatto col sapere, senza tradursi per questo in un sapere. Secondo, la cifra non è espressione di una realtà psichica umana, piuttosto è proprio questa realtà che con la sua espressione si converte totalmente in cifra. Terzo, la cifra non è il carattere delle forme della natura e non è lo spirito della creazione umana, queste piuttosto possono convertirsi in cifre. Quarto, la cifra non è la vita psichica interiormente compresa, ma è per l'esistenza unbggettività che non si lascia esprimere tramite altro, perché può essere confrontata solo con se stessa, in essa parla la Trascendenza e non semplicemente un'anima umana per quanto elevata ed estesa essa sia. Quindi ciò che si coglie nell'espressione non è la cifra. Rendere comprensibilela scrittura cifrata significa annullarla. Se mediante la comprensione del comprensibileè dato di vedere nella sua presenza e nella sua forma Pincomprensibilecome tale, quando questo incomprensibilediventa trasparente, è possibiletoccare, tramite la cifra, la Trascendenzaw“ La cifra
non
può essere colta
attraverso
nessuna
indagine speculati-
solo storicamente perseguita dall’esistente in concreto, attraverso l'esperienza dello ”scacco" e del "naufragio” del pensiero speculativo.
Va,
ma
Inzmaza, p. 251. "l3)llaid., p. 284. ‘”4)Ilwid., p. 290.
630
Parte terza
scorge il fondamento della verità, come enigma non viviamo nella Trascendenza, ma nell’esserci temporale, il senso della verità non risiede mai per noi in un compiuto possesso, ma per così dire, sulla via dell'acquisizione. La verità non può infatti configurarsi come una totalità in sé conclusa, ma è sempre collegata con la non-verità, non soltanto distinguendosi da essa, Solo nel
naufragio si
(cifrato) dell'essere. Siccome noi
comprendendola in un continuo movimento di ricerca e di superamento, in cui soltanto è dato di scoprire l'effettiva relazione tra ma
altresì
”falso”. La verità non esiste di per sé come qualcosa di fisso che di venire comunicato. La verità si genera dal1'intreccio soltanto aspetti del pensare col vivere: il suo offuscamento non può derivare che dall'allentamento del vincolo che stringe insieme questi due termini, nell'isolarsi incerto e malsicuro del vuoto intelletto da un lato e della mia vita vissuta dall'altro. Come da tutto ciò si può comprendere, il significato della verità ci è presentato attraverso una mediazione: attuare questa mediazione è compito della logica filosofica. Tale compito è quello di mostrare che nessuno dei modi della comprensività infinita può considerarsi come un tutto in sé concluso, né posto sullo stesso piano di un altro; né d'altra parte il tutto può essere mai saputo come tale senza riferimento a un altro, al mondo, alla Trascendenza, a Dio. L'unica via per giungere a concepire l'esistenza di Dio è infatti quella stessa offertaci dall'immagine del Comprensivo, in cui la Vivente attualizzazione del1’Ass0luto si compie in ogni istante e direttamente in ciascuna situazione storica particolare, pur senza giungere a formularsi in particolari articoli di fede; infatti la fede è piuttosto manifestazione di una certezza che si instaura per l'azione, nelfimprovviso ammutolimento dell'Essere di fronte al sapere obiettivo. Storiche sono le manifestazioni della Trascendenza, storica è la metafisica; di conseguenza, nella prospettiva jaspersiana non può non essere storica anche la verità. La verità è un processo che non raggiunge mai il suo compimento. Di qui la conclusione, più volta ribadita da Jaspers, della impossibilità per la mente umana di acquisire certezze assolute in qualsiasi ordine di cose, ma soprattutto nell'ordine metafisico. La verità assoluta è il traguardo sempre perseguito ma mai raggiunto del filosofare: questa situazione, secondo il nostro filosofo, non costringe ad abbandonare la comunicazione; anzi, la fiducia nella verità degli altri fa nascere la virtù della ”umanità”. Viceversa, qualsiasi pretesa di certezza assoluta da parte di una filosofia o di una religione diviene ipso-facto una "non-verità", e la credenza in un'unica verità rende impossibile la Comunicazione genuina e conduce al fanatismo. "vero”
e
Fenomenologia e metafisica
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Monna e IMMORTALYPÀ Nei Soliloqui"Agostino dichiara che le questioni metafisiche fondamentali sono due: l'anima e Dio. Questo è vero anche per Iaspers. Tutta la sua speculazione metafisica è centrata sull'uomo e sulla Trascendenza; ora passeremo a esporre brevemente il suo pensiero intorno allmanima". In Iaspers, come del resto anche in Agostino, la soluzione del problema dell'anima è strettamente legata alla soluzione del problema di Dio. Infatti, come abbiamo Visto, l'esodo dell'uomo verso la Trascendenza non avviene attraverso la dimensione dell’esserci in generale, bensì attraverso l'esistenza: è l’uomo stesso che si apre e Vive nella Trascendenza: «La Trascendenza, in cui solamente posso raggiungere un punto d'appoggio, include anche la totalità di me stesso. Nell’esserci io sono il volerdiventar-totale, ma solo nella Trascendenzapotrei essere totalcwùîì A questo punto l’uomo non può sottrarsi allînterrogativo circa il futuro della propria esistenza: la morte è l'ultima possibilità del Dasein, come sostiene Heidegger, oppure la morte gli spalanca la porta Verso Yeternità? Ovviamente, «la morte, come fatto, è un annullamento puro e semplice del mio esserci totale. Tuttavia, dalla morte come situazionelimite sono rinviato a me stesso per chiedermi se sono un tutto e non semplicemente alla fine. La morte non ‘e solo fine del processo, ma come mia morte, suscita inevitabilmentequesta domanda relativa al mio esseretotale: che cosa sono, visto che da questo momento la mia vita fu, e non c'è più futuro come processo?».1“6 Nel linguaggio di Jaspers le ”situazioni—limite" sono situazioni che pongono alla nostra esistenza limiti invalicabili.Rispetto al nostro essere sono situazioni che hanno il carattere di definitività. Non sono trasparenti; sono immutabili,definitive, incomprensibili,irriducibili,intrasformabili,solamente chiarificabili.Nel nostro esserci non ci è dato nulla da scorgere al di là di loro. Sono come un muro contro il quale cozziamo e naufraghiamo. Dinanzi alle situazioni-limite la libertà può assumere due atteggiamenti: o chiudersi in se stessa, e allora sprofonda nella disperazione; oppure si apre alla Trascendenza, e allora acquista fiducia e speranza per il suo futuro. Fra tutte le situazioni-limite fondamentale è indubbiamentela morte. A questo riguardo, Iaspers distingue fra situazione-limite generale del mondo e situazione-limite individuale. La morte è, anzitutto, una situazione-limite generale del mondo: tutto ciò che è reale, senza eccezione alcuna, è mortale. Qualsiasi esperienza, qualsiasi stato, qualsiasi evento, immediatamente si vanifica «e la serie si estende così sino all’esistenza
1U5)1bid., p. 195. wòmnîd.
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Parte terza
del nostro pianeta e si prolunga all'infinito».1°7 La morte è, poi, Lina situazione limite specificamente umana: essa è il "limite-sempre-ritornante" che tormenta l'uomo, che lo rode nel suo intimo, non appena si costituisce unautocoscienza personale. «Vi è sempre un rapporto di genere unico tra l'uomo e la sua propria morte, un rapporto non comparabile con alcuna esperienza generale o particolare della morte dell'altro, del prossimowfi“ La morte degli altri la posso anche pensare, credere, immaginare. Posso persino avere la più completa conoscenza scientifica, storica, filosofica della morte in genere. Invece, per quanto riguarda me stesso, nel mio intimo c'è qualcosa che non la ritiene necessaria, che non la ritiene possibile. E, d'altra parte, la ragione non fornisce nessuna prova che l'uomo potrà sfuggire a questa situazione limite: «Per l’uomo che abbia coscienza della situazione limite della morte, l'intelletto diventa una cosa senza senso ai fini della considerazione dell'immortalità: poiché l'intelletto resta attaccato, per sua natura, al limitabilee perciò al finÌtO>>.1"9 L'unica facoltà umana in grado di svelare il mistero della morte, per Jaspers, è l'amore. Esso scavalca anche la situazione-limite della morte, e si mette in comunicazione con chi è morto. Tale comunicazione mi dà la certezza che la morte non è un baratro, una voragine che mi inghiotte o un abisso in cui sprofonda. Al contrario, è come se per mezzo suo io mi riunissi alle esistenze con le quali comunicavo nel modo più intimo. «Il salto (della morte) è come la nascita d'una nuova vita. La morte è stata assunta nella trita. La vita si fa garante della verità della comunicazione, che scavalca la morte perché la vita fu realizzata come la comunicazione richiedeva, e ora richiede. La morte ha allora cessato di essere un vuoto baratro. È come se, non più abbandonato, mi aggrappassi all'esistenza che si trovava con me nella più intima comunicazione>>.”“ In tal modo Jaspers conclude che «l'immortalità non e una parte del nostro sapere, ma la ricchezza del nostro amoremm Concludendo, «l'immortalità, che non e assolutamente l'esito necessario della vitatemporale, dal punto di vista della certezza metafisica non è riposta nel futuro, nella forma di un altro essere, ma è già nell'eternità come essere presente. Non sussiste, finché io non entro in essa come esistente. L'esser se stesso che guadagna l'ascesa si accerta dell'immortalità per sua virtù, e non con un procedimento razionale. L'immortalità non può essere in alcun modo dimostrata, per cui tutte le riflessioni generali non possono far altro che rifiutarlamîlî
"'7)K. JASPERS, Psicologia della UÌSÎOHE del mondo, Roma 1950, p. 302. ‘Wflhirt, p. 303. 109mm, p. 305. “VÙK. IASPEKS, Philosophic II, p. 221. ‘Ì1)ID., Eimmortalité de l'amo, Neuchàtel 1958, p. 51. ll3)ID., Metafisica, cit., p. 198.
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OSSERVAZIONI CRITICHE
Jaspers è un energico difensore della metafisica, ma non di una metafisica forte, bensì di una metafisica debole, che si preoccupa maggiormente di fissare i limiti di uno studio delle ”cause ultime”, che esaltare i poteri della ragione in questo campo. Così quella di Jaspers è molto più Vicina alla metafisica di Kant che alla metafisica di Cartesio o a quella stessa di Heidegger. Per ritagliare uno spazio alla metafisica Jaspers demolisce le pretese dello scientismo. La reazione di Iaspers contro lo scientismo è radicale; lo scientismo, come degenerazione della scienza nel suo pretendere di essere una panacea universale, viene battuto in breccia: le formule chiare, esatte, onnirisolventi vengono da lui ricondotte nei loro limiti, che sono quelli di una pura precisazione dei dati empirici da sfruttare ai fini della parte non migliore dell'uomo. Insieme alla critica alla scienza c'è nel pensiero di Iaspers la reazione a quellbttimismo razionalistico, che in Hegel aveva raggiunto la forma più grandiosa nell'adeguazione piena fra razionalità ed effettualità; sulla scia di Kierkegaard, nella hegeliana ragione Jaspers ha notato l'eccesso delle ambizioni e l'assenza di quella drammaticità che caratterizza l'individuo, nella sua irripetibilee illivellabiletensione spirituale. Nella metafisica di Jaspers ci sono tutti gli ingredienti di una buona metafisica: la ‘seconda navigazione”; l’esistenza di una realtà superiore, trascendente; Yappartenenza dell'uomo al mondo della Trascendenza. Ciò che distingue la metafisica jaspersiana dalla metafisica classica è di essere una metafisica storica, esistenziale e ateoretica. Dando alla metafisica il carattere della storicità e della esistenzialità, Iaspers allarga le vie per giungere alla Trascendenzai Alle vie speculative egli aggiunge le Vie della fantasia, della intuizione e del sentimento, e così ricupera le Vie dell'arte, della religione, della poesia, del mito. Ma la moltiplicazione delle vie non migliora affatto i risultati della
metafisica; negando valore alla teoresi, Jaspers avvolge l'atterraggio nel mondo della Trascendenza nelle dense foschie della legge della notte, la quale vieta qualsiasi concettualizzazionedella suprema Realtà. L’apofati— smo che Iaspers mutua dai neoplatonici viene da lui ulteriormente esacerbato trasformando tutti i concetti e tutte le argomentazioni in cifre. Queste hanno soltanto il potere di alludere e richiamare la Trascendenza, ma nulla possono suggerire riguardo alla sua natura. Così l'uomo viene ad aggrapparsi ciecamente a una Trascendenza di cui nulla conosce. Questo totale svuotamento del concetto di Trascendenza dipende dal completo svuotamento della cifra principale della Trascendenza, l'Essere. Secondo Iaspers l'Essere è assolutamente inafferrabilee inesprimi-
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Parte terza
bile. «Non c'è alcuna concezione dell'essere in grado di concepire tutto l'essere in cui noi ci troviamomm «Uessere-in-sé non mi è accessibile, L'essere, perché non appena lo apprendo lo traduco in un oggetto come essere-in-sé, è inaccessibilealla conoscenza, e, come concetto-limite, è necessario al pensiero, perché costituisce la problematizzazione,di tutto ciò che io conosco come oggett0»."4 Qui abbiamo il capovolgimento radicale della tesi su cui tutti i pensatori della classicità e del medioevo avevano costruito la loro metafisica: la tesi che nulla c'è di più evidente dell'essere, e che il primo concetto che si forma la nostra mente è quello di ente: «L'ente ò il primo universale che comprende ogni cosa nella sua intenzione universale» (Avicenna) Naturalmente un concetto debolissimo dell'essere ha condotto Jaspers alla elaborazione di una metafisica molto debole.“
Erich Przywara
figura piuttosto solitaria ma decisamente importante e vigorosa, isolata ma imponente. Egli ò stato un pensatore di straordinario vigore speculativo, acuto, geniale, brillante, profondo. Appassionato cultore a un tempo di Agostino e di Tommaso, di Ignazio di Loyola e di Newman, di Kant e di Kierkegaard, ha scritto cose egregie in campi assai diversi e impegnativi come la filosofia e la teologia, la letteratura e la spiritualità. Sul cardine della dottrina tornistica dellhnalogia entis egli ha costruito un solido edificio filosofico-teologico-misticoin cui raccoglie sapientemente l'eredità di Agostino, Tommaso e Ignazio arricchendola con gli apporti del pensiero moderno di Kant e di Kìerkegaard. Molto conosciuto nei paesi di lingua tedesca e apprezzato sia dai cattolici che dai protestanti, altrove Przywvara è poco studiato e poco conosciuto a causa della complessità e difficoltà del suo stile e del suo pensiero. Erich Przy/wara è
una
Vrm 1:‘ OPERE
Erich Przywara nacque a Katowice (Polonia), allora territorio tedenel 1889. Ventenne, nel 1908, entrò nella Compagnia di Gesù. Dal
sco,
1913 al 1917 studiò filosofia a
Valkenburg (Olanda), approfondendo
Sant'Agostino, la Scolastica e i filosofi contemporanei. Dal 1913 al 1917 fu prefetto di musica al collegio ”Ste1la Matutina” di Feldkireh (Austria), “Ùlbid, p. 39. "l4)lbid.,pp. 19-20. '15)Cf. G. DI NAPOLI, La concezione dell'essere nellafilosqfin contcinpnrnnea, cit., pp. 33-35.
Fenomenologia e metafisica
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studiando contemporaneamente i romantici e Nietzsche. Dal 1917 al
1921 ritornò a Valkenburg per gli studi teologici, interessandosi molto ai Padri della Chiesa e a Newman. Senza diventare titolare di nessuna cattedra né docente stabile di alcuna materia, attraverso la rivista Stintmen der Zeit, di cui era il principale redattore, insieme a Romano Guardini, tra le due guerre divenne il pensatore cattolico più influente nei paesi di
lingua tedesca. Fu collaboratore di molte altre riviste, ricercatissimo conferenziere e animatore di vari circoli Culturali; cappellano degli universitari e dei laureati cattolici. Rese un grande servizio anche alla Chiesa nei momenti difficili della persecuzione nazista, assolvendo delicati incarichi che gli vennero affidati dai cardinali Preysing di Berlino e Faulhaber di Monaco. Dal 1951 fino alla morte (1972), la cattiva salute lo costrinse a vivere in campagna, a Murnau (Baviera); interruppe quindi i viaggi e le tante attività, ma non gli studi e la produzione scientifica. Tra le sue numerose amicizie spiccano quelle con la scrittrice Gertrude von Le Fort e con il teologo H. U. von Balthasar, che lo considerava come suo maestro e uno dei più grandi teologi del nostro secolo. Przywara ha scritto migliaia di articoli e varie decine di libri, che documentano la vastità dei suoi interessi. Essi riguardano la filosofia, la teologia, la liturgia, l'antropologia, la storia, Vascetica e la mistica. La sua opera fondamentale è Analogia entis, in tre volumi: I. Prinzip (Principio); II. All-Rhytnvzas (Ritmo del tutto); III. SClIYÌfÌEH (Scritti). Tra gli studi di carattere storico ricordiamo: H. Kard. Nezonzan (1922), in 8 voll.; Il segreto di Kierkegaard (1929); Kant oggi (1930); Agostino (1934); Holderlin (1949). Tra gli scritti teologici i più significativi sono: Deus senzper inaior: Teologia degli Esercizi (1938), in 3 voll.; Crucis mysteriunz (1939); Antica e nuova Alleanza (1956). Nell'ambito della fenomenologia va segnalato: L'uomo.
Antropologia tipologica (1959).
LA METAFISICA DELUANALOGIA La pubblicazione di Analogia cntis (1932) fu un autentico avvenimento che causò un’ondata di accesi dibattiti sia tra i cattolici (Sòhngen, Bouillard, Balthasar) sia tra i protestanti (Barth, Brunner, Tillich). Ricordando quegli anni Przywara ha scritto: «Quando nel 1923 introdussi nella mia ”Religionsbegriindung", nell'ambito del confronto con Scheler e dal 1925 con Karl Barth l'espressione analogia entis nella letteratura metafisica e contrastatamente teologica, e poi ne feci il fulcro della mia "filosofia della religione"... e della metafisica filosofico-teologica... purtroppo ciò non divenne il punto di partenza di una controversia feconda, ma soltanto di una grottesca distorsione». Ma che cosa insegnava Przywara in quel saggio da suscitare tanto scalpore ed orrore, tanto da indurre Barth ad affermare che Yanalogia —
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Parte terza
entis è un'invenzione del Diavolo? Non era forse Panalogia una delle dottrine più antiche e costanti della metafisica? Uoriginalità di Przywara sta nel non limitarsi a fare dell'analogia uno strumento per definire la natura dei concetti metafisici e teologici e per chiarire il significato dei nomi divini. Per lui l’analogia ha una portata molto più grande; essa attraversa tutta la metafisica; anzi egli si spinge ancora più avanti e fa della analogia il tratto distintivo del Cattolicesimo. L'analogia entis di Przywara non è nata per risolvere qualche problema spinoso della metafisica o della teologia e neppure come elaborazione di un sistema filosofico che riposa su se stesso, bensì come strumento della cattolicità del pensiero e come Chiave di lettura di tutta la realtà. Ogni grande metafisico è folgorato da un’intuizione potente e grandiosa, che gli spalanca gli occhi e gli fa Vedere le cose sotto una luce nuova. Questo è anche il caso di Przywara: la sua potentissima intuizione è il principio dell'analogia. Per lui l’analogia non è soltanto una legge del pensiero e del linguaggio, ma è anzitutto la struttura fondamentale dell'essere: analogia enfis. L'analogia opera a tutti i livelli: è il vincolo che unisce tra loro gli enti a livello orizzontale, ed ‘e inoltre un vincolo che unisce gli enti all’Essere a livello verticale. L'analogia è la forma di ogni metafisica e di ogni religione. L'analogia è il ritmo che scandisce la musica dell'universo, una musica che risuona ovunque anche se con accenti diversi. In una pagina importante di Analoggia rantis Przywara scrive:
«Quell”'l3ssere” che
mitivo
e come
tutte le filosofie ammettono come problema priprimitivo di tutto il rimanente, non ”possiede"
dato
(per conseguenza) Yanalogia come una sua qualità o come qualcosa sviluppa da essa, bensì Fanalogia è l'essere e il pensare è, con ciò (noeticamente), analogia. L'analogia è così ritmo primitivo-dinamico. Così secondo Pitagora l'universo vibra nel ”ritmo risonante", e secondo Platone Dio è ”Metr0n di tutte le cose e di tutto l'operare” (Leggi IV, 716 c-d). Solo nel senso di tale ritmo e di tale Inetron l'analogia è ”principio”. Essa è onticamente come essere e noeticamente come pensare ”in linea di principio” il mistero della primitiva musica di questo ritmo: così come le fughe dell”’Arte della fuga” di Bach si intrecciano perdendosi ognuna al di là del "grande silenzio”. ”Risonante analogia” che culmina in questa ‘silenziosa analogia”».116 che si
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Il nodo cruciale di ogni metafisica (e anche di ogni religione) è quello dei rapporti tra creatura e creatore. Il pericolo costante è quello di concedere troppo a uno dei due poli. Occorre trovare una soluzione equilibrata che eviti sia il panteismo, che divinizza le creature e mortifica Dio, e il teopanismo, che cancella completamente le creature assegnando tutto a
”‘*)l:‘.PRzYvvAK/x,Analogia cirtis, in Schrifteu, vol. III, Einsiedeln 1962, p. 210.
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dall’analogia. A questo proposito Przywara richiama un testo importante di Tommaso d'Aquino nel De veritate, q. 11, a. 1, dove YAquinate, in riferimento all'essere, al tendere e al conoscere, espone di volta in volta due punti di vista estremi, cioè quello della emanazione soltanto dall’alto e quello di una assoluta evoluzione soltanto dal basso. Tommaso prosegue: «Ma questi due punti di vista non colgono la Verità. [l primo di essi infatti esclude le cause prossime, attribuendo tutti gli effetti che si verificano nelle cose terrene solo alle Cause prime... Anche il secondo infine termina nella stessa ìnsensatezza... E bisogna perciò in tutti i punti menzionati tenere Dio. C'è
una
via mediana: essa è costituita
via mediana». Da queste osservazioni Przywara trae due conseguenze che caratterizzano il suo pensiero. La prima tesi suona: l'opposizione dei punti di vista estremi mostra dove si deve cercare la soluzione: questa non si può trovare che a metà strada. La seconda tesi dice: se non si vuole che una direzione rettilinea precipiti nel suo opposto, essa deve ricondurre sin da principio l'intera ampiezza ed estensione della tensione degli opposti in una unità di opposti carica di tensionefl” Przywara ricava la sua dottrina dell’analogia in parte da Aristotele e in parte dal Concilio Lateranense IV. Aristotele nell’analogia aveva sottolineato il rapporto tra gli analogati, invece il Concilio aveva posto l'accento sulla assoluta dissomiglianza che vige tra gli analogati. Partendo da Aristotele, il ”padre della analogia”, Przywara prende in esame le due parti che compongono la parola ”analogia”. Egli intende con ”logia” il ”raccogliersia formare un senso nella parola”. Questo lo si capisce dal nesso fra ”logos” e ”leghein”. "Leghein" significa originariamente raccogliere, enumerare, selezionare, e quindi raccogliere in una comprensione". Quanto ad ”ana”, in ama-logia, può avere un duplice significato. Da un lato esso può avere il significato del greco una, che significa ‘secondo, Conforme a”; dall'altro lato può corrispondere al greco amò che significa ”sopra" e ”su” (a cui si contrappone il katò sotto, in basso). Facendo valere entrambi i prefissi, arzà e amò si ottiene nel senso dell’anà un movimento (ìSCllun duplice ritmo. Una volta lante avanti e indietro sul piano orizzontale. Ma poi nel senso deIYancî una ritmica fra ”sopra" e "sotto". C'è dunque una duplice analogia: una orizzontale e una verticale. Esse rinviano l'una all'altra, ma quella verticale ha maggiore importanza. Infatti l'unità di tensione degli opposti, raggiunta già sul piano orizzontale, non ha il proprio senso in se stessa: ciascuno degli opposti è rinviato alla propria origine e al proprio fine attraverso il comparativo dinamico. Perciò «Yanalogia nella "verticale"
una
”
=
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“7)Cf. E. PRZYWARA, Schrfilen, ciL, Il, pp. 265
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Parte terza
(...) è la forma ultima che si fa garante dell’analogia del piano "orizzon— tale", senza la quale perciò quest'ultimo sarebbe privo di senso. Vale a
dire che i riferimenti analogici stanno a loro volta in reciproca relazione di analogiamm La dottrina aristotelica dell'analogìa viene riletta da Przywara alla luce della celebre definizione del Concilio Lateranense IV, la quale dice che fra creatore e creatura non si può scorgere una somiglianza tanto grande (tanta similitado), senza che si debba vedere tra di essi una dissomiglianza ancor maggiore (maior dissinzilitzicîo)». A somiglianza dell'analogia aristotelica, Panalogia lateranense fa scaturire, in altri termini, da ogni possibile somiglianza fra Dio e il creato una sempre maggiore dissomiglianza: a conferma del fatto che ogni possibilecomparazione dei termini a Confronto non può essere intesa come identità (come avveniva nel.la dottrina di Gioachino da Fiore presa in esame dal Concilio), ma deve concludere alla loro assoluta incomparabilitàe dissomiglianza. In definitiva, quell'essere che in quanto essere è insieme creatore e creato non può esprimersi altrimenti che mediante Tanalogia (analogici entis), ossia con una somiglianza rapportata all'assoluta differenza. Il movimento ascensionale intrinseco all'analogìa verticale, che costituisce insieme l'ordine (noetico) del pensiero e l'ordine (meta-noetico) della realtà, si esprime come impulso irresistibileverso una perfezione-limite di cui il creato non è che l'immagine: immagine rinviante a un di là inafferrabile (Deus tamqaam ignofas). Analogia significa dunque essenzialmente rapporto con Dio e apparizione della inconcepibilitàdivina nella tensione metodica degli opposti. Tensione che è espressione dell'oggetto vero e proprio della metafisica (analogia erztis). Storicamente Przywara distingue tra due grandi metafisiche: una "metafisica realisti.ca", ispirata al mondo delle scienze naturali, come quella di Aristotele; e una "metafisica idealistica” ispirata all'esplorazione del mondo interno della coscienza, come quella di S. Agostino. Metafisica realistica e idealistica stanno fra loro in un rapporto di opposizione solo apparente. ln realtà, la loro relazione è dialettica: il che significa che la Vera essenza della metafisica si rivela solo in quel ritmo propulsore di pensiero, sovrastante e insieme sottostante le opposizioni, che le spinge a essere l'una di stimolo all'altra, collocandosi così in un "piano intermedio" fra trascendenza-immanente e immanenza-trascendente. È in questo ritmo «nascosto entro l'evidente dialettica tra metafisica realistica e idealistica» che si propone il significato di un assoluto, di un "ultimo universale" dal quale si originano e nel quale sono radicate tute le cose, e che in esse "vive, si muove ed e", così come esse ”vivono,
ll3)Ibid., III, pp. 103 ss.
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si muovono e sono” in Lui, secondo il significato attribuito da S. Paolo al rapporto fra le creature e il creatore nel Discorso dell’Areopago. Del principio dell'analogia Przywara si serve oltre che in metafisica anche in teologia per dare espressione a quella che è la verità principale del cattolicesimo: una trascendenza immanente che non pregiudica né sminuisce il Valore delle creature, ma le salvaguarda e potenzia; questo però avviene secondo l'ordine analogico, il quale assegna la priorità assoluta all'analogato principale e pertanto a Dio. Da una parte (il polo divino) abbiamo l'amore discendente di Dio, attraverso Cristo e la Chiesa; dall'altra (il polo umano) abbiamo la nostalgia (il desiderium) dell'uomo, che, aderendo a Dio, supera e vince i contrasti umani. Con le sue sole forze l'uomo è incapace di superare le antinomie e di ristabilirsinell'unità e quindi nella pace e nella felicità; questo gli viene concesso dalla grazia di Dio. La perenne mobilità del finito può essere concepita solo come una conformità orientata (anà) a qualcosa di essenzialmente irraggiungibileche sta in alto (ami). L'ordinamento analogico della realtà è da intendersi dunque non nel senso di un puro essere-manipolati-daltalto (potenzialità negativa), ma anche come essere se stessi, nel senso di un
guardare-verso-Palto (una potenzialità positiva e attiva) Con lîmalogia entis Przywara si schiera a favore di quel Dio ‘sempre più grande” (senzper nzainr), che splende tanto più incomprensibileproprio attraverso tutti i tentativi inefficacidel pensiero finito di compren-
dere l’Assoluto. Secondo il più illustre discepolo di E. Przywara, Hans U. von Balthasar, «non c'è veramente al mondo nessuno che abbia ricevuto un carisma che assomigli per intensità e profondità a quello che Przywara ha ricevuto per proclamare Yassolutezza di Dio. È impensabileperciò porsi alla sua scuola, per apprendere sulla scorta delle sue intuizioni inesauribili, delle sue formulazioni nate da un'intensa passione religiosa, un conveniente modo di parlare di Dio».
Gabriel Marcel VITA E
OPERE
Gabriel Marcel nacque a Parigi nel 1889; figlio unico, all'età di quattro anni, perse la madre. Aveva appena sette anni, quando compose la sua prima prova letteraria. A scuola si rivelò sin dall'inizio un allievo assai dotato, ma al ginnasio non si trovò bene, anche per il basso livello sia dei docenti che dei condiscepoli. Dal 1906 al 1909 Marcel studiò filosofia, prevalentemente alla Sorbona. Pero i suoi interessi si estendevano ben oltre i confini di questa disciplina. I docenti che ebbero maggiore importanza per la sua formazione furono V. Delbos, che lo iniziò alla
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storia della filosofia più recente, e L. Lévy-Bruhl, col quale preparò la tesi che ebbe per tema Le idee metafisiche di Coleridgc in rapporto con [afflusofia di Schelling (1909). Dal 1908 al 1910 Marcel frequentò le lezioni di H. Bergson al College de France. La nuova impostazione filosofica di Bergson ebbe su di lui una significativa influenza; da lui recepì le idee di intuizione creatrice e di durata. Dopo gli studi universitari terminati nel 1910, col titolo di Agrégé di filosofia, Marcel nel 1913-14 si dedicò allo studio intensivo dei filosofi statunitensi W. E. Hocking (1873-1966) e I. Royce (1855-1916). Da questi trasse categorie per lui molto importanti che elaborò in una metafisica
esistenziale e spirituale al tempo stesso, metafisica della partecipazione della fedeltà, e con le quali portò alla luce sempre più chiaramente la dimensione della religione e del sacro. Gli studi su Royce pubblicati da Marcel negli anni 1915-19 apparvero in volume nel 1945 col titolo: La métaphysique de Rei/ce. Con Yaflgrégé Marcel aveva acquistato la facoltà d’insegnare filosofia nelle classi ginnasiali superiori, ed esercitò questo incarico con alcune brevi interruzioni in svariati Licei di Parigi, Sens e Montpellier. Accanto all'attività didattica, intraprese quella di critico, divenendo soprattutto un celebre recensore di spettacoli teatrali. Nel 1919 Marcel sposò Iacqueline Boegner, evangelica. Grazie all'incontro con Charles du B03, dal 1923 Marcel ebbe modo di venire a conoscenza del contenuto spirituale fondamentale del cattolicesimo, ma fu la frequentazione con Mauriac l'elemento decisivo che nel 1929 lo portò alla conversione al cattolicesimo. Uavvicinamento filosoficoal cristianesimo e l’assiduo dialogo con la metafisica teista si riflettono nel libro Eire et avoir, nel quale Marcel portò a ulteriore evoluzione la sua filosofia in senso metafisico e fenomenologico, come mostra l'approfondimento della ”fenomenologia dellavere”, contrapposta a quella dell"'essere". I tratti fondamentali della sua filosofia sono ormai tracciati: il rapporto tra intuizione creatrice e riflessione filosofica era ormai messo in chiaro. Nel saggio Position et approches concrètes da nzystère ontologiqaie (1933), Marcel pone al centro del suo pensiero le riflessioni sul metodo del suo filosofare, mentre le linee fondamentali del suo pensiero antropologico e metafisico ricevono la loro definitiva elaborazione in Erre et avoir (1935), Homo viator (1944), Le Mystèrc de Pétrc (1950-51), journal de nzétaphysiqzle (1935). Nel 1951 lo stesso Marcel trovò una definizione per la sua filosofia e la chiamò filosofia “neosocratica". Con innumerevoli conferenze, in Europa e in altri continenti, esplicito personalmente i tratti del suo pensiero e acquisì fama a livello internazionale. Nel 1961 fu invitato all'università di Harvard, per tenervi le ”William James Lectures”, che apparvero nel 1963 col titolo The Existenticzl Background of Hzmzan Dignity. Attivo fino alla fine, nonostante la cecità che Faffliggeva, Marcel si spense nel 1973, all'età di 84 anni.
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Fenomenologia e metafisica
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LA RICERCA
METAFlSlCA
Una densa
pagina di Iournal Métaphysique chiarisce bene il punto di
vista di Marce] sulla natura della ricerca metafisica.
«Ecco quali saranno, penso, le linee generali del mio libro, o almeno della introduzione: a) Non vi è indagine possibile sulla natura di ciò che è metafisicamente primo. Impossibilitàlegata insieme all'essenza stessa di un'indagine e allo spirito con cui è fondamentalmente condotta. Uindagatore fa astrazione da sé; egli scompare davanti al risultato ottenuto. Cos'è il risultato? Una risposta valevole per chiunque. b) Distruggere l'interpretazione secondo cui il bisogno metafisico
sarebbe una curiosità trascendente; esso è piuttosto un appetito dell'essere. Esso tende al possesso attraverso il pensieromll‘)
Marcel mette in guardia contro due errori assai diffusi: quello di considerare la ricerca metafisica come vacua speculazione, curiosità stravagante; la metafisica per Marce] è "ricerca di ciò che è", dell'essere. Una ricerca che non può essere facilmentetrascurata o messa da parte, perché l'uomo ”ha fame” dell'essere. Il secondo non meno grave errore in cui spesso si cade è la pretesa di poter procedere in essa con la stessa obiettività e distacco con cui si compie l'indagine scientifica. Si tratta di una pretesa assurda, perché, mentre nell'indagine scientifica Yindagatore può fare astrazione da sé, tenersi fuori dalla zona dell'esperimento, in posizione di noncurante indifferenza, il filosofo è coinvolto personalmente nella ricerca, il suo essere, il suo conoscere, il suo volere vengono messi direttamente in questione. Una delle differenze più evidenti tra indagine scientifica e ricerca filosofica è che la prima può essere fatta da uno a nome di tutti, la seconda invece deve essere compiuta da ciascuno per proprio conto. Nessuno può scoprire il mistero dell'essere per un altro. Tutt'al più chi l'ha già scoperto può sollecitare, stimolare, indirizzare la ricerca degli altri, ma non può sostituirli. Coerente con questi principi, in Le mystère de l 'e"tre, Marce] dice che nei suoi scritti non intende rivolgersi a una intelligenza astratta e anonima, ma a esseri individuali, nei quali risvegliare una zona profonda della riflessione attraverso un’anamnesi ispirata allo sforzo socratico-platonico; in tal senso, egli rifiuta di definire esistenzialista il proprio pensiero, e preferisce, se proprio è necessario adottare un "ismo", la qualifica di neosocratismo o socratismo cristiano. Mentre, quindi, la scienza può parlare del reale in terza persona, la riflessione filosofica è il regno della domanda e della risposta, dell'io e del tu, il regno in cui domina la seconda persona. Una tale metafisica è
119)G. MARCEL, lozirnal métaphysiquc, Paris 1927, Abete, Roma.
p. 279; tr. it., Giornale metafisico,
642
[Jarte terza
quell'ordine di esposizioni dottrinali compiute o aspiranti alla compiutezza del piano logico; questa filosofia è prima di tutto de I ’0rdre de l.’ ‘appel, un appello di uno spirito ad altri spiriti affinché operino la "conVersione" al mistero. In questa prospettiva la verità cessa di essere una formale adaeqziatio rei et intellectris e assurge a valore vitale; più che qualcosa di enunciato, la verità diventa qualcosa di vissuto, un'esperienza personale. In Eire et HÌJOÎI’, Marcel illustra la differenza tra indagine scientifica e ricerca filosofica in termini di problema e nzistero. «Sembra infatti che tra un problema e un mistero ci sia una differenza essenziale: un problema è qualcosa che io incontro, che trovo tutto intero davanti a me, e che posso analizzare e ridurre; invece un mistero è qualcosa in cui io stesso sono impegnato e che per conseguenza non ‘e pensabile che come una sfera in cui la distinzione dell'in me e del davanti a me perde il suo significato e il suo valore iniziale. Mentre un problema autentico e giustificabile secondo una certa tecnica appropriata in funzione di cui si definisce, un mistero trascende per definizione ogni tecnica concepibilemiîl‘ Può, sì, verificarsi il caso che un mistero venga degradato a problema; ma allora si ha un procedimento fondamentalmente vizioso, che si rivela come corruzione dell'intelligenza. Altre volte Marcel spiega la differenza tra scienza e metafisica rifacendosi alla diversità esistente tra riflessione disgrcgatrice e riflessione imificatrice (riflessione prima e seconda). La prima viene usata dalla scienza, la seconda dalla metafisica. Mentre la riflessione scientifica ha bisogno di porre delle distinzioni e di selezionare l'oggetto, la riflessione metafisica ha come compito l'unificazione, il "raccoglimento"della realtà. La riflesfuori di
sione metafisica si sforza di restaurare il concreto al di là delle determinazioni disgiunte e disarticolate del pensiero scientifico. «Il procedimento metafisico essenziale consisterebbe quindi in una riflessione su questa riflessione (scientifica), in una riflessione alla seconda potenza, attraverso cui il pensiero si protende verso il recupero di un’intuizione che si perde invece in qualche modo nella misura in cui si esercita»;121 tale riflessione è ”ricostruttrice", "recuperatrice", è un "raccoglimento”. PRIMATO DELUESSERE
Fra tutte le realtà suscettibili di ricerca metafisica, la priorità spetta all'essere. Questo perché, secondo Marcel, l'essere gode di un duplice primato: nei confronti del pensiero e nei confronti dell’avere.
|30)Io., Eire et aooir, Paris 1935, p. 169. Dillo, Le mystère de Pétre, l, Rqflexions et mystèriì, Paris 1955, pp. 97-98.
Fenomenologia e metafisica
643
Primato del! ‘essere sul pensiero
Questo primato viene affermato da Marcel in formule inequivocabili,
dopo
la sua conversione al realismo. «Porre Yimmanenza del pensiero all'essere è riconoscere coi realisti che il pensiero, posto che sia, si riferìsce a qualche cosa che lo trascende e che esso non può pretendere a riassorbire senza tradire la vera natura». «Pensare il primato dell'essere in rapporto al pensiero ‘e riconoscere che il pensiero è abbracciatodall'essere, che esso gli è in qualche maniera internowîî Non c'è e non ci può essere passaggio dal pensiero all'essere; tale passaggio è radicalmente impensabile;il pensiero è già nell'essere, e non ne può uscire, non ne può fare astrazione che in una certa misura: «Bisogna dunque dire che il pensiero è interno all'essere, che è una certa modalità dell'essere».123 «In fondo io ammetto che il pensiero è ordinato all'essere come l'occhio alla luce, secondo la formula tomista>>fl24
Primato dell'essere sul! lizzere L’avere ‘e ciò che e oggettivamente, che è esponibilead altri, è Festeriorizzarsi dell'essere, il suo farsi spettacolo. Uavere è il cosizzarsi dell'essere, ii suo venire fuori, il suo epifanizzarsi, il suo frantumarsi, il suo mummificarsi. L'avere, accentuando se stesso, nullifica l'essere; invece, diventando strumento, assurgerà al piano dell'essere; soltanto così noi possiamo affrontare l'essere senza trasformarlo in avere, in oggetto, in spettacolo; insomma il rapporto essere-avere e un rapporto di essenziale tensione dialettica, in cui l'essere è sempre legato all’avere, ma ne deve realizzare la purificazione, non facendosi assorbire da esso e finalizzandtiloa SéJZS
L'UOMO COME ESSERE INCARNATO e
ITINERANTE
Una delle dottrine più note di Marce] è quella che afferma che l'uomo è un essere incarnato. A tale dottrina Marcel è arrivato mediante un'analisi del significato della proposizione: «io esisto»; secondo lui la riflessione metafisica rivela che essa significa «io sono il mio corpo». Per corpo non si deve intendere tanto la materia estesa e visibile, quanto l'intimità-concrezione dell'io, ossia l'incarnazione o l'individualizzazione dell'esistere. Quindi la proposizione "io esisto" riferita all'uomo significa: "io sono incarnato". «L'essere incarnato è apparire come
potersi identificare ad esso, senza potersene distinguere; intimità-concrezione, insomma, fra anima e corcorpo,
come
questo corpo,
12î)ID., Etra et avoir, cit., p. 49. 133)lbid.,p. 35. lî4)llvid.,p. 51. 125)cr. ibirt, pp. 232-244.
senza
644
Parte terza
p0; mistero della fusione fra intimità e Concrezione; l'incarnazioneesprime appunto tale mistero. Ma l'incarnazione non esprime solamente individualità bensì anche partecipazione. Questa si manifesta anzitutto nel sentire; il sentire è infatti partecipazione immediata di ciò che noi chiamiamo abitualmente il soggetto a un ambiente in cui nessuna vera frontiera lo separa».126 L'asse si rivela
come
cri-esse, l”’io esisto" diventa ‘l'universo
esiste",
di oggetti, ma come teatro di esperienze, di esistenti, in dialogo fra l'io e il tu. Altra dottrina molto nota di Marce] è quella dell'uomo itinerante, homo viator. L'uomo, si è già detto, è un essere incarnato; e questa la sua natura; ma la ricerca su di esso deve mirare a scoprire un senso della vita, che è sempre il senso della mia vita; rifiutarsi di chiarire il senso della vita è rinunciare al profondo se stesso, è dissolversi nell'avere. Ebbene, riflettendo sul senso della vita, l'essere incarnato si rivela essere itinerante, homo viator. È qui nella concezione della vita come pellegrinaggio, che la riflessione scopre una fenomenologia e una metafisica della speranza; la speranza struttura la vita umana, è l'apertura vissuta dell'essere incarnato; tutto ciò che Yessere-nel-mondo presenta, può costituire un ostacolo, una prova, uno scandalo, in una parola la tentazione soggiogatrice dell’avere; ebbene, la speranza è la grande leva che, senza rinnegare l'essere-nelmondo, anzi assumendolo, lo sublima a strumento delfelevazione; e ciò che poteva costituire un invito alla disperazione viene esorcizzato. Proprio nella speranza si ha la prova del trascendente; con essa si afferma che «vi e un essere, al di là di tutto ciò che è dato, di tutto ciò che può fornire la materia di un inventario o servire di base a un computo qualunque, un principio misterioso che è in connivenza con me, che non può non volere pure ciò che io voglio, almeno se ciò che io voglio merita effettivamente d'esser voluto e di fatto è voluto da tutto me SÌCSSO>>J37 In tal modo l'universo ha un senso per me e la metafisica si rivela, qual è e deve essere, ”esorcizzazione della disperazione". Alla trascendenza però non si arriva mediante argomentazioni o altri processi logici, ma per intuizione. L'uomo è fatto per Dio e non può non riconoscerlo appena gli passa vicino. L'atteggiamento che si addice all'uomo di fronte a Dio non è quello di speculazione o di interrogazione ma di adorazione, d'umile preghiera. Il filosofo deve parlare a Dio, non di Dio.
non come somma
116G. MARCEL, Ioumal nzétaphysique, cit., p. 322. 117) ID., Propositimz et approchcs Concrètes da mystèrc antologique, Paris 1937, p. 278.
Fenomenologia c rrzetafisica
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«È tempo, per
il metafisico, se vuole uscire definitivamente dalla roepistemologica, di comprendere che l'adorazione può e deve essere la per riflessione una terra ferma sulla quale egli deve poggiare, anche se, come individuo empirico, non gli sia concesso di parteciparvi che nella debole misura che comporta la sua indigenza naturalemm taia
VALORE DELLE ANALISI ESISTENZIALI DI MARCEL
della prospettiva esistenzialistica in cui si sviluppa manca all'opera di Marce] una riflessione sufficientemente approfondita e rigorosa sull'essenza e la natura stessa dell'essere. Tuttavia le sue analisi esistenziali sono estremamente interessanti per due ragioni. Anzitutto, perché toccano sentimenti e affetti umani, come la speranza, la fede, la gioia, l'adorazione, che gli altri esistenzialisti hanno per lo più ignorato. In secondo luogo, perché, attraverso l'esame delle implicazioni di questi sentimenti, Marce] mostra come l'uomo non sia affatto chiuso nella morsa della disperazione, votato alla morte e al nulla, come hanno invece preteso di dimostrare Heidegger e Sartre, ma come sia invece aperto alla Trascendenzae possa riporre in essa la propria fede e la propria speranza. A
causa
îî8)ID., Du refus à l învocation, Paris 1940, p. 190.
646
Parte terza
Suggerimenti bibliografici HUSSERL
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Fenomenologia e metafisica
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Principali traduzioni italiane: Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Milano 1953; nuova edizione, Torino 1969; Kant e il problema della metafisica,
Reina, Milano 1962; Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firen1968; Scrittifilosoflci1912-1917, a cura di Babolin, Padova 1972; La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di Babolin, Bari 1974; L'essenza del fondamento, a cura di P. Chiodi, Torino 1969; Che cos'è la metafisica, tr. A. Carlini, Firenze 1953; La dottrina di Platone sulla verità, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Torino 1975; Lettera sullîimanesiino, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Torino 1975; Introduzione alla metafisica, tr. di G. Masi, Milano 1979; Concetti fondamentali, a cura di F. Camera, Genova 1989; In cammino verso il linguaggio, tr. di A. Caracciolo, Milano
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Stadi: F. BATTAGLIA, Heidegger e la filosofia dei valori, Bologna 1967; P. CHIODI, ljesistenzialismo di Heidegger, Torino 1947; ID., L'ultimo Heidegger, Torino 1969; A. COLOMBO, Martin Heidegger. Il ritorno all'essere, Bologna 1964; A. DE WAELHEMS, La pliilosopliie de M. Heidegger, Louvain 1942; C. FABRO, Il problema di Dio nel pensiero di Heidegger, in «Analecta Gregoriana» 67 (1954), fasc. 1; G. GIULIETTI, Alla ricerca dell'essere perduto. Una introduzione al pensiero di Heidegger, Treviso 1972; K. LOEWITH, Heideggger. Denker in darftigei‘ Zeit, Frankfurt 1953; M. M. OLIVETTI (ed.), La recezione italiana di Heidegger, Padova 1989; O. POGGELER, Der Denkureg Martin Heideggers, Pfullingen 1963; U. REGINA, Heidegger, Milano 1970; W. J. RICHARDSON, Tlirough Plienomenology to Tliouglit, The Hague 1967; S. VANNl-ROVIGHI, Heidegger, Brescia 1945; G. VATTIMO, Essere, Storia e linguaggio in Heidegger, Torino 1963; I. WAHL, Vers la fin de l ontologie. Etude sur Flntrodactiondans la Métaplzysiqtie par Heidegger, Paris 1956.
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650
LA RISCOPERTA DELLA METAFISICA DI SAN TOMMASO
pagina importante della storia della metafisica è stata scritta dai tomisti. Il loro merito è duplice. In primo luogo, in sede storiografica, hanno il merito di avere scoperto la sostanziale originalità della metafisica di S. Tommaso, la quale non si può ridurre ne’ alla metafisica di Aristotele né a quella dei neoplatonici, e che non ha nulla a che vedere con l'aridità della ontologia della Terza Scolastica e della prima Neoscolastica. Quella dell'Angelico è una metafisica che, pur assumenNel XX secolo
una
do molti elementi sia da Platone che da Aristotele, si caratterizza come metafisica dell'essere. In secondo luogo, in sede teoretica, hanno il merito di avere ricostruito sistematicamente l'intero edificio metafisico delYAquinate, di averlo ingrandito e aggiornato, di averlo confrontato con altre metafisiche dell'essere sia antiche sia moderne, dimostrando che essa regge bene il confronto con qualsiasi altra metafisica. Alla riscoperta della metafisica di S. Tommaso hanno contribuito molti studiosi, ma i principali artefici di questa straordinaria impresa sono stati i francesi Gilson, Maritain, Sertillanges, Garrigou-Lagrange e De Finance, e gli italiani Masnovo, Fabro, Vanni Rovighi. Prima di parlare di loro, dobbiamo spendere qualche parola sul neotomismo, che è stato quel grande movimento del pensiero cattolico che alla fine ha reso possibileanche la riscoperta della metafisica tomistica. una nuova
Il neotomismo
primi giorni del suo lungo pontificato (1878-1903), Leone XIII aveva concepito l'idea di rinnovare gli studi ecclesiastici privilegiando S. Tommaso, ma allora pensava di farlo usando una forma piuttosto modesta, una specie di "circolare"; in seguito, invece, incoraggiato da Fin dai
alcuni collaboratori, si decise per la forma solenne dell’enciclica e, Così, pubblicò la Aeterni Patris (1879). Nei paragrafi introduttivi della Aeterm’ Patris Leone XIII giustifica l'intervento del Magistero ecclesiastico nel campo della filosofia facendo osservare che «è dalla filosofia e dalle vane sottigliezze della mente che i fedeli si lasciano ingannare il più delle volte»; per questo motivo ha ritenuto opportuno nelle presenti circostanze consacrare un'intera enciclica
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
651
«alla natura di un insegnamento filosofico che rispetti allo stesso tempo le norme delìa fede e la dignità delle scienze umane». Difatti, egli prosegue, «se si presta attenzione alla malizia del tempo in cui viviamo, se si
pensiero lo stato delle cose sia pubbliche che private, si scoprirà senza difficoltà che la causa dei mali che ci affliggono e di quelli che ci sovrastano, è riposta nelle dottrine erronee che intorno alle cose umane e divine uscirono dapprima dalle scuole dei filosofi e si insinuarono poi in tutti gli ordini della società, accettate con entusiasmo da moltissima gente». A rendere ancora più grave la situazione hanno contribuito soggiunge il papa gli stessi filosofi e teologi cattolici, i quali, anziché restare fedeli alle dottrine dei padri e dei dottori della Chiesa, si sono messi alla scuola dei filosofi moderni e così, «messo in disparte il patrimonio dell'antica sapienza, vollero piuttosto tentare cose nuove che aumentare e perfezionare con le nuove le antiche». Il papa passa quindi a illustrare il ruolo positivo che la ragione e quindi la filosofia possono svolgere nei riguardi della fede e della teologia. È compito della filosofia provare i praeambulafidei (l'esistenza di Dio e la credibilitàdella rivelazione); conferire carattere scientifico alla teologia sistematizzando le diverse verità da credere e cercando di dar loro una più ampia intelligibilità;proteggere infine le verità della fede confuabbraccia col
-
—
tando le obiezioni ad esse opposte dai razionalisti. Questo lavoro è stato
compiuto in modo egregio sia dai Padri (Agostino in particolare) sia dagli Scolastici e «tra tutti i dottori ecclesiastici brilla di uno splendore senza pari il principe e maestro di tutti loro, Tommaso d'Aquino, il quale, come rileva il Caietano, per avere profondamente venerato i santi dottori che lo avevano preceduto, ha ereditato in qualche modo l'intelligenza di tutti». Leone XIII illustra quindi le qualità insite nella filosofia del Dottore Angelico. Questi, tra tutti i filosofi cristiani, è colui che è riuscito meglio ad armonizzare la fede con la ragione e ad assicurare alla fede solidi fondamenti razionali. «Pur distinguendo perfettamente, come si conviene, la ragione e la fede, egli nello stesso tempo unisce le due dimensioni con legami di mutua amicizia. In tal modo conserva a ciascuna i suoi diritti, salvaguarda la dignità di ciascuna, a tal punto che la ragione, portata sulle ali di S. Tommaso fino all'apice dell'intelligenza umana, non può salire più in alto, e la fede può a mala pena sperare dalla ragione aiuti più numerosi e più poderosi di quelli che le ha fornito S. Tommaso». Il solenne documento si conclude con
un
invito
pressante a tutti i re-
sponsabilidel sacro Magistero «a dare largamente e copiosamente a bere alla gioventù di quei rivi purissimi di sapienza che con perenne e ab-
bondantissima vena sgorga dalYAngelicoDottore». Come abbiamo già notato più sopra, nella mente di Leone XIII la riabilitazionedel tomismo non era finalizzata a se stessa e non aveva come
Parte terza
652
finalità principale la filosofia bensì la cultura. Il programma di papa Pecci era la costruzione di una nuova civiltà cristiana: egli vedeva nella filosofia un muro importante e insostituibilenella costruzione del nuovo edificio. «A differenza di un autentico filosofo Leone XIII non si interessava anzitutto della ricerca filosofica per se stessa, quanto invece per l'aiuto a suo avviso indispensabile che essa poteva dare al suo grande disegno, che non si differenziava da quello del suo predecessore Pio IX: la restaurazione della società secondo i principi cristiani. Ma Leone XIII, che era un intellettuale, aveva compreso meglio di Pio IX che la -
—
restaurazione cristiana della società passava per la restaurazione dell'intelligenza cristiana e che era vano intraprendere la ricostruzione di un ordine sociale integrale che sarà l'oggetto delle sue grandi encicliche successive, dalla Inzmortale Dei e Libertas praestantissinzzun alla Rerum rzozmrunz se prima non ci fosse stata alla base una rigorosa disciplina di pensiero da imporre a tutte le scuole cattolicheml —
-
In altri termini, il rilancio del tomismo di Leone XIII era certamente ispirato da un’intenzione filosofica, ma superava abbondantemente quello che R. Aubert chiama ”iltomismo dei professori”, giacché egli era convinto che, per riprendere un'espressione di I. Maritain, «il problema della filosofia cristiana e quello della politica cristiana non sono che l'aspetto speculativo e la fase pratica di uno stesso problema»! Quanto poi alla natura della "nuova cristianità” sognata da Leone XIII, essa era indubbiamente diversa da quella del medioevo, ma ispirata agli stessi principi. E importante tuttavia tenere nel debito conto, come nota Aubert, che tale progetto «non era dettato da una sete di dominazione clericale ma da preoccupazioni di natura essenzialmente pastorali intese a riconquistare al cattolicesimo il terreno perduto dal XVIII secolo in
poi>>fi
l frutti della Acterni Patris furono copiosi e duraturi sia per la filosofia che per la teologia cattolica. Essa ha prodotto quel vasto e potente movimento filosofico a cui e stato dato il nome di neotomismo, il quale con la scoperta dell’autentico pensiero dell’Aquinate, ha giovato non poco al rinnovamento e alla rinascita della teologia cattolica durante la prima metà del secolo XX. Altri frutti significativi sono stati: la fondazione delPAccademia pontificia di S. Tommaso e di tante altre Accademie in Italia e all'estero dedicate allo studio del pensiero dell’Aquinate: l'università di Lovanio, Yuniversità cattolica di Milano, l'università cattolica
T) 3) 3)
R. AUBERT, in E. CORETH-ÌV. M. NEIDL-G. PFLICERSDORFFER (edd), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II, Roma 1994, p. 380. I. MARITAIN, De Bergson à THUHILÌS d Gilquin, Paris 1947, p. 147. R. AUBERT, up. alt, p. 382.
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
653
di Nimega, gli Istituti cattolici di Lione, Parigi e Tolosa, le università cattoliche di Quebec, Ottawa, Montreal, Washington, Manila, Buenos Aires, Rio de Janeiro, l'Istituto di studi medievalidi Toronto. In tali studi si apprestarono ad approfondire il pensiero sia filosofidi S. Tommaso moltissimi studiosi, alcuni dei quali, co sia teologico come si è detto, si impegnarono a farlo soprattutto in sede storica, cercando di stabilire con esattezza la sua dottrina e sottolineando l'originalità della sua metafisica rispetto a tutte le altre metafisiche precedenti; mentre altri si sono impegnati nell'approfondimento della dottrina tomistica alla luce delle istanze del pensiero moderno, particolarmente -
-
di quelle poste dalla filosofia tedesca
con
Kant, Hegel e Heidegger.
I tomisti francesi Nel secolo XX, specialmente tra la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) e il Vaticano II (1962-1965), il tomismo si è imposto come una importantissima corrente di pensiero a livello mondiale, con cui a un certo punto sentirono il bisogno di confrontarsi tutte le altre filosofie, dalfidealìsmo al marxismo, dallesistenzialismo all'analisi linguistica, dalla psicanalisi allo strutturalismo. A dare tanto credito al pensiero di S. Tommaso furono soprattutto i tomisti francesi, Gilson e Maritain in particolare. Il primo con i suoi studi storici e il secondo con le sue opere teoretiche hanno Contribuito in modo decisivo a far conoscere e a far riconoscere il tomismo come corrente di pensiero autenticamentefilosoficoe non come una serie di dottrine imposte ai cattolici dall'autorità ecclesiastica.
ÈTIENNE GILSON Vita e opere Etienne Gilson nacque a Parigi il 13 giugno 1884. Fu allievo del seminario minore di Notre Dame des Champs e poi studente alla Sorbona, dove si laureò nel 1913 con la tesi La libertà chez Descartes et la théologie, accompagnata dalllndex SChOÌHSÎÌCO-CGTÌÉSÎBJÌ. Fu nominato professore di storia della filosofia alla università di Lilla. Prigioniero di guerra nel 1916, approfitto di questa Circostanza per imparare l'inglese, l'italiano e il russo. Nel 1919 è professore all'università di Strasburgo, e due anni più tardi alla Sorbona, dove tiene la cattedra di storia della filosofia medievale. lntanto, a un ritmo impressionante, inizia la sua fantastica produzione filosofica, che fa di lui il maestro incontestato dello studio della filosofia medievale. Ecco i titoli delle opere più importanti di carattere storico: Le thontisme (la ed. 1919); La philosophie de BOTZHUÉTIÌLIFE (1924);
654
Parte terza
lntroductitm à Vétude de S. Augustin (1929); La théologie mystique de S. Bernard (1934); [ean Duns Scot, intmdzictinn à ses positforzs fondamentales (1952). Accanto a questi studi particolari, Gilson ha elaborato due vaste e profonde sintesi della filosofia medievale: ljesprit de la philosophie medievale (1932), e La philosoplzieda Moyen Age (1944). In altri importanti lavori Gilson parla più da filosofo che da storico, mettendo in chiaro i punti più significativi del sistema filosofico di S. Tommaso. A questo genere appartengono: Le réalisme thomisfe (1939); The Uizity of Philosophical Experience (1938); Lfiître et Fessence (1948); Being mzd sante philosophers (1952); Le philosophe et la théolirgie (1960). Con questi preziosissimi studi (Jilson si guadagnò fama mondiale: nel 1946 divenne membro delYACadéHiiEfrangaise, e subito dopo della Brilislz Aclîdeîîfl e di molte società filosofiche specialmente nel mondo anglosassone. Promosse lo studio della filosofia medievale con la creazione delPlnstitzi te ofMediaeval Studies di Toronto (1929). Morì a Cravant nel 1978. ,
La
riscoperta del Medioevo e della metafisica di S. Tonmzaso
Etienne Gilson è stato il massimo artefice della riscoperta della metafisica di S. Tommaso. Non è stata un'impresa agevole e neppure prograrnmata, come ha rivelato lo stesso Gilson nell'opera biografica Le philasoplte et la théologie (1960), scritta quando aveva 76 anni. Le sue prime letture filosofiche erano state Descartes e Brunschvicg; poi alla Sorbona aveva trovato un ambiente dominato dal positivismo. Eppure, la sua inclinazione alla speculazione metafisica non venne meno; egli capiva che la polemica del positivismo si basava sulla Critica della metafisica come ”scienza” elaborata da Kant, e che Kant portava a compimento un modo di concepire la filosofia iniziato proprio da Cartesio. Sotto la guida del positivista Lucien Lévy-Bruhl, la tesi per il dottorato fu per Gilson l'occasione per analizzare la metafisica cartesiana, studiandone anche le fonti. La sua ricerca su La libertà Chez Descartes et la théoltigie lo mise per la prima volta a contatto con il pensiero di Bonaventura, Tommaso, Duns Scoto: tutti autori che la cultura ufficiale francese ed europea ignorava. Il luogo comune della storiografia, dallîlluminismo in poi, era che la filosofiafaceva un ”salto" dai neoplatonici a Descartes: in mezzo c'erano i dodici secoli dellbscurantismo teologico. Questo contatto personale fece scoprire a Cilson che le pretese ”fonti" dellîniziatore della filosofia moderna erano in realtà delle filosofie con una propria e indipendente validità; anzi, gli elementi metafisici rintracciabiliin Cartesio (primo di tutti, l'idea di Dio creatore) avevano maggiore coerenza metafisica nell'ambitodei sistemi da cui provenivano. Pertanto quello che si designava storicamente come ”filosofia cristiana” non era un pensiero spurio o di seconda classe, ma una filosofia validissima, pur facendo parte della teologia. Ciò poneva allo storico della filosofia due problemi: anzitutto,
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riscoperta della metafisica di San Tommaso
655
che c'era di filosoficamente valido nei sistemi dottrinali medievali fosse un mero residuo della filosofia precristiana (Platone, Aristotele, Plotino) oppure fosse una elaborazione originale; secondo, come se
quel
avesse
potuto la filosofia cristiana conservare nel proprio seno elementi
razionali della filosofia greca senza soffocarli nel dogma, o addirittura come avesse potuto generare elementi filosofici originali. Così la riscoperta della metafisica di S. Tommaso fu per Gilson il traguardo finale di un lungo e laborioso cammino, nel quale si possono di-
stinguere quattro tappe: -
-
l'incontro con la Scolastica (attraverso Cartesio); la scoperta dell'autenticità dello spessore teoretico della filosofia cri-
stiana;
la ricostruzione precisa e dettagliata dell'intero sviluppo della filosofia cristiana, dalle sue origini patristiche fino alla sua dissoluzione per opera dei nominalisti; l'approfondimento perseverante del pensiero di S. Tommaso fino alla scoperta dell'assoluta originalità della sua metafisica. Di queste quattro tappe, le più importanti sono la seconda e la quarta. La seconda riguarda la definizione del concetto di filosofia cristiana; la quarta riguarda la ricostruzione della metafisica dell'essere di S. Tommaso. -
-
Il concetto di ‘filosofia cristiana" La discussione storico-dottrinale sul
problema della filosofia cristiana
fu assai animata soprattutto in Francia negli anni 1924-1938, estendendosi nel contempo in Germania, Italia, Spagna e poi negli Stati Uniti e nell'America Latina. Anche in seguito si sono sviluppati ovunque studi, convegni, dibattiti su riviste, sul rapporto tra filosofia e cristianesimo, e Etienne Gilson ne è stato uno dei principali protagonisti: egli riuscì a fissare con chiarezza ciò che si deve intendere per "filosofia cristiana".
Contro Bréhier, Heidegger, Brunschvicg, Russel e molti altri pensatori laici i quali sostenevano che l'espressione "filosofia cristiana" se pretende di avere carattere teoretico e non semplicemente storico è intrinsecamente contraddittoria, perché se è filosofia è di competenza della pura ragione e perciò non può abbracciare le verità cristiane che sono verità di fede, mentre se è cristiana non può essere filosofica, Gilson sostiene che tale contraddizione di fatto non esiste, perché la filosofia cristiana non comprende verità che appartengono essenzialmente all'ambito della fede e della rivelazione, ma solo di fatto, storicamente. L'oggetto specifico della filosofia cristiana non è il "rivelato”, cioè verità intrinsecamente soprannaturali (come la Trinità, l’Incarnazione, la Risurrezione, ecc.), bensì il ”rivelabile”, cioè verità di per sé accessibilialla ragione (come unità di Dio, immortalità dell'anima, senso della storia, persona, libertà ecc.), ma che sono state proposte all'umanità anche dalla rivela-
656
Parte terza
zione divina,
soltanto successivamente hanno cominciato a brillare sguardo della ragione. Perciò, finché il credente fonda le sue asserzioni sulla persuasione intima che la sua fede gli conferisce, egli rimane un semplice credente e non ha ancora varcato la soglia della filosofia; ma dal momento in cui egli trova nel numero delle sue credenze alcune verità che possono divenire oggetto di scienza, egli diventa filosofo, e se deve questi nuovi lumi filosofici alla fede cristiana, egli diventa un filosofo cristiano. «Perché una filosofia meriti il titolo di cristiana insiste Gilson bisogna che il soprannaturale discenda, come elemento costitutivo, non nella sua ordinatura, ciò che sarebbe contraddittorio, ma nell’opera della sua costruzione. Chiamo dunque filosofia cristiana ogni filosofia, che, pur distinguendo formalmente i due ordini, consideri la rivelazione cristiana come un ausiliarioindispensabiledella ragionew Il contenuto della filosofia cristiana è dunque anzitutto e soprattutto, secondo Gilson, quel corpo di verità razionali che sono state scoperte, approfondite o semplicemente salvaguardate grazie all'aiuto che la rivelazione ha apportato alla ragione. A questo punto Gilson introduce l'importante distinzione tra revelatum e revelabilc. Al retzelatum appartengono i misteri che sono assolutamente inaccessibilialla ragione, per es. Trinità e Incarnazione, mentre al revelabileappartengono concetti che di per sé sono accessibilianche alla ragione, ma che di fatto la filosofia greca non è mai riuscita a ottenere. Tra queste nozioni la prima è quella di Dio come l'essere da cui tutti gli enti finiti derivano e dipendono per partecipazione, c'è poi la nozione di libertà, che caratterizza sia l'azione divina (nella creazione) sia l'agire morale, che è un agire libero, e la cui responsabilità cade pertanto totalmente 5ull’uomo (e non sul Fato o sugli astri). La nozione di libertà rende possibile anche la nozione di storia, come effettiva produzione di novità; poi ancora la nozione metafisica di persona, che caratterizza l'antropologia e muta tutto il quadro delle relazioni dell'uomo col cosmo e con lo Stato; poi la nuova concezione della natura non più divinizzata (perché Dio è trascendente) ma vista nella sua intrinseca positività e nella sua inesauribilepotenzialità (donde il carattere positivo della scienza e della tecnica). Anche se la filosofia cristiana nel medioevo è stata sempre svolta all'interno della teologia, questa situazione non l'ha danneggiata ma piuttosto favorita, in quanto le ha consentito di esplorare quelle realtà metafisiche, che per la fede sono certezze mentre per la ragione sono problemi. Così mentre è vero che la filosofia del cristiano è spesso al servizio della teologia questo non torna a scapito della filosofia stessa ma a suo vantaggio, e questo per due ragioni. Primo, perché la teologia può e
anche allo
-
-
4)
E.
GILSON, L0 spirito della fllosofia medievale, Brescia 1983, p. 44.
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riscoperta della nretaflsica di San Tommaso
657
avvalersi dello strumento filosofico, nell'approfondimentodel dato rivelato, solo quando questo strumento è valido, e quindi rispondente in pieno alle sue intrinseche esigenze di razionalità; secondo, perché il dato rivelato spinge la ricerca filosofica ad affrontare, con le proprie specifiche risorse, temi inediti, ricchi di nuove possibilitàspeculative. Di queste tesi Gilson ha fornito prove inoppugnabili sia in Lesprit de la philosophie medioevale, sia in La philosophieau Moyen Age.
Dalla metafisica di Aristotele alla nuova metafisica di S. Torrzmaso
Superato il duplice pregiudizio secondo cui non esiste autentica filosofia nel cristianesimo e che la filosofia cristiana non può vantare il
carattere di autentica filosofia, Gilson concentra ormai la sua attenzione su S. Tommaso, che della filosofia cristiana era stato il rappresentante
più autorevole e qualificato. Già nel 1919 egli pubblica Le Thomisrrze, un volume di modeste proporzioni sul pensiero filosofico di S. Tommaso. Successivamente di quest'opera Gilson ha rielaborato cinque edizioni, che crescono di volta in volta sia in quantità sia in qualità, fino all'edi-
zione conclusiva del 1947. Mettendo a confronto queste edizioni ci si accorge che soltanto nella quarta edizione del 1941 Gilson giunge alla scoperta della nzetafisica dell'essere di S. Tommaso. Perché questa scoperta fu così lenta e laboriosa? Lo stesso Cilson ci rivela le ragioni, che si possono ridurre a due. La prima, l'assenza in S. Tommaso di qualsiasi esposizione sistematica della sua metafisica: «Non abbiamo alcuna esposizione sistematica di ciò che sarebbe stata una "filosofia tomista" redatta da S. Tommaso stesso, ma le tesi principali sono riscontrabilinei suoi scritti teologici, ovunque 10 storico le veda all'opera. L'interesse eccezionale suscitato dalla riflessione su di essi è dato proprio dal fatto che vi si può
cogliere, senza esitazione, il vantaggio teologico provocato da deciso questo progresso filosofico. Di contro, poiché S. Tommaso non ci rivela a volte il suo pensiero filosoficoultimo se non a proposito dei problemi teologici di cui tratta, noi non ci diamo ragione del fatto di non incontrare sempre questo pensiero sviluppato pienamente per se stesso e di poter vedere solo raramente, soprattutto all'inizio di una ricerca, dove egli ne parlerà».5 La seconda, la grande confusione che regnava tra gli stessi seguaci di S. Tommaso intorno alla natura e al valore della sua metafisica: sempre
«Non avendo colto l'originalità e la profondità della metafisica di S. Tommaso, degli storici eccellenti credettero di poter affermare che S. Tommaso non faceva che ripetere Aristotele, altri che egli non aveva neppure saputo ripeterlo correttamente, altri ancora che egli
5) 1D,, L'essere e l ‘essenza, tr. di L. Frattini e M. Roncoroni, Milano 1988, p. 74.
658
Pezrte terza
era
riuscito solamente a comporre
un
mosaico di elementi
eterogenei,
ripresi da dottrine inconciliabili,senza che uifintuizione dominante venisse a unificarli. D'altronde si poteva ammettere che gli stessi interpreti più fedeli molte volte involontariamente avevano deformato la nozione tomistica di esistenza, essendo difficilea coglierla e la sua natura e tale che anche una volta colta, tende continuamente a sfuggirem
Così in un primo tempo lo stesso Gilson ripose l'originalità filosofica di S. Tommaso in quegli elementi rispetto ai quali l’Aquinate aveva preso le distanze dai suoi Contemporanei: in particolare nella dottrina dell'astrazione, contro Pagostiniana dottrina della illuminazione, e nella dottrina dellìndividualità personale dell'anima razionale e della sua unione sostanziale col corpo, contro il monopsichismo universale di Averroè. Ma poi percorrendo la storia della metafisica, Gilson fece la sensazio-
nale
e
decisiva
scoperta che
tutte le
metafisiche elaborate
prima di
dopo di lui, sono tutte di stampo essenzialistico: il principio primo di ogni cosa è sempre una essenza (l'idea, la forma, la sostanza, la possibilità ecc.). Solo S. Tommaso si spinge oltre l'essenza e situa il principio primo della realtà nell'essere (esistenza), gettando così le basi di una metafisica esistenzialìstica. A questo punto il gioco era fatto: S. Tommaso possedeva una sua metafisica, la metafisica dell'essere. Ciò che ora bisognava fare erano tre cose: 1) mostrare come S. Tommaso era uscito dall'essenzialismo ed era approdato allesistenzialismo; 2) individuare i pilastri portanti della metafisica dell'essere; 3) illustrare la superiorità della metafisica di S. Tommaso nei confronti sia delle metafisiche che esaltano l'essenza a danno dell'esistenza, sia delle metaS. "Tommaso, e anche
fisiche che isolano talmente l'esistenza da sopprimere completamente l'essenza. Nelle ultime edizioni di Le Thonzisnze, con straordinaria acribia, Gilson fa vedere come avviene il passaggio dallessenzialismo di Agostino, che identificava l'essere di Dio con la immutabilitas,alla considerazione tomasiana di Dio, che identifica il suo essere con Yactus essendì. Scrive Gilson: «Per capire la posizione di S. Tommaso su questo punto decisivo è necessario ricordarsi del ruolo privilegiato che attribuisce all'asse nella struttura del reale. Per lui ogni cosa possiede il proprio atto d'esistere; diciamo piuttosto: di reale non ci sono che gli atti distinti d'esistere, in virtù di ciascuno dei quali una cosa distinta esiste. Occorre dunque porre, come principio fondamentale, che ogni cosa e in virtù dell'esistere che le è proprio: zmumquodqite est per sturm esse. Poiché si tratta di un principio, si può essere certi che la sua portata si estende sino a Dio. Anzi sarebbe meglio dire che è l'esistenza stessa di Dio che fonda questo principio. Poiché Dio è l'essere necessario come ha
lD., Le Thomismc, Paris 1947, 5" ed., pp. 43-44.
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
659
mostrato la terza prova della sua esistenza. Dio è dunque un atto di esistere tale che la sua esistenza diviene necessaria. E ciò che si chiama essere necessario per se‘. Porre Dio in questa maniera, è affermare un atto d'esistere che non richiede alcuna Causa della propria esistenza. Questo non sarebbe il caso se la sua essenza si distinguesse in qualche modo dalla sua esistenza; allora, infatti, l'essenza di Dio determinando in qualche grado questo atto d'esistere, questo non sarebbe più necessario. Dio è dunque Yesistere che è e nient'altro. Tale è il senso puro della formula: Deus est suum esse: come tutto ciò che è, Dio e grazie al suo proprio esistere; ma, in questo caso unico, occorre dire che ciò che l'essere è, non lo è che grazie al suo esistere, ossia l'atto puro di esistere»?
Messo al sicuro il tetto della metafisica di S. Tommaso, l'esse ipsum subsistens, Gilson procede alla elaborazione delle singole parti dell'imponente e robusto sistema, che non vuole essere una mappa delle essen-
dettagliata ricognizione degli esistenti, che non sono più l'esper essenza, ma limitate partecipazioni dellfiîrctus essendi. Alla elaborazione sistematica della metafisica dell'essere Gilson ha atteso specialmente in Uétre et lîzssence e in Elements of Christian Plzilosophy. Ciò che emerge da questi scritti è la solidità e l'ampiezza della metafisica tomi-
ze,
ma una
sere
stica dell'essere. Con la metafisica dellîzctus essendi S. Tommaso è riuscicostruire una ontologia che può «conservare l'esistenza senza rinunciare alla fi|os0fia>>fi Il carattere esistenziale (ma non ESÌSÈEHZÌBiÌSÌÌCO) della metafisica tomista permette a questo metodo di pensiero la fondazione rigorosa e sempre valida del realismo, dell'unico realismo meritevole di questo nome, perché capace di accettare veramente l'esperienza nella sua integrità. Di qui l'importanza perenne del tomismo. È vero scrive Gilson che esso è stato formulato nel XIII secolo, ma le conclusioni filosofiche alle quali si perviene dipendono esclusivamente dai principi da cui si parte, non dal periodo storico in c-ui tali principi vengono assunti. I principi in sé non hanno una data: una volta che sono stati concepiti, si trovano collocati fuori del tempofi La grandezza filosofica del tomismo sta precisamente in questo: nella elaborazione di una metafisica dell'essere che sia mai stata elaborata nel corso dei secoli, perché ciò che Parmenide e Heidegger ci hanno dato non sono due metafisiche bensì due possenti ontologie. Infatti per avere un'autentica metafisica dell'essere è necessario salvaguardare la reale differenza ontologica tra gli enti e l'essere, e la trascendenza dell'essere rispetto agli enti. Ma è esattamente ciò che manca sia in Parmenide sia in Heidegger. Nel primo, perché nella sua ontologia gli enti svaniscono nelto a
—
—
7) Ibiui, pp. 133-134. 3) E. GILSON, L'essere e l'essenza, Cit., p. 325. 9) Cf. Ibid.
66D
Parte terza
l'essere; nel secondo perché nella sua ontologia l'essere si dissolve negli enti. Invece, S. Tommaso pone l'essere a fondamento di tutto l'ente e di tutti gli enti, ma 10 pone come esse ipsunz subsistens. La sussistenza dell'essere è argomentata dall'Angelico in modo probante a partire dagli enti stessi, i quali posseggono sì l'essere ma non si identificano con l'essere: la loro essenza non è l'essere. Essi sono finiti, partecipati e composti (di essenza e atto d'essere). Pertanto non possono essere la causa del proprio atto d'essere, ma lo ricevono ClalYÎpSLHTl esse szibsìstens. Questa è la sola spiegazione plausibiledel fatto che enti per partecipazione, quali sono tutti gli enti finiti, i quali in se stessi non possono accampare nessun diritto all'essere, di fatto lo posseggono come atto proprio, come attuazione e realizzazione della propria essenza. Gli enti sono pertanto radicalmente distanti dall'essere, dai quali sono separati da un'infinita differenza qualitativa; ma allo stesso tempo derivano tutta la loro realtà dall'essere: «nell'ente dichiara S. Tommaso l'elemento più intimo è l'essere». La filosofia dell'essere di S. Tommaso non è semplicemente ontologia come nelle filosofie di Parmenide e Heidegger; ma è un'autentica metafisica. La speculazione ontologica di S. Tommaso si spinge oltre (metà) gli enti e assicura loro una solidissima base radicandoli nell'asse ipsum subsistcns. Nella filosofia tomistica dell'essere, tra enti ed essere c'è un -
-
abisso, un’infinita differenza qualitativa e
non
semplicemente quantita-
tiva. Per questo motivo si può legittimamente affermare che quella di S. Tommaso è l'unica autentica metafisica dell'essere che sia mai stata concepita, anche se non è mai stata sistematicamente teorizzata né elaborata in tutti i suoi dettagli. Questa importantissima innovazione filosofica di S. Tommaso è sfuggita ai suoi discepoli, inclusi i grandi commentatori del XV e XVI secolo, il Ferrarese e il Gaetano, che hanno letto S. Tommaso in chiave aristoteli-
lasciandosi,così, sfuggire la grande originalità metafisica dell’AquinaSpetta a Gilson il merito d'aver fatto questa sensazionale scoperta, che dà l'intera misura del genio filosofico deIYAquinate. Anche Paolo VI riconobbe pubblicamente questo merito al sommo storico della filosofia meca,
te.
dievale. In una lettera indirizzata a Gilson nel 1975, Paolo VI dichiarava:
philosophie(medievale), vos
réprésentants de cette sont orientées d'emblée vers Saint
«Entre les divers
préferences
Thomas. Vous avez évidence Foriginalité du thomismeen montrant comme le Docteur Angélique éclairé par la révélation chrétienne, en particulier par le dogme de la création et par ce que vous appelez la "métaphysique de Ylîxode" était arrivé à la notion geniale et vraiment novatrice de l"’acte d'étre", "ipsum esse". Dès lors sa philo-
su
mettre
se
en
-
-
sophie se situait sur un plan tout autre que celle d'Aristote>>.“‘
1°) PAOLO IV, "Lettera del S. Padre al Prof. Etienne Cilson", in L'Osservatore Romano l-9-l975, p. l: «Fra i diversi rappresentanti di Liuesta filosofia (medievale), le
La
riscoperta della metafisica di San "lìmzmaso
661
Per quanto attiene la storia della metafisica il merito maggiore di Gilson è indubbiamentequello di avere riportato alla luce quel preziosissimo gioiello che è la metafisica dell'essere di S. Tommaso. Dobbiamo però segnalare anche il suo apporto personale su alcune questioni già dibattute in passato e riprese nella prima metà del XX secolo, due in particolare: i rapporti tra gnoseologia e metafisica, la conoscenza dell'essere. Una delle controversie in cui Gilson fu implicato negli anni Trenta riguardava la validità del realismo Critico, che veniva sostenuto da molti
neoscolastici, specialmente a Lovanio (D. Mercier,
L.
Noél). Egli pub-
blicò due libri contro questa posizione: Le réalisme rrzéthodique (1936) e Réalisme thomistc et critique da la cmmaissance (1939). Per rinnovare la Scolastica e condurla al livello della discussione moderna alcuni neoscolastici pensarcìm) che la dottrina tomistica dovesse essere interpretata alla luce del dubbio universale cartesiano e della critica gnoseologica kantiana. Questi scolastici adottavano quello che Gilson definì «un accesso idealistico alla epistemologia». A suo parere costoro iniziavano con i loro propri pensieri nelle loro teste e poi cercavano di fondare Fesistenza del mondo esterno. Il sapere del mondo reale, esterno così pensavano dovrebbe essere fondato su una riflessione critica dei dati interni, che sono immediatamente presenti allo spirito. E come conseguenza Yepistemologia dovrebbe precedere la metafisica. Gilson respinge questa tesi e sostiene, al contrario, che la gnoseolo— gia fa parte della metafisica e va quindi elaborata all'interno della metafisica stessa. A suo parere la critica gnoserwlogica è incompatibileCOl realismo. Come mostra la storia della filosofia post-cartesiana il realismo mediato sfocia nellidcalismo. Il realismo non può essere dimostrato ma soltanto mostrato. Il realismo dice infatti che noi comprendiamo la realtà esterna, che è diversa dal pensiero, immediatamente. Possiamo riflettere filosoficamente sull’ovvietà di questo fatto, ma non possiamo criticarlo come se la prova di quesfesistenza si basasse su un'altra prova come quella ad esempio della esistenza del pensiero. Procedere in questo modo significa seguire un metodo idealistico e sfociare nell’idealismo. Gilson respinge l'accusa di ingenuità di cui veniva tacciato il realismo clella filosofia greca e medievale. Il realismo scolastico è tutt'altro che ingenuo. Esso è perfettamente consapevole della posizione idealistica e la coinvolge nella sua analisi della conoscenza. «La scolastica scri—
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preferenze
di primo acchito verso S. Tommaso. Voi l'originalità del tomismo mostrando come il
si sono orientate vostre avete saputo mettere in evidenza
Angelico illuminato dalla rivelazione cristiana e in particolare dal della creazione e da quella che voi chiamate "la metafisica deIYI-îsodo" dogma fosse arrivato alla nozione geniale e veramente innovativa dell"'atto d'essere", "ipsum esse". Perciò la sua filosofia si poneva su di un piano completamente diverso da quella di Aristotele». Dottore
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Parte terza
Gilson è un realismo consapevole, meditato e voluto, che tuttavia non muove dal problema posto daltidealismo, poiché i presupposti di questo problema implicano necessariamente Yidealismo stesso come soluzione. In altre parole, anche se questa tesi di primo acchito può sorprendere, il realismo scolastico non è a servizio del problema gnoseologico piuttosto sarà vero il contrario bensì la realtà viene vista in esso ve
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come distinto dal indipendente pensiero, di sulla base certa una rappresentazione di che cosa ”percipi", e questo filosofia condizione della sia la sua stessa possibilità. Questo è e come
dal
come
un
lmesse" viene posto
realismo metodicomîl
Non
meno
accesa, tra
gli scolastici, era la questione della conoscenza
dell'essere. Secondo la tesi più comune, l'essere è conosciuto immediatamente; poiché ‘e il primo concetto della nostra mente esso non può essere astratto da altri concetti, ma è intuito direttamente. Gilson rifiuta categoricamente questa posizione. A suo parere la conoscenza delYcsse si dà soltanto nel giudizio; perciò dell'asse non si dà nessun concetto; i concetti riguardano sempre e soltanto le essenze: questa è la tesi ch'egli avanza chiaramente per la prima volta in L'Etna et Pessence e subito dopo in Being ami some Philosopher's e che non si stancherà mai di riprendere anche nelle opere successive respingendo le critiche che gli venivano mosse da altre parti. Ecco un passo significativo di Lître et Passante in cui Gilson espone con grande lucidità la sua posizione. «Perché il giudizio di esistenza, preso nella sua forma più comune: x è, divenga intelligibile, dobbiamo ammettere che il reale contenga un elemento che trascende la stessa essenza, e che la nostra conoscenza intellettuale sia per natura capace di captare tale elemento. Vi sarà dunque per noi, come per Platone e per Plotino, un "al di là dell'es— senza", che però anziché essere il Bene o l’Uno, sarà l’atto di esistere.
La possibilità Se esso è al di là dell'essenza, è al di là del concetto del giudizio di esistenza, che è un dato di fatto, si spiega dunque, se si ammette che l'intelletto dell'essere intelligente coglie al primo colpo nel suo oggetto, quale che sia, ciò che vi è in lui di più intimo e di più profondo, Factus essendi. Ma si comprende allora altresì come esso lo colga. Poiché l'atto di esistere e la posizione di una essenza nell'essere, il giudizio di esistenza non può essere che l'opera corrispondente, con la quale l'essere intelligente afferma questo atto. Essendo situato al di là dell'essenza, tale atto non può essere oggetto di concetto. E perciò che, mimando in qualche modo l'attualità prima del reale, l'intelletto la significa con un verbo, come il verbo è, che la pone puramente e semplicemente come reale»?-
11) E. GILSON, Le réalfsme méthtidique, Paris 1936, p. 11. l?) 11)., L'essere e l ‘essenza, cit., pp. 273-276.
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riscoperta della nzetafisica di San
Tommaso
663
Gli interessi speculativi di Gilson si sono concentrati specialmente sulla metafisica e sulla metafisica tomista in particolare, ma non si sono lasciati completamente assorbire da essa. La sua attenzione si rivolse anche all'arte, al linguaggio, alla morale, alla educazione, alla politica, alla letteratura e anche in questi campi si è distinto per una straordinaria P ers P icuità e P rofondità. Ciò dimostra che Gilstm oltre che un 8 randissim0 storico fu un valente speculativo, un pensatore raffinato e acuto allo stesso tempo. Con lui la ‘filosofia cristiana” ha riacquistato prestigio, e ha fatto Vedere che non è un genere superato, ma un filosofare che possiede perenne validità. _
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IACQUES MAKITAIN Mentre Gilson è stato il grande scopritore della metafisica dell'essere di S. Tommaso e i suoi meriti riguardano soprattutto la storia della filosofia cristiana e della metafisica tomistica, Maritain e colui che è riuscito a far dar credito alla filosofia tomista anche nel mondo laico, facendole parlare un linguaggio moderno e arricchendola di nuovi rami, quali la filosofia della storia, dell'arte, della educazione e, specialmente, la filosofia politica.
Vita e opere
Iacques Maritain nacque nel 1882 a Parigi da agiata famiglia protestante. Il primo periodo della sua vita è quello degli studi e va dal 1895 al 1905. Studente alla Sorbona, incontrò la sua futura moglie, l’ebrea Raîssa Oumancoff e con lei frequento le lezioni di Henry Bergson. Durante questa fase giovanile Maritain aderì pienamente alla cultura del suo tempo, positivista, anticlericale e socialista. Fu un periodo di ricerca e di preparazione che si concluse nel 1905, quando Iacques e Raissa (Che si erano sposati l'anno prima) incontrarono Léon Bloy, che influirà in
modo determinante sulla loro conversione al cattolicesimo. Nel 1906 Iacques e Raîssa ricevettero il battesimo; ebbe inizio così una profonda vita di fede che si alimenti) anche della scoperta del pensiero di S. Tommaso d'Aquino. Dal 1912 insegnò filosofia al «College Stanislas» e allhdnstitut Catholique» di Parigi. Risale a questi anni il suo primo libro: La filosofiabergsoniarta: studi critici, pubblicato nel 1914 e che diede avvio al tomismo francese. Collaboro a una rivista legata aIl’«Action Francaise» del monarchico
nazionalista Charles Maurras. Nel 1926, quando l’«Action Francaise» venne condannata da Pio XI, Maritain si pose contro il movimento, riconoscendo le ingenuità in cui egli era caduto. Appartengono agli anni Venti varie e importanti opere, che ci aiutano a capire la posizione di Maritain e lo sviluppo del suo pensiero: Arte e scolae
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(1920), Elen-zenti di filosofia I e Il (1921-1923), Tlieonas (1921), S. Tomd'Aquino (1923), Antimoderno (1922), Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau (1925), Primato dello spirituale (1926).
stico
maso
Dal 1926 al 1939 la casa di Maritain a Meudon (presso Parigi) diventò il luogo d'incontro di letterati, filosofi e intellettuali. Le opere fondamentali di questo periodo, che segnano la maturazione dei suoi orientamenti di pensiero sono: Religione e Cultura (1930), Distinguere per unire. I gradi del sapere (1932), Sulla fiiOSOfiIZ cristiana (1933), Strutture politiche e libertà (1933), Frontiere della poesia (1935), La filosofia della natura (1935), Scienza e saggezza (1935) e Umanesimo integrale (1936) il suo libro più noto che suscitò anche vaste polemiche. Si tratta di un'opera che raccoglie sei lezioni tenute nel 1934 all'università di Santander (in Spagna) e la relazione al congresso tomista di Poznan (in Polonia). Dal 1940 al 1960, eccettuati gli anni 1944-1948 durante i quali fu a Roma come ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, egli visse negli Stati Uniti dove insegnò in numerose università. Appartengono a questa epoca importanti opere, che sviluppano il discorso precedentemente avviato sia su temi di metafisica, che di filosofia della politica, dell'educazione, della storia, dell'arte e di etica, tra cui: Questioni di coscienza (1938), l diritti dell'uomo e la legge naturale (1942), Cristianesimo e democrazia (1945), L'educazione al bivio (1943), La persona e il bene comune (1947), Ragione e ragioni (1947), L'uomo e lo Stato (1951), Lafilosofia morale (1960). Questo periodo di intenso impegno filosofico e sociale si chiude con la morte di Raîssa a Parigi nel 1960. Dal‘ 1961 al 1973 Maritain si ritirò presso i «Piccoli Fratelli di Gesù» di Tolosa alla cui comunità egli stesso aderì nel '70. Alcune importanti opere di questi ultimi anni della sua vita sono: Dio e la permissiorie del male (1963), ll contadino della Garorzna (1966), che riaccese le polemiche intorno alle posizioni maritainiane e Approclies sans entraves, di cui stava correggendo le bozze quando morì, nel 1973. Maritain fu il più autorevole rappresentante del neotomismo: concepì la propria opera come una continuazione ”fil0sofica” della teologia di S. Tommaso. «lo non sono un neotomista spiegava e alla peggio preferirei essere un paleo-tomista. In realtà io sono, io spero di essere un tomista». ll suo impegno speculativo si è costantemente mosso tra due poli: S. Tommaso e il pensiero moderno. Del primo ha sviluppato la problematica filosofica in quei punti che non erano stati toccati (filosofia della scienza, filosofia della storia) oppure non erano stati sufficientemente approfonditi (filosofia dell'arte, filosofia politica). Del secondo si è costantemente impegnato nello studiare e analizzare le dottrine filosofiche, religiose, sociali, politiche alla luce del tomismo, denunciandone le profonde lacune e aberrazioni. —
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pensiero del
Maritain qui ci limiteremo a esporre i della la quale per lui si identifica come metafisica, punti più qualificanti la metafisica dell'essere di S. Tommaso. Questa secondo Maritain merita la qualifica di "metafisica esistenziale”, perché dell'essere non ha un concetto astratto (il più povero di tutti i concetti), ma concreto, esistenziale, in quanto si riferisce all'atto primo che sostenta qualsiasi realtà. «Il tomismo scrive Maritain merita d'essere Chiamato una filosofia esistenziale (...). Ma se la metafisica tomista e una metafisica esistenziale, lo è essendo e restando una metafisica, vale a dire una saggezza che procede per via intellettuale, secondo le esigenze pure dell'intelligenza e dell'intuitività che le è propria».13 Del vasto e ricco
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L'oggetto della metafisica Maritain assume come valida la notissima definizione che della metafisica aveva dato Aristotele: «la filosofia prima (metafisica) e lo studio dell'essere in quanto tale». Ma di che essere si tratta? Nelle Sette lezioni sull'essere Maritain mette in guardia contro quattro modi di intendere l'essere in cui esso viene derealizzato: l'essere particolarizzato che cade sotto la considerazione delle singole scienze; l'essere traggo considerato dal senso comune; Fans rationis che è oggetto della logica; lo pseudo-essere, che è l'essere inteso come genere, anziché come trascendentale. Un particolare interesse ha per Maritain l'essere derealizzato dei logici in quanto esso si risolve nellîntenzionalitàdell'uomo logico.“ Nell'ambitodella logica l'intenzionalità è puramente mentale, essa ha di mira l'essere così come è posseduto dalla ragione. Non è l'essere, dunque, propriamente quello cui si riferisce il logico, ma l'essere di ragione, l'essere possibile, la nozione di essere, insomma l'essenza. Ma altro è l'essere della logica e altro l'essere come realtà: quello è propriamente del logico, questo del metafisico, ljintenzionalità dell'uomo logico non raggiunge quella del metafisico, il solo che abbia l'intuizione dell'essere reale, ossia de11'esistere. Ma, allora, qual è l'essere di cui si occupa la metafisica una volta escluse le quattro forme di essere di cui si è detto in precedenza? «L'essere oggetto del metafisico, l'essere in quanto essere, non è né l'essere particolarizzato delle scienze della natura, né l'essere vago del senso comune, né l'essere derealizzato della vera logica, né lo pseudo-essere della pseudo-logica, ma l'essere reale in tutta la purezza e ampiezza della sua intelligibilitàpropria o del suo mistero proprio. Questo essere è mormorato nelle cose, in tutte le cose: le cose lo dicono all'intelligenza, ma non lo dicono a tutte le intelligenze, ma
'13) ]. MARITAIN, Sept legons Stil’ Mitre, Paris 1934, p. 70. l‘) Cf. ibìd, pp. 36 ss.
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solo a quelle che sanno intendere; perché anche qui ‘e vero il detto: qui Iiabet aures audiendi"audiai‘. L'essere si manifesta allora secondo i caratteri che gli sono propri, come transoggettività consistente, autonoma ed essenzialmente Varia, perché l'intuizione dell'essere è allo stesso tempo intuizione del suo carattere trascendentale e del suo valore
analogicomlî
L'esse che è l'oggetto della metafisica non è l'ente (ens), ma Yesistere (esse), l'atto d'essere. Per parlare dell'esse Maritain non ricorre alle espressioni ardite di S. Tommaso, espressioni Come actualitas omnium: acfuunz, perfeciio omnium perfet-
tionum, Iiobilitas omnium nobilitatunz, ma non c'è dubbio che è al concetto intensivo dell'essere che si riferisce il filosofo francese quando definisce l'oggetto della metafisica. L'esse della metafisica non è un concetto vuoto, ma un concetto pienissimo, in quanto raccoglie in se stesso tutte le perfezioni sia reali che possibili,è un Concetto allo stesso tempo tra— scendentale e analogico. L'intuizione dell'essere Ma
si giunge alla conoscenza dell'asse? Su questo punto S. Tomha lasciato nessun insegnamento chiaro ed espliciti), e questo la notevole divergenza dei tomisti a questo riguardo. Per alcuni
come
maso non
spiega
anche il concetto dell'essere è, come qualsiasi altro concetto, frutto delYastrazione. Gilson, come abbiamo Visto, respinge questa tesi e sostiene che dell'essere non abbiamo nessun concetto: l'essere è colto ed espresso soltanto nel giudizio. Maritain propone una terza soluzione: l'essere è colto dalla intelligenza intuitivamente. Non è mediante il ragionamento che l'intelligenza raggiunge l'essere poiché la percezione dell'essere è il fondamento d'ogni ragionamento; non lo si raggiunge con i sensi, i quali percepiscono soltanto singoli "enti" ma non l'essere. Pertanto l'unica facoltà in grado
cogliere l'essere è l'intelligenza: questa Va direttamente al cuore delle cose, a questo esse che ne fa degli esistenti, delle realtà. Per conoscere l'esse «non basta incontrare la parola "essere" e dire "essere"; occorre avere l'intuizione, la percezione intellettuale della inesauribilee incomprensibilerealtà così manifestata come oggetto. È questa intuizione che fa il mefafisico>>fi Ma l'intuizione dell'essere esige docilità da parte della intelligenza. L'essere parla a tutti, ma non tutti Yascoltano. Solo chi possiede l'abito metafisico coglie l'essere nella sua fortissima risonanza e nella sua ricchissima polifonia. Maritain spiega che l'intuizione dell'essere non è di
15) Ibid., p. 52. N») lbid.
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specie di grazia mistica, «ma e sempre come un dono fatto all'intel-
letto,
ciò che è certo ‘e che essa è necessaria sotto una forma o sotto a tutti i metafisici. Inoltre, è necessario rendersi conto che se è necessaria a tutti i metafisici, tuttavia essa non viene concessa a chiunque, né a tutti coloro che filosofeggiano, e neppure a tutti i filosofi che vorrebbero essere o che credono di essere dei metafisici: Kant non l'ha mai avuta. Ma perché questo? Ciò accade perché è difficile, non difficile in quanto sarebbe un'operazione difficilea svolgersi, l'esito fortunato di un virtuoso, perché non c'è nulla di più semplice (ed è proprio perché l'ha cercata con la tecnica e con la massima raffinatezza della tecnica intellettuale che Kant l'ha mancata) (...); essa è difficile nel senso che è difficile giungere a quel punto di purificazione intellettuale in cui si compie in noi questo atto; dove noi siamo divenuti abbastanza disponibili,abbastanza vacanti, per in tendere ciò che tutte le cose mormorano e per ascoltare, anziché confezionaredelle risposte>>fl7 Più avanti Maritain spiega che l'intuizione metafisica dell'essere è un'infrazione asfrattiva e ideativa allo stesso tempo: «l'intuizione metafisica dell'essere è un'intuizione ideativa e altamente ideativa. Questa intuizione si trova alla sommità della intellettualità eidetica». Essa può essere detta visualizzazione eidetica, in quanto «l'intelligenza, per il solo fatto che e spirituale, si adegua ai suoi oggetti, li eleva nel suo interno a gradi diversi, sempre più puri, di spiritualità e di immaterialità. È in essa, al suo interno, che attinge il reale, disesistenziato della sua esistenza propria ed extramentale, e aprendo, proferendo nello spirito un contenuto, e
un'altra
una
intimità,
nello spirito le
un
suono, una voce
sue
intelligibileche
condizioni di esistenza
una e
non può avere che universale come intelli-
gibilitàin atto».'“*
Anche altrove Maritainl‘? parla sempre di intuizione dell'essere esistenziale. L'intuizione è «Yaffrontamento dell'atto di esistenza da parte di un'intelligenza decisa a non mai rinnegarsimì“ Così l'autore Vedrà nella concezione di Dio di Cartesio e di Duns Scoto, da cui Cartesio deriva, una deviazione rovinosa del concetto di Dio in quanto l'essenza o natura di Dio si è resa impenetrabile alla intelligenza, e vi si supplisce facendo appello a Dio come volontà dell'intelligenza e della intelligibilita.“ Qui si ha sempre il primato dell'esistenza, ma pagato con la soppressione o inutilizzazionedella natura intelligibileo essenza, Una esistenza senza essenza, la sola che per se’ sarebbe intelligibile, diviene
17) Ilîid, p. 56. m) Ibid, p. 66. 19) I. MARITAIN, Court traité de Fexistcnce m‘ de litristcizt, Paris 1947, p. 10. 1°) Ihid, p. 11. 2T) Cf. ibid, p. 14.
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impensabilee ci getta nel caosfiî L'esistenza senza l'essenza ‘e esistenza di nulla. Altrettanto si dovrebbe dire dell'uomo come esistente quando egli non avesse una natura 0 essenza. Come avviene nell'esistenzialismo sartriano dove l'uomo e le cose sono pure azioni in vista di un progettol‘ Insomma Fanalitica dell'essere esige la distinzione di essenza ed esistenza. «Non si può avere una nozione dell'essere che faccia astrazione completa dell'uno 0 dell'altro di questi due aspetti. Ora questo merita di trattenere la nostra attenzione. Ecco dunque che non soltanto il concetto d'essere abbraccia implicitamente nella sua unità analogica o polivalente la divisione dell'essere in creato e ìncreato, sostanza e accidente (m); ma ancora, in virtù della sua struttura essenziale stessa, il concetto dell'essere include in maniera indissociabile, in tutti i gradi della sua polivalenza e per tutti i tipi d'essere a cui si può applicare, nel campo infinito che può ricoprire, i due termini legati e associati della dualità essenza-esistenza, che lo spirito non può isolare l'uno dall'altro in concetti separati: qualsivoglia essere io pensi, questo duplice aspetto è implicato nel suo concettomî‘ Ma come insegnava S. Tommaso, la distinzione tra essenza ed esistenza in Dio è una distinzione di ragione, perché l'esistenza costituisce l'essenza stessa di Dio; invece in tutte le altre cose, compresi gli angeli, la distinzione è realefif‘ La sesta prova dell'esistenza di Dio Le prove della esistenza di Dio sono innumerevoli; ogni grande metafisico possiede una sua via per giungere a Dio. L0 stesso S. Tommaso, oltre le famosissime "cinque vie", ne propone altre che sono perfettamente coerenti con la sua metafisica dell'essere. Iacques Maritain, come aristotelico—tomista, apprezza e valorizza le "Cinque Vie" dell’Aq_uinate, ma, per altro verso, sagace interprete delle istanze dell'uomo moderno segnatamente dell'esigenza di attingere l'oggetto conoscibile, con agilità e immediatezza formula un modo nuovo (una "sesta Via") più conveniente ad esse. Per giungere a Dio asserisce Maritain possiamo valerci, oltre che di un argomento di tipo tecnico (secondo il modello delle vie tomistiche) anche di un "ragionamento naturale", di tipo intuitivo, «irresistibilmentemantenuto e vivificato, da un capo all'altro, nel lampo intellettuale dell’intuizione dell'esistenza». In questo lampo intuitivo, infatti, il mio pensiero, con rapidità estrema, Compie, per così dire, tre balzi, intimamente legati fra loro: mi pongo dinanzi all'esistenza attuale delle cose, totalmente da me indipen—
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22) Cf.ibid.,pp.16-17. 23) Cf. ibid, p. 19. 24) ]. MARITAIN, Sept Iegons Sur 115m’, cit., p. 74. 25) Cf. ibid.
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denti; scorgo la mia esistenza come un evento in cui non ho parte alcuna, perché insidiato, abitato quasi, dal nulla e dalla morte; infine mi porto da quesfesistenza minacciata a un'esistenza assoluta, irrefragabile, completamente libera dal nulla e dalla morte, ancora indeterminata, però: un'esistenza, forse, nelle cose, 0, forse, trascendente. Scrive Maritain: «Allora un ragionamento pronto, spontaneo, naturale come un’intui— zione (e, di fatto, più 0 meno implicito in essa), sorge immediatamente, quasi frutto necessario di tale appercezione primordiale, imposto dalla sua luce e sotto di essa. Ragionamento senza parole: si rischia di tradime la concentrazione, la rapidità, esprimendolo in modo articolato. Vedo, pertanto, che il mio essere, dapprima, e soggetto alla morte e, in secondo luogo, dipende dall'intera natura del tutto universale di cui sono parte; e che Flîssere-con-il-nulla,com'è il mio proprio essere, implica, per esistere, YESsere-senza-il-nulla, quella esistenza assoluta che ho confusamente percepito come avvolta nella mia primordiale intuizione dell'esistenza; e vede che il tutto universale di cui sono parte è, a sua volta, Essere-con-il-nulla per il fatto stesso che ne sono parte; così che, infine, non esistendo da se stesso il tutto universale, vi è un altro Tutto separato -, un altro Essere trascendente, autosufficiente, inconoscibilenella sua natura, e attivante tutti gli esseri: lîssere-senza-il-nulla, cioè l'Essere da sé. Così il dinamismo interno della intuizione dell'esistenza, o del valore intelligibiledell'Essere, mi fa vedere che l’Esistenza assoluta o YESsere-senza-il-nulla trascende l’intera natura e mi mette di fronte all'esistenza di Diomî“ -
Come precisa lo stesso Maritain, qui non si tratta di un nuovo modo di accostarsi a Dio: «è l'eterna via della ragione umana per avvicinarsi a Dio. Quel che vi è di nuovo è il modo con cui lo spirito moderno è divenuto cosciente della semplicità e del potere liberatore, del carattere naturale, e in qualche modo intuitivo di questo approccio eterno».27 Ma più per quanto è riuscito a fare sul terreno specifico della metafisica, che, tutto sommato, è poca cosa, Maritain ha dato grande prestigio al tomismo, sviluppando le sue enormi potenzialità nei campi della morale, dell'arte, della storia, della pedagogia e della politica. Fu soprattutto grazie alle sue dottrine politiche esposte in numerosi scritti che Maritain riuscì a far guadagnare notevole prestigio al pensiero di S. Tommaso anche in ambienti che gli erano stati sempre ostili (particolarmente in Inghilterra, Francia e Stati Uniti). In effetti Maritain seppe creare una sintesi felice tra le istanze dell'epoca moderna e le tesi fondamentali del pensiero tomista. —
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26) 27)
«Une nouvelle approche de Dieu», in Raison et raisons. Essais pp. 171-173. lbid.
détachés, Paris 1947,
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ANTONIN-DALMACE SERTILLANGES Vita e opere Antonin-Dalmace (il cui nome di battesimo era Gilbert) Sertillanges nacque a Clermont-Ferrand nel 1863. A Vent'anni, nel 1883, entrò nell’Ordine Domenicano. Ma poiché i Domenicani a quel tempo non
disponevano di un proprio noviziato in Francia, Sertillanges trascorse il suo primo periodo nell'Ordinc a Belmonte, in Spagna. Compi invece gli studi di filosofia e teologia a Corbara, in Corsica. Qui insegnò anche teologia dal 1890 al 1892. Nel 1893 fu chiamato a Parigi a ricoprire prima
l'ufficio di segretario della Revue tlromiste e successivamente di amministratore della Revue lfiblique. La sua carriera filosofica iniziò nel 1900 allorché gli venne offerta la cattedra di filosofia morale all’Institut Catholique di Parigi, che ricoprì per 22 anni. Nel 1928 fu nominato membro dell’lnstitut de France. A causa di alcuni contrasti con il suo superio— re religioso, nel 1923 dovette lasciare la cattedra di filosofia; in un primo tempo fu inviato all’Ecole biblique di Gerusalemme, dove insegno di nuovo teologia; successivamente passò al grande centro di studi domenicano di Le Saulchoir (Belgio), dove dal 1928 al 1939, accanto alla teologia, insegnò anche sociologia e retorica. Nella misura in cui lo permettevano gli eventi bellici,Sertillanges collaborò all’edizione della Rerum des leimes. Morì a Sallanches il 26 luglio 1948, all'età di 85 anni. Le opere principali di Sertillanges sono: Saint Thonzas dflquin, 2 voll. (1910); La philosophic morale de St. Thomas d’Aquin (1914); Le vie intellcctzrelle (1921); Les grandcs thèses de la philasophictlzomiste (1928); Le christiamisure et les philosophies, 2 voll. (1939-1941); L'idea de créatiorz et ses rctcmtisscments en philosophìe(1945); Le problème du mal, 2 voll. Paris 1939-51. Il pensiero
Sertillanges fu un autentico tomista, un verus etfìdelis discipulzts sancti Thomae, e nella prima metà del XX secolo fu tra coloro che più contribuirono alla conoscenza del pensiero di S. Tommaso e del tomìsmo. Come risulta dall'elenco delle sue opere, a S. Tommaso e al suo pensiero egli ha dedicato alcuni degli scritti più importanti e più conosciuti, che furono anche tradotti in diverse lingue. Profondo conoscitore di S. Tommaso e del tomismo autentico, egli seppe presentare il suo pensiero in modo vivo e avvincente, liberandolodalle scorie sotto cui l'avevano seppellito
i manuali della terza scolastica c della neoscolastica. Sertillangcs è un grandissimo ammiratore di S. Tommaso del quale, tra l'altro, ha scritto un ammirevole profilo biografico e intellettuale. Dell’Angelico Dottore egli apprezza tutto: la vita interiore, l'umanità, la
spiritualità, la santità, la genialità e soprattutto la totale e incondizionata passione per la verità, per la conoscenza e l'insegnamento della quale
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egli possedeva un singolare carisma. «Il nostro autore ha l'istinto della verità, come l'animale dei boschi quello della pianta utile e, seguendolo, non v'è timore d'essere ingannato.” S. Tommaso, «per attingere le vette dell'intelligenza non ha bisogno di salire. Siamo noi che dobbiamo salire verso di lui, ma la sua accoglienzaè tale che ne abbiamo subito la ricompensa. La sua fronte è veramente una sorgente di luce per gli uominiml‘) La singolarità di S. Tommaso è di possedere una visione della verità che è globale e dettagliata allo stesso tempo. «Giova ripeterlo, benché la cosa sia nota come lo stesso nome di S. Tommaso, la più notevole delle caratteristiche generali di questo genio è la sua potenza di sintesi. Possedeva la splendida facoltà di situarsi immediatamente nel cuore delle cose e scorgerne tutte le irradiazioni. La sua attitudine fondamentale era quella di unificare, associare, distinguere. Faceva zampillare da tutto la chiarezza>>.3" «Egli va diritto alla verità che tutto concilia, alla realtà, all'Essere, dove tutto il divino e l'umano e nell’umano ogni verità particolare, ogni tendenza legittima, ogni luogo e ogni tempo, trovano la loro
giustificazione>>fiî
In sede storica S. Tommaso Viene apprezzato soprattutto perché ha saputo rinnovare il sistema aristotelico del quale aveva compreso il valore, «per adattarlo in seguito, in sede teologica. a una concezione razionale del dogma».32 Sertillanges esamina accuratamente i rapporti tra Tommaso e Aristotele, per sfatare il pregiudizio diffusissimo nella cultura francese del suo tempo, secondo cui S. Tommaso non sarebbe stato che un servile ripetitore di Aristotele. Pur essendo stato un grandissimo difensore di Aristotele e avendo contribuito più di qualsiasi altro alla sua accettazione nelle università di Parigi, Napoli, Bologna, Padova e Oxford, Tommaso «non esita ad allontanarsi dall'autorità di Aristotele ogni qualvolta gli sembra di averne giusto motivo. Se non lo fa più spesso può darsi che dipenda dalla straordinaria sicurezza di un genio la cui potenza deduttiva non permette, a chi ne accetta i principi, di sfuggirne le necessarie conseguenze (...). Osiamo dire che in un certo senso S. Tommaso è più aristotelico di Aristotele e che questo "più" nella comunanza di pensiero gli crea un valore personale e unîndipendenza quasi eguali (...). S. Tommaso risolleva la dottrina (di Aristotele) e l'arricchisce smisuratamente (...). Tratta con mano ferma, anch'essa creatrice
2*‘) A. D. SERTILLANGES, S. Tommaso d'Aquino, tr. di G. Bronzini, Brescia 1946, p. 118. 29) lbirt, p. 117. m) 11nd,, p. 123. 31) lbirt, p. 126. 32) A. D. SaKrIL1_ANGEs, La filosofia di S. Tommaso d'Aquino, tr. di C. Miggiano di Scipio, Roma 1957, p. 19.
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di slancio, gli ingranaggi di un sistema complesso a tal punto da piegare le intelligenze più rigorose. Appiana le oscurità, risolve le incertezze che gravano sul pensiero aristotelico intorno ai più gravi problemi».33 Per quanto attiene la metafisica di S. Tommaso, molto tempo prima che Gilson ne fornisse la rigorosa ricostruzione sistematica, Sertillanges ha intravisto chiaramente la sua grandezza e originalità. Egli comprende che la metafisica tomistica e essenzialmente una metafisica dell'essere: l'essere è il principio che tutta la sorregge e unifica, l'essere inteso nel senso forte e pieno, "forza di espansione e di attrazione” di tutto il sistema. Ecco un brano in cui Sertillanges focalizza molto bene queste idee:
Tommaso) è uno, ma include una molteplicità virtuale sua ricchezza, che è vita in Dio, può e non manifestata, e, se si manifesta, è perché Dio l'ha libera-
«L'essere (di S.
che Parmenide nega. La
può
essere
voluta a differenza di quel che dicono gli Alessandrini e senza dubbio anche Aristotele insieme allo stesso Platone. L'essere creato fa ritorno a Dio come aveva detto Plotino; ma a un ritorno di forma indecisa e mistica Tommaso sostituisce trapassi graduali e precisi in armonia con la vita positiva delle cose, in cui vengono distinti le specie e gli esseri e inclusi i dati della fede. La sua dottrina è, se si vuole, un monismo, e anzi certamente lo è, ma un monismo che non ha alcuno degli inconvenienti che gli sono soliti. È, in secondo luogo, un dinamismo, poiché l'essere vi è concepito come una forza di espansione e d'attrazione, ma che evita l'errore del dinamismo, che nega la sostanza, e, invece di vedere nella forma una dinamogenia, identifica la forza con lo stesso essere. E un intellettualismo, ma anche un volontarismo, perché il pensiero genera l'amore, allo stesso modo che l'essere produce la forza. Il pensiero nato dall'Essere primo, dirige verso di questo l'amore e l'amore vi porta a sua volta il pensiero. Nello stesso Dio, l'a1nore è la causa dell'espansione creatrice e l'amore in Lui consuma l'unione che Egli ha preparata. Tutto è a causa dell'amore e tutto è per l'amore. L'amore è la consumazione di tutte le cose. Finalmente, questa teoria è nella unità di una sintesi comprensiva, un creazionismo al tempo stesso che un evoluzionismo. E un creazionismo perché tutto discende dall'Uno per una libera iniziativa creatrice e l'origine di tutto, quindi è al sommo dell'Essere, non in un indefinibilecaos, senza ragion sufficiente. E, tuttavia, un evoluzionismo, poiché dai confini del frazionamento ontologico, tutto risale all’Essere
mente
primow“
cogliendo la ricchezza, la potenza, la fecondità, la centralità dell'asse tomistico, quando poi passa alla ricostruzione sistematica della metafisica di S. Tommaso, Sertillanges non la imposta secondo l'oma Pur
) Ibid., pp. 23-24. 34) A. D. SERTILLANoEs, S. Tonzmaso d'Aquino, cit., pp. 158-160.
33
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resolutionis, che procede dagli enti verso l'essere sussistente come avrebfare, ma si adegua alla impostazione suareziana, dove sepa-
be dovuto
rando Vontologia dalla metafisica vera e propria, si specula astrattamente sul concetto di essere, sui trascendentali e sulle categorie dell'essere. Inoltre il concetto di essere che Sertillanges vi prende in esame non è affatto il concetto intensivo, bensì il concetto comune, il più vago e più debole di tutti i concetti, cosicché, «a causa della sua genericità, la noziodi essere, lasciata a se’, è condannata a
ne
un
vuoto
assoluto, non espri-
nulla di distinto, nulla di afferrabile(...). Occorre dunque dire che l'idea dell'essere è in sé solo una convenzione, giacché l'essere non ha un concetto definito, se non nelle sue specie, cioè nelle categorie>>fi5 me
Gli altri tomisti francesi Gilson, Maritain e Sertillanges sono
stati indubbiamente i principali artefici della riscoperta della metafisica dell'essere di S. Tommaso. Essi hanno scoperto che S. Tommaso ha un concetto assolutamente nuovo dell'asse: il suo non è più il concetto debole dell'asse Comune, bensì il Concetto forte dell'esse inteso come summa actualitas. Gilson, Maritain e
Sertillanges in parte hanno anche esplorato e conquistato il vastissimo e meraviglioso territorio della metafisica dell'essere ma nessuno di loro
l'ha fatto sistematicamente. E così la ricostruzione sistematica della nuova metafisica è rimasta più un’aspirazione che un'esecuzione effettiva. Chi si è avvicinato di più a questo traguardo è stato Gilson; ma la sua ricostruzione è fatta in un'ottica eccessivamente teologica, dove una pre-
Dio toglie alla resolutio degli enti nell'estate ipsum la vis speculativa necessaria alla sapienza filosofica. Nel secolo XX la Francia, oltre che di Gilson, Maritain e Sertillanges è stata la patria di molti altri valenti tomisti, i quali però non hanno ope-
matura identificazione dell'asse
ipsum
con
rato nella direzione di
una ricostruzione sistematica della metafisica delhanno sfruttato le sue enormi risorse su due verl'essere, ma piuttosto santi che a prima vista sembrano lontani, e anzi alieni dall'essere, il e l'agire dall'altra. Invece si poteva dimostrare l'essere concepito intensivamente funge da valido sostegno sia al realismo critico nella dottrina della conoscenza sia al realismo dinamico nella dottrina morale. All’approfondimento dell'essere sul versante del conoscere hanno operato Garrigou-Lagrange, Jolivet, Forest e Rousselot, mentre all'approfondimento sul versante dell'agire ha lavorato De Finance. conoscere
da
una
agevolmente che
parte
35) lD., Lafilasofiadi S. Tommaso d'Aquino, cit., p. 29.
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Parte terza
REGINALDO CARRICOU-LACRANGE
Reginaldo Garrigou-Lagrange (1877-1964) lascia l'università di Bordeaux dove stava studiando medicina per farsi Domenicano. Ordinato sacerdote nel 1902, compie gli studi di perfezionamento in teologia a Le Saulchoir. Si perfeziona anche in filosofia frequentando alcuni corsi alla Sorbona dove può seguire tra l'altro le lezioni di Bergson. Inizia l'insegnamento a Le Saulchoir nel 1905; quattro anni più tardi, nel 1909 viene chiamato a Roma per l'insegnamento della teologia dogmatica all'Angelicum, attività che lo vedrà impegnato ininterrottamente per quasi quarant'anni. Nel 1955 è nominato consultore del Sant'Uffizio. Muore a Roma nel 1964. Gran parte della sua vasta produzione riguarda la teologia, ma due dei suol primi lavori hanno una considerevole importanza filosofica. Si tratta di Le sens COHIHILHZ, la philosophie de l’étre et lesforrmtles doggmatiqzics (1909) e Dica. Son existence et sa nature (1915). Nella prima prendendo posizione contro Fimmanentismo della filosofia moderna, GarrigouLagrange mostra il carattere intenzionale e l'oggettività della conoscenza umana. Il «primo sguardo della intelligenza», scrive GarrigouLagrange «porta precisamente sull'essere intelligibiledelle cose sensibili». L'intelligenza capta il suo oggetto sin dal suo primo incontro con esso, superando così ogni empirismo, fenomenismo, sensismo. «Niente è intelligibilese non per mezzo dell'essere e in ragione della sua relazione all’essere». Lo confermano anche le tre operazioni intellettive, apprendimento, giudizio e ragionamento, le quali non si spiegano attraverso una ”immagine media", ma soltanto mediante un riferimento all'essere. Pertanto l’apprensione dell'essere non è un postulato arbitrario, ma l'affermazione naturale e necessaria della nostra intelligenza. Nessuno è libero di apprendere o di non apprendere l'essere, nessuno può captare qualcosa prima dell'essere. C'e una forza robusta, paragonabilea un istinto che spinge l'uomo verso l'essere. Assodata Yobiettività del conoscere, e quindi assicurato il Valore dei primi principi dell'essere, Garrigou-Lagrange può inoltrarsi tranquillamente nel terreno della metafisica e, dal mondo dei fenomeni, risalire fino all'Assoluto. È quanto egli fa nella seconda opera, Dieu. Son existence et sa nature. Qui l'obiettivo dell'autore è quello di combattere l'agnesticismo humiano e kantiano i quali negando Yobiettività del conoscere e contestando il valore del principio di causalità, precludono alla ragione la possibilità di salire fino a Dio. Per arginare Fagnosticismo Garrigou-Lagrange mostra nuovamente il valore ontologico della ragione sia quanto alle idee sia quanto ai principi primi. Poi ripropone e commenta le "cinque vie" di S. Tommaso, ch'egli considera, giustamente, come riconducibilia un'unica via, fondata sul principio di causalità. In
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riscoperta della metafisica di San Tommaso
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effetti S. Tommaso mediante il principio di causalità intende fornire una spiegazione conclusiva ai fenomeni del divenire (prima via), delle cause seconde (seconda via), della contingenza (terza via), dei gradi di perfezione (quarta via) e dell'ordine naturale (quinta via).
RÉGIS IOLIVET
Régis Jolivet (1891-1966) ha sempre vissuto a Lione. È stato ordinato sacerdote nel 1914; dopo la guerra insegna nella facoltà di teologia, poi altlnstitut Catholique, dove presenta una prima tesi (non pubblicata) sul Réalisnze cartésien (1921); la sua tesi pubblicata Verte su La notion de substance. Essai historiquc et critiqzie sur le developivement des doctrines, dflristote à n05 jours; la tesi annessa tratta il Problème du mal chez Augustin (1929). Membro di numerose società scientifiche, è assunto alla prelatura pontificia nel 1963, tre anni prima della morte (1966). Iolivet è stato un grande studioso sia di Agostino sia di Tommaso. Del primo ha approfondito i rapporti con Plotino, particolarmente nei saggi Le néoplatonisrìze chrétien (1932), e Essai sur lcs rapports entra la pensée grecque et la pcrzsée chrétienne (1931). Del secondo ha esaminato in particolare la dottrina della conoscenza in un'opera intitolata Le thomisme et la critique de la COHÌIGÌSSGÌICE’. In questo scritto Iolivet sostiene che il cogito «inteso in senso totale è riflessione sul pensiero che pensa l'essere reale»; perciò non si deve uscire dallflesse dell’atto di pensiero, ma è questo esse a farsi dono per essere pensato. In questo senso il realismo critico ”tomista” non dimostra l'esistenza di cose indipendenti dallo spirito, ma "afferma il valore d'essere della conoscenza intellettuale". In una delle sue ultime opere, Lliomnze métaphysiqite (1958), Iolivet approfondisce il legame della riflessione e dell'esistenza: «la metafisica, nel suo significato più profondo e generale, ci appare come uno sforzo permanente dell'umanità, attraverso le molteplici espressioni dell'essere, del pensiero e dei valori, vinte storicamente e individualmente, dal livello estremamente vario, per raggiungere l’Assoluto che ci muove dall'interno con la sua potenza creatrice».36 Il problema metafisico, che è in ultima analisi religioso, si radica nell'esperienza, nel «fatto che C'è un'esperienza. Così diciamo che il punto di partenza della metafisica è l'esperienza orìginaria e universale che c'è un qualche cosa, o che qualche cosa {m}? La sostanza è un "in sé” capace di esistere nel senso forte, secondo una legge interna di costituzione e di intelligibilità, che è allo stesso tempo il senso di un agire dove l’essere si realizza nel farsi e nel diveni35) R. IOLIVET, Lîlionzme métaphysiquc, Paris 1958, p. 115. 37) Ibid, p. 25.
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Parte terza
re ciò che è. La sostanza è dono di sé, azione che si comunica. Si potrebbe dire che l'esistenza è per il soggetto ciò che il rapporto è per la relazione. Uinteriorità svanisce nel beneficio dell'estasi. La soggettività accede a sé solo riprendendosi, quando va al di fuori di sé, e nello stesso movimento; Fontologia parte dalla riflessionedel cogito dando accesso, a un livello più alto de] rapporto delle cose, alla metafisica. «L'essere dell'io non è riconducibileall’esistente separato, ma si congiunge sin dall'inizio a un tu, che non è neanche lui una semplice forma a priori della sua
autointuizione,ma una fonte a p0steriori>>.38
AIMÉ FOREST Aimé Forest (1898-1983) è corrispondente dell'Institut de France; poi insegna a Montpellier nella facoltà di lettere; membro della Società filo-
sofica di Lovanio, fu anche presidente della Società filosofica della Linguadoca. Tra i suoi scritti principali due riguardano S. Tommaso: Saint Thomas d 'Aquin (1923) e il tomismo: La structure zizétaphysique da concrer selon saint Thorrzas d'Aquin (1931). Un altro saggio importante riguarda i rapporti tra la realtà concreta e la dialettica: La réalité concrète et la dialec-
tique (1931).
Fu attratto al tomismo da Gilson del quale seguì in parte le orme. La sua ricerca filosofica si propone di conciliare il tomismo e la filosofia riflessiva. Fu affascinato a lungo dall’idealismo francese, fino a comprendere il tomismo alla luce o secondo le esigenze della filosofia dello spirito. Non ha scritto alcun "trattato tornista"; la sua riflessione era infatti rivolta alla elaborazione di un corretto significato del realismo tornista del pen-
siero, che sa mantenere una profonda alleanza tra l'essere e lo spirito.
In La structure métapîiysique da concret selon saint Thomas d'Aquz'n «una specie di classico nella storia degli studi tomistici in Francia» (E. Gilson) Forest presenta una propria sintesi del tomismo centrata sull'idea di "esistenza concreta", concepita sia come "posizione pura eled'un essere” sia come ‘essere d'una natura", comportante menti costitutivi che l'analisi dottrinale si propone di chiarire. E là che si ritrova il cuore del reale: «ecco che cosa significa per S. Tommaso la parola concreto: ciò che è radunato, unito sotto un unico principio o sotto lo stesso atto».39 Secondo Forest la filosofiadi S. Tommaso è rigorosamente aristotelica sia nella sua fedeltà al concreto e sia, conseguentemente, nella sua opposizione al platonismo, che l’Angelico cerca di snidare da tutta una serie -
—
quegli
38) 39)
R.
]OLIVET, Essai snr le problème et les conditions de la sincerité, Paris 195D, p. 37.
FOREST, La strucfztre métaphysique du 1956, 2“ ed., p. 39.
A.
cancret selon saint Thomas
dflqzzin, Paris
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di dottrine di matrice platonica che erano largamente condivise dagli scolastici. Ma allo stesso tempo è un aristotelismo profondamente rinnovato, grazie all'inserimento di tre dottrine completamente estranee ad Aristotele: le dottrine della creazione, della partecipazione e della distinzione di essenza ed esistenza. Per l’Angelico questa espansione dell'aristotelismo è perfettamente legittima. «Non è necessario introdurre delle correzioni, le quali sarebbero peraltro assolutamente insufficienti, per spalancare siffatti orizzonti, ma è sufficiente cogliere da un nuovo punto di vista i problemi filosofici che si trovano posti; occorre comprendere ciò che comporta l'affermazione aristotelica, secondo cui la metafisica è la scienza che Considera l'essere in quanto essere, e rifiutare di porre i problemi diversamente che nel terzo grado dellastrazione. S. Tommaso
sconvolge, se si vuole, tutto il sistema aristotelico, ma non rimane forse fedele alle sue aspirazioni essenziali? (...) In una parola, l'Arist0tele visto da S. Tommaso è ciò che nel linguaggio scolastico viene detto un futuri-
bile».4‘J Secondo Forest S. Tommaso è
un "vero innovatore” (est vrainzent un La arzovateuar). sua grande originalità consiste nel riuscire a salvaguardare nel suo aristotelismo l'essenziale dell’idealismo stesso di Platone. In breve, S. Tommaso parte con Aristotele e resta fermamente aristotelico in tutta l'analisi del concreto, ma poi conclude con Platone, quando esce dal ”concreto" per trovarne la causa ultima trascendente in Dio. L'Angelico inizia con l'affermazione di un mondo di sostanze dotate in se stesse di una profonda unità. Ma egli non si ferma qui.
«Egli ci fa cogliere, in ogni essere creato, l'esigenza di Dio stesso. La molteplicità è, infatti, nella sua filosofia, un punto di partenza sufficiente per elevarsi sino a Dio; essa si capisce soltanto se l'essenza degli esseri è distinta dalla loro esistenza, perché diversamente, in qualsiasi altra ipotesi, si ricadrebbenell'uno degli Eleati; ma l'esistenza ricevuta da fuori nella essenza pone irresistibilmente il problema della sua origine, che è Dio. Il tomismo è dunque finalmente questa analisi metafisica che, sotto la più piccola realtà concreta, afferma la realtà dell'assoluta che la fonda nell'esistenza. E una filosofia dei rapporti dell’insufficienza delle cose e delle condizioni ultime della loro insufficienza. Così l'essere concreto sussiste in se stesso, possiede una rigorosa unità, poiché un solo atto viene a completare potenze diverse, e questa stessa analisi della potenza ci fa vedere che, lungi
dall'essere limitato in se stesso, ogni ente esige in un certo senso tutti gli altri nell'insieme dell'universo, relazionato a DÌOm“
w) IbicL, p. 323. 41) una, pp. 327-328.
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Parte terza
Così, secondo Forest, il realismo che ci offre S. Tommaso non è il freddo realismo ”scientifico" di Aristotele, ma è piuttosto quel ”realismo mistico” tanto caro ai platonici cristiani del Medioevo; «il tomismo è un
realismo mistico, perché il reale ha una prire senza posa la divina presenzawî
profondità e ci consente di sco-
P [ERRE ROUSSELOT
Pierre Rousselot (1878-1915) crebbe nella fede rigida della sua famiglia. Educato a Le Mans dai gesuiti, entrò a 16 anni nel loro noviziato in esilio a Canterbury (Inghilterra). Nel 1908 fu ordinato sacerdote; si laureò in filosofia alla Sorbona. Assegnato all’lnstitut Catholique di Parigi nel 1909, Rousselot iniziò il suo profondo ripensamento del tomismo. Uincalzare degli eventi, tra i quali la malaria e la guerra, impedirono lo sviluppo del suo pensiero. Chiamato a svolgere il servizio militare, morì a Eparges nel 1915. La produzione letteraria di Rousselot si limita a due libri: Ijintellectzialisme de sairzt Thomas (1908), che è la sua opera principale, e Pour l ’histoire du problème de l'amour au Moyen-Age (1908), e a una dozzina di articoli, alcuni dei quali sono dedicati pure al tomismo. Nella sua fugace esistenza Roussclot ha posto le basi per un radicale ripensamento della sintesi tomistica, più pero sul piano gnoseologico che su quello metafisico. Mentre la maggior parte degli interpreti di
S. Tommaso continuavano a sottolineare nella sua sintesi filosofica la componente aristotelica, e difendevano perciò la possibilitàdi una conoscenza puramente concettuale dell'essere, in Ijirztellectualisnte de saint Thonzas, Rousselot interrompe questa lunga tradizione, per dare risalto agli elementi platonicovplotinianiin S. Tommaso. Come allievo di S. Tommaso, Rousselot rifiuta decisamente il volontarismo. ljeccellenza delle facoltà spirituali è misurata dalla loro abilità a soddisfare l’anelito infinito dell'uomo, il possesso beatificante di Dio. Da questo punto di vista la volontà, la facoltà di tendere verso qualcosa, e subordinata all’intelletto, la facoltà di intendere, dato che l'intelletto possiede direttamente Dio, mentre la volontà gode solo successivamente del bene posseduto. Rousselot definisce audacemente l'intelletto finito in vista del suo scopo finale, la visione intuitiva di Dio, cioè I’Esse infinito, della cui pienezza partecipano tutti gli esseri viventi. In tutte le creature dotate di intelletto esiste quindi, secondo lui, un desiderio naturale di conoscere la Causa Prima in questo essere. Ne’ una causa seconda né una rappresentazione finita dell’Assoluto possono soddisfare questo desiderio della mente. Finché lo spirito raccoglie l'essere e quindi inclu-
42) una, p. 32s.
La
riscoperta della metafisica di San lìmzmaso
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de in se’ la potenzialità, esso anela, in quanto finito, alla pienezza infinita di questo atto elevatissimo, l'unione con l'essere. Rousselot sosteneva un doppio ordine naturale. Il primo era sostan-
zialmente aristotelico: l'universo materiale è composto di parti costitutive, che formano la base per astrazioni valide e razionali. Il secondo era un platonismo dinamicamente trasformato, in modo da permettere ai singoli enti di prendere parte all’Es5e infinito. Non c'era, secondo lui, una separazione netta tra Platone e Aristotele. In realtà, Rousselot non si proponeva alcuna semplice giustapposizione. Il sistema aristotelico aveva subito alcune "deformazioni” prima di essere riportato al suo giusto posto nella nuova sintesi. Rousselot presupponeva un mondo delimitato, un tutto armonioso e umano. Così come gli accidenti sensibili sono relativi a un organo che li percepisce, allo stesso modo tutta la realtà materiale è relativa all'uomo. D'altro canto gli esseri viventi esistono solo per quanto sono conosciuti da Dio. Poiché però Dio, come puro Spirito, non possiede la conoscenza sensibile, la realtà materiale, per poter esistere, dev'essere mediata dall'uomo; Dio la comprende
nella e attraverso l'intelligenza umana.
IOSEPH DE FINANCE
Joseph De Finance è nato a La Canourgue il 30 gennaio 1904. Entra nella Compagnia di Gesù nel 1921. Effettua gli studi letterari superiori in Belgio e quelli delle lettere classiche a Nancy. Gli studi filosoficie teologici (1925-1935) si svolgono tra lo Scolasticato della Compagnia di Gesù a Vals-près-Le-Puy(Haute-Loire) e quello di Enghien (Belgio). Consegue il dottorato in filosofia a Montpellier nel 1943. Nel 1955 è chiamato a insegnare alla Gregoriana, dove tiene corsi di etica generale fino al 1974 e sulla filosofia di S. Tommaso fino al 1980. Il suo insegnamento toccherà anche terre lontane come l'India, il Canada e il Vietnam. Come ha riconosciuto lo stesso De Finance, sulla sua formazione filosoficahanno influito i due grandi innovatori del neotornismo, Rousselot e Maréchal. Tra le sue numerose opere ricordiamo: Etra et agir dans la philosophie de saint Thomas (tesi dottorale, scritta nel 1938 e pubblicata nel 1943; seconda edizione 1960); Existence et liberté (1956); Ethica generalis (1959); Essai sur l 'agir Immain (1966); Le sensible et Dieu (1988). L'opera di De Finance è consacrata alla realizzazioneetica della metafisica. In effetti la sua indagine filosofica è sempre rivolta a obiettivi concreti ed esistenziali e si concentra preferibilmentesu temi antropologici (Existence et liberté; Essai SIH’ lìzgir Iiumain) e morali (Ethica generalis). Anche il suo magistrale studio (Etra et agir) non è finalizzatoa se stesso, bensì all'agire e questo è preso in tutte le sue dimensioni: umana e divina, naturale e soprannaturale, storica e metastorica.
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Parte terza
Il suo grande contributo al tomismo l'ha fornito con la sua tesi dottorale, Etre et agir dans la philosophiede. saint Thomas che fu una delle pietre miliari nell'itinerario verso la riscoperta della metafisica dell'essere di S. Tommaso. L'obiettivo dell'opera è duplice: sul terreno storico mostrare l'assoluta originalità del concetto tomistico dell'essere rispetto a tutti quelli precedenti da Aristotele ad Avicenna;sul terreno teoretico, mettere in luce la grande fecondità di tale concetto facendo vedere che l'agire lungi dal rappresentare qualcosa di contrario all'essere, è sempre un frutto che cresce sull'albero dell'essere. De Finance osserva che generalmente gli studiosi si sono limitati ad analizzare "il dinamismo dell'intelligenza e della volontà", prestando quasi nessuna attenzione al dinamismo dell'essere. «Ora noi crediamo che la dottrina di S. Tommaso contiene di che giustificare (la tesi che ogni essere agisce), e lo scopo di questo lavoro è mostrare come la metafisica dell'agire risulta, nel tomismo, dalla metafisica dell'essere, o, se si vuole, come l'affermazione dell'esistenza richiama l'affermazione dell'attività».43 Certo, tornare a S. Tommaso per fornire un adeguato fondamento alla metafisica dell'agire, ai tempi in cui De Finance scriveva la sua tesi dottorale, era un'impresa ardimentosa, perché ad alcuni la filosofia dell'essere sembrava sottovalutare la ricchezza superiore della vita e dell'azio-
ad altri sembrava misconoscere l'originalità e il Valore proprio del pensiero. Per far cadere questi pregiudizi era necessario dimostrare che il concetto che S. Tommaso ha dell'essere non è quel concetto poverissimo in se’, privo di qualsiasi contenuto, che si trova in Aristotele, e neppure quello della scolastica suareziana per la quale l'esistenza (essere) è soltanto uno stato, una posizione dell'essenza. Come si è detto, questo è il primo obiettivo della dotta ricerca di De Finance. Attraverso un accurato esame di tutta la letteratura pretomistica e tomistica, egli fa vedere che il concetto di essere come actus costituisce la grande originalità di S. Tommaso. Che l'asse potesse occupare una posizione preminente in una metafisica cristiana lo si poteva ricavare direttamente dalla Scrittura, la quale definisce Dio non come bontà, unità, giustizia ecc. bensì come essere. «Io sono colui che è». Ma occorreva trasformare questo asserto religioso in asserto filosofico, ed è quanto è riuscito a fare S. Tommaso, ricorrendo alla distinzione reale tra essenza ed esistenza negli enti e facendo pertanto dell'essere l'esistenza stessa di Dio. A1l'approfondimento filosofico di questa tesi S. Tommaso è arrivato applicando alla coppia essenzaesistenza la dottrina aristotelica dell'atto e della potenza, nonché la dotne, mentre
43) ]. DE FINANCE, Etre et agir dans la philosoplziede saint Tliomas, Roma 1960, p. l.
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riscoperta della metafisica di San Tommaso
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trina platonica della partecipazione. «l'originalità di S. Tommaso scrive De Finance è di avere interpretato la distinzione di essenza ed esse mediante la teoria della partecipazione e quella dell'atto e della potenza, facendole assumere proporzioni insospettate da Arìstotele».44 Così l'atto supremo non è più, come per Aristotele, la forma, bensì l'essere, che diviene l'atto della forma stessa. -
-
Il primato assoluto dell'essere, rispetto a qualsiasi altro principio metafisico, e la distinzione reale tra essenza ed esistenza sono i due nuovi pilastri su cui l'Angelico costruisce la sua metafisica. Ma come già rilevava Gilson, anche De Finance deve constatare che in S. Tommaso non esiste nessuna elaborazione sistematica di questa nuova metafisica: «benché le suddette dottrine dominino tutta la sua metafisica, egli non ne ha mai ricavato un sistema dalle ossature chiare ed evidenti; mai ha organizzato intorno a queste verità fondamentali le grandi tesi della sua fi1osofia>>.45 Quello che S. Tommaso non ha fatto resta in larga misura ancora da fare. Da parte sua De Finance non ha mai tentato una elaborazione sistematica della metafisica dell'essere né in Etre et agir, né nelle opere successive. Nella seconda parte della sua tesi dottorale (cc. IV-IX), messa al sicuro la scoperta del nuovo concetto tomistico dell'essere, De Finance passa al secondo obiettivo della sua ricerca: l'esame dei luminosi riflessi che tale concetto ha sui due versanti del conoscere e dell'agire. Riguardo al conoscere l'essere non è affatto una specie di materia grezza che attende dal conoscere di essere sollevata a un piano superiore, ma è la luce radiosa che rende possibile ogni conoscenza: la conoscenza è sempre conoscenza dell'essere. L'affermazione ontologica, ossia l'affermazione di un ordine che non dipende dal pensiero, ma che al contrario del pensiero è la misura e la regola, nel tomismo è una specie di condizione a priori: «Ens esse est per se r10tuin>>fl6 Quanto poi all’agire risulta facile a De Finance mostrare che Yesse tomistico, essendo essenzialmente actus e radice di ogni atto è anche la sorgente d'ogni forma di agire, a partire da quell'agire prodigioso che e la creazione. Ecco un bel passo in cui De Finance descrive il carattere dinamico e attualistico della creazione: «L'azione creatrice, essendo presupposta da tutte le altre, è necessariamente un'azione per se. Ora, agire per se, ex se, è possedere il pieno dominio del proprio atto, e soltanto l'azione intelligente e volontaria soddisfa a questa condizione; soltanto essa gode di una spontaneità assoluta, non sorgendo che da se stessa, mentre l'azione "naturale"
4g) ma, p. 110. 4°) lbni, 109. 46)
p.
De veritute X, 12 ad 3.
682
Parte terza
nasce
da
una
forma che la determina. Il primato del per se esige percose un intervento dello spirito. Occorre un'azio-
tanto ali'inizio delle
libera per spiegare l'attività degli esseri, come occorre un esse sussistente per dar conto della loro esistenza. Poiché la libertà dell'operazione segue necessariamente Yillimitazione dell'essere. Se Dio è Atto puro, Esistenza che nessuna essenza restringe, 1a sua azione non può
ne
cadere sotto nessun determinismo»?
a dimostrare che il Infatti «l'esistenza per dinamiciste". "filosofie alle tomismo appartiene S. Tommaso non è un dato inerte, ma un atto, la cui nozione comporta da se stessa un dinamismo dalle possibilità i1limitate».48 «il tomismo è tutt'altro che una filosofia chiusa (...), esso si apre ad accogliere tutto l'universo dei valori, precisamente perché ripone il valore supremo e la Vetta dell'intelligibilitànon in un'essenza astratta, ma nell'atto d'esistere».49 Il maggior merito del tomismo secondo De Finance è di evitare allo stesso tempo sia l'errore dell'essenzialismo che ignora l'esistenza, sia l'errore opposto dell'esistenzialismo che trascura l'essenza. Nel tomismo essenza ed esistenza sono due coprincìpi egualmente indispensabili per la costituzione dell'ente: l'essenza è ciò che dà all'ente una determinata misura (è la potenza che riceve l'essere); mentre l'esistenza è ciò che dà all'ente l'attuazione effettiva: è l'atto della essenza. «L'essenza e l'esistenza non sono dei contrari, ma dei principi sintonizzati. L'esistenza è la perfezione del1'essenza».50 L'errore degli essenzialisti è di riconoscere intelligibilitàsoltanto alla essenza; mentre l'errore degli esistenzialisti è negare qualsiasi intelligibilìtà all'esistente (Dasein). Invece secondo S. Tommaso come chiarisce bene De Finance Yintelligibilità appartiene anzitutto all'essere; Yessenza non fa altro che circoscrivere l'intelligibilità dell'essere quando assume le dimensioni finite di un ente. «Di Dio si è detto tutto allorché si è detto che è. Ma per far conoscere l'essere finito, occorre dire ancora fino a che punto esso è, quale valore dell'essere totale realizza. Sta qui il valore noetico dell'essenza. L'essenza è quindi a sua volta principio di intelligibilità,ma lo è delimitando ciò che dell'essere viene affermato in questo ente e fino a che punto questo dev'essere affermato».51
Concludendo, De Finance è riuscito certamente
—
-
47) ]. DE FINANCE, Eire et agir 48) una, p. 357. 49) 11nd,, pp. 362-363. 59) lbid, p. 366. 51) lbùL, p. Xl.
...,
cit., p. 134.
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
683
I tomisti belgi L'università di Lovanio, che alla fine dell'Ottocento era l'unica università cattolica che comprendeva oltre alla facoltà di teologia, la facoltà
di
diritto, di lettere e filosofia, di medicina e di scienze, fu uno dei mag-
giori Centri del neotomismo. I suoi grandi studiosi hanno rilanciato il tomismo collegandolo con la filosofia moderna, specialmente con quella kantiana, rileggendo S. Tommaso in chiave trascendentale. In questo
distinti soprattutto Desiré Mercier e Ioseph Maréchal. Il loro apporto alla riscoperta della metafisica dell'essere di S. Tommaso fu piuttosto modesto: il loro obiettivo era piuttosto quello di dimostrare la possibilità della metafisica aristotelico-tomista partendo da Kant. lavoro si
sono
DESIRÉ MERCIER Désiré Mercier (1851-1926) è nato a Braine d’Allend (Belgio) il 21 novembre 1851. Nel 1868 entra nel seminario di Malines dove compie gli studi del bienniofilosofico e del triennio teologico. Nel 1873 viene inviato all'università di Lovanio dove consegue la licenza in teologia. Nel 1877 diviene professore di filosofia al seminario di Malines. Il 31 luglio 1882 i vescovi belgi designano Mercier a tenere a Lovanio, secondo i voti di Leone XIII, che nel 1879 aveva pubblicato YenciclicaAeterni Patris, un corso di ”a1ta filosofia secondo S. Tommaso”. Mercier si reca a Roma; il papa gli conferma la nomina e conferisce al giovane professore il titolo di dottore in teologia. L'inaugurazionedel nuovo corso di filosofia tomista ebbe luogo, con grande solennità, il 27 ottobre 1882, alla presenza del rettore, dei professori e di numerose personalità. Nominato arcivescovo di Malines nel 1906, Mercier Viene Creato cardinale l'anno successivo. Muore il 23 gennaio 1926. Alla conoscenza e alla diffusione del tomismo Mercier diede un sostanziale contributo, oltre che con Vinsegnamento e con i suoi scritti anche con la creazione di tre importanti organismi: ”La société de philosophie de LouVain" (1888); ”L’institut supérieur de philosophie” (1889); la ”Revue néoscolastique de philosophie”(1894). Considerevole è la produzione filosofica del Mercier. Oltre a numerosi studi apparsi in diversi periodici ha pubblicato Les origines de la psycitologia Contemporaine (1897) e, del Cours de Philosophie dell’lnstitut superieur de Philosophie, il cui insieme doveva fornire un esposto completo di filosofia, fu l'autore dei primi quattro volumi intitolati Logique, Métaphi/sique générale ou Ontologie, Psyclzologie, Critériologie géizérale ou Théorie generale de la Certitizde. Il progetto di Mercier è rinnovare la filosofia aristotelico—tomista grazie alle scienze moderne, in modo da confrontarla con successo con il
684
Parte terza
pensiero contemporaneo. Nella Psicologia (1892) Mercier, in stretto contatto con la psicologia sperimentale dell'epoca, rivaluta la concezione tomistica dell'unità dell'uomo contro le concezioni dualistiche ispirate a Cartesio, e ne Le origini della psicologia contenzporaizea (1897) fa vedere
le concezioni materialistiche dell'uomo siano sorte come una reazione allo spiritualismo di tipo cartesiano. Nella Criteriologia generale, abbandonando le considerazioni sul Valore delle facoltà conoscitive, Mercier imposta la ricerca sull'analisi degli atti conoscitivi, in particolare del giudizio, e più particolarmente dei giudizi necessari e universali. come
Confuta la teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori e afferma che le proposizioni matematiche sono espressione di giudizi analitici, che non possono essere negati senza contraddizione. Tale è anche la proposizione: «l'esistenza di ciò che è contingente esige una causa». E poiché le nostre sensazioni sono contingenti, deve esistere una causa di esse distinta da noi. Quanto al loro elemento formale, questi principi non devono nulla all'esperienza; questa non può neanche dare loro il sostegno di una conferma. Nella Metafisica generale o ontologia del Mercier non si trova alcuna traccia della metafisica dellkzctus esserzdi di S. Tommaso. La metafisica esposta dal Mercier è quella di Aristotele, ma ha il pregio di superare il nozionismo e Yastrattismo della manualistica del suo tempo. Oggetto della metafisica, per Mercier, è la sostanza delle cose sperimentate. Questa scaturisce dal primo risveglio della mente, ma questo stadio è una nozione confusa, indeterminata, superficiale, sterile; tutto ciò che è appreso è una "cosa in sé", è un sussistente. Attraverso un'analisi o una scomposizione di questa nozione, il pensiero elimina i caratteri particolari, i tratti distintivi, e si trova finalmente dinanzi al soggetto primo di ogni attribuzione, la sostanza prima. Questa nozione, a differenza di quella da cui era partita, è la più penetrante, la più distinta, la più feconda. È questa che traduce il significato primo dell'essere. La metafisica dunque non studia l'essere in generale, giacché questo include anche l'essere di ragione, oggetto della logica; essa considera la sostanza concreta, individuale, esistente. La metafisica studia perciò le cose d'esperienza, in quanto sono delle sostanze: la sostanza costituisce il suo oggetto formale. Poiché la metafisica non ha altro oggetto che l'essere sostanziale delle cose sensibili,bisogna dire che non esiste una scienza speciale degli esseri immateriali. Non abbiamo né definizioni né princìpi che si potrebbero applicare a simili esseri. Ciò che i moderni chiamano metafisica "speciale" non è che una metafisica applicata, una estensione della filosofia prima. Se si può dimostrare l'esistenza di una sostanza infinita, non se ne può determinare la natura se non con una sintesi di nozioni negative e analogiche il cui contenuto positivo e proprio è preso in prestito dalle cose sensibili. Non bisogna quindi stupirsi
La
se
certe
riscoperta della metafisica di San Tommaso
questioni di teodicea restano insolubili.La
stessa
cosa
685
succede,
tra le altre, al tentativo di conciliare razionalmente la scienza infinita di Dio, che dovrebbe abbracciare tutto, inclusi l'avvenire, e la libertà degli atti umani. «Occorre, in questa questione delicata, riconoscere lealmente l'impotenza della ragione umana»; nessuna delle spiegazioni che si è cercato di dare sembra soddisfare la mente e «non si intravede nemmeno
la speranza di una soluzione più soddisfacente».
IOSEPH MARÉCHAL Ioseph Maréchal, nato nel 1878 a Charleroi (Belgio), diventa gesuita nel 1895. Dopo gli studi di filosofia si dedica allo studio delle scienze naturali. Si rivolse alla psicologia e, come presupposto di questa alla
biologia; si laurea nel 1905. Tre anni dopo è ordinato sacerdote. Già prima della laurea si sente attratto da S. Tommaso, e questo impulso lo spinge a voler liberare gli studi originali deIYAquinate dalle semplifica-
zioni scolastiche. Nello stesso tempo appare al suo orizzonte Kant. Dopo aver trascorso in Austria l'ultimo anno di formazione sacerdotale, a partire dall'ottobre del 1910 visita nel corso di un semestre numerose città universitarie tedesche. Dopo il 1910 si occupa di psicologia, soprattutto di psicologia religiosa, di cui tratta nelle sue lezioni a partire dal 1919. Particolarmente importanti sono i suoi lavori sulla psicologia della mistica, riuniti in due volumi (1924 e 1937). ln essi lo spirito umano, orientato alla visione immediata di Dio, svolge un ruolo decisivo anche per la sua filosofia. Maréchal esercita la sua attività di professore, che comprendeva psicologia e storia della filosofia, a Eegenhoven e a Lovanio, finché nel 1935 non abbandona l'insegnamento. Accomiatandosi, consigliò agli studenti di mantenere un rapporto costante con S. Tommaso, il solo che, secondo lui, può mettere in condizione di ottenere una comprensione più profonda della filosofia moderna. Nel 1938 la Reale Accademia del Belgio gli conferisce il premio per la filosofia. Muore Verso la fine del 1944. Il grande capolavoro filosofico di Maréchal porta il titolo Le point de départ de la métaphysiquc. Legons sur le développement historique et théorique du problème de la connaissance (Il punto di partenza della metafisica. Lezioni sullo sviluppo storico e teoretico del problema della conoscenza), che nel progetto (iriginario prevedeva sei Cahiers, ma il sesto non è mai stato pubblicato.
L'obiettivo immediato che Maréchal si prefigge nella sua monumentaquello di provare il valore oggettivo della conoscenza attraVerso un accurato esame storico-critico di questo problema; mentre l'obiettivo ultimo è dimostrare, contro Kant, che la metafisica è possibile. le ricerca ‘e
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Parte terza
Pertanto, come precisa lo stesso Maréchal nell'introduzione al primo cahier, il suo studio intende rispondere a due quesiti: «l. Una volta con-
cesso che l'affermazione assoluta dell'oggetto, ossia l'affermazione metafisica traduce un atteggiamento naturale dello spirito umano, come arrivano i filosofi a reclamare una giustificazione critica di questa affermazione primitiva? In altri termini, come può insorgere il problema critico della conoscenza? 2. In che misura una tale giustificazione è possibile? ln altre parole, il problema critico della conoscenza è suscettibile di una soluzione?».52 Il primo quaderno (Cahier) riguarda la critica della conoscenza nell'antichità e nel medioevo, De lîiiztiquité à la fin. du ntoyen (îge (1922). In un ampio capitolo Maréchal espone «il realismo moderato di S. Tommaso: soluzione completa dellhntinomia dell'uno e del molteplice». Il secondo rappresenta la discussione con il razionalismo e l’empirismo prima di Kant, Le Conflit du rationalisme et de Fempirisme dane: la philosophie rrtoderne airant Kant (1923). ll terzo sviluppa La Critique de Kant (1923) ed è una magistrale ricostruzione della genesi e dello sviluppo del pensiero kantiano e un eccellente excursus attraverso le tre grandi Critiche. Il quarto quaderno, un volume di grande mole, contiene importanti contributi sui sistemi idealistici, Le système idéaliste Chez Kant et les postkanticns (1947). Infine, il quinto quaderno ò un libro imponente, che costituisce il fulcro dell'intera opera; vi si espone il tomismo in versione ”trascendentale"; il titolo dell'opera è Le thomisnze devant la philcisophiccritique (1926). Maréchal è uno dei massimi esponenti di quel neotomismo tipico dei primi decenni del Novecento, che più che in sede storica (per il ricupero del pensiero autentico di S. Tommaso, che è la linea seguita da Gilstm, Fabro, De Finance, Van Steenberghen) si cimentava nell'ambito teoretico mettendo a confronto il tomismo col kantismo e cercava di provare che il tomismo costituisce la risposta migliore alle stesse istanze che nel kantismo restano irrisolte. Scopo dichiarato di Maréchal è il superamento dell’agnosticismo kantiano attraverso il realismo metafisico tomista, percorrendo due strade convergenti: la prima indiretta e costruttiva, contesta storicamente e teoreticamente le legittimità delle esigenze metodologiche del criticismo; la seconda, diretta, accetta le premesse kantiane (oggetto fenomenico e metodo trascendentale dell'analisi) e dimostra che, spinte a fondo, portano all'affermazione, anche teoretica, delFassoluto noumenico. In sede storica Maréchal fa vedere che l'impostazione kantiana del problema della conoscenza non ha valore assoluto perché non esprime le esigenze della ragione in se stessa, ma è anzitutto il risultato logico di un determinato contesto storico-teoretico, quello segnato dal razionali-
52) ]. MARÉCHAL, Le point de départ de la métaplzysique, Bruxelles-Parigi 1944, 3“ ed., p. 14.
La
riscoperta della ‘metafisica di San. Tommaso
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dall'empirismo e dalla necessità di uscire dalle antinomie scaturida tali sistemi. In sede teoretica, Maréchal, partendo dai presupposti
srno e
te
del criticismo kantiano, cerca di dimostrare attraverso
posizioni concatenate e
senza
inserire dei
serie di prodogmatici, che
una
presupposti
impone non solo come postulato pratico ma anche come necessità speculativa, perché l'oggetto ontologico è condizione intrinseca di possibilità dello stesso pensiero oggettivo, perché condiuna
realtà noumenale si
zione dell'affermazione dinamica che lo costituisce. L'attività intellettiva, spiega Maréchal, è un movimento: dunque è tendenza a un fine, orientata da una forma specificatrice, che in tanto la muove negli atti
come forma intelligibile, in quanto in precedenza l'ha mossa nell'atto primo, ad exercitimn, per influsso della Causa prima, come forma naturale primitiva dell'intelligenza considerata ut res auaedanz (come una cosa). Tale forma dell'atto primo è quella dell'era: qua tale, a cui l'in-
secondi
telletto tende come al proprio bonam: non è perciò un fenomeno, bensì la realtà oggettiva in se stessa. Precisamente a questo livello di consapevolezza affiora l'abisso che separa Tommaso d'Aquino e Kant: per il primo la ZJÎS cogitativa si alimenta sempre del pensiero dell'essere in quanto atto; per il secondo la ragion pura (Vemarfit) ha a che fare con le idee regolative (mondo, anima e Dio). Di conseguenza I'Aquinate, intelligendo, estrae le strutture del dato percettivo, mentre Kant le costruisce a priori nellarticoiazione conoscitiva dei fenomeni. Conseguentemente S. Tommaso riesce a organizzare una forma di sapere teoretico che legittima, in forma predicamentale, la metafisica dell'essere (e115); Kant, invece, demanda il compito della fondazione della metafisica alla ragion pratica che muove dei postulati dell'agire etico (libertà, immortalità dell'anima, esistenza di Dio). È possibile accorciare le distanze tra questi due orizzonti speculativi, riscattando il tomismo dall'accusa di sorvolare a cuor leggero la fenomenologia dei dati sensibili e riscattando altresì il kantismo dall'accusa di soggettivismo trascendentale? Maréchal risponde affermativamente con la postulazione dell'essere analogo (che include causa efficiens e caizsa finalis). In tal modo rigorizza l'esperienza intenzionale dell'uomo, che opera a tutti i livelli, e che, di conseguenza, elimina l'insanabilespaccatura che Kant aveva posto tra il fenomeno e il noumeno. Merito di Maréchal è di avere ribadito la validità dell'antropologia di S. Tommaso e di aver analizzato l'uomo come "spirito incarnato" o come "spirito nel mondo": come tale coglie l'essere per via di interiorizzazione astrattiva applicata all'ente, e non in forma di intuizione intellettuale (come aveva proposto Rosmini). Stando così le cose si vede l'urgenza di mettere al centro del dinamismo esperienziale l'atto conoscitivo come dinamica che coglie l'essere sia nella guisa del suo originario darsi a noi, sia come forma sussistente e compiuta nella sua stessa rea-
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lizzazione finale e finalizzante. Entro questa dialettica speculativa si inserisce il discorso sulla partecipazione ontologica che dà conto del rapporto costitutivo dell'ente con l'essere e della trascendenza di quesfultimo nel cuore stesso della germinazione entitativa. Durante tutta la prima metà del secolo XX Lovanio fu il centro principale del tomismo su scala mondiale. Dalla Scuola di Lovanio, oltre alle figure eminenti di Mercier e di Maréchal, uscì una lunga e gloriosa schiera di stcy
rici e di filosofi che richiamarono l'attenzione sulle grandi risorse speculative del tomismo e sulla sua capacità di entrare in dialogo con le correnti filosofiche del nostro tempo. Nel campo storico si distinsero soprattutto MauriceDe Wulf, e Fernand Van Steenberghen, mentre nel campo metafisico si mise in luce specialmente Louis de Raeymaeker.
MAURlCF. DE WULF Maurice De Wulf (1867-1947) fu uno dei pionieri negli studi sulla storia della filosofia medievale. Egli ebbe un ruolo decisivo nell’immenso lavoro di ricerca che era iniziato all’incirca all'inizio del secolo e che mirava a riesumare l'intera filosofia medievale da quel totale oblio a cui l'ilIuminismo l'aveva condannata. A lui dobbiamo la monumentale Histuire de la philosophie médìévale (3 vol1., 1900) che evidenzia per la prima volta i tratti di una storia generale della filosofia del Medioevo ed elabora principi interpretativi della stessa che sono di portata decisiva. Le sue tesi di fondo sono che durante tutto il Medioevo esistette una dottrina universale i cui contenuti principali sono una metafisica "obiettivistica”oltre che "individualistica” e "pluralistica”. Inoltre De Wulf con la Collana ”Les philosophes belges” ha fondato una importante raccolta di testi filosofici del Medioevo, che alla sua morte contava già 15 volumi e che egli stesso arricchì con i suoi lavori su Gilles de Lessines e Godefroìd de Fontaines.
FERNAND VAN STEENBERGHEN Fernand Van Steenberghen (1904-1993) è stato, insieme a De Wulf, dei massimi interpreti della filosofia medievale. Nato a Saint-Jooseten-Noode, nei pressi di Bruxelles, si laureò in filosofia a Lovanio nel 1923. Ordinato sacerdote nel 1926, continuò gli studi a Lovanio e dopo approfondite ricerche nella Biblioteca Vaticana, a Monaco e a Oxford portò a termine quel lavoro fondamentale sull'opera, la personalità e il pensiero di Sigieri di Brabante che è Siger de Brabant dîiprès ses oeuvres inédites (2 voll. 1931-1942). Dal 1932 fu il principale collaboratore di De Wulf nel dirigere la collezione dei Philosophes belges, di cui nel 1948, prendendone da solo la completa direzione, mutò il titolo in Philosophes médiévaitx. Intanto nel 1931 aveva iniziato il suo insegnamento a Lovauno
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nio; dopo quattro anni (nel 1935) venne nominato professore ordinario di metafisica; nel 1939 successe a De Wulf sulla cattedra di storia della
filosofia medievale. Così per oltre quarant'anni (dal 1931 al 1974) Van Steenberghen ha potuto sviluppare il suo insegnamento e le sue ricerche nei due settori da lui prediletti: la storia della filosofia medievale e la metafisica. Nel 1948 ha iniziato l'importante pubblicazione trimestrale del Répertoire bibliographique de philtnsophie; nel 1966 con R. Bultot fonda Ylnstitut d ’études médiévales. Della vasta produzione letteraria del Van Steenberghen segnaliamo, in sede storica, oltre al già citato Siger de Brabant dîzprès ses oeuvres irzédites, La philosophie au XIIIe siècle (1966); Introduction à Féticde de la philosophie rnédiévale (1974); Le problènze de Fexistence de Dieu dans les écrits de St. Thomas d’Aquin (1980); in sede teoretica i due manuali di Epistémologie (1945) e di Orttologie (1946), più volte riediti e tradotti in varie lingue. Ancora pochi anni prima di morire (nel 1987) Van Steenberghen confessava la sua profonda devozione a S. Tommaso: «È bene che dica anzitutto che sono, sin daila-mia gioventù, un discepolo convinto di S. Tommaso. Quando iniziai i miei studi alllnstitut supérieure de plzilosophie nel 1920 lo spirito di Mons. Mercier vi era ancora assai vivo, mentre il prestigio mondiale del grande Cardinale all'indomani della guerra si irradiava sulla sede che aveva fondato a Lovanio. Quasi tutti i nostri maestri erano stati suoi collaboratori o suoi allievi. Noi fummo conquistati dall’idea1e della rinascita tomista, in cui ci si proponeva di vedere il fermento di un rinnovamento intellettuale nella Chiesa e nel mondo».53 Profondo conoscitore del "ritorno di Aristotele” (che e il titolo di un suo prezioso volumetto) Van Steenberghen si è fatto un'idea diversa dal Gilson sul concetto che S. Tommaso aveva dei rapporti tra filosofia e teologia. Secondo Gilson non solo l’Angelico elaborò la sua metafisica all'interno della teologia, ma la elaborò in completa subordinazione a quest'ultima, e così sviluppò una ”filosofiacristiana". Van Steenberghen è contrario all'idea stessa di una ”filosofia cristiana", che per lui è un ibrido inammissibile:certamente sono esistiti ed esistono dei filosofi cristiani, ma non una ”filosofia cristiana”. Ma c'è di più: in sede storica egli fa vedere che S. Tommaso ha tenuto ben distinti i due campi della filosofia e della teologia, e mentre con i colleghi della facoltà di teologia trattava da teologo, con i colleghi della facoltà delle arti trattava da filosofo. E così per dialogare con loro S. Tommaso si collocava sul loro terreno e sposava tutte le loro tesi che non sono incompatibilicon il dogma cristiano (per es. l'eternità del mondo), sviluppando in tal modo una filosofia completamente autonoma dalla teologia. Questo è ciò che costituisce la originalità e la forza di S. Tommaso rispetto agli altri teologi che si
53)
F. VAN STEENBERGIIEN, Comment étre thomiste aujourd'hui.7, «Revue philosophique de Louvain» 85 (1987), p. 183.
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dell'argomento d'au.1torità. L'apal storico dell'introduzione di Aristotele in Occidente proccio problema condusse Van Steenberghen a rileggere, sotto ufiangolatura affatto nuova, la storia del pensiero nel medioevo. Le sue ricerche sfociarono nella magistrale opera di sintesi, La filosofia nel secolo XIII che è il suo capolavoro e che è diventato un classico nella materia. Per quanto attiene il tomismo Van Steenberghen distingue tra un paleo-tomismo e un neo-tomismo. Il paleotomismo è un feticismo che non osa mettere mai in questione il maestro, e così finisce per mummificarlo irrimediabilmente;al contrario il neotomismo sa rendere giustizia a S. Tommaso anche criticandolo quand'è necessario. Per questo motivo Van Steenberghen non esitava a mettere in discussione il valore delle Cinque Vie di S. Tommaso. accontentavano di mescolanze eclettiche e
LOUIS DE RAEYMAEKER Louis de Raeymaeker nacque a Rhode-Saiiìt-Pierre (Belgio) nel 1895. Studiò all'università di Lovanio e si laureò nel 1920 in filosofia e nel 1927 in teologia. Dal 1927 al 1934 insegnò nel seminario di Malines, per passare poi all'Institut Supérieur de Philosophie, dove gli fu affidata la cattedra di metafisica. Nel 1949 assunse la direzione dell'Institut. Il suo sforzo costante fu quello di mantenere vivo lo spirito del fondatore dell'Istituto, di favorire in ogni modo la ricerca, di rinvigorire il potenziale scientifico dell'Istituto, di incrementare i contatti con le altre istituzioni e di garantire all'Istituto un posto sicuro all'interno del mondo filosofico. Nel 1951 egli organizzò un giubileoin occasione del centenario della nascita del card. Mercier. In occasione del giubileo fu istituita anche una cattedra propria: la "Chaire Cardinal Mercier". Dopo la sua nomina a protettore della sezione olandese della università, de Raeymaeker si vide costretto a lasciare, nell'estate del 1965, la sua cattedra e la direzione dell'Istituto. Morì nel 1970. Tra le sue opere ricordiamo: Introductio generalis ad philoscphiam thomisticarn (1934); Introduction à la philcusophie (1938); Le Cardinal Mercier et Plnstitut Supérieur de philosophie de Louvain (1952) e soprattutto Philosophie de l 'étre. Essai da syîrthèse métaphysique (1947), che è il ripensamento più profondo e sistematico della metafisica dell'essere di S. Tommaso d'Aquino, che sia mai stato scritto. Secondo Raeymaekerla metafisica di S. Tommaso è indubbiamenteuna metafisica dell'essere, ma egli ritiene opportuno introdursi nella sua metafisica non partendo direttamente dall'ente, bensì dal soggetto, dell'io, dando in tal modo alla metafisica una impostazione più moderna. L'ingresso nella metafisica avviene quindi per "uia riflessiva, studiando la coscienza. Questa però risulta essere sempre coscienza dell'essere e non
La
soltanto coscienza del
riscoperta della metafisica di San Tommaso
proprio
io: «La coscienza
691
comporta sempre
e
necessariamente una presa d'essere e una presa del mio io (mai); è coscienza dell'essere e coscienza dell’io»_54 Questo contatto con un essere distinto dal mio io mi dà la chiara percezione che io non esaurisco l'orizzonte dell'essere e che neppure gli enti che mi circondano abbracciatutto l'orizzonte dell'essere. L'essere è molto di
più:
l'essere è una perfezione assoluta e trascendente, di cui il mio io e tutti gli altri enti finiti sono soltanto delle partecipazioni. «L'essere abbraccia tutto, poiché esso non si oppone che al nulla assoluto. Non fa questo alla maniera di un ricettacolo, distinto dalle cose che contiene; ma al contrario è necessario che esso sia il tutto di ciascuna cosa; si identifica quindi con ciò che c'è di più intimo in ogni realtà e col valore fondamentale di qualsiasi perfezione».55 «D'altra parte l'essere è assoluto e non può essere rapportato ad altra cosa che gli sarebbe anteriore e più fondamentale. Il punto di vista assolutamente universale dell'essere è dunque un punto di partenza assolutamente primo, così come esso fornisce un punto d'appoggio assolutamente irrefragabile>n56Così Raeymaekerpuò concludere che il valore della metafisica, in fin dei conti, non poggia sulla struttura formale e soggettiva dello spirito umano, ma è legata al Valore assoluto dell'essere che si rivela inevitabilmentea qualsiasi uomo che prenda coscienza della propria attività. Secondo Raeymaekeril problema centrale della metafisica dell'essere è il problema della partecipazione: «la partecipazione sul piano dell'essere costituisce il problema metafisico per eccellenza, perché riguarda precisamente l'oggetto formale della metafisica»? «Si tratta di risolvere questo mistero della partecipazione dell'essere scoprendo il principio assoluto degli enti e la natura del legame che li unisce a luimît‘ Il problema della partecipazione, negato da Aristotele e malposto da Platone, trova finalmente l'adeguata soluzione nella metafisica dell'essere di S. Tommaso, mediante la celebre distinzione reale tra essenza ed esistenza negli enti. «È certo che la teoria della partecipazione estesa al dominio dell'essere, perfectio perfcctionum, a cui S. Tommaso annette la massima importanza esigeva tra l'essenza e l'essere una distinzione che non fosse solamente dell'ordine della conoscenza (ma anche di quello della realtà)».59 Ripercorrendo, come aveva fatto De Finance in Etre et agir, la lunga vicenda concettuale e linguistica intorno all'essenza ed esistenza, Raeymaeker fa vedere che la prima formulazione chiara della no
54) L. DE RAYENIAEKER, Philosophie de l erre, Louvain 1947, 2“ ed., p. 21. 55) lbid, p. 35.
56) Ibfaî, p. 37. 57) lbid., p. 39. 58) lbiat, p. 41.
5°) lbial, pp. 148-149.
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distinzione reale si trova in S. Tommaso, il quale effettua una felice applicazione ai rapporti tra essenza ed esistenza della dottrina di Aristotele sui rapporti tra atto e potenzafi“ Le essenze, spiega Raeymaeker,sono reali, individuali,concrete: sono i modi di essere, le realtà incomplete, aperte, relative a un al di là da esse, all'essere, di cui sono i modi concreti e limitati, di cui sono partecipazione e in cui trovano la pienezza del loro valore, e fuori di cui non hanno valore. I modi sono incomunicabili,autonomi, dotati cioè di una propria individuale sussistenza; ciascuno non è una parte, ma un tutto, che però non è tutto l'essere. L'ordine ontologico è ordine di partecipazione. E l'idea dell'essere, appunto per tale partecipazione ontologica, è necessariamente analogica, di analogia di proporzionalità. Raeymaekerriporta così al concetto di partecipazione, insieme alla
soluzione del problema dell'uno e del molteplice, quello della intelligibilità dell'essere finito. L'essere finito non è semplice ma strutturato, ossia composto intrinsecamente da due principi reali: il modo d essere (essenza) radice della individualità, e l'essere, radice della sussistenza; se tali principi si fondessero in un'unica realtà semplice, non si avrebbe più partecipazione. Tale partecipazione è pure la radice del divenire nell'essere finito, tuttavia sostanzialmente identico nel suo evolversi. L'essere finito è relativo: non si spiega da sé. Ilfondarrzento assoluto degli enti non è identico ad essi, ma da essi è del tutto distinto; a Lui gli enti necessariamente rimandano, analogati secondari rispetto a Lui, che è Yanalogato supremo, l'Essere assoluto, la Prima causa, il creatore di ogni essere finito, che da Lui in tutto dipende. «La causalità si riallaccia intimamente alla partecipazione e ne fornisce la spiegazione ultima». La creazione è la soluzione del problema della partecipazione nel piano dell'essere.
I tomisti italiani Il maggior centro propulsore del neotomismo in Italia e stata, di fatto di diritto, l'università Cattolica del S. Cuore di Milano. Qui con i loro studi storici Amato Masnovo e Sofia Vanni Rovighi hanno contribuito alla riscoperta della metafisica dell'essere di S. Tommaso; mentre con studi importanti di carattere tcoretico Francesco Olgiati e Gustavo Bontadini hanno mostrato il vigore speculativo del tomismo mettendolo a confronto con il pensiero moderno. Ma il principale artefice della riscoperta della metafisica dell'essere in Italia è stato indubbiamente Cornelio Fabro, il quale con studi storici rigorosi e con profonde analisi speculative ha messo in luce l'assoluta originalità e la straordinaria grandezza della metafisica dell'essere delYAquÌnate. e
69)
Cf. z'bid., pp. 118-182.
La
riscoperta della rrzetafisica di San Tommaso
693
AMATO MASNOVO Amato Masnovo è nato a Fontanellato (Parma) nel 1880. Studiò dal 1898 al 1902 filosofia e teologia all'università Gregoriana dove ebbe come maestro L. Billot. Ordinato sacerdote nel 1903 insegnò nel seminario di Parma e poi, dal 1921 (anno della fondazione) nell'università Cattolica del S. Cuore, storia della filosofia medievale e filosofia teoretica. Questi due campi di ricerca furono per il Masnovo strettamente congiunti poiché egli, tomista convinto, riteneva che lo studio dei testi tomistici e dell'ambiente culturale nel quale sfociarono, giovasse anche alla ricerca delle verità simpliciter. Ma con questo Masnovo non intendeva identificare la verità con la dottrina racchiusa entro i testi tomistici: vi ravvisava invece alcuni aspetti fondamentali della verità dai quali era utile prendere avvio anche per la filosofia attuale. Rigoroso interprete di S. Tommaso, esperto conoscitore della filosofia medievale, inserito totalmente nella vena più pura del neotomismo, Masnovo rivelava acume singolare per le questioni speculative di fondo per le quali si professava rigoroso realista. Nel 1927 Masnovo divenne membro dell'Accademia di S. Tommaso d'Aquino. Abbandono l'insegnamento solo sei mesi prima della morte, avvenuta nel 1955. Masnovo non fu molto prolifico, ma tutto ciò che egli scrisse è prezioso. Nell'ambito storico, fondamentale ‘e il suo Da Guglielmo dîzfluvergne a Ibmmaso d'Aquino (3 voll. 1930-1945). In questo vasto saggio, facendo centro su Guglielmo d’Auvergne, Masnovo disegna lo svolgimento del pensiero medievalenella prima metà del secolo XIII; egli studia in modo particolare l'entrata di Aristotele nell'università di Parigi, mettendo in luce l'influsso di Avicennanel modo di porre il problema di Dio e nella elaborazione della distinzione reale tra essenza ed esistenza, fino alla sistemazione definitiva che tale dottrina assume in S. Tommaso. Per la storia del tomismo è di capitale importanza il volume Il neotomismo in Italia. Origini e sviluppi (1923), in cui l'autore mette in rilievo per primo il ruolo capitale che ha avuto Vincenzo Buzzetti, come caposcuola del neotomismo in Italia. All’ambitodella filosofia teoretica appartengono: Problemi di metafisica e di criteriolqgia (1930) e Lafilosoficz trerso la religione (1941). Non solo in Problemi di metafisica e di criteriologia Masnovo è intervenuto autorevolmente nella dibattuta questione dei rapporti tra gnoseologia e metafisica. A‘ suo avviso l'elaborazione della gnoseologia va fatta all'interno della metafisica e non all'esterno. Infatti «la filosofia prima non può rimandare ad altri, per la garanzia del suo materiale di costruzione e dei suoi procedimenti (...). Così Vontologia implica la soluzione del problema della conoscenzamfil Bisognerà dunque, per giustificare il
61)
A.
MASNOVO, La filosofia verso la religione, Milano 1941, p. 36.
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valore della conoscenza, cominciare dalle verità di fatto o verità di ordine reale. Masnovo chiama questa sua teoria della conoscenza: subordinatismo realista, e precisa che il suo subordinatismo realista dev'essere concreto e genetico. Deve cioè giustificare non l'affermazione di una realtà astratta bensì l'affermazione di una realtà determinata e concreta, e dedurre (questo intendeva dire col termine genetico) l'affermazione di ogni realtà dalla prima affermazione giustificata. Da questa teoria si ricava che la gnoseologia, quanto al suo divenire, dipende dalla metafisica e che, però, tra le due esiste una distinzione in quanto la prima apre la via alle indagini di procedura della conoscenza, e ha il compito di guidare sul sentiero della verità e ha il controllo sugli elementi forniti dalla metafisica; mentre la seconda apre la via alle indagini di merito e di contenuto, fornendo alla gnoseologia il principio di non contraddizione (il principio del contenuto), e ha il compito di giustificare tutte le affermazioni sull’ente e di dimostrare quelle realtà non immediatamente presenti al pensiero. Fra queste sta in primo luogo Dio. Dio infatti non è intuito del pensiero umano, e perciò il problema filosofico di Dio non si può porre nei termini: Dio esiste? Ossia, esiste una realtà alla quale si possano attribuire i predicati che la coscienza religiosa attribuisce a Dio? Così posto, il problema si può risolvere solo inferendo dalla realtà sperimentata l'esistenza di un'altra realtà come causa della prima. Masnovo quindi si preoccupo di vedere quale fosse la formulazione esatta del principio di causalità e si preoccupo di dimostrarne il carattere analitico, per formulare una prova dell'esistenza di Dio non incrinata dalle critiche humiane e kantiane. Una tal prova è, secondo Masnovo, la prima via tomistica quando sia interpretata esattamente, nel suo schietto significato metafisicofil Questa ascesa a Dio dal mondo dell'esperienza è il culmine della filosofia. Ma è anche il punto in cui la filosofia, in quanto soluzione del problema della vita, mostra il suo limite e consapevolmente si apre all'accettazione della rivelazione. Qui la filosofia diviene cristiana non nel senso che essa, in quanto filosofia, ammetta nel suo ambito elementi rivelati essa, in quanto filosofia, è puramente razionale -; ma nel senso che essa a questo punto riconosce i suoi limiti e insieme riconosce che la totalità del problema della vita può ricevere la sua risposta solo nella rivelazione. Questo trascendimento è ispirato al Masnovo da S. Agostino, di cui mostrò, attraverso un esame delle interpretazioni dellagostinismo medievale, i punti di concordanza con S. Tommasofi?‘ —
63) 63)
Cf. ibid, pp. 55-67. Cf. A. MASNOVO, S.
Agostino e S. Tommaso, Milano 1942.
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SOFIA VANN1 ROVIGHI Sofia Vanni Rovighi nacque a S. Lazzaro nei pressi di Bologna nel 1908. Già assistente di Masnovo, gli succedette sulla cattedra di storia della filosofia medievalenell'università Cattolica del S. Cuore; successivamente è stata titolare anche delle cattedre di filosofia morale, storia della filosofia e, negli ultimi cinque anni della sua docenza, di filosofia teoretica. Si era laureata alla Cattolica nel 1930, discutendo con Masnovo una tesi su Limmortalità dell'anima nel pensiero di G. Duns Scafo. Ha concluso il suo insegnamento come docente di ruolo nel 1978; è morta nel 1990. La Vanni Rovighi fu la più illustre e la più devota discepola del Masnovo. Come il suo maestro fu eccellente studiosa della filosofia medievale, ma altrettanto appassionata studiosa della filosofia moderna, in particolare di Kant, Hegel, Husserl e Heidegger. La sua produzione letteraria, sempre molto precisa e di un’esemplare chiarezza, spazia attraverso tutto l'arco della filosofia medievale e della filosofia moderna e contemporanea, e abbraccia inoltre tutti i rami della filosofia teoretica, con particolare attenzione per la gnoseologia e la morale. Ecco l'elenco delle sue opere principali: S. Anselmo e la filosofia del sec. Xl (1949); La filosofia di Husserl (1939); Introduzione allo studio di Kant (1945); Heidegger (1945); Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel (1973); Introduzione a Tommaso d'Aquino (1973); Elementi di filosofia, 3 voll. (1941-1950); Gnoseologia (1963); Uantropologia filosofica di S. Tommaso d’Aquino (1951); Studi difilosofia medievale, 2 voll. (1978); La filosofia e il problema di Dio (1986); Storia della filosofia contemporanea (1980). Nell'ambito della storia della filosofia, l'intento costante della Vanni Rovìghi è il raffronto tra la filosofia classica e quella moderna secondo i canoni della scuola milanese, mettendo a buon frutto specialmente le lezioni della fenomenologia husserliana. Sul piano teoretico ha dato un'esposizione sistematica della sua posizione filosoficanegli Elementi difilosofia dove sviluppa in maniera limpida e acuta i principi della filosofia classica secondo l'insegnamento di A. Masnovo. Il pregio di quest'opera consiste nel fatto che la ripresentazione delle grandi tesi della filosofia classica viene vagliata, convalidata e sotto molti aspetti arricchita attraverso l'esame delle corrispettive tesi della filosofia moderna e contemporanea. Tomista convinta la Vanni Rovighi possedeva una diretta e profonda conoscenza dei testi di S. Tommaso e della recente letteratura tomista. Giovandosi degli studi di Masnovo e Gilson si è addentrata nella metafisica dell'essere di S. Tommaso e ne ha colto la grande originalità e ricchezza. Esaminando i contenuti delle principali opere dell'Angelico ha fatto vedere la sostanziale continuità del suo pensiero e ha mostrato che tutte le tesi più importanti della metafisica dell'essere sono già presenti nello Sciriptum super quatuor libros Sententiarum, la prima monumentale opera dell'Aquinate.
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Parte terza
Scriptum sulle Sentenze Tommaso rivela già la sua concezione personale. Non mi sembra infatti che ci siano mutamenti profondi nella evoluzione del pensiero tomistico, almeno per ciò che riguarda «Nello
la filosofia, anche se ci sono accentuazioni diverse e progresso nella delle fonti. Alcuni punti caratteristici della dottrina di Tommaso sono già presenti: l'esistenza di Dio non è immediatamente evidente (né vale l'argomento del Proslogion) ma dev'essere dimostraconoscenza
partendo dalla esperienza, e più precisamente dall'esperienza delle sensibili. Sono punti questi, sui quali Bonaventura era di opposta opinione (m). Tommaso dice che in Dio si identificano essenza ed essere, tesi che rimarrà nelle opere posteriori, e alla quale corrisponde l'altra, che in ogni creatura si distinguono l'essenza e l'essere».64 ta
cose
Nella dottrina della creazione S. Tommaso ‘e doppiamente originale. Anzitutto perché insegna che la creazione è una verità di ragione e non soltanto di fede, e in secondo luogo perché dimostra che è un'azione libera e non necessaria, come avevano affermato Avicenna e Averroè. Diversamente da Gilson che aveva sottolineato, nel concetto tomistico di creazione, l'aspetto per cui Dio è considerato come fonte dell'essere, di tutto l'essere, la Vanni Rovighi ritiene necessario sottolineare, ancor più di quellaspetto, «l'affermazione che Dio crea consapevolmente e liberanzentc. Questo infatti mi sembra il presupposto di una concezione religiosa della realtà o almeno di quella concezione religiosa che è comune alle tre grandi religioni presenti nella cultura medievale: ebraismo, cristianesimo, islamismo. Se Dio è fonte di tutto l'essere, nulla sfugge alla sua azione, neppure l'ultima determinazione individuale; ma solo se ogni realtà in tanto esiste in quanto è da lui conosciuta e voluta si può dire che ogni cosa, ogni momento della realtà, ha un significato e, vorrei dire, una vocazione».65 Nell'ambito della filosofia teoretica l'apporto più importante e più originale della Vanni Rovighi riguarda la gnoseoltìgia. Di questa si è occupata in numerosi scritti: l'esposizione più analitica figura nel volume I degli Elementi di filosofia e nel libro intitolato Gnoseologia. Quest'ultima opera è un testo pregevole che presenta la questione gnoseologica come si è evoluta nella storia, dai presocratici ai giorni nostri. La personale professione gnoseologica appare nelle "Conclusioni teoretiche".66 La Vanni Rovighi difende il realismo, ma lo presenta nel nuovo linguaggio della fenomenologia husserliana. Così la conoscenza viene definita come "fenomeno dell’apparire". Tratto fondamentale del conoscere, di qualsiasi conoscere è l'intenzionalità. Con il supporto fenomenologico la -
64) S. VANNI-ROVIGHI,Introduzione a Tommaso d 'Aqztir1o, Bari 1973, pp. 17-18. 65) Ibid, p. 71; cf. ID., Lafilosofia e il problema di Dia, Milano 1986, pp. 96 s. 66) Cf. ID., Gnoseologia, Brescia 1979, pp. 347-374.
La
Vanni
riscoperta della metafisica di San Tommaso
Rovighi specifica ciò che
697
si intende per intenzionalità: <
è, originariamente altro che la presenza intenzionale. conosciuto è ciò che è presente intenzionalmente all’Io, e l'Io è Oggetto soggetto conoscente, in quanto ha la caratteristica di aver presenti cose in una maniera che non è quella della unità reale o fisica, in modo che conoscere non
non si può tradurre dicendo: "lo sono la cosa”. La presenza e identità intenzionale è il phainesihai, il fenomeno dei fenomeni>>fl7Condizione prima ed essenziale per Yapparire di un oggetto è che «la realtà agisca su di me; mi determini a conoscerla, mi impressioni, come anche si dice. Gli scolastici chiamavano spvecies impressa questa azione-impressione che il soggetto riceve dalla realtà da conoscere. E badiamo che deve trattarsi di impressione conoscitiva intenzionale>>fi8 Attraverso l'analisi del ”fenomen0" conoscitivo la Vanni Rovighi approda direttamente all'essere: «al primo urto di un oggetto sensibile contro i nostri sensi noi reagiamo, in quanto sensitivi con una sensazione o un complesso di sensazioni, e in quanto intellettivi con il concetto di ente».69 Così la gnoseologia viene a saldarsi direttamente alla metafisica; e secondo la Vanni Rovighi, spetta a quest'ultima fondare i principi supremi della gnoseologia, il principio di identità e il principio di non contraddizione.”
FimNcEsco OLGIATI Francesco Olgiati è nato a Busto Arsìzio (Milano) nel 1886. Seguendo la vocazione al sacerdozio, compie il curriculum degli studi nei seminari minore e maggiore della diocesi milanese sino allbrdinazione avvenuta nel 1908. In campo ecclesiastico esercita l'ufficio di archivista della Curia e di assistente dell'Azione Cattolica. Decisivo fu il suo incontro con il padre Agostino Gemelli, del quale condivideva il proposito di rilanciare la cultura cattolica, riscoprendo la ricchezza della teologia e filosofia scolastica, non per nostalgie passatiste, ma per innervare il perennemente valido nella storia presente con nuove capacità interpretative. Così, di comune accordo, Olgiati e Gemelli decisero di fondare l'università Cattolica del S. Cuore di Milano (1920). Il loro modello era l'università di Lovanio e in particolare il tomismo di Désìré Mercier. Gradualmente Gemelli e specialmente Olgiatì qualificarono la ”scuola milanese" della neoscolastica e del tomismo con le proprie caratteristiche, grazie anche alla folta schiera degli alunni. Sin dalla fondazione della nuova univer-
67) 13m, p. 353. 62+) una, p. 367. 69) una, p. 393. 70) Cf. ima, p. 360.
698
Parte terza
Olgiati insegna filosofia ininterrottamente: libero docente nel 1924; professore incaricato fino al 1930 e poi di ruolo sino al 1962; presidente, sità
nel 1959, dell'Istituto Toniolo per il finanziamento delle opere dell'università Cattolica. Muore a Milano nel 1962. Docente scrupoloso e ricercatore profondo, Olgiati si distingue non solo per la mole delle pubblicazioni rigorosamente scientifiche secondo la visione della neoscolastica e del neotomismo, ma anche per le attività riguardanti il movimento cattolico e la formazione dei giovani. Vastissima la sua produzione letteraria, con eccellenti monografie sulle
maggiori figure della filosofia moderna (Cartesio, Leibniz, Berkeley, Marx, Bergson, Royce ecc.) e sul pensiero di S. Tommaso. Ecco i titoli delle opere principali: La filosofia di Enrico Bergson (1914); Carlo Marx (1918); Lflidealismo di Giorgio Berkeley e il suo significato storico (1926); Il significato storico di Leibniz (1929); Cartesio (1934); Il panlogismo Iiegeliano (1946); L'anima di S. Tommaso. Saggio intorno alla concezione tomistica (1923); Il concetto di ‘qiaridicità in S. Tommaso d'Aquino (1943); [fondamenti della metafisica classica (1950). L'elaborazione filosofica, attuata da Olgiati con chiarezza di idee e precise scelte, segue i canoni del pensiero aristotelico-tomista ma con originalità, così che egli è considerato ancor oggi uno dei migliori esponenti della neoscolastica e più puntualmente, del neotomismo. Olgiati difese
senza compromessi e concessioni la purezza della metafisica Classica, il cui realismo ha il suo nucleo essenziale nella concezione della realtà come ente. Il concetto di ente è un Concetto rigorosamente metafisico, trascendentale, immediato. Saldamente ancorato a questo principio, l’Olgiati intuì quale fosse il compito a cui mettere mano. Ecco come G. Bontadini, suo allievo, parla con ammirazione del progetto del maestro:
«Il fatto che tutta la filosofia moderna fosse schierata contro il tomicostituiva già per se stesso la pietra sepolcrale, che nessuna forza avrebbe potuto ribaltare. Al ribaltamento si accinse invece YOlgiati con impavido coraggio. La tesi che egli intravide e successivamente sviluppò con ampiezza e acume, fu che non era necessario rifiutare le conquiste del pensiero moderno, per difendere il valore sovrastorico della filosofia tradizionale, della scolastica, del tomismo. La negazione cli tale valore (era) una superfetazione ereticale delle effettive acquisizioni dei nuovi tempi: acquisizioni che dovevano riscontrarsi in campi dizier-‘si, semplicemente diversi da quelli coltivati dall'antica speculazione. I campi, soprattutto, della scienza e della storia. (La esaltazione indebita, la metafisicizzazione di questi due valori corrispondeva, in sostanza, rispettivamente al positivismo e allîdealismo). In compendio: il campo della concretezza, in distinzione da quello dellîistrazioitie, nel quale la lezione dell'antichità restava insuperatasîl smo
7‘)
G. BoNrADiNi, Conversazioni di metafisica, II, Milano 1971, pp. 337-338.
La
riscoperta della nzetafisica di San Tommaso
699
La battaglia che condusse Olgiati fu quella di dimostrare che i due procedimenti della metafisica e della scienza non si escludono a vicenda ma si possono e si devono integrare. «I due procedimenti quello -
-
-
del concetto
l'altro della concretezza non si escludono, sono diversi ma non opposti; né si vede perché, riconoscendo i risultati raggiunti dai sommi dell'antichità con le loro analisi concettuali finissime, si debbano rifiutare le nuove luci che la speculazione moderna ha saputo accendere»?! La conquista imperitura e caratteristica dell'antichità era «lo studio del reale mediante il concetto». Se si guarda al gran fiume della filosofia antica, se si considera la sua anima profonda, non si può fare a meno di riconoscere che la sua caratteristica è data dallo studio del reale, mediante il concetto astrattivo, purché questa parola ”astrazione" venga presa nel senso di “concetto” riflessivamenteelaborato.” La filosofia moderna abbandona questo indirizzo e si volge interamente al particolare, all'individuale, al concreto: nell’affermazi0nedella concretezza scientifica e storica risiede il suo significato storico, ma anche il suo limite. L'essenziale del pensiero metafisico di Olgiati si ricava da I fondarrzenti della metafisica classica. Secondo Olgiati ogni filosofia si fonda sui principi primi ontologici, che possono essere di tre tipi: realistici, fenomenistici e idealistici; quindi, il suo punto di partenza non può essere che la metafisica (anche quando a parole Viene esclusa), non la gnoseologia. Anche chi nega la metafisica ha il proprio concetto di realtà, che è il e
-
punto di partenza, il prius di tutte le affermazioni. Avvalendosi di questo criterio, Olgiati può individuare nella
storia
pensiero tre concezioni principali: la concezione realistica che pone l'essere alla base di tutto (e la concezione di Parmenide, Platone, Aristodel
tele, S. Tommaso); la concezione fenomenistica, la quale concepisce la realtà come oggetto che appare (è la concezione degli empiristi, dei criticisti, dei positivisti, dei fenomenologi, degli esistenzialisti ecc.); la terza è la concezione idealistica, che concepisce la realtà come attività del pensiero, come Idea, come Ragione, come Spirito (è la concezione di Fichte,
I-Iegel, Croce, Gentile). Personalmente Olgiati ha sempre fatto aperta professione di un realismo puro (respingendo il realismo critico di Mercier), attingendo dalle migliori fonti tomistiche ed evidenziando la sua alta rispondenza alle istanze del pensiero moderno. Olgiati e un tomista aggiornato, che conosce bene gli studi di Masnovo, Gilson, Maritain, che avevano messo a fuoco l'assoluta originalità della metafisica tomista dell'essere. Da parte sua egli presenta una eccellente
72) F. OLCIATI, La jilasqifia cristiana e i suoi indirizzi storiografica", in M. F. Sciacca (ed), Filosofi italiani contemporanei, Milano 1946, p. 374. 73) Cf. ibid, pp. 371-372.
700
Parte terza
sintesi dei cardini della metafisica dell'essere di S. Tommaso nel capitolo VIII di I fondamenti della metafisica classica. Olgiati osserva anzitutto che l'en te di cui si occupa la metafisica non è quel concetto vago e indefinito che tutti hanno, ma un concetto che possiede un valore ben preciso, chiaramente strutturato ed è frutto di attenta riflessione: «Udelaborazione metafisica completa del concetto di ente non è la prima nozione che noi abbiamo (...). Ci basterà dire che la nozione Filosofica di ente, conquistata dal pensiero greco e medievale, sta alla nozione comune a tutti gli uomini press’a poco come la nozione di corpo umano che possiede il fisiologo sta all'altra che ha anche Yanalfabeta.La prima e la seconda non
differiscono nzaterialiter, poiché ambedue colgono lo stesso organismo dell'uomo, tuttavia non possono essere confusem" Il concetto di ente proprio della metafisica «implica una essenza e un essere».75 La diversificazione degli enti «avviene sulla via dei diversi rapporti tra essenza ed essere».76 «Tra essenza ed essere si può dare un rapporta di distinzione reale, di guisa che un'essenza non sia il suo essere, ma lo riceva, lo partecipi (concetto tomistico di participatio), sia cioè un'essenza che ”habet esse”. In questo caso, quell'ente non ha la spiegazione del suo essere nella essenza; e non avendo in sé tale spiegazione, la dovrà cercare in un altro ente (sino a che giungeremo all'Ente che è l'ipsuiiz Esse subsistens)».77 Sulla definizione del concetto di ente Olgiati innesta opportunamente i tre grandi principi della metafisica: identità, non contraddizione, causalità, respingendo tutte le difficoltà e tutte le critiche sollevate contro tali principi dai filosofi moderni. Ma poi, stranamente, pur disponendo ormai di tutto il materiale necessario, Olgiati non porta a compimento l'edificio della metafisica dell'essere: dall'ente non risale al suo fondamento: l’Esse ipsum subsisteizs, e come se non si trattasse del momento culminante della metafisica, rimanda la trattazione su Dio alla fine dell'opera.
GUSTAVO BONTADINI Gustavo Bontadini nacque a Milano nel 1903. Si è laureato in filosofia presso l'università Cattolica del S. Cuore di Milano. Dopo avere insegnato filosofia teoretica nell'università di Urbino, nel 1949 fu chiamato dall'università di Pavia a insegnare la stessa materia in qualità di professore ordinario. Dal 1951 al 1973 ha poi ricoperto la stessa cattedra presso l'università Cattolica di Milano, ove, anche dopo la sua uscita dal ruolo accademico, ha continuato in modi diversi a essere presente col suo magistero. Morì nella sua città nel 1990.
7‘)
F.
77)
lbid.
OLGIAII, lfondamcnti dcllafilosqfia classica, Milano 1953, p. 136.
i5) Ibid, p. 137. '5') Ib1d., 138. p.
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maggior spicco vanno ricordate: Saggio di una metafisidell ‘esperienza (1935); Studi sullîdealismo (1942); Dalflattttalisîno al problematicisnio (1946); Dal problematicismo alla metafisica (1952); Studi difiloFra le opere di
ca
sofia moderna (1966); Conversazioni di nzetafisica, 2 V011. (1971); Metafisica e
deellenizzazione (1975). Bontadini può essere considerato come uno dei pensatori che meglio hanno saputo comprendere il senso e il valore della reinserzione della metafisica classica (greco-medievale o, più precisamente, aristotelicotomista) nel pensiero contemporaneo. Egli stesso amava definirsi un "neoclassico" e non un "neotomista”. L'anima del pensiero di Bontadinì si può riassumere in un triplice ”con" e un triplice "oltre”: con l’idealismo, con Parmenide e con S. Tommaso; oltre l'idealismo, oltre Parmenide, oltre S. Tommaso.“ Infatti, schematizzando, la speculazione bontadiniana si può così riassumere: con l’idealismo per superare la concezione naturalistica dei rapporti tra soggetto e oggetto, oltre Yidealismo per non cadere in una totale soggettivazione dell'essere; con Parmenide per affermare il primato assoluto dell’essere, oltre Parmenide per non bloccare tutta la realtà nell'essere escludendo il divenire; con Tommaso per risolvere il problema del divenire mediante il teorema della creazione, oltre S. Tommaso per trovare una dimostrazione più rigorosa della esistenza di Dio. Il punto di partenza di Bontadini è l’idealismo, a cui attribuisce il merito di aver demolito la falsa trascendenza creata dalla filosofia moderna, la quale era giunta al concetto di trascendenza mediante una errata contrapposizione tra soggetto e oggetto, tra pensiero ed essere. La costruzione dellidealismo era infatti il frutto del superamento della trascendenza presupposta dal pensiero moderno. La domanda sulla possibilità di passare dalla coscienza all'essere era in definitiva fondata su un circolo vizioso: presupponeva un essere come dato al di fuori dell'orizzonte di conoscibilità e così finiva con l’asserire ciò che in nessun modo avrebbe potuto riconoscere. La soppressione idealistica di questa aporia, fedele tuttavia al principio moderno del cogito, doveva dunque concludere nella perfetta intrascendibilìtàdella coscienza, che è poi la riaffermazione dell'unità o della originaria corrispondenza del pensiero con l'essere. Si doveva, infine, riguadagnare una verità tanto elementare, quanto decisiva: tutto è nel pensiero e cioè tutto senza eccezione è manifestato dal pensiero. Senonché l'eliminazione della falsa trascendenza nell’idealismo Veniva pagata al Caro prezzo della totale dissoluzione dell'essere nel pensiero. Era quindi necessario oltrepassare l’idealismo e tornare a Parmenide.
78)
oltre» non è una nostra invenzione, ma appartiene allo stesso un capitolo del suo Metafisica e dccllenizzazione, Milano 1975, pp. 59-64: «Con Tommaso, oltre Tommaso». La formula
«con
Bontadini, il quale intitola
702
Parte terza
Tornando a Parmenide Bontadini ha potuto ripercorrere i sentieri della ontologia e della metafisica con una profondità e una vigilanza critica del tutto singolari. Tornare a Parmenide significa tornare all'evidenza assoluta e incontrovertibiledell'essere, alla sua ovvia incontraddittorietà: infatti l'essere non può non essere pensato che come essere. Il "Principio di Parmenide", come lo chiama Bontadini, suona storicamente
come la formulazione più originaria ed essenziale del principio di non contraddizione: solo l'essere è e il non essere non e; il non essere come tale è indicibilee impensabile. Nel contesto parmenideo, il principio si traduce com'è noto nella conseguenza della necessità o della immobilità dell'essere e dunque, almeno in certo senso, nel divieto di dar credito alla esperienza del divenire. Ci si trova così da una parte a rilevare la legge suprema del reale e perciò diciamo che l'essere non può non essere, ma dall'altra parte, siamo obbligati a riconoscere che irrefutabileè l'esperienza del divenire e questo implica appunto il trasmutarsi dell'essere nel non-essere, in definitiva l'identità di essere e di non-essere, in quanto tale è, per l'appunto, il divenire. La ragione ha, quindi, sotto di sé "due protocolli", come li chiama Bontadini: «la constatazione del divenire da un lato, e la denuncia della sua contradditorietà dall'altro. Due protocolli che fanno capo, rispettivamente, ai due piloni del fondamento: l'esperienza e il principio di non contraddizione (prinzo principio). l due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità (ossia del valore o positività teoretica) appunto perché imposti dai rispettivi piloni del fondamento. Sono verità, però, che in quanto nell’antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro unîmputazione di falsità. Giacché l'esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell’esperienza>>.79 A questo punto Bontadini lascia Parmenide e si aggrega a S. Tommaso facendo suo il teorema tomista della creazione, il quale afferma che «l'immobilecrea il mobile, ovvero che il mobile è reso intelligibile, cioè incontraddittorio, solo se pensato come creato dall’lmmobile»fi0Il divenire viene così superato nella sua facies contraddittoria: «ljepifania della Verità si ha con il Principio di creazione e soltanto con esso: Prima Veritas. Anteriormente a questo principio non si dà che la verità puramente formale del principio di non contraddizione. Il quale più che verità è il criterio di verità, la norma secondo cui determiniamo la verità come accertamento dell’essere>>f” -
79) 3”) 3‘)
-
G. BONTADINI, Per una teoria delfaiidamentu, in lbid. ID., Coizzrcrsazioizi di metafisica, Cit., ll, p. 193.
«Sapienza» 26 (1973), p. 342.
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Ovviamente il "teorema della creazione” presuppone la dimostraziodell'esistenza di Dio. Nella soluzione di questo problema Bontadini condivide la posizione speculativa comune dei neotomisti fino a un certo punto. Egli riconosce che la grande originalità dell’Angelico sta nel concetto di esse ut actus. Ma rimprovera ai neotomisti di non essere riusciti «a scorgere con sufficiente chiarezza la fecondità costruttiva, la portata inferenziale, di cui avrebbe dovuto essere carico il concetto di esse ut actusm” e di non aver saputo servirsi di questo concetto per dare maggior rigore alle prove tomistiche dell'esistenza di Dio. Su questo punto Bontadini aveva perfettamente ragione. I tomisti anche dopo aver scoperto che S. Tommaso dispone di una propria originalissima e solidissima metafisica, trattando della esistenza di Dio hanno continuato a citare e a commentare le famosissime "Cinque Vie”, che senza dubbio non sono prove incompatibilicon la metafisica dell'essere di S. Tommaso, ma che sono derivate da paradigmi metafisici che non sono i suoi. Tutti i benemeriti Scopritori della metafisica tomistica dell'essere e lo stesso Bontadini hanno ignorato che S. Tommaso con grande coerenza in diverse opere (De ente et essentia, Commento alle Sentenze, Commento al Vangelo di S. Giovanni) dimostra l'esistenza di Dio percorrendo la via ontologica che conduce direttamente dagli enti (finiti, partecipati, composti) all’Esse ipsum subsistens. Ad ogni modo Bontadini reclama una rigorizzazione delle ‘Cinque Vie” considerando lmopposizione al negativo” che scaturisce dallflictusessendi: ne
«Codesta reductio, ovverossia rigorizzazione, e, in effetti, il compito principale che deve essere assunto, di fronte alla critica moderna (già iniziatasi peraltro, nel secolo stesso di S. Tommaso), dal neotomismo. Questo non significa che le vie tomistiche così come altre che sono state aggiunte dai neoscolastici e Iieotomisti, sino a quella che è stata esposta negli Approches de Dieu di Maritain non siano persuasive, pienamente soddisfacenti per certe mentalità, in un certo clima culturale, in certi ambienti spirituali. Ma è chiaro che il vero conforto della ragione che è l'impegno d'onore della neoscolastica e del neotomismo in particolare, anche nei confronti della filosofia cristiana a fondo ”fideìstico” si ha soltanto con la rigorosa riduzione dell’asserto metafisico che si compendia poi nell’affermazioneteistica al principio di non contraddizionem” -
—
-
—
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-
A proposito di rigorizzazione della dimostrazione della esistenza di Dio è bene ricordare che Bontadini ha compiuto svariate revisioni di questa sua famosa operazione. In un primo tempo egli ricorre a quattro
F?) ÎD., Metafisica e deellenizzazione, cit., p. 59. 93) La concezione classica dell'essere e il contributo del neotonzìsnto, in Tommaso d ’Aquino VII Centenario. "Atti del congresso internazionale tomistico", Napoli) 1974, p. 31.
nel
suo
(Roma-
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Parte terza
elementi fondamentali: la realtà dell'esperienza, l'idea dell’Assoluto, l'idea della ulteriorità (dell'altro dall'esperienza) e il principio di non contraddizione, il principio cioè in base al quale si deve decidere se l'Assolu— to possa identificarsi con la realtà della esperienza o se debba invece essere posto al di là di essa. Ora, l'esperienza ci presenta una realtà che, confrontata con l'idea dell'Assoluto, mostra di non potersi identificare con esso. Infatti la realtà che ci è data con l'esperienza si presenta in divenire, ed è contraddittorio che il divenire sia l'Assoluto in quanto l'assolutizzazione del divenire, ossia dell'essere limitato intrinsecamente dal non essere, implicherebbe la traduzione del non-essere in un positivo (appunto come capace per sé di limitare l'essere). L’Assoluto dunque deve essere immobilee come tale, deve trascendere la mutevole realtà dell'esperienza. Successivamente nella dimostrazione dell'esistenza di Dio Bontadini si avvale di due soli elementi (protocollari): l'essere della esperienza e il
principio di non contraddizione. Il fulcro della prova è il seguente: l'esseche l’esperienza presenta, cioè il divenire, ò contraddittorio; tale contraddizione può essere tolta mediante una integrazione teoretica, considerando il divenire come effetto dell'atto intemporale della Creazione. Nella rigorizzazione bontadiniana la dimostrazione dell'esistenza di Dio assume una spettacolare semplicità: è una salita tutta in verticale che si riduce ai seguenti passaggi: c'è il divenire; il divenire è contraddittorio; l'unica possibilità di rimuovere la contraddizione è il "teorema della creazione" (la Chiamata all'essere dal nulla); quindi l'Assoluto re
(Dio) esiste.
La eliminazione del principio di causalità dalla dimostrazione della esistenza di Dio (principio cardine delle Cinque Vie) e la sua sostituzione col principio di non contraddizione ha suscitato innumerevoli pole— miche; ma Bontadini è rimasto irremovibile,sicuro della bontà della sua
prova. Le analisi e le conclusioni metafisiche di Bontadini hanno dato luogo a uno dei dibattiti più vivi del dopoguerra in Italia. A partire dal 1964, soprattutto sulla Rivista di Filosofia Neoscolastica, ma anche su altre riviste di filosofia e di cultura varia, e nell'ambito di dibattiti congressuali si e sviluppata un'ampia discussione. Ricordiamo in particolare, oltre al dibattito interno alla stessa università Cattolica, quello con la scuola filosofica di Padova (Carlo Giacon, Marino Gentile, Enrico Berti, Piero Faggiotto, ecc.) e soprattutto quello con Emanuele Severino, già allievo di Bontadini e poi per diversi anni collega nella stessa università Cattolica: è stato proprio quest'ultimo ad aprire la discussione con un articolo programmatico, ‘Titornare a Parmenide", pubblicato sulla ‘Rivista di FilosofiaNeoscolastica" nel 1964. Le obiezioni principali che venivamo mosse a Bontadini erano due: il divenire è soltanto unîzpparenza (Severino); il divenire non è contraddit-
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riscoperta della metafisica di San Tommaso
705
torio (Faggiotto). Rispondendo a queste difficoltà Bontadini è tornato a ribadire più volte il suo punto di vista, rifiutando una lettura ”ipotetica” del divenire e confermando il dato della contraddizione: è questo dato reale che infine va superato: «Poiché il divenire è reale, e il reale non
può essere contraddittorio, io s0 che la contraddizionedeve poter essere proprio per operare la rimozione che opero Vinferenza
rimossa. Ed è
metafisica, e nello stesso tempo acclaro il carattere apparente della con-
traddizionem“
CORNELIO FABRO Cornelio Fabro è nato a Flumignano (Udine) nel 1911. Entrato nell’Ordine degli Stimmatini, ha compiuto gli studi superiori nella Pontificia" università Lateranense dove ha conseguito la laurea in filosofia nel 1933 con la tesi Uoggettivita del principio di causa e la critica di D. Hame. Ha compiuto anche studi di scienze naturali nelle università di Padova e di Roma. Nel 1935 ottiene la licenza in teologia e due anni dopo la laurea in questa disciplina presso l’Angelicum. Dal 1935 al 1938 è assistente di biologia nella facoltà di filosofiadella Pontificia università Lateranense. Nel 1938 passa all'Urbaniana come incaricato di psicologia; l'anno successivo viene nominato straordinario di metafisica e nel 1941 Viene promosso ordinario; dal 1947 è anche decano della facoltà. Tiene la cattedra per 18 anni, fino al 1956, quando si dimette dalla Cattedra e dal decanato a motivo del trasferimento all'università Cattolica di Milano. L'esperienza milanese si conclude prematuramente, e Fabro torna a Roma per riprende-Ivi l'insegnamento all’Urbaniana, questa volta come incaricato di storia della filosofia moderna, mentre allo stesso tempo è chiamato a insegnare filosofia teoretica presso il Magistero di "Maria Santissima Assunta”. Nel 1959, presso la Pontificia università Urbaniana fonda il primo istituto in Europa per la ”St0ria dell’ateismo"; dal 1968 al 1981 è ordinario di filosofia teoretica nella facoltà di lettere dell'università di Perugia. Muore a Roma il 4 maggio 1995. Molto vasta e varia è la produzione letteraria di C. Fabro: essa comprende una quarantina di volumi e circa un migliaio di articoli. Tra le opere più importanti segnaliamo: La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso (1939); La fenomenologia della percezione (1941); Partecipazione e causalità (1961); Dallessere allesistente (1957); Introduzione all ‘ateismo moderno (1964); Esegesi tomistica (1969); Introduzione a S. Tommaso (1983); Riflessioni sulla libertà (1983); L'enigma Rosmini (1988); Le prove dell'esistenza di Dio (1989).
94)
Postille di Bontadini al volume di P. FAGGIOTTO, Per integrale, Rimini 1982, p. 170.
una
metafisica dell'esperienza
706
Parte terza
segnalare inoltre le sue traduzioni delle opere di Kierkegaard, in particolare quella del Diario, in tre volumi (1948-1951), con le quali ha reso accessibileal pubblico italiano il pensiero del grande filosofodanese. ingegno acuto, dinamico e profondo, Fabro ha coltivato con passione e con profitto sia la storia della filosofia sia la filosofia teoretica, acquistando meriti insigni in entrambi i campi: in sede storica specialmente con i suoi studi su S. Tommaso, su Kierkegaard e sugli sviluppi dell'amismo moderno; in sede teoretica, definendo più esattamente i concetti di essere, di partecipazione, di causalità, di analogia e chiarendo ulteriormente i rapporti tra percezione e pensiero, concludendo per la loro sostanziale unità. Di questa vasta opera, qui ci limiteremo a illustrare l'apporto di Fabro alla riscoperta e alla rielaborazione della metafisica Da
dell'essere di S. Tommaso.
Fabro, che amava dialogare con Heidegger, concede a questi che nella sostanza la sua accusa di oblio dell'essere da parte della metafisica occi-
dentale è giustificata, se si eccettua S. Tommaso: «Checché sia dei presupposti e dell'esito della diagnosi heideggeriana, noi l’accettiamo per la sua radicalità metodologica di attribuire il fallimento del pensiero moderno alla concezione della verità dell'essere come certezza (Gewisslzeit)...; c'è però un'eccezione e questa e data dalla posizione di S. Tommaso la quale attinge la nozione dell'essere stesso per il fatto clfessa al posto della "distinzione" ontico-formale di essentia ed existentia ha posto la composizione reale nell'ente di essenfia ed esse>>fl5 Fabro ha con Gilson il grandissimo merito di aver mostrato l'assoluta novità dell'asse tomistico e la grandissima fecondità di questa idea, che ha consentito all'Angelici) di rinnovare la metafisica aristotelica da capo a fondo, innestandola nell'impianto platonico, mediante il principio di partecipazione, che a sua volta viene rinnovato mediante la travolgente energia dell'asse. Per quanto concerne la riscoperta della metafisica tomistica dell'essere Fabro era consapevole dei propri meriti e non tollerava che tutta la gloria di questa importante scoperta venisse data a Etienne Gilson. In una preziosa lettera indirizzata al sottoscritto in occasione della presentazione del mio volume La filosofia dell'essere di S. Tommaso (Herder, Roma 1964) faceva i seguenti rilievi: <<... Lei non si inoltra in prospettive storiche e critiche né accenna a
polemiche e
fa bene. Lungi da
me
il contestare i meriti,
quando si
richiama a Gilson, che ella considera suo maestro. Non vorrei pero che GÌlSOH con il suo strapotente influsso e le indubbie qualità comu-
nicative, rinnovasse ai nostri giorni il "fenomeno Gaetano". Per
qualcosa mi ha sempre lasciato un po’ incerto sulla ca" della sua opera, e in particolare:
t”) C. FABRO, Partecipazione e causalità, Torino 1961, p. 25.
me
‘qualità metafisi-
La
riscoperta della nîetafisira di San Tommaso
707
a)
il mancato studio critico-teoretico delle fonti della metafisica dell'asse tennistico, di qui la sua persistenza a usare existence per l'asse
tomistico;
b) la
sua confessa noncuranza della filosofia moderna, ch'egli tocca conimuniter dictis. Mi permetta poi di indicarle due accenni che un po’ mi interessano: 1) Gilson, solo nel 1942, sembra afferrare un po’ la vera natura dell'esse tomistico. Ora lei sa che il mio volume della partecipazione, dove si trova per la prima volta (mi sembra) il concetto di esse come atto emergente è del 1939 (cf. p. 19D e segg. della I ed.). La presentazione era assolutamente nuova e certamente Gilson l'ha vista (ha avuto il volume) ma non dice nulla. 2) Un caso simile è la valorizzazioneper la lV via del Prol. al Comm. in Io. di S. Tommaso: un testo notevolmente diverso da quello della Somma. Nessuno, a mia conoscenza, ne aveva mai parlato. Il sottoscritto lo valorizzò per la prima volta in una Conferenza dell'Accademia di S. Tommaso nel 1954 (pubblicata in volume dall'Accademia). Ora lo vedo per la prima volta citato da Gilson in The Elements of Christimt Philosoplzy (tr. it., p. 146) senza nessun altro cenno. Questo metodo non mi sembra molto generoso e mi dicono che il mio non è l'unico caso. S. Tommaso riconosceva alle fonti molto più di quanto ad esse doveva: è vero ch'io (e nessun altro oggi) può pretendere di essere una fonte, ma a Gilson farebbe molto onore imitare un po’ S. Tommaso e ricordare i moderni che hanno lavorato anche per lui...».9<> ex
Indipendentemente dalla difficoltà di accertare chi abbia scoperto per primo l"'America" della metafisica tomistica dell'essere, né su questo punto intendo sollevare polemiche, Fabro ha certamente ragione quan-
che in Gilson manca uno studio critico-teoretico delle fonti della metafisica dell'asse tonzistico, studio in cui Fabro si è invece meritevolmente distinto. Ciò che era necessario dimostrare anzitutto era l'asdo
osserva
del concetto intensivo di essere in Aristotele, il quale come sappiaassegna alla metafisica il compito di studiare l'ente in quanto ente, ed è ciò che si è premurato di fare in vari saggi.” In questi studi Fabro dimostra che il concetto di essere di Aristotele si risolve nella ansia (sostanza) e nella nzorphé (forma) e mai si eleva oltre la forma e la sostanza. Anche per S. Tommaso l'oggetto della metafisica è l'ente, perché quello di ente è il più universale di tutti i concetti; ma l'attenzione dell'Angelico si sposta poi immediatamente verso lesse poiché l'ente altro non è che ciò che possiede l'essere (I'd quod habet esse). Pertanto senza
mo
96) 37)
Lettera di C. Fabro a Battista Mondin del 22 dic. 1964. Cf. C. FABRO, «Il problema Clell'essc tomistico», in Tomismo e transfert) nzodernu, Roma 1969, pp. 103-134; <
708
Parte terza
soprattutto ‘e l'esse, il quale racchiude ogni potenza, ogni ricchezza di realtà, ogni perfezione, ogni atto e ogni attuaciò che conta anzitutto
e
spiega S. Tommaso commentando il Peri Hermeneias di Aristotele, «significa infatti ciò che per primo viene colto dall'intelletto a modo di attualità assoluta», «signijicat eninz illud quod primo cadit in intellectu per modum actualitatis absolute». Qui, osserva Fabro, sta la grande
lità. L'esse,
come
novità di S. Tommaso: «È in
questo per modum actualitas absolute che con-
pensiero metafisico che rimane senza esempio nella storia del pensiero sia prima sia dop0>>fl8 «Uoriginalità teoretica della speculazione di S. Tommaso rispetto al pensiero classico, sia platonico come aristotelico, come rispetto al pensiero patristico e alla speculazione del suo tempo è stata nel chiaro proposito di dare all'esse il
siste il rovesciamento tomista del
significato di ”atto" emergente per eccellenza>>fi9 Colta l'originalità del concetto tomistico dell'esse che diviene, pertanto, il robusto pilone che sorregge l'intero edificio della metafisica, la cosa più importante da fare era mostrare come S. Tommaso procede alla sua costruzione. Mentre nell'esame dell'ente e delle sue strutture principali (sostanza—accidenti, materia-forma, atto-potenza ecc.) S. Tommaso fa
largo uso della metafisica aristotelica, quando invece si tratta di innalzare l'edificio metafisico fino al tetto, secondo Fabro, egli ricorre a Platone e al suo principio di partecipazione. Nell'opera magistrale La nozione nzetafisica di partecipazione secondo S. Tommaso circa la partecipazione Fabro distingue tra partecipazione predicamentale e partecipazione trascendentale. La partecipazione predicamentale è quella in cui ambo i termini della relazione, partecipante e partecipato, restano nel campo dell'ente (della sostanza finita) e può aver luogo sia sul piano logico (la partecipazione della specie al genere) sia sul piano reale (la partecipazione della materia alla forma). Invece la partecipazione trascendentale è quella che ha luogo tra l'ente e l’actus essendi. Partecipare, in senso metafisico «signifi-
in modo "limitato", "particolare”, "imperfetto" un atto e una formalità che altrove si trovano in modo totale, illimitato, perfetto>>.9“ Questo è decisamente il caso della forma: essa partecipa dell'atto d'essere (actus essendi) o, detto in altro modo, l'atto d'essere comunica alla forma l'attualità che la rende PFÎHCÎPÎLHT? essertdi et agendi dell'ente concreto. Così l’ens finito si pone nel divenire, in quanto fruisce di questa doppia partecipazione: partecipazione allo ipsum esse in forza del quale est simpliciter, e partecipazione agli accidenti in cui si realizzano le diverse modalità della sua esistenza concreta. La seconda partecipazione dipenca avere
53) «Le retour au fondament de Yétre», cit., p. 281. t”) «Il problema dell'asse tomistico», cit., p. 103. 9°) C. FARRO, La nozione metafisica di partecipazione, Torino 1939, p. 361.
La
de
riscoperta della metafisica di San Tommaso
ontologicamente dalla prima, quella dell’lpsum esse che
709
è assoluta-
mente fondante.
Successivamente, in un'altra opera altrettanto magistrale sotto il profilo critico-teoretico, Partecipazione e causalità, Fabro elabora unbrganica assimilazione delia dottrina della partecipazione, di matrice platonica,
alla dottrina aristotelica della causalità, e quindi dell'atto e della potenIn quanto ens per partecipazione, la creatura non è di per sé ma in virtù di un altro. Perciò, anche relativamente alla sua produzione la creatura è ente per partecipazione su due piani: in Virtù della causalità trascendentale per cui passa dalla potenza all'atto mediante l'attualità dell'asse e in virtù della causalità predicamentale per cui acquista un particolare grado di realtà e perfezione grazie alla forma e <
«La realtà è che a rigore nel platonismo storico la partecipazione elimina la causalità e questo tanto nella sfera trascendentale come in quella predicamentale: nella prima per il separatismo formale che riduce l'asse a ”prima creatura" e quindi a una partecipazione, nella seconda per il separatismo reale in quanto i partecipanti ottengono una "similitudine" dell'atto partecipato e non una partecipazione di "derivazione reale" dell’atto stesso. Parimenti a rigore nelfaristotelismo storico la causalità annulla la partecipazione: nella sfera trascendentale, in quanto Dio nella gioia suprema dell'Atto di conoscere se stesso non può
710
Parte terza
ammettere mescolanza di "altri" oggetti
diversi da sé; nella sfera predicamentale, in quanto la produzione avviene nell'ambito della spe-
cie
e
in virtù della forma così che l'effetto e sempre secondo l'identità
specifica e non secondo partecipazionewl
S. Tommaso realizza la grande Auflicbtttzg (sintesi-superamento) elaborando la struttura della causalità su due piani diversi e antitetici: «nel piano trascendentale, mediante l'assunzione incondizionata del principio platonico della partecipazione, nel piano predicamentale mediante l'assunzione incondizionatadel principio aristotelico della causalità»? In questo ordine di considerazioni Fabro non esita a proclamare il tomismo autentico come una delle più alte sintesi di immanenza e trascendenza. Si tratta in verità di una posizione teoretica in cui Yimmanenza è fondata sulla trascendenza in quanto l'asse, che è la perfezione che attua ogni altra nel modo più intensivo e intrinseco, si può predicare non solo degli enti finiti, ma anche di Dio che è l’Essere creatore a loro intimo; Viceversa la trascendenza si può predicare oltre che di Dio, in quanto Atto puro di per sé "separato", anche dell'asse partecipato e degli enti finiti che a lui rimandano come a loro compimento e quindi perfezione. Fabro ha difeso puntigliosamente la purezza del tomismo da tutti gli inquinamenti e travisamenti di cui fu oggetto in ogni epoca, specialmente con la manipolazione della capitale distinzione della metafisica tomistica tra essentia e actus essendi che in nessun modo può essere confusa con la distinzione tra essentia ed existentia.
LUIGI BOGLIOLO
Luigi Bogliolo è nato a Vesime (Asti) nel 1910. Presso la Pontificia università Gregoriana ha conseguito sia la laurea in filosofia (1932) sia quella in teologia (1942). Membro dell'ordine salesiano, nel 1940 è chiamato a far parte del corpo accademico del Pontificio Ateneo Salesiano di Torino, come docente nella facoltà di filosofia. Nel 1959 è nominato superiore del Collegio InternazionaleSalesiani) (Roma). Dal 1961 fino al 1985 occupa la cattedra di metafisica presso la Pontificia università Urbaniana. Nella medesima università dal 1974 al 1977 ricopre la carica di rettore. Nel 1980 è nominato segretario generale della Pontificia accademia Romana di S. Tommaso d'Aquino. Tra le sue numerose opere segnaliamo: La filosofia antica. Saggio di ricostruzione (1956); Il problema della filosofia cristiana (1959); La verità dell'uomo (1969); La verità di Dio (1969); Ijantropologiafilosofica, 4 voll. (1977); 9') C. FABRO, Partecipazione e causalità, Torino 1960, pp. 317-318. 92) Ibiii, p. 318.
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
711
Metafisica e teologia razionale (1983); La filosofia cristiana, la storia, la struttitra
(1986).
Filosofo di chiaro indirizzo tomista,
Bogliolo si
e distinto per l'impegno compiti della filosofia cristiana e per il vigore con cui ha sviluppato una forma moderna di questa filosofia. Bogliolo ritiene con Gilson che ciò che conferisce alla filosofia un'anima cristiana e le assicura in tal modo uno statuto teoretico suo proprio, è il rapporto intrinseco, essenziale, necessario con la Rivelazione, in quanto trova in quest'ultima "un aiuto indispensabile per la ragione", e si serve quindi della Rivelazione «per arricchire, allargare e approfondire, precisare e risolvere i grandi problemi della filosofia». Della filosofia cristiana così concepita Bogliolo ha effettuato una elaborazione sistematica, riprendendo le tesi fondamentali della filosofia dell'essere di S. Tommaso e confrontandole con il pensiero moderno senza cedere a facili ma superficiali concordismi. Bogliolo riconosce al pensiero moderno alcune ”scoperte" di capitale importanza che, però, solo la metafisica tomistica può avvalorare: «il realismo (tecnico-scientifico), Fintersoggettività con
cui ha cercato di definire la natura
e
i
(aspetti sociali) e il soggettivismo (affermazionedell’lo)».‘13 Il tomismo di Bogliolo è un felice tentativo di applicare alla metafisica dell'essere di S. Tommaso il metodo clellînteriorità di S. Agostino. I capisaldi della sua filosofia si possono ridurre a quattro:
1. il primato assoluto dell'essere: «il momento radicale della realtà è l'atto di essere (actus essemii). Ogni esistente si illumina da questo fondamento: tutto ciò che vi è in ogni esistente dipende dall'atto di essere, che
lo fa esistere e avere tutte le proprietà che gli competono» ,94 2. lfirnrriedtritezza della conoscenza dell'essere: l'essere è colto dall’intelletto intuitivamente. «L'uomo non è soltanto dotato di una zrisio corporalis, ma anche di una oisio intellectaalìs. Come l'occhio ha un preciso oggetto che lo definisce organo della luce e di tutto ciò che nella luce è compreso, cosi l'intelletto umano ha un preciso oggetto che lo definisce: è l'ente attuato dall'atto di essere. L'essere non è soltanto ”atto di ogni atto" e ‘perfezione di ogni perfezione", ma anche luce di ogni luce per l'intelligenza umana»??? 3. la dilatazione del concetto di esperienza alla conoscenza di tutta la realtà rifiutando il dualismo preconcetto tra esperienza sensibilee conoscenza intellettiva. «Nell'uomo non vi è soltanto un'esperienza sensibile, ma anche un'esperienza intellettiva. Non vi è soltanto un ”vedere sensibile" ma anche un “vedere intellettivo". Ed è proprio questo vedere intellettivo che, dopo essere stato svegliato dal "vedere sensitivo", spinge e
"3) L. BOGL1OLO, Le scoperte della filosofia moderna, Torino 1974, p. 6. 94) ID., Linguaggio teologico e ateismo, Roma 1972, p. 42. 95) ID., A/ietajîsica. Teologia razionale, Roma 1983, p. 14.
712
Parte terza
stimola i sensi a vedere oltre quello che vedono con le loro capacità naturali (...). La filosofia si può davvero definire "la scienza delle scienze” perché ha come punto di partenza l'esperienza fondante di ogni esperienza, qual è appunto l'esperienza dell'ente, oggetto primo e immediato dell'intelletto, punto focale da cui parte e a cui si riconduce ogni umana conoscenza. In questo punto iniziale esperienza e conoscenza coincidonmfifi 4. la grandezza dell'uomo in cui l'Essere è accolto e compreso fondando la trascendenza umana: «L'uomo è la parola dell'essere: l'essere parla all'uomo mediante l'uomo»fl7 ll tomismo di Bogliolo è carico di umanità e anche di spiritualità, che riesce a sviluppare, quasi spontaneamente, la valenza spirituale del pensiero metafisico.
Il neotomismo negli altri paesi del Vecchio e Nuovo Mondo Nel secolo XX il neotomismo è stata una delle correnti filosofiche più vive e più dinamiche che si è imposta all'attenzione di tutti gli uomini di cultura, e non soltanto dei filosofi. I tomisti di cui ci siamo occupati in questo lungo capitolo non esauriscono l'intera mappa del tomismo del secolo XX. Abbiamo parlato soltanto dei tomisti francesi, belgi e italiani perché sono stati coloro che hanno maggiormente contribuito alla riscoperta della metafisica dell'essere di S. Tommaso. Ma il verbo di Tommaso ha trovato valenti interpreti anche in altri paesi dell'Europa nonché delle due Americhe. Per completare la mappa del neotomismo qui ci limiteremo a fornire un ulteriore elenco degli autori più illustri, segnalando le loro opere più importanti. Si tratta di un elenco sempre parziale, ma che rientra nell'economia del nostro lavoro.
Iosiar PIEPER È nato in Vestfalia nel
1904. La
sua
ricerca si è concentrata
più su
tematiche antropologiche ed etiche che metafisiche, con l'obiettivo di elaborare ufiantropologia filosofica fondata su una prospettiva ontologica integrale: storia ed escatologia chiudono infatti l'itinerario della
dimensione esistenziale dell'uomo. Tra le sue opere ricordiamo: Verità delle Cose. Un'indagine sall’antr0p0l0gia del Medioevo (1948); Sulla fine del tempo. Meditazioni filosofiche sulla storia (1950); La scolastica. Figure e problemi della filosofia medievale (1960); Speranza e storia (1967).
9°) lbid, pp. 14-15. 97) L. BOGLIOLO, Le scoperte della filosofia moderna, cit., p. 17.
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
713
IOHANNES BAPTIST LOTZ È un gesuita tedesco nato a Darmstadt nel 1903. Ha elaborato una spe-
cie di tomismo trascendentale simile a quello di Maréchal. Contro I-Ieidegger ha cercato di mostrare che la questione dell'essere non può essere risolta se non si insegue l'analisi dell'attuazione dell'essere dell'uo-
mo fino al punto in cui l'essere non si lasci intendere a partire dall'Essere sussistente. Secondo Lotz in questa dimostrazione il metodo trascendentale viene condotto al di là dei limiti impostigli da Kant. Facendo ciò l'essenza di questo metodo non viene assolutamente sacrificata, ma piuttosto pienamente realizzata. Tra le sue opere, le più interessanti sono: Das Urteil und das Scin. Eine Grundlegung der Meiaphysik (Il giudizio e l'essere. Una fondazione della metafisica) (1957); Martin Heidegger una’ Thomas von
Aquin. Mensch-Zeit-Sein (Martin Hcidegger e Tommaso d'Aquino. UomoTempo-Essere) (1977); Traizszcndentale Erfahrung (Esperienza trascendentale) (1978); Mensch-Sein-Mensch. Der Kreislaiq‘ des Philosopliierens (UomoEssere-Uomo. ll corso circolare del
SANTIAGO RAMIREZ
filosofare)(1982).
(1891-1967)
spagnolo,
ha insegnato filosofia all’Angelicum, a FriburDomenicano Salamanca. la personalità più interessante e l'interprete E stata a e go valido della filosofia in Spagna nel secolo XX. Un suo monutomista più mentale studio storico-teoretico, in quattro tomi, sull’analogia è la ricerca più importante che sia mai stata fatta su questa fondamentale categoria della metafisica. L'opera omnia, in corso di stampa, prevede quaranta volumi. Oltre il De aizalogia, 4 voll. (1970) ricordiamo: Introducciòn genera! a la Suma Teologica de St. Tomvîs de Aquino (1947); De atrctoritate dottrinali S. Thomae Aquinatis (1952). ÈRICH L. MASCALL
Sydenham nel Kent nel 1905, è stato il più autorevole rappredel tomismo nel mondo anglicano; figura tra i più importanti sentante tomisti di lingua inglese e, come pensatore sistematico, va annoverato tra i migliori. Slegato da qualunque scuola cattolica di tomismo, ma attento lettore di Gilson, risente della sua influenza nella impostazione del suo pensiero. Mascall è un filosofo dotato di una personalità incisiva o indipendente. Egli resta convinto che la tradizione di S. Tommaso contenga la Chiave di una efficace filosofia contemporanea della conoscenza, dell'essere e di Dio. Tra i libri di Mascall che sono stati bene accolti in Inghilterra e negli Stati Uniti ricordiamo: He who is. A Study in Traditional Nato
a
714
Parte terza
(1943); Existence and Armlogy (1949); The Secularisatitm of Christianity (1965); The Opcness 0f Being (1971). Dell’ultima opera è stato Theism
scritto: «Chiunque sia interessato alla rinascita della metafisica in Occidente dovrebbe leggere questo libro».
OTTAVIODERISI Nato a Pergamino (Argentina), fondatore della rivista Sapientia (1949) e della università Cattolica di Buenos Aires, con il suo insegnamento e con i suoi numerosissimi scritti è stato nella seconda metà del secolo XX il più autorevole ed efficace portavoce del tomismo nell'America Latina. Egli è fermamente convinto della verità e della inesauribilericchezza della prospettiva filosofica dell'Aquinate; ma non è un semplice ripetitore di S. Tommaso. Profondo conoscitore del pensiero filosofico moderno e contemporaneo e delle istanze culturali del nostro tempo, pur assumendo dalYAquinate i principi primi della metafisica, dell'antropologia e dell'etica, egli sa coniugarli, integrarli, svilupparli in modo nuovo e originale. Significativo il suo apporto alla elaborazione di una filosofia della cultura e dei valori in chiave realistica, religiosa e umanistica. Le sue opere principali sono: Los fundamentos metafisicos del orden moral (1941); Filosofia de la cultura y de 10s valores (1963); Santo Tonms y la filosofia actual (1975); La palabra (1978). —
-
RALPH MCINERNY
È nato nel 1929 a Minneapolis; è membro dei dipartimento di filosofia della università di Notre Dame dal 1955. È uno dei massimi cultori statunitensi del tomismo. Convinto del suo perenne valore ha cercato di farlo conoscere con il suo insegnamento, con numerosi saggi, con l'importante rivista The New Scholasticisnz di cui è stato per molti anni direttore, e con la fondazione e la direzione del Thnnzistic Institute di Notre Dame. Di S. Tommaso ha approfondito in modo particolare la dottrina dell’analogia, a cui ha dedicato due importanti monografie, The Logic ofAnalolgy (1961) e Being and PTEdÎCtIÎÎOÌI (1986). A suo giudizio Yanalogia è fondamentale non solo per la teologia ma anche per la metafisica: «è la dottrina sui termini analoghi che consente a S. Tommaso di spiegare come sia possibile una scienza dell'ente in quanto ente», Il Mclnerny intende Panalogia tomistica come predicazione per prius et posterius, con una identità della ras pracdicata e una variazione nel modus praedicandi. Con altrettanto impegno Mclnerny ha studiato i temi della morale, difenden-
La
riscoperta della nzetafikaica di San Tanzmaso
715
do Fesistenza di valori assoluti e di una legge naturale universale in due opere importanti: The Question of Christian Ethics (1993) e Aquinas on Humazi Action (1992). Una eccellente sintesi della filosofia di S. Tommaso con precisi riferimenti ai suoi predecessori, ad Aristotele c Boezio in particolare, è il suo 5t. Thonzas Aquinas (1977). Nel capitolo conclusivo di questo libro Mclnerny scrive: «Si può
tranquillamentepredire che il ruolo di S. Tommaso nella sua qualità di mentore intellettuale non potrà che aumentare. La sua posizione tra i cattolici romani è, o dovrebbe essere, solida (...). Per un cattolico non conoscere Tommaso è esser tagliato fuori da una porzione essenziale del suo patrimonio. Per gli altri, Yimportanza di S. Tommaso per un vasto segmento dell'umanità lo accredita di un interesse culturale più grande. Dalla Divina Commedia in poi Tommaso indirettamente parla attraverso un vasto numero di opere artistiche, e sarebbe un impoverimento culturale non conoscere direttamente il pensiero di un uomo che è apparso paradigmatico a molti credenti. E se Tommaso ha ragione riguardo alla distinzione tra fede e conoscenza (razionale), se i suoi sforzi filosofici furono cotonati da successo (e, forse, anche quando non lo furono), egli ha il diritto di essere ascoltato dai filosofi in generale>>fi8
95)
R.
MCINERNY, St. Thomas Aquinas, Boston 1977, p. 171.
716
Parte terza
Suggerimenti bibliografici principali di tutti i filosofi tomisti trattati in questo capitolo sono già state debitamente segnalate parlando dei singoli autori. Questa breve nota bibliografica riguarda pertanto alcuni studi importanti sul movimento neotomista in generale e sui suoi maggiori rappresentanti. E. CORETH-W. M. NEIDL-G. PFLIGERSDORFFER (edd.), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno allîzredità scolastica. Roma 1994. E l'opera più completa sulla storia del neotomismo, con ampi capitoli su tutti i suoi principali esponenti. P. DEZZA, Alle origini del neotomisnzo, Roma 1940. R. ECHAURI, El pensamiento de E. Gilson, Pamplona 1980. V. MATHIEU, La filosofia del Novecento, Firenze 1978, cap. IV. Le opere
O. MUCK, Die transzendentale Methode in der scholasticlzera Pliilosopliie der Gegenwart, lnnsbruck 1964. V. POSSENTI, Una filosofia per la transizione. Metafisica, persona e politica in I. Maritain, Milano 1984. G. PRoUvosT, Thomas d ’Aqain et le Tliomisme, Paris 1966. A. SAVIGNANO, loseph Maréchal filosofo della religione, Perugia 1978. M.To5o, Fede, ragione e civiltà. Saggio sul pensiero di E. Gilson, Roma 1986. G. VAN RIET, Depistérnologie tliomiste, Louvain 1946.
LA RISCOPERTA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE
Nel secolo XX la rinascita della metafisica ha battuto tre vie principali: la via del ritorno a Parmenide, con la riscoperta dell'essere nella sua manifestazione originaria. È questa la via seguita da Heidegger per uscire daIl”’oblio dell'essere” in cui, a suo giudizio, è caduta tutta la metafisica occidentale; la Via del ritorno a S. Tommaso, che ha sfruttato la scoperta della sua metafisica dellkzctus essendz’. Questa è la via che hanno percorso numerosi neotomisti, in particolare Gilson, Maritain e Fabro; la via del ritorno ad Aristotele; una via più che legittima perché Aristotele è stato il creatore della metafisica come scienza: «la scienza dell'ente in quanto ente». Quesfultima via è quella che hanno percorso i filosofi della scuola di Padova, in particolare Marino Gentile, Enrico Berti e Pietro Faggiotto. L'università di Padova è stata da sempre un importante centro di studi aristotelici. Nel Medioevo e soprattutto nel Rinascimento (con Pomponazzi, Vernìa, Nifo ecc.) la scuola patavina si era distinta per la sua fedeltà ad Aristotele, di cui si cercava di offrire una interpretazione letterale, contro le interpretazioni addomesticate degli Scolastici. La ”nuova” scuola di Padova crede nel valore della metafisica di Aristotele, -
-
-
e senza
sostanziali ritocchi ritiene che sia tuttora proponibilecome cam-
mino sicuro per
raggiungere la trascendenza.
Marino Gentile Trieste nel 1906 ed è morto a Padova nel 1991. Ha compiuto gli studi universitari sotto la guida di A. Carlini nella Scuola normale superiore di Pisa. Libero docente di storia della filosofia antica dal 1931, è stato dal 1951 titolare di storia della filosofia, prima nella università di Trieste e poi in quella di Padova. Ha partecipato attivamente a numerosi congressi filosofici nazionali e internazionali. Ha collaborato in veste di direttore di sezione alla elaborazione della Marino Gentile è nato
Enciclopediafilosofica.
a
718
Parte terza
OPERE PRINCIPALI I fondamenti tnetafisicl della morale di Seneca (1932); La metafisica presofistica (1939); La politica di Platone (1940); Llmanesimo e tecnica (1943); Filosofi)‘: e umanesimo (1948); ll problema dellafilosofia moderna (1950); Come si pone il problema nzetafisico (1955); Breve trattato difilosofia (1974). Formatosi nel clima dell'idealismo attualistico, successivamente, con la mediazione dell'approfondimento dottrinale del cristianesimo, Gentile riuscì a superare i canoni dialettici dello storicismo immanentistico e a giungere a un'interpretazione umanistico-religiosa della realtà, in cui la filosofia svolge una duplice funzione: critica e fondativa. La filosofia è concepita da Gentile come "metafisica critica", è "domandare tutto che è un tutto domandare”, cioè a dire un domandare doppiamente riferito al tutto, in quanto tema e in quanto abito di ricerca. In altre parole, da un lato alla filosofia importa che non vi sia nulla di estraneo alla sua indagine (e quindi il tutto, l'intero ne costituisce l'oggetto: domandare tutto) e, dall'altro, essa si configura come una ricerca a cui nulla sia presuppo-
(e quindi il tutto indichi Pintegralità dell'atteggiamento problematico: tutto domandare). Ma, a differenza della metafisica classica che si interrogava sull'essere e sul divenire, la metafisica di Gentile si interroga sulla storia. Per questo motivo egli sviluppa un'altra definizione del problema metafisico a opera della idea di storia, Il termine "storia", infatti, «consente di cogliere più sicuramente il problema della metafisica nella sua totalità». E la storia, quando venga considerata in rapporto sto
vera metafisica, non è quel sistema dialettico, in cui la storia viene ordinata secondo un piano prefissato, ma come un'autentica meravigià glia, che è il Considerare il fluire delle cose, delle opere, degli uomini, delle azioni, nella loro incoercibilemobilità». La metafisica riflette sul carattere contingente e problematico di tutto ciò che si presenta sul piano della storia e della storia stessa. Ora, se tutta la realtà è problematica, vuol dire che la realtà nella sua totalità non trova la spiegazione in se stessa; e, dunque, è necessario un principio trascendente. Pertanto, se il problema metafisico viene seriamente impostato, la soluzione non può essere che una: la Trascendenza è la ragione della realtà. La metafisica di stampo neo-classico creata da Gentile ha esercitato un notevole influsso nell'ambito patavino, e continua a prosperare grazie all'opera di due valenti discepoli del Gentile, Enrico Berti e Pietro
alla
Faggiotto.
La
riscoperta della metafisica di Aristotele
719
Enrico Berti Enrico Berti è nato a Valeggio sul Mincio (Verona) il 3 novembre 1935 e ha studiato filosofia nell'università di Padova sotto la guida di Marino Gentile, conseguendovi la laurea nel 1957. Dopo avere insegnato nella scuola secondaria ed essere stato assistente universitario, ha vinto nel 1963 il concorso alla cattedra di Storia della filosofia antica, di cui è stato titolare dal 1965 al 1969 nell'università di Perugia, passando poi a occupare la cattedra di Storia della filosofia nella stessa università. Dal 1971 è professore ordinario di quest'ultima disciplina nell'università di Padova. Dal 1983 al 1986 è stato presidente della Società Filosofica Italiana e nel 1987 ha conseguito il premio internazionale per la filosofia ”Federico Nietzsche”. Nel 1991 è stato incaricato di un corso all'università di Ginevra.
PRINCIPALI PUBBLICAZIONI La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1962; L'unità del sapere in
Aristotele, ivi, 1965; Stadi aristotelici, Iapadre, L'Aquila 1975; Ragionefilosofica e ragione scientifica nel pensiero rrztiderno, La Goliardica, Roma 1977; Aristotele: dalla dialettica alla filosofia priora, Cedam, Padova 1977; Profilo di Aristotele, Studium, Roma 1979; Le ‘UÌE della ragione, Il Mulino, Bologna 1987; Contraddiziorze e dialettica negli antichi e nei moderni, L'epos, Palermo 1987; Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989; Storia della filosofia, 3 voll., ivi 1991; Introduzione alla metafisica, UTET, Torino 1993. Nella ricerca di una filosofia che aprisse uno spazio alla fede cristiana in maniera rigorosamente critica, cioè senza essere pregiudizialmentc condizionata da quest'ultima, Berti si è orientato sin dalla giovinezza verso la "metafisica classica" formulata da Marino Gentile in termini di “problematicità pura”, individuandone il nucleo essenziale soprattutto nel pensiero di Aristotele. Inserendo le suggestioni tratte dal pensiero aristotelico nel dibattito filosofico attuale, Berti insiste soprattutto sulla molteplicità irriducibiledell'esperienza, che connota in senso positivo le
differenze tra gli enti, e sulla sua inestinguibilemobilità, che ne attesta da un lato la finitezza e dall'altro lîncessante novità. Questi caratteri sono espressione della problematicità dell'esperienza, e quindi della
necessità di un principio ad essa trascendente, di cui la ragione può dimostrare non solo l'esistenza, ma anche il carattere personale. L'attenzione di Berti si è concentrata soprattutto sull'analisi delle diverse forme di razionalità, che 10 ha portato a distinguere dalla razionalità propriamente scientifica, fondamentalmente ipotetico-deduttiva, una razionalità dialettica, nel senso greco del termine, cioè argomentativa e confutativa, come organo specifico del discorso filosofico. Quest'ultima forma di razionalità è aperta alla possibilità di rimettere continuamente in discussione i risultati raggiunti, la quale salvaguarda la sto-
720
Parte terza
ricità propria del Vere e
filosofare, ma non esclude la possibilitàdi operare anche
proprie dimostrazioni, mediante la confutazione, cioè la riduzione a
contraddizione, di ogni tentativo di assolutizzazionedell'esperienza.
La stessa forma di razionalità è applicabilenell'ambitodella filosofia pratica, costituita dal nesso indissolubiledi etica e politica, la quale non può essere ridotta a semplice saggezza intuitiva o strumentale, ma si regge su vere e proprie argomentazioni, capaci di delineare la natura specifica e il fine ultimo dell'uomo e della società. In base ad essa è possibiledimostrare la sostanzialità, l'identità e la continuità della persona umana, il suo orientamento alla socialità, che trova la più piena realizzazione nella partecipazione alla vita democratica, e insieme la sua apertura a un fine che trascende la società e la storia, la quale trova il suo compimento nella dimensione religiosa della vita. Specificamente della metafisica aristotelica Berti si è occupato in due opere: nell'importante saggio storico, La filosofia del prima Aristotele e nella Introduzione alla metafisica. In questo secondo scritto egli ripropone in modo convincente l'itinerario metafisico dello Stagirita e ne difende la sostanziale validità mettendolo a confronto con altri itinerari, in particolare con quelli di origine platonica. L'opera si articola in tre ampi Capitoli, ben strutturati e adeguatamenIl primo illustra l'origine e il significato del termine documentati. te
"metafisica", nonché le critiche che
sono
state
mosse
alla metafisica; il
secondo mette a fuoco il tema dell'indagine metafisica; mentre il terzo e conclusivo capitolo svolge il problema, tracciando il percorso che conduce al principio primo. Dei tre capitoli il più interessante e originale è indubbiamente l'ultimo, in cui Berti cerca di ripristinare il cammino di Aristotele dagli enti che divengono al Motore immobile.In estrema sintesi, Berti stesso riduce il suo percorso alle seguenti tappe: 1. un'ampia fenomenologia dell'esperienza integrale, ossia della esperienza dell'ente in quanto ente, con tutti i suoi significati, le sue proprietà, i suoi principi; 2. «la problematicità del divenire, della esperienza»,- 3. infine la "soluzione", cioè «la posizione di un Principio metafisico e della determinazione dei suoi Caratteriml La cogenza di questo procedimento risulta dal fatto che «la problematicità della esperienza porta con sé, direttamente, la trascendenza del Principio, cioè la necessità che la risposta adeguata alla domanda costituita dall'esperienza stessa sia trascendente rispetto a quest'ultima. Questa conclusione non è semplicemente la soddisfazione di un'esperienza, quella per cui, se c'e un problema, ci deve essere la soluzione. Essa è il risultato necessario di una confutazione, cioè la confutazione della pretesa assolutezza dell'esperienza. Se infatti l'esperienza fosse assoluta, cioè autosufficiente, non dipendente da un Principio,
1)
E. BERTI, Introduzione alla metafisica, Torino 1993, p. 112.
La
non
di
riscoperta della metafisica di Aristotele
721
domanderebbe di essere spiegata, sarebbe perfettamente razionale, razionalità già attuata, già completamente dispiegata, quindi
una
necessaria, compiuta, perfetta»?
L'itinerario metafisico tracciato da Berti ricalca assai da Vicino quello di Aristotele. Berti però cerca di allargarlo prendendo in considerazione oltre al divenire fisico, materiale ogni altra forma di divenire, rinchiudendo tutto dentro la ‘problematicità dell'esperienza”, di qualsiasi nostra esperienza. Credo che questo nuovo tracciato metafisico sia sostanzialmente valido. Infatti l’unica realtà in grado di trarre in salvo il divenire, qualsiasi forma di divenire, ma in particolare il divenire ontologico, è l'essere. Principio, causa, ragione di qualsiasi ente soggetto al divenire è l'essere. Il divenire è problematico precisamente perché considerato in se stesso non ha né può rivendicarealcun diritto all'essere. È lì, esiste, ma non può esibire nessuna giustificazione adeguata di essere lì, di esistere, Ma il suo essere vacilla continuamente e minaccia di precipitare nel nulla. Il divenire pone l'interrogativo: perché l'essere e non il nulla? E la risposta è ovvia, poiché il nulla non può dar conto di ciò che è, proviene dall'essere: il divenire è un dono dell'essere, e tale dono non può essere fatto che da un Essere personale, Cioè da Dio.
Pietro Faggiotto Pietro Faggiottt) è nato a Padova il 5 aprile 1923. Si è laureato in Filosofia nell'università di Padova nel 1944. Nella stessa università dal 1949 al 1962 è stato assistente alla cattedra di filosofia teoretica, tenuta prima da Umberto Padovani e poi da Marino Gentile. Dopo il Consegui-
mento nel 1960 della libera docenza in filosofia teoretica, fu
incaricato,
sempre Padova, di filosofia nella Facoltà di magistero e di storia della filosofia nella Facoltà di lettere. Nel 1972, quale vincitore di concorso, venne chiamato dalla Facoltà di magistero di Padova a ricoprire la cattedra di filosofia; nel 1978 passò alla cattedra di filosofia teoretica nella Facoltà di lettere della stessa università. Dal 1997 è professore emerito. a
PRINCIPALI PUBBLICAZIONI
L'elenco completo di
questi scritti fino al 1993 è contenuto nel voluAA. me Vv., Metafisica e modernità, 1993, pp. XV-XXIV. Qui ci limitiamo a ricordare i seguenti volumi: Esperienza e Metafisica (1959); Saggio sulla struttura della metafisica (1965; 2“ ed. 1969); Il problema della metafisica nel pensiero moderno, Parte I: Bacone, Galilei, Cartesio, Hobbes, Spinoza, Locke (1969); Parte II: Leibniz, Berkeley, Hume (1975); Per una metafisica dell'esperienza integrale (1982); Introduzione alla metafisica kantiana dellanalogia (1989); La metafisica kantiana dellanalogia. Ricerche e discussioni (1996). 2) Itali, p. 100.
722
Parte terza
Ricordiamo inoltre la discussione tra Faggiotto e Gustavo Bontadini, svoltasi a più riprese dal 1952 al 1982 e poi raccolta nei due volumi citati: Esperienza e Nlefafisiea e Per ima metafisica dell'esperienza integrale. L'intera indagine di Faggiotto è impegnata nella difesa della possibilità della metafisica dalle obiezioni che nel corso del pensiero moderno le sono state rivolte, particolarmente da parte della corrente empiristica. Tale corrente si richiama alla divisione di tutte le proposizioni nelle due classi delle proposizioni analitiche e delle proposizioni sintetiche: le prime sono a priori e hanno un valore necessario e universale, ma sono puramente formali e prive quindi di valore "fattuale" o reale; le seconde sono a posteriori, hanno un valore reale, ma mancano di necessità o di universalità. In base a tale classificazioneviene negata l'autenticità delle proposizioni metafisiche, in quanto esse pretenderebbero di essere a un tempo necessarie e reali. Per Faggiotto questa pretesa è invece legittima in quanto esistono, a suo avviso, due tipi di proposizioni analitiche: quelle puramente formali, in cui il soggetto è un semplice concetto, e quelle che sono necessarie e anche reali, perché il loro soggetto è un dato, offertoci dall'esperienza, nel quale si trova realizzato un concetto. Tali sono (già per Locke) le proposizioni della matematica applicata e tali sono per Faggiotto anche le proposizioni della metafisica} Uempirismo, però, oltre a contestare in generale la possibilità di proposizioni necessarie e fattuali, ritenendo impossibile che si possa assumere con assoluta esattezza un contenuto empirico sotto un concetto, obietta in particolare che le proposizioni della metafisica, essendo per definizione metempiriche, non possono avvalersi dell’esperienza, e, proprio per questo, in conformità al principio di vcrificabilità empirica, risultano assolutamente prive di significato. Quanto alla prima contestazione, Faggìotto osserva che l'impossibilità di assumere con esattezza un contenuto empirico sotto un concetto vale soltanto per i concetti specifici (ad es. quello di triangolo), ma non vale per i concetti generici e trascendentali (ad es. il concetto di divenire e il concetto di essere) con i quali opera la metafisica. Quanto poi all'accusa di insignificanza, rivolta alle proposizioni metafisiche sulla base del principio di verificabilitàempirica, questa accusa viene da Faggiotto confutata con l'osservazione che tale principio, in base alla stessa classificazione empiristica delle proposizioni, non potrebbe essere una proposizione analitica a priori, perché in questo caso sarebbe puramente formale e quindi tale da non poter valere come legge reale del nostro pensiero, e non potrebbe essere neppure una proposizione sintetica a posteriori, perché sarebbe priva di valore necessario e non potrebbe quindi permettere una perentoria condanna delle proposizioni metafisiche.
3)
Ci. P. FAGGIOTTO, Saggio sulla
struttura della
metafisica, Padova 1969, pp. "137-138.
La
riscoperta della metafisica di Aristotele
723
Per Faggiotto da questa aporia si può uscire superando il concetto inadeguato di esperienza proprio clellempirismo, che la riduce completamente all'insieme dei dati sensibili,i quali invece ne costituiscono sol-
tanto il livello
estetico, e assumendo un concetto integrale di esperienza, il riconosca accanto al livello estetico anche il livello noetico, vale a dire quale l'originario orizzonte in cui questi dati sensibili sono contenuti: l'idea dell'essere e dei principi primi che ne derivano: «Se per esperienza intendiamo soltanto l'insieme dei dati sensoriali nel loro continuo fluire, Yempirismoha senz'altro partita vinta: nessuna costruzione, che pretenda al carattere della universalità e della necessità, può trovare il suo fondamento su tale terreno. Ma se riconosciamo che nell'esperienza deve essere incluso anche quell'orizzonte noetico che conferisce al molteplice sensibilela sua unità (e ne fa appunto una esperienza) (m) allora quella costruzione appare possibilew Se l'empirismo, continua Faggiotto, non ha riconosciuto il livello noetico dell'esperienza, ciò deriva dal fatto che nella coscienza comune, immersa nella quotidianità, tale livello è presente solo in forma implicita, atematica. È di essenziale importanza, per l'autore, distinguere in seno all'esperienza il momento tematico dal nromento atematico: fa parte della esperienza non solo ciò che è al centro dell'attenzione, ma anche ciò che è ai suoi margini, pur potendo venire tematizzatoCon lo spostarsi della nostra attenzione. Ora, ciò che comunemente, anche per ragioni pratiche, attira il nostro sguardo è la varietà dei contenuti sensibili, che costituiscono appunto il livello estetico, mentre il livello noetico, orizzonte immutabiledella nostra esperienza, al di fuori della riflessione filosofica in cui viene assunto a tema, rimane normalmente atematicm All'interno dell'esperienza integrale si istituisce tra i due livelli una tensione da cui sorge il discorso, «che non è più da concepirsi come il passaggio da uno stato di assoluta immediatezza a uno stato di mediazione, ma come lo sviluppo di una mediazione originaria (...). L'esperienza non risulta di puri e semplici dati che solo più tardi il pensiero pone in discussione, ma risulta di dati che per il loro stesso impianto, per il dislivello secondo cui sono disposti, sono, almeno implicitamente, problematici. l dati dell'esperienza sono i termini di un grande problema. Il discorso metafisico è il processo attraverso il quale il problema, colto nella sua totalità, tende alla sua soluzionew Respinte le pregiudiziali empiristiche contro la possibilità della metafisica, Faggiotto si impegna a delineare la struttura fondamentale di questa disciplina: essa è l'indagine sull'orizzonte noetico dell'esperienza integrale, sull'essere in quanto essere, vale a dire nella sua dimensione
4) ID., Per una metafisica dell'esperienza integrale, cit. p. 9. Cf. Saggio... cit., pp. 125-128. 6) Itali, p. 135. 3
724
Parte terza
trascendentale, e sui suoi principi primi, anzitutto sul principio di non contraddizione. Alla luce di questo principio l'essere soggetto al divenire, quale ci è dato nell'esperienza, appare a prima vista contraddittorio perché implica il non-essere dell'essere, cioè la negazione di quella intrinseca positività, di quella enérgheia per cui esso si afferma e si sostiene nell'essere. Appartiene infatti all'essenza dell'essere l'esigenza della sua permanenza: «unaquaeque res, quantum in se est, in suo esse perseverare corzatur»? L'apparenza della contraddizione può essere rimossa osservando che a ogni essere appartiene necessariamente non la permanenza (come qualcuno paradossalmente sostiene), ma l'esistenza di permanere quantunt in se est, fermo restando che questa permanenza può essere impedita (come di fatto continuamente riscontriamo), e può esserlo soltanto per l'azione di un altro essere che si rivela, così, come la causa di quella cessazione e quindi del divenire. «Nulla res, nisi a causa externa, potest destrui».8 La contraddizione sussisterebbe se l'essere che cessa di essere fosse assunto come qualcosa di assoluto, per cui il suo venir meno sarebbe dovuto a se stesso, in contraddizione quindi con la sua essenziale, intrinseca positivitàfi Né la contraddizione sarebbe rimossa se la causa del divenire venisse riposta in una serie di cause tutte a loro volta soggette al divenire, perché il divenire sarebbe di nuovo contraddittoriamente assolutizzato. L'aporia del divenire, continua Faggiotto, può essere superata solo assumendo come sua ragion sufficiente un Essere assoluto che è pura enérgheia e che determina il moto rimanendoassolutamente immobile.L'apparente contraddittorietà dell'ente soggetto al divenire ci conduce così a riconoscere l'esistenza della radice ultima delle cose mutevoli e questo riconoscimento avviene in virtù di un conoscimento originario, anche se implicito: la Certezza dell'esistenza di un Assoluto come universale ragione sufficiente, sempre atematicamente presente nell'orizzonte del-
l'esperienza integrale.” In Faggiotto questa prospettiva teoretica si accompagna strettamente a una indagine storica su tutto il pensiero moderno con cui egli intende Confrontarsi: da Bacone a Hume, da Galilei a Leibniz, dallo sviluppo cioè de11’empirismo fino al suo approdo nello scetticismo, dalla nascita del razionalismomatematisticofino alla sua crisi. Faggiotto ha concluso la sua rassegna sul problema della metafisica nel pensiero moderno con una indagine sulla filosofia kantiana, pervenendo a mostrare come la negazione kantiana della metafisica quale scienza riguardi la metafisica 7) SPINOZA, Ethìca, Parte III, prop. VI. 5) lbid, prop. IV. 9) Cf. P. FAGGIOÎTO, P 'r una metafisica... ciL, pp. 201-214. m) Cf. lD., Saggio... cit., pp. 199-201.
La
riscoperta della metafisica di Aristotele
725
del razionalismo moderno, costruita con il metodo sintetico, proprio della matematica, che scende dai principi alle conseguenze, dalle condizioni al condizionato, ma non riguarda un'altra forma di metafisica che Kant
svolgendo, una metafisica come vera e propria tcoresi (e non come semplice postulazione morale), che procede con il metodo analitico (del resto già adottato da Kant nella fondazione della sua stessa filosofia trascendentale), che dal condizionato risale alle condizioni e perviene alla fine all’Incondizionato. «Il mondo sensibile riconosce Kant non è che una catena di fenomeni connessi secondo leggi universali,‘ esso non ha dunque esistenza per se stesso, esso non è propriamente la cosa in sé e si riferisce perciò necessariamente a ciò che contiene il principio di questi fenomeni».11 Si tratta di quella conoscenza per analogia, teorizzata nei Prolegomeni (55 57-60), che è conoscenza dell’Assoluto non stesso viene
—
-
in ciò che esso è in sé, nella sua intrinseca costituzione, ma in ciò che esso è in rapporto al mondo. Viene riguadagnato in questo modo il procedimento della metafisica classica. Risulta allora evidente la stretta convergenza che esiste tra la prospettiva teoretica di Faggiotto e la sua interpretazione storiografica dell’autentico significato della negazione della metafisica come scienza da parte di Kant. «Nelle sue opere si tro-
passi davvero molto forti, che sembrano escludere senza scampossibilità di una tale metafisica, ma è Sufficiente tener presente che egli in questi casi si riferisce sempre a una scienza di tipo sintetico
vano
dei
po la
per rendersi conto che la sua esclusione, se tocca la metafisica del razionalismo moderno, che intendeva procedere more geometrico, non tocca
un'altra forma di metafisica, quella della tradizione aristotelica (e quella stessa presente in molti testi kantiani) che adotta invece il metodo analitico e il ricorso alla analogiamîì Una metafisica riproposta in questi termini è per Faggiotto una forma di sapere consapevole dei propri limiti, ma anche della propria vitale importanza: pur rinunciando allambizionedi attingere razionalmente l'Assoluto nella sua intima essenza, essa tuttavia, intenzionandolo in una forma indiretta, relazionale, ha la funzione di aprire la via a quella integrazione che può venire dalla vita morale e dalla esperienza religiosafi
suggcrinzenti bibliografici sono riportati all'interno del capitolo e nelle note in cui vengono elencate le opere principali di ogni autore.
I
11) I. KANT, Prolegomeni" 5 57. 12) P. FAGGIOTTO, La metafisica kantiano dellfimalagia. Ricerche e discussioni, Milano 13)
1996, p. 17s. Cf. ibid, p. 176.
726
IL RITORNO A S. AGOSTINO
Tra i metafisici classici (Platone Aristotele, Plotino) e S. Tommaso, c’è altro grandissimo metafisico, S. Agostino. Anch’egli ha contribuito in modo decisivo alla rinascita della metafisica nel Novecento. In effetti, il secolo XX ha fatto registrare un nuovo interesse non solo per Aristotele e S. Tommaso, ma anche per Agostino. Questo è documentato dalle nuove edizioni e dalle traduzioni delle sue opere in molte lingue moderne, dalla notevole quantità di studi del suo pensiero e, soprattutto, dalla un
ripresa delragostinismo. Filosofi e teologi di valore hanno creduto nuovamente nel valore del pensiero di Agostino. Tra i teologi ricordiamo, in particolare, Henri De Lubac, Urs von Balthasar, Ioseph Ratzinger, Karl Barth, Ioseph Montmann. Tra i filosofi hanno trovato nella metafisica cli Agostino lezioni
valide anche per l'uomo del nostro tempo Michele Federico Sciacca, Romano Guardini, Augusto Guzzo. È del pensiero di questi tre autori che intendiamo parlare brevemente nel presente capitolo.
Michele Federico Sciacca Michele Federico Sciacca nacque a Giarre (Catania) nel 1908. Allievo di Aliotta nell'università di Napoli, ottenne l'incarico di libero docente in storia della filosofia nella medesima università per interessamento del famoso grecista Aurelio Covotti. Dal 1938 fu professore di storia della filosofia a Pavia e successivamente (dal l947), fino alla morte, professore di filosofia teoretica nell'università di Genova. Grande studioso di Rosmini fu presidente e animatore del Centro Rosminiano di Stresa, a cui ha dedicato tante delle sue più appassionate fatiche, direttamente o indirettamente attraverso alcuni dei suoi più laboriosi e acuti discepoli. Nel 1948 fondo il Giornale di Metafisica, assumendone la direzione. La rivista divenne l'organo principale dello spiritualismo cristiano e assunse fin dall'inizio una decisa posizione in favore della metafisica contro ogni negazione di essa da parte dellîmmanentismomoderno in genere, e particolarmente contro Pattualismo, lo storicismo e il problematicismo. Sciacca è morto a Genova nel 1975. Della sua vastissima produzione (oltre quaranta sono i volumi editi nella collana marzoratìana delle “Opere complete”), vanno segnalati in
Il ritorno a S.
Agostino
727
particolare: La filosofia oggi, 2 voll. {l 945); Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale (1943); Filosofia e nzetaflsica (1950); Atto e essere (1956); Dallìzttualismo alla spiritualismo critico (1961); Dallflzttttalismocritico alla spiritualìsnzo cristiano (1966). Dopo un breve periodo di adesione alla filosofia di Gentile, Sciacca si oriente verso 10 spiritualismo cristiano e divenne, in Italia, il più valido e risoluto rappresentante dello spiritualismo di indirizzo agostiniano, e allo stesso tempo uno dei più convinti e più validi assertori della metafiSlCa.
Sciacca può
essere
considerato un poeta della metafisica.
Sulrimpor-
tanza, la qualità, il valore della regina del sapere egli ha scritto molte pagine liriche. Ecco un brano che documenta bene la "liricità” della sua metafisica:
«L'uomo è sempre lievitato dalYessere: farina che si fa pane, sempre pane: la fame dell’essere è lievito inesauribile.Ogni ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce nello spirito, ma solo perché si costruisce nel e sull'essere: il livello dbggixsporge sempre nel livello del domani: lievito e lievitazione perenne. E la tensione della vita spirituale nella sua integralità. Tensione che non teme rottura, perché la tensione dell'essere all’Essere è il ”tonico”, il ”ricostituente” dello spirito (...). Uontologo, il metafisico vero, non ”parla" dell'essere, ”vive” dell'essere e nell'essere assumendosi il problema totale del significato del suo essere integrale, fin nelle sue profonde ed abissali radici spiritualiw nuovo
Tre sono le fonti principali della metafisica di Sciacca: Platone, Agostino e Rosminì; altre due fonti importanti sono Aristotele e Tommaso. Ma la fonte primaria, quella verso cui convergono tutte le altre, è S. Agostino. Il suo obiettivo è riproporre ai giorni nostri Pagostinismo perenne. E per Sciacca «agostinismo significa Voler conoscere anzitutto due cose: Dio e l'anima, la mia anima che ama Dio, che aspira a Dio.
Dunque umanesimo e spiritualismo cristiano; centralità del problema dell'anima umana di fronte a Dio, che in lei parla; scoperta della consistenza delYuomo e delle cose; senso della creazione, che si coglie come tale neltaspirazione perenne al Creatore e, dunque, senso profondissiinteriore, della trascendenzamî La metafisica di Agostino è, come sappiamo, una metafisica della interiorità centrata sulla verità. La verità abita nel cuore dell'uomo: in interiore homine habitat veritas. Ma la verità non si identifica con l'uomo: la Verità è su p eriore all'uomo, ed è la misura di tutto ciò che l’uomo pensa, vuole e compie. Tale verita trascendente non può essere che D10. mo,
n
1) M. F. SCIACCA, Filosofia e metafisica, Brescia "i950, pp. 234x235. 3) 111171., p. 27.
728
Parte terza
Sciacca ripropone, aggiornandola, la metafisica agostiniana dell'intee la giudica capace di «risolvere in sé le due opposte metafisiche "dell'essere" e "del pensiero", Qonservando al pensiero e all'essere tutta la loro validità e positività. E a noi sembra che con ciò si renda un buon servizio sia al pensiero moderno che a quello tradizionale, un buon servizio, quale si addice alla filosofia, di avanzamento nella via della verità».3 «Radicatì nella tradizione noi Vogliamo pensare per Yavvenirewî fu il motto di Sciacca. Con Agostino, Sciacca definisce la filosofia come ricerca della verità. «Chi filosofa è chiamato alla verità, ha la vocazione per la verità. La verità non conosce e cerca; ma ha giàfede nella verità. Fede nella verità e nei suoi disegni, anche malgrado tutto».5 «Chi filosofa si mette in cammino per incontrare 1a verità».6 «ljestro della filosofia è l'amore incondizionato della verità, che ‘e poi, anche quanto non se ne ha coscienza, amore di Dio che è la verità».7 Tra le caratteristiche tipicamente agostiniane che Sciacca sottolinea nella ricerca filosofica figurano: Yinteriorftà, e di questa si è già detto a sufficienza; l'impegno: diversamente dalla scienza, la quale non comporta nessun coinvolgimento esistenziale, «la filosofia è impegnativa (...) il filosofo si identifica con la sua filosofia, con la sua verità, che è la sua vita. Ogni filosofo è una formula, ma la sua formula non è una astrazione, è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua vita; la formula è la Croce, in cui egli si crocifigge e dalla quale perennemente rinascew la passione: <
riorità,
-
—
—
—
3) 4) 5) 5) 7) s) 9)
ÎÉIiEL, pp. 10-11.
151114125.
Ibid, p. 20. Haiti, p. 29. Irma, p\ 234. lbicf, p. 27. llîiri, p.44.
Il ritorno a S.
Agostino
729
«Gli è dunque essenziale l'umiltà, radice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi creatura e di amare in sé il creatore, di sentir d'essere testimonianza dell'Essere e del Bene e del Bene, che cerca ed ama; di amare la propria esistenza come dono e dunque come atto di amore. L’umiltà, che è legge d'amore, rende morali l'intelletto e la volontà ed efficace l'impegno di Vincere le nostre passioni e le nostre debolezze; ci da il senso del sacrificiopurificatore a cui siamo chiamati per ascendere 0 per filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce l'umanità dell'uomo, come la potatura del secco fa adorna e vigorosa la piantamw Tutte queste singolari caratteristiche che Sciacca sottolinea nella filosofia si ritrovano potenziate nella sua concezione della metafisica: è soprattutto la metafisica che si qualifica come ricerca interioristica,
impegnata, umile e ardente (passione). Come per ogni autentico metafisico, anche per Sciacca la metafisica è
orientata verso la trascendenza: ‘e un cammino Verso la trascendenza; ed è pertanto ricerca di Dio, che è il Trascendente per antonomasia. L'interiorità, secondo Sciacca, è veramente tale soltanto se si apre alla trascendenza: essa ha significato se si riferisce a una realtà trascendente e 0ggettiva nel cui orizzonte si definisce e consiste. Esplicitanclo meglio la natura della metafisica Sciacca la fa consistere essenzialmente nella distinzione tra il relativo e l'assoluto, tra il particolare e l'universale, tra il "fisico" e il "metafisico", tra il ”sensibile" e l”'ideale".11 Queste distinzioni introdotte da Platone, e riprese da Aristotele, costituiscono la spina dorsale di ogni metafisica.
dunque riteniamo che vi sia un platonismo essenziale e perenne ogni metafisica: l'aspirazione al di là del fisico il divino Eros, ch'è sete d’immortalità dell'anima nella (trans-physica), dell'Essere assoluto eterno; platonismo beatificante contemplazione essenziale che importa distinzione e dualità di mondi: "questo" e
«Noi
che è l'anima stessa di
un rapporto relativo e assoluto, di contingente e temporale ed eterno. Platonismo, che ‘e nostro, se trasposto nei termini agostiniani di una metafisica dell'esperienza interiore finalizzatanel dialogo perenne dell'anima con Dio, di tutto l'uo-
“l'altro” mondo in
necessario, di
tutta la Verità che è; interiorità che non abolisce il mondo; dal di dentro, lo riconquista nella sua Verità e realtà, che è l'atto anzi, creativo di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt sono prova e testimonianza. Agostino, dunque, arricchito ancora dalla tradizione del migliore francescanesimo, il cui genio filosoficoresta S. Bonaventura».12
mo con
m) lbid. 11) Cf. ima, p. 66. I2) mm‘, p. s7.
730
Parte terza
Dio è il tema capitale e conclusivo d'ogni metafisica. E questo è anche il tema su cui Sciacca ha profuso tutto il suo impegno speculativo. Presente nelle Linee di uno spiritualisnzo critico (1936) che sul problema di Dio si concentra, la domanda su Dio si ripropone nei Problemi di filosofia
(1941), nel Problema di Dio e della religione riellafilosoflaattuale (1946), nelle Lettere dalla canzpagna e in Filosofia e nzetafisica (1950), dove alla questione della esistenza di Dio l'autore dedica metà dell'opera (pp. 124-266). Sappiamo che a Dio si accede speculativamente per moltissime vie. Non esistono soltanto le "cinque vie cosmologiche” di S. Tommaso, ma anche le vie ”ontologiche” di Anselmo, Cartesio, Spinoza, Malebranche, Rosmini, Gioberti; nonché le vie ‘antropologiche’ di Kant, Lotze, Blondel, Scheler, Maritain. Praticamente ogni metafisica è
una
ascesa,
Dio. Abbiamogià notato che tutta la spenavigazione oppure culazione filosofica di Sciacca è nutrita da una forte passione teologica. Per lui una metafisica che non parla di Dio e che non conduce a Dio è una metafisica sterile: è una metafisica che fallisce il suo principale obiettivo. Per giungere a Dio Sciacca percorre tre vie: la via della creaturalità, la via dell'esistenza e la via della verità. L'esistenza di Dio non è evidente, come pretendono gli OntOlOglStÌ, ma va dimostrata. Sono invece evidenti i dati, i fenomeni che rendono possibile la dimostrazione della sua esistenza. Sono fenomeni che rendono ineliminabilela ”ipotesi di Dio”. Il primo fenomeno su cui Sciacca imposta la dimostrazione dell'esistenza di Dio è il fenomeno della ”crea— turalità". Contro la pretesa ”creatività" dello spirito tanto esaltata dalla filosofia moderna, Sciacca opera un ”rovesciamento metafisico" e sottolinea la ”creaturalità" dell'essere e dello spirito umano. Scrive il nostro una
verso
autore:
«La creaturalità il sentirsi creature è l'atto primordiale della coscienza: nel momento stesso che io avverto (anche confusamente) di essere, avverto che non sono da me, che sono ”esistente”, cioè da altri. Avverto dunque, attraverso i limiti del mio essere, che un (l') ”essere” non limitato, mi ha tatto "esistere". La presenza di me a me stesso importa la "presenza" mediata (analogica) in me dell'Essere, senza della quale io non avvertirei mai il mio limite (e dunque l'essere da cui sono) e nemmeno io stesso saprei di essere (...). L'atto del pensare importa una duplice ontologia: realtà degli esseri e realtà -
dell'Essere,
come
te il pensare. Vi è
-
importa l'intuito fondamentale della verità, fondandunque l'essere come idea, gli esseri come esistenti,
finiti e relativi e Ylîssere come esistente infinito e assolutom”
13) lbid, pp. 82-83.
Il ritorno a S.
Con
Agostino
731
l'argomento della creaturalìtà si intreccia l'argomento della "esi-
stenza”. La nostra esistenza non soltanto non è incausata bensì donata: è un dono che ci Viene fatto da altri e ultimamente dall'Essere primo; ma c'è di più: è un'esistenza transitoria, è una esistenza priva di consistenza e di stabilità. Questo significa che «l'esistente non è perfetto ma perfettibile, dunque è incompleta in ogni stato e grado della sua attuazione. L’incompiutezza dell'esistente pone il problema del suo compimento e nello stesso tempo attesta Ylncondizionato(omne nzovctur ab alia movetur, secondo la formula che è comune ad Agostino e a Tommaso). Uesistente è in ogni momento la sua consistenza, ma in ogni momento non è mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazi0ne infinita, perché è urfaspirazione totale.
sé,
tale, interiorità di
qualche cosa d'altro,
Interiorità di sé
a
dell'Altro,
perenne sforzo di interiorizzazione, di
come
conquista di sé nell'Altr0. La soggettività profonda non è un dato, ma il realizzarsi di se stessa, la conquista di sé nell’abbandono di Dio».î4 come
Ma la via che Sciacca non si stanca mai di percorrere e di ripercorrere, per renderla sempre più solida e sicura, per evitare qualsiasi trabocchetto o pericolosi scivolamenti, è la via della verità. È la celeberrima ”via agostiniana”, che si intona perfettamente con una metafisica della verità, quale Vuol essere la metafisica di Sciacca. Ecco una delle tante formulazioni che egli presenta di questa via: una realtà intelligìbìle, cioè oggetto di un pensiero o di intelligenza: non vi è verità senza un pensiero che la pensi, un'intelligenza che la intelliga. Nel caso della mente umana finita, ciò non significa che la mente umana faccia essere la verità ("la ponga"), ma
«La verità è
una
solo che la scopre in sé, la intuisce. Quel che conta è che dove vi è verità vi è pensiero, intelligenza. Ora, la verità che l’umana mente intuisce è dalla mente stessa indipendente: non è verità di ieri e di oggi, ma di sempre: come ogni Verità, è estratemporale e perciò necessaria, eterna. Dunque è stata sempre verità: dunque lo era prima che la mente umana la pensasse e lo sarà anche se nessuna mente umana domani esistesse. D'altra parte, se è verità, oggetto d'intelligenza, non può essere tale senza che un'intelligenza la pensi; ma siccome non può non essere, appunto perché eterna, dunque vi è una Mente o un Pensiero che la pensa, eterna come essa. Ma se Pensiero eterno allora è della stessa natura della verità: Pensiero eterno ed assoluto o Verità eterna ed assoluta sono univoci; dunque la Mente assoluta e infinita (a differenza di quella umana mutevole e finita) è essa stessa la Verità, e non che ne partecipi soltanto, come l'ente razionale finito. Dunque esiste la Mente assoluta infinita che è la Verità assoluta e infinita, la Verità in sé e da cui è
14) Ibid, p. 116. 15) IbmL, pp. 161-162.
ogni verità: è la Verità creatrice (Dio)».15
732
Parte terza
L'esame delle varie prove dell'esistenza di Dio conferma, dunque, la primalità della prova ”dalla verità", di quella prova cioè che coglie nell'atto stesso del pensare la ragione del trascendere il nostro pensare. L'ipotesi Dio cessa di essere un'ipotesi e diventa verità, e non essa, ma al contrario, che Dio non esista, sarà l'ipotesi proibita. Il naturale e insieme critico procedere della ragione porta dove giunge la sapienza secolare degli uomini: conclude a un Dio che, proprio per il procedere dell'interiorità e il convergere delle istanze reali diverse dell'uomo, non può essere puro principio cosmologico, ma dev'essere un principio personalistico. La richiesta più profonda dell'uomo è quella di giungere al Dio della coscienza religiosa, così come scopo del filosofo cristiano è quello di provare l'esistenza di Dio in cui per fede egli crede. Dalla presenza della Verità nel pensiero, alla permanenza finale del
soggetto nella Verità che 10 costituisce: il discorso di Sciacca resta
sem-
pre decisamente speculativo, in una direttiva costante di riafferrare nella verità, valida per l'uomo se razionalmente conquistata, il senso integrale del vivere. Accanito avvocato della metafisica, Sciacca era però allo stesso tempo anche e soprattutto un filosofo del concreto, della persona umana, e per altro verso un impetuoso alleato di chiunque combattesse quelli che con motto platonico chiamava i ”cavernicoli”. Sciacca si sentiva vicino ad Agostino non soltanto nell'ordine del pensiero (nella concezione dell'uomo e di Dio), ma anche in quelli dell'espressione e dell'indagine; Sciacca possedeva 1’appassionata finezza di certe analisi introspettive, la sottigliezza dellhrgomentazione e insieme Yeloquenza convincente del
dettato.
Augusto Guzzo Augusto Guzzo, nato a Napoli nel 1894, si è laureato nell'università della sua città natale nel 1915 con una tesi su I primi scritti di Kant (Napoli 1920). Insegno dal 1918 al 1924 nel liceo di Castellamare di Stabia, e nel 1924 vinse il concorso per la cattedra di filosofia al magistero di Torino. Di qui passò nel 1932 alla cattedra di morale della facoltà di lettere di Pisa, per tornare a Torino otto anni dopo, e passare, nel 1939, alla cattedra di teoretica, conservando per incarico quella di filosofia morale. Nel 1950 fonda la rivista Filosofia intorno alla quale raggruppa i suoi migliori allievi, tra cui Luigi Pareyson. Guzzo muore a Torino nel 1987. Assai vasta la sua produzione filosofica. Qui ci limitiamo a ricordare i titoli dei suoi scritti su S. Agostino: Agostino dal ‘Contra Academicos” al ”De vera religione" (1925); Agostino e il problema della grazia (1930), ripubblicato nel 1934 con il titolo Agostino Contro Pelagio; Agostino e Tommaso (1958); e della sua opera sistematica, che ha come titolo generale L'uomo,
Il ritorno a S.
Agostino
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divisa in sei trattati: I. L'io e la ragione; II. La moralità; III. La scienza; IV. L'arte; V. La religione; Vl. Lafilosofia (dal 1947 al 1980). La filosofia del Guzzo è chiaramente di stampo platonico-agostiniano, sia nel metodo (interioristico) sia nei contenuti, con la chiara affermazione del primato dei valori assoluti e perenni. ll suo obiettivo però non ‘e quello di riesumare il platonismo alla lettera, postulando un mon-
do ideale e assiologico pluralistico (come faceva Hartmann), con un numero sterminato di esseri e di valori ideali. Ciò che egli vuole ripristinare è il platonismo-esigenza contro il platonismo-dottrina: cade «quel platonismo volgare e triviale, che fa siepe al monoteismo vero dell'esigenza unica, monito del Dio unico alle conoscenze» e «resta eterno il platonismo della stimolazione dell'uomo da parte del divino, voce, nell'uomo, del Dio persona». Ciò che c'è di perenne nel platonismo, secondo Guzzo, è l'istanza di ancorare il tempo all'eterno, il sensibileall'ideale, il finito all'infinito, il contingente all’Assoluto, l'uomo a Dio: «siamo uomini per la tensione onde opponiamo il tempo all'eterno e l'eterno al tempo, lavoriamo il tempo per l'eterno, scolpiamo l'eterno nel tempo, esercitando nell'universo la tipica parte del Mediatore, che pianta l'eterno nel tempo facendogli ivi mettere radici e fiori e frutti, e trasferendo il tempo nell'eterno perché prenda valore d'eterno dacché è piegato a servirgli e a modellarsi nelle sue forme». Guzzo non vede nessuna incompatibilità tra idealismo e realismo. Il primo risolve l'essere nel pensiero; il secondo rivendica la real fa dell'essere. Ma che cosa significa "risolvere l'essere nel pensiero" e che cosa "filosofia dell'essere"? A coloro che sostengono che una filosofia dell'essere è quella che il Cristianesimo richiede per valere come pensiero, Guzzo risponde che la filosofia dell'essere serve al cristianesimo, ma non basta a presentarlo come tale. Perché il pensiero sia cristiano non è sufficiente distinguere l'essere intelligibiledall'essere sensibilenel tempo, ma è necessario, per salvare il concetto di creazione, essenziale al cristianesimo, considerare gli intelligibilinon necessari a Dio, creati da Lui. Prendendo in esame l'idealismo moderno, Guzzo concede che «ogni pensare è, incontestabilmente,egoità, in quanto l'actus cogitandi è essenzialmente soggetto, io», a cui è propria la ritmicità, cioè l'oltrepassarsi. <
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Parte terza
la realtà nell'atto del pensiero e identifica il bisogno dell'Assoluto con la totale immanenza di esso nell'esperienza umana, questo idealismo, che è antiidealismo e positivismo, non s'accorda col cristianesimo. «Se l'uomo è un bisogno d'Ass0Iuto che si esprime in una esperienza e perciò si rinnova, in questo bisogno d'Assoluto l'uomo non è l'Assoluto e se alcuni idealisti Yidentificano con l'Assoluto, hanno torto ma e dell'Assoluto, e gli idealisti che insistono sulla dignità incomparabile, unica, dell'uomo nell'universo, hanno ragione». Queste tesi stanno alla base dell'opera sistematica: L'uomo. Il "sìstema" non è concepito dal Guzzo come un trattato "positivo" o dogmatico, ma come una critica universale dell'esperienza umana; lmesperienza" è da lui intesa come esperienza di valori che lo spirito umano Cerca o produce, e la "critica" come una forma d'analisi della esperienza umana, la quale «ne ritrova il senso, quando ne mette in questione, ne Valuta o ne scopre la possibilità». Sebbene lo studio sia sempre orientato verso lo spirito umano, e l'intero sistema porti il titolo significativo L'uomo, non significa affatto che Guzzo consideri Dio e la natura come non aventi rapporto con la filosofia: —
-
«piuttosto si attiene al metodo veramente critico che consiste nel collocarsi nella coscienza che l'uomo ha della natura e di Dio, poi nello studiare la natura nella esperienza e nella scienza che l'uomo possiede, e
nello studiare Dio, prima nellesigenza e nell'idea che l'uomo possiede, poi nella rivelazione positiva che ne riceve. Ciò non deve far credere che, per Guzzo, lo spirito "ponga" o crei la natura e Dio, come se non sussistessero per se stessi; infatti per lui, "idealismo" non ha niente a che fare con "ideismo", così come "ideale" non ha nulla a che vedere con il senso corrente e comune della parola "idea"; e se un "ideismo" può sostenere che l'uomo, che la natura e Dio si riducono all"’idea" che l'uomo ne ha, un ”idealismo" che non ‘e "ideismo" sa benissimo che l'esperienza umana è "esperienza" in quanto attesta delle esperienze attive che le sono date da conoscere, cioè, da un lato, questa esistenza di fatto che chiamiamo "natura" (ivi compreso il nostro corpo) e, dall'altro, l'Atto onnipresente e onnipotente di Dio>>fl6
Guzzo viene in piena luce quando egli tratta della come per Agostino veritas nzater tcmporis. Si esclude così ogni forma di storicismo e di relativismo. Si chiede il nostro autore: «nella ricerca, il vero guida la ricerca o la ricerca produce il Vero?» La verità è un prodotto storico (film Ìemporis) o è l'autrice della storia (nmter tcmporis)? Per il Guzzo il vero orienta la ricerca e non nasce da essa, pur non restando estraneo ad essa, ma presente e operante nella coscienza
Uagostinismo del
verità. Per lui
1b)
M. F. SCIACCA,
Lafllnsofla oggi, Roma 1954, 2“ ed, p. 380.
Il ritorno a S.
Agostino
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che si sforza di ragionare. Ma è qui il punto: immanente non può signifiidentità con le singole idee, perché nessuna di esse è il vero, bensì un vero, come un'azione è morale quando è doverosa, ma nessuna azione morale è il dovere. Insomma anche qui dualità tra le idee vere e il vero, come tra le azioni doverose e il dovere: le idee vere e le azioni doveroso sono per il vero e il dovere e non viceversa. È questa «quell'aporia che è il pensiero, che non è tale senza la verità ed ‘e il pensiero solo se non è esso stesso la verità». Il nostro pensiero non è misura della verità, ed è vero soltanto in quanto e nella misura in cui si conforma alla verità. La verità è la misura, il pensiero è il misurato. Nell’l0 e la ragione, clopo aver posto la tendenza al vero come la tendenza dell'uomo che esprime esattamente la sua essenza, e dopo aver stabilito che il Vero è sempre presente all'uomo perfino nella ricerca ch'egli ne fa, Guzzo osserva che, proprio perché è un oggetto di ricerca il vero non s'impone con la forza, ma «gli si propone (all'uomo) chiedendogli la lealtà di una sincera adesione». Così l'uomo ‘e sempre tentato di rivoltarsi Contro il vero, o di falsarlo, ma quando accetta di seguirlo ”opta" per esso. La moralità consiste nella scelta, in questa opzione. Propriamente parlando «io non ho scelta né riguardo a ciò su cui debbo pronunziarmi col mio giudizio, né sulla sentenza che il mio giudizio pronunzia nelle condizioni in cui non può evitare o differire di pronunziarsi. Ma è lasciata tutta a me la scelta tra accettare il pronunziato del mio giudizio, o ribellarmiviolentemente o falsandolo». Violenza e falsità sono le due forme del male, «l'una ribelle, l'altra subdola». Dissociazione del bene, ipocrisia e ribellione, sono testimonianze involontarie della sua unità. «Unità inscindibiledi Verità oggettiva e di sincerità soggettiva il bene, la volontà buona: la ribellionerende omaggio alla sincerità, sacrificando la verità contro cui insorge; l'ipocrisia rende omaggio alla verità, che mantiene in onore, sacrificandola sincerità, a cui rinunzia». Come rileva giustamente Sciacca, Guzzo si trova perfettamente a suo agio nel piano fenomenologico: nel riflettere criticamente sulla attività umana e nel descriverne la ineludibileproblematicità, ma la sua ricerca è deludente sul piano metafisico. Infatti la soluzione dei problemi fondamentali che riguardano il pensare, l'agire e l'essere non è accessibile alla ragione, ma è un dono della fede: la filosofia (o la riflessione critica sull'attività umana) rivela all'uomo che le sue "risposte" sono inesaustive; da qui l'esigenza o l'aspirazione all'infinito, che solo la fede può soddisfare. Per Guzzo «scienza e filosofia (pur essendo irriducibili) hanno in comune l'apertura alla fede, in quanto né l'una né l'altra possono rispondere alla domanda "perché" esisto e penso ecc., cioè hanno in comune l'impossibilità di risolvere i problemi della metafisica e il rimando, per conseguenza, sulla base di un'esigenza dell'uomo sentita, alla fede religiosa. Se la filosofia, intesa come riflessione critica sull'atticare
736
Parte terza
vità umana si ferma a questo punto, non è ancora se stessa (o tutta se stessa), ma solo "introduzione" al filosofare, che sarà davvero integrale riflessione e critica esauriente quando avrà risolto, razionalmente e criticamente, quei problemi metafisici che (Guzzo) affida, come problemi, all'esigenza e, come soluzione, alla fede>x17
Romano Guardini Romano Guardini ‘e nato a Verona nel 1885 da genitori italiani, ma ha lasciato l'Italia quando aveva appena quattro anni per seguire il padre in Germania, a Magonza, dove dirigeva il consolato italiano; così compie tutti gli studi, fino all'università, in Germania, che diviene la sua seconda patria. Terminato il liceo stenta a trovare la materia a lui più congeniale. Prova dapprima le scienze naturali, poi l'economia politica, ma senza esito, anche perché si sente interiormentc travagliato e insoddisfatto. Finalmente scopre l'importanza decisiva della fede, che è un capovolgimento totale di ciò che agli occhi del mondo conta e vale, e decide di realizzare questo capovolgimento nella vita sacerdotale. Inizia gli studi teologici a Friburgo e li conclude a Bonn, conseguendovi l'abilitazione all'insegnamento in teologia dogmatica con una dissertazione su S. Bonaventura. Ordinato sacerdote nel 1910, dopo qualche anno di servizio pastorale in una parrocchia, Viene destinato all'insegnamento nell'università di Bonn e poi in quella di Breslavia. Nel 1923 da Berlino gli viene offerta la cattedra di Katholische Weltanschauung (Cosmovisione cattolica). In breve tempo il "professore cattolico" diviene una delle figure preminenti dell'università di Berlino. Ma con l'ascesa di Hitler al potere cominciano a sorgere difficoltà per la cattedra cattolica del Guardini, che nel 1939 viene definitivamente soppressa dal regime nazista. Caduto il nazismo ritorna all'insegnamento prima a Tubinga e poi, nel 1948, a Monaco. Nel 1952 gli viene conferito il Premio della Pace dagli editori tedeschi. Muore il 2 ottobre 1968. La produzione letteraria del Guardini è molto varia e vasta: quasi un centinaio di libri e diverse centinaia di articoli, in cui tratta di letteratura e di storia, cli filosofia e di teologia, di ecclesiologia e di cristologia, di liturgia e di morale, di fenomenologia e di antropologia cristiana. Al genere filosofico, più o meno direttamente, appartengono le opere seguenti: L'opposizione polare (Der Gegeizsatz) (1925); Mondo e persona (1939); La coscienza religiosa di Pascal (1935); La conversione di S. Agostino (1935); Figure religiose in Dostojevski (1939); Holderlin (1939); Libertà grazia e destino (1948); La fine dell'epoca nzoderna (1950); La sensibilità e la conoscenza religiosa (1950); Significato dell'esistenza in Rainer Maria Rilke (1953).
17) Ibid, pp. 386-387.
Il ritorno a S.
Agostino
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Guardini è filosofo, teologo, letterato, psicologo, fenomenologo, ma è anzitutto e soprattutto un credente, che vede, legge, interpreta e vive intimamente tutto quanto incontra nella luce penetrante e trasfigurante della fede. Le realtà trattate da Guardini sono molteplici: il mondo naturale e quello storico, il mondo liturgico e quello artistico, ma l'occhio con cui considera questo vasto orizzonte culturale è uno solo: è l'occhio della fede, che in lui è fede cristiana, più esattamente fede cattolica, e che sa a un
tempo illuminarela ragione e lasciarsi a sua volta rischiarare dalla
ragione, secondo la circolarità del programma agostiniano: «Credo ut intelligam» e «intelligo ut credam». La notevole caratura filosofica del pensiero di Romano Guardini ‘e ampiamente riconosciuta dagli studiosi delle sue opere. Secondo K. Rahner: «Guardini è un filosofo di rango. Infatti colui che pensa per amor dell'uomo e della sua salvezza non cessa però di essere un pensatore. Al contrario. Tanto più quanto si guardi alla sua interpretazione di altri pensatori della storia del pensiero occidentale (...). Tanto più quando si tengano davanti agli occhi tutte le importanti analisi che sono state offerte dal Guardini, allorché ha trattato problemi dell'uomo: la persona, la libertà, il destino, la natura, la comunità, la cultura, per nominare a caso solo pochi termini, senza poter dire qui, in misura adeguata alla realtà, quali vie di accesso a tali temi eterni dell'antropologia ci apra il Guardinimî“
Sommavilla, che oltre che eccellente traduttore delle opere filosofiche del Guardini in lingua italiana, è anche uno dei più profondi Guido
conoscitori del suo pensiero, afferma che quella del Guardini è a un tempo ”filosofia perenne" e "filosofia moderna”, in quanto vivifica il sistema della ricerca e della filosofia con un nuovo metodo (il metodo
dell'opposizione polare) e nuove problematiche (attinenti al1'antropol0— gia, alla cultura e alla religione). <
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Parte terza
che innalzate nella purezza originaria dell'atto e potenza metafisici, estensibili tomisticamente anche all'essenza e all'essere, ossia alla struttura metafisica d'ogni esistente finito in quanto tale. E che, purificate ulteriormente da ogni limitazione, ossia opposizione, ossia potenza, offrono un punto d'appoggio per l'elaborazione di un'idea dell'Essere sono
infinito, concepito come "Atto puro” o "Vita di tensione purissima”».2°
Pertanto, se ò innegabile, come sottolineano la maggior parte degli interpreti, la filiazione piatonico-agostiniana del pensare guardiniano, è pur vero che il dichiarato intento dell'autore di procedere verso un platonismo ”concreto" lo porta nelle vicinanze di Aristotele. Ciò è partico-
larmente evidente come osserva M. Borghesi per una delle nozioni chiave della visione guardiniana, quale è quella di "forma vivente", la cui figura, ritmata dalla tensione materia-forma è analoga al concetto aristotelico di entelecltia. Tradotta sul piano antropologico, quesfidea trova il suo corrispettivo nel rapporto polare che lega tra di loro anima e corpo?‘ Anche in questo caso l’analogia con la posizione aristotelica e, segnatamente, con la sua reinterpretazione da parte di Tommaso, è evidente. Come giustamente è stato fatto notare: «È interessante come Guardini, che fin dai suoi studi universitari ha sempre privilegiato la filosofia di Agostino e Bonaventura, valorizzi qui invece, per documentare la sua visione unitaria e integrale dell'uomo, la concezione dell'anima forma coriroris proposta da Tommaso d’Aquino>>.32 È ancora questa esigenza ”0rganica" e "unitaria" che, in sede gnoseologica, lo porta a dare vieppiù risalto alla conoscenza sensibile nel suo nesso con quella intellettuale. In sede metafisica, antropologica e gnoseologica, Guardini dimostra quindi di muoversi in un'orbita di pensiero che non solo è affine, ma in taluni punti nodali si svolge all'interno delle posizioni proprie della corrente aristotelico-tomista. Ciononostante se si vuole essere esatti, si deve riconoscere che analogie e identità di prospettive sono più il frutto di una convergenza in forza di un'esigenza speculativa di tipo "realista", che l'esito deliberato e consapevole di un ricupero teso a valorizzare una determinata tradizione. L’aristotelismo d'altra parte, come riconosce lo stesso Sommavilla, era «assai imperfettamente noto al giovane Guardini»,23 che «solo piuttosto tardi scoprirà la inseribilità organica dei principi aristotelico-tomisti nelle proprie strutture mentali».24 -
—
20) lbid, p. 34. 21) Cf. M. BORGHESI, Rormmo Guardini. Dialettica e antropologia, Roma 1990, pp. 27-’) 33) 14)
149150. 5. ZUCAL, «Uescatologia guardiniana fra filosofia e teologia», in AA. Vv., La Weltanschauwzgg cristiana di Romano Gmxrdini, Bologna 1988, p. 403, nota 11. G. SOMMAVILLA, 0p, cit., p. 20. Ittici, p. 114.
II ritorno a S.
La scelta della tesi dottorale
e
Agostino
739
della dissertazione per la libera docenza
(Privatdozenz), entrambe su Bonaventura, non è pertanto occasionale. Essa significa che Guardini «non ha preso posizione a favore della neoscolastica, né per Tommaso d'Aquino, e neppure per la caratterizzazionearistotelica della storia culturale occidentale. La scelta del grande teologo france-
dottore della Chiesa Bonaventura è in fondo la scelta dellantagonista immediato di Tommaso».25 L'ispirazione di fondo di Guardini è tutta calamitata verso la Trascendenza come in Platone e Agostino; ma l'attenzione per il "concreto" (la vita, l'esistenza, la storia, la cultura ecc.) conduce Guardini a percorrere lo stesso cammino di Aristotele e di Tommaso. l grandi fulcri su cui si concentra la riflessione filosofica di Guardini sono tre: il mondo della vita, il mondo della religione e il mondo della persona. Ed è stata una riflessione feconda, che è sfociata nella elaborazione della teoria dell'opposizione polare, nel concetto di rivelazione come incontro di Dio con l'uomo nella storia, e nella riaffermazione del carattere ontologico della persona. Esaminiamo brevemente l'insegnascano e
mento di Guardini su
questi tre punti.
IL SISTEMA DEGLI OPPOSTl
Studiando attentamente il mondo della vita, Romano Guardini scoesso possiede delle strutture essenziali comuni, precisamente quelle strutture che hanno cercato di decifrare, seppure con procedimenti diversi, tutti i grandi metafisici: da Platone ad Aristotele, da Plotino ad Avicenna, da S. Tommaso a Cartesio, da Leibniz a Hegel. Guardini, avendo acquistato, attraverso Scheler, familiarità con la fenomenologia, la quale si propone non tanto di fornire una spiegazione delle cose quanto di evidenziarne le strutture essenziali, se ne serve per cogliere la trama fondamentale della realtà vivente. Secondo Guardini, la trama fondamentale è costituita dallbpposizione polare (der Gegensatz). Egli osserva che tutta la realtà vivente e in particolare la vita umana è dominata dalla realtà degli opposti. Essa è una determinazione essenziale dell'uomo vivente. «La polarità appartiene ai tratti fondamentali della vita dell'uomo. Di qualunque suo fenomeno si tratti: anatomico-fisiologicoo emotivo o intellettuale o volitivo o sociale, sempre la polarità è forma fenomenica, forma strutturale e operativa della vita».26 La forma propria dell'unità vivente è di essere unità di opposti. Questa unità non pone luogo all'identità dialettica delle contraddizioni. «La teoria degli opposti non ha nulla da fare con tutto ciò. Essa parla di opposizioni non di conpre che
35) 36)
H. B. GERL, Roti-tam) Guardini. La trita c l'opera, Brescia 1988, p. 97. R. GUARDINI, L'opposizionepolare, in Scritti filosofici,Milano 1964, vol. I,
pp. 231-232.
74D
Parte terza
traddizioni»? La teoria degli opposti non è nuova nella storia della filosofia, anzi è presente in molti filosofi, tanto per fare qualche nome: in
Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele, Cusano, Giordano Bruno,
si preoccupa di mettere a confronto la propria teoria con quelle precedenti. Ma su un punto vuol essere chiaro: l'opposizione polare non ha nulla da Vedere con la dialettica hegeliana dei contrari. Secondo Guardini, Hegel non prende sul serio gli opposti: «non prende sul serio la loro significazione propria, la loro propria consistenlo può za. Egli gioca con la tragica serietà di questa duplicità, ed egli diventano delle cose perché per lui tutte le significazioni e le essenze monisticamente in fondo la stessa cosamît‘ Al contrario vera tensione polare è quella in cui «mai sarà possibileveramente derivare la struttura dell'atto; né il mutamento della duratamì‘? Ciò dipende dal fatto che le due parti ”opposte" «sono essenzialmente autoconsistenti (eigetzstfindig) ed esiste tra loro un reale confine qualitativo. Si può passare dall'una all'altra soltanto per mezzo di un atto specifico, d'un sorpasso qualitativo».3° È questa secondo Guardini la grande intuizione di Kierkegaard: «l'affermazione di una dialettica qualitativa con la quale egli si rivolta contro la dialettica di nzediazione hegeliana per cui romanticamente si eliminano tutte le distinzioni essenziali>>.31 Nel saggio L'opposizione polare (che ha come sottotitolo: "Saggio per modo organico una filosofia del concreto vivente”) Guardini presenta in di otto coppie di consiste Esso ed esaustivo il suo sistema degli opposti. elementi polarizzati, che il Guardini suddivide in due gruppi: opposizioni categoriali e opposizioni trascendcntali. Le opposizioni categoriali sono divise a loro volta in irttraempiriche e transempiriche. Complessivamente le serie risultano così disposte: a) opposizioni categoriali intraempiriche: Atto-Struttura, informe (Pienezza, Fiille)-Forma, Singolarità-To-
Hegel ecc.
Guardini
non
talità; b) opposizioni categoriali transempiriche: Produzione-Disposiziotrane, Originalità-Regola, Immanenza-Trascendenza;c) opposizioni Unità-Pluralità. scendentali: Affinità-Distinzione; Qui non è il caso di entrare nei dettagli e illustrare come Guardini
concepisce le singole opposizioni. È importante invece ritenere lale distinzione che egli pone tra opposizioni categoriali e trascendentali: prime «rappresentano gli ultimi gradi di universalità della polarità, nei quali la determinazione contenutistica la qualità dell'opposizione ancora -
-
27) Ibidfi, p. 235. 28) 11nd,, p. 159. 3°) lbfd.
3”) Ibid. 31) Ibid, nota.
Il ritorno a S.
Agostino
741
rimane; i supremi gruppi qualificativi dell'opposizionepolare>>.32 Invece
le opposizioni trascendentali si riferiscono non a determinati settori dell'essere o forme della vita bensì alla «opponibilitàin quantotalemì‘ sono prerogative della stessa relazione polare, la quale esige sia l'affinità sia la distinzione, sia l'unità sia la pluralità. Le otto coppie degli opposti Costituiscono, per Guardini, la struttura fondamentaledella realtà, di tutta la realtà, la quale pertanto nella sua filosofia non è altro che un complesso tessuto di opposti. La Weltanschauung guardiniana vuol perciò essere una completa ricognizione degli opposti, di tutti gli opposti, in modo che nessuno di essi venga esplicitamente 0 implicitamente escluso o misconosciuto, e allo stesso tempo ogni opposto sia visto nel suo rapporto con l'altro. Questa visione integrale del mondo, secondo Guardini, è di fatto preclusa alla ragione umana, che è irrimediabilmentemalata di unilateralità. Questa malattia si manifesta tutte le volte che la ragione soccombe a una delle componenti dell'essere e, assolutizzandola, la identifica con l'essere in quanto tale. Per guarire da questa malattia c'è un solo rimedio: la rivelazione. LA
RIVELAZIONE
Religione e rivelazione, Guardini fa vedere che l'esistenza dell'uomo incompleta senza la rivelazione divina. In linea con la sua teoria degli opposti Guardini esplora le varie direzioni in cui l'uomo può fare esperienza dei limiti (Grenze) del proprio essere e dell'impossibilità di superarli. Si tratta di un'esperienza dinamica, che induce l'uomo a una continua ricerca: un trovare e un perdere di nuovo, per muoversi verso un incontro più profondo. La comprensione umana del limite assume la forma del desiderio di significato e porta alla comprensione di un certo contenuto per poi frantumare ciò che si è capito, nella ricerca di un'ulteriore verità. Nonostante la natura simbolica dell'essere, sebbene ogni cosa parli di Dio e conduca a lui, tutto rimane indeterminato, camuffato e può perfino confondere l'uomo nella sua ricerca del significato. Solo la manifestazione che Dio fa di se stesso è capace di fornire una risposta In
è
chiara
risolutiva alla domanda esistenziale dell'uomo che cerca la verità. La rivelazione è l'incontro di Dio con l'uomo nella storia con tutto ciò che questa può avere di ambiguo, di oscuro e di tenebroso. Assumendo la natura di una parola, Pautomanifestazionedi Dio è un esempio della sua kenosis nella storia. La parola di Dio può passare inosservata, è soggetta a essere fraintesa e può persino destare scandalo. L'uomo e
32) Haiti, p. 150. P6) mici, p. 151.
742
Parte terza
nella condizione di riconoscere la parola di Dio fra le tante parole e i tanti eventi della storia. Questo è necessario anche e soprattutto nel momento in cui è Dio stesso, in persona, che Viene incontro all'uomo nella storia. Uincarnazioneè la realizzazione perfetta dell'incontro tra Dio e l'uomo. Dio entra personalmente nella storia degli uomini cosicché Gesù diviene l'espressione (Ausdrilck) e l'epifania del Dio vivente. In Gesù, Dio manifesta il suo "io" tripersonale e le sue disposizioni (Gesinnung) verso l'umanità. Il Dio fatto uomo costituisce in tal modo l'ultima parola di Dio. Cristo introduce una nuova creazione, una nuova umanità che Guardini chiama "interiorità cristiana". deve
perciò
LA
essere
PERSONA
Alla fine degli Anni Trenta, soprattutto per merito di Buber e di Mounier, in un mondo filosofico polarizzato tra Yesistenzialismoe il socialismo, si inaugura un nuovo indirizzo filosofico che prende il nome di personalistno. Esso si qualifica per il duplice obiettivo: difesa del valore assoluto della persona (contro il socialismo) e affermazione del vincolo sostanziale che unisce la persona alla comunità (Contro Tesistenzialismo). Guardini figura tra i massimi esponenti del personalismo, a cui ha dato un importante apporto con il saggio Mondo e persona. Dopo avere trattato nella Prima Parte del mondo naturale, nella Seconda l'autore affronta il tema della persona, la quale viene studiata da tre punti di vista: in se stessa, in rapporto agli altri e in rapporto a Dio. Vista in se stessa la persona, secondo Guardini, risulta Costituita di quattro elementi fondamentali:la forma, la vita, la psiche, la sussistenza. La persona possiede anzitutto una unità di struttura e di funzioni (è ciò che Guardini chiama forma). In secondo luogo, la sua unità di struttura è «determinata dal suo centro. Questo centro non è spaziale ma vitalc».34 Questo significa che Yautoedificazionedell'organismo «nasce da un'interiorità che si distingue dal mondo esterno».35 Terzo elemento costitutivo essenziale della persona è la psichicità, le cui manifestazioni princi— pali su cui si sofferma Guardini sono la coscienza, la volontà, la cultura e la libertàfié Ultimo e allo stesso tempo massimo elemento costitutivo della persona è la sussistenza: questa assicura alla persona il pieno possesso di se stessa mediante l'integrità e inviolabilitàontologica. È la prerogativa che l’individuo ha di essere in sé e di disporre di se stesso.
34)
3o)
R. GUARDINI, A/Iondo e persona, in Scritti filosofici il, cit., p. 73. p. 74. Cf. zbzd, pp. 75-79.
lbidî,
Il ritorno a S.
«"Persona" significa che
Agostino
743
i0, nel mio essere, in definitiva non posso venir
posseduto da nessun'altra istanza, ma che mi appartengo (...). Persona significa che io non posso essere abitato da nessun altro, ma che in rap-
porto a me,
solo
posso essere abitato da nessun garante per me; posso essere sostituito da nessun altro, ma sono unico il che resta fermo anche se la sfera di riserva viene fortemente guastata da intrusioni ed esteriorizzazioni>>.37 Vista in se stessa la persona gode di una straordinaria Completezza e ”c1ausura" ontologiche. Ma questo non giustifica la celebre definizione leibniziana dell'anima come monade senza porte e senza finestre. In effetti la persona trascende se stessa in due direzioni: verso gli altri e verso Dio. Studiando la persona nel suo rapporto con gli altri Guardini fa vedere che tale rapporto diviene positivo e contribuisce alla realizzazione della persona soltanto se viene inteso come rapporto dialogica, ossia come rapporto lo-Tu. Ora, «l'altro diventa un tu per me, solo se cessa la pura relazione di soggetto-oggetto. Il primo passo verso il tu è quel movimento che ”ritira le mani” e libera lo spazio in cui possa avere libero corso l’aut0finalismodella persona. È quel moto che rappresenta il primo effetto della ”giustìzia” e il fondamento di ogni "amore”. L'amore personale comincia in maniera decisiva non con un movimento verso l'altro ma da l'altro. Nello stesso istante si inverte anche il mio atteggiamento. Nella misura in cui io consento a colui, che prima consideravo come oggetto, l'atteggiamento dell'io emergente dal suo proprio centro e lascio che diventi il mio Tu, trapasso anch'io dall'atteggiamento del soggetto utilitarista o fazioso in quello dell’lo».38 Considerando la persona in rapporto a Dio, Guardinì fa vedere che il suo rapporto con Lui è ancora più importante e fondamentale di qualsiasi altro rapporto. Senza Dio, infatti, «la persona finita non è possibile. Non solo perché Dio mi ha creato e solo in Lui trovo l'ultimo significato della mia vita, ma perché io sussisto solo in rapporto a Lui. La mia persona, nei suoi elementi umani, non è completa al punto che possa porre il suo tu in Dio, ma possa anche rinunciarvi o rifiutarlo, e rimanere ancora persona. L'essere del mio io consiste invece per essenza nel fatto che Dio e il mio Tu».39 Approfondendo questo tema Guardini fa Vedere che la persona esige una triplice fondazione in Dio: ontologica (perché è finita), assiologica (perché è un valore assoluto), personale (perché è un io).
altro,
ma
io
sono
sono
stesso;
non
non
-
37) ibid, pp. 79490. 33) IbiaÎ, p. 88. 39) Hard, p. 94.
con me
744
Parte terza
Fin qui il discorso sulla persona ha carattere squisitamente filosofico. Nella parte conclusiva del saggio Mondo e persona Guardini approfondisce lo studio della persona in rapporto a Dio anche dal punto di vista teologico: è il rapporto nuovo che si realizza per opera di Cristo e con l'inserimento della persona in Lui, grazie al quale la persona «acquista un centro nuovo e una forma nuova di esistenzawl“ «Il rapporto io-tu, di cui sopra s'è parlato e da cui la persona umana sua ultima definizione, non si rivolge semplicemente a "Dio”, ma al Dio uno e trino. Si inserisce nelle relazioni in cui il Cristo sta in ordine al Dio uno e trino. Il rapporto io—tu dell'uomo con Dio consiste nel non-compimento del rapporto con Dio del Cristo. Il Tu vero e definitivo è il Padre. Quello che dice veramente al Padre ”Tu" è il Figlio. Diventare cristiani è entrare nella esistenzialità del Cristo. L'uomo rinato nel Cristo dice ”Tu" al Padre in quanto gli è concesso di prender parte al "Tu" del Figlio. Egli non dice ”Tu” al Cristo in senso ultimo e definitivo. Non si mette di fronte a lui, ma cammina insieme con lui, "10 segue”. Entra in lui e compie con lui l'incontro (m). Lo colloca di fronte al Padre e lo rende idoneo a pronunciare il genuino ”Tu”. Questa è la prospettiva da cui dipende in ultima istanza la personalità cristiana, e da cui quanto s'è detto fin qui riceve
deriva la
l'impronta definitivam“
Da
quanto siamo andati esponendo risulta che quello di Guardini è
personalismo comunitario, teocentrico e trinitario e si dovrebbe aggiungere, ecclesiocentrico, perché è nella Chiesa che la personalità cristiana consegue la consacrazione e la realizzazione, completa, definitiva
un
e
conclusiva.
40) Ibid., p. 101. 41) Ib1d., pp. 105-106.
ll ritorno a S.
Agostino
745
Suggerimenti bibliografici Mentre su Cuardini esiste una cospicua letteratura, poco è stato scritto su Sciacca e su Guzzo, specialmente sul secondo, che attualmente è quasi completamente ignorato. Ecco un elenco dei più importanti studi su
questi tre filosofi.
SCIACCA AA.
VV., Michele Federico Sciacca (1938-1968),Milano 1968.
G. GIANNINI, La filosofia dellfiiztegralita. Il pensiero di M. F. Sciacca nei suoi nzomenti essenziali e nel suo fondamento ontologico-nzetafisico, Milano 1970. A. NEGRI, Dall’attualismoallafilosofiadellîntegralita, Bologna 1963. P. P. OTTONELLO, Bibliografia di M. F. Sciacca (dal 1931 al 1968), Milano 1969. F. PERCIVALE, M. F. Sciacca e il rosmirzianeisnio, Genova 1987.
Cozzo F. P. ALESSIO, Stadi sul neospiritualismo, Milano 1953, pp. 55-88. L. BOTTANI, L'0ceano delle forme e l'interpretazione. Elementi della teoria del-
l’arte di A. Gazzo, in «Filosofia» 39 (1988), pp. 155-165. FERRARI, Augusto Gazzo e l'idealismo. Originalità di una posizione, in «Sapienza» 41 (1988), pp. 39-54. A. PLEBE-M. F. SCIACCA-L. PAREYSON-V. MATHTFU-E. ARLAND], Augusto Gazzo, Torino 1954. M. F. SCIACCA, La filosofiaoggi, Milano 1954, V01. Il, pp. 374-387. P.
GUARDINI A. BABOLIN, La filosofia dellalterità, 2 v0ll., Bologna 1968-1969. H. U. v. BALTHASAR, Romano Guardini: riforma delle origini, Milano 1970. M. BORGHESI, Romano Gaardirzi: dialettica e antropologia, Roma 1990. H. B. GERL, Romano Cuardini: la vita e l opera, Brescia 1988. A. L. QUINTAS, Romano Gaardini y la dialectica de lo vivente, Madrid 1966. G. SOMMAVILLA, La filosofia di Romano Gaardim’, in R. GUARDINI, Scritti filosofici, V01. I, Milano 1964, pp. 3-121. S. ZUCAL, Romano Gaardini e la metamorfosi del fireligioso” tra moderno e post-nzoderno, Urbino 1990.
746
ANALISI LINGUISTICA, ERMENEUTICA E METAFISICA
Nonostante la sua sostanziale antimetafisicità il Novecento non è stato completamente alieno alla metafisica. Come abbiamo potuto vedere nei precedenti capitoli, in questo secolo ci sono stati significativi ritorni sia ai grandi metafisici dell'antichità, come Parmenide, Platone, Aristotele, sia ai metafisici cristiani del medioevo, Agostino e Tommaso, e c'è stata soprattutto la riscoperta della metafisica di Tommaso per opera del neotomismo. Però, è un fatto innegabile, che nella grande fiumana della filosofia del Novecento, la ripresa della metafisica è stata oscurata e quasi travolta da altre correnti ben più note e più robuste, quali il ne0positivismo, lo storicismo, il pragmatismo, Pesistenzialismo, il marxismo, lo strutturalismo, tutti indirizzi filosofici profondamente antimetafisici, e per questo motivo di essi non si è fatta parola nel nostro studio. Meritano invece una considerazione a parte l'indirizzo linguistico e la nuova ermeneutica, perché più che di due sistemi si tratta di due metodi, che in quanto tali non sono necessariamente antimetafisici, ma possono associarsi alla metafisica come suoi alleati, anche se poi, di fatto, sono stati quasi sempre presentati come alternativi alla metafisica. L'obiettivo del presente capitolo non è quello di ricostruire la storia di queste due importanti correnti filosofiche, ma semplicemente di analizzare quali sono stati e quali possono essere i rapporti dell’ana1isi linguistica e della ermeneutica con la metafisica.
L'analisi linguistica e la metafisica L'analisi linguistica è sorta con intenti apertamente antimetafisici. Infatti la ”svolta linguistica" è nata dal convincimento che là dove non erano riusciti i precedenti filosofi con lo studio dell'essere oppure con la critica del conoscere, avrebbe avuto una miglior sorte una ricerca filosofica condotta mediante l'analisi del linguaggio. In realtà l'indirizzo linguistico ha avuto due fasi: la prima, quella del ”neopositivismo" o ”positivismo logico” è caratterizzata da un chiaro e categorico rifiuto della metafisica; la seconda, che ha preso il nome di ”analisi linguistica", assume invece un atteggiamento meno ostile alla metafisica, e non pretende più di prendere il suo posto.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
747
LÎANTIMETAFISICITÀDEL CIRCOLO DI VIENNA
filosofia trova la sua prima grande fase
La ”svolta linguistica" della nel Circolo di Vienna (Wienerkreis). E
proprio qui che ha avuto luogo la rivoluzione copernicana della jîlosofia: mentre la rivoluzione copernicana di Kant aveva cercato di risolvere i problemi filosofici mediante la critica della conoscenza, la rivoluzione dei viennesi cerca la soluzione dei problemi filosoficinello studio, nell'analisi e nella critica del linguaggio. È su questo punto che si trovano tutti d'accordo i membri del Kreis: L. Wittgenstein, M. Schlick, R. Carnap, O. Neurath, V. Kraft, F. Waismann ecc. Questi studiosi provenivano tutti dalle scienze empiriche o dalle matematiche, e nei loro incontri si resero conto che la questione del linguaggio era una questione di capitale importanza: era fondamentale stabilire quando il nostro linguaggio ha carattere empirico, scientifico e nuova
semplicemente emotivo, vale a dire quando esprime concetti e non sentimenti, quando descrive stati di fatto e non stati soggettivi. Essi si
non
trovarono finalmente d'accordo nell’assumere come criterio la
verifica
sperimentale. Secondo tale criterio sono cognitive, ossia scientifiche le proposizioni che sono traducibili in asserti che, in definitiva, possono essere constatati con i sensi. Assunto il criterio della verifica sperimentale i viennesi trassero la logica conseguenza che tutte le proposizioni metafisiche (come pure le proposizioni dell'etica, della estetica e della religione) sono inverificabili,e che pertanto la metafisica non può essere una scienza, ma è una raccolta di affermazioni fantastiche e insensate. Ecco alcune dichiarazioni molto esplicite a questo proposito di Wittgenstein e di Carnap, che sono stati i due più autorevoli esponenti del Wicnerkreis. Ludwig Wittgenstein (1889-1951) nel suo celebre Tractatus logicus-phiZosoplîiczis (1921), opera divenuta celebre per la sua forma ermetica e suggestiva, scrive: «ll vero metodo della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non quello che può dirsi cioè le proposizioni scientifiche qualcosa dunque che non concerne affatto la filosofia; e ogniqualvolta uno volesse proferire alcunché di metafisico, dimostrargli che nelle Sue proposizioni egli non ha dato significato a certi segniw In queste tre righe si trovano, lucidamente espressi, i tre canoni fondamentali del neopositivismo o positivismo logico. Essi sono: a) i problemi filosofici possono essere risolti con la sola analisi del linguaggio («il vero metodo della filosofia sarebbe propriamente questo»); b) solo le proposizioni sperimentali o fattuali o scientifiche hanno senso («nulla dire se non quello che può dirsi; cioè le proposizioni scientifiche»); C) le proposizioni della metafisica, come quelle dell'estetica, della morale e della religio—
l)
L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosoplzicus,prop. 6.53.
748
Parte terza
ne sono prive di contenuto, in quanto ogni contenuto proviene dalla esperienza e, perciò, sono prive di senso («ogniqualvolta uno volesse proferire alcunché di metafisico, dimostrargli che nelle sue proposizioni
egli non ha dato significato a certi segni»).
La radicale anti metafisicità di questa prospettiva viene ribadita da Wittgenstein in un’altra proposizione del Tractatus, dove si dice: «La maggior parte delle proposizioni e delle questioni che sono state scritte in materia di filosofia non sono false ma insensate. A questioni di questo genere, perciò, non possiamo affatto rispondere, ma solamente stabilire la loro insensatezza. La maggior parte delle questioni e proposizioni dei
non comprendiamo la logica del nostro della specie della questione, se il bene sia più o meno identico al bello). Né meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi»! Com'è noto, c'è anche un ‘Secondo Wittgenstein”, quello delle Ricerche filosofiche. Ma in quest'opera, pur modificando profondamente la sua concezione del linguaggio passando dalla teoria del linguaggio ”specchio delle cose”, alla teoria del linguaggio come un insieme di "giochi" (Sprachspieie) Yantimetafisicità di fondo resta inalterata: il suo giudizio sulla metafisica continua a essere pesantemente negativo. La metafisica rimane per lui un insieme di stati patologici della mente. Compito della filosofia è portare alla luce questi stati, queste malattie della mente, descriverle e, in tal modo, superarle. Il lavoro del filosofo è simile al lavoro di colui che si industria a indicare alla mosca la Via d'uscita dalla bottiglia in cui è caduta! Rudolf Carnap (1891-1970) dà un taglio antimetafisico ancora più netto alla sua "costruzione logica del mondo”. In un celebre saggio intitolato: Superamento della nzetafisica mediante l'analisi logica del linguaggio} Carnap afferma recisamente che compito della filosofia non è quello di costruire teorie, sistemi, ma di elaborare un metodo, il metodo dell'analisi logica o linguistica e, con esso, vagliare tutto quanto viene affermato nei vari campi del sapere. Tale metodo ha una duplice funzione: togliere di mezzo le parole prive di significato e così pure le pseudo-proposizioni, chiarire i concetti e le proposizioni aventi significato, per dare una fondazione logica alla scienza sperimentale e alla fisica.5 Per Carnap la domanda cui si deve rispondere prima di affrontare qualsiasi problema filosofico è la seguente: «In che cosa consiste il signi-
filosofi derivano dal fatto che
linguaggio. (Esse
sono
—
-
2) lbid, prop. 4.003. 3) Cf. L. WITTGFNsTEIN, Pliiiostiphicai lnvestigatians, New York 1953, 1m. 113 e 309. 4) R. CARNAI’, Ueberîuindung der Metrzplzysik durch [agisci-re Analyse di?!’ Sprachc, 5)
in «Erkenntnis» 11 Cf. ihicL, p. 236.
(1931-1932),pp. 236 ss.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
749
parola, di una proposizione?» A suo giudizio la risposta non può essere che questa: «Il significato di una proposizione sta nel metodo della sua verifica. Perciò, una proposizione, se significa qualcosa, può significare soltanto un dato empirico. Qualcosa che per principio, fosse al di là dello sperimentabilenon potrebbe né essere detta né pensata né posta in questionewî Il metodo della verifica consiste pertanto nel tradurre la proposizione di cui si vuole determinare il significato in una serie di proposizioni sperimentali. Quando «una proposizione non è traducibilein proposizioni di carattere empirico (...) non e affatto un'asserzìone: non dice nulla; non è altro che una serie di parole vuote; è semplicemente senza senso>>.7 Applicando il principio della verifica sperimentale ai diversi tipi di linguaggio in uso nei vari campi della cultura, Carnap giunge alla conclusione, già enunciata da Wittgenstein, che soltanto il linguaggio scientifico (quello cioè delle scienze sperimentali) ha significato teoretico; mentre il linguaggio metafisico, etico, religioso, estetico, letterario, può avere soltanto un significato emotivo. Con questa filosofia del linguaggio crolla ovviamente e volutamente anzitutto la metafisica e poi, non meno rovinosamente, anche la religioinferire ne. «È impossibile dichiara Carnap ogni metafisica che voglia là di il trascendente, cioè ciò che giace al dell'esperienza, dall'esperienza ficato di
una
-
stessa
—
(...). Non c'è affatto una filosofia come teoria, come sistema di
proposizioni con caratteristiche proprie, che possano stare accanto a quelle della scienzamfi È pertanto impossibile qualsiasi visione del mondo che abbia la pretesa di essere l'ultima risposta all'ultima domanda, che voglia fornire la chiave risolutiva dei cosiddetti problemi ultimi: esistenza di Dio, immortalità dell'anima, una norma assoluta dell'agire, senso della storia. Anche la religione è priva di qualsiasi fondamento
teoretico. Di questa, come della metafisica, Carnap dice che è solo una mediocre espressione del sentimento vitale. Ben presto le tesi linguistiche del neopositivismo risultarono eccessive e suscitarono una decisa e vasta reazione, particolarmente in Inghilterra. Filosofi autorevoli, come C. E. M. Ioad, C. I. Lewis, A. C. Ewing, G. J. Warnock, si schierarono contro il ”positivismo logico" e ne misero in evidenza la superficialità e le contraddizioni interne. Mostrarono che il principio di verificazione, nonostante tutti i suoi meriti, è autoconfmddittorio (in quanto è un asserto non verificabile)e criptometafîsico (in quanto aprioristicamente, categoricamente e immotivatamente esclude dall'ambito del "sensato” proposizioni come quelle etiche, quelle metafisiche e
6) Ibìd. 7) R. CARNAP, Philosophy and logica! Sintax, London 1935, pp. 13-14. 5) ID., Ueberwirtdung der Metaphysikm, cit., p. 240.
750
Parte terza
quelle religiose, senza chiedersi se per caso il concetto di "senso” più ”sensi" e non solo quello della scienza) ed è incapace essendo induttivistico di dar conto degli assetti universali delle teorie
ammetta
-
—
scientifichcfl
Ha così inizio la seconda fase della ”svolta linguistica" che questa volta ha come centri principali le università di Oxford e di Cambridge.
ÎJAPERIUIQA METAFISICA DEGLI ANALISTI INGLESI
partire dagli Anni Cinquanta, sotto l'impulso di Wittgenstein e Carnap, si sviluppa in Inghilterra quel movimento filosofico che va sotto il nome di analisi linguistica (Lingziistic Analysis). Come si è detto i suoi centri principali furono Oxford, con]. L. Austin (1911-1960), G. Ryle (1900-1978), P. F. Strawson (1919), e Cambridge con]. T. Wisdom (1904). Gli analisti inglesi fanno propria l'impostazione linguistica del filosofare assunta dai filosofi del Wienerkreis, e di conseguenza respingono la concezione tradizionale della filosofia, che assegnava a questa il compito di studiare una sfera della realtà diversa da quella delle altre scienze. A loro avviso il suo compito non è acquisire nuove informazioni su qualche realtà speciale, trascendente, soprannaturale, bensì chiarire quanto è già conosciuto in maniera diversa. Così, per esempio, tutti sappiamo che ci sono relazioni causali (che il fuoco brucia, che l'acqua bagna, che la gallina fa l'uovo ecc.); non è certo il filosofo a scoprirle per primo. Ma conoscere i rapporti causali è una cosa, e intendere il significato della proposizione ”A è causa di B” un'altra. Questo è compito del filosofo. Tutti i problemi della filosofia, secondo gli analisti inglesi, possono e devono essere studiati in chiave linguistica: quelli psicologici come quelli metafisici, quelli etici come quelli religiosi. ln tal modo si hanno cambiamenti importanti nella problematica filosofica. Così, per esempio, il problema degli universali diviene il problema della possibilità dell'uso di termini astratti come i nomi propri; il problema della legge morale diviene il problema della logica delle proposizioni imperative; il problema dell'essere si risolve nel problema delle proposizioni esistenziali. In altre parole, i problemi filosofici sono problemi del signiA
ficato di certi termini. Mentre i neopositivisti, assumendo come criterio di significazione il principio di vetrificazione, avevano etichettato i problemi della metafisica come stati patologici della mente, gli analisti cercano un nuovo e più
9)
«ll principio di verificazione è una proposizione di metafisica c, quindi, se si deve credere al positivismo logico, priva di senso» (C. E. M. IOAD, A Critique of Logica! positivism, Chicago 1950, p. 71).
Analisi linguistica, ermeneutica e
metafisica
751
ampio criterio di significazione in grado di sceverare l'esatto significato che una parola possiede nei diversi giochi linguistici. Però su questo punto essi non hanno raggiunto una soluzione unanime. Alcuni vogliono che la funzione di criterio spetti al linguaggio ordinario (di tutti i giorni) e perciò concepiscono la filosofia come una indagine sul parlare comune. Altri invece affidano ia funzione di criterio a un linguaggio speciale, regolato, istituzionalizzato. Per linguaggio ”regolato” essi intendono qualsiasi linguaggio che sia usato con un corredo sufficiente e appropriato di regole. Secondo gli analisti di questo gruppo, l'analisi filosofica ha il compito di verificare se nell'analisi dei Vari linguaggi (etico, estetico, metafisico, religioso ecc.) ci si è mantenuti alle regole che
li governano, e inoltre di vedere se e per quali ragioni le loro regole siano difformi da quelle del linguaggio regolato") G. Ryle assegna alla ricerca filosofica un duplice compito: eliminazione degli errori ed elaborazione di una certa ”geografia logica”. E raggiunge il secondo obiettivo realizzando il primo, escludendo, cioè, il cosiddetto "errore categoriale”, il quale consiste nell’assegnare un concetto a una categoria logica a cui non appartiene, e ciò equivale alla violazione dell'uso del linguaggio. La causa di questi errori è da ricercarsi non nella incapacità di usare i concetti, ma nel fatto che se ne ignorano le regole d'uso. L'indaginelogica intorno al linguaggio è, perciò, lo strumento più efficace per smascherare gli errori categoriali. Altra funzione positiva che Ryle assegna alla filosofia è «determinare gli intrecci di tutta la galassia di idee che appartengono agli stessi campi o a campi contigui» a quelli dei singoli concetti che prende in esame. Così facendo, essa stabilisce mappe dettagliate degli usi dei concetti, dando luogo a una geografia logica. Mentre anche Aristotele assegnava il primo compito alla logica, a suo giudizio il secondo compito, tracciare mappe dettagliate dell'uso dei concetti primari, spetta alla metafisica. Per questo motivo egli dedica un intero libro della sua Metafisica alla classificazione degli usi di termini come ”principio”, ”ente”, ”sostanza", ”accidente",
"identità", "relazione", ”essenza”, ”causa”, ”potenza", ”privazìone",
"passione”, "disposizione", ecc.“ Iohn T. Wisdom è stato il massimo esponente dell'analisi linguistica nell'università di Cambridge. Egli afferma che i problemi metafisici non concernono i fatti e quindi non si risolvono mediante l'osservazione della realtà. Tuttavia i paradossi metafisici non sono inutili. La loro pretesa di andare oltre ciò che si manifesta ai sensi è priva di fondamento, però rivela certi nessi e certi rapporti strutturali del reale che per lo più, m) H)
Cf. I. O. URMSON, L'analisi filosofica. Origine Milano 1966. Cf. ARISTOTELE, Metafisica, libro V (Delta).
e
sviluppo della filosofia analitica,
752
Parte terza
anche allbsservatore più attento, sono nascosti. Gli enunciati dei metafisici, invero, riconosce Wisdom, contengono sempre ”penetranti suggestioni". Sulla questione dibattutissima nel mondo accademico inglese negli Anni Cinquanta e Sessanta Wisdom intervenne con un celebre saggio intitolato ”G0ds” (= Dei),12 in cui mostra che la differenza tra teisti e atei non è semplicemente differenza di sentimenti e di atteggiamenti emotivi di fronte al mondo. Sia il teista sia l’ateo cercano di scoprire nel mondo modelli di strutture che fungano da sostegno del proprio punto di vista; il che costituisce un procedimento empirico, benché probabilmente non conclusivo. P. F. Strawson ha elaborato una metafisica descrittiva. Questa, sulla scia di quanto hanno fatto in alcuni scritti Aristotele e Kant, intende limitarsi «a mostrare come siano tra di loro legate le categorie fondamentali del pensiero e come queste si colleghino alle nozioni formali, quali “esistenza”, ”identità”, ”unità".13 Strawson ha dato un esempio di metafisica descrittiva nel suo volume Individuals: An Essay in Descriptive Mefaphysicsfl‘! dove analizza, esattamente descrivendolo, il concetto di individuo. Si tratta, in breve, e in un certo senso, di un ritorno a un'analisi categoriale di tipo kantiano effettuata con gli strumenti approntati nell'arsenale del Secondo Wittgenstein. Alla filosofia analitica ha prestato grande attenzione, considerandola un possibile alleato e non necessariamente un nemico della metafisica e della religione, il vescovo anglicano lan T. Ramsey (1915-1972) che fu studente e per qualche tempo anche professore a Oxford. Fondamentale è il suo volume Il l inguaggio religioso (1957). Contro i neopositivisti e gli analisti atei, i quali con criteri semantici assolutamente unilaterali, pretendevano di ridurre la metafisica al nonsenso e la religione e il suo linguaggio alla tenebrosa sfera della emotività, Ramsey si è dedicato con grande impegno a Verificare tali pretese e a smentirle mostrando che anche nella religione e nel suo linguaggio esiste una buona dose di razionalità, per la quale non mancano appropriati criteri di verifica. Ramsey parte dal presupposto che la religione scaturisce da fatti che Vengono percepiti quasi in una Wlluminazitme”, che ne determina appunto la religiosità. A tali situazioni si accompagna un linguaggio adeguatamente "strano” la cui funzione è proprio quella di essere "veicolo” di tale illuminazione.Ma anche per la religione e il suo linguaggio è possibile un controllo, così da verificarne le ”pretese cognitive” (cognitive cluims). Ovviamente non è possibile reclamare queste prestazioni dalla -
-
12) Cf. j. T. WISDOM, Gods, in Philosophy and Psyclzo-analysis,Oxford 1953, pp. 148-168. 13) Cf. P. F. STRAWSON, Analyse, Science et Métaphysique, in AA. Vv., La philosophie analytique, Paris 1962, p. 115. 14) ID., lndividuals: An Essay in Descriptive Metaphysics, London 1959.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
753
scienza, dall'etica e dall'estetica. L'unica disciplina in grado di farlo,
secondo Ramsey, è la metafisica la quale assolve il suo compito mostrando che "Dio” non è una parola vuota, ma un termine che funge da "integratore" supremo per la ‘sistemazione cosmica" (COSTHÌC mapping) di ogni esperienza. La metafisica può evocare la coscienza di Dio in veste di supremo integratore di ogni esperienza, ricorrendo alle ”prove" tradizionali della sua esistenza. ALTRI ESPONENTI DELLA FILOSOFIA ANALITICA E LE LORO VALUTAZIONIDELLA METAFISICA
La ”via" linguistica del filosofare è stata percorsa oltre che dai neop0sitivistî viennesi e dagli analisti inglesi, anche da molti altri filosofi, tra cui meritano una citazione particolare l'austriacoKarl Popper, l'americano Paul Van Buren e l'italiano Dario Antiseri. Qui li ricordiamo in quan-
to trattando della metafisica hanno espresso giudizi parzialmente favorevoli nei suoi confronti. Karl Popper (1902-1994) è stato anzitutto e soprattutto un grandissimo epistemologo e con le sue teorie egli ha contribuito in modo decisivo all'abbattimento della dittatura della scienza e del dogma della sua infallibilità.Il suo approccio al valore delle teorie scientifiche è stato sostanzialmente quello dell'analisi linguistica, dove si è guadagnato una enorme celebrità sostituendo il criterio della Verifica sperimentale del Wienerkreis con il criterio della falszflcabilità.In breve, questo criterio stabilisce che una teoria può considerarsi scientifica soltanto se soddisfa a due condizioni: a) essere falsificabile,ossia poter venire smentita o contraddetta in linea di principio; b) non essere ancora stata trovata falsa di fatto. Scrive Popper: «Ogni volta che uno scienziato pretende che la sua teoria sia sostenuta dall'esperienza e dalla osservazione dovremmo porgli la seguente domanda: Puoi descrivere una qualsiasi osservazione possibile che, effettivamente compiuta, confuterebbe la tua teoria? Se non lo puoi, allora è chiaro che la teoria non ha il carattere di una teoria empirica; infatti se tutte le osservazioni concepibilivanno d'accordo con la tua teoria, allora non hai il diritto di pretendere che una qualsiasi osservazione particolare offra un sostegno empirico alla tua teoria. Oppure, per dirla più in breve: solo se puoi dirmi in qual modo la tua teoria possa essere confutata o falsificata, possiamo accettare la pretesa che la tua teoria abbia il carattere di una teoria empirica».15 «Una teoria che non può venire confutata da nessun evento concepibilenon è scientifica. Uinconfutabilitàdi una teoria non è (come spesso si ritiene) una Si può riassumere tutto questo col dire che il Virtù, bensì un vizio -
15)
K.
POPPER, Scienza efilosqfia, Torino 1969, pp. 130-131.
754
Parte terza
criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilitào confutabilìtà o controllabilitàmlò Pertanto, non la venflcabilità,come sostenevano i neopositivisti viennesi, è il criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e teorie che non lo sono (per es. le metafisiche, le teologie della storia, certe teorie psicanalistiche ecc), bensì la loro falsjicabilità.In effetti, una legge scientifica non
potrà
mai
essere
completamente verificata, mentre invece può esse-
totalmente falsificata. E questo ‘e accaduto molto spesso nella storia del pensiero scientifico. Precisandt) il ruolo del criterio di falsificabilità, Popper chiarisce che «esso non implica che le teorie inconfutabilisono false, e non implica neppure che sono prive di significato. Ma implica che, finché non possiamo dare una descrizione dell'aspetto che ha una possibileconfutazione della teoria, allora quella teoria è al di fuori della scienza empiricam” Come si è detto, con il criterio di falsificabilitàPopper ha inteso tracciare una chiara linea di demarcazione tra ciò che appartiene alla scienza e ciò che non le appartiene. Ma come ha dichiarato apertamente lo stesso Popper, con questo criterio egli non ha inteso negare la metafisica come avevano fatto i neopositivisti né accantonarla come qualcosa di antiquato come in precedenza avevano fatto i positivisti. Secondo Popper la metafisica può svolgere funzioni positive. Essa precorre la scienza, è la sua sentinella più avanzata, che anticipa visioni e soluzioni, che successivamente la scienza trasformerà in teorie verificabili. Secondo Popper, «la maggior parte dei sistemi metafisici può essere riformulata in modo tale da diventare problemi di metodo scientificoax.” E questo si fa tanto più chiaro se richiamiamo alla memoria che la stragrande maggioranza delle nostre teorie scientifiche hanno origine dalla mitologia e dalla metafisica. Il sistema copernicano, per esempio, fu ispirato dalla venerazione neoplatonica della luce del sole, che avrebbe dovuto occupare il centro a motivo della sua nobiltà. Questo significa che dai miti e dalle cosmovisicmi metafisiche si possono sviluppare componenti confermabili.” Paul Van Buren (nato a Norfolk in Virginia nel 1924), dopo aver sposato per qualche tempo i canoni del neopositivismo ed essersene servito per spiegare ”il significato secolare del Vangelo" (The secular Meaning of the Gospel è il titolo della sua opera più famosa), dando così re
16) ID., «Il criterio della rilevanza scientifica», in l! neoposftivismo, a cura di A. squinelli, Torino 1969, pp. 702-703. 17) ID., Scienza efilusofia, Torino 1969, pp. 131 s. 15) ID., La miseria della storicismo, Milano 1954, p. 25. 19) Cf. ID., The Dcmarmtion betwcen Science and Mctaplzysics, London 1963, p. 257.
Pa-
Analisi linguistica, ermeneutica e
metafisica
755
”te0logi della morte di Dio”, si è convinto deIl’assurdità di questa filosofia, e ha abbracciato le posizioni della filosofia analitica cercando di conciliarlecon le esigenze della metafisica e della religione. The Edges of Languagge (Alle frontiere del linguaggio) (1972) è l'opera che meglio documenta la sua conversione alla filosofiaanalitica. In questo saggio Van Buren osserva che non c'è un solo modo di parlare del mondo, ma ‘Tanti modi differenti"; fra questi tre in particolare: C'è il modo fattuale, descrittivo, che si usa per gli oggetti; c'è il modo personale, che è quello che si adopera per parlare con e man
forte ai
-
-
delle persone; c'è il modo omniconclusivo, che "mette insieme tutte le cose che riguardano il mondo". Del terzo modo di parlare del mondo si avvalgono sia la metafisica sia la religione. L'uso che fanno del linguaggio la metafisica e la religione, nota Van Buren, è un uso speciale, dove il significato delle parole viene spinto verso le estreme frontiere di ciò che è umanamente dicibile. Per metafisica Van Buren intende «il tentativo di chiarire le basi del nostro pensiero e i fondamenti del nostro linguaggiomî" È ovviamente una definizione parziale, in quanto omette il compito primario della metafisica, che è quello di chiarire i fondamenti degli enti; ma è una definizione passabile; perché poi di fatto quando Van Buren elenca i problemi nel campo della metafisica, mette al primo posto un problema ontologico, il problema "dell'uno e dei molti", a cui affianca il “problema del senso della vita" e il problema della conoscenza degli altri: «Possiamo sapere che ci sono altre menti?».21 Tutte queste questioni sono perfettamente legittime e le risposte che i metafisici tentano di dare non sono insensate. Però per trattare di queste questioni il metafisico spinge il linguaggio alle sue estreme frontiere, ricorrendo a parole come ”ultimamente versamente” e facendo uso del paradosso. -
Il
Il
,
«Dire che il mondo è ultimamente non uno ma più, o che non conosceremo mai veramente altre menti, o che la vita non può avere un senso, di primo acchito sembra falso, o pare almeno che abbia bisogno di essere controbilanciatadall'affermazione contraria. Il mondo, infatti, ha una certa unità, e noi conosciamo qualcosa delle altre menti, e la vita ha un qualche senso. Ma le cose paradossali che i metafisici dicono, possono portarci a vedere un aspetto della questione che prima potremmo non aver visto così bene, o che avevamo visto, ma non notato. E se veniamo portati a vedere aspetti di altri o il mondo in modo diverso, giungiamo anche a Vedere nuovi aspetti di noi medesimi. Se con queste questioni noi ci spingìamo ai limiti del nostro linguaggio, e quindi del nostro pensiero, incorriamo nella possibilità del nonsenso o nel
3”) P. VAN BUREN, Alle frontiere del linguaggio, Roma 1977, p. 117. 31) Ibid., p. 118.
756
Parte terza
pericolo della pazzia, ma c'è anche l'occasione di fare delle scoperte. È questo il compenso dellarrischiarci ai confini del nostro linguaggio»22 Ai confini del
linguaggio si
trova
anche
e
soprattutto il discorso
su
Dio, suprema realtà di cui parla sia la metafisica sia la religione. Dio, spiega Van Buren, non è fuori del linguaggio, bensì alle sue estreme fronfiere. Questa tesi, che si accompagna a un rifiuto dell'immagine del lin-
guaggio come ”gabbia per uccelli”, viene motivata mediante la elaborauna dottrina del linguaggio inteso come ”piattaf0rma”. Al centro della piattaforma linguistica su cui stiamo e che continuamente allarghiamo argomenta Van Buren c'è il linguaggio nel quale noi ci muoviamo bene, ossia il linguaggio "regolato” della vita quotidiana e delle scienze. Fuori dal centro, alla periferia, c'è il linguaggio delle analogie, delle metafore, dei paradossi, che si basano su di un'estensione delle regole d'uso valide al centro. È del linguaggio della periferia che la metafisica e la religione si servono per parlare di Dio. Ora, «avendo una concezione troppo angusta del nostro linguaggio, troppo preoccupati di ciò che noi possiamo fare col linguaggio presso il
zione di
-
-
centro, essi (i letteralisti) non si avvedono che nel nostro uso delle parole c'è più di quanto si possa sognare nella loro filosofia. Per giungere a una migliore comprensione del ”discorso su Dio”, non abbiamo bisogno di un'alternativa ai processi di linguaggio, né di qualche altro metodo che "vada al di là del linguaggio”. Ciò che ci serve è giusto questa scrupolosa attenzione alle parole e al modo in cui funzionano e che la filosofia moderna ci ha insegnato a rispettare. Senza questa attenzione, teisti e atei sbagliano allo stesso modo nel prendere il muoversi ai confini del linguaggio come un comportamento inet— to o sviato nel campo centrale. Le incertezze di quelli che si tengono in equilibrio al margine esterno del linguaggio vengono da loro considerate come segno di goffaggine. Gli uni e gli altri pensano che quando il cristiano dice "Dio" si nomini o ci riferisca a una qualche cosa e ciò nonostante la lunga storia delle obiezioni cristiane, cioè che questo non è né un nome né una descrizione né una parola che si riferisce a un oggetto specifico. Gli stessi teisti sono i primi responsabili dell'attuale confusione intorno alla parola "Dio". Essi hanno usato la
parola come se appartenesse a quell'area relativamente chiara del linguaggio in cui i concetti possono essere usati coerentemente e incoe-
rentemente, nel modo in cui questa distinzione viene fatta presso il centro della nostra attività linguistica. Fra loro però anche quelli che si dicono cristiani ignorano i processi del linguaggio all'interno della loro stessa tradizione linguistica».23
23) lbid, pp. 118-119. 33) Ibid., pp. 151-152.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
757
Dario Antiseri (nato a Foligno nel 1940) è stato e continua a essere il massimo studioso delle origini e degli sviluppi della ”svolta linguistica", nonché uno dei validi esponenti della filosofia analitica in Italia. Partendo dalle posizioni della filosofia analitica egli si è espresso frequentemente sul valore della metafisica. Per determinare il valore di quella che fu sempre considerata la regina del sapere fino a Kant, Antiseri si avvale di due metri di giudizio: il metro della ragione scientifica e quello della fede religiosa. In entrambi i casi le sentenze che egli emette nei confronti della metafisica sono decisamente negative. Nettamente sfavorevole è il suo giudizio sulla metafisica quando adopera il metro della fede. In un saggio intitolato Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, Antiseri riassume il suo giu-
dizio sulla metafisica dal punto di vista della fede nel modo seguente: «In primo luogo voglio affermare che, vista dalla prospettiva della fede, la metafisica, quando non ‘e inutile (dovrebbe infatti dimostrare quel che in ogni caso sarebbe già vero per rivelazione), è certamente dannosa perché è con essa incompatibile.La metafisica è inutile perché pretende di supportare, in un modo o nell'altro, la fede già presente. È dannosa (se guardiamo le cose dalla prospettiva del credente) quando presume di esserne un
surrogato incompatibile>>fi4
ll metro della scienza non ha fruttato sempre gli stessi risultati. Anche questo metro in un primo tempo aveva condotto Antiseri a pronunciare giudizi pesantemente negativi nei confronti della metafisica. In Dal positivismo alla filosofia analitica egli scrive: «La filosofia analitica è
disponibile, aperta, elastica, critica, senza
dogmi e con una sconfinata buona volontà di comprendere. Ed è evidente che se dovesse venire a luce un discorso per non privilegiati che risolvesse in una maniera che sia in qualche modo controllabile, i cosiddetti problemi ultimi, dando con ciò una visione del mondo, non sarebbe certo l'analista a rifiutarlo. Nonostante però tutta quanta la sua buona volontà, dato che le cose hanno preso una ben diversa configurazione, dato cioè che i metafisici stanno affogando in un gran mare di sistemi contraddittori, di incongruenze, di insignificanze e anche di belle poesie, l'analista non ha motivi per rigettare la sua convinzione che la metafisica, insieme alla magia, l’astrologia, la stregoneria, sia uno dei pesi più soffocanti che l'umanità si sia trascinata dietro per secoli e che solo ora sta finalmente abbandonando»?
24) 25)
D. ANTISERI, Perché la ntetafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, Brescia 1980, p. 9. ID., Dal neopositivismo alla filosofia analitica, Roma 1966, p. 268.
758
Parte terza
Nella letteratura filosofica è difficile trovare sentenze più dure di questa nei confronti della metafisica. Trascinata giù dal suo trono regale essa viene equiparata alla magia, all’astrologia e alla stregoneria. Quanto siamo lontani dall’ammirazione che lo stesso Kant aveva per la metafisica! Pur ridimensionando le pretese della metafisica speculativa, Kant continuava a considerare la metafisica come una nobilissima ricerca e come una delle esigenze primarie dell'umanità. Successivamente Antiseri si rese conto che realmente la metafisica non è «uno dei pesi più soffocanti che l'umanità si sia trascinata dietro per secoli» e che invece ha svolto funzioni assai positive, sia come surrogato della scienza sia come avanguardia della scienza stessa. Antiseri continua a ritenere che la metafisica non sia in grado di allargare la visione di questo mondo mediante una "seconda navigazione", però la considera utile per la comprensione di questo mondo anticipando e affiancando la scienza. Così ora può affermare che la metafisica non solo è utile ma persino necessaria alla scienza: «Da tutto ciò vediamo che la metafisica può essere influente (sulla modi: influisce sul procedimento di prova di una teoria aumentando le argomentazioni critiche contro di essa; influisce sulla valutazione comparativa di una teoria con le altre, aumentandoneil contenuto informativo; influisce come ideale regolativo in quanto ci dice che cosa non dobbiamo cercare; influisce come strumento euristico, perché ci dice cosa dobbiamo cercare, e così influisce sullo status della maggiore o minore rilevanza dei problemi e di specifici risultati scientifici. In breve, le idee metafisiche agiscono sulla scienza nella possibilità della sua esistenza (possibilità etica e ontologica), possono agire nella genesi delle teorie scientifiche, nel loro processo di prova o di comparazione, come anche nel loro progresso e nella loro stagnazione. La scienza infatti non progredisce senza geni metafisici creativi. Ma, d'altra parte, la metafisica ristagna nelle culture non scientifiche o acritiche. E questo per la ragione che lo sviluppo delle teorie scientifiche comporta spesso la rottura di quadri metafisici che risultano, via via, inadeguatìmîh
scienza) almeno in questi
Come risulta da questa interessante dichiarazione, la metafisica ora è più considerata una pseudoscienza come la magia, l'astrologia, la stregoneria. Essa rimane indubbiamente"altra" rispetto alla scienza, perché questa è verificabilementre la metafisica è inverificabile,però la metafisica è feconda di teorie preclittive che contribuiscono alla crescita della scienza.
non
«La differenza tra una teoria metafisica e una pseudo-scientifica è che la metafisica è feconda di teorie pre-dittive e (post-visive) che pre-
16)
D. ANTISERl-M. BALDINI, Lezioni di filosofia del
linguaggio, Firenze 1989, p. 200.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
759
e post-vedono fatti e ne escludono altri; mentre la pseudoscienza partorisce solo (0 quasi unicamente) ipotesi ad hoc in grado di non escludere alcun fatto. La pseudo-scienza cresce cancerosamente su se stessa; una teoria pseudo-scientifica ha il volto coperto da un numero crescente di operazioni di plasticafacciale. La linea di demarcazione tra la fisica e la metafisica ò quella della falsificabilità;la linea di demarcazione tra la metafisica e la pseudo-scienza sta nella loro fecondità o sterilità nei confronti delle teorie confutabilida esser generate»?
vedono
Ciò che è ovvio è che Antiseri anche dopo aver corretto il. suo giudizio sulla metafisica, continua ad avere un concetto tropo angusto sia della scienza sia della ragione. Egli fa un uso univoco di questi due concetti, quando invece è palese a tutti, e non soltanto ad Aristotele e a S. Tommaso, che i concetti di scienza e ragione sono analoghi e non univoci. Così si può parlare legittimamente di ”scienza” fisica, matematica, metafisica, teologica; e si può parlare di ”ragione” speculativa e ragione pratica, di ragione scientifica e ragione filosofica, di ragione inferiore e ragione superiore. E l’infallibilitàcome pure la verificabilitànon è monopolio di nessuno: né delio scienziato, né del filosofo, né del teologo. Mentre l'errore è un male comune che può affliggere la ragione in tutte le sue
operazioni, pratiche e speculative, scientifiche, filosofiche, teologiche.
Uermeneutica e la metafisica Come sappiano, esistono due tipi di ermeneutiche: |’ermeneutica anfica o classica e la nuova ermeneutica o moderna. L’ermeneutica antica e quella che venne magistralmente codificata da Aristotele nel suo Peri hermeneius. Secondo la concezione aristotelica, l’ermeneutica fa parte della logica e consiste nel classificare le parole (i termini) e le proposizioni, e nel determinare il significato dei termini nelle varie proposizioni, in particolare nelle proposizioni apofantiche o enunciative. In quanto studio del significato delle parole l’ermeneutica classica presta logicamente speciale attenzione a quel termine che ha il massimo spessore semantico, ossia ente (on) nella forma sostanziale ed essere (einai) nella forma verbale. Sin dalle sue origini, Fermeneutica risulta pertanto una fedele e preziosa ancella della metafisica. E questo rapporto di ancillarità si protrae fino a Kant e oltre.28 Tutt’altra funzione viene ad assumere la teoria della interpretazione di E. Husserl, il quale, come sappiamo, è il padre della nuova ermeneutica. Da Husserl l’ermeneutica viene scorporata dalla logica ed elevata al
27) Ibiri, p. 203. 23) Cf. E. BERTI, Ermeneutica e metafisica in Aristotele, in B. MONDIN (ed.), Ermeneutica e Inetafisica. Possibilitàdi un dialogo, Roma 1996, pp. 9-25.
760
Parte terza
rango di epistemologia: essa diviene la teoria della conoscenza delle scienze storiche. La conoscenza storica, secondo Husserl, si distingue nettamente dalla conoscenza scientifica: questa si basa sulla spiegazione e sul calcolo; invece la conoscenza storica si basa sulla comprensione e sulla interpretazione. Sulla strada aperta da Husserl si è incamminato M. Heidegger, il quale ha applicato l'ermeneutica all'analisi esistenziale, vale a dire allo studio delle strutture fondamentali delhlîsserci, il Dasein. Dopo I-Ieidegger i massimi esponenti della nuova ermeneutica sono diventati Hans Georg Gadamer e Paul Ricoeur. Per entrambi l'ermeneutica si identifica con la filosofia. Compito dell'ermeneutiCa è raccogliere,
comprendere e tramandare gli insegnamenti filosofici, metafisici e religiosi delle epoche precedenti. Di Husserl e Heidegger abbiamo già parlato. Per concludere il presente capitolo ora non ci resta che esporre il pensiero di Gadamer e Ricoeur. HANS GEORG GADAMFR
Georg Gadamer (nato a Marburgo, in Germania nel 190D) ogni pensiero e quindi anche ogni filosofia porta con se’ dei "pregiudizi" (praejudicia), che non sono conoscenze errate (possono anche esserlo), ma conoscenze previe, che non fanno parte della natura umana (non sono le idee innate di Leibniz) ma della propria cultura. I presupposti da cui Gadamer sviluppa la propria filosofia sono due: 1) la realtà umana, tutta la realtà umana in ogni sua espressione (inclusa la conoscenza) è essenzialmente segnata dalla storia, è realtà storica; 2) ogni autentico conoscere va inteso come interpretazione, cioè come ernneneutica. Alla natura e ai compiti dellermeneutica Gadarner ha dedicato tutti i suoi studi principali, in particolare: Verità e metodo. Lineamenti di un'ennenezzticafilosoflba(1960); Il problema della conoscenza storica (1963). In queste opere egli cerca di chiarire i principi gnoscologici e linguistici che stanno Secondo Hans
alla base della nuova ermeneutica. Gadamer è persuaso che esiste una verità la quale non può essere acquisita coi metodi scientifici e tuttavia esige il nostro riconoscimento. ll suo «impegno è di scovare quell'esperienza della verità che supera l'ambito della ricerca scientifica dovunque si trovi e di saggiarne i titoli di legittimità. Così le scienze umane (Geisteswissenschaften) vengono ad allinearsi con quelle forme di esperienza che stanno al di fuori dell'area scientifica: con l'esperienza della filosofia, con l'esperienza dell'arte e con l'esperienza stessa della storia; con tutte le esperienze insomma nelle quali si annunzia una verità che non può essere verificata con gli strumenti della scienza»?!
29)
H. GADAMER, Wnhrlzeit und Methode, I. C. B. Mohr 2a ed., pp. xxv-xxvr.
(Paul Siebeck), Tubinga 1965,
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
Per
questa area di verità Gadamer rivendica un suo proprio modo di
conoscere ma
761
quello
che
non
è
quello
della
verifica sperimentate e
della ermeneutica e della comprensionefio
della
spiegazione
Ermeneatica e comprensione Entrambi questi termini hanno alle loro spalle una lunga storia. Abbiamo già visto che il primo risale ad Aristotele. Il secondo, invece, ha svolto un ruolo centrale nella filosofia stoica. Secondo l’accezioneusuale essi definiscono due procedimenti conoscitivi differenti, fra i quali l'interpretare ha il compito di preparare il comprendere. Per Gadarner non è così: nelle scienze umane interpretare e comprendere sono una sola cosa: «Il termine ”ermeneutica” informa l'autore di Wahrheit und Methode (Verità e metodo) designa il movimento fondamentale dell'esistenza umana, nella sua finitudine e storicità, e pertanto abbraccia tutto l'insieme del suo esperire il mondo».31 Perciò, «lo stesso comprendere non Va inteso tanto come un atto soggettivo, ma come la penetrazione della realtà vivente della traditio dove il pensato e il futuro si danno costantemente la mano. Ed è questo appunto che deve emergere dalla teoria ermeneutica, la quale troppo spesso è dominata dall'idea di procedimento e di metodo»? mentre in effetti essa riguarda il conoscere stesso così come si realizza nel Caso delle scienze umane. Ma perché Fermeneutica (l'interpretazione) è la forma appropriata del conoscere quando si tratta delle scienze umane? La ragione, secondo Gadamer, è che l'uomo è essenzialmente essere storico, è un essere pla—
—
smato e nutrito dalla storia.
Il pensiero classico aveva concepito l'uomo come un essere naturale, dotato di proprietà costanti e immutabili,come la natura. Il pensiero moderno ha respinto questa concezione e ha messo in luce il ruolo essenziale che spetta alla storicità fra gli elementi che costituiscono l'essere
3°)
può notare come in questo il Gaclamer prosegua la critica della concezione positivistica della scienza, iniziata dai vari Boutroux, James, Bergson, Dilthey. Verso il principio del secolo, ci informa l'autorevole storico della filosofia Windelband, si cominciò a distinguere nelle discussioni filosofiche, fra lo ”spiegare" (erklaren) e il "comprendere" (verstehen). «Alla spiegazione dei fenomeni fisici si contrappone, come guisa fondamentale diversa del conoscere umano la "comprensione" storica» (W. WINDELBAND, Lehrbuch der Geschichte dar Philosophie, ]. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tubinga 1957, 15° ed., p. 589. Si riconosce che della natura si può dare una spiegazione, ma che la vita può essere soltanto Compresa. Su questa distinzione si basa la Nuova Errneneutica, la quale afferma che peri testi, i fatti storici e i monumenti artistici, non si dà spiegazione ma soltanto comprensione. Si
31) H. GADAMER, Wahrlteit und Methode, cit., p. XVI. 32) Ibid., pp. 274-275.
762
Parte terza
dell'uomo. ln tal modo l'uomo moderno ha acquistato consapevolezza della sua storicità. A parere di Gadamer, «l'apparizione di una presa di coscienza storica è verosimilmentela più importante fra le rivoluzioni da noi subite dopo l'avvento dell'epoca moderna. La sua portata spirituale sorpassa probabilmentequella che noi riconosciamo alle realizzazioni delle scienze naturali, realizzazioni che hanno visibilmente trasformato la superficie del nostro pianeta. La coscienza storica che caratterizza l'uomo contemporaneo è un privilegio (forse perfino un fardello) quale non ‘e stato imposto a nessuna delle generazioni precedenti>>fl3 Ora, la presa di coscienza della propria storicità implica una revisione sostanziale della teoria della conoscenza. Questa non può più essere concepita né come diretto rispecchiamento della realtà, come volevano i realisti antichi e moderni (compresi i positivisti), né come creazione originaria dell'io (come affermavano gli idealisti), ma va intesa come interpretazione di situazioni. Solo una gnoseologia ermeneutica collima con le esigenze della storicità dell'uomo, poiché un essere storico comprende se stesso e gli altri soltanto interpretando. Egli fa necessariamente parte di un circolo ermeneutico: gli vengono offerte dal passato delle tradizioni che egli riceve interpretandole e di nuovo le comunica ad altri, i quali a loro volta le fanno proprie interpretandole. L'uomo coglie la sua realtà storica solo interpretandola per due ragioni. Anzitutto perché la storia è essenzialmente movimento e nel movimento c'è qualcosa che rimane e qualcosa che muta; perciò nel risalire al senso originale delle tradizioni occorre passare attraverso ai vari sviluppi. In secondo luogo, perché il passato non mi è estraneo, ma entra a far parte del mio essere attuale, però entra a far parte del mio spessore soggettivo solo mediante l'interpretazione. Io sono l'erede di tradizioni che non sono semplici informazioni da registrare, ma fanno parte della mia stessa vita, determinano la mia prospettiva e le mie progettazioni, il mio modo di vedere e il mio modo di agire. «Comprendere è operare una mediazione fra il presente e il passato, sviluppare in se stessi tutta la serie continua delle prospettive attraverso cui il passato si presenta e si rivolge a noi>>fi4 A questo punto appare chiaro come il concetto di ermeneutica, in Gadamer, acquisti un significato del tutto nuovo, molto più vasto e ricco di quello usuale. Per l'autore di Wczhrheit und Methode (Verità e metodo) Permeneutica non è più ristretta alla spiegazione dei testi oscuri dei classici greci e latini e degli scrittori sacri o delle tradizioni orali. Essa si estende anche «ca tutto ciò che ci è consegnato dalla storia; così parlere-
33) ID., Il problema della coscienza storica, tr. it. di G. Bartolomei, Guida Editori, Napoli 1969, p. 27.
34) Ibid, p.93.
Analisi linguistica, ermeneutica e
metafisica
763
esempio, dell'interpretazione di un avvenimento storico, o, dell'interpretazione delle espressioni spirituali, mimiche, dell'interpretazione di un Comportamento, ecc. Con ciò intendiamo sempre dire che il senso del dato, offerto alla nostra interpretazione, non si svela senza mediazione, e che è necessario guardare al di là del senso immediato per poter scoprire il ”vero” significato nascosto».35 Grazie a questa onnicomprensività Vermeneutica in Gadamer viene ad assumere gli stessi connotati della filosofia: filosofia ed ermeneutica per lui si equivalgono. «In questo senso radicale e universale, attesta lo stesso Gadamer, la presa di coscienza storica (i. e., ermeneutica) non è l'abbandono del compito eterno della filosofia, ma la via che ci è stata
m0, per ancora,
data, per accedere alla verità sempre ricercata».3‘>
Ma come si sviluppa l'interpretazione, il pensare ermeneutico? Per comprendere il pensiero di Gadamer su questo punto occorre tener presenti tre postulati che gli sono cari. Il primo dice che ogni conoscenza è la risposta a una domanda: il che significa che il conoscere è anzitutto un interrogare, e quest'ultimo, secondo Gadamer, è sempre determinato da una situazione particolare. «Non al giudizio, dice Gadamer, ma alla domanda spetta il primato della logica, come dimostrano storicamente il dialogo platonico e l'origine dialettica della logica greca. Ma il primato della domanda rispetto alla proposizione significa che la proposizione è, per sua natura, risposta. Non C'è proposizione che non sia una specie di risposta e perciò non si può intendere una proposizione se non rifacendosi ai criteri intrinseci alla domanda di cui è una risposta... Certo non è facile trovare Ia domanda, di cui una data proposizione è effettivamente la risposta, soprattutto perché una domanda non è mai qualcosa di semplice e primo, a cui si possa arrivare solo se lo si voglia: ogni domanda e ancora una risposta e questa è la dialettica in cui siamo impigliati. Ogni domanda è motivata e anche il suo significato non è mai dato interamente in essa».37 In conclusione, «l'orizzonte di ogni proposizione è il sorgere da una situazione problematica», e «una conoscenza si mostra feconda in quanto appiana una situazione problematica»,38
Il secondo postulato dice che qualsiasi documento storico, qualsiasi testo letterario e anche tutti i monumenti artistici sono la registrazione di certe conoscenze, le quali, come vuole la dialettica del conoscere, rappresentano le risposte alle domande che i loro autori si sono fatti in certe situazioni. Pertanto, per comprendere tali documenti occorre riportare le risposte che essi contengono nel contesto, nell'orizzonte degli interroga-
35) Ibii,p. 29.
36) 11nd,, p. 93; cf. 10., Wahrhcit imd mcthode, cit., p. 451. 37) Ima, p. 261. 38) Ibid, p. 262.
764
Parte terza
sono sorte, un orizzonte che conteneva la possibilità di molte risposte.” In certo qual modo la formulazione fissa che esse hanno
tivi da cui
altre
assunto deve essere ricondotta al movimento della conversazione. Questo è il compito delrermeneutica: «trarre il testo fuori dallo stato di alienazione in cui giace (a causa della forma immobileche esso ha assunto
nella composizione scritta) e riportarlo al presente vivo del dialogo, la cui forma originaria è sempre quella della domanda e della rispostam“ Il terzo postulato dice che nessuna conoscenza è "pura", ”impregiu— dicata", ma è sempre "mista", accompagnata e condizionata da ”pregiudizi" (Vorurteilc, praejudiciul“ Questo terzo postulato, nel pensiero del Gadamer, è la logica conseguenza della sua concezione dell'uomo come essere storico e, perciò, legato a certe tradizioni, prospettive, situazioni. Sono queste tradizioni,prospettive, situazioni a formare i pregiudizi. Come si vede, Gadamer dà al termine "pregiudizio” un significato che si discosta sostanzialmente da quello usuale, per due ragioni. Anzitutto nel significato usuale il pregiudizio è una conoscenza errata che impedisce di vedere e giudicare rettamente in certe situazioni. Ora, per Gadamer il pregiudizio non ha questa connotazione negativa di falsità e falsificazione. Per lui il pregiudizio è soltanto una conoscenza previa, la quale può essere sia vera che falsa, La seconda ragione è che nell'accezione comune il pregiudizio è qualcosa di contingente, qualcosa quindi che si può superare, neutralizzare. Invece per Gadamer questo ‘e impossibile, in quanto, come si è detto, i pregiudizi fanno parte della storicità dell'uomo e perciò accompagnano necessariamente la sua esistenza. Il che tuttavia non significa che la conoscenza umana debba essere schiava dei pregiudizi. Questo no, anzitutto perché essa può prenderne coscienza e, così, in certo qual modo li può dominare, e in secondo luogo perché di certi pregiudizi si può anche disfare. Questo, come si vedrà prossimamente, costituisce uno dei massimi compiti dell'ermeneutica. Da questi tre postulati derivano i tre momenti principali della ermeneutica. Il primo momento riguarda l'interrogazione del testo e la ricerca del suo senso all'interno dell'orizzonte degli interrogativi che lo hanno condizionato. Si inizia dal presupposto che il testo possiede un senso; per afferrarlo si fanno dei progetti, delle anticipazioni circa tale senso, non tanto secondo l'intenzione dell'autore quanto secondo l'orizzonte degli interrogativi cui l'autorevoleva dare una risposta: si mira al senso ogget-
39)
«Man versteht den Text ja nur in seinern Sinn, indem man den Fragehorizont der als solcher notwendigerweise auch andere mògliche Antworten umfasst» (11)., Wahrheit rmd IHCHIOdE, cit., p. 352).
gewinnt,
40) ibmfl, p. 350. 41) Cf. ibid, pp. 250 55.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
765
(die Sache) più che a quello soggettivo. Successivamente vengono rettificate le anticipazioni per conseguire l'accordo col senso del testo, tivo
"l'accordo nella cosa". Ecco come Gadamer descriveva, prima fase dell'interrogazione.
con
straordina-
ria chiarezza, questa
all'interpretazione di un testo. Non appescopre alcuni elementi comprensibili,l'interprete abbozza un progetto di significato per l'insieme del testo. l primi elementi significativi si manifestano soltanto a condizione che ci si disponga alla lettura con un interesse più o meno determinato. Comprendere "la cosa" che sorge là, davanti a me, altro non è che elaborare un primo progetto, che verrà in seguito corretto, mano a mano che la decifrazione progredisce. Questa descrizione è evidentemente solo una sorta di "abbreviazione”, poiché il processo è ben più complicato: prima di tutto, senza la revisione del primo progetto, non c'è nulla per costituire le basi di un nuovo significato; in secondo luogo, ma anche al tempo stesso, progetti discordanti, ambiscono a formare l'unità di significato, fino a quando si abbozza la "prima" interpretazione per sostituire i Concetti presunti con concetti più adeguati. Heidegger ci descrive proprio questa perpetua oscillazionedelle mire interpretative, cioè la comprensione come il processo di formazione di un progetto nuovo. Colui che procede così rischia sempre di cadere sotto la suggestione dei propri abbozzi; egli corre il rischio che l'anticipazione, che si è così preparata, non sia conforme alla cosa. Il compito costante della comprensione «Pensiamo ancora una volta
na
risiede nella elaborazione di progetti autentici e proporzionati all'oggetto della comprensione. In altri termini, si tratta di un Colpo di audacia, il quale attende di essere ricompensato da una conferma proveniente dall'oggetto. Ciò che si può qualificare come oggettività non
potrebbe essere
altro che la conferma di
stesso dell'elaborazione di
una
quest'ultima.“
anticipazione nel corso
Nel secondo momento si dà all'interrogazione un carattere esistenziale: si interroga il testo in vista di una risposta ai nostri problemi attuali. Uermeneutica classica distingueva opportunamente tre fasi: subtilitas intelligendi, subtilitas applicandi, subtilitas explicandi" nello studio di un testo. Ma alla subtilitas applicandi assegnava una funzione edificante più che propriamente esistenziale. Questa è invece preminente in un’erme— neutica fondata sulla storicità dell'uomo, la quale non può vedere nel passato qualcosa di superato e inattuale, ma qualcosa che soggiace al presente e lo compenetra come elemento essenziale. Perciò essa cerca di spremere dal passato il significato che ha valore anche per il presentefl
42) l-I. GADAMER, Il problema della coscienza storica, cit., pp. 81-82. 43) Cf. ID, Wahrlzeif imd mcthode, cit., pp. 29D s5.
766
Parte terza
Gadamer illustra il momento dell'applicazione esistenziale Considerando il lavoro che compie un giurista allorché si trova a dovere applicare una legge promulgata nel passato a un caso presente. «Senza dubbio, osserva l'autore di Wahrheit und Methode, il giurista non cessa di tenere d'occhio la legge stessa, ma il suo contenuto normativo va determinato in conformità al caso particolare cui dev'essere applicata>>34 L'applicazione pertanto non si riduce alla sussunzione di un caso sotto una legge generale il cui senso sarebbe già completamente determinato; mostrando in che misura essa ha senso anche per il presente, l'applicazione lo sviluppa. D'altra parte, affinché si tratti appunto dell'applicazione di quella data legge al presente, il giurista non può ignorarne il senso primitivo e, di conseguenza, la questione storica. Ecco quindi che il ricorso alla conoscenza del passato nasce nello stesso ambito del problema giuridico posto dall'applicazione. Peraltro, il passato cui il giudice Vuole restare fedele è un passato normativo e non oggettivo; questo passato consiste per lui non nelle circostanze pubbliche 0 biografiche che spiegherebbero quelle determinate leggi, bensì nel senso delle risposte, ossia nell'orizzonte degli interrogativi cui tali leggi intendevano rispondere.“ Il terzo momento dell’ermeneutica (esso però è terzo solo nell'ordine logico non in quello cronologico) riguarda il superamento dei "pregiudizi". Questa fase, nell’ermeneutica tradizionale, Viene posta all'inizio. Ma Gadamer il quale, come si è visto, concepisce il conoscere come essenzialmente "pregiudicato" non può assegnare il superamento dei pregiu-
dizi alla fase iniziale, perché, zione dei
"pregiudizi" ò
giudizio, una completa neutralizzaimpossibile:significherebbe uccidere il conoscea suo
pregiudizi possono essere riconosciuti e controllati soltanto man mano che si procede nell'interpretazione: è l'interpretazione che mettendo a confronto il nostro orizzonte conoscitivo con quello del testo svela i nostri limiti e i nostri pregiudizi. «Denunziare qualcosa come pregiudizio, spiega Gadamer, significa sospenderne la presunta validità; infatti, un pregiudizio può agire su di noi come pregiudizio, nel vero senso del termine, soltanto nella misura in cui non ne siamo sufficientemente coscienti. Ma non si può riuscire a rendersi conto di un pregiudizio fintanto che è semplicemente in atto: bisogna che esso subisca, in qualche modo una provocazione. Ora, questa provocazione contro i nostri pregiudizi è necessariamente il frutto di un rinnovato incontro con una tradizione, la quale è, forse, essa stessa alla loro origine».46 Sappiamo infatti che la tradizioneriferita da un testo re
stesso. I
44) Ibid., p. 309. 45) Cf. Ibid., pp. 31] ss. 46) H. CJADAMER, Il problema della coscienza storica, cit., p. 90.
Analisi linguistica, ermeneutica e nzetafisica
767
qualcosa da dirci, da comunicarci: «leggendo un testo, volendo comprenderlo, noi ci attendiamo sempre che esso ci insegni qualche cosa. Una coscienza formata dall'autentico atteggiamento ermeneutico, sarà
ha
innanzi tutto recettiva rispetto alle origini e ai caratteri interamente stranieri di ciò che le giunge dal di fuori. Tuttavia questa ricettività non si acquisisce con una neutralità oggettivistica: non è né possibilené necessario né auspicabilemettere se stessi tra parentesi. L'atteggiamento ermeneutico presuppone soltanto una presa di coscienza, la quale, designando le nostre opinioni e i nostri pregiudizi, li qualifichi come tali, e, con ciò stesso, li privi del loro carattere oltranzistico. E proprio assumendo questo atteggiamento, si dà al testo la possibilità di apparire nel suo essere differente e di manifestare la sua propria verità, Contro le idee
preconcette che gli opponiamo in anticipo»?
Ma com'è possibile per l'interprete uscire dall'orizzonte dei suoi "pregiudizi" e mettersi in comunicazione con l'orizzonte altrui, in particolare con quello di un testo che appartiene ad altri tempi lontani da lui?
Non esiste forse tra passato e presente un abisso insormontabile?Del resto, la storicità non rinchiude necessariamente l'interprete dentro il vicolo cieco del suo soggettivismo?
Gadamer, pur riconoscendo e affermando l'a|terità fra passato e presente, esclude che fra loro esista una scissura completa. La storicità esige piuttosto il contrario: essa fa sì che la distanza temporale sia «colmata dalla continuità della tradizione e della trasmissione, grazie alle quali tutto ciò che ci viene trasmesso si rivela a noi».48 Ma neppure il fatto che l'orizzonte gnoseologico dell'interprete sia circoscritto da pregiudizi è tale da rinchiuderlo nel suo soggettivismo e da impedirgli l'incontro con altri orizzonti. Infatti i pregiudizi non sono
tutti "egocentricì" e, soprattutto, i pregiudizi non sono la prima cosa: al di là e al di sotto dei pregiudizi esiste un accordo fondamentale, che Gadamer chiama "accordo portante" (tragendes Einverstiindniflrî‘) Secondo Gadamer questo "punto di stabilità", questa solida piattaforma che rende possibile l'incontro e la fusione tra i vari orizzonti è fornita dal linguaggio. «Io credo che il linguaggio operi la sintesi peren-
47) Ibiafi, p. 84. 48) H. GADAMER, Wahrlzeit zmd methode, cit., p. 281. 49) Cf. ID., ljuniversalità del problema ermeneutica, in Filosofi tedeschi oggi, Il Mulino, Bologna 1967, p. 110. A pagina 120 dello stesso saggio leggiamo: «Non sono il fraintendimento e Pestraneità la prima cosa, sicché l'evitare il fraintendimento
sia il Compito univoco, ma, viceversa, è solo l'essere sorretti da ciò che è familiare e l'accordo, l'intesa con esso, a rendere possibile la sortita in quanto è straniero, l'assunzione da esso di elementi e quindi della nostra propria esperienza del mondo».
l'ampliamento e
l'arricchimento
768
Parte terza
tra l'orizzonte del passato e quello del presente. Noi ci intendiamo reciprocamente, perché ci parliamo, perché, pur svolgendosi sempre il nostro discorso su piani diversi e non convergenti, alla fine, per mezzo delle parole, riusciamo a metterci reciprocamente di fronte le cose dette
ne
le parole»? Qui abbiamo uno dei
con
punti più originali e più interessanti di tutto il Il pensiero gadameriano. nostro autore infatti al fine di liberare la sua ermeneutica dai pericoli di soggettivismo cui la storicità pare esporla (pericoli che egli stesso denuncia in Dilthey)sviluppa una nuova concezione del linguaggio, in cui questo viene ad assumere uno spessore ontologico inusitato, analogo a quello che gli assegna il "secondo" Heidegger. Questi distingue tra due forme di linguaggio, un linguaggio originario che è quello dell'essere e un linguaggio derivato che è quello dell'uomo, così può sostenere che il nostro conoscere è auscultazione del linguaggio dell'essere; pertanto prima viene il linguaggio originario e successivamente il conoscere e il parlare dell'uomo. Anche Gadamer dà al linguaggio la priorità rispetto al conoscere, al pensare, all'interpretare. Il conoscere, a suo avviso, non è mai un dato non linguistico per cui successivamente, mediante la riflessione, si trovano le parole; il pensiero, la comprensione, l'interpretazione sono interamente linguistici, e formulando una proposizione si usano le parole che già appartengono alla situazione. Il linguaggio è il medium in cui la realtà si manifesta; il linguaggio è il milieu in cui si attua il riconoscimento del mondo. Questo naturale riferimento al mondo conferisce al linguaggio il carattere di oggettività (Sachlichkeit): «Sono condizioni oggettive quelle che vengono alla luce mediante il linguaggio>>fi1 L'appartenenza al mondo mediante il linguaggio è di capitale importanza per l'attività ermeneutica. Questa trova in essa il suo sostegno, il suo ”punto di stabilità". Grazie all’appartenenza al mondo mediante il linguaggio e grazie all'appartenenza del testo al linguaggio si apre un'orizzonte universale, che rende possibile l'incontro e la fusione dell'orizzonte dell'autore con quello dell'interprete, e di qualsiasi altro orizzonte
particolarefi? A
questo punto l'impresa imponente di Gadamer di elaborare
una
nuova ermeneutica impostata sulla storicità dell'uomo e, peraltro, non priva di valore oggettivo, è praticamente conclusa. Gadamer muove dall'affermazione della storicità quale condizione fondamentale ed essenziale dell'uomo e tuttavia egli cerca di sottrarre la conoscenza storica (che non opera secondo lo schema della rappresentazione ma secondo
5°) H. GADAMER, Il problema della coscienza storica, ciL, p. 265. 51) ID., Wahrlzeit und methode, cit., p. 421. 52) Cf. ibid, pp. 356 ss.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
769
quello della interpretazione) alle pretese del soggettivismo e del relativicrede di riuscirci facendo appello al linguaggio... Fino a che punto e in che misura può ritenersi riuscito questo tentativo gadameriano di svincolare Yermeneutica dalle insidie del soggettivismo, e
del relativismo a cui non avevano saputo sottrarsi né Diltheyne’ Heidegger? Il linguaggio assolve effettivamente a quella funzione di sostegno del pensiero che Gadamer gli attribuisce? ll linguaggio è certamente, come ha mostrato A. Gehlen, una via che consente all'uomo di sottrarsi alla particolarità, di ”esonerarsi" dalla singolarità e di attingere l'universalità, ma questa via non è data all'uomo né dall'essere né dalla natura: è una via invece che egli stesso si deve aprire e conquistare con la sua intelligenza, la sua libera iniziativa, la sua creatività e genialità. È nel pensiero, in quanto attività spirituale, che l'uomo si sottrae al particolare e attinge Yunìversale. Il linguaggio assolve funzioni universali soltanto grazie al pensiero. Pertanto, è sempre nello spirito dell'uomo, creatore della cultura e quindi anche del linguaggio, che occorre ricercare le condizioni gnoseologiche delle scienze dello spirito. smo e
PAUL RICOEUR
esponente autorevole della nuova ermeneutica filosofica è il pensatore francese Paul Ricoeur (nato a Valence nel 1913). Anch'egli condivide i due principi che Dilthey,Heidegger e Gadamer hanno posto a fondamento della nuova teoria delYinterpretazione: a) l'affermazione della storicità della conoscenza; b) il rifiuto dello schema soggettooggetto. Tuttavia Ricoeur è ancora più sollecito nel salvaguardare il vaAltro
lore universale dell'interpretazione. Ricoeur sposa coscientemente e volutamente i due postulati della nuova ermeneutica e si tratta di cosa perfettamente legittima in quanto a suo giudizio, «non esiste una filosofia senza presupposti (...). La filosofia è pensiero già presupposto. ll mio compito per lei non è quello di cominciare, ma nel mezzo della parola, di ricordarsi: ricordarsi per poter cominciare»? Secondo Ricoeur il conoscere umano è necessariamente segnato dalla storicità, perché ogni conoscere ha luogo dentro una "prospettiva” culturale, la quale comporta sempre un particolare punto di vista (il punto di vista di un determinato orizzonte storico e culturale). «lo sono nato in qualche luogo: una volta "messo al mondo" io percepisco ormai il mondo attraverso una successione di mutazioni e di novazioni a partire
53)
P. RICOEUR, Finitudine e
colpa, Bologna 1970, pp. 624-625.
770
Parte terza
da questo luogo che i0 non ho scelto e che non posso ricuperare nel ricordo. Il mio punto di vista si distacca allora da me come un destino che governa dall'esterno la mia Vita>>.54 L'affermazione della storicità del conoscere basta già a far cadere lo schema soggetto/ oggetto. Ma il rifiuto di tale schema in Ricoeur è anche la conseguenza della sua accettazione delle posizioni gnoseologiche kan-
tiane, le quali, come tutti
sanno,
non
consentono
mai di
attingere la cosa
soltanto i fenomeni, che sono sempre un intreccio di elementi soggettivi e di elementi oggettivi. Così la realtà rimane per Ricoeur come per Kant sempre e solo una "X", una cifra indecifrabile:ad essa si può puntare col simbolo, ma non si può mai attingere così come essa ‘e. Alla base deIYermeneutiCa Ricoeur pone un’antropologia che ha come punto qualificante la "fallibilità"dell'uomo. Questi dal Ricoeur non è studiato come homo sapiens, homo Ioquens, homo faber, homo liber, homo culturalìs ecc. bensì come homo fallibilis. La sua fallibilitàviene messa in luce mediante lo studio della simbolica del male. l simboli sono, per questo autore, il cespite più prezioso dell'antropologia, le tracce più sicure per scoprire la condizione originaria dell'uomo. Per questo motivo egli compie un'accurata analisi di quattro nuclei della simbolica del male: il caos originale, il destino tragico, il peccato originale, il mito dell'anima esiliata. Egli fa vedere che questi simboli rivelano una condizione di alienazionedell'uomo attuale rispetto alla sua condizione originain sé,
ma
ria: la simbolica del male attesta la separazione dell'uomo da Dio. Così Ricoeur può affermare che il simbolo ha una valenza essenzialmente
religiosa: ‘e la categoria che immette l'uomo nel sacro e lo rende partecipe del medesimo; è «il legame dell'uomo col sacro>>.55 Senza simbolismo ogni sforzo dell'uomo di esprimere l'esperienza religiosa è vano. C01 simbolismo, e soltanto col simbolismo l'uomo può mettersi in rapporto con il Tutt'Altro. Poiché ciò che è vissuto come esperienza del sacro «esige la mediazione di un linguaggio specifico: il linguaggio dei simboli. Senza l'ausilio di questo linguaggio l'esperienza rimarrebbe muta, oscura, chiusa sulle sue contraddizioni implicite».56 Però i simboli non sono immediatamente intelligibilì,perché rinviano a una realtà occulta, misteriosa: per questo hanno bisogno di interpretazione. La comprensione del loro significato dipende dalla corretta interpretazione. Ma a monte della interpretazione e della comprensione c'è l'accettazione dei simboli, un'accettazione che avviene per fede: «Bisogna credere per comprendere: l'interprete non si accosterà mai infatti a
95. 5g) una, p. 249. 5°)
Iblvd, p.
5°) Ibid, p. 419.
Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica
771
ciò che dice il suo testo se non vive nelYaura del significato interrogato>>,57 e l'aura è precisamente quella della fede. Senonché la fede dell'uomo moderno non è più quella spontanea, ingenua, semplice, immediata che aveva l'uomo delle epoche precedenti; è una fede più matura, più esigente e più critica, che può disporsi al comprendere soltanto mediante Yinterpretare. «Qualcosa è stato perduto irrimediabilmente(dalla modernità): l'immediatezza della credenza. Ma se non possiamo più vivere i grandi simboli del sacro, secondo la credenza originaria, noi moderni possiamo almeno tendere, nella critica e per suo mezzo, a una seconda ingenuità. È insomma interpretando che possiamo di nuovo intendere; è quindi nell'ermeneutica che si scioglie il dono del significato attraverso il simbolo e si svolge l'impresa intelligibiledella decodificazione>>fi8 ljermeneutica, condizione moderna del credere e dell’intendere, non è vista da Ricoeur come una condanna, ma come un ”dono” della modernità: «poiché noi moderni siamo tutti eredi della filologia, dell'esegesi, della fenomenologia della religione, della psicanalisi del linguaggio; la stessa epoca che dispone della possibilità di svuotare il linguaggio formalizzandoloin modo radicale ha anche la possibilitàdi riempirlo di nuovo, richiamando alla memoria i significati più pieni, più pesanti, più legati alla presenza del sacro nell’uomo>>.59 Secondo una bella espressione del Ricoeur, «il simbolo dà da pensare»:6” esso dà qualcosa da pensare e di che pensare ai filosofi e agli esegeti. Raccogliere il dono dei simboli ‘e compito dell’ermeneutica. Oltre che delrermeneutica filosofica, Ricoeur si è occupato anche delPermeneutica biblica, e in un saggio importante ha cercato di chiarire i rapporti che intercorrono tra queste due aree dellermeneuticafiî Anche se il linguaggio non e lo stesso, di fatto la questione coincide con quella dei rapporti tra filosofia e teologia, questione che, come si è visto in un precedente capitolo, è stata ripetutamente dibattuta nel corso dei secoli, e ha ricevuto molteplici soluzioni. Secondo Ricoeur tra ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica c'è un rapporto reciproco, rapporto che viene comunemente denominato ”circolo ermeneutico”. Mentre infatti per un verso è necessario credere per comprendere, per un altro Verso è necessario comprendere per crederci»! Ricoeur deduce la legittimità e l'esigenza di questo procedimento circolare dalla natura stessa della fede. Egli rileva anzitutto che nessun
57) Ibid, p. 627. 53) Ibid. 5") lbid., p. 625. 69) lbial, p. 624. 61) Cf. P. RICOEUK, Ermeneulicafilosofica ed ernzenezrtica biblica, Brescia 1977. 62) Cf. ID., Pinitudinc e colpa, ciL, pp. 627 ss.
772
Parte terza
procedimento ermeneutico può avanzadi rendere la re perfettamente intelligibilela Scrittura e razionale pretesa «è la fede. Questo un atto autenticamente irriducibilea qualunque trattamento linguistico e quindi Veramente limite di ogni ermeneutica e insieme origine non ermeneutica di qualsiasi interpretazione e si compie col rischio a una risposta che nessun commento sa né produrre né esaurire. Proprio per render chiaro il carattere prelinguistico o iperlinguistico si è giunti a chiamare la fede "preoccupazione ultima”, indicando il raggiungimento di quell'unico necessario con riferimento al quale ci si orienta in ogni sceltawî Ma allo stesso tempo Ricoeur osserva che la fede biblica non può essere separata dal movimento di interpretazione che la eleva a linguaggio. La preoccupazione ultima «resterebbe nzuta se non venisse investita dalla forza linguistica di un'interpretazione mai interrotta e sempre ripresa dei segni e dei simboli che nel cuore dei secoli hanno, per così dire, educato e formato questa preoccupazionemffl Le ragioni che Ricoeur adduce a favore dell'uso deltermeneutica filosofica da parte dell'ermeneutica biblica sono sostanzialmente quelle stesse che adducono i teologi cattolici a favore dell'impiego della filosofia nella elaborazione della teologia. La ragione principale è che il ricors0 all'ermeneutica filosofica rende possibile il superamento delle insidie del soggettivismo e del fideismo, da cui si lasciano spesso adescare teologi e biblisti del nostro tempo. Questa "applicazione" restituisce l'ermeneutica biblica a se stessa liberandolada più di un'illusione. Scompare la tentazione di introdurre prematuramente, come fanno Bultmann e i suoi seguaci, categorie di comprensione esistenziali o esistentive. Compito prima delfermeneutica è "la cosa del testo", come ama chiamarla Ricoeur, ossia «il mondo che il testo dispiega davanti a sé» e non l'assimilazione personale del testo.65 È di importanza notevole Yimplicazione che segue da questo principio: «Compito primo deltermeneutica non è suscitare trattamento linguistico, nessun
63) P. RICOEUR, Ermeneuticafilosofica ed ermeneutica biblica, cit., p. 96. 64) Ibid, p. 97. 65) Su questo punto il pensiero di Ricoeur coincide sostanzialmente con quello di Emilio Betti. Questi in tutti i suoi scritti, ma in particolare in Lrrmenezrtica come metodica generale delle scienze dello spirito, si e opposto energicamente a ogni tentativo di subordinare Pesegesi del testo agli interessi esistenziali dell'interprete. Betti pone una netta distinzione tra Atrsleggung, interpretazione che salvaguarda i risultati oggettivi del processo ermeneutico, e Sinngebung, attribuzione soggettiva di significato propria dell’ermeneutica esistenziale, e giustamente sostiene che solo dopo avere compreso il passato nella sua giusta realtà storica, attraverso un rigoroso lavoro ermeneutico e dopo avere ricostruito come quel passato è giunto fino a noi, solo allora noi siamo resi capaci di "Compre-ridere” senza ambiguità il reale valore di significatività che quel passato riveste per la nostra Vita attuale.
Analisi linguistica, ermeneutica e
metafisica
773
nel lettore una decisione, ma permettere dapprima a quel modo d'essere che è la ”cosa" del testo, di dispiegarsi. Questa proposizione di un mondo che nel linguaggio biblico si chiama mondo nuovo, nuova alleanza, regno di Dio, rinascita, si trova così situata al di sopra di sentimenti, tendenze, credenza e non credenza, e forma un complesso di realtà dispiegato davanti al testo, per noi indubbiamente certe, ma a partire dal testo. In questo Consiste ciò che possiamo chiamare l'essere nuovo progettato dal testo>>fi6 Tale procedimento non conduce affatto al razionalismo e, pertanto, alla eliminazione della fede, perché, secondo Ricoeur, la stessa ermeneutica filosofica arriva a cogliere con chiarezza nella Scrittura elementi non risolubiliné riscontrabili in alcun documento di origine umana. La peculiarità della Scrittura sta nella sua capacità «di aprire un orizzonte che sfugge alla finitezza del discorso (umano)... e la capacità (con la parola di Cristo) di incarnare tutti i significati
religiosi in un simbolo fondamentale, quello
sacrifica, che è più forte della morte. E
ora
di un amore che si chiaro in che modo Perme-
neutica biblica sia caso particolare dell’ermeneutica generale e caso unico: particolare perché l'essere nuovo di cui parla la Bibbia non va cercato altrove, ma nel mondo di questo testo che è un testo fra altri; caso unico invece perché tutti i discorsi parziali sono riferiti a un Nome che è punto di incontro e indice di incompiutezza per tutti i nostri discorsi su Dio».67
In Ricoeur si osserva una certa conflittualità tra l'assunzione dei postulati decisamente soggettivistici della nuova ermeneutica (storicità del conoscere e rifiuto dello schema soggetto-oggetto) da una parte, e il riconoscimento della "cosa del testo", cioè del suo significato storico 0ggettivo, dall'altra. Ricoeur può mantenere due posizioni così antitetiche, facendo valere la prima per Yermeneutieafilosofica e la seconda per l'ermeneutica teologica. Da buon teologo egli deve affermare e riconoscere la priorità del significato in sé della Parola di Dio sul significato per noi; allo stesso tempo da filosofo kantiano qual egli ò, può sostenere che in sede filosofica la ”cosa del testo” non è attingibile,e ci si deve limitare al significato per noi, come è reso accessibileda un determinato orizzonte storico-culturale.
66) l’. RICOEUR, Ermeneuticafilosoficzz ed ermeneutica biblica, cit., p. 90. 57) lbid, pp. 94-95.
774
Parte terza
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FILOSOFIA ANALITICA
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775
CONCLUSIONE
Con la svolta linguistica ed ermeneutica si chiude la lunga parabola della filosofia moderna, una filosofia che era nata senza preclusioni nei confronti della metafisica; anzi per un paio di secoli, pur percorrendo vie nuove rispetto a quelle della metafisica Classica, essa era Comunque riuscita a conseguire gli stessi obiettivi e a realizzare a suo modo la "seconda navigazione”. Ma dopo la critica kantìana della ragion pura non rimase più nessuno spazio per la metafisica. Né si sono aperti nuovi spazi per la regina del sapere neppure quando la seconda modernità ha cambiato rotta e la filosofia da critica della conoscenza si è trasformata in fenomenologia, in analisi esistenziale, in analisi del linguaggio e in nuova
ermeneutica.
La filosofia analitica e la nuova ermeneutica hanno cercato di ridurre tutti i problemi metafisici a problemi linguistici. Ma la filosofia analitica non è riuscita a trovare un criterio universale per distinguere tra discorsi sensati e discorsi privi di senso; mentre la nuova ermeneutica non è stata in grado di chiarire in che cosa consista la verità di un discorso. In realtà i problemi del significato e della verità non sono semplicemente
problemi logici e gnoseologici, ma primariamente sono problemi ontologici e metafisici. D'altronde ci sono molti altri problemi di capitale importanza, come l'origine della Vita, il senso dell'esistenza e della storia, i fondamenti
della morale, il valore della persona, la libertà, la morte ecc. che il filosofo non può ignorare e che con le sole armi della filosofia analitica e dcll’ermeneutica non potrà mai risolvere e neppure affrontare. Questi sono i classici problemi con cui si è cimentata da sempre la metafisica. Per questo motivo anche nel secolo XX la metafisica ha dato significativi segni di Vita. In realtà, la metafisica è indistruttibile;e lo è perché è l'unica forma di sapere umano che può affrontare i problemi ultimi. D'altronde se si distrugge la metafisica non si distrugge soltanto una delle parti più alte e preziose del patrimonio culturale dell'umanità, ma si priva l'uomo di un anello essenziale del mondo conoscitivo: l'anello che collega la conoscenza scientifica alla conoscenza religiosa, la scienza alla rivelazione. Solo una conoscenza che già penetra, come fa la metafisica, nel mondo trascendente, può fungere da ponte tra la conoscenza di questo mondo e la conoscenza dell'altro mondo, e tra ciò che la ragione
776
Parte terza
riesce a conoscere con le proprie forze e ciò che riceve in dono dalla divina rivelazione. Solo la metafisica è in grado di fornire una giustificazione razionale della religione. La metafisica crea quindi un'armonia tra le grandi attività dello spirito, e assicura all'uomo una profonda unità interiore. L'umanità ha vissuto anche epoche ametafisiche 0 antimetafisiche. Ma l'assenza della metafisica non è mai stato un segno di ricchezza bensì di povertà spirituale e culturale. Purtroppo, oggi noi ci troviamo in un'epoca di transizione. Siamo nella fase di passaggio dalla modernità alla postmodemità. Ci stiamo lasciando alle spalle un'epoca di fantastiche e gloriose conquiste operate dalla ragione strumentale; ma queste stesse conquiste hanno provocato una profonda erosione dei valori fondamentali. Così siamo sprofondati in un terribilevuoto culturale e spirituale. Con la postmodernità spunterà una nuova civiltà soltanto quando l'umanità riuscirà a trovare a livello planetario una nuova piattaforma di valori assoluti: valori umani, spirituali e religiosi che diventino il vincolo comune tra tutti gli abitanti del pianeta. Il compito della metafisica sarà allora quello di fungere non solo da interprete, ma anche da difenossia sore e garante, sul piano razionale, del nuovo Codice dei valori, civiltà. dell'anima della nuova umana
INDICE
Prologo
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5
PARTE PRIMA
DINTERMEZZO DELIJUMANESIMO L’Umanesimo: prologo della civiltà moderna
..p.
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Ulndirizzo platonica: Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno Nicolò Cusano Vita
9
..p. 13 ..p. 14 ..p. 15 ..p. 16 ..p. 17
..........................
.........................................................................................
.......................................................................................................
Opere
....................................................................................................
Il platonismo di Cusano La dottrina della Conoscenza.‘ il principio della coincidenza degli opposti La metafisica della coincidenza degli opposti Esistenza, natura, attributi di Dio La ded-uzione della Trinità La creazione Luci e ombre nel pensiero del Cusano
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..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p.
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Marsilio Ficino Vita e opere
........................................................................................
religiosrrteologico di Ficino Il platonismo di Ficino Il cristianesimo di Picino Dignità dell'uomo e immortalità dell'anima lnflusso di Picino sui posteri
22 26 28 29 31
..p. 32 ..p. 33 ..p. 34 ..p. 36 ..p. 36 ..p. 38
...........................................................................................
Il progetto
19 21
................................................
.........................................................................
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778
Giordano Bruno
..p. 39 39 40 41 43 45 ..p. ..p. 47 ..p. 48 ..p. 49 ..p. 52
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Vita e opere Il neoplatonismo di Giordano Bruno Il metodo II linguaggio metafisico
..p. ..p. ..p. ..p.
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metafisica dell'infinito La visione cosmologica La religionefilosofiea Dinflusso Suggerimenti bibliografici La
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..............................................................................................
.....................................................................
L’Indirizz0 aristotelica:
Achillini,Nifo, Pomponazzi,Zabarella, Telesio Alessandro Achillini Agostino Nifo
..p. 54 ..p. 56 ..p. 57 ..p. 58
.............................
...............................................................................
..........................................................................................
Pietro Pomponazzi
Jacopo Zabarella
Bernardino Telesio L'uomo
.................................................................................
61 63
..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p.
70
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Il mondo Dio Conclusione
..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p. ..p.
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Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
L’Indirizz0tomista
Giovanni Capreolo Francesco Silvestri Tommaso de Vio Francisco Suarez Vita e opere
................................................................................
.................................................................................
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Le Disputationes metaphysicae La struttura delle Disputationes
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La necessità di un nuovo trattato di metafisica l capisaldi della metafisica suareziana La divisione della metafisica in generale e speciale Diffusione e influsso delle Disputationes e della metafisica suareziana Conclusione
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.................................................
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66 67
68
73 74 75
80 80 80 82 83 86 90
..p. ..p. 94 ..p. 98
................................................................
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Suggerimenti bibliografici
64 65
.....................................................................
779
PARTE SECONDA
LA PRIMA
MODERNITÀ
LA METAFISICA MODERNA FINO A KANT La modernità e la sua metafisica L'essenza della modernità Il concetto di Hegel
..p. ..p. ..p. ..p. ..p.
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.....................................................................
103 103
104 104 105 ..p. 106
...............................................................................
Altri concetti di modernità La modernità come sintesi di valori assoluti e valori strumentali Le caratteristiche della metafisica moderna
...................................................................
.......
.......................................
Cartesio, il padre della metafisica moderna
..p. 109 ..p. 109 ..p. 111 ..p. 112 ..p. 115 ..p. 117 ..p. 118 ..p. 119 ..p. 121 ..p. 123 ..p. 125 ..p. 127 ..p. 133 ..p. 136 ..p. 137 ..p. 137 ..p. 137 ..p. 138 ..p. 138 ..p. 138 ..p. 139 ..p. 139 ..p. 143
.....................................
Vita e opere La nuova metafisica di Cartesio Il preambolo gnoseologico La metafisica del Cogito e la mathesis unioersalis Le regole del metodo L'intuizione e la deduzione Le idee innate La metafisica di Dio La via psicologico-riflessiva La via ontologico-dedu ttiva La metafisica dell'uomo e il primato della libertà La cosmologia: scienza e metafisica Obiezioni e risposte Prime obiezioni Seconde obiezioni Terze obiezioni Quarta obiezioni Quinte obiezioni Seste obiezioni
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......................................................................................
Settimo obiezioni Recezione e interpretazione del
..................................................................................
Suggerimenti bibliografici
pensiero di Cartesio
.......................
.....................................................................
780
Malebranche e Vita e opere
Pontologismo
..p. 144 ..p. 144 ..p. 145 ..p. 146 ..p. 147
..............................................................
..............................................................................................
Malebranche e Cartesio Il prolegomenognoseologico La prova ontologica dell'esistenza di Dio
.........................................................................
................................................................
...........................................
il mondo Rapporti tra fede e Dio
e
..p. 151 ..p. 155 ..p. 157
.........................................................................................
ragione, tra filosofia e religione Suggerimenti bibliografici
..........................
.....................................................................
Spinoza e la metafisica della sostanza Il ritorno di Spinoza
..p. 158 ..p. 158
..............................................
...............................................................................
Vita
e
opere
..p. 158 ..p. 159 ..p. 160 ..p. 165 ..p. 167 ..p. 171 ..p. 171 ..p. 175 ..p. 178 ..p. 183 ..p. 185
..............................................................................................
Spinoza e Cartesio I1 prolegomeno gnoseologico
..................................................................................
................................................................
La metafisica della Sostanza Le definizioni e gli assiomi di partenza
.................................................................
................................................
Considerazioni preliminari sulla sostanza Prove dell'esistenza di Dio
...........................................
...................................................................
Proprietà e attributi di Dio I modi della sostanza divina: l'uomo
..................................................................
....................................................
Conclusione
.............................................................................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
Pascal e la metafisica del ”cuore”
Pascal è un grande metafisico Vita e opere La questione dei metodi
..p. 186 ..p. 186 ..p. 187
.......................................................
...............................................................
..............................................................................................
..p. 189 ..p. 192 ..p. 196 ..p. 203 ..p. 205 ..p. 205 ..p. 207
........................................................................
L'enigma umano
........................................
..........................................
Il mistero divino La soluzione cristiana delienigma umano Conversione del cuore e follia della croce Conclusione
......................................................................................
.........................................
..........................................
.............................................................................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
781
Leibniz e la metafisica della monade
..p. 208 ..p. 208 ..p. 209
................................................
Vita e opere .............................................................................................. Il programma metafisico leibniziano Dottrina della conoscenza ..p. La monade ..p. Anima e corpo: armonia prestabilita ..p. L'esistenza di Dio .................................................................................... ..p. La prova ontologica ..p. Le prove cosmologiche ..p. libertà male e ..p. Creazione, provvidenza, ...................................................
........................................................
..........
............................................................................................... ...................................................
214
216 218
220 222 224 225 ..p. 228
.............................................................................. ..........................................................................
...............................................
Conclusione
..'.
..........................................................................................
..p. 231
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
I
..p. 232 ..p. 232 ..p. 234
seguaci di Leibniz: Wolff e Baumgarten
.........................................
Christian Wolff
........................................................................................
Alexander Gottlieb Baumgarten
..........................................................
..p. 234
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
Ulîmpirismo: la metafisica prigioniera dei sensi La reazione degli empiristi al razionalismo john Locke
..p. 235 ..p. 235
............................
.......................................
..p. 236
...............................................................................................
Vita e opere Locke e Cartesio lJorigine delle idee e la nuova mappa del mondo conoscitivo Il valore della conoscenza Locke e la metafisica
..p. 236 ..p. 238 ..p. 240 ..p. 246 .p. 251 ..p. 253 ..p. 253 ..p. 253 ..p. 255 ..p. 256 ..p. 256 ..p. 256 ..p. 257 ..p. 258 ..p. 262 ..p. 264 ..p. 269
........................................................................................... ....................................................................................
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.....................................................................
. .............................................................................
George Berkeley
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Vita e opere
...........................................................................................
Il rovesciamento dellîzmpirismo in idealismo Esistenza della spirito: io, altri, Dio Nominalisnzo .j
......................................
.....................................................
.....
.................................................................................
David Hume Vita e opere Il principiofnndamentaledellafilosofia di Hume
............................................................................................
...........................................................................................
................................
Origine della conoscenza Origine della relazione di causa ed effetto La conoscenza dell'esistenza delle cose, dell'io e di Dio Conclusione
......................................................................
............................................
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..........................................................................................
782
Isaac Newton Vita e opere L'universo nezutvniano L'esistenza di Dio e la creazione del mondo Conclusione
..p. 269
...........................................................................................
p. 270 ..p. 271 ..p. 272 ..p. 275 ..p. 276
........................................................................................... .. .........................................................................
.........................................
.......................................................................... .............
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
Vico e la metafisica della storia Vita e opere
..p. 278 ..p. 278 ..p. 28D
..........................................................
..............................................................................................
Lflàatobiagrafia:le fonti del pensiero di Vico Una nuova gnoseologia
.......................................
..p. 281 ..p. 282 ..p. 286 p. 287
.........................................................................
La Scienza Nuova e i fondamenti Inetafisici della storia
....................
Conclusione
.............................................................................................
Suggerimenti bibliografici
..................................................................... ..
PARTE TERZA
LA SECONDA MODERNITÀ LA METAFISICA DA KANT FINO AI NOSTRI GIORNI Kant: decostruzione della metafisica teoretica e
costruzione della metafisica pratica
..p. 291 ..p. 292
...............................................
Vita e opere Gli sviluppi del pensiero di Kant nel periodo precritico Prima tappa: il dogmatismo metafisico Ieibniziano iuolfiiano La seconda tappa: il punto di vista della "pliilosopliia experimentalis” Terza tappa: il criticismo incipiente della dissertazione De mundi sensibilisatque intelligibilisforma et principiis I limiti della metafisica teoretica nelle due ”Prefazi0nì” della Critica della ragion para La rivoluzione copernicana nella dottrina della conoscenza L'estetica trascendentale Ijanalitica trascendentale La dialettica trascendentale
..............................................................................................
294 ..p. 295
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-
...........
..p. 296
............................
..p. 297
........
..p. 301 ..p. 310 ..p. 311 ..p. 313
.........................
...........
.................................................... ................
.....................................................................
..p. 318
..................................................................
783
La metafisica della
ragion pratica
Libertà immortalità dell'anima
..p. 327 ..p. 329 ..p. 331 ..p. 331 ..p. 332 ..p. 333
........................................................
.................................................................................................. .........................................................................
Esistenza di Dio Valore epistemologico dei postulati La metafisica nella Critica del giudizio
................................................................................... ......................................................
..................................................
Prolegonzent’ a ogni metafisica fzitara la conoscenza analogica di Dio Conclusione: l'ambiguità della metafisica kantiana Suggerimentibibliografici Le caratteristiche della seconda modernità dopo Kant
I
e
..p. 338 ..p. 343 ..p. 348
..........................................................
..........................
.....................................................................
La dissoluzione della metafisica negli idealisti
Johann Gottlieb Fichte e Yidealismo etico Vita
..p. 351
..................
..p. 355 ..p. 357
..............................
...........................................
..p. 357 ..p. 358 ..p. 358 ..p. 361 ..p. 363
.......................................................................................................
Opere
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Il sapere assoluto Il sistema della libertà La filosofia della religione
.................................................................................. .......................................................................... .....................................................................
Friedrich Wilhelm Ioseph Schelling
..p. 365
.....................................................
Vita e opere Il primo Schelling: la filosofia dell'identità Il secondo Schelling: la filosofia positiva e la
..p. 365 ..p. 366 ..p. 369 ..p. 370 ..p. 370 ..p. 372 ..p. 376
........................................................................................... ............................
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
cristologia
...........
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Vita e opere Il sistema dellidcalismo assoluto La dissoluzione della metafisica nella storia della filosofia Teologgicizzazionedella filosofia 0 filosoficizzazionedella teologia? Valutazioneconclusiva
........................................................................................... .........................................................
..................
..p. 377 ..p. 379 ..p. 382
........................................................
........................................................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
Schleiermachere la fuga verso Permeneutica Vita e opere
..p. 386 ..p. 386 ..p. 387 ..p. 388 ..p. 390 ..p. 392 ..p. 393 ..p. 399
.................................
..............................................................................................
Uimportanza di Schleiermacher
..........................................................
Il rinnovamento dell'ermeneutica
........................................................
Definizione divisione dellermeneatica I principi generali delfermeneutica di Schleiermacher L'essenza della religione e
..............................................
........................
.......................................................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
784
La dissoluzione della metafisica nei volontaristi e nei materialisti:
Schopenhauer, Feuerbach, Marx e Comte Arthur Schopenhauer Vita e opere Il oolontarisnto
..p. 401 ..p. 401
........................................
............................................................................
..p. 40] p. 402
...........................................................................................
..................................................................................... ..
Ludwig Feuerbach Vita e opere
..p. 404
..................................................................................
Ijantropocentrisnzo radicale di Feaerlvach
Karl Marx Vita
..p. 404
...........................................................................................
..p. 404
...........................................
..p. 407 ..p. 407 ..p. 407 ..p. 411 ..p. 411 ..p. 412 ..p. 420
.................................................................................................
opere [alienazione religiosa e il materialismo storico-dialettico Auguste Comte Vita e opere Il superamento della metafisica nzediarzte la scienza e
...........................................................................................
...................
.......................................................................................
...........................................................................................
............................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
Antonio Rosmini: una nuova metafisica dell'essere Vita
..p. 423
......................
..p. 423 ..p. 425 ..p. 425 ..p. 425 ..p. 425 ..p. 426 ..p. 428 ..p. 428 ..p. 432 ..p. 432 ..p. 434 ..p. 443 ..p. 451 ..p. 457 ..p. 460 ..p. 465
............................................................................................................
Opere a) Scrittifilosofici b) Scritti teologici
........................................................................................................ .................................................................................
.................................................................................
c) Scritti ascetici
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Gli obiettivi di Rosmini
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Il prologo gnoseologico: l'essere ideale
L'intuizione dell'essere ideale
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...............................................................
La sintesi prinzitiva (dell'essere con la realtà del giudizio) La ragione
..................
.............................................................................................
Lbntologia
............................................................................................
L'art tropologiafilosofica La teologia naturale Rapporti tra l'uomo e Dio
.......................................................................
..............................................................................
Conclusione Su ggerimentì bibliografici
....................................................................
.............................................................................................
.....................................................................
785
Kierkegaard e la metafisica dell'esistenza Vita
..p. 467 ..p. 468 ..p. 469
.......................................
............................................................................................................
Opere Il primato dell'esistenza
........................................................................................................
nella riflessionemetafisica di Kierkegaard
..p. 469
.........................................
Uangoscia e la fede
..p. 472 ..p. 475 ..p. 478 ..p. 481 ..p. 484
.................................................................................
Uinfinita differenza qualitativa tra l'uomo e Dio Il paradosso: Gesù Cristo La grandezza di Kierkegaard
..............................
......................................................................
................................................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
Friedrich Nietzsche e la distruzione della metafisica Vita e opere La rivoluzione culturale di Nietzsche La distruzione della metafisica La concezione estetica della filosofia Il nichilismo Visione vitalistica e ludica del mondo
..p. 485
....................
..p. 485 ..p. 486 ..p. 487 ..p. 489 ..p. 490 ..p. 491 ..p. 497 ..p. 499
..............................................................................................
.................................................
.............................................................
...................................................
.............................................................................................
.................................................
Conclusione
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Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
La
polverizzazione della filosofia dopo Nietzsche
Le filosofiedei valori Rudolf Hermann Lotze Wilhelm Windelband Heinrich Rickert Max Scheler Nicolaj Hartmann Diffusione della filosofiadei valori in Europa Louis Lavelle Rene Le Senne Conclusione
..p. 501
.........................
..p. 502 ..p. 503 ..p. 505 ..p. 508 ..p. 509 ..p. 51] ..p. 514 ..p. 514 ..p. 516 ..p. 519 ..p. 520
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......................................................................................
.............................................................................................
...................................................................................
e
in America
............
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.........................................................................................
.............................................................................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
786
Le filosofiedella vita e dell'azione
Gli inizi della filosofiadella vita Henri Bergson
..p. 521
....................................................
..p. 522 ..p. 523 ..p. 523 ..p. 524 ..p. 526
..........................................................
.........................................................................................
Vita e opere Il prolegonzeno epistemologico Il concettofondamentale di Beijgson: la durata
...........................................................................................
..............................................................
...................................
Il metodo della filosofia: l'intuizione
..p. 527
...................................................
Le difierenti direzioni dell'evoluzionecreatrice L0 slancio vitale come oggetto della filosofiu L'uomo come fine dell'evoluzione Scienza e nzetafisica Rilievicritici
..p. 528 ..p. 529
....................................
........................................
..p. 531 ..p. 532 ..p. 535
.........................................................
..............................................................................
.........................................................................................
Wilhelm Dilthey Vita e opere
..p. 536 ..p. 536
......................................................................................
...........................................................................................
La distinzione tra le scienze della natura
e
le scienze dello spirito: l ermeneutica
..p. 537
................................................
La vita come principio motore della storia e la dimensione storica dell'uomo
..p. ..p. ..p. ..p. ..p.
.........................................................
MaurìceBlondel Vita e opere
......................................................................................
...........................................................................................
L'impegno metafisico e antropologico di Blomiel Il metodo dellîmmanenza L"’Azione”
.................................
540 542 542 543
543 ..p. 544 ..p. 549 ..p. 551
....................................................................
...........................................................................................
Apologetica o metafisica? Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
.....................................................................
Il ritorno a
Hegel
..p. 554 ..p. 555 ..p. 555 ..p. 556 ..p. 558 ..p. 560 ..p. 563 ..p. 563 ..p. 563 ..p. 565 ..p. 568
...................................................................................
Benedetto Croce Vita e opere La filosofia dello spirito
......................................................................................
...........................................................................................
.....................................................................
L'estetica Lo storicismo Giovanni Gentile Vita e opere Lìittualismo
...............................................................................................
........................................................................................
.....................................................................................
...........................................................................................
.........................................................................................
religione e filosofia Suggerimenti bibliografici Arte,
.......................................................................
.....................................................................
787
Fenomenologia e metafisica
..p. 570 ..p. 57D ..p. 570
................................................................
Edmund Husserl Vita e opere La fenomenologia come nuovo
.....................................................................................
...........................................................................................
fiareamlaolo" della metafisica
Riduzione eidetica e riduzione trascendentale Edith Steìn Vita e opere Husserl e S. Tommaso La rilettura della metafisica di S. Tommaso in ciziaoeflfenomenololgica
..p. 571
...............
..p. 58D ..p. 582 ..p. 582 ..p. 583
.....................................
...............................................................................................
...........................................................................................
..........................................................................
..p. 586 p. 59D ..p. 590 ..p. 592 ..p. 593 ..p. 596 ..p. 599 ..p. 606 ..p. 608 ..p. 611 ..p. 614 ..p. 616 ..p. 616 ..p. 618 ..p. 620 ..p. 621 ..p. 623 ..p. 631 ..p. 633 ..p. 634 p. 634 ..p. 635 ..p. 639 ..p. 639 ..p. 641 ..p. 642 ..p. 643 ..p. 645 ..p. 646
......................................................................
Martin
Hcidcgger
................................................................................... ..
Vita e opere Il ritorno della metafisica Il metodo fenomenologico Banalitica esistenziale dell’Esserci (uomo) Il riconoscimento dellafilosofia La verità dell'essere
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..............................................................................
La
differenza ontologica e il nulla
Il linguaggio dell'essere Rilievi critici
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........................................................................
.........................................................................................
Karl Jaspers
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Vita e opere Il preambolo ”gnoseologic0” e il metodo fenomenologico Origine e limiti della ricerca metafisica Dallesistenza alla Trascendenza I tratti originali della metafisica di [aspers Morte e immortalità Osservazioni critiche
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.............................................................................
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Erich Przywara
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Vita e opere La metafisica dellanalogia Gabriel Marce] Vita e opere La ricerca metafisica Primato dell'essere L'uomo come essere incarnato e itinerante Valore delle analisi esistenziali di Marcel
........................................................................................... ..
...................................................................
.........................................................................................
...........................................................................................
.............................................................................
................................................................................
...........................................
............................................
Suggerimenti bibliografici
.....................................................................
788
La
riscoperta della metafisica di San Tommaso
Il neotomismo I tomisti francesi Etienne Cilson
..p. 650 ..p. 65D ..p. 653 ..p. 653 ..p. 663 ..p. 670 ..p. 673 ..p. 674 ..p. 675 ..p. 676 ..p. 678 ..p. 679 ..p. 683 ..p. 683 ..p. 685 ..p. 688 ..p. 688 ..p. 69D ..p. 692 ..p. 693
..............................
.........................................................................................
.....................................................................................
......................................................................................
Iacqaes Maritain
..................................................................................
Antonin-DalmaceSertillanges Cli altri tomisti francesi
............................................................
.........................................................................
Reginalalo Garrigou-Lagrange Régis [olivet
.............................................................
..........................................................................................
Aimé Forest Pierre Roasselot joseph De Finance
..........................................................................................
....................................................................................
I tomisti belgi Desiré Mcrcicr
................................................................................
...........................................................................................
......................................................................................
Ioseph Maréchal Maurice De Walf Fernand Van Steenberghen Louis de Raeymaeker
...................................................................................
.................................................................................
..................................................................
............................................................................
I tomisti italiani Amato Masnovo Sofia Vanni Rozzighi Francesco Olgiati
.......................................................................................
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..p. 695
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..p. 697 ..p. 700 ..p. 705 ..p. 710 ..p. 712 ..p. 712 ..p. 713 ..p. 713 ..p. 713 ..p. 714 ..p. 714 ..p. 716
.................................................................................
Gustavo Bonladinz" Cornelio Fabro
...............................................................................
......................................................................................
Luigi Bogliolo
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Il neotomismo negli altri paesi del Vecchio e Nuovo Mondo
IOSefPieper Johannes Baplist Lotz
..........
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Santiago Ramirez
Erich L. Mascall Ottavio Derisi
...........................................................................
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...................................................................................
......................................................................................
Ralph Mclnerny Suggerimenti bibliografici La riscoperta della metafisica di Aristotele
...................................................................................
.....................................................................
Marino Gentile
........................................................................................
Opere principali Enrico Berti
..p. 717 ..p. 717 ..p. 718 ..p. 719
......................................
...................................................................................
..............................................................................................
Principali pubblicazioni Pietro Faggiotto Principali pubblicazioni
..p. 719 p. 721 ..p. 721
.......................................................................
.. .......................................................................................
.......................................................................
789
..p. 726 ..p. 726 Michele Federico Sciacca ....................................................................... ..p. 732 Augusto Guzzo ....................................................................................... ..p. 736 Romano Guardini ................................................................................... ..p. 739 Il sistema degli opposti ......................................................................... ..p. 741 La rivelazione ....................................................................................... ..p. 742 La persona ............................................................................................ ..p. 745 Suggerimenti bibliografici.....................................................................
Il ritorno a S.
Agostino
.........................................................................
..p. 746 Analisi linguistica, ermeneutica e metafisica ..p. 746 L'analisi linguistica e la metafisica ....................................................... Lîmtinzeiafisicità del Circolo di Vienna.................................................p. 747 ..p. 750 L'apertura metafisica degli analisti inglesi Altri esponenti della filosofia analitica ..p. 753 e le loro valutazioni della nzetafisica ,.p. 759 Uermencutica e la metafisica ................................................................ ..p. 760 Hans Georg Gadamer ........................................................................... ..p. 769 Paul Ricoeur ......................................................................................... ..p. 774 Suggerimenti bibliografici..................................................................... ..................................
..........................................
.....................................................
..p. 775 Conclusione............................................................................................
790
l. INDICE DEI FILOSOFI E DELLE FILOSOFIE Volumi 1-3 -
riferiscono alle pagine della trattazioesplicita, gli altri alle citazioni significative; i numeri in corsivo rimandano alle relative indicazioni bibliografiche.
1 numeri in neretto si ne
Abubacer: vedi Ibn Tofail Aristotelico (indirizzo) vol. 3: 54-67 Accademia vol. 1: 395-399 Aristotelismo vol. 1: 611-614, 615 Achillini A. V01. 3: 56-57, 68 Atomisti vol. 1: 95-101, 104 Adamo, Maestro vol. 2: 429-430 Attico vol. 1: 498 Agostino d’Ipp0na vol. 1: 35, Avempace: vedi Ibn-Bajja 140-141, 250; vol. 2: 140-225, 235, Averroè vol. 2: 383-392, 394 242-243, 245, 246, 307; vol. 3: 16, 357 Avicenna vol. 2: 349-372, 394; Al-Farabì vol. 2: 337, 343-349, 393 vol. 3: 634 AI-Ghazali V01. 2: 372-379, 393 Al-Kindi vol. 2: 338-343, 393 Basilio il Grande vol. 2: 109-111, 131 Alberto Magno vol. 1: 261; Baumgarten A. G. vol. 3: 234 vol. 2: 446-474, 475 Bergson H. vol. 3: 523-536, 551 Albino vol. 1: 499, 500-504 Berkeley G. vol. 3: 253-256, 276 Alessandro di Afrodisia Berti E. V01. 3: 719-721 vol. 1: 611-612, 615 Bessarione B. vol. 3: 13-14 Alessandro di I-lales Blondel M. vol. 3: 542-550, 552-553 vol. 2: 620-623, 630 Boezio S. Amalrico di Bene vol. 2: 416-417 vol. 2: 226-244, 246, 307, 321, 327 Analisi linguistica vol. 3: 747-760, 775 Bogliolo L. vol. 3: 710-712 Analisti inglesi vol. 3: 751-754, 775 Bonaventura di Bagnoregio Anassagora vol. 1: 91-95, 104 vol. 2: 632-662, 663 Anassimandro vol. 1: 40-43, 104 Bontadini G. vol. 3: 700-705 Anassimene vol. 1: 44-45, 104 Boutroux E. vol. 3: 522-523 Andronico di Rodi vol. 1: 12 Bruno G. vol. 3: 39-51, 53 Anselmo d'Aosta vol. 2: 297-323, 334 Antiseri D. vol. 3: 758-760 Calcidio vol. 1: 420 Antistene vol. 1: 134, 135 Capreolo G. V01. 3: 73-74, 98 Apuleio vol. 1: 497-498, 500-501 Carnap R. vol. 3: 749-750 Arcesilao V01. 1: 436-437, 441 Carneade vol. 1: 437, 441 Arìstìppo V0]. 1: 134, 135 Cartesio: vedi Descartes R. Aristotele vol. 1: 11-13, 29, 38-39, Celso vol. 1: 498
45, 48-50, 69, 79, 94, 96-97, 107, 113, 125, 150, 155, 180-181, 203, 209, 261-381, 382, 397, 463, 562
Cicerone vol. 1: 420, 423, 426-428 Circolo di Vienna: Vedi Neopositivisti
Indice dei filosofi e delle filosofie
Cleante V01. 1: 415, 424-425, 441 Clemente Alessandrino vol. 1: 35; vol. 2: 23-42, 72 Commentatori di Aristotele: Vedi Aristotelismo Comte A. vol. 3: 411-419, 422 Crisippo cli Soli vol. 1: 415, 441 Croce B. vol. 3: 555-562, 568 Cusano N. vol. 3: 14-31, 52
791
Fenomenologia vol. 3: 570-645 Ferrarese: vedi Silvestri F. Feuerbach L. vol. 3: 404-406, 421-422 Fichte I. G. vol. 3: 357-365, 382-383 Ficino M. vol. 3: 31-39, 52 Filippo il Cancelliere vol. 2: 442-444, 445 Filone cl’Alessandria V01. 1: 443-492, 493 Filosofiadei Valori vol. 3: 502-519, 520 Filosofia della Vita vol. 3: 521-550 Forest A. vol. 3: 676-678 Fredegiso di Tours v0]. 2: 313
David di Dinant vol. 2: 417 De Finance I. vol. 3: 679-682 De Wulf M. vol. 3: 688 Democrito V01. 1: 96-101, 104 Derìsi O. V01. 3: 714 Descartes R. vol. 3: 109-142, 143, 329 Gadamer H. G. vol. 3: 761-770, 775 Dìlthey W. vol. 3: 388, 536-541, 551 Gaio vol. 1: 497 Garrigou-Lagrange R. vol. 3: 674-675 Dionìgi l’Areopagita Gentile G. vol. 3: 563-567, 563-569 vol. 2: 247-261, 278 Gentile M. V01. 3: 717-718 Duns Scoto Giovanni V01. 2: 664-698, 699 Giamblico vol. 1: 583-587, 610 Durando di S. Porciano Gilberto Porretano vol. 2: 709-711, 746 vol. 2: 323-333, 334-335 Gilson E. vol. 3: 653-663, 716 Eckhart, Meister vol. 2: 737-745, 748 Giovanni Buridano Vol. 2: 732-733, 747 Egidio Romano vol. 2: 704-705, 706 Giovanni Damasceno Empedocle vol. 1: 84-90, 104 vol. 2: 267-272, 2 79 3: 235-275 vol. Empirismo di Iandun Giovanni Enesidemo vol. 1: 437-438, 441 vol. 2: 733-737, 748 Enrico di Gand vol. 2: 700-703, 706 Giovanni Duns Scoto: Epicureismo vol. 1: 404-413, 441 vedi Duns Scoto Epicuro vol. 1: 404-412, 441 Giovanni Filopono Eraclito vol. 1: 53-64, 104 vol. 1: 614, 615; vol. 2: 342 Ermeneutica vol. 3: 760-774, 775 Giovanni Scoto Eriugena: Euclide di Megara vol. 1: 134, 135 vedi Scoto Eriugena Eudoro di Alessandria vol. 1: 495-496 Gnosticismo vol. 2: 75-81
Fabro C. vol. 3: 705-710 Faggiotto P. vol. 3: 721-726
Gorgia vol. 1: 114-116, 135 Gregorio di Nazianzo
vol. 2: 107,108, 121-125, 132
792
Indice dei filosofi e delle filosofie
Gregorio di Nissa
Lavelle L. vol. 3: 514-516, 520 vol. 2: 111-121, 131-132 Le Scnne R. V01. 3: 516-518, 520 Gregorio il Taumafurgovol. 2: 70, 72 Leibniz G. W. vol. 3: 208-230, 231 Guardini R. vol. 3: 737-745, 746 Leucippo vol. 1: 96, 104 Guglielmo d’Auvergne Locke I. vol. 3: 236-252, 276 V01. 2: 431-442, 445 Lotz I. B. vol. 3: 713 Guglielmo d’Auxerre vol. 2: 442 Lotze R. H. vol. 3: 503-505, 520 Guglielmo di Occam (Ockham) Lucrezio vol. 1: 405 vol. 2: 714-730, 746-747 Guzzo A. vol. 3: 733-737, 746 Maimonide, Mosè vol. 2: 401-407, 409 Hartmann N. vol. 3: 511-514, 520 Hegel G. W. F. vol. 1: 7, 20, 26, 29,
32, 39, 47, 76, 80, 84, 107, 141, 261, 270-271, 391- 392, 513; vol. 2: 6, 9, 10; vol. 3: 42, 104, 141, 370-381, 384-385
Malebranche N. vol. 3: 144-156, 157 Marcel G. V01. 3: 639-645, 648-649 Marcione vol. 2: 79-81 Maréchal I. vol. 3: 685-688, 716
Mario Vittorino vol. 2: 134-139, 245 Maritain I. V01. 3: 652, 663-669, 716 Marx K. vol. 3: 407-411, 422 Heidegger M. Mascall E. L. vol. 3: 713-714 vol. 1: 11, 12, 41-43, 279, 280; V01. 2: 13; V01. 3: 104, 590-616, 647 Masnovo A. vol. 3: 693-694 Massimo il Confessore Hume D. vol. 3: 256-269, 277 vol. 2: 261-267, 278 I-Iusserl E. v0]. 3: 570-582, 646 Mchìerny R. vol. 3: 714-715 Ibn-Bajja (Avempace) Medioplatonismo vol. 1: 494-505 V01. 2: 379-381, 393 Melisso V01. 1: 81-83, 104 lbn Gabirol V01. 2: 396-401, 409 Mercier D. vol. 3: 683-685 Ibn Tofail (Abubacer) Metafisica ebraica V01. 2: 394-408, 409 vol. 2: 381-382, 393 Metafisica islamica Idealismo vol. 3: 355-381 vol. 2: 336-392, 393 Metafisici francescani vol. 2: 619-629 Ippolito vol. 2: 90-93, 104 Ireneo vol. 2: 81- 90, 104 Moderato vol. 1: 506-507, 508, 510
Iaspers K. V01. 1: 55, 61, 64, 133,
Nemesio vol. 1: 422; vol. 2: 125-130, 132 141-142, 144, 179, 252-254, 256-257; Neoidealismo vol. 3: 554-567 vol. 3: 616-634, 647-648 Neopitagiìrismo vol. 1: 506-512 Joad C. E. M. Vol.3: 751 Neoplatonismo vol. 1: 513-609 Jolivet R V01. 3: 675-676 Neopositivisti vol. 3: 748-751, 775 Neotomismo vol. 3: 650-715, 716 Kant I. vol. 1: 16,‘ Newton I. vol. 3: 269-275, 277 V01. 3: 291-347, .348-35U Nicola d’AutreCourt Kierkegaard S. vol. 3: 467-483, 484 vol. 2: 730-732, 747
Indice dei filosofi e delle filosofie
793
Nicomaco di Cerasa V01. 1: 507, 510 Pseudo Dionigi: vedi Dionìgi lîAreopagita Nietzsche F. vol. 1: 39; Pseudo-Plutarco vol. 1: 48 V01. 3: 485-498, 499, 522 Nifo A. V01. 3: 57-58, 68 Numenio vol. 1: 507, 508-509, 511-512 RaeymaekerL. (de) vol. 3: 690-692 Ramirez S. vol. 3: 713 Ramsey I. T. vol. 3: 753-754 Olgiati F. vol. 3: 697-700 Ontologistno: vedi Malebranche N. Ravaisson Mollien F. vol. 3: 522 Rickert H. V01. 3: 508-509, 520 Origenc vo]. 2: 43-69, 73-74 Ricoeur P. vol. 3: 770-774, 775 Origenismo V01. 2: 67-69 Roberto Grossatesta vo]. 2: 623-627, 630 106-130 2: vol. Padri Cappadoci A. vol. 3: 423-464, 465 Rosmini Panfilo di Cesarea vol. 2: 70-71, 72 Rousselot l’. vol. 3: 678-679 Parmenìde V01. 1: 67-77, 104 Ruggero Bacone Pascal B. vol. 3: 186-206, 207 vol. 2: 627-629, 630-631 Peripato vol. 1: 400-403 Ryle C. vol. 3: 752 Pico della Mirandola G. —
vol. 3: 38-39
Scetticismo V01. 1: 431-440, 441 Pietro Aureolo V01. 2: 711-714, 746 Scheler M. vol. 3: 509-511, 520 Schclling F. W. I. Pirrone vol. 1: 432-435, 441 V01. 32 50, 51, 365-370, 334 Pitagora vol. 1: 46-52, 104 SchleiermacherF. D. E. Platone vol. 1: 13, 78-79, 107, 109, V01. 3: 386-398, 399-400 112, 122-123, 127-131, 139-258, Schopenhauer A. 259, 332 V01. 3: 401-404, 420-421 Platonico (indirizzo) vol. 3: 13-51 M. F V01. 3: 727-733, 735, 746 Sciacca Platonismo cristiano vol. 2: 133-244 Scoto Erìugena, Giovanni Plotino vol. 1: 513-573, 574 vol. 2: 284-296, 334 Plutarco vol. 1: 496-497, 501-502 Scuola a gostiniana vol. 2: 700-705
Pìeper I. vol. 3: 712
429, 494,
Scuola aristotelica vol. 1: vedi Peripato Scuole socratiche Porfìrio vol. 1: 510, 514-516, vol. 1: 133-134, 135 520-522, 575, 576-582, 610 Seneca V01. 1: 428 Proclo vol. 1: 139, 140, 511, 587-609, 610 Senocrate vol. 1: 398-399, 441 Senofane vol. 1: 65-66, 104 Prodico vol. 1: 116-118, 135 Sertillanges A. D. vol. 3: 670-673 Protagora vol. 1: 111-114, 135 Sesto Empirico vol. 1: 113, 115, 117, Przywara E. vol. 3: 634-639, 648 436-437, 438-440, 441, 510 Psello M. vol. 2: 272-277, 279
Pomponazzi P. vol. 3: 58-61, 68 Popper K. vol. 3: 754-755
794
Indice dei filosofi e delle filosofie
Sigieri di Brabante
vol. 2: 605-614, 615, 616, 618 Silvestri F. vol. 3: 74-75, 99 Simmel G. V01. 3: 541-542
Simplicio
Vol. 1: 44, 69, 508, 613-614, 615 Socrate vol. 1: 120-133, 135 Sofisti V01. 1: 105-119, 135
"limone V01. 1: 435, 441 Tomista (indirizzo) vol. 3: 70-97
Tommaso d'Aquino
vol. 2: 476-602, 603;Vo1. 3: 341-342 Tommaso de Vio (Gaetano) V01. 3: 75-79, 98
Valentino vol. 2: 78-79 Van Buren P. Vol. 3: 755-757 Speusìppo V01. 1: 396-398, 441 Van Steenberghen F. vol. 3: 688-690 Spinoza B. V01. 1: 19; vo]. 3: 49, 50, 158-184, 185 Vanni Rovighi S. vol. 3: 695-697 Vico G. B. Vol. 3: 278-286, 287 Stein E. V01. 3: 582-590, 646 Vittorino : vedi Mario Vittorino Stobeo Vol. 1: 427
420-421,
Stoicismo V01. 1: 414-430, 441 Strawson P. F vol. 3: 753 Suarez F. vol. 3: 80-97, 99
Windelband W. V01. 3: 505-507, 520, 762 Wisdom I. T. Vol. 3: 752-753 Wittgenstein L. vo]. 1: 13; V01. 3: 748-749 Wolff C. V01. 3: 232-233, 234
Talete vol. 1: 38-40, 104 Telesio B. vol. 3: 63-67, 69 Temistio vol. 1: 612-613, 615 Teofrasto V01. 1: 11-12, 181, 401-403 Zabarella I. vol. 3: 61-63, 68 Zenone di Cizio vol. 1: 414-415, 441 Tertulliano, Settimio Fiorente vol. 2: 93-103, 105 Zenone di Elea vol. 1: 78-81, 104
2. INDICE DEGLI STUDIOSI CITATI Volumi 1-3 -
I numeri si riferiscono alle pagine dove si trovano citazioni riportate alla lettera. Per una bibliografiaconaaleta si veda sempre allafine di ogni capitolo. AfnanS. M. V01. 2: 344, 372 Agazzì E. V01. 1: 14 Albertellì P. V01. 1: 73 Alfieri V. E. V01. 1: 97, 98, 101 Amerio F. V01. 1: 348 Anawati M. M. V01. 2: 337 Arnìm H. (V011) V01. 1: 415 Ashley B. M. V01. 2: 458, 629 Asìn y Palacios V01. 2: 384 Aubenque P. V01. 1: 280, 281 Aubcrt R. V01. 3: 652
Bignotìe E. V01. 1: 85, 406, 412-413 Bonìtz H. V01. 1: 238, 271 Bontadini C. V01. 1:25, 491; V01. 3: 698 Booth E. V01. 2: 473 Brandis C. V01. 1: 271 Bréhier E. V01. 1: 230, 456, 479-480 Brentano F. V01. 1: 354 Brunschxîicg L. V01. 2: 13
Carbonara C. V01. 1: 94, 527; V01. 3: 35 Cassirer E. V01. 3: 30, 238 Baeumker C. V01. 2: 450-451 Centi T. V01. 2: 592 Baldini M. V01. 3: 759 Ceresa-Gastaldc) A. V01. 2: 267 Balic C. V01. 2: 667-668 Chabod F. V01. 3: 10 Balthasar H. U. (van) Chadwick H. V01. 1: 492; V01. 2: 46, 261, 262, 264; V01. 2: 229-231, 242, 244 V01. 3: 96, 639 M. D. V01. 2: 145, 490 Chenu Bardenhewer O. V01. 2: 113 Chiocchetti E. V01. 3: 284, 285 Barth K. Ciìento V. V01. 1: 386 V01. 3: 373, 378-381, 387 Beckahcrt A. V01. 1: 461 Clearly I. ]. Vo]. 1: 295 C0111 G. V01. 1: 85, 185 Beìerwaltes W. V01. 1: 536, 538-539, 577, 588, 592 Courcelle P. V01. 2: 152 Courtine I. F. V01. 3: 92 Berdjiaev N. V01. 3: 10-11 Craemer-l-{uegenbergI. V01. 2: 474 Berger P. V01. 1: 15 482 3: H. V01. Berkhof Crouzel H. V01. 1: 230; V01. 2: 68-69 365, Bernareggi A. V01. 3: 95 Berti E. vol. 1: 24, 25, 28D, 281 D'Onofrio G. V01. 2: 318-319 Betti E. V01. 3: 773 Dal Pra M. Bettoni E. V01. 1: 435, 440; V01. 2: 629, 673-674, 676, 687, 689 V01. 2: 284, 296, 417, 730-731 Bidez I. V01. 1: 522, 577 Danìélou ]. V01. 1: 447-449 Bignone A. V01. 1: 388-389
796
Indice degli studiosi citati
Dante V01. 1: 14, 15 De GandillacM. vol. 2: 617, 696, 698, 709, 711, 713-714, 732-733 De Lagarde G. V01. 2: 712-715 De Lubac H. V01. 3: 154, 418-419 De Wulf M. V01. 2: 297, 472 Decleva Caizzi F. V01. 1: 432-433 Del Noce A. vol. 3: 127, 142 Denifle H. vol. 2: 412 Di Napoli G. vol. 3: 424, 614 Diano C. vol. 1: 95 DiltheyW. vol. 1: 38 Diogene Laerzio vol. 1: 91, 96, 114, 134, 404, 408, 414-415, 420-422, 430, 432-433, 437 Dodds E. R. V01. 1: 89 Doerrie H. vol. 2: 126 Dorta-Duque I. M. VO1. 1: 220 Dumont P. vol. 3: 95-96 Dupréel E. V01. 1: 114, 119 Dupuis E. J. V01. 2: 61 Dùring I. V01. 1: 265, 274-275
Funck A vol. 3: 156
Forest A. vol. 2: 498, 696, 698, 709, 711, 713-714, 732-733 Fozio V01. 1: 510 FreudenthalI. vol. 1: 499 Gadamer H. G. V01. 1: 217; vol. 3: 395
Gardet L. V01. 2: 337 Gerl H. B. V01. 3: 74D Gemet L. V01. 1: 34 Ghìsalberti A. vol. 2: 717, 729 Giacòn C. vol. 2: 715; V01. 3: 71-72, 229 Giannelli G. vol. 1: 386 Gilson E. vol. 1: 25-26, 77, 358, 381; V01. 2: 7, 14, 323, 465, 615, 632,
641, 643, 650, 656, 662, 664, 668, 697, 750
Giovanni A.
(di) V01. 1: 22,‘ vol. 2: 199
Girgenti G. vol. 1: 576-578, 581-582 Girolamo (Santo) vol. 2: 22, 82, 134 Gohlke P. vol. 1: 272-273 Coldschmidt V. V01. 1: 418-419 Elders L. V01. 2: 502 Gomperz H. vol. 1: 109 Ertel C. vol. 3: 370 Grabmann M. V01. 3: 73, 95 Esposito C. vol. 3: 82 Graiff C. A. vol. 2: 606 Eusebio di Cesarea vol. 2: 22, 43, 82 Gregory T. vol. 3: 55 Gueroult M. vol. 3: 136 Fabro C. Guitton I. V01. 3: 228 V01. 1: 15; V01. 2: 494, 514; VOI. 3:
133, 409-410, 470, 471, 616
Habermas I. vol. 3: 104 Hadot P. vol. 1: 507, 517, 543, 570, 573, 614; V01. 1: 577, 579-580,‘ V01. 2: 135 V01. 2: 146 Hamelin O. vol. 3: 135 Faggiotto P. vol. 3: 704-705 HarnackA. V. V01. 2: 42 Fakhry M. V01. 2: 338, 342, 379 Harris C. R. S. vol. 2: 697-698 Festugière A. J. vol. 1: 142, 219-220, 228, 231 Hartmann N. vol. 3: 209-210 Fisher K. vol. 3: 294, 295 Hefelc I. vol. 2: 295-296
Faggin G.
Indice degli studiosi citati
797
Heimsoeth H. vol. 2: 15-16; V01. 3: 213 Marassi M. V01. 3: 389-390 Maréchal I. vol. 3: 160, 295, 299 Henry I’. V01. 2: 152 Martinetti P. V01. 3: 513-514 Hoeffding H. vol. 3: 239 A. vol. 2: 160, 421, 432 Masnovo 11 I-Ioffmann E. vol. 2: 7, MathieuV. vol. 1: 22 Husìk I. V01. 2: 395 Mazzantìni C. V01. 1: 57, 60 Mazzotta C. V01. 2: 508 Imbart de ìa Tour P. vol. 3: 38 Melchiorre V. V01. 1: 55-57, 63, 70 lvanka E.(v0n) V01. 2: 263 Merlan Ph. vol. 1: 397 Mesnard P. vol. 3: 468 Iaeger W. V01. 1: 30, 73, 75, 85-86, 89-91, Moingt J. vol. 2: 101 271-272, 126, 132, 230, 264, 266, Mondésert C. V01. 2: 42 299, 313, 347, 377; vol. 2: 492 Mondin B. vo]. 1: 24, 468;
jaspers K.
V01. 2: 145, 153; vol. 3: 20-21
Iedin H.
V01. 2: 23, 77-78, 81, 297, 727; vol. 3: 156 Iùngel E. vol. 1: 70
Kannengiesser C. v0]. 1: 485 Kelly I. N. D. V01. 2: 182
Klibanski R. vol. 3: 14 Kràmer H. V01. 1: 142-143, 149-150, 154,
158-159, 162-163, 196, 199-200,
212-213, 252, 377-378 Kuhn T. S. V01. 1: 148
Lauriola G. vol. 2: 691 Lavatorì R. vol. 2: 191;. V01. 3: 89 Le Clerc M. V01. 3: 237-238 Leclercq H. V0i. 2: 295-296 Longpré E. V01. 2: 696-697
V0]. 2: 42, 106-107, 148, 488, 515; V01. 3: 342, 353, 487, 519 Mondolfo R. vol. 1: 9, 36, 73, 108, 583-585, 613 Morettì-Costanzi T. vol. 2: 218 Mounier E. vol. 2: 10 Movia G. V01. 1: 363 Mura G. V01. 3: 393 Muzio G. vol. 3: 462
Nardi B. V01. 2: 456 Nestle W. A. V01. 1: 108, 111 Nicolosi S. vol. 3: 145, 150, 224 Niebuhr R. vol. 2: 198 Nikiprnìwetzky V. V01. 1: 472 Nock A. D. V01. 2: 6 Nygren A. V01. 2: 12
Oggioni E. vol. 1: 273-274, 313-314 Olgiati F. V01. 3: 230 Orbetello L. vol. 2: 228, 230, 241
Malìngrey A. M. vol. 2: 107-109
Osculati R. V01. 3: 389 Owens J. vol. 1: 277-278, 327
V01. 2: 451, 457, 472-474, 615 Mansion A. V01. 1: 278 Mansion 5. V01. 1: 312
Pareyson L. V01. 3: 361
Mandonnet P.
Park K. V01. 2: 468
798
Irldice degli studiosi citati
Pasquinelli A. V01. 1: 38, 40, 44, 46,
49, 51, 65, 66, 69, 71-72, 78, 80-82
Peguy C. vol. 3: 535 Pepin I. V01. 1: 454, 461 Pesce D. vol. 1: 411, 417-418 Petersen P. vol. 3: 209 Pincherle A. V01. 2: 75, 77 Pohlenz M. vol. 1: 416-417, 451 Poppi A. vol. 2: 666
Praeclìter K. vol. 1: 497 Puccetti A. V01. 2: 450
SchleiermacherF. D. vol. 1: 53, 148-149 Scholz H. vol. 3: 387 Sciacca M. F. vol. 3: 206 Sciuto I. V01. 2: 303 Semerari G. V01. 3: 165 Senofonte vol. 1: 117 Sertillanges A. D. vol. 1: 357-358 Severino E. vol. 1: 12; V01. 3: 704 Simonetti M. V01. 2: 30, 103, 113, 133 Smith A. vol. 1: 577 Sodano A. R. vol. 1: 577 Sommavilla G. V01. 3: 738-739 Stefanini L. vol. 1: 204, 254
Radice R. vol. 1: 446 Rahman F. vol. 2: 349 Rahner K. vol. 3: 738 Raschini M. A vol. 3: 554, 562 Taylor A. E. V01. 1: 126, 146 Reale G. V01. 1: 31, 45, 65, 66, 82, Theiìer W. vol. 2: 152 100-101, 115, 118, 127, 147, 149, Tillich P. vol. 3: 468, 469 151-154, 157, 159, 162, 169, 175- Ti lliette X. V01. 3: 481, 495-496, 498 176, 180-182, 185, 203, 217-218, TresmontantC. vol. 3: 550 234-235, 244, 246, 253, 265, 275277, 279, 290-291, 299, 310, 315316, 327, 330-332, 345, 348, 355- Untersteiner M. v0]. 1: 66, 106, 108, 113
357, 375-377, 379-380, 385-387, 389, 390, 395, 397, 399, 402-403, Van Steenberghen F. V01. 2: 420, 449, 451, 453-456, 405-407, 426, 429, 433-436, 445446, 451-452, 457, 459, 494-495, 472-473, 605, 613-614, 617, 696, 498, 503-504, 506, 512, 514, 519698, 709, 711, 713-714, 732-733; vol. 3: 30-31 520, 524, 527, 534, 571, 575, 584, 586, 602-603; V01. 2: 21 Vanni Rovighi S. Renouvier Ch. vol. 3: 140 V01. 2: 296, 299, 304, 332,‘ V01. 3: 425, 578 Ribes Montané P. vol. 2: 464 Vasoli C. Riehl A. V01. 3: 294, 295, 508 vol. 2: 295-296; V01. 3: 40, 76 Ross W. D. vol. 1: 203, 331 Rosso C. V01. 3: 513 Ruh K. vol. 2: 738, 740 741 Russell B. vol. 1: 387
Vattimo G. vol. 3: 599 Veccia VaglieriL. vol. 2: 376-378 VerbekeG. vol. 2: 130
Saitta G. vol. 1: 110 Santinollo G. V01. 3: 17, 28, 29
v0]. 2: 411-414; V01. 3: 11 Vernant ]. P. vol. 1: 31, 33-34, 37-38, 74
-
Verger J.
Indice degli studiosi citati
Veuthey L. V01. 2: 696 Viano A. V01. 3: 239 Vincenzo di Lerins vol. 2: 46
Waddingo L. vol. 2: 666 Wahl I. vol. 3: 481 Walzer R. vol. 2: 349 Wehrlé ]. V01. 3: 155 Wei1E.v01.1: 17
Weisheipl J. A.
vol. 2: 456-457, 478, 480, 482 Whittaker T. vol. 1: 519 Wilamowitz U. (v0n)v01. 1: 106
799
Wolfson H. A. V01. 1: 443-444, 458, 462, 468, 471, 477, 491 ,' vol. 2: 30 Wolter A. B. vol. 2: 680-681
Yolton j. W. V01. 3: 252 Zavalloni R. V01. 2: 695-696 Zeller E. V01. 1: 9, 36, 38, 73, 108, 271, 417, 514, 584-585, 587, 613; V01. 2: 9 Zucal S. vol. 3: 739 Zuercher ]. vol. 1: 275